Kurosawa Akira. Rashomon 8871809807, 9788871809809

"È stato il primo film giapponese distribuito in Occidente, il primo a vincere il Leone d'Oro, il primo a...&q

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Kurosawa Akira. Rashomon
 8871809807, 9788871809809

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Universale / Film

© 2012 Lindau s.r.l. Corso Re Umberto 37 - 10128 Torino Prima edizione: marzo 2012 ISBN 978-88-7180-980-9

Marco Dalla Gassa

KUROSAWA AKIRA RASHŌMON

KUROSAWA AKIRA RASHŌMON

a Eric e Annette

Viaggio a Kyoto. Un’introduzione

Un edificio filmico da ricostruire Sono undici le inquadrature che compongono i titoli di testa di Rashōmon. Le immagini, sopra le quali vengono scritti i crediti, ci mostrano alcuni particolari del portale di Rashō, l’ingresso meridionale della antica capitale di Kyoto: l’insegna, le travi, i capitelli, le colonne, i soffitti, le pareti in muratura, la scalinata, la tettoia, la pavimentazione. Ci vuole poco a capire che la struttura sta cadendo a pezzi. Alcuni piloni giacciono a terra, parti delle tettoie e dei soffitti sono crollati, alcune travi sono spezzate, il pavimento è allagato. Eh sì, perché, come se non bastasse, sul monumento si sta abbattendo un temporale così violento da sommergere ogni particolare architettonico e accentuare il senso di caducità e abbandono dell’edificio. L’acqua si apre vie dappertutto tra scrosci di pioggia che precipitano dai piani superiori, rigagnoli che percorrono a gran velocità le grondaie, pozzanghere che si allargano progressivamente, gradinate che si trasformano in piccole cascate.

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Non sorprende che non vi sia traccia di presenza umana. Il portale sembra disabitato. Si sa che i titoli di testa sono una sorta di «zona franca tra il mondo della realtà e quello della finzione» 1, «zona indecisa, liminare, di passaggio, di transizione […] costitutivamente indecisa tra il dentro e il fuori» 2. Di più, sono oggetti metadiscorsivi che svelano il meccanismo della finzione (raccontandoci la storia produttiva di un film) mentre attivano gradualmente tutti quei processi fisiologici o psicologici (sensibilità percettiva più accesa, identificazione proiettiva, sospensione dell’incredulità ecc.) che garantiscono un lento e protetto avviamento all’«immersione» filmica. Sono, in altri termini, vestiboli che separano e uniscono realtà ontologicamente diverse, portali e luoghi di passaggio, la cui funzione è quella di introdurre e, nel contempo, farsi dimenticare il prima possibile, letteralmente sparire. Ebbene Rashōmon impiega meno di due minuti per rimettere in gioco tali convinzioni e per infondere loro un’alterità di fondo. Qui il punto di accesso (alla finzione, alla diegesi, alla ricezione) è in avanzato stato di abbandono. Nessun baluardo segna il confine tra il dentro e il fuori e nessuna figura, antropomorfa o astratta, si assume il compito di accogliere chi si presenta all’uscio (straniero, vagabondo, spettatore che sia) e favorirne un soggiorno gradevole e consapevole di diritti e doveri (della visione). Al contrario, incustodito e abbandonato, il portale di Rashō ratifica la fama letteraria di cui gode 3, in qualità di luogo ambiguo e pernicioso che offre asilo a demoni, spiriti maligni e – lo scopriremo più avanti nel corso del film – persino a cadaveri non reclamati.

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Chi vi si affaccia (toccherà a un viandante poche inquadrature dopo), lo fa dunque con tutt’altra cognizione: quella del pericolo, dell’azzardo, del rischio di perdersi fisicamente o moralmente. D’altra parte, anche avvertire dei pericoli che si corrono è una forma di accoglienza e di preparazione alla visione. Lo spettatore che si trova giocoforza sulla soglia del film, e poi al suo interno, vive immediatamente una condizione di rischio esegetico e allerta i suoi sensi (o almeno dovrebbe farlo se fosse previdente). Gli undici piani iniziali mostrano, difatti, solo dei frammenti dell’edificio, dettagli architettonici che non godono mai – se non nella dodicesima inquadratura che tuttavia già appartiene alla prima sequenza e non ai titoli di testa – di un establishing shot, un piano totale, che consenta di collocarli in un quadro d’insieme, per valutarne ad esempio posizione, grado di usura, correlazione e reciprocità con le parti restanti del complesso monumentale. Essi sono come tessere di un puzzle che devono essere giustapposte e integrate tra loro in un gioco di pazienza di cui, almeno in quelle undici inquadrature, non viene data soluzione. Detto altrimenti, sul tavolo restano pezzi sparsi di un’immagine disaggregata che possono sperare di ritrovare una propria unità soltanto nella mente dello spettatore, cui è affidata un’attività speculativa che comporta fatica, concentrazione e possibilità di fallimento. Se pertanto i titoli di testa accolgono lo spettatore e lo introducono nella finzione, lo fanno avvisando che un enigma sta per essere inscenato, un enigma la cui ricomposizione non è contenuta dentro le singole immagini bensì affidata alla capacità ricettiva, percet-

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tiva, ricostruente, analitica di chi guarda. E, nel caso i titoli di testa falliscano nel loro compito di ammonimento e allerta, ci pensano le prime parole pronunciate da un personaggio – il «Non capisco», «Proprio non capisco il perché» del boscaiolo – ad asserire la predisposizione della pellicola a farsi interpretare. Urge una spiegazione che offra risposte esaurienti a dubbi che immobilizzano, fisicamente e moralmente, i pochi uomini coraggiosi – un monaco, un boscaiolo, un vagabondo – che si sono riparati sotto il portale, in attesa che la burrasca si plachi. Si stanno domandando chi sia stato a uccidere un samurai trovato morto nel cuore della foresta pochi giorni prima. Due di loro hanno anche assistito all’udienza del processo durante il quale i sospetti – un celebre bandito, la moglie del samurai, lo stesso samurai attraverso l’intermediazione di una medium – hanno rilasciato dichiarazioni contraddittorie e lacunose. Anche le loro deposizioni sono tessere di un mosaico che non si riesce a completare.

Una ricezione scomposta È chiaro che quando s’inizia a redigere l’analisi di un’opera che contiene un enigma irrisolto, la prima tentazione è quella di rispondere alle domande che restano sospese. Chi ha ucciso il samurai? Qual è il suo movente? Chi ha mentito e chi ha detto la verità al giudice? Di cosa parla veramente questa storia e cosa ci insegna? Se poi ha ragione Casetti quando definisce l’analisi filmica «come un insieme di operazioni compiute su un oggetto e consistenti in

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una sua scomposizione e in una sua successiva ricomposizione al fine di individuarne meglio le componenti, l’architettura, i movimenti, le dinamiche ecc. in una parola i principi di costruzione e di funzionamento» 4, ciò vuol dire che il nostro compito dovrebbe essere quello di scomporre le già scomposte tessere rashōmoniane e riassemblarle in modo tale da erigere un edificio filmico più resistente e solido del portale di Rashō. Ovviamente di risposte ne sono state date a grappoli nell’ampia letteratura dedicata al film o al suo regista, e spesso tali sforzi ricostruttivi hanno adottato la metafora investigativa come veicolo di comprensione e di ricostruzione di senso. Si pensi a Donald Richie che, nell’analisi di quello che egli stesso ha re-intitolato The Great Rashomon Murder Mystery 5, si lancia in una spericolata indagine alla ricerca della verità sotterranea che si nasconde tra le quattro versioni tra loro incompatibili, vagliando indizi, mettendo a confronto i teste, elaborando diagrammi narrativi, il tutto per capire cos’è veramente successo, chi ha veramente mentito e chi no 6. Si pensi anche a Harrison Parker Tyler che, in un suo celebre saggio sul profilo modernista di Rashōmon (ci ritorneremo alla fine del volume), pur ammettendo l’insensatezza di un metodo poliziesco di indagine, cerca comunque di ricondurre all’unità propria dell’arte e alla coesione estetica del capolavoro l’immagine scomposta offerta dal film, affermando che se esiste un enigma, questo è dato dalla dimensione impenetrabile della vita stessa 7. E poi, si rammentino i tanti interventi che – soffermandosi chi sul presunto umanesimo del regista (Desser), chi sulle condizioni di manifestazione dell’egoismo e del relativismo (Kauff-

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mann), chi sul simbolismo latente nel testo (McDonald), chi sui principi di concausalità (Goldstein), chi sui processi di negoziazione sociale e culturale dei personaggi (Van Es) ecc. – hanno anch’essi cercato di spiegare il vero senso del testo, di individuare le implicazioni morali, sociali o psicologiche del fatto narrato, di parafrasare il messaggio più o meno esplicito del finale, dimostrando così uno stringente bisogno di appianare i conflitti e le aporie per giungere, in qualche modo, a una chiusa rassicurante 8. D’altronde, già all’indomani del Leone d’oro vinto alla Mostra del cinema di Venezia nel 1951, si registrano un accendersi e poi un moltiplicarsi delle ermeneutiche sul film. L’insieme di questi testi costituisce, per molti versi, un fenomeno ricettivo di tale intensità da influenzare le stratificazioni critiche successive e da meritare qui un breve commento 9. La maggior parte di quanti sono chiamati, in quei mesi, a valutare il valore estetico e la portata culturale di Rashōmon si trova in una condizione di analfabetismo quasi assoluto verso lo «stato dell’arte nipponica»: senza aver mai visto altri film del Sol Levante e conoscendo ben poco di quel lontano e antico paese, molti recensori commettono errori e imprecisioni a catena. C’è chi confonde la datazione storica (con una differenza di diversi secoli da una recensione all’altra), chi la paternità del film (per alcuni il regista è Akutagawa), chi sbaglia la traslitterazione (si trovano molti Achira Curosawa, Rasciomon, Tosciro Mifune, anche a causa dei diversi sistemi di trascrizione adottati); alcuni sostengono che Kurosawa recita nella parte del monaco o del poliziotto, altri che la cinematografia nipponica non ha mai prodotto opere inte-

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ressanti prima di allora, altri ancora di aver amato il film pur senza aver compreso dialoghi e sottotitoli! Al di là di questi pur illuminanti abbagli, scorrendo le recensioni dell’epoca si possono individuare strategie retoriche e manipolative atte a «gestire» l’ignoto e situarlo in un quadro gnoseologico più famigliare. Accanto al costante ricorso ad aggettivi «sbalorditivi» che collocano l’opera nell’alveo dello straordinario e quindi dell’irripetibile, ecco comparire timidi tentativi di collazione con altre forme espressive giapponesi (il teatro Kabuki, il Nō, l’intaglio, la calligrafia, la pittura classica), azzardati paragoni con corpus artistici più prossimi ai nostri (quelli della tradizione greca e latina, con richiami a Fedro, Sofocle, Platone, quelli dei drammaturghi e romanzieri del passato, con riferimenti a Pirandello, Shaw, Gide, Shakespeare, Anouilh, quelli dei cineasti in voga, come Cocteau, Guitry, Duvivier, Lang, Rossellini), instabili dialogismi tra supposti caratteri «specifici» del Levante e altri del Ponente (in questo caso le modalità del confronto partono dal presupposto che l’Altro sia una sorta di Robinson Crusoe da educare, un buon selvaggio da civilizzare o, qualora trasgredisca, da rimettere al proprio posto) 10. Vuoi perché restituiscono l’immagine di un Giappone immutabile e senza tempo (a fronte della ricchezza di trasformazioni e storicizzazioni dell’Occidente), vuoi perché collocano Rashōmon in un’ideale pinacoteca composta di sole opere d’arte occidentali, vuoi perché istituiscono confronti culturali tra Oriente e Occidente che prevedono opposizioni bipolari e inconciliabili (primitivo/moderno, astratto/fenomenico, semplice/complesso, oscuro/chiaro) e che sempre assegnano al

