Darren Aronofsky. Mente, corpo e anima 8866521590, 9788866521594

A detta di Darren Aronofsky "Matrix dei fratelli Wachowski ha totalmente rivoluzionato il cinema contemporaneo"

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Italian Pages 144 [142] Year 2014

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Darren Aronofsky. Mente, corpo e anima
 8866521590, 9788866521594

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CIAK SI SCRIVE /1 PROTAGONISTI a cura di Giovanni Ciofalo e Silvia Leonzi

Piero Oronzo

DARREN ARONOFSKY “Io sono il mio Corpo ”

OVERA EDIZIONI

Realizzazione grafica Billy Corgan © 2014 SOVERA MULTIMEDIA s.r.1. Via Leon Pancaldo 26 - 00147 Roma Tei. (06) 5585265 - 5562429 www.soveraedizioni.it e-mail: [email protected]

1 diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.

Indice

Introduzione

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Parte Prima

MENTE, CORPO, ANIMA

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Capitolo primo

La Mente: Il teorema del Delirio

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La Torah e i misteri della Kabbalah mai guardare fisso il sole!” Tesi, antitesi e sintesi

29 30 34

Capitolo secondo

Il Corpo: Requiem per un sogno

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Darren Aronofsky e Hubert Selby Jr. Summer: desiderio Fall: la caduta Winter: l'impatto

44 46 49 54

Capitolo terzo

L'Anima: L'albero della vita

57

Australia: il film che non fu mai girato Dal buio verso la luce XXI secolo

60 64 67

XVI secolo: la Spagna coloniale Visual Effect Xibalba e la vita eterna

69 71 73

Parte Seconda

COSCIENZA

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Capitolo quarto

The Wrestler: “Io sono il mio Corpo”

85

Randy “The Ram” Il wrestling: una metafora americana Cinema-verité “Io sono il mio Corpo’’

87 90 92 97

Capitolo quinto

The Black Swan: La metamorfosi

101

Il Lago dei Cigni Il Cigno Bianco Attraverso lo specchio Il corpo ibrido: prosthetic effect e motion capture La metamorfosi

104 108 111 115 118

Conclusioni

Noah e altri progetti

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Filmografia Bibliografìa

127 135

“La verità non abita soltanto l’uomo interiore, o meglio, non v’è uomo interiore: l’uomo è nel mondo, e nel mondo egli si conosce.” M. Merleau-Ponty

Introduzione

La prima volta che ho visto Requiem for a Dream è stato qualche anno dopo l’uscita nelle sale cinematografiche. Non ricordo bene che anno era, ma sono sicuro che fossero i primi tempi in cui incominciavo ad appassionarmi più seriamente al cinema. In quel periodo avevo già iniziato ad approfondire la filmografia di registi come Martin Scorsese, Michelangelo Antonioni, Fe­ derico Fellini o Stanley Kubrick. Nonostante amassi il cinema d'autore clas­ sico, Requiem for a Dream mi impressionò particolarmente; mi apparve come un modo totalmente nuovo di concepire il cinema e probabilmente lo era. Anche se solo inconsciamente, credo che sia stata proprio quella prima sen­ sazione a spingermi, in seguito, ad approfondire meglio il percorso artistico di Darren Aronofsky. Appena ho avuto modo di lavorare a questa pubblica­ zione, mi sono posto come primo obbiettivo quello di provare quantomento a comprendere cosa abbia mosso in me tale sensazione. La storia risulta par­ ticolarmente avvincente e agghiacciante, tanto da tenere lo spettatore prati­ camente incollato allo schermo, anche in quei momenti che possono sembrare dei tempi morti. Nonostante sia un lungometraggio, presenta una struttura narrativa atipica, lontana dal classico “viaggio dell'eroe” che insegnano ad ogni buon corso di sceneggiatura. La regia e il montaggio sono effettivamente molto innovativi, mi ricordavano lo stile da videoclip musicali; a tutto ciò si univa, ovviamente, la splendida colonna sonora di Clint Masell, diventata poi un vero e proprio cult. Questo breve accenno risulta sicuramente riduttivo e non rende per niente giustizia al film, riesce, tuttavia, a cogliere, almeno in parte, ciò che si nasconde dietro la magia del cinema. Forse è proprio da que­ ste sensazioni che nasce la necessità di capire il processo attraverso cui un film riesce a portare a galla determinate emozioni, la necessità di approfon­ dire gli studi teorici in merito alla forma e al linguaggio audiovisivo e, allo 9

stesso tempo, la necessità di scrivere di cinema: tutto parte da quella sensa­ zione e tutti gli studi teorici a riguardo non rappresentano altro che strumenti per riuscire a comprendere meglio questo processo, senza, con ciò, sacrificare la magia che nasconde. Definire il genere a cui appartiene il cinema di Aronofsky è davvero un'im­ presa ardua, ogni definizione che viene in mente, pensandoci, un attimo dopo, risulterebbe decisamente riduttiva. Il fatto che abbia alle spalle solo cinque lungometraggi non rende il compito più facile, anzi, forse complica l'impresa: ogni suo film si presenta come un universo a sé stante, ognuno si distingue dall'altro per tematiche trattate tanto quanto per la forma. Eppure un’unica linea sembra congiungere idealmente ogni sua opera; basta solo riuscire ad af­ ferrarlo e a tenderlo, così da mostrarcele in linea, uno dopo l'altra, legate da un unico filo conduttore. Spesso l'interpretazione di un'opera (così come di un percorso artistico) va ben oltre la semplice idea da cui l'artista è partito per realizzarla. In al­ cuni casi ciò avviene per semplice eccesso di astrazione. Quando ci si rifà, invece, agli indizi che ci offre l'opera, al contesto in cui è stata concepita e, ovviamente, alle idee esplicitamente espresse dallo stesso autore, può de­ rivarne una visione lucida e coerente della strada che l'artista ha potenzial­ mente percorso in modo più o meno cosciente nel portare a termine l'opera. Questo può avvenire solo attraverso un processo ermeneutico fondato sui dati sensibili a nostra disposizione, vuol dire, prima di tutto, ritornare alle cose stesse, all'analisi del fenomeno filmico e alle sensazioni che questo riesce a suscitare nello spettatore; tuttavia significa anche indagare nelle dinamiche che, sia a livello tecnico sia a livello emotivo, hanno portato il regista e i suoi collaboratori alle scelte particolari che hanno poi definito lo stile complessivo dell'opera. “Ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore, alla conoscenza di cui la conoscenza parla sem­ pre, e nei confronti della quale ogni determinazione scientifica è astratta, se­ gniti va e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui originariamente abbiamo imparato che cos'è una foresta, un prato, un fiume” (Merleau-Ponty, 2003). La corsa a farsi scienza, da tempo intrapresa da una buona parte di studi umanistici non giustifica l'ignoranza di alcuni aspetti irrazionali presenti in tutte le forme d'espressione; mai come nel caso dello studio di forme artisti­ che c'è bisogno di cedere terreno alla filosofia “pura”, pur a costo di quella

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scientificità tanto ambita da alcuni ma poco proficua nell'ambito dell'inter­ pretazione estetica. Se può sembrare forse azzardato parlare di una fenome­ nologia del cinema o dell'audiovisivo, bisogna riconoscere la necessità di rivedere, almeno in parte, ciò che viene comunemente inteso come testo fil­ mico, considerato spesso come un oggetto scomponibile o manipolabile a proprio piacimento. Rimane sicuramente imprescindibile l'analisi di tutte le forme espressive che concorrono a dargli forma (fotografia, suono, sceno­ grafia, recitazione, struttura narrativa...), queste vanno però considerate come elementi fra loro inseparabili, come parte costituente di quell'unico organismo capace di vita propria, e cioè il corpo filmico inteso nel suo complesso. Ri­ sulterebbe, così, alquanto vana l'analisi particolare di un solo aspetto per in­ terpretare il film nel pieno della sua complessità, così come risulterebbe sterile l'analisi attraverso strumenti metodologici univoci, incapaci di indagare a trecentosessanta gradi l'oggetto filmico. Sotto quest'ottica viene allora difficile parlare di forma e contenuto, nel­ l'audiovisivo così come in ogni altra forma d'espressione. Un contenuto senza forma non sarebbe né esprimibile né leggibile; una forma senza contenuto potrebbe, per assurdo, solo essere un elemento naturale che manca di inten­ zioni e di interlocutori (anzi, anche qui l'uomo da sempre riconosce signifi­ cati e forme ambigue di comunicazione da parte di entità astratte come Dio, la natura o il semplice universo studiato dalla scienza), l'uno senza l'altro ri­ sulterebbe inafferrabile. Il contenuto non esisterebbe senza forma e, vice­ versa, la forma non esisterebbe senza contenuto, entrambi sono l'uno la ragione d'esistere dell'altro. In vista di tutto ciò vale sicuramente la pena studiare il percorso artistico di uno dei registi più controversi e innovativi del cinema americano contem­ poraneo. Forse mai come nel caso di Darren Aronofsky la necessità di ap­ profondire i dubbi appena espressi diviene parte del lavoro di filmmaking, lasciando che possibili risposte emergano dalla forma cinematografica stessa. Aronofsky si presenta come un regista sostanzialmente atipico che, per quanto abbia sempre prediletto la pellicola, si rivela profondamente un figlio del suo tempo, figlio dell'era digitale, di Mtv e della cultura di massa 2.0. Egli nasce come vero e proprio filmmaker, scrivendo e auto-producendo la mag­ gior parte dei film che dirige, riuscendo a mettere su una squadra di collabo­ ratori con cui continuerà a lavorare per buona parte della sua carriera. Fin da i suoi primi film come P greco e Requiem for a Dream il suo nome diventa si-

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nonimo di cinema indipen­ dente, quel cinema corag­ gioso che, seppur con pochi mezzi, non ha paura di inno­ vare il linguaggio e la forma audiovisiva, né, tantomeno, toccare tematiche difficili per­ fino da rappresentare. Col tempo, Aronofsky riesce a confrontarsi con budget e pro­ duzioni sempre più impor­ tanti. Con gli effetti speciali di The Fountain si avvicina a quel cinema spettacolare tipicamente americano, pur non perdendo di vista i propri obbiettivi artistici, rischiando sia il favore del proprio pubblico sia quello dell'establishment produttivo. Dopo l'este­ nuante lavoro di una produzione di sei anni e l'altrettanto estenuante lavoro di postproduzione richiesto da The Fountain, il regista ha modo di ritornare sui suoi passi, semplificando i processi produttivi e puntando ad una regia più cruda ma non meno curata. Guadagnatosi la Palma d'oro al Festival di Cannes, The Wrestler è forse il suo film di maggior successo, reso tale anche dalla grande interpretazione di Mikey Rurke come attore protagonista. Nonostante la complessità delle tematiche e dei concetti sviluppati nei suoi film, questi riescono sempre a raggiungere, in un modo o nell'altro, lo spettatore, senza mai lasciarlo indifferente. Ciò è possibile solo coinvolgendo in quel processo maieutico che sta alla base di ogni buon film ogni singolo aspetto della produzione cinematografica: sceneggiatura, regia, fotografia, scenografia, costumi, recitazione, musica, post-produzione... tutto concorre a portare sullo schermo quelle immagini e quelle sensazioni altrimenti ine­ sprimibili. In questo modo non è impossibile ottenere un film come II Cigno nero, un film perturbante che riesce a sfiorare le corde più sottili dell'animo umano, non prima di aver attraversato la carne e le membra del personaggio, tanto da farci entrare in totale empatia con la protagonista e a farci vivere le sue stesse ossessioni. Allora, il filo conduttore di tutti questi film non è solo il percorso arti­ stico di Aronofsky, ma è una ricerca estetica in sintonia con quella ricerca spirituale che muove prima di tutto l'animo dell'artista, capace di generare

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nell'immaginazione nuove storie e personaggi e che, alla fine, riesce a coinvolgere lo spettatore rendendolo, almeno per un'ora e mezza, parte del suo universo. Una ricerca formale che va al di là dei cliché del cinema contemporaneo, perseguendo l'obbiettivo di un equilibrio fra forma e so­ stanza, superando la classica dicotomia fra corpo e anima, fra materia e spirito. Un'impresa ardua, forse impossibile, ma se pure lontanamente si è riusciti nell'intento, se si è riusciti anche solo a sfiorare la verità nascosta dietro il mistero dell'arte e della vita, allora ci sarà concesso, anche solo per un attimo, di provare quantomeno ad immaginare il sapore dell'immorta­ lità abbracciando idealmente quell'Albero che fa da tramite fra la vita e la morte.

II Come in qualsiasi altra forma d'arte, anche nel cinema viene difficile porre paletti che definiscano la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra, l'appartenenza o meno ad una determinata corrente stilistica, nonché lo stesso valore artistico di un regista e di un film piuttosto che di un altro. Queste definizioni risul­ tano spesso incomplete, imprecise ed a volte alquanto effimere; sono, tutta­ via, uno strumento imprescindibile per orientarci nella vasta galassia dei film che fino ad oggi hanno occupato i nostri schermi. Se la definizione di una corrente o di un genere rischia addirittura di banalizzare un percorso artistico (risultando perfino fuorviarne), bisogna prendere atto di quei rari casi in cui un'innovazione tecnica o stilistica particolarmente brillante si rivela capace di creare una rottura tale da modificare per sempre quel mezzo d'espressione così come la percezione che di questo ne ha il pubblico. Ciò riguarda la sto­ ria del cinema tanto quanto l'atavica storia delle arti visive e del loro eterno rapporto fra ingegno tecnico ed ispirazione artistica; allo stesso modo in cui la nascita del cinematografo (e prima ancora, la nascita della fotografia) ri­ voluzionò il concetto stesso di arte. Alcune fra le innovazioni tecniche che più hanno sconvolto gli ambienti cinematografici sono sicuramente l'avvento del sonoro (più che l'avvento del colore) e la televisione, entrambe causa di aspre critiche in cui veniva profetizzata la morte di quello che fino ad allora era stato considerato cinema. La prima innovazione citata aggiunge un nuovo

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senso allo spettacolo rimettendo totalmente in discussione il linguaggio ci­ nematografico e ampliando le sue possibilità espressive; il mezzo cinemato­ grafico acquista un realismo tale da rendere il film tanto quanto il cinegiornale una vera e propria esperienza paragonabile alla realtà direttamente vissuta. La seconda innovazione ha portato le immagini in movimento nelle case delle fa­ miglie, offrendo l'opportunità del collegamento in tempo reale e dando vita a nuove forme d'audiovisivo all'infuori della sala cinematografica. Il fruitore d'audiovisivo (qualsiasi sia il mezzo con cui ne fruisce) incomincia ad eser­ citare la propria libertà di scegliere come, quando e cosa guardare. Senza queste due innovazioni sarebbe stato impensabile il grande suc­ cesso della macchina dei sogni hollywoodiana, correnti artistiche cinemato­ grafiche come la Nouvelle Vague, il Neorealismo, il free cinema inglese e tutti quei movimenti nazionali che hanno rinnovato il cinema mondiale, ciò è vero sia per lo stimolo di nuove idee che l'innovazione tecnica ha suscitato sia per l'istinto di sopravvivenza che il cinema ha sviluppato nei loro con­ fronti. Lo stesso vale per cineasti come Michelangelo Antonioni, Martin Scor­ sese, Stanley Kubrick, Woody Alien, Francis Ford Coppola, Bernardo Bertolucci, grandi autori che sono riusciti a “difendere” l'autonomia del mezzo cinematografico pur confrontandosi con l'ambiente mass-mediale che li ospitava, riuscendo a valorizzare e a usufruire al meglio delle peculiarità che, più di ogni altro mezzo espressivo, aveva da offrire il cinema. Si pensi ora a come e quanto il digitale abbia potuto influire sul mezzo ci­ nematografico: effetti speciali in computer graphic, camere ultra-leggere, sup­ porti estremamente facili da gestire sia in archiviazione che in montaggio, possibilità di distribuire in rete ogni forma di audiovisivo; senza considerare tutte le dinamiche che negli ultimi decenni, dalla pubblicizzazione fino agli ultimi livelli di distribuzione dei film, vedono nascere merchandising, gadget e videogiochi legati ai film più popolari. È in questo marasma massmediatico che ha interessato gli ultimi cinquant'anni che bisogna contestualizzare il ci­ nema contemporaneo, così come gli artisti ed i film che, volente o nolente prendono parte ad esso. Dagli anni Ottanta in poi, oltre ai vari blockbuster che, passando dalla sala cinematografica arrivano prima in home-video e poi in TV, vediamo crescere nuove generazioni di filmmaker. Alcuni di questi sono più legati al sistema hollywoodiano e approfittano del digitale per dar vita a kolossal sempre più spettacolari (è il caso di Steven Spielberg, George Lucas, Ridley Scott o James Cameron); altri, invece, si rivelano capaci di 14

raggiungere il grande pubblico pur perseguendo una direzione artistica total­ mente autonoma rispetto al cinema commerciale, attraverso opere spesso co­ raggiose e fortemente innovative: ne sono un valido esempio Quentin Tarantino, Spike Lee, David Lynch, Tim Burton, David Cronemberg, Roman Polanski, solo per citarne alcuni. In entrambi i casi, i registi si dimostrano sempre più consapevoli dei mezzi a loro disposizione oltre che del contesto mediale che li ospita, cavalcando tendenze provenienti dalla cultura pop o, al contrario, affermandosi come alternativa alla stessa cultura di massa. Se da una parte, come fa presente lo stesso Aronofsky, Matrix (1999) dei fratelli Wachowski rappresenta un vero e proprio punto di rottura fra il cinema moderno mainstream e quello contemporaneo, è Lars von Trier che, qualche anno prima, attraverso il suo percorso artistico e il movimento Dogma 95, sdo­ gana l'uso del digitale leggero nel cinema d'autore, rompendo quel muro che da anni divideva la sala cinematografica dalla TV, il film dal videoclip, il ci­ nema d'autore dal filmino amatoriale. Se lo stile del danese von Trier rappre­ senta l'uso più estremo che si possa fare del digitale leggero (precedente che ha portato dietro di sé tutta una serie di film horror in low-definition, primo su tutti, Blair Witch Project, 1999), dalla metà degli anni Novanta in poi, ve­ diamo crescere tutta una schiera di registi capaci di confrontarsi con la tecno­ logia digitale in ogni sua possibile declinazione, con totale consapevolezza e disinvoltura, adattando il mezzo alle proprie esigenze tecniche ed espressive. Che si tratti di handy cam in bassa definizione, di camere digitali ad altissima definizione come la RED o che si scelga la vecchia e cara pellicola, non ha più senso parlare di cinema analogico e cinema digitale, tutto ciò rimane una sem­ plice questione di scelte stilistiche: il dato di fatto è che il digitale ha inevitabilmente rivoluzionato il concetto di mezzo cinematogra­ fico. Bisogna prendere atto che c'è un modo totalmente nuovo di con­ frontarsi con la macchina produt­ tiva cinematografica tipico del cinema contemporaneo; Darren Aronofsky rappresenta proprio uno dei maggiori innovatori in questo campo. 15

Ill Più in generale, la generazione di registi contemporanea ad Aronofsky, si dimostra capace di confrontarsi con la sperimentazione e la ricerca tecnico­ stilistica senza alcun pregiudizio, superando la vecchia concezione indivi­ dualista dell'Autour e concentrandosi maggiormente sulle scelte formali più adatte allo sviluppo di un certo narrare attraverso la forma audiovisiva. Que­ sti si dimostrano spettatori appassionati di cinema prima ancora che registi: è forse grazie a questo che, pur partendo dal cinema indipendente, riescono, in un modo o nell'altro, a trovare un proprio spazio anche nel cinema com­ merciale. Se Darren Aronofsky è stato definito dalla storica rivista di critica cinematografica Cahiers du Cinéma “Leader della sua generazione” alcuni dei suoi contemporanei non sono certo da meno: a muovere il loro impegno è soprattutto la volontà di rompere quei tabù che fino ad oggi hanno tenuto divisi cinema indipendente e cinema commerciale, tutto ciò in nome della sopravvivenza del cinema. Sono registi che giocano con i generi e travali­ cano rimmaginario cinematografico per attingere all'immaginario collettivo massmediatico a loro contemporaneo. Un valido esempio di ciò che è stato appena detto è sicuramente il percorso artistico dell'inglese Danny Boyle, consacratosi al successo con il drug-movie per eccellenza Trainspotting (1996), seguito dal più spettacolare ma forse meno riuscito The Beach (2000), egli raggiunge così una seconda fase della propria carriera in cui arriva a sperimentare il digitale misto al girato in pel­ licola. Se nel film fantascientifico 28 giorni dopo (2003) viene sperimentato il digitale in bassa definizione misto ad effetti speciali, in The millionaire (2008) le riprese in pellicola 35mm si confondono con quelle in digitale in alta definizione, scelta dovuta alla versatilità e la leggerezza del mezzo digitale che ha permesso lunghi inseguimenti ricchi di azione, vissuti dallo spettatore poco dietro le spalle dei bambini, seguendoli nelle loro corse fra le baracco­ poli di Mumbai. Meno conosciuto, ma sicuramente non meno talentuoso, è il texano Ri­ chard Linklater, regista indipendente reso famoso dalla tecnica d'animazione del rotoscoping usata per il caleidoscopico Waking life (2001) e rinnovata con A Skanner Darkly (2006). Prima di raggiungere il grande pubblico con School of Rock (2003), sperimenta in alcuni film d'esordio originali plot nar­

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rativi: in Slaker (1991) riesce a raccontare 24 ore della vita di 100 personaggi diversi e in Prima del Tramonto (Before Sunrise, 1995) articola la storia in di­ versi piani sequenza, lasciando che il film si svolga tutto attraverso un lungo dialogo fra i due protagonisti. David Fincher, dal canto suo, dopo un'ampia esperienza in TV con pub­ blicità e videoclip, si distingue per l'innovativo Fight Club (1999), acuto adat­ tamento cinematografico del romanzo di Chuck Palaniuk; raggiungendo il massimo successo con II curioso caso di Benjamin Button (2008). Se nel primo dominano i toni cupi ricostruiti attraverso una regia ultra-moderna, nel secondo la storia portata in scena richiede un uso di effetti speciali alquanto barocco che accompagnano il personaggio interpretato da Brad Pitt per tutto il suo percorso di ringiovanimento, fino alla sua morte. Fincher passerà in seguito ad una regia più matura con The Social Network (2010), sfruttando l'alta definizione della digitale RED ONE, rinunciando a invasivi effetti spe­ ciali e favorendo, così, un racconto più secco ed efficace. Altrettanto eclettico è il lavoro di registi come Paul Thomas Anderson, Wes Anderson, Michel Gondry, Spike Jonze, i quali si distinguono per uno stile cinematografico fuori dagli schemi, tanto favoloso quanto innovativo ed estremamente contemporaneo. Fra questi, Paul Thomas Anderson è forse quello più vicino ad un'estetica cinematografica tradizionale, vicino a quel cinema corale che ha contraddi­ stinto il cinema di Robert Altman e di Martin Scorsese. Sceneggiatore di tutti i suoi film, pluripremiato nei festival cinematografici più prestigiosi, Ander­ son porta in scena uno stile narrativo-cinematografico che, attraverso sinuosi movimenti di camera e piani sequenze, intesse storie individuali che si in­ trecciano in arazzi collettivi: bastano come esempio film come Magnolia (1999), Il Petroliere (2007) e, l'ultimo lavoro, girato in pellicola 70mm, The Master (2012). Altrettanto corali sono le storie portate in scena da Wes Anderson, regista in grado di toccare toni surreali attraverso personaggi che figurano come ec­ centriche parodie di se stessi, protagonisti di vere e proprie favole contem­ poranee; film come I Tenenbaum (2001), Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e II treno per Darjeeling (2007) hanno reso inconfondibile il suo stile. Michel Gondry, dal canto suo, spazia fra cortometraggio, documentario e lungometraggio di finzione. In Se mi lasci ti cancello (Eternal Sanshine of the 17

Spotless Mind, 2004) e L'arte del sogno {La science des reves, 2006) Gondry gioca con l'interiorità psicologica dei personaggi reificandola sullo schermo attraverso un surrealismo naif, un universo interiore in cui scenari onirici e toni favolosi sfumano in atmosfere malinconiche e, a volte, perturbanti; in Be Kind Rewind - Gli acchiappafilm (2008), attraverso i toni della comme­ dia, Michel Gondry gioca a distruggere fimmaginario cinematografico degli anni '80 e '90 ingaggiando Jack Black e Mos Def per mettere in scena dei re­ make amatoriali di quei film che hanno segnato l'infanzia delle ultime gene­ razioni . Proveniente dal mondo del videoclip musicale e dalla pubblicità, campi in cui si è già dimostrato capace di reinventare il racconto audiovisivo, Spike Jonze rappresenta forse uno dei registi americani più innovativi dal punto di vista formale, in grado di servirsi degli effetti speciali più moderni per stra­ volgere le leggi naturali del mondo reale e per dar forma a visioni al di sopra di ogni immaginazione. Sceneggiatore della serie televisiva e del lungome­ traggio The Jackass, Spike Jonze esordisce al cinema con Essere John Malcovich (1999), una commedia perturbante e surreale che consacra fin da subito il suo successo intemazionale; altrettanto promettente è il suo ultimo film Her (2013), una storia d'amore fra un uomo solitario ed un software, presentato in anteprima e premiato all'ottava edizione del Festival del cinema di Roma. Ma il regista che presenta un percorso artistico più simile a quello di Dar­ ren Aronofsky è sicuramente Christopher Nolan, se non fosse che quest'ul­ timo, a differenza del primo, si sia ampiamente concesso alle major del cinema hollywoodiano con film ad altissimo budget da super-incassi al bot­ teghino. Nolan apre la sua carriera con Following (1998), un noir dai tempi lunghi in odore di Nuovelle Vague, girato in pellicola 16mm in bianco e nero e con soli 6000$ di budget. In seguito l'originale plot narrativo del più di­ spendioso Memento (2000) farà guadagnare a Nolan l'attenzione di Steven Soderberg, il quale deciderà di produrre Insomnia (2002) con attori come Al Pacino e Robin Williams; sarà questo il trampolino di lancio che porterà il re­ gista a realizzare successi da botteghino come The Prestige (2006) e Incep­ tion (2010). Le caratteristiche che legano questi due registi (Nolan e Aronofsky) sono tanto simili quanto contrastanti. I due si troveranno perfino a contendere in­ direttamente l'adattamento cinematografico del fumetto Batman: Year One,

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progetto in mano alla Warner Bros. Sotto le direttive della major cinemato­ grafica, il regista di Requiem for a Dream inizia a lavorare con il disegna­ tore di fumetti Frank Miller: Aronofsky entra in contatto con Christian Baie per il ruolo di attore protagonista, la sua in­ tenzione è di reinventare il personaggio di Batman, “niente superpoteri, niente cattivi, solo corruzione...” (Gilbey, “The Guardian”, 2007); ma per il momento il progetto è congelato e la Warner Bros, finisce per chiudere la produzione. Allo stesso regista viene proposto un altro progetto, Batman vs Superman che, a sua volta, non andrà mai in porto. Nel momento in cui la Warner Bros, ritorna sui suoi passi ripropone ad Aronofsky la regia di Batman: Year One', a questo punto il regista rifiuta per lavorare ad una delle sue sceneggiature nel cassetto; la regia del film passerà a Christopher Nolan sotto il nome di Batman Begins (2005). Batman Begins si rivelerà una delle più innovative reinvenzioni del supereroe così come del genere. Il film raccoglie un grande consenso di pubblico e di critica, aprendo così le porte del successo al regista che dirigerà gli altrettanto brillanti II Cavaliere Oscuro (The Dark Night, 2008) e II Cavaliere Oscuro - Il Ritorno (The Dark Nights Rises, 2012). Aronofsky, al contrario del più fortunato Christopher Nolan, non ha mai goduto finora di budget a più di sei zeri; ciononostante questo sicuramente non dimostra che sia meno meritevole d'attenzione. Anzi. Il suo cinema vive a prescindere dal budget che lo sostiene e si rivela in ogni suo aspetto capace di fare di ogni necessità virtù. Ci sono alcuni dei più grandi registi che non hanno mai calpestato il red carpet americano e, se da una parte Aronofsky non sembra attirare l'attenzione delle giurie degli Oscar, dall'altra ottiene grandi plausi oltre che il Leone d'Oro al festival di Cannes per uno dei suoi film che, se si distingue dagli altri, non lo fa sicuramente per la somma del suo budget. Eppure il regista di The Wrestler non si abbandona mai ad auto­

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celebrazioni cinematografiche, tantomeno al già fatto o al già detto dietro cui spesso si nascondono anche quei grandi autori che, una volta trovata la pro­ pria formula magica, si limitano a ripeterla senza sforzarsi mai di superare re­ almente se stessi. Questo atto di coraggio spesso coltiva inconsapevolmente dentro di sé il seme dell'eccesso come dell'insuccesso, così anche nella car­ riera di Aronofsky non sono mancati piccoli falli, tuttavia, nella maggior parte dei casi, questi passano in secondo piano, soprattutto quando sono frutto della sincerità e dell'onestà intellettuale. Risulterebbe alquanto superficiale dilungarsi in elogi o scarne considera­ zioni prima di approfondire il percorso artistico che ha visto crescere il regi­ sta, mi limiterò per ora ad accennare alcuni particolari biografici per passare, in seguito, ad un'analisi più approfondita della sua filmografia.

IV

Darren Aronofsky nasce nel 1969 a Brooklyn, figlio di Charlotte e Abra­ ham Aronofsky, insegnanti della scuola pubblica e appartenenti alla corrente dell'Ebraismo Conservativo, forma di ebraismo neo-liberale e progressista nata nel Ventesimo secolo negli Stati Uniti. In un'intervista su “The Indipendent” Darren dichiara: “Ho ricevuto un'educazione ebraica, ma non c'era quasi niente di spirituale andando in tempio, era qualcosa che riguardava piut­ tosto la cultura: celebrare le festività, sapere da dove vieni, sapere la tua sto­ ria, avere rispetto per quello che la tua gente ha passato”; sarà la curiosità per la sua cultura a spingerlo, durante il viaggio in Europa alla fine del college, a visitare Israele frequentando una comunità di ebrei ortodossi. Cresciuto nei pressi di Manhattan Beach, Darren coltiva fin da piccolo l'interesse per il mondo dello spettacolo. Era ancora piccolo quando i suoi genitori lo portavano per le prime volte ad assistere agli spettacoli di Broad­ way; questo tipo di esperienze permise di far sbocciare in lui l'interesse per il mondo dello spettacolo e per lo show-business. Fra i quindici e i sedici anni, sperimenta per la prima volta le sue doti artistiche partecipando a quelli che in America vengono chiamati Singing, una gara di spettacoli organizzati dagli studenti della scuola, realizzati attraverso una vera e propria produ­ zione, con ruoli ben definiti e casting per gli attori. In un'intervista di Kevin

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C. Scott il regista racconta: “Quella è stata la mia prima esperienza di regia, non so come ho persuaso il produttore a permettermi di dirigere quel breve musical. Sono sicuro di aver contribuito anche alla stesura della sceneggia­ tura, che è stata scritta a più mani. Alla fine abbiamo davvero realizzato un film: avrei voluto vedere la cassetta ma non ho idea di dove sia finita”. Tuttavia all'epoca non era ancora maturata in lui quella passione che lo avvicinerà al mondo del cinema solo negli anni degli studi ad Harvard. Pur non avendo le idee chiare su cosa volesse fare da grande, fin da piccolo era già molto appassionato di scrittura: “Scrivevo molta poesia e un po' di prosa, ma decisamente più poesia alle superiori. A scuola sembravo più portato per la matematica e le scienze, ma mi dedicavo a entrambe”. A detta di Aronof­ sky, gli anni '80 erano i veri anni d'oro dell' hip-hop, “almeno prima che ar­ rivasse Eminem”, così, vivendo a Brooklyn, Darren si diverte a sperimentare la street art tramite i graffiti e la breakdance pur non ottenendo grandi risul­ tati: “Da piccolo ero un mediocre disegnatore di graffiti e un pessimo balle­ rino di breakdance ma cercavo solo di sviluppare una mia idea dell'hip-hop che poi ho applicato alla narrazione audiovisiva”. Alle scuole superiori, grazie alla School for Field Studies (organizzazione che permette agli studenti di fare ricerca scientifica sul campo) Darren ha la possibilità di fare diversi viaggi-studio visitando il Kenia e l'Alaska. All'ul­ timo anno delle superiori, una volta compiuti i diciotto anni e accumulati i crediti necessari per il diploma, abbandona le lezioni qualche mese prima della fine dell'anno scolastico e, zaino in spalla, intraprende un viaggio in giro per l'Europa prima di dirigersi in Israele, dove prova a lavorare in un kibbutz (una sorta di campo comunitaro di lavoratori dello stato di Israele) per poi finire in una Yashiva a studiare la Torah. Finite le superiori nel 1987, Darren riesce ad entrare ad Harvard iscri­ vendosi al corso di antropologia. Nello studentato si trova a dividere la stanza con un aspirante disegnatore appassionato di cinema d'animazione che lo convincerà a seguire alcuni corsi di cinema, il suo nome è Dan Schreker e in futuro si occuperà degli effetti speciali in gran parte dei suoi film. Ad Harvard conosce anche Sean Gullette, appassionato di letteratura che parteciperà come attore e co-autore nel suo primo cortometraggio Super­ market Sweep e nel suo primo lungometraggio Pi greco - Il teorema del de­ lirio (1998). Grazie a Sean, Darren legge scrittori come William Burroughs e Hubert Selby Jr. (autore del romanzo Requiem for a Dream da cui verrà

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tratto l'omonimo adattamento cinematografico); si appassiona così alla prosa e si dedica alla scrittura di alcuni racconti brevi. L'estate successiva al primo anno d'università Darren segue alcuni corsi di storia del cinema e un corso di disegno alla New York University: inizia a guardare i grandi classici del cinema fra cui, a lasciarlo particolarmente impressionato, c'è Toro Scatenato di Martin Scorsese. Al suo ritorno ad Harvard decide di iscriversi ad un corso di disegno: “Mi sono iscritto a lezioni di disegno con un docente fantastico che ci insegnava ad osservare la realtà e a ricreare il tridimensionale in un disegno bidimensionale. [...] era un modo diverso di utilizzare strumenti vi­ sivi per osservare il mondo, una maniera del tutto nuova di analizzare la re­ altà” (Scott, 2009 p. 84). Il terzo anno Darren si iscrive al corso di cinema dove inizia finalmente a lavorare su veri e propri film. In quell'anno fre­ quenta un corso di cinema documentario con un gruppo di registi apparte­ nenti alla scuola di McElwee, impegnati nel portare avanti l'idea del cinema-verité e del “documentario soggettivo”. Al secondo anno del corso di cinema, l'ultimo anno di università, lavora sul cinema di finzione e a film a soggetto, “in quell'anno scrissi una sceneggiatura senza attenermi al for­ mato convenzionale, ma semplicemente affidandomi all'idea che mi ero fatto”. Come saggio finale del corso di studi ad Harvard, Aronofsky realiz­ zerà il cortometraggio Supermarket Sweep (1991) in cui compare il compa­ gno Sean Gullette nelle vesti del protagonista; l'opera gli permetterà di arrivare in finale allo Student Academy Awards. Dopo aver conseguito il diploma ad Harvard, ad Aronofsky viene consi­ gliato da un suo docente di iscriversi all'American Film Istitute, Darren de­ cide, tuttavia, di tornare a Brooklyn e prendersi un anno sabbatico così da dedicarsi totalmente alla scrittura: “Passavo le giornate con i vecchi amici di Brooklyn, gente che non aveva mai neanche lasciato la città e che probabil­ mente non aveva un'influenza positiva su di me, perciò non sapendo cos'al­ tro fare ho mandato la domanda d'ammissione alla scuola di cinema”. Una volta entrato all'AFI, Darren si dedica più seriamente alla scrittura di sce­ neggiature. In questo periodo scrive Protozoa (2003) che realizzerà nello stesso istituto e che darà il nome alla sua casa di produzione; è con questo corto che nasce la collaborazione con Matthew Libatique, direttore della fo­ tografia che lavorerà in tutti i suoi film. Nello stesso anno realizza un adat­ tamento cinematografico dell'omonimo racconto di Hubert Selby Jr., The Fortune Cookies. 22

The Fortune Cookies (2003) narra la storia di uno sfortunato venditore porta a porta che, per risolvere i propri problemi finanziari e prendere le giu­ ste decisioni in ambito lavorativo, decide di affidarsi ai biscotti della fortuna. Il protagonista Hamold Broadneck arriva a rimpinzarsi di cibo cinese fino al punto di procurarsi una colite, tutto ciò pur di ottenere una risposta ai sui dubbi, una seppur illusoria certezza. Con la sua perseveranza nel perseguire e dare sfogo alle sue ossessioni, Hamold sembra essere il padre illegittimo del matematico Max Choen e della ballerina Nina Sayers, ancor più che del wre­ stler interpretato da Mickey Rourke. Con questo primo corto, attraverso uno stile tanto ironico e cinico, quanto greve e amaro, Aronofsky dimostra di riu­ scire a mettere a nudo, con toni grotteschi e perturbanti, debolezze e manie dell'essere umano: tutte caratteristiche che ricorreranno spesso nelle opere successive. Terminata la scuola di cinema Darren si dedica alla scrittura di Dream­ land, un soggetto che lo impegnerà per due o tre anni, rivelandosi un'espe­ rienza avvilente che non troverà mai una vera e propria forma definitiva. Nonostante questo, sono tanti i soggetti che, fin dai primi anni dell'università ad Harvard, tiene riposti in un cassetto aspettando il momento giusto per ti­ rarli fuori e svilupparli in sceneggiatura da realizzare. Assieme al suo ex­ compagno d'università Sean Gullette, Aronofsky si dedicherà ben presto alla scrittura del suo lungometraggio d'esordio.

