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Italian Pages [101] Year 2016
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Luisa Muraro
L'anima del corpo Contro l'utero in affitto
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LA SCUOLA
LUISA MURARO
L'anima del corpo
I S B N : 9788835045762 Q uesto libro è stato realizzato con StreetL ib Write http://write.streetlib.com) ( un prodotto di Simplicissimus B ook Farm
Sommario
Avvertenza
Dentro le parole
Diamoci il tempo di pensare
Un ingorgo di problemi
Le leggi del mercato
Svegliamoci e mettiamoci a pensare
La potenza del desiderio
Relazioni, tecnica e mercato
Una libera scelta?
La Madre di Dio
La relazione materna
L’unicità della madre
Oltre la metafora
Una bella domanda
Libertà e processo evolutivo
La misura dei diritti
Il continuum materno
Desiderio e diritto
La questione delle origini
Imparare a parlare
L’espansione del possibile
Nella stessa collana
Orso blu 73
Luisa Muraro
L'anima del corpo Contro l'utero in affitto
EDITRICE LA SCUOLA
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm), sono riservati per tutti i Paesi. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano, email autoriz[email protected] e sito web www.clearedi.org
© Copyright by Editrice La Scuola, 2016 _______________________________________________________ Stampa Vincenzo Bona 1777 S.p.A. ISBN 978 - 88 - 350 - 4370 - 6
AV V ERTENZA
Per chiarezza c’è un “contro” nel titolo, ma l’autrice di questo libro non si contrappone a persone che la pensano diversamente, specialmente se donne. Con donne mi confronto di preferenza, tanto più su questi temi in cui ne va dei loro (nostri) desideri, corpi e libertà. Alle contrapposizioni e agli schieramenti, preferisco la lettura dell’esperienza, la ricerca di argomenti e, se necessario, il conflitto.
Le citazioni sono ridotte al minimo, ma questo lavoro è in debito con molte persone. Mi limito a una lista di nomi, per giunta incompleta. Ringrazio Marina Terragni, Paola Tavella, Lucia Bellaspina, Daniela Danna, Maria Luisa Boccia, Silvia Niccolai, Alessandra Allegrini, Stefania Ferrando, Massimo Lizzi, Marisa Forcina e le Benedettine di Lecce e infine la Libreria delle donne di Milano e Diotima (Università di Verona), luoghi di ricerca e di pensiero femminista.
DENTRO LE PA ROLE
DI A M OCI I L TEM PO DI PENSA RE
Non so se l’idea di commissionare la confezione di una creaturina umana con un regolare contratto commerciale sia mai apparsa in qualche romanzo di fantascienza per descrivere gli usi e costumi di una civiltà aliena. Sicuramente è apparsa sul pianeta Terra. Non come una fantasia, ma come una pratica garantita dalla tecnoscienza e dal diritto commerciale. Di conseguenza al fatto che la cosa c’era, è venuta la discussione. Meglio tardi che mai. Per chiuderla, qualcuno ha detto che si tratta ormai di un fatto compiuto. Ma gli inizi della specie umana risalgono a più di due milioni di anni fa e questa faccenda di riprodursi per interposta persona è cominciata trent’anni fa, diamoci il tempo di pensare! Non c’è accordo neanche sul nome: utero in affitto, maternità surrogata, surrogacy, gpa (gravidanza per altri)… Io li userò tutti e ne proporrò altri ancora. Appena trovato un nome, la polemica se ne impadronisce e c’è tutto un inseguimento semantico. Purché non se ne impadroniscano quei personaggi kafkiani che, chiusi in qualche ufficio, fissano una terminologia e inventano sigle che non hanno significato. Vorrebbe essere una terminologia universale, in realtà è fatta per uniformare il linguaggio e il pensiero, che è ben altra cosa. Per arrivarci, infatti, bisogna distruggere le connotazioni, che sono i colori e i profumi dei nomi, e impedire al pensiero d’immaginare le cose. Questa della terminologia – che, per essere universale, diventa uniforme e scolorita – è una storia nota. Ripenso alla comparsa del termine inglese gender che, dopo qualche anno di uso sensato, doveva sostituire definitivamente e universalmente, chissà perché, la parola sesso. Sempre meglio delle sigle, ma povere maestre! Come faranno a insegnare l’italiano? La lingua viva è viva!
UN I NGORGO DI PROBLEM I
Molti motivi e circostanze della riproduzione umana per interposta persona si vedono a occhio nudo. C’è il desiderio di generare, frustrato dalla sterilità, la potenza dei soldi su chi ne ha pochi, la potenza dei soldi in chi ne ha molti, la presenza di un mercato globale, le facilitazioni offerte dalle tecnologie riproduttive. Qualcuno ci ha messo anche l’aumento della sterilità delle coppie nei paesi ricchi. Ci sono pure dei precedenti. Il più antico e preciso, che arriva fino a due secoli fa nei paesi schiavisti, sono le donne obbligate a procreare per conto dei padroni. Tra quelli prossimi, ci sono gli accordi spontanei tra una donna sterile e una donna feconda, l’esempio della prostituzione, le nuove forme di vita familiare… L’elenco finirebbe per estendersi a molta parte della nostra cultura, dalla politica dei diritti al primato dell’economia finanziaria, dalla fine del patriarcato alla mentalità creata dal neoliberismo. La questione, infatti, è come un ingorgo estemporaneo di tanti problemi che sono stati male risolti o mai affrontati e che hanno incrociato un certo numero di opportunità. Due precedenti si prestano a entrare nel vivo senza tanti giri di parole. Uno è l’istituto dell’adozione, l’altro è la pratica dell’allattamento mercenario. La balia pagata pare ad alcuni giustificare, almeno in parte, la gestazione surrogata. Infatti, ci sono delle somiglianze e si può fare il confronto, ma la conclusione smentisce l’analogia: la balia integra la relazione materna e quello che le viene pagato, il latte, sgorga da lei in risposta, una risposta spontanea del suo corpo, al bisogno della creatura a lei affidata. Sull’adozione. Noi viviamo in paesi dove la materia vivente, come sangue e organi, non si compravende, si dona, e dove bambine e bambini non vanno messi in vendita né si comprano. Abbiamo presenti gli effetti deteriori della commercializzazione del sangue e degli organi, praticata in paesi meno civili dei nostri, e ci è stato spiegato perché sia doveroso passare per l’adozione a norma di legge. Come mai, dunque, ci troviamo a discutere sulla liceità del farsi fare delle creature umane a
pagamento, come fosse un problema mai affrontato prima, sul quale non esistono criteri di giudizio? Perché questa disparità di giudizio e di sensibilità nella testa delle medesime persone? Non c’è un perché, è un’incoerenza dovuta ai cambiamenti storici. Il divieto della compravendita di creature da adottare viene dalla lotta per l’abolizione dello schiavismo moderno. Nella lotta, si è impegnata la migliore filosofia politica (Kant) e sul campo c’erano le migliori forze sociali, dai gesuiti nell’America latina alle femministe nell’America del nord. È un capitolo della storia moderna, nel suo brutto e nel suo bello. La maternità surrogata appartiene a un tempo successivo, il nostro, dove la legge la fanno sempre più i soldi. Doveva essere un modo, questo, per dire che di fatto comandano i più ricchi. Ma sta diventando vero alla lettera, perché i soldi, oggi, comandano ben più dei ricchi.
LE LEGGI DEL M ERCATO
I soldi sono una potenza formidabile. Se si tratta di adottare, il desiderio di essere genitori deve allearsi con la legge per realizzarsi. Con la maternità surrogata, il desiderio in primo luogo deve trovare i soldi per realizzarsi. Non che servano a corrompere, non necessariamente. Tanto meno servono ad eccitare il desiderio: questo c’è di suo, i soldi lo rendono più prepotente. Servono a comprare un certo numero di cose in proporzioni che variano molto: la disponibilità di una donna, le grasse quote degli intermediari, le spese di una clinica per l’inseminazione e l’insieme dell’assistenza, i viaggi all’estero (da noi la pratica è vietata). Servono anche, ecco un punto su cui si sorvola, ma è la chiave di metà della faccenda, a istituire una legalità. Chi si mette fuori dalla legge dell’adozione con i limiti che pone agli aspiranti genitori, si troverebbe in una situazione sregolata. Invece no, si entra in un ordine costituito, riconosciuto e funzionante, quello del mercato. E questo dà una specie di autorizzazione. Di solito, gli aspiranti genitori hanno l’esigenza anche interiore di essere in ordine, non appartengono infatti alla categoria dei ribelli all’ordine sociale. L’autorizzazione data dai soldi pagati, anzi dal contratto commerciale, è sentita anche nei paesi in cui la cosa non è vietata, per esempio in Gran Bretagna che la consente purché formalmente gratuita ma non vieta il passaggio di soldi. Le leggi e le regole del commercio non impediscono a chi ha comprato i servizi della madre surrogata di condividere con lei le gioie derivanti dalla loro spesa e dal suo lavoro. Si richiede, ovviamente, che lei sia rispettosa dell’ordine commerciale. Si raccontano perciò storie edificanti, di madri gestanti che diventano amiche della coppia che le ha assoldate o, detto più gentilmente, assunte. Intorno alla nuova creatura si forma così una piccola cerchia di affetti, sicuramente preziosa per la sua crescita. Io ci credo, ma credo anche negli altri racconti, quelli che finiscono male per la donna gestante o per la creatura. E so che i racconti e i vissuti che conosciamo, ci spingono a dire sì oppure, al contrario, no, e a farlo, nell’uno e nell’altro caso, con la più onesta convinzione, a seconda di come sono andate le cose. Ma, oltre ai racconti che conosciamo, ci sono vicende che nessuno
racconta. E, soprattutto, non sappiamo le conseguenze. Qui non è questione di scegliere una località turistica o una dieta, e neanche il compagno o la compagna. Qui parliamo di prendere o di lasciare senz’altro una strada della quale si conosce, per certo, soltanto quello che risulta dalla storia dello schiavismo. Proprio di questo si tratta, secondo molte e molti che chiedono di condannare universalmente la surrogazione materna. Forse, ma il problema, secondo me, è meno scontato, più grave, perché non stiamo tornando indietro, che è pur sempre una direzione, quella del gambero. Noi non stiamo andando da nessuna parte. Il poco che si sa di questa pratica nel breve termine, si presta a tutte le interpretazioni.