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Levante, tra le due possibili, la categoria più «naïf», sta di fatto che i primi scritti europei e americani sull’opera di Kurosawa sembrano adottare una strategia di «gestione» dell’altro e più in generale dell’ignoto che Said non avrebbe esitato a definire orientalista 11. Bastino gli esempi riportati – e la lettura diretta di alcuni brani di queste recensioni inseriti nell’antologia che chiude il volume – per rilevare come attorno alla pellicola si produca un dibattito a dir poco confuso, con il suo corteo di imprecisioni e malintesi, ma anche, come si diceva, con alcune fondamentali ricadute «storiografiche» nel breve e nel lungo periodo. Da una parte tali forme di ricezione assicurano una circolazione dinamica e continua alle questioni rashomoniane poiché attivano costanti riletture, riscritture, calibrature, precisazioni. Dall’altra esse definiscono un largo e cedevole perimetro del dicibile che finisce per generare a sua volta nuovi fatti significanti attorno e dentro l’opera 12. Considerando queste recensioni come forme paratestuali, ovvero come «luoghi privilegiati della dimensione pragmatica dell’opera, vale a dire della sua azione sul lettore [o spettatore]» 13, si è infatti portati a credere che il ruolo delle prime critiche sia stato quello di prolungare l’esistenza di Rashōmon configurandolo in un senso più ampio e assorbente. Insieme ai premi, alle locandine, alle cartelle stampa, ai trailer, alle interviste, i primi testi si sono offerti come «mediatori culturali», facilitatori di una ricezione diffusa e, al contempo, assai alterata, in una certa misura persino contraffatta. Si pensi ai poster preparati dalla RKO per la distribuzione negli States (fig. 1) che dispongono le foto di scena dei tre personaggi principali al-

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l’interno di poligoni che hanno lati e angoli di diversa lunghezza e ampiezza, ovvero dentro figure geometriche anomale, inquietanti e minacciose che accentuano il senso di difformità, sregolatezza e disordine del racconto 14. Si pensi allo stesso trailer giapponese che inserisce brani filmici estranei all’universo diegetico 15 e che tramite associazioni mentali create ad hoc informa le attese spettatoriali secondo moduli narrativi alternativi a quello originale. Ecco che la tentazione esegetica di cui sopra, l’istigazione a rispondere alle domande sospese, deve fare i conti con un panorama discorsivo nei fatti confuso e instabile. Non è accidentale che gli equivoci e gli abbagli continuino a verificarsi anche nei decenni successivi (alcuni dei quali citeremo nel corso del volume) quando si registrano interventi di commento e parafrasi di straordinaria varietà. Come orsi attratti dal miele, sentono il richiamo alla parafrasi rashōmoniana non solo critici e teorici di cinema, ma anche studiosi di sociologia, di narratologia, di psicanalisi o psicologia, di antropologia, di gender studies, di scienze della formazione, di semiologia, di storia e filosofia, di diritto, di biologia, persino politologi, ex militari, ingegneri 16. Si esala un fumo esegetico che nei fatti rende ardua e faticosa una anche minima attività di storicizzazione o di riordinamento dialettico dei discorsi in atto. Il film si trasforma in una giostra ermeneutica aperta ai contendenti più disparati, alcuni dei quali poco abituati a cavalcare corsieri cinematografici. Nel compendio Essential of Mass Communication Theory, Arthur Asa Berger ci offre una precisa miniatura di tale ricettività assorbente quando sceglie Rashōmon come immagine-specchio per deli-

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neare compiti e prospettive dell’analista. Chi studia un fenomeno comunicativo – sostiene l’autore americano – si trova nella condizione dei sospetti del nostro processo: senza dati oggettivi a disposizione, come un Tajōmaru, una Masago o un Takehiro qualsiasi, prova a «giustificare i propri metodi e mostrare […] come le proprie teorie siano in grado di spiegare gli eventi meglio di quanto non lo facciano le altre» 17. In altre parole non esiste un solo modo corretto per interpretare un testo, una strada maestra di comprensione, esiste piuttosto un ampio numero di metodologie di analisi, ognuna delle quali offre particolari elementi di interesse. E per dimostrare la bontà di tale ipotesi, Berger presenta alcune letture «partigiane» del film, ognuna delle quali adotta un particolare approccio teorico (strutturalista, femminista, marxista, teoretico, antropologico ecc.), cercando di dimostrare come esse producano, sul medesimo oggetto di studio, forme di sapere convincenti, per quanto talora antitetiche 18. Convincenti, diciamo noi, fino a un certo punto, perché il risultato del lavoro di Berger (e più in generale di tutta la letteratura su Rashōmon) è un caleidoscopio di possibili interpretazioni che, per assicurarsi una certa coerenza, seleziona alcuni elementi significativi, ma ne rimuove altri, quelli di troppo, quelli che non rispondono a un principio di omogeneità determinato a monte. Visti a distanza, gli «scarti di lavorazione» appaiono altrettanto produttivi degli oggetti finiti (le singole proposte interpretative), anche perché spesso questi ultimi, pur illuminanti per le singole discipline convocate, raramente si rivelano capaci di un reale confronto reciproco.

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Si può evidenziare meglio il fenomeno di distorsione o deflagrazione centrifuga del senso ricordando, brevemente, che, grazie anche alla propagazione che ha conosciuto nel panorama mediale e culturale degli ultimi anni, Rashōmon può vantare, come poche altre opere cinematografiche, un numero rilevante di imitazioni, remake, rifacimenti, riprese, citazioni, ammiccamenti. Si trovano richiami al film di Kurosawa in pellicole che appartengono quasi a ogni genere cinematografico, ogni decennio e ogni area geografica 19, in episodi di molte serie televisive 20, in testi o nomi di band della produzione musicale underground (basta fare una piccola ricerca su myspace), in molti anime, fumetti, videogames e ancora in alcuni dipinti, in animazioni in stop motion 21 e così via. Nella maggior parte dei casi ci troviamo davanti a testi che non si mettono davvero in dialogo con Rashōmon, nel senso che si accontentano semplicemente di sfruttarne gli stratagemmi narrativi (le versioni contrastanti di uno stesso fatto) o di «farsi scudo» della sua fama, per portare avanti discorsi autonomi e indipendenti. Allacciando legami deboli con l’opera di Kurosawa, essi riproducono però, fatte salve le differenze del caso, le medesime dinamiche già presenti nelle prime recensioni anni ’50: inscenano un analogo corteo di imprecisioni o mistificazioni, favoriscono una proliferazione confusa di letture prive di contestualizzazione, propongono chiusure semantiche che offrono una spiegazione rassicurante e rimettono in ordine i tasselli sparsi, innescando l’esplosione di domini e vettori mediatici che si sentono chiamati in causa dal film pur senza avere gli strumenti per «gestirlo». Il bello, il brutto e l’ingiusto di tale fenomeno è

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che, così facendo, Rashōmon finisce per stagliarsi sul resto del panorama iconico che lo avvolge, con un’irriducibilità quasi ieratica. Quanto più, infatti, viene «snaturato» dalle tante riscritture, tanto più guadagna prestigio; quanto più gli altri testi cercano di addomesticarne il suo lato misterioso, tanto più accresce la sua inafferrabilità; quanto più crescono di numero le testimonianze imprecise su di esso, tanto più le sue verità appaiono infrangibili.

Quale sfida ci aspetta Dai due paragrafi precedenti si evince che chi scrive non ha intenzione di ripetere gli stessi schematismi del passato, né di partire da una ricostruzione critica di quei fraintendimenti (il che tra l’altro richiederebbe la compilazione di un libro a parte) per proporne un loro superamento in vista di quanto mai chimeriche «giuste» letture, «giuste» analisi, «giuste» deduzioni. È bene asserire fin da subito che qui non verranno avanzate ipotesi su chi sia il vero omicida, su chi ha sottratto il pugnale dalla scena del delitto, su chi mente o dice il vero innanzi al giudice. Né si giudicheranno i comportamenti e le azioni dei personaggi per fissarne la liceità morale o per giustificarne le presunte menzogne. La ragione è presto detta. Risolvere l’enigma non è la principale sfida che lo spettatore è chiamato a raccogliere. Se ne esiste una, essa consiste semmai, come vedremo, nella chiamata alla sospensione del giudizio, nella rinuncia alla facile tentazione di cercare un colpevole (che è tentazione di sistemare le caselle, di rendere rassicurante

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il reale, di dare continuità, linearità, concausalità a tempi di vita, percezioni, credi spesso non collimanti), e ancora nella difficile presa di distanza dalle presunte verità fornite dal proprio apparato ottico-deduttivo-cognitivo, affidandosi ad altri sensi, a un altro modo di rapportarsi con la materia filmica. Anche disquisire delle questioni etiche o teoretiche che il racconto solleverebbe (il vero «messaggio», il «senso ultimo», la «morale della favola» ecc.) è operazione legittima, benvenuta, praticata, ma avulsa dall’orizzonte di intenzionalità dei suoi autori o comunque, a mio avviso, poco redditizia. Come cercherò di spiegare nel prossimo capitolo, la genesi di Rashōmon è influenzata da diverse e cogenti contingenze. Kurosawa a quei tempi è sì un regista affermato, ma non è certo ancora quel Tenno (l’imperatore) che molti biografi hanno voluto dipingere, attribuendogli una sorta di potere assoluto e di coscienza lucidissima da esercitare sul set o in sede di produzione 22. Non solo è sottoposto alle ferree logiche dello studio system nipponico, ma è anche lungi dal voler affermare una «coscienza autoriale», secondo uno schema culturale prettamente occidentale e peraltro consolidatosi nel cinema europeo solo qualche anno più tardi, grazie alle battaglie dei giovani turchi dei «Cahiers du cinéma». Più semplicemente egli opera in un contesto produttivo in divenire, influenzato, tra le altre cose, dal perdurare della presenza straniera nel paese, cui si aggiunge un percorso produttivo accidentato, specie in fase di pre-produzione e post-produzione. Non meno problematiche sono le dinamiche di adattamento del soggetto (se ne parla nel quarto capitolo). Ciò che viene impresso prima su carta e poi su pellicola è, infatti,

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la trasposizione di due diversi racconti dello scrittore Akutagawa Ryūnosuke (1892-1927) 23 a loro volta ispirati a due aneddoti presenti in un’antologia di racconti dell’età Heian (794-1185). L’amalgama di testualità differenti per periodo storico, genere letterario, funzione sociale e volontà artistica, comporta uno sforzo tecnico-linguistico che situa il lavoro traduttivo nel dominio dell’artigianale prima che in quello dell’artistico o dell’intellettuale (il che non vieta all’operazione semiotica un profilo di accuratezza e raffinatezza oggettivamente raro). La contingenza è il volano anche di altri aspetti originali della pellicola come la sua collocazione nel genere di riferimento, il jidaigeki. Come si approfondirà meglio nel capitolo quinto, il period drama era stato vietato dagli occupanti americani e non pochi sembrano i patti cui la produzione è costretta a scendere per non far scattare la forbice della censura. Tuttavia, è forse proprio questo ristretto campo di operatività a far sì che tutta una serie di pattern del jidai venga rimessa in discussione (a partire da quello relativo alla rappresentazione del duello). Nel capitolo sesto invece mi adopererò per dare rilievo alle tracce – meno concilianti di quel che si credeva allora – che il presente post-bellico del Giappone lascia sul tessuto del racconto. Scopriremo che una vena di antiamericanismo si apre la strada tra le pieghe del film, senza mai farsi dogmatismo, senza mai essere discorso perentorio e chiuso. Nel complesso quello «messo in scena» nei primi capitoli del libro – che ne costituiscono l’ossatura – è un processo di demitizzazione di Rashōmon, un tentativo di spogliarlo da ogni forma auratica o impressionistica di esegesi per mostrare come esso sia il frutto di un

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quadro «congiunturale» straordinario e l’esito degli interventi di diversi attori e di diverse «volontà creatrici». L’obiettivo non è certo quello di negare una spiccata consapevolezza artistica al buon Kurosawa. Al contrario, individuando con maggiore precisione gli orizzonti di senso interni al testo (indipendentemente dal loro grado di premeditazione) sarà più facile distinguerli da quelli, ben più ampi, che derivano dal fenomeno ermeneutico-ricettivo che si è solidificato dentro, attorno e sopra il film negli anni a venire e che ad esempio ha attribuito al regista presunte intenzioni che non gli appartengono. Nella seconda parte del volume, composta dai capitoli settimo, ottavo e nono, si cercherà di capire, invece, come le tante ermeneutiche che si sono prodotte abbiano potuto ancorarsi alla morfologia rashōmoniana a dispetto dell’eterogeneità degli assunti e della pluridirezionalità degli esiti. In fondo, deve pur esistere, nel testo stesso, almeno in potenza o in uno stato dormiente, una qualche forma di predisposizione linguistica che faciliti l’innescarsi di quella che abbiamo definito una discorsività scomposta e confusa. Detto altrimenti, crediamo che i percorsi di parafrasi e rilettura, giusti o sbagliati, condivisibili o meno, siano stati assecondati nella loro dispersività da particolari stratagemmi espressivi che proveremo a individuare. Per dimostrare tale presupposizione, lavoreremo meticolosamente sull’analisi delle forme e dei meccanismi narrativi, indagando su come gli stadi emotivi (caldi) e speculativi (freddi) vengano innescati o disinnescati nel corso del racconto e in che modo alcuni processi di affaticamento delle dinamiche scopiche, percettive e deduttive spingano a una