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PARTE PRIMA Mente, corpo, anima

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Pi greco - Il teorema del delirio, Requiem for a Dream, The Fountain L'Albero della vita. Tre film tanto diversi fra loro quanto legati da un sottile filo conduttore, una ricerca formale volta a colmare i sensi e la coscienza di chi vi assiste; qualcosa che avviene attraverso i tempi e le trame del film oltre che l'esposizione formale deH'immagine e della musica, coinvolgendo total­ mente anima e corpo dello spettatore. In un'intervista di Peter Sciretta per slashfilm.com, Aronofsky stesso definisce a posteriori i suoi primi tre film come una sorta di trilogia, in ognuno dei quali ha messo in gioco rispettiva­ mente Mente, Corpo e Anima. Ognuno di essi, più che fornire vere e proprie risposte ai quesiti esistenziali messi in scena, è il tentativo di disegnare dei percorsi ideali che portano lo spettatore a confrontarsi piuttosto con le do­ mande, prendendone quantomeno coscienza e lasciando solo intravedere quelle che possono essere le possibili interpretazioni di quel non-detto che tra­ spare dal corpo filmico. Non credo ci sia modo più appropriato per aprire un'analisi dei suoi film riproponendo questa stessa classificazione. In seguito si avrà un riscontro di questo percorso anche nei film successivi, dove si vedranno riproposte te­ matiche simili, interpretate sotto nuove chiavi di lettura e attraverso una nuova ricerca formale.

Capitolo primo

La Mente: Il teorema del delirio

Pi greco - Il teorema del deliro (1998), è il primo film, la Mente: la per­ turbante storia di Maximilian Cohen, matematico di origine ebraica che, pur soffrendo di emicrania, sembra sia ad un passo dallo scoprire le leggi che re­ golano il mercato della borsa. L'incontro con un ebreo ortodosso studioso della Torah lo porterà ad avere nuove intuizioni che lo convincono di essere in grado di scoprire segreti che si celano dietro il mistero della vita. Come già accennato, negli anni di Harvard e della scuola di cinema Aro­ nofsky raccoglie appunti per diversi soggetti per lungometraggi che sogna di girare, è da questo periodo che probabilmente provengono le idee principali di buona parte dei suoi film. Il soggetto del suo lungometraggio d'esordio nasce dalla collaborazione con lo stesso produttore del film Eric Watts e l'excompagno di camera Sean Gullette, il quale comparirà nel film come attore protagonista. Nell'intervista di Kevin Conroy Scott, Aronofsky racconta che l'idea dell'elemento mistico intrecciato nella storia di Pi greco proviene da un suo professore del liceo, il quale introdusse la sua classe allo studio della matematica spirituale, studi legati più alla filosofia che aH'aritmetica. Il sog­ getto nasce, tuttavia, dalla miscela di diversi spunti. Durante l'università un amico impegnato nella redazione di una rivista letteraria gli fece leggere un manoscritto inviato da un lettore convinto di ritrovare nella realtà una serie di combinazioni numeriche; nello stesso periodo Darren stava leggendo Ai confini della realtà di Philip Dick. È lo stesso regista a dichiarare “Quando scrivo delle sceneggiature originali mi vedo generalmente come un tessitore d'arazzi: è il mestiere che più gli assomiglia fra quelli che mi vengono in mente. Cerco di intrecciare fra loro fili che partono da matasse distinte, come Cabala e cospirazioni, paranoia, fantascienza e qualche elemento di Ai con­ fini della realtà, tutti con origine diversa”. Per quanto riguarda il registro sti­

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listico, il film sembra essere dichiaratamente ispirato a Tetsuo (di Shina Tsu­ kamoto, 1989), vero e proprio capostipite del genere cinematografico cyber­ punk, oltre che ai fumetti di Frank Miller. Il risultato di tutto ciò è una sorta di Faust contemporaneo, un film surreale a metà strada fra il thriller psicolo­ gico e la fantascienza. Nel 1996 Aronofsky inizia a lavorare su soggetto e sceneggiatura, appro­ fondendo ulteriormente i propri studi matematici oltre a quelli riguardanti la Cabala e la Torah. Finita la sceneggiatura il problema è riuscire a comporre la troupe per il film, cosa non facile dal momento che non si dispone di enormi budget. L'unica soluzione è assicurare alle principali persone del cast (regista, direttore della fotografia, assistente di produzione, attore principale) un'uguale condivisione dei potenziali profitti del film: è in questo modo che un film indipendente può diventare una vera e propria opera collettiva, dove ogni componente della troupe senta sulla propria pelle la responsabilità arti­ stica dell'opera, così da impegnarsi in tutto e per tutto nel proprio ruolo. Dopo nove mesi di preparazione, le riprese si svolgono durante tutto il novembre del 1997, la location sarà Brooklyn, lì dove Darren ha trascorso la sua infan­ zia. Nel momento in cui partono i lavori per Pi greco la troupe si rende conto di non avere abbastanza soldi per concludere il film, così il produttore asso­ ciato Scott Franklin ha l'idea di chiedere a tutte le persone che conoscono di finanziare con 100$ il completamento del film: il budget complessivo sarà di 60.000$ (raggiunti grazie ad altri finanziatori che, interessati ad esso, hanno partecipato al progetto con somme evidentemente più cospicue). L'anno seguente Pi greco si aggiudica il premio per la miglior regia al Sundance Film Festival, il premio per la miglior sceneggiatura d'esordio all'Independent Spirit Award e il premio Open Palm alla regia al Gotham Award. Nello stesso 1998 1'Artisan Entertainment acquista i diritti di distri­ buzione: il film verrà destinato, per un primo momento, ad un ristretto numero di sale, per poi allargare il proprio bacino di distribuzione. Il lungometraggio d'esordio di Aronofsky si rivela uno straordinario successo di pubblico riu­ scendo ad incassare complessivamente oltre 3 milioni di dollari; questo si ri­ vela, allo stesso tempo, anche un grande successo di critica, tanto da far parlare di un'opera prima ai livelli di Ereserhead (1977) di David Lynch o di Le Iene (Resorvoir Dog, 1992) di Quentin Tarantino.

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La Torah e i misteri della Kabbalah Quando Darren, appena diciottenne, arrivò in Israele il suo sogno era la­ vorare a contatto con la terra in una coltivazione di Avocado, tuttavia, una volta arrivato lì, finì per lavorare in una fabbrica di imballaggi d'ortaggi. In un'intervista per Mrshowbiz.com il regista racconta i particolari della sua ati­ pica esperienza mistica: “Fu come essere in Tempi Moderni, dovevo correre da una parte all'altra di due catene di montaggio. Scappai via dopo due giorni e finii a Gerusalemme, con lo zaino in spalla e senza soldi nel portafogli. Im­ magina di essere una sorta di ebreo acquisito in giro per il Muro Occidentale e, una volta lì, queste specie di sette Asidiste da cui discendi non fanno altro che provare a convertirti e a ricondurti all'ovile”. In questo modo gli fu offerto vitto e alloggio per rimanere in Israele e studiare la Torah: “Era fantastico! Tu gli concedi due o tre ore di mattina e passi il resto del giorno in giro per la città. A dire il vero le lezioni erano molto interessanti. Quello che fanno, in pratica, è provare a bombardarti con un sacco di misticismo e estremismo giudaico, così da incastrarti e farti rimanere in Israele. Non combinai granché, ma alla fine mi ritrovai del buon materiale”. Per comprendere meglio il ruolo della religione ebraica all'intemo del film vale la pena provare a capire meglio ciò che rappresenta la Torah per la religione ebraica-ortodossa. La Torah coincide sostanzialmente con i primi quattro libri della Bibbia, compresi dalla religione cattolica nel Vecchio Testamento. Se­ condo il culto e la fede ebraica sarebbe stato Dio stesso a dettare la Torah a Mosé. A differenza del credo cristiano, in cui Dio avrebbe ispirato i profeti che avrebbero poi scritto la Bibbia, nella religione ebraica ad intervenire è anche l'intelligenza di Mosé capace di interpretare la parola di Dio. Un'altra diffe­ renza con il mondo cristiano è che Dio avrebbe posto gli uomini di fronte alla scelta di accettare o meno la Torah: il carattere d'immanenza della religione ebraica sembra quindi nascere proprio dalla necessaria consapevolezza del­ l'uomo difronte alla proprie scelte e alla sua stessa esistenza. Se una parte di Torah, definita corpo, è sostanzialmente esplicita, quindi accessibile alla com­ prensione razionale, ad affascinare Aronofsky è soprattutto il mistero che si cela dietro l'anima della Torah, la Kabbalah, cioè tutto ciò che della Torah non viene rivelato. Secondo alcuni grandi studiosi della Torah, si conterebbero 600.000 modi d'interpretare le scritture sacre, tanti quante sono le sue lettere,

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tanti quanti furono gli Ebrei all'uscita dal­ l'Egitto che assistettero al dono della Torah sul monte Sinai. Essa costituirebbe il nome di Dio spezzettato in tante parole quante ne basterebbero alla mente umana per com­ prenderlo. Secondo gli ebrei ortodossi ogni sua singola parola e suono ha un ruolo spe­ cifico nella sua comprensione e, anche se spostate e ricomposte in ordine differente, concederebbero al lettore nuove chiavi di lettura. La Torah sarebbe quindi più di un semplice testo sacro, in quanto complessa struttura sintattica attraverso cui l'uomo può nani k uwmr raggiungere Dio, obbiettivo perseguibile ' «xv w c IH9M MB» JHM9HI ijua «■uKlEB vmaoi solo attraverso un lungo processo esegetico. Da qui nascerebbe l'interpretazione mistica della Kabbalah. Questa comprensione sembra non poter avvenire che attra­ verso un solo linguaggio, l'unico capace di ricongiungere uomo alla natura e, allo stesso tempo, carpire l'essenza del significato senza nessuna possibilità di fraintendimento. Da qui parte il lungo percorso intrapreso dal protagonista. Max Cohen è convinto di riuscire a scoprire tramite la matematica non solo le leggi che regolano il mercato azionario, ma l'intera struttura che sorregge resi­ stenza dell'uomo e dell'intero universo.

mai guardare fìsso il sole”

“Quando ero piccolo, mia madre mi diceva che non bisogna mai guardare fisso il sole”, eppure, a sei anni, Max non potè fare a meno di farlo, così lo fissò fino al punto di procurarsi una cecità temporanea. Forse niente meglio di questa metafora riesce a sintetizzare il principio da cui parte la ricerca del protagonista e, allo stesso tempo, a lasciar scorgere quello che ne sarà l'esito. È stato questo evento a causargli i feroci attacchi di emicrania che lo tor­ mentano in qualsiasi momento della giornata, per cui è costretto a imbottirsi di medicinali e sostanze psicotrope.

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Se il film è stato girato in bianco e nero è perché, probabilmente, Max è incapace di vedere i colori; anzi, sembra incapace di vedere perfino le sfu­ mature di grigio, questo indipendentemente dall'esperienza vissuta da bam­ bino. La grana spessa della pellicola in 16 mm (probabilmente tirata al massimo delle sue capacità pur di riuscire a girare anche nell'oscurità, senza la necessità di aggiungere luce alle location oltre a quella già presente) resti­ tuisce un'immagine sporca e piena di rumore, dai forti contrasti e dalla bassa definizione; quando bucata dal bianco, quando di difficile lettura a causa della carenza di luce. Il risultato è un'immagine cupa e malinconica, se non proprio angosciante e perturbante, tanto da ricordare, nei momenti più intensi del film, il cinema espressionista tedesco degli anni '20: lo stesso Sean Gullette (nelle vesti del protagonista), in alcune scene sembra essere saltato fuori da un film di Robert Wiene o di Mumau. C'è chi sostiene che la pellicola in bianco e nero sia fotograficamente più realistica rispetto a quella a colori. Se la bicromia rappresenta l'indice perfetto, l'impronta, la diretta conseguenza della maggiore o minore luce riflessa dagli oggetti e dallo scenario anteposto alla macchina da presa, il colore resta so­ stanzialmente un artificio, in quanto risultato di un complesso processo chi­ mico dovuto alle diverse emulsioni applicate alla pellicola, volto ad imitare le immagini che percepiamo nella realtà attraverso la vista. Un realismo, quello del bianco e nero, che, paradossalmente, si presenta come un'astra­ zione concettuale e che, attraverso i forti contrasti, sembra tradurre l'imma­ gine in un sistema binario luce-ombra. La Brooklyn fotografata da Metthew Libatique (fidato operatore e di­ rettore della fotografia di Aronofsky) sembra vivere in un universo paral­ lelo dal sapore post-apocalittico. In alcune scene in strada i passanti vengono colti inconsapevolmente nella loro quotidianità con delle riprese in stile cinema verité, tanto da ricordare alcuni film del primo Godard, in cui riprese documentarie e finzione si intrecciano senza soluzione di con­ tinuità. Se, tecnicamente, nell'atto della ripresa lo stile dei due registi po­ trebbe coincidere, il risultato finale dell'immagine ottenuto sullo schermo è di tutt'altro tipo: fin da subito si percepisce quanto poco sia rimasto di quella realtà, poiché ci viene concesso di osservarla solo attraverso gli occhi di Max Coen. Il bianco e nero di Aronofsky ha davvero poco a che fare con la Nouvelle Vague francese tanto quanto con il primo cinema documenta­ rio e, oltre ad essere una metafora del punto di vista del protagonista, a li­

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vello sensibile, non fa altro che renderci ancora più inquietante l'esperienza del film. Lo stesso regista ha fatto più volte presente quanto abbia influito nella fotografia di Pi greco il lavoro artistico di uno dei più celebri dise­ gnatori di fumetti, Frank Miller, in particolare le ambientazioni surreali di fumetti come Ronin e Sincity. In gran parte delle riprese la camera da presa è praticamente incollata sul protagonista, da lui si discosta solo per assumere il suo punto di vista, attra­ verso perturbanti soggettive. Non ci viene concessa la possibilità di scorgere gli spazi del quartiere, né tantomeno di soffermarci su alcun particolare: le im­ magini scorrono senza sosta e obbediscono solo alle leggi che muovono il flusso di pensieri del protagonista. La stessa tecnica della Snorri-Cam rende il matematico unico centro dell'azione, elemento fisso attorno a cui orbita tutto l'universo circostante. In tutto il film, più in generale, l'unico punto di vista che ci viene offerto è quello dell'apparato percettivo del protagonista, at­ traverso cui elabora tutti gli stimoli esterni e li rende parte della sua espe­ rienza. I primi piani dei passanti non sono altro che il riflesso delle sue ossessioni e delle sue fobie, le soggettive che attraversano il flusso di per­ sone in strada sono solo una registrazione automatica dell'apparato visivo du­ rante l'elaborazione dei suoi pensieri, le immagini che fanno da contrappunto alle rocambolesche teorie chiosate dal protagonista sono gli schemi logici che prendono forma nella sua mente. Ad essere rievocato in questo film è queirimmaginario tipico degli anni '80, legato all'informatica, alla macchina calcolatrice che, nella seconda metà del Ventesimo secolo sembra aver con­ segnato il destino del pianeta nelle mani dell'essere umano. Tanto è vero che, nonostante il film sia stato girato nel 1998, l'enorme macchina calcolatrice presente nel film è stata composta con pezzi di vecchi Olivetti e monitor ri­ salenti agli anni '70; una scelta dettata dal basso budget ma intrapresa con la consapevolezza di ricreare un'ambientazione temporalmente non collocabile, una sorta di futuro remoto astratto. Ad essere rievocato è queirimmaginario ancora legato ai terminali in bianco e nero, al tubo catodico e alle cifre stam­ pate con inchiostro su carta, immaginario a cui presto si rifarà il rivoluzio­ nario Matrix (Lana e Andy Wachowski, 1999) reinterpretato a sua volta attraverso una nuova estetica costituita dal digitale di nuova generazione, dalle forme immateriali del 3D e della computer graphic. In questo marasma di stimoli l'unico elemento a cui forse possiamo affi­ darci è il suono, curato da Clint Masell e Brian Emrich, il primo responsa32

bile delle musiche, il secondo vero e proprio sound designer. Il lavoro di composizione di Clint Masell, in particolare, ha seguito la realizzazione del film fin prima dell'inizio delle riprese. La voce fuori campo del protagoni­ sta ci accompagna per gran parte del film; questa, tuttavia, lungi dal parlare direttamente allo spettatore, si presenta come una semplice traccia del pen­ siero del protagonista che ci viene concesso di ascoltare mentre tutto davanti ai sui occhi continua a scorrere. I suoni ambientali non ci aiutano di più: anche se sincronizzati alle azioni del matematico, risultano falsati nel tim­ bro e nell'intensità a causa della sua iperattività cerebrale, spesso si confon­ dono con gli innumerevoli ticchettii e bip provenienti dal computer, quando non diventano parte della colonna sonora musicale, sincronizzata ai suoi at­ tacchi di euforia intellettuale. È proprio attraverso il suono che prendono forma i dolori lancinanti delle emicranie, così come le sue paranoie: piccoli suoni meccanici e ripetitivi che accompagnano costantemente il protagoni­ sta e assillano lo spettatore, sviluppandosi in un crescendo continuo, con stridii e rumori di ferraglia insopportabili. Spesso fanno da preludio alle ter­ rorizzanti allucinazioni che inquietano lo spettatore tanto quanto il protago­ nista, fino a chiudersi, assieme al fade-out del suono, in accecanti dissolvenze in bianco. La voce fuori campo rappresenta il flusso di pensiero che inonda la sua coscienza, le immagini sono i dati della sua percezione, i raccordi di mon­ taggio sono i collegamenti fra le sue sinapsi: in tutto ciò la musica è forse l'adrenalina che, irrorando le sinapsi, muove il suo agire. I brani di musica elettronica drum'n'bass (fra questi compaiono grandi innovatori del genere come Aphex Twin e Massive Attack, oltre a brani originali composti da Clint Masell) guidano lo spettatore attraverso gli stati psicologici del pro­ tagonista, lo accompagnano nei suoi picchi di massima ispirazione ed esplo­ dono nelle sue nevrosi, oltre a scandire le immagini di formule e schemi mentali provenienti direttamente dalla sua attività cerebrale. E la musica che guida il montaggio e non viceversa, confondendosi spesso con i suoni ambientali e accompagnando ogni stato di coscienza del matematico, dalla sua tesi iniziale ai deliri di onnipotenza, fino al suo lento declino verso la pazzia.

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Tesi. Antitesi. Sintesi Durante tutto il film non ci viene proposto altro che le teorie di Max Cohen: siamo all'interno della sua mente e ascoltiamo tutti i suoi pensieri, tanto da poter seguire tutte le implicazioni che ne conseguono. Fin dall'inizio il film sembra presentarsi come un teorema matematico, tanto da svilupparsi in tre atti, prendendo le mosse di un vero e proprio processo dialettico. Max presenta la sua tesi, la mette alla prova attraverso il ragionamento logico e i calcoli del computer, la confronta con la teoria del suo maestro Sol Robeson e con le teorie esposte dell'ebreo ortodosso Lenny Meyer; tutto per arrivare, in fine, a cercare di trarre le proprie conclusioni, provando a formulare una risposta che tarda a venire e che lo porta a scontrarsi con chi cerca di acca­ parrarsi le sue scoperte, oltre che con la sua stessa pazzia. Conviene tuttavia proseguire con ordine. Tesi

“La natura parla attraverso la matematica. Tutto ciò che ci circonda si può rappresentare e comprendere attraverso i numeri. Tracciando il grafico di qua­ lunque sistema numerico ne consegue uno schema. Quindi ovunque in na­ tura esistono degli schemi”. Max vive da solo, isolato, rinchiuso nel suo appartamento, circondato da micro-chip, circuiti elettrici, tubi catodici e uno schermo a led che gli forni­ sce in tempo reale i bollettini della borsa. In alcuni casi è la realtà ad invadere il suo mondo: è il caso della bambina asiatica che bussa alla porta di Max per chiedergli il risultato di operazioni con numeri a 3 o 4 cifre, controllando la sua risposta con la calcolatrice; di tanto in tanto c'è anche la vicina di casa Devi che passa a fargli visita, provando, invano, a prendersi cura di lui. Per il resto del tempo il protagonista passa la maggior parte della sua vita a la­ vorare ai suoi calcoli, rimanendo per giorni al computer senza mai cacciare la testa fuori di casa. L'unica persona con cui sembra riuscire ad instaurare un vero e proprio rapporto umano è il suo maestro Sol Robeson (interpretato splendidamente da Mark Margolis), a cui fa spesso visita per esporgli i suoi progressi, giocando al gioco da tavola giapponese del Go-moku. Secondo i calcoli di Max tutto si muove per mezzo di uno schema ideale

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fatto di leggi naturali, da ciò deriverebbe la ciclicità degli eventi. Così come la natura, anche il mercato della borsa (“immensa rete umana che grida alla vita”), in quanto sistema complesso, sarebbe regolato allo stesso modo da leggi che determinerebbero un suo andamento e una sua ciclicità. Il maestro lo avverte di quanto possa essere pericoloso affidarsi nella vita alla sola ma­ tematica, ma Max non capisce, così come non comprende perché Sol abbia abbandonato i suoi studi sul pi greco proprio nel momento in cui sembrava stesse arrivando alla scoperta di uno schema risolutivo. A dare una svolta decisiva agli studi di Max è il suo secondo incontro con Lenny Mayer, ebreo ortodosso che gli espone le sue teorie, secondo cui la Torah non è altro che un codice inviato da Dio agli uomini, in cui ogni lettera corrisponderebbe ad un numero e in cui si nasconderebbe il segreto della vita. Ascoltando la sua esposizione Max si accorge che nei numeri della Torah si nasconde in realtà la sequenza di Fibonacci, una sequenza di numeri legata alla spirale aurea, forma trascendentale riscontrabile in tutte le forme che as­ sume la natura: questa è la prova che “... la matematica è ovunque”. Max prova a sottoporre i suoi calcoli a Euclide (questo è il nome del calcolatore) ma il computer non regge e va in black-out, tuttavia riesce ad ottenere una stampa automatica di una serie di numeri, apparentemente insignificanti. Antitesi “Da principio quella luce accecante era insopportabile, ma io non distolsi lo sguardo neanche per un momento. A poco a poco la luce cominciò a dis­ solversi, le mie pupille si ridussero a capocchie di spillo, e riuscì a mettere tutto a fuoco. Per un momento vidi e capii”. Ora tutto sembra avere un senso, la verità sembra prendere forma proprio davanti agli occhi del protagonista. A colpire il computer di Max probabil­ mente è stato lo stesso virus che ha mandato in crash il computer del maestro Sol Robeson: in entrambi i casi il computer ha stampato una sequenza di 216 cifre prima di spegnersi in un black-out; coincidenza dei fatti vuole che gli studi sulla Torah intrapresi da Lenny Meyer hanno portato alla teorizzazione di uno schema composto da 216 cifre. Tutto sembra avere un senso. Sol, tut­ tavia, continua ad invitare Max ad essere cauto nelle sue conclusioni, proba­ bilmente si tratta solo di coincidenze, probabilmente qualsiasi numero emerga

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dai sui studi troverà altrettanti casi in cui questo coincida con altre cifre le­ gate ad altrettante teorie. Intanto Marcy Dawson, socia di una agenzia finanziaria quotata in borsa, seppur con fare gentile e professionale, continua a marcare stretto il giovane matematico pur di convincerlo ad accettare un contratto con l'azienda, così da ottenere la sua preziosa consulenza finanziaria. Quanto più la soluzione sem­ bra essere vicina, tanto più frequenti diventano gli attacchi psicotici del pro­ tagonista, arrivati a manifestarsi in vere e proprie allucinazioni, queste incominciano a fondersi con la realtà senza concedere allo spettatore la pos­ sibilità di distinguere l'una e l'altra. La domanda che ci viene posta implici­ tamente è “Dove finisce la realtà e comincia l'illusione? Cosa ci permette di riconoscere e distinguere l'intuizione dall'autosuggestione? Qual è il limite che divide genio e pazzia?”. Max sembra oscillare fra questi due estremi senza mai prendere pace, quasi come se fossero due enormi correnti d'aria di temperatura opposta che si scontrano per dare vita ad un violento tornado. Eppure fra attacchi di allucinazioni surreali e picchi di euforia megalomane, il protagonista riesce ad avere alcuni brevi attimi di lucidità in cui sembra ca­ pace di riflettere in modo cosciente. In fondo, le azioni di Wall Street sono scese secondo i suoi calcoli, i dati della borsa sembrano rispettare le sue pre­ visioni, almeno fino a prova contraria. In seguito ad un suo ennesimo delirio, Max si ritrova a Coney Island. Dopo essersi soffermato ad osservare il mare, una nuova allucinazione stavolta sem­ bra provare a ricondurlo all'essenza della sua ricerca: un uomo gli consegna una conchiglia dalla classica forma riconducibile alla spirale aurea. Il gio­ vane matematico ritorna a casa e raccoglie ciò che rimane del suo processore mandato in frantumi dopo il black-out. Il virus sembra aver prodotto al­ l'interno dei micro-chip una sorta di sostanza organica. Prima di mettere mano al mi­ croscopio, così come avrebbe fatto qualsiasi scienziato degno di questo nome, Max si com­ porta come si sarebbe compor­

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tato un qualsiasi primate: ne prova la consistenza al tatto, lo annusa con la cu­ riosità di una scimmia, ne prova il gusto. Sono questi indizi probabilmente a dare senso alla ricerca condotta dal protagonista, se non all'intero film. E solo nel momento in cui Max volge la sua attenzione agli indizi offerti dalla na­ tura che egli riesce ad avere quelle intuizioni tanto geniali quanto realmente utili alla sua ricerca. L'esperienza diretta del dato sensibile porta Max Cohen ad avere una nuova intuizione: lo stesso corpo umano, così come la natura, non è altro che l'ennesima prova dell'universalità delle proporzioni auree; a questo punto il corpo umano potrebbe essere il fulcro di tutto. Ma Euclide at­ tualmente è fuori gioco, ragion per cui Max è costretto a chiedere un nuovo micro-chip a Marcy Dowson, disposta a fornirglielo pur di avere le informa­ zioni di cui ha bisogno. Sintesi

Il Deus ex machina derivante dal teatro greco, capace di risolvere ogni in­ toppo nell'intreccio narrativo attraverso l'intervento di Dio, in questo caso è completamente assente. Max è totalmente solo nella sua ricerca forsennata della verità; non c'è nessun Dio ad assisterlo. Ad esso si sostituisce piuttosto la macchina Dei, lo strumento tecnico come estensione del corpo e della pro­ pria razionalità, mezzo attraverso cui l'uomo si è affermato al disopra della na­ tura, metafora della stessa razionalità umana, reificata, in questo caso, nell'enorme calcolatore. Euclide è l'unica entità in cui Max ripone realmente fiducia. Ma, a differenza di Dio, la macchina è imperfetta, pur dando rispo­ ste certe spesso lo abbandona nel momento di maggior bisogno. Nonostante ciò, grazie alla formula matematica scoperta dal protagonista, se il calcolatore non prende effettivamente vita, questo sembra riuscire per un attimo a con­ cepire una, seppur rudimentale, coscienza di sé e lo dimostra stampando le 216 cifre prima di spegnersi definitivamente. Pensandoci bene, che cos'altro è il corpo se non lo strumento attraverso cui l'essere umano agisce sul mondo? Allora dov'è la differenza fra il corpo umano e la macchina? Max sembra non afferrarlo. Per di più, nonostante sia convinto di essere al disopra del suo og­ getto di studio, le emicranie continuano a diventare sempre più forti e fre­ quenti, quasi a ricordargli persistentemente, non solo di possedere un corpo, ma di essere un'entità finita, così come qualsiasi organismo naturale. Allora,

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estremo paradosso, il protagonista pretende di essere allo stesso tempo sog­ getto osservante e oggetto osservato, a costo di perdere quella presunta og­ gettività tanto cara alla scienza moderna. Dal momento che egli stesso diventa parte dello studio tutto potrebbe essere causa e effetto di ciò che si sta veri­ ficando. Probabilmente quell'escrescenza comparsa sulla tempia destra non è casuale, forse è un segno; in tutto ciò gli agenti di Wall Street hanno avuto informazioni sui suoi progressi e gli stanno già dando la caccia per ottenere il numero che gli permetterà di prevedere l'andamento della borsa; dall'altro lato Lenny Meyer e il gruppo di ebrei ortodossi sono sulle sue tracce perché convinti che la serie di cifre scoperta da Max sia il vero nome di Dio. Il Rab­ bino prova a spiegargli che solo un uomo puro di mente può intonare il nome di Dio, ma Max non ha intenzione di rivelargli la propria scoperta; conoscere la sequenza di cifre non basta, il segreto di tutto si nasconde nella sintassi che le lega, nell'atto stesso della comprensione. Questo almeno è quello che ci viene raccontato attraverso lo schermo, per il resto non ci viene dato alcun indizio per permetterci di essere sicuri che tutto ciò sia reale. All'ennesima lancinante emicrania, per quanto insopportabile, il protagonista si rifiuta di prendere i propri medicinali, tutto pur di rimanere cosciente. Nel suo ultimo attimo di lucidità, fissando la propria immagine allo specchio, Max decide di bruciare il foglio su cui c'è scritta la sequenza di numeri prima di perforarsi la tempia con il trapano elettrico. Ritornando sui nostri passi e osservando a ritroso il film fino ai sui primi minuti, provando a scavare sotto i misteri della Torah e della Kabbalah, oltre il pi greco, le leggi naturali e il mercato della borsa... al di là di tutto, ciò che rimane è la storia di un ragazzo solo, che non riesce a relazionarsi con il mondo che lo circonda, la cui ricerca è probabilmente volta a ritrovare la sua stessa umanità. Ripensando a tutti gli eventi che sono passati sullo schermo, viene da ri­ flettere su un particolare: l'unica azione concreta che il protagonista riesce effettivamente a compiere in tutta l'ora e mezza è risolvere le operazioni che Jenna, la bambina asiatica vicina di casa, gli pone solo per gioco. L'unica cosa che Max è in grado di fare è qualcosa che può benissimo fare anche una calcolatrice cinese del valore di qualche dollaro. È Jenna ad apparirci alla fine del film, quasi ad indicarci la risposta che il protagonista ha sempre avuto davanti agli occhi ma che non è mai riuscito a riconoscere. Invece di dargli la risposta giusta come al solito, questa volta Max si sofferma ad ascoltarla e 38

fa fìnta di non sapere il risultato. È questo il mistero che si nasconde dietro il segreto della vita? Forse è l'ingenua curiosità della bambina, forse è il gioco come metafora della vita, forse non c'è nessun segreto e la risposta ai suoi quesiti è la vita stessa. Probabilmente una vera risposta non c'è, ma se real­ mente esiste, si cela dietro l'essere umano stesso; allora, forse l'unico mezzo di conoscenza attraverso cui riuscire a cogliere l'essenza dell'esistenza è la vita stessa vissuta attraverso l'esperienza dell'altro, unico tramite attraverso cui poter esperire la coscienza nell'atto stesso di esistere all'infuori di noi stessi.