SV EGLI A M OCI E M ETTI A M OCI A PENSA RE
Gli esseri umani lasciano molto a desiderare, donne e uomini, la storia lo dice, soprattutto degli uomini (poco dice, infatti, delle donne), comunque lo dicono anche le nostre personali biografie. Il punto non è d’impedire agli esseri umani di fare cose meschine o crudeli, stupide o sbagliate. Il punto è di non accettarlo, di pensare a quello che facciamo, pensarci anche prima e non giustificare il malfatto né farci l’abitudine. Civiltà e umanità stanno appese al nostro non accettare di fare così o colà, indifferentemente. E a ricordarci del malfatto e dei misfatti: gli europei del ventesimo secolo hanno di che. La più risibile difesa della surrogata è quella che protesta contro i divieti e le proibizioni, in nome della libertà. Qui non si tratta di proibire, si tratta di non sbagliare. Per loro (e per tutti) sono state scritte queste parole: «Ci sono strade che non bisogna prendere, ci sono ponti che non bisogna attraversare, ci sono possibilità che non bisogna cogliere». Le dice Suntzu nell’Arte della guerra, antico libro della sapienza cinese. Non si doveva prendere la strada di fabbricare armi atomiche, negli anni Quaranta del secolo scorso, armi che continuano a fare paura. Qualche grande scienziato lo capì e si rifiutò di collaborare. Gli altri dicevano: bisogna anticipare la scoperta della bomba da parte della Germania di Hitler. Ma questa era paura e propaganda. In effetti, c’è sempre anche il pericolo di essere ingannati, come se non bastasse la facilità con cui ci inganniamo da soli. Certe volte però lo sbaglio è evidente. Non si vede quanto sia grave solo perché al momento non si vedono gli sviluppi possibili. È andata così con l’idea dell’eugenetica, coltivata in ambienti scientifici, tradotta in programmi di governo nell’Europa del centronord e negli Usa, e infine sfociata in un genocidio. Non dite “ma chi poteva saperlo?” Nessuno poteva, ma abbiamo l’immaginazione proprio per guardare nel futuro e comunque, nel caso preciso dell’eugenetica, si doveva sapere da subito che si trattava di una strada da non prendere, contraria com’era all’antica idea cristiana del “siamo tutti figli di un solo Padre”, e ai moderni ideali dell’uguaglianza e della fratellanza.
Ci sono sempre buone ragioni per fare cose sbagliate, è risaputo. Se sarai tu solo a portarne le conseguenze, peggio per te. Se insieme a te ci sono anche altri, sei un irresponsabile. Ma se prevediamo che le conseguenze riguarderanno molte persone, e se per giunta non sappiamo quali e quante saranno, allora svegliamoci e mettiamoci a pensare. I sonnambuli s’intitola una recente e accurata ricostruzione del come l’Europa sia andata al suicidio della Prima guerra mondiale, ed è il soprannome che l’autore ha dato alla classe politica europea. L’idea di istituire un mercato per le creature del corpo femminile fecondo, che conseguenze potrebbe avere? Un mercato equivale alla possibilità di fare soldi e per alcuni (quanti?) non sarà altro che questo, affari e profitto, ovviamente.
LA POTENZA DEL DESI DERI O
«L’utero è mio e lo gestisce un’agenzia d’intermediazioni», ha commentato pungente una giovane donna. La prepotenza del mercato è tale che l’uomo più potente degli usa non riesce a fermare un micidiale mercato interno di armi da guerra. Ma, prima delle conseguenze, anche per riuscire a immaginare quelle meno prevedibili, c’è da guardare alla cosa di cui discutiamo così come si presenta. Infatti, prevedere può essere difficile o impossibile, ma capire la posta in gioco possiamo e quella della surrogazione è grande. Bisogna fare quella cosa che si chiama leggere la realtà che cambia. Riprendo la domanda che ho fatto prima: in una cultura che trova odiosa la compravendita di bambine/i, come può essere accettabile commissionare la loro confezione da parte di donne pagate allo scopo? La risposta è arrivata quasi da sola. Persone di buon senso hanno obiettato alle coppie sterili che difendono il ricorso alla surrogata: perché non ricorrete all’adozione? Il ripetersi di questa domanda polemica ha provocato una vivace risposta e cioè che l’obiezione è insensata, perché si tratta di cose che non possono essere messe a confronto e tanto meno equiparate nel desiderio di chi ricorre o vuole poter ricorrere alla surrogazione. Tutto fa pensare che sia proprio così. Noi, da fuori, vediamo che c’è una differenza tra adottare dei già nati e commissionarne di nuovi, ma non ci sembrano cose incommensurabili. Invece per il desiderio di avere un figlio, sì che lo sono. Il desiderio è una grande potenza, come i soldi, ma più misteriosa e meno razionale. Si spinge e ci spinge avanti con tutti i mezzi a disposizione, sempre più avanti. Finché è vivo, s’intende, e dobbiamo augurarci che lo sia, perché senza non c’è vita. Il punto di vista di chi ha un vivo desiderio, non può essere ignorato. Ci sono desideri molto forti, questo può diventare fortissimo. Ricordo una giovane donna che moriva dal desiderio di diventare madre e ne è morta davvero. Con la surrogata la realizzazione del desiderio genitoriale fa un salto di qualità. Non potendo
generare una propria creatura, gli aspiranti genitori lo realizzano facendo propria una creatura che viene al mondo per soddisfarlo, unicamente. Soddisfarlo è la sua ragione di essere. In ciò consiste l’incommensurabilità. Il bambino o la bambina che si adotta era già al mondo, per una strada disegnata da altri, e passa da una porta che altri decidono di aprire; con la surrogazione la creatura arriva in forza del desiderio degli aspiranti genitori, per mezzo dei loro soldi. Vero è che arriva avendo fatto una deviazione attraverso un corpo femminile altrui, alla fine però ci sono comunque loro due, i portatori del desiderio, così come c’erano all’inizio della faccenda. Ho parlato della facilitazione offerta dalle tecniche della procreazione, sorvolando sul fatto che, per le donne, l’operazione non è affatto facile. Ma posso io farne una questione se loro ci stanno? Quello che la tecnologia offre alla coppia parentale non si riduce a tecnica. Infatti, la gravidanza ottenuta con materiale biologico in parte o tutto proveniente dalla coppia degli aspiranti genitori, li aiuta a sentirsi veri e unici genitori dal primo momento. Oltre che un supporto materiale all’immaginazione di essere la coppia generatrice di quella creatura, questo apporto è anche un mezzo per sostituire, per quanto possibile, il legame carnale fra la donna e la sua creatura, con il legame del materiale biologico che alla donna viene innestato. Operazione, quest’ultima, che si fa sempre più spesso, ho letto, anche per togliere a lei il diritto di considerarsi e, in caso, rivendicarsi madre. Traspare l’aspetto meno accettabile di questa pratica, quello di oltrepassare la necessità medica e diventare così un attacco demolitore della relazione materna. Non si dica che la legge può intervenire a porre un limite: non si può creare un piano inclinato e pretendere che le cose non scendano da quella parte. Notiamo, per inciso, che da sempre l’uomo ha dato alla procreazione questo tipo di contributo materiale, solo biologico; la paternità tradizionale, infatti, consiste più nel fatto simbolico (il nome) che nell’esperienza vissuta. Non così la donna che alla procreazione dedica anima e corpo per mesi e anni, ricavandone gioie e dolori che ricorderà tutta la vita. E che per farlo corre rischi per la salute e la vita stessa, come sappiamo anche dalla cronaca recente. Perciò non è arbitrario dire che la coppia genitoriale che si avvale della gpa, ha un’impronta più maschile che femminile. Il che, in pratica, potrebbe far comodo a colei che aspira ad avere un figlio o una figlia. Ma questo, a parte altre considerazioni, sarebbe un pessimo ragionamento da parte femminile, perché la prevalenza simbolica della parte maschile appartiene a una cultura che alle
donne fa pagare il biglietto d’ingresso. Comunque giudichiamo lo sbilanciamento verso il maschile, il rinforzo simbolico va alla coppia stessa e non raggiunge la creatura in fieri nel grembo altrui. La creatura, voluta in partenza e attesa all’arrivo, nutrita e custodita dalla portatrice, madre reale simbolicamente rinunciataria, deve fare il suo viaggio in una strana solitudine, accompagnata forse da sogni e fantasie non autorizzate della portatrice. In certi paesi, dove portare avanti la gravidanza per conto di altri costituisce una risorsa economica per famiglie povere, il contributo genetico dei futuri genitori è richiesto per legge se sono stranieri. Si fa, così ho letto, per accrescere le probabilità che la creatura, destinata a lasciare il paese con la coppia che l’ha voluta, venga amata, e ridurre così i rischi di maltrattamento e abbandono: risulta infatti che quando c’è un contributo di materiale genetico degli aspiranti genitori, il legame sia più forte. Se così fosse, io lo trovo naturale: che altro si può dire? Ho usato una parola, “è naturale”, dal significato molto chiaro, comunemente usata nella lingua italiana e tante altre. Ma, appena si entra in questi argomenti, sembra sospetta. Sono d’accordo con chi critica il concetto di legge naturale; dal tempo in cui questa espressione si usava correntemente e sensatamente, sono cambiate molte cose e l’espressione era diventata ambigua, per l’uso che ne facevano le centrali del potere costituito onde mantenere il loro ordine . Il pensiero critico ci ha avvertito di ciò e dobbiamo tenerne conto. Tuttavia, parlare della natura si può, anzi si deve, ce lo insegna l’ecologia. Gli esseri umani sono il frutto di un’evoluzione che continua nella cultura grazie alla parola e alla libertà, ma che non può perdere le sue radici naturali, pena l’autodistruzione.
RELA ZI ONI , TECNI CA E M ERCATO
Dalle origini della vita sulla Terra fino a questo nostro mondo, il viaggio dell’umanità è stato lungo. La fecondazione e la gestazione nel ventre materno lo riassume tutto. Può accadere, che, al termine del suo viaggio, la creaturina non trovi ad aspettarla un desiderio abbastanza solido. O un amore generoso e misurato al tempo stesso. Dobbiamo sperare che non accada, comunque si venga al mondo, ma la cosa accade e fa luce sulla natura del legame parentale, in generale. Il problema maggiore che pone la maternità surrogata, non è quello di venire al mondo e trovarsi a dover fare i conti con lo scarso amore, con l’incostanza del desiderio o con il malaffare, sebbene ci sia anche questo. Tutte le creature che vedono la luce corrono questo rischio. Comprese le bestie, che io considero nostre cugine, se non proprio sorelle. Il problema non è neanche quello del ricorso alla tecnica o al mercato, a certe condizioni. Ma è quello del ruolo che tecnica e mercato giocano nella generazione. Tecnica e mercato nella nostra civiltà, lo sappiamo, sono sempre meno dei mezzi a nostra disposizione, e sempre più tendono a diventare dei padroni. Così, fanno valere la loro logica e il loro ordine anche là dove l’essere umano sarebbe chiamato a esserci in prima persona: con il desiderio, sì, ma anche con l’attesa, l’incertezza, la speranza, l’amore. Il desiderio di suo non ha fondo e non ha limiti; alleato con la tecnica e con il mercato, si crea una dismisura temibile. Una dismisura che lo indebolisce, per finire. La prima misura che il desiderio trova, prima della giustizia o della morale, la trova nelle circostanze umane della sua realizzazione. Aiutarla con mezzi che non sono più mezzi, può capovolgersi nella morte del desiderio. Non parlo di cose che non sappiamo, le abbiamo già in casa, la chiamano depressione. La surrogata salta un passaggio che potrebbe essere una necessaria mediazione per la nostra umanità. Lo dico senza dettare legge nelle vicende e nei comportamenti di persone singole, non è compito mio, così come non mi sento di giudicare i desideri di nessuno, individualmente preso. Io sto riflettendo, con chi mi legge, su quelle realtà di natura relazionale che ci legano gli uni
alle altre e di cui perciò dobbiamo ragionare insieme. Si chiama politica, nel significato antico della parola. Ma senza le gerarchie antiche e le discriminazioni moderne. Una relazione che tutta l’umanità conosce è la relazione materna, che ha dato un’impronta di civiltà alla convivenza umana, forse la più importante. Mi dedicherò a descriverla nella seconda parte. Intorno a questi temi si è accesa una discussione a causa di una pratica invero molto discutibile. Chiedo che resistiamo alla meccanica reattiva della contrapposizione. Non contentiamoci di vincere con i numeri, perché non basta quando si tratta della condizione che ci accomuna. Cerchiamo di portare argomenti. Non trascuriamo la qualità dello scambio. Facciamo in modo che il confronto fra posizioni diverse non sia così caricato da pregiudizi, presupposti e scelte già fatte, al punto che non c’è più scambio. Andava così con quelle pesantissime armature del Rinascimento: in fondo non si scontravano più due uomini, ma due mucchi di metallo irti di ferri. Vorrei trovare argomenti che abbiano, come effetto, di alzare il cielo e allargare l’orizzonte: potere di più e volere qualcosa di meglio, mai quello senza questo. Buoni argomenti si trovano anche lontano dalla propria posizione. Il mio argomento principale è questo: se diamo altro posto ancora alla tecnica e al mercato in ciò che riguarda la riproduzione degli esseri umani, mettiamo a rischio la relazione materna, da una parte, e dall’altra la ricerca di un nuovo e più ricco senso della paternità, che è iniziata con la fine del patriarcato. Questa ricerca e quella relazione sono presenti e attive, sono fattori vivi di umanità in un mondo e in un tempo in cui non credo che possiamo sprecare fattori vivi di umanità. Altrimenti, detto senza nessuna esagerazione, la prospettiva diventa che, nella convivenza umana,
tutto
quello
che
si
vuole
salvaguardare
finirà
in
una
questione
di
proibito/obbligatorio/indifferente, e tutto quello che resta di semplicemente desiderabile, non sarà più nella libera disponibilità delle persone perché avrà un prezzo di mercato o dovrà essere regolato secondo i rapporti di forza. La libertà non avrà più modo di svilupparsi e, con questa, neanche la nostra umanità.