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esegesi priva delle necessarie controprove empiriche. Ci domanderemo, infine, quale sia il ruolo dei principali responsabili della significazione: l’ente che predispone la distribuzione dei segni filmici (l’istanza narrante o come vogliamo chiamarla), i veicoli diegetici che li collegano tra loro (personaggi, situazioni, ambienti), i destinatari che li ricevono e li riorganizzano in nuovi sensi e in nuove configurazioni. Solo una volta setacciati i significanti, si potrà proporre una storicizzazione più matura del film, come ultimo (ma non definitivo) approdo del libro, prima della breve antologia in appendice che, come già anticipato, presenta alcuni brani tratti dalle recensioni comparse in pubblicazioni italiane, francesi o americane tra il 1951 e il 1952. Infine, è evidente che il percorso qui tracciato non raccoglie l’invito rivolto dai titoli di testa del film e dalle prime parole del boscaiolo: non nel senso, almeno, di voler a tutti i costi aggregare pezzi tra loro non collimabili e dar luogo a un’immagine della pellicola omogenea, senza sporgenze, falle, incrinature. Questa missione spetta eventualmente al singolo spettatore e, sul fronte accademico, all’analista che decide di decodificare il film da prospettive disciplinari o metodologiche che considera esclusive ed autosufficienti. Più modestamente qui ci si accontenta di mettere sotto pressione – attraverso un tentativo di stringente prossimità al testo – le regole «fisiche» (non importa se naturali o artificiali) che consentono alla pellicola di essere, nel contempo, estremamente fragile (come il suo portale) e resistente agli urti della storia, agevolmente penetrabile da tanti punti di vista e conservativa di un princi-

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pio di inviolabilità (che resta tale se è vero che del film se ne parla e se ne scrive ancora). Si tratta di un’operazione che a ben vedere valorizza – pur lasciandole sullo sfondo – le successive forme di riscrittura. Siamo convinti, infatti, che il lavoro sulle tracce della geologia rashōmoniana aiuti ad apprezzare e consolidare anche gli strati e le croste che progressivamente ne hanno ricoperto la superficie trasformando l’opera in un deposito di sensi senza tempo. Per questo motivo, oltre che per ragioni retoriche, ho deciso di nominare i capitoli del libro con i titoli italiani di alcuni capolavori giapponesi, ma tradendone e manomettendone la disposizione sintattica: se Rashōmon ha consentito l’ingresso del cinema giapponese tra le nostre abitudini di consumo culturale e ha consentito al nostro orizzonte scopico di accedere a talune forme dello sguardo di quel lontano paese, è stato a prezzo di numerose manomissioni ed equivoci, proiezioni e travisamenti. I quali, tuttavia, hanno dato anche l’abbrivo per le parallele e altrettanto indispensabili volontà di comprensione e scoperta che ancora oggi segnano il nostro modo di essere spettatori. Insomma, tradendone il titolo, vorrei rendere onore ad alcune delle opere più importanti di quella cinematografia (ricordo che anche il film di Resnais omaggiato nell’ultimo capitolo del volume è co-prodotto dalla Daiei e quindi può considerarsi in qualche misura giapponese) e nel contempo ricordare a me stesso (e al lettore) quanto siano parziali, limitati e facili al malinteso i nostri saperi. Nessun tradimento, invece, sarà compiuto nei confronti delle persone che mi hanno aiutato nella redazione di

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questo testo. La lista dei «sospetti» è lunga e lo spazio breve. Mi limito a convocarli qui per confermare loro la mia stima e la mia più profonda gratitudine. Senza l’apporto, piccolo o grande che sia, di Viviana Bertuzzi, Annette Blomqvist, Francesca Castellani, Giacomo Calorio, Cinzia Cimalando, Eleonora Charans, Fabrizio Colamartino, Antonio Costa, Lino Dalla Gassa, Matteo Del Negro, Ludovico Ferro, Goffredo Fofi, Francesco Netto, Valentina Re, Marco Repetto, Yumiko Shogan e ancora di Jonny Costantino e Chiara Tognolotti, dei bibliotecari della Gromo di Torino e della Renzi di Bologna, di Francesca Meschino di ItaliaTaglia, il libro non esisterebbe, sarebbe diverso o mancherebbe di importanti informazioni. Grazie all’Editore per la fiducia e la pazienza accordatemi. Un pensiero pieno di ammirazione e riconoscenza rivolgo, infine, a Giovanni Morelli per i suoi piccoli gesti di attenzione e per gli sguardi di incoraggiamento che a me, come ad altri, non ha mai fatto mancare.

Christian Metz, Pour servir de préface, prefazione al libro di Nicole De Mourgues, Le générique de film, Méridiens Klincksieck, Paris 1994, p. 8. 2 Valentina Re, Ai margini del film. Incipit e titoli di testa, Campanotto Editore, Udine 2006, p. 27. Il testo della Re è interessante e puntuale perché analizza i titoli di testa in funzione paratestuale, nel senso genettiano del termine, evidenziando come essi siano luoghi liminari, marginali (in tutte le accezioni del termine), soglie di transizione (e transazione) che grazie alla loro posizione indecisa e indefinita permettono una più stringente riflessione teorica e pratica sul film e sulla sua rete di relazioni con il contesto transtestuale in cui si colloca. Segnalo ciò perché an1

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che i titoli di testa di Rashōmon, come è capitato ad altri capolavori del cinema, sono stati pressoché ignorati e marginalizzati, dalla letteratura critica, addirittura dimenticati nel conteggio delle inquadrature e nei découpage presenti nelle monografie curate da Richie, quando invece, come vedremo, essi rappresentano un territorio di indagine straordinario per comprendere come opera il testo filmico non solo sul fronte ermeneutico, ma anche su quello narrativo e morfologico. Per fortuna, negli ultimi anni, l’attenzione critica nei confronti dei titoli di testa è significativamente cresciuta e la bibliografia a riguardo inizia a essere consistente. Oltre al testo della Re, rimando anche a Micaela Veronesi, Le soglie del film. Inizio e fine nel cinema, Kaplan, Torino 2005; Veronica Innocenti, Valentina Re (a cura di), Limina. Le soglie del film/Film’s Thresholds, Forum, Udine 2004 e, in francese, a Alexandre Tylski, Le générique de cinéma. Histoire et fonctions d’un fragment hybride, Presses Universitaires du Mirail, Toulouse 2008; Laurence Moinereau, Le générique de film. De la lettre à la figure, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2009. 3 Il portale di Rashō (o nelle varianti Rajō-mon e Rasei-mon, così come veniva chiamato fino al sedicesimo secolo), è sede di diverse leggende e storie fantastiche. Tradizione vuole che il luogo sia da sempre infestato di demoni e altre figure del folclore giapponese e che qui, davanti al portale, Watanabe no Tsuna, uno dei primi samurai che la storia e la mitologia giapponese conoscano (vive nel X secolo), abbia ucciso diversi oni (orchi), come documentano i dipinti a soggetto di Kuniyoshi nei primi anni dell’800. Anche per questa ragione il portale sud della capitale Kyoto è soggetto di alcune vecchie canzoni e ambientazione di pièce del teatro Nō o del Bunraku. Cfr. Tagaya Yuko, Kyoto in Mith and Literature in Andrea Grafetstatter, Sieglinde Hartmann, James M. Ogier (a cura di), Islands and Cities in Medieval Myth, Literature, and History, Peter Lang Publishing lnc, New York 2010, pp. 120-131. Per chi conosce il giapponese: Ashikaga Kenryo (a cura di), Kyoto rekishi atorasu (Atlante storico di Kyoto), Chuo-koron-sha, Tokyo 1994. 4 Francesco Casetti, Federico Di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano 1990, p. 7. 5 Donald Richie, The Films of Akira Kurosawa. Third Edition Expanded and Updated with a New Epiloge, University of California Press, Berkeley 1998, pp. 70-80, in particolare pp. 74-76. Il medesimo testo di analisi, con

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modifiche di poco conto, si trova anche nelle monografie sul film stampate successivamente e curate dallo stesso studioso americano. 6 Una decisa critica all’impostazione analitica di Richie si trova in: Eugenie Brinkema, The Fault Lines of Vision: Rashomon and The Man Who Left His Will on Film, in Dominique Russell, Rape in Art Cinema, Continuum, London 2010. 7 «Se qualcuno vuole stabilire in teoria la verità “legale” dell’avvenimento, il solo ovvio metodo è di mettere in correlazione tutti i fatti ammissibili dell’evento con le versioni dei quattro personaggi implicati, in modo da determinare la loro relativa integrità come individui, procedura complicata perché uno dei testimoni è un acclamato criminale e perché tutti, tranne il boscaiolo, hanno ammesso di essere colpevoli di omicidio. Un’ulteriore difficoltà deriva dal fatto che nessun aspetto del background dei personaggi ci viene raccontato, se non quello che possiamo dedurre dal loro comportamento visibile e dal loro status sociale. […] Così, a meno di fondarsi sui pregiudizi di sesso o di classe sociale, sembra quasi impossibile optare per un testimone veritiero. [Significa che] Rashomon non è altro che un trucco, un melodramma mistery convenzionale lasciato in sospeso? La mia risposta è No. Ci sono diversi elementi attorno al film che lo presentano come un oggetto d’arte unico e consapevole, l’opposto di un enigma. O meglio non è un enigma più di quanto non lo siano quei quadri moderni di cui si sente dire: “Ma di cosa si tratta? Che cosa significa?” […] In Rashomon, non c’è un tentativo strategico di nascondere, non più di quanto il proposito del pittore moderno sia quello di nascondere invece di rivelare. […] D’un quadro come Donne di fronte a uno specchio di Picasso si può sì dire che contiene un enigma, ma questo enigma è soltanto un aspetto specifico di tutto il mistero dell’essere, una particolare intuizione della consapevolezza umana in termini individuali, e per questo possiede quella poeticità complessa che solo l’arte più profonda può offrire. Come con l’enigma di Rashomon, questo grandissimo film giapponese è una storia misteriosa nella misura in cui l’esistenza stessa è un mistero, come lo possiamo concepire attraverso i sensi psicologici ed estetici più profondi». Questo saggio, la cui prima redazione, scritta nel 1952, si trova su «Cinema 16» – la rivista di sala edita da uno dei cinema underground più noti a New York – è stato poi ripubblicato sotto il titolo Rashomon as Modern Art in

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diverse pubblicazioni tra cui: Cfr. Harrison Parker Tyler, The Three Faces of Film, A.S. Barnes & Company, Cranbury 1967 (ora in Donald Richie [a cura di], Rashōmon. Akira Kurosawa Director, Rutgers University Press, New Brunswick 1987, pp. 149-150 [trad. mia]). 8 Per ovvie ragioni è impossibile in questa sede dare conto delle innumerevoli tesi e soluzioni proposte dagli studiosi. Di alcune si farà cenno nel corso del testo, tuttavia per avere un quadro dettagliato della maggior parte di esse occorrerà ripercorrere e leggere almeno parte della ampia bibliografia presente nelle ultime pagine del volume. 9 Su questo specifico argomento si vedano anche: Vernon Young, The Japanese Film: Inquiries and Inferences, «The Hudson Review», vol. VIII, n. 3, autunno 1955, pp. 436-442; Greg M. Smith, Critical Reception of «Rashomon» in the West, «Asian Cinema», vol. XIII, n. 2, primavera/estate 2002, pp. 115-128; Robert van Es, Persistent Ambiguity and Moral Responsibility in Rashomon, in Kevin Stoehr (a cura di), Film and Knowledge: Essays on the Integration of Images and Ideas, McFrarland & Co., London-New York 2002, pp. 102-119. 10 Quando paragono la ricezione di Rashōmon al selvaggio Venerdì, il coprotagonista del Robinson Crusoe di Defoe intendo dire che si ritrova spesso, in questi articoli, una polarizzazione Noi/Loro che cela un atteggiamento paternalista o, persino, colonialista in chi scrive (atteggiamento spesso inconscio e recondito), nei confronti dell’oggetto studiato. Si incontra tale configurazione nel momento in cui il film viene trattato come un «loro» che chiede di farsi accogliere da un «noi» («Finora era soprattutto la diversità della mentalità orientale che, riflettendosi sull’espressione concreta dell’opera, impediva alle pellicole giapponesi di essere comprese appieno in Occidente. Rasciomon ha evitato questo scoglio affrontando un tema più vicino al nostro spirito – anche se da noi già trattato e in certo modo superato – e rivestendolo dell’attraente forma di un dramma poliziesco.» Cfr. Angelo Solmi, «Oggi», n. 14, 1952) oppure come un «loro» che impara da un «noi» («Non è forse il giapponese tanto eclettico e ricettivo da assimilare usi e costumi europei in tutte le sue manifestazioni di vita pubblica e di potenza industriale senza peraltro che si possa dire mutato nell’intima sostanza spirituale che ne fa un nucleo finora inattaccabile a ogni penetrazione esterna? […] L’apporto occidentale è ampio ma limitato alla forma e più che alla forma,