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Capitolo secondo

Il Corpo: Requiem per un sogno

Requiem for a Dream (2000) è il secondo lungometraggio di Darren Aro­ nofsky, il Corpo. Un filo sottile lega le vite dei quattro personaggi principali del film: Harry cerca di mettere su un giro di droga assieme all'amico Tyrone così da sbarcare il lunario; Marion, la ragazza di Hurry, sogna di mettere su un suo studio di moda; infine Sarah, madre di Harry, sogna di dimagrire ed apparire nel suo programma televisivo preferito. Le loro ambizioni finiranno per infrangersi con la realtà portando i personaggi ad un inesorabile declino, attraverso un percorso di sofferenza e frustrazione oltre che di assuefazione e dipendenza delle più diverse sostanze stupefacenti. Il film è tratto dalfomonimo romanzo di Hubert Selby Jr., scrittore a cui Dar­ ren si è particolarmente affezionato durante gli anni di Harvard, conosciuto anche grazie alla condivisione della passione per la letteratura con il compagno d'uni­ versità Sean Gullette. Quando Aronofsky lesse per la prima volta Requiem for a Dream, il regista ne rimase talmente impressionato da non riuscire a finirlo; in seguito decise di farlo leggere al suo produttore Eric Watson così da pensare di fame un adattamento cinematografico. Ad attrarre il giovane Aronofsky fu so­ prattutto l'idea di raccontare un elemento particolarmente rappresentativo degli anni '90: l'assuefazione e la dipendenza dalla televisione, è questo a fare so­ stanzialmente da catalizzatore alla storia, rendendola diversa da qualsiasi altro drug-movie. In più di un'intervista Aronofsky nota quanto la sua generazione sia cresciuta sotto la costante l'influenza della televisione, egli stesso confessa di aver visto per un certo periodo della sua infanzia fino ad otto ore al giorno di te­ levisione; tutto ciò, a detta sua, avrebbe inevitabilmente contaminato la sua im­ maginazione visiva e, conseguentemente, la sua idea di cinema. In un'intervista di Jeff Stark pubblicata su Salon.com Aronofsky dichiara: “Ciò che mi ha stu­ pito del romanzo, e che poi ho cercato di riportare nel film, è la controparte della

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storia di Sarah Goldfarb che destruttura totalmente il film come drug-movie. Le storie di Harry, Tyron e Marion sono storie di eroina molto tradizionali. Ma con­ frontandole l'una accanto all'altra con la storia di Sara di colpo pensi: “Cosa è droga e cosa non lo è?”. In questa chiave di lettura tutto può potenzialmente rap­ presentare una fonte di dipendenza: la TV, il caffè, la cioccolata, il sesso, l'amore; allora il vero tema centrale della storia non è la tossicodipendenza, bensì la di­ pendenza in sé come stato psicologico ed esistenziale. Dopo il grande successo del primo lungometraggio c'erano tutti i presup­ posti per realizzare un grande film commerciale dall'alto budget, così Aro­ nofsky passò al vaglio alcune idee di film che avrebbe voluto da sempre girare, fra queste l'adattamento cinematografico del fumetto Ronin (su cui la­ vorerà con lo stesso autore del fumetto Frank Miller senza che la produzione vada mai in porto) oltre che Proteus, progetto che verrà poi realizzato nel 2001. Dopo un primo contatto telefonico con Sulby durante la realizzazione di Pi greco, Aronofsky ebbe modo di incontrarlo di persona e, in seguito, di lavorarci assieme alla stesura della sceneggiatura che impegnò il regista per circa un anno. Nonostante i grandi progetti in cantiere, Aronofsky e il suo produttore Eric Watson sentivano che Requiem for a Dream era il film da realizzare. Una volta ultimato il lavoro di sceneggiatura il vero problema sarà riportare sullo schermo l'effetto delle sostanze psicotrope, oltre a farlo altret­ tanto bene quanto Selby abbia fatto nel suo romanzo. Dopo il successo di Pi greco, la Artisan Entertainment (società di produ­ zione che aveva acquistato i diritti di distribuzione del primo film) decise di partecipare direttamente alla produzione del secondo lungometraggio del regi­ sta. Grazie alla partecipazione di altre produzioni, il film godrà di un budget più cospicuo del precedente, circa 4 milioni di dollari (budget comunque non ec­ cessivo rispetto alla media dei lungometraggi americani). Al fianco di Aronof­ sky compariranno ancora i suoi collaboratori più fidati, almeno per quanto riguarda i ruoli principali, fra questi il direttore della fotografia Mattehw Libatique, il compositore Clint Masell, il responsabile del suono Brian Emerik, non­ ché Dan Schrecker, ex-compagno di college, addetto agli effetti speciali. Se la ricerca degli attori per i ruoli principali è stata particolarmente minu­ ziosa, ancora più impegnativa si è dimostrata la loro preparazione prima e durante le riprese. A Jared Leto e a Marlon Wayans (rispettivamente nel ruolo di Harry e Tyrone) viene chiesto di astenersi dal fare sesso e dall'assumere zuccheri per al­ meno trenta giorni prima delle riprese, così da immedesimarsi meglio nel ruolo 41

dei tossicodipendenti. Per entrare nei panni di Harry, Jared Leto perde circa dieci chili di peso e si prepara all'interpretazione facendo amicizia con diversi tossico­ dipendenti nelle periferie di Brooklyn. In un primo momento Ellen Brustyn, scon­ volta dalla sceneggiatura, aveva rifiutato il ruolo, convincendosi ad accettare la parte solo dopo aver visto Pi greco ed esserne rimasta positivamente impressio­ nata. Per le scene in cui interpreterà la consumata Sara Goldfarb, la sessantenne Ellen Brustyn verrà ogni volta sottoposta a circa quattro ore di trucco che le con­ feriranno l'aspetto di un'anziana logora e trascurata. Nonostante le difficoltà nel recitare con gran parte del volto e del corpo coperto da protesi in lattice, l'inter­ pretazione dell'attrice sarà uno degli elementi più commoventi e inquietanti di tutto il film, tanto da meritarsi la candidatura al premio Oscar come migliore at­ trice protagonista. Indubbiamente impegnativo si dimostrerà anche il ruolo di Marion Silver, una tossicodipendente giovane e sensuale che finirà a vendere il suo corpo in cambio di droga; il personaggio sarà coraggiosamente interpretato da Jennifer Connelly, la quale si cala nel personaggio con tutta se stessa, nono­ stante l'intensità e la durezza delle scene in cui si troverà a recitare. Le riprese del film si svolgono in due mesi di duro lavoro, fra l'aprile e il giugno del 1999 nei pressi di Manhattan Beach. Tutto va per il meglio, se non fosse che, in fase di postproduzione, emerge un problema forse trascu­ rato fin dal lavoro di sceneggiatura. Così come gran parte dei drug-movie di maggior successo (da Noi ragazzi dello Zoo di Berlino, Acid House o Train­ spotting), non potevano mancare per Requiem for a Dream difficoltà riguardo alcune scene particolarmente forti e la loro eventuale censura. La MPAA (Mo­ tion Pictures Association of America) considera alcune scene di sesso, vio­ lenza e droga presenti nei tre minuti di climax del film, gratuite o comunque “non necessarie” allo sviluppo narrativo della storia. Il film verrà classificato dall'ente come NC-17, codice con il quale, molto probabilmente, verrà rifiu­ tato da una parte considerevole delle sale, verranno perfino negati articoli ri­ guardanti film e la sua sponsorizzazione in alcuni quotidiani, oltre che per alcuni canali televisivi e radio (Su Imdb Parental Guide è possibile leggere una lista dettagliata riguardo la quantità di sesso, violenza, droga e blasfemia presente nel film, quantificata attraverso gli standard della Motion Pictures Association of America). La Artisan Entertainment aveva capito da subito che pensare a Requiem for a Dream come un film commerciale sarebbe stato sostanzialmente sconveniente, così, dal canto suo, la casa di produzione so­ stiene la posizione di Darren Aronofsky battendosi per una classificazione

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del film perlomeno come PG-13, senza, tuttavia, intervenire sul montaggio: le scene di sesso e di violenza sarebbero tutt'altro che gratuite, in quanto ne­ cessarie per caratterizzare al meglio i personaggi e a portare sullo schermo la loro sofferenza fisica e psicologica. Il film verrà, in fine, rilasciato con una “classificazione speciale” (Special R-Rate) in cui verrà rivista, in particolare, una delle sequenze finali del film, quella in cui Marion partecipa ad un'orgia con un'altra donna ad una festa di Big Tim; nella scena alcune inquadrature verranno sostituite ad altre meno esplicite. Il regista affermerà in seguito di non aver avuto particolari problemi nella fase di booking per la distribuzione nelle sale, sono stati persi, piuttosto, alcuni canali di sponsorizzazione come gran parte dei programmi TV e di alcuni giornali. Nonostante questo il film sarà comunque vietato ai minori di 17 anni, la versione rilasciata sotto il co­ dice NC-17 sarà destinata al solo DVD in home-video. In occasione dell'uscita in sala di Requiem for a Dream fu realizzato e messo in rete il sito internet ufficiale del film, curato da un gruppo di artisti inglesi e totalmente diverso da qualsiasi altro sito informativo convenzionale. Il film è stato praticamente re interpretato attraverso il web, in modo analogo in cui Aronofsky ha tradotto il romanzo cinematograficamente; il risultato è una perturbante opera d'arte digitale in cui lo stato ansiogeno del film viene tradotto in chiave telematica, tramite finti banner, errori di sistema e crash in apertura delle pagine. Requiem for a Dream verrà presentato in anteprima al 53° Festival di Can­ nes, con lo stupore e lo sbigottimento di gran parte dei presenti. Nonostante i diverbi avuti a causa della censura, nonché la forza e l'asprezza delle sue im­ magini, il secondo lungometraggio di Aronofsky riesce comunque a raccoglie uno straordinario successo sia di pubblico che di critica, vincendo diversi premi nei più importanti festival di cinema indipendente. Requiem for a Dream rivela paradossalmente i limiti della censura americana: per quanto il film possa contenere esplicite scene di sesso, droga e violenza, forse non è mai esistito un film tanto convincente nel condannare l'abuso di droga e la corruzione dello spirito. Il film riuscirà ad ottenere la distribuzione intema­ zionale (pur con qualche restrizione in alcuni paesi più severi in merito), fino a diventare nel giro di qualche anno un vero e proprio cult del cinema indi­ pendente contemporaneo.

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Darren Aronofsky e Hubert Selby Jr.

In un'intervista condotta da David E. Wiliams per Filmthreat.com Darren Aronofsky racconta: “Hubert Salby è stata una figura molto importante della mia vita. Quando ero solo una matricola al college e studiavo per i primi esami ero terrificato, in fondo ero solo un ragazzino della scuola pubblica di Brooklyn. Lì non ho imparato niente a parte evitare i corsi e fuggire da scuola! Così ero in biblioteca a cercare di imparare qualcosa e dietro l'angolo mi apparve la pa­ rola Brooklyn’’. Leggendo il primo romanzo di Selby, Last Exitfrom Brooklyn, il giovane Darren ritrovò in parte quella Brooklyn lasciatasi ormai alle spalle; allo stesso tempo, rimase enormemente impressionato dall'innovativo stile dello scrittore. Quando in seguito intraprese gli studi di cinema, il primo cortome­ traggio da lui realizzato, Furtune Cookies, sarà proprio basato su un racconto breve di Selby; fu allora che, innamoratosi dello scrittore, iniziò a leggere il ro­ manzo da cui poi trarrà il suo secondo lungometraggio. Come già è stato ac­ cennato il regista ebbe modo di far leggere il romanzo al suo produttore Eric Watson; allora c'erano tutti i presupposti per realizzare un film dall'alto budget e dai grandi incassi al botteghino, tuttavia entrambi sentivano una forte attra­ zione per Requiem for a Dream. Aronofsky parlò telefonicamente con Selby du­ rante la realizzazione del primo lungometraggio. Una volta finite le riprese, lui e Eric Watson ebbero modo di andarlo a trovare a Los Angeles, lì dove all'epoca viveva lo scrittore; egli li accolse con grande cortesia e accettò l'idea dell'adat­ tamento cinematografico con molto entusiasmo, dimostrandosi fin da subito molto disponibile. Il lavoro di sceneggiatura impegnerà Aronofsky per più di un anno, durante il quale, a causa della lontananza, collaborerà con lo scrittore solo indirettamente. L'ormai settantenne Selby aveva già scritto un adattamento nel 1978 che poi andò perduto, così, una volta riscritto il soggetto, lo fece avere al regista, il quale aveva da poco terminato la sua prima stesura della sceneg­ giatura. Da quel momento in poi i due incominciarono uno scambio di corre­ zioni fino ad ottenere la sceneggiatura finale. Quando Aronofsky chiese a Selby del perché avesse ambientato le vicende nel Bronx lo scrittore gli rispose che le persone a cui erano ispirate le storie erano semplicemente di lì, non c'era nes­ sun particolare motivo. Con l'approvazione di Selby, il regista decise di am­ bientare il film a Manhattan Beach e a Coney Island, luoghi in cui il giovane Darren aveva trascorso la sua adolescenza, cimentandosi nella street art e im­

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mergendosi nella cultura hip-hop degli anni '80.1 due quartieri sono per certi versi simili, se non fosse che nel secondo caso il regista possiede una cono­ scenza approfondita dei luoghi e della luce che li abita, oltre a conservare un ba­ gaglio di ricordi di gioventù che riverserà nella direzione artistica del film: i tetti degli edifici, la scogliera, il luna-park di Coney Island, sono tutti luoghi in cui Darren ha vissuto la sua adolescenza. L'arduo lavoro di riduzione di un romanzo di più di quattrocento pagine in una sceneggiatura di centodieci li ha posti di fronte al problema di effettuare una selezione di alcune vicende scartandone altre e ad aggiungere alcune scene di raccordo che permettessero di conservare la coerenza interna della storia. I due scrittori si sono trovati praticamente d'accordo in gran parte delle scelte, cosa non del tutto scontata se si pensa a quanto uno scrittore possa essere affezionato ad ogni singola pagina del suo libro. La sceneggiatura finale richiederà più di venti stesure. In un'intervista condotta da Allen White per screenwriting.about.com, Aronofsky racconta con enorme entusiasmo del rapporto instaurato con lo scrit­ tore in occasione del film: “Lui fu molto generoso con il suo materiale e ha cer­ cato realmente di tradurlo in un film; ma penso che ciò dipenda solo dal carattere dello scrittore. In questi casi, lo scrittore sa che si tratta di un medium differente attraverso cui devi fare una sorta di traduzione, ma immagino anche che egli senta di non poterlo fare. In più, l'idea di lavorare con il tuo eroe è davvero ter­ rorizzante, ma alla fine devi solo cercare di essere il più onesto e il più diretto possibile, perché in fondo non vuoi nessuna sorpresa lavorandoci insieme”. Se Requiem for a Dream, di per sé, risulta una storia quanto mai sconvol­ gente, altrettanto si può dire dello stile di scrittura attraverso cui Selby presenta i fatti al lettore all'intemo del romanzo. Sensazioni, azioni, ricordi, sogni: l'uno si confonde con l'altro diventando elementi praticamente indistinti all'interno del testo narrativo. Più che raccontare semplici fatti esteriori, Selby lascia che at­ traverso le parole prendano forma immagini che conducano il lettore all'interno delle vicende. Il tutto appare come una sorta di flusso di coscienza attraverso cui è possibile riuscire ad esperire in modo quanto mai vivido ed efficace le sen­ sazioni provate da un tossicodipendente (risulta particolarmente sconvolgente la descrizione del piacere provato da Harry nel mettersi le dita nel naso o del sem­ plice annuire, sotto effetto dell'eroina). La sfida di Aronofsky è proprio quella di riuscire a tradurre sullo schermo questo stesso tipo di sensazioni, attraverso suono ed immagini, obbiettivo che porterà a termine scegliendo accuratamente le tecniche e lo stile di ripresa, attraverso un uso innovativo di tecniche di mon45

taggio tradizionali e con l'aggiunta di alcuni effetti speciali, sia in po­ stproduzione che nel profilmico. Dal canto suo, lo scrittore del romanzo sarà più volte presente e parteciperà attivamente al film, in alcuni casi aiuta gli attori ad im­ medesimarsi nei loro ruoli, leg­ gendo personalmente alcuni passi del libro (nel backstage del film presente nel DVD è possibile ve­ dere come, durante le riprese, aiuta Ellen Burstyn ad immedesimarsi in Sara Goldfarb leggendole per­ sonalmente alcuni passi del libro; in un altro contenuto speciale viene inter­ vistato dalla stessa attrice riguardo la sua vita e la sua attività di scrittore). Selby interpreterà simbolicamente anche un piccolo ruolo, nelle vesti di una guardia spietata della mensa del carcere in cui Tyrone si ritrova a lavorare.

Summer: il desiderio Fin dalle prime scene, il film si rivela come uno spaccato quanto mai fe­ dele dei sobborghi dell'Est-Coast americana e degli anni '90, il tutto traspo­ sto cinematograficamente attraverso atmosfere che meglio riflettono un decennio quanto mai controverso e decadente. Dentro c'è tutto: la televisione, la musica elettronica, la droga, i farmaci, il cinismo, il disincanto, la solitu­ dine. Se a tratti emerge qualche bagliore di speranza, di ingenuità, di dol­ cezza, tutto verrà ben presto fagocitato dal resto. I titoli di testa del film si aprono nella densa e opaca luce estiva di Coney Island, accompagnati dal tema centrale della colonna sonora di Clint Masell. Nel primo atto ci vengono presentati i personaggi principali del film, ognuno alle prese con le proprie aspirazioni personali. I loro sogni si presentano come un misto fra desiderio e paura, fra fede e disincanto; il commento musicale fa da linea guida alle sensazioni dello spettatore in modo quasi didascalico, la­ sciando che questo si immerga lentamente nella quotidianità dei personaggi. 46

Harry e Tyrone racimolano i soldi per la droga rubando e vendendo più volte ad un rigattiere la televisione di Sara, la madre di Harry, la quale è costretta a tornare lì ogni volta per ricomprarla. Dopo un piccolo tentennamento, i due amici assaggiano una dose del nuovo acquisto, ma i loro progetti sono ben più ambiziosi: una volta venduta questa prima partita di droga avranno abbastanza soldi per comprare mezzo chilo di eroina pura che permetterà ad entrambi di uscire dal giro e realizzare i propri desideri. Nonostante Harry sia un tossico­ dipendente, il suo sogno è riuscire prima o poi a mettere su famiglia e vivere una vita serena; Marion, la sua ragazza, desidera a sua volta mettere su uno stu­ dio di moda tutto suo. Nonostante il padre sia il proprietario di una grande firma di alta moda, da diverso tempo ha abbandonato la terapia per disintossicarsi e non ha quasi più rapporti con lui; per ora vive con Harry in un appartamento di periferia e, suo malgrado, esce a cena con un amico di famiglia pur di riuscire a scroccargli un po' di soldi. Sara, la madre di Harry, è un'anziana vedova che divide la sua vita fra casa, TV e le sue amiche di quartiere. Il giorno in cui le arriva una telefonata per informarla che ha vinto un gioco di un programma te­ levisivo, convinta di dover andare in televisione, decide di mettersi a dieta così da rientrare nel vestito rosso che tanto piaceva a suo marito. Per vincere la fame e la voglia di dolci, Sarah si affiderà ad un dietologo che le prescrive delle pil­ lole colorate per dimagrire in modo facile e veloce. A muovere la volontà dei protagonisti fin dai loro primi passi è il desiderio di migliorare la propria condizione e di perseguire il proprio ideale di se stessi. I quattro personaggi, in fondo, cercano solo un modo per raggiungere obbiet­ tivi quanto mai legittimi: ritagliarsi una propria sicurezza economica, mettere su famiglia, aprirsi un proprio studio professionale, dimagrire per essere più sicuri di sé, sono tutte ambizioni alquanto comuni e socialmente accettate. Il pa­ radosso nasce quando la loro condizione li spinge a farlo attraverso mezzi non propriamente legittimi, mettendo alla prova il loro fisico e il loro equilibrio psi­ cologico. La condizione esistenziale dei personaggi diventa così la metafora di una società in cui il successo rappresenta la prima ragione di vita di ogni indi­ viduo, pur imponendo, allo stesso tempo, modelli ideali praticamente irrag­ giungibili: in questa lotta alla sopravvivenza diventa allora scontata la necessità di violare le regole, sociali, morali, etiche, qualsiasi esse siano: tutto diventa concesso, sopratutto perché in fondo non c'è niente da perdere. Il giro di droga di Harry e Tyrone sembra portare i suoi frutti e, fra feste a base di alcool e droga e pomeriggi passati ad ascoltare musica techno, i due

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riescono a raccogliere i soldi necessari per il colpo grosso; la relazione fra Harry e Marion va a gonfie vele, essi vedono avvicinarsi sempre di più il giorno in cui riusciranno a raggiungere una stabilità economica; in fine Sarah, grazie alle pillole prescritte dal dietologo riesce a perdere i suoi chili di troppo così da riuscire a chiudere senza fatica la zip del suo vestito rosso e meritan­ dosi il posto a sedere migliore nella fila delle amiche di quartiere. Una strana gioia aleggia nelle atmosfere del film; non è quella gioia reto­ rica tipica tanto delle commedie quanto dei film drammatici più convenzio­ nali a cui spesso si assiste al cinema; è una gioia amara che nasconde dentro di sé il seme del fallimento. Lo stesso Aronofsky, in un extra del DVD del film, sottolinea, ad esempio, l'ambiguità che si nasconde nella scena in cui Harry e Marion sono sugli scogli di Coney Island. I due pensano alla madre di Harry e a come poterle dimostrare il loro affetto nei suoi confronti con un regalo; la prima cosa a cui Harry pensa è domandarsi quale fosse la “droga” da cui dipende la madre, decidendo così di comprarle una televisione nuova. Anche in questo atto di bontà i due non riescono a pensare (a pensarsi) all'infuori della tossicodipendenza. Più in generale, i personaggi nutrono sostanzialmente una speranza conta­ minata di illusione. Tuttavia, cos'altro può essere la speranza se non credere e sperare che una situazione cambi, che il futuro ci conceda una condizione mi­ gliore e diversa da quella che ci offre il presente? E forse il rischio che si na­ sconde dietro qualsiasi aspirazione, il quale, nel momento in cui si percepisce l'assenza di alternative, non contempla prudenza. In un'intervista di Michael Merano per scifi.com Aronofsky nota come Requiem for a Dream possa essere letto come un film sulla “assenza”: manca, infatti, nei personaggi una buona ragione per poter pensare che il futuro possa conservare per loro qualcosa di meglio, manca forse perfino un'alternativa e la possibilità di scegliere. Il loro agire è mosso dall'inconsapevolezza, dall'ingenuità, dall'ignoranza? Forse questo avrebbe reso il film più rassicurante, ma purtroppo i personaggi sono ben consci della propria condizione; è proprio Sarah a dimostrarlo, lo fa nella scena in cui Harry va a trovarla dopo l'ultimo furto della televisione. La sequenza riesce ad essere tanto “ironica” (nel senso psiconalitico del termine) quanto tragica e commovente, rivelandosi uno dei passaggi chiave del film; a renderla tale è sopratutto la coinvolgente interpretazione di Ellen Burstyn. Quando Harry arriva lì per farsi perdonare del suo comportamento scopre che alla madre sono state prescritte delle anfetamine per dimagrire. Harry, 48

ben consapevole di ciò che può causare l'abuso di quelle sostanze, cerca di convincerla a smettere, ed è qui che Sarah rende palese le sue ragioni al fi­ glio così come a sé stessa: ciò che logora la sua anima è la solitudine e il senso di inutilità. Il vestito rosso, dimagrire, la comparsa in TV, non sono altro che “un motivo per alzarsi al mattino... un motivo per sorridere e pen­ sare che il domani sarà bello!”. I desideri coltivati dai quattro protagonisti ad un certo punto del film si in­ cagliano, rimangono inevitabilmente intrappolati in un mondo ideale, dove fa­ ticano a realizzarsi e a divenire realtà. Da questo punto in poi il film intraprende una vorticosa discesa rivelandosi agli occhi dello spettatore come una vera e propria parabola della sofferenza, una lenta ed estenuante attesa di quel miracolo risolutore che tarda a venire.

Fall: la caduta Se in Pi greco è stata scelta una fotografia e una messa in scena, per certi versi, grezza e quasi scarna (scelta stilistica dettata in parte dall'esiguità del bud­ get), nel caso di Requiem for a Dream, grazie anche ad una produzione più con­ sistente, il regista opta per una messa in scena più complessa ed estetizzante, pur conservando un certo grado di crudezza estetica. Al posto della pellicola 16mm in bianco e nero viene scelto un 35mm a colori e l'utilizzo di diverse ca­ mere da presa sia in pellicola che in digitale, concedendo, in questo modo, una maggior libertà espressiva al direttore della fotografia Matthew Libatique. La fotografia segue passo passo il percorso di autodistruzione dei perso­ naggi, lasciando che le loro sensazioni si riflettano nei luoghi che occupano. La luce estiva, dai colori opachi e sbiaditi del primo capitolo, viene meno a poco a poco che ci si avvicina al secondo capitolo, in cui predominano la pe­ nombra dei vicoli bui di Brooklyn e le basse luci che a stento illuminano gli interni con toni freddi e cupi. La luce naturale degli esterni viene lentamente sostituita da quella artificiale, in cui, alla penombra degli appartamenti di pe­ riferia, si alterna la luce bianca e asettica dei neon; in entrambi i casi i colori tendono a diventare sempre più saturi così come le ombre diventano sempre più forti e marcate. Di quella luce eterea e quasi sognante dell'inizio non vi è più traccia; i corpi vengono metaforicamente tagliati e plasmati dalla luce

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fino ad assumere lineamenti netti e indissolubili, sembra quasi che questi si arrendano alla luce così come i personaggi alla realtà. Ad una fotografia fortemente espressiva si aggiunge un uso particolarmente minuzioso degli effetti speciali. In occasione della produzione del film, Aro­ nofsky e il suo produttore Eric Watson fondano la Amoeba Proteus, una casa di produzione di digital effect in cui viene prediletto l'utilizzo di effetti speciali so­ stanzialmente vecchi, riutilizzati tuttavia in modi del tutto innovativi. A curarli sarà Dan Schrecker, ex-compagno d'università del regista. Lungi dal mettere in scena barocchi effetti 3D ampiamente in uso nel cinema mainstream, nel film gli effetti in postproduzione verranno misurati con il contagocce, preferendo piut­ tosto interventi nel profilmico in fase di ripresa. Un caso di questi è, per esem­ pio, il trucco utilizzato per invecchiare e rendere più consumato il fisico e il volto di Sarah Goldfarb. Puntando ad ottenere sullo schermo un'immagine totalmente “naturalistica”, Aronofsky preferisce estenuanti sedute di trucco piuttosto che esosi interventi in computer graphic da applicare in fase di postproduzione. Se si confronta questo caso con le decisioni prese da David Fincher ne II curioso caso di Benjamin Button si noterà come questo tipo di scelte influenzi total­ mente la resa estetica complessiva del film. Nel secondo caso gli evidenti digi­ tai effect in 3D (in modo particolare quelli che riguardano l'aspetto fisico di Brad Pitt e di altri attori), impongono allo spettatore un'atmosfera surreale infran­ gendo quel realismo fotografico peculiare della ripresa audiovisiva. In questo modo gli effetti speciali e gli elementi del profilmico (compresi gli attori) si col­ locano in due livelli estetici sostanzialmente differenti, in cui viene negata la loro reale compresenza. Tutto ciò colloca la storia su un piano estetico di finzione esplicita che preclude qualsiasi possibilità di tornare indietro e recuperare la cre­ dibilità dello spettatore. Ci si trova così ad immergersi in un contesto narrativo per certi versi “favoloso”, allo stesso modo in cui si riconoscono simbolicamente accettabili gli elementi di un film di animazione. Ciò non avviene in Requiem for a Dream, in cui gli effetti speciali intervengono direttamente sul set; in que­ sto caso la compresenza durante la ripresa dei diversi elementi sulla scena con­ serva intatta la condivisione di uno stesso livello estetico. È una forma di messa in scena che richiama, se vogliamo, un certo tipo di estetica filmica tipica degli anni Ottanta e Novanta, spesso presente in film horror e d'azione destinati al grande pubblico, così come nei B-movie, ma che ha trovato successivamente una nuova ri-contestualizzazione nel cinema di grandi registi come Tim Burton (con Beetlejuice, Edward mani di forbice, Batman), David Cronenberg (con Vi50

deodrome, La mosca, Crash) o David Linch (con Heraserhead, The Elephant Man, Velluto Blu, Strade perdute). Dal canto suo, Aronofsky rinnova questo stile, lo reinterpreta a seconda delle sue esigenze narrative e lo ricontestualizza a sua volta in una chiave di lettura tutta contemporanea, riuscendo a dar vita a scene quanto mai perturbanti, per certi versi vicine a quello stile che ha con­ traddistinto il genio di David Linch. Ne sono un esempio la vena infetta di Harry, il frigorifero irrequieto e minaccioso di Sarah, l'invasione di Tappy Tobbins e del suo studio televisivo nel salotto di Sarah. Questi espedienti tecnico-stilistici hanno reso possibile una sorta di reificazione della sofferenza, entrando in rap­ porto diretto con il corpo dei personaggi e manifestandosi agli spettatori sullo schermo quasi come se fossero elementi del profilmico. Gli effetti speciali inseriti nel film in postproduzione prevedono la rivisita­ zione di alcuni espedienti classici di montaggio, diventando spesso parte della stessa sintassi filmica. Nonostante Requiem for a Dream si divida fra due sto­ rie principali sostanzialmente parallele (quella di Harry e quella della madre Sarah) per permettere al film di scorrere naturalmente come un unico testo nar­ rativo, Aronofsky e il suo montatore Jay Rabinowitz ricorrono a quello che il regista definisce hip-hop montage: una serie di brevi inquadrature, fra campi medi e particolari, le quali si intrecciano fra loro sincronizzate con degli effetti sonori e sorrette dalla musica, quasi come se si trattasse di un videoclip musi­ cale. Il regista ci tiene più volte a sottolineare come la sua intenzione non fosse fare un film per Mtv, quanto regalare allo spettatore un'esperienza adrenalinica unica, qualcosa che risultasse come “un'ora e mezza di montagne russe”. In un'intervista, pubblicata da Reel.com, Aronofsky fa alcune considerazioni sul montaggio del film: “Abbiamo lavorato su Avid - un software di montag­ gio digitale - e penso che fosse l'unico modo per montare un film del genere. Penso che se il film fosse dovuto essere mon­ tato con metodi tradizionali, non avreste mai potuto vederlo. L'unica ragione per cui questo film esiste è perché esiste la tec­

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nologia digitale”. Se, tuttavia, le pubblicità in stile Mtv appaiono come pura forma senza alcun contenuto, nel suo caso il tutto è sorretto da una complessa struttura narrativa in cui la profondità dei personaggi collabora a comporre un universo capace di vita propria e di trascinare dentro di sé lo spettatore. Fin dal susseguirsi delle prime inquadrature del film Aronofsky scrive le re­ gole del proprio linguaggio audiovisivo, reiterando alcuni particolari effetti di montaggio e ri-contestualizzandoli in scene successive, diverse fra loro tanto per affinità quanto per contrasto. Durante la visione del film questi vengono percepiti come una sorta di deja-vu, agendo nella mente dello spettatore e ri­ chiamando alle scene in cui sono apparsi precedentemente. È il caso dello splitscreen in cui lo schermo viene diviso verticalmente a metà per lasciar scorrere in ognuna di esse due sequenze diverse. Questo tipo di tecnica viene giustifi­ cata dal regista come un'evoluzione dello stile che ha contraddistinto Pi greco, in cui l'unico punto di vista assunto è quello di Max Choen. Nel secondo lun­ gometraggio lo split-screen si rivela l'unico strumento possibile per ottenere sullo schermo la condivisione di uno stesso momento vissuto soggettivamente da due diversi personaggi sulla scena. Se questo espediente viene usato all'ini­ zio per sottolineare la lontananza fra madre e figlio, nel momento in cui Harry ruba la televisione a Sara, in un secondo momento lo stesso effetto viene ado­ perato per sottolineare l'unione dei corpi di Harry e Marion nel fare l'amore. Un espediente come lo split-screen, spesso usato semplicemente per sottolineare la contemporaneità di due azioni, si rivela nel secondo caso un modo per rompere la classica banalità che spesso rischia di compromettere la maggior parte delle scene di sesso nei film, riuscendo ad esprimere, in un solo tempo, la sensualità e la tenerezza dei due personaggi. Un altro espediente particolarmente d'effetto è quello di interrompere un'azione sostanzialmente surreale con un brusco jump-cut che riporta lo spettatore ad un attimo prima che la scena avvenisse; è il caso in cui Harry immagina di rubare la pistola del poliziotto che gli sta a fianco o quando Marion infilza con una forchetta la mano di Arnold mentre ci prova con lei. Questo tipo di sequenza, usata spesso in modo ironico nel ci­ nema con temporaneo, riesce a creare nello spettatore la sensazione di eccita­ zione derivante da un desiderio perverso, smorzato un attimo dopo, dal suo infrangersi col presente, riuscendo, allo stesso tempo, a far provare “fisicamente” allo spettatore la stessa sensazione di impotenza che affligge i perso­ naggi. Un altro caso ancora sono le sequenze veloci di brevi inquadrature corredate di effetti sonori che immortalano il consumo delle sostanze di cui

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abusano i personaggi, creando così una sintesi di momenti diventati ormai rou­ tine per il tossicodipendente. Lo stesso si può dire per fish-eye (ottica gran­ dangolare a “occhio di pesce”) e per la camera da presa posizionata a piombo, perpendicolare al suolo, in ascensione e in rotazione sull'asse di ripresa, in cui si accentua l'effetto di straniamento causato dall'assunzione di droga, il senso di alienazione e di solitudine provato dai personaggi. Ancora si può menzionare la tecnica classica delle immagini in dissolvenza per rappresentare le allucina­ zioni che prendono forma nella mente dei personaggi. Così come in Pi greco, anche in Requiem for a Dream ritornano le dis­ solvenze in bianco, i time lapse, in cui si accentua lo stato di frenesia dei per­ sonaggi attraverso l'aumento della velocità di successione dei fotogrammi, oltre che la tecnica della Snorri-Cam. In questo caso, l'ultimo espediente ci­ tato assume un valore ancora più simbolico: esso rappresenta non solo la sem­ plice alienazione dei personaggi, ma anche il picco massimo di sofferenza da essi raggiunto. Perseverando nel proseguire il loro percorso di autodistru­ zione fino a compromettere il loro fisico e la loro anima, i quattro personaggi arrivano ad un punto di non ritorno; qui la tecnica della Snorri-Cam sottoli­ nea in modo quanto mai efficace il loro distacco dalla realtà come condizione necessaria per permettere di sopravvivere alle loro sofferenze auto-inflitte. Più in generale, lo stile diventa così un punto di congiunzione anche fra i due universi paralleli dei personaggi principali, Sara e Harry, i quali, nono­ stante vivano due mondi totalmente differenti, si ritrovano nella stessa con­ dizione psicofisica ed esistenziale, raggiunta attraverso percorsi differenti. Tutto ciò si unisce alla colonna sonora; non solo quella musicale, bensì tutto quel complesso sistema di suoni incastonati fra loro su diversi livelli percettivi, spesso in sincrono con le immagini. Aerei di passaggio, clic di tasti del telecomando, sorsi di caffè, registratori di cassa, flusso di sostanze, de­ glutizione di pillole, accendini, combustione di marijuana, sniffate di cocaina: tutto accentua lo stato di frenesia che investe i personaggi, enfatizzando tanto le loro azioni quanto le loro percezioni. Se Pi greco può essere considerato un film per gran parte sostenuto dal mon­ taggio, in Requiem for a Dream tutto scorre in funzione della colonna sonora. È la musica, forse, il pilastro portante di tutto il film; questa permette di comuni­ care direttamente all'inconscio dello spettatore, trasmettendo in presa diretta lo stato emotivo dei personaggi prima ancora che questi diventino palesi alla loro e alla nostra coscienza. Nella colonna sonora musicale si alterna musica techno

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a brani hip-hop, inquietanti melodie di pianoforte a suoni di tastiere, sequenze di archi missati a musica elettronica. Atmosfere dolci e serene si alternano ad altre euforiche e frenetiche, ad altre ancora, più cupe e tragiche: ogni nuovo ba­ gliore di speranza finisce inevitabilmente per spegnersi in una nuova caduta, allo stesso modo, la colonna sonora finisce per ritornare inesorabilmente sem­ pre sul solito tema musicale presente già nelle prime scene del film. Lux Ae­ terna, il brano principale composto da Clint Masell, concilia coinvolgenti giri di archi con il missaggio di suoni elettronici e di effetti sonori. Gli archi sono stati registrati in studio e arrangiati dal Kronos Quartet, famoso quartetto d'archi fon­ dato da David Harrington, il quale esegue musica contemporanea e vanta colla­ borazioni con musicisti del calibro di Philip Glass. Il tema principale del brano riesce a cogliere tutta la fatalità e la tragicità delle vicende; attraverso diverse frasi musicali intrecciate in differenti chiavi melodiche, finisce per ritornare sempre sulla stessa nota tonale, in una sorta di spirale di sequenze sempre più grevi. Il tutto prende forma in uno scorrere di suoni e immagini continue, accelerando il ritmo del film, senza mai concedere allo spettatore il tempo di prendere fiato.

Winter: l'impatto Suono e immagini investono l'apparato sensoriale dello spettatore, prima ancora che possa elaborare razionalmente ciò che sta succedendo sullo schermo; è questa la materia attraverso cui viene esperita la condizione di impotenza vissuta dai personaggi a cui lo spettatore non ha nessuna possibi­ lità di sottrarsi. Come già era stato accennato, in un primo momento tutti sono, ben o male, consapevoli dei rischi che stanno correndo: Marion sa che alla lunga non potrà sopportare la violenza che infligge al suo stesso corpo prostituendosi in cambio di soldi e droga, Tyrone conosce benissimo i rischi che corre ma è convinto di avere la situazione sotto controllo; Harry lo dimostra, parados­ salmente, avvertendo la madre sull'abuso delle anfetamine assunte per dima­ grire, e lei, a sua volta, si giustifica con la sua solitudine. Evidentemente tutto questo non è bastato a fermarli. Sullo schermo del nuovo televisore di Sarah Goldfarb e sulle strisce co­ lorate di fine-trasmissione, con un enorme frastuono, cala la scritta “Winter”.

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In preda ad una crisi isterica causata dall'abuso di anfetamine Sarah esce di casa alla ricerca degli studi televisivi, vagabondando senza una reale meta. Tyrone e Harry intanto hanno perso l'occasione di comprare la loro partita di eroina a causa di tafferugli avvenuti durante lo scambio; non sapendo cosa fare decidono di partire per la Florida con la speranza di riuscire a trovare i trafficanti di droga. A causa di una guerra fra bande della zona, non c'è alcun modo di averne. Marion è stanca di aspettare, così, pur di ottenere una dose, finisce a casa di Big Tim, un uomo di colore che dà via la droga solo in cam­ bio di sesso. I quattro personaggi hanno totalmente perso il controllo della si­ tuazione, sono ormai bloccati in un vortice senza via d'uscita, il suono tagliente degli archi modificato elettronicamente accompagna le loro azioni. Le immagini incominciano a susseguirsi sempre più velocemente, la musica e gli effetti sonori battono il ritmo del montaggio: la tossicodipendenza porta i personaggi a seguire una sorta di istinto malato attraverso cui le loro decisioni non appaiono più come scelte, bensì come conseguenze. Le immagini inse­ guono i tempi dei loro corpi. In una vorticosa accelerazione del montaggio le sequenze e le inquadrature battono il tempo di pochi secondi ciascuna, gli eventi che toccano i quattro personaggi arrivano ad intrecciarsi in un complesso mon­ taggio alternato, nonostante i loro piani temporali non coincidano: sono le sen­ sazioni dei personaggi a dettare i tempi del film. Sarah viene prelevata dalla polizia e trasferita in un istituto psichiatrico dove riceve terapie che rasentano la tortura; Marion, pur di ottenere la droga di Big Tim, partecipa ad un'orgia di fronte ad una decina di perversi uomini dell'alta borghesia newyorkese; Harry finisce all'ospedale a causa del suo braccio infetto in stato cronico, Tyrone fi­ nisce in prigione ai lavori forzati. Perseguendo la soddisfazione dei loro biso­ gni superficiali e convinti di riuscire ad avere il totale controllo sugli eventi, i personaggi sono ad un punto in cui il loro corpo non può più andare oltre. Dopo l'elettro-shock di Sarah, la sodomizzazione di Marion, l'amputazione del brac­ cio di Harry e gli estenuanti lavori forzati di Tyrone, dei quattro personaggi non rimane altro che delle anime intrappolate in corpi martoriati. Anche se i sogni sono, per definizione, qualcosa che abita un mondo ideale, non è del tutto corretto pensare che questi non abbiano niente a che fare con la realtà condivisa. Le ambizioni nascono sempre dalla percezione della realtà ed è qui che, di solito, viene perseguita la loro realizzazione. Quando, tuttavia, delle ambizioni risultano sostanzialmente incoerenti con la propria realtà, esse arrivano lentamente a scollarsi da essa. In più occasioni Aronofsky sottolinea

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come i personaggi del film stiano inseguendo sogni che non riusciranno mai a realizzare: “quando ti cacci in fantasie del genere, crei una sorta di buco nel tuo presente, provi poi a riem­ pirlo con qualsiasi cosa, fino a fare di tutto per dimenticare il presente, tutto solo per conti­ nuare a credere nella tua fanta­ sia e nel futuro”. In questo modo, delle ambizioni poten­ zialmente realizzabili non rimangono altro che pure illusioni, incapaci di su­ perare la loro natura ideale e di prendere forma attraverso l’agire nel proprio vissuto. Una volta raggiunto questo punto di non ritorno, non è facile com­ prendere quanto questo sia stato un percorso obbligato, dettato da eventi ine­ vitabili, oppure quanto sia stato frutto delle scelte totalmente consapevoli dei personaggi. Una volta arrivati alla fine, ai quattro personaggi non rimane che evadere dai propri corpi così come dalla realtà stessa, rifugiandosi in quel mondo ideale in cui i loro sogni sono rimasti inesorabilmente intrappolati. E forse questo il senso delle carrellate all'indietro che, dopo l'estenuante espe­ rienza corporea vissuta nei panni dei personaggi, ci allontana da essi, mo­ strandoceli, per un'ultima volta, stavolta dall'esterno, in tutta la loro sofferenza. Ci verrebbe naturalmente da pensare che a seguire l'inverno ci sarebbe po­ tuta essere probabilmente la primavera, simbolo della rinascita; questa, tut­ tavia, non ci viene mostrata nel film. Il regista ci lascia con le immagini dei personaggi racchiusi su se stessi, quasi a richiamare la posizione fetale; è questo forse l'unico appiglio su cui possiamo trarre, se vogliamo, una scintilla di speranza, in un finale quanto mai catastrofico. Triste consolazione dello spettatore potrebbe essere pensare che la rinascita venga lasciata alla sua im­ maginazione, ammettendo in questo modo che solo in essa la speranza può prendere forma. Se è dai loro sogni che il loro decadimento ha avuto inizio è paradossalmente lì l'unico luogo in cui i personaggi possono sperare di tro­ vare un piccolo barlume di consolazione.

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Capitolo terzo

L'Anima: L'Albero della vita

Il terzo lungometraggio di Darren Aronofsky è The Fountain - L'Albero della vita (2006). L'Anima: una storia d'amore, nonché una vera e propria fa­ vola spirituale, la quale si dirama in diverse trame, ognuna ambientata in un'epoca differente; queste finiranno per ricongiungersi in un unico ambiente metafisico fuori dal tempo e dallo spazio. La prima è ambientata nel XVI se­ colo, il protagonista è Tomàs, cavaliere al servizio della principessa spagnola Isabel, che si inoltra verso l'altro capo del modo alla ricerca dell'Albero della Vita. La seconda riguarda la ricerca forsennata dello scienziato Tom Creo nel trovare una cura al cancro, questo non solo per ambizione scientifica, ma so­ prattutto per salvare a tutti costi la moglie Izzi dalla morte. La terza trama sembra essere ambientata in un tempo non ben definito nei meandri più re­ conditi dell'universo, dove c'è un uomo ed un albero a cui è profondamente legato, il suo obbiettivo sembra essere raggiungere la vita eterna. Il film si ri­ vela la più grande prova mai affrontata da Aronofsky nei panni di regista, un percorso sicuramente non privo di ostacoli, irto di delusioni e difficoltà che non gli impediranno di portare a termine il proprio lavoro; lo stesso vale per la sua troupe ormai consolidata, quanto mai unita ed affiatata. Dal canto loro, Hugh Jackman e Rachel Weisz figurando nei panni dei protagonisti in tutte e tre le trame parallele, riescono a dare il meglio di sé e a calarsi totalmente in ognuno dei personaggi interpretati. Già nel 1999 durante le fasi conclusive di Requiem for a Dream, Aro­ nofsky annunciava un progetto quanto mai ambizioso dal nome The Last Man (titolo fittizio scelto per non svelare da subito la sua trama), per cui era in trattative con la Warner Bros.; il film prevede una produzione di 70 mi­ lioni di dollari e Brad Pitt come attore protagonista. Si tratterebbe di un ge­ nere totalmente nuovo di fantascienza, definito dal regista una sorta di film

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post-Matrix. In passato, grazie alla geniale intuizione di Stanley Kubrick, 2001". Odissea nello spazio (1968) ha rappresentato il primo esempio di fantascienza ad affrontare la realtà fisica, introducendo sullo schermo l'as­ senza di gravità, il silenzio in assenza d'aria e tecnologie realmente futuri­ bili. Dieci anni dopo, Star Wars (1977) di George Lucas ha introdotto i viaggi e le guerre inter-stellari, portate sullo schermo attraverso una mi­ scela di elementi provenienti dall'immaginario fumettistico e televisivo; la saga, oltretutto, è riuscita a diventare un vero e proprio evento massmedia­ tico unico del suo genere. In entrambi i casi, oltre alle particolarità della storia e dei temi trattati, la messa in scena gode di un realismo fotografico e di una fisicità degli elementi del profilmico impossibili (per definizione) da ottenere attraverso le più moderne tecniche di computer graphic. Alle porte del 2000, Matrix rappresenta una nuova rivoluzione: nel film viene in­ trodotto un nuovo tipo di immaginario tutto legato all'informatica e alla tec­ nologia digitale ma, soprattutto, introduce tematiche come la coscienza di se stessi e della realtà percepita, il tutto attraverso una trama fra il fanta­ scientifico e il cyber-punk. Anche in questo caso, per quanto possa essere surreale il contesto narrativo, l'azione passa sempre attraverso una messa in scena che esalta la fisicità dei corpi e degli spazi. Secondo Aronofsky, le in­ novazioni visive introdotte negli ultimi trentanni si sono sostanzialmente degradate a semplici convenzioni stilistiche, dipendenti dalla tecnologia e dagli effetti speciali digitali senza, tuttavia, riuscire a portare sullo schermo niente di originale. Se il regista già nel suo primo lungometraggio low-budget si è cimentato nel genere fantascientifico vicino al cyber-punk, questa volta il suo obbiettivo è dare forma ad un immaginario del tutto nuovo, una sorta di genere metafisico dall'estetica spettacolare, ricco di effetti speciali, e dalle profonde tematiche esistenziali, che riesca, in un modo o nell'altro, a mettere in scena le più intense esperienze spirituali. Quando Darren era ancora alle superiori, grazie al progetto School for Field Studies, nelle estati del 1985 e del 1986, ebbe modo di visitare le zone più re­ condite di Kenya e Alaska: quest'esperienza, a detta del regista, cambiò total­ mente la sua vita. Il progetto scolastico prevedeva viaggi di istruzione per gli studenti, l'approfondimento di materie scientifiche e la possibilità di fare ricerca sul campo con piante e animali del luogo. “Quest'esperienza ha fatto scaturire in me una sorta di gratitudine nei confronti del mondo naturale, legando la mia vita alle questioni ambientali, conferendomi una reale sensibilità nei confronti del 58

pianeta. Ho imparato, inoltre, a seguire il metodo scientifico dalle ipotesi fino alle conclusioni, questo ha totalmente cambiato il mio modo di lavorare”. Se il regista coltiva da tempo l'idea di girare un film del genere, il sog­ getto prende concretamente forma nelle lunghe passeggiate pomeridiane at­ traverso le strade di Manhattan in compagnia di Ari Handel, suo ex-compagno di college. Laureatosi in biologia, Ari Handel intraprese gli studi di neuro­ scienze all'università di New York; dopo aver conseguito il dottorato, stanco del lavoro in laboratorio, decise di lasciare il suo impiego da ricercatore. Dalle loro lunghe chiacchierate sulla natura, sull'universo, sul senso della vita e della morte, nascono i primi spunti su cui lavorare. Durante tutto il tempo in cui hanno lavorato assieme, mentre emergevano primi particolari delle trame, Ari Handel si assicurava che questi godessero di una certa plausibilità scien­ tifica e, approfondendo gli studi a riguardo, cercava nuovi spunti per il pro­ sieguo della storia. I due finiscono per approfondire diversi temi: dalla religione cristiana allo yoga, dal buddismo alla cultura maya, dalla storia del colonialismo spagnolo alla situazione psico-fisica dei malati terminali. Ri­ cordando i mesi in cui i due hanno incominciato a lavorare insieme al sog­ getto, Ari Handel racconta: “Ricordo che Darren mi diceva: ‘quanto potrebbe essere figo tagliare da una scena di battaglia in un lontano periodo storico a quella di un uomo che sta viaggiando solo per lo spazio per una qualche ra­ gione sconosciuta?’ ”. The Fountain ha impegnato Aronofsky e i suoi princi­ pali collaboratori per più di sei anni; dalla stesura del primo progetto fino alla vera e propria realizzazione, il film vivrà una vera e propria odissea, ri­ schiando perfino che le sue riprese non abbiano mai inizio. Questi sei anni, così come tutto ciò che può succedere ad una persona in questo arco di tempo, hanno inevitabilmente influenzato il lavoro che ha dato vita al film. Quando Aronofsky iniziò a lavorare alla sceneggiatura aveva da poco compiuto tren­ tanni, un’esperienza, per lui, particolarmente traumatica: “è un po' patetico da dire, ma quando arrivi ai trentanni è la prima volta in cui non sei più ven­ tenne e pensi: 'M**da!'. Improvvisamente ci sono bambini che sono praticamente ventenni e ora sono giovani, mentre per te i quaranta non sono più lontani” (J. Welland, Talking with the makers of “The Fountain”}. Un anno prima il regista era venuto a conoscenza del fatto che entrambi i genitori ave­ vano contratto il cancro, cosa che lo porta inevitabilmente a riflettere sulla morte: “loro l'hanno combattuto e sono riusciti a batterlo, ma la loro morta­ lità ha iniziato a mostrarsi”. In seguito, nel 2006, poco prima della conclu­ 59

sione della postproduzione del film, avrà dalla sua compagna (nonché prota­ gonista del film) Rachel Weisz il suo primo figlio. Prima ancora di dedicarsi in tutto e per tutto al progetto del nuovo lungometraggio, nello stesso 2001, Aronofsky è impegnato a Londra per la produ­ zione di Proteus, in co-produzione con David Twohy, una sorta di monster-movie ambientato in un sottomarino durante la Seconda Guerra Mondiale; il film uscirà nel 2002 con il nome di Below. Nell'estate dello stesso anno il lungometraggio da lui annunciato si rivela con il suo vero nome The Fountain, le cui riprese si svolgeranno in Australia, sotto la produzione di Warner Bros, e New Regency. Nel giugno 2002, in un incontro con Aro­ nofsky e il produttore Eric Watson, la Warner Bros, esprime le sue preoccu­ pazioni per un bilancio che continuava a crescere, minacciando di chiudere il progetto nel momento in cui non venisse trovato un cofinanziatore. Watson lancia una richiesta a tutte le società di produzione indipendenti per suppor­ tare il progetto e assume la Regency Enterprises per la coproduzione del film. L'inizio delle riprese viene fissato per la fine di ottobre 2002, queste si ter­ ranno nelle città di Queensland e Sydney, in Australia.

Australia: il film che non fu mai girato

Assicuratisi la produzione del film, Darren Aronofsky, Ari Hadel e Eric Watson intraprendono un lungo viaggio in Guatemala in cui hanno modo di visitare gli antichi villaggi maya. Ad interessarli particolarmente è una grotta nel villaggio di Cobàn, è lì che viene tradizionalmente collocato l'ingresso per Xibalba, luogo presso cui, secondo le leggende maya, si recherebbero le anime di tutti i defunti. I tre consultano i maggiori esperti della storia maya i quali saranno coinvolti nella lavorazione del film e studiano con attenzione l'estetica architettonica dei templi e delle piramidi tipiche del sud America. Nello stesso momento Aronofsky mostra alla troupe Aguirre - Furore di Dio (Warner Herzog, 1972) e La Montagna Sacra (Alejandro Jodorowsky, 1973), così da immergersi in quelle atmosfere che caratterizzeranno in seguito il set del film: da qui nascono le prime idee e i primi disegni che definiscono le scenografie di The Fountain. Quando nel 2002 la Warner Bros, decise che il film sarebbe dovuto essere gi-

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rato in Australia, Darren Aronofsky e i sui due colla­ boratori si trasferirono sulla Gold Coast per lavorare alla pianificazione del progetto. Una volta lì, insieme ad una troupe di circa quattrocentocinquanta persone, incomin­ ciano a prendere forma concretamente tutti gli ele­ menti del film: viene defi­ nita la struttura dei tre piani temporali, vengono disegnati i costumi e gli storyboard, si lavora ai plastici delle scenografie per studiare i movimenti dei per­ sonaggi e la loro messa in scena. Nei primi due anni di lavoro vengono definiti tutti i particolari del fdm mentre sul set vengono innalzate le enormi scenogra­ fìe comprendenti una piramide di oltre venti metri di altezza. Tutto è praticamente pronto per le riprese, se non fosse che la produzione non ha ancora la certezza di avere sul set l’attore per il ruolo del personaggio principale. Brad Pitt all'epoca rimase molto impressionato da Requiem for a Dream ed ebbe modo di leggere un riassunto in quindici pagine della sceneggiatura di The Fountain. Cerano ancora alcuni dubbi riguardo la caratterizzazione del personaggio e la sua interpretazione, così l'attore chiese di essere ricontattato appena la sceneg­ giatura fosse pronta; allora il ruolo femminile era già stato assegnato a Cate Blanchett. Due mesi prima dell'inizio delle riprese in produzione arriva la noti­ zia che Brad Pitt non è più disponibile per il film, la compagna Jennifer Aniston non era disposta a trasferirsi in Australia per il periodo delle riprese e lui, in se­ guito ad una crisi fra i due, non aveva intenzione di allontanarsi da lei. Poco tempo dopo, in realtà, l'attore fu impegnato per cinque mesi alle riprese di Troy, girato fra l'isola di Malta e il Messico. All'ultimo momento la produzione cercò di trovare un degno sostituto che soddisfacesse le loro esigenze, tuttavia, Tom Cruise era già impegnato in un altro progetto e Russell Crowe, nonostante fosse attratto dalla sceneggiatura, aveva da poco finito di girare Master and Com­ mander. Il tempo passava, i set del film erano praticamente pronti; la Warner Bros, dal canto suo non riuscì ad assicurare una star al film; intanto Cate Blan­ chett, dopo aver ottenuto un cachet per il lavoro svolto fino a quel momento, abbandona il film per dedicarsi ad un altro progetto.

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Il primo progetto del film prevedeva un budget di 70 milioni di dollari, duecento guerrieri maya e ottocento comparse, epiche scene di guerra alla Breaveheart e surreali scenari tropicali. Dopo due anni di lavoro e una pre­ produzione di 18 milioni di dollari, a causa dell'assenza di una star di rilievo che interpretasse il ruolo del protagonista, la Warner Bros, decise di accan­ tonare il progetto mettendo in magazzino il materiale per il film in vista di una riapertura del progetto. Non sapremo mai come sarebbe stato il The Fountain che sarebbe dovuto essere girato in Australia. Una volta chiusa la produzione del film, vengono abbandonate le loca­ tion e, in seguito, vengono vendute all'asta tutte le scenografie. Darren Aro­ nofsky intraprende un viaggio di riflessione di un mese in India e in Cina, prima di ritornare in America. Dopo alcuni mesi passati in totale immobi­ lità rinchiuso nel suo appartamento di Manhattan a giocare alla Xbox, nel­ l'estate del 2003 il regista si fa coraggio e decide di riprendere in mano il progetto. Nello stesso periodo il presidente di produzione della Warner Bros. Jeff Robinov offrì al regista di lavorare a Batman Begins; la risposta di Aronofsky fu: “Io voglio girare il mio film. Cosa posso fare in modo che questo accada?”. L'idea è quella di adattare il progetto ad una produzione indipendente, rivedendo la sceneggiatura, tagliando il superfluo e approfit­ tando, suo malgrado, delle possibilità offerte dai digital effect. Dopo due settimane di lavoro maniacale, il film viene totalmente riscritto in modo da essere prodotto con la sua vecchia troupe. Nel film lavoreranno, come sem­ pre, Matthew Libetique alla fotografia, Brian Emrich al sound designing, James Chinlund come producer designer (direttore artistico delle ambien­ tazioni e della scenografia), Jeremy Dowson e Dan Scrhecker ai visual ef­ fect, Clint Masell alla colonna sonora e Jay Rabinowiz al montaggio, oltre a tutti i vecchi collaboratori e tecnici che fino ad allora hanno lavorato ai suoi film. Nel febbraio del 2004 Jeff Robinov decide di riaprire la produzione, la Warner Bros, parteciperà con 20 milioni di dollari di budget, altri 15 milioni verranno dalla Regency Enterprices e da altre produzioni indipendenti. Con un assetto produttivo totalmente nuovo, dopo più di due anni dal loro abban­ dono, nel novembre del 2004 ripartono le riprese del film, questa volta il tutto avrà luogo a Montreal, in Canada. Rispetto al vecchio progetto, il film avrà un cast totalmente nuovo e, so­ prattutto, verrà girato con metà del budget previsto nella prima stesura. Nella 62

nuova versione del film Aro­ nofsky eliminerà le grandi battaglie previste fra conqui­ stadores e guerrieri maya: in diversi film come King Arthur e la trilogia de 11 Signore degli Anelli, da poco usciti in sala, vi era ormai un ampio uso di scene del genere, in più, la lotta solitaria del cavaliere Thomas contro i guerrieri maya avrebbe enfatizzato di più la metafora del suo dramma individuale e la sua battaglia per conquistare la morte. Per il ruolo maschile di protagonista Aronofsky avrà sul set Hugh Jackman (reso famoso dal ruolo di Wolverine in X-Merì). Nonostante il regista cono­ scesse Jackman solo per la sua interpretazione nei panni del supereroe, rimase particolarmente impressionato dalla sua recitazione in The Boy From Oz, un musical in scena a Broadway. Aronofsky ebbe modo di conoscere personal­ mente l'attore dietro le quinte dello spettacolo, proponendogli in seguito di la­ vorare al ruolo di protagonista del film; l'attore, particolarmente entusiasta del ruolo, accetterà di partecipare al film pur se con un cachet non particolarmente consistente. Per entrare nei panni di Tommy, abitante della biosfera spaziale, Hugh Jackman dovrà perdere più di dieci chili e praticare per un anno Thai Chi, così da riuscire ad assumere, sospeso nell'aria, la posizione yoga del loto. Sarà lui stesso a consigliare e a convincere il regista a scritturare Rachel Weisz per il ruolo di protagonista femminile. Per prepararsi al difficile ruolo di Izzi, malata di cancro, Rachel Weisz legge diversi libri sull'argomento e frequenterà per diverso tempo centri dedicati all'assistenza di malati terminali, rimanendo stupefatta dal coraggio con cui alcuni di loro, anche giovanissimi, riescono ad affrontare con serenità la propria morte. Entrambi gli attori racconteranno del film come di un'esperienza quasi mistica, in cui hanno avuto modo di esplo­ rare aspetti della propria emotività mai toccati prima. Qualcosa del genere è possibile solo grazie alla grande sensibilità del regista e all'ambiente di lavoro creatosi sul set, dove la troupe sembra essere diventata ormai una grande fa­ miglia. Gli attori hanno lavorato in un'intimità tale da riuscire a mettere total­

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mente a nudo la loro emotività, dando così maggiore spessore alla personalità dei personaggi. Per il resto del cast, Aronofsky ricorrerà a gran parte degli at­ tori già comparsi nei suoi film precedenti; è il caso di Ellen Burstyn (nei panni di Sarh Goldfarb in Requiem), Mark Margolis (attore non protagonista in Pi greco e presente con un piccolo carneo nel secondo lungometraggio), così come Sean Patrick Thomas e Donna Murphy. Della prima versione di The Fountain sarà concessa dalla Warner Bros, la pubblicazione della graphic novel omonima, edita nel 2005 da Vertigo, sotto eti­ chetta DC comics (celebre casa editrice di fumetti) e illustrata da Kent Wil­ liams. Il fumetto è la prima iniziativa di un'ampia operazione di pubblicizzazione che seguirà il film fino alla sua uscita nelle sale. Nonostante fosse stata annunciata per il 13 ottobre 2006, la data dell'uscita del film fu ri­ tardata al 22 novembre, così da creare un passa parola sulle notizie riguardanti il film. Qualche mese prima Aronofsky aveva deciso di condividere la sua sce­ neggiatura con undici artisti che avrebbero dovuto reinterpretarla attraverso altri mezzi d'espressione. A partecipare al progetto saranno Phil Hale, Martin Wilner, Jason Shawn Alexander, Kostas Seremetis, Dave Gibbons, Barron Sto­ rey, James Jean, Jim Lee, Olivier Bramanti, Seth Fisher e Bill Sienkiewicz; le loro opere saranno pubblicate sul sito ufficiale del film. Nello stesso periodo fu disponibile in rete The Fountain Remixed, una pagina contenente una gran quantità di user-generated content, in cui era possibile remixare la colonna so­ nora del film, caricare il lavoro sul web ed ascoltare gli altri lavori degli utenti. Aronofsky decise di pubblicare anche un libro sul film che conteneva lo script originale, alcune foto di scena e interviste inedite delle persone che avevano preso parte alla realizzazione del film; in seguito sarà messo in rete dagli stessi fan del film un forum su cui vengono discussi i diversi significati assunti dalla trama del film.

Dal buio verso la luce

In un'intervista nel backstage del film, Aronofsky accenna alle difficoltà presenti nella costruzione della messa in scena e, in particolare, nelle fasi di ripresa: “per quanto il lavoro vada nelle pagine del copione e negli schizzi con carta e penna, questo rimane sempre un mezzo bidimensionale, finché poi

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non ci si ritrova con gli attori in carne ed ossa in uno spazio tridimensionale”. In tutto il film risulta alquanto evidente come il lavoro di messa in scena di The Fountain risulti molto più complesso dei primi due lungometraggi: ven­ gono privilegiati movimenti di camera in spazi più ampi anziché la giustap­ posizione di brevi inquadrature in montaggio, viene costruita un'estetica ed una fotografia più complessa, vengono messe in scena scenografie più ela­ borate, dispiegate in tutte e tre le dimensioni. Il film si apre con una scena am­ bientata nella foresta pluviale in cui il conquistador Tomàs combatte contro alcuni guerrieri maya; a questa ne segue un'altra in cui lo stesso attore Hung Jackman nelle vesti di un asceta buddista fluttua in una bolla dispersa nello spazio assieme ad un albero completamente spoglio. Entrambe le scene si svolgono nella totale penombra: la prima, illuminata solo da alcune torce in­ fuocate, si svolge nella quasi assenza di luce, la seconda e illuminata da una luce fredda e cupa che rende la scena quasi monocromatica. Il film introduce lo spettatore in un buio quasi totale che, seguendo lo sviluppo delle trame e dei personaggi, vira lentamente verso la luce, fino ad abbagliare nel finale il protagonista così come lo spettatore. Qualcosa di simile avviene nelle scene ambientate nel presente, in cui i laboratori dell'ospedale risultano illuminati per lo più da una luce soffusa con dominanti in dorato, luci abbastanza inso­ lite per le sale di ospedale (nella gran parte dei film illuminate dalle luci bian­ che dei neon) che conferiscono a tutte le scene un certo tono surreale; a queste si contrappone la penombra delle camere della casa del protagonista. Solo raramente è possibile vedere il bagliore della luce bianca in tutta la sua pu­ rezza, ciò avviene esclusivamente in presenza della protagonista femminile, sia nei panni di Izzi sia in quelli della principessa Isabel. Nelle scene am­ bientate nel presente, la luce bianca compare, in particolare, in quei momenti in cui la protagonista prende coscienza del sopraggiungere della morte. E questa stessa luce bianca ad abbagliare il cavaliere Tomàs nel momento in cui la principessa Isabel lo investe del compito di trovare per lei l'Albero della Vita; o, ancora, illumina il dottor Tom Creo nel momento in cui si trova fac­ cia a faccia con la morte della compagna, durante il suo tentativo di animarla e prendendo atto del fatto che per lei non c'è più niente da fare. Una luce si­ mile, per quanto più neutra e pacata, è presente in esterno, durante i funerali di Izzi, riflessa dal bianco della neve. Proprio la luce è metafora del confronto della troupe di mendici e del dottor Creo con la morte. Più in generale, nel film l'elemento narrativo della morte, spesso connotato negativo nell'imma­

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ginario collettivo, viene qui invertito di segno: la protagonista vive la sua morte come un percorso di ricongiungimento con la natura e non come un av­ venimento tragico; la morte, paradossalmente, rappresenta per lei l'evento più importante della sua esistenza. Pensando alla scenografia, le ambientazioni del XVI secolo, la maesto­ sità degli interni del castello, l'etica cavalleresca che muove Tomàs: tutto ri­ chiama ad un immaginario favoloso intriso di misticismo non propriamente contestualizzabile, in cui vengono scambiati talismani e si svolgono pic­ coli gesti rituali. Così come la fotografia, l'architettura delle scenografie crea diversi richiami fra la trama ambientata nel presente e quella ambien­ tata nel XVI secolo. I colonnati del museo, in cui Izzi viene colta dal ma­ lore sotto un simbolico fascio di luce bianca, richiamano l'architettura gotica presente nella sala della principessa, nel momento in cui mostra al cava­ liere Tomàs il pugnale maya e la mappa della piramide perduta. L'abba­ gliante luce bianca che investe Izzi nel momento della sua morte, ritorna ancora simbolicamente nella Spagna del XVI secolo e fa da raccordo a tutte e tre le trame nel momento in cui il protagonista si avvicina al suo obbiet­ tivo di raggiungere la vita eterna. Questi, così come altri innumerevoli par­ ticolari, creano una sofisticata e infinita rete di significati fra una trama e l'altra, permettendo così una lettura pluridimensionale della narrazione. Lo stesso accade in montaggio, in cui, ancora una volta, vengono scritte al­ cune forme di messa in scena che si ripetono in occasioni differenti, spesso per accentuare le analogie che intercorrono fra i personaggi delle diverse storie parallele: è il caso dell'insolita panoramica a centottanta gradi per­ pendicolare al terreno che segue la corsa della macchina del dottor Tom Creo così come quella del cavallo in corsa con in groppa Tomàs; lo stesso vale per il particolare del bacio sul collo di Izzy, il quale coincide con il particolare delle labbra di Tommy che sfiorano l'Albero nella Vita nella bio­ sfera spaziale. Se in questo film tornano ancora una volta le dissolvenze in bianco, que­ ste non colgono più lo spettatore di sorpresa nella chiusura fulminea di una scena frenetica, bensì chiudono le sequenze dolcemente, lasciandolo scivo­ lare in una nuova scena così come in un diverso piano temporale. Il ritmo del film mantiene sempre una sua costante pacatezza che tende ad accelerarsi solo nel climax, quando il film volge al termine. Ad accompagnare e a ri­ congiungere le diverse trame nel montaggio è la colonna sonora musicale, 66

curata da Clint Masell, che si avvarrà ancora una volta della collaborazione del Kronos Quartet (arrangiatori ed esecutori del tema principale della co­ lonna sonora di Requiem for a Dream) oltre che dei Mogwai, gruppo post­ rock scozzese. L'idea è quella di riuscire a creare un unico tema che riesca a ricongiungere tutte e tre le diverse atmosfere del film, nonostante i diversi piani temporali: la soluzione sarà un dolce giro d'archi in crescendo che, in accordo con lo scorrere delle trame, conduce lo spettatore verso la luce della stella Xibalba.

XXI secolo Al di là dell'estetica dell'immagine quanto mai curata ed estetizzante (ciò vale tanto per scenografie, quanto per la fotografia e egli effetti speciali), la vera luce che illumina il girato rimane l'emotività dei due personaggi princi­ pali, portata in scena dalla fantastica interpretazione di Hugh Jackman e Ra­ chel Wisz. I ruolo maschile e il ruolo femminile che si ripropongo nelle diverse trame (perché in fondo i diversi personaggi interpratati dagli stessi at­ tori coincidono fra loro) sono in realtà due opposti che si attraggono. Se il ca­ valiere Tomàs mostra tutta la sua audacia e il suo coraggio in nome della devozione per la sua principessa, la razionalità e la forza d'animo di Tom si sgretolano nei momenti di difficoltà, mostrando tutta la sua fragilità. Dall'al­ tra parte ci sono i due personaggi femminili: la principessa Isabel, affasci­ nante e luminosa ma altrettanto consapevole del suo ruolo, e Izzi, tanto dolce quanto forte e sicura di sé nell'affrontare la sua malattia. Questa sorta di op­ posizione emerge non solo dalla personalità dei personaggi, ma dallo stesso rapporto che li lega. Nel caso dello scienziato Tom Creo, la ricerca forsennata di una cura per il cancro che salvi la moglie dalla morte lo porta paradossal­ mente ad allontanarsi da lei in quelli che potrebbero essere gli ultimi mo­ menti da vivere insieme. Lo stesso avviene nella trama ambientata nel XVI secolo, in cui il cavaliere Tomàs, per avere il cuore della sua principessa Isa­ bel, intraprende un lungo viaggio che lo porterà all'altro capo del mondo alla ricerca dell'Albero della Vita. Tutto questo si rivelerà di riflesso come la me­ tafora su cui si regge tutto il film, l'equilibrio instabile che lega ontologica­ mente la vita e la morte.

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Questa dicotomia ci viene anticipata già in apertura, attraverso la para­ frasi di un passo della Genesi: “Allora il signore Dio scacciò Adamo ed Èva dal Giardino dell'Eden e pose una spada folgorante per custodire l'albero della vita” (Genesi 3,24). In più occasioni la metafora del giardino dell'Eden si ri­ propone all'intemo del film, sia esplicitamente sia indirettamente. Qui Adamo ed Èva, cibandosi dei frutti dell'Albero della Conoscenza, si vedono negare da parte di Dio l'accesso all'Albero della Vita; i frutti di quest'albero avrebbe assicurato ai due il segreto che si cela dietro la morte e, quindi, la vita eterna. Questa stessa metafora religiosa viene fatta coincidere nel film con le leg­ gende della cultura maya, cogliendo le analogie che effettivamente legano in modo archetipico le due religioni. Se il dottor Tom Creo vive con ansia la malattia degenerativa della moglie, tanto da voler trovare ad ogni costo una “cura” alla morte, dall'altro lato Izzi ha imparato a convivere con la sua ma­ lattia e ad accettare con serenità l'idea di morire. Tuttavia, come è mai possi­ bile riuscire ad accettare l'idea della morte? In una notte stellata, tramite un telescopio, Izzi mostra al marito la nebulosa di Xibalba, una nebulosa di stelle creatasi attorno ad un'unica stella morente, scelta dai maya come luogo dell'oltretomba; è lì che dopo la morte si reche­ rebbero tutte le anime per rinascere nuovamente e godere di vita eterna. Quella che nel film viene chiamata nebulosa di Xibalba è in realtà riconosciuta nel­ l'astronomia moderna come nebulosa di Orione, la nebulosa è distinguibile anche ad occhio nudo proprio per la sua particolare luminosità. Al suo interno sembra esserci una stella morente la quale ha attirato attorno a sé un vortice di stelle: queste verranno lentamente risucchiate dal vortice creato dal buco nero fino a quando questo non esploderà dando di nuovo vita a milioni di stelle. Izzi sente dentro di sé un pro­ fondo legame con questa stella così come con la cultura maya, tanto da inserirli all'intemo del proprio ro­ manzo, The Fountain', sarà questo il suo ultimo atto prima di lasciare la vita terrena. Dal canto suo, Tom Creo sembra riuscire ad ottenere buoni risultati dagli esperimenti. Grazie alla somministrazione di una 68

sostanza proveniente da un albero delle foreste del Guatemala, Donovan, la scimmietta sotto esame in laboratorio, sembra guarire velocemente dall'opera­ zione, migliorando di gran lunga i suoi test sull'attività intellettiva. Nel museo Izzi mostra a Tom un libro maya che narra della creazione del mondo: il primo uomo avrebbe sacrificato se stesso per ospitare le radici dell'Albero della Vita, le quali, crescendo, hanno dato vita al mondo, l'anima dell'uomo ha dato forma ai rami; infine, i suoi figli hanno appeso la sua testa in cielo dandogli il nome Xibalba. In quello stesso momento Izzi viene ab­ bagliata dalla consapevolezza del sopraggiungere della sua morte, un malore le fa perdere i sensi, facendola accasciare. Nel letto d'ospedale, Izzi consegna a Tom inchiostro e penna, a lui è affidato il compito di scrivere l'ultimo ca­ pitolo della storia: sarà questa la strada per rendere immortale il loro amore. Nel momento in cui Izzi viene a mancare nel letto di ospedale, la luce che la illuminava ora abbaglia Tom, accanitosi nel provare a rianimare il corpo senza vita della compagna.

XVI secolo: la Spagna coloniale Il romanzo The Fountain scritto da Izzi narra della storia della principessa Isabel e del cavaliere Tomàs, ambientata nella Spagna del XVI secolo. L'Inquisitore vuole “convertire” tutti gli eretici, facendoli confessare e giusti­ ziandoli dopo averli processati; i suoi soldati hanno circondato il castello e cercheranno di fare lo stesso con la principessa Isabel. Tomàs, il conquista­ dor, vuole liberare la Spagna uccidendo l'Inquisitore ma viene fermato per ordine della principessa. Isabel ha un piano per salvare la Spagna: un pugnale maya trovato nella giungla della Nuova Spagna cela una mappa che rivele­ rebbe una piramide in cui è nascosto l'Albero della Vita, capace di donare vita eterna attraverso la sua linfa. Tomàs è scettico, ma perfino la Bibbia rac­ conta dell'Albero della Vita, nascosto da Dio dopo che l'uomo fu cacciato dall'Eden per essersi nutrito del frutto dell'Albero della Conoscenza. In un'intervista Aronofsky ha osservato come una gran parte dei pazienti in fin di vita muoiono estremamente soli; questo accade perché i propri fa­ migliali non riescono a comprendere ciò che vivono in quel momento e si li­ mitano a definire quel momento come un'“enorme tragedia”: “Molti pazienti

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iniziano a considerare la probabilità di ciò che sta per accadergli, ma c'è un vocabolario troppo piccolo per aiutarli ad affrontarlo... Noi abbiamo deciso di espanderlo con questa donna che offre a suo marito una metafora per rac­ contargli cosa le sta accadendo. Speriamo che attraverso il tempo egli sarà in grado di capirlo e riesca effettivamente a raggiungerla lì dov'è”. Il romanzo non è altro che una metafora della storia d'amore fra il dottor Tom Creo e sua moglie Izzi. Da una parte c'è Tomàs che esprime lo stesso scetticismo di Tom, il quale in quanto scienziato (nutritosi quindi del frutto dall'Albero della Co­ noscenza), non ha più accesso al frutto dell'Albero della Vita. Dall'altro lato c'è la principessa Isabel che, nonostante rischi di essere processata come ere­ tica, crede più di chiunque altro alle parole della Bibbia, tanto da affidare la sua salvezza alla ricerca dell'Albero della Vita; Izzi, dal canto suo, nonostante venga considerata irresponsabile dal marito, si dimostra ben più consapevole di quello che sembra riguardo a ciò che le sta accadendo. Sarà solo nutren­ dosi della linfa dell'Albero della Vita che Tomàs potrà salvare la sua compa­ gna e ricongiungersi con essa nella vita eterna. Il Grande Inquisitore presente nella storia, dal canto suo, sembra proprio coincidere con l'omonimo personaggio del racconto presente nel romanzo I Fratelli Karamazov. L'inquisitore descritto da Dostoevskij, nonostante rico­ nosca il Cristo reincarnatosi nei panni del suo inquisito, non desiste dal con­ dannarlo a morte; questo paradossalmente in nome dell'indiscutibilità e della sopravvivenza del potere della Chiesa. Lo stesso dimostra l'inquisitore del romanzo The Fountain presente nel film: parla del corpo come prigione del­ l'anima e condanna la principessa come peccatrice ed eretica, teme l'Albero della Vita proprio perché la paura della morte tiene in vita il suo potere, così come quello della Chiesa più severa e austera. Nel romanzo di Izzi l’Inquisi­ tore è la metafora del pensiero comune, convinto di esorcizzare la morte ma, in realtà, incapace di affrontarla. Appare sempre più chiaro come, allo stesso modo che in Pi greco, Aro­ nofsky torna ancora una volta sulle tematiche esistenziali che dividono la ra­ zionalità scientifica dalla fede religiosa, la fisicità e la materialità del corpo dalla trascendenza dell'anima. Se nel primo lungometraggio questi temi ven­ gono affrontati dal punto di vista di Max Choen, attraverso un razionalismo estremo e autodistruttivo, ostinazione più che pura aspirazione alla cono­ scenza, questa volta il punto di vista si sposta dall'altro lato, assumendo un'ot­ tica del tutto trascendentale della realtà. In questo caso la razionalità del 70

protagonista è mossa dall'amore per la propria donna: sarà solo quest'amore ad offrirgli una risoluzione del proprio conflitto interiore (perché in fondo, come capiremo alla fine, solo di questo si tratta). È questa stessa visione tra­ scendentale della realtà a giustificare le scelte estetiche, per certi versi del tutto opposte a quello che è stato lo stile di Aronofsky nei due film prece­ denti. Il cavaliere Tomàs, impegnato nella ricerca del tempio perduto, viene osteggiato dai suoi stessi compagni, tanto quanto lo è Tom dai suoi colleghi nel voler trovare al più presto una cura per la compagna: entrambi i perso­ naggi, tuttavia, decideranno di continuare per la loro strada, a costo di sfi­ dare le stesse leggi naturali. Per Tom la morte non è altro che una malattia come tutte le altre, in un modo o in un altro, ad essa troverà una cura.

Visual Effect Se la trama ambientata nel presente, pur presentando elaborate scenogra­ fie, impegnerà la troupe maggiormente nella pianificazione della fotografia e delle riprese in funzione delle azioni dei personaggi, la Spagna del XVI se­ colo e il futuristico viaggio interstellare rappresenteranno l'impresa più im­ pegnativa del film, in modo particolare per il reparto di scenografia e quello degli effetti speciali. Nonostante fossero in previsione numerosi interventi in postproduzione, anche in questo caso, così come per Requiem, rimane nella volontà del regista ridurre al minimo gli CGI (Computer Generated Imagery, immagini totalmente ricostruite digitalmente); l'idea è quella di mettere in scena uno stile simile al film 2007: Odissea nello spazio, cercando di ottenere sullo schermo effetti speciali tanto spettacolari, quanto fisicamente realistici. Le scene del viaggio spaziale verso Xibalba si sono svolte tutte in studio con l'ampio utilizzo di green-screen, il quale verrà poi sostituito in postprodu­ zione con dei fondali. Jeremy Dawson, responsabile degli effetti speciali, in un’intervista spiega: “Utilizzare la CGI è davvero la via più semplice perché sono tecniche molto diffuse e gli strumenti sono ottimi. Quello che [Aronof­ sky] ha fatto è stato forzarci a trovare soluzioni creative per risolvere un sacco di problemi”. Dopo un accurato studio delle possibili alternative per dare forma all'iper-spazio che fa da sfondo alla nebulosa, Darren Aronofsky e la

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sua troupe trovano il modo per evitare ancora una volta la computer graphic: Jeremy Dowson e Dan Schrecker, addetti ai visual effect, collaboreranno con Peter Parks, ricercatore specializzato nella micro e macro fotografia. La ditta di Peter Parks si occupa di ricercare e catturare i più rari esemplari di batteri e micro-organismi attraverso lo studio dei fondali marini, così da poterli fo­ tografare in 3D in laboratorio. Se oggi rimane una pura ricerca scientifica e divulgativa, negli anni passati, il lavoro di Parks era spesso orientato alla rea­ lizzazione di effetti speciali cinematografici (fino a quando la computer gra­ phic non ha sostituito tutti gli espedienti “artigianali”), ricevendo anche diversi riconoscimenti in questo campo. L'idea è quella di riprendere la rea­ zione fra batteri e sostanze chimiche differenti così da avere effetti grafici unici nel loro genere. Peter Parks, in un'intervista, racconta: “Quando vedi queste riprese proiettate sul grande schermo è come trovarsi di fronte l'infi­ nito. Questo perché le stesse forze presenti nell'acqua - effetti gravitazionali, fluttuazioni, indici di rifrazione - sono le stesse che avvengono nello spa­ zio”. Una volta rielaborate al computer ed adattate alla luce della nebulosa in color correction, le micro-riprese saranno sostituite ai fondali in green-screen e faranno da sfondo ai viaggi mistici di Tommy. Il risultato finale è il lento e continuo movimento della materia cosmica che circonda la piccola biosfera. Nel momento in cui Tommy raggiunge Xibalba dal centro della stella ven­ gono irradiate infinite onde irregolari e concentriche, una sorta di perturba­ zioni della materia che si ripetono all'infinito, dispiegandosi in prospettiva al centro dello schermo: tutte forme ed effetti praticamente impossibili da ri­ creare attraverso la tecnologia digitale. L'effetto si avvicina, per certi versi, a qualcosa di simile a quanto ottenuto da Kubrick nel viaggio interstellare in­ trapreso da Bowman verso i confini dell'universo, una sequenza composta da effetti realizzati con pannelli neri a scorrimento colorati con schizzi di vernice fluorescente; questi, scorrendo verso il centro dello schermo, creavano una finta prospettiva che dava l'impressione di viaggiare alla velocità della luce attraverso uno spazio surreale. Una delle cose più difficili da ricostruire in scenografia sarà l'elemento simbolicamente più importante del film: il maestoso Albero della Vita. In un'intervista lo scenografo James Chinlund fa presente le difficoltà affron­ tate nel ricostruire una scenografia con l'intento di apparire totalmente natu­ ralistica: “penso che scolpire un albero sia una delle cose più difficili che si possa fare perché, alla semplice vista, è davvero facile trovarci errori. La 72

strada che abbiamo intrapreso è stata un'operazione alla Frankenstein. Abbiamo usato pezzi di legno secco e diverse cortecce del mondo, abbiamo creato un vero e proprio mo­ stro”. Lo stesso tipo di lavoro ha portato alla realizzazione degli escamotage per far sì che, nel momento in cui Tomàs beve la linfa dell'al­ bero gli incomincino a fiorire degli arbusti lungo tutto il corpo: l'effetto è stato ottenuto attraverso un robot mobile da cui fuoriuscissero i fiori, nonché un accurato lavoro di montaggio che ricongiungesse le sequenze. In generale, la gran parte delle scene impe­ gneranno la troupe nell'organizzazione di un complesso lavoro di messa in scena diviso fra scenografie, virtual set (set in assenza di scenografie fisiche le cui immagini vengono rielaborate ex post) con elementi virtuali da ag­ giungere in postproduzione. Nonostante il film sia stato girato nel 2004, tutto il lavoro di postproduzione, comprendente montaggio ed effetti speciali, du­ rerà circa due anni: un lavoro minuzioso in cui il regista non lascia nulla al caso. In alcuni casi, col dispiacere di Aronofsky, è stato indispensabile il ri­ tocco in computer graphic; in alcuni casi si tratta di piccoli interventi, come l'aggiunta dei alcuni fiori che sbocciano dagli arbusti, impossibili da ricreare meccanicamente; in altri, come durante l'estasi di Tommy nel momento in cui raggiunge Xibalba, gli interventi in 3D sono quanto mai evidenti, tanto da rendere l'effetto estetico piuttosto ridondante.

Xibalba e la vita eterna Se i primi due piani temporali attingono, quantomeno, ad un certo imma­ ginario già presente nella storia del cinema e, più in generale, ad un certo im­ maginario collettivo, il terzo piano temporale messo in scena nel film presenta una propria peculiare originalità; questo contraddistingue The Fountain da

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qualsiasi altro film fantascientifico. L'idea di ambientare la terza trama nel­ l'anomala navicella spaziale, a detta del regista, è stata ispirata dalla canzone Space Oddity di David Bowie, da lui reinterpretata in maniera del tutto per­ sonale (a dire il vero, nella canzone si parla solo delle sensazioni dell'astro­ nauta ma non di un'astronave); da qui la decisione di chiamare il protagonista Tom, come l'astronauta presente nel testo della canzone. Lungo tutto il film, in evoluzione con le altre due trame, ci accompagnano le immagini di una na­ vicella spaziale naturale, una sorta di piccola biosfera che contiene un albero maestoso; a fame da custode è lo stesso protagonista nelle vesti di un'asceta buddista, con un vestito scarno e i capelli totalmente rasati. L'uomo rassicura l'albero sussurrando al suo tronco, nutrendosi della sua corteccia e meditando al suo fianco; il fusto dell'albero sembra custodire l'anima della sua compa­ gna. Nutrirsi della corteccia d'albero era una pratica tipica di alcuni antichi monaci buddisti particolarmente dediti all'ascesi, ciò permetteva di disidra­ tare lentamente il corpo così da auto-mummificarsi lentamente fino a rag­ giungere la propria morte; dopo secoli i loro corpi sono stati ritrovati ancora intatti, giacenti in fosse scavate da loro stessi e seduti in posizione meditativa. Il protagonista Tommy è in viaggio verso Xibalba, il suo obbiettivo è rag­ giungere la nebulosa designata dai maya come regno dei morti. Come nelle altre due ambientazioni, anche qui il film sviluppa una sorta di percorso che conduce il protagonista dal buio verso la luce, fino all'eternità: è solo affron­ tando la morte che egli potrà rinascere e godere di vita eterna assieme alla sua compagna. Nella trama ambientata nel presente, Thomas viene colto dalla morte di Izzi totalmente indifeso; quella razionalità per cui si è battuto come uomo, come medico e come scienziato, non può niente di fronte l'inesorabile morte della compagna; nel momento in cui la donna viene a mancare, a lui non ri­ mane altro che la disperazione. A differenza di suo marito, Izzi è cosciente del fatto che l'unica possibilità di salvezza difronte alla morte viene da quell'ir­ razionalità che l'uomo ha imparato ad elaborare nei secoli e che ha assunto la forma di vere e proprie istituzioni sociali attraverso il misticismo, la fede re­ ligiosa come pure attraverso l'arte. Colto nel pieno della sua impotenza, Tho­ mas crolla in lacrime e, attraverso una sorta di rituale tribale, si tatua al dito l'anello perso in laboratorio, lo fa con l'inchiostro e la penna stilografica la­ sciatigli in dono dalla compagna: è con questo gesto irrazionale che, a modo suo, Thomas sembra elaborare il suo lutto. Nella futuristica biosfera in viag74

gio verso Xibalba, Tommy presenta un'infinità di cerchi che circondano il suo braccio, questi sembrano essere stati tatuati dal momento della morte di Izzi fino a quel giorno; egli ha deciso di continuare il racconto della moglie sulla sua stessa pelle imprimendo con l'inchiostro la sua memoria sul proprio corpo. In una delle scene che seguono, sembra riproporsi sullo schermo il mo­ mento in cui Izzi va al laboratorio di Tom per invitarlo ad uscire a vedere la prima nevicata della stagione. Se, nel primo caso all'inizio del film, Tom de­ cide di rimanere a lavorare in laboratorio, questa volta il protagonista ignora il suo collaboratore e sceglie di seguire la sua compagna. Anche se non ci viene mostrato esplicitamente sullo schermo, è in questo momento che, pro­ babilmente, Tom decide di riprendere il romanzo della compagna e conclu­ dere l'ultimo capitolo. È attraverso la sua penna che il cavaliere Tomàs raggiunge la piramide perduta così da accedere al campo infinito per abbe­ verarsi all'Albero della Vita. In una antica favola greca, ripresa da Heidegger nella dimostrazione del­ l'interpretazione preontologica dell'esserci, si narra che un giorno, la Cura (il cui senso ontologico indica il “preoccuparsi”, il “prendersi cura di...”) dopo aver modellato dall'argilla una creatura, prega Giove di dare al suo pezzo di fango uno spirito; egli pretende, tuttavia, che in cambio venga dato il proprio nome alla creatura. Nel litigio interviene anche la Terra che, avendo dato “corpo” all'opera, pretende a sua volta di darle il proprio nome. Alla fine i li­ tiganti decidono di nominare Saturno come giudice della disputa. Esso decise che: siccome Giove le ha conferito il suo spirito, a lui andrà il suo spirito dopo la sua morte, la Terra che le ha dato corpo, alla sua morte avrà il corpo; in fine, dal momento che la Cura ha dato forma alla creatura, questa vivrà in preda alla Cura. Per quanto riguarda il nome, Saturno decise di chiamare la creatura homo perché fatta di humus (terra). Questa favola sembra in parte chiarire ciò che avviene nel finale del film: nel momento in cui si abbevera all'Albero della Vita, il corpo di Tomàs diventa tutt'uno con la natura, così come, nella biosfera spaziale, l'anima di Tom raggiunge finalmente la stella Xibalba. La “Cura” citata da Heidegger è l'impegno dello scienziato nella sua ricerca, è la ricerca dell'Albero della Vita, è l'amore fra i due protagonisti; è la memoria di una persona cara che è venuta a mancare, è, in poche parole, ciò che dà senso all'esistenza stessa e che, metaforicamente, dona la vita eterna. In un solo tempo, lo scienziato Tom Creo inizia ad accettare la morte 75

della sua compagna, il cavaliere Tomàs si nutre della linfa dell'Albero della Vita, indossa l'anello donatogli dalla regina Isabel e diventa tutt'uno con la terra; Tommy, nella sua nebulosa, raggiunge Xibalba: il protagonista si è ri­ congiunto con la sua amata guadagnandosi con lei la vita eterna. Alla fine di tutto ciò il film ritorna sullo scienziato Tom Creo che contempla la tomba della sua compagna. Prima di morire Izzi gli aveva raccontato la storia di una guida maya che dopo la morte del padre piantò, per suo volere, un albero sulla sua tomba; in questo modo, nutrendosi del corpo sepolto, l'albero darà una seconda vita al padre. Lo stesso farà Tom, scavando sulla tomba della compagna un piccolo buco e piantando a sua volta un albero. Alla fine, non ci è dato sapere se la terza trama faccia effettivamente parte del racconto del libro; forse è più probabile che questa si svolga all'intemo del subconscio del protagonista, visto che accompagna la trama principale senza nessun esplicito raccordo narrativo con le altre due. Lungo tutto il film i di­ versi piani temporali si sovrappongono fra loro, ma quale è quello princi­ pale? Il presente? Il XVI secolo? Forse quello dello spazio metafisico in cui fluttua la bolla con all'intemo l'Albero della Vita? Secondo una lucida inter­ pretazione del celebre critico Roger Ebert, la vera trama del film si svolge nel presente; il secondo piano temporale, quello del XVI secolo, verrebbe giu­ stificato dall'immaginazione di Tom durante la lettura del romanzo; il terzo, nella nebulosa, viene invece intuito come continuazione del romanzo per mano dello stesso scienziato, nonostante questo sembri rappresentare un fu­ turo remoto, in cui i due amanti raggiungono la vita eterna. In realtà, le scene delle tre trame si susseguono in un montaggio alternato non perché contem­ poranee, ma perché sono gli stessi identici avvenimenti che, pur se su tre piani narrativi differenti, prendono parte ad un unico tempo. Ad essere messo in scena nel film è un tempo fuori dalla sua concezione comune, qualcosa di simile a ciò che Bergson definisce tempo della coscienza: “C'è uno spazio reale, senza durata, ma in cui certi fenomeni appaiono e scompaiono simul­ taneamente ai nostri stati di coscienza. C'è una durata reale, i cui momenti ete­ rogenei si compenetrano, ma ciascun momento della quale può essere avvicinato a uno stato con temporaneo del mondo esterno e, per effetto di que­ sto stesso avvicinamento, separato dagli altri momenti”. Se il tempo della scienza si presenta idealmente dispiegato nello spazio come tanti momenti allineati uno dietro l'altro, ordinabili e numerabili, il tempo della coscienza, al contrario, viene concepito come semplice durata, inteso come tempo nel­

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l'atto del suo stesso scorrere. In esso gli stati di coscienza si susseguono uno sull'altro (e non uno dopo l'altro), si sovrappongono in un continuum che de­ finisce 1'esistenza e permette all'essere umano di rafforzare e conservare in forma simbolica la memoria del proprio vissuto. Per quanto il film sia ricco di profondi temi filosofici e di un'infinità di ri­ mandi simbolici, il fatto che sia stato un parziale insuccesso al botteghino ci obbliga a riflettere su cosa impedisce al film di arrivare al cuore di gran parte degli spettatori. Ciò che spesso contraddistingue un'opera pienamente di suc­ cesso è che questa prenda forma in modo quasi spontaneo, coinvolgendo chi ci lavora in un'esperienza di crescita e di conoscenza. Si tratta, tuttavia, di qualcosa impossibile da innescare attraverso un'elaborazione razionale; que­ sto figurerebbe, piuttosto, come un processo che, vissuto inconsciamente, at­ traversi l'atto creativo e si riveli attraverso l'opera stessa a chi ne fruisce. Qualcosa del genere colpirebbe inevitabilmente lo spettatore perché riflesso dello stesso vissuto dell'artista, qualcosa che nasca e cresca spontaneamente come una creatura capace di vita propria e di una propria esistenza. Tutto ciò si complica nel momento in cui si tratti di un'opera cinematografica: in que­ sto caso il processo creativo diventa parte di un processo industriale, scon­ trandosi con l'esigenza di rientrare in un budget e di assicurare un pubblico che permetta quanto mento il ritorno economico dell'investimento; in più, quello che nell'arte è sempre stato un processo individuale, nel cinema di­ venta un lavoro collettivo che prevede l'intervento di diverse figure profes­ sionali, influendo sull'opera sia dal punto di vista tecnico sia da quello artistico. Se The Fountain non può essere considerato del tutto un film pie­ namente riuscito è soprattutto colpa di una produzione che non ha capito o non ha voluto capire fino in fondo le motivazioni che muovevano il progetto. Per di più, trattando tematiche non facili da portare sullo schermo attraverso intricati espedienti narrativi, il film rischia di diventare di difficile lettura per una buona parte del pubblico. Ciò, tuttavia, non basta a spiegare il perché The Fountain non riesca a funzionare fino in fondo. Nonostante vanti la fan­ tastica interpretazione degli attori protagonisti, si sviluppi attraverso una trama elaborata ricca di spunti tematici e attraverso una complessa messa in scena, rimane, tuttavia, il fatto che qualcosa impedisce al film di rivelarsi di­ rettamente attraverso la prima visione (cosa che, per quanto se ne dica, non rappresenta assolutamente un merito). Ad intaccare il naturale scorrere del­ l'esperienza filmica è l'artificiosità dell'immagine che si rivela all'occhio dello 77

spettatore fin quasi a distrarlo; troppo enfatica per rimanere in secondo piano, troppo ostentata per non disturbare la profondità dei temi. Eppure questa si limita ad essere un sintomo più che una causa. Il vero problema è l'incoerenza fra ciò che viene elevato a tema centrale del film e la forma attraverso cui questo viene messo in scena. La storia di The Fountain appare come una parabola metafisica su quanto la razionalità umana possa dimostrarsi limi­ tata nel raffrontare ciò che per definizione risulta inspiegabile, se non attra­ verso strumenti irrazionali. Il film, al contrario, porta sullo schermo questi temi attraverso un intricato lavoro di messa in scena, metodico e quanto mai razionale, talmente sotto controllo da apparire sullo schermo come qualcosa di estremamente artificioso. A cogliere in fallo il regista sono alcuni atteg­ giamenti, per certi versi molto simili a quelli che frenano il protagonista: l'am­ bizione di raggiungere determinati standard ideali e la paura di non riuscire a conferire un senso esplicito al proprio percorso, nel caso del regista, arti­ stico. Quello che doveva essere un impegno interiore e spirituale prende forma attraverso un lavoro estremamente tecnico, quasi meccanico; da que­ sto meccanicismo riesce a districarsi solo l'interpretazione degli attori: que­ sta rappresenta l'unico elemento del film dotato di una vera e propria vitalità, tutto il resto, almeno esteticamente, tende ad eclissarsi dietro il virtuosismo tecnico. La sublimazione dell'immagine è solo un modo fittizio per contrap­ porsi al vuoto della pura forma, allo stesso modo in cui la trascendenza dalla realtà e il misticismo non rappresentano una valida alternativa al pregiudizio che si nasconde dietro il razionalismo scientifico, esso è piuttosto solo un modo di aggirare il problema. La risoluzione della dicotomia, fra corpo e anima, forma e contenuto, razionalità e irrazionalità e, se vogliamo, fra essere e non-essere, probabilmente non può essere raggiunta attraverso l'assunzione di uno dei due punti di vista piuttosto che dell'altro. The Fountain verrà presentato in concorso alila 63a Mostra Intemazionale dell'Arte Cinematografica di Venezia dividendo gran parte della critica fra pareri discordanti. Al Toronto Film Festival la proiezione avviene in una sala per metà vuota, un coro di fischi accompagna i titoli di coda. Nella conferenza stampa tenutasi a Venezia, in sua difesa il regista afferma che la critica si è dimostrata sempre più cinica rispetto al pubblico; inoltre ricorda come Pi greco fosse stato distrutto dalla critica del “New York Times” e che, in seguito alla visione di Requiem for a Dream, un critico di «Variety» scrisse che il re­ gista non avrebbe dovuto fare più film ma essere in terapia. Nonostante il

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film sia riuscito ad avere il doppio degli incassi di Requiem for a Dream, que­ sti hanno coperto solo la metà della spesa complessiva del film, 35 milioni di dollari. Riguardo al film la critica fu ampiamente divisa fra chi lo riteneva un fallimento e chi lo ha considerato come un’opera unica nel suo genere; tut­ tavia sorse un nutrito gruppo intemazionale di cult follower nato in rete e composto dai fan più appassionati che, fin dalla pubblicazione della graphic novel, hanno seguito tutto il processo di pubblicizzazione che ha accompa­ gnato l'uscita nelle sale.

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PARTE SECONDA Coscienza

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Voltando lo sguardo indietro e osservando a ritroso i film appena esami­ nati, nonostante tutti e tre presentino un proprio valore assoluto che trascende (se esiste) il particolare stile autoriale del regista, inseriti nell'ottica più ampia del suo personale percorso artistico, essi ci appaiono, piuttosto, come fram­ menti incompleti di un unico iter filosofico, se vogliamo, volto alla scoperta dell'animo e dell'agire umano. Una ricerca che, senza fare a meno della logica, si avvale dell'apertura semantica del mezzo cinematografico, di quel margine d'irrazionalità presente in grado e forme diverse in ogni arte, capace di con­ durre lo spettatore su nuovi piani di comprensione, trascendendo il determi­ nismo scientifico e traducendo il dato sensibile in esperienza. Nonostante il loro indiscutibile valore artistico, i primi tre lungometraggi di Darren Aro­ nofsky si presentano come frammenti complementari fra loro ma, comun­ que, incapaci di una sintesi coerente al loro interno; si rivelano, sotto quest'ottica, punti di vista parziali, teoremi che nascondono la propria solu­ zione già nell'ipotesi, insufficienti ad ottenere un nuovo dato fuori da ogni previsione che inneschi il processo di conoscenza. Attraverso il punto di vista di Max Cohen in Pi greco (la Mente) è stata of­ ferta l'ottica dell'estrema razionalità scientifica, talmente cinica da dimenticare l'importanza dei rapporti umani e la stessa essenza dell'essere umano. Per fare ciò viene messa in scena la funzione percettiva dell'uomo, la quale, fuori dalla vera e propria capacità riflessiva, riceve gli stimoli sensoriali e li elabora auto­ maticamente, limitandosi a far corrispondere ad ogni stimolo una risposta. Essa viene espressa sullo schermo attraverso la predilezione del montaggio che regola i ritmi dell'attenzione dello spettatore e lo lega in un meccanismo che gli preclude la libera interpretazione degli eventi alfintemo dell'esperienza filmica. La sto­ ria di Max Cohen, tuttavia, è la prova che la vera essenza dell'essere umano non risiede nelle risposte agli stimoli, anzi, la funzione percettiva offre solo un tipo di razionalità molto simile a quello che viene spesso definito istinto animale. 82

In Requiem for a Dream (il Corpo) vige la legge della sopravvivenza: non esiste né un passato né un futuro, 1'esistenza dei personaggi sembra condan­ nata ad essere vissuta in un eterno presente. I bisogni primari e corporali so­ vrastano qualsiasi forma di aspirazione personale, sembra impossibile immaginare un mondo diverso da quello vissuto: è la morte del mondo ideale. In questo caso è la funzione sensoria dei personaggi a predominare su tutte le altre. Il dato fondamentale è la sensazione pura, prima ancora che questa possa essere percettivamente elaborata; essa prende emblematicamente forma attraverso la colonna sonora che muove le fila dell'immagine tanto quanto quelle dell'azione. Nel terzo lungometraggio The Fountain - L’Albero della Vita (f Anima) tutta la realtà viene trascesa ad un mondo ideale fino alla paradossale identi­ ficazione della vita con la morte. È qualcosa che assomiglia molto a ciò che avviene con la narrazione e, in generale, con l'arte, in cui l'assenza è condi­ zione necessaria perché l'opera d'arte sia tale; è solo in assenza del suo oggetto che il simbolo funziona, rivelandosi così come vero e proprio imago (in la­ tino: immagine, doppio, sogno, spirito, o, ancora, allegoria). Viene, in questo caso, messa in scena la semplice funzione ontica, il semplice manifestarsi dell'esistenza attraverso l'apparenza, senza, tuttavia, riuscire a ottenere il vero e proprio disvelamento della sua essenza. Qui l'immagine predomina su tutto il resto, perfino sull'azione, nella speranza che questa basti allo spettatore come stimolo, lasciando alla sua fantasia ciò che si nasconde dietro di essa. Il parziale “fallimento” di The Fountain ha portato Darren Aronofsky a riflettere sul proprio modo di lavorare e sul percorso artistico che lo ha con­ dotto fino a questo punto. Nonostante le critiche negative riguardo al film, il regista lo considera una delle opere a cui è più affezionato, in cui è riuscito a portare in scena ciò che ha sempre sognato di fare fin da quando ha intra­ preso il suo percorso cinematografico; lo stesso avviene fra i suoi fan più af­ fezionati, non per semplice ammirazione, ma perché, nonostante le sue pecche, si rivela come un'opera estremamente sincera. Il cammino che ci ha condotto fin qui, attraversando la filmografia del re­ gista, rappresenta un percorso obbligatorio che, altrimenti, non ci avrebbe permesso di raggiungere quella consapevolezza tale da comprendere tanto gli errori di valutazione quanto le intuizioni. Riflessioni di metodo inducono a pensare che il vero problema di questa ricerca non è né il “cosa” né il “dove”, bensì il “come”. Da qui in avanti si apre una nuova fase del percorso 83

artistico di Darren Aronofsky, più consapevole e matura, in cui l'innovazione, tanto tecnica, quanto stilistica, continua ad assumere un ruolo preponderante nella narrazione filmica. Il Corpo sarà ancora una volta centro delle temati­ che portate sullo schermo, oggetto di profonde riflessioni, pur da un punto di vista totalmente nuovo rispetto al passato ed esposto in una forma del tutto diversa di messa in scena. Tanto The Wrestler, quanto The Black Swan (Il Cigno Nero) rappresenteranno per il regista l'occasione di mettere alla prova, ancora una volta, nuove forme di narrazione filmica e di affermarsi come fi­ gura di spicco nel panorama cinematografico intemazionale.

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Capitolo quarto

The Wrestler: ‘To sono il mio Corpo”

Gli anni che seguono The Fountain sono anni di profonde riflessioni in cui Darren Aronofsky riconsidera tutto il suo modus operandi di filmmaking. “Ho praticamente dovuto realizzare The Fountain due volte - racconta il re­ gista - The Fountain costò 30 milioni di dollari e questo film rappresenta un quinto, circa il venti per cento del budget. Dopo aver speso due anni in post per tutti gli effetti speciali, dopo un anno e mezzo di post produzione e un sacco di lavoro tecnico. Io amo questo lavoro, ma per me la parte più ecci­ tante del filmmaking è lavorare con gli attori”. Una volta chiusa la realizza­ zione del film, Aronofsky inizia a lavorare assieme a Scott Silver al soggetto di The Fighter, uno sport movie legato al mondo della boxe e ispirato alla vera storia del campione di pesi leggeri “Irish” Mikey Ward. Già in trattative con la Paramount Pictures, i due hanno avuto modo di coinvolgere nel pro­ getto Christian Baie; nonostante questo, la produzione sceglierà di abbando­ narlo perché non ritenuto più abbastanza interessante (il progetto verrà realizzato nel 2010 sotto la regia di David O. Russel). Dopo l'ennesima de­ lusione da parte di una grande produzione, Aronofsky deciderà ancora una volta di sviluppare il progetto in maniera del tutto autonoma e indipendente; lo farà attraverso una vera e propria inversione di marcia, mettendo da parte tecnicismi e i virtuosismi estetici e concentrandosi su un modo totalmente nuovo di intraprendere il lavoro di ripresa. Darren Aronofsky e Scott Franklin, co-produttore dei suoi film precedenti, rielaborano il soggetto preferendo di spostare la storia nel controverso mondo del wrestling; Robert D. Siegei sarà incaricato di lavorare alla stesura della sceneggiatura. Il progetto prende il nome di The Wrestler (2008) e, fin da subito, durante il lavoro di scrittura, i tre iniziano a pensare a Mickey Rourke per il ruolo di protagonista. Molto spesso, purtroppo, l'unico modo per attrarre l'attenzione delle produzioni è

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quello di assicurarsi una star importante sul set che li spinga ad investire nel film: “non riuscivamo ad ottenere i soldi per realizzarlo - afferma in un’in­ tervista il regista - l'unico modo per vendere un film indipendente è attra­ verso un valore esterno. Ma Mickey Rourke non era abbastanza per quello che ci serviva”. Darren Aronofsky ebbe modo di parlare del progetto con Nicholas Cage, il quale fu fin da subito interessato alla sceneggiatura; l'attore partecipò al la­ voro di preparazione al film e iniziò perfino gli allenamenti sul ring, tuttavia, una volta venuto a conoscenza dell'idea di scritturare Mickey Rourke, suo amico di vecchia data, decise di farsi indietro. Mickey Rourke era ritenuto perfetto per quella parte e Nicholas Cage non aveva alcuna intenzione di as­ sumere steroidi per ottenere la forma fisica di Randy “The Ram”. Decisi ad avere Rourke come attore protagonista, la produttrice esecutiva Jennifer Roth non potè fare altro che adattare la produzione ad un budget contenuto. Nelle prime fasi di scrittura era stata presa in considerazione l'idea di ambientare la storia prima degli anni '80 (periodo precedente alla nascita della federazione di wrestling WWF), tuttavia, un film in costume sarebbe stato fuori dalla portata del loro budget; altrettanto complicato sarebbe stato ambientare il film nel presente coinvolgendo il mondo del wrestling profes­ sionistico, cosa che li avrebbe costretti a richiedere troppi permessi e a scen­ dere a patti con le organizzazioni di wrestling: tutto ciò non avrebbe lasciato alcuna libertà di manovra. Decisero così di adattare la storia a quelle che erano le reali possibilità della produzione, ambientando il film nel mondo sommerso del wrestling indipendente. Robin Ramzinski, meglio conosciuto come Randy “The Ram”, è un wre­ stler professionista ormai alla fine della sua carriera. Ridottosi in povertà dopo essersi separato dalla moglie e dalla figlia, Randy viene colto sul ring da un infarto causato dalle estreme prove fisiche inflitte al suo corpo durante gli spettacoli. Sarà questo evento a farlo riavvicinare alla figlia che non vede più da anni e a provare a stringere una relazione con una spogliarellista che sembra essere l'unica persona in grado di stargli vicino. Nonostante provi ad intraprendere una nuova vita fuori dal ring, Randy si dimostra incapace di stringere rapporti umani e relazioni stabili; sceglie, così, di perdersi fra le ovazioni del pubblico e annullare se stesso negli estenuanti combattimenti fra le tre corde, consapevole di rischiare la vita a causa delle sue condizioni fisiche. Con questo film Darren Aronofsky toma ancora una volta sui temi del 86

fallimento, della sofferenza e, soprattutto, dell'autodistruzione fisica e psicologica; lo fa, que­ sta volta, con una consapevo­ lezza del tutto nuova, districandosi dalle logiche che hanno mosso la sua messa in scena nei film precedenti e rea­ lizzando un'opera tanto poetica quanto terrena e realistica. Le riprese del film si svol­ gono fra la fine di gennaio e la metà di marzo del 2007, du­ rando circa 35 giorni. Il piano di lavorazione sarà organizzato in modo tale da realizzare gran parte delle riprese del film nei giorni della settimana così da fissare le date degli incontri di venerdì e sabato: vere e proprie selezioni di wrestling organizzate nelle palestre delle scuole di periferia, in cui parte­ cipa lo stesso Mickey Rourke. Nonostante le ristrettezze economiche della produzione, con un budget stimato intorno ai 6 milioni di dollari, il film si rivela per il regista un successo senza precedenti. Presentato in concorso alla 65a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, The Wrestler (2008) si aggiudica il Leone d'Oro, premio fortemente voluto da Wim Wenders, presidente della giuria di quell'anno. Per lo stesso film verranno assegnati anche due Golden Globe: uno a Mickey Rourke come migliore attore drammatico, l'altro per la migliore colonna so­ nora originale (il brano The Wrestler di Bruce Springsteen). Acclamato da tutta la critica e guadagnatosi un’ampia distribuzione all'estero, il film otterrà anche un grande successo di pubblico, incassando al botteghino circa 45.000.000$ in tutto il mondo.

Randy “The Ram” Non è stato un caso che, fra i primi nomi venuti in mente agli autori del film per il ruolo di attore protagonista, compaia proprio quello di Mickey

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Rourke, un attore dal passato burrascoso che per anni è stato lontano dalla ri­ balta e fuori dal cerchio magico dello star system. Dopo alcune prime espe­ rienze come attore cinematografico, Mickey Rourke raggiunge l'apice del suo successo a metà degli anni '80, consacrato a sex symbol in 9 settimane e '/2, in scena assieme a Kim Basinger. Negli anni '90 la sua immagine pubblica viene eclissata dagli scandali della vita privata a causa di abusi di droga, al­ cool e frequentazioni malavitose; Mickey incomincia a diventare intrattabile e diversi registi trovano veramente difficile avere a che fare con lui sul set. Nel '91, Rourke decide di riprendere la carriera di boxer professionista, ab­ bandonata da giovane, riuscendo a vincere anche alcuni premi nei circuiti minori. In seguito a diversi infortuni l'attore abbandona la boxe e, dopo alcuni interventi di chirurgia che lo rendono praticamente irriconoscibile, ritorna al grande schermo partecipando con ruoli minori a film come Man on Fire e Sin City. Sarà proprio la sua fama da anti-eroe maledetto che gli farà guada­ gnare il ruolo di Randy “The Ram”, riportando il suo personaggio sotto le luci della ribalta; da qui nasce il sostegno di molti nei suoi confronti. Già c'è stato modo di accennare al fatto che Nicholas Cage, nonostante fosse uno dei candidati al ruolo di protagonista nel film, abbia lasciato spazio all'amico pro­ prio per permettergli di riemergere in campo cinematografico. Per lo stesso motivo, semplicemente per la grande amicizia nei confronti di Mickey Rourke, Slash (storico chitarrista dei Guns'n'Roses) parteciperà alla colonna sonora come chitarra solista, Bruce Springsteen scriverà una canzone origi­ nale per il film (il titolo è The Wrestler e compare come bonus track nell'al­ bum Working on a Dream, 2009) e Axl Rose, cantante dei Guns'n'Roses permetterà gratuitamente lo sfruttamento del classico del rock Sweet Child of Mine per l'entrata di Randy “The Ram” nel ring, canzone, per di più, scelta da Mickey Rourke nella vita reale per l'ingresso sul ring nei suoi incontri di boxe. Tutto ciò non può che contribuire a dare forma al personaggio princi­ pale, inguaribile malinconico degli anni '80 tanto quanto lo stesso attore che lo interpreta (emblematica la battuta al bar, politicamente scorretta, su Kurt Cobain, cantante dei Nirvana morto suicida, simbolo degli anni '90 e della fine degli anni '80). Il personaggio di Randy viene praticamente cucito sulla pelle dell'attore protagonista Mickey Rourke, il quale non perde occasione di collaborare alla costruzione del personaggio, confrontandosi (a volte scon­ trandosi) con il regista sugli aspetti che riguardano la sua personalità: in de­ finitiva, viene quasi difficile distinguere il personaggio dal suo interprete.

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In occasione del film Rourke affronta diversi mesi di allenamento, sia in palestre che sul ring, in cui sarà seguito da Afa “The Wild Samoan”, storico wrestler della WWE (World Wrestling Entertainment), per la preparazione ai combattimenti. A parte alcune scene dell'incontro di wrestling hard-core con Necro Butcher, Rourke farà a meno della controfigura e si cimenterà perso­ nalmente nelle prese, nei voli e nelle acrobazie sul ring (in seguito girerà voce che Mickey Rourke voglia davvero intraprendere la carriera da wrestler; in ef­ fetti , l'attore compare sul ring nell'evento del 2009 Wrestler Mania sfidando con un pugno il wrestler Chris Jericho). Se fra le tre corde il protagonista mostra i muscoli e infligge duri colpi ai suoi avversari, nella sua vita privata Randy si dimostra una persona estre­ mamente sola e fragile. Allontanatosi da sua moglie e da sua figlia, Randy vive in una roulotte di cui a stento riesce a pagare l'affitto; per guadagnarsi da vivere lavora come magazziniere in un supermercato e si esibisce in in­ contri di serie B nelle palestre di provincia durante il fine settimana. Pur di accaparrarsi un po' di calore umano, Randy si reca abitualmente al solito night club dove la spogliarellista Cassidy (interpretata da Marisa Tomai), sua co­ noscente ormai da anni, lo allieta con spettacoli sexy, leccando le sue ferite dopo i combattimenti. Randy non è più il giovane wrestler di una volta, gli anni hanno ormai scalfito il suo corpo, così, pur di mantenere in forma il suo fisico mastodontico, è costretto a fare uso di sostanze chimiche e steroidi. Sarà l'attacco di cuore sopraggiunto dopo un combattimento a mettere total­ mente in crisi la vita del protagonista, costringendo Randy ad allontanarsi dal ring e rivelandogli, allo stesso tempo, la sua vulnerabilità nei confronti della morte. Ritrovandosi improvvisamente solo e spaventato Randy sente di aver bisogno di qualcuno che gli resti vicino nell'invemo della sua vita. Proverà, senza successo, a ricongiungersi con la figlia Stephanie, nonostante non si sia mai preso cura di lei. L'attacco di cuore lo avvicinerà anche a Pam (vero nome della spogliarel­ lista Cassidy), madre di due figli e diffidente riguardo l'idea di accogliere nella sua vita privata un cliente. Nonostante non sembri, sono tante le analo­ gie che legano la vita del wrestler a quella della spogliarellista: entrambi, in un modo o nell'altro, lavorano con il proprio corpo, portando in scena uno spettacolo in cui la performance prevede l'alienazione della propria interio­ rità; entrambi usano uno pseudonimo, si nascondono dietro un’identità fittizia; entrambi accettano la “violenza” fisica piuttosto che affrontare la propria 89

fragilità emotiva. Se Pam ha imparato a scindere la vita privata da quella la­ vorativa, a Robin Ramzinski non è rimasto altro che il ring; egli vive in un passato malinconico di cui gli è rimasto solo il ricordo, per questo odia per­ fino il suo vero nome, preferisce essere chiamato Randy. Nel suo egoismo non c'è spazio che per se stesso, eppure, nel momento in cui perde l'ultima oc­ casione offertagli dalla figlia per recuperare il loro rapporto, Pam sembra davvero l'unica persona in grado di stargli vicino. La spogliarellista sembra riuscire a portare agli occhi di Randy la necessità di dividere la fantasia dalla realtà, attraverso la divisione netta fra la sua vita lavorativa nel night club e la sua vita privata, nei panni di madre di due figli. Randy è un semplice cliente ed è per questo che non vuole che si incontrino fuori dal night club; nono­ stante ciò i sentimenti nei suoi confronti dimostreranno che, nel bene e nel male, entrambe le realtà appartengono alla sua vita. Ma al protagonista nem­ meno questo basta per uscire dalla sua solitudine. Forse è solo questa la sua vera natura o è semplicemente vittima del suo destino? Niente di tutto ciò; tutto dipende solamente dalle sue scelte. La difficoltà nel rapportarsi con la realtà porterà Robin Ramzinski a scegliere la vita fittizia di Randy piuttosto che affrontare i propri dissidi interiori.

Il wrestling: una metafora americana

Se Scott Franklin e Robert Siegei (rispettivamente, co-produttore e sce­ neggiatore del film) sono entrambi grandi amanti del wrestling, Darren Aro­ nofsky, dal canto suo, non ne è mai stato un fan sfegatato; in un'intervista racconta della prima volta in cui vide un incontro: “Sono stato ad un match al Medison Square Garden con il mio migliore amico e mio padre. Ricordo che abbiamo perso la voce a furia di gridare. Hulk Hogan era il cattivo e ri­ cordo che Tony Atlas lo ha lanciato e gli è saltato sulle p**le dalla terza corda”. Erano gli anni '80, poco prima che scoppiasse la Hulk-mania, al­ l'epoca il wrestling non era ancora diventato così popolare. Incontrando diversi wrestler di vecchia data e assistendo agli spettacoli di wrestling in piccole realtà di provincia del New Jersey, Darren Aronofsky e Scott Franklin hanno avuto modo di conoscere tantissime vecchie star del wrestling professionistico, ora presenti solo negli incontri indipendenti di

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serie B. Se in passato questi stessi wrestler all'apice della loro carriera riem­ pivano gli stadi di fan accaniti, ora, non più giovani come un tempo, si esi­ biscono per poche centinaia di dollari di fronte ad un pubblico che a stento raggiunge le duecento persone. Molti di questi lottatori rischiano la loro vita a causa degli infortuni accumulati nel tempo, sono in pessime condizioni eco­ nomiche, non hanno nessuna assicurazione medica e non godono di nessun sussidio; spesso lottano semplicemente per permettersi di sopravvivere. Dar­ ren Aronofsky incomincia a maturare l'idea di raccontare il dramma di un qualsiasi wrestler professionista ormai alla fine della sua carriera. Se i film sulla boxe col tempo sono diventati un vero e proprio genere, il regista fa no­ tare in diverse occasioni come i film sul wrestling si contino sulla punta delle dita; probabilmente, un film serio sulla storia di un wrestler non era mai stato girato. Ad interessare particolarmente Darren Aronofsky non è il wrestling di per sé, sono piuttosto gli aspetti antropologici che si nascondono dietro quello che si può definire a tutti gli effetti uno degli sport più popolari d'America. Spesso dietro questi eccentrici lottatori si nascondono le storie di uomini dal passato difficile e burrascoso, facili prede di vizi ed eccessi, oltre che dal ca­ rattere intrattabile. Uno sport del genere, probabilmente, non sarebbe mai potuto nascere in nessun altro paese se non negli Stati Uniti. Il wrestling rappresenta in modo emblematico le mille contraddizioni dello show-business, in cui lo spettacolo e il divertimento del pubblico sono al di sopra di ogni cosa. Il ring rappre­ senta, per certi versi, una moderna arena di gladiatori, dove gli spettatori nu­ trono nei loro confronti un misto di ammirazione e sadismo, in cui i lottatori immolano il loro corpo in cambio del successo e della notorietà. Allora i com­ battimenti messi in scena sul ring sono l'occasione per i lottatori di espiare i propri conflitti interiori, di somatizzare quelle ferite inflitte da un passato dif­ ficile e di esorcizzare la propria fragilità. Una messa in scena che non è mai del tutto vera, mai del tutto falsa, in cui il pubblico vuole a tutti i costi cre­ dere all'inganno e in cui i lottatori fanno di tutto perché l'illusione non venga infranta. Ancora più affascinante risulta il mondo del wrestling indipendente hard­ core in cui i wrestler si infliggono colpi e si scambiano torture insopportabili perfino da guardare; qui, ancora più che nel wrestling professionistico, a muo­ vere il sadico gioco degli spettacoli è qualcosa che va oltre il solo vantaggio economico. Da questo ambiente viene una parte dei wrestler che hanno preso 91

parte al film. Fra questi figura Necro Buncher, particolarmente famoso e ap­ prezzato dai fan più accaniti per i suoi numeri con spara-punti, filo spinato e oggetti contundenti di ogni genere (lo stesso regista, in un’intervista, invita a cercare il suo nome su YouTube per rendersi conto di cosa si tratta). Il film diretto da Darren Aronofsky non solo ha fatto riconsiderare il wre­ stling a chi non se ne era mai interessato prima, ma ha raccolto l'approva­ zione soprattutto di chi di questo mondo ne fa parte. Per la prima volta il wrestling non viene nominato per essere screditato come sport, per essere condannato a causa della sua violenza o per essere difeso da queste accuse, dimostrando la veridicità degli incontri: nel film di Aronofsky il mondo del wrestling viene semplicemente mostrato in modo onesto e trasparente, attra­ verso le storie degli uomini che ne fanno parte, con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni. E per questo che, nonostante il film sveli i retroscena dei com­ battimenti, lo fa con rispetto e senza alcun pregiudizio, riuscendo a guada­ gnarsi la stima tanto dei fan più affezionati quanto dei wrestler più famosi (negli extra del DVD è presente una tavola rotonda in cui alcuni dei wrestler storici dell'abito professionistico si raccontano e confrontano la loro espe­ rienza con la storia messa in scena nel film).

Cinema-verité

“Sembrava che The Fountain fosse tutto quello che volevo fare, nel senso che tutto, in ogni fotogramma, ogni effetto sonoro sulla voce narrante, era pensato, sotto controllo, messo a punto come volevamo. Per questo film [The Wrestler] ho solo cercato di buttare tutto ciò giù dalla finestra”. Da qui parte quell'inversione di marcia che porta Aronofsky al modus operandi delle sue prime esperienze. Se The Fountain è stata un'opera ampiamente sotto con­ trollo, dalle prime fasi di progettazione fino al minuzioso lavoro di postpro­ duzione, in questo caso il regista decide di spostare gran parte della sua attenzione sulla fase di ripresa e, in particolare, nel lavoro con gli attori. Per la prima volta Aronofsky decide di fare a meno degli storyboard, appuntando solo una semplice bozza del piano delle inquadrature e decidendo giorno per giorno sul set come gestire le riprese. Molto significativa è la scelta di affi­ dare la direzione della fotografia alla francese Marisa Alberti, la quale, oltre

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ad avere lavorato in importanti film a soggetto con registi come Todd Hay­ nes {Poison, Velvet Goldmine) e Todd Solondz {Happiness), gode di una ampia esperienza nel cinema documentario. Gran parte del film sarà caratte­ rizzato da un uso esclusivo della camera a spalla e da un'illuminazione total­ mente naturalistica, oltre ad usare, in alcuni casi, zoomate in movimento, tipicamente connotative di uno stile di ripresa documentaristico. Il film verrà girato in pellicola 16mm a colori e riportato a 35mm in stampa attraverso blow-up, così da conferire aH'immagine una granatura che richiama al crudo realismo documentaristico (oltre a permettere di avere con lo stesso budget molta più pellicola a disposizione, visto il maggior costo del 35mm). Queste decisioni non rappresentano semplici scelte estetiche o esercizi di stile, tan­ tomeno sono la meccanica conseguenza di esigenze produttive: tutto prende parte ad una propria coerenza che coinvolge l'intero processo di realizzazione dell'opera cinematografica in ogni suo singolo aspetto: dalla fase della pro­ duzione alla scelta della troupe e dei mezzi tecnici, dalla soddisfazione di al­ cune esigenze narrative all'interpretazione degli attori, dal naturalismo delle azioni e della fotografia, fino ad un montaggio secco ed essenziale (ad opera di Andrew Weisblum). Per quanto riguarda le riprese, l'idea principale è quella di organizzare delle vere e proprie selezioni di wrestling in diverse città del New Jersey e di improvvisare gli incontri con wrestler non professionisti. Darren Aronofsky racconta: “prima di assumere un migliaio di comparse abbiamo lavorato con diverse promozioni di wrestling, abbiamo effettivamente messo su delle au­ dizioni e abbiamo piazzato Mickey lì in mezzo. Tutto ha assunto un sapore nuovo e in più abbiamo ottenuto l'autenticità che cercavamo”. Dopo aver co­ nosciuto Mickey Rourke e aver discusso con lui della caratterizzazione del personaggio, Aronofsky e la sua troupe ha fatto in modo di organizzare una messa in scena che permettesse agli attori, in particolar modo al protagoni­ sta, di muoversi liberamente. Una volta sistemata l'illuminazione generale della scena, definito gli spazi in cui si sarebbe svolta la ripresa e aver spie­ gato a grandi linee l'esecuzione dei movimenti, agli attori veniva spesso la­ sciato spazio per improvvisare e aggiungere particolari nuovi alla recitazione. Il regista lo definisce uno stile di lavoro proattivo, in cui i movimenti di ca­ mera e la recitazione degli attori si adattano a vicenda così da ottenere una maggior naturalezza tanto dell'azione degli attori quanto dei movimenti di camera a spalla. Lo stesso vale ancora di più per gli incontri di wrestling, in

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cui i combattimenti, i movi­ menti di camera, la recita­ zione del protagonista, tutto viene praticamente improvvi­ sato: “Non so cosa sarebbe successo con la folla e con gli stuntman dal vivo, era dav­ vero tutto molto rischioso”. In un’intervista il regista racconta gli aneddoti riguar­ danti le scene totalmente im­ provvisate: “Abbiamo fatto cose pazzesche, come in un uno dei grandi match in cui a Mickey dissi semplicemente 'vai nel backstage'. L'incontro era finito. Niente era scritto. I ragazzi non sapevano che stavamo arrivando. Fu la prima e unica ripresa che girammo, caricammo la camera sulla spalla e seguimmo Mickey tra la folla. Loro hanno semplicemente reagito. I wrestler sono stati grandiosi perché sono degli intrattenitori e sono abituati alla telecamera, erano del tutto naturali davanti alla macchina da presa. È così che abbiamo potuto fare cose del genere”. Lo stesso avveniva nelle scene nel backstage prima dell'incon­ tro, in cui i wrestler venivano semplicemente lasciati liberi di discutere dei loro incontri e delle mosse che avrebbero fatto sul ring. In diverse scene, come in gran parte dei suoi film, Darren Aronofsky as­ sume amici e parenti per prendere parte alle riprese nelle vesti di comparse; nei titoli di coda, infatti, è facile leggere il nome di diversi attori che portano lo stesso cognome del regista. Per le scene che si svolgono nel supermercato, il regista racconta di non avere abbastanza soldi per bloccare tutto il supermer­ cato, così capitava che alcune persone arrivassero al bancone per ordinare. Una volta fermate gli veniva chiesto se volevano prendere parte alle riprese, se conoscevano Mickey Rourke spesso rispondevano di sì e venivano sem­ plicemente lasciate libere di ordinare. “Eravamo semplicemente dietro al ban­ cone mentre la gente faceva la spesa. Cercavamo semplicemente di tenerli d'occhio con l'assistente di produzione. Uno dei gestori del negozio si avvicinò e disse: ‘Le persone alla cassa non riescono a leggere la calligrafia di Mic­ key’ . Io gli chiesi: ‘Di cosa stai parlando?’. A quanto pare alcune persone vo­

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levano comprare le cose che Mickey dava via al bancone. Cioè, Mickey stava semplicemente scrivendo dei numeri a caso. Non sapeva di cosa si trattasse. E i clienti intanto andavano via con il cibo che Mickey stava dando via”. Vale la pena, spendere qualche riga per approfondire brevemente il tema della camera a mano (o camera a spalla), tecnica di ripresa che, prima di di­ ventare una scelta estetica, è stata, da sempre, un'esigenza tecnica. L'uso della camera a mano nasce con il documentario come risposta all'esigenza di ri­ prendere un evento imprevedibile, in cui l'uso di cavalletto o di carrelli ren­ derebbe praticamente impossibile seguire l'azione. Successivamente il cinema di finzione se ne è appropriato per introdurre nella messa in scena un mag­ giore effetto di realtà, ciò avviene prima nelle produzioni a basso budget, come nel caso della Nouvelle Vague o di registi come Pierpaolo Pasolini fino a diventare una vera e propria forma di messa in scena anche nel cinema più diffuso, grazie a registi come Bernardo Bertolucci, Michelangelo Antonioni, Martin Scorsese, Stanley Kubrick. Con la presa-diretta televisiva e, in parti­ colare, con l'introduzione nel mercato consumer delle prime camcorder digi­ tali degli anni '80, questa forma di grammatica visiva viene ampiamente digerita anche dal grande pubblico, tanto attraverso il cinema, quanto attra­ verso TV e, più recentemente, con video amatoriali sul web; in questi casi, tuttavia, l'immagine e la ripresa digitale assume l'aspetto tipicamente conno­ tativo della low-definition (bassa risoluzione). Se, da una parte, la camera a mano viene usata semplicemente come espediente espressivo, come se fosse semplicemente una scelta fra gli altri movimenti di camera o, nei casi peg­ giori, come mezzo per un realismo dichiaratamente artificioso, in altri casi di­ venta uno strumento necessario per permettere al regista di mettere in scena un'azione non del tutto controllata, così da ammettere nella ripresa cinema­ tografica quel caso tipico della realtà nel suo stesso svolgersi. È questa sot­ tile ma, nei fatti, assai rilevante differenza che rende Blair Witch Project (1999) e Idioterne (1998) di Lars von Trier due film totalmente diversi l'uno dall'altro; non è un caso che, paradossalmente, il primo si spacciò all'epoca per un film documentario e il secondo (appartenente al movimento Dogma 95 fondato dallo stesso regista), si presenta come un film dichiaratamente di fin­ zione. Senza la pretesa di riuscire ad approfondire esaustivamente in questa sede un argomento così complesso, possiamo affermare, in poche parole, che ciò che rende effettivamente diversi questi due modi di approcciarsi allo stile cinema-veri té è l'onesta intellettuale con cui ne viene fatto uso.

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Se film come Idioterne o lo stesso Redacted (2007) di Brain de Palma, rappresentano casi estremi del cinema digitale, in cui l'immagine low-definition diventa un elemento peculiare e distintivo della loro estetica, in altri casi del cinema contemporaneo è possibile assistere ad un uso della camera a mano più tradizionale, pur senza perdere, tuttavia, l'occasione di cogliere quella già citata casualità ammessa sulla location e che assicura un realismo, se vogliamo, quasi ontologico al film. È questo il caso di The Argentine (Che - LArgentino, 2008) e Guerrilla (Che - Guerriglia, 2009) di Steven Soder­ bergh (uno dei primi casi cinematografici in cui è stata usata l'alta definizione della camera digitale RED-ONE); o il caso di Gomorra (2008) di Matteo Garrone che, così come The Wrestler, è stato girato in pellicola (pur se in 35mm). Nel caso particolare di The Wrestler, la scelta estetica si rivela un’esi­ genza legata a doppio filo alle tematiche, al modo in cui queste vengono espresse attraverso il racconto filmico, in relazione alla stessa esperienza fil­ mica vissuta dallo spettatore. Spesso alle riprese in camera a mano e ad una maggiore libertà degli at­ tori sul set corrisponde una ripresa del suono in presa-diretta (caratteristica difficile da apprezzare nel momento in cui il film viene visto in versione dop­ piata e non in lingua originale); in The Wrestler, tuttavia, il suono totalmente naturalistico, sporcato dal riverbero degli ambienti e dai rumori di fondo, viene missato in postproduzione con alcuni lievi ritocchi. Viene enfatizzato con la modulazione in post il suono del contatto fisico presente nelle scene di combattimento, così come vengono caricate le ovazioni del pubblico con lievi effetti di riverbero o modulando del volume, accentuando i momenti più drammatici. In altri rari casi sono presenti alcuni interventi del tutto extra-diegetici (oltre, ovviamente, alla colonna sonora): è il caso delle ovazioni di sot­ tofondo presenti nei corridoi che portano Randy al bancone della carne, alle prese con il suo primo turno di lavoro; o il caso in cui un fischio sibilante en­ fatizza il dolore dei personaggi, sia nel caso in cui lo stesso protagonista si ac­ cascia in seguito all'attacco di cuore, sia per sottolineare l'alienazione della spogliarellista Cassidy durante la lap dance. Clint Masell, responsabile della colonna musicale del film, sarà impegnato in un lavoro totalmente diverso rispetto ad altri film dello stesso regista. Tutti i suoi lavori precedenti pre­ sentano una colonna sonora particolarmente espressionista, attraverso cui vengono enfatizzati tanto gli stati d'animo dei personaggi quanto le atmosfere ispirate all'azione, portando lo spettatore ad immergersi nell'interiorità dei

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protagonisti. In The Wrestler gran parte della colonna sonora musicale è com­ posta da pezzi hard-rock che spesso si confondono con il suono diegetico presente nella finzione filmica, sul ring, nel pub o nel furgone di Randy; sono presenti, in più, alcuni soffusi arpeggi di chitarra elettrica che accompagnano le scene più drammatiche del film. Il tutto porta lo spettatore ad entrare nella sensibilità del protagonista, all'interno di una sorta di malinconica atmosfera che richiama il ricordo degli anni '80 tipicamente americani.

“Io sono il mio Corpo ” In tutto il film, il viso mutato dalla chirurgia plastica e il mastodontico fi­ sico scolpito dagli steroidi di Mickey Rourke occupano per la maggior parte del tempo la scena. Darren Aronofsky pone al centro del suo lavoro, ancora una volta, il Corpo (con cui si vuole intendere non solo il vero e proprio corpo dei personaggi, ma le stesse modalità attraverso cui viene messo in scena, lo stesso corpo filmico attraverso cui viene espressa una certa concezione del corpo fisico e della sua interazione con il mondo circostante), il corpo se­ gnato dal tempo e logorato dai combattimenti di un wrestler alla fine della sua carriera. Tuttavia, in questo caso, a differenza dei primi due lungometraggi, il regista non si limita ad esporlo sullo schermo, ponendolo al centro di una serie di eventi; esso si rivela a se stesso così come allo spettatore, diventando fulcro della relazione fra azione e mezzo cinematografico. In Pi greco il corpo del protagonista veniva ugualmente presentato come elemento centrale all'interno della narrazione filmica, eppure non veniva esposto per quello che era. La messa in scena poneva lo spettatore nell'interiorità del matematico, consegnando alla sua vista, non il vero Max Coen, bensì la sua immagine speculare vista attraverso gli stessi occhi del matema­ tico. Più che un corpo umano in carne e ossa, si rivela all'occhio dello spet­ tatore come un cyborg, costruito attraverso un intricato meccanismo stilistico di messa in scena ben architettato e rifinito in montaggio. In Requiem for a Dream succede qualcosa di analogo. Anche qui il punto di vista offerto allo spettatore è quello interiore, diviso fra le diverse storie dei protagonisti; in questo caso, però, esso si incarna attraverso le loro membra, riuscendo a por­ tare lo spettatore aH'intemo delle loro sensazioni e delle loro esperienze psico­

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fisiche. Eppure in Requiem viene messo in scena un corpo passivo, semplice oggetto delle sensazioni, vittima degli eventi, incapace di agire e totalmente privo di qualsiasi forma di consapevolezza. In entrambi i casi lo spettatore viene catapultato nei panni dei personaggi, imprigionato nella loro soggetti­ vità, senza alcuna possibilità di esimersi dall'assumere il loro punto di vista: nel primo caso è intrappolato nel meccanismo di congetture scientifiche, pro­ dotto del sistema cerebrale di Max Coen; nel secondo è vittima degli eventi, in balia del triste fatalismo che li affligge. A differenza dei primi due lungometraggi, in The Wrestler la macchina da presa si distacca dairinteriorità dei personaggi per assumere un proprio punto di vista, unico modo attraverso cui, paradossalmente, lo spettatore riesce a prendere davvero parte all'azione in scena, così come diventerà parte attiva nella lettura del testo filmico. In The Wrestler muta totalmente l'approccio del regista nei confronti della messa in scena, allo stesso modo, il Corpo portato sullo schermo assume una forma totalmente nuova. In questo caso, lo spettatore si trova a confrontarsi con un organismo attivo in carne ed ossa capace di esperire il mondo circostante, un corpo dotato di attività cinestetica che permette l'interazione con l'altro, sog­ getto agente capace di perlustrare il reale in profondità e farsi strumento di co­ noscenza: esso si rivela, in definitiva, come unico mezzo attraverso cui può avere luogo tanto la coscienza del qui e ora, quanto 1'esistenza. Tutto ciò si in­ treccia direttamente in relazione con la storia del protagonista che, a diffe­ renza dei personaggi dei film precedenti, entra in pieno possesso del suo libero arbitrio, indipendentemente dalla discutibilità delle sue scelte. Non è un caso che il dolore assuma un ruolo fondamentale nella sua esperienza, di­ ventando il punto di contatto fra quell'egoismo in cui Randy si è chiuso per lungo tempo e il mondo che lo circonda; il Corpo si rivela così il vero ponte che, per forza di cose, lega inesorabilmente la propria esperienza soggettiva agli altri, così come al mondo circostante. “Il corpo sano sente il mondo, il corpo malato sente il corpo. E quindi il corpo diventa una barriera tra il pro­ prio desiderio, l'universo delle possibilità, e la realizzabilità delle medesime possibilità” (Notoli, 1986). Tutto ciò non viene semplicemente elevato a tema centrale del film ma figura come causa e conseguenza di un processo crea­ tivo che, coinvolgendo tutte le fasi di realizzazione del film, si rivelerà il ful­ cro della coerenza interna del corpo filmico: punto di equilibrio della falsa dicotomia fra tecnica ed estro creativo, forma e sostanza, fra prodotto com­ merciale e opera cinematografica autoriale. In questo caso lo spettatore non

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assiste semplicemente allo spettacolo pirotecnico della sofferenza dei perso­ naggi, ma viene reso partecipe, attraverso il particolare lavoro di messa in scena, della sua esperienza psicofisica. Non è un caso che il film si apra con una lunga sequenza in cui la camera a spalla segue il protagonista inquadrandolo alle spalle, lasciando intravedere a bordo schermo lo spazio attraversato dal suo corpo. Questa sorta di retrosoggettiva viene riproposta più volte in diverse scene del film, sempre carat­ terizzata dai sobbalzi e dall'instabilità tipica della camera a spalla. Qualcosa di analogo avviene quando la camera si limita a seguire lo sguardo degli at­ tori in seguito ad un suo movimento o dirigendo l'attenzione lì dove si sta spostando l'azione, senza mai precederla. Nella maggior parte dei film di fin­ zione più tradizionali la camera da presa viene posta difronte ai personaggi: se questo, da una parte, assicura la chiara lettura dell'azione, offrendo la sua vista sempre a favore di camera, dall'altra, ciò delimita gli spazi in cui essa prende forma e, attraverso i movimenti di camera o mostrando la semplice reazione del personaggio, anticipa allo spettatore ciò che sta per avvenire. In questo caso la camera da presa non fa altro che mostrare l'azione allo spetta­ tore, lasciando quasi intendere implicitamente di essere già a conoscenza di ciò che sta avvenendo, riportando, per di più, una rappresentazione bidimen­ sionale degli spazi. Diverso, invece, è il caso in cui la camera a spalla, libera da qualsiasi freno, segue il personaggio senza precedere la sua azione, os­ servando “in contemporanea” allo spettatore il suo agire, attraversando la profondità degli spazi e restituendo sullo schermo la loro tridimensionalità. Il segreto della camera a mano, in sintesi, risiede sull'imperfezione dei movimenti dell'essere umano e sulla loro imprevedibilità. Tutto ciò non può che restituire allo spettatore un'atmosfera partico­ larmente realistica, in quanto am­ mette, almeno in potenza, quella casualità e quell'imprevedibilità del qui ed ora di un'azione ripresa nel suo stesso svolgersi. Lo stesso regista accenna, in diverse interviste, ad un partico­ 99

lare stile di regia che definisce oggettiva, in quanto non si pone all'interno dell'emotività del personaggio, enfatizzando l'azione attraverso il linguaggio filmico, ma si limita, come si faceva notare, a registrare gli avvenimenti, os­ servando i personaggi dall'esterno, in pieno stile documentaristico. Parados­ salmente è questo secondo tipo di regia a riuscire a trasmettere allo spettatore l'esperienza del protagonista senza alcun filtro, facendogliela vivere fisicamente in prima persona, consentendogli di immedesimarsi totalmente con lo sguardo della camera e ad assumerlo come proprio punto di vista. Tutto ciò va ben oltre il semplice richiamo ad una grammatica audiovisiva tipicamente documentaristica, e mette in causa le sensazioni percettive dello spettatore, spogliate delle convenzioni linguistiche legate al linguaggio del mezzo. Oltre ad imitare l'effetto presa-diretta tipicamente documentaristico, la tecnica della camera a spalla rivela allo spettatore la stessa fisicità della macchina da presa ricordandogli ad ogni sobbalzo la sua presenza; essa si fa protesi non solo dello sguardo dello spettatore, ma del corpo stesso, del suo intero sistema fisico-percettivo. In questo senso la camera a spalla assume sullo schermo il ruolo di vero e proprio referente percettivo: il punto di vista della camera a spalla diventa, così, il tramite fra lo sguardo dello spettatore e la realtà fisica delle azioni in scena.

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Capitolo quinto

The Black Swan: la metamorfosi

Con il Leone d'Oro ottenuto con The Wrestler, Aronofsky viene ufficial­ mente consacrato come autore di spicco del cinema indipendente intemazio­ nale, riuscendo a guadagnarsi anche l'attenzione di quella parte di critica cinematografica europea più elitaria. Nonostante questo, il regista newyor­ kese è deciso a non limitarsi a militare nelle file del cinema indipendente; l'ambizione più grande rimane quella di realizzare un blockbuster rivolto al grande pubblico che riesca a conciliare ricerca artistica e cinema industriale. Nel 2007, poco dopo la fine delle riprese di The Wrestler, Aronofsky è già al lavoro per due nuovi progetti, entrambi i quali prevederebbero un budget piuttosto cospicuo. Uno di questi è un remake di Robocop. A differenza degli altri progetti a cui aspirava (vedi Batman, Ronin, Watchmen...), Robocop rap­ presenta un'icona ormai slegata daH'immaginario dei potenziali fan, per cui si dimostrerebbe un personaggio più aperto alla reinterpretazione. Ad attrarre particolarmente il regista è l'idea di sviluppare cinematograficamente l'idea di un cyborg, in cui la tecnologia diventa parte del sistema corporeo umano; cosa che, secondo il regista, in parte sta già avvenendo con le nuove tecno­ logie e le varie protesi adottate nella chirurgia e nella medicina contempora­ nea. L'altro progetto è Noah, una sorta di rivisitazione in chiave mistica del genere disaster movie, ambientata nel passato remoto dei racconti biblici del Vecchio Testamento e incentrato sulla storia dell'arca di Noè, uscito in Italia ad Aprile 2014. Intanto, fra le idee nel cassetto, figura una storia ambientata nel mondo della danza classica, nata negli anni del diploma alla scuola di cinema. A quei tempi l'idea del regista era quella di sviluppare la storia del rapporto conflit­ tuale fra un lottatore e una ballerina; ben presto questa viene accantonata in quanto le due storie sarebbero state davvero troppo per un solo film, finì, così,

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per dedicarsi alla realizzazione di altri progetti. Anni dopo arriverà sulla sua scrivania una sceneggiatura scritta da Andrés Heinz, basata sulla storia della rivalità fra due attrici di Braodway, intitolata The Understudy (“Il sostituto”); Aronofsky deciderà di impostare la storia sulla produzione di uno spettacolo di danza classica, pensando a Natalie Portman come attrice protagonista. Dopo sei anni di duro lavoro per la realizzazione di The Fountain, Aro­ nofsky e il produttore Mike Medavoy decisero di riconsiderare il progetto, la riscrittura di The Understudy verrà affidata a Jhon Me Laughlin. Rimanendo particolarmente affascinato dal romanzo II Sosia di Fedor Dostoevskij (autore che ha sicuramente influenzato le atmosfere spesso claustrofobiche e pertur­ banti di gran parte dei suoi film), Darren Aronofsky considera l'idea di strut­ turare il plot narrativo sull'atavico tema del doppio, topos narrativo particolarmente fecondo di spunti riflessivi, da sempre presente fin dalla na­ scita della cultura occidentale. Nello stesso periodo, ebbe modo di assistere a Broadway ad una rappresentazione dello spettacolo di danza classica II Lago dei Cigni', in esso la metamorfosi della protagonista Odette viene messa in scena facendo interpretare alla stessa persona entrambi i ruoli del Cigno Bianco e del Cigno Nero. La storia del film verrà sviluppata sulla produzione dello spettacolo ispirato alla favola russa, il titolo sarà II Cigno Nero. L'Universal Pictures sembra davvero interessata a produrre il film e fissa lo svi­ luppo del progetto per il gennaio 2007; la produzione viene cancellata, così, Darren Aronofsky decide di dedicarsi alla lavorazione di The Wrestler con la Protozoa Pictures; la sceneggiatura verrà affidata a Mark Heyman per una nuova riscrittura. L'Universal fece in modo di far girare il progetto fra gli uf­ fici degli studios sperando di attrarre l'interesse delle produzioni con la pre­ senza di Natalie Portman nel ruolo di attrice protagonista. Il film sarà co-prodotto con la Phoenix Pictures e con la partecipazione della Overnight Productions, ottenendo, in seguito, l'ingaggio di Mila Kunis nella parte di Lily e Vincent Cassel nei panni di Thomas Leroy. La Fox Searchlight Pictu­ res parteciperà alla produzione del film con 12 milioni di dollari; la stessa produzione acquisterà i diritti del film per la distribuzione. Nina Sayers frequenta la New York City Ballet, una delle più prestigiose accademie di danza classica di New York. Il suo più grande sogno si avvera quando il maestro Thomas Leroy sceglie lei come prima ballerina per lo spet­ tacolo d'apertura della nuova stagione teatrale. Per questo evento Leroy ha scelto di portare in scena una rivisitazione del classico // Lago dei Cigni, spo-

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gliato dai suoi orpelli “viscerale e autentico”. Nina figurerà nel difficile ruolo di Odette, la Regina dei Cigni; dovrà quindi interpretare entrambi i ruoli del Cigno Bianco e del Cigno Nero. Per quanto a Nina non manchi l'ingenuità, la purezza e il candore del Cigno Bianco, il vero problema sarà interpretare nello stesso spettacolo anche la sua nemesi, il Cigno Nero. Ossessionata dalla disciplina e dal perseguimento della perfezione, non­ ché da una madre ostinatamente apprensiva, Nina farà di tutto pur di trovare nel suo animo apollineo quello spirito dionisiaco che le permetta di abbandonarsi alla sensualità e dalla passionalità caratteristica del Cigno Nero, perdendosi fra le attenzioni del mae­ stro Leroy e il fascino di Lily, scelta dal mae­ stro come sua eventuale sostituta. Scontrandosi con gli aspetti più reconditi del proprio animo, Nina arriva a perdere totalmente il contatto con la realtà, so­ praffatta da comportamenti maniaco-compulsivi e ossessionata da visioni schi­ zofreniche; sarà proprio la scoperta di questa parte oscura di sé a permetterle di assumere, tramite una metamorfosi, le eleganti sembianze del Cigno Nero. Le riprese del film hanno inizio nel dicembre 2009 a New York. Nel film era necessario ricreare i classici ambienti del New York State Teather o del Met Opera, tuttavia, bloccare un teatro a New York per tutto il periodo delle riprese sarebbe stata un'impresa praticamente impossibile; premeva, in più, l'esigenza di avere le location principali raccolte tutte in luoghi contigui così da ridurre i giorni di ripresa e contenere le spese. Il produttore esecutivo Scott Franklin e Darren Aronofsky riescono ad ottenere alcuni locali del Purchase College del SUNY (State University of New York), chiuso per tutte le va­ canze invernali, riusciranno, tuttavia, a girare alcune scene nel prestigioso Lincoln Center. Avendo a disposizione solo pochi giorni il teatro necessario per le sequenze finali, si può dire che la preparazione delle riprese è stata molto simile a quella di un vero spettacolo dal vivo. Le riprese del film du­ reranno circa 45 giorni, girate per la gran parte in notturna, con una sola set­ timana in esterni.

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Con II Cigno Nero (The Back Swan, 2010) Darren Aronofsky ritorna sullo stile che caratterizzava i suoi primi lavori, portando in scena una storia a metà strada fra il dramma psicologico e l'horror, in un mix di temi, tecniche e stili lontani fra loro che non possono non lasciar impressionato lo spettatore. Due anni dopo il Leone d'Oro come miglior film per The Wrestler, il regista par­ teciperà al 67° Festival di Venezia come componente della giuria; Black Swan verrà premiato fuori competizione e proiettato in occasione della serata d'apertura del festival guadagnandosi una standing ovation del pubblico, oltre che l'attenzione di tutta la critica internazionale. Il film sarà ospite dei mag­ giori festival di cinema indipendente, comparirà nella top 10 di diversi blog e riviste di cinema; viene citato da molti come miglior film dell'anno. Grazie al ruolo di Nina Sayers, Natalie Portman si aggiudica il premio Oscar e un Golden Globe come miglior attrice protagonista. In un primo momento il film verrà distribuito in un numero limitato di sale americane ottenendo un sorprendente successo di incassi, guadagnan­ dosi diverse settimane di programmazione e, in seguito, la distribuzione in­ temazionale. Il quinto lungometraggio di Darren Aronofsky si rivelerà anche uno strepitoso successo di pubblico, contando al botteghino 106 milioni di dollari di incassi solo in America, 229 milioni complessivi in tutto il mondo.

Il Lago dei Cigni A prima vista, può sembrare strano che un regista come Darren Aronofsky possa avvicinarsi al mondo del balletto, eppure nella storia di Nina Sayers e dello stesso spettacolo II Lago dei Cigni riescono a confluire tutte quelle te­ matiche che hanno mosso la sensibilità del regista fin dai suoi primi lavori. Darren Aronofsky ebbe modo di entrare in contatto con il mondo del balletto tramite la sorella che, in adolescenza, incominciò a studiare danza alla High School Performing Art di New York; nonostante il regista all'epoca fosse attratto da altri interessi, rimase, tuttavia, particolarmente impressionato dall'estenuante lavoro e dall'impegno necessario per la preparazione all'esecuzione delle co­ reografie. Anni dopo, quando ebbe modo di leggere la sceneggiatura “The Un­ derstudy”, Aronofsky pensò che sarebbe potuto essere interessante ambientare un film dietro le quinte di uno spettacolo di danza classica.

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Toccare un classico del balletto come II lago dei Cigni significa esporsi alla critica di tutto il mondo accademico; senza la presenza di una figura au­ torevole sarebbe stato davvero difficile ottenere l'approvazione dei profes­ sionisti del settore. Se per altri film, ambientati in contesti diversi, non ci sono state grandi difficoltà nell'accedervi o nell'ottenere, semplicemente, la collaborazione di specialisti del settore, nel caso di Black Swan il lavoro si è rivelato ben più complicato. Le accademie di danza di New York sono un ambiente chiuso ed elitario, in cui chi ne fa parte non ha alcun interesse nel rivelare ciò che si nasconde dietro le quinte degli spettacoli né, tantomeno, aprire le porte a chi ha intenzione di realizzarci un film. In questo, Benjamin Millepied rappresenterà una figura fondamentale per la realizzazione del film: “hanno semplicemente stretto le spalle e non ci hanno più richiamato. Len­ tamente poi ho incontrato Benjamin e un altro paio di persone, abbiamo così ottenuto il timbro di approvazione che stavamo facendo qualcosa di forte... abbiamo cercato di catturare il massimo di quella realtà attraverso un intento documentaristico”. Principale ballerino del New York City Ballet particolar­ mente apprezzato negli ambienti della danza classica, Benjamin Millepied si occuperà di tutti gli aspetti riguardanti le coreografie e della loro coerenza artistica col mondo del balletto. Nel making of del film Darren Aronofsky afferma: “È stata una collaborazione interessante perché di solito racconto la storia agli attori e loro la trasformano in emozione, con Benjamin ho rac­ contato la storia e lui l'ha trasformata in movimento”. E evidente come, nel caso del film, non si tratta semplicemente di mettere in scena le coreografie del balletto, queste devono prestarsi alla messa in scena filmica in accordo con il registro stilistico scelto dal regista, favorendo le inquadrature, inclu­ dendo, quindi, nelle stesse coreografie i movimenti della macchina da presa. Per tutta la realizzazione del film Banjamin Millepied lavorerà sia con le due attrici (Natalie Portman e Mila Kuniz) sia con la controfigura (Sarah Lane, ballerina solista dell'American Ballet Theatre) che sostituirà la prota­ gonista in alcuni passi particolarmente difficili. Nonostante la controfigura Sarah Lane abbia recriminato il merito dell'Oscar come migliore attrice (as­ segnato, per il ruolo a Natalie Portman), il regista e il coreografo hanno preso le difese del l'attrice, assicurando che più dell'ottanta per cento delle scene di ballo sono state opera sua. Natalie Portman e Mila Kunis affronteranno per il film circa un anno di preparazione fisica, così da evitare eventuali infortuni durante le riprese; l'attrice protagonista, in particolare, per vestire i panni di

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Nina Seyers perde circa dieci chili e intraprende uno studio intensivo di danza classica con più di cinque ore di allenamento al giorno nei tre mesi prima delle riprese. Lo stesso Vincent Cassel, nei panni del superbo maestro Tho­ mas Leroy, nonostante avesse studiato danza per anni in passato, ha sentito la necessità di approfondire il mondo del balletto e di osservare diversi mae­ stri di balletto a lavoro con i propri allievi. L'attore avrà modo di seguire per diverso tempo il celebre coreografo Mikhail Baryshnikov durante la prepa­ razione di un suo spettacolo, osservare il maestro Peter Martins a lavoro con i suoi ballerini e assistere alle prove del New York City Ballet. Se il wrestling può essere considerato un'arte “popolare” e di basso ri­ lievo, il balletto, al contrario, rappresenta una forma d'arte alta; eppure di­ versi aspetti accomunano due realtà, in apparenza, così diverse fra loro. Nella conferenza stampa del 67° Festival del Cinema di Venezia, Darren Aronof­ sky afferma: “Per quello che ho avuto modo di vedere nel mondo del bal­ letto, ho incominciato a notare tutte le somiglianze con il mondo del wrestling, in entrambi ci sono degli artisti che utilizzano il loro corpo in modo estremamente intenso e fisico. Tutta la loro performance si basa su un'intensa fisicità”. Se durante gli spettacoli di danza classica, sul palco, predomina la grazia, la leggerezza e l'eleganza con cui le ballerine professioniste danno forma alle coreografie, ad attrarre particolarmente il regista è tutto ciò che vi si nasconde dietro: l'enorme sforzo fisico e il logoramento del loro corpo. “Quando sei fra il pubblico - afferma il regista - sembra tutto incredibilmente spontaneo. La prima volta che andai dietro le quinte rimasi sbalordito nel ve­ dere i muscoli e i tendini che si irrigidiscono, vedendoli [i ballerini] uscire dalla scena sudati, piegati in due, con il fiatone, e poi il sangue era dapper­ tutto; tutto si rivelò tutt'altro che spontaneo. Come filmmaker ero davvero in­ teressato all'idea di come poter mostrare tutto ciò”. L'arte del balletto sembra, allora, risiedere nella capacità dei ballerini di camuffare il dolore e lo sforzo fisico necessario per coordinare i movimenti, tenere l'equilibrio e danzare sul palco, dando forma ad eleganti coreografie. In fondo, tutto l'enorme impegno dei ballerini in mesi e mesi di lavoro si gioca sul palcoscenico durante lo spet­ tacolo agli occhi degli spettatori; esso si rivela come qualcosa di estremamente effimero, capace di durare solo il tempo di un volteggio. Tutto quel lavoro necessario per mettere in scena le coreografie ha il solo obbiettivo di far sì che la bellezza esista, anche solo per un istante. A sostenere il peso della perfezione della forma, dentro e fuori il palcoscenico, vige, fra gli ambienti

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del balletto, una ferrea disciplina e l'ineccepibile buon costume, quasi a voler dimenticare la bassezza di tutto ciò che riguarda il corpo in carne ed ossa, nascondendolo alla vista e sublimandolo nell'arte. Questo stretto compro­ messo fra passionalità ed eleganza traspare tutto attraverso la superbia, il nar­ cisismo e la vanità del maestro di danza Thomas Leroy, così come dal suo controverso rapporto con Nina. Ispirato ad un antico racconto russo e musicato da Cajkovskij, Il Lago dei Cigni fu portato in scena per la prima volta nel 1877 al teatro Bolshoi di Mosca, esso rappresenta uno dei più importanti balletti del XIX secolo, forse uno dei più celebri in assoluto, più volte ripreso e reinterpretato sia nel mondo della letteratura sia nel cinema. È lo stesso maestro di danza Thomas Leroy, nelle prime scene del film, a ricordare la trama dello spettacolo durante il suo primo incontro con le ballerine: “Una giovane dolce e pura, prigioniera nel corpo di un cigno, desidera la libertà, ma solo il vero amore spezzerà l'in­ cantesimo. Il suo sogno sta per realizzarsi grazie a un principe, ma prima che lui le dichiari il suo amore, la gemella invidiosa, il Cigno Nero, lo inganna e lo seduce. Devastata, il Cigno Bianco si getta da un dirupo e si uccide. E nella morte ritrova la libertà”. La musica classica spesso viene considerata una musica elitaria, lontana tanto dalla midcult quanto dalla masscult, eppure gran parte del pubblico, per quanto poco interessato agli aspetti tecnico-stilistici del mondo cinemato­ grafico, ne gode abitualmente durante la visione anche dei film mainstream più moderni. Per quanto la musica d'orchestra possa essere considerata per luoghi comuni antiquata, essa rimane tutt'ora una delle forme musicali che meglio esprime i sentimenti più profondi dell'animo umano; in più, rimane la fonte delle più moderne sperimentazioni musicali, perfino nell'ambito della musica elettronica. Questo lo sa bene tanto Clint Masell quanto Darren Aro­ nofsky, dimostrandolo in tutti i lavori in cui il primo ha curato la colonna so­ nora musicale. Per quanto riguarda Black Swan, la colonna sonora non potrà che riprendere i fraseggi de II Lago dei Cigni di Cajkovskij articolati nei di­ versi atti in accordo con lo sviluppo del film, seguendo l'azione dentro e fuori il palcoscenico, confondendo il suono diegetico con quello extra-diegetico. Sarebbe stato impossibile, ovviamente, lasciare intatti i brani originali di mu­ sica classica, troppo lenti e pacati per accompagnare il ritmo del montaggio cinematografico, soprattutto quello inquietante e a tratti violento, pensato per il film di Aronofsky. Attraverso un raffinato lavoro di composizione e mis­

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saggio, Clint Masell riadatterà l'opera al film, miscelando il suono di clari­ netti, oboi e timpani ad effetti sonori manipolati digitalmente; il risultato è una colonna sonora definibile quasi neo-barocca, tanto inquietante quanto epica e straziante, in pieno accordo con lo spirito e le atmosfere del film. Ai brani composti da Clint Masell si aggiunge, per di più, il contributo dei Chemical Brother con un brano in cui viene rielaborato il tema musicale de II Lago dei Cigni in chiave techno-elettronica; il brano compare nella scena in cui Nina segue Lily sono sulla pista da ballo in discoteca.

Il Cigno Bianco

Il personaggio di Nina Sayer viene praticamente ricalcato sulla dolce fi­ gura di Natalie Portman; fattrice fu coinvolta nel progetto fin dalle prime fasi del suo concepimento, quando lei era ancora una giovane attrice agli esordi. Nel 2000, durante le fasi finali di postproduzione di Requiem for a Dream, Darren Aronofsky era già a lavoro sul soggetto del film; il regista ebbe modo di incontrare la giovane Natalie Portman per discutere con lei l'eventualità del ruolo di protagonista per quella che sarebbe dovuta essere una storia sulla rivalità fra due ballerine di danza classica. L'attrice, dal canto suo, si dimo­ strò fin da subito molto interessata, tuttavia, l'inizio delle prime fasi di rea­ lizzazione del film vedranno luce solo dieci anni dopo. “Il fatto che abbia speso tutto questo tempo con quest'idea... - afferma la Portman - mi ha per­ messo di macerare un bel po' di tempo prima delle riprese”. Na­ talie Portman ha avuto modo di studiare danza fin dall'età di sei anni, passione abbandonata per intraprendere prima la carriera di modella, poi quella di attrice; la­ vorare sul personaggio di Aro­ nofsky significava per lei poter riavvicinarsi al mondo del bal­ letto. Ad attrarla particolarmente, sarà la possibilità di portare in

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scena gli aspetti ambivalenti della controversa personalità della protagoni­ sta: “questo film è, per diversi aspetti, un modo per esplorare l'ego di un ar­ tista, questa sorta di attrazione narcisistica per se stessa e, allo stesso tempo, la repulsione verso di sé”. Cosa ancora più importante il personaggio di Nina Sayers rappresenta per l'attrice l'occasione di andare oltre i classici ruoli di ra­ gazzina a cui spesso viene relegata: “sto provando a trovare un ruolo che ri­ chieda una maggior maturità perché c'è il rischio di bloccarsi in un circolo di sdolcineria disgustosa nei panni di donna nei film, in particolare se sei una persona minuta”. Con Nina Sayers, Darren Aronofsky costruisce un personaggio femminile fuori dagli stereotipi del classico woman movie, dalla personalità controversa e in contrasto con se stessa; una figura femminile che, per quanto atipica, la­ scia scorgere in sé l'influenza di altre figure simili già presenti nella storia del cinema. Un caso del genere è The Red Shoes (di Michael Powell e Eme­ ric Pressburger, 1984) ispirato dall'omonima favola nera di Hans Christian Andersen, in cui la protagonista perde il controllo del suo corpo a causa di un paio di scarpette magiche che non le permettono di smettere di danzare; anche qui, nelle sequenze finali del film, lo spettacolo di danza diventa un’espe­ rienza perturbante vissuta solo dallo spettatore cinematografico extra-diegetico (e non da quelli presenti in sala nel film). Ancora più vicino alle atmosfere de II Cigno Nero è Repulsion (1965) di Roman Polanski. La pro­ tagonista Carol è disgustata dall'universo maschile, lavora in un centro di bel­ lezza ed è costantemente persa nei suoi pensieri; nel momento in cui la sorella parte per una vacanza con il fidanzato, Carol rimane vittima della sua solitu­ dine e delle sue psicosi, le quali prendono forma attraverso vere e proprie al­ lucinazioni; occhi che la scrutano, mani che la sfiorano, corpi maschili che la immobilizzano: la violenza psicologica latente del genere maschile invade il suo corpo e attraversa la sua pelle dilagando sulla messa in scena e manife­ standosi allo spettatore attraverso le immagini sullo schermo. La stessa Na­ talie Portman rivede in Nina Seyers aspetti psicologici vicini ai personaggi femminili messi in scena da Polanski, non solo in Repulsion, ma anche in Rosemary Baby (1968). L'impegno di Nina Sayers nei confronti del balletto sembra averla rele­ gata in un'infanzia perenne in cui il perseguimento di quella disciplina ne­ cessaria per formarsi come ballerina pare aver comportato la repressione di qualsiasi pulsione passionale. La sua camera da letto è rimasta quella di una

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bambina di 8 anni, cosparsa di merletti e pupazzi di peluche, un sorta di casa delle bambole, tanto infantile quanto inquietante. Sua madre, Erica (inter­ pretata da Barbara Hershey), sembra essere la sua unica amica; attenta con­ fidente oltre che genitore premuroso e apprensivo, le sue attenzioni si riveleranno il frutto dei suoi sensi di colpa dovuti, in realtà, alla profonda in­ vidia che nutre nei confronti della figlia. La madre di Nina considera la gra­ vidanza che ha portato alla nascita della figlia la causa del suo fallimento come ballerina; sente di essere stata privata della sua giovinezza, ragion per cui si sente in diritto di rubare quella di Nina, pretendendo da lei quel suc­ cesso che non è mai riuscita ad ottenere. È un'apprensione morbosa quella di Erica che invade ogni spazio vitale della figlia: irrompe continuamente nella sua camera, ispeziona costantemente il suo corpo, la obbliga attraverso ri­ catti morali perfino a mangiare una torta preparata per lei, la costringe con la forza a farsi tagliare le unghie in modo da non provocarsi graffi sulla pelle. La disciplina coltivata negli anni e gli enormi sforzi per rendere la sua tec­ nica ineccepibile faranno guadagnare a Nina il ruolo di Regina dei Cigni nello spettacolo di apertura della stagione teatrale; sostituendo la prima ballerina Beth Macintyre (interpretata da Winona Rider), la quale cadrà in una terribile de­ pressione che la spinge perfino al suicidio. Thomas Leroy è convinto che la grazia e la purezza della sua tecnica la rendano perfetta per il ruolo del Cigno Bianco, tuttavia ciò non basta per riuscire ad immedesimarsi pienamente e ad interpretare il ruolo del Cigno Nero. Per il Cigno Nero c'è bisogno di perdere il controllo, di farsi preda della passione e della sensualità; per questo il mae­ stro Leroy arriverà a sedurla, cercando di smuovere i suoi istinti carnali più re­ conditi. Vittima delle sue infatuazioni, Nina finisce ingenuamente per innamorarsi di lui; nonostante questo, non riuscirà a rompere davvero quel muro che la separa dalla sua sensualità, a superare quel limite che le faccia perdere del tutto il controllo razionale del suo corpo. Sarà Lily, in realtà, a sbloccare in lei quel meccanismo che la vede incatenata alla sua estenuante ricerca della perfezione. Per Lily danzare è qualcosa che nasce dalla sua stessa spontaneità, la sua imperfezione ha il fascino della naturalezza; si dimostratosi, perfetta per interpretare il Cigno Nero e viene scelta come eventuale sostituta di Nina. Spi­ gliata, estroversa e libertina, Lily rappresenta tutto ciò che manca a Nina, il suo perfetto alter ego, figura verso cui la protagonista finirà per nutrire un misto fra odio e fascino, fra paura e ammirazione, intrattenendo con lei un rapporto nevrotico diviso fra attrazione e repulsione.

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Le relazioni che Nina sostiene con gli altri personaggi si rivelano, in re­ altà, un elemento secondario del film; tutto avviene dietro gli occhi di Nina, all'interno della sua interiorità. I conflitti che vedono la protagonista con­ frontarsi e scontrarsi con gli altri sono, per lo più conflitti che riguardano solo se stessa, gli altri appaiono solo come fantasmi della sua mente. Questo vale per Lily più che per ogni altro personaggio, tanto che a volte è difficile capire se da spettatori si possa dire di averla realmente conosciuta fino in fondo, in quanto nel film si ha la possibilità di vederla solo attraverso gli occhi della protagonista; nonostante sappiamo che esiste in carne ed ossa ai nostri occhi appare solo come una proiezione inconscia piuttosto che come personaggio vero e proprio.

Attraverso lo specchio Il tema del doppio pervade tutto il film, tanto sul piano narrativo-concettuale, quanto sul piano estetico-simbolico, rivelandosi una fonte infinita di significati metaforici, richiamando a temi cari tanto alla letteratura quanto alla psicoanalisi e alla filosofia. Non è il caso di dilungarsi in questa sede su questi temi, vale la pena, tuttavia, accennare almeno a quei richiami partico­ larmente legati alla messa in scena e alla drammaturgia del testo filmico. Ab­ biamo già accennato all'influenza che ha avuto II Sosia di Dostoevskij sul lavoro del regista; è facile rivedere nelle atmosfere del film quella stessa in­ quietudine e quello stesso ritmo mozzafiato e ansiogeno presente nello stile dello scritto russo. All'interno del film ritroviamo anche il conflitto fra Eros e Thanatos, proveniente dalle teorie freudiane della psicoanalisi; l'animo umano viene letto attraverso un dualismo che lo vede diviso fra pulsione alla vita e spirito di (auto)distruzione. Una dicotomia in parte già presente in modo latente in The Fountain, ma che in Black Swan ritroviamo espressa attraverso una marcata conflittualità; evidente tanto nell'amore schizofrenico che la madre di Nina nutre per la figlia, quanto nell'animo della protagonista e nel suo rapporto ambivalente nei confronti del proprio corpo. Allo stesso tempo, alle tematiche del film si accosta un altro conflitto, forse quello più evidente, fra spirito apollineo e spirito dionisiaco, teorizzato dal filosofo Friedrich Nietzsche e ispirato alla cultura greca. Il filosofo mitteleuropeo, legge nella

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storia della tragedia greca una metafora della stessa civiltà ellenica, vedendo nell'abbandono dello spirito dionisiaco il germe di un pessimismo che con­ duce alla decadenza. Secondo Nietzsche la riscoperta dello spirito dionisiaco, della sensualità e della passionalità, dei piaceri terreni, è l'unica strada per restituire all'uomo una percorso di conoscenza che lo riavvicini alla vita. Qualcosa di simile avviene nel film: Nina, spirito apollineo, dedito alla di­ sciplina e alla perfezione della tecnica, spinta dal maestro Thomas Leroy, in­ traprende un percorso che possa riavvicinarla alle pulsioni vitali, al sentire del suo stesso corpo e, attraverso esso, ricongiungersi al mondo. Nel film, il tema del doppio e tutte le sue possibili declinazioni vengono sintetizzate e concettualizzate attraverso il simbolo dello specchio, elemento praticamente onnipresente in ogni sequenza; la sua presenza fìsica sul set lo rende, per di più, uno strumento capace di generare una vera e propria dia­ lettica fisico-percettiva, diventando parte viva della messa in scena e in­ fluenzando tanto la scenografia, quanto la direzione della fotografia. Nel film gli specchi sono ovunque: ricoprono ogni parete della palestra, sono nei bagni, nei camerini, nelle camere da letto, perfino nel salone di casa, dove Nina fa abitualmente stretching; in più, nella metro, nei vetri delle porte, sul pavimento del palco, i riflessi e le immagini speculari si nascondono ovun­ que. Per quanto gli specchi rappresentino una sorta di cliché cinematografico (soprattutto per il genere horror), nel film viene fatto un ampio uso creativo di tutte le superfici capaci di riflettere luce; la vera sfida durante le riprese è sostenere il loro gioco di riflessi, apparizioni e allucinazioni che si protrae per tutto lo svolgersi del film. Nel mondo del balletto lo specchio risulta uno strumento fondamentale, unico mezzo attraverso cui il ballerino può prendere coscienza dei suoi mo­ vimenti; di fronte allo specchio può eseguire l'esercizio e, nello stesso mo­ mento, aver modo di osservarsi, di correggere il proprio movimento, di accordare le sensazioni del moto del proprio corpo a quell'eleganza necessa­ ria per una perfetta esecuzione. Se, da una parte, esso ci consente di vederci e di controllare la nostra immagine, dall'altra suscita da sempre una certa in­ quietudine dovuta alla sua intrinseca caratteristica di restituire un doppio della realtà, tanto ingannevole quanto potenzialmente rivelatore di qualcosa che non è direttamente visibile all'occhio umano. Nonostante l'impegno nel tener d'occhio ogni appendice del proprio corpo, nell'ispezionare ogni centimetro quadrato di pelle, ogni anfratto della propria carne, è inevitabile che qualcosa

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sfugga comunque: è su questa perdita di controllo che orbitano i temi centrali del film, espressi tanto attraverso l'immagine quanto attraverso i risvolti psi­ cologici della protagonista. In questo senso la costante presenza degli spec­ chi e deH'immagine riflessa diventa una metafora, non solo del doppio, ma anche dell'impossibilità di possedere un controllo totale di noi stessi e della realtà che ci circonda. L'immagine riflessa attraverso uno o più specchi ci in­ ganna, spiazza la nostra percezione dei luoghi, ci confonde nel distinguere due volti l'uno dall'altro, ci rivela l'impossibilità di leggere correttamente lo spazio circostante così come la stessa azione. Qualcosa di simile avviene con la presenza di specchi sul set, la quale incide sulla gestione della luce, sulla composizione figurativa, sulla recitazione dei personaggi e sui loro movi­ menti, sul rischio di mostrare il fuori campo e rivelare tutto ciò che si na­ sconde dietro la macchina da presa. In questi casi, ad una grande attenzione nel momento delle riprese si aggiunge un lavoro minuzioso nei digital effect che ha permesso di correggere le immagini lì dove era impossibile non avere la camera da presa in campo; allo stesso tempo, i visual effect saranno indi­ spensabili per comporre quelle scene in cui l'immagine speculare della pro­ tagonista assume vita propria, in movimenti incoerenti rispetto a quelli dell'attrice in campo. Tutto ciò è stato possibile solo grazie alla stretta colla­ borazione fra il regista, la producer designer Therese Deprez (attenta re­ sponsabile della scenografia) e il direttore della fotografia Matthew Libatique. L'inquietudine costante che aleggia nel film è sottolineata dalla stessa ge­ stione della fotografia, curata ancora una volta da Matthew Libatique, assente solo nell'ultimo film del regista. Come in altri film, la scelta di girare in 16mm conferisce aH'immagine un crudo realismo, dovuto sia alla possibilità di evi­ tare grandi interventi con illuminazione artificiale sia alla grana della pelli­ cola visibile sotto forma di un sottile rumore nei colori delle ambientazioni con scarsa luminosità. Allo stesso tempo, gran parte della messa in scena è ca­ ratterizzata da un ampio uso della camera a mano, espediente che rafforza tanto il realismo delle immagini quanto l'inquietudine delle atmosfere. Ad eccezione di alcuni esterni, la maggior parte delle scene si dividono fra l'ap­ partamento in cui abita Nina e le sale della palestra in cui si allena. Gli am­ bienti sono illuminati da una luce artificiale fioca e ovattata che, assieme alla predominanza di interni, accentua un forte senso di claustrofobia; escluse le scene in costume sul palco, anche nella scenografia e nei costumi per la gran parte del film predominano tonalità cupe e colori sbiaditi.

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Per quanto riguarda la fotografia, risulta particolarmente incisiva la scena in cui Nina esce con Lily, lasciandosi trasportare dall'effetto dell'alcool e dell'ecstasy. Nella sequenza in discoteca si susseguono ad intermittenza, ad in­ tervalli regolari, inquadrature monocromatiche in rosso e in verde, interrotte da brevi quadri totalmente neri. Quest'effetto immortala i volti per brevi istanti ai limiti della persistenza retinica, talmente brevi da farli sembrare immobili, confondendo la figura di Lily con quella di Nina, mentre le due ballano con i due ragazzi e si baciano fra di loro; allo stesso tempo, nella confusione delle diverse inquadrature, si scorge per un attimo impercettibile un volto con il trucco della Regina dei Cigni. Diversa è la gestione della fotografia per quanto riguarda le scene che si svolgono sul palco. Nella scena onirica in apertura al film il corpo di Nina è illuminato da un enorme cono luminoso che, riflettendo sul pavi­ mento del palcoscenico, a tratti abbaglia l'obbiettivo della camera da presa; allo stesso tempo, la luce taglia il corpo della ballerina in modo da creare ombre nere che si confondono con lo sfondo. Il gioco di luce e ombra crea un netto monocromatismo, diviso fra il pallore di Nina e l'intenso nero del mostruoso Rothbart. L'instabilità della camera a mano risulta quasi im­ percettibile, questo effetto è dovuto all'assenza di un qualsiasi punto di ri­ ferimento della scenografia a cui si possa ancorare lo sguardo; allo stesso tempo, però, la stessa percezione di instabilità viene scaricata sui perso­ naggi, conferendo ai loro movimenti una sorta di imprevedibile scompo­ stezza; il nero dello sfondo confonde la profondità dello sguardo dando l'impressione che i corpi fluttuino attorno alla camera da presa. Più natu­ ralistica, almeno per quanto riguarda la fotografia, si presenta la messa in scena delle sequenze finali, durante lo spettacolo ufficiale; la gestione dei corpi luminosi coincide con la fotografia di scena dello spettacolo teatrale, così come le quinte del palco rimangono in una lieve penombra, illumi­ nate solo dai riflessi provenienti dal centro della scena. La camera da presa ci rivela le quinte dello spettacolo e, allo stesso tempo ci fa vivere l'espe­ rienza dell'esecuzione, dandoci una chiara lettura dei suoni presenti sul palco, dal rumore dei passi al vocio dei ballerini.

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Il corpo ibrido: prosthetic effect e motion capture

Quella dualità e quei conflitti che muovo l'azione nel film sono, in realtà, riscontrabili nella stessa messa in scena; non solo a livello simbolico, ma anche dal punto di vista tecnico-stilistico. Da una parte, c'è la volontà di re­ stituire un certo grado di realismo che aspira a rendere trasmissibile tutta la fisicità dell'azione, concentrando la sua attenzione, in modo particolare, sul profilmico, sulla ripresa e sugli attori. Dall'altra, c'è la voglia di andare oltre, di avere un controllo totale di ciò che avviene in scena, di razionalizzare il la­ voro sul set e di gestire gran parte della messa in scena in postproduzione, at­ traverso visual effect, superando i limiti imposti dalla realtà fisica e conferendo all'immagine filmica un certo grado di spettacolarità. In Black Swan vediamo fondersi queste due opposte tendenze stilistiche da sempre presenti nel percorso artistico del regista; due diverse concezioni della messa in scena cinematografica che, se pur hanno già convissuto nei suoi film pre­ cedenti, qui trovano un loro equilibrio. Un dualismo che il mezzo cinemato­ grafico vive fin dalla sua nascita (ma che interessa, in fondo, tutte le forme d'espressione artistiche) impossibile da liquidare considerando la questione come una semplice antinomia. Esso si rivela come una dicotomia superabile solo nella pratica, portando in scena il conflitto, attivando, attraverso il mezzo stesso, una dialettica che riesca a fornire una risposta, almeno una delle tante. Gran parte dell'estetica di Black Swan si sviluppa su un ampio uso della camera a mano e su un'immagine in low-key lighiting (dominanza di basse luci), il tutto in accordo con quello stile di messa in scena già messo a punto in The Wrestler, quello che pos­ siamo definire, se vogliamo, una sorta di guerrilla filmmaking. A differenza del lungometraggio precedente, questo stile qui si in­ treccia con un complesso lavoro di montaggio che, in accordo con un uso estremamente espressioni­ stico degli effetti sonori, intesse un elaborato gioco di alternanze fra frenesia e quiete, dando forma

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a quelle atmosfere perturbanti tipiche dell'horror. Risuonano, nel film, il suono dei passi, gli scricchiolìi delle ossa, la frizione dei muscoli, il lacerarsi della pelle, tutto accompagnato da una serie di silenzi in risonanza a basse fre­ quenze che ci sorprendono negli attimi più inquietanti del film. Se gli aspetti che riguardano il suono rimangono qualcosa di limitato allo spazio extra-diegetico dello spettatore, le paranoie di Nina arrivano ad assumere la forma di vere e proprie visioni che, oltre a manifestarsi attraverso la vista, coinvol­ gono il corpo della protagonista e invadono la stessa realtà diegetica; ciò av­ viene portando sullo schermo le fantasie infantili più macabre, di cui tutti abbiamo subito il ribrezzo (se non il terrore) almeno una volta: non solo le ap­ parizioni attraverso lo specchio, ma anche lo storcersi di un arto, il lacerarsi di una pellicina del dito, un’unghia rotta e sanguinante. Si sviluppa, così, un complesso sistema di sinestesie che, attraverso immagine e suono, riesce a coinvolgere l'intero sistema percettivo dello spettatore, insinuandosi sotto la sua pelle e avvicinandosi ad una sorta di violenza fisica indiretta. Artifici di questo genere possono rivelarsi di tale effetto solo attraverso la loro realiz­ zazione nel profilmico, in cui viene implicitamente affermata la loro indi­ scutibile plausibilità (almeno fisica); è solo grazie a essa che possiamo concederci di “credere” a ciò che ci viene mostrato sullo schermo, riusciamo, così, ad immergerci nella realtà corporea della protagonista partecipando ai suoi dolori e soffrendo un vero e proprio ribrezzo fisico. L'immagine specu­ lare di Nina che assume una propria autonomia nei confronti della protago­ nista rimare ancora dietro la linea di demarcazione del plausibile, nonostante l'effetto preveda un intervento in computer graphic, in questo ci si limita a fare un collage di immagini fotografiche e non prevede alcuna ricostruzione di­ gitale di elementi in scena. Gran parte degli effetti speciali presenti nel profilmico rappresentano il frutto di un eccelso lavoro artigianale ad opera del prhostetic artist Mike Ma­ rino, artefice di tutte le protesi corporee necessarie per le lesioni, le distorsioni e le lacerazioni degli arti, le mutazioni del corpo della protagonista e alcuni particolari della metamorfosi finale. Oltre agli effetti riguardanti traumi fi­ sici, uno degli elementi visivi più impegnativi da creare, da questo punto di vista, è stato l'aspetto di Rothebart, lo stregone dalle sembianze mostruose, ar­ tefice dell'incantesimo su Odette: il suo volto è ispirato ad antiche rappre­ sentazioni di satiri, il quale appare sia nella scena introduttiva del film, sia nel finale. 116

Darren Aronofsky era deciso a volere nel film una vera e propria metamor­ fosi della protagonista nel Cigno Nero in carne ed ossa, un effetto che ha ri­ chiesto un complesso lavoro in computer graphic, accompagnato da un'attenta pianificazione nel momento della ripresa. Nel making of del film, il responsa­ bile dei visual effect, Dan Schrecker, osserva come questi non debbano essere relegati ai solo blockbuster, ma possano arricchire anche quel cinema più legato alla psicologia e alFinteriorità dei personaggi: “I registi di oggi hanno capito che si può arricchire la storia e la narrazione utilizzando qui e là visual effect. Non sono evidenti come in Trasformers o nei film con i dinosauri, ma ci sono e og­ gigiorno sono molto usati”. Per la metamorfosi era assolutamente necessario conservare l'eleganza e la naturalezza dei movimenti durante il balletto, qualcosa che sarebbe davvero difficile ricreare da zero attraverso l'elaborazione di im­ magini numeriche; si è, così, ritenuto inevitabile ricorrere alla tecnica della mo­ tion capture, una tecnica usata sia a scopo ludico che a scopo scientifico e militare, presente soprattutto nel videogames, necessaria per ricreare digital­ mente la naturalezza dei movimenti del corpo umano. Nonostante questa tecnica preveda l'intervento attraverso CGI (Computer Generated Imagery, immagini generate digitalmente), essa non può prescindere dal corpo in carne ed ossa, il quale rimane la fonte principale di quelle informazioni ottenute solo attraverso la realizzazione di una sorta di “calco” digitale dei movimenti corporei. La tec­ nica della motion capture prevede, oltre alla camera da presa, la presenza sul set di alcune videocamere speciali che localizzano i movimenti dei diversi sensori posti sul corpo dell'attore; ciò permette di digitalizzare le informazioni dei mo­ vimenti nella loro durata che faranno da modello per l'elaborazione degli effetti speciali da applicare sul corpo. Una volta studiata la fisionomia del corpo del cigno, rimane solo da decidere come e fino a che punto Nina si sarebbe dovuta trasformare in cigno, questo in relazione alla necessità di enfatizzare il suo pro­ cesso di trasformazione psicologico. Fin da subito si era deciso che il simbolo iconico più importante da portare in scena sarebbero state le ali; tuttavia, è stato necessario lavorare anche sul collo, in parte sul volto e su altre parti del corpo. Si è preferito non modificare gambe e busto, tantomeno il volto, fermare, quindi, la metamorfosi alle sole ali, le quali ben si addicevano all'eleganza e alla sinuo­ sità del corpo della ballerina, così come al volto di Natalie Portman. Il piumaggio della ali del Cigno Nero è stato frutto del lavoro di Shawn Lipowski, 3D artist che si è occupato di ottenere un modello delle diverse piume del cigno, riproducendole al computer attraverso il software Maya, in tutta la

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loro flessibilità e collocandole in diversi gruppi a cui viene trasmesso in grado diverso il movimento principale degli arti della ballerina; in più, attraverso una traccia 3D delle luci e degli elementi fissi in scena è stato possibile fis­ sare dei punti di riferimento attraverso cui verranno disposti gli elementi ri­ prodotti digitalmente in totale coerenza con i movimenti messi in scena dalla ballerina. Con il minuzioso lavoro di visual effect è stato anche possibile so­ stituire il volto della ballerina-controfigura Sarah Lane con quello delfattrice Natalie Portman, in modo da rendere l'effetto pressoché impercettibile, oltre a curare altri piccoli particolari nelle altre scene del film. In definitiva, al­ l'interno del film sono presenti più di 300 interventi di visual effect costati circa 13 milioni di dollari; il basso budget ha richiesto una razionalizzazione del lavoro che permettesse in poco tempo la realizzazione degli effetti speciali e la chiusura del montaggio ad opera di Andrew Weisblum (già montatore di The Wrestler).

La metamorfosi Ancora una volta, nell'opera di Darren Aronofsky, il Corpo figura come tema centrale; stavolta assume, però, nuova forma, si rivela un organismo vi­ brante e camaleontico, qualcosa che ricorda la “nuova carne” portata in scena da David Cronemberg in Videodrome (1983), capace di attraversare lo schermo e insinuarsi fra le membra dello spettatore, per poi sciogliersi e per­ dere sostanza, cambiando pelle e assumendo la forma digitale. Emerge, così, quella doppia anima che divide il lavoro del regista fra un cinema totalmente indipendente, riflessivo e intriso di realismo, e un cinema spettacolare, ca­ pace di stupire lo spettatore, alla ricerca di un proprio spazio fra le produ­ zioni mainstream. Negli aspetti che interessano la produzione esecutiva e nella costruzione della messa in scena ritroviamo il modus operandi sperimentato in The Wre­ stler. camera a mano, illuminazione naturale, particolare attenzione alla fase di ripresa e al realismo drammatico nell'interpretazione degli attori. Dall'al­ tra parte però troviamo un complesso sistema di messa in scena che necessita di un totale controllo del lavoro di filmmaking, un gran numero di effetti spe­ ciali, tanto nel profilmico quanto in postproduzione attraverso l'elaborazione

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di complessi visual effect; un lavoro compositivo che, assieme al montaggio e al missaggio della colonna sonora, dà forma ad un intricato sistema di sti­ moli psico-percettivi che assicurino un’esperienza perturbante allo spetta­ tore. Aronofsky torna, in questo modo, nel porre l'occhio narrante nel l'interiorità del personaggio, conferendo alla messa in scena una connota­ zione fortemente espressionista; un lavoro che necessita di un certo grado di controllo sul testo filmico. Così come in Pi greco, anche qui lo spettatore si vede intrappolato nel corpo del personaggio, vittima di un empatia fisica in­ dotta dalla perturbante messa in scena. La storia di Nina Sayers si rivela, così, una sorta di metafora epistemologica, esponendo attraverso il testo filmico quegli stessi concetti che si giocano nelle scelte artistiche del regista; il suo corpo si rivela una vera e propria metafora dello stesso testo filmico. Nell'arte del balletto il corpo è parte dell'opera, la sua forma, le sue mo­ venze e la sua grazia, una volta sul palco, necessitano di una perfezione inec­ cepibile. Viene da sé che nessuna parte del corpo può sfuggire al proprio controllo: esso viene costantemente osservato, curato e monitorato, diven­ tando oggetto di una ferrea disciplina. In questo modo il corpo smette di es­ sere una parte di se stessi, si distacca idealmente dalla propria esistenza e viene relegato alla pura funzione di strumento necessario all'esecuzione: gli viene imposta una dieta ferrea, viene sottoposto a torsioni e a trazioni, viene plasmato perché riesca ad assumere le posizioni e ad eseguire i movimenti previsti dalle coreografie. Esso finisce per oggettivarsi alla vista, tanto lon­ tano da se stessi da apparire disgustoso. Allo stesso tempo, l'oblio del sentire, funzione del corpo proprio come parte di se stessi, viene risvegliato solo at­ traverso l'esperienza del dolore, quest'ultimo diventa l'unico canale di comu­ nicazione attraverso cui si riesce ancora a rimanere in contatto con il mondo circostante. In The Black Swan si manifesta, così, quel tentativo di rompere il muro fra esperienza psicologica interiore e azione fisica, fra pensiero e azione, fra realismo fotografico ed effetto speciale, fra cinema indipendente e cinema mainstream; un tipo di ricerca che, consapevolmente o no, interes­ serà tutti i registi del cinema contemporaneo. Darren Aronofsky tenta di su­ blimare l'effetto speciale spettacolare attraverso un gioco simbolico che lo lega alla psicologia del personaggio, ma lo fa infrangendo quella plausibilità necessaria a far sì che lo spettatore non evada dal testo filmico e lo osservi dall'esterno. Nelle sequenze finali, mentre sul palco procede lo spettacolo, la camera da presa segue Nina fra le quinte e i camerini del teatro. Qui, dopo

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aver commesso un errore in scena, cadendo dalle braccia del ballerino, si scontra con Lily, la quale assume il suo stesso volto; Nina si trova così a scon­ trarsi con se stessa nelle vesti del Cigno Nero. Il tutto prende forma attra­ verso un incubo surreale, quasi infantile, una sorta di macabro “sogno lucido” in cui l'onirico e la realtà si intrecciano. In analogia con 11 Lago dei Cigni, in cui Odette consacra il suo amore abbandonandosi alla morte, lasciandosi ca­ dere dal dirupo, nella colluttazione nei camerini lo specchio si infrange e, con un suo frammento, trafiggendo il corpo della sua alter ego Nina uccide quella parte di sé e, allo stesso tempo, la interiorizza. Il film si rivela così una para­ bola del dolore, un gioco di simboli che combaciano alla perfezione in cui non rimane niente da scoprire, un enorme gioco di prestigio non riuscito, che in­ ganna lo spettatore e, allo stesso tempo, rivela il trucco, palesando, se non altro, la finzione cinematografica. Tutto ciò avviene attraverso una sorta di or­ rore feticista, attraverso una totale reificazione degli aspetti psicologici in cui tutto viene mostrato e nulla viene lasciato intendere. La fine del film coincide con la chiusura dello spettacolo, il primo tuttavia lascia interdetto lo spetta­ tore mostrando la ballerina, soccorsa dal maestro, ferita allo stomaco e in fin di vita. Non ci è dato sapere cosa si sia svolto nella realtà e cosa, invece, fosse solo parte della fantasia della protagonista.

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Conclusioni

Noah e altri progetti

Il successo commerciale e di critica di Black Swan ha confermato ciò che già The Wrestler aveva lasciato intendere: Darren Aronofsky si è dimostrato un regista tanto visionario quanto ambizioso, capace di piegare le esigenze produttive a quelle propriamente artistiche; in grado di sopravvivere nel mer­ cato cinematografico mainstream attraverso produzioni totalmente indipen­ denti e con film sempre fuori dai cliché del cinema commerciale. Negli anni il suo successo lo ha avvicinato sempre di più alle major, ai grandi colossi pro­ duttivi capaci di assicurare cifre a più di sei zeri per la realizzazione di block­ buster diretti al grande pubblico intemazionale; eppure, nonostante non siano mancate le occasioni, consapevole del tipo di lavoro necessario alla realiz­ zazione dei propri progetti, Darren Aronofsky ha spesso preferito l'indipen­ denza produttiva, ponendo sempre al primo posto, ancor prima della sua aspirazione, la coerenza artistica delle sue opere. Sono ancora tanti i progetti a cui Darren Aronofsky sarà impegnato negli anni successivi a Black Swan. Negli stessi anni, però, avanzano le trattative per altri progetti ancora in divenire. Il regista è già in trattativa con la stessa Paramount per l'acquisto di The generai, film biografico sulla storia del pre­ sidente degli Stati Uniti Geroge Washington, scritto da Adam Cooper e Bill Collage; un film che vedrebbe lo stesso regista fra i produttori e che assomi­ glierebbe più a Gli Spietati di Clint Eastwood che ai classici drammi storici. Fra i progetti del regista compare anche Get Happy, un altro biopic basato sulla storia di Judy Garland, artista al centro delle luci della ribalta durante gli anni d'oro del cinema hollywoodiano ma, allo stesso tempo, protagonista di una carriera controversa. Nello stesso anno Darren Aronofsky viene assunto dalla 20th Century Fox per dirigere il secondo spin-off della serie di film sugli X-Men incentrato sul

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personaggio di Wolverine, scritto da Christopher McQuarrie; il film rappre­ senterebbe una nuova occasione per lavorare con Hug Jackman, attore pro­ tagonista in The Fountain, ormai caro amico del regista. Le riprese si sarebbero dovute svolgere in Giappone nel marzo del 2011 ma saranno rin­ viate a causa del terremoto e del maremoto del Thohoku; nonostante il film rappresenti l'occasione di lavorare con una grande produzione, Darren Aro­ nofsky farà un passo indietro per non allontanarsi dalla sua famiglia per la du­ rata della lavorazione del film. Wolverine - L'immortale sarà diretto da James Mangalod e vedrà le sale cinematografiche solo nel 2013. Nello stesso anno Aronofsky viene coinvolto dalla HBO in un altro progetto, Hobgoblin, una serie TV fuori dalle righe, basata sulla storia di strane creature che con i loro poteri magici si oppongono alla Germania nazista di Hitler durante la Se­ conda Guerra Mondiale; la HBO ingaggia Aronofsky per la lavorazione e la regia del pilot televisivo, ma in seguito il regista abbandonerà anche questo progetto. Sempre nel 2011 Darren Aronofsky si dimostrerà attratto dal film XOXO, basato sulla storia di uno stalker ai tempi di Facebook, storia nata da un soggetto di Marl Heyman, già sceneggiatore di Black Swan; Aronofsky deciderà di partecipare alla produzione senza occuparsi della regia. Ancora, secondo voci di corridoio che girano fra gli studios Aronofsky è al lavoro per un film fantascientifico scritto Jeff Welch e prodotto da Akiva Goldsman con alle spalle la Warner Bros.; il film ha attratto l'attenzione di George Clooney che sembra interessato ad interpretare il ruolo del protagonista: il titolo è The Human Nature e tratterebbe la storia di un uomo che, ibernatosi, si risveglia in un futuro post-apocalittico in cui gli uomini sono stati schiavizzati da crea­ ture disumane. Intanto, nel novembre 2011 Darren Aronofsky dirige il videoclip The View singolo estratto dall'album Lulu, lavoro nato dall'ambigua collaborazione fra il cantautore Lou Reed e i Metallica; l'album raccoglierà giudizi contrastanti, fra lo stroncamento di una parte dei fan della band metal (c'è chi ha addirit­ tura parlato di minacce di morte nei confronti di Lou Reed da parte dei fan della band) e le critiche positive fra le riviste del settore musicale, fra cui «Rolling Stone». Altrettanto criticato è stato il singolo estratto dall'album, un brano dalle classiche sonorità metal della band ma caratterizzato dai toni an­ cora più sporchi del solito; qui la chitarra solista di Kirk Hammett si intrec­ cia con la poesia recitata dalla stridente voce di Lou Reed. Per le riprese del videoclip Darren Aronofsky chiamerà al suo fianco Matthew Libatique alla

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direzione della fotografia. La regia del video rispecchia a pieno i toni del brano musicale, in essa ritro­ viamo lo stile che ha contraddi­ stinto il primo lungometraggio del regista: un ruvido bianco e nero estremamente contrastato, una tra­ ballante camera a mano e bruschi zoom in pieno stile documentario. Il montaggio accelera il ritmo in accordo con la musica, alle imma­ gini della band intenta a suonare si sostituisce il volto tremante di Lou Reed, sdoppiato in diverse imma­ gini caleidoscopiche in trasparenza fra loro. Il videoclip viene spogliato di tutti gli orpelli e i fronzoli tipici tanto del genere quanto della pubblicità, allo stesso tempo, attraverso uno stile ru­ vido, Aronofsky firma il lavoro con la sua regia inconfondibile. Nel 2007, dopo l'uscita del suo terzo lungometraggio The Fountain, Aro­ nofsky rivelò al quotidiano inglese “The Guardian” di star lavorando a un film basato su uno dei racconti biblici più famosi. A tredici anni il regista vinse un premio scolastico nazionale grazie alla sua prima poesia, la quale raccontava della fine del mondo vista dagli occhi di Noè. Il peso della re­ sponsabilità affidatagli da Dio e la storia del suo “viaggio familiare” affasci­ navano il regista fin da quand'era piccolo. Egli considera Noè “un personaggio oscuro e complicato”, il primo nella storia dell'umanità a fare esperienza della vera “colpa del sopravvissuto” (in inglese sourvivor guilty, sindrome che colpisce un individuo che, a differenza della sua comunità, so­ pravvive ad un'epidemia, un disastro naturale o ad una guerra, e soffre la colpa per la morte dei suoi cari) in seguito al diluvio universale. Il progetto cinematografico nasce nel momento in cui la mancata partecipazione di Brad Pitt fa fallire la prima produzione di The Fountain', sarà, infatti, lo stesso Ari Handel (già sceneggiatore di The Fountain e collaboratore del regista in The Wrestler e Black Swan) a lavorare alla sceneggiatura assieme ad Aronofsky. Prima ancora di diventare un film, la sceneggiatura di Noah viene adattata come graphic novel sotto la matita del disegnatore canadese Niko Herichon 123

(in passato fra i disegnatori di New X-Men, Sandman e Spider-Man), pubbli­ cato per la prima volta in Francia nel 2011 e pubblicizzato con un trailer su internet che svelava alcuni disegni del lavoro. Durante Providence Film Fe­ stival del 2011, in cui ha ricevuto un premio alla carriera, Darren Aronofsky dichiara: “Non penso sia una storia molto religiosa, credo sia una grande fa­ vola, parte di diversi studi religiosi e spirituali. Credo solo che sia una grande storia che non si vedrà mai in un film”. Contro le previsioni del regista, il progetto cinematografico guadagnerà l'attenzione della Paramount e della Regency e godrà del budget di 130 milioni di dollari; alla rielaborazione della prima sceneggiatura parteciperà anche John Logan (sceneggiatore di The Aviator e II Gladiatore), nonostante non verrà accreditato nel film. Tanto la graphic novel quanto l'adattamento cinematografico rimarranno totalmente fedeli al testo biblico. Guardando ai progetti in fase di lavorazione fra gli studios americani, sem­ bra che Noah (2014) abbia rappresentato l'apripista di una serie di colossal tutti ispirati a racconti biblici: la Warner Bros, da un po' starebbe lavorando alla produzione di un film su Mosé alla cui regia aspira Steven Spielberg, allo stesso tempo starebbe sviluppando anche il progetto di un film su Pon­ zio Pilato; la 20th Century Fox, dal canto suo, sembra lavorare ad un altro film su Mosè basato Sull'Esodo, con la possibilità di avere Ridley Scott alla regia; ancora, la Sony embra interessata alla storia di Caino e Abele. A pensarlo po­ trebbe far sorgere qualche dubbio, ma non è per niente difficile crederlo dal momento che The Passion di Mei Gibson nel 2004 ha sbancato al botteghino, incassando in tutto il mondo circa 611 milioni di dollari. Secondo il vicepre­ sidente della Paramount Rob Moore, il ritorno alle sacre scritture è dovuto al fatto che, così come le storie di supereroi, i racconti biblici sono facilmente riconoscibili dal grande pubblico; nonostante la Bibbia sia il più grande be­ stseller del mondo sulle sacre scritture non ci sono diritti da pagare, in più, in tempi di crisi economica, il pubblico sembra essere ben disposto a riavvici­ narsi ai temi di ispirazione religiosa e spirituale. Per quanto riguarda il kolossal diretto da Darren Aronofsky, al film hanno lavorato tutti i suoi collaboratori di sempre: Scott Franklin alla produzione, Matthew Libatique alla fotografia, Clint Masell alla colonna sonora e An­ drew Weisblum al montaggio. Nelle prime fasi di lavorazione fu offerto il ruolo di protagonista a Christian Baie e a Michael Fassbender, ma entrambi rifiutarono la parte; il film godrà comunque di un cast di tutto rispetto, fra 124

cui: Russell Crowe, nella parte di Noè, Anthony Hopkins, nei panni di Matusa­ lemme, Jennifer Connelly nelle vesti della moglie di Noè e Emma Watson nella parte della figlia adottiva. Le riprese del film inizieranno nel giu­ gno 2012, alcune di queste si svolgeranno nel nord dell'Islanda, per il resto gran parte della lavorazione del film si svol­ gerà a New York. Il Planting Fields Arbo­ retum State History Park di New York sarà il parco naturale che farà da location per buona parte del film, in cui verrà co­ struita l'enorme arca; le riprese si chiude­ ranno il 17 novembre del 2012 dopo essere state interrotte per alcuni giorni a causa dell'uragano Sandy, abbattutosi sulla costa ovest durante l'ottobre dello stesso anno. Durante tutta la lavorazione del film Darren Aronofsky e la sua troupe rivelano, tramite delle immagini pubblicate su Twitter, alcuni retro­ scena del film, fra cui una foto di Russell Crowe nei panni di Noè, con i ca­ pelli rasati e una folta barba. Nell’ottobre 2012 Darren Aronofsky pubblica sullo stesso social network una foto della struttura dell'arca con il messaggio “Sognavo questo da quando avevo 13 anni. Adesso è realtà. Genesi 6; 14”, il messaggio fa riferimento al passo della Bibbia in cui Dio indica a Noè il modo in cui costruire l'Arca. In seguito, lo stesso direttore della fotografia Metthew Libadique pubblicherà sempre tramite Twitter una foto dell'intemo dell'arca estratto dalla postproduzione del film per stuzzicare la fantasia dei fan. Il 14 novembre del 2012 viene pubblicato su YouTube il trailer del film, annun­ ciando la sua uscita per il 14 marzo 2014; Noah vedrà per la prima volta le sale italiane il 10 aprile 2014.

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Filmografìa

Pi Greco - Il teorema del delirio (Pi, USA 1998) [84 min, 16mm B/N, ratio 1.66:1, suono Dolby] Regia: Darren Aronofsky Scritto da: Darren Aronofsky, Sean Gullette, Eric Watson Prodotto da: Darren Aronofsky, Eric Watson, Scott Vogel, Scott Franklin Produzione esecutiva: Tyler Brodie, David Godbout, Randy Simon, Jonah Smith Fotografìa: Matthew Libatique Montaggio: Oren Sarch Scenografìa: Matthew Maraffi Trucco: Ariyela Wald-Chain Musica: Clint masell Sound Design: Brian Emrich Visual Effect: Jeremy Dawson, Dan Schrecker Cast: Sean Gullette (Maximilian Cohen), Mark Margolis (Sol Robenson), Ben Shenkman (Lenny Meyer), Pamela Hart (Marcy Dawson), Stephen Pe­ arlman (Rabbi Cohen), Samia Shoaib (Devi), Clint Masell (fotografo), Ari Handel (Kaballah Scholar) Premi: Sundance Film Festival (Migliore regista), Indipendente Spirit Awards (miglior prima sceneggiatura), Florida Film Critics Award (regista rivelazione dell'anno), Gotham Awards (miglior regia), Malaga International Week of Fantastic Cinema (miglior sceneggiatura), National Board of Re­ view (premio Speciale), Thessaloniki Film Festival (menzione speciale).

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Requiem for a Dream (USA, 2000) [ 102 min, 35mm colore, ratio 1.85:1, suono Dolby Digital] Regia: Darren Aronofsky Scritto da: Hubert Selby Jr., Darren Aronofsky Prodotto da: Eric Watson, Palmer West, Scott Franklin, Scott Vogel, Rendy Simon, Jonah Smith Produzione esecutiva: Ben Barenholtz, Beau Flynn, Stefan Simchowitz, Nick Wechsler Fotografìa: Matthew Lebatique Scenografìa: James Chinlund Costumi: Laura Jean Shannon Montaggio: Jay Rabinowitz Musica: Clint Masell Sound Design: Brian Emrich Effetti Speciali: Drew Jiritano Visual Effect: Jeremy Dawson, Dan Schrecker Cast: Ellen Brustyn (Sara Goldfarb), Jared Leto (Harry Goldfarb), Jannifer Connelly (Marion Silver), Marlon Wayans (Tyrone C. Love), Christopher McDonald (Tappy Tibbons), Louse Lasser (Ada), Keith David (“Little John”), Macia Jean Kurtz (Rae), Janet Sarno (signora Parlman), Suzanne Sherpherd (signora Scarlini), Joanne Gordon (signora Ovada), Charlotte Aro­ nofsky (signora Miles), Mark Margolis (signor Raibnowitz), Hubert Selby Jr. (Guardia della mensa).

Below ( USA, 2002) [ 105 min, 35mm colore, ratio 1.85:1, suono DTS, SDDS, Dolby Digital] Regia: David Twohy Scritto da: Darren Aronofsky, David Twohy, Lucas Sussman Prodotto da: Darren Aronofsky, Sue Baden-Powell, Eric Watson Produzione esecutiva: Andrew, Bob Winstein, Harvey Weinstein Fotografìa: Ian Wilson Montaggio: Martin Hunter Cast: Bruce Greenwood (Brice), Matthew Davis (Odell), Olivia Williams

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(Claire), Holt McCallany (Loomis), Scott Foley (Coors), Zach Galifanakis (Weird Wally), Jason Femyng (Stumbo), Dexter Fletcher (Kingsley), Nick Chinlud (Chief), David Twohy (capitano inglese).

The Fountain - L'Albero della Vita (The Fountain, USA, 2006) [96 min, 35mm colore, ratio 1.85:1, suono DTS, Dolby Digital] Regia'. Darren Aronofsky Scritto da: Darren Aronofsky, Ari Handel Prodotto da: Eric Watson, Iain Smith, Arnon Milchan, Ari Handel Produzione esecutiva: Nick Wechsler Fotografìa: Matthew Lebatique Scenografìa: James Chinilund Costumi: Renée April Montaggio: Jay Rabinowitz Musica: Clint Masell Sound Design: Brian Emrich, Stephen Barden, Scraig Henighan Effetti Speciali: Stephan Gilbert, Louis Craig Visual Effect: Dan Schrecker, Cast: Hung Jackman (Tomas/Tommy/Tom Creo), Rachel Wisz (Isabel/Izzi Creo), Ellen Burstyn (Dr. Lillian Guzzetti), Mark Margolis (padre Avila), Ste­ phen McHattie (Gande Inquisitore Silencio), Fernando Hernandez (principe di Xibalba), Cliff Curtis (Capitan Ariel), Sean Patrick Thomas (Antonio) Donna Murphy (Betty), Ethan Suplee (Manny).

The Wrestler (USA, 2008) [112 min, 16mm colore, ratio 2.35:1, suono DTS, SDDS,Dolby Digital] Regia: Darren Aronofsky Scritto da: Robert D. Siegel Prodotto da: Darren Aronofsky, Scott Franklin, Mark Heyman Produzione esecutiva: Jennifer Roth, Evan Ginzburg, Ari Handel, Vincent Maraval, Agnès Mentre

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Fotografìa'. Maryse Alberti Scenografìa: Tim Grimes Montaggio: Andrew Weisblum Costumi: Amy Westscott Trucco: E. Morrow Musica: Clint Masell Sound Design: Brian Emrich Effetti Speciali: Drew Jiritano Visual Effect: Dan Schrecker Effetti Prostetici: Michael Marino Cast: Mickey Rourke (Randy 'The Ram' Robinson), Marisa Tomei (Cassindy), Evan Rachel Wood (Stephanie), Mark Margolis (Lenny), Todd Berry (Wayne), Wass Stevens (Nick Volpe), Judah Friedlander (Scott Brumberg) Ernest Miller (The Ayatollah), Dylan Keith Summers (Necro Butcher), Tommy Farra (Tommy Rotten). Premi: Festival del Cinema di Venezia (Leone d'Oro), Golden Globe (mi­ glior attore protagonista drammatico; miglior brano originale a The Wrestler di Bruce Springsteen), Indipendent Spirit Awards (miglior film), London Cri­ tics Circle Film Awards (miglior film, miglior regista), BAFTA Awards (mi­ glior attore protagonista, miglior attrice non protagonista a Marisa Tornei), AFI Awards (film dell'anno), Boston Society of Film Critics Awards (miglior attore protagonista), Broadcast Film Critics Association Awards (miglior brano a The Wrestler di Bruce Springsteen), Central Ohio Film Critics Asso­ ciation (miglior attore protagonista e migliore attrice non protagonista a Marisa Tornei), Chicago Film Critics Association Awards (miglior attore protagonista), Florida Film Critics Circle Awards (miglior attore protagoni­ sta e migliore attrice non protagonista a Marisa Tomei), Indipendent Spirit Awards (miglior film, miglior attore protagonista e miglior fotografia), Kan­ sas City Film Critics Circle Awards (miglior regista, miglior attore protago­ nista, miglior sceneggiatura originale), Las Vegas Film Critics Society Awards (miglior attrice non protagonista a Marisa Tornei), London Critics Circle Film Awards (film dell'anno, attore dell'anno a Mickey Rourke e regista dell'anno), National Board of Review (fra i migliori dieci film), On Line Film Critics Society Awards (miglior attore protagonista, miglior attrice non protagonista a Marisa Tornei), Phoenix Film Critics Society Awards (miglior attrice non protagonista a Marisa Tornei, miglior brano originale The Wrestler di Bruce 130

Springsteen), San Francisco Film Critics Circle (miglior attore protagonista, miglior attrice non protagonista a Marisa Tornei), Tallinn Black Nights Film Festival (miglior regista), Toronto Film Critics Association Awards (miglior attore protagonista), Washington DC Area Film Critics Association Awards (miglior attore protagonista).

Il Cigno Nero {Black Swan, USA, 2010) [ 108 min, 16mm colore, ratio 2.35:1, suono DTS, SDDS, Dolby Digital] Regia: Darren Aronofsky Scritto da: Mark Heyman, Andres Heinz, John J. McLaughlin Prodotto da: Scott Franklin, Jerry Fruchtman, Rose Garnett, Mike Medavoy, Brian Oliver, Arnold Messer, Joseph P. Reidy Produzione esecutiva: Jennifer Roth, Ari Handel, Jon Avnet, Brad Fischer, Peter Fruchman, Rose Garnett, Rick Shwartz, Tyler Thompson, David Thwaites Fotografìa: Mattehew Libatique Scenografìa: Thérèse DePrez Montaggio: Andrew Weisblum Costumi: Amy Westscott Trucco: Judy Chin Musica: Clint Masell Sound Design: Brian Emrich Effetti Speciali: Michael Bird, Conrad V. Brink Jr. Visual Effect: Dan Schrecker, Collen Machman, Michael Capton, Brad Kalinoski Effetti Pro stetici: Michael Marino Cast: Natalie Portman (Nina Sayers), Mila Kunis (Lily), Vincent Cassel (Thomas Leroy), Barbara Hershey (Erica Sayers), Winona Ryder (Beth Macintyre), Benjamin Millepied (David), Ksenia Solo (Veronica), Kristina Anapau (Galina), Janet Montgomery (Madeline),Toby Hemigway (Tom), Sergio Torrado (Sergio), Mark Margolis (Mr. Fithian), Tina Sloan (Mrs. Fithian); Sarah Lane, Abby Nelson, Kimberly Prosa (controfigura Natalie Portman). Premi: Indipendent Spirit Awards (miglior regista, miglior film, miglior fo­ tografia), San Francisco Film Critics Circle Awards (miglior regista), Scream

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Awards (miglior regista), Academy Awards (Oscar per la miglior attrice pro­ tagonista a Natalie Portman), Golden Globe (miglior attrice protagonista drammatica), Festival del Cinema di Venezia (premio Marcello Mastroianni a Mila Kunis) BAFTA Awards (miglior attrice protagonista), Screen Actors Guild Awards (miglior attrice protagonista), AFI Awards (film dell'anno), Academy of Motion Pictures Arts and Sciences of Argentina (miglior film), Accademy of Science Fiction, Fantasy e Horror Film (miglior attrice prota­ gonista e miglior attrice non protagonista a Mila Kunis), Art Directors Guild (miglior scenografia), Austin Film Critics Association (miglior film, miglior regista, miglior attrice protagonista, miglior sceneggiatura originale, miglior fotografia), Blue Ribbon Awards (miglior film), Boston Society of Film Cri­ tics Awards (miglior attrice protagonista, miglior montaggio), Broadcast Film Critics Association Awards (miglior attrice protagonista), Central Ohio Film Critics Association (miglior attrice protagonista), Chicago Film Critics As­ sociation Awards (miglior attrice protagonista, miglior colonna sonora origi­ nale), Costume Designers Guild Awards (miglior costume con temporaneo), Dallas-Fort Worth Film Critics Association Awards (miglior attrice protago­ nista), Fagoria Chainsaw Awards (miglior film, miglior attrice protagonista, miglior sceneggiatura, miglior colonna sonora, miglior attrice non protago­ nista a Barbara Hershey), Florida Film Critics Circle Awards (miglior attrice protagonista), Kansas City Film Critics Circle Awards (miglior attrice prota­ gonista), Las Vegas Film Critics Society Awards (miglior attrice, miglior re­ gista), Los Angeles Film Critics Association Awards (miglior fotografia), On Line Film Critics Awards (miglior attrice protagonista), New York Film Cri­ tics Circle Awards (miglior fotografia), Palm Spring International Film Fe­ stival (miglior attrice protagonista), Phoenix Film Critics Society Awards (miglior attrice protagonista), Prismo Awards (miglior film), Rembrant Awards (miglior attrice internazionale), San Diego Film Critics Society Awards (miglior regista), Southeastern Film Critics Association Awards (mi­ glior attrice protagonista), Teen Choice Awards (miglior film drammatico, miglior attrice drammatica)

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The View (videoclip, USA, 2011) [5.17 min, 16mm B/N] Regia: Darren Aronofsky Fotografìa: Matthew Libatique Brano: The View, singolo estratto dall'album Lulu (2011) Musicisti: Lou Reed & Metallica (James Hetfield, Kirk Hammett, Robert Trujillo, Lar Ulrich)

Noah (Noah, USA, 2014) Regia: Darren Aronofsky Scritto da: Darren Aronofsky Ari Handel Prodotto da: Darren Aronofsky, Scott Franklin, Amy Herman, Anon Mil­ chan, Mary Parent Produzione esecutiva: Chris Brigham, Ari Handel Direzione della fotografìa: Mattehew Libatique Scenografìa: Mark Friedberg Montaggio: Andrew Weisblum Costumi: Michael Wilkinson Trucco: Jo Allen, Ragna Fossberg, Scott Hersh, Craig Lindberg, Craig Lyman, Donyale McRae, Jeremy Selenfried Musica: Clint Masell Effetti Speciali: Mathieu Baptista, Lindsay Boffoli, Burton Dalton, R. Bruce Steinheimer Visual Effect: Dan Schrecker, David Eschrich, Phillip Hoffman, Matt Ku­ shner, Nathan Overstrom, Jef Wozniak, Dave Zeevalk Cast: Russell Crowe (Noah), Jennifer Connelly (Naameh), Emma Watson (Ila), Logan Lerman (Ham), Anothony Hopkins (Methuselah), Ariane Rineheart (Eve), Kevin Durand (Og), Duglas Booth (Shem), Marton Csokas (La­ mech), Dakota Goyo (Noah da piccolo), Ray Winsone (Tubal-cain), Madison Devenport (Na'el), Mark Mangolis (Samyaza), Barry Sloane (Leader brac­ conieri), Gavin Casalegno (Sem da piccolo), Skylar Burke (Ila da piccola), Sami Gayle (Sami), Finn Wittrock (giovane Tubal-cain), Johannes Haukur Johannesson (Caino), Amar Dan (Abele).

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Bibliografìa

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