UNA LI BERA SCELTA ?
L’esigenza di essere libere, espressa da innumerevoli donne in questi decenni, con un movimento che sta facendo il giro del mondo, ha segnato positivamente il passaggio dal secondo al terzo millennio. Si può essere o non essere femministi, ma chi vede male la libertà femminile è nemico dell’umanità, da sempre secondo me, ma oggi in maniera esplicita. Che le donne siano libere, vuol dire che lo sono anche gli uomini, né più né meno. Persone che mi parevano vicine a questo modo di sentire un brutto giorno si sono messe a difendere l’idea che far fare i bambini desiderati da altri, a una donna sana e feconda, reclutata allo scopo, sarebbe qualcosa in accordo con i nostri tempi. In quel momento ho pensato al solstizio… Alle nostre latitudini, se sei cresciuta in campagna, lo sai riconoscere. Si chiama così il momento in cui la traiettoria del sole in cielo smette di abbassarsi sull’orizzonte e riprende timidamente ma sicuramente ad alzarsi (21 dicembre, solstizio d’inverno). E viceversa, smette di salire, e comincia ad abbassarsi (21 giugno, solstizio d’estate). Quel discorso di usare e sfruttare il corpo di una donna per realizzare un desiderio che non è suo, come fosse cosa normale, in un contesto di persone che si vantano di essere moderne e liberali, mi ha fatto pensare a quel tempo di fine giugno in cui il giorno comincia a cedere alla notte. Gli altri non se ne accorgono ma noi di campagna sì. “Utero in affitto” si dice anche, e la formula, con tutta la sua crudezza, non lascia scampo: o pensiamo a un corpo femminile fatto a pezzi o pensiamo a un corpo femminile affittato per intero, e lei allora diventa qualcosa come un villino per le vacanze. La maternità surrogata si è difesa da questa macchia con più argomenti. Ma quello che non può negare è che ci troviamo davanti a una minaccia che mira alla libera disponibilità di sé da parte femminile. I soldi hanno di questi effetti, come insegna la prostituzione. Intorno a quello che c’è di libera scelta, cresce l’asservimento. Un argomento è: se non si potrà fare legalmente, ci sarà un mercato nero. Anche questa è una minaccia. Oppure: se qui non si può, andremo all’estero. All’estero ci sono paesi che cominciano
a proibire la surrogata agli stranieri; forse lo considerano un turismo per loro umiliante, come quello sessuale. Un altro argomento è: tocca alla legge badare alle donne più esposte all’abuso e allo sfruttamento. Chi o che cosa è all’origine di questa ulteriore prospettiva di abuso e sfruttamento che prima non c’era? Non certo il desiderio sacrosanto di diventare madre e padre, che c’è da sempre. Anche il desiderio, in definitiva, è sfruttato. L’importante, insistono i difensori della surrogata, è che la candidata alla gestazione per altri abbia deciso autonomamente. Ma quest’autonomia, quando esiste davvero, è il livello minimo richiesto da un contratto commerciale: non è libertà. Sarebbe come chiamare libertà quella che aveva Mozart di dare lezioni di pianoforte ai principianti. Non c’è nulla di esagerato in quest’accostamento. La condizione umana che si realizza con la gravidanza accettata e desiderata in prima persona, ha le caratteristiche delle grandi imprese e delle grandi opere, l’ha detto il filosofo Nietzsche, che femminista non era. Rivolto ai suoi simili dice: con tutto quello che è “essenziale realizzazione”, non dobbiamo avere altro rapporto che quello della gravidanza. Lo descrive, questo rapporto, come un darsi sempre premura e vegliare e serbare il silenzio nell’anima, perché la gravidanza abbia un felice compimento. «In questa consacrazione si può vivere! Si deve vivere!». Al suo confronto, aggiunge, noi uomini ambiziosi e impegnati «lasciamo pure perdere il pretenzioso discorrere di volere e di creare» (Aurora, 552). Certo, il filosofo tedesco sta idealizzando una condizione di cui non ha altra esperienza che quella di un nato di donna (conta anche questa, tuttavia). Ma con la figura della donna gravida, contrapposta al linguaggio maschile della creazione e della volontà, egli supera la sua stessa filosofia per parlare di una libera pacifica generazione che s’incrementa dal suo interno e dà vita ad altro da sé, superando la contrapposizione tra egoismo e altruismo: «Così, in questa maniera indiretta, noi ci prendiamo cura e vegliamo nell’interesse di tutti». Nell’aforisma di Nietzsche non ritrovo la mia esperienza di madre, ma gli riconosco di aver saputo cogliere una differenza femminile. E nella metafora della donna gravida riconosco un aspetto importante del mio impegno politico, che è di cambiare la realtà non con l’organizzazione né con le leggi, ma a partire da quella che sono e che sto diventando con la fedeltà al mio essere donna. Virginia Woolf, negli anni Trenta del secolo scorso, ha scritto un capolavoro politico, Le tre ghinee, in cui ignora il movimento dei diritti, che in Inghilterra era forte, e rivendica paradossalmente per le donne un solo diritto, quello di guadagnarsi da vivere. La sua prospettiva è di dare incremento alla differenza femminile in forme originali, libere. La libertà si sviluppa con
la libertà. Bisogna sapere che Le tre ghinee dovevano essere la sua risposta a chi la invitava a militare nell’antifascismo per prevenire la guerra. Questo è il mio contributo, risponde Virginia, fare che nel mondo ci sia libertà femminile, il mondo non sarà più lo stesso. Non fu capita dagli amici di sinistra, ma la sua risposta farà di lei una madre simbolica del femminismo radicale, specialmente in Italia. Alcune hanno detto alle femministe che sono critiche verso la surrogazione: «Proprio voi che avete fatto le battaglie per l’autodeterminazione, ora volete dire alle altre quello che devono fare?». Detta da uomini, questa protesta mi pare pretestuosa; proveniente da donne, sento le sue buone ragioni. C’è dentro un moto di respingimento d’ideali e di norme dettate da altri, che è parte della lotta per l’indipendenza simbolica. E ci ricorda una storia di soggezione che, senza negare direttamente la libertà delle donne, l’ha subordinata all’approvazione familiare e sociale. La ritroviamo in molti personaggi femminili della buona letteratura romanzesca, come il personaggio di Teresa, la principessina dei Viceré di De Roberto, per citarne uno di un libro che sto leggendo. La romanziera Jane Austen ha affrontato questa soggezione, che sfociava talvolta in guerra sorda tra madre e figlia, e l’ha risolta genialmente nell’ultimo dei suoi romanzi, Persuasione. Alle donne che protestano, rispondo che la nostra critica della surrogazione che si traduce in una nuova forma di subordinazione delle donne, secondo me è coerente con l’impegno femminista per la libertà. Se dovessi definirla, direi che la libertà è un godere di essere secondo la misura delle proprie possibilità, quelle che una (o uno) va scoprendo in sé e cerca di realizzare. La possibilità di diventare madre è una di queste ed è una prerogativa che in antiche culture perdute ha ispirato un rispetto sacro per il corpo femminile. Soltanto lo stato di necessità può giustificare, ai miei occhi, che una si privi delle sue prerogative senza con ciò sminuirsi. Ma non giustifica, al contrario, il contratto di surrogazione né il regime sociale che ha messo lei nella necessità di sottoscriverlo. Noi, per quello che ne so, in questo paese, non viviamo in un simile regime, ma attenzione che, uscite dallo stato di necessità, quello che comincia non è automaticamente la libertà. Bisogna scegliere tra sposarsi e non sposarsi, fare un figlio o non farlo, tra votare Pinco o votare Pallino, ma la libertà non si riduce alla scelta. Una delle mie autrici di riferimento, Iris Murdoch, ha scritto che scegliere è quello che resta «quando tutto è già perduto» (Esistenzialisti e mistici, Il Saggiatore, Milano 2015, p. 287). Sottinteso, che resta a “noi” che viviamo nei paesi sedicenti liberi. Vuol dire che, quando abbiamo perduto la forza del desiderio, l’energia di cambiare, l’orientamento e tutto quello che ci fa decidere e agire con quel godimento di essere che è
esperienza della libertà, allora ci resta la scelta di fare così o colà, secondo i mezzi che abbiamo e le offerte che ci fanno: nei nostri supermarket abbondano. C’è un precedente che risuona nella protesta del “proprio voi femministe”. Il precedente è il movimento per la depenalizzazione dell’aborto. Si cita perciò quello slogan, “l’utero è mio”, che è andato in piazza, in Italia, negli anni dell’approvazione e conferma della legge 194. Applicare alla surrogata lo slogan dell’utero è mio è un controsenso. Prendeva il suo significato dal contesto di una mobilitazione per assicurare alla singola la prospettiva di una maternità liberamente desiderata. Nel caso presente, invece, si tratta di subordinare la fecondità personale a un progetto di altri, che saranno i titolari del suo frutto e dettano le condizioni del suo svolgimento. Nondimeno quello slogan era sbagliato già allora, così com’è una semplificazione parlare di diritto per l’interruzione volontaria della gravidanza. Un diritto è qualcosa di cui si gode, l’aborto è un rimedio a qualcosa che la donna considera inaccettabile. Alla donna va data la possibilità legale e materiale d’interrompere la gravidanza per una ragione di principio, che non si può obbligarla a diventare madre. Nessuno può impedirle e nessuno può imporle di diventarlo. D’altra parte, che la maternità sia un’esperienza di libertà per la donna, è più che un diritto individuale: è una misura alta di qualità cui mirare nei rapporti eterosessuali ed è un dono impareggiabile da fare alle creature che mettiamo al mondo. Di questo si tratta anche nella questione della maternità per conto di altri. Questa, come sappiamo, sta diventando un groviglio di leggi, articoli, clausole, procedure, sentenze, appelli e ricorsi che, se posso dire la mia in questo campo, ha un motivo preciso nell’ordinamento giuridico moderno. Di suo la maternità costituisce un’incolmabile asimmetria tra donne e uomini, in quanto tutte, e tutti, nascono da donna. Come tale, la asimmetria non può essere iscritta in un ordinamento giuridico moderno, ispirato al principio di uguaglianza, mi dicono. Bene, rispondo, ma quello che veramente manca al diritto, e quindi fa disordine, è il senso libero della differenza sessuale. La ragione di questa mancanza è storica, ma la correzione non arriva. Il diritto resta neutro, di fatto maschile. Per cui, nell’art. 3 della nostra Costituzione si parla della differenza sessuale (cioè, in pratica, del mio essere donna) come di un ostacolo al riconoscimento della mia uguale dignità! Su questa strada, si sta andando verso l’eliminazione della relazione materna, proprio a causa di quella asimmetria che non viene mediata da niente, come una specie di superiorità non riconosciuta e non riconoscibile dal diritto. Nessuno vuole questa eliminazione e la relazione in
realtà resta, ma rischia di sparire dal linguaggio, cioè dal dispositivo universale della consapevolezza e della comunicazione. Se così è, si smetta d’intendere e applicare il principio di uguaglianza nei termini neutromaschili con cui è stato formulato in un’epoca in cui tutto doveva fare capo a uno: sovrano, Stato, capofamiglia, papa. Le passate gerarchie stanno sparendo, ma che non sia a condizione di appiattire le relazioni tra esseri umani.
LA M A DRE DI DI O
Vi sono paesi, anche il nostro, in cui i cattolici si organizzano in difesa della famiglia. Molti di loro la difendono come società naturale a fondamento della vita sociale. Io sono con quelli, cattolici e non, che la difendono nella misura in cui è un luogo di rapporti d’amore e di solidarietà, dove sessi e generazioni diverse si parlano e si aiutano. Ci sono più forme di famiglia e sono tutte naturali. Buoni argomenti si trovano anche distante dalla propria posizione, ho scritto sopra. Tra gli argomenti che mi è capitato di leggere in rete, una tale, sicuramente favorevole alla procreazione per interposta persona, ha detto: «la Madonna è un esempio altissimo di maternità surrogata». Stupefazione. Ma proviamo a pensarci seguendo il racconto dell’evangelista Luca (che ritroviamo anche nel Corano). Non un angelo qualsiasi, ma Gabriele in persona va a Nazareth, in Palestina, entra in casa di una certa Maria e la saluta con parole di grande riguardo, lei si spaventa un po’ e chiede spiegazioni, le riceve insieme all’annuncio della sua prossima, straordinaria maternità. Maria richiede una più precisa spiegazione, essendo lei vergine; le viene data (“nulla è impossibile a Dio”) e si ritroverà incinta di Gesù, il Salvatore. Si potrebbe effettivamente vedere in questo racconto, interpretato da una donna sinceramente convinta della sua buona causa, un’eccelsa prefigurazione dell’atto femminile di mettere la propria fecondità al servizio di altri (in questo caso, per la realizzazione soprannaturale di un progetto divino). Ma, a dire il vero, non si può, perché (lasciando ovviamente da parte l’aspetto commerciale della surrogata) nel racconto sacro la madre resta in presenza, diversamente dalla surrogata, alla quale subentra un’altra, la cosiddetta “madre intenzionale”. Maria è e resta l’unica madre di Gesù. Tuttavia si potrebbe mantenere l’analogia, vedendo nel racconto evangelico (che il Corano, va detto, non segue più) un esempio di donna che fa della sua fecondità uno strumento a disposizione di Dio per la Sua venuta in questo mondo. È andata così, teologicamente parlando? No, neanche in
questo senso, perché Maria, non solo accettò di diventare la madre del salvatore promesso al popolo ebraico, ma quando molti hanno visto in lui il loro Dio fatto uomo, lei fu chiamata Madre di Dio. A questo titolo mirabolante si arrivò con grandi discussioni. Per le autorità religiose del secolo quinto dell’era cristiana, nel Concilio di Efeso (anno 431), si trattava di trovare le parole per dire il mistero dell’incarnazione di Dio nell’uomo Gesù: quello che volevano affermare di lui, vero uomo e vero Dio in una persona, implicava l’assoluta non strumentalizzazione della fecondità femminile, e loro l’hanno audacemente affermata.
LA RELA ZI ONE M ATERNA
L’ UNI CI TÀ DELLA M A DRE
Sui giornali sono apparsi titoli a sensazione secondo cui il detto popolare di mamma ce n’è una s ol a sarebbe stato messo fuori uso, reso “obsoleto”, dalle tecniche riproduttive e dalla surrogazione, per cui, adesso, da una che era, sarebbero diventate parecchie. Aiuto! mi viene da gridare, come fa un certo personaggio dei fumetti quando la situazione s’ingarbuglia. Non era questo il significato del detto, non si riferiva cioè a un legame biologico. Si riferiva all’unicità di un’esperienza e di una relazione così come le vive chi viene al mondo. Oggi, ci sarebbe da chiedersi, al contrario, se non ci sia il pericolo di veder impoverirsi talmente il significato di quell’esperienza e di quella relazione, che, da una che era, diventerà nessuna… La relazione materna ha il suo fulcro nel rapporto che si stabilisce nei mesi di gravidanza e con il parto, seguiti da cure affettuose nei primi mesi e anni di vita. Con l’esperienza di questo rapporto, inserito in una trama di altri legami che ogni cultura istituisce con nomi, rappresentazioni e regole, si crea uno speciale sentimento interiore che, lo sappiamo, dura tutta la vita e ha tante manifestazioni. Davanti alle manifestazioni più belle e sorprendenti, la gente diceva: “di mamma ce n’è una sola”. L’unicità della madre secondo il detto popolare è qualcosa che, se riesci a intuirla, ti rendi conto di quanto sia umanamente ricca e complicata quella relazione, tanto quanto l’essere umano che di semplice non ha nulla. Vale la pena di pensarci. L’esperienza è speciale perché è vissuta a due e in due, un po’ come una coppia molto affiatata che fa sesso o balla unita e i due sentono le stesse cose, con la grande differenza che, nella coppia materna c’è un processo vitale in corso che ha le caratteristiche di una creazione. Una creazione, secondo Nietzsche, che non ha i difetti maschili dell’attivismo e del volontarismo. La straordinaria sequenza dei vissuti arriva ad una prima tappa, del portarevenire alla luce, e va avanti fino alla seconda tappa, dell’insegnareimparare a parlare, senza soluzione di continuità. Lo scambio di vita tra i due esseri umani, quello che arriva al mondo e quello che ve lo accompagna, domanda di andare avanti senza interrompersi. E questo di solito si ottiene con
l’opera di una sola donna, la mater semper certa del diritto antico, colei che resta incinta e lo accetta, più o meno contenta. E avrà fine quando quei due avranno imparato, nel corso del loro stesso rapporto, a sostituire lo scambio delle materie con quello dei segni. Tutto questo tra variazioni, imprevisti e incidenti, anche dolorosi, che sono il marchio di fabbrica dell’essere umano. Può capitare che quella progressione s’interrompa alla prima tappa: la creatura vivrà continuando l’opera, aiutata da chi vorrà aiutarla. A certe condizioni, ne è capace. Anche in un’incubatrice. Ma possiamo accettare che l’interruzione venga programmata senza una necessità? La nostra legge ammette che la donna, al momento del parto, possa rinunciare alla maternità, ma in quel momento e lei soltanto. Altrimenti no, e lo dico per il bene della creatura nascente, ma ancor più per il nostro bene, che è di restare umani.
OLTRE LA M ETA FORA
Ci sono più modi di aver parte nella relazione materna. Questa è unica in un significato che non esclude il suo distribuirsi più largo, come fa la luce che si sprigiona da una fessura. C’è un’unicità non esclusiva del titolo di “mamma”, che può includere più donne, a seconda dei contesti e degli avvenimenti. Una tale, interrogata dal nipote («Zia, perché tu non hai bambini?») gli ha risposto: «Perché ho la vocazione della zia» e Letizia Bianchi, sociologa della famiglia, ha inventato la posizione della zia. Non parlo della metafora. Il significato metaforico della maternità è antico, vivo e sempre parlante. Una volta, per esempio, si diceva la “Madre patria”, oggi si parla di “Terra madre”, sull’esempio di quelle culture che vedono una madre nella Natura o nella Terra. I cattolici, uomini e donne, sono riuniti in una grande comunità cui danno il titolo di madre: Mater Ecclesia. A questo proposito, un inciso. Quell’uomo che un giorno, a sorpresa, se ne uscì con una frase che resterà celebre, «Dio è anche mamma», secondo me non ha inteso fare una metafora né parlare per modo di dire. Le sue parole esprimevano una verità rivelata, per usare il linguaggio della religione. Più semplicemente: ha visto che era così. La potenza di una metafora, in generale, viene dal suo libero espandersi facendo incontrare e interagire cose distanti, che materialmente non hanno rapporto fra loro. Il rapporto metaforico è immateriale. Noi però non siamo puri spiriti e dobbiamo tenere i piedi per terra: il pane della mente non cava la fame. L’ho scritto in un librino di tanti anni fa, senza fare gerarchie, anzi negando che ci siano gerarchie, per dire semplicemente che il linguaggio sa il nostro essere corpo e la nostra dipendenza dalla materia. Il significato di “mamma”, che qui cerchiamo di ritrovare, non è metaforico; può moltiplicarsi e intensificarsi restando però in debito con qualcosa di fisico o, comunque, di materiale. Per esempio, la parentela o la prossimità di vita. Per esempio, il latte. La balia è una mamma secondo questo significato, infatti si chiama mamma di latte e i suoi figli sono fratelli e sorelle di latte della
creatura a lei affidata per essere allattata. Lo smarrimento dell’antico significato popolare si deve forse alla sua erosione da parte di una vita urbana di famigliole in appartamenti piccoli dentro a grandi edifici, in quartieri con poca vita sociale. Lì la donna si è trovata lontana dalla famiglia d’origine e isolata dai rapporti con le, solo fisicamente, vicine. Sul posto di lavoro i rapporti ci sono, ma come rallegrarsi fra donne, se il congedo di maternità si traduce in più lavoro per altre? Il congedo di maternità, così praticato, ha qualcosa di antimaterno. Nell’impoverimento del significato, c’entra anche un certo spirito proprietario, condiviso dalla coppia dei genitori, gelosi verso le proprie creature: la mia bambina, nostro figlio, detto e sentito con un esclusivismo che aiuta la coppia a restare unita e a fare sacrifici, ma spinge anche a ignorare presenze e richieste provenienti da ogni altra parte. Nel nuovo tipo di società che ha accompagnato l’inurbamento, quasi non ci sono situazioni in cui la relazione materna possa riverberarsi ed esplicare la sua potenza simbolica (ma non metaforica). Le città, nate e fiorite per favorire la vita sociale, oggi hanno problemi proprio da questo punto di vista. Sto cercando di far intendere il significato di quel “simbolico non metaforico” che uso quando parlo della figura materna. Un buon esempio lo dà la femminista Maria Luisa Boccia con l’immagine del grembo indispensabile. Alcune avevano espresso il timore di vedere le donne ridotte a natura dalla funzione materna, e lei rispose: più del naturalismo, io temo che si pretenda di prescindere dalla natura. Aveva ragione. Si tratta di pensare e ragionare, in ogni campo, mettendoci anche il nostro essere corpo. Io penso con i piedi, disse l’artista Savinio che, per concentrarsi, aveva il gusto di camminare e, ancor più, aveva quello di sfidare i luoghi comuni.
UNA BELLA DOM A NDA
Che cosa fa sì che la relazione materna possa moltiplicarsi senza perdere la sua unicità? Una bella domanda, veramente. Ne va della continuità dell’esperienza relazionale che vive la creatura piccola e che, tra incidenti vari, deve poter durare per un tempo sufficientemente lungo. La prima risposta che viene è l’amore. Ma è troppo e troppo poco, per essere una risposta. L’amore fa parte dell’indispensabile ma è un enigma a sua volta. Tra gli incidenti e gli imprevisti, può capitare perfino che una donna detesti la creatura che ha messo al mondo. Sulle pagine domenicali di un quotidiano inglese, lessi anni fa una donna che raccontava di essere madre di due figlie una delle quali, la seconda, sui dieci anni, le era inspiegabilmente odiosa. La sua lettera esprimeva una gelida angoscia e dietro di questa si profilava l’indicibile dramma della bambina. Avevo già intravisto qualcosa di simile frequentando una mia collega di scuola, ma così cieca che non sapeva di detestare uno dei due figli, credeva che fosse lui. A questi mali non c’è rimedio, temo, proprio a causa dell’unicità della relazione materna; la separazione lascerebbe un terreno due volte devastato. Eppure c’è altro che bisogna imparare a vedere anche nelle situazioni estreme. Ed è il lavoro che si fa e continua a farsi dalla parte della creatura piccola, anche quando le cose non vanno per il verso giusto. Torniamo alla “bella domanda”. La potenza della relazione materna, ho finito per pensare, è frutto, principalmente, del lavoro che fa la creatura piccola, assecondata, poco o tanto, dal corpo e dalla mente della donna. È importante che quest’ultima abbia detto di sì e acconsenta. È vero, d’altra parte, quello che Françoise Dolto, psicanalista dell’infanzia presso l’Hôtel Dieu di Parigi, insegnava alle bambine/i abbandonati anche dalla madre: «sei qui, sei viva, sei vivo, vuol dire che la mamma ti ha voluto bene». Un bene sufficiente al desiderio di vivere. Quelli che vengono al mondo, hanno bisogno di saperlo per non perdere le forze… Cioè, tutti. Un inciso. Quando dico: chi fa il lavoro maggiore è la creatura piccola, non intendo far credere che avrei studiato e misurato queste cose, prova ne sia il mio ragionare fatto di parole comuni. Le
ho pensate rimuginando da piccola e riflettendo da adulta, istruita soprattutto dalla mia esperienza di figlia e di madre. Le ho pensate con la pancia, direbbe Savinio al mio posto. Per alcuni anni, inoltre, ho avuto la fortuna di osservare, con le mie allieve di pedagogia, le bambine/i di una scuola materna e poi quelle/i di una scuola elementare, ospite delle loro maestre. Ci ho pensato dapprima in maniera spontanea. Poi, con la presa di coscienza femminista, è diventato un filone di ricerca consapevole. Che il femminismo mi abbia portato a valorizzare tanto la relazione materna, può sorprendere, ma solo perché lo si confonde con l’emancipazione. Il femminismo stesso vi si è prestato. È una confusione tenace che, per esempio, ritroviamo anche nel dibattito intorno alla legge sulla fecondazione assistita, del 2004. Era quasi tutto imperniato sulla sorte giuridicoscientifica dell’embrione (ovuli e sperma), secondo un punto di vista che vede gli uomini in contrasto fra loro quanto distanti dall’esperienza femminile. Risultato, non ha vinto nessuno, anche perché al fronte progressista sono mancati voti femministi dati per sicuri. Alcune si sono chieste: perché, in quell’occasione, non siamo riuscite a modificare l’impostazione del dibattito? Abbiamo parlato, rispondo, dal luogo di un’autorità femminile che non risuona nella vita pubblica. Il difetto di autorità femminile ha fatto danno alla civiltà e non è finita; ne parlo qui solo perché c’entra la figura materna, oggetto di una retorica che la isola dalla realtà storica. Con il femminismo, quello che abbiamo messo in gioco è ben altro che la parità con gli uomini, è il senso libero della differenza sessuale, femminile/maschile. La differenza comincia con la relazione materna. E non è tra (uomini e donne), come si dice erroneamente. Germina internamente a ciascuno, ciascuna. In lui, l’esperienza di quel rapporto è destinata a restare unica ed esclusiva; lei ha in comune con la madre la capacità di generare e potrà un giorno riviverla. Non so quando, non so come, ma lo sentono, lui il distacco dal corpo materno, lei l’intimità che permane. Sono sentimenti germinali che spuntano molto presto. Non tutti ci stanno, lo sappiamo, a prendere le distanze giuste. Comunque sia, la creatura piccola è la protagonista della relazione materna. Il suo lavoro ne è la grande risorsa. Di quello che capita nel laboratorio interno e invisibile, è difficile parlare e tanto meglio, purché non ci limitiamo al racconto scientifico. Finito il soggiorno oscuro, sono pianti, grida, movimenti convulsi, smorfie e altro ancora, per segnalare la propria esistenza. Ma l’appello più forte è quello del suo mostrarsi nuda e cruda. La donna che ha rinunciato a tenere la sua creatura non può vederla, per questo. È noto anche che le neomadri spesso si trovano ad avere
strani sensi di colpa, oggettivamente immotivati: probabilmente perché sentono di non essere lontanamente all’altezza della richiesta che emana dalla creaturina viva, una volta che non la tengono più dentro e se la trovano davanti, bisognosissima. Però, a quel punto, più forte di ogni altro, è il sentimento materno di mobilitazione in risposta a quella chiamata.
LI BERTÀ E PROCESSO EV OLUTI V O
Gratificazione s’intitola un altro grande capitolo del “lavoro” che fanno le bambine e i bambini nei confronti della madre e di tutte le persone supposte amiche come la madre. Lo fanno in una maniera impareggiabile che non proverò neanche a descrivere. È una bravura che resta per tutta l’infanzia, poi sfuma e sparisce. Vero è che non tutti ci riescono, per motivi di salute o altri. Per i genitori, la madre in primis, è una prova tra le più ardue del loro amore. Può subentrare allora un’antica espressione corale dell’amore materno. Me ne parlò una collega francese. Si trovava in Italia per turismo con il figlio affetto da un male che aveva un nome ma non una cura e, in quella località sul lago, c’erano donne che si fermavano ad accarezzare il bambino, sorridendo a lei, quasi per surrogare la gratificazione che il figlio poteva darle a stento. In sostanza, la competenza materna, non quella acquisita della pediatria ma quella che ammirano anche i pediatri, che sembra una qualità innata, si può dire che si formi in risposta alla bisognosità. Ma si forma così prontamente che somiglia al risvegliarsi, nella donna, di un sapere latente. Un mio studente, neopadre, facendo un confronto con la sua compagna, ci comunicò il suo stupore: «lei prima era una come me, poi l’ho vista così sicura, come se avesse studiato anni per diventare mamma». Lui forse ignorava la metamorfosi segreta di un corpomente in gravidanza, ma aveva scoperto la differenza. E la accettava: «io ci metterò anni ma arriverò ad essere il padre di quella bambina». E il segno sarà che lui sarà diventato riconoscibile tra gli altri uomini da lei che da subito sapeva riconoscere solo la madre. La ragazza che di colpo è apparsa al suo compagno come una laureata mamma, è un essere umano che, nel processo evolutivo, quando la vita si è biforcata per meglio riprodursi e gli organi maschili/femminili della riproduzione si sono sviluppati, si è prestato alla vita per riprodurla, tenerla al riparo, portarla verso un minimo di civiltà e di autosufficienza. Si è prestato liberamente?
No, al contrario, è la risposta di Sándor Ferenczi, l’ungherese seguace di Freud. Vale la pena ascoltarlo:
«Fu così che ambedue i sessi svilupparono un apparato sessuale maschile e che nacque forse un furioso conflitto il cui esito doveva decidere su quale dei due avrebbero dovuto incombere le sofferenze e i doveri della maternità come il ruolo passivo della genitalità. Da questa lotta fu la femmina a uscirne vinta» ( Maschio e femmina , 1929), La risposta di Ferenczi non racconta ovviamente la sessuazione dei mammiferi. Rispecchia una mentalità della borghesia colta, contro cui è insorto il femminismo combattendo il modello della passività femminile nei rapporti sessuali, e respingendo il destino biologico materno. Era una postura reattiva il cui superamento è ancora in corso e non è affatto pacifico, come si può costatare dal dibattito sulla surrogazione. Non è pacifico nel femminismo perché non è pacifico nello stato attuale della civiltà. Domanda, infatti, che ci formiamo, donne e uomini, una nuova coscienza evolutiva al posto della mentalità borghese che ha interpretato la teoria di Darwin in chiave positivistica e tutta maschile. Non so, dunque, se possiamo vedere libertà nel processo evolutivo; il filosofo Bergson, che parla di evoluzione creatrice, direbbe: sì, possiamo vederla. Ma di quella giovane donna neomadre, di lei personalmente, si deve poter dire che c’è libertà nel diventare madre da parte di una donna. Se non c’è, adoperiamoci perché ci sia. Il senso libero della differenza sessuale ha questa esigenza, di vedere quella ragazza – e ogni donna che diventa madre – inserita nell’evoluzione come un essere umano che ci mette liberamente del suo, in una prospettiva che arriva nelle profondità primordiali della vita. Anche quelle future. La creatura neonata è un ottimo riassunto dell’evoluzione della specie ma incompleto, essendo, lui o lei, ancora in viaggio verso la propria originale personalità. Che è punto di arrivo per il singolo ma, per l’umanità, di apertura. L’evoluzione della specie umana, infatti, non è terminata. Gustavo Bontadini, un maestro, ci parlava di creazione continua, con un’allusione scherzosa al giornale e al movimento allora fiorenti di Lotta continua. Voleva dire che i giochi dell’essere sono sempre aperti e che potevamo riaprirli in grande.
LA M I SURA DEI DI RI TTI
Nella nostra società si è parlato di conciliare la maternità con la partecipazione alla vita pubblica, in primis il lavoro retribuito, e si continua a fare della parità con l’uomo la misura dei diritti da riconoscere alle donne. Alla luce del mio discorso, si vede con ogni evidenza quanto la parità sia un criterio mutilante. Ignora la relazione femminile con la madre, ignora quindi l’autentica differenza dei sessi e pareggia assurdamente la fecondità femminile con quella maschile. La conciliazione, d’altra parte, è una pretesa troppo modesta, irrealizzabile proprio per questo: scarta il conflitto e dà luogo, subito, a un ripiego che sacrifica la maternità e pospone i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro. C’è un titolo che mi piace molto, dato a un’inchiesta tra donne di Milano su lavoro e maternità: Il doppio sì. È un salto di tigre verso una nuova coscienza evolutiva. Una donna non è libera nella sua autorealizzazione se non ha la possibilità di prendere, lei in prima persona, la misura giusta della propria disponibilità materna. La relazione materna Che cosa vuol dire “giusta”? Vediamo prima che cosa vuol dire “prendere la misura”. Tra le giovani donne che, più numerose delle altre, si sono dette favorevoli alla surrogazione, una parte non voleva sentir parlare di soldi, voleva semplicemente la possibilità di fare bambini da regalare. Generosità giovanile. Un’altra, invece, teorizzava una libertà come scelta di prendere o lasciare (il neonato), con un’astrattezza che spinge a sperare di non arrivarci mai. La misura si prende con una contrattazione. Ci sono gradi di sempre maggiore libertà da conquistare nella contrattazione tra desiderio, possibilità e necessità. Non si tratta di evitarla né di pretendere sconti, ma di farla in prima persona. E questo per una ragione che, secondo la formula filosofica, sarebbe: ontologicamente, la madre non c’è, c’è una donna che diventa madre e che perciò prende quel nome. Con parole mie, la figura materna rientra in quello che ho chiamato “simbolico non metaforico”: per fare una madre ci vuole una donna in carne e ossa e una
gestazione, fisicamente non diversa da quella degli altri mammiferi, e ci vuole un ordine simbolico che valorizza la relazione materna con le sue caratteristiche. Il pericolo costante della retorica materna è di rendere la contrattazione superflua alla singola donna, fissando un modello di dover essere. Io stessa, scrivendo su questo tema, ho paura di cascarci, cioè di far nascere un modello nella mente di chi legge. All’opposto, l’antiretorica materna propria della mentalità liberista fa dimenticare che, nella contrattazione della propria disponibilità, entra anche l’impegno relazionale che, nel corso della gravidanza, si crea spontaneamente con la creatura. Può capitare a una donna di essere sorda alla nuova presenza e così sia, ma non un passo di più in questa direzione!
I L CONTI NUUM M ATERNO
Ricordo il momento in cui mi accorsi e vidi che mia madre era una donna, che mi era madre sì, ma senza essersi annullata nel personaggio con cui fino allora l’avevo identificata. Eravamo in una località dell’altipiano d’Asiago, ero appena adolescente, la seguivo nella raccolta di erbe e “la vidi”, tutta presa nella sua passione per le erbe medicinali, che raramente poteva soddisfare. Poi la donna è sparita. L’ho rivista assistendo, tanti anni dopo, all’incontro fra lei e un’amica carissima della sua prima giovinezza, era nelle parole e negli sguardi che le due vecchie amiche si scambiavano. Ne ebbi dolore perché mi resi conto che aveva sacrificato qualcosa di troppo al suo compito di madre di famiglia. Nonostante questo, la ricordo come una donna non disposta a subire imposizioni, che si è destreggiata per essere se stessa tra comandamenti, doveri e ideali stabiliti per lo più da altri, e ammiro che vi sia riuscita. C’è ancora altro da pensare sul lavoro che fanno i bambini per aiutarci e aiutarsi a stare al mondo. Se la disponibilità materna della “laureatamamma” fosse venuta a mancare, il padre stesso avrebbe potuto prenderne il posto. Con ciò il compito di diventare padre restava, ma intanto, guidato dalla bambina bisognosa, le avrebbe fatto da madre. Non senza qualche istruzione esterna. Sul treno LecceBologna ricordo il giovane padre che viaggiava con il suo bambino di duetre anni, disperato per il distacco dalla nonna; lui, con gentile pazienza, lo teneva sulle ginocchia senza altro contatto, non aveva l’istinto di stringerlo a sé. Si affaccia qui il pensiero che, parecchio tempo fa, scrivendo su questi temi, mi dettò un testo intitolato O chi per essa. Non solo la relazione materna coinvolge più persone, come ho detto sopra. Può anche ricostituirsi tra la creatura bisognosa e una persona adulta, purché animata dall’esigenza interiore di subentrare alla madre naturale. Questa possibilità, che si dà anche nel mondo animale, è documentata nella cultura umana di ogni tempo e s’iscrive in quello che alcune hanno chiamato l’ordine simbolico della madre. L’idea che porta questo nome, si è affacciata in Italia negli anni Ottanta, nel contesto del pensiero della differenza sessuale, ed è stata ripresa nel dibattito sulla procreazione assistita dalla
tecnoscienza. Tra le cosiddette scienze della vita e il simbolico materno c’è una tensione polemica che bisogna mantenere viva, pena il dare incremento a una “vita senza esseri umani”, secondo l’espressione coniata da Diotima. Premesso che l’insuperabile modello di ogni ordine simbolico sono le lingue vive, quello materno è l’ordine che consente all’umanità di riprodursi e agli esseri umani d’imparare a parlare, man mano che vengono al mondo, di generazione in generazione, nella continuità della vita e nel rinnovarsi della lingua. Le genealogie femminili assicurano questa duplice continuità nel compito di dare la vita e d’insegnare a parlare. È “il continuum materno”. La vita biologica è continua di suo, se s’interrompe finisce. Lo è anche nell’apporto maschile. Lo sperma era una materia molto valorizzata nella cultura greca antica, anticamente sperma voleva dire germe, scintilla, figlio, discendenza… Ma, materialmente parlando, quella dello sperma è una continuità impersonale che, senza l’esame di laboratorio, non si saprebbe tra chi e chi passa. Un uomo diventa padre facendo sesso e neanche lo sa. Perciò il legame di paternità si è stabilito con l’aiuto della legge e con il linguaggio di tipo metaforico (il nome del padre), ma oggi anche con il ricorso al laboratorio. Non sorprende, a pensarci, il gran numero di “verità” garantite oggi dalle provette e dai microscopi. La genealogia femminile passa invece tra due donne, madre e figlia, che hanno tra loro una relazione fatta di rapporti personali, di conflitti, di trattative e di solidarietà. Il femminismo si è molto impegnato ad approfondire e a migliorare questa relazione, a volte difficile. Il simbolico patriarcale l’aveva messa in ombra (e in ridicolo, per un certo timore che ne aveva), senza tuttavia oscurare alcuni grandi precedenti, dal mito di Demetra e Kore alla coppia evangelica di Anna e Maria, fino al cinema e alla letteratura dei nostri tempi, sempre di più. Lo ripeto, non si tratta di fare gerarchie tra maschile e femminile, ma di vedere la differenza e di restituire il suo valore di civiltà all’alleanza madrefiglia. Tornando al chi per essa, occorre notare che quello che vale per la madre non vale per l’altro termine della relazione. Diversamente dalla madre, la creatura è insostituibile: è nuova, unica, incaricata di aprire il presente al futuro. Hannah Arendt, appassionata di filosofia politica com’era, ha voluto introdurre nella filosofia il tema della nascita e l’ha fatto in questi termini. La psicoanalista Françoise Dolto disapprova, d’altra parte, la pratica di dare alle creature neonate i nomi di familiari morti.
DESI DERI O E DI RI TTO
Qualcosa d’importante s’innesta, a questo punto, nella questione della maternità surrogata. Come sappiamo, vi ricorrono anche persone fondamentalmente rispettose dell’ordine costituito. Lo fanno pur essendo consapevoli di violare la legge, dove la legge c’è, e la proibizione, che è un principio di civiltà, di commercializzare il corpo umano e i suoi prodotti. Seppelliscono legge e civiltà sotto un mucchietto di buone intenzioni persona li. A parte le buone intenzioni (di cui è lastricato l’inferno, si diceva una volta), hanno anche una giustificazione, il loro desiderio. Tra parentesi: è ben vero che un desiderio non costituisce un diritto, come si è ripetuto in quest’occasione, ma da lì si può arrivare a riconoscere un diritto, pensiamo solo al desiderio d’istruzione di tante ragazze cui era negata. Il mio discorso prosegue in un’altra direzione. Si tratta, chiaramente, di qualcosa cui le coppie che ricorrono alla surrogazione non sanno rinunciare. Non riescono nemmeno a spostare il loro desiderio diventando genitori adottivi o partecipando alle relazioni, materna o paterna, di altri. Ebbene, ora sappiamo che, per realizzarlo, gli aspiranti genitori possono contare non soltanto sui soldi, non soltanto sulla tolleranza legale di alcuni paesi, non soltanto sul diritto commerciale che nella cultura borghese ha creato una vera e propria mentalità. Possono contare anche sulla collaborazione della creaturina che essi fanno propria. Ed è la parte essenziale dell’operazione. La creatura, infatti, separata dalla madre, ha la capacità, acquisita nella fase di vita intrauterina, di fare il lavoro, biologico e simbolico, di ricostituirla nelle persone che le subentrano. Pensando a lei, bambina o bambino, diciamo: brava! bravo! Ma alle persone adulte, vorrei dire: se le parole hanno un senso, voi siete i surrogati! Voi surrogate la donna che era in relazione di madre con la sua creatura e, se ci riuscirete, sarà grazie al “lavoro” di quest’ultima che, ignara delle vostre manovre, vi sta aiutando al suo meglio. Risaltano i motivi della superiorità morale dei genitori adottivi. La generosità: essi fanno passare la realizzazione del loro desiderio attraverso le esigenze pressanti di altri esseri umani.
Non si può dire lo stesso dei genitori che io chiamerei surrogati, i quali realizzano il loro desiderio facendolo passare per esigenze che hanno creato loro stessi, separando la creatura da sua madre. I genitori adottivi, inoltre, non possono ignorare, anche se forse ne sentono la tentazione (non lo so), che la creatura aveva già cominciato il suo viaggio verso l’età adulta prima d’incontrarli. Dicendo che “non possono”, più che alla legge e all’anagrafe, mi riferisco all‘interiore consapevolezza di quello che loro sono. Sono persone che subentrano nei ruoli di padre e madre a riparare una discontinuità nella relazione materna (e paterna), accaduta in precedenza, quando e come non doveva accadere. Essi meritano di chiamarsi madre e padre. Qui, però, occorre dire che la legge delle adozioni rende troppo lunga la discontinuità di una presenza materna (e paterna) nella vita dei bambini adottabili, diversamente che nella surrogazione. La procedura legale risponde alla necessità di tutelare le persone piccole, ma contraddice alle loro più pressanti esigenze. È una contraddizione che proviene dal fondo infido e predatorio del mondo adulto: per la giusta esigenza di salvarle dal peggio si prolunga la sofferenza dell’abbandono. I responsabili di ciò lo sanno? Sanno, inoltre, che tutto questo ricade negativamente sulla capacità della bambina o bambino adottati di ricostituire le figure parentali? Infine. Grazie alla consapevolezza di essere adottivi, questi genitori hanno il merito di lasciare aperta la porta da cui il bambino e la bambina possono passare con le fantasie e con le domande rivolte a quello che c’è stato prima.
LA QUESTI ONE DELLE ORI GI NI
La domanda su quello che c’è stato prima è spontanea per l’essere che vive nel tempo, ne è consapevole, ma non ha memoria di un inizio. Ci sono scienziati che indagano su quello che c’è stato prima del Big Bang! Non so come facciano: come i bambini? Secondo una certa filosofia, il luogo delle origini sarebbe vuoto: i filosofi, come fanno a saperlo? Comunque sia, la comune esperienza umana dice che, sulla strada verso le origini, troviamo una donna che ci ha messo al mondo e che, come insegnava la psicanalista dell’Hôtel Dieu, ci ha amato di un amore sufficiente. Ma c’è anche un prima di lei, naturalmente. La creatura che, ignara delle manovre della surrogazione, ha collaborato a ricostituire la figura materna, quando verrà a sapere o a sospettare, capirà? perdonerà? Capirà il desiderio, forse, ma, temo, non l’artificio della separazione che le sbarra la traiettoria rispetto alla direzione del tempo che chiamiamo passato. Non a caso, volendo fare l’apologia della surrogazione, alcuni mettono in primo piano i rapporti che stabiliscono talvolta con la madre surrogata (nome che sarebbe più appropriato a loro, ripeto). Ma accade raramente ed è facoltativo. Della surrogazione, se non aprisse la porta a indebite manipolazioni del materiale genetico, se non fosse alleata del profitto, se fosse rispettosa dei diritti della donna (troppi se…), potremmo dire che conferma il titolo di “grembo indispensabile” dato al contributo femminile materno alla vita umana: ci vuole una donna per fare una bambina o un bambino. Essa, però minaccia doppiamente la relazione materna. Lo fa, primo, programmando la sua interruzione senza necessità. Il neonato separato dalla madre è capace di fare la mediazione che gli è necessaria. Ma ne sarà capace la donna (o l’uomo) che si è messa arbitrariamente al posto di madre? Sottrarsi arbitrariamente alla necessità può portare alla dismisura quello che, in noi esseri umani, non ha misura, dall’amore all’odio, dal desiderio alla sua mancanza, la depressione. Questo la filosofia lo sa. Seconda minaccia: il continuum materno ne resta spezzato. L’essere figlia di una madre che era
anche lei una donna, figlia di una madre che era anche lei…, fino alle origini, questo sentimento o pensiero aiuta a non identificarsi totalmente con la funzione materna, aiuta cioè la libertà femminile e il valore simbolico della maternità. In altre parole, aiuta la donna ad assumere l’autorità personale che ci vuole per assolvere il suo compito. Autorità, ho scritto e penso, non autoritarismo, ovviamente, ma neanche l’annacquata autorevolezza. In passato la filosofia non ha dato alcun risalto alle genealogie femminili, e non ha visto che sono fonte di autorità per donne e uomini. Ha cominciato a pensarci da pochi decenni, con Luce Irigaray, iniziatrice del pensiero femminista della differenza, e con Diotima. Hanno esercitato la forza di quest’autorità, davanti al mondo intero, le Madri della Plaza de Mayo in lotta contro i dittatori dell’Argentina. La madre è sostituibile ma non lo è la relazione materna, questa è dunque la mia tesi.
I M PA RA RE A PA RLA RE
Sono consapevole di non aver dato la giusta attenzione alla relazione paterna e alla figura del padre. È una lacuna considerevole. Per esempio, l’interruzione volontaria della gravidanza è un tema che ho affrontato sorvolando sui rapporti donnauomo, che mettono gravemente in causa l’eterosessualità. Mentre scrivo, altro esempio, si discute della possibilità di adottare bambini o bambine da parte di coppie omosessuali maschili, che è una novità assoluta nella nostra cultura e forse in tutte. Non mi mancano notizie né interesse né motivazioni. Mi manca però, su questo versante della questione, la verità soggettiva: non l’ho trovata finora dialogando con uomini. Forse non l’ho cercata bene. Mi riferisco, con verità soggettiva, a quelle parole che prima mancavano all’appello e ora ci sono e, presentandosi, ispirano un sentimento di certezza e un imperativo: tocca a me dirlo, oppure: devo dire che è vero. Non danno, sia chiaro, la garanzia della verità né il suo possesso, ma hanno la sua voce. Secondo me, perché provengono dal punto simbolico che si forma con il qui e ora, tu e io, luogo originario di ogni presa di parola. Recentemente, fuori dal mio stretto campo d’interessi, ho avuto la fortuna d’incontrare un pensatore che fa vedere la caratteristica principale del processo che, nell’essere umano, mette in circolo fra loro natura e cultura. Il processo ha la caratteristica di essere endogeno ed è, per me, la strada regia verso il formarsi in noi di una nuova coscienza evolutiva. Hubertus Tellenbach, così si chiama quell’uomo, ha preso il termine “endogeno” dal linguaggio della psichiatria, la sua professione. La psichiatria chiama endogene (alla lettera: nate dentro) quelle malattie o sofferenze mentali che non sono provocate da cause somatiche né da vicende disgraziate della prima infanzia, ma si producono per qualcosa che può accadere dentro, un vacillamento di sé in determinate circostanze, come cambiare casa, perdere il lavoro, ammalarsi, che danno un colpo all’equilibrio personale costruito nel corso degli anni. Prestando ascolto ai racconti delle persone che cercavano aiuto, molte le donne, incoraggiato da
certe scoperte e intuizioni, Tellenbach ha dato un significato più comprensivo al concetto di endogeno e ne ha ricavato un punto di vista che abbraccia l’arco della vita e l’interezza dell’essere umano. Era convinto, come altri, che si può avanzare nella conoscenza scientifica, anche se si rinuncia a spiegare e ci si limita a descrivere. La sua, infatti, è una descrizione del vivente che si umanizza. Endogena è la vita umana nel suo accadere dall’interno della vita stessa, dice, secondo modi di essere primordiali che arrivano fino alla singola esistenza. Pensiamo al divenire con le sue scansioni (sonno e veglia, lavoro e riposo, le feste rituali, i calendari…), con la globalità di certi cambiamenti, le fasi di maturazione (l’adolescenza è solo la più nota), le sempre possibili regressioni e gli aspetti immutabili. L’idea di endogeno dà sull’umano una veduta che attraversa i confini posti artificialmente dalle scienze e, ancor prima, dalla filosofia, tra naturale e culturale. Prendiamo per esempio il ritmo: lo troviamo nelle funzioni vitali come il battito cardiaco, per ritrovarlo nei rapporti sessuali ma anche nelle marce militari, nel gioco della corda, nella danza, nella musica… Il momento più alto del processo consiste nell’imparare a parlare. La parola riscatta la scissione tra dentro/fuori e la dispersione nella molteplicità. Venire alla luce vuol dire anche venire all’aria e poter così mettere in funzione l’apparato fonatorio e quello acustico, che gli appena nati in buona salute esercitano subito con un vigore impressionante. Ma lo fanno a caso. Poi scoprono come si fa. Immagino che vada così: a un certo momento si accorgono che certi suoni emessi fanno più effetto di altri sull’oggetto d’amore, si esercitano regolandosi sulla voce materna, vengono gratificati dai risultati e a quel punto non smettono più d’imparare. A una condizione, che l’oggetto d’amore sia presente e faccia lo stesso gioco. Un giorno, imprevisto, c’è un salto di qualità: l’apprendista comincia a dire “io”. Arrivano i regali simbolici: lo spazio si riscatta dall’esteriorità, si forma la memoria che unifica il tempo e l’esperienza si salva dall’isolamento solipsistico. L’imparare a parlare dà un piacere come imparare a suonare uno strumento, che può durare tutta la vita. La linguistica ci insegna che cominciamo a parlare ben prima di quello che credono gli adulti in attesa delle prime parole (che in realtà sono frasi). Le cure materne sono un corso intensivo di lingua. E viceversa, le parole che accompagnano i gesti affettuosi, infondono salute. Ci sono bambini che imparano a parlare ma non comunicano: nel luogo simbolico originario del qui e ora, tu e io, il tu è abolito. Sono un piccolo enigma nel grande enigma del linguaggio umano e, per i
genitori, una difficile prova. Agli inizi dell’apprendistato le madri parlano con le loro creature una strana lingua provvisoria, incomprensibile ad altri, la quale spontaneamente evolve verso la lingua condivisa dalla società circostante. Roman Jakobson la chiama lingua della nutrice ispirandosi a Dante. Dante afferma che ci sono due tipi di lingua, quella naturale, «che si apprende senza norma alcuna imitando la nutrice», e da questa deriva «un’altra lingua di seconda formazione, quella che i Romani chiamarono grammaticale»: delle due, «più nobile» è la prima, egli afferma. In questa teoria (che Dante espone nel primo libro del suo De vulgari eloquentia), si rispecchiano, com’è facile vedere, la sua situazione di uomo colto, che parlava anche latino, e la sua preferenza per il dialetto che era la sua lingua materna. Nella teoria è riconoscibile una caratteristica dell’intera civiltà occidentale, la coesistenza di un ordine simbolico materno (che non ha bisogno di norme) e di un ordine simbolico paterno, che fa la legge. Dante non ha problemi nel dire che la lingua primaria “naturale”, in realtà è una pluralità di lingue: il mondo intero fruisce della lingua della nutrice, scrive, benché questa sia divisa in differentissime forme e vocaboli. Per chi sa un po’ di latino: totus orbis ipsa perfruitur, licet in diversas prolationes et vocabula sit divisa. Nell’ordine simbolico della madre l’universo è plurale. Ci colpisce molto il fatto che l’espressione “lingua della nutrice” sia stata ripresa più di seicento anni dopo, nel contesto di una cultura appassionata di studi linguistici. Ma colpisce ancor più ritrovarla in pensatori, un uomo e due donne, che ne deformano il significato originario, forse inconsapevolmente. Ho già nominato Roman Jakobson. Al seguito di Jakobson, vengono la psicanalista e, in passato, linguista Julia Kristeva e, vicinissima a lei, Elisabetta Rasy in un affascinante librino intitolato, appunto, La lingua della nutrice (1978). Prendo da qui una citazione che riassume la posizione comune ai tre: «Il bambino, dopo un periodo di mutismo, perde il suo idioma, la lingua piena e particolare che ha in comune con la nutrice, una lingua, secondo Jakobson, di carattere psicotico e nasce al linguaggio». Nessuno dei tre percepisce il fatto, comunemente osservabile, che la strana lingua della nutrice evolve spontaneamente verso la lingua condivisa nella comunità circostante. Per loro, si
tratta di un idioma folle, non comunicante con la lingua comune. L’esistenza di un simbolico precedente a quello patriarcale, un simbolico comune che insegna a parlare senza dettare legge, a loro non consta. Eppure si tratta di autori attenti e sensibili alla complessità del linguaggio. Julia Kristeva ed Elisabetta Rasy inoltre, sono figure di spicco nel pensiero femminista. L’ostacolo è un altro, e ci riguarda in generale; proviene dalla modernità, che ha lottato per emancipare l’umanità dalle sue servitù naturali e politiche. L’ha fatto con risultati positivi ma con modi e mezzi che hanno inquinato il risultato, per cui si è persa la speranza e quasi l’idea di un ordine simbolico. Mi riferisco, precisamente, all’ipertrofia della tecnica e alla confusione tra autorità e potere.
L’ ESPA NSI ONE DEL POSSI BI LE
Tra i prezzi che pagheranno le generazioni future, lo sappiamo, ci sono le conseguenze della perdita dell’equilibrio ecologico. Quello che io segnalo non ha quest’ampiezza cosmica, anzi può sembrare una protesta verso l’ampiezza cosmica dei problemi che incombono sull’umanità. È la difficoltà diffusa e, a me pare, crescente, di attingere la verità soggettiva da parte delle persone singole. Parlo non di categorie umane in cui prevalgono i fasulli (che ci sono da sempre), ma di noi, umanità in buona fede. Comincio illustrando il mio pensiero in positivo. È apparso recentemente un docufilm, Censored Voices (Voci censurate), della regista israeliana Mor Loushy, che costituisce un notevole, inatteso modello di generazione della verità soggettiva. A distanza di quarant’anni, l’autrice ci fa ascoltare per la prima volta le voci di reduci da una guerra che avevano vinto, quella dei Sei giorni, nel 1967. Filmati della guerra, che fu vinta da Israele, e dei suoi effetti s’inseriscono tra quelle voci, registrate subito dopo la vittoria. Parlano giovani uomini dei kibbutz, distanti dalla retorica ufficiale e sul punto di perdere i loro sogni politici. Da qui, il sequestro e la censura statale delle registrazioni. E mentre ascoltiamo le loro voci, sullo schermo sfilano i loro volti invecchiati, intenti anche loro ad ascoltare, segnati dall’antica delusione. Sono parlanti e bellissimi, che altro si può dire? Censored Voices ci ripresenta la storia dello Stato d’Israele secondo una verità che parla al riparo da contrapposizioni. Se vogliamo fare un confronto, io suggerisco quello con la verità oggettiva della storiografia, che cambia, si contraddice, si contrappone e dimentichiamo. Da qualche tempo sostengo che la verità soggettiva è più vera di quella oggettiva. Non importa la cultura e gli anni che abbiamo; la verità soggettiva (che Carla Lonzi chiama “autenticità”) prende vita insieme al senso delle parole che si trovano, se ci sono, e dei silenzi che s’impongono, come nel film. La rispondenza delle parole con le cose nasce al momento, prima non c’era. A questo livello, che è risorsa di pensiero nuovo, originale, si arriva con la lingua materna. Non
occorre parlarla attualmente, basta tenere impresse le sue proprietà di lingua endogena e relazionale, parlante da dentro, trovata con altri, risorsa di un’interiorità non isolata, che si potenzia nello scambio con altre e altri, mediatrice di distanze che altrimenti si popolano di macchine e mostri. Dentro e fuori di noi. È paradossale, ma in fondo logico, che più l’area dell’umanamente consentito si estende e più la nostra libertà è messa alle corde. Ed è risaputo che grazie alla tecnoscienza e al benessere materiale, l’area del possibile non fa che crescere. Ma noi restiamo indietro, soggetti alla mentalità per cui una possibilità in più sarebbe automaticamente una libertà in più. Un equivoco madornale. All’espansione del possibile, così male intesa, si risponde moltiplicando le leggi e i regolamenti. Ma, come ho già detto, una simile risposta invade l’area di una competenza simbolica che è indispensabile all’esercizio della libertà. Ci sono tanti tipi di macchine, perfino il diritto, che doveva contribuire alla convivenza giusta e pacifica, è diventato una macchina; l’ho pensato leggendo il disegno di legge Cirinnà recentemente approvato dal Senato, irto di commi, rimandi, clausole e formule. Il desiderio non ci trova la sua misura; gliela daranno solo i soldi che uno ha o non ha, come sta succedendo. Ripensiamo alla competenza che dà il saper parlare la lingua comune, e all’autorità, esigente ma liberale, che emana dalla lingua stessa, la quale sanziona soltanto le trasgressioni fine a se stesse e autorizza quelle necessarie a esprimerci e a comunicare con le e gli altri. Cerchiamo, è il mio invito, la risposta nella direzione di accrescere la competenza simbolica così da imparare a discernere, nell’area del possibile, tra il disponibile e quello che tale non è. La descrizione del nostro divenire viventi umani dice che, nella trasformazione endogena, vi sono fenomeni di non trasformazione i quali veicolano qualcosa di primordiale e costituiscono l’area del non disponibile, come la differenza sessuale. Ma questa apparente dualità tra mutare e permanere si dissolve nell’approfondimento ulteriore. C’è un permanere nel mutare e viceversa, che ci invitano a concepire l’indisponibile come ciò che rende l’inizio riconoscibile nel procedere della vita da dentro, senza separazione tra il biologico e l’esistenziale. L’indisponibile non è dunque qualcosa che, per essere sottratto all’arbitrio, dovrebbe essere fissato una volta per tutte. Esso procede con la vita che diventa umana: desiderante, libera, parlante. Del non disponibile possiamo così concepire un’interpretazione positiva: è indisponibile quello che va tenuto a disposizione del di più che è la gioia del vivente. Fa parte di una nuova coscienza evolutiva imparare a rinnovare le barriere simboliche che proteggono l’essere umano in
quanto destinato alla felicità.
NELLA STESSA COLLA NA
1. Franco Loi, Educare la parola, a cura di Giuseppe Mari 2. Enrico Berti, Invito alla filosofia, ii edizione 3. Lorenzo Montanari, Pronto soccorso dell’italiano. Ortografia, punteggiatura, congiuntivo 4. Antonio Paolucci, Arte e bellezza, a cura di Carolina Drago, ii edizione 5. Stefano Semplici, Invito alla bioetica, a cura di Mirko Di Bernardo 6. Joan Domènech Francesch, Elogio dell’educazione lenta 7. Bruno Forte, Una teologia per la vita. Fedele al cielo e alla terra, a cura di Marco Roncalli 8. Giovanni Reale, Invito al pensiero antico, a cura di Vincenzo Cicero, ii edizione 9. Camille Landais Thomas Piketty Emmanuel Saez,Per una rivoluzione fiscale. Un’imposta sul reddito per il xxi secolo, a cura di Massimo Bordignon e Enrico Minelli 10. Aldo Grasso, Invito alla televisione, a cura di Cecilia Penati 11. Giacomo Canobbio (ed.), Dio, l’anima, la morte. Percorsi per far pensare 12. Rabindranath Tagore, La saggezza del pappagallo,a cura di Alberto Pelissero 13. Edward Evan EvansPritchard, Invito all’antropologia sociale 14. Alberto Quadrio Curzio, Economia oltre la crisi. Riflessioni sul liberismo sociale, a cura di Stefano Natoli, ii edizione 15. Michael Heller, La scienza e Dio, a cura di Giulio Brotti 16. Emanuele Severino, Educare al pensiero, a cura di Sara Bignotti 17. Georges Cottier, Ateismi di ieri e di oggi, a cura di Giuseppe Mari 18. Massimo Baldini, Virtù dell’errore. Fra epistemologia e pedagogia 19. Giacomo Canobbio, Il Concilio Vaticano I I tra speranza e realtà, a cura di Annachiara Valle 20. Luigi Alici, I cattolici e il paese. Provocazioni per la politica 21. Giovanni Reale, Salvare la scuola nell’era digitale
22. Dario Antiseri, Dalla parte degli insegnanti 23. Stephen Gilligan, La coscienza creativa. Psicoterapia, trasformazione personale e azione sociale, a cura di Anna Pensante 24. Benjamin Murmelstein, Terezin. Il ghettomodello di Eichmann, ii edizione 25. Robert Spaemann, Essere persone, a cura di Giulio Brotti 26. Carlo Lottieri, Liberali e non. Percorsi di storia del pensiero politico 27. Papa Francesco, Lumen fidei. L’Enciclica della fede, iii edizione 28. Massimo Giuliani (ed.), Conoscere la Shoah. Storia, letteratura, filosofia, arte 29. Luisa Muraro, Non si può insegnare tutto, a cura di Riccardo Fanciullacci, ii edizione 30. Roberto Tottoli (ed.), L’autunno delle primavere arabe. Religioni e politica nel Mediterraneo islamico 31. Stefano Semplici (ed.), Italia no, Italia forse. Perché i talenti fuggono. E qualche volte ritornano 32. Domenico Barrilà, Bambini. Perché siamo come siamo 33. Kahlil Gibran, Il profeta e il bambino, a cura di Francesco Medici 34. Pietro Barcellona, Modernità come sfida, a cura di Giuseppe Mari 35. Salvatore Natoli, Antropologia politica degli italiani 36. Luca Alici (ed.), Il paradosso dell’educatore. Tre testi di Paul Ricœur 37. Arnoldo Mosca Mondadori Alfonso Cacciatore Alessandro Triulzi (eds.),Bibbia e Corano a Lampedusa. Il lamento e la lode. Liturgie migranti, iii edizione 38. Fouad Twal, Gerusalemme capitale dell’umanità, a cura di Nicola Scopelliti, ii edizione 39. Papa Francesco, La mia scuola, a cura di Fulvio De Giorgi 40. Gianfranco Ravasi, Di generazione in generazione 41. Roberto Gatti, Il popolo dei moderni. Breve saggio su una finzione 42. François Jullien, Cinque concetti proposti alla psicoanalisi 43. Renato Pettoello Nadia Moro, Dizionarietto di tedesco per filosofi 44. Pier Cesare Rivoltella, La previsione. Neuroscienze, apprendimento, didattica 45. Simone Attilio Bellezza, Ucraina. Insorgere per la democrazia, iii edizione 46. Giuseppe Riconda, Filosofia della famiglia 47. Mario Falanga Fabio Pruneri Pier Cesare Rivoltella Milena Santerini,Renzi e la scuola. L’ultima occasione?
48. Tiziano Terzani, Le parole ritrovate. Nel mondo, dentro l’anima. Testi inediti a cura di Mario Bertini, iv edizione 49. Papa Francesco, Buon pranzo! Il cibo per l’anima 50. Carlo Maria Martini, Figli di Abramo. Noi e l’Islam. Introduzione di Massimo Cacciari, ii edizione 51. Rémi Brague, Dove va la storia?, a cura di Giulio Brotti 52. Marco Impagliazzo, Il martirio degli armeni. Un genocidio nascosto, ii edizione 53. Bruno Forte (ed.), La Chiesa di Papa Francesco e la famiglia. Con i testi del Sinodo 54. Gian Carlo Perego, Uomini e donne come noi. I migranti, l’Europa, la Chiesa, ii edizione 55. Vilfredo Pareto, La prima guerra mondiale. Le cause, le conseguenze 56. Marco Boato, Alexander Langer. Costruttore di ponti, iii edizione 57. Emiliano Rinaldini, Il sigillo del sangue, iv edizione 58. Papa Francesco, Laudato si’. Sulla cura della casa comune, iii edizione 59. Luciano Pazzaglia (ed.), Crescere insieme. Scritti di Sergio Mattarella 60. Massimo Camisasca, Il carisma dell’arte. La svolta di Paolo VI 61. Luciano Monari, Parole dell’umanesimo cristiano, ii edizione 62. Mino Martinazzoli, Mosè, Nicodemo e la Colonna infame, ii edizione 63. Fulvio De Giorgi, Più coraggio! Chiesa, famiglie, sessualità 64. Ruggero Eugeni, La condizione postmediale. Media, linguaggi e narrazioni 65. Karol Wojtyła, Amore e desiderio, a cura di Giuseppe Mari 66. Salvatore Natoli, I nodi della vita, ii edizione 67. Marco Roncalli, Giubileo d’autore. Da Dante a Pasolini: gli Anni Santi degli scrittori, ii edizione 68. Serge Tisseron, 3 6 9 12. Diventare grandi all’epoca degli schermi digitali, a cura di Pier Cesare Rivoltella 69. Massimo Campanini, Quale Islam? Jihadismo, radicalismo, riformismo, ii edizione 70. Gianfranco Miglio, Guerra, pace, diritto. Con un saggio di Massimo Cacciari, La nuova guerra 71. Erjugen Meta, Ridare l’anima. Redenzione in carcere,a cura di Arnoldo Mosca Mondadori e Marisa Baldoni 72. Christian Bobin, Il Cristo dei papaveri, a cura di Marcello Fumagalli
73. Luisa Muraro, L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto 74. Luciano Pazzaglia, La Buona Scuola. Una riforma incompiuta?