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alla tecnica; il contenuto lo spirito che dà vita al film è giapponese semplicemente…» Cfr. Giorgio Santarelli, Prima visione, «Rivista del Cinematografo», vol. XXV, n. 4, 1952, p. 30) o ancora come un «loro» che in virtù della propria umiltà è capace di insegnare a un «noi» («Quando ammettiamo le occasionali lentezze della regia, la qualità leggermente monotona della prostrazione della moglie, noi dobbiamo concedere che qui siamo in presenza di un lavoro artistico genuinamente originale, uno di quegli esempi che potrebbero arricchire le tecniche del cinema occidentale.» Curtis Harrington, «Rashomon» et le cinéma japonais, «Cahiers du cinéma», n. 12, maggio 1952, p. 54 [trad. mia]), a patto che non voglia proporsi in termini paritari con il «noi», perché in quel caso verrebbe ricondotto ai lidi lontani che gli competono («L’ingenuità singolare dell’autore è infatti evidente dal come egli, partito da una costruzione tematica cara al suo spirito orientale per gli scoperti intenti moralistici, abbia inteso investirla di una complessità strutturale e narrativa chiaramente estranee al suo mondo e quindi costituente inevitabile elemento di frattura» (Nino Ghelli, Rasho - Mon, «Bianco e Nero», vol. XIII, n. 3, Marzo 1952, p. 89). 11 Said ci ricorda che le «distinzioni usate per enfatizzare la reciproca estraneità di culture e nazioni hanno propositi in genere tutt’altro che ammirevoli. Quando le categorie come quelle di “occidentale” e “orientale” sono nello stesso tempo il punto di partenza e quello di arrivo di analisi, ricerche, indirizzi politici […] la conseguenza è di solito una polarizzazione dell’esperienza: ciò che è occidentale diventa ancora più occidentale, ciò che è orientale ancora più orientale». Cfr. Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 1999, p. 52 (ed. or. Orientalism, Pantheon, New York 1978). Altrettanto vicina al fenomeno ricettivo di Rashōmon è la tesi dello studioso di origini palestinesi secondo la quale i libri o gli studi che si occupano di Oriente tendono a costruire dei saperi da «palcoscenico», ovvero che appartengono a una rappresentazione dell’altro come performance del sé. Dimostrare di conoscere qualche aspetto del Giappone o di saper integrare l’opera di Kurosawa nel panorama culturale europeo o americano era probabilmente fonte di autosoddisfazione per critici e recensori. 12 Ecco alcune intriganti «premonizioni». Quando Farber definisce Tajōmaru come il classico personaggio presente nei film d’avventura hol-

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lywoodiani ambientati in Messico anticipa quanto accadrà in L’oltraggio (The Outrage, 1964) di Martin Ritt, il remake americano ambientato in Messico e che ha come protagonista un Paul Newman/Tajōmaru con sombrero e accento spagnolo (Manny Farber, «Nation», 19 gennaio 1952). Quando Barbarow paragona la pioggia torrenziale di Rashōmon ai tuoni e fulmini che aprono il Macbeth, prefigura un lavoro sugli agenti atmosferici e sulle ambientazioni naturali che Kurosawa perfezionerà nei film successivi, tra cui spicca, guarda caso, proprio l’adattamento e la trasposizione in jidaigeki del dramma shakespeariano ne Il trono di sangue (Kumonosu-jō, 1957) (George Barbarow, Rashomon and the Fifth Witness, «Hudson Review», vol. 5, n. 3, autunno 1952). Quando Griffith collega la recitazione dei personaggi di Rashōmon a quella del cinema muto non può sapere che in questa stessa direzione si esprimerà Kurosawa nella sua autobiografia (Richard Griffith, «Saturday Review», 19 gennaio 1952). 13 Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997, p. 5 (ed. or. Palimpsestes. La littérature au second degré, Editions du Seuil, Paris 1982). 14 Il press-book della RKO è una sorta di vero e proprio «libretto delle istruzioni» del film. Composto di ben diciotto pagine, contiene informazioni sugli attori e i personaggi, riferimenti all’industria cinematografica giapponese, richiami ai premi vinti dal film, un’ampia rassegna stampa. Alcuni paragrafi dei testi preparati dalla casa di distribuzione americana sono indicativi della volontà didascalica della brochure: «East, West meet in flaming drama of base emotions, violent action»; «Fluid action bridges languages differences»; «Distinguished Japanese photoplay deals with raw basic emotions»; «Modern motives in ancient incident». 15 Si possono apprezzare nel trailer immagini assenti nel film: lampi e cieli nuvolosi, un libro le cui pagine scorrono velocemente, il dettaglio degli occhi di un gatto o quello di un serpente, inquadrature di Tajōmaru scartate al montaggio, oggetti di scena ripresi da angolazioni diverse (è il caso della statua del demone di Rashō), personaggi in location non loro (si vede il poliziotto fare la ronda davanti al portale), oltre a un commento musicale in parte estraneo a quello della colonna sonora. Il promo quindi, in qualche misura, racconta un’altra storia. Il trailer si trova in rete e in alcune edizioni DVD del film.

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Per un’idea delle diverse prospettive con cui Rashōmon è stato analizzato rimando una volta ancora alla bibliografia che chiude il volume. 17 A. A. Berger, Essential of mass communication theory, Sage Publications, London 1995, p. 31 (trad. mia). 18 Alcuni esempi delle ipotesi di Berger: l’approccio linguistico/narratologico adatta prima lo schema di Propp e poi applica l’analisi paradigmatica di Lévi-Strauss per far emergere una serie di opposizioni strutturali. L’approccio psicanalitico ricerca la celebre tripartizione Es-Io-SuperIo in alcuni (selezionati) comportamenti di Tajōmaru e del boscaiolo, quello marxista si concentra sulle contrapposizioni di classe sociale tra i personaggi, quello femminista sulla violenza carnale e sui simboli fallici determinati dalla presenza di pugnali, spade e colonne. Cfr. Ivi, pp. 27-52. 19 Abbiamo un remake giapponese Misty (id., Giappone, 1996) di Saegusa Kenki, due «traduzioni» americane come L’oltraggio di Martin Ritt, ambientato in Messico, e Labirinto di ferro (Iron Maze, Giappone/Usa, 1991) di Hiroaki Yoshida, ambientato in Pennsylvania. Sono state fatte trasposizioni televisive, una da Sidney Lumet (Rashomon, episodio della serie Play of the Week, NTA Film Network, Usa, trasmesso il 1/12/1960) e una da Rudolf Cartier (Rashomon, BBC Television, UK, trasmesso il 3/3/1961), nonché una pièce teatrale prodotta da David Susskind e Hardy Smith e allestita al Music Box Theatre di New York nel 1959 (per un totale di 159 rappresentazioni tra il 27 gennaio e il 13 giugno 1959). A questi rifacimenti più o meno fedeli vanno aggiunti poi i testi che recuperano la struttura narrativa resa famosa dal film (ossia lo stesso fatto narrato dalla prospettiva di diversi personaggi) e la applicano ad altri tipi di plot. Si possono ricordare, a tal proposito, Il coraggio della verità (Courage Under Fire, Usa, 1991) di Edward Zwick, Prospettive di un delitto (Vantage Point, Usa, 2008) di Pete Travis, Cappuccetto rosso e gli insoliti sospetti (Hoodwinked!, Usa, 2005) di Cory Edwards, Nine (Dokuz, Turchia, 2002) di Ümit Ünal, Quante volte… quella notte… (Italia, 1972) di Mario Bava, Basic di John McTiernan (id., Usa, 2003), Doppia ipotesi per un delitto (Slow Burn, Usa, 2005) di Wayne Beach, Un corpo da reato (One Night at McCool’s, Usa, 2001) di Harald Zwart, Hero (Yīngxióng, Cina/Hong Kong, 2002) di Zhang Yimou. In Giappone sono state fatte poi nuove trasposizioni dei racconti di Akutagawa, in particolare Yabu 16

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no naka (In a Grove, Giappone, 1996) di Hisayasu Satō, un softcore giapponese che rimette in scena, in modi più spinti e violenti, l’episodio di stupro e morte nel bosco, e si è promosso una sorta di prequel, Tajōmaru (Giappone, 2008) di Nakano Hiroyuki, un polpettone fantasy per adolescenti che pretende di narrare la vita adolescenziale e giovanile del celebre bandito. 20 Ecco un elenco parziale delle serie televisive che ospitano lo schema rashōmoniano: Laverage (Usa, TNT, stagione 3, episodio 11, prima emissione 22/8/2010), Police Station (Giappone, TV Asahi, s01/ep11, 5/7/2006), Fame - Saranno Famosi (Usa, MGM Television, s05/ep24, 24/6/1986), My Name Is Earl (Usa, 20th Century Fox Television, s02/ep14, 11/1/2007), Punky Brewster (Usa, NBC, s04/ep09, 9/5/1988), Magnum, P.I. (Usa, CBS, s01/ep01, 11/12/1980), Skunk Fu! (Irlanda, CBBC, s01/ep26, 25/9/2008), Diff’rent Strokes (Usa, NBC, s06/ep125, 22/10/1983), Johnnie Bravo (Usa, Cartoon Network, s02/ep01, 19/11/1999), CSI Crime Scene Investigation (Usa, CBS, s06/ep21, 27/4/2006) King of the Hill (Usa, Fox, s03/ep45, 10/1/1999) The Simpsons (Usa, Fox, s02/ep10, 10/1/1991 e s10/ep23, 16/5/1999). 21 Gli anime e manga che omaggiano il nostro film sono Higurashi No Naku Koro Ni, Ranma 1/2, Akahori Gedou Hour Rabuge, Umisho, Love Hina. Per i fumetti l’elenco si compone almeno di Sonic the Hedgehog, SpiderMan, The Phantom Stranger, The Question, Resident Evil, Hero Squared. Per i videogame i rimandi sono a Mega Man Powered Up, Sky Gunner, The Elder Scrolls, Jade Empire, Resident Evil 2. Per un elenco completo dei richiami a Rashōmon rimando a: http://tvtropes.org/pmwiki/pmwiki.php/Main/RashomonStyle (marzo 2012). Ricordo infine l’animazione Riparian Rashōmon di Carel Brest van Kempen. 22 Il Tenno, «sovrano celeste», è considerato discendente degli dei fondatori del Giappone e incarnazione del principio divino di autorità. 23 Si possono trovare entrambi tradotti in italiano nella raccolta: Ryūnosuke Akutagawa, Rashōmon e altri racconti, Tea, Milano 2002.

Quelli che camminavano sulla coda del leone. Prima e dopo «Rashōmon»

C’è un prima e c’è un dopo Rashōmon nella vita professionale di Kurosawa Akira. Il prima è una carriera non dissimile da quella di molti colleghi: la passione in tenera età per il cinema, l’assunzione un po’ casuale da parte di una casa di produzione (la PCL, la futura Tōhō), la gavetta al soldo di registi più maturi (nel nostro caso, soprattutto Yamamoto Kajirō, del quale è primo aiuto in undici film dal ’37 al ’41), il debutto sotto il governo militarista con un’opera di «propaganda» (Sugata Sanshiro, 1943), la quotidiana lotta con gli organi di controllo militari (prima giapponesi e poi americani) per ottenere i visti indispensabili per lavorare 1. Analogo tragitto percorrono, infatti, anche cineasti del calibro di Kinoshita Keisuke, Imai Tadashi, Yoshimura Kōzaburō, Yamamoto Satsuo, Shibuya Minoru, Taniguchi Senkichi, nomi oggi forse ignoti ai più, ma che nel Giappone postbellico rappresentavano, insieme al giovane Akira, il meglio dell’ultima generazione. Ecco, se si vuole trovare un’anomalia nel suo curriculum vitæ, la si deve cercare nella duttilità: lavo-

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rando non solo con la Tōhō, ma anche con le altre «sorelle» Shochiku, Daiei e ShinTōhō, Kurosawa si può permettere, un po’ più di altri, di spaziare dalle pellicole di azione a quelle con più spiccati accenti sociali, dai gendaigeki ai jidaigeki, senza specializzarsi in alcun genere o ambientazione. Il Nostro, in questo periodo, è apprezzato per essere rapido, economico e redditizio, l’esatto contrario di quanto accadrà qualche lustro più tardi. In poco più di sette anni (1943-1950), gira dodici lungometraggi e firma altre dieci sceneggiature (oltre a quelle dei propri film). Molti suoi lavori compaiono nella «Best Ten» che la rivista «Kinema Junpo» riprende a stilare dal 1947 2 e vincono premi ai prestigiosi Mainichi Film Awards 3. Al netto di dissapori e incomprensioni con i produttori per via del forte temperamento 4, il suo cinema è sufficientemente allineato da consentirgli di girare con costanza e di far rientrare sempre – e talvolta con cospicui interessi – i capitali investiti dalle major che lo assumono. Nei mesi che precedono l’avventura rashōmoniana si susseguono molti avvenimenti sia personali sia professionali: sul primo versante le nozze con l’attrice Yaguchi Yōko, la nascita del primo figlio Hisao, la morte del padre Isamu; sul secondo, la scoperta a un provino (e l’immediato coinvolgimento) di Mifune Toshirō 5, la partecipazione agli scioperi della Tōhō, dai quali uscirà sfiancato e deluso per il comportamento ottuso dei dirigenti, la collaborazione con altri studios. È in questa fase della sua carriera che si saldano i rapporti di stima e fiducia con un drappello di professionisti che diverranno suoi fedeli collaboratori: tra gli attori ci sono, oltre

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a Mifune, Shimura Takashi, Fujita Susumu, Nakadai Tatsuya, Chiaki Minoru e Mori Masayuki; il compositore di riferimento (prima della sua prematura scomparsa) è Hayasaka Fumio, il direttore della fotografia Nakai Asakazu (ma per Rashōmon viene coinvolto Miyagawa Kazuo), gli scenografi e i costumisti sono Muraki Yoshirō e Matsuyama Sō; tra gli sceneggiatori spicca il nome di Hashimoto Shinobu che inizia a collaborare con Kurosawa proprio a partire da Rashōmon. Anche per l’industria cinematografica, e più in generale per il paese, gli anni postbellici rappresentano un momento di ricostruzione e rilancio, ma in una condizione di «libertà vigilata», vista l’occupazione degli alleati dal 1945 al 1952. Lo SCAP (Supreme Commander of the Allied Powers) impone fin da subito un rigido controllo sui media, affidando a un ufficio specifico – il Motion Picture and Drama, con a capo David Conde e collocato all’interno della Civil Information and Education Section (CI&E) – il compito di rivitalizzare il comparto cinematografico e di spronarlo ad abbracciare temi anti-nazionalisti e democratici. L’ufficio, tra le varie mansioni 6, si occupa di riscrivere la legge di censura, confermando l’obbligo di sottoporre sceneggiature e film finiti a un organo di controllo, in questo caso americano, che ne approvi la distribuzione, e modificando solo i soggetti da vietare (i film di soggetto storico – i cosiddetti jidaigeki – prima di tutto, per i valori feudali propugnati) e quelli da promuovere (sull’emancipazione femminile, i diritti del lavoro, la libertà di espressione, la lotta alla corruzione e alle zaibatsu 7). Il CI&E appro-

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va inoltre nel 1949 un codice etico che consente alle nuove istituzioni democratiche di mantenere intatto il controllo sulle produzioni, mentre l’attivismo di Conde si misura anche dalle frequenti visite agli stabilimenti, dalle proposte che avanza per realizzare determinati soggetti 8, dalle richieste di tagli a brani di sceneggiature o di sequenze non convincenti 9. A dispetto della rapida accelerazione produttiva (38 i film nel 1945, 215 nel 1950, 302 nel 1952) il clima dentro e fuori le major nel dopoguerra non è dei migliori. Gli scioperi che colpiscono gli studios sono la dimostrazione plastica di una struttura patriarcale messa in discussione dalle pressioni di sindacati e corporazioni e dalle promesse «democratiche» che stentano ad avverarsi. Le reazioni violente delle factory, sostenute dagli americani, diventano un pretesto per allontanare le personalità più scomode (attori troppo potenti, maestranze sindacalizzate) e verticizzare ancora di più la gestione del lavoro. Si aggiunga che a causa dei rapporti sempre più tesi tra USA e URSS, lo SCAP inaugura nel 1947 le cosiddette «purghe rosse» (l’individuazione e l’arresto degli attivisti comunisti) che ovviamente investono anche il settore cinematografico, con spiacevoli episodi di delazione e con arresti o licenziamenti, si direbbe ora, «senza giusta causa» 10. Lo scoppio della guerra civile in Corea, nel 1950, accelera il percorso di dismissioni dell’esercito americano, secondo un piano però lontano dagli accordi iniziali. Sebbene preveda il completo trasferimento dei poteri a istituzioni giapponesi, il Trattato di San Francisco, voluto da McArthur, firmato nel 1951 e attuato nell’aprile del 1952, prevede la stanza di ben 47000

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soldati americani nell’arcipelago: una sorta di mini-occupazione mascherata da invito alle forze alleate per «accompagnare» il nuovo Giappone nel suo lento processo democratico. Non è una coincidenza, quindi, che una parte delle pellicole che compaiono in questo periodo venga considerata «anti-americana», o perché allusiva di una generica situazione di disagio o perché esplicitamente critica verso gli occupanti (ma solo dal 1952 in poi) 11. Da un certo punto di vista anche Rashōmon può essere annoverato tra i titoli che prendono posizione contro gli «yankees». In che modo, lo vedremo meglio nel capitolo 6. Se ci soffermeremo dopo sulle sue evidenze politiche. Ora è bene ricordare la genesi del film. Verso la fine degli anni ’40 le maglie della censura si fanno oggettivamente meno strette nei confronti degli script ambientati nel passato, specie se seguono tracciati narrativi lontani dalla retorica nazionalistica dei jidaigeki prebellici 12. La Daiei, a tal proposito, intende riproporsi in un genere che, prima dell’occupazione, costituiva una delle frecce più acuminate del suo arco produttivo 13 e memore dei successi mietuti ai tempi di Sugata Sanshiro e rincuorata dalla positiva esperienza de Il duello silenzioso (Shizukanaru kettō, 1949), individua in Kurosawa la figura che può portare a termine questa difficile transizione. Akira, dal canto suo, accetta di buon grado la proposta di girare un jidai perché ama variare i propri progetti e perché conserva da qualche tempo in un cassetto alcuni adattamenti che un giovane sceneggiatore, Hashimoto Shinobu, ha tratto dai racconti di Akutagawa Ryūnosuke. Portare sul grande schermo, per la pri-

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ma volta in assoluto, uno dei più fini intellettuali del periodo Taishō deve apparire una sfida allettante per il Nostro, anche se sussiste il problema che gli ōchōmono 14 akutagawiani sono troppo brevi per una «riduzione» cinematografica. Per sopperire a questo limite, nasce l’intuizione di «amalgamare» due diversi racconti dello stesso autore, Rashōmon e Yabu no Naka (Nel bosco), ancorché tra essi, a parte lontane reminiscenze da un’antologia buddhista, non vi sia contiguità alcuna, né di soggetto, né di stile di scrittura, né di periodo di pubblicazione. Più che il frutto di una raffinata operazione intertestuale (cfr. cap. 4) la sceneggiatura che ne deriva può essere letta come il risultato di una serie di valutazioni di ordine pragmatico. Oltre all’estrema brevità del primo trattamento di Hashimoto (84 pagine sufficienti a malapena per un mediometraggio) da ampliare, contano la possibilità di sfruttare gli stabilimenti Daiei di Kyoto (dove è ambientato il racconto Rashōmon), la speranza di attrarre pubblico in sala assegnando a Mifune, ormai star di prima grandezza, il suo primo ruolo in costume, il bisogno di mettere in scena storie lontane dalle abitudini del jidai con personaggi non più legati a codici «arcaici» come il bushidō. Si tenga conto infine che Akutagawa era noto anche per aver tradotto in giapponese alcuni classici della letteratura europea ottocentesca, contribuendo alla moda occidentalista del periodo Taishō e che tale sua peculiarità poteva costituire un buon grimaldello per fugare i dubbi di censori e produttori. A ogni buon conto, l’ok al progetto da parte della Daiei non arriva immediatamente a causa di una sceneggiatura che non viene compresa dal produttore Nakata e dai suoi

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collaboratori 15, né nei suoi snodi narrativi, né nei suoi orizzonti tematici, né soprattutto nelle sue potenzialità economiche. Sarà solo la promessa del cineasta di girare con un budget ridotto all’osso a vincere le resistenze e a mettere in moto la macchina produttiva. Il tournage inizia il 4 luglio 1950 e si conclude il 17 agosto, suddividendosi tra le riprese svolte nella foresta vergine di Nara, quelle nel parco del Tempio Kōmyō-ji e quelle negli Studios di Kyoto. I principali problemi sorgono con la costruzione del portale. L’edificio, eretto a grandezza naturale sul modello dei templi Ninna-ji e di Tōdai-ji della città di Nara, diventa una struttura immensa che occupa l’intero stabilimento: 33 metri di larghezza, 22 di profondità, 20 in altezza, per un totale di 1980 m3. La mole è tale che, se il portale fosse stato costruito integralmente, i pilastri non avrebbero retto il peso dei piani superiori. Il profilo di decadenza della location si deve quindi anche a ragioni meramente ingegneristiche! (figg. 3 e 4) Certo, la scelta di erigere in scala 1:1 l’edificio risponde anche ad altre esigenze, prima di tutto quella di preservare la verosimiglianza storica, riproducendo l’imponenza originaria del monumento, e poi quella di marcare la relazione di inferiorità, evidente in alcuni campi lunghi, tra i personaggi (piccoli, indecisi e indifesi) e un periodo storico di caos che li inghiotte, decadente e instabile come può esserlo uno dei suoi simboli identitari in stato di abbandono. Altrettanto complessi si rivelano i ciak ambientati nella foresta di Nara (sanguisughe, spazi angusti, condizioni atmosferiche non ideali, problemi con l’illuminazione ecc.) superati solo in virtù di una troupe abituata a girare in esterni. Tuttavia l’avveni-

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mento che rischia di mandare letteralmente in fumo la pellicola è un altro. Il 21 agosto, a quattro giorni dalla fine delle riprese e ad altri quattro dall’anteprima nazionale, scoppia un incendio nello studio e fortuna vuole che le autobotti, che sono servite per le scene del temporale, possano ancora essere utilizzate per spegnere il fuoco prima che le fiamme giungano al dipartimento dove sono depositate le pizze di Rashōmon. Per Kurosawa è, paradossalmente, un evento fortunato poiché sembra offrirgli la possibilità di non rispettare la vicina deadline e lavorare qualche giorno in più al montaggio. E invece la Daiei non rinuncia a presentare il film in anteprima il 25 agosto all’Imperial Theater di Tokyo (anche perché lo «Yomiuri Shimbun», uno dei quotidiani più autorevoli e influenti del Giappone, ha garantito la sponsorizzazione e la copertura dell’evento) e così Kurosawa e il resto della squadra devono chiudere in fretta e furia il lavoro, nonostante una parte dei dialoghi vada perduta nelle fasi più concitate 16. Come se non bastasse, il nastro su cui è registrato il commento musicale di Hayasaka si brucia, il giorno dopo, durante una proiezione. Senza tempo e materiale a disposizione, la produzione si vede costretta a convocare i musicisti e lo stesso Hayasaka per registrare live l’intera partitura e sovraimporla direttamente al final cut, un po’ come avveniva per i film muti, rendendo di fatto immodificabile il film finito. Il CI&E stesso, peraltro, non era nelle condizioni di chiedere tagli o aggiustamenti: la proiezione per i suoi membri – forse non casualmente – viene fissata poche ore prima della più volte annunciata anteprima ufficiale 17.

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Dopo questo tour de force, il film esce regolarmente il 26 agosto 1950 e resta in programmazione sei settimane, conseguendo un discreto successo di pubblico, classificandosi al quarto posto tra gli incassi annuali della major e recuperando agevolmente il budget di partenza. Anche la critica, fredda in un primo momento, accoglie con una certa condiscendenza la pellicola, se è vero che la rivista «Kinema Junpo» alla fine dell’anno – e quindi prima dei successivi premi internazionali – la colloca al quinto posto nella sua Best Ten subito davanti a Scandalo (Shūbun, 1950) e dietro a titoli oggi quasi dimenticati 18. Girato in condizioni precarie e in tempi veramente ridotti, Rashōmon fa di molte necessità virtù, e per questo non sembra distanziarsi dagli altri prodotti di un’industria che sta ritrovando la solidità del passato, ma che vive ancora di tensioni, insicurezze, imprevisti. Anche Kurosawa giunge all’appuntamento con la «Storia» come uno dei più promettenti cineasti sulla piazza, ma anche come uno dei meno prevedibili e collocabili nel perimetro rigido delle produzioni nipponiche. Tanto per capirci, L’idiota (Hakuchi, 1951), il suo successivo lavoro, tratto da Dostoevskij e realizzato per la Shōchiku, è un fiasco commerciale clamoroso, il primo (ma non l’ultimo) della sua carriera, tanto da spingere la Daiei a rompere un contratto già firmato per un nuovo film e il cineasta a immaginarsi un futuro di stenti e povertà 19. Niente, insomma, fa supporre che Rashōmon diventerà uno dei film più visti e amati del mondo. Come si diceva, c’è un prima e un dopo Rashōmon nella carriera di Kurosawa, così come per la storia del cinema giapponese.

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Il dopo inizia senza che né l’uno né l’altra ne siano consapevoli. Nella primavera del 1951 arriva da parte della Biennale di Venezia la richiesta di inviare un film giapponese per la Mostra. Non è la prima volta. Sotto il fascismo, il festival aveva premiato la casa di produzione Nikkatsu (1934) e presentato A Pay by the Wayside (Gonin no sekkōhei, 1938) di Tomotaka Tasaka e La terra (Tsuchi, 1939) di Uchida Tomu. Al comitato, cui era stato assegnato il compito di scegliere il film, giunge una segnalazione favorevole da parte di Giuliana Stramigioli, responsabile per il Giappone dell’Unitalia Film e docente di italiano presso l’Università degli Studi Stranieri di Tokyo 20. A dispetto di sì autorevole patrocinatrice, il comitato è incerto, Rashōmon è considerato inadatto all’esportazione e poco comprensibile all’estero a causa dei riferimenti al medioevo giapponese. Inoltre la rassegna di cinismo, egoismo e violenza presente nel racconto rischia di mettere in cattiva luce le virtù del paese e il suo tentativo di ammodernarsi. Ciò nondimeno, prevale l’esigenza di mantenere buoni rapporti con i partner europei e quindi la scelta ricade, con buona pace dei più dubbiosi, sulla pellicola di Kurosawa. Proiettato al Lido il 24 agosto 1951, Rashōmon fa suo il Leone d’oro due settimane più tardi 21. La notizia coglie impreparati sia il regista, che ignora persino il fatto che il suo film sia alla kermesse veneziana, sia i rappresentanti delle major che non sanno spiegarsi la vittoria se non adducendo ragioni di carattere esotico. Sta di fatto che, da quel momento in poi, grazie alle mille recensioni che escono su riviste e giornali di mezzo mondo, Rashōmon conosce una seconda e inaspettata esistenza. Il 17 dicembre ai National Board of Re-

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view (i premi della critica americana) riceve il premio per il miglior film straniero e la miglior regia, il 25 esce a New York acquistato e distribuito dalla RKO, il 20 marzo 1952 trionfa agli Academy Awards conquistando l’Oscar per il miglior film straniero 22. Quest’ultimo riconoscimento apre diversi cancelli (o dovremmo dire portali?) fino allora rimasti rigorosamente chiusi. Per la cinematografia giapponese sono quelli della distribuzione internazionale. Nel corso degli anni ’50, una vera e propria moda nipponista si impadronisce infatti di critici, programmatori di festival, esercenti, anche se è una moda a senso unico, ovvero rivolta quasi esclusivamente ai jidaigeki, ai film in costume o – per utilizzare un’etichetta che ancora oggi va di moda – di «geisha e samurai». I riconoscimenti ovviamente fioccano: a Venezia vincono tre film di Mizoguchi Kenji (Vita di O-haru donna galante [Saikaku ichidai onna] il Premio internazionale nel 1952, I racconti della luna pallida d’agosto [Ugetsu Monogatari] il Leone d’argento nel 1953, L’intendente Sanshō [Sanshō dayū] il Leone d’argento nel 1954), uno di Kurosawa (I sette samurai [Shichinin no Samurai] il Leone d’argento ex aequo con Sanshō), e uno di Ichikawa Kon (L’arpa birmana [Biruma no tategoto] il Premio San Giorgio nel 1956), uno di Inagaki Iroshi (L’uomo del riksciò [Muhomatsu no issho] il Leone d’oro del 1958; a Cannes, che ospita un numero significativo di opere del Sol Levante 23, The Tale of Genji (Genji Monogatari) di Kozaburo Yoshimura fa suo il premio per la migliore fotografia, La via dell’inferno (Jigokumon) di Kinugasa Teinosuke il Gran premio nel 1954 (l’allora Palma d’Oro), La montagne sauvage (Shiroi sanmyaku) di Imamura Sadao il

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premio al miglior documentario del 1957. Al di là della moda nipponista, destinata a sfumare così velocemente quanto è apparsa, ci sembra più interessante sottolineare il ruolo di Rashōmon come spartiacque non solo per la carriera del regista, ma anche per le idee e i paradigmi che si consolidano attorno alla cinematografia giapponese. Spiega Scott Nygren: Rashomon andrebbe riconsiderato quale perno attraverso il quale ripensare il tempo in relazione alla cultura e alle specifiche costruzioni della storia […]. Luogo cardine, Rashomon stabilisce connessioni o intersezioni, che colmano il gap più tra contesti tra loro diversi che non tra categorie tra loro riconoscibili. Collega il periodo dell’Occupazione americana con la riconquista dell’indipendenza del Giappone inteso come una «nazione moderna», l’Ovest degli Stati Uniti e dell’Europa con l’Est della cultura asiatica, problematizzando entrambi i concetti. Segna, inoltre, una transizione tra i film giapponesi intesi come pratica localmente specificata – in parte dovuta all’isolazionismo volontario del paese […] – e la loro partecipazione all’economia mondiale del cinema. E un momento dopo, Rashomon si presenta come luogo di «contestazione» tra la concezione, sostenuta da Richie e Sato, secondo cui i film giapponesi degli anni ’50 rappresentano la «Golden Age» nipponica e quella alternativa di Burch che individua una «Golden Age» negli anni ’30 e considera quindi i ’50 come anni di decadenza. Nessuna di queste connessioni stabilisce semplicemente un «progresso» o un «declino», apre invece a un complesso processo di riconfigurazione in cui il cinema ingaggia e insieme è ingaggiato dalle dinamiche culturali. 24

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Detto in altro modo, l’ingresso di Rashōmon nella sfera culturale e mediale internazionale modifica equilibri, muta scenari, apre a paradigmi del sapere fondati non su lente e complesse sedimentazioni, ma su improvvisi break, su equilibri rotti, su configurazioni e dialettiche inattese, su prospettive improvvisamente ribaltate. È evidente che conoscere una cinematografia a partire da un film che giunge circa cinquant’anni dopo le prime produzioni non può che modificare la percezione che si ha di quel paese, della sua storia, delle sue specificità. Che idea ci saremmo potuti fare del cinema americano se avessimo visto come primo film Quarto potere (Citizen Kane, 1941) di Orson Welles o di quello francese cominciando il nostro viaggio cinematografico da Tirate sul pianista (Tirez sul le pianiste, 1960) di François Truffaut? I premi conquistati in Occidente aprono a Kurosawa, di nuovo e inaspettatamente, le porte della Tōhō che produce il successivo Vivere (Ikiru, 1952). Uscito nel mese di ottobre, il film sfrutta l’onda lunga del successo internazionale di Rashōmon e diventa il più grande successo kurosawiano sia di pubblico (primo al botteghino di quell’anno) sia di critica (primo nella Best Ten di «Kinema Junpo»). Il fiasco de L’idiota è velocemente accantonato anche grazie al successivo I sette samurai, altro Leone a Venezia, ulteriore passo verso la «venerazione» autoriale del regista, sia in Giappone, sia in Occidente 25. I lungometraggi firmati da chi sempre più spesso è soprannominato il Tenno decrescono in numero e crescono in minutaggio, ambizione e budget. Le successive vicende kurosawiane, una collezione di suc-

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cessi e clamorosi flop, di trionfi ma anche di lunghi silenzi e tentati suicidi, non possono essere raccontate in questo volume, per ovvi motivi 26. Notiamo infine un solo fatto curioso e illuminante. Anche l’autobiografia che Kurosawa scrive nel 1982 arriva solo fino al 1951, al Leone d’oro vinto a Venezia. C’è insomma un prima e un dopo il ruggito veneziano anche nei ricordi e nei racconti dello stesso cineasta. Il dopo, forse, ha coperto o modificato la percezione del prima e ha richiesto un lavoro di recupero della memoria e delle conoscenze dimenticate da parte di Kurosawa. Così è stato per Rashōmon, la cui fortuna successiva alle coppe vinte ha ammantato di un’aura difficilmente scalfibile le vicissitudini precedenti. Prima e dopo sono ormai masse di dati e impressioni tra loro integrate, è vero, ma alle analisi filmiche, come questa, tocca dare conto anche del durante. Sperando che il durante – a cominciare dal découpage del film e dall’analisi narrativa, oggetto dei prossimi due capitoli – aiuti a far luce tanto sul processo produttivo precedente, quanto sulla sua ricezione successiva. Una luce probabilmente frastagliata, come quella scelta da Miyagawa Kazuo, il direttore della fotografia, per illuminare le sequenze del bosco.

Per dettagli sulla formazione e i primi anni di lavoro di Kurosawa rimando ovviamente ad Akira Kurosawa, L’ultimo imperatore. Quasi un’autobiografia, Baldini & Castoldi, Milano 1995. 2 Ecco i dati: Una meravigliosa domenica (Subarashiki nichiyōbi, 1947) è quinto, L’angelo ubriaco (Yoidore tenshi, 1948) primo, Cane randagio (Nora inu, 1949) terzo, Il duello silenzioso ottavo, Scandalo sesto. 1

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Si tratta dei principali premi giapponesi del periodo, promossi e assegnati dal Mainichi Shinbun, uno dei quotidiani a più alta tiratura del Giappone. Kurosawa può vantare il premio come miglior regista per Una meravigliosa domenica (nel 1948), e la palma come miglior film per L’angelo ubriaco e Vivere rispettivamente nel 1949 e nel 1953. 4 Si possono leggere nella sua autobiografia alcuni emblematici e talvolta esilaranti episodi legati a dissidi e conflitti con i produttori di tutte le case di produzione con cui collabora. I più aspri, ovviamente avvengono con i dirigenti della Tōhō nel periodo degli scioperi. 5 Su uno dei sodalizi più lunghi (dal 1948 al 1965) e proficui della storia del cinema rimando alla lettura del monumentale Stuart Galbraith, The Emperor and the Wolf: The Lives and Films of Akira Kurosawa and Toshiro Mifune, Faber & Faber, London 2003 oppure al più recente Giacomo Calorio, Toshirō Mifune, L’Epos, Palermo 2011. Alcune pagine illuminanti si possono trovare anche nell’autobiografia di Kurosawa. Si leggano le prime parole che egli dedica a Mifune, per scoprire come c’è già Tajōmaru nella prima audizione di Mifune. «Nel giugno 1946, nel fervore del dopoguerra, la Tōhō bandì delle audizioni pubbliche allo scopo di reclutare dei nuovi attori. […] Il giorno dei colloqui e dei provini ero nel bel mezzo delle riprese di Non rimpiango la mia giovinezza. [...] Saltai il pranzo e andai al teatro di posa dove facevano i provini. Aprii la porta e mi fermai di colpo, stupefatto. Un giovanotto correva per la stanza in preda a una violenta frenesia. Era come guardare una bestia selvaggia ferita o intrappolata che cerca di liberarsi. Rimasi lì inchiodato. Quel giovanotto non era veramente in collera, ma dovendo esprimere un’emozione per il provino, aveva scelto la rabbia, stava dunque recitando. Quando finì la sua interpretazione, riguadagnò stancamente la sedia, vi si lasciò cadere e si mise a fissare i giudici con aria minacciosa. Sapevo benissimo che quel modo di comportarsi era un modo per mascherare la timidezza, ma la giuria sembrò prenderlo per mancanza di rispetto», Kurosawa, L’ultimo imperatore cit., pp. 211-212. 6 Una delle mansioni più biasimevoli dell’ufficio consistette nella confisca e in parte nel rogo dei film giapponesi realizzati dal 1931 al 1945, in modo particolare di quelli che promuovevano valori o istanze nazionaliste. Anche se le cifre variano di qualche unità da una fonte all’altra, sono più di 200 i titoli fatti sparire dalla circolazione da parte del CI&E, 3

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mentre la prima lista di film da eliminare arrivava addirittura a 450. Cfr. Kyōko Hirano, Mr. Smith goes to Tokyo: the Japanese Cinema under the American Occupation, 1945-1952, Smithsonian Institute Press, Washington DC 1992, p. 42; Eiji Takemae, Robert Ricketts, The Allied Occupation of Japan, Continuum International Publishing Group, New York 2003, p. 397; Thomas W. Burkman (a cura di), The Occupation of Japan: Arts and Culture, The General Douglas MacArthur Foundation, Norfolk 1988, p. 150. 7 Gli zaibatsu erano concentrazioni industriali/finanziarie di carattere monopolistico, solitamente gestite da ricche famiglie, in grado di controllare direttamente o indirettamente interi settori produttivi. Nel corso degli anni ’30, gli esponenti più importanti degli zaibatsu dettavano di fatto le politiche economiche dei militari e persino le loro scelte di carattere bellico. Cfr. Hidemasa Morikawa, Zaibatsu: the Rise and Fall of Family Enterprise Groups in Japan, University of Tokyo Press, Tokyo 1992. 8 L’esempio più celebre è An Enemy of the People (Minshu no teki, 1946) di Imai Tadashi, un pamphlet contro il sistema di potere dell’imperatore, girato alla Tōhō secondo chiare direttive di Conde. 9 Esemplare, a tal proposito, è quanto capita alla sceneggiatura de L’angelo ubriaco che non viene approvata nella sua prima stesura a causa del setting scelto, una cloaca a cielo aperto, e di un finale che non condanna il personaggio del gangster Matsunaga, nonostante la morte per tubercolosi. La seconda stesura, presentata un mese dopo da Kurosawa e Uegusa (il co-sceneggiatore), contiene piccoli aggiustamenti e un diverso epilogo: il dottore alcolizzato, invece di partecipare commosso al funerale del gangster, è seduto davanti alla palude e qui viene raggiunto da una studentessa appena guarita dalla tubercolosi grazie alle sue cure; i due, poi, lasciano la zona paludosa e passeggiano sorridenti per le strade popolose della città. La nuova scena convince il CI&E perché contiene un messaggio positivo (la speranza di rinascita, la possibilità di una bonifica spirituale e morale del paese) e non è da escludere che l’intera esperienza, che attenua il retrogusto amaro del film, non motivi un simile happy end anche per Rashōmon. Cfr. Hiroshi Kitamura, Screening Enlightenment: Hollywood and the Cultural Reconstruction of Defeated Japan, Cornell University Press, Ithaca 2010, pp. 49-53. 10 Tra i professionisti colpiti da quest’ondata di discriminazioni c’è anche Wakasugi Mitsuo, uno dei tre assistenti alla regia di Rashōmon, costret-

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to a trasferirsi a Hong Kong per alcuni anni e a lavorare sotto falso nome. 11 I rimandi più diretti sono a film come Red Light Bases (Akasen kichi, 1953) di Taniguchi Senkichi, Mixed Blood Children (Konketsuji, 1953) di Sekigawa Hideo, Le ragazze di Okinawa (Himeyuri no Tō, 1953) di Imai Tadashi, i quali, usciti poco dopo la fine dell’occupazione alleata, attaccano pesantemente gli americani, narrando episodi di violenza e abusi perpetrati dai soldati negli anni precedenti. Esistono anche diverse altre pellicole che in termini indiretti o allusivi criticano la gestione amministrativa e sociale degli occupanti tra cui i cosiddetti haha-mono, storie di madri in attesa dei figli partiti per il fronte. Per approfondimenti su questa fase della storia del cinema giapponese rimando a: Joseph L. Anderson, Donald Richie, The Japanese Film: Art and Industry, Princeton University Press, Princeton 1959 (edizione ampliata: 1982), o ai più recenti Lars-Martin Sørensen, Censorship of Japanese Films during the U.S. Occupation of Japan: the Cases of Yasujiro Ozu and Akira Kurosawa, Edwin Mellen Press, Lewiston (NY) 2009; Isolde Standish, A New History of Japanese Cinema: a Century of Narrative Film, Continuum International Company, New York 2006, pp. 175-219. 12 Il ruolo di apripista nel rilancio del genere tocca a Cinque donne intorno a Utamaro (Utamaro o meguru gonin no onna, 1946) di Mizoguchi Kenji. Vietato in un primo momento dal CI&E perché ambientato in epoca Tokugawa, il film riceve il via libera solo dopo che lo stesso Mizoguchi si presenta al quartier generale americano per perorare la bontà del soggetto proposto. Il cineasta riesce a convincere i censori con le stellette ricordando loro il valore culturale del pittore, sia sul piano nazionale che internazionale, e soffermandosi sugli aspetti più democratici della sceneggiatura, come ad esempio la presenza di figure femminili alla ricerca di emancipazione. Il film uscirà regolarmente, senza troppi tagli, a dicembre del 1946. Cfr. Anderson, Richie, The Japanese Film cit., p. 162. 13 La Dai Nihon Eiga (DAIEI) è una delle tre compagnie (insieme a Tōhō e Shōchiku) che sopravvivono alla semplificazione del settore cinematografico voluta dal governo nel 1941-42. Nasce dalla fusione di Shinkō Kinema, Daito Eiga e da uno dei dipartimenti della Nikkatsu per opera di Nakata Masao, futuro produttore dello stesso Rashōmon. Nei suoi primi anni di vita, la Daiei si specializza, come naturale che sia, in film di

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guerra e jidaigeki. Con l’occupazione, Nakata si vede costretto a chiudere uno stabilimento di Tokyo specializzato in jidaigeki e a modificare i generi e i soggetti su cui dirigere i propri investimenti. Cfr. Maria Roberta Novielli, Storia del cinema giapponese, Marsilio, Venezia 2000, pp. 101-103. 14 Gli ōchōmono sono racconti moderni ambientati nell’epoca Nara o Heian e spesso, pur se largamente rivisitati, prendono spunto da soggetti appartenenti ad antologie di racconti di quel periodo. I due racconti di Akutagawa da cui nasce la sceneggiatura si trovano, nella più recente edizione italiana, in: Ryūnosuke Akutagawa, Rashōmon e altri racconti, TEA, Milano 2002. Per approfondimenti sullo scrittore rimando a Teresa Ciapparoni La Rocca (a cura di), Akutagawa Ryūnosuke, Studi da Oriente ad Occidente, La Nuova Cultura, Roma 2010. 15 Celebre è l’aneddoto, raccontato dallo stesso Kurosawa nella sua autobiografia, secondo cui, una sera, a casa sua si presentano i tre aiuto-registi assegnatigli da Nakata, con una richiesta inusuale e imbarazzante: gli chiedono conto del contenuto della storia perché – affermano – leggendo la sceneggiatura non l’hanno capita. A parte questo curioso avvenimento, le cronache narrano soprattutto delle incomprensioni tra il regista e uno dei suoi tre aiutanti, Kato Tai, a sua volta futuro cineasta, di soli sei anni più giovane, costretto controvoglia a mettersi al servizio di un suo quasi coetaneo e ad attendere il debutto dietro la macchina da presa diverso tempo dopo, una volta compiuti i quarant’anni. 16 E difatti Mifune sarà costretto a tornare di corsa a Kyoto per ri-doppiare una inquadratura in cui aveva una battuta. I tecnici del suono della Daiei sostenevano – ma noi non abbiamo fatto la verifica – che l’audio originale mostrasse traccia evidente, nel cambio di ambiente sonoro, di questa aggiunta successiva. Cfr. A Testimony As An Image, documentario senza credits annesso all’edizione speciale in DVD prodotta da Optimum Asia nel 2008. 17 La maggior parte degli episodi citati si trovano in Nogami Teruyo, Waiting on the Weather: Making Movies with Akira Kurosawa, Stone Bridge Press, Berkeley 2006, pp. 63-98. Altre informazioni sulle riprese e sulla fase del montaggio provengono dall’autobiografia di Kurosawa (pp. 180-188) e da Galbraith, The Emperor and the Wolf cit., pp. 127-142. 18 I film del 1950 che precedono in classifica Rashōmon sono Until we Meet

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Again (Mata au hi made) di Imai Tadashi, Return to the Capitol (Kikyo) di Oba Hideo, Escape at Dawn (Akatsuki no dasso) di Taniguchi Senkichi e Reprieve (Shikko yuyo) di Saburi Shin. Il 1950 è comunque un’annata ricca di film importanti visto e considerato che Mizoguchi firma Il ritratto della signora Yuki (Yuki fujin ezu), Ozu Le sorelle Munekata (Munekata kyoudai), Naruse Mikio il trittico Angry Street (Ikari No Machi), White Beast (Shiroi Yaju), Conduct Report on Prof. Ishinaka (Ishinaka Sensei Gyojoki con Mifune), Kinoshita An Engagement Ring (Konyaku yubiwa, sempre con Mifune), Inagaki Sasaki Kojirō (id.), un altro jidai. 19 Ricorda Kurosawa: «Dopo Rashōmon feci un film da L’idiota di Dostoevskij (Hakuchi, 1951) per gli studi Shōchiku. Questo Idiota costò molti soldi. Mi scontrai direttamente con i capi dello studio e quando uscirono le recensioni, mi sembrarono una fotocopia del parere dei produttori su di me. Erano tutte virulente. Sull’onda di quel disastro, la Daiei ritirò la sua offerta di fare un altro film con me. Quella gelida comunicazione mi arrivò mentre mi trovavo nei teatri di posa di Chōfu della Daiei nei sobborghi di Tokyo. Uscii dal cancello completamente ebete e non trovando nemmeno la forza di volontà di prendere il treno, feci a piedi tutto il tragitto fino a casa, rimuginando sulla mia deprimente situazione. Conclusi che per un po’ avrei dovuto mangiare riso freddo e rassegnarmi. […] Arrivai a casa depresso; avevo sì e no la forza di aprire la porta. Ma ecco che arriva di corsa mia moglie. «Congratulazioni!». Non potei fare a meno di irritarmi. Chiesi: «Per cosa?». «Rashōmon ha vinto il primo premio!» Rashōmon aveva vinto il Gran Premio al Festival internazionale del film di Venezia e io mi ero risparmiato l’obbligo di mangiare riso freddo. Una volta ancora un angelo era apparso chissà dove. Io nemmeno sapevo che il film fosse stato presentato a Venezia […]. Fu come versare acqua nelle orecchie addormentate dell’industria cinematografica giapponese». Cfr. Kurosawa, L’ultimo imperatore cit., pp. 244-245. 20 Segnalo che Giuliana Stramigioli diventerà, in seguito, un professore ordinario di Lingua Giapponese in Italia, alla Sapienza di Roma dal 1965 al 1985. 21 Tra i film in concorso quell’anno troviamo capolavori come Diario di un curato di campagna (Journal d’un curé de campagne) di Bresson, Il fiume (The River) di Renoir, Nata ieri (Born Yesterday) di Cukor e Un tram chiamato desiderio (A Streetcar Named Desire) di Kazan.

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Questa è la motivazione riportata dal Board of Governors: «The Most Outstanding Foreign Language Film Released in the United States during 1951». 23 A proposito si veda: Nolwenn Le Minez, Histoire du cinéma asiatique en France (1950-1980). Etude d’une réception interculturelle et réflection sur l’exotisme cinématographique, Tesi di dottorato in Studi Cinematografici, École doctorale Perspectives interculturelles: écrits, médias, espaces, sociétés (PIEMES), Université Paul Verlaine, Metz 2009, pp. 86-94. Cfr. http://www.theses.fr/2009METZ020L (marzo 2012). 24 Scott Nygren, Time Frames: Japanese Cinema and the Unfolding of History, University of Minnesota Press, Minneapolis 2007, pp. 100-101 (trad. mia). 25 Nel caso europeo sono evidentemente solo i suoi jidaigeki a essere distribuiti e quindi ammirati, studiati e copiati, mentre gran parte della produzione gendaigeki resta invisibile e ignota ai più fino all’inizio degli anni ’70. In Italia, addirittura più tardi. Sarà solo grazie alla prodigiosa attività culturale di Aldo Tassone che verranno programmati in TV e in alcuni festival titoli come L’angelo ubriaco, Cane Randagio, Una meravigliosa domenica e lo stesso Vivere. 26 La bibliografia su Kurosawa è infinita. Tra le tante monografie in circolazione rimando almeno a: Richie, The Films of Akira Kurosawa cit.; Stephen Prince, The Warrior’s Camera: the Cinema of Akira Kurosawa, Princeton University Press, Princeton 1999; Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro, Milano 1981 (ultima edizione: 2008). 22

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Titolo originale: Titolo italiano e internazionale: Rashōmon 1. Anno: 1950. Colore: B/N. Regia: Kurosawa Akira. Soggetto: liberamente tratto dai racconti Rashōmon e Yabu no naka (Nel bosco) di Akutagawa Ryūnosuke. Sceneggiatura: KA, Hashimoto Shinobu. Fotografia: Miyagawa Kazuo. Luci: Okamoto Ken’ichi. Montaggio: KA, Nishida Shigeo. Musica: Hayasaka Fumio. Suono: Otani Iwao. Effetti sonori: Yamane Shoichi. Assistente Operatore: Morita Fujio. Scenografie: Matsuyama Sō (Takashi). Architetto/Décor: Matsumoto Shunzō (Haruzō). Aiuti regista: Tanaka Tokuzō, Wakasugi Mitsuo, Kato Tai.

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Casa di produzione: Daiei. Produttore: Minoru Jingo, Motogi Sojiro. Produttore esecutivo: Nagata Masaichi. Distribuzione: CEI Incom. Interpreti e personaggi: Mifune Toshirō (Tajōmaru), Kyō Machiko (Masako), Mori Masayuki (Takehiro), Shimura Takashi (Boscaiolo), Chiaki Minoru (Monaco) Ueda Kichijirō (Vagabondo), Honma Noriko (Medium), Katō Daisuke (Poliziotto). Premi: Mainichi Film Concours (Tokyo): Premio come migliore attrice a Machiko Kyō (1951); «Kinema Junpo», classifica Best Ten (Tolyo): quinto posto; Tokyo Blue Ribbon Prizes: migliore sceneggiatura; Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: Leone d’oro per il miglior film (1951); National Board of Review (New York): Premio per la miglior regia e per il miglior film straniero (1952); Academy Awards (Los Angeles): Premio onorario per il «miglior film in lingua straniera» distribuito negli USA durante il 1951 (1952). Visto della censura italiana: Nulla Osta n. 11394 del 13/2/1952 per la versione doppiata; n. 11502 del 21/2/1952 per la versione non doppiata. La domanda di revisione presentata dalla Società CEI Incom porta il titolo Rasciomon e indica la regia di Curosawa Achira. Lunghezza versione italiana: 2428 m (dichiarata 2800 m). Prime proiezioni: 26 agosto 1950 (Tokyo), 24 agosto 1951 (Venezia), 26 dicembre 1951 (New York).

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Nella trattatistica in lingua occidentale, spesso si può trovare il termine Rashōmon senza il macron ō. Il sistema di traslitterazione Hepburn invece lo prevede (indica che la pronuncia della vocale deve essere allungata) e dunque lo adotteremo, così come capiterà per casi analoghi (Tajōmaru, Toshirō ecc.). Gli unici «strappi alla regola», per ovvi motivi, riguarderanno le citazioni di altre pubblicazioni dove verranno mantenute le trascrizioni originali. 1

Le sequenze 1

TITOLI DI TESTA (inqq. 1-11) 0’00’’-1’43’’ [11 inqq. - 1’43’’ ASL 2 9,3 sec.] Inquadrature di dettagli del portale di Rashō sotto la pioggia: l’insegna con gli ideogrammi Mon ( ) Shō ( ) Ra ( ) 3, il soffitto sfondato, alcune colonne di pietra, le grondaie del tetto, il basamento di una colonna a terra. In sovrimpressione, in caratteri bianchi, i crediti del film. Una musica extradiegetica costituisce, insieme allo scroscio della pioggia, l’intera colonna sonora 4. Sequenza 1. PROLOGO (inqq. 12-39) 1’44’’-7’37’’ [28 inqq. 5’53’’ - 12,6 sec.] – (Sotto il portale di Rashō) Un taglialegna e un monaco aspettano che spiova. Il primo è scosso e manifesta il proprio turbamento ripetendo la frase: «Non riesco a capire». Poco dopo giunge un terzo uomo, un vagabondo, anch’egli in cerca di riparo. Incuriosito dall’atteggiamento dei due, domanda cosa sia successo e gli viene riferito che è appena stato celebrato un processo per omicidio. Mentre il

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monaco si lamenta per le guerre e le disgrazie che hanno colpito il paese lasciandolo nel caos, il boscaiolo chiede al viandante di ascoltare la sua storia, nella speranza che quest’ultimo gli fornisca risposte ai dubbi che lo tormentano. Pur di non ascoltare i sermoni del bonzo, il viandante accetta di buon grado la proposta del taglialegna. Sequenza 2. IL RITROVAMENTO DEL CADAVERE, LA PRESENTAZIONE DEI PERSONAGGI, LA CATTURA DI TAJŌMARU (inqq. 40-83) 7’38’’-16’27’’ [44 inqq. - 8’49’’ - 12 sec.] – (Nel bosco) Tre giorni prima. Il tagliaboschi, ascia sulle spalle, il sole che spunta tra le fronde degli alberi, cammina di buona lena nel cuore della foresta. Ad accompagnarlo una musica suadente e, allo stesso tempo, inquietante (è una rivisitazione del Bolero di Ravel). Durante il tragitto, s’imbatte prima in un cappello da signora poi in un copricapo da uomo e ancora in una corda tagliata e in un amuleto. Mentre si avvicina a quest’ultimo oggetto inciampa nel cadavere di un uomo di cui si vedono solo le braccia mummificate. Spaventato, scappa via. Tendina – (Nel cortile della stazione del Kebiishi 5) Tre giorni dopo, qualche ora prima rispetto alla sequenza 1. Seduto innanzi a un funzionario (che non vediamo, né sentiamo), il taglialegna conclude la sua deposizione: conferma di essere stato lui a rinvenire il corpo del samurai che ora è posto alla sua sinistra (ma in fuoricampo), elenca gli oggetti visti sul sentiero, nega di aver trovato alcuna spada, non fa cenni circa la presenza di un pugnale. Tendina – (Nel cortile) Il monaco afferma di aver incontrato la coppia quello stesso giorno lungo la strada da Sekiyama a Ya-

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mashina. (Sul sentiero nel bosco) Il religioso incrocia il samurai a piedi, sorridente, con arco, frecce e spada sulle spalle e la sposa seduta a cavallo coperta da un velo. (Nel cortile) La sua deposizione si conclude con alcune riflessioni sulla precarietà della vita e l’inattesa fine del samurai. Tendina – (Nel cortile) Tocca a un poliziotto testimoniare innanzi al magistrato. Ha al suo fianco il bandito Tajōmaru, legato con una corda, e ne racconta la cattura lungo il fiume Katsura, due giorni innanzi. (Sulla riva di un fiume) L’agente passeggia distratto quando vede un uomo che soffre. Giunto al suo cospetto, scopre di chi si tratta, si spaventa e cade in acqua. Tajōmaru intanto rantola per il dolore, accanto a lui alcune frecce sparse sulla battigia e un cavallo. (Nel cortile) Il poliziotto ironizza sul fatto che un innocuo destriero abbia disarcionato il terribile Tajōmaru. Quest’ultimo, a quel punto, ride in faccia al poliziotto e prende la parola. Quel giorno – racconta il bandito – mentre stava cavalcando (immagine in CL di un uomo che galoppa al tramonto) aveva deciso di fermarsi a bere per la troppa sete (immagine di Tajōmaru che beve da un ruscello) in un punto dove l’acqua era probabilmente avvelenata poiché, poco dopo, era stato colpito da improvvisi crampi allo stomaco tali da costringerlo a scendere di sella. Sequenza 3. LA VERSIONE DI TAJŌMARU (inqq. 84-224) 16’28’’36’28’’ [141 inqq. - 20’01’’ - 8,5 sec.] – Poi improvvisamente confessa di essere l’assassino di Takehiro. Nulla però sarebbe successo – aggiunge – se una brezza fresca non avesse risvegliato i suoi sensi. (Sul sentiero del bosco) Tajōmaru riposa ai piedi di un grande albero

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quando passa la coppia già incontrata dal monaco. Il bushi si arresta alla vista del bandito ma poi prosegue sul sentiero, mentre Tajōmaru osserva le caviglie e il volto della moglie Masago, approfittando di un venticello che alza il vestito della donna e scosta il suo velo. (Nel cortile) La bellezza di Masago – chiosa il bandito – lo convince a farla sua anche a costo di uccidere l’uomo. – (Sul sentiero del bosco) Tajōmaru insegue la coppia, la raggiunge e propone un affare al marito: in un boschetto in cima alla montagna, dentro a una tomba, ci sono decine di spade, simili a quella che impugna. Se è disposto a seguirlo gliene vende alcune a un buon prezzo. Tendina. – (Nel cuore del bosco) Mentre Masago aspetta seduta sulla riva di un ruscello, i due uomini s’inerpicano per la montagna. Tajōmaru cammina a gran velocità aprendosi con la spada una via tra la fitta vegetazione, seguito, qualche passo indietro, dal samurai. Una volta giunti a destinazione, mostra a Takehiro il luogo dove si trovano le lame. Appena questi lo supera, il bandito lo attacca alle spalle. Tra i due inizia una colluttazione. Tendina. – (Nel cuore del bosco) Tajōmaru, esultante, torna di corsa dalla donna, la osserva da lontano (e di nascosto) e poi le s’avvicina annunciandole che il marito si è sentito male e ha bisogno del suo aiuto. (Nel cortile) Tajōmaru, di fronte al Kebiishi, commenta il modo con cui la donna lo guardava, con gli occhi di ghiaccio e uno sguardo da bambina. (Nel cuore del bosco) Tajōmaru ora corre eccitato, prendendo per mano Masago, la quale prima perde il cappello poi, una volta giunta in un pianoro, si ferma sbigottita a osservare il marito legato alla base di un albero come il più innocuo

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degli uomini. I tre si scambiano sguardi interrogativi, fin quando Masago attacca Tajōmaru con un pugnale, cercando più volte di colpirlo. Il malvivente, dal canto suo, si prende gioco di lei e quando cade a terra stremata, la afferra con forza, la cinge tra le braccia e la bacia con passione. Poco distante Takehiro distoglie lo sguardo mentre la moglie si abbandona al bandito, lasciando cadere il pugnale e abbracciandolo con voluttà. (Nel cortile) Tajōmaru ghigna senza alcun controllo: è stato bravo – dice – a prendersi la donna senza uccidere il consorte. Se non fosse che… – (Nel cuore del bosco) Consumato l’amplesso, Tajōmaru fa per andarsene quando Masago si getta ai suoi piedi e lo supplica di sfidare Takehiro perché non vuole che due uomini conoscano la sua vergogna. «Apparterrò a chi sopravvivrà», aggiunge. Tajōmaru, allettato dalla proposta, libera Takehiro, gli porge la spada e combatte per diversi minuti. Solo quando il samurai scivola a terra, il bandito può scagliargli addosso la spada e ucciderlo. – (Nel cortile) Tajōmaru termina la deposizione ricordando di non essersi subito accorto che Masago era fuggita via. Aveva deciso di non cercarla, accontentandosi di rubare la spada del samurai e il suo cavallo. Del pugnale invece, intarsiato di perle e quindi di un certo valore, si era completamente dimenticato, rammaricandosi di averlo lasciato sul posto. Sequenza 4. PRIMO INTERMEZZO (inqq. 225-232) 36’29’’-38’52’’ [8 inqq. - 2’23’’ - 17,8 sec.] – (Sotto il portale) Il vagabondo ricorda che Tajōmaru ha già ucciso diverse donne in passato e si domanda dove sia fi-

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nita Masago. A quel punto il monaco interviene informandolo che anche lei ha partecipato al processo, dando dei fatti una versione completamente diversa. Per il taglialegna entrambi hanno mentito. Il viandante lo zittisce, ribattendo che è nella natura umana ingannare se stessi come gli altri, e chiede conto della sua testimonianza. Sequenza 5. LA VERSIONE DI MASAGO (inqq. 233-268) 38’53’’48’50’’ [36 inqq. - 9’57’’ - 16,5 sec.] – (Nel cortile) Masago piange, scossa per le pene provate dal marito. Poi inizia a raccontare. (Nel bosco) Consumato l’amplesso, Tajōmaru abbandona il luogo del misfatto e la donna resta sola con Takehiro. Singhiozza, lo abbraccia per cercare conforto, ma da questi riceve solo un silenzioso e sprezzante sguardo. (Nel cortile) La donna commenta, disperata, il modo con cui Takehiro la fissava. (Nel bosco) La coppia resta in silenzio, l’una di fronte all’atro. Masago prima dimostra paura, poi terrore per il giudizio del coniuge. Si copre il volto con le mani, cade a terra. Poi recupera il pugnale che giace poco lontano, libera il marito e gli offre l’arma affinché la uccida. L’uomo non si muove né proferisce verbo, il suo sguardo resta algido e altero. Masago, afferrando lo stiletto, si dirige allora minacciosa verso il marito fin quando sparisce dall’inquadratura. (Nel cortile) Con aