La Caduta Di Acri 1291: Raccolta Delle Imprese Legate Allo Sterminio Di Acri - Taddeo Di Napoli, Storia Della Desolazione E Della Distruzione Della Citta Di Acri E Di Tutta La Terra Santa 9782503602646, 2503602649


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Indice Generale
Introduzione
Bibliografia
Raccolta delle imprese legate allo sterminio di Acri
Taddeo di Napoli, Storia della desolazione e della distruzione della città di Acri e di tutta la Terra Santa
Appendice 1: Gli ordini militari
Appendice 2: Armi e macchine d’assedio notevoli. Il lessico della guerra medievale
Indici
1. Indice dei passi Biblici
2. Indice delle Fonti Non Bibliche
3. Indice dei Nomi e dei Luoghi
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La Caduta Di Acri 1291: Raccolta Delle Imprese Legate Allo Sterminio Di Acri - Taddeo Di Napoli, Storia Della Desolazione E Della Distruzione Della Citta Di Acri E Di Tutta La Terra Santa
 9782503602646, 2503602649

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LA CADUTA DI ACRI 1291

CORPVS CHRISTIANORVM IN TRANSLATION

42

CORPVS CHRISTIANORVM Continuatio Mediaeualis 202

EXCIDII ACONIS GESTORVM COLLECTIO MAGISTER THADEUS CIVIS NEAPOLITANUS

YSTORIA DE DESOLATIONE ET CONCVLCATIONE CIVITATIS ACCONENSIS ET TOCIVS TERRE SANCTE

Edited by R.B.C. Huygens with contributions by A. Forey and D. C. Nicolle

TURNHOUT

FHG

LA CADUTA DI ACRI 1291

Raccolta delle imprese legate allo sterminio di Acri

TADDEO DI NAPOLI

Storia della desolazione e della distruzione ­della città di Acri e di tutta la Terra Santa

Introduzione, traduzione e note a cura di Andrea COLORE

H

F

Supervisione accademica Paolo Chiesa e Rossana Guglielmetti

© 2022, Brepols Publishers n. v., Turnhout, Belgium. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise without the prior permission of the publisher.

D/2022/0095/312 ISBN 978-2-503-60264-6 E-ISBN 978-2-503-60265-3 DOI 10.1484/M.CCT-EB.5.131770 ISSN 2034-6557 E-ISSN 2565-9421 Printed in the EU on acid-free paper.

INDICE GENERALE

Introduzione7 Bibliografia39 Raccolta delle imprese legate allo sterminio di Acri 47 Taddeo di Napoli, Storia della desolazione e della distruzione della città di Acri e di tutta la Terra Santa

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Appendice 1: Gli ordini militari

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Appendice 2: Armi e macchine d’assedio notevoli. Il lessico della guerra medievale

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Indici157

INTRODUZIONE

1.  Il Medio Oriente latino alla fine del secolo XIII Con il termine francese Outremer (in italiano “Terre d’Oltremare” oppure semplicemente “Oltremare”) si indicano i territori latini in Medio Oriente che vennero conquistati a seguito della vittoria contro i musulmani durante la prima crociata nel 1099. A partire da questa data, si costituirono i regni latini d’Oltremare che erano governati dai rami cadetti delle corone francese e tedesca. I primi stati crociati che vennero istituiti furono la Contea di Edessa e il Principato di Antiochia, a cui seguì la fondazione del Regno di Gerusalemme e, all’inizio del secolo XII, della Contea di Tripoli1. Il Regno armeno di Cilicia esisteva già prima delle crociate, ma venne completamente occidentalizzato sotto la dinastia dei Lusignano, che iniziò a regnare a Cipro a partire dal 1192. Tuttavia, una situazione così delineata non era destinata a durare a lungo. Lo scenario era piuttosto variegato: la regione era popolata da etnie diverse (arabi, mongoli, greci, popolazioni di lingua latina e mercanti italiani) e la convivenza non fu sempre pacifica, soprattutto dopo la caduta di Gerusalemme da parte delle truppe del Saladino dopo la battaglia di Hattin nel 1187, in seguito alla 1  Fra le principali dinastie regnanti c’erano i conti di Boulogne (nella Contea di Edessa), i conti di Tolosa (nella Contea di Tripoli) e gli Altavilla (nel Principato di Antiochia). Tuttavia, la situazione precaria della regione, i conflitti politici e i legami dinastici con le dinastie occidentali permisero a molte più famiglie di imporsi sulla scena medio-orientale, dai più noti Hohenstaufen ai meno conosciuti Ibelin.

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Introduzione

quale, nel 1191, San Giovanni d’Acri divenne la nuova capitale del regno di Gerusalemme e in breve tempo una delle sedi politiche e ecclesiastiche più importanti del Medio Oriente, nonché importante snodo commerciale fra Occidente, dominii orientali latini e bizantini, sultanato mamelucco e imperi orientali. La situazione di Outremer era assai precaria e l’incertezza dei regnanti occidentali a intervenire nelle terre d’Oriente, la vacanza del trono di Gerusalemme, gli scontri interni fra le città marinare e la costante pressione dei Mongoli a est e dei musulmani a sud-ovest hanno ridisegnato più volte la geopolitica medio-orientale: a lungo andare, nel secolo XIII, di quelli che erano i regni d’Oltremare non rimase altro che una striscia di terra costiera. Le campagne dell’entroterra erano state abbandonate dopo le conquiste musulmane e la popolazione si era riversata nelle città della costa, più sicure e lontane dalle pressioni musulmane. Anche le principali famiglie nobili dei regni d’Oltremare si erano riversate sulla costa siro-palestinese, senza però garantire una stabilità politica duratura, in quanto solo alcuni dei più importanti baroni locali d’Outremer erano riusciti a mantenere saldi i loro dominii. I successivi periodi avrebbero garantito stabilità solo grazie alla stipula di paci, tregue e alleanze strategiche con i musulmani, mentre entro i confini di Outremer la tensione continuava a rimanere molto alta per gli innumerevoli conflitti interni. I rapporti commerciali fra il sultanato e le città marinare erano consolidati da tempo: questi interessi andavano tutelati e il dominio delle rotte commerciali era una priorità per i commercianti italiani stanziati in Terra Santa. In questo modo, le città marinare iniziarono a imporre la loro supremazia sulla regione in maniera sempre più pressante, fino a giungere al conflitto diretto. Le sorti di Outremer cambiarono definitivamente in seguito a una semplice questione di confini: ad Acri il quartiere genovese non aveva uno sbocco sul Mediterraneo e confinava a sud con il quartiere pisano e a est con quello veneziano. L’attenzione di tutte le città era rivolta al monastero greco-ortodosso di San Saba ad Acri, nell’area del porto interno. Il casus belli fu l’arrivo nella capitale crociata di una nave veneziana rubata dai Genovesi: per buona risposta, i Veneziani decisero di mettere a ferro e fuoco il

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Introduzione

quartiere genovese, in deroga al diritto locale secondo cui, in caso di contenziosi, la situazione doveva essere gestita da terze persone (in questo caso, i Pisani). Iniziò così una guerra, nota come guerra di San Saba, che durò per i successivi due anni. Quello che però poteva sembrare frutto di una scaramuccia fra mercanti, ebbe risonanze molto più vaste, coinvolgendo anche i potenti locali, riportando alla luce una serie di rivendicazioni da tempo sopite: l’intervento del signore di Tiro, Filippo di Mont­ fort, contro i Veneziani scatenò una reazione a catena2. Il bailo di Venezia Giovanni di Arsuf e il cugino Giovanni d’Ibelin, conte di Giaffa, temevano la completa emancipazione del Montfort in Medio Oriente e così si schierarono con i Veneziani, insieme ai Pisani, ai Templari, ai Teutonici e alla comunità provenzale di Acri; invece, i Genovesi ottennero il sostegno degli Ospitalieri, degli Anconetani e dalla famiglia genovese degli Embriaci, signori di Gibelletto3, insieme a tutti coloro che volevano eliminare il dominio degli Ibelin dalla Terra Santa, l’importante famiglia che si era fatta strada fra le dinastie d’Outremer, alleata con i Veneziani. Tuttavia, gli Embriaci destarono le ire del loro protettore Boemondo VI di Antiochia, che invece decise di schierarsi con i Veneziani. Inoltre, Genova strinse accordi con il principale nemico dei Veneziani, ovvero l’impero di Nicea, sorto in seguito alla quarta crociata del 1204 contro Costantinopoli: l’imperatore Michele VIII Paleologo accolse volentieri la proposta di controffensiva genovese, in quanto la volontà di restaurare l’impero bizantino non era mai venuta meno e il supporto dei Genovesi avrebbe garantito all’impero di Nicea una risorsa in più, contrastando l’egemonia marittima e mercantile di Venezia nel Mediterraneo orientale, riconquistando così i territori dell’impero latino di Costantinopoli, dipendente in larga parte da San Marco4. L’accordo fra Michele VIII e i GeFilippo di Montfort si schierò dalla parte dei Genovesi perché contestava alcuni diritti veneziani su alcune località dei propri dominii libanesi. 3  L’odierna Jbeil, nota con il nome di Biblo o Byblos, lungo la costa libanese. 4  La quarta crociata o crociata contro Costantinopoli del 1204 venne bandita da Innocenzo III nel 1198, all’indomani della sua consacrazione a papa. Alla crociata aderirono molti principi come Baldovino IX di Fiandra, Bonifacio di Monferrato e Thibaut IV di Champagne. Il papa cercò di coinvolgere anche l’imperatore di 2 

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Introduzione

novesi venne firmato nel marzo 1261 a Ninfeo, vicino a Smirne, e poi ratificato il 10 luglio a Genova. I Genovesi tuttavia arrivarono troppo tardi e la città di Costantinopoli venne conquistata senza il loro appoggio da Michele nella notte fra il 24 e i 25 luglio. Comunque, l’imperatore mantenne le promesse prese con gli alleati e consegnò parte del bottino veneziano. Lo scacchiere politico del Medio Oriente venne ripristinato a prima del 1204, ma questo non fu privo di significative conseguenze sul piano economico e politico: con la restaurazione dell’impero romano d’Oriente, Venezia si spostò dalla costa palestinese al Mar Nero, così come Genova, dopo essersi riappacificata con i Paleologi; Pisa, invece, passò sempre più in secondo piano rispetto alle altre repubbliche marinare5; le pressione su Outremer dei Mongoli Bisanzio, Isacco II Angelo, che era restio a contrastare la minaccia turca. L’obiettivo era quello di invadere l’Egitto e, conseguentemente, la Terra Santa. I crociati quindi avrebbero dovuto intraprendere il tragitto via mare, ragion per cui venne chiesto aiuto a Venezia. Il doge di allora, Enrico Dandolo, capì che un intervento di tale portata sarebbe stata l’occasione per Venezia di rafforzare la sua potenza nel Mediterraneo orientale (non senza dissensi fra gli stessi crociati, il cui unico obiettivo era la conquista della Terra Santa). Il doge fornì le navi necessarie, in cambio di ingenti somme di denaro, e assecondò la crociata per riconquistare, nel 1202, Zara in Dalmazia, suscitando l’indignazione generale poiché, per quanto ribelle e sottoposta alla dominazione ungara, Zara rimaneva pur sempre una città cattolica. Ciononostante, la crociata continuò e si diresse alla volta di Costantinopoli. L’impero romano d’Oriente stava vivendo un periodo turbolento: Isacco II venne detronizzato dal fratello Alessio III; per rispondere all’usurpazione, Alessio IV, figlio di Isacco, chiese aiuto ai crociati e ai Veneziani in cambio di presidii territoriali e della riunificazione della chiesa ortodossa orientale con quella cattolica occidentale. Nonostante Isacco II e il figlio Alessio IV fossero riusciti a salire al trono come coreggenti, i patti con gli occidentali non vennero rispettati e i re non disponevano di sufficiente denaro per pagare quanto pattuito. Costantinopoli venne brutalmente saccheggiata e i due sovrani morirono a seguito della congiura di palazzo ordita da Alessio  V Ducas, ultimo imperatore d’Oriente prima della dissoluzione. Nel 1204, dopo il brevissimo regno di Alessio V (dall’8 febbraio al 12 aprile), si costituì l’impero di Nicea, redivivo impero bizantino, sorto per volontà dei rifugiati di rito greco a Nicea, sotto il dominio della famiglia Lascaris. Allo stesso tempo, si costituì nei territori del Mar di Marmara l’impero latino di Costantinopoli, il cui primo imperatore fu Baldovino IX di Fiandra, incoronato come Baldovino I di Costantinopoli nella basilica di Santa Sofia. Questa situazione durò fino al 1261, quando Michele VIII Paleologo restaurò l’impero romano d’Oriente. 5  Di lì a vent’anni, Pisa subirà la grave sconfitta contro Genova nella battaglia della Meloria del 1284.

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Introduzione

e dei Mamelucchi, che avevano preso il potere in Egitto subentrando alla dinastia ayyubide, e le loro reciproche tensioni non tardarono a farsi sentire su ciò che rimaneva dei dominii cristiani. Di fronte a un tale scenario, le ostilità fra le repubbliche marinare italiane si sarebbero presto riaperte, e il sultanato mamelucco colse l’occasione, sfruttando i conflitti interni, per avanzare verso la Siria, finché nel 1289 venne conquistata la Contea di Tripoli. Nel frattempo, nel 1288 era diventato papa il francescano Girolamo Masci, che assunse il nome di Niccolò IV. Appena eletto, il papa predicò una nuova crociata, incoraggiato dalla presenza a Roma di un’ambasceria del khān di Persia Arġun, riproponendo così l’idea dell’alleanza contro il comune nemico mamelucco: in caso di vittoria, i Mongoli avrebbero ceduto ai Franchi Gerusalemme. Tuttavia, l’alleanza, mai così in procinto di concretizzarsi, non avvenne. Niccolò aveva predicato la crociata sull’Adriatico, nella speranza che Venezia e le altre città potessero fornire delle galee per la spedizione: molte risorse, infatti, vennero spese per sostenere la Guerra del Vespro, scoppiata nel 1282, e il papato necessitava di un appoggio esterno. Se le città italiane si mostrarono disponibili a sostenere la nuova crociata, i sovrani europei furono piuttosto riluttanti. I crociati, una volta giunti in Terra Santa, fecero razzia, destando l’ira del sultano Qalāwūn. La violenza degli occidentali fu totale: colpirono tutti, senza esclusione di colpi, persino i cristiani ortodossi che avevano scambiato per musulmani a causa della barba. Il sultano, di fronte all’efferatezza dei crociati, sospese la tregua stipulata nel 1283 e marciò con il suo esercito contro Acri. Contestualmente, il sultano inviò alcuni emiri per presidiare la rete viaria della regione e difendere i mercanti musulmani. Era il mese di ottobre del 1290, ma inaspettatamente il sultano morì e gli succedette il suo secondogenito, il ventisettenne al-Malik al-Ashraf Khalīl che, stando a quanto tramandano le fonti, riuscì a raccogliere un esercito più numeroso di quello del padre. Il giovane sultano giunse in vista di Acri il 5 aprile 1291 e iniziò l’assedio vero e proprio fra l’11 e il 12 aprile e per poco più di un mese Acri subì le sassaiole mamelucche. Il 17 maggio i Mamelucchi riuscirono ad aprire una breccia nelle mura. Dal giorno successivo, la città venne saccheggiata e definitivamente conquistata.

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Introduzione

La caduta di Acri non passò inosservata fra i contemporanei: il 1291 fu una data fondamentale tanto nella storia quanto nella psicologia occidentale. Sul fronte letterario, gli autori si impegnarono a scrivere molti trattati sull’argomento per comprenderne le cause e trovare soluzioni per la riconquista della Terra Santa. L’immensa costellazione di scritti della letteratura medievale dell’ultimo periodo crociato fornisce numerosi esempi di scrittori che hanno raccontato la caduta di San Giovanni d’Acri con toni tanto differenti, quanto simili nel sentimento di forte rammarico e nostalgia verso una terra ricca e gloriosa in passato e ridotta poi a un cumulo di macerie a causa dei peccati che serpeggiavano fra le sue mura. In due fra queste innumerevoli opere, gli autori hanno voluto riconoscere al 1291 un ruolo chiave all’interno della storia del mondo: queste due opere sono l’Excidii Aconis gestorum collectio e la Ystoria de desolatione et conculcatione civitatis Acconensis et tocius Terre Sancte6.

2.  Excidii Aconis gestorum collectio L’Excidium è un’opera anonima e narra del periodo che intercorre fra l’inizio di aprile del 1290, anno in cui venne violata dai cristiani d’Oltremare la tregua con il sultano Qalāwūn, e il maggio 1291, periodo in cui vennero conquistati Acri e il castello dei Templari. Nel prologo, conciso ma sintatticamente involuto, l’Anonimo spiega al lettore di voler raccontare una nova hystoria, atroce e dolorosa per tutti i cristiani: l’autore non è un testimone oculare dei fatti, ma promette di fare ordine fra i racconti fededegni di cui è venuto a conoscenza per suscitare nei cuori di tutti i fedeli afflizione, devozione e vendetta per la disfatta in Terra Santa. L’Anonimo esordisce con una citazione del profeta Isaia (Is. 49, 1: Audite, insule, et attendite populi de longe, audiat terra verba oris 6  Per semplificare, nel prosieguo del lavoro, la prima opera sarà citata semplicemente con Excidium e l’autore verrà designato come Anonimo, mentre la seconda sarà citata con Ystoria (sic, come proposto nell’edizione di riferimento in accordo con i manoscritti) e l’autore sarà designato con Taddeo.

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Introduzione

mei), mettendo subito a confronto la cattività babilonese del popolo di Israele ai tempi di Nabucodonosor II con il recente esilio dei cristiani dalla Terra Santa, causato dall’impetuosa forza dei Mamelucchi. La narrazione è duplice (duplex narratio) poiché è divisa in due sezioni, ciascuna delle quali introdotta da un indice, rispettivamente di otto e tredici voci. La prima parte si configura come una vera e propria sezione “diplomatica” in quanto viene raccontato lo scambio delle ambascerie avvenute fra i cristiani e il sultanato a seguito dell’infrazione della tregua del 1283: a seguito della minaccia del sultano Qalāwūn di attaccare la città di Acri per riportarla sotto la sua giurisdizione, i crociati sbarcati in Terra Santa fra marzo e aprile del 1290 decidono di fare strage di infedeli, convinti che la tregua non li riguardi direttamente e ritenendo inammissibile di sottostare agli accordi del sultano. Tuttavia, questo episodio è il casus belli che innesca la violenta risposta del sultano, che in un primo momento tratta con i cristiani per farsi inviare i responsabili del misfatto. La posizione dei cristiani levantini è piuttosto delicata: per una loro legge vigente, avrebbero dovuto tutelare i cristiani che erano arrivati da Occidente, ma se non li avessero consegnati agli infedeli in quanto veri responsabili della strage, sarebbero incorsi nella furia del sultano. I cristiani sono perciò divisi: molti di loro vorrebbero semplicemente scusarsi e assecondare il volere del sovrano d’Egitto, chiedendo di mantenere la tregua perché la strage non è stata loro diretta responsabilità; d’altra parte, una seconda fazione si mostra più propensa a difendere i correligionari e a ritenere inaccettabile la prassi invalsa in Medio Oriente di stipulare tregue con gli infedeli. Alla fine gli acritani rispondono con un’ambasceria per prendere tempo, pensando che la scelta migliore sia soddisfare qualsiasi altra nuova richiesta del sultano, pur di stornarlo dall’idea iniziale. Il sultano è però irremovibile: dopo un’ultima ambasceria per dire la parola fine a qualsiasi tipo di contrattazione, Qalāwūn decide di mettere insieme un cospicuo esercito, formato da fanti e cavalieri, per assalire e abbattere definitivamente l’ultima roccaforte crociata. I cristiani sono in subbuglio per la risposta perentoria del sultano e non resta altro da fare che combattere,

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Introduzione

nonostante il ricordo indelebile della distruzione di Tripoli da parte dei Mamelucchi avvenuta nel 1289, sprone e spauracchio per l’intera milizia cristiana che si appresta a fronteggiare una guerra imminente. Una volta presa la decisione di combattere, il patriarca di Gerusalemme, Nicola di Hanapes, si rivolge all’intera comunità cristiana, incoraggiandola e concedendo la sua benedizione. In seguito, vengono organizzate le truppe lungo i barbacani e le difese della città in modo tale che quattro guarnigioni ruotino a turno con altrettante a intervalli regolari, durante tutto l’arco della giornata. Ogni guarnigione viene guidata da un comandante: Giovanni I di Grailly, Ottone di Grandson, Enrico II re di Cipro e i maestri degli ordini religiosi Ospitaliere, Teutonico, Templare, di Santo Spirito e della Spada7. La seconda parte si configura come la sezione più squisitamente bellica dell’opera poiché racconta lo svolgimento della battaglia e tutti gli eventi que ad obsidionem Aconis et in obsidione et eius excidio acciderunt. L’avvento dell’esercito minaccioso di Qalāwūn su Acri è descritto con immagini suggestive e impressionanti, ma allo stesso tempo terribili, come le picche alzate al cielo e il rumore degli strumenti a percussione. Improvvisamente, il sultano si ammala e spira nel novembre del 1290 e gli succede il giovane figlio al-Malik al-Ashraf Khalīl il quale, dopo aver ricevuto i dovuti onori e il giuramento da parte dei Mamelucchi, raggiunge finalmente la capitale crociata nell’aprile del 1291. Inizia così il lungo assalto che coinvolge fanti, frombolieri, cavalieri e ogni tipo di macchina da guerra di entrambi gli schieramenti. I Mamelucchi riescono inizialmente ad aprire una breccia fra le mura delle città attraverso la quale riescono ad entrare e a fare razzia nella cittadella, nonostante i crociati abbiano tentato più volte di richiuderla invano. La città è nel caos e la disorganizzazione delle truppe non gioca a favore dei cristiani: i principali capi vengono feriti e il re di Cipro diserta miseramente insieme ad altri soldati. In questo scenario desolante, Matteo di Clermont, maresciallo degli Ospitalieri, è l’eroe distinto, capace di assommare in 7 

Non è ben chiaro a quale ordine alluda l’Anonimo.

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Introduzione

sé la ferocia di un lupo e la virtù di un vero miles Christi, l’unico protagonista positivo che l’Anonimo dipinge con un alone di santità nel momento della sua morte. Tuttavia, il suo isolato intervento non è sufficiente e la battaglia imperversa, rimanendo a lungo incerta, fra la disomogeneità dello schieramento cristiano e la compattezza dell’esercito mamelucco che alla fine irrompe definitivamente nella città anche grazie alla complicità dei falsi christiani. Alla fine, molti scappano sulle navi dirette a Cipro e altrettanti muoiono, fra cui il patriarca di Gerusalemme che annega, dopo essere caduto da una barca. La sua morte ha un aspetto a tratti straniante poiché l’Anonimo afferma che Nicola di Hanapes sarebbe stato costretto con la forza a lasciare la città, pur non volendo abbandonare i cristiani al loro destino; per cercare di salvare il maggior numero di fedeli, il patriarca ne accoglie tanti sulla sua barca da fare naufragio per l’eccesso di peso. La milizia levantina ne esce sconfitta anche sul piano morale: nella fuga, alcuni mostrano le armature illese, segno di una scarsa partecipazione alla guerra per la causa cristiana. L’Anonimo, dopo aver riferito anche l’assedio al castello dei Templari avvenuto il 28 maggio, esorta i fedeli a compiangere Acri e l’intera Terra Santa, criticando pesantemente quei religiosi che si preoccupano di sperperare i beni della Chiesa e non di recuperare la Terra Santa.

2.1 Una tradizione plurilingue: i testimoni latini e volgari dell’Excidium 2.1.1 I manoscritti latini Attualmente, sono conosciuti cinque manoscritti dell’Excidium. − L: Bruxelles, Bibliothèque Royale de Belgique, II 2212. Membranaceo. Scritto nel primo quarto del secolo XIV, probabilmente in Francia settentrionale oppure nei Paesi Bassi meridionali. Consta di 22 fogli, di dimensione 210 x 138 mm, scritto su due colonne per foglio da 32 righe ciascuna. Contiene solo l’Excidium e nelle ultime pagine due frammenti di due testi: la Visio Tripoli in

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Introduzione

francese e la Prophetia Merlini in latino. Fra gli attuali fogli 17 e 18 è presente una lacuna causata dalla perdita di un foglio. Con molta probabilità, doveva essere parte di un manoscritto più corposo. − E: Madrid, Real Biblioteca de San Lorenzo y de El Escorial, Q.II.21 Cartaceo. Scritto nel secolo XIV. La provenienza è ignota8. Consta di 129 fogli, di dimensione 288 x 210 mm. Il numero delle righe per pagina varia da 35 a 38. Esso contiene la Historia Orientalis di Giacomo di Vitry (ff. 1r-78r), l’Excidium (ff. 78r-91r) e il Flos historiarum Terrae Orientis di Haytun armeno (ff. 91r-128r). Nell’ultimo foglio è presente un indice. − V: Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 14379 Membranaceo. Manoscritto composto da tre unità codicologiche, tutte databili fra i secoli XIII e XIV, scritte in Francia settentrionale. Consta di 157 fogli, di dimensione 370 x 255 mm. Le unità codicologiche sono così divise: − U.C. I: Excidium. Il testo è posto dopo l’originario foglio di guardia e occupa i ff. 1r-6v. Il testo è disposto su 2 colonne; − U.C. II: Adenolfo di Anagni, Super Actus apostolorum, scritto sui successivi 108 fogli; − U.C. III: Averroè, Commentarium magnum in De anima Aristotelis Il manoscritto apparteneva all’abbazia di Saint-Victor di Parigi, come testimoniato da una nota di possesso in una delle prime pagine: Iste liber est Sancti Victoris Parisiensis. Istum librum dedit ecclesiae Sancti Victoris Parisiensis bone memorie magister Adenul[ph]us de Anagnia, condam prepositus Sancti Audomari et caCfr. Huygens 2004, p. 22-23: Huygens segnala la presenza pervasiva di iberismi grafici come la persistenza delle fricative alveolari e labiodentali geminate in luogo delle scempie in parole come conssilium, prorssus, sussidium, conffecti, inffamia, notifficata fino agli ancor più insostenibili ffactum e ffractura. Secondo Huygens, l’amanuense copiava già da un esemplare scorretto e incomprensibile, visto che ci sono molti spazi bianchi, ma è ipotesi da avanzare con le dovute cautele, visto che l’atteggiamento del copista è quello di aggiungere geminate all’inizio di parole. 8 

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Introduzione

nonicus atque electus ecclesie Parisiensis. Il manoscritto deve essere stato assemblato all’inizio del secolo XIV, poco dopo la realizzazione dell’unità codicologica contenente l’Excidium, ponendo la sopracitata nota fra le prime pagine del nuovo manufatto, generando l’attribuzione equivoca. − V2: Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 14359 Cartaceo. Questo manoscritto è una copia secentesca del manoscritto V. Tutti i testi qui presenti provengono da manoscritti di Saint-Victor. − N: Paris, Bibliothèque nationale de France, Bibliothèque de l’Arsenal 1157 Membranaceo. Scritto a metà del secolo XIV in Francia. Originariamente, apparteneva al Collège de Navarre di Parigi. Consta di 137 fogli, di dimensione 324 x 230  mm, con 42 righe per foglio. Contiene: le Epistulae di Nicola da Roccaguglielma, le Epistulae di Stefano di Orléans, vescovo di Tournai (1128-1203), l’Excidium (ff.  38r-45), segnalato al foglio 37v dal titolo De captione et destructione civitatis Acon, la Historia Orientalis e parte della Historia Occidentalis di Giacomo di Vitry; le Epistulae di Trasmondo, un monaco cistercense di Clairvaux del secolo XII.

2.1.2 I manoscritti francesi Oltre ai manoscritti latini, sono note tre traduzioni dell’Excidium Aconis (una delle quali incompleta e lacunosa) in francese antico. − R: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Reg. Lat. 737 Membranaceo. Scritto nel secolo XIV. Consta di 387 fogli, di dimensione 217 x 332 mm, con testo disposto su due colonne. Contiene L’estoire de Eracles empereur (ff. 1r-383v), una traduzione francese della Historia rerum in partibus in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro e il testo mutilo della prima narrazione dell’Excidium francese (ff. 383v-387v).

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Introduzione

− F: Paris, Bibliothèque nationale de France, Fr. 24430 Membranaceo. Scritto fra i secoli XIII e XIV, nel nord della Francia, nella regione di Tournai. Consta di 181 fogli, di dimensione 335 x 255 mm, con testo disposto su due o tre colonne. Contiene il Roman de Cléomadès (ff. 1-58v), romanzo in octosyllabe francese di Adenet le Roi della seconda metà del secolo XIII, un testo denominato Récits d’un menestrel de Reims (ff.  59-80), un bifolio indipendente contenete alcune tavole (ff. 81-82v), una traduzione francese in prosa di alcune Vitae Patrum (ff. 83-112v), una prima cronaca sulla fondazione di Tournai (ff. 113-116r), una vita di sant’Eleuterio (saint Lehire), primo vescovo di Tournai (ff. 117r-124r), il Roman d’Eracle di Gautier d’Arras, la lettera di Jean de Villers sulla caduta di Acri (f. 145r) seguita dall’Excidium francese (ff. 145r-150v); una seconda storia di Tournai (151-169); il racconto su un pellegrinaggio in Terra Santa intitolato Li Contes dou roi Flore et de la bielle Jehane (170-175v); un racconto fantastico sugli eventi che hanno condotto alla nascita dell’imperatore Costantino, intitolato Li Contes dou roi Constant l’empereur (176178r); Li estoire dou roi Labiel (178r-181v), un racconto sulla persecuzione del re Erode e sulla conversione di un re persiano. Se ne conoscono i possessori, citati in una nota al foglio 181v: Vilaume de Le Mote e Michiel de Le Fontaine. − F2: Paris, Bibliothèque nationale de France, Fr. 2825 Membranaceo. Scritto nel secolo XIV. Consta di 392 pagine, con testo disposto su due colonne. Contiene la traduzione e la continuazione (fino al 1261) dell’opera di Guglielmo di Tiro nota con il nome di L’estoire de Eracles empereur (1-361v) e l’Excidium francese (361v-374v).

2.2 Le fonti dell’Excidium: ipotesi e ricostruzioni L’anonimato e le fonti impiegate (Bibbia, Boezio, Isidoro, Gregorio Magno e Agostino), di largo uso nel corso del Medioevo, non consentono di confrontare l’usus scribendi con altre opere: di conseguenza, individuare il retroterra culturale dell’autore dell’Excidium non è semplice. Lo stato attuale della ricerca non

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permette di ricostruire facilmente la biblioteca a cui avrebbe attinto l’Anonimo, ma sulla base di alcune spie interne al testo si potrebbe pensare che l’opera sia stata scritta nella Francia del Nord oppure che l’autore dell’Excidium potesse provenire dal milieu culturale di quella regione. Un primo dato che suggerirebbe questa ipotesi è la tradizione manoscritta: tre dei cinque manoscritti dell’opera provengono dalla Francia del Nord oppure dai Paesi Bassi meridionali e sono tutti databili a ridosso della caduta di Acri, fra la fine del secolo XIII e la prima metà del secolo XIV. Inoltre, le opere contenute nei manoscritti potrebbero essere state scritte proprio in Francia, visti gli argomenti trattati: L contiene una versione francese della Visio Tripoli, probabilmente con tratti lorenesi; V contiene un trattato di Adenolfo di Anagni, prevosto e arcivescovo attivo a Parigi; N contiene l’epistolario di Stefano vescovo di Tournai. Il secondo dato è l’esistenza di tre manoscritti contenenti le versioni in lingua francese dell’Excidium, di cui uno, il manoscritto F, sicuramente di origine francese e probabilmente proviene dalla specifica regione di Tournai, in quanto contiene alcuni testi volgari di origine strettamente locale che documentano la storia di questa città (una biografia di sant’Eleuterio, ritenuto il primo vescovo di Tournai, due cronache cittadine e le lettere del vescovo Stefano) e, da un punto di vista linguistico, presenta vistosi tratti dialettali piccardi. È perciò probabile che il manoscritto francese F avesse attinto a modelli provenienti proprio da questa regione. Il testo francese è modificato rispetto al latino ed è possibile ricostruire la discendenza del testo francese sulla base di alcune prove testuali che evidenziano il rapporto con l’originale scritto in latino9. Queste prove sono state raggruppate in tre differenti categorie. In primo luogo, il testo francese tende ad eliminare parole latine di difficile comprensione, come alcuni hapax legomena, oppure a specificarne il significato. Il fenomeno contrario, ovvero l’inserIl testo francese scelto come riferimento è l’edizione interpretativa pubblicata all’interno del saggio Vine Durling, N., ‘The Destruction d’Acre and its epistolary prologue (BnF, fr. 24430)’, Viator, 42/1 (2011), p. 139-178. 9 

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zione nel latino di termini tecnici (soprattutto bellici), partendo da un originale francese che ne era sprovvisto, è abbastanza improbabile. Per esempio, il francese non traduce termini come bibliete o perdicete, hapax che si riferiscono a macchine belliche di dubbia identificazione. In secondo luogo, il testo francese evita frasi ridondanti e decurta laddove il dettato latino è troppo complesso, rimodellando la facies testuale all’insegna di una maggiore chiarezza. Sarebbe infatti macchinoso immaginare che il redattore latino abbia voluto ampliare un originale francese con termini e costruzioni difficili. In terzo luogo, si possono addurre come prove significative alcuni errori di traduzione che potrebbero dimostrare senza equivoci la discendenza della versione francese da quella latina. Per esempio, alla fine dell’opera l’Anonimo si scaglia fortemente contro tutti coloro che hanno privilegiato le ricchezze trascurando l’impegno rivolto alla conquista della Terra Santa. Il testo latino presenta la parola simmas (variante per sigma, ovvero un pezzo d’arredo di forma semicircolare in latino classico, passato poi nel Medioevo al significato esteso di “stanza”). Il comico fraintendimento in francese (che ha la lezione singes: “decorano scimmie con una varietà di pitture preziose”) deve essersi generato solo se si pensa alla confusione fra la forma latina corretta simmas e la forma corrotta simias, male interpretata per un errore paleografico. Un terzo e ultimo dato che potrebbe ricondurre l’autore al milieu francese medievale è la presenza nell’Excidium di alcune fonti esclusive della Francia del Nord, che permetterebbero di arricchire la biblioteca delle letture dell’Anonimo. Al momento dello scoppio della battaglia finale fra i cristiani e i musulmani, l’Anonimo si rivolge direttamente al lettore: se egli fosse stato presente al combattimento, avrebbe visto uno spettacolo impietoso, con brandi che cozzavano l’uno con l’altro e ogni genere di arma pronta a ferire. L’autore introduce una suggestiva similitudine, poiché paragona i combattenti ai personaggi del ciclo carolingio (istum crederes equipollere Rolando et illum Olivero, sed et illum Renoaldo). La presenza dei paladini di Carlo Magno nell’Excidium potrebbe dimostrare la conoscenza da parte dell’Anonimo della letteratura d’oil, ma un riferimento più conforme si

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ritrova in un’opera latina che potrebbe essere considerata la fonte diretta per questo passo dell’Excidium, ossia i Gesta Tancredi di Radolfo di Caen, un prosimetro scritto in lode del valoroso Tancredi d’Altavilla da un cronista originario della Normandia che partecipò alla prima crociata. Nel Tancredus, durante un episodio di battaglia, si assiste alla rivalsa di alcuni combattenti che si scagliano di nuovo all’attacco dopo aver ritrovato le forze: Radolfo si rivolge al lettore con un verbo alla seconda persona, proprio come nel passaggio dell’Excidium, additando i guerrieri come novelli paladini, con la medesima insistenza sui dimostrativi: Rollandum dicas Oliueriumque renatos, / si comitum spectes hunc hasta, hunc ense, furentes. In un altro passo del Tancredus, si parla di una fuga disordinata di alcune milizie, le quali vengono improvvisamente trafitte da alcuni soldati armati di lancia, che li riducono a spiedi da cuocere ( fitque uel hosti miseranda clades, cum terga sagittis horrent, ilia lanceis, uelut torrendorum ueribus, affiguntur). Questa folla armata viene paragonata a una densissima pedestrium hastarum silva, un paragone che, adeguatamente rimodellato, compare anche nell’Excidium, quando l’autore commenta la marcia dei Mamelucchi verso Acri: videbatur silva gradiens supra terram pre multitudine lancearum. L’immagine della foresta in marcia, oggi famosa per il Macbeth di Shakespeare, è correlata ad avvenimenti apparentemente miracolosi o sorprendenti nella loro portata. Per esempio, la stessa immagine si ritrova nella Prophetia Merlini, spesso attribuita a Goffredo di Monmouth oppure a Giovanni di Cornovaglia, teologo e maestro che risiedette a Parigi nel secolo XII. In questo scritto, all’interno di una serie di prodigi tipici dei testi profetici, come le fonti che sgorgano sangue, fra le immagini legate allo stravolgimento della natura si trova anche l’espressione excitabitur Daneium nemus, et in humanam vocem erumpens clamabit. Curiosamente, un altro autore del Nord Europa, Galberto di Bruge, usa la stessa immagine nella sua opera De multro, traditione et occisione Karoli comitis Flandriarum (“L’omicidio, il tradimento e l’uccisione del conte Carlo delle Fiandre”) dicendo che tot equidem lanceati stabant in foro ut crederet aliquis superficiem hastarum silvam fuisse densissimam. Il paragone è invece

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meno esplicito nella descrizione dell’avanzata mamelucca della Cronaca del Templare di Tiro, autore di una testimonianza oculare della caduta degli stati crociati, in cui si fa riferimento all’enorme stuolo di infedeli che imbraccia le armi fatte di legno: “E quelli a cavallo portavano la legna, ognuno sul collo del suo cavallo, a tre e a cinque ciocchi per volta, e li gettavano dietro gli scudi”. Dalla Francia del Nord proviene anche un altro autore che avrebbe influenzato la stesura di alcuni passi dell’Excidium: il poeta oitanico Rutebeuf, una figura molto evanescente, nonostante sia ritenuto uno dei massimi poeti medievali. Egli fu un convinto assertore della crociata e scrisse due lunghi compianti rivolti alla Terra Santa: il primo, noto con il titolo di La Complainte d’Outremer, è datato fra la primavera e l’estate del 1266; il secondo, La Nouvelle Complainte d’Outremer, è datato all’inizio del 1277 e probabilmente è l’ultimo dei componimenti fra quelli di certa paternità. Quest’ultimo si configura come un lungo sermone rivolto agli ecclesiastici concentrati sulle ricchezze terrene che tuttavia, dopo la morte, non potranno portare con sé. Essi verranno puniti giustamente da Dio per non aver osservato adeguatamente il loro compito di guide spirituali e non aver tutelato il “patrimonio del Crocifisso” (in francese patrimoinne au Crucefi), ossia la ricchezza materiale di cui sono in possesso gli ecclesiastici, di cui usufruiscono per condurre una vita spensierata quando, in realtà, dovrebbe essere rivolta a nobili scopi. L’espressione patrimoinne au Crucefi si potrebbe ricollegare al particolare sintagma bona Crucifixi che compare due volte all’interno dell’Excidium, in corrispondenza dell’esortazione finale rivolta alla Chiesa affinché mostri compassione per i disastrosi fatti acritani. Alla fine dell’opera, il tono dell’Anonimo si accosta a quello di Rutebeuf e si scaglia contro coloro che ostentano in pompa magna le proprie ricchezze usandole per scopi personali anziché compiere opere buone o finanziare nuove spedizioni per la Terra Santa: dall’alto dei loro scranni, infatti, non solum bona Crucifixi […] ad sui generis extollenciam […] sed propter hoc multifarie multisque modis a pauperibus substantiam […] extorquere nituntur. Poche righe dopo, l’Anonimo rincara la

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dose: Verumtamen assumpti sunt de medio populi tanquam sapientes ad regimen ecclesie ut veri sint bonorum Crucifixi et fidei dispensatores, et isti sunt, heu, qui […] vero plenius lumine sunt privati, qui furia libidinis carnalibus desideriis polluuntur, qui, mole divitiarum prostrati, […] mente conturbantur. Tenendo conto della rarità dell’accostamento delle due parole nei testi mediolatini10, è molto probabile che a monte dell’espressione ci sia lo specifico riferimento al compianto d’Oltremare di Rutebeuf, che si inserisce perfettamente nell’alveo della tradizione polemica contro le ricchezze degli ecclesiastici.

3.  Ystoria de desolatione et conculcatione civitatis Acconensis et tocius Terre Sancte Il primo editore Paul Riant aveva ipotizzato l’appartenenza del misterioso autore, un certo Taddeo, all’ordine domenicano, identificandolo con Taddeo arcivescovo di Caffa nel 1324, ipotesi però che lo stesso Riant metteva in discussione, non avendo consultato adeguatamente gli archivi italiani e i documenti della fine del secolo XIII11. La suggestione di Riant potrebbe derivare dal sapiente uso delle citazioni bibliche oppure dalla presenza di Taddeo in Siria, attribuendogli così un ruolo nella predicazione in Oriente alla fine del secolo XIII: ipotesi, tuttavia, da escludere visto l’atteggiamento di Taddeo nei confronti dei musulmani nella Ystoria, tutt’altro che disponibile al dialogo. Inoltre, non è chiaro quanto Taddeo conoscesse la dottrina islamica. Fu certamente un uomo colto, visto l’uso elaborato e cosciente che fa delle L’espressione latina bona Crucifixi ha una sola altra attestazione al di fuori dell’Excidium Aconis in Bonav., Sermones, 2, 36, 5: Quid igitur faciunt illi qui bona Crucifixi expendunt in lupanaribus? (“Cosa fanno dunque quelli che spendono i beni del Crocifisso nei lupanari?”). 11  Taddeo, Ystoria – ed. P. Riant, p. xi: «Je suis contraint de laisser à quelque érudit italien le soin, sinon de pousser plus loin une identification que la date tardive de l’élévation de Thaddée de Caffa à la dignité épiscopale, peut, a priori, faire paraitre hasardeuse, du moins de chercher, à l’aide des archives de Sicile que je n’ai pu consulter, à dégager un peu plus de l’obscurité où elle est plongée la personnalité de Thaddée de Naples». 10 

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profezie e del testo biblico. Inoltre, tenendo conto del suo arduo usus scribendi, doveva padroneggiare con destrezza gli strumenti della retorica: non si può quindi escludere che fosse un magister di scuola. Taddeo avrebbe concluso la sua opera nel mese di Dicembre del 1291, stando a quanto suggeriscono i colophon dei manoscritti (Facta fuit predicta ystoria a predicto magistro Thadeo in civitate Messane in anno domini millesimo ducentesimo nonagesimo primo, in die quinta mensis Decembris). È possibile fissare anche un terminus post quem, in quanto Taddeo potrebbe essere venuto a conoscenza del testo dell’enciclica papale Dirum amaritudinis calicem, emanata il 13 agosto 1291 da papa Niccolò IV subito dopo la caduta della città di Acri in mano ai Mamelucchi. Se così fosse, la stesura della Ystoria si collocherebbe fra la metà di agosto e l’inizio di dicembre del 1291. Taddeo avrebbe concluso la Ystoria mentre si trovava a Messina, al tempo coinvolta nella Guerra del Vespro. Insieme a Napoli, la città peloritana doveva svolgere un’importante funzione di raccordo fra l’Occidente e l’Oriente, in qualità di fondamentale snodo marittimo dei traffici che giungevano dalla Terra Santa e diretti verso il Sud Italia e l’Europa. La presenza dell’autore in una città allora di tale importanza potrebbe essere legata a un altro dettaglio che aiuterebbe a definire l’oscura biografia di Taddeo: egli, infatti, avrebbe potuto raggiungere Messina di ritorno dalla Terra Santa. Egli, come sostiene nella sua opera, avrebbe trascorso un periodo in Siria, ma non si può dimostrare la sua presenza in Terra Santa durante la caduta di Acri poiché Taddeo non sostiene mai di essere stato testimone oculare dei fatti acritani e non rivela mai le sue fonti. Solo il titolo dell’opera, Ystoria, potrebbe indicare una testimonianza autoptica, ammesso che Taddeo (o chi per esso) lo utilizzi con il senso proprio di “ricerca, conoscenza”. Nella sua opera, Taddeo, con lunghi giri di parole e molta enfasi, evidenzia in maniera costante che la notizia è appena giunta alle orecchie del papa e dei principi occidentali come una voce improvvisa che è emersa dalle profondità della terra, evidente riferimento alla bestia dell’Apocalisse. Prende così avvio la narrazione della

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battaglia per la conquista di Acri, in cui Taddeo, in maniera forzata rispetto all’andamento della storia, inserisce anche un excursus geografico funzionale a descrivere i confini della città e le difese di cui era munita. Questa disastrosa catastrofe permette, già nelle prime pagine della narrazione, di rileggere attraverso la consueta prassi figurale del Medioevo una serie di profezie bibliche, fra cui quelle del profeta Geremia. Taddeo riassume in maniera abbastanza sbrigativa e contorta l’assalto alla capitale, iniziato il 5  aprile 1291 e concluso il 18 maggio dello stesso anno, sottolineando il fatto che fosse un venerdì, giorno in cui morì Cristo. La narrazione prosegue con le sommosse popolari successive all’occupazione. Taddeo esplicita le vere ragioni dietro all’assedio: la città è stata espugnata per punire la corruzione e l’infedeltà. Dio ha voltato ai cristiani le spalle per punirli per il loro comportamento: Acri fumante è stata distrutta perché è diventata una nuova Sodoma, piena di vizi, lussuria e accidia. La narrazione continua in maniera estremamente patetica: una volta espugnata la città, l’invasore saraceno vìola i chiostri, compiendo immani violenze contro donne, uomini e perfino bambini. Fra il raccapriccio e la desolazione della città in macerie, i giovani sfollati cercano fra le urla e i pianti i genitori, mentre i bambini più piccoli, che suggono il latte dal seno, sono strappati dalle mani indifese delle madri. La città è totalmente nel caos: c’è chi cerca di fuggire, c’è chi viene imprigionato e c’è chi, per la disperazione, si butta in mare per evitare di dover sottostare ai Mamelucchi. In questo scenario desolante, splende la luce di alcuni crociati armati per difendere la città dagli attacchi degli infedeli. Nonostante la loro probitas, essi non riescono a contrastare la ferocia dei carnefici e così decidono di rifugiarsi presso il castello dei Templari, l’ultima piazzaforte cristiana che cadrà in mano mamelucca dieci giorni dopo la presa di Acri, il 28 maggio del 1291. A un certo punto, persino i sacerdoti, ispirati da Dio, prendono le armi per difendersi in un ultimo slancio di coraggio. Gli schieramenti in guerra sono descritti in due modi diametralmente opposti: da una parte i Saraceni, coesi e forti, guidati dal sultano Al-Ashraf, dotato di antique calliditatis prudencia; dall’al-

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tra i cristiani, scompaginati e deboli, fra cui si distinguono solo alcuni personaggi isolati. Taddeo loda il patriarca di Gerusalemme, Nicola di Hanapes, uomo devoto di specchiata virtù, un punto di riferimento saldo in mezzo al disordine più totale, Guglielmo di Beaujeu, Granmaestro dell’Ordine dei Templari che viene ucciso da un colpo di freccia, e Matteo di Clermont, maresciallo dell’Ordine degli Ospitalieri: sono tutti imitatores Christi impegnati nella difesa della città che hanno perso la vita, spinti da zelo. Ciò fa di loro dei veri e propri martiri contemporanei. Queste personalità isolate non sono però sufficienti a contrastare l’avanzata mamelucca: senza coesione e strategia, i cristiani o fuggono o periscono. Taddeo rivolge la sua critica al vetriolo anche ai mercanti per i loro rapporti commerciali instaurati con i Saraceni, che dovrebbero invece combattere: così facendo, i mercanti italiani sono tacciati di essere corresponsabili della strage per aver inseguito la sete di denaro e non la fede cristiana. È evidente che Taddeo definisce due universi: quello dei martiri, eroi della fede e soldati di Cristo, e quello degli infedeli, che raggruppa un ventaglio sfaccettato di personaggi, dai mali Christiani, ai fuggitivi, ai Saraceni. Un universo “spirituale” e uno “temporale” che offrono una carrellata di personaggi diversi che Taddeo passa in rassegna, fornendo un giudizio morale su ognuno. Il giudizio di Taddeo però non basta. Un altro giudizio deve scagliarsi sugli infedeli, decisivo per punire tutti coloro che non si sono impegnati a dovere nella difesa della Terra Santa: il giudizio di Dio. L’opera si può dividere in due sezioni distinte. Dopo la narrazione dell’assedio e i giudizi sui singoli personaggi, nella seconda parte, la presenza delle profezie diventa molto più pervasiva e gli excursus storici vengono ridotti nella loro estensione. Cerniera fra le due parti è la lunga e articolata serie di ablativi assoluti che, circa a metà dell’opera, in maniera concitata e contorta, ma solo apparentemente disorganizzata, riassume la successione degli eventi dell’assedio, già narrati in maniera più distesa all’inizio della Ystoria, aggiungendo soltanto qualche minimo particolare. Dopo il pianto delle anime di un camposanto non altrimenti specificato, la derisione della Croce e delle immagini sacre, il compianto rivolto alla città di Acri in rovina e la seconda critica mossa

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ai mercanti, Taddeo apre una complessa parentesi profetica, in cui la descrizione della battaglia e la vittoria della “bestia orientale” offrono lo sfondo per una più ampia e dettagliata discussione di impianto escatologico che prende le mosse dall’interpretazione delle opere di Gioacchino da Fiore e dei libri profetici della Bibbia. Quello che il lettore ha fra le mani non è un rendiconto o una “cronaca di crociata”, ma un libro profetico sul futuro della cristianità dopo la caduta di Acri, in base a quanto Gioacchino aveva profetizzato. Presentandosi come un alter Ioachim, Taddeo conferisce alla profezia un valore metaletterario nell’economia della Ystoria: “Infatti, è compito dei profeti predire prima le guerre per proteggere, ma è soprattutto nostro compito preparare in fretta alle armi della penitenza e, quando è utile, anche a quelle materiali contro i nemici della fede. Inoltre, è compito dei profeti salire sulla cima di un monte e, visti i nemici, dare un segnale”. Alla fine, Taddeo torna circolarmente all’inizio della sua epistola, che si apre e si chiude con un’allocuzione diretta a tutta la comunità cristiana: come la lettera è indirizzata universis Christi fidelibus, l’invocazione finale viene rivolta a cuncti fideles populi. Nell’ultimo grido di incitamento, l’intera comunità cristiana è vivamente spronata a servire il papa e i principi cristiani, che dovranno essere tutti coesi contro quell’Oriente maledetto che si è impossessato, senza averne diritto, della Terra Santa.

3.1 La tradizione manoscritta della Ystoria Attualmente, sono conosciuti sei manoscritti dell’Ystoria. − B: London, British Library, Add. 22800 Membranaceo e cartaceo. Scritto a metà del secolo XV, probabilmente nella Francia del Nord. Consta di 107 fogli, di dimensione 310 x 215 mm, scritti su due colonne di 37 righe ciascuno e contiene la Historia Orientalis di Giacomo di Vitry (ff. 1-83r) e la Ystoria (ff. 83r-103v). − P: Praha, Národni Khihovna České Republiky, XIII.D.7 (2299)

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Cartaceo. Scritto negli anni centrali del secolo XIV in Francia. Consta di 92 fogli, di dimensione 285 x 220 mm. Ogni foglio contiene dalle 28 alle 35 righe. Il manoscritto contiene la Historia Orientalis di Giacomo di Vitry (ff. 1-73) e la Ystoria (ff. 73-92). Le ragioni per cui il manoscritto sia giunto a Praga dalla Francia sono desumibili da una nota di possesso al foglio 85v: A. d. 1362 die 24 mensis Octobris, sacrosanta Romana ecclesia per obitum sancte memorie domini Innocentii pape vacante, Nicolaus de Chremsir archidiaconus Boleslaviensis, domini imperatoris Karoli IV prothonotarius, emit hunc libellum pro XXX sol. den. in Avinione, et libenter emisset meliorem, si tanta ibi tunc omnium rerum caristia non fuisset. Nel mese di ottobre dell’anno 1362, la curia papale risiedeva ad Avignone e Innocenzo IV era morto il 12 settembre di quell’anno. Nicolò di Chremsir (oggi Kroměříž, nel sud est della Repubblica Ceca), arcidiacono dell’odierna Mladá Bolesla, potrebbe aver partecipato all’incoronazione del nuovo papa Urbano V (eletto il 28 settembre, ma incoronato agli inizi di novembre del 1362) in qualità di diplomatico di Carlo IV, re di Boemia e imperatore nel Sacro Romano Impero. − T: Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria, D.IV.21 Membranaceo. Scritto a metà del secolo XIV in Francia. Consta di 272 fogli, di dimensione 270 x 200  mm, con 35 righe per foglio. Il manoscritto contiene il Chronicum pontificum et imperatorum di Martino Polono (ff. 1-145v), la Historia Orientalis di Giacomo di Vitry (ff. 146-216v), la Ystoria (ff. 217-234) e la Descriptio Terrae Sanctae di Burcardo di Monte Sion (235r-262r). Gli ultimi 10 fogli includono preghiere e poemi dedicati alla Santa Croce: O crux, frutex salvificus (ff. 262-262v) e Transfige, dulcissime Iesu (ff.  262v-263). Seguono una pagina bianca (263v) e un elenco di province ecclesiastiche (ff. 264-272v). − M: Madrid, Biblioteca Nacional de España, Ms. 1364 Cartaceo. Scritto fra il secolo XIV e il secolo XV in Spagna. Consta di 242 fogli, di dimensione 345 x 250  mm, trascritto in due colonne per foglio, da 39 a 41 righe ciascuna. La provenienza spagnola è testimoniata anche dalle cronache di autori locali.

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Contiene: il De rebus Hispaniae dell’arcivescovo di Toledo Rodrigo Jiménez de Rada (ff. 1-156v), una storia della Spagna dalle prime popolazioni fino al 1243, delle notizie sulle sedi arcivescovili in Spagna (ff. 156v-157r), la Historia Orientalis di Giacomo di Vitry (157r-223v), la Ystoria (224r-239r), l’epistola in versi Exul ut in Ponto (239r-240v) e una satira di argomento matrimoniale nota con il titolo di De coniuge non ducenda (240v-242v). − M2: Madrid, Biblioteca Nacional de España, Ms. 8269 Cartaceo. Scritto nella prima metà del secolo XV in Spagna. Consta in totale di 113 fogli, di dimensione 220 x 141  mm, con 29 o 30 righe per ciascuno. Il manoscritto contiene la Historia Orientalis di Giacomo di Vitry (1-102v) e la prima parte della Ystoria (102v-105). Da metà del foglio 105r fino alla fine del libro, le carte sono bianche. Il copista ha interrotto la stesura della Ystoria in corrispondenza della fine della citazione dal libro dei Proverbi (Prov. 1, 23-29). − M3: Madrid, Biblioteca Nacional de España, Ms. 9201 Membranaceo. Scritto all’inizio del secolo XIV in Spagna. Consta di 48 fogli, di dimensione 320 x 240 mm, scritto in due colonne, con un numero variabile di righe per foglio, da 38 a 43. Dopo il foglio 46v, i testi sono disposti su tre colonne. Il manoscritto contiene la Historia Orientalis di Giacomo di Vitry (ff. 2r-38r) e la Ystoria (ff. 38r-46v), seguiti dall’epistola in versi Exul ut in Ponto (f. 47) e dalla satira De coniuge non ducenda (f. 48). Sul foglio 1r è presente il titolo La coronica (sic) Iherosolimitana. Il catalogo della biblioteca fraintende e riporta come opera incipitaria la Chronica di Guglielmo di Tiro e non la Historia Orientalis. Probabilmente il titolo era una semplice indicazione del contenuto del m ­ anoscritto. La maggior parte dei manoscritti della Ystoria include dei titoli che suddividono il lungo scritto in sezioni. Solo due manoscritti (B e M2) non li possiedono, mentre gli altri ne escludono alcuni. Queste rubriche non sono autoriali (talvolta esse si riferiscono all’autore in terza persona) e potrebbero risalire a una fase antica della tradizione, sicuramente prima dell’inizio del secolo XIV, pe-

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riodo in cui è stato realizzato M3, il più antico manoscritto dotato di rubriche. È molto probabile che fossero nate come glosse a margine del testo per rendere più comprensibile la complessa opera; a un certo punto della trasmissione, qualche copista li avrebbe fatti confluire all’interno spezzando il dettato della frase. Nella traduzione qui proposta, pertanto, i titoli sono segnalati nel corpo del testo in grassetto e fra parentesi quadre, senza andare a capo. Per quanto si sa sulla tradizione manoscritta, le aree interessate dalla diffusione dell’opera sono state la Francia e la Spagna, il che è comprensibile alla luce degli eventi storici che hanno investito il Mezzogiorno italiano fra i secoli XIII e XIV: l’opera, scritta a Messina nel 1291, avrebbe potuto trovare nella Guerra del Vespro un canale di trasmissione preferenziale verso l’Europa continentale. La tradizione dell’opera si configura molto complessa nonostante lo scarso numero dei manoscritti pervenutici in quanto caratterizzata da una pervasiva contaminazione. Visto lo stato testuale della Ystoria, si può pensare che l’autore non abbia avuto occasione di rimettere mano all’opera e non è certo che Taddeo abbia realizzato più redazioni. Forse, uno studio completo e approfondito sulla Historia Orientalis di Giacomo di Vitry, intrinsecamente legata alla tradizione della Ystoria, potrebbe aiutare a chiarire la posizione stemmatica di tutti i manoscritti, incluso M2, che non è considerato nello stemma di Huygens. Si può pensare che la compresenza delle due opere in tutti i manoscritti fosse già nell’archetipo della tradizione: la Ystoria è infatti sempre collocata dopo la Historia Orientalis, della quale rappresenta una logica prosecuzione.

3.2 Taddeo “di spirito profetico dotato”: fonti e messaggi dell’Ystoria Il retroterra culturale di Taddeo di Napoli sembra essere ampio e variegato. Oltre a citare indirettamente alcuni autori classici (soprattutto Ovidio, Orazio, Virgilio) e alcune opere cristiane tardoantiche, come la Historia adversus Paganos di Paolo Orosio, il Tractatus in Evangelium Iohannis di Agostino di Ippona e la Consolatio Philosophiae di Severino Boezio, Taddeo si dimostra un fine esegeta della tradizione apocalittica: egli impiega immagi-

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ni che risalgono allo Pseudo-Metodio, l’autore a cui si attribuisce una Apocalisse risalente al secolo VII in cui sono riassunti i principali temi dell’escatologia cristiana (Gog e Magog, l’Anticristo, la tribolazione prima della fine dei tempi). Come lo Pseudo-Metodio, anche Taddeo chiama i Saraceni “figli di Ismaele” o “figli di Agar” (Agareni), evidenziandone il ruolo di punitori dei cristiani dissoluti e corrotti dallo sfarzo e dalla lussuria. La punizione nostris peccatis exigentibus per la corruzione dei costumi cristiani è un’altra costante che Taddeo recupera dallo Pseudo-Metodio, ma che è perfettamente in linea con opere a lui contemporanee o di poco anteriori, come le Lettere di Giacomo di Vitry. La Bibbia è una fonte fondamentale. Fra i libri dell’Antico Testamento, vengono privilegiati il Pentateuco (con una predilezione per Deuteronomio e Esodo), i libri storici (soprattutto i libri dei Maccabei e di Samuele), i Salmi e i Proverbi. Fra i libri del Nuovo Testamento, vengono spesso citati i Vangeli, gli Atti degli Apostoli e le epistole (ai Galati, ai Romani, ai Filippesi, agli Ebrei). La componente profetica è un elemento imprescindibile nell’Ystoria e per questo Taddeo cita spesso, oltre ai “profeti maggiori” (primo fra tutti Geremia, a cui nel Medioevo si attribuivano le Lamentazioni), i cosiddetti “profeti minori” come Abdia, Naum, Zaccaria e Sofonia. I libri profetici a cui però Taddeo si ispira maggiormente sono il libro di Daniele e il libro dell’Apocalisse, che gli permettono di rileggere i fatti di Acri in chiave escatologica e come realizzazione di ciò che era stato prefigurato attraverso la simbologia nei due libri. Il libro di Daniele appartiene all’Antico Testamento e rientra nel corpus dei cosiddetti “profeti maggiori”, sebbene il contenuto lo riconduca al genere della letteratura apocalittica: la pseudonimia, i sogni, i simboli teriomorfi e numerici contribuiscono a rendere criptata l’interpretazione dalle visioni. L’arrivo del Messia e del Regno di Dio (Cristo e la fine del mondo) che sostituirà il vecchio mondo inaugurando una nuova epoca di pace viene veicolato attraverso due famose immagini simboliche: la prima è la statua polimaterica di Babilonia schiacciata da un’enorme pietra che successivamente si trasforma in una montagna, secondo cui l’accostamento dei materiali sempre meno pregiati simboleggia il succedersi dei dominii terreni e la roccia simboleggia il Regno di Dio che eliminerà ogni

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traccia di impero terrestre; la seconda immagine è l’apparizione di quattro bestie, una più impressionante dell’altra. La quarta bestia è così mostruosa da perdere ogni tratto zoomorfo realistico: essa è troppo forte, ha grandi denti di ferro, dieci corna e un undicesimo corno più piccolo che spunta in mezzo alle altre e ha bocca e occhi che sembrano umani. La bestia muore solo grazie all’intervento di un vegliardo che la spinge nel fuoco. Le quattro bestie simboleggiano, come i materiali della statua, la successione di quattro dominii terreni, la cui identificazione non è sempre unanime nell’esegesi, anche se spesso si accetta l’interpretazione secondo cui venga rappresentato il susseguirsi degli imperi babilonese, persiano, greco-macedone e seleucide12. Il quarto impero è il più terribile e calpesterà tutta la terra, generando disperazione e afflizione del mondo. Secondo l’interpretazione di Taddeo, questa quarta bestia viene associata alla figura del sultano mamelucco al-Ashraf, conquistatore di Acri. Taddeo, in realtà, parla di un “sesto re” che insulterà l’Altissimo e colpirà i suoi santi e solo quando gli verrà tolto il potere si potrà instaurare un periodo di pace e serenità. Questa forzatura numerica è solo apparente per due ragioni fondamentali che trovano una coerente risposta all’interno dell’Apocalisse di san Giovanni. In primo luogo, la somma delle teste delle quattro bestie della visione di Daniele è pari a sette (la prima, la seconda e la quarta ne hanno una sola; della terza si dice che quattuor capita erant in bestia et potestas data est ei), proprio come la bestia che giunge dal mare presente nell’Apocalisse che riassume in sé le caratteristiche delle quattro bestie della visione di Daniele: ha in totale sette teste e dieci corna, bestemmia Dio e la sua dimora, ha le fattezze di un leopardo, di un orso, di un leone e di un drago. L’associazione con la Orientalis bestia di Taddeo è patente: i Mamelucchi sono potenti e mostruosi, sono infedeli e compiono atti sacrileghi, ingannano come leopardi13 e sono feroci come leoni. In secondo luogo, la forzatura è giustificata dall’associazione del “sesto re” con il “numero della bestia” nell’Apocalisse, ovvero Talvolta, il quarto impero viene identificato con quello romano. Il riferimento è specifico al manto maculato del leopardo, simbolo del raggiro frequente nella letteratura medievale. 12  13 

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il seicentosessantasei, a cui Taddeo riconduce una serie di meticolosi calcoli per giustificare la corrispondenza con il sultano mamelucco. I risultati di queste operazioni numeriche riconducono sempre intorno al numero 1200, con riferimento a Ezech. 4, 6 (Et cum conpleveris haec dormies super latus tuum dextrum secundo et adsumes iniquitatem domus Iuda quadraginta diebus diem pro anno diem inquam pro anno dedi tibi): la data non coincide perfettamente con l’anno della caduta della città di Acri, ma ciò non sorprende visto il tradizionale impiego di un linguaggio sibillino nelle profezie. Il riferimento al 1200 ritorna anche all’interno del pensiero escatologico di Gioacchino da Fiore, la vera chiave di volta nell’interpretazione profetica della Ystoria, che la rende un unicum nella letteratura de recuperatione Terrae Sanctae. Per Gioacchino, la storia era divisa in tre differenti età: quella del Padre (dall’Antico Testamento al regno di Ozia, re di Giuda, fino al 742 a.C.), quella del Figlio (dall’età dei Vangeli fino alla quarantaduesima generazione, che si conclude intorno al 1260) e quella dello Spirito (dal 1260 fino alla fine dei tempi). In quest’ultima età, Gioacchino immagina che una chiesa libera e tollerante potrà prendere il posto dell’attuale chiesa gerarchica e dogmatica. In base a quanto affermato nella Genealogia, un lavoro preliminare a tutta l’impalcatura della filosofia gioachimita, mancherebbero soltanto due generazioni (ossia sessant’anni dallo scadere della quarantesima generazione) alla fine della storia del mondo nel momento in cui Gioacchino scrive: in tal modo, gli eventi finali sarebbero dovuti accadere attorno al 1260, come suggeriscono anche Apoc. 11, 3 (et dabo duobus testibus meis et prophetabunt diebus mille ducentis sexaginta amicti sacco) e Apoc. 12, 6 (et mulier fugit in solitudinem ubi habet locum paratum a Deo ut ibi pascant illam diebus mille ducentis sexaginta). Lo schema tripartito della Genealogia viene complicato all’interno della Concordia Novi ac Veteris Testamenti, in cui viene inserito uno schema bipartito riguardante la storia del popolo del Padre (l’Antico Testamento) e quella del popolo del Figlio (il Nuovo Testamento). Secondo Gioacchino, il concetto di “concordia” fra Antico e Nuovo Testamento instaura una corrispondenza o proporzione per quantità ma non per dignità (per esempio, quella che sussiste fra i do-

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dici patriarchi figli di Giacobbe e i dodici apostoli) e deve essere interpretato non tanto secondo il senso allegorico delle Scritture, quanto proprio secondo la corrispondenza dei due Testamenti: all’interno dei libri III e IV della Concordia, il paradigma della corrispondenza dei due popoli è centrale e Taddeo collega le tribolazioni del popolo d’Israele a quelle della Chiesa, che corrispondono all’apertura dei sette sigilli dell’Apocalisse di Giovanni. Le tribolazioni dell’Antico Testamento (Egizi, Cananei, Siri, Assiri, Caldei, Medi e Greci) rappresentano i sigilli chiusi e corrispondono rispettivamente alle tribolazioni subite dalla Chiesa, che invece rappresentano i sigilli aperti (Giudei, Pagani, popolazioni persiane e barbariche, Saraceni, Nuovi Caldei, sconfitta della nuova Babilonia e da ultimo l’Anticristo). Dopo aver affermato che l’apertura del sesto e del settimo sigillo avverranno in corrispondenza della quarantunesima e della quarantaduesima generazione (ovvero nelle ultime due generazioni prima della terza età e della fine del mondo), Gioacchino tenta di precisare ulteriormente il momento in cui dovrebbe avvenire l’apertura, giungendo così ad elaborare due ipotesi. In prima istanza, l’inizio della sesta tribolazione potrebbe avvenire intorno all’anno 1200, ossia alla fine della quarantesima generazione, e durerebbe 3 anni (dal 1201 al 1203), seguita a breve distanza dalla settima; in seconda istanza, la sesta tribolazione potrebbe avvenire all’inizio del trentennio della quarantunesima generazione, che avrebbe così la stessa durata delle altre (cioè trent’anni), collocando di conseguenza la settima tribolazione intorno nel 1231. Vista l’incertezza nel conferire una risposta definitiva, Gioacchino raccomanda cautela di fronte all’apertura del sesto sigillo che avvierà la fine dei tempi: è imminente e improrogabile, ma non se ne conosce il momento preciso, salvo la sua collocazione dopo il 1200. Gli fa eco Taddeo, con queste parole: “Gioacchino poi esprime chiaramente il tempo in cui queste sventure capiteranno, dicendo: È vicino il tempo, il cui giorno e l’ora il Signore stesso conosce, che solo conosce i tempi e i momenti che il Padre ha posto in Suo potere da tempo immemore. Dice: Tuttavia, se la pace venisse allontanata da questi mali fino a milleduecento anni dall’incarnazione del Signore, da lì in poi, perché queste cose non accadano subito, i tempi e i momenti sono per me del tutto sospetti”.

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Secondo Taddeo, la caduta di Acri nel 1291 non poteva non essere ricondotta al momento profetizzato da Gioacchino: non solo sono passati più di 1200 anni dall’Incarnazione, ma la data è inclusa entro i 666 anni dalla morte di Maometto (ovvero il 1298, stando ai calcoli desunti nella Ystoria). Il sesto sigillo si era così aperto e sarebbero dovute iniziare le persecuzioni per i cristiani che, dopo essere stati massacrati durante l’assedio di Acri, furono costretti a disperdersi e a rifugiarsi a Cipro, l’unico territorio del Mediterraneo orientale ancora in mano ai cristiani. Taddeo si dimostra un fine esegeta di Gioacchino e il parallelo istituito fra la bestia del sogno di Daniele e la bestia che viene dal mare nell’Apocalisse rende evidente il ruolo dei Saraceni nella storia: per Taddeo, la sesta testa della bestia che viene dal mare non è dunque il Saladino, come ai tempi di Gioacchino, ma un altro sultano, il più terribile e il più sanguinario di tutti, che è riuscito a realizzare quello che nemmeno il grande Saladino era riuscito a compiere. Di fronte alla furia dei Mamelucchi, Taddeo sancisce così definitivamente l’attendibilità delle parole di Gioacchino, di cui si fa erede.

4.  Lo stile delle opere Sebbene la critica abbia collocato l’Anonimo e Taddeo fra gli “apologisti” della letteratura crociata della fine del secolo XIII, entrambi gli scritti possono rientrare a pieno titolo nel genere della monografia storica, spesso romanzata, anche se con le dovute differenze. Se l’Excidium possiede i tratti del resoconto storico, la Ystoria si configura come una lunga e complessa epistola-trattato, la cui complessità potrebbe essere il sintomo di una mancata revisione da parte dell’autore. Entrambe le opere sono caratterizzate dalla pervasiva presenza di orpelli retorici e da una complessa sintassi che si sviluppa in frasi prolisse e involute, con anastrofi particolarmente marcate. In genere, entrambi gli autori impiegano molte figure di parola, quali figure di posizione (come chiasmi e parallelismi) oppure ipallagi

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o enallagi, limitando al minimo le figure di pensiero. Compaiono spesso figure di suono come allitterazioni, poliptoti, paronomasie e più in generale forme di variatio più o meno marcata. Prevalgono nel fraseggio le costruzioni trimembri. Se l’Anonimo sembra capace di padroneggiare, a volte anche con una certa destrezza, i costrutti standard, nonostante l’ordo verborum venga spesso stravolto, rispettando la consecutio temporum e evitando così costrutti pendenti, Taddeo di Napoli impiega invece un fraseggio molto più ampio e complesso, in cui l’ipotassi è così involuta da generare costrutti ad sensum. A  volte, il largo uso dei participi e degli ablativi assoluti genera un testo oscuro: il continuo affastellamento di costrutti impliciti rende la lettura difficile da decriptare a prima vista e spesso vengono meno anche i rapporti temporali della consecutio temporum, come nell’enigmatica descrizione della desolazione che investe la città di Acri dopo l’assedio dei Mamelucchi, ridotta a una catasta di pietre. Lo stile di Taddeo trova la sua raison d’être nell’economia generale dell’opera: si può infatti supporre che una sintassi così pretenziosa e molto spesso ridondante abbia più una funzione patetica che estetica. Una serie di elementi patetici sono disseminati per tutta l’opera e sono funzionali all’intero discorso, come le innumerevoli interiezioni quali prodolor, propudor e heu, i continui compianti per il perduto splendore di Acri, la rievocazione dell’immagine di Gerusalemme distrutta da Nabucodonosor, le ripetute accuse ai cittadini acritani che non hanno saputo ingaggiare una valida difesa, permettendo così ai Saraceni di conquistare l’ultimo baluardo crociato. La pervasiva inconcinnitas contribuisce notevolmente a conferire all’opera di Taddeo un andamento vivace e concitato, a volte ai limiti dell’incomprensibile, ma tutto ciò è finalizzato alla materia trattata nell’opera e alla sua rappresentazione linguistica: con le dovute e necessarie differenze e cautele, considerata anche la forma epistolare che assume la Ystoria, Taddeo aderisce (a suo modo) a quello che la retorica medievale classificava come principio dell’aptum, ovvero l’adattamento della lingua alla situazione concreta descritta e al destinatario. Con Taddeo, l’uso dell’oratio perpetua, concetto di derivazione boeziana, raggiunge i suoi limiti estremi.

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La sintassi così complessa delle due opere può essere in linea con le tendenze retoriche del Basso Medioevo, in accordo con i precetti delle artes grammaticae e delle artes dictaminis: la progressiva sostituzione delle Institutiones grammaticae di Prisciano con i nuovi manuali (come il Doctrinale di Alessandro di Villedieu e il trattato De arte prosayca, metrica et rithmica di Giovanni di Garlandia) contribuì allo sviluppo delle nuove tendenze dell’insegnamento della retorica e della grammatica. In seno alle università, i dibattiti e le speculazioni filosofiche (soprattutto della scuola modista) hanno permesso lo sviluppo, in primis in Francia, di trattazioni di argomento grammaticale e metagrammaticale che riflettevano sull’uso delle figure retoriche, dell’exornatio e dei colores rhetorici, sulla qualità dell’ornatus e sul ruolo delle transumptiones negli scritti. Da un punto di vista lessicale, l’Anonimo dimostra di utilizzare un vocabolario più originale rispetto a Taddeo: nell’Excidium vengono impiegati preziosismi linguistici o parole rare di sapore filosofico come substanciale o principiis radicalibus, mentre più esotica è la parola zuccarum, termine introdotto in Europa proprio a partire dal secolo XI, quando i contatti con il Medio Oriente si intensificarono a causa delle crociate. Esemplare, dal punto di vista lessicale, è la conoscenza da parte dell’Anonimo del lessico militare: egli utilizza molti termini ricercati, a volte oscuri, per indicare le diverse macchine da guerra e le tattiche militari. In ambito bellico spicca la parola perdicete, termine non chiaro che indicherebbe una delle tante macchine da lancio. Al di là del lessico bellico, un altro hapax è la resa grafica Renoaldus, al posto del più classico e diffuso Rinaldus, per indicare il famoso eroe dell’epica francese Renaud de Montauban. Inoltre, l’Anonimo impiega insolitamente il titolo di Augustus per riferirsi al nuovo sultano al-Ashraf Khalīl, comunissimo in Occidente, cercando forse di istituire un parallelo fra la massima carica mamelucca e quella europea. Infine, l’Anonimo sembra impiegare in maniera anomala il termine minister per riferirsi alla carica di Granmaestro (ossia magister) di un ordine militare, pur invece definendo correttamente Matteo di Clermont come marescalcus, secondo la terminologia ricorrente nell’Ordine Templare.

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RACCOLTA DELLE IMPRESE LEGATE ALLO STERMINIO DI ACRI

RACCOLTA DELLE IMPRESE

Ascoltate, isole! Prestate attenzione, popoli lontani! Ascolti la terra le parole che escono dalla mia bocca (Is. 49, 1): ecco che una storia straordinaria riecheggia in questo volume, ossia le imprese condotte pochissimo tempo fa nella nobilissima città di Acri, quando infuriava la violenza degli infedeli che recava sofferenza a tutti i fedeli; e se questo, per l’atrocità del fatto, deve essere commiserato dai flebili lamenti dei fedeli, la vicenda stessa deve essere meglio ricostruita, secondo il suo ordine, per esortare i fedeli, affinché, con devozione, vengano spinti alla vendetta di offese tanto grandi recate alla Terra Santa in sfregio a Cristo. Tuttavia, non mi vanto di essere stato presente all’accaduto, sebbene abbia parlato metaforicamente di “storia”a: tuttavia, come ho raccolto con avido orecchiob, logorato dall’amarezza del cuore, il resoconto delle diverse imprese da diverse persone, così inizio a render nota a ciascun fedele desideroso di leggere la loro successione, secondo il mio giudizio, realizzatac una narrazione duplice e Isid., Etym. 1, 41, 1-2: Historia est narratio rei gestae, per quam ea, quae in praeterito facta sunt, dinoscuntur. Dicta autem Graece historia apo tu historein, id est a uidere uel cognoscere. Apud ueteres enim nemo conscribebat historiam, nisi is qui interfuisset, et ea quae conscribenda essent uidisset. Melius enim oculis quae fiunt deprehendimus, quam quae auditione colligimus. Quae enim uidentur, sine mendacio proferuntur (“La storia è la narrazione di imprese attraverso la quale si conosce ciò che è accaduto in passato. Storia deriva inoltre dal greco apo tu historein, cioè da vedere o conoscere. Presso gli antichi infatti, nessuno scriveva la storia se non colui che fosse stato presente e che avesse visto ciò che doveva essere scritto. Meglio infatti che noi scopriamo con gli occhi ciò che accade che con le orecchie. Ciò che infatti viene visto, viene riferito senza menzogna”); Hor., Ars poet., 180-181: Segnius inritant animos demissa per aurem / quam quae sunt oculis subiecta fidelibus (“Ciò che entra dalle orecchie stimola gli animi meno di ciò che è sottoposto agli occhi fedeli”). b  Cic., Orator, 104: Tamen non semper implet auris meas; ita sunt avidae et capaces et saepe aliquid immensum infinitumque desiderant (“Tuttavia, non riempie le mie orecchie: esse sono così avide e capaci e spesso desiderano qualcosa di immenso e infinito”); Ovid., Epist., 3, 4, 19-20: Nos ea uix auidam uulgo captata per aurem / scripsimus atque oculi fama fuere mei (“Noi abbiamo scritto apertamente ciò che è stato colto con avido orecchio e i miei occhi sono stati la fama”). c  L’edizione propone la lezione seriem iuxta meum arbitrium ficta et mulcebri narratione, insostenibile per la congiunzione copulativa che interrompe senza una ragione precisa. La lezione scelta qui è nel manoscritto L e fa concordare il participio fictam con seriem, sostituendo ficta et mulcebri narratione duplici con il semplice ablativo strumentale mulcebri narratione duplici. a 

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confortantea, che stimoli gli animi alla devozione, ma che contenga la verità fattuale. Dunque, la prima narrazione riguarda ciò che avvenne prima dell’assedio di Acri; la seconda narrazione riguarda ciò che accadde a ridosso dell’occupazione, durante l’occupazione e durante la sua strage. Otto sono le imprese della prima narrazione. I. II. 48

Come il sultano diffidò la città di Acri La violazione della tregua che fu l’occasione della strage di Acri III. Ordine del sultano perché gli mandassero gli acritani che avevano infranto la tregua per punirli IV. Come gli acritani, attraverso solenni ambasciatori, si giustificarono col sultano in merito alla sua richiesta V. Risposta del sultano agli ambasciatori alle scuse da loro addotte VI. Fornito il resoconto della risposta da parte degli ambasciatori, decisione che presero gli acritani in merito alla risposta del sultano VII. Come il patriarca lodò gli acritani per la risposta e per la decisione da loro formulate VIII. A quali persone venne segnalato il futuro assedio di Acri per ottenere un aiuto e disposizione delle sentinelle delle mura della città e loro difesa

I.  Come il sultano diffidò la città di Acri Guardati attorno, Gerusalemme, e guarda (Is. 60, 4) come in questi giorni molta disperazione e molta afflizione si sono abbattute su Acri perché senza dubbio, ahimè, non vi fu nel giorno della disperazione e dell’afflizione chi la consolasse fra tutti quelli che a  Calc., Comm. in Tim., 2, 247: Duae sunt, opinor, uirtutes ignis, altera edax et peremptoria, altera mulcebris innoxio lumine (“Penso siano due le virtù del fuoco: la prima vorace e mortale, la seconda confortante per l’innocente luce”). L’accostamento mulcebri narratione nel testo latino è hapax.

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l’amavano (Lament. 1, 2). Infatti, quando il sultano di Babilonia ebbe espugnato con le sue truppe la famosissima città di Tripolia – nonostante fosse stata stipulata con il sultano una perfida alleanza dai suoi cittadini – nella quale non solo furono passati miseramente a fil di spada (Ex. 17, 13) circa cinquantamila fra uomini e donne, ma morirono ragazzi fra le violenze contro natura dei Saraceni – di cui non è lecito agli esseri umani parlare (2 Cor. 12, 4) –, rase al suolo le mura della città, le torri, i palazzi, le case, le chiese e ogni altro edificio della città, fu reso noto agli acritani, attraverso una lettera del sultano indirizzata solennemente a loro, che il sultano, con tutta la sua forza, avrebbe assediato la città di Acri dopo la fine dell’anno e promise con un atto di diffida che avrebbe fatto qualcosa di simile a quello che poco prima era stato fatto alla città di Tripoli e ai suoi cittadini, se non avessero riportato immediatamente senza condizioni e senza inganno sotto la sua  giurisdizione loro stessi e la città, detta una volta Tolemaideb e ora Acri, che, contro la volontà sua e dei suoi predecessori, avevano a lungo tenuto.

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II.  La violazione della tregua che fu l’occasione della strage di Acri Passato poi molto tempo, dopo che i capitani acritani, con il consenso di tutta la comunità, conclusero una tregua pacifica col sultano fino a due anni, due mesi, due settimane, due giorni e due ore, grazie a un gran numero di diverse elargizioni che avrebbero cancellato la precedente diffida, avallata da fiducia e giuramento reciproci secondo l’usanza saracena, sbarcarono presso il porto di Acri circa milleseicento fra pellegrini e mercenari, uomini che – come dicevano – erano stati mandati in aiuto alla Terra Santa da parte del sommo pontefice in qualità di combattenti. Ma poiché questi pensavano di essere presi in giro per il fatto che gli acritani non volessero infrangere la tregua che avevano da poco a  b 

La città di Tripoli venne distrutta dai Mamelucchi nel 1289. Anticamente, la città di Acri era nota con il nome di Tolemaide.

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concluso con il sultano, non tenendo conto della decisione dei capitani e dei cittadini, pensando erroneamente fra sé che l’impegno preso dai cittadini non li potesse vincolare all’osservanza della tregua con i Saraceni, di primo mattino, mentre i cittadini non potevano trattenerli senza strage di uomini, uscendo dalla città con armi e vessilli spiegati, si diressero verso le regioni montuose presso le città e le fortificazioni dei Saraceni e trucidando ovunque e senza pietà tutti gli uomini e le donne saraceni che trovarono, che credevano di godere del diritto di pacifica immunità, sottrassero con molta esultanza tutto ciò che potevano portar via in città come spoglie. Oh ahimè che disgrazia! Questa esultanza venne convertita per la città Acri e la Terra Santa in un funesto pericolo e in una disgrazia dolorosa.

III.  Ordine del sultano perché gli mandassero gli acritani che avevano infranto la tregua per punirli Allora il sultano si trovava a Babilonia, quando giunse alle sue orecchie la notizia di questo avvenimento, in merito al quale spedì agli acritani una sua lettera di tale tenore:

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“Acritani! La nostra indignazione su di voi e sui vostri figli! Ecco: conviene che noi ci avvaliamo contro di voi delle affermazioni del vostro profeta Davide, che avete sempre esposto finora a vostro favore, ma ora convengono a noi e al popolo soggetto al nostro potere: sedemmo lì sui fiumi di Babilonia, mentre soffiò lo spirito di una voce turbolenta e piangemmo – poiché eruppero le acque della crudissima tristezza e dell’amarissimo dolore – mentre ricordavamo i torrenti della vostra iniquità, Sion, che giungevano sopra la nostra gente che confidava nella promessa della vostra lealtà verso di noi, per il fatto che sui suoi salici abbiamo appeso le nostre cetre (Ps. 136, 1-2), convertite, ahimè, in ansiosi pianti (Iob 30, 31): tutte le cose che abbiamo udito e conosciuto e i nostri fratelli ci hanno raccontato (Ps. 77, 3). Ecco che è stato reso noto all’altezza della nostra maestà che dei cristiani hanno navigato fino a voi da regioni lontane contro la nostra autorità e che, rifiutando la decisione dei vostri saggi e la loro lodevole proibizione, uscendo, uccisero senza pietà con una mortale strage di

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spade il nostro popolo, posto sotto la vostra quanto la nostra protezione. Così dunque siamo diventati la vergogna per i nostri vicini, siamo lo zimbello e il dileggio non per quelli che sono sotto la nostra orbita, ma per quelli sotto la cui orbita quasi ci troviamo: per questo non c’è da sbalordirsi se siamo afflitti per la città e siamo furiosi! Dunque, non aspettate più a lungo per comportarvi lealmente nei nostri confronti e consegnateci immediatamente quei nostri maledettissimi traditori per ottenere il nostro favore, perché li giudichi la nostra autorità e perché ricevano ciò che sarà giusto. Altrimenti abbiamo deciso di mettere in atto con la forza quella minaccia che già da tempo abbiamo espresso sull’assedio Acri, entro il prossimo marzo, rinunciando d’ora in poi all’accordo di una tregua”.

IV.  Come gli acritani, attraverso solenni ambasciatori, si giustificarono col sultano in merito alla sua richiesta Esposto dunque il contenuto di questa lettera all’intera città, la decisione di ognuno non fu concorde, anzi profondamente differente e divergente. Infatti, alcuni dei capi della città, alcuni dei capitani e una parte della comunità divisa volevano far passare questa proposta con le loro argomentazioni, eliminate tutte le giustificazioni, per continuare a beneficiare della tregua, poiché non era lecito a quelli che non erano della comunità infrangere i patti che avevano stabilito di comune accordo e non era lecito ad alcuni della comunità essere compartecipi di quell’avvenimento senza trasgredire al giuramento e alla fede data; ma la comunità diceva il contrario poiché da tempo non c’è ricordo del fatto che tutte le volte che veniva conclusa una tregua fra saraceni e cristiani, questa venisse convertita in legge e comprovata abitudine, ma è bene che fra le parti dovesse essere mantenuta, a meno che alla fine non capitasse che qualcuno dei più importanti sovrani d’Occidente o dalla parte di qualcuno di loro a cui piacesse infrangere la tregua attraversasse il mare. “Dunque, dopo che coloro che sono stati inviati da parte del sommo pontefice, che è capo di tutta la cristianità, hanno voluto infrangere la tregua concordata da noi che abbiamo ottenuto la maggioranza in

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città, noi siamo tenuti soprattutto a proteggerli e tutelarli nel lodevole gesto, per quanto possiamo. Dunque, non dissentite dal nostro parere affinché alla fine non accada quello che avete già visto accadere agli abitanti di Tripoli – non è molto – per la loro discordia o forse per non infuriarci gli uni con gli altri e non tralignare dalla retta via e soprattutto perché, in breve tempo, per una moderata alterazionea degli uni, negli altri può divampare il furore dell’ira, ormai suscitato”.

Dunque essi, fingendo di approvare tutto quello che la comunità ritenne opportuno stabilire, proposero molto generosamente di mettere diligentemente in pratica quelle disposizioni alle quali erano vincolati per la legge costituita della città per la sua difesa e protezione, in caso di bisogno; ma il cuore stava lontano dal proposito, se la volontà recalcitrante avesse potuto. Non sembrò loro dunque di dover prendere una decisione più sensata se non offrire con molta generosità al sultano qualsiasi cosa in proposito sembrasse poterlo soddisfare, dal momento che sapevano con estrema certezza che qualsiasi cosa venisse offerta al sultano da parte loro per questa causa al di sotto di quanto pretendeva la sua richiesta, egli non l’avrebbe accettata, perché alla fine, se queste cose non avessero potuto soddisfarlo, almeno per questo sembrasse che soddisfacessero appieno la causa. Dunque, senza perdere altro tempo, inviarono al sultano degni uomini che avrebbero cancellato la vergogna di un tanto grande delitto, non solo con dolci e persuasive parole – seppur veritiere –, ma con omaggi e offerte di doni preziosi da parte di tutta la comunità della città e che gli avrebbero offerto, con grande perdita da parte loro, i cittadini che erano stati autori di quel grande delitto perché fossero puniti, che aveva preteso che gli venissero consegnati per il loro tradimento e che venissero imprigionati in ceppi di ferro fino allo scadere del tempo della tregua e finché non fosse rinnovata; tuttavia, poiché si doveva badare alla massa secondo la tradizione delle leggi – benché non del suolob – sembrò essere sufficiente se, a  Il termine concitamen nel testo latino è un hapax. In genere, il termine utilizzato è concitamentum (“incitamento”). b  L’espressione concessiva licet non soli non è chiara. Si è scelto di tradurla con “benché non del suolo”, in riferimento alle leggi vigenti sul territorio, contrapposte alle tradizioni.

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passato il tempo della tregua, li avessero cacciati dalla terra, proscrivendoli sotto pena di morte, e avessero condannato i loro comandati all’ergastolo del carcere perpetuo.

V.  Risposta del sultano agli ambasciatori alle scuse da loro addotte Ma quando queste notizie furono riferite al sultano nel modo più pacato, lì per lì non rispose, ma per un po’ stette in silenzio, come fanno i sapienti; meditato ciò che avrebbe risposto, alzata la testa da una parte all’altra con aspetto regale, rispose andando attorno agli astanti: “Oh cristiani! Bugiardi sulla bilancia! (Ps. 61, 10) Quanto dolci sarebbero state un tempo le vostre parole trascorso il tempo dell’alleanza al nostro palato, più del miele sulla nostra bocca, se alla fine non aveste nascosto l’amarezza in questa melliflua dolcezza di parole. Ma spesso nel miele, nello zucchero e in simili sostanze vengono propinati i veleni che, una volta raggiunto il cuore, uccidono chi non ha provveduto a tutelarsi per questo. Oh, le vostre dolci lusinghe, allettandoci, hanno ingannatoa i nostri consiglieri e hanno fatto indebolire noi e la nostra attenzioneb, costringendoci all’inerzia, e ci hanno fatto abbassare la guardia trascurando la tutela della nostra difesa. Quale furia, quale rabbia regna ora in voi, cristiani, che corrompono vergognosamente la vostra lealtà con la violenza dell’inganno, mentre voi simulate il vostro istinto di volontà, eliminata però completamente ogni ragionevole via? E infatti, venendo a patti sotto un’apparente sincerità e pacatezza in nome della fede per la quale credete di essere forti in nome del vostro Cristo, avete promesso con molta fermezza una pacifica tua  Il termine in latino (muscipulate sunt) è molto raro nella letteratura latina medievale e non ha occorrenze nell’età classica. Du Cange lo definisce con insidias componere, alicui quiddam machinare (“Organizzare agguati, tramare qualcosa contro qualcuno”). b  L’edizione di Huygens propone la lezione et nosque nostram segnicie, dove il -que è insostenibile vista la presenza del precedente et. Nella traduzione, si è adottata la lezione concorde con il manoscritto L: nos nostramque segnicie artantes languere sollicitudinem. In questo modo, i due accusativi nos e nostram sollicitudinem dipendono da languere e sono coordinati fra loro.

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tela ai nostri da parte dei vostri, anche noi in modo analogo in nome della fede che riceviamo dal nostro potentissimo signore Maometto, abbiamo promesso la stessa protezione ai vostri da parte nostra, fino al tempo stabilito di comune accordo da entrambe le parti. Infine, abbiamo mantenuto fedelmente questa pace fino ad ora con tutta la nostra intenzione e ancora ci sforzeremmo di mantenerla, se si palesasse qualcuno verso cui siamo tenuti a mantenerla… Ma mentre noi vediamo il nostro popolo ingannato indegnamente dalla corruzione della vostra lealtà, ripudiata la verità che dite essere Cristo che, come affermate, è il fondamento della vostra fede, nel pericolo della nostra maestà e nel danno mortale del nostro popolo, non possiamo accondiscendere a venir meno al rigore del nostro dovere senza vendicarci alla svelta di un crimine tanto grande, riponendo poi il nostro proposito nella ferma speranza che, se il vostro Cristo può portarvi la sicurezza di un aiuto per la fede che avete in lui, ugualmente, per aver corrotto la fede in Lui, in nessun modo voi verrete difesi da Lui: anzi, abbiamo massima fiducia che il nostro destino prevalga sul vostro per il giusto giudizio di Dio. Da questo momento, dunque, allontanate da noi le vostre illusorie pretese, finché trattenete e appoggiate i nostri, anzi – se dobbiamo dire la verità – i vostri traditori, contro la vostra salvezza e nella lesa maestà del nostro sultano, consapevoli di certo che, entro il tempo prefissato, verremo alle armi, come auspicato, sbaragliando il vostro esercito, e penetreremo nella città a noi nemica con un potente stuolo (1 Macc. 1, 18), uccidendo tutti, dal più insignificante al più importante (Gen. 19, 11) a colpi di spada. Addio. Tuttavia, vogliamo e ordiniamo per il favore concesso dall’incarico dell’ambasciata ricevuta, che voi torniate sani e salvi alle vostre case sotto la nostra guida”.

VI.  Fornito il resoconto della risposta da parte degli ambasciatori, decisione che presero gli acritani in merito alla risposta del sultano Tuttavia, gli ambasciatori acritani, ritirandosi quindi dal cospetto del sultano, imboccando la via regiaa, giunsero fino ad Acri Verg., Aeneis, 6, 629-632: “Sed iam age, carpe viam et susceptum perfice munus; / acceleremus” ait; “Cyclopum educta caminis / moenia conspicio atque adverso a 

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afflitti dallo sconforto e, convocando l’intera comunità cittadina, riferirono fedelmente tutto quello che avevano ascoltato dal sultano. A quel preoccupante resoconto assistettero il venerabile e reverendo padre patriarca di Gerusalemme, i condottieri Giovanni di Grailly, capitano dei cristiani in Terra Santa, scelto da parte del re dei Franchi, e Ottone di Grandson, destinato da parte del re d’Inghilterra in aiuto della Terra Santa insieme ad altri, certi ufficiali della milizia degli Ordini, anche i capi della città che presiedevano alle truppe che la difendevano e tutti i cittadini, dal più umile al più importante, con i mercenari e i pellegrini che vollero e poterono partecipare. Il pacatissimo patriarca, con il sentimento di coraggiosa difesa, con la parola della divina predicazione, ispirò i cuori di ognuno, confortò le menti e scaldò gli animi così che gli umili con i maggiorenti, i non nobili con i nobili, i deboli con i forti potessero ragionare su questo con uguale misura di lode e di merito, la cui risposta, qui sotto scritta, riassume i fondamenti del discorso. Infatti, non molto dopo, quei cittadini che si ammassarono a frotte, con l’intenzione di chiedere cosa si dovesse fare soprattutto riguardo a questa situazione, come in un moto repentino e unanime, rivolti al patriarca e agli altri capi della città, confidando nello spirito divino che dà consiglio, raccolte le preghiere di tutti nel discorso di un solo portavoce, risposero con molta fermezza: “Sebbene noi siamo esterrefatti per la singolarità di questo resoconto e sebbene sembriamo spaventati – il che non sia mai – per la violenza dell’empia strage perpetrata a Tripoli poco tempo fa e sebbene la selvaggia ferocia del furente sultano possa farci tremare come il tremore di qualcuno, tuttavia, per l’ispirazione della fede cristiana, abbiamo deciso concordemente di non dover abbandonare tanto facilmente fornice portas, / haec ubi nos praecepta iubent deponere dona” (“Ma ora vai, imbocca la via e realizza l’incarico iniziato. Acceleriamo – disse – vedo le mura costruite nella fucìna dei Ciclopi e le porte di fronte all’arco, dove la legge ordina di deporre questo dono”; Ovid., Met., 11, 137-138: “Perque iugum ripae labentibus obvius undis / carpe viam, donec venias ad fluminis ortus” (“E attraverso il giogo della sponda, contro le onde che scorrono, imbocca la strada, finché verrai alla sorgente del fiume”), cfr. anche Ovid., Met., 8, 208-209; Hor., Sat., 2, 6, 93: “Carpe viam, mihi crede, comes” (“Imbocca la via: credimi, compagno”).

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all’infedele scelleratissimo la celeberrima città di Acri, porta d’accesso per far visita, con devozione, a tutti i luoghi della Terra Santa, lasciata alla nostra fede da difendere contro tutte le popolazioni barbariche, perché non si attribuisca alla nostra fede corrotta piuttosto che all’impotenza della resistenza; noi, che abbiamo imparato a combattere sempre per la nostra libertà, abbiamo deciso che non ci permetteremo di subire un’eterna schiavitù: per questa ragione, ci sembra di dover scegliere di resistere in una encomiabile difesa, anche se dobbiamo soccombere alle spade dei nemici, più che di consegnare la città, abbandonandoci alla vile soluzione della fuga e guadagnandoci così l’eterno nome dell’ignominiosa infamia del tradimento, soprattutto perché questo impegnoa consente una tregua di sei mesi e può nel frattempo far conoscere con certezza e abbastanza in fretta lo stato della nostra città e della Terra Santa al sommo pontefice, ai cardinali, ai re e ai sovrani d’Occidente: infatti non mettiamo in dubbio che essi ci invieranno al più presto l’aiuto opportuno di un animo toccato dall’amarezza, se venissero a conoscenza di tali offese gettateci contro tanto empiamente come ci viene minacciato. Dunque, resistete, governatori della nostra causa comune, e preoccupatevi di mandare onorevoli uomini con una lettera contenente la nostra situazione e quella della Terra Santa al sommo pontefice, ai cardinali, ai re e ai sovrani cristiani d’Occidente quanto più velocemente potete e nel frattempo preoccupatevi di difendere la nostra città con le necessarie difese, con la riparazione dei fossati, degli antemurali, delle mura e delle torri e imponete in modo più vincolante che ciascun cittadino abbia armi e presidii nella misura delle loro facoltà per la loro protezione e la difesa della città, sotto conveniente punizione. Infatti, non ritardate tutto questo e simili provvedimenti che si addicono alla vostra saggezza”.

VII.  Come il patriarca lodò gli acritani per la risposta e per la decisione da loro formulate Dunque, riferita questa lodevole risposta, il patriarca, eretto, con gli occhi fissi al cielo e le mani giunte sul petto, reggendosi L’Anonimo si riferisce a ciò che è accaduto prima della fine della tregua e prima dell’arrivo del sultano. a 

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in punta di piedia, rese grazie al Signore, parlando con devoti e commoventi sospiri: “Sia benedetta la Santa Trinità in un unico Dio, la quale ha reso gli acritani concordi per il suo onore e ha reso i loro cuori rifugi puri per illuminarli allo stesso modo, con spirito di giudizio, nella decisione di una questione così importante. Oh acritani, esempio di saggezza! La vostra fermezza è attestata negli Atti degli Apostoli dalla parola di Luca. Come sembra, infatti, c’è in voi un solo cuore e una sola anima (Act. 4, 32): infatti, voi vi siete resi degni di lode davanti a Dio e al mondo intero. Infatti, la vicinanza dei vostri cuori, la concordia degli animi e l’accordo dei vostri propositi, in linea con l’entusiasmo della vostra risposta, ci rammentano e ci istruiscono a perseguire la vostra lodevole decisione, gradita a Dio e gli uomini, con ogni cura e attenzione. E voi state inamovibili, perché vedrete venire su di voi l’aiuto del Signore (Iud. 5, 23)”.

E data la benedizione, ciascuno tornò a casa propria.

VIII.  A quali persone venne segnalato il futuro assedio di Acri per ottenere un aiuto e disposizione delle sentinelle delle mura della città e loro difesa Dunque, gli acritani notificarono al sommo pontefice e alle altre persone già menzionateb che il sultano avrebbe assediato la città di Acri al momento stabilito, ma anche alle città vicine, alle terre e alle isole soggette alla giurisdizione dei signori cristiani, affinché – per quanto aiuto desiderassero di ottenere dagli stessi acritani per una loro sicurezza in caso di emergenza – si degnassero di soccorrerli con la dovuta attenzione almeno con qualche aiuto militare nelle difficoltà di tante ingiustizie recate loro così crudelmente. E fra queste persone, il nobile re di Cipro raggiunse Greg. Tvr., Mart., 1, 4: Archidiaconus autem coepit sursum collum extendere, aures erigere et super summis articulis, baculo sustentante, stare (“L’arcidiacono poi iniziò ad innalzare il collo, a drizzare le orecchie e, sorreggendosi col bastone, a stare in punta di piedi”). b  Il riferimento è al pontefice, ai cardinali, ai re e ai principi, citati alla fine del resoconto acritano in Excidium, 1, 6. a 

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poco a poco il porto di Acri su una nave con trecento soldati, insieme a molte altre truppe che inviarono in aiuto ad Acri le isole e le città marittime, che erano confederate con Acri in un comune vincolo di servitù (Gal. 5, 1) e erano tenute a soccorrersi l’una con l’altra. E ciascuno di loro con gli acritani si diresse verso la parte delle mura della città da tempo assegnata loro per difendere e preparare le condizioni ottimali per la difesa, portando lì pietre in varia quantità, baliste e quadrelli, lance e falcioni, elmi e usberghi, armature lamellari e imbottite, scudi con l’umbone e qualsiasi altro tipo di arma, con le quali difesero i bastioni delle mura e gli antemurali delle porte in perfetto ordine, con i loro vessilli. E quando questo venne fatto, allora reperirono circa novecento cavalieri e diciottomila fanti fra tutti coloro che abitavano la città e allo stesso modo fra tutti i nuovi arrivati armati, disponendo quattro di queste guarnigioni sopra le mura, oltre alle guarnigioni delle porte che di diritto erano assegnate a determinate persone, a ciascuna delle quali misero a capo due comandanti fra i più esperti ad assolvere un tale compito e, dividendo in due parti ciascuna guarnigione, ordinarono che ogni singolo reparto dovesse essere guidato da un comandante. Inoltre, divisero fra di loro il giorno naturale – che dal punto di vista astronomico consta di ventiquattro ore – in tre parti, per una sicura difesa, cosicché quattro comandanti di quattro guarnigioni con la corrispondente metà dei presidii provvedessero che i muri, le torri e le porte della città, a cui erano già stati assegnati, venissero difesi, come è stato detto, in caso di emergenza dai loro sottoposti armati dall’alba fino all’ora nona del giorno; altri quattro con un’altra parte del presidio dall’ora nona del giorno all’ora quinta della notte; di nuovo, i primi quattro comandanti dall’ora quinta fino all’alba e così di seguitoa. Giovanni di Grailly, già più volte nominatob, che affiancò a sé il già citato Le ventiquattro ore del giorno naturale (dies naturalis) vengono divise in tre gruppi per organizzare i turni di guardia: dall’alba a circa le tre del pomeriggio, dalle tre del pomeriggio a circa le dieci di sera e infine dalle dieci di sera all’alba. Il calcolo pare unire lo schema della suddivisione della giornata in ore canoniche con lo schema del mondo romano. b  Il testo latino ha l’avverbio sepe che in questo contesto è anomalo, visto che Giovanni di Grailly viene citato una sola volta prima di questo passo. È probabia 

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Ottone di Grandson, comandò in qualità di capitano del popolo una di queste guarnigioni. Il re di Cipro, che si affiancò al maestro dell’Ordine dei Teutonici, comandò la seconda guarnigione; ma il maestro degli Ospitalieri di Gerusalemme, che chiamò con sé il maestro dell’Ordine della Spada, comandò la terza e il maestro dei Templari, che prese con sé il maestro dell’Ordine di Santo Spiritoa, comandò la quarta. Questi sono gli otto comandanti, la cui esperienza, giudizio e solerte vigilanza guidavano allora la città di Acri. E se questi fossero stati concordi e coesi nelle decisioni, testimone Dio, la città avrebbe resistito finora e avrebbe respirato a pieni polmoni. Non intendo spiegare completamente la loro discordia e da chi sia stata mossa, ma il pacatissimo patriarca, grazie all’ufficio della sua dignità, esercitava continuamente la zelante opera della divina predicazione per animare i sentimenti fra i cittadini. La seconda narrazione, che riguarda quegli avvenimenti che accaddero a ridosso dell’assedio, durante l’assedio e durante l’eccidio, consta di tredici imprese. I.

Uscita del sultano da Babilonia verso Acri e invio di sette emiri davanti ad Acri mentre il sultano si ammalava e sulle loro imprese II. Nomina del nuovo sultano e morte di suo padre III. Arrivo del nuovo sultano davanti ad Acri, modalità dello scontro, evacuazione della città e fuga disonorevole del re di Cipro da Acri IV. Sulla breccia nel muro di Acri e sulla sua presa V. Come frate Matteo, maresciallo degli Ospitalieri, recuperò con le sue forze la città ormai presa, mentre il muro veniva abbattuto e le decisioni diventavano differenti VI. Una volta messi d’accordo, come faticando per tutta la notte tutti insieme ripararono la breccia nel muro e la difesero e organizzarono i presidii le che l’autore si sia confuso oppure è possibile che esista un’accezione attenuata dell’avverbio. In questo caso, si è scelto di tradurlo con “già più volte nominato”. Cfr. anche la traduzione francese del manoscritto Paris, Bibliothèque nationale de France, Fr. 24430: «devant noumés mesire Jehans de Grelli». a  Non è chiaro a quale ordine faccia riferimento qui l’Anonimo.

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VII. Decisione su cosa si dovesse fare e discorso consolatorio del patriarca ai timorosi VIII. Assalto degli infedeli alla catasta che chiudeva la breccia nel muro e suo crollo IX. Conflitto durante la presa di Acri e il suo recupero X. Di nuovo, conflitto durante la presa di Acri e suo recupero XI. Di nuovo ancora, conflitto durante la presa di Acri, del tutto senza il suo recupero XII. Quali famosi cristiani vennero uccisi e quali scamparono XIII. Esortazione alla Chiesa perché compianga l’eccidio di Acri, riferendo ai prelati e ai principi della cristianità

I.  Uscita del sultano da Babilonia verso Acri e invio di sette emiri davanti ad Acri, mentre il sultano si ammalava, e sulle loro imprese

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Dunque, avvicinandosi il giorno dell’assedio di Acri, uscì dal covo di Babilonia la più crudele e terribile fra le bestie terribili, assetatissima del sangue dei fedeli – ovvero il sultano –, che sarebbe avanzata contro Acri con l’imponente stuolo del popolo infedele, che nessuno poteva quantificare, fra tutte le tribù, i popoli e le lingue (Apoc. 7, 9) che vivevano fra il deserto dei monti, l’oriente e il meridione, e la terra tremava al suo cospetto per il forte rumore delle trombe, dei cembali, dei tamburi e di coloro che marciavano su di essa; mentre quelli avanzavano, il sole risplendeva sugli scudi dorati e quel bagliore si rifletteva sui monti e le punte scintillanti delle lance brillavano al sole come le stelle nel cielo di una notte serena. Quando poi l’esercito marciava, sembrava che una foresta marciasse sulla terra per la grande quantità di lance. C’era infatti un totale di quattrocentomila combattenti e ci si poteva meravigliare dove potesse trovarsi un tanto sterminato stuolo di infedeli poiché copriva la terra intera, ovvero la pianura e i monti. Ma il sultano, colto da una grave malattia, sdraiato sul letto di morte, credendo ancora di respirare, riprendendo fiato, inviò al suo cospetto sette emiri contro Acri, ciascuno dei quali aveva sotto

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il proprio comando quattromila cavalieri e ventimila fanti, istruiti nell’arte militare, e occuparono la pianura vicino ad Acri per tre miglia, che dava sulle alte torri e sulle mura della città, e posero lì le tende e ciascun emiro veniva con i combattenti suoi sudditi, facendo impeto contro la città per sei ore a turno, così da non permettere ai cittadini di avere quasi nessun riposo tanto di giorno quanto di notte. Gli esploratori infatti attraversavano i confini delle difese delle mura della città; emettevano terribili voci, alcuni muggendo come buoi, altri latrando come cani, altri ancora ruggendo come leoni, come sono soliti fare, mentre percuotevano grandissimi timpani con bastoni ritorti per terrorizzare i nemici. Dunque, alcuni lanciavano giavellotti, altri tiravano pietre, altri ancora scoccavano frecce e altri scagliavano quadrelli dalle balestre contro i fedeli che difendevano la città stando sui bastioni delle mura, ferendo alcuni di loro e uccidendone altri. Ma, per contro, quando entro i confini delle difese delle città qualcuno degli infedeli poteva essere colpito nel raggio d’azione di una balestra, di un arco, di un getto di armi o di un lancio di una pietra, non protetti, subito venivano feriti letalmente da una lancia, un dardo o quadrello oppure venivano feriti gravemente in corpo dalla pietra di una fionda; per questo, i difensori delle mura, girandosi allora dietro di loro mentre fuggivano, li deridevano con insulti facendo crescere le grida di scherno e ogni volta che uno degli acritani, pronto, usciva allora a cavallo dietro di loro – mentre gli infedeli si preparavano a tornare nell’accampamento – irrompendo quasi subito fuori dalla città nella loro ultima parte con violentissimo impeto, uccideva alcuni di loro o almeno li affliggeva con ferite gravissime e ritornava in città al suono della tromba con poco o nessun danno del tutto. Questa modalità di combattimento durò da metà marzo fino a metà aprile, senza però nessun risultato degno di essere ricordato.

II.  Nomina del nuovo sultano e morte di suo padre Quando poi il sultano capì che era imminente l’ultimo giorno della sua vita, convocando a sé i suoi fedeli amici e gli emiri

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del suo esercito, tenta, con argomentazioni razionali e abilissime e con dolci persuasioni, di ottenere da loro con tutta la mitezza che, mentre lui ormai quasi tramontava nelle tenebre della mortea, suo figlio assurga con la loro approvazione – finché è ancora in vita – al trono sultaniale al suo posto e che lo veda mantenere gli oneri dei sultani con la loro felice concessione, affinché, alla fine, possa abbandonare sereno questa vita mortale per raggiungere i suoi antenati. Quando ciò gli venne concesso con grandi lamenti e cospicua profusione di lacrime pietose, subito ordinò che venisse posta sul capo di suo figlio, secondo il rito dei saraceni, la corona regia e che salisse sulla sua mula decorata con ornamenti regali e che il figlio venisse mostrato a tutto il popolo con annunci pubblici che esortassero e ordinassero a tutti di ubbidirgli in quanto sultano, non solo in qualità di difensore della legge ma in qualità di imperatore senza alcuna opposizione. Giurarono così di essergli fedeli e di proteggere diligentemente la sua persona e lui stesso giurò in modo analogo di essere il primo a difendere la legge e, facendo un giuramento, promise davanti a tutti che, qualora fosse accaduto che il padre morisse per la malattia di cui aveva cominciato a soffrire a causa dello sforzo intrapreso per l’assedio di Acri, non avrebbe desistito mai da un tale assedio, dopo essere giunto in quel luogo, se prima non avesse cancellato dalle carte geografiche Acri, radendola al suolo. Questa promessa piacque molto a tutti e grazie ad essa stimolò mirabilmente le volontà di tutti per portare a compimento l’impegno preso. Ma alla fine, così compiute queste cose, suo padre spirò, vinto dalla malattia. Con l’amarezza nel cuore, fra dolorosi sospiri e la sofferenza generale, come di consueto fra i saraceni dal più umile ai maggiorenti, lo seppellì con i debiti onori insieme ai suoi avi. a  Gell., Noct. Att., 18, 11, 3-4: Quae reprehendit autem Caesellius Furiana, haec sunt: quod terram in lutum versam lutescere dixerit et tenebras in noctis modum factas noctescere et pristinas reciperare vires virescere, et, quod ventus mare caerulum crispicans nitefacit, purpurat dixerit, et opulentum fieri opulescere (“Inoltre, questo è ciò che critica Cesellio di Furiano: ha detto ‘infangarsi’ della terra che diventa fango, ‘oscurarsi’ delle tenebre che diventano notte, ‘rafforzarsi’ del recuperare le precedenti forze e ha detto ‘imporporare’ poiché il vento fa brillare increspando il mare azzurro e ‘arricchirsi’ per diventare ricco”).

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III.  Arrivo del nuovo sultano davanti ad Acri, modalità dello scontro, evacuazione della città e fuga disonorevole del re di Cipro da Acri Dunque, sepolto suo padre, ritornando alla promessa, il sultano mosse subito i suoi passi verso Acri, avendo fra le sue file dieci emiri, ciascuno dei quali aveva sotto il proprio comando ventimila fanti fra balestrieri, frombolieri, lanciatori e altri che obbedivano ai loro ordini e anche quattromila combattenti a cavallo, e conducendo con sé una moltitudine di macchine che lanciavano pietre, come i cannoni petrieri, i trabucchi, le manganelle e le catapultea. Raggiunse dunque l’esercito che suo padre aveva inviato davanti ad Acri con quegli strumenti bellici che aveva, con uomini armati in grande fibrillazione e con una travolgente voglia di violenza contro i cristiani. Sostò dunque per tre giorni con gli emiri e gli strateghi del suo esercito, organizzando le modalità di assalto alla città. Anche nel quarto giorno mossero gli accampamenti, avvicinandosi alla città appena fino a un miglio, dove allestirono l’accampamento con un terribile stridore di trombe, cembali e timpani e con orribile emissione di voci diverse, erigendo vicino ai muri della città di giorno in giorno macchine che lanciavano pietre, e prepararono qualsiasi congegno avevano per la battaglia che tuttavia non potevano non realizzare senza dispendio e senza una grande perdita di molte loro persone. Quando poi eressero le macchine, in totale erano, grandi e piccole, seicentosessantasei (Apoc. 13, 18)b, che, di giorno e di notte, scagliando senza sosta (Act. 12, 5) con il lancio di pietre da getto manuale verso i bastioni delle mura e dentro la città, non permettevano agli acritani di avere un attimo di pace. Così lanciarono sassi con le fionde dal quarto giorno di maggio per dieci giorni consecutivi, danneggiando poco la città, e nel frattempo i cittadini si preoccuparono che tutti i tesori con i beni e le sacrosante Guill. Tyr., Historia, 8, 6, 37: Et machinas iaculatorias, quas mangana et petrarias vocant (“E macchine da lancio che chiamano manganelli e cannoni petrieri); Ivi, 19, 28, 14-15: Machine quoque, quas vulgo petrarias vocant (“Anche le macchine che in genere chiamano cannoni petrieri”). b  Il riferimento al numero della bestia è chiaramente metaforico, così come altri riferimenti al numero sei presenti nel testo. a 

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reliquie, e anche gli anziani, i deboli, le donne importanti, i bambini e gli altri incapaci a combattere venissero trasportati su una nave dalla città a Cipro. Anche molti fra i cavalieri e fanti se ne andarono per nulla feriti con tutta la loro forza, essendosi accorti delle discordie fra i cittadini. Dunque, nessuno rimase ad Acri, se non gli uomini che erano equipaggiati con le armi, che erano tenuti di diritto a difendere la città, insieme a pochi pellegrini che rimasero, ardenti nella fede. Se tutti questi fossero stati contati, sarebbero risultati circa dodicimila e non di più valenti combattenti, dei quali forse ottocento erano cavalieri e gli altri fanti; e se i loro capitani fossero stati concordi, forse – anzi, certamente – l’intera vicenda non sarebbe stata esposta a rischio, poiché sarebbe rimasta nella consolazione della speranza di avere un aiuto. Infatti, nel quindicesimo giorno di maggio, i saraceni attaccarono con tanta grande violenza le difese delle mura che – quasi distrutto il presidio del re di Cipro per le loro discordie – sarebbero entrati in città, se non fosse calata una notte profondissima e non ci fosse stato altrove l’attacco di una piccola guarnigione di supporto che stava arrivando. Venuta dunque la notte, dopo che il maestroa dell’ordine dei Teutonici ritornò per governare il suo presidio al suo posto, il re di Cipro in persona, che al maestro aveva ceduto quel presidio, con l’accordo di ritornarvi dandogli il cambio al sorgere del sole, con prudenza se ne andò vergognosamente per mare non solo con i suoi, ma anche con quasi tremila degli altri che comportandosi proprio da nobili se ne andarono a causa della stessa discordia. Magari allora fosse soffiato un vento impetuoso e il mare li avesse travolti e fossero stati sommersi come il piombo fra le onde violente! (Ex. 15, 10)

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IV.  Sulla breccia nel muro di Acri e sulla sua presa Poi, il giorno seguente, quasi all’alba, i saraceni che arrivavano per attaccare la città lanciavano a volontà da sotto i grandi scudi Qui come altrove il testo latino presenta il termine minister per indicare il Granmaestro di un ordine cavalleresco. Non è chiaro perché l’autore impieghi il termine minister al posto di magister. a 

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da cui erano protetti quadrelli, frecce e lance contro coloro che erano predisposti sui bastioni delle mura per la difesa, ferendone molti e uccidendone altri; per contro, in modo analogo, i cristiani, lanciando dalle mura, uccidevano molti più saraceni. Quando i saraceni capirono che nessuno o ben pochi difensori apparivano sul bastione della guarnigione del re di Cipro ormai in fuga, accorrendo da ogni parte, portando legna e pietrame, terra e seta, cadaveri di cavalli e simili, livellarono il fossato riempiendolo con questi in poco tempo (Apoc. 20, 3) lungo l’estensione della facciata per cento cubiti e oltre fino alla superficie di quel bordo e alla base del muro, e procedendo immediatamente con le scale, salirono sul parapetto dei muri in gran numero. Trovando così sopra ai muri pochi difensori, che nel frattempo si erano uniti in aiuto, combattendo con loro, ne uccisero alcuni e, mettendone in fuga altri da una parte all’altra, giunsero, alla fine, a occupare con le armi le mura contro i cristiani; questi, divellendo subito una pietra dopo l’altra, spianarono la strada a tutti gli altri saraceni, radendo al suolo lo stesso ingresso per uno spazio di quasi sessanta cubiti. Entrati dunque i saraceni attraverso la breccia nel muro con un violentissimo assalto, mandata avanti una gran quantità di balestrieri, lanciatori e frombolieri, mentre stava in attesa un altro simile gruppo di cristiani predisposti alla difesa della breccia del muro, attaccandosi a vicenda gli uni contro gli altri a colpia di lance, quadrelli pungenti e di pietre lanciate dalle fionde, facevano molti morti da entrambe le parti. Tuttavia, i cristiani, rendendosi conto che altrettanti dei loro quanti dei saraceni erano esposti a rischio combattendo in questo modo, trascurando del tutto questa modalità, subito si avvicinarono ferendo i saraceni ferocemente con falcioni, grandi bastoni, lance e spade affilatissime. Per contro, mentre i saraceni reprimevano il selvaggio impeto di quelli con le punte delle lance, come fabbri all’opera su una massa incandescente di ferro (Eccli.

a  L’edizione, seguendo la lezione dei manoscritti V e N, ha il participio concussientibus in riferimento alle armi. Il verbo concussio è hapax, ma nulla esclude che possa essere uno dei molti neologismi dell’Anonimo. In alternativa, l’autore sarebbe stato influenzato dalla successiva costruzione concussionibus oppressivis. La traduzione risolve con l’espressione cumulativa “a colpi di lance, quadrelli pungenti”.

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22, 18), ovunque gli uni sugli altri, si distinguevano per i diversi tipi di ferite e per i gravosi colpi. Ma alla fine, i cristiani, non essendo capaci di sostenere l’impeto degli infedeli a causa del loro ingente numero, che gravava su di loro e veniva spesso rinforzato, vennero violentemente respinti, quasi per lo spazio di un lancio di balista all’interno della città con grandi e terribili grida degli infedeli, fra molti cristiani uccisi.

V.  Come frate Matteo, maresciallo degli Ospitalieri, recuperò con le sue forze la città ormai presa, mentre il muro veniva abbattuto e le decisioni diventavano differenti

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Per prima cosa, mentre venivano condotte queste operazioni, ai funzionari degli ordini Templare e Ospitaliero e degli altri ordini e a alcuni capitani, i quali forse, come sembrava di primo acchito, non erano d’accordo fra loro nella guida della città, venne annunciato che il posto di guardia del re di Cipro non aveva nessun difensore e che i saraceni erano ormai saliti da lì sulle mura della città durante il loro attacco, demolendole velocemente. Ma quando sentirono questo, non interessandosi affatto della comunità a causa del disprezzo reciproco, trascurando completamente ciò che era sul punto di accadere, oppressi da profondi pensieri, si rilassarono, credendo che, per il fatto di non aver acconsentito alla violazione della tregua, il sultano non sarebbe mai avanzato contro di loro come nemico; ma, avvalendosi tutti a poco a poco di una più ragionevole considerazione, nel profondo del cuorea, segretamente, sapevano che il sultano non avrebbe risparmiato nessuno, anche se avesse messo in gioco l’impegno di lealtà come mai aveva fatto, poiché – dico – il sultano era recentemente salito al trono e ai sultani appena entrati in carica è fin da tempi remoti riconosciuto un privilegio per cui qualsiasi cosa escogitino a loro vantaggio essi credono sia nel loro diritto e credono sia lecito farla; e così spesso Pruden., Hamart., 539: Cordis penetralia figens (“Trafiggendo le profondità del cuore”). a 

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per estendere la propria fama e titolo, non mantenuto un accordo, patto o altro giuramento, soprattutto nei confronti dei cristiani, si sforzano di mettere in atto quelle cose con forza contro di loro, mentre guardano girare a loro favore la ruotaa, affinché possano alla fine acquisire per questo il favore popolare. Così dunque iniziarono a capire cosa avevano fatto tempo addietro. Magari lo avessero saputo! Magari lo avessero capito! (Deut. 32, 29) Magari avessero provveduto ai fatti più recenti! Dunque, quando il maestro e frate Matteo di Clermont, maresciallo dell’Ospedale, sentendo che il sultano era già entrato in città con un grande esercito, pian piano ricorsero alle armi, così che, con usberghi e armature, con le teste protette da elmi lucenti, con scudi legati con cinghie, cavalcando i destrieri con lance ritte, uscendo dalla porta dell’Ospedale nel mezzo della città con pochi, andarono incontro alla folla spaventata dei fedeli non ancora feriti che velocemente fuggiva al cospetto degli infedeli, che affermavano con certezza che il sultano senza alcun dubbio era entrato in città uccidendo molti fedeli e che i cristiani combattevano ancora in modo terribile con i saraceni, facendo barriera perché non passassero oltre. Disse il suddetto maestro: “Oh, perché delirate, pur forti per la prestanza del corpo, per le loriche integre, gli elmi e scudi non spezzati? Mentre fuggite, non vi rendete conto della vostra eterna vergogna nel far questo? Vi scongiuro per la fede di Cristo (Act. 19, 13) di ritornare alla battaglia”. Mentre egli diceva queste cose, il suddetto maresciallo, spronato il cavallo, precipitandosi audacemente a briglie sciolteb nella torma di saraceni che uccidevano i cristiani, nella quale pensò ci fosse il sultano, disarcionò il primo, perforato in mezzo al petto e moribondo, che poté ferire con la Boet., Consolat., 2, 1, 19: Tu uero uoluentis  rotae  impetum retinere conaris? At, omnium mortalium stolidissime, si manere incipit fors esse desistit (“Ti sforzi a trattenere l’impeto della ruota che gira? Stoltissimo fra tutti gli uomini, se la sorte inizia a fermarsi, smette di essere”); Ivi, 2, 2, 9: Haec nostra uis est, hunc continuum ludum ludimus: rotam uolubili orbe uersamus, infima summis, summa infimis mutare gaudemus (“Questa è la nostra forza, giochiamo a questo continuo gioco: giriamo la ruota con circolo variabile, gioiamo a mutare le cose piccole in grandi e le grandi in piccole”). b  Verg., Aeneis, 5, 818: Feris manibusque omnis effundit habenas (“Allenta tutte le briglie con le mani selvagge”). a 

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lancia, che tuttavia sembra essere fra i più coraggiosi. Passando poi da lì, afferrando l’arma di cui disponeva, assestando colpi mortali ora a questo, poi a quello, poi a un altro ancora, decapita questo, a quello spacca il fianco, abbatte un altro, morto trafitto dalla spada; quasi tutti i saraceni fuggivano da lui come le pecore fuggono il lupoa. Rendendosi conto di questo, il suddetto maestro e gli altri cristiani, che erano fuggiti davanti agli infedeli, riacquistato un animo (Iudith 13, 30) feroce, incoraggiandosi a vicenda alla battaglia, ritornarono in aiuto al maresciallo con urla fragorose, precipitandosi coraggiosamente contro i nemici, uccidevano tutti quelli che potevano colpire con la spada. Infatti, i fanti cristiani, andandosene avanti, trapassavano con le punte delle spade i cavalli dei saraceni, e mentre questi cadevano moribondi, nel cadere uccidevano in uguale modo anche i cavalieri. Quando i saraceni videro tutto questo, non avendo la forza di sostenere l’impeto dei fedeli, vennero respinti violentemente e fuggirono come potevano lasciandosi alle spalle la breccia nel muro, spinti dai cristiani di quartiere in quartiere con spade e bastoni, attraverso la breccia del muro, uccisi molti di loro, con alcuni che si sforzavano di aprire la porta di Sant’Antonio, la più vicina alla breccia nel muro. Calate dunque le tenebre della notte, si ritirarono tutti insieme dallo scontro al suono delle trombe del sultano: infatti il sultano disperò di conquistare la città quella notte.

VI.  Una volta messi d’accordo, come faticando per tutta la notte tutti insieme ripararono la breccia nel muro e la difesero e organizzarono i presidii Nel frattempo, mentre accadeva tutto ciò, la voce di un avvenimento tanto grande, correndo e divulgandosi per tutta la città, a  Ovid., Met., 1, 505-507: Nympha, mane! sic agna lupum, sic cerva leonem, / sic aquilam penna fugiunt trepidante columbae, / hostes quaeque suos: amor est mihi causa sequendi! (“Ninfa, arrestati! Così l’agnella fugge il lupo, la cerva il leone e le colombe l’aquila con ali frementi, tutti il loro nemico: l’amore è per me ragione di inseguimento!”).

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addolcì a proposito di tale indifferenza le orecchie ormai da tempo ostili di coloro che, dormienti, erano rimasti indifferenti a un avvenimento tanto grande a rischio dei loro corpi e della loro reputazione, che valutarono che questo desse prova più di ignavia che di lealtà e che acquistasse l’infamia del tradimento, se non avessero partecipato personalmente con i propri, che non avevano mandato ogni giorno presso i presidii delle mura della città e che non avevano comandato come conveniva, per offrire quel consiglio e aiuto che avrebbero potuto darea. Così allora avresti visto correre gli ambasciatori da capitano a capitano, da maestro a maestro, trasgredendo i primi consigli e assecondandone altri, se – dico – fosse potuto servire. Usciti dunque dalle proprietà e montando sui destrieri, procedettero corazzati a vessilli spiegati verso di loro, dove sentivano le grida di vittoria, andando incontro a quelli che dicevano che certamente il sultano, insieme alla massa di infedeli che erano penetrati quasi fino al centro alla città, era stato espulso dalla breccia del muro grazie alla resistenza del maresciallo dell’Ospedale con pochi fanti uniti a lui e che i cristiani rimanevano nella loro forte difesa, il che spazzò via la pigrizia di molti e incoraggiò a stare all’erta. Attraversando fino alla breccia del muro, trovarono in gran numero tanti infedeli quanti cristiani, ma saraceni più che fedeli: alcuni erano già morti, altri moribondi per le ferite subite e altri ancora giacevano in mezzo alle vie, indeboliti dall’eccessiva fatica. E scendendo da cavallo, tornarono a casa. Da quel momento, passarono il tempo quasi fino a mezzanotte a costruire una solidissima catasta che avrebbe chiuso la breccia nel muro, fatta con grandi legni e con le porte delle case della città, con una grande quantità di pietre, gettando fuori i cadaveri degli infedeli. Una volta costruitala, ordinarono che venissero portate fino a venti preziosissime baliste mobili dalle loro torri, posizionandole dietro la catasta perché lanciassero attraverso alcune fessure che avevano appositamente lasciato nella catasta, e anche cinquanta bipedili, ma ordinarono di provvedere a una quantità sufficiente I termini latini auxilium e consilium sono formule che indicano gli obblighi del vassallo. Successivamente, il rapporto di devozione verso il Signore è equiparato al rapporto con il vassallo. a 

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di balestre comuni e di quadrelli adatti a entrambi. Nello stesso luogo disposero uomini, cioè esperti tiratori, e altri che avrebbero offerto loro aiuto e, in caso di necessità, avrebbero combattuto contro i nemici con le spade, e disponendo non di meno delle difese, come erano stati abituati – secondo la quantità rimanente di combattenti, dal momento che, quel giorno, quasi duemila erano stati uccisi – andarono a casa prima dell’aurora del giorno per un’ora per riposare un po’, per ritornare alla sede dell’Ospedale e per decidere infine cosa dovesse essere disposto sul da farsi.

VII.  Decisione su cosa si dovesse fare e discorso consolatorio del patriarca ai timorosi Di mattina, prima del sorgere del sole, non indugiando oltre, si riunirono nella sede dell’Ospedale gli uomini saggi che sembravano essere i più esperti in tali trattative per decidere di comune accordo che cosa avrebbe dovuto fare in quello e in altri giorni il popolo minuto della città, privato fino a quel momento di guida e aiuto. Dicevano per certo di non vedere una via per la quale il popolo della città potesse o avesse la forza di far fronte agli assalti dei Saraceni quel giorno, poiché se avessero potuto trasferirlo altrove con una flotta di navi, lo avrebbero condotto per mare molto volentieri per salvarlo. Ma non avevano a disposizione che due piccoli dromoni, che a stento sarebbero potuti bastare per mettere in salvo duecento persone, ragion per cui, folli, si interrogavano smarriti sul da farsi. Allora, l’amatissimo patriarca, alzandosi nel mezzo, imposto il silenzio con un gesto della mano, disse: 77

“Ascolti la serenità degli esperti quello che un povero in spirito di sapienza, ultimo tra di voi, nella sua mente ha concepito si debba fare, a suo parere, per mostrarlo alla vostra fedeltà. Se però noi non abbiamo potuto resistere per niente ai principii radicalia che hanno Avg., C.  Faust., 8, 12: Germanam atque radicalem christianam societatem (“Società cristiana pura e radicale”); Avg., Bon. coniug., 24, 32: Virtutem tamquam radicalem atque, ut dici solet, matricem et plane generalem sancti antiqui patres in a 

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dato origine a questa situazione, tuttavia con la guida della ragione eravamo tenuti a opporci per mezzo di una decisione fedele ai loro effetti destinati a nuocerci. Chi ha orecchie per intendere, intenda; chi può capire, capisca, e ascoltate: ahimè, ciò che abbiamo detto finora non l’abbiamo fatto, e lo pagheremo. Sebbene dunque ora non possiamo affatto resistere alla violenza di questa gente, è bene tuttavia, visto lo stato delle cose, realizzare ciò che incombe. Ecco infatti che appare più chiaro della luce alle nostre menti che, se possiamo essere catturati in qualsiasi modo dagli infedeli, esponendoci nelle loro mani o in un’azione bellica o per mezzo di un qualsiasi accordo, non riceveremo da loro nessuna pietà, soprattutto quando non troveranno tutte le ricchezze, i beni della città, le donne e le giovani desiderabili, con le quali già si erano vantati di unirsi in un vergognoso amplesso. Dunque, bisogna scegliere di farci valere contro di loro combattendoli in una giusta guerra piuttosto che sottometterci alla loro volontà, soprattutto quando non si palesi luogo o via attraverso cui poter sfuggire dalle loro grinfie. Dunque, confidiamo nel Signore, la cui causa ora portiamo avanti dal momento che non c’è nessun altro in cui dobbiamo riporre fiducia. Infatti è scritto: È meglio confidare nel Signore che confidare nell’uomo; meglio è sperare nel Signore che nei potenti (Ps. 117, 8-9). Speriamo in Lui che vengano uccisi sempre sei o più saraceni in battaglia per ogni cristiano. Infatti, quando il re di Cipro se ne andò dalla città con i suoi e molti altri – Dio e noi sappiamo per quale istinto – a stento rimasero con noi novemila difensori dei quali oggi forse settemila sono sopravvissuti e ieri sera giacevano per le strade quasi ventimila morti. Dunque, vista la situazione, confortiamoci nella mente e rafforziamoci nell’animo e aspettiamo ciò che verrà, ponendo quanto potremo la forza per la difesa della città nell’intervento di Dio, sperando nel Signore di proteggere sempre con la nostra fedele difesa la città, nel nome virtuoso di Colui che dice ai suoi apostoli e così anche a noi: Se avrete avuto fede, qualsiasi cosa avrete chiesto nel mio nome, sarà vostra. Ciascuno di voi sa infatti, pensando a se stesso, che chiunque di voi fosse scelto dal proprio signore per combattere contro uno o più per difendere il proprio onore, senza dubbio si lascerebbe uccidere sul campo dalla punta di una spada maledetta piuttosto che ritornare con la biasimevole confessione di essere stato sconfitto. E questo chiunque lo opere exercuerunt (“Come si è soliti dire, gli antichi santi padri misero in pratica una virtù tanto radicale quanto madre e universale”).

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fa per la fedeltà che siete tenuti a mantenere integra nei confronti del vostro signore, quanto per la vergogna che rimarrebbe alla sua successione. Sapete anche però che, sebbene non tutto accada come auspicato, a chi combatte fedelmente per l’onore del suo signore, morire per lui e per il suo onore diventa un merito onorevole. Ugualmente, fratelli (Act. 1, 16), non molto diverso è come noi tutti siamo vassalli di Gesù Cristo per la fede che da Lui abbiamo ricevuto, per la quale dobbiamo essere tutti salvati. Dunque, ciascuno di voi per Gesù Cristo pensi che il Signore lo ha scelto come uno degli eletti tra i cristiani, posto come un baluardo contro la gente che non crede, per difendere la sua eredità per la legge di servitù del feudo che abbiamo detto di ricevere da Lui, soprattutto quando non ci siano altri difensori e quando l’eredità temporale si muti in eterna per meritoa. E se forse il Signore abbia voluto strappare dalle nostre mani la sua eredità a causa dei nostri o degli altrui peccati – questo non lo sappiamo – non crediate che per questo la si debba lasciare esposta ai maledetti, sulla quale non possono rivendicare nessun diritto. Dunque, per quanto non vediate alcuna via d’uscita, resistete finché possibile, e fate valere il vostro sangue quanto potrete prima che venga sparso e sforzatevi di vendicare quello già sparso. Lo dico nella vera fede, per cui tutte le cose sono possibili al vero credente, nella certa speranza, per cui viene concessa salvezza a chi spera fermamente nella fede, nell’inestinguibile carità reciproca, per cui avviene l’unione con il Signore, cioè per chi sostiene Dio e il prossimo per la giustizia. Infatti, per questa via, che il Signore prevede per i peccatori per la salvezza, potrete giungere felicemente dopo la morte alla vita eterna, senza altre penitenze. Confessate dunque l’un l’altro i vostri peccati (Iac. 5, 16), con la speranza di ottenere la misericordia da Dio Nostro Salvatore al momento della morte”.

Conclusi in breve i cerimoniali della messa, molti di loro – a chi parve giusto, ma non tutti –, scambiandosi fra di loro segni di pace interrotti da pii sospiri e singhiozzi, con abbracci amorevoli, nel legame della carità, consapevoli di esporsi alla morte per il Signore, quel giorno, con ogni devozione, presero parte all’Eucarestia. Infatti, questi e altri, che forse già avevano pianificato con prudenza la soluzione di fuggire su una nave, dicendo di scontrarsi con L’intero passo si basa sul gioco di parole della terminologia vassallatica: in latino, ligius è il vassallo, mentre dominus ligius è il signore da cui dipende. a 

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altri presso le difese delle mura che in realtà poco prima avevano abbandonato, arrivando ormai sul finire dell’aurora, riferirono fedelmente ai presidii ogni decisione che avevano preso. E ciascuno di loro, piangendo devotamente, subito confessava all’altro i propri peccati, incitandosi vicendevolmente a fare del bene. Allora avresti visto che le armi venivano affilate dalle armi; le lance venivano vibrate, gli scudi e le spade venire branditi per cogliere il modo di colpire con più frequenza e efficacia; e avresti visto preparare ogni tipo di arma sui bastioni per la difesa; avresti creduto questo pari a Orlando e quello a Oliviero ma quell’altro a Rinaldoa. Disposero per i loro cavalieri e i fanti di rimanere alle porte e ordinarono che alcuni aspettassero tra i quartieri e le vie della città per combatterli con forza, se alla fine i saraceni fossero penetrati, e portarono un gran numero di pietre di ogni dimensione sopra le terrazze delle case più alte, vicino alle porte, per abbattere con il loro lancio i saraceni che entravano. Così i fedeli cristiani, animandosi reciprocamente al coraggio, attendono l’arrivo dei saraceni nei loro presidii.

VIII.  Assalto degli infedeli alla catasta che chiudeva la breccia nel muro e suo crollo Ecco che al sorgere del sole l’aria venne scossa dallo squillo assordante delle trombe del sultano, dal terribile rimbombo di cembali e di timpani e dall’orribile emissione di voci simili ai versi animali della ressa di infedeli che procedeva verso Acri per espugnarla. E avanzando, gli arcieri scoccavano frecce, i lanciatori lance, i balestrieri quadrelli e i frombolieri pietre in un nugolo densissimo, ma gli addetti alle macchine lanciavano dalle fionde delle macchine pietre più grandi verso i bastioni delle mura, delle torri e delle porte e per la città con lo scioglimento delle fionde; a  Radulf. Cadom., Gesta Tancr., 923-924: Rollandum dicas Oliueriumque renatos, / si comitum spectes hunc hasta, hunc ense, furentes (“Diresti che Rolando e Oliviero fossero rinati, se guardi questo fra i soci con l’asta, questo con la spada, furenti”).

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altri ancora, attraverso il fossato fino alla base del muro, protetti da grandi e forti scudi, cercando di colpire con i loro sforzi, con picconi e altri strumenti simili minacciavano il crollo del muro. C’erano poi i difensori sui bastioni delle mura, che difendevano con coraggio le mura e le porte con ammirevole tattica difensiva, respingendo gli assalitori con un frequente lancio di quadrelli, dai quali venivano cuciti insieme ai loro scudi e per il lancio di sassi contro quelli che già si attaccavano alla base del muro come rospia venivano schiacciati sotto i loro scudi. Ma alla breccia del muro confluì una grandissima quantità di infedeli, che erano stati disposti in centocinquanta schiere di guerrieri, di circa duecento ciascuna. E di queste, la prima proteggeva la seconda, la terza la quarta, la quinta difendeva la sesta, la settima l’ottava, ma la nona copriva la decima: le cinque dispari imbracciavano grandi scudi, con i quali venivano protette le altre cinque schiere pari dei lanciatori, che uscivano e seguivano quelle dispari. C’erano dunque in totale mille lanciatori che al loro momento lanciavano verso i difensori della catasta quadrelli attraverso la fessura tra due scudi per poterla raggiungere con i loro congegni per farla crollare. Poi, altre centoquaranta schiere seguivano queste in serie con un gran numero di diverse macchine da guerra e con diversi strumenti bellici. Procedendo dunque verso la breccia nel muro, facendo impeto violentissimo, lanciavano con le balestre quadrelli a volontà contro i difensori della catasta. Tuttavia, i cristiani, lasciando che i saraceni si avvicinassero sempre di più, scagliarono di taglio contro la prima schiera tre quadrelli per volta da ciascuna balista verticale che, trapassando gli scudi, uccisero molti fra i balestrieri degli infedeli e fra i portatori di scudi, infilzati agli scudi stessi, e, così dispersi quelli, scagliando una moltitudine di quadrelli con i bipedili e le balestre comuni, trapassavano da parte a parte con i dardi molti di quelli che non erano protetti. Annientate dunque le prime due schiere, altre che seguivano in ordine incalzarono, attaccando con forza; affaticavano molPer comprendere meglio il passo di difficile traduzione, si è ritenuto che il testo latino vada preferibilmente letto senza la virgola apposta nell’edizione critica dopo bufones. a 

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tissimo i difensori della catasta e ne uccidevano alcuni. Ma grazie a questa tattica di difesa, i lanciatori cristiani sbaragliarono gran parte degli infedeli, che venne uccisa nell’area; per questo, il sultano, che stava abbastanza vicino, disperava di entrare in città attraverso quel punto, se non che alla fine vide – ahimè, non c’è da meravigliarsi – che i cristiani smisero di lanciare. Infatti, i quadrelli dalle baliste verticali ormai erano stati scoccati, e così quasi anche dalle altre, e non avevano più nulla da lanciare. Oh, quanto dolore, quanta sfortuna capitò agli acritani quel giorno! Ecco che il sultano, supponendo che in città si patisse questa mancanza, ordinò che tutti quanti gli assalitori che erano lungo le mura, poco alla volta – ma non alla spicciolata – si radunassero presso la breccia del muro con ogni loro macchina. Allora, tutti quelli che erano stati raccolti e disposti, al suono delle trombe, con un’ondata improvvisa, avanzando velocemente verso la catasta che chiudeva la breccia nel muro, dimenticata ogni paura dei pericoli, sgretolandola con vanghe, picconi, ganci, altri strumenti, macchine lignee e di ferro, la fecero crollare in poco tempo, come e quanto grande e quale che fosse il danno che riuscivano a fare con quegli strumenti. Per questa ragione, molti cristiani, paralizzati, esitarono su cosa si dovesse fare, quando l’amatissimo patriarca, prorompendo con voce sofferente, pregò con queste parole: “Circondaci con il tuo muro inespugnabile, Signore, e proteggici con le armi della tua potenza”. Allora i fedeli, confortati, si opposero agli assalitori saraceni, che si sforzavano di irrompere in città, con falcioni, lance, e con ogni altro genere di armi, invocando il nome di Cristo gridando a squarciagola. Ma lì al momento, i saraceni risposero invocando per contro il nome del loro Maometto: “Oggi venite circondati dal muro della vostra cattiva fede perché ecco che arriva su di voi nella vita mortale quel giorno, il giorno d’ira, di angoscia e di afflizione (Soph. 1, 15): infatti, voi incombete oggi minacciosi sulle spade dei vostri nemici e la terra sarà inebriata dal vostro sangue (Is. 34, 7) che i vostri nemici assetati spargono con desiderio e verranno saziati nella vostra disgrazia perché solo allora apparirà la nostra gloria”.

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IX.  Conflitto durante la presa di Acri e il suo recupero

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Ma mentre dicendo questo gli infedeli si precipitavano per ostacolare i cristiani con il loro impeto, per contro i cristiani, fatta prorompere una terribile voce, rendevano il dovuto recando ferite letali ai saraceni e, dato il segnale con la tromba, con afflato coraggiosissimo, scesero in aiuto dai presidii delle mura per le strade e le terrazze fino alle porte della città, con il supporto di coloro che da sopra le porte e le torri vicine difendevano l’ingresso dai saraceni. Allora avresti visto avviarsi una guerra spietata fra gli assalitori saraceni e i fedeli che difendevano la città. Infatti, alcuni fra i cristiani con le punte delle lance, altri con grandi bastoni, altri con falcioni e altri con ogni tipo di arma impedivano l’accesso ai saraceni, mentre altri ancora colpivano molti degli infedeli con il lancio di pesanti pietre; per contro, i saraceni, protetti da grandi scudi – come abbiamo detto – non badando molto a ciò che facevano i cristiani, quando li raggiungevano con le spade, li uccidevano crudelmente così che alla fine fu necessario per i cristiani cedere ai saraceni, poiché prevaleva la selvaggia ferocia degli infedeli. Dunque, entrando i saraceni con impeto quasi per lo spazio di un lancio di balestra dentro la città, sottomettendo in una strage mortale con fragorose voci, i cristiani dovettero retrocedere. Udite queste voci per tutta la città, quando giunsero in aiuto coloro che si erano riposati un po’, fra i quali c’era il già citato frate Matteo, maresciallo dell’Ospedale, combattendo con ammirevole tecnica e coraggiosa destrezza, con una immensa strage di infedeli e massacrandoli con il lancio delle pietre che venivano emesse dalle terrazze, respinsero vergognosamente i saraceni attraverso la breccia.

X.  Di nuovo, conflitto durante la presa di Acri e il suo recupero Riorganizzate dunque le schiere degli infedeli, giunsero forze fresche (Deut. 32, 17); si sforzavano in tutti i modi di attaccare per riuscire, stremati i fedeli, a entrare in città; in ogni modo possibile,

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non lasciavano che i cristiani riprendessero fiato per il tempo di un batter d’occhio. Ma per contro i cristiani, resistendo al solito modo, con le punte delle lance, i falcioni, i grandi bastoni e con un lancio di pietre, respingevano coraggiosamente i saraceni, stendendone a terra molti moribondi. Ma mentre molti cristiani erano scesi dalle torri e dalle porte vicine in soccorso di coloro che difendevano la breccia del muro, nel frattempo i saraceni sferrarono un assalto violentissimo abbastanza vicino alla porta di sant’Antonio, con impeto improvviso, con ogni mezzo che potevano, soprattutto distruggendo con il fuoco le porte. Ma anche molti altri che erano rimasti sopra la porta per difendere l’ingresso dai saraceni, secondo quel che era loro possibile per la difesa, attaccavano coraggiosamente con lancio di pietre e getto di quadrelli. Ma alla fine, sfondate le porte, quando la ressa di infedeli venne sommersa, un’innumerevole folla di infedeli a cavallo entrò violentemente con le lance, con cui trapassarono i cristiani nel loro assalto. Per contro, i cristiani, resistendo, si sforzavano con un comportamento ammirevole nell’assiduo compito di infliggere qua e là grandi colpi di spada e di trafiggere con le loro punte, lasciando a terra saraceni moribondi, così che alla fine gli infedeli vennero messi in fuga violentemente fuori dalla porte della città grazie al suddetto maresciallo insieme a pochi fanti a lui uniti che uccidevano i cavalli degli infedeli, mentre venivano eliminati molti degli infedeli che erano penetrati in città ingenuamente e con un atto temerarioa.

XI.  Di nuovo ancora, conflitto durante la presa di Acri, del tutto senza il suo recupero Allora, quando il sultano vide che i suoi avevano ripiegato su una vile fuga e che i cittadini resistevano armati alle porte della a  Greg. M., Moral., 10, 16: Unde Sophar nequaquam ueritus ausu temerario docere meliorem (“Perciò Sophar non temendo mai con atto temerario di istruire il migliore”); Greg. M., Epist., 2, 13, 19: Quod quidam Exuperantius episcopus ausu temerario in diocesi ipsius oratorium construxerit (“Poiché certo il vescovo Esuperanzio con atto temerario aveva costruito un oratorio nella diocesi di quello”).

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città e alla breccia nel muro, non rifletté a lungo sul da farsi, ma subito, dato il segnale della tromba, tutto il suo esercito si riversò verso di lui, abbandonando i suoi assalti in diversi luoghi e pronto a ubbidire. C’erano fra di loro molti schiavi, detti “falsi cristiani”, ai quali venne promesso da parte del sultano che, se fossero tornati dall’assalto quel giorno con la città ancora in grado di resistere, i loro lavori forzati sarebbero stati raddoppiati per sempre; ma se grazie a loro la città fosse stata distrutta, da quel momento loro e i loro discendenti sarebbero stati ritenuti per sempre liberi dai lavori forzati sotto le leggi dei nobili. Allora, avresti visto che i maledetti si affrettavano ad assalire la breccia del muro e le porte ormai bruciate, adottando le strategie che potevano, protetti da grandi scudi, come abbiamo detto. Vedendo questo, i cristiani, scendendo subito, al segnale della tromba, dai bastioni verso la breccia nel muro e le porte, si unirono agli altri per dare manforte alla difesa. Però, ahimè, tutti questi sono pochi per poter far fronte agli assalti di tanti e tanto possenti infedeli: infatti, molti loro valorosi erano già stati uccisi nei precedenti conflitti, sebbene fra gli infedeli ne avessero ucciso in battaglia il sestuploa. Dunque, ricomincia una guerra terribile, nella quale si uccidevano ferocemente l’un l’altro, gettate qua e là grida di terrore, così che neppure Dio tonante avrebbe potuto essere sentito dal cielo. Così, dunque, i cristiani affrontano tanto i fanti quanto i cavalieri saraceni con coraggiosa aspettativa, con le punte delle lance, con spade, falcioni e altri tipi di armi con le quali potevano difendersi uccidendo gli infedeli in ogni modo. Ma invece i soldati degli infedeli, radunati in un grandissimo stuolo, avvicinandosi ai cristiani che avrebbero difeso la breccia del muro e la porta di sant’Antonio, con un assalto improvviso, attaccarono in groppa ai cavalli con una tanto grande forza e con un tanto fitto getto di lance che, ucciso un gran numero di fedeli, fu inevitabile che i cristiani, pur rimanendo sempre intrepidi sulla difensiva, retrocedessero per l’impeto della forza o della calca È da intendere come un altro riferimento al numero della bestia dell’Apocalisse. La lezione del manoscritto N (septuplo) può essere una reminiscenza dell’espressione in septuplum frequente nella Vulgata. a 

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dentro la città quasi per lo spazio di un lancio di pietra. Anche in quell’occasione, da entrambe le parti avresti visto le teste di molti amputate dai toraci e da quelli le spalle spaccate in due, da questi le mani staccate dagli avambracci; avresti visto che alcuni venivano aperti da altri fino a metà del collo, altri venivano trapassati a metà dalle punte delle lance o delle spade e altri venivano squarciati di traverso e avresti visto anche che, morendo, si contorcevano dal dolore nel sangue degli uccisi: quello moriva rigirando gli occhi, questo spirava col volto contorto, un altro trovava la morte prono, quest’altro, stremato dalla sofferenza, trapassava con la lingua guizzante, ma un altro ancora, sebbene stesse morendo, si sforzava di rialzarsi con tanta fatica per la vendetta. Così dunque da entrambi gli schieramenti venne fatta una strage tanto grande che non si vedeva luogo in cui qualcuno potesse camminare se non sopra i corpi morti che giacevano smembrati dappertutto. Che altro dire? La forza degli infedeli crebbe, quando diminuì il potere dei fedeli. Quando alla fine i saraceni conquistarono la città, pur stando sempre a combattere ancora circa mille cristiani, condotti con le spade fino al castello del Tempio dagli infedeli e lì resistendo come potevano, alla fine vennero spinti in quello dall’impeto della forza degli infedeli. Ahimè! Chi potrebbe elencare tutti insieme o solo immaginare le perdite di quel giorno che avvennero fra gli acritani? Se qualcuno sa di più, lo dica! Tuttavia, i fedeli che rimasero nel castello del Tempio vennero assediati dagli infedeli.

XII.  Quali famosi cristiani vennero uccisi e quali scamparono Mentre dunque accadevano questi fatti nei primi conflitti, mentre i saraceni entravano in città, il maestro del Tempio, che con i suoi fratelli – anche se tardi – si affrettava a difendere la porta di sant’Antonio, trafitto da una lancia, costretto a disarcionare, cadde, ahimè, a terra moribondo; vicino alla breccia del muro, durante lo stesso assalto, il maestro dell’Ospedale, ferito mortal-

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mente in più punti, ucciso il cavallo su cui montava, sottratto a stento dai suoi che lo portarono fino al mare, venne fatto salire su un dromone. Allo stesso modo, il patriarca venne trascinato controvoglia, costretto dalla forza dei suoi fino al porto, e gridava con voce lamentosa: “Ecco, per voi, che mi avete trascinato controvoglia, sono mattoa e lascerò che il gregge a me affidato muoia in tale pericolo”. Ugualmente, Giovanni di Grailly, capitano di Acri, e il già detto Ottone di Grandson, lasciando i propri presidii, con certi che si comportarono da nobiluomini, con armature integre, fuggendo verso il mare all’inizio della vicenda, rifiutando vergognosamente le azioni militari e oltrepassando i limiti della carità in maniera disumana, salirono su una nave. Ahimé! Tutti questi, mentre prosperavano nelle Gallie fra i Galli tutti tra pari, simulando con i denti che avrebbero roso il ferro con fiera audacia, affermavano a vanvera, ostentando sfacciate parole, di patire la morte piuttosto che fuggire in qualsiasi modo dal conflitto. In verità, non fuggirono dal conflitto perché al conflitto non parteciparono mai… Invece, ritornando illesi e abbandonando i loro sottoposti, fuggirono per paura, disperando di se stessi – come credo – e non chiedendosi come stare saldi in Dio. Ma frate Matteo di Clermont, maresciallo dell’Ospedale, vedendo che tutta la milizia degli Ordini era stata uccisa e che quella laica era fuggita e che un gran numero di civili era ormai morto per la ferocia degli infedeli, e non credendo di fare tanto con le armi affinché il popolo restante – che era poco – potesse avere la a  In latino si legge l’aggettivo delirus, per cui cfr. Isid., Diff., 1, 140: Demens est cuiuscunque aetatis amens, et sine mente, delirus autem per aetatem mente defectus: dictus autem ita, eo quod recto ordine, quasi lira, aberret. Lira enim est arationis genus, cum agricolae facta semente dirigunt sulcos (“Demente è il folle di qualsiasi età che è senza ragione; delirante è chi perde la ragione per l’età: così si dice perché si allontana dalla retta via, come un solco, ossia lira: infatti la lira è un modo di arare, quando gli agricoltori raddrizzano i solchi, una volta fatta la semina”); Isid., Etym., 10, 78: Delerus, mente defectus per aetatem, apo tu lerein, uel quod a recto ordine et quasi a lira aberret (“Delirante: colui che perde la ragione per l’età, apo tu lerein, ossia sragionare, oppure perché si allontana dalla retta via come da un solco, cioè lira”). La resa italiana adotta il più frequente “matto”, perdendo così il senso paraetimologico di Isidoro.

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speranza di respirare, spronato il cavallo, precipitandosi nel mezzo della schiera come un ossesso e oltrepassando con la forza del destriero la porta del beato Antonio al di là di tutto l’esercito, atterrò con i suoi colpi molti fra gli infedeli lasciandoli moribondi. Infatti, come le pecore scappano davanti al lupo senza sapere dove andare, così gli infedeli si sparpagliano davanti a lui da tutte le parti e, mentre ormai allo stesso modo ritorna fino al centro della città attraverso la stessa porta, nonostante il destriero fosse parecchio affaticato e non riuscisse più a saltare ma facesse piuttosto resistenza agli sproni, si fermò in mezzo alla strada come pietrificato e da lì è colpito con lance e è gettato a terra, viene trapassato dalle punte delle lance mentre il cavallo cade e così quel fedele combattente, cavaliere di Cristo (2 Tim. 2, 3), rese la sua anima al suo Creatore. Infatti, molti di loro fra quelli che si erano ritirati dal cospetto dei saraceni nel castello del Tempio, nuotando e esponendosi ai pericoli del mare, giunsero fino a coloro che erano saliti sulle navi, fra i quali il devoto patriarca ne accolse tanti sulla sua nave, che quella, toccando il fondo per il peso delle persone, naufragò e così vennero tutti sommersi. Sette fratelli abbandonarono il conflitto con il maestro dell’Ospedale e anche dieci dei fratelli del Tempio, che elessero fra loro come Granmaestro il fratello Gaudin detto “il monaco”. Questo stabilì con il sultano un nuovo accordo, ossia che i cristiani che erano nel castello del Tempio e lui stesso ritornassero, con il suo permesso, sani e salvi alla nave con i fratelli e abbandonassero così infine il castello del Tempio in una sola volta, portando qualsiasi cosa di loro proprietà volessero. Il sultano, dunque, inviò lì trecento uomini in armi per controllare che i fedeli non portassero via più del dovuto. Dunque, mentre i cristiani aspettavano l’imbarcazione, quei maledetti si sforzavano di separare le donne e i bambini nei luoghi più nascosti del castello per abusare di loro, macchiando la chiesa con volgari oscenità dal momento che non potevano fare nient’altro. Quando i cristiani videro questo, non riuscendo a sopportarlo, si diressero dal maestro per lamentarsi degli infedeli. Ma questo rispose: “Ahimè, figlioli, mi rincresce: io non posso fare nulla”. Quando questi udirono ciò, chiuse subito prima le porte, si scagliarono coraggiosamente contro gli infedeli e uccisero tutti, dal più insi-

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gnificante fino al più importante, qualsiasi danno loro patissero, rafforzando per la difesa le mura, le torri e le porte del Tempio. Quando il sultano venne a conoscenza di ciò, ordinò che tutti i suoi si riunissero nel castello del Tempio, per aggredire il giorno seguente. “Quegli scelleratissimi traditori ai quali aveva concesso di allontanarsi liberamente per carità per il favore della vittoria che aveva avuto da loro con la concessione di Maometto”. Valutando questo, Gaudin il Monaco si sforzava di placare il sultano quanto più poteva in merito all’accaduto; ma poiché non riusciva a ottenere quello che chiedeva, con l’arrivo della notte, mentre i fedeli vigilavano contro l’astuzia degli infedeli per difendere il castello contro di loro, con l’aiuto dei fratelli, deportò felicemente verso il mare ciò che poté dei tesori con le sacrosante reliquie della chiesa del Tempio per tutta quella notte, con la sua abilità e forza. Dunque, da lì attraversò il mare con cautela fino a Cipro, remando sano e salvo con i fratelli e pochi altri. Di quelli che rimasero nel castello del Tempio, difendendo se stessi nella provvidenza di Dio, non si sa con certezza cosa sia accaduto – Dio solo lo sa – se non che si crede con devozione alla versione più onorevolea, ossia che si fecero valere in battaglia nel modo migliore. Poi, dopo queste cose, a quelli che spesso si spostano per mare sembrò che i saraceni avessero distrutto la città, radendola completamente al suolo.

XIII.  Esortazione alla Chiesa perché compianga l’eccidio di Acri, portandola ai prelati e ai principi della cristianità Ora esultano i cani latranti degli infedeli e, ahimè, per il tanto grande eccidio di una città tanto grande e per la strage di tante persone cristiane tutti i saraceni si compiacciono. Invece, il popolo fedele per questo non smetta di piangere, ma le guance si bagnino dei rivoli fluenti di abbondanti lacrime e i cuori siano affranti dal dolore dei sospiri di devota compassione. Piangi, figlia di Sion Nel testo latino, il termine al comparativo sanctiori retto dalla preposizione pro è hapax, oltre ad apparire costruzione anomala. Qui si è tradotto liberamente con “alla versione più onorevole”. a 

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(Mich. 4, 10), per la tua amata città di Acri, e non tacciano le pupille dei tuoi occhi. Piangi, figlia di Sion, i capi che ti difendevano in caso di necessità, tanto il sommo pontefice e i cardinali con gli altri prelati della chiesa e il clero, quanto i re, i principi, i baroni e i cavalieri cristiani che, pur dicendo di essere nobili generosi, dormivano in una valle non di lacrime, ma piena dei piaceri del peccato e hanno lasciato da sola e indifesa la città piena del popolo cristiano come in un vasto deserto, come una pecora in mezzo ai lupi. Questi sono coloro che, sonnecchiando, salirono a cavallo con superbia e noncuranza (Ps. 30, 19), dimenticandosi del bisogno della città di Acri e della sua disperazione. Altri ovviamente, che dovrebbero guidare la chiesa di Dio con devozione e spirito di umiltà, ostentando in pompa magna la grandezza della loro gloria e pretenziosamentea fra tutti, sedendo sulla cattedra della pestilenza e nella sede dell’iniquità, non solo spendono i beni del Crocifissob – che dovrebbero essere spesi per usi religiosi – per ambizione personale, erigono torri, costruiscono palazzi e decorano stanze con una varietà di pitture preziose, ma per questo, in molti e vari modi, con ogni mezzo lecito e illecitoc, si sforzano di estorcere le sostanze dai poveri, che per essi sono vitali. Eppure, sono stati accolti in mezzo al popolo come sapienti per la guida della Chiesa affinché siano i veri dispensatori dei beni del Crocifisso e della fede, e questi sono, a  Il testo latino riporta vaniflue. Esiste il termine vaniflavus, “pretenzioso”. Forse l’autore inserisce una forma creata per analogia. b  Il sintagma rimanda al componimento La Nouvelle Complainte d’Outremer di Rutebeuf. Cfr. Canzoni di crociata – ed. S. Guida, Milano 2001, p. 175-177: “Chierici spensierati e ben riposati, ben vestiti e ben provvisti del patrimonio del Crocifisso, vi prometto e vi assicuro che, se voi ora mancate a Dio, Egli verrà meno a voi nel momento supremo. […] Dio vi fa del bene; fate perciò a Lui dono del vostro corpo, del vostro cuore e della vostra anima e agirete da uomini prodi e saggi. Ora ditemi, quale vantaggio vi può procurare il vostro tesoro quando l’anima si sarà separata dal corpo?”. c  Luc., Bel. civ., 5, 310-314: Non pudet, heu, Caesar, soli tibi bella placere / iam manibus damnata tuis? hos ante pigebit / sanguinis? his ferri graue ius erit, ipse per omne / fasque nefasque rues? lassare et disce sine armis / posse pati; liceat scelerum tibi ponere finem (“Non ti vergogni, Cesare, che solo a te piacciono le guerre, condannate ormai dai tuoi soldati? Per primi a loro dispiacerà il sangue? Per loro il diritto alle armi sarà gravoso, tu stesso accusato di ogni cosa lecita e illecita? Lascia! Impara che si può patire senza le armi: sia lecito, da parte tua, porre fine ai delitti”).

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ahimè, coloro che però – scrutando più a fondo con la superbia dei loro occhi (Eccli. 26, 12) – sono stati del tutto privati della luce, che sono stati contaminati dalla follia del piacere nei desideri carnali, che – prostrati dal peso della ricchezza – non essendo capaci di alzarsi, sono stati confusi nella mente, legati strettamente nelle funi dell’avarizia. A proposito di questi, infatti, si può intendere ciò che viene detto dal Salmista per loro: Salgano fino al cielo non condannando a parole, ma opponendosi coi fatti e scendono fino agli abissi distorcendo nelle loro opere, la loro anima si consumava nel male allontanandosi dalle opere di innocenza e non ritornando a quelle, e perciò sono stati turbati e sono stati sconvolti come un ubriaco e ogni loro facoltà intellettuale è stata distrutta (Ps. 106, 2627). Anche altri, forti nel fiore degli anni, irritano e annebbiano vergognosamente la nobilissima ragione aggredita dalla viltà degli ozii e della debolezza dell’animo o perseguitandola come nelle incessanti corse con i cani dietro le fiere, suonando il corno tutto il giornoa, per prendere un vile maiale o un cerbiatto scabbioso, trascurando gli oneri del loro regno nel disprezzo della loro autorità, non solo rovinando la loro persona e il seguito, ma esponendoli ai pericoli della morte. Di questi infatti dice Abacucb: Dove sono i principi dei popoli e quelli che dominano sulle belve che sono in terra? E quelli che si divertono con gli uccelli del cielo? Come se dicesse: “Coloro che hanno abbandonato la via della ragione (Prov. 4, 11)”. Inoltre, altri fra questo genere di uomini, facendo finta di avere a cuore la causa di Dio per compassione e vantandosi di vendicare le offese a Lui rivolte, ammassano denaro, raccolgono argento e oro, estorcendo, con violente richieste, ai sudditi e alle povere chiese da loro dipendenti, ma non sembra che facciano questo per fare quello che mettono in scena nella loro simulazione, ma per arL’espressione è metafora venatoria e si riferisce al corno da caccia. La citazione in realtà, così come la successiva, è tratta dal libro di Baruch 3, 1617: Ubi sunt principes gentium et qui dominantur super bestias quae sunt super terram qui in avibus caeli inludunt (“Dove sono i capi delle genti e chi dominerà sulle bestie che sono sulla terra, che divertono gli uccelli nel cielo?”). La lezione è tradita dai manoscritti L e E; N lascia uno spazio vuoto; V erade il nome del profeta e inserisce Ieremias a margine. La prima citazione ha un parallelo in Geremia, perciò è una intelligente ricostruzione di V. a 

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raffare con violenza regni e dominazioni loro vicini, per estorcere e per aggiungere al loro regno, rimandando nel futuro il compito principale del quale si erano ormai vantati. A proposito di questi poi si può comprendere ciò che segue a quanto ho detto secondo le parole di Abacuc: Dove – il resto si sa –, e chi raccoglie argento e oro in cui gli uomini confidano, e non c’è fine al possesso di quelli che lavorano l’argento e si danno da fare e non c’è invenzione nei loro lavori come a dire che non diano loro un vantaggio pacifico né in questa vita né in eterno. Ahimè, tutti questi e molti altri uomini dell’uno o dell’altro gruppo, andando alla ricerca non di ciò che è di Dio, ma di ciò che è loro (Philipp. 2, 21), spendono inutilmente e consumano i loro tesori in strane abitudini senza loro onore e vantaggio, posposta la gloria di Dio, depredando in ogni modo i poveri con tali attenzioni nel loro disonore, nella loro infamia e nel pericolo dell’anima. Ahimè, cos’altro dirò? Da entrambe le parti, ahimè, ambizione; da entrambe le parti avarizia, ahimè, da entrambe le parti disgrazie per i poveri! Magari avessero buon senso e capissero e provvedessero agli eventi più recenti, ma finora non hanno voluto capire come fare del bene. Tuttavia, prego Cristo perché faccia loro visita, ispirando le loro volontà affinché abbandonino la propria gloria e ricerchino solo quella di Dio nel recupero della Terra Santa. Amen.

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TADDEO DI NAPOLI STORIA DELLA DESOLAZIONE E DELLA DISTRUZIONE DELLA CITTÀ DI ACRI E DI TUTTA LA TERRA SANTA

STORIA DELLA DESOLAZIONE

A TUTTI I FEDELI DI CRISTO, PER UNA PERPETUA MEMORIA DI COMPASSIONEa Chi spargerà l’acqua dell’amarezza sulla mia testa, da poco appesantita da sofferenze maledette? Chi offrirà ai miei occhi, scoppiati a piangere, una pioggia di lacrimeb perché io descriva piangendo e pianga descrivendo le angosce di una tanto terribile calamità, dalle quali tutta la cristianità, ahimè, viene macchiata? Se qualcuno osserva il dovere della pietà e la distruzione dello sventurato popolo cristiano che il predone orientale e il barbaro nemico hanno compiuto, avrà prestato attenzione e avrà destato nella memoria un senso di religiosa considerazione. Infatti, non esiste nessuno tanto crudele e feroce – se non forse chi, contrariamente alle abitudini umane, voglia degenerare in bestia o abbia un cuore più insensibile della dura pietra – che non esali un sospiro di angosciosa compassione per piangere o non prorompa nel più copioso gemito dell’intima pietà o il suo cuore non si abbandoni totalmente ai lamenti di un angoscioso dolore, dopo aver udito la disfatta di una tanto grande strage, per la quale, ahimè, nella famosa città di Acri, ricca per l’abbondanza di ogni bene e famosa per i titoli di molte nobiltà, una tanto numerosa folla di uomini e donne fedeli si è trovata prostrata ai nostri giorni. Infatti, il grido molto forte dei popoli fedeli – in parte uccisi in guerra, in parte fuggiti dal cospetto del persecutore e in parte tenuti per il sacrificio (Ier. 51, 40) o per la miserabile condizione di servitù – da poco risuonò in tutto il mondo e la notizia dello spargimento di sangue cristiano, pretendendo una punizione da parte degli eserciti del Signore e chiedendo incessantemente la vendetta dello scempio perpetrato – mai udito dal mondo! – contro la bestia orientale, scritta ovunque con i nomi della blasfemia, salì dalla terra (Apoc. 13, 11) poco fa e giunse alle orecchie del vicario di Cristo e dei principi L’incipit rimanda all’epistola gioachimita Universis Christi fidelibus (“A tutti i fedeli di Cristo”). Cfr. Ioach. Flor., Scripta, p. 336-369. b  Hier., Epist., 22, 30: In haec sacramenti uerba dimissus reuertor ad superos et mirantibus cunctis oculos aperio tanto lacrimarum imbre perfusos, ut etiam incredulis fidem facerent ex dolore (“Durante le parole del sacramento, mi rivolgo, abbandonato, al cielo e, mentre tutti guardano, spalanco gli occhi, inondati di tanta pioggia di lacrime affinché dessero fiducia agli increduli per il dolore”). a 

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ortodossi di quest’epoca contro il sultano, re dell’Egitto, a capo della gente di Babilonia. Questo, in qualità di antico nemico del culto e del nome cristiano, tronfio per la tipica ferale follia e superbo per il favore e insieme per la gioia di una transitoria prosperità, mentre nella sua mente aveva rafforzato le inique ambizioni su spinta della malvagità di colui che nel cuore di un popolo malvagio e degenere (Philipp. 2, 15) fa ardere con il suo fiato il carbone delle macchine, mentre aveva pensato di innalzare lo scranno della sua superbia perfino contro Dio nell’alto dei cieli, prendendo a modello suo padre Lucifero, e mentre infine aveva deciso di cancellare la memoria della venerazione cristiana dai confini di tutta la Terra Santa con l’arroganza della sua grande potenza, radunate le truppe dei suoi sgherri e raccolto un corposo esercito di popoli a lui sottomessi – il cui numero viene rafforzato dalla bestia stessa – contro Cristo Signore e il suo popolo cristiano consacrato, il cui sangue bramava di spargere e bere per la disumana prepotenza dell’insaziabile furore, sorgendo vigorosamente ostile contro la preda, [L’assedio della città] e nel quinto giorno del mese di Aprilea quando i re mossero guerra, intorno a quella città – che era difesa ovunque a sufficienza nella parte settentrionale e orientale dalla solidità di una profonda trincea, da una cerchia di forti mura, dall’abbondanza di alte torri e da altri presidii a sua tutela e che era equipaggiata da numerosi e vari strumenti bellici; invece, nella zona occidentale e meridionale, era circondata ovunque dai flutti marini (essendo il litorale ripiegato come un semicerchio) – nella rovina e nell’odio delle anime soltanto di coloro che confidavano in Cristo Signore, collocando in quel perimetro i fatali accampamenti, così nel corso di quarantaquattro giorni sottomise via terra quella città con il poderoso e forte stuolo dei suoi eserciti con un assedio strettissimo da mare a mare (Eccli. 44, 23), [L’occupazione della città] abbattendo le torri con incessanti attacchi anche dei colpi delle macchine da guerra – come se fossero fulmini che cadono dal cielo – rompenL’assedio mamelucco della città di Acri inizia il 5 Aprile 1291 e dura quarantaquattro giorni, fino alla conquista della città, avvenuta venerdì 18 maggio 1291. a 

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do i muri e radendo completamente al suolo gran parte delle sue difese; spaventò la città di continuo, di notte e di giorno, la rovinò e la indebolì; dunque, con punte di innumerevoli frecce che cadevano ovunque sopra le teste dei difensori, solcando il cielo con graduale densità, come piogge – delle quali il costante e continuo lancio era ostile non solo agli uomini ma anche all’aria e al cielo – ferivano a morte gli uomini armati che erano stati scelti per la difesa della città in base alla diversa posizione assegnata a ciascuno e impedivano a chi non fosse armato di difendere le mura, così, con attacchi giornalieri e incessanti conflitti, la espugnò con forza, poiché, superate alla fine le truppe dei difensori nel diciottesimo giorno di maggio – un venerdì, giorno famoso per la memoria della passione del Signore – conquistò nell’ira del suo furore tanto la città quanto i suoi abitanti, non senza una grande strage dei suoi sottoposti. Preannunciando questo evento, l’esimio profeta Geremia, santificato nel grembo materno, che compianse con i tristi versi delle Lamentazionia le stragi della distruzione di Gerusalemme, che tante volte si sarebbero dovute compiere nei tempi futuri durante i massacri delle guerre, ogni volta che i peccati dei fedeli – che lì non vivevano né con devozione né in luce di santità, come è proprio di quella terra – avessero meritato l’ira e l’indignazione del Signore, profetizzò attraverso il suo vaticinio sul re dell’Egitto. Con queste parole, disse: Ecco: ruggirà come un forte leone e volerà come un’aquila. Si eleverà e espanderà le sue ali sopra Bosra e il cuore dei forti di Edom in quel giorno sarà come il cuore di una donna partoriente (Ier. 49, 22)b. Cosa si può intendere infatti con “Bosra”, che significa “la difficoltà”, e con “Edom”, che significa “il sangue”c, se non la triste città di Acri, che nel giorno della sua desolazione fu angua  Il libro biblico delle Lamentazioni era attribuito, nell’antichità, al profeta Geremia. b  Bosra è una città che si trova nella Siria del sud, al confine con la Giordania. Edom (nell’antichità conosciuta come Idumea) è una regione della Giordania meridionale e prende il nome dal popolo nomade degli Edomiti, che qui si stanziò fra i secoli XII e XI a.C. c  Hier., Nom. Hebr., 3, 26: Bosra in tribulatione uel angustia (“Bosra in tribolazione o difficoltà”).

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stiata da tanti e tali dolori angosciosi e divenne rossa per le tante ferite e venne bagnata ovunque dal sangue cristiano? [Il tumulto del popolo, con la città ormai occupata] Ahimè, mentre la città si trovava nel mezzo della spedizione ormai conquistata, esposta e consegnata miseramente nelle mani dei nemici, veniva udito ovunque per le piazze, le vie, le case e i crocicchi della sventurata città il grido terrificante e il reboante urlo di uomini, giovani e donne che gridavano e che si vedevano stretti nelle grinfie dei nemici senza alcuna via di fuga, come in una rete da pesca, resi tanto disgraziatamente schiavi dalla ferocia barbarica. Allora io non dubito che il riverbero di quel grido fosse giunto alle orecchie di Dio, che governa le vite umane e permette di punire i peccatori cristiani, con un crudele ma giusto giudizio (Deut. 16, 18), e, mentre tutti appassivano per l’angoscia del timore e della disperazione – poiché i cuori tremanti di tutti erano spaventati, mentre ciascuno vedeva la morte imminente su di sé – ormai non erano rimasti più a nessuno né il conforto né la speranza per evitare i mali incombenti, ma, ahimè, al posto della salvezza del desiderato conforto, c’erano soltanto dolore, stupore e lamenti negli animi disperati dei miseri. Infatti, a coloro che restavano per essere torturati o che erano destinati alle catene della vergognosa schiavitù, la sorte e il destino sembravano più aspri e più infelici di quelli di coloro che cadevano in guerra e uccisi di spada. Allora tutti invocarono il Signore dal profondo di miserie tanto grandi di fronte all’oppressore (Is. 19, 20) perché li ascoltasse e perché Lui – a cui si addice commiserare piuttosto che infuriarsi, il solo che allora avrebbe potuto liberarli – liberasse con misericordia gli sventurati dalle stragi e dai mali incombenti, per i quali erano diventati simili a coloro che discendono nel lago (Ps. 142, 7). Tuttavia, Lui, per le molte trasgressioni per le quali tante volte ormai Lo avevano provocato contro se stessi, giustamente, pieno di zelo e irato contro il suo popolo, girò loro le spalle e trattenne dentro di sé le sue antiche misericordie con le quali era solito risparmiare con clemenza solamente coloro che, mortificati nel cuore, non per paura della pena, ma per amore di giustizia si rivolgono umilmente con aromi di virtù al Signore che richiama alla penitenza. Così infatti il Signore minaccia i reprobi nei Proverbi, attraverso le parole di Salomone. Dice:

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“Rivolgetevi alla mia ammonizione. Ecco: io vi offrirò il mio spirito. Infatti, io ho chiamato e voi avete rifiutato; ho porto la mia mano e non vi fu nessuno che prestò attenzione. Avete disprezzato ogni mio consiglio e avete trascurato i miei rimproveri. Anche io riderò nel momento della vostra morte e mi farò beffe di voi quando accadrà ciò che temevate, quando un’improvvisa calamità e la morte irromperanno come si abbatte una tempesta, quando su di voi saranno giunti il tormento e un’angoscia così grande. Allora mi invocherete e io non vi ascolterò, di mattina vi alzerete presso di me e non mi troverete, poiché avrete considerato odiosa la regola del mio timore e del mio consiglio”.

E tutto questo contro quella miserabile città, che così è crollata all’improvviso – come suppongo – per giudizio divino, si è compiuto alla lettera: i suoi abitanti, sfollati per la distruzione dei quartieri, allontanandosi a testa alta (Iob 15, 26) dai consigli del divino insegnamento come fanciulli irragionevoli, subirono sulla loro pelle l’ira e gli strali del Signore che non avevano mai conosciuto e sofferto prima: e così furono meritatamente sommersi dagli amari flutti delle loro vie. Allora gemettero forte i suoi capi, ruggendo per il fremito del loro cuore, quando videro che una nobile città, del cui gran numero di genti, finché ancora sopravvisse e rimase in piedi, si vantavano, era sparita tanto in fretta per un avvenimento improvviso e così umiliata da un’ostile peregrinazione, resa ignobile e macchiata col sangue dei suoi cittadini sparso ovunque. Allora i suoi sacerdoti, gemendo, vennero disonorati e condotti in maniera spregevole, legati come montoni, nella migrazione dei popoli. [La corruzione e la sofferenza delle donne] Allora le sue vergini che soffrivano, impallidite, subito divennero ignobili per il fatto che – oh ahimè! Che vergogna – il sacrilego predone infranse con violenza gli intatti chiostri del pudore virginale e li violò con empi contatti: allora tutte vennero disonorate e oppresse dai cani lascivi, sia quelle che, perso il marito, pagavano a Dio i tributi della casta vedovanza in casa, entro gli anni ancora teneri della florida giovinezza, sia quelle che, per amore della purezza virginale, si erano dedicate in eterno a Cristo Signore nei monasteri, osservando la sacra regola, sia quelle che si prestavano agli amplessi della pudicizia coniugale per procreare figli. Guai a

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voi che allattate, che, mentre guardate i vostri pargoli fra le vostre braccia strappati via con forza dai seni ai quali teneramente erano attaccati per essere allattati per l’impulso della natura materna, e mentre li vedete davanti ai vostri occhi sbattuti senza pietà sulle pietre dalle mani profane degli omicidi, le tenere emozioni della materna pietàa si sono sciolte subito in lacrime piene di angoscia e il vostro grembo iniziò a lamentarsi, stretto da fortissimi dolori, come se voi li partoriste di nuovo. Guai a voi, donne gravide: mentre a voi il terrore dei mali incombenti e lo stupore di un aborto avevano anticipato le angosce, ahimè, voi misere non avete meritato affatto di vedere la nascita di figli vivi e le gioie attese della nascita di un bambino. Siete state private di figli non ancora nati, prima che veniste chiamate madri! [I fanciulli, già cresciuti, che correvano per la città come se fossero folli] Oh infelici fanciulli, già cresciuti! Quanto precocemente sono stati strappati via dal tenero affetto dei loro genitori: in un momento di tanto misera sorte e in occasione di tanto spiacevole difficoltà, disperdendosi di qua e di là fra i tristi gemiti, come folli e lamentosi, per le piazze della città devastata nelle quali erano soliti riunirsi per divertirsi, mentre questi bambini, piangenti e vagabondi, andavano alla ricerca dei genitori fuggitivi in mezzo alla calca della popolazione in fuga, venivano condotti ai riti pagani e alle catene della schiavitù, una volta catturati e fatti poi schiavi da liberi che erano; ma molti, che la paura della morte minacciosa aveva indebolito tanto da indurli alla fuga e la condizione di un’incombente difficoltà metteva in fuga verso luoghi più sicuri, abbandonati allora i presidii della mura, senza badare ai figli e al coniuge e lasciati alle spalle tutti gli averi essenziali della casa, ciascuno preoccupandosi esclusivamente della propria salvezza, correvano precipitosamente verso le navi, verso i litorali più sicuri del mare più vicino, con la speranza di ritornare. [Chi si buttava in mare, annegava] E questi, mentre pensavano, miseri, di sfuggire ovunque all’ira e alle spade dei Ovid., Fasti, 6, 137-138: Carpere dicuntur lactentia viscera rostris, / et plenum poto sanguine guttur habent (“Si dice che essi strappino coi becchi le viscere dei lattanti e hanno la gola piena del sangue che bevono”). a 

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crudeli persecutori, venivano poi sommersi negli inferi da un’onda cruenta del gorgo del mare con la sua imponente grandezza, ai cui flutti si affidavano totalmente i fuggitivi molto spaventati, come chi medita delle richieste di aiuto, chieste però in maniera avventata. Oh, condizione allora di difficilissima difficoltà, molto più dura e più amara della morte! Infatti, ognuno aveva un ardente desiderio di morire, ma, ahimè, l’ingrata morte, con orecchio sordo, si era allora allontanata sempre più dalle grida dei miseri e, spietata, negava loro di chiudere gli occhi piangenti e quello sembrava agli sventurati e ai tristi il più grande fardello della sfortuna, ovvero desiderare di morire e subito venir meno per l’angoscia della disperazione. Tuttavia, la morte stessa, invocata su di séa con redivivi sospiri, deridendo e infierendo ancora di più, scherniva le loro tristi preghiere degne di compassione, dal momento che ormai non potevano fuggire dalle sue insidie: infatti, in quell’ora, tanto spavento e tanto stupore avevano invaso i cuori di tutti e le membra – e non meno gli animi di tutti – erano stati sorpresi da tanta insensibilità che tutti si dimenticarono dell’innata reverenza e del legame naturale: il padre non si ricordava del figlio, il marito della moglie; il fratello non riconosceva il fratello e nessun uomo porgeva più la mano per aiutare il suo prossimo. Ma parecchie donne e vergini, con i volti graffiati, i capelli scarmigliati, con le membra indebolite e le viscere scosse, disperando della vita e insieme del pudore e quindi tremando con tutto il corpo per l’ansia della grande violenza, per mantenere in sé la fermezza della fede cristiana e la legge della sacra unione o per non macchiare affatto la purezza dell’inviolata verginità e anche per evitare di rigenerare gli abomini della carne, deposta la femminile tenerezza e vestendo la forza di un animo virile, disprezzarono il tempo che rimaneva loro da vivere e insieme sceglievano la morte come sollievo, mentre, stretti i bambini ai seni, volutamente si buttavano con loro fra i flutti del mare ruggente, ritenendo, morendo così, di subire il benigno giudizio della misericordia di Dio almeno più preferibilmente e più dolcemente a 

L’autore si riferisce ai cittadini che invocano la morte.

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che essere trattenute insieme ai figli dai nemici della fede e essere profanate dai loro riti sacrileghi certamente in eterno dispendio delle loro anime, nell’offesa della carne e nel disprezzo della purezza cattolica. Questi poi, che l’ardore della legge divina incitò coraggiosamente alla guerra contro i figli di Belial (Deut. 13, 13)a e i discepoli di ogni empietà e che la contemplazione della vita immortale rinvigorì per la battaglia, [Il coraggio dei crociati] e soprattutto questi – che erano stati insigniti dal segno della croce nella suddetta città e accorrevano dalle regioni del mondo, che aspettavano in quel momento, resi forti e caparbi in guerra, che senz’altro, rivestiti della potenza dall’alto (Luc. 24, 49), si sarebbero opposti coraggiosi alle spade dei figli di Agar che entravano in massa nelle sue piazze e nei crocicchi dentro i chiostri della città ormai conquistata – respinsero molte volte con forza gli ostili vincitori e le bestie sanguinarie fuori dalle mura di tutta la città dalla parte ormai crollata; alla fine, stanchi per le tanto dure e interminabili fatiche, alle quali resistettero per due giorni nella città in una battaglia incessante, diminuiti anche di numero, affaticati dal peso delle armi e inoltre consumati con angoscia dalla sete o dalla fame e uccisi e caduti in battaglia allora per la fede di Cristo davvero molti dei loro uomini religiosi e devoti e dei laici di diversa estrazione sociale, accolti ormai felicemente nella schiera dei santi, nella gloria dei beati e alla vita eterna per la ricompensa della volontaria sofferenza, [I fuggitivi presso il castello del Tempio] questi, che erano sopravvissuti fra quei crociati e certi altri, ritirandosi presso le sicurissime mura del Tempio e lì resistendo coraggiosamente per molti giorni contro i pressanti attacchi dei nemici in una battaglia incessanteb e quando le torri si indebolirono, sradicate violentemente dalle fondamenta e distrutte completamente dalle fatiche dei miscredenti e con le terrazze intermedie, contenute da una costruzione ingegnosa, con le quali la fortezza dei Templari – ovuna  Belial è una figura demoniaca presente nell’Antico Testamento, spesso identificato con Satana oppure con il serpente che tentò Eva. Il nome significa “idolo” oppure “privo di valori”. b  L’episodio fa riferimento ai momenti precedenti alla caduta della fortezza dei Templari del 28 maggio 1291.

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que costruita a volta con opere murariea – era stata sopra coperta e decorata e, estesa com’era in alto con una superficie artificiale, si mostrava spaziosa al passaggio di tutti verso la quale non c’era nessuna salita se non attraverso le porteb, tutti concordi, incoraggiandosi a vicenda a morire per la fede e non temendo la morte del corpo, per di più disprezzando coraggiosamente la vita mortale in nome di Cristo e sopportando gioiosamente il supplizio di una morte volontaria, convertirono felicemente i momentanei indugi della presente vita e le gioie transitorie in una gloria incorruttibile. [I presbiteri e i religiosi crociati] Fra questi, il sacro coro dei sacerdoti e degli altri dell’ordine ecclesiastico, nominato in numero di quasi duecento, non tanto dotato di armi spirituali quanto materiali, protetto dallo scudo inespugnabile (Sap. 5, 20) della fede, dall’elmo della speranza (1 Thess. 5, 8), dall’armatura della giustizia e acceso dall’ardore della devozione, non badando anzi piuttosto rifiutandosi di sopravvivere ulteriormente, dove vedeva che l’autore della vita (Act. 3, 15) veniva ucciso nelle sue membrac a  Colvm., Res rust., 12, 15, 1: Et inter se adclines testudineato tecto more tuguriorum viescentem ficum ab rore et interdum a pluvia defendant (“E fra di loro appoggiati su un tetto a volta come nelle capanne, difendono il fico appassito dalla rugiada e dalla pioggia”); Vitr., De arch., 2, 1, 4: Efficiunt barbarico more testudinata turrium tecta (“Costruirono alla maniera barbarica i tetti a volta delle torri”); Paul. Diac., Excerpta: Pectenatum tectum dicitur a similitudine pectinis in duas partes devexum, ut testudinatum in quattuor (“Un tetto si dice ‘a pettine’ se a forma di pettine inclinato su due lati, mentre si dice ‘a volta’ se inclinato su quattro”). b  Il complesso periodo latino hii, qui supervixerant ex crucesignatis eisdem et aliis quibusdam, se ad tutissima Templi menia retrahentes et viriliter ibi contra urgentes insultus hostium aliquot dierum spacio in pugna continua persistentes et, deficientibus turribus utpote violenter a radice precisis et ab impiorum conatibus funditus excavatis terraciisque mediis, quibus domus ipsa Templi opere undique testudinata lapideo desuper strata et ornata erat ac artificiosa superius protensa planicie exhibet se omnium gressibus spaciosam, ad quam nunquam per hostia patebat ascensus, subtili ingenio comprehensis vorrebbe descrivere la struttura del castello dei Templari: la forte traiectio nel testo latino terraciis mediis…comprehensis è l’accostamento che può giustificare il senso del complesso passo, poiché se si ammettesse la congettura del primo editore Riant (terraciis quoque mediis), si creerebbe il cortocircuito logico per cui le terrazze (o i tetti piani) verrebbero sradicati e non fatti crollare. Comprehendere, in questo caso, deve essere inteso nel senso proprio di “comprendere”, “contenere”, senza intenderlo con il significato di “conquistare”. c  Il termine si riferisce alla metafora della Chiesa come corpo di Cristo: le membra dell’autore della vita sono il corpo di Cristo.

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con tanta crudeltà dalle mani dei miscredenti, tutti concordi sotto l’unico vessillo della croce, con lo stesso proposito di morire e ammassati nella stessa schiera, tramando per il loro sterminio, invasero coraggiosamente entro il confine della città la schiera quasi indistruttibile e compatta dei nemici e avevano sfondato con risolutezza, invocato il nome di Cristo, loro che certo alzando gli occhi della loro mente verso Colui che ha addestrato le mani alla battaglia (Ps. 17, 35) – venendo chiamato, non tarda a rispondere “Eccomi, ci sono” (Is. 58, 9) – considerando anche che le sofferenze di questo tempo non sono degne per meritare la gloria futura, che doveva essere rivelata in loro, gustato subito il calice della devota passione, confidando nell’aiuto divino, mentre erano occupati con le proprie forze a far strage di nemici di Cristo e ugualmente anelavano ansiosi alla corona del martirio, alla fine, a loro volta, offrirono se stessi di loro iniziativa per l’olocausto e il sacrificio (Ezech. 45, 15) con spirito pentito e devoto a Cristo Signore che per loro si era degnato di morire sull’altare della croce. Non sia mai che i ministri della croce di Dio avessero allora in spregio la battaglia e la gloria, dove vedevano che lo stesso Re della Gloria (Ps. 23, 9) veniva crocifisso nell’uccisione dei suoi fedeli, soprattutto perché l’apostolo dice di essere glorificato soltanto nella croce del Signore, grazie al quale il mondo era stato crocifisso per lui (Gal. 6, 14) e lui per il mondo; per lui, finché viveva, Cristo era anche vivere, reputando infine che morire per Cristo fosse un guadagno (Philipp. 1, 21), dal momento che, gioendo, veniva portato al supplizio della passione. Infatti, era bene che alla fine sacrificassero in se stessi attraverso il sacrificio della sacra passione, in un momento tanto favorevole a Dio e adatto per la loro salvezza, Colui che tante volte avevano immolato nel sacramento dell’Eucarestia attraverso il devoto ufficio del ministero sacerdotale. Sapevano infatti che, anche se fossero periti per la morte del corpo, tuttavia il loro spirito avrebbe regnato insieme al Signore che regna nei Cieli, perché chi era stato partecipe delle sofferenze venga ammesso alla partecipazione delle eterne consolazioni: per questo, così come tutti caddero fra le spade degli infedeli in un solo lasso di tempo, così anche allo stesso modo nello stesso momento dell’eternità sono stati ricevuti felicemente attraverso i santi angeli negli

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atri gloriosi della Gerusalemme celeste con la gioia di un’ineffabile letizia, cantando un nuovo canto al Signore. E anche noi a buon diritto possiamo intonare a gran voce con un inno per i martiri della nostra epoca quei versi dell’Apocalisse in lode di questi, che la Chiesa canta per i beati martiri, soprattutto perché si è compiuto alla lettera in loro qualcosa di simile: Questi sono coloro che sono venuti da una grande tribolazione e lavarono le loro stole e le sbiancarono con il sangue dell’agnello e perciò nel tempio di Dio, davanti al trono della sua gloria (Apoc. 7, 14-15) vivono, regnano e gioiscono in eterno. [Elogio del patriarca, signore di Gerusalemme] Poi cosa aggiungerò che sia degno di lode riguardo a un uomo di vita venerabile, illustre per fede e santità, ardente di carità, stimato per la religione e per il tenore di vita, splendido in fatto di conoscenza, benevolo per la compassione e generoso nei confronti di Dio e degli uomini in tutto l’impegno dei suoi atti?a Sto parlando di frate Nicola dell’ordine dei Predicatori, patriarca della sacrosanta chiesa di Gerusalemme, ministro della chiesa di Acri e legato della sede apostolica, che tutto ardente e divampante per lo zelo della fede cristiana, che temeva fosse in procinto di crollare vergognosamente con la rovina di quella città, non risparmiando le fatiche, i danni dei rischi e le spese, vigile e attento resisteva di notte e di giorno nella sorveglianza e nella difesa attenta della città, promettendo premi: a chi faticava una ricompensa, a chi moriva la speranza della vita eterna, ai peccatori il perdono e ai giusti l’aumento della grazia e della gloria. E questi, nell’ora dell’assedio della misera città, ripetuti i discorsi da ogni parte con le braccia piegate come una croce, mentre erompevano dai suoi occhi fiumi di pie lacrime, si faceva incontro supplice ai combattenti che fuggivano ovunque, a  Il patriarca di Gerusalemme è Nicola di Hanapes (1225-1291). L’inizio della descrizione delle qualità richiama Greg. M., Dial., 2, prol., riferito a san Benedetto: Fuit uir uitae uenerabilis, gratia benedictus et nomine, ab ipso pueritiae suae tempore cor gerens senile (“Fu un uomo di vita venerabile, benedetto dalla grazia e dal nome, che portava in sé un animo senile dal tempo della sua fanciullezza”). Per rendere più scorrevole la lunga frase latina, si è scelto in traduzione di inserire un punto interrogativo, rendendo la prima parte di questo paragrafo una domanda retorica a sé stante che raccoglie le qualità positive del patriarca e legando il resto del testo con la formula “Sto parlando”, così da dare continuità al discorso.

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pregandoli, incoraggiandoli e sollecitandoli tutti insieme e singolarmente affinché riacquistassero il coraggio e le forze contro i nemici di Cristo e non avessero paura di ritornare a difendere le mura. Mi chiedo: chi non soffrirebbe, guardando allora il volto tanto pio del reverendo sacerdote, straziato nel cuore e tutto sciolto in pianto? Infatti, la sua faccia e il colorito alterati, anche la tristezza diffusa nelle membra e il brivido di tutto il corpo e lo sbigottimento dichiaravano a chi guardava la sofferenza interiore del cuore e il dolore dell’animo. Dal momento che non poteva indurre con moniti e promesse lamentose coloro che erano stati vinti nella fuga e tenacemente ostinati nel proposito di fuggire a dover lottare contro i nemici e non poteva richiamarli con devote esortazioni e dal momento che riteneva che sarebbe stato oramai del tutto inutile promuovere attività per la tutela della fede e della città per il fatto che, messi in fuga gli uomini degli eserciti e dispersi ovunque, non c’era nessun’altra speranza di salvezza, solo a fatica e all’ultimo si diresse verso una piccola nave da pesca, anche se prima era signore di molte galee e barche, per preservare se stesso in futuro per i successivi successi della città. Mentre il sacerdote di Cristo e pio pontefice affermava devotamente e credeva che la capacità di quella corta e stretta navicella fosse proporzionale alla grandezza della sua carità – cioè che la navicella accogliesse tutti coloro che il profondo e devoto sentimento della sua carità accoglieva –, si imbarcò su quella insieme a tante anime cristiane da salvare che, ahimè, appesantita dalla loro mole e dal peso eccessivo, la navicella naufragata fece annegare il sant’uomo e i figli che aveva accolto con sé e espose tutti gli altri a un improvviso naufragio. O anima del beato pontefice, che, privata ormai completamente quella città delle divine cerimonie e dei riti cristiani, hai rifiutato di stare ulteriormente al mondo! O amara bevanda dell’uomo di Dio che ancora vivente aveva bevuto da quelle angosce chea vedeva sopraggiungere in città, che alla fine degustò con molta amarezza in mezzo al mare con mortiferi sorsi! O pietà ammirevole del sacerdote: Nel testo latino (quam et adhuc vivens ex hiis que civitati supervenisse circumspiciebat angustiis biberat) si legge il pronome neutro all’accusativo plurale que anziché il regolare femminile plurale quas, riferito a angustiis. a 

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per liberare dalle catene della morte amara le anime cristiane, non pregò per il pericolo del naufragio e non si spaventò, vinto dalla paterna compassione e sopraffatto dalla misericordia. [Il coraggio e i motivi di elogio del maestro del Tempio] Tuttavia, poiché non deve essere escluso dall’inno di una adeguata lode colui che non fu estraneo al merito della fede, al premio della vittoria e alle imprese dei sacri valori nell’interesse di Dio, si spenda perciò senz’altro una parola in più su un uomo venerabile, frate Guglielmo di Beaujeu, assai meritevole maestro della sacra milizia del Tempio, degno di memoria, certamente amato da Dio, agli occhi del mondo davvero notevole ma dagli uomini venerato, soprattutto perché torna a gloria di Dio quando viene dichiarato il religioso impegno dei suoi servi con fedeli testimonianze da lasciare ai posteri come esempio. Infatti, questo coraggioso combattente di Cristo, non volendo disonorare in sé la gloria dei suoi natali per i quali era famosoa, e neanche della sua milizia, alla quale precocemente si era dedicato con l’ingresso della sacra religione, rivolgendosi senza remore all’obbligo e al voto e provvedendo con ardore a realizzarli, preferendo e accogliendo con gioia una morte gloriosa in nome di Cristo piuttosto che per la gloria e l’onore dei suoi discendenti, della sua sacra casab e di se stesso per opprimere le mascelle dei cani feroci che allora atrocemente infuriavano e per strappare con forza dai loro denti insanguinati la preda di molte anime, alle quali le belve anelavano aprendo la bocca per mangiarle con feroce e spropositata famec, e quindi dopo per liberare la città stessa, che molto amava, dalla rovina e dalla strage, in cui, ahimè, piombò, esposta alle frecce come bersaglio per i nemici, prima dei funesti attacchi delle armate nemiche in quel venerdì di catastrofe e di ambascia (Soph. 1, 15), aprì la strada e andò avanti in qualità di impavido capo e condottiero dell’esercito cristiano. a  Guglielmo di Beaujeu entrò nell’Ordine dei Templari a soli vent’anni ed è stato Granmaestro dell’Ordine dei Templari dal 1273 al 1291. La famiglia era imparentata con i sovrani di Francia, in quanto il padre era il cugino di Luigi VIII. La famiglia Beaujeu-Montpensier vantava anche alcuni conestabili di Francia fra il 1230 e il 1280. b  Il riferimento è all’Ordine dei Templari. c  Verg., Aeneis, 10, 726: Gaudet hians immane comasque arrexit et haeret (“Aprendo la bocca, immane, lui gode e drizza la chioma e si ferma”).

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Ma quando costui, per un fatale destino e una circostanza fortuita, venne trafitto all’improvviso dal colpo di una freccia più acuminata – con un rovesciamento mirabile, oltre la possibilità della natura, sorgendo vincitore mentre viene vinto, dopo aver sconfitto la morte – meritò di ottenere per sempre per il valore della sua grande fedea un glorioso trionfo, la palma del martirio, nel luogo vittorioso della battaglia. Infatti, credo – e lo credo davvero – che quello, che come un leone ruggente (Ezech. 22, 25) e un leopardo in agguato (Ier. 5, 6) si insinua sempre di nascosto (Ps. 9, 29-30) per uccidere l’innocente, abbia teso il suo arco in quell’ora, abbia scoccato la freccia e con abile destrezza, pur avendo mille modi per uccidere, abbia trapassato letalmente il cavaliere di Cristo e lo abbia ferito a morte sul fianco destro da quella parte, nella quale, secondo la consuetudine dei soldati, portava la lancia per infrangereb e reprimere l’audacia dei nemici irruenti che gli saltavano contro e la scagliava coraggiosamente contro di loro. Sapeva infatti che finché un signore tanto importante sopravviveva o viveva, non avrebbe affatto portato a termine i delitti che il nemico e provocatore di disordini (2 Macc. 4, 1) aveva scatenato contro il popolo cristiano. Ma l’iniquità ha ingannato se stessa: infatti, anche se odioso gli procurava l’occasione della morte e la fine della vita, tuttavia, inconsapevolmente, procurò e fornì senza volerlo il premio della vittoria: infatti, anche se fosse morto col corpo, non poteva morire in cielo colui che difendeva l’autore della vita e dell’immortalità contro l’empia gente di Ismaele. O morte propiCypr., Epist., 63, 13, 2: Christus autem docens et ostendens gentium populum succedere et in locum quem Iudaei perdiderant nos postmodum merito fidei peruenire, de aqua uinum fecit, id est quod ad nuptias Christi et ecclesiae Iudaeis cessantibus plebs magis gentium conflueret et conueniret ostendit (“Cristo poi, istruendo e mostrando che noi siamo seguiti al popolo pagano e che poi siamo giunti, per il valore della fede, nel luogo che i Giudei avevano perso, trasformò l’acqua in vino, cioè, conclusa la dominazione dei Giudei, rese noto che il popolo più dei pagani sarebbe confluito e si sarebbe radunato alle nozze di Cristo e della Chiesa”). b  Il verbo è espresso in latino dal gerundivo herciscundam, derivato dal verbo hercisco, is, herciscivi, herciscitum, herciscere e significa “tagliare, dividere”. Il termine è raro ed è usato soprattutto in ambito legale in formule che significano dividere et proprie hereditatem inter heredes (cfr. Dictionnaire latin-français de Firmin le Ver). Qui si accoglie il suggerimento di Huygens, che propone di tradurre con “infrangere”, “rompere” (“to break up”). a 

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zia, che innalzi così colui che soccombe! O propizio colpo di freccia, grazie a cui lo spirito, liberato così dalla prigione della carne, è diretto lì verso le sedi perenni! [La critica mossa ai cavalieri templari] O nobili commilitoni del Gran maestro, espertissimi nella guerra (Cant. 3, 8), perché, visto che siete mortali, dissentendo dal capo nelle vostre membra, avete temuto di soffrire, come pusillanimi, quello che il vostro maestro e signore ha tanto volentieri sopportato sulla sua pelle? Dal momento che siete stati scelti e arruolati nella milizia cristiana, soprattutto in quel momento dell’accaduto enormemente infelice, nel quale, nello scempio vostro e di tutta la cristianità, una città tanto popolosa e nobile veniva allora sottratta dalle mani dei cristiani e il sangue cristiano veniva sparso profusamente ovunque dalle mani degli empi (Iob 16, 12) davanti ai vostri occhi nel disprezzo del nome cristiano, certamente era utile e conveniva che voi tutti sceglieste unanimi una morte gloriosa per le leggi dei padri (2 Macc. 7, 37), per la tutela della gente debole di entrambi i sessi – che in parte veniva condotta a morire di spada (Hebr. 11, 37) e in parte veniva condotta nella schiavitù degli infedeli, per la salvezza della quale Gesù Cristo non aveva avuto timore di subire su di sé i tormenti della croce – seguendo l’esempio del vostro maestro e degli altri vostri commilitoni che seguirono i lodevoli passi (Iud. 5, 15) fino alla sofferenza del martirio – piuttosto che rimandare miseramente il tempo incerto di una vita vergognosa nel disonore della vostra sacra professione e nell’infamia dell’Ordine, come se non aveste una salda fiducia nella vita futura. [La battaglia che, una notte, i Templari combatterono contro i saraceni] Allora, potevate essere memori di quel ruolo e riportare alla memoria la forza della sua potenza, con la quale una volta una notte, mentre ancora si prolungavano le difficoltà dell’assedio e veniva condotta una battaglia incessante con conflitti giornalieri e agguati ovunque, mentre il silenzio della quietea mattutina veniva mantenuto dai nemici – quando il dolce sonno era solito diffondersi nei sensi umani sotto la tranquillità dell’ora Ovid., Met., 7, 184: Mediae per muta silentia noctis (“Nel mezzo dei muti silenzi della notte”). a 

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notturna, ancora con l’alba che a stento riluceva di luce dorata – voi tutti, un tempo, con il vostro suddetto maestro di beata memoria, avete invaso gli accampamenti dei nemici con mano forte con aggressioni repentine e allora ritornando vincitori e trionfanti, a causa della non moderata strage compiuta tra gli infedeli che soccombevano, quindi per la gloria di onore e vittoria raggiunta, che certamente deve essere sempre anteposta alle cose mortali da parte di tutti gli uomini di valore, felicemente siete ritornati a casa, arricchiti e carichi inoltre delle armi e delle prede degli Egiziani. Ma se davvero in quel giorno il coraggio di combattere fosse stato dato alle armi e la fine della vita caduca non avesse atterrito in voi gli animi esitanti, oso dire che, in una rinascita guidata dalla virtuosa e forte mano del vostro vittorioso maestro, certamente allora il loro signorea sarebbe stato respinto dalla violenta insistenza dell’attacco e ugualmente arrestato il crudele e nocivo desiderio del tortuoso serpente di Babilonia. Infatti, straordinariamente la fama comune di quel maestro riguardo al possesso di particolari virtù era ritenuta importante secondo l’opinione di tutti al punto che, come le membra ricevono dalla testa lo stimolo della sensazione e del movimento, così anche lo stato di tutto il popolo cristiano dipendeva dal suo stato, la vita dalla sua vita e allo stesso modo la virtù dalla sua virtù. Dunque, non appena la notizia divulgata della sua ferita mortale (Apoc. 13, 3) giunse alle orecchie di ciascuno, tutti, scossi dallo stupore e dal terrore, subito si dispersero in fuga davanti all’impeto dei nemici a tal punto che in quel momento sembrava essersi compiuto ciò che si legge essere realizzato di Cristo nel momento della sua Passione. Si dice: Scuoterò il pastore e le pecore del gregge si disperderanno (Matth. 26, 31). [Il coraggio del maresciallo dell’Ospedale] E non deve essere escluso dalle lodi della presente narrazione, dal riconoscimento di degna lode e dal novero dei martiri di Cristo frate Matteo di Clermont, il distinto maresciallo dell’Ospedale di Gerusalemme, che come vittorioso cavaliere e fortissimo combattente di Cristo, abSi intende il sultano. La traduzione proposta inserisce un “loro”, assente in latino. Huygens sostiene che qui sia caduto un genitivo (hostium, Agarenorum oppure Egiptorum). Cfr. Huygens 2004, p. 33. a 

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bracciando la battaglia della fede con l’animo e insieme col corpo, aveva fronteggiato i nemici in ogni parte per la città instancabile nelle forze e nell’animo, e spargendo il sacrilego sangue dei miscredenti, compì una strage tanto grande prima della sua morte benedetta che sembrava portare con sé le armi vincitricia della milizia celeste piuttosto che carnale. Questi alla fine, cosparso e tinto di rosso ovunque dal suo sangue, disprezzando gli svantaggi di questa vita e non temendo le sofferenze della morte per la fermezza della grandezza d’animo, chiuse e trasferì la vita terrena nella luce eterna e come un violento predone forzò il Regno dei Cieli e dentro le sue eterne dimore entrò per sempre grazie al proprio sangue e salì felicemente per essere incoronato al tribunale del Re immortale. [Rimprovera i commilitoni del maresciallo] Oh! Magari allora, nel luogo della contesa, tutti i suoi commilitoni che scapparono e i fratelli avessero resistito insieme coraggiosamente, seguendo così il suo esempio, per la difesa della fede e la tutela della città da salvare, poiché molti forse, che vinti dalla paura della morte avevano ripiegato sulla fuga, avrebbero quindi riacquisito con forza la virile audacia contro i violenti avversari della croce; inoltre l’ostile spada, trovato allora l’opposizione di una resistenza più forte, non si sarebbe incrudelita così atrocemente nella strage di un popolo debole e disarmato e, in quel giorno, si sarebbe compiuta una più grande strage di saraceni e ne sarebbe conseguito un maggior spargimento di sangue sacrilego; anche il numero dei nemici del nome cristiano, che eccedeva troppo, sarebbe stato ampiamente ridotto nella vendetta della violenza perpetrata e anche il sangue cristiano, allora più abbondantemente sparso dagli empi, ritorto contro gli uccisori stessi un simile supplizio, sarebbe stato vendicato più severamente secondo l’eccesso del peccato. [L’onestà dei Teutonici] Inoltre, la vicenda stessa impone che io accenni brevementeb qualcosa riguardo ai successi degni di lode dei fratelli Teutonici come esempio di rettitudine. Certamente, questi – resistendo intrepidi nella fatica dell’agone come impea  Verg., Aeneis, 3, 54: Res Agamemnonias victriciaque arma secutus (“Seguendo le imprese di Agamennone e le armi vincitrici”). b  Arnob., Adv. nat., 3, 38: Brevitatis et compendii causa (“Per sintesi e concisione”).

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tuosia combattenti di Cristo, come chi, rivolgendosi alle salvifiche preghiere del proprio credo e trasportando in sé stessi gli scempi subiti da Cristo con devoti sentimenti, non pensavano a quelle che erano le ricompense della carne, ma a quelle che erano dello spirito, e non confidando quindi nel supporto della propria potenza, ma piuttosto della potenza di Dio – in parte nella attiva e attenta difesa della città e in parte nell’incessante protezione della loro sede, nella quale una torreb si stagliava alta e forte presso la costa e la cinta muraria – che per prima era esposta all’ingresso dei figli di Agar, essendo vicina alle mura della città, cioè da quella parte nella quale si apriva un varco verso il porto –, pur essendo in pochi, tutti, tranne alcuni, mentre in quel giorno si sforzavano di resistere ai nemici e, affaticati, non potevano ormai resistere ulteriormente alle torme dei figli di Agar che si precipitavano ovunque e non volevano voltar loro le spalle come dei codardi per il fatto che tuttavia la fedele audacia della mente nel salvifico proposito di morire per Cristo persisteva più forte e inestinguibile – sebbene le membra fossero stanche per il perdurare della continua battaglia –, i volenterosi venivano uccisi dalle spade furiose dei miscredenti e come vincitori, coronati dall’alloro della vittoria, alle gioie del riposo eterno, purificati dal loro stesso sangue, assunti dalla valle della presente miseria, salirono felicemente. Accidenti! Quanto benedetto e degno di lode è il commercio dei saggi mercanti e dei devoti usurai, che deve essere imitato col massimo impegno da tutti i mortali che chiedono di lucrare i tesori celestic, per cui infatti al posto del supplizio della pena temporale, della momentanea fatica della contesa e della spenta oscura luce della presente vita, i fedeli cavalieri di Cristo si sono assicurati il regno di Dio e felicemente hanno ottenuto le fulgide sedi del a  Il latino ha il termine acrestes (sc. agrestes). Il termine è usato in poesia con il significato traslato di “ferino”. b  Secondo la ricostruzione dell’editore Huygens, la Turris Alamannorum era una struttura isolata a ovest delle mura orientali della città di Acri e non una parte di queste. Vista la sua vicinanza al porto, la torre poteva regolare gli accessi al porto. c  Il latino ha il termine celibes (sc. celites) derivato da caelum. Il paragone qui espresso è ironico: Taddeo mette in contrasto la devozione dei milites Christi con i veri usurai, interessati solo di beni terreni.

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riposo celeste, la beatitudine di una quiete imperturbata e l’inestinguibile splendore dell’eterno lume! Questa è infatti la buona misura colmata, abbondante e traboccante, che quel Dispensatore celeste e Padre generoso, con un’abbondante ricompensa, promettendo restituisce e accordando promette sempre ai suoi mercanti e ai fedeli usurai. [La disonestà e il rimprovero a Giovanni di Grailly, capitano del popolo del re di Francia] Quanto al comandante Giovanni di Grailly, cavaliere solo di nome e cristiano solo a parolea, sebbene allora prestasse servizio militare come capitano generale dalla parte del illustre re dei Franchi sulla sua gente – la quale il cristianissimo re aveva assegnato specialmente alle difese quotidiane della città di Acri per reverenza della Terra Santab – e sebbene fosse difeso da un seguito di molti soldati e fanti, non si mostrò e non si rilevò in nessun modo lodevole o degno di memoria proprio in nessuna azione fra le pratiche militari come sarebbe convenuto a un comandante di un principe tanto glorioso. Piuttosto anzi, come dissipatore della sua fama, povero di virtù, insofferente alle armi, troppo sfrenato e dedito alle abitudini dei piaceri e dei banchetti e altrettanto indebolito nelle forze, scelse, tanto allora in occasione della devastazione di Tripoli quanto di nuovo nella demolizione di Acri, di fuggire via, come una femminuccia, o di rifiutare i doveri del combattimento come un codardo piuttosto che osare lottare contro i nemici della croce come un vero soldato coraggioso o almeno battersi come un vero cristiano Ioach. Flor., Concord., 4, 38: Omnis illa Ieremie increpatio, qua peccata Iudeorum enumerat, in nos, qui Christiani dicimur et non sumus redundat (“Tutto quel rimprovero di Geremia, nel quale elenca i peccati dei Giudei, si riversa contro di noi che diciamo di essere cristiani ma non lo siano”). b  L’edizione di Huygens propone quam ob terre sancte reverenciam ac civitatis precipue Acconensis rex ipse christianissimus deputarat cotidiana presidia, il che implicherebbe una forte traiectio fra gli accusativi retti da ob, anche se verrebbe mantenuto il parallelismo genitivo-accusativo (ob terre sancte reverenciam ac civitatis…cotidiana praesidia). Con la congiunzione, questa è l’unica costruzione possibile, poiché altrimenti il verbo deputarat dovrebbe reggere due accusativi (quam e cotidiana praesidia) se si dovesse costruire ob terre sancte reverenciam ac civitatis Acconensis (“Per il rispetto della Terra Santa e della città di Acri”). La lezione ad civitatis proposta in apparato eviterebbe l’eccessiva traiectio e permetterebbe al verbo deputarat di completare la sua valenza (ossia rex gentem ad praesidia deputat). a 

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cattolico. Oh! Anche se non per amore di onestà o per non incorrere nella taccia dell’infamia che eccedeva alquanto nel disonore di un re tanto grande – la figura del quale lui stesso rappresentava nell’incarico che esercitava – ma almeno per disperazione della vita, dal momento che si vedeva alle strette, magari allora fosse cresciuta in lui l’audacia di infierire contro i nemici e avesse aspirato a morire gloriosamente e a bere volentieri dal calice della felice morte, ingerendo dal quale doveva essere subito trasportato per merito della fede alle gioie immortali colui che poteva pensare di essere mortale e doveva sapere senza dubbio che era destinato a morire! Se dunque avesse considerato con attenzione che la qualità militare era migliore di tutto il resto – poiché grazie a lei la libertà viene mantenuta, la dignità diffusa, le province conservate, gli stati accresciuti e la gloria dell’onore ampliata – penso che, disprezzati i piaceri della vita peritura, avrebbe sopportato senza pigrizia la gloria della fama (Eccli. 45, 14) immortale e non avrebbe evitato la perdita della morte terrena, inoltre avrebbe vinto anche la paura di morire nel temerario sforzo di combatterea. [Il re di Cipro] Poi Enrico, il re di Cipro – poiché soffriva la debolezza delle membra per un difetto congenito e in ragione della giovane età non aveva ancora competenza militare, che certamente offre e alimenta l’audacia di combattere, e poiché non aveva ancora dimestichezza con le armi – non deve essere quindi diffamato con ingiurie se ha ripiegato sulla fuga con i disertori, ma non per questo deve essere esaltato con le lodi. [Come si comportarono i Pisani e i Veneziani] Infine, gli uomini delle comunità, aspirando più ai guadagni e agli interessi delle opere terrene che a quelle celesti, sebbene per tutto il tempo dell’assedio si fossero presentati di giorno e di notte in varie occasioni instancabili, attenti e preoccupati della difesa continua della città e dell’incessante sorveglianza, tuttavia nel giorno e nell’ora in cui l’antico serpente (Apoc. 12, 9), il sultano di Babilonia, avanzò verso quella città per dare con forza l’assalto con molte file del suo esercito e la espugnò violentemente e la prese nella sua ira (Ps. Verg., Georg., 1, 145-146: Labor omnia uicit / improbus et duris urgens in rebus egestas (“Il duro lavoro prevalse su tutto e la povertà incalzò in ogni difficoltà”). a 

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20, 10), tutti quanti insieme, abbandonate le difese delle mura e rompendo a loro volta le righe, lasciarono, ahimè, quella città tanto nobile deserta in mezzo ai pericoli e velocemente si ritirarono per proteggersi sulle navi nelle quali avevano ammassato con scrupolo precoce i loro tesori e certe preziose suppellettili, come se avessero disperato della difesa della città o piuttosto fossero stati indeboliti tanto nel coraggio quanto nelle forze, come chi rifiutava di sopportare l’impeto di una feroce battaglia e gli oneri quotidiani delle guerre. Certo è chiaro che in quel momento si mostrarono come i responsabili di un tanto grande naufragio e dissipatori della loro fama, rendendo più chiaro il sospetto che allora il loro animo fiacco e incerto e anche ribelle rifiutava le fatiche della contesa nel momento in cui ogni bene per loro prezioso era stato precedentemente raccolto e ammassato e in cui ottenevano anche la gloria dell’onore prima di tutti i mortali. O avarizia avversaria di Dio! O cupidigia colpita dall’eccessiva cecità dell’errore, soprattutto per la quale gli animi dei mortali che in nessun modo erano destinati a morire hanno preferito indegnamente tesori corruttibili e per necessità deperibili ai premi dell’immarcescibile gloria! O  paura della morte, che deve essere rifiutata dai popoli cristiani! O speranza della vita mortale, caduca e passeggera, come un’ombra che sfugge agli occhi dei mortali! Per tutto questo, infatti, la ragione viene ingannata dalla percezione, la salvezza della carne corruttibile è preposta all’utilità tanto devota e pubblica, i beni celesti vengono trascurati in favore di quelli terreni e l’Autore della vita viene vergognosamente rinnegato per il vile terrore della morte! Questi sono mercanti nella terra di Teman e come i dannati figli di Agar (Baruch 3, 23)a, che cercano solo la saggezza che è della terra, non hanno imparato affatto la via della sapienza. In realtà, il Signore non ha scelto loro e i loro nomi non si trovano annotati nel volume del libro della vita (Philipp. 4, 3). O  differente e molto diversa ricerca di emulazione, per la quale a  Teman è il nome di un toponimo biblico che fa riferimento a un clan stanziato nella regione sud orientale del Medio Oriente, introno alle coste del Mar Rosso. Nella tradizione ebraica era utilizzato per indicare gli Ebrei Yemeniti, situati nell’attuale Yemen. Per estensione, il toponimo indica le terre orientali della penisola arabica.

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il pagano e il cristiano gareggiano tanto diversamente l’uno con l’altro per il rispettivo zelo o ambizione della loro fede! Infatti, lo sventurato cristiano, la cui dimora dovrebbe certamente essere tutta nei cieli, non teme di preferire – come un avaro e desideroso creditore – alla sua professione di fede i guadagni della ricerca del piacere e della gloria temporale, e perciò – come una persona fragile e pusillanime – si rifiuta di sopportare situazioni dure e aspre, abbraccia senza pigrizia situazioni liete e propizie. Al contrario, il saraceno, per quanto conosca solo ciò che è terreno e non si sforzi di ricercare o comprendere le realtà celesti, tuttavia antepone attentamente l’orgoglio della gloria transitoria e il culto sacrilego della sua professione di fede a tutte le cose mortali. [La scaltrezza del sultano] Perciò, lo stesso sultano, il principale capo del popolo di Ismaele e prepotente seguace della riprovevole setta di Maometto, per infondere ai suoi seguaci l’audacia di combattere coraggiosamente contro il popolo cristiano e quindi giungere felicemente ai successi della tentata vittoria, per esperienza dell’antica scaltrezza, grazie alla quale ha saputo saggiamente prevalere sugli animi avari e selvaggi del popolo barbarico a lui soggetto non con tormenti o parole insensate ma piuttosto con ricompense, fece annunciare con voce di banditore (Ex. 36, 6) questo suo ordine in ogni parte del suo esercito, ancora durante l’assedio, ossia che ciascuno dei suoi uomini, di qualsiasi condizione fosse, presentasse al suo cospetto una delle lance – che si protendevano in lungo per una lunghezza di quasi cinque cannea, con la cui punta i crociati, che marciavano quotidianamente negli accampamenti degli Egiziani per una battaglia corpo a corpo, abbattevano una moltitudine di saraceni che sbarravano loro la strada –, guadagnasse subito mille dracme dal suo erario, oltre al fatto di ottenere comunque favore e onore presso di lui. Per questa ragione, molti saraceni, preferendo le ricompense del premio temporale e della gloria alla paura della morte, posposto l’orrore della morte, intrepidi prendevano e imbracciavano avidi quelle lance tanto più a  Cfr.  Huygens 2004, p.  125: una “canna provenzale” corrisponde a 1,956  m, una “canna cipriota” (identiche a quelle usate ad Acri e perciò, secondo Huygens, la misura da adottare in questo contesto) corrisponde a 2,20 m. Le lance quindi si estendevano fra i 9,80 e gli 11 m (!), il che è abbastanza inverosimile.

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sicuramente quanto più certamente sapevano che poi avrebbero ottenuto il premio loro promesso e in più speravano per questo di raggiungere decisamente un maggiore favore agli occhi del loro sovrano. [Il conflitto e la fuga] Ahimè che sofferenza! Poi in quell’istante, nell’ora dell’occupazione e della presa della ricchissima città, i cavalli e i destrieri ornati dei soldati che fuggivano e che cadevano nel conflitto, privi dei propri cavalieri, spaventati davanti alle grida confuse e terrorizzati davanti alle urla e agli stridori inconsueti di entrambi gli schieramenti, si dispersero per le piazze, guardandosi intorno ansiosi ovunque come se stessero cercando i propri cavalieri, signori e padroni. Questi alla fine, presi dai nemici, venivano trattenuti e condotti con le briglie gettate al collo dalle quali venivano frenati. [L’uccisione dei saraceni] Ma chi può dubitare che nello strepito di tante armi e nel conflitto di combattenti tanto forti che resistevano fortemente agli assalti e alle aggressioni degli infedeli ci fossero allora molte migliaia di saraceni uccisi? Infatti, per non dire dei fanti – la cui grande quantità si misurerebbe comunque con un numero non esiguo, se dovesse essere specificata o espressa da un calcolo –, ma dico almeno dei cavalieri: cioè ne abbatterono oltre ventiseimila, compresi insieme il tempo dell’espugnazione e dell’assedio, durante il quale molti dei nostri soldati e fanti bellicosi marciavano fuori negli accampamenti dei nemici ogni giorno per combattere corpo a corpo e ritornavano felicemente in città con la vittoria e con le spoglie, e altrove si intensificavano anche i lanci dei dardi, scagliati incessantemente dai presidi delle mura, e anche da sopra le macchine belliche della città i sassi erano stati gettati di continuo e scagliati negli accampamenti degli Egiziani che si estendevano ovunque. Fra questi possono essere annoverati, in aggiunta al citato numero, oltre cento ammiragli grandi e potenti per valore, come è stato concordemente provato dal racconto veritiero di moltissimi cristiani degni di fede – che, una volta caduta la città nelle mani degli infedeli, furono trattenuti e condotti alle catene della schiavitù, ma in seguito, liberati dalla loro prigionia o sotto riscatto o per il favore di una precedente amicizia, ritornarono sani e salvi nell’isola di Cipro presso i servi della fede (Gal. 6, 10) – e inoltre

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dal resoconto dei mercanti che allora stavano contrattando una tregua con loro, dai quali ho anche appreso che per questa ragione nessuna consueta solennità di cerimonie gioiose – com’è usanza – sarebbe stata fatta per la gloria della vittoria ottenuta ogni volta che gli stessi vincitori ritornano dagli accampamenti alle loro sedi, anzi venne diffuso un pianto universale per tutte le case e per i crocicchi di tutto il paganesimo. [La presa della città] Dunque, ormai espugnata e presa internamente e esternamente dai figli di Belial quella città assai fortificata e sconfitti dalla potenza degli infedeli gli ultimi suoi combattenti e costretti alcuni di loro alla fuga e messi in salvo dalla trappola delle navia, altri ancora sventrati e trafitti crudelmente ovunque dalla lama delle spade crudeli e dai lanci mortiferi dei dardi – che riempivano l’aria circostante volando e vagando ovunque senza un bersaglio preciso – per la loro onda sanguinolenta da ogni parte sembrò che il mare e la terra si colorassero di rosso; annegati e sommersi alcuni uomini dai flutti marini – nei quali, come dei disperati, si gettavano miserabili – mentre invece molte più donne, terrorizzate di subire la barbarica tirannide e di essere macchiate dalle contaminazioni di popoli profani, si gettavano di loro spontanea volontà con i figli, attaccati ai seni, che allattavano, sprofondando negli abissi del profondo mare vicino come negli abissi della disperazione – dal momento che non le soccorreva nessuno – e fatta una strage di crociati e di non pochi altri fedeli che persistevano coraggiosamente in battaglia in nome di Cristo per resistere ai violenti predoni entro il perimetro della città – che, considerando saggiamente che a nessuno viene promessa la palma della vittoria senza nessuna faticab, non ebbero perciò paura di combattere strenuamente contro i nemici e gli avversari della croce per poter meritare il nobile nome di vincitori e il premio, finché non mancò loro il respiro –, [L’uccisione degli Il latino ha il termine insidium. Il Dictionary of Medieval Latin from British Sources registra insidium come sinonimo di insidiae. Si propone la traduzione di “trappola delle navi”, alludendo alla falsa speranza di salvarsi sulle navi che poi naufragheranno. b  Hor., Sat., 1, 9, 59-60: “Nil sine magno / vita labore dedit mortalibus” (“La vita non ha dato nulla ai mortali senza grande fatica”). a 

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anziani e dei religiosi e la cattura dei bambini] uccisi tuttavia donne e uomini anziani, senza il favore di nessuna misericordia – ovunque le armi nemiche potessero trovarli nelle piazze, nei quartieri e negli angoli – e catturato un gran numero di uomini, donne e bambini; sterminati dalla spada e dal fuoco anche molti uomini venerabili, illustri per la fede, la sapienza e ogni santità – che sotto abiti di diverse religioni, servivano il Signore nella stessa città con spirito di umiltà –; contaminate senza riguardo anche le sacrosante basiliche e gli altri luoghi pii dedicati al culto divino con uccisioni, stupri e vari scempi e violate sconsideratamente nel disprezzo di Dio; [La corruzione degli uomini] ma contro quel sesso – ahimè, che vergogna! – nel quale la legge naturale non permette assolutamente di perpetrare in nessun modo alcun selvaggio crimine, esercitando quegli stessi scellerati figli dell’infedeltà (Ephes. 2, 2) con i giovinetti stessi senza pudore quel genere detestabile di piacere esecrabile perfino agli dèi, nemico della natura umana e contagioso anche per l’aria – ragione per cui l’ira di Dio, come tramandano gli antichi annali delle Sacre Scritture, non tardò a giungere su di loro, caduto dal cielo il fuoco sulfureo sulle cinque città –; devastando per di più fuori la spada e regnando dentro il terrore, alla fine, presi per primi dagli edifici i preziosi bottini – di cui quella città era molto ricca – i funesti e empi nemici, esponendola completamente alla rovina e agli incendi in ogni parte, la abbandonarono e la sottomisero, ahimè, all’odio e alla privazione di Cristo e del Suo santissimo nome, desolata senza nessun abitante, come un cumulo di pietre ammassate. [Pianto disperato delle anime del Campo Santo] Allora, le anime dei giusti (Daniel 3, 86) – fra tutte le lingue e i popoli nella stessa città, cambiato il corso dei tempi – morti in gran numero e sepolti con venerazione cattolica nel sacro cimitero del Campo Santo, proruppero in un pianto tristissimo, per il fatto che, interrotto ormai del tutto il gran numero di visite quotidiane del popolo cristiano e delle sante orazioni celebrate in loro suffragio, cancellate da lì le devote preghiere, da allora in poi caddero nella dimenticanza e come quelle che sono scese nell’inferno (Baruch 3, 19), ormai per sempre spregevoli, venivano disprezzate.

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[Nota qui la profezia di Geremia sulla distruzione della città di Acri] Allora, in questa occasione, penso che si sia realizzato quello che il Signore aveva predetto, minacciando attraverso le parole di Geremia. Dice: “Ecco, io consegnerò questa città nelle mani del Re di Babilonia, che la prenderà e la brucerà col fuoco (Ier. 32, 2): chi dunque allora, avendo ali come di aquila (Is. 40, 31), sfuggirà dalle sue grinfie?” E di nuovo dice: “Ecco: io manderò il terrore su di te – dice il Signore degli eserciti – da tutti coloro che ti circondano e vi disperderete, ciascuno dalla vostra vista e allora non ci sarà chi riunirà i fuggitivi” (Ier. 49, 5). E non dubito allora che si siano realizzate anche quelle parole che si leggono nel Vangelo e vengono citate dal profeta, nonostante una volta, al tempo della chiesa nascentea, si sia compiuto secondo il senso storico nei piccoli innocentib: “Una voce è udita a Rama, un forte pianto e un ululato; Rachele – cioè la madre chiesa – piange i suoi figli e non vuole consolare (Matth. 2, 18) il suo cuore sofferente e completamente in preda all’angoscia, poiché non era più rimasto nell’eredità del Signore, in Terra Santa, nessun cristiano e nessuno che sia stato rigenerato con l’acqua del sacro battesimo o con la grazia dell’adozione”. E piangendo molto prima e prevedendo nello spirito quello che sarebbe capitato negli ultimi tempi, Gioacchino, quell’uomo profetico, interpretò in questo senso l’oracolo, dicendo così: “Dice il Signore a Edom: Ecco come un leone sale dalla superbia del Giordano verso una bellezza robusta e subito lo farò correre da quella” (Ier. 49, 19) dove, secondo Gioacchino, il Signore suggerisce che il regno di Gerusalemme debba essere totalmente distrutto per mano dei saraceni. Dunque prosegue: “Tutta la terra è mossa dalla voce della sua rovina” (Ier. 49, 21), cioè la Chiesa generale. Cosa infatti il profeta intende con “bellezza robusta” se non la città di Acri, nella quale gli Ordini militari apparivano divisi nella sua continua difesa? Hier., Epist., 53, 9: Historiam et nascentis ecclesiae infantiam texere (“Intrecciare la storia e l’infanzia della Chiesa nascente”). b  L’espressione rimanda all’episodio evangelico della strage degli innocenti, voluta dal re Erode per uccidere tutti i bambini nati nello stesso periodo di Gesù. Giuseppe, avvisato da un angelo, mise in salvo Gesù in Egitto. Solo dopo la morte di Erode, Giuseppe si stabilì a Nazareth. Il parallelo si instaura con la strage delle comunità cristiane in Terra Santa durante l’assedio della città di Acri. a 

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[Compassione per la città di Acri] Ahimè, che dolore! Ma poiché se ne è andato da quella – come una volta dalla figlia di Sion (Lament. 1, 6) – ogni suo splendore, la corona è caduta miseramente dalla sua testa ed è rimasta calva la bella e folta chioma, con i capelli che cadevano ovunque. Per tale ragione, privata dei suoi figli, eliminata e consumata la sua forte milizia da tutti i confini della sua desolazione e spogliata della gloria di ogni sua felicità, mentre piange e considera le vergogne della sua nudità, si strugge eternamente in sé nel silenzio del dolore. Quindi subito tutta la terra al cospetto della cruenta bestia tacque (Is. 14, 7), appena sei stata abbandonata, da quando la sacra stirpe e la nobile progenie dei cristiani è stata distrutta e scacciata da te e dalle città di tutta la Siria, dalle cittadelle, dagli accampamenti e dagli altri luoghi che respiravano solo grazie alla tua forza e che ugualmente erano stati presi in un solo istante di tempo con te. [La derisione della croce e delle immagini dei santi] Inoltre, per suscitare l’ardente desiderio di vendetta e il sentimento di pietà nei cuori dei devoti, non bisogna far cadere in nessun modo nel silenzio della reticenza il fatto che quegli scellerati figli della perdizione (Ioh. 17, 12) accusavano tutti i cristiani del peccato di idolatria per il culto delle immagini divine e sacre del Crocifisso, della Santa Vergine e delle croci, che i seguaci della deprecabile setta di Maometto detestano vergognosamente in derisione e odio di Cristo e della religione cristiana, esponendole a varie offese e scherni e trascinandole ovunque per la sporcizia delle piazze, legate dalle loro mani empie alle code dei cammelli, con furiosi urli di derisorie pratiche pagane e esercitando su di loro qualsiasi tipo di vile commercio, dicendo con parole nefaste: “Questi sono gli dèi dei dissennati cristiani che, essendo opera delle mani degli artigiani, non possono sopravvivere né sono capaci di liberarsi dalle mani di chi le offende. In che modo dunque potranno ascoltare chi li invoca, quando saranno chiamati? Se dunque i singoli non adorano e venerano il nome del santissimo profeta Maometto, grazie al braccio della cui forza noi vinciamo e schiacciamo tutti i popoli ogni giorno, ma in verità non con dipinti e icone che i premurosi artigiani descrivono e dipingono secondo una qualche linea di contorno!”

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[Qui rimprovera i cristiani, confortandoli] O cristiani! Prestate attenzione qui alla vostra offesa e vergognatevi, ripensate e raccogliete davanti ai vostri occhi gli scempi tanto spregevoli di tante derisioni, con le quali al posto vostro in Oriente il nostro Redentore Gesù Cristo viene danneggiato dai blasfemi, e lasciatevi vincere almeno dalla pietà e affrettatevi tutti insieme verso l’Egitto contro i perfidi figli di Ismaele, in aiuto del Salvatore per vendicare l’offesa della croce. Anzi: in verità, la vostra offesa. Inoltre, prestate attenzione – e pensate fra di voi, con efficace considerazione – al gravissimo affronto verso Cristo e verso tutta la cristianità: guardate venir meno la gloria della vostra bellezza, cioè quello stesso speciale e peculiare patrimonio del Salvatore, decorato dalla gloria della Natività, della Passione e della Resurrezione del Signore, e provvedete ai suoi cittadini, miseramente distrutti e messi in fuga da dove il figlio di Dio ha pagato nobilmente il prezzo della nostra redenzione. E perciò tutto il popolo cristiano deve e può ora temere e essere sconvolto giustamente da molta vergogna, perché, come esigono i suoi peccati, il nostro Dio è così furioso con il suo popolo, che ha redento, e perché il Suo animo si è allontanato da lui, quando – esposto dai tempi antichi (1 Esdr. 4, 19) a tante stragi e rovine – è stato tanto vilmente umiliato e consumato, come se il braccio della divina protezione si fosse sottratto dalla tutela di quel popolo, così come ora la stessa eredità sente e piange, esposta ai danni di tanta devastazione e schiacciata ormai totalmente dai piedi dei figli di Agar. Ahimè, che dispiacere! In quello stesso luogo, i nemici della croce che erano soliti sottostare a una servile condizione, prevalgono con una crudele tirannide, sulla cui popolazione un tempo la forza di pochi cristiani, che allora temevano il Signore, prevaleva. [I mercanti che portano beni e oggetti proibiti ai saraceni] Accadde poi un orribile delitto e un esecrabile crimine, giustamente da criticare, poiché molti figli della maledizione (2 Petr. 2, 14) e discepoli della perdizione, cristiani solo di nome, che conoscono soltanto le questioni terrene, non quelle celesti, e desiderosi dei pericolosi interessi di guadagno per folleggiare senza freni nella feccia di una vita di piaceri, finora hanno rifornito e ancora non smettono di rifornire i nemici di Cristo e della cristianità di cibo,

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armi, vascelli e altre cose necessarie al dannato guadagno, affinché coloro che così sono insorti finora per assalire i cristiani e la fede con più energica forza, abbiano la forza di insorgere in futuro, cosicché quindi venga posta – è già posta – una macchia indelebile nella gloria del nome cristiano. Questi sono certamente figli ingrati che hanno meritato il pane del dolore (Ps. 126, 2); questi sono quelli che meritano di essere odiosi davanti al Redentore in persona, affinché allontani da loro il volto della pietà; questi certamente non solo non badano ai benefici ricevuti da Dio, ma sembra anche che probabilmente cospirino contro lo stesso Redentore, mentre avviano con i suoi nemici affari immensamente dannosi per i cristiani e forniscono loro tali protezioni nel Suo disprezzo. Ma anche se non guardassero al timore o all’amore divino oppure se non si preoccupassero di evitare il danno di quella terra, magari li avessero frenati almeno le gravi offese, che a parole e a fatti nelle terre dei saraceni sempre più spesso vengono inflitte a loro e alla religione cristiana! Fra queste oltraggiose offese che là proprio i falsi cristiani ricevono, quando si lamentano di qualche esborso e dicono inoltre, sempre lamentandosi, che non sarebbero più ritornati da loro in futuro con le mercanzie, i saraceni svergognano la loro lamentela con questa risposta: “Se noi cavassimo a voi un occhio, voi ritornereste da noi con l’altro!”. Come gli stessi mercanti hanno detto a viva voce a me, Taddeo, quando un tempo risiedevo nelle regioni della Siria. [Nota qui le parole della Bibbia e leggi sotto profezie molto significative] Senza dubbio, potrei affermare senza remore che tutte queste cose, che ho scritto che sono accadute in tal modo riguardo alla distruzione e alla devastazione di quella terra, sono sicuramente l’inizio delle future sofferenze per noi che siamo sopravvissuti e sono come le anticipazioni dei mali che verranno, dai quali con nessuna precauzione e scappatoia potremo in ogni modo fuggire. Conveniva – anzi era necessario – che il giudizio iniziasse in primis dalla casa del Signore – la quale, se prima dominava libera, adesso serve come un’ancella gli stranieri – e che la fiamma della persecuzione fuoriuscisse dalla Sua santa dimora per divorare ogni splendore della santa eredità, e lo era perché da questo

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più apertamente tutti gli altri popoli cristiani vedano, ripensino, comprendano e riconoscano chi fuggirà dall’imminente collera che giungerà su di loro e chi, tanto felice e innocente, eviterà gli scandali che si avvicinano al mondo, ossia dal fatto che il Dio delle misericordie non perdonò gli abitanti di quella terra – fra i quali c’erano molti che temevano il Signore – che la gloriosa presenza della sua divinità un tempo onorò con il corpoa. Dunque, voi, popoli ortodossi, re e principi cristiani, prima che i mali vi sorprendano, piangete le vostre rovine con lamenti di penitenza e deplorate, levate le grida a Rama, le miserie della madre Chiesa, che ora si rattrista negli amari dolori del parto. Ad ogni modo, ormai non è vostro dovere scrivere elegie politiche, redigere poesie oltraggiose o comporre tristi lamentib: infatti, è più che sufficiente che sappiate mostrare soltanto quelle cose che si sono realizzate in voi nel tempo presente e quelle che devono ancora realizzarsi completamente, che Geremia vi ha profetizzato attraverso la metafora di quella sacrosanta città molti secoli fac. Dice: “Come sta solitaria la città piena di popolo! È diventata come vedova la signora delle genti, la sovrana delle province è posta sotto tributo” e tutto quello che si legge di seguito. a  Ioach. Flor., Concord., 2, p.  454: Ergo necesse fuit, ut iudicium inciperet de domo Domini, et ignis egrederetur a sanctuario eius ad comburendum illud, ut videant et recogitant et intellegant ceteri, quid futurum sit super se, si Deus peccantibus filiis non indulget, et eos, qui vel utcumque verbum eius audiunt non exaudit (“Dunque fu necessario che il Giudizio iniziasse dalla casa del Signore e che il fuoco uscisse dal suo santuario per bruciarlo affinché tutti quanti guardino, riconoscano e capiscano cio che è destinato ad accadere su di loro, se Dio non perdona i figli peccatori e non esaudisce coloro che ascoltano almeno in qualche modo la sua parola”). b  Per politicos elegos, cfr. Du Cange, s. v. versus politicus. c  Ioach. Flor., Concord., 2, p. 454-455: Verumtamen, o vos clerici, vestras prius deflete ruinas et miseriam matris vestre, levatis in Rama vocibus, deplorate! Non vestrum est componere elegos nec dictare lamenta, tantum ut sciatis presentialiter promere, que vobis Ieremias, de quo et loquimur, ante tot saecula preparavit. Quomodo, inquit, sedet sola civitas plena populo? Facta est quasi vidua domina gentium, princeps provinciarum facta est sub tributo! (“Tuttavia, voi uomini di chiesa, piangete prima le vostre rovine e la miseria di nostra madre, levatesi voci a Rama, piangete! Non è vostro compito comporre elegie né scrivere lamenti soltanto perché sappiate esprimere personalmente ciò che Geremia, del quale abbiamo parlato, preparò tanti secoli fa. Dice: In che modo siede sola la città piena del popolo? La signora delle genti è diventata come una vedova, la regina delle province è data sotto un tributo!”).

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In realtà, tutta questa invettiva di Geremia, nella quale lui stesso enumera i peccati dei Giudei, sembra veramente riversarsi o ritorcersi proprio contro di noi, che siamo chiamati cristiani e non lo siamo, dato che professiamo Cristo Signore a parole, ma quotidianamente lo rinneghiamo nei fatti, ci sforziamo sì di avere un’apparenza di pietà, ma della pietà a stento produciamo qualche frutto, siamo condotti fuori per la grazia della rigenerazione spirituale dalla terra dell’Egitto – cioè dal presente mondo perverso (Gal. 1, 4) –, abbiamo ottenuto nello spirito la terra degli Israeliti, che gronda di latte e miele (Deut. 6, 3), ma abbiamo indurito i nostri cuori, insensibili ad ascoltare la voce del Signore, più delle genti che non hanno ancora ricevuto la notizia della Verità evangelicaa. Dove sono infatti la contesa, la frode, la cupidigia, l’invidia, l’ambizione, la discordia se non fra i popoli cristianib fra i quali ogni giorno si sentono contenziosi e discordie? Per questa ragione, come deduciamo chiaramente dall’apertura del sesto sigillo, che secondo l’interpretazione di Gioacchino certamente si riferisce al tempo presente in cui ci troviamoc, il Ioach. Flor., Concord., 2, p.  3: Quia labentis ac perituri seculi perurgere ruinam scripta in Evangelio signa terroresque fatentur, non a fructu operis otiosum existimo ea […] ad cautelam reserare fidelium et torpentia somnolentorum corda sono vel insolito excitare (“Poiché si dice che i terrori e i segnali scritti nel Vangelo incalzano la rovina del secolo fuggitivo e perituro, non penso sia inutile che dal risultato dell’opera queste cose […] diano inizio all’attenzione dei fedeli e scuotano i cuori intorpiditi di chi si è addormentato”). b  Ioach. Flor., Concord., 2, 453-454: Ubi enim lis, ubi fraus, ubi cupiditas, nisi inter filios Iuda, nisi inter clericos Domini? Ubi zelus, ubi ambitio, nisi inter clericos Domini? (“Dove è infatti la lite, dove l’inganno, dove la cupidigia, se non fra i figli di Giuda, se non fra i chierici del Signore?); Ioach. Flor., Scripta, p. 74: Re vera etenim persecutietur Babilon, populus scilicet, qui dicitur christianus et non est, sed est sinagoga Sathane, et qui veri sunt Christiani in duabus tribulationibus liberandi sunt (“In realtà infatti viene perseguitata Babilonia, ossia il popolo che è detto cristiano e non lo è, ma è la sinagoga di Satana e coloro che sono veri cristiani devono essere liberati in due tribolazioni”). c  Ioach. Flor., Concord., 2, p. 335: Erit autem tunc tribulatio magna, qualis non fuit ab inizio, sicut aperte liquet ex sexti apertione sigilli in libro Apocalypsis, ubi inter cetera scriptum est: Reges terre et principes et tribuni et divites et fortes et omnis servus et liber ascondent se in speluncis et petris montium, et dicent montibus et petris: “Cadite super nos, et abscondite nos a facie sedentis super thronum et ab ira Agni, quia venit dies magnus ire ipsorum, et quis poterit stare?” (“Ci sarà inoltre una grande tribolazione come mai ci fu dall’inizio, così come è evidentemente chiaa 

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tempo incombe ora davvero, in cui sarà guai al mondo per gli scandali e in tutta la terra dei cristiani, rinchiusa dai quattro punti cardinalia, seguirà la tribolazione generale, provocata dall’antico drago, che nell’Apocalisse di San Giovanni con la sua coda sembrò trascinare a sé la terza parte delle stelle, e per di più rinnovare battaglia contro tutti quelli che rispettano i comandamenti del Signore. Perciò, così Giovanni scrive fra le altre cose: “I re della terra, i capi, i tribuni, i ricchi, i forti, ogni servo e uomo libero si nasconderanno nelle grotte e nelle pietre dei monti e diranno alle pietre e ai monti: Cadete su di noi e nascondeteci lontano dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, poiché è giunto il gran giorno della loro ira. Chi potrà resistere? (Apoc. 6, 1517)”.

Anche nel libro di Daniele si parla del sesto re, il tempo della cui venuta certamente ora incombe, che opprimerà i santi dell’Altissimo (Daniel 7, 25) e sul settimo re aggiunge che devasterà ogni cosa oltre quanto si possa credere (Daniel 8, 24). Come infatti Cristo è morto nel sesto giorno, così anche nella sesta epoca, in cui ormai siamo, seguirà una grandissima persecuzione dei fedeli cristianib. Gioacchino poi esprime chiaramente il tempo in cui queste sventure capiteranno, dicendo: “È vicino il tempo (Apoc. 1, 3), il cui giorno e l’ora il Signore stesso conoscec, che solo conosce i tempi e i momenti (Act. 1, 7) che il Padre ha posto in ro dall’apertura del sesto sigillo nel libro dell’Apocalisse, dove fra l’altro c’è scritto: I re della terra, i capi, i tribuni, i ricchi, i forti, ogni schiavo e ogni uomo libero si nasconderanno fra le grotte e le pietre dei monti e diranno ai monti e alle pietre ‘Cadete su di noi e nascondeteci dal volto di Colui che siede sopra il trono e dall’ira dell’Agnello, poiché è giunto il grande giorno dell’ira di quelli e chi potrà sopravvivere?’”). a  Avg., In euang. Ioh., 27, 10: Mansit numerus consecratus, numerus duodenarius, quia per uniuersum mundum, hoc est per quatuor cardines mundi, trinitatem fuerant annuntiaturi (“Rimase un numero consacrato di dodici unità poiché per tutto il mondo – cioè per i quattro cardini del mondo – avrebbero annunciato la trinità”). b  Ioach. Flor., Concord., 2, p.  337: Et sicut sexto die passus est Christus, ita sexto tempore preit passio, ut sequatur sabbatum requietionis (“E così il sesto giorno morì Cristo, così nel sesto tempo andò avanti la passione, come segue il sabato di riposo”). c  Ioach. Flor., Concord., 2, p. 334: Tempus autem, quando hec erunt, dico manifeste, quia prope est; diem autem et horam Dominus ipse novit (“Inoltre, quando

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Suo potere da tempo immemore”. Dice: “Tuttavia, se la pace venisse allontanata da questi mali fino a milleduecento anni dall’incarnazione del Signore, da lì in poi, perché queste cose non accadano subito, i tempi e i momenti sono per me del tutto sospettia”. Ciascuno dunque fugga in fretta verso l’arca della penitenza, se non vuole perire con il mondo mutevole, prima che la vorace onda del grande diluvio emerga fuori dall’abisso e, aperte le cateratte del cielo, subito sopraggiunga un’inondazione di una tempesta tanto burrascosa dai cui flutti certamente nessuno potrà proteggersi – per giunta senza alcun rimedio delle decisioni umane – poiché in quel momento a nessuno verrà concessa nemmeno una piccola proroga, come finora venne concessa al tempo di Lot affinché avesse la forza di fuggire verso i precipizi dei monti per salvarsib. Inoltre, aggiungi, secondo Gioacchino, che le bestie e i rettili, che il Signore ha creato il sesto giorno, si riferiscono ai regni dei pagani ai quali è stato concesso di recente di recar violenza in questa sesta epocac, a causa dell’insensibilità del loro cuore, contro il popolo dei cristiani: poiché infatti – come dice l’Apostolo accadrà tutto ciò, sarà il tempo, lo dico chiaramente: poiché è vicino, inoltre Dio stesso conosce il giorno e l’ora”). a  Ioach. Flor., Concord., 2, 334-335: Pax conceditur ab hiis malis usque ad annum millesimum ducentesimum incarnationis dominice; exinde, ne subito ista fiant, suspecta michi sunt omnimodis et tempora et momenta (“La pace viene concessa da questi mali fino al milleduecentesimo anno dall’incarnazione del Signore: poi, perché queste cose non accadano subito, in tutti i modi sono a me sospetti i tempi e i momenti”). b  Lot è un personaggio dell’Antico Testamento. Era il nipote di Abramo, con il quale marcia verso la terra promessa. Quando i due si separarono, Lot si rifugiò a Sodoma, ma prima della sua distruzione, due angeli giunsero nella casa di Lot per avvisarlo e farlo fuggire. La folla dei Sodomiti assalì l’abitazione di Lot per poter abusare dei visitatori, ma vennero accecati da un lampo, permettendo così a Lot e alla sua famiglia di fuggire dalla città. Il parallelismo qui richiama il contrasto fra la possibilità concessa a Lot di scappare e l’impossibilità da parte dei cristiani di poter sperare nella salvezza senza il pentimento. c  Ioach. Flor., Concord., 3, p. 565-566: Bestie et reptilia, que creavit Dominus sexto die, regna sunt paganorum et secte pseudoprophetarum, que sexto tempore Ecclesie – quod in ianuis est! – atrocius permittentur sevire contra Ecclesiam propter peccata (“Bestie e rettili, che il Signore ha creato nel sesto giorno, sono i regni dei pagani e le sette dello pseudo-profeta che nel sesto tempo della Chiesa – che è alle porte! – si permettono di infierire violentemente contro la Chiesa per i peccati”).

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– non hanno ricevuto la luce della Verità per salvarsi, il Signore invierà loro un’opera di inganno (2 Thess. 2, 10-11), cioè, per Sua concessione, verranno provocate nella sua ira molte disgrazie ai cristiani. Infatti, come se qualcuno tenesse legato con catene di ferro un selvaggio leone o un orso desideroso di correre verso la preda e urlasse a coloro che gli stanno intorno di preoccuparsi per se stessi e per la propria salvezza, dal momento che non badano a proteggersi, anzi – cosa ancor più grave – arrecano offese all’uomo che trattiene la bestia e nemmeno smettono di aggiungere danni a danni, alla fine quello, provocato all’ira contro quei disonesti, libererebbe la bestia per vendicarsi. Allo stesso modo, queste bestie sono predisposte per la loro natura malvagia a nuocere sempre ai fedeli, tuttavia è stato loro concesso di compiere i propri desideri e essere oltremodo liberi per giusto giudizio di Dio in certi momenti soltanto per correggere. Per questo è scritto: “Hai posto le tenebre e arrivò la notte in cui vagheranno tutte le bestie della foresta (Ps. 103, 20)”. Questa è infatti quella bestia che Giovanni vide salire dal mare nell’Apocalisse perché venga indicato più chiaramente di quale natura sia e la proprietà di quello che è posto in esso attraverso il luogo da cui sale, che è sgradevole e inquieto, secondo quel passo “Il cuore dell’empio è come il mare agitato perché non può trovare pace (Is. 57, 20)”. Continua: “Ha dieci corna (Apoc. 13, 1)”, cioè i dieci regni in cui, secondo la visione di Daniele, si distinguono le dominazioni dei pagani sotto il dominio della bestia; a ciò si aggiunge, per spiegarlo chiaramente: “E sopra alle sue corna ci sono dieci diademi e la bestia che ho visto è simile a una pantera (Apoc. 13, 1-2) – certamente per i molti inganni, dai quali è macchiata interiormente come certe macchie in foggia di leopardoa – e la sua bocca è come la bocca di un leone (Apoc. 13, 2)”, che simboleggia la sua selvaggia rapacità. Infatti, quella bestia orientale, come un leone ruggente, va sempre in giro cercando chi divorare (1 Petr. 5, 8), come è chiaro agli occhi nella desolazione e nella conquista delle illustri città, un tempo Gerusalemme, Akkar e Antiochia, di recente ai giorni nostri Tripoli, Acri, Sidone, Beirut, Nella letteratura medievale, il manto maculato del leopardo è il simbolo del raggiro. a 

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Château Pèlerin e Tartusa; comunque, dal momento che questa bestia non vuole porre limiti alla sua malvagità finché la sua fine non giungerà dal cielo, perciò, non trovato in Siria nulla di più che valesse ormai la pena divorare per placare l’insaziabile ingordigia del suo ventre, ora minaccia di nuovo l’isola di Cipro e si sforza di attraversare da un capo all’altro il mare con una flotta – come si dice – preparati ormai i vascellib, con l’arrivo del mese di maggio, evidentemente per inghiottire Cipro e divorare ciò che rimaneva del popolo cristiano, che da poco scappò verso quell’isola a causa della recente desolazione di tante città, confidando la bestia che le onde del Giordano possano affluire nella sua bocca (Iob 40, 18)c. Ioach. Flor., Concord., 2, p. 414-415: Secundum hoc igitur accidit in Ecclesia generatione vicesima secunda. Suscitavit enim Deus spiritum regis Arabum, qui per successionem, non tam regni quam perfidie, descenderat a Moameth pseudopropheta Sarracenorum. Et primo quidem devastaverunt ierosolimitanam, antiochenam et alexandrinam ecclesias, deinde alias atque alias, iusto Dei iudicio permittente, veluti spissas segetes aut silvarum densa nemora succiderunt, ita ut posset dicere alienus: Ubi est Deus eorum? (“In secondo luogo, questo dunque accade nella chiesa durante la ventiduesima generazione. Infatti Dio suscitò lo spirito del re degli Arabi, che per successione non tanto del regno quanto della perfidia era disceso dallo pseudo-profeta Maometto dei Saraceni. E per prima cosa, devastarono le chiese ierosolimitana, antiochena e alessandrina, poi le altre e altre ancora, per concessione del giusto giudizio di Dio, come abbattessero folte messi o una densa distesa boscosa, cosicché lo straniero potesse dire: Dov’è il loro Dio?”). Prendendo spunto dal passo di Gioacchino da Fiore, Taddeo modifica le località elencate nella Concordia per adattarle alla storia recente. Gioacchino si riferisce agli Arabi che grazie alla loro espansione erano arrivati a conquistare i territori di tre delle cinque sedi della pentarchia patriarcale (Gerusalemme, Alessandria d’Egitto e Antiochia), risparmiando le altre due (Costantinopoli e Roma). La traduzione riporta il nome delle località con i toponimi moderni. Château Pèlerin e Tartus corrispondono rispettivamente a Chastel-Pèlerin (in antico francese) o Castrum Peregrinorum, una fortezza crociata poco distante dall’odierna Atlit, a nord di Israele, conquistata nell’agosto del 1291, e a Tortosa, collocata sulla costa meridionale della Siria, a poca distanza dal Libano. b  Per il sintagma per ipsam nell’edizione critica cfr.  Huygens 2004, p.  139, r. 1019: «sc. Syriam (1016)». La traduzione con il complemento di moto per luogo pare insostenibile. Probabilmente, Taddeo si sta riferendo alla bestia, che è anche soggetto della principale (“preparata la flotta da lei”), ma forse è eccessiva forzatura. Nella traduzione italiana il sintagma non compare. È possibile che dietro a questa incomprensione ci sia un errore di copiatura, dovuto da un salto da pari a pari per omeoarco fra ipsam e il consecutivo iam nel testo latino. c  Il versetto si può interpretare nel senso di “fare qualcosa automaticamente, senza nessuna fatica, consapevole delle proprie grandi capacità”. a 

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Tuttavia, bisogna aver timore di quello che segue nella stessa profezia di Giovanni, poiché è certo che una parte si è realizzata e una parte resta ancora da realizzare. Dice: “E il drago le diede la sua forza e grande potenza, e le è stato concesso di fare la guerra con i santi e di vincerli, e le è stato dato il potere su ogni tribù, popolo, lingua e nazione e le fu data una bocca grande per parlare e aprì la sua bocca per bestemmiare contro Dio, per bestemmiare il Suo nome e la Sua santa dimora e coloro che abitano in cielo: chi dunque è simile alla bestia e chi potrà combattere con lei? (Apoc. 13, 2-6)”. È certamente Lui solo al quale è stato concesso da Dio ogni potere in cielo e in terra, essendo Egli il Signore degli eserciti, e dalla sua bocca esce una spada affilata a doppio taglio. Allo stesso modo, Daniele dice questo di quella bestia: “Proferisce discorsi contro l’Altissimo e distruggerà i santi dell’Altissimo e penserà di poter cambiare le leggi e i tempi (Daniel 7, 25)”. Abbiamo ben ascoltato l’eccesso della bestia superba e di conseguenza aggiungeremo la caduta, poiché, secondo la parola della Verità tutti quelli che si esaltano verranno umiliati. Di questo Daniele parla così nella sua visione: “Guardavo, finché vennero collocati i troni e un vegliardo – che indicherà certamente la bestia e i suoi seguaci – si sedette e i libri vennero aperti (Daniel 7, 9-10)”, in cui insinua che i misteri divini dovranno essere svelati e compiuti nel momento prescritto. Perciò continua: “E ho visto che la bestia veniva uccisa e il suo corpo distrutto, anche il potere della altre bestie – cioè dei suoi seguaci – venne cancellato (Daniel 7, 11-12)” poiché senz’altro il tempo sicuramente è alle porte, se sono veritieri, anzi proprio perché sono del tutto veritieri gli oracoli di profeti tanto importanti, con i quali i due precedenti testimoni di veritàa, nella testimonianza dei quali ogni parola regge nel giudizio, espressero chiaramente la stessa cosa; di questi uno, che alla cena si trovava al fianco del Maestro e lì apprese i misteri di una rivelazione tanto grande, dichiara nell’Apocalisse espressamente che il numero della bestia deve essere calcolatob per seicentosessantasei anni, seconGiovanni Evangelista e il profeta Daniele. Il latino ha il nominativo computandus, laddove qui è necessario che il gerundivo sia all’accusativo computandum. a 

b 

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do alcuni dal momento in cui Maometto – che viene identificato con la bestia insieme ai suoi seguaci – iniziò a regnare, ma secondo altri dal momento in cui nacque, periodo che certamente è ormai giunto alla fine, come affermano i sapienti saracenia. Certamente concorda con la loro opinione Daniele, che nella sua santissima visione dice che dal tempo in cui verrà abolito il continuo sacrificio (Daniel 12, 11) – che si riferisce certamente al tempo presente, nel quale il culto della venerazione cattolica è stato totalmente cancellato da tutta la chiesa orientale per mano del sultano di Babilonia, persecutore di Cristo e emulo, o successore, della bestia. Segue: “E sarà posto l’abominio – cioè l’abominevole setta di Maometto – nella desolazione, milleduecentonovanta giorni (Daniel 12, 11)”, dove “giorno” deve essere inteso con “anno”, in accordo con il passo “Conterai un giorno per un anno (Ezech. 4, 6)”, ma il novantesimo deve essere calcolato per tutta la decina seguente poiché, essendo il dieci il primo limite numerico e la prima perfezione numericab, i misteri celesti dei tempi che devono realizzarsi si intendono nell’intera decina, così come il termine stesso, definito nel novantesimo, deve essere esteso direttamente fino alla fine del successivo centinaio. Anche all’inizio della sua santissima visione Daniele descrisse così chiaramente fra le altre cose quella bestia, della quale Giovanni alla fine dei tempi predisse molte cose quasi da vicino. Dopo guarderò nella visione della notte (Daniel 7, 7) in cui si identifica il tempo della persecuzione della Chiesa, soprattutto perché si legge che di notte la barca di Pietro vacillasse e che inoltre lui, che tena  Un riscontro interessante si potrebbe rintracciare in Corano 5, 19: Gente del libro, il Nostro inviato è giunto a voi, dopo un’interruzione dei messaggi per istruirvi, affinché non diciate: “A noi non è giunto nessun inviato, nessun ammonitore”. E invece vi è giunto un inviato, un ammonitore, Dio è potente su ogni cosa. Secondo alcune tradizioni, fra l’epoca di Mosè e quella di Gesù sono trascorsi millesettecento anni durante i quali Dio ha continuato a mandare profeti. Nei seicento anni che sono intercorsi fra Gesù e Maometto, Dio ha interrotto questa catena di messaggeri. In sostanza, Gesù è per l’Islam l’ultimo dei profeti prima della venuta di Maometto, il vero profeta di Dio. Sull’identità di questi Sarraceni sapientes Taddeo non fornisce informazioni. b  Macr., Comment., 1, 6, 11: Intra denarium coartetur, quem primum limitem constat esse numerorum (“Viene racchiuso entro la decina che risulta essere il primo limite dei numeri”).

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tava di pescare, non potesse prendere nulla nella rete, che tuttavia faticò ondeggiando e remando, per tutta la notte. Segue: “Ecco una quarta bestia, terribile, spaventosa e fortissima” (Daniel 7, 7). Chi infatti è più forte di colui che ora è il re dell’Egitto, che ebbe la presunzione di invadere e poté espugnare la forte città di Acri che nessuno dei suoi predecessori osò non solo conquistare, anzi neanche assediare e ancor meno guardare da lontano? Segue: “Aveva grandi denti di ferro” (Daniel 7, 7) ovvero per strappare via le spoglie di molti nel saccheggio e per divorare le anime cristiane. Segue: “Mangiando – cioè la preda – e stritolando (Daniel 7, 7) – ovvero i corpi umani – e schiacciando ciò che resta con i suoi piedi (Daniel 7, 7) – il che si riferisce alle case e alle città che rase al suolo e schiacciò – ma era diversa dalle altre bestie che avevo visto prima di lei (Daniel 7, 7) – cioè perché nessun sultano, per quanto potente e audace fosse stato, osò tentare ciò che recentemente questo ha osato e ugualmente portato a termine – e aveva dieci corna (Daniel 7, 7)– il che si riferisce ai dieci regni dei quali lui è a capo oppure alla perfezione del dominio che esercita”.

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Poco dopo però aggiunge: “Io, Daniele, fui terrorizzato davanti a questi e le visioni nella mia testa mi turbarono e il mio spirito inorridì” (Daniel 7, 15). Se dunque Daniele, uomo di Dio, di certo pieno di spirito d’intelligenza e florido di castità, per il fatto di aver previsto con così largo anticipo questa bestia e i suoi crudeli flagelli, fu a tal punto spaventato e turbato, quanto più anche noi, che siamo stati sporcati dal sudiciume di tanti peccati e camminiamo anche nelle tenebre della nostra cecità – e soprattutto per il fatto che abbiamo visto davanti agli occhi nei nostri giorni la bestia e le sue opere, abbiamo sofferto finora anche molteplici persecuzioni da parte sua e ancora ogni giorno le soffriamo – se sentiamo perciò che i nostri mali vengono turbatia da un errore continuo, dovremmo alzarci con tutta la forza da terra per distruggere lei e il suo nome. Comm., Carmen, 907-910: Persae, medi simul caldaei, babyloni uenibunt, / inmites et agiles, qui nesciant ulli dolore / hic ergo exoriens cum coeperit inde uenire, / turbaturque Nero et senatus proxime uisum (“Verranno i Persiani, i Medi a 

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Ahimè! Che dolore! Infatti, quasi non si trova ad oggi nel popolo cristiano qualcuno che faccia del bene, fra i singoli che errano dietro i desideri della loro ambizione, non c’è nemmeno uno che compatisca la rovina e la morte dei suoi tanti fratelli uccisi, presi e assassinati tanto recentemente nelle regioni della Terra Santa oppure che stabilisca o pensi, acceso dallo zelo della devozione e della fede, di vendicare in modo efficace, almeno dopo tanti scempi della cristianità, una tanto grave offesa nei confronti del nostro Dio, recata a Lui dagli empi e inferta quotidianamente in Oriente. Accusate voi stessi in questo, voi popoli fedeli! Badate alla durezza del vostro cuore: perché voi, che sapete apprendere quelle cose che sono del mondo (1 Cor. 7, 33) e cercare la sola conoscenza che è della terra, non sapete, come foste ancora bambini, tentare di imitare la sapienza che è del cielo? Perché voi, che avete imparato a fare la guerra fra di voi, allo stesso modo non resistete ai nemici di Cristo e non organizzate e non portate avanti le battaglie contro i perfidi saraceni? Ascoltate dunque e state attenti (Sap. 6, 2) affinché forse non accada a voi come nei giorni di Noèa, passando il tempo fra riso e scherzi, fra futilità e convivi, aspirando ai guadagni terreni e senza ricercare l’opera del Signore e affinché quel giorno improvviso non vi colga dormienti e impreparati. Dico: desistete, desistete (Is. 52, 11)! Non smarritevi dietro a tali cose, poiché in verità ora non ci sono giorni di gioia, ma di dolore e lutto (Esther 16, 21): infatti, non tutti i momenti sono concessi ai divertimenti, non tutti ai passatempi, ma alcuni ai conflitti. Infatti, è compito dei profeti predire prima le guerre per proteggere, ma è soprattutto nostro compito preparare in fretta alle armi della penitenza e, quando è utile, anche a quelle materiali contro i nemici della fede. Inoltre, è compito dei profeti salire sulla cima di un monte e, visti i nemici, dare un segnale; è però nostro compito, sentito il segnale, rifugiarci in luoghi più sicuri (1 Reg. 24, 33). E se noi abbiamo dormito al suono della tromba, siamo responsabili del nostro sangue; insieme ai Caldei, i Babilonesi, impietosi e agili, perché tutti incapaci di provare sofferenza, quando questo dunque, sorgendo, ha iniziato a giungere da qui, e vengono turbati Nerone e la vista del senato da vicino”). a  Il riferimento è al diluvio universale narrato nella Genesi.

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se però trascuriamo le armi spirituali, moriamo empiamente per colpa nostra. Stiamo attenti dunque, finché abbiamo tempo (Gal. 6, 10), affinché il Signore non venga forse nell’ora in cui non pensiamo e, disprezzandoci, così come Lui ha minacciato, ponga la nostra parte con i reprobi: infatti, fra gli eletti deve essere sempre costante l’attenzione a non intorpidire i loro sensi in qualche nociva trascuratezza, affinché, mentre incautamente non temono le sventure loro predette, non vengano travolti più incautamente da repentine e impressionanti stragi di questa epoca vacillante e destinata alla rovinaa, e, mentre forse si presume l’esito sicuro dei mali futuri, non insorga da un imprevisto nascondiglio il nemico più fortemente protetto. Di certo, questo non è affatto umano, ma o è proprio dei diavoli o degli animali, ovviamente privi di ragione: vedere segni di morte e non temere l’esito della morte, percepire indizi di tempesta e non avere paura della tempesta imminente. Infatti, anche se è azzardato ricercare la fine del mondo, è tuttavia sicuro presagire e temere i segni dei tempi. [Pianto per la città di Acri] Ma ora, dopo questa parentesi, riprenda lo scrittura della narrazione continua dal punto in cui mi sono interrotto, riguardante quella città un tempo illustre, e aggiunga distintamente ogni singola cosa che ha tralasciato. O illustre città, che giustamente devi essere compianta da tutti i fedeli di Cristo con pianti ininterrotti per un tempo e i tempi (Apoc. 12, 14), in che modo ora siedi da sola, tu che eri una volta gremita di un gran numero di popoli? Verso di te confluivano da ogni parte le genti sconosciute e tutte le lingue (1 Cor. 12, 10), come verso la più importante fra molte province; verso di te, come verso il luogo condiviso dei commerci orientali e dei popoli occidentali, accorrevano ogni giorno con i loro tesori le navi e gli innumerevoli mercanti dalle coste di tutte le terre sparse in ogni dove, attraverso ogni parte del vasto mondo. Per l’appunto, tutti hanno in te ora di che lamentarsi e piangere, ciascuno ha di che addolorarsi e rattristarsi: infatti, tutta la terra illanguidisce (Is. 33, 9) e piange nella tua desolazione, ci furono e sono svaniti l’onore e la gloria di tutti a 

Cfr. p. 120, n. c.

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i cristiani, le pie viscere della madre Chiesa sono state in te come contorte e lacerate dai dolori di una donna partoriente. In verità, tutto il mare mugghiò in se stesso e ruggì, poiché la melodia dei marinai entro il suo confine circolarea a stento si sente e l’afflusso delle navi e dei mercanti, che giungono da ogni parte verso di te, d’ora in poi si arresta. Sei stata disfatta in singole membra e sei stata distrutta in tutta la compagine del corpo. Come la pula che è sollevata in aria dal vento, come un’ombra che passa all’improvviso, come il vapore del fumo, diffuso e avviluppato in alto, poi subito sparito nell’aria, sei stata di colpo ridotta al nulla e sei sparita dagli occhi dei mortali come un veloce corridore, che corre per la sua strada (Ier. 2, 23) rapidamente. Infatti, il tremore ha preso le ginocchia dei tuoi forti principi nel giorno del tuo castigo (Is. 10, 3) e i dolori e le angosce ti hanno presa ovunque come una partoriente. Per quale ragione infatti, o gloriosa città, hai nutrito splendidamente i tuoi figli, hai impinguato i tuoi abitanti col grasso di ogni bene, hai esaltato i tuoi capi con le ricchezze e la gloria dell’onore, [Contro i cittadini acritani] ma proprio loro, che tentennavano nel momento della tua distruzione, hanno girato le spalle (Is. 42, 17), ti hanno abbandonata, desolata in mano al distruttore e solitaria senza nessun aiutante? Evidentemente, se i tuoi figli carissimi ti avessero amato come una madre – come dovevano e erano tenuti a fare –, se avessero riconosciuto in te, aperti gli occhi, la loro magnifica condizione e in te la prospera fortuna che sorrideva loro, se non ti avessero disprezzato come una derelitta in mezzo ai pericoli, io penso che abbonderebbero e godrebbero ancora delle tue gioie, conquisterebbero liberamente con gloria e onore anche una straordinaria condizione, che possedevano in te, e in te si arricchia  In questo punto, Huygens mette a testo nautarum celeuma cantancium sonitus intra circularem. Sonitus non può essere apposizione di celeuma, sebbene siano sinonimi. Il sintagma cantancium sonitus è stato espunto dal testo qui proposto perché ritenuto glossa entrata nel testo. Se si osserva l’apparato dell’edizione critica (cantancium B, cantanticum T, cantanti cum γ, canticum ss. tan P), si può notare che il genitivo plurale cantancium viene più volte frainteso. È probabile che l’archetipo o un manoscritto molto antico fosse glossato in interlinea in corrispondenza della parola celeuma, più inusuale del sinonimo sonitus o cantus, e per questo soggetta a un intervento chiarificatore da parte di copisti più colti.

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rebbero con l’abbondanza dei loro desiderati averi. Ma poiché, ingrassati dai seni fecondi delle tue consolazioni, ti hanno disprezzato come figli ingrati mentre barcollavi nel turbine delle avversità, per giusto giudizio di Dio sono stati reputati del tutto indegni di te e sulla terra sono diventati erranti, indigenti e come ignobili senza onore coloro che dominavano sugli altri, mentre rimanevano in te e regnavano insieme a te che regnavi; ora, al contrario, sono sottomessi ai pagani e, banditi da te, servono gli stranieri. Infatti, chi ben consapevole potrebbe negare che, se i tuoi capi avessero prestato molta più attenzione al diritto e alla giustizia, se avessero punito con la dovuta condanna l’arroganza dei peccatori e i costumi corrotti degli insolenti, se non si fossero inoltrati nei desideri della carne seguendo le orme dei pagani (Ier. 10, 2), che non conoscono e non venerano Dio, forse non saresti mai crollata in tal modo e mai loro sarebbero così caduti nel bottino o nelle mani dei nemici? Visto però che forse disprezzarono la pazienza di Dio – che li aspettava per la penitenza –, non impararono affatto ad agire secondo giustizia e diritto, si concessero troppo alle lusinghe dei piaceri e alle mollezze dei banchetti e non posero la fiducia della loro speranza in Dio, ma piuttosto nel loro denaro e nell’ostentazione della potenza, sei diventata – oh che dolore! – deserta per colpa loro, bruciata dal fuoco degli incendi e completamente consumata dalla devastazione nemica. Come infatti fa sapere la sacra e antica storia dei sacri libri, si legge che i tesori di Gerico vennero maledetti per il peccato dei cittadini, per cui Acor, che aveva rubato il lingotto d’oro e altri oggetti preziosi, viene accusato di aver ricevuto la maledizionea; Il passo si riferisce a Acan che venne lapidato a causa del furto di oggetti interdetti da Dio. Una volta scoperto il fatto, l’ira del Signore si scagliò su tutto il popolo di Israele e Acan venne lapidato nella valle di Achor, che prende il nome dall’episodio e che significa “la valle delle avversità”. In alcune opere medievali, i due nomi vengono interpretati come sinonimi e vengono utilizzati indipendentemente uno dall’altro. Per esempio, nella Historia scholastica di Pietro Comestore si trova Porro Achor, vel Achar [al. Achim], filius Charmi, de Tribu Juda, tulit aliquid de anathemate. […] Vocatumque est nomen loci illius vallis Achor (“Poi Acor, o Acar, figlio di Carmo della tribù di Giuda portò la maledizione. […] Il nome di quel luogo viene chiamato valle di Acor”) e nella Cronica di Salimbene de Adam si legge Notandum est quod aliquando tota una domus propter peccatum deleta est de casali suo, a 

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anche per il peccato degli Amalechiti venne ordinato di uccidere i loro animali, che Saul aveva risparmiato e perciò meritò di sentire da Samuelea: “Non sai che il peccato di divinazione è respingere Dio e come il peccato di idolatria non voler obbedire alle regole del Signore?” (1 Reg. 15, 23). Inoltre, per il peccato degli Egiziani, le loro proprietà vennero consegnate alla tempesta di grandine e il bestiame e i primogeniti dalla morte vennero logorati; anche per il peccato degli Israeliti l’arca del Signore è stata consegnata ai Filistei; ma per il peccato del suddetto Acor, il popolo di Israele fu consegnato al potere nemico; anche per il peccato dei figli di Eli, il popolo cadde nelle mani dei Filistei; infine, per il peccato della loro gente gli eletti vennero spesso ostacolati e i profeti vennero condotti con loro alla schiavitù dell’esilio e vissero a lungo fra gli stranieri nel disprezzo della legge divinab. [Qui parla alla città personificata] Cosa c’è dunque di strano, o bellissima città, se giaci così disprezzata e solitaria come una capanna nella vigna, come un tugurio in un campo di cocomeri e come una città esposta alla devastazione nemica? Infatti Dio, furioso per le molteplici colpe dei tuoi figli che in te folleggiavano, e il giusto Signore, provocato all’ira contro di te per i loro recidivi eccessi, dal volto di Colui che siede sul suo trono ha espresso contro di loro il verdetto della dovuta vendetta e degnamente ha consegnato nelle mani dei crudeli nemici coloro che non solo hanno abbandonato te, ma anche tutta la Terra Santa, parte dell’eredità del Signore (Deut. 32, 9), desolata nell’eterno silenzio. E infatti hai ricevuto dalla mano del Signore per i misfatti di tutti i tuoi figlic; tutti colout patet in Achor sive Achan, qui fuit de tribu Iuda, qui propter peccatum furti lapidatus fuit cum tota familia sua, ut habetur Iosue (“Si deve notare che un tempo tutta una famiglia venne eliminata a causa del peccato della sua casa, come è chiaro nella storia di Acor o Acan, che appartenne alla tribù di Giuda, che, a causa del peccato di furto venne lapidato con tutta la sua famiglia, come si legge nel libro di Giosuè”). a  Gli Amalechiti sono una tribù di cui si parla nell’Antico Testamento. Nel primo libro di Samuele (o nel primo dei Re, secondo la nomenclatura latina), il re Saul cattura Agag, il re degli Amalechiti, insieme a tutto il suo esercito. Saul distrusse tutto il popolo rivale, lasciando salvi il re e il suo gregge, scatenando l’ira di Samuele che provvide lui stesso a sterminare il re e il bestiame come aveva comandato Dio. b  L’intero paragrafo è una parafrasi di Gratian., Decr., 2, 1, 4, 11. c  Il testo tràdito non inserisce duplicia, come nel passo di Is. 40, 2, lasciando la frase priva di complemento oggetto.

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ro che ora ti vedono sono riempiti dallo stupore e dalla meraviglia e i tuoi nemici fischiano nella tua rovina, muovono le teste e sghignazzano quando ti attraversano; tutti coloro che ti glorificavano ora ti disprezzano nella tua infamia; il nemico ha steso con violenza la sua mano su tutte le tue cose desiderabili (Lament. 1, 10), ti ha tolto di mezzo tutti i tuoi grandi uomini e i tuoi nemici, arricchiti dai tuoi bottini, mentre prima ti invidiavano, adesso si rallegrano nella tua difficoltà. A chi ti paragonerò o con chi ti confronterò, o ammirevole città? La tua distruzione è infatti grande come il mare. [Il giudizio di Dio] Infatti il Signore ha teso contro di te il suo arco come un nemico, ha alzato e rafforzato la sua destra come un avversario e è caduto nelle tue dimore tutto ciò che era bello a vedersi; ha rovesciato la Sua indignazione su di te come un fuoco, ha abbattuto e distrutto le tue fortificazioni, nelle quali tu invano confidavi, in te ha condotto all’oblio le festività annue, durante le quali tu eri solita rallegrarti con i tuoi figli: tutti quelli che passavano per strada hanno battuto le mani sopra di te, dicendo: “È proprio questa la città di perfetta bellezza, gioia di tutta la terra?”. I tuoi nemici aprirono sopra di te la loro bocca, digrignarono i loro denti, dicendo: “Ti divoreremo e schiacceremo con ostilità. Ecco: questo è il giorno che aspettavamo, l’abbiamo progettato e l’abbiamo realizzato (Lament. 2, 16): esultiamo dunque e rallegriamoci in questo giorno! (Ps. 117, 24)”. Così il Signore ha fatto tutto quello che ha pensato contro di te, ha compiuto la sua sentenza che aveva decretato da tempi antichi, ti ha distrutto e non ti ha risparmiato (1 Esdr. 4, 19), ha teso il suo arco contro di te e ti ha posto come un bersaglio alle frecce per i nemici (Lament. 3, 12), ha chiamato, come al giorno sacro (Lament. 2, 22), chi dovesse distruggerti e atterrirti, ti ha riempito di dolori e ti ha inebriato con l’assenzio, ha rallegrato su di te i tuoi nemici e emuli e ha esaltato le corna dei tuoi nemicia.

Nell’esegesi biblica, l’immagine del corno è legata alla superbia del rinoceronte (o dell’unicorno), reputato animale indomito. Cfr. Ps. 21, 22: Salva me ex ore leonis et de cornibus unicornium exaudi me (“Salvami dalle fauci del leone e fammi scampare ai corni degli unicorni”); Ps. 74, 5: Dixi inique agentibus nolite inique agere et impiis nolite exaltare cornu (“Ho detto a chi agisce ingiustamente: Non agite ingiustamente; agli empi: Non esaltate il corno”). a 

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[La miseria degli acritani, rimproverandoli] Si vergognino dunque coloro che si vantavano con superbia in te, dal momento che sono diventati nudi fuori da te, come le querce con le foglie che cadono, rovinati come il giardino a cui manca l’irrigazione delle acque e fragili come la canna che viene piegata da ogni parte da un venticello: e meritatamente, poiché la forza di coloro che non hanno paura della potenza di Dio e non temono le Sue giuste sentenzea nei loro peccati e nei molti tradimenti è considerata debole come la favilla della stoppa (Is. 1, 31) e poiché la virtù di coloro che non hanno terrore di diventare spesso dei trasgressori della divina volontà sparisce immediatamente dalla vista degli uomini come una scintilla che appare per poco davanti agli occhi, così come ora noi vediamo in teb. È certamente evidente che, poiché questo mondo sensibile e l’uomo vengono guidati dalla Divina Provvidenza, che è buona così come è anche giusta, come è necessario che lo stesso uomo povero di ricchezze, che è debole e superbo per la volubilità della natura e per la libertà delle scelte, venga devotamente guidato – il che pertiene alla bontà del timoniere – così conviene che venga giustamente accusato di smisurata libertà – il che spetta, secondo i suoi meriti, a ciascuna decisione di un giudicec che, come è clemente e generoso a perdonare, quando compatisce e risparmia, così è severo e inflessibile nella vendetta quando ha teso l’arco della sua indignazione e ha aperto la faretra (Iob 30, 11) dell’ira. Così infatti il Signore minaccia, parlando a Geremia: “Se Mosè e Samuele stessero davanti a me, la mia anima non sarebbe rivolta a questo popolo: a  Il testo tràdito è concorde con la lezione iuxta iudicia (“non temono in base ai Suoi giudizi”); iusta iudicia è invece una congettura di Paul Riant. b  Qui è presente una costruzione ad sensum: virtus illorum evanescunt (sc. evanescit). c  Oros., Adversus paganos, 1, 1, 9: Primum quia, si diuina prouidentia, quae sicut bona ita et iusta est, agitur mundus et homo, hominem autem, qui conuertibilitate naturae et libertate licentiae et infirmus et contumax est, sicut pie gubernari egenum opis oportet ita iuste corripi inmoderatum libertatis necesse est (“In primo luogo, poiché se il mondo e l’uomo sono mossi dalla divina provvidenza, che così come è buona è anche giusta, anche l’uomo che è debole e colpevole per la volubilità della natura e l’eccessiva libertà – come è opportuno che sia pietosamente guidato se povero di ricchezze, così è necessario che venga biasimato giustamente se è smodato nella libertà”).

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cacciali via dal tuo cospetto e se ne vadano! E se dovessero dirti questo: Da dove usciremo?, di’ loro: Questo dice il Signore: alla morte chi è destinato alla morte; alla spada, chi è destinato alla spada; alla fame, chi è destinato alla fame e alla prigionia, chi alla prigionia” (Ier. 15, 1-2). Dio rimane spettatore dall’alto, presago di tutto, e la sempre presente eternità della sua visione concorre con la futura qualità dei nostri atti, dispensando premi ai buoni, ma degni supplizi ai cattivi. Così tutti coloro che non vogliono essere accusati da Dio nel giudizio, ma piuttosto essere confortati dalla moderazione della misericordia, si oppongano ai vizi che Dio avversa, venerino le virtù, innalzino l’animo alla giustizia e rivolgano al cielo umili preghiere, che non possono essere inefficaci al cospetto di Dio, provenienti da un cuore puro e da una fede non simulata (1 Tim. 1, 5). E infatti a tutti coloro che osservano la purezza e la pietà cristiana è stata annunciata, finché vivranno, la grande necessità di esercitare coraggio e virtù – se non vogliono nasconderla – dal momento che agiscono davanti agli occhi del Giudice che vede tutto dall’alto e che condanna senza misericordia nel giudizio i peccatia, che prima nessuna penitenza aveva espiato. [Qui si mostra che, sebbene arriveranno questi flagelli per i nostri peccati, non per questo dobbiamo disperare] Non si allontanino così dalla purezza della fede cattolica tutti quelli che credono con devozione in Dio e in Cristo Signore a causa di quelle cose che il popolo cristiano ha ora terribilmente mostrato attraverso le mani degli empi nelle regioni della Terra Santa e che finora ha sofferto. Anzi, ascrivendo quello che precede alle conseguenze dei loro peccati, pensino che questi stessi supplizi siano flagelli minori di quelli che essi si meriterebbero e noi, come servi sottratti al castigo della punizione divina, crediamo con fermezza che siano accaduti per nostra punizione e correzione e non per la dannazioBoet., Consolat., 5, 11: Manet etiam spectator desuper cunctorum praescius deus uisionisque eius praesens semper aeternitas cum nostrorum actuum futura qualitate concurrit bonis praemia malis supplicia dispensans (“Anche Dio rimane spettatore dall’alto, presago di tutto, e la sempre presente eternità della sua visione concorre con la futura qualità dei nostri atti, dispensando premi ai buoni, supplizi ai malvagi”). a 

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ne della loro perdizione. Oh, quanti ne ha fatti precipitare in una meritata strage la felicità conseguita indegnamente! Infatti, Dio opprime certe persone nell’avversità affinché non eccedano in una duratura felicità. Poiché in verità i supplizi dei malvagi trattengono dai delitti coloro che vi assistono e purificano coloro ai quali sono inflitti, permette che alcuni vengano spesso agitati e scossi dalle difficoltà e dalle asperità affinché consolidino le virtù dell’animo attraverso l’uso e l’esercizio della pazienza; inoltre, le genti che, liberata la lascivia di Venere, infuriano nei piaceri di questa vita con eccessiva libertà come animali, abbandonate totalmente ai momentanei e vani desideri della carne corruttibile – trascinate, per questa ragione, in sentimenti depravati e scosse da una tanto misera cecità di un tanto grande peccato – non possono elevare l’acutezza del loro intelletto ottenebrato per ghermire una debole conoscenza della legge divina. Anzi, vantandosi con molta superbia nell’offesa della croce del Signore, nella strage e nella morte dei fedeli, infamano, uccidono e crocifiggono continuamente il Re della Gloria in persona nelle sue membraa a tal punto che, dalla pianta dei piedi fino al capo, a stento in Lui si trova qualche parte illesa, mentre abusano troppo della libertà del potere dato loro momentaneamente dall’alto e si imbaldanziscono invano, alzate le sopracciglia, contro la potenza di Dio; infine, tanto più fortemente verranno schiacciate dalla potenza di Dio in un batter d’occhio (1 Cor. 15, 52) e tanto più velocemente negli eterni incendi delle fiamme del Tartaro cadranno su spinta dell’ira divina, quanto più audacemente loro non esitano e non temono di provocare contro se stesse l’ira del furore celeste, moltiplicati sempre gli eccessi e replicate le offese contro Cristo e il Suo popolo. E infatti, procede a passo lento verso la vendetta dei malvagi la benevola indignazione del nostro Dio, che alla fine sa severamente bilanciare quella pena – che aspetta ad arrecare per misericordia – con la gravità di un più duro supplizio. E così la vendetta celeste del Giudice si rivolgerà più severamente contro quegli stessi figli ribelli (Ephes. 2, 2), dal momento che, Il testo paragona la Chiesa al corpo di Cristo: “crocifiggere nelle membra” equivale a colpire i fedeli che sono parte della Chiesa. a 

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riuniti gli eserciti dei crociati attraverso la voce della sua forza, ha deciso di vendicare il sangue dei suoi santi e dei suoi servi, e, su disposizione del Suo giudizio, verranno privati del flagello del quale si sono avvalsi per tanto tempo per esercitare la loro distruzione, con il permesso di Dio, per la correzione dei fedeli, avvicinandosi ormai il tempo della loro afflizione. Infatti, Dio stesso, Governatore dei tempi, sa rivelare le arcane decisioni dei suoi giudizi per la misericordia o per l’ira nei suoi tempi: non curandosene l’insolente cattiveria dei reprobi, tanto più ostinatamente disprezzano la generosità di Dio, tanto più continuamentea non smettono di deviare dalle vie della giustizia, quanto più pazientemente la pietà del pio Governatore li aspetta alla penitenza. Perciò c’è scritto: “Poiché infatti non si dà immediatamente sentenza contro i cattivi, i figli degli uomini continuano ad accumulare mali su mali senza nessun riguardo della paura” (Eccle. 8, 11). Resta infine da aggiungere qualcosa in poche parole con voce lamentosa sulla miseria di tutta quella terra, che ora è esposta a tanta distruzione, interdetta anche dai doveri della venerazione divina a causa dei nostri peccati e privata dei privilegi della sua antica gloria, affinché sgorghino lacrime di pia devozione dai cuori di pietra e affinché gli animi dei fedeli vengano spinti a un pianto di compassione. Così dunque oso esclamare: [Compassione e compianto della Terra Santa e del regno di Gerusalemme] O miserabile Terra Santa, non dedicata al culto divino per mezzo dell’acqua della purificazione, come oggi presso di noi osserva l’attuale rito della consacrazione delle basiliche, ma piuttosto attraverso un bagno del prezioso sangue di Cristo! Per quale ragione infatti ora ti struggi così, nella continua tristezza, nel silenzio e nella solitudine? Infatti, il tuo santuario è desolato come un eremo, sei diventata solitaria come la tamerice nel deserto (Ier. 17, 6), i tuoi giorni felici sono mutati in dolore, le tue festività in vergogna, i tuoi onori sono a  L’edizione propone la lezione eo quod continuacius, del tutto indebito. È probabile che il copista si sia confuso in quanto era facile compiere un salto da pari a pari vista la pervasiva presenza di omoteleuti. Di ciò darebbe la prova l’apparato in edizione: eo1 om. B, contumacius α, contumacis T…continuacius PT, contumacius (iterum) B. Qui si è tradotto seguendo la lezione eoque continuacius.

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ridotti al nulla, la tua gloria in infamia e l’altezza in polvere. Dove sono coloro che ogni anno venivano fin qui con doni preziosi dagli estremi confini del mondo verso di te, in qualità di madre di tutti i cristiani e di prima fra le regioni cristiane? [Fa una domanda alla Terra Santa, con ammirazione] Forse non sei tu quella terra da sempre dotata da Dio di privilegi tanto grandi, nella quale tante volte si rivelarono agli uomini i misteri ineffabili di Dio, nella quale per prima la gloria della divinità venne rivelata molto tempo fa ai mortali – che quell’eterno Creatorea delle terre e del cielo ha concesso al suo popolo, come il testatore ai suoi figli per diritto ereditario (Levit. 25, 46), e in cui alla fine li ha introdotti attraverso molti portenti e prodigi –, nella quale infine l’Unigenito Figlio di Dio si è reso visibile al mondo con aspetto umano, rivelò i misteri divini ai figli degli uomini, si distinse con portenti e miracoli, risplendette con gli insegnamenti e le parabole, la consacrò con le sacre impronte dei suoi piedi, ha vinto la nostra morte con la propria morte, ha restituito la vita dei mortali all’immortalità incorruttibile grazie alla sua Passione, ha richiamato nel suo regno le anime prigioniere dei santi padri dalle tenebre degli inferi e dall’eterno carcere, risorgendo Lui stesso dagli inferi, come rinomato Re della Gloria, ha trionfato fortemente con la mano inerme e inchiodata alla croce delle potenze dell’aria e alla fine ha destinato, come pegni immediati dell’eredità celeste, i santi doni dello Spirito Santo in lingue di fuoco sopra il gregge degli apostoli timorosi, in quanto partecipe delle sue fatiche e compagno delle sue sofferenze, per la forza dei deboli, per l’erudizione dei semplici e per la consolazione dei perfetti, dopo che in qualità di magnifico vincitore era asceso alle eterne dimore dei cieli dalla miseria di quell’esilio?b [Una domanda sullo stesso tono] Forse hai smesso di essere quella parte più nobile dell’orbe circolare, che il Re Eterno – non Boet., Consolat., 3, carmen 9, 2: Terrarum caelique sator, qui tempus ab aeuo / ire iubes stabilisque manens das cuncta moueri (“Creatore del cielo e delle terre, che ordini che il tempo scorra dall’eternità e rimanendo immobile fai che tutto sia messo in movimento”). b  L’episodio qui descritto rimanda al giorno della Pentecoste (cfr. Ioh. 14, 16-26 e Act. 2, 1-11). a 

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certo abbandonando quello che era ma soltanto assumendo ciò che non eraa quando scese dall’alto dei cieli nelle profondità della terra – scelse per Sé come carissima eredità affinché tu fossi e venissi chiamata eletta, bella e santa per l’eterna alleanza? Forse non sei tu quell’amabile e sacrosanta eredità, per la quale il Signore, pieno di ardente fervore (3 Reg. 19, 20), aveva impedito con un oracolo profetico che nessun uomo contaminato la attraversasse e aveva ordinato che venisse cacciato da lei ogni impuro? Perché questo, dunque? Perché giaci da tanto tempo, schiacciata dai cani, oppressa dai saraceni e sei continuamente inquinata dalla sozzura delle bestie? Forse tu, che eri abituata a essere la sposa prediletta, sei stata rifiutata e ripudiata dal tuo Dio, come macchiata dall’adulterio? [L’autore attacca la Terra Santa, rimproverandola] Infine, perché cacci via da te, come reprobi, i cristiani, figli della tua adozione, discepoli della santificazione e dunque coeredi di Cristo Signore, ma custodisci nel grembo e nutri gli stranieri e gli estranei, che non cessano di tramare continuamente le sventure e i danni della tua rovina? Chi dunque ti compiangerà o chi si rattristerà per te o chi andrà a pregare i re e i popoli ortodossi per la tua liberazione? Se questi si rivolgono a te per soccorrerti e giungono, bisogna infatti temere che tu forse ti allontaneresti da loro come una matrigna, avendo ormai smesso di essere madreb. [Risponde a favore della Terra Santa, perdonandola] O santa eredità! In realtà, non sono tuoi i peccati che piangi, non è delle tue scelleratezze la pena che lamenti, ma piuttosto del popolo cristiano che abita in te, che ha abusato del dono della tua santificazione e dell’abbondanza di ricchezza e che ha provocato all’ira Dio giudice contro se stesso per le sue trasgressioni: poiché tu a  Avg., In euang. Ioh., 17, 16: Non ergo se exinaniuit amittens quod erat, sed accipiens quod non erat (“Dunque non si umiliò perdendo ciò che era, ma assumendo ciò che non era”). b  Il riferimento al De re publica di Cicerone è conservato per tradizione indiretta nel Contra Iulianum di sant’Agostino. Avg., C. Iulian., 6: In libro tertio de republica, idem Tullius hominem dicit, non ut a matre, sed ut a nouerca natura editum in uitam, corpore nudo, fragili, et infirmo (“Anche Tullio nel terzo libro del De re publica dice che l’uomo è portato alla vita dalla natura non come madre, ma come matrigna, col corpo nudo, fragile e debole”).

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sei santa, sempre incontaminata e pura, non puoi essere inquinata dalla feccia delle genti che ti calpestano, così come neppure il tuo santificatore, essendo lo splendore di Dio Padre e il candore della luce eterna, non può essere macchiato in se stesso, anzi noi tutti veniamo offesi attraverso di lui – se ben guardiamoa – dalle ingiurie e dalle ribellioni dei blasfemi a lui recate. Non deve stupirsi dunque il cristiano, né raffreddare il fervore della devozione verso di te, se tu cacci via così da te gli ingrati tuoi eredi o figli cristiani solo di nome, soprattutto quando questi che in ogni momento hai biasimato – non avanzando nello spirito, così come tu li hai generati nel Signore e quali tu hai amato da sempre, ma piuttosto nelle corruzioni della carne – non temevano affatto di eliminare da loro la grazia della santificazione, come chi cammina irreversibilmente lungo le strade della vita (Prov. 2, 19) dannata. [Parole profetiche contro i saraceni] Ma la velenosa razza delle vipere (Matth. 3, 7), ovvero la stirpe serpentinab dei figli di Agar, sempre dannosa per Cristo e i cristiani, di certo non fuggiràc più a lungo dall’imminente ira di Dio, anzi la vendetta celeste contro di loro, venendo velocemente, arriverà senza dubbio, non tarderà e a seconda del gran numero di ingiustizie, nelle quali si vantano contro i servi di Dio e Cristo Signore, l’afflizione e l’infelicità d’improvviso pioveranno unite dal cielo su di loro. Infatti, penso che ormai la scure della punizione divina sia stata posta alla radice della stirpe dannata e malvagia di Ismaele perché, uccisi, vengano bruciati dalle fiamme eterne e inoltre il campo di Cristo – ovvero la sua terra – nella quale quel purissimo chicco di fru­ a  Il testo qui proposto recupera la tradizione manoscritta, al contrario di Huygens che corregge advertimus in avertimus. In latino, la frase si pie advertimus è un inciso, tradotto con “se ben guardiamo”: è probabile che la soluzione di Huygens sia dettata dal fatto di voler legare il verbo avertere con il successivo ab, che però è da legare al precedente offendimur di cui è complemento di causa efficiente. b  Hier., Epist., 97, 2: Atque utinam serpentina generatio aut simpliciter nostra fateatur aut constanter defendat sua, ut scire ualeamus, qui nobis amandi sint, qui cauendi! (“E magari la stirpe serpentina o semplicemente la nostra confessi o difenda fermamente la propria, affinché noi riusciamo a sapere chi dobbiamo amare e da chi metterci in guardia!”). c  In latino è presente una costruzione ad sensum: sc. fugiet e non fugient visto che il soggetto è generatio, non viperae.

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mento – cioè il corpo di Cristo – che sicuramente è germogliato e caduto nella terra del grembo verginale, è stato consumato con amare sofferenze dalle mani di coloro che hanno flagellato e crocifisso, con il vaglio della potenza divina finalmente verrà purificato dal sudiciume degli infedeli, giungendo da ogni parte i cristiani. [Profezia contro la città di Babilonia] Così infatti il Signore minaccia Babilonia attraverso le parole di Isaia:

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“Oracolo di Babilonia. Io ho ordinato – dice il Signore – ai miei consacrati – come se dicesse ‘ai crociati’ – e ho chiamato i miei prodi nella mia ira, entusiasti nella mia gloria. La voce di molti sui monti, come di popoli numerosi, voce e fragore di regni di popoli radunati. Il Signore degli eserciti guida un esercito di guerra, venendo da una terra lontana, dall’alto dei Cieli, il Signore e gli strumenti della sua collera per mandare in rovina tutta la terra. È vicino il giorno del Signore, così come verrà la devastazione. Per questo, tutte le mani saranno indebolite e tutti i cuori degli uomini deperiranno e verranno distrutti. Ecco: arriverà il giorno del Signore, crudele e pieno di indignazione, ira e furore per ridurre la terra a un deserto e sterminare i suoi peccatori da quella. E io farò fermare la superbia degli infedeli e umilierò l’arroganza dei forti. Tutti quelli che verranno trovati, saranno uccisi e tutti quelli che sopravviveranno cadranno di spada, i loro figli verranno uccisi davanti ai loro occhi, verranno saccheggiate le loro case e le loro mogli violentate. E Babilonia, quella gloriosa città fra i regni, famosa per la superbia, verrà abbattuta, così come Dio ha distrutto Sodoma e Gomorra. L’arabo non pianterà lì le tende e lì i pastori non si riposeranno, ma lì riposeranno le bestie e le loro case verranno riempite dai serpenti e lì riecheggeranno le civette nelle loro case e le sirene nei santuari del piacere” (Is. 13 passim).

Anche queste parole sono dirette all’Egitto o agli Egiziani attraverso la bocca dello stesso profeta: [Profezia contro l’Egitto] “Oracolo dell’Egitto. Ecco: il Signore entra in Egitto e gli Egiziani scappano dal suo cospetto e il cuore dell’Egitto si strugge nel suo petto. E farò correre gli Egiziani e l’uomo combatterà contro suo fratello e l’uomo contro il suo amico, la città contro la città, il regno contro il regno. E lo spirito dell’Egitto verrà distruttoa nelle sue viscere e il loro L’edizione propone il verbo al plurale, disrumpentur. La traduzione segue la lezione disrumpetur della famiglia di manoscritti indicata da Huygens con γ che coincide con il testo della Vulgata geronimiana. a 

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senno abbatterò e interrogheranno i loro idoli, artefici di riti divini, e i loro indovini e consegnerò l’Egitto in mano dei crudeli signori, e un forte re dominerà su di loro, dice il Signore degli eserciti. Il Signore ha mischiato nel loro petto un senso di smarrimento e ha fatto errare l’Egitto in ogni suo tempo, come erra l’ebbro vomitando. In quel giorno, l’Egitto sarà come le donne, e si sorprenderanno e temeranno davanti al movimento della mano del Signore degli eserciti, che Lui stesso ha mosso sopra di esso, e tutti coloro che se ne ricorderanno, si spaventeranno davanti alla decisione del Signore, che Lui ha formulato sopra di esso. In quel giorno, l’altare di Dio sarà in mezzo alla terra dell’Egitto e la stele del Signore presso la sua frontiera e ci sarà segno e testimonianza per il Signore degli eserciti nella terra dell’Egitto, e il Signore verrà conosciuto dall’Egitto e gli Egiziani conosceranno il Signore in quel giorno e Lo adoreranno con sacrifici e doni e faranno promesse al Signore e le assolveranno e gli Egiziani ritorneranno al Signore e verrà da loro placato e li salverà” (Is. 19 passim).

[Esclamazione diretta a Dio] Sorga dunque con la sua forza (Is. 9, 23) il nostro Dio e abbatta con la frusta del suo furore le genti che confidano nella propria ferocia, sconvolga violentemente e sfiguri la loro violenza [Conclusione dell’epistola], rimproveri anche la temerarietà di tanta superbia, che continuamente si innalza nell’orgoglio della presunzione contro la Sua onnipotenza; ormai Lui stesso, Signore degli eserciti, dal cielo rapido giunga in aiuto al suo popolo cristiano affinché i suoi nemici vengano distrutti nella furia della sua ira e quelli che lo hanno odiato e danneggiato molte volte tanto crudelmente nelle sue membra spariscano velocemente dal suo cospetto e muoiano e precipitino nell’abisso della dannazione, che loro stessi da tempi antichi hanno scavato dannatamente nella rovina del popolo cristiano, perché ormai non appaia il Dio delle misericordie contro le genti che vogliono la guerra e non temono la Sua potenza, ma perché piuttosto venga temuto il Signore delle vendette. Costui è infatti quello di cui parla Giovanni nell’Apocalisse con parole profetiche, poiché dalla sua bocca esce una spada a doppia lama affinché con questa abbatta le genti e le governi con la frusta di ferro, che infatti schiaccerà il torchio del vino del furore dell’ira di Dio Onnipotente e ha scritto sul vestito e sul suo femore: “Re dei re e Signore dei signori” (Apoc. 19, 15-16).

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Allora dunque si compirà, per quel che riguarda le genti, quello che è scritto da un altro profeta: gridate perché è vicino il giorno del Signore (Is. 13, 6), il giorno delle tenebre e della nebbia, il giorno delle nubi e della tempesta, il giorno di squilli di tromba e di strepiti. Un giorno importante e molto spiacevole (Soph. 1, 14). Questo accadrà certamente, quando, secondo quello che altrove è scritto, la spada a doppia lama sarà inebriata in cielo dalla giustizia della vendetta divina e discenderà nel suo furore contro questo popolo di corruzionea e contro gli uomini di sangue non tarderà a venire con forza al giudizio. [Esclamazione diretta al papa] Sorga anche il vicario di Cristo nello sterminio delle genti pagane e vendichi l’offesa del Redentore, dal quale ha ricevuto il potere e il regno sopra tutti coloro che rispettano e invocano il nome del Salvatore in ogni parte del mondo. Infatti, è molto disonorevole che la lampada luminosa e ardente della fede cristiana sia spenta nel mezzo di quella terra e lì si nasconda del tutto la sacra venerazione del suo culto, dove prima la gloria del Signore nacque per gli uomini, dove si manifestò anche la notizia di Dio prima con l’alleanza dei patriarchi, poi con la divulgazione della legge divina e anche con gli oracoli dei profeti e con altri segnali miracolosi, prodigi e portenti, risplendette e si manifestò al mondo e in ultimo, alla fine dei tempi (Daniel 11, 13), attraverso la potenza del Verbo incarnato, si rivelò più espressamente ai cristiani amici di Dio, a cui solo giunge la pienezza del tempo (Gal. 4, 4): infatti, ormai è tempo che, ricondotte le greggi erranti con l’amo della pesca celeste all’ovile del Signore e ridotti i violenti a agnelli, d’ora in poi ci sarà un solo ovile e allo stesso modo un solo pastore. [Esclamazione diretta ai re cristiani] Sorgano anche i singoli re e i principi ortodossi e si affrettino a esigere vendetta con forza Greg. M., Epist., 6, 65: Quoniam manifesta in eo haereticae infectionis uenena repperimus, ne denuo debuisset legi, uetuimus (“Poiché abbiamo trovato evidenti veleni di eretica corruzione in lui, lo abbiamo vietato per non doverlo leggere un’altra volta”). Il termine infectio è applicato ai non cristiani sia in Gregorio sia in Taddeo: pertanto, viene qui ripristinata la lezione che è concorde nei manoscritti e adottata anche dal primo editore Paul Riant. Huygens corregge, forse indebitamente, con interfectionis. a 

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contro i persecutori del Re dei re – grazie al quale loro stessi hanno ricevuto sopra i figli degli uomini la dignità della superiorità regia – e dell’offesa della croce – che devono sempre portare con sé con devota compassione – nello zelo della devozione e nel fervore della fede, con tutta la forza, poiché in realtà respingere gli oltraggi, dai quali è così atrocemente afflitto Gesù Cristo attraverso i suoi servi, spetta e pertiene principalmente – se non lo si vuole nascondere – a coloro che sono, grazie al Suo dono, come le colonne dalle quali è sorretto tutto il mondo, e anche le membra tanto onorevoli del corpo mistico della chiesa militantea. [Esclamazione diretta a tutto il popolo cristiano] Sorgano alla fine anche tutti i popoli fedeli, che si vantano nella croce del Signore e nel titolo della cristianità e, confidando nella potenza del loro Salvatore – in virtù della quale loro stessi vengono mossi, esistono e allo stesso modo respirano – partano insieme e si radunino per schiacciare le genti orientali e i popoli barbari, sempre nemici ai cristiani, e intraprendano contro di loro coraggiosamente una nobile e vittoriosa battaglia per la nostra fede affinché sia vendicato il sangue cristiano che tante volte è stato sparso dalle mani profane dei figli di Agar nella santa eredità, e affinché contro i nefandi figli della perdizione la spada vendicatrice della vendetta venga sguainata al più presto da una mano salda e da un braccio teso, perché – ripulito alla fine il sudiciume delle bestie, dalle quali fu profanata da tanto tempo fino ad ora – la Terra Santa, la nostra eredità, venga ormai riconsegnata ai fedeli di Cristo, vi entri la gente giusta, custode della Verità (Is. 26, 2), la possieda il popolo dell’acquisizione (1 Petr. 2, 9) e si riempia in futuro di popoli fedeli e lodi divine, grazie al braccio di quella virtuosa destra, di cui è il regno, la forza e la potenza e che da solo, grazie a quella sapienza – con la quale si estende con forza da confine a confine e dispone con dolcezza tutti i misteri (Sap. 8, 1), secondo quanto afferma Daniele –, trasferisce i regni e cambia le dominazioni il figlio di Dio, benedetto nei secoli dei secoli. Amen. Cfr. Blaise Patristic, s. v. militio 4: Être au service (de Dieu), exercer une charge dans l’Eglise (en parl. du clergé); 5: Être soldat du Christ, mener le combat de la vie chrétienne, servir Dieu. a 

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Questa storia è stata scritta dal suddetto maestro Taddeo, nella città di Messina, nell’anno del Signore 1291, nel quinto giorno nel mese di dicembrea.

Contrariamente a quanto scritto nelle edizioni del 1873 e del 2004 e negli studi sulla Ystoria, che riportano indicione quinta de mense Decembris, si riporta qui la traduzione della lezione in die quinta de mense Decembris, tràdita dalla famiglia di manoscritti indicati da Huygens con la sigla γ. Si è preferito adottare questa soluzione poiché l’indizione pare scorretta: applicando la formula per il calcolo dell’indizione, risulta corretta, per il 1291, l’indizione quarta. Probabilmente, la lezione originaria in die, letta poi come in dic, sarebbe stata interpretata come abbreviazione di indicione. Tale scelta inoltre è coerente con l’usuale modo di scrivere la data. Huygens sostiene invece la tesi opposta, ossia la banalizzazione dell’abbreviazione di indicione in in die, il che però non sembra spiegare l’errato calcolo. a 

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APPENDICE 1: GLI ORDINI MILITARI

Quando nel 1095 papa Urbano II indisse la prima crociata, una sorta di “pellegrinaggio armato” in Terra Santa per liberare Gerusalemme dalle mani degli infedeli, i primi successi non tardarono ad arrivare e la creazione dei primi stati crociati, sulla scia del fanatismo religioso, incoraggiò l’Occidente a imbracciare le armi per partire alla volta della Terra Santa per ulteriori spedizioni. A seguito alle prime conquiste, i pellegrinaggi e gli scambi fra Medio Oriente e Occidente divennero più agevoli e sicuri ed era necessario mantenere questa situazione propizia per i cristiani. A partire dagli anni ’20 del secolo XII, gli accordi fra Bisanzio e il califfato fatimide del Cairo avevano avviato le ristrutturazioni di varie chiese e monasteri in Israele, come l’Anastasis (ovvero la chiesa della Risurrezione edificata sul luogo di sepoltura di Gesù), per poter dare ospitalità ai pellegrini. Con il progressivo aumento dei pellegrinaggi dovuto all’espansione del dominio crociato in Terra Santa, le chiese e gli altri luoghi di culto non furono più sufficienti per accogliere i viaggiatori: pertanto, si avviò la costruzione di un ospedale la cui cappella venne dedicata a san Giovanni l’Elemosinierea. Essa venne affidata a frate Gerardo Sasso, già direttore dell’ospedale dei Benedettini ai tempi della prima crociata del 1099. Solo nel 1113, grazie alla bolla Pie postulatio voluntatis di Pasquale II, il grande ospedale dedicato al Battista venne liberato Alcuni studiosi ritengono possibile che già alla sua nascita l’ospedale fosse dedicato a Giovanni Battista (cfr. Demurger, A., I cavalieri di Cristo. Gli Ordini religioso-militari del Medioevo. XI-XVI secolo, Milano 2004, p. 33, nota 8). a 

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Appendice 1: Gli ordini militari

dalla tutela dei Benedettini per essere posto sotto la protezione diretta del papa, costituendo il primo nucleo di quello che sarà l’ordine degli Ospitalieri e Gerardo, a partire dal 1113, ne fu primo Granmaestro. L’ordine non venne riconosciuto subito con una qualifica militare, ma come semplice ordine caritatevole che avrebbe dato ospitalità ai pellegrini giunti nei pressi del Santo Sepolcro. Con il passare del tempo, i fratelli dell’Ospedale iniziarono a scortare con le armi i pellegrini lungo le strade e i luoghi santi. Invece, i canonici del Santo Sepolcro, nati come confraternita di membri laici, vennero col tempo assoldati dal patriarca di Gerusalemme per difendere il Sepolcro insieme ai cavalieri di San Pietro. Pare che fu proprio fra queste prime congregazioni che vennero reclutati i primi Templari dopo l’istituzionalizzazione dell’ordine. Fra di loro vi fu Hugues de Payns (in latino: Hugo de Paganis), primo Granmaestro templare e fra i fondatori dell’ordine. Sull’origine dell’ordine del Tempio, Guglielmo di Tiro, arcivescovo della città di Tiro dal 1174 e cancelliere del Regno di Gerusalemme, autore della Historia rerum in partibus transmarinis gestarum, fornisce alcune coordinate temporali, sostenendo che l’ordine sarebbe stato fondato nel 1120, ma sarebbe stato riconosciuto solo nove anni dopoa. La questione sugli ordini militari fu complessa sin dalle origini, poiché l’aporia più significativa da giustificare era quella di far convivere l’aspetto militare con l’aspetto religioso, poiché avrebbe destabilizzato la rigida tripartizione dell’organizzazione della società medievale: lo scarto temporale che intercorse fra la fondazione e il riconoscimento degli ordini era dovuto proprio all’incertezza di far convivere la figura degli oratores con quella dei bellatores, categorie sociali che erano rimaste sempre distinte. Il concilio di Troyes del 1129 nel quale si approvò l’ordine del Tempio fu dunque fondamentale per gettare le basi dei successivi modelli religioso-militari. Con il passare degli anni, si svilupparono altri ordini religioso-militari come san Lazzaro, San Tommaso martire di Acri e i Teutonici nella seconda metà del secolo XII. Guill. Tyr., Historia, 7 passim: Tandem nono anno... insitituta eis regula (“Alla fine nel nono anno... fu istituita per loro la regola”). a 

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Appendice 1: Gli ordini militari

Questi ultimi avevano fondato un ospedale in Terra Santa fra il 1118 e il 1128, smantellato alla vigilia della terza crociata nel 1187, ma ricostruito nel 1191 durante la riconquista di Acri vicino alla porta di san Nicola. Conclusa la terza crociata, nel 1196 papa Celestino III accordò al nuovo ospedale teutonico dei privilegi, dichiarandone l’autonomia dagli Ospitalieri. A partire dalla fine degli anni ’90 del secolo XII, molti comandanti tedeschi ne chiesero la militarizzazione. In seguito, l’ordine venne riformato in maniera significativa sotto il quarto Granmaestro, Hermann von Salza. Con la progressiva militarizzazione, gli ordini assunsero una struttura più organizzata sia a livello centrale delle proprie sedi sia a livello provinciale. La sede centrale dell’ordine era chiamata “casa capitana” (domus). Gerusalemme ospitò i quartieri generali dell’Ospedale e del Tempio fino al 1187, anno della battaglia di Hattin, dopo la quale le sedi degli ordini, insieme a tutte le principali istituzioni politiche e religiose del regno, migrarono ad Acri, la nuova capitale, dove si insediarono poco tempo dopo anche i Teutonici e l’ordine di San Tommaso. A capo di un ordine militare si trovava un Maestro o Granmaestro (in latino: magister). I Teutonici usavano frequentemente il termine Magister generalis accanto a Hochmeister per distinguere il maestro insediato in Prussia dai Landmeister insediati in Livonia e Germania. Egli disponeva di importanti, ma non assoluti, poteri e doveva dimostrare la sua obbedienza al convento, ovvero il capitolo generale dell’ordine, la cui composizione non era regolamentata da norme specifiche e poteva essere convocato con cadenza irregolare. Il Maestro era affiancato anche da alcuni dignitari: un cappellano, un interprete, un cuoco e nel caso dei Teutonici in Terra Santa, da tre turcopoli (ovvero degli arcieri a cavallo che, ausiliari della cavalleria pesante, avevano abiurato la fede islamica) e due sergentia. Al Maresciallo dell’ordine spettava la carica ad interim di capo dell’ordine ed era incaricato di comunicare la morte del Maestro in tutte le province: dopo la sua comunicazione, veniva eletto il Gran commendatore affinché presiedesse l’assemblea Questa “casa del Maestro” non coincide con i dignitari che hanno funzioni speciali all’interno dell’ordine. a 

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Appendice 1: Gli ordini militari

per l’elezione del nuovo Maestro, alla quale partecipavano tutti i membri del capitolo generale. Il termine “commendatore” deriva dal latino commenda, ovvero, in senso lato, il privilegio concesso a un cavaliere. Il termine è diffuso soprattutto nelle lingue volgari (che compare nelle forme commanderie, commenda, encomienda, Komturei o Kommende così come commandeur, comendeor, comendador, Komtur), mentre nei documenti latini si trovano i termini praeceptoria e praeceptor ovvero “colui che impone un ordine, che comanda”, a tutti gli effetti equivalenti di “commenda” e “commendatore”. Nel caso specifico degli ordini militari, il termine “commenda” si riferisce a una circoscrizione che può comprendere più case. Gli Ospitalieri invece usavano il termine per indicare il capoluogo della circoscrizione che più spesso veniva chiamata “baliato”: nei documenti si trova spesso scritto praeceptori seu balivi. Per gli Ospitalieri, le case subordinate al capoluogo erano dette “membri”. Di seguito si propone una tabella sintetica che riadatta i contenuti di quella proposta da Alain Demurger, limitatamente ai principali organi centrali di Templari, Ospitalieri e Teutonici.

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Appendice 1: Gli ordini militari

Istituzioni Maestro

Sostituto del maestro

Ospitalieri Maestro, Maestro Generale, Granmaestro Gran commendatore

Comandante in guerra

Maresciallo

Forze ausiliariea Affari marittimi

Turcopolo

Finanze

Tesoriere

Ammiraglio

Templari Maestro, Maestro generale

Teutonici Maestro, Hochmeister

Siniscalco (poi Gran commendatore) Maresciallo, Sottomaresciallo Turcopolo

Gran Commendatore Maresciallo, Sottomaresciallo

 

Commenda  tore della Volta di Acri CommendaTesoriere tore della Terra (poi tesoriere)

a  I turcopoli qui citati hanno competenze specifiche di forze ausiliarie. Non sono quelli che fanno parte della “casa del maestro teutonico”, come precedentemente segnalato, ma assumono un loro ruolo peculiare nell’organizzazione dell’ordine.

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APPENDICE 2: ARMI E MACCHINE D’ASSEDIO NOTEVOLI. IL LESSICO DELLA GUERRA MEDIEVALE

Il Glossarium mediae et infimae latinitatis di Du Cange segnala i due termini come sinonimi alla voce balea, insieme a arcus balearis, e li definisce come a βάλλειν, funda vel instrumentum quod vulgo vocatur balestrum. Invece, alla voce balista, il Du Cange aggiunge ballesta, vulgo arbalesta, balista manualis. È probabile che il termine si riferisca alla comune balestra oppure alla variante tardo medievale dell’arbalesta, più potente della comune balestra, attivata da una manovella per aumentare la forza delle frecce scagliate (da qui l’associazione con l’aggettivo manualis). Balea bipedilis; balea Alla voce bipedile, il Glossarium mediae et infimae latinicommunis tatis definisce tale macchina come sorretta da due appoggi (machinae jaculatoriae species duobus pedibus innixa). Rispetto alla balestra comune, sembra che la balea bipedilis sia più grande e abbia due staffe in corrispondenza dell’arco o del calcio della balestra dove inserire i piedi, probabilmente per garantire una maggiore stabilità. Il termine communis indica semplicemente la classica balestra. Balea o balista verti- Nel Glossarium mediae et infimae latitinatis, il termine si ginalis consulta sotto la voce vertigalis, derivato dal verbo verto: quae in orbem vertitur et movetur. Vide balea. Balea, balista

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APPENDICE 2: ARMI E MACCHINE

Biblieta

Brachiale Clipeus, scutum

Falcastrum

a 

Come suggerisce il Vocabulary of medieval warfare in appendice all’edizione di Huygens, quest’arma è chiamata anche “balestra a torno” o “balista a torno” e può essere associata alla più comune balista. Essa consisteva in una balestra di notevoli dimensioni che veniva posta su torri lignee, simile alle omonime armi romane e bizantine, montata su un telaio. Essa poteva lanciare anche più dardi alla volta. Era un’arma molto potente, fra le più efficaci dell’età classica e medievale, e anche molto onerosa per le spese dell’esercito. Ricorda un’arma usata dagli antichi Romani chiamata “scorpione”. Il Glossarium mediae et infimae latinitatis definisce il termine come diminutivo di biblia, una generica macchina da lancio di difficile identificazione. Probabilmente, l’arma doveva essere simile a un trabucco dotato di due contrappesi, di cui uno forse mobile. Il Vocabulary of medieval warfare la definisce simile a un trabucco chiamato “bricola”, definita dal Du Cange come machinae λιθοβόλου species, Gallis Bricolle. Sebbene l’identificazione non sia certa, alcuni indizi nelle descrizioni suggerirebbero che servisse a lanciare dardi incendiari. La macchina sarebbe stata chiamata poi “bricola”, “brigolo”, “bidda”, “blida”, “bleda” o “bliden” a seconda dell’impiego nei diversi paesi europei. Un dettagliato disegno di una brichola è contenuto nell’opera di ingegneria militare De machinis di Mariano di Jacopo detto il Taccola, risalente al secolo XV. Forse una cinghia o un bracciale al quale era fissato lo scudo al braccio del soldato armato. Sono due tipologie differenti di scudo: il primo è di forma rotonda, il secondo è rettangolare. I termini sono già presenti nella letteratura classica. Isidoro di Siviglia definisce quest’arma a similitudine falcis vocatum: est autem ferramentum curvum cum manubrio longo, ad densitatem veprium succidendama. Il vocabolo è traducibile come “falcione”, una spada a lama singola, probabilmente molto simile a un moderno machete.

Isid., Etym, 20, 14, 5.

153

APPENDICE 2: ARMI E MACCHINE

Funda, fundibulaa

Il termine indica in generale la fionda, l’arma da lancio che scaglia pietre. Essa può essere di varie dimensioni (portatile oppure montata sopra un supporto, come un telaio). Machina fundibula- La perifrasi si riferisce in generale a qualsiasi tipologia ris lapidum di macchina d’assedio che scaglia pietre con l’uso di una fionda di varie dimensioni. Ingenium Il Glossarium mediae et infimae latinitatis definisce ingenium come una qualsiasi machina bellica, ingenio et arte adinventa, constructa. Il Vocabulary of medieval warfare aggiunge anche un riferimento al personale tecnico incaricato a operare su queste macchine. Il termine si riferisce ad ogni sorta di macchine d’assedio e al personale tecnicamente qualificato per gestirle (probabilmente l’attuale “genio militare” che soppianta il classico fabri, fabrorum). Lorica, loricatus Il termine è già classico. Indica la corazza o l’armatura. Più nello specifico, il Vocabulary of medieval warfare usa il termine per indicare la cotta di maglia o anche l’usbergo, la diretta evoluzione bassomedievale della cottab. Mangonellus, man- Diminutivo del termine manganum o manganus. Il Glosgenella, manganellus sarium mediae et infimae latinitatis fornisce la semplice definizione di machina iaculatoria. Il Du Cange rimanda al lessico di Papìa: Tormentum dicitur, quidquid vi torquetur ut vulgo Manganum. Il termine è diretto antecedente dell’italiano “manganella”, una specie di catapulta usata negli assedi durante il Basso Medioevo. Tuttavia, soprattutto nei testi non specialistici e negli autori poco colti in ambito militare, il termine poteva confondersi con “trabucco” e “pietrera”.

Sono associati al termine funda i termini derivati fundibalus (o fondibalus), sinonimo di fundibularius, ossia il “fromboliere” e il verbo fundibulare, che significa “lanciare sassi o proiettili con una fionda”. b  Isid., Etym, 18, 13, 1: Lorica uocata eo quod loris careat; solis enim circulis ferreis contexta est. (“La lorica è chiamata così perché manca di cinghie, ossia loris careat: infatti è unita soltanto da cerchi di ferro”). Cfr. infra s.v. propunctum, p. 156. a 

154

APPENDICE 2: ARMI E MACCHINE

Perdiceta, perticheta Il termine è quasi intraducibile. Il Glossarium di Du Cange traduce in maniera molto generale con machina iaculatoria. Sempre Du Cange registra un’altra occorrenza nella letteratura latina medievale nel Liber Secretorum Fidelium Crucis di Marin Sanudo il Vecchio: In prora vero cuiuslibet galearum fieri possent aliqua bellica instrumenta, ut consulerent exercitati in talibus et docti, perdichetas sive furcatas a pupae usque ad proram circa latera cuiuslibet ordinando, iuxta id quod fieri consuevita. Du Cange definisce furcata, sinonimo di perdicheta, come machina iaculatoria quae speciem furcae referret. Visto il passo di Marin Sanudo, la macchina non doveva essere di eccessive dimensioni se poteva essere disposta sulle galee. Du Cange prosegue con Italis Pertighetteb, est parva pertica: et machina ista furcae etiam speciem retulit, cum perticheta sive furcata dicatur Sanuto. Sed cuiusmodi illa fuerit, mihi incertum, nisi ea fuerit, quam PERDRIAU, seu PERDICEM vocat Willelmus Guiart sub annis 1304: Prés du Roy devant sa banniere / Metent François trois Perdriaus, / Getans pierres aus onviaus / Entre Flamens grosses et males, / Joignant deus rot deus espringales, / Que garçons au tirer avancent. Non è chiaro se l’arma possa essere associata alla “ronfea”, una macchina da lancio che poteva scagliare anche più giavellotti alla volta con notevole potenza. La costruzione di una ronfea potrebbe forse ricordare la forma di una forca a causa dei giavellotti sporgenti. Petraria Il termine indica il “cannone petriero” o semplicemente “petriera”. Il nome deriva dal fatto di usare le pietre come proiettili. Tuttavia, rimane difficile identificare l’arma con certezza poiché nel corso della storia, a seconda dei luoghi e delle munizioni, è stata chiamata “catapulta”, “falcone” (oggi più noto con il termine “falconetto”) o “balista” per l’aspetto molto simile al manganello.

Marin Sanudo, Liber secr., 5 passim. Il TLIO segnala una sola occorrenza per la parola pertichetta, definita come un palo di legno lungo e sottile in un volgarizzamento anonimo dell’Opus agricolturae di Rutilio Tauro Emiliano Palladio, forse come diminutivo del più comune pertica. a 

b 

155

APPENDICE 2: ARMI E MACCHINE

Propunctum

Quarellus

Scama (cl. Squama)

Il termine francese moderno, pourpoint, indica il moderno “farsetto”. In ambito bellico, potrebbe indicare un’armatura leggera, forse l’usbergo, stando alla traduzione francese antica, che riporta il termine haubiers. Il termine corrisponde all’italiano “quadrello” o “quadrella”, un dardo corto, con il ferro diviso in quattro punte. Era lanciato dalle balestre. Il termine è abbastanza inusuale: secondo il Vocabulary of medieval warfare, le armature a scaglie non erano normalmente utilizzate dagli occidentali alla fine del secolo XIII. Visto il contesto della presa di Acri, è probabile che il termine faccia riferimento all’armatura lamellare, ampiamente utilizzata nel Medio Oriente islamico e nell’impero bizantinoa. L’armatura a scaglie e quella lamellare si differenziano dal fatto che nella prima le parti in metallo erano disposte su un supporto di cuoio o stoffa, mentre nella seconda le parti in metallo erano fissate fra loro.

a  Isid, Etym, 18, 13, 2: Squama est lorica ferrea ex lamminis ferreis aut aereis concatenata in modum squamae piscis, et ex ipso splendore squamarum et similitudine nuncupata (“La squama è un tipo di armatura metallica fatta di lamine di ferro o di rame, collegata come le squame di un pesce e per questo chiamata così per lo splendore e la somiglianza delle squame”).

156

INDICI

1.  INDICE DEI PASSI BIBLICI

Gen. 19, 11 Ex.

Esther 16, 21

56

15, 10 17, 13 36, 6

66 51 112

Levit. 25, 46

139

Deut. 6, 3 13, 13 16, 18 32, 17 32, 29 32, 9

121 98 94 78 69 133

1 Reg. 15, 23 24, 33

133 129

3 Reg. 19, 20

140

1 Esdr. 4, 19

118; 134

Iudith 13, 30

70

Iob

Ps.

15, 26 16, 12 30, 11 30, 31 40, 18 9, 29-30 17, 35 20, 10 21, 22 23, 9 30, 19 61, 10 74, 5 77, 3 103, 20 106, 26-27 117, 24 117, 8-9 126, 2 136, 1-2 142, 7

Prov. 1, 23-29 2, 19 4, 11

159

129 95 105 135 52 125 104 100 110 134 n. a 100 85 55 134 n. a 52 124 86 134 73 119 52 94 29 141 86

Indice dei passi biblici

Eccle. 8, 11

138

Cant. 3, 8

105

Sap. 5, 20 6, 2 8, 1

99 129 145

Eccli. 22, 18 26, 12 44, 23 45, 14

67 86 92 110

Is.

Ier.

49, 19 49, 21 49, 22

1, 31 135 9, 23 143 10, 3 131 13 passim 142 13, 6 144 14, 7 117 19 passim143 19, 20 94 26, 2 145 33, 9 130 34, 7 77 40, 2 133 n. c 40, 31 116 42, 17 131 49, 1 12; 49 52, 11 129 57, 20 124 58, 9 100 60, 4 50 2, 23 5, 6 10, 2 15, 1-2 17, 6 32, 2 49, 5

131 104 132 136 138 116 116

160

116 116 93

Lament. 1, 2 1, 6 1, 10 2, 16 2, 22 3, 12

51 117 134 134 134 134

Baruch 3, 16-17 3, 19 3, 23

86 115 111

Ezech. 4, 6 22, 25 45, 15

33; 127 104 100

Daniel 3, 86 7, 7 7, 9-10 7, 11-12 7, 15 7, 25 8, 24 11, 13 12, 11

115 127; 128 126 126 128 122; 126 122 144 127

Mich. 4, 10

85

Soph. 1, 14 1, 15

144 77; 103

1 Macc. 1, 18

56

2 Macc. 4, 1 7, 37

104 105

Indice dei passi biblici

Matth. 2, 18 3, 7 26, 31

116 141 106

Luc. 24, 49

98

Ioh.

14, 16-26 17, 12

139 n. b 117

Act. 1, 7 1, 16 2, 1-11 3, 15 4, 32 12, 5 19, 13

122 74 139 n. b 99 59 65 69

1 Cor. 7, 33 12, 10 15, 52

129 130 137

2 Cor. 12, 4

51

Gal. 1, 4 4, 4 5, 1 6, 10 6, 14

121 144 60 113; 130 100

Ephes. 2, 2

115; 137

Philipp. 1, 21 2, 15 2, 21 4, 3

100 92 87 111

1 Thess. 5, 8

99

2 Thess. 2, 10-11

124

1 Tim. 1, 5

136

2 Tim. 2, 3

83

Hebr. 11, 37 Iac.

5, 16

74

1 Petr. 2, 9 5, 8

145 124

2 Petr. 2, 14

118

Iud.

161

105

5, 15 5, 23

105 59

Apoc. 1, 3 6, 15-17 7, 14-15 7, 9 11, 3 12, 6 12, 9 12, 14 13, 1 13, 1-2 13, 2 13, 2-6 13, 3 13, 11 13, 18 19, 15-16 20, 3

122 122 101 62 33 33 110 130 124 124 124 126 106 91 65 143 67

2.  INDICE DELLE FONTI NON BIBLICHE

Agostino Contra Faustum 8, 12 De bono coniugali 24, 32 Tractatus in Iohannis Evangelium 17, 16 27, 10  Contra Iulianum 6 Arnobio Adversus nationes 3, 38

Calcidio Commentarius in Platonis Timaeum 2, 247 50 n. a

72 n. a 72 n. a

Cicerone Orator 104

49 n. b

140 n. a

Cipriano Epistulae 63, 13, 2

104 n. a

107 n. b

Columella De re rustica 12, 15, 1

99 n. a

Commodiano Carmen apologeticum 907-910

128 n. a

Decretum Gratiani 2, 1, 4, 11

133 n. b

Gellio Noctes Atticae 18, 11, 3-4

64 n. a

140 n. a 122 n. a

Boezio De consolatione Philosophiae 2, 1, 19 69 n. a 2, 2, 9 69 n. a 3, carmen 9, 2 139 n. a 5, 11 136 n. a Bonaventura da Bagnoregio Sermones de diversis reportationes 2, 36, 5 23, n. 10

162

Indice delle fonti non bibliche

Liber differentiarum 1, 140

Gioacchino da Fiore Concordia Novi ac Veteris Testamenti 2 120 nn. a,c, 121 nn. a, b, c, 122 nn. b, c, 123 n. a, 125 n. a 3 123 n. c 4, 38 109 n. a Scripta breviora 91 n. a, 121 n. b

Lucano Pharsalia 5, 310-314

Girolamo Epistulae 22, 30 91 n. b 53, 9 116 n. a 97, 2 141 n. b Liber interpretationis hebraicorum nominum 3, 26 93 n. c

Marin Sanudo il Vecchio Liber Secretorum Fidelium Crucis 5 passim 155 n. a

82 n. a

85 n. c

Macrobio Commentarium in Somnium Scipionis 1, 6, 11 127 n. b

Orazio Ars poetica 180-181 Saturae 1, 9, 59-60 2, 6, 93

Gregorio di Tours De virtutibus sancti Martini 1, 4 59 n. a Gregorio Magno Dialogorum libri IV 2, prol. 101 n. a Moralia in Iob 10, 16 79 n. a Registrum epistularum 2, 13, 19 79 n. a 6, 65 144 n. a

49 n. a 114 n. b 57 n. a

Orosio Historia adversus paganos 1, 1, 9 135 n. c

Guglielmo di Tiro Historia rerum in partibus transmarinis gestarum 7 passim 148 n. a 8, 6, 37 65 n. a 19, 28, 14-15 65 n. a Isidoro di Siviglia Etymologiae sive Origines 1, 41, 1-2 49 n. a 10, 78 82 n. a 18, 13, 1 154 n. b 18, 13, 2 156 n. a 20, 14, 5 153 n. a

163

Ovidio Epistulae ex Ponto 3, 4, 19-20 Fasti 6, 137-138 Metamorfoseon libri 1, 505-507 7, 184 8, 208-209 11, 137-138

70 n. a 105 n. a 57 n. a 57 n. a

Paolo Diacono Excerpta ex libris Festi de significatione verborum

99 n.  a

Prudenzio Hamartigenia 539

68 n. a

49 n. b 96 n. a

Indice delle fonti non bibliche

Radolfo di Caen Gesta Tancredi 923-924

6, 629-632 10, 726 Georgicon libri 1, 145-146

75 n. a

Rutebeuf La Nouvelle Complainte d’outremer 85 n. b Virgilio Aeneis 3, 54 5, 818

Vitruvio De architectura 2, 1, 4 107 n. a 69 n. b

164

56 n. a 103 n. c 110 n. a

99 n. a

3.  INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

Abacuc  86; 87 Abramo  123 n. b Acor  132, 133 Acri, San Giovanni di  8, 9, 11, 12, 13, 14, 15, 18, 19, 21, 24, 25, 26, 27, 31, 32, 33, 35, 36, 44, 45, 49, 50, 51, 52, 53, 56, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64; 65, 66, 75, 78, 79, 82, 84, 85, 91, 92 n. a, 93, 101, 108 n. b, 109, 112 n. a, 116, 117, 125, 128, 130, 148, 149, 151, 156 Adenet le Roi  18 Adenolfo di Anagni  16, 19 Agar  31, 98, 108, 111, 118, 141, 145 Akkar 124 al-Ashraf, al Malik Khalīl  11, 14, 25, 32, 37 Alessandria d’ Egitto  125 n. a Alessandro di Villedieu  37 Alessio III  10 n. 4 Alessio IV  10 n. 4 Alessio V Ducas  10 n. 4 Altavilla (dinastia)  7 n. 1 Anastasis 147 Antiochia  7, 124, 125 n. a Arġun Khan  11 Atlit  125 n. a Avignone 28

Baldovino IX di Fiandra  9 n. 4, 10 n. 4 Beirut 125 Belial, figli di  98, 114 Biblo, vd. Gibelletto Bisanzio, vd. Costantinopoli Boemondo VI di Antiochia  9 Bonifacio di Monferrato  9 n. 4 Bosra 93 Boulogne (dinastia)  7 n. 1 Burcardo di Monte Sion  28 Caffa 23 Cairo, Il  147 Carlo IV 28 Carlo Magno  20 Castello dei Templari  12, 15, 25, 81, 83, 84, 98, 99 n. b Castello del Tempio, vd. Castello dei Templari Castrum Peregrinorum, vd. Château Pèlerin Celestino III 149 Chastel-Pèlerin, vd. Château Pèlerin Château Pèlerin  125 Cilicia 7 Cipro  7, 14, 15, 35, 59, 61, 65, 66, 67, 68, 73, 84, 110, 113, 125 Clairvaux 17 Collège de Navarre  17 Costantino I 18 Costantinopoli  9, 10, 147

Babilonia  31, 34, 51, 52, 61, 62, 92, 106, 110, 116, 121 n. b, 127, 142 Baldovino I di Costantinopoli, vd. Baldovino IX di Fiandra

165

Indice dei nomi e dei luoghi

Dalmazia 10 Daniele, profeta  31, 32, 35, 122, 124, 126, 127, 128, 145 Du Cange  55 n. a, 120 n. b, 152, 153, 154, 155

Giovanni di Cornovaglia  21 Giovanni di Garlandia  37 Giovanni di Grailly  14, 57, 60, 82, 109 Giovanni, Evangelista  32, 34, 122, 124, 126, 127, 143, 147 Giovanni l’Elemosiniere  147 Giuda  33, 121 n. b, 132 n. a Girolamo Masci, vd. Niccolò IV Goffredo di Monmouth  21 Gomorra 142 Guglielmo di Beaujeu  26, 103 Guglielmo di Tiro  17, 18, 22, 29, 148

Edessa 7 Edom  93, 116 Egitto  11, 116 n. b, 142 Eleuterio, santo  18 Eli 133 Enrico II di Cipro  14 Enrico Dandolo  10 n. 4 Embriaci (famiglia)  9 Erode  18, 116 n. b Europa  21, 24, 30, 37

Haytun 16 Hattin, battaglia di  7, 149 Hermann von Salza  149 Hohenstaufen (dinastia)  7 n. 1 Hugues de Payns  148

Filippo di Montfort  9 Fortezza dei Templari, vd. Catsello dei Templari Francia  15, 16, 17, 18, 19, 20, 22, 27, 28, 30, 37, 103 n. a

Ibelin (famiglia)  7 n. 1, 9  Impero bizantino  9, 10, 156 Impero di Nicea  9, 10 n. 4 Impero latino  9, 10 n. 4 Impero romano d’Oriente, vd. impero bizantino Innocenzo III  9 n. 4 Innocenzo IV 28 Isacco II Angelo  10 n. 4 Ismaele  31, 104, 112, 118, 141 Israele  13, 34, 125 n. a, 132 n. a, 133, 147 Italia 24

Galberto di Bruge  21 Gallie 82 Gaudin il Monaco  83, 84 Gautier d’Arras  18 Geremia, profeta  25, 31, 86 n. b, 93, 109 n. a, 116, 120, 121, 135 Genova  9, 10 Gerardo Sasso  147, 148 Gerico 132 Gerusalemme  7, 8, 11, 14, 15, 26, 36, 50, 57, 61, 93, 101, 106, 116, 124, 125 n. a, 138, 147, 148, 149 Giacobbe 34 Giaffa 9 Gibelletto 9 Giacomo di Vitry  16, 17, 27, 28, 29, 30, 31 Gioacchino da Fiore  27, 33, 34, 35, 116, 121, 122, 123, 125 n. a Giordano, fiume  116, 125 Giovanni Battista  147 Giovanni di Arsuf  9 Giovanni d’Ibelin  9

Jbeil, vd. Gibelletto Jean de Villers  18 Jiménez de Rada, Rodrigo  29 Kroměříž 28 Lehire vd. Eleuterio, santo Libano  125 n. a Lot 123 Luca, Evangelista  59 Lucifero 92 Lusignano (dinastia)  7

166

Indice dei nomi e dei luoghi

Maometto  35, 56, 77, 84, 112, 117, 125 n. a, 127 Mar Adriatico  11 Mar di Marmara  10 n. 4 Mariano di Jacopo, detto il Taccola 153 Marin Sanudo il Vecchio  155 Mar Mediterraneo  8, 9, 10, n. 4, 35 Mar Nero  10 Mar Rosso  111 n. a Martino Polono  28 Matteo di Clermont  14, 26, 37, 69, 82, 106 Medio Oriente  7, 8, 9, 10, 13, 37, 11 n. a, 147, 156 Meloria, battaglia della  10 n. 5 Messina  24, 30, 146 Michele VIII Paleologo  9, 10 n. 4 Michiel de Le Fontaine  18 Mladá Bolesla  28 Mosè  127 n. a, 135

Papìa 154 Parigi  16, 17, 19, 21 Pasquale II 147 Persia 11 Pisa 10 Praga 28 Prisciano 37 Pseudo-Metodio  30, 31 Qalāwūn  11, 12, 13, 14 Renaud de Montauban, vd. Rinaldo Rinaldo  37, 75 Rama  116, 120 Roma  11, 125 n. a Saladino  7, 35 Salomone 94 Samuele  31, 133, 135 San Lazzaro (ordine militare)  148 San Pietro, cavalieri di  148 San Nicola, porta di  149 San Saba  8, 9 San Tommaso (ordine militare)  148, 149 Sant’Antonio, porta di  70, 79, 80, 81 Santa Sofia  10 n. 4 Santo Sepolcro  148 Santo Spirito (ordine militare)  14, 61 Saul 133 Shakespeare, William  21 Sidone 125 Sion  28, 52, 84, 117 Siria  11, 23, 24, 93 n. b, 117, 119, 125 Smirne 10 Sodoma  25, 123 n. b, 142 Spada (ordine militare)  14, 61 Spagna  28, 29, 30 Stefano di Orléans  17, 19

Nabucodonosor II  13, 36 Napoli  24, 30, 36 Nazareth  116 n. b Niccolò IV  11, 24 Nicola di Hanapes  14, 15, 26, 101 n. a Nicola da Roccaguglielma  17 Nicolò di Chremsir  28 Ninfeo 10 Noè 129 Normandia 21 Oliviero 75 Orlando 75 Ospedale, sede dell’  72, 147 Ospitalieri (ordine militare)  9, 14, 26, 61, 68, 148, 149, 150, 151 Ottone di Grandson  14, 57, 61, 82 Outremer, Oltremare  7, 8, 9, 10, 22, 85 n. b Ozia 33

Taddeo di Napoli  12 n. 6, 23, 24, 25, 26, 27, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 108 n. c, 119, 125 nn. a, b, 127 n. a, 144 n. a, 146 Tancredi d’Altavilla  21

Paesi Bassi  15, 19 Palladio, Rutilio Tauro Emiliano  155 n. b

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Indice dei nomi e dei luoghi

Tartus 125 Teman 111 Templari (ordine militare)  9, 26, 61, 103 nn. a, b, 105, 148, 150, 151 Terra Santa  8, 9, 10 n. 4, 11, 12, 13, 15, 18, 20, 22, 24, 26, 27, 49, 51, 52, 57, 58, 87, 92, 109, 116, 129, 133, 136, 138, 139, 140, 145, 147, 149 Teutonici (ordine militare)  9, 61, 66, 107, 148, 149, 150, 151 Thibaut IV di Champagne  9 n. 4 Tiro  9, 17, 18, 22, 29, 148 Toledo 29 Tolemaide, vd. Acri Tolosa  7 n. 1 Tortosa, vd. Tartus

Tournai  17, 18, 19 Trasmondo 17 Tripoli  7, 11, 14, 15, 19, 51, 54, 57, 109, 125 Troyes 148 Turris Alamannorum  108 n. b Urbano II 147 Urbano V 28 Venezia  9, 10, 11 Vilaume de Le Mote  18 Yemen  111 n. a Zara  10 n. 4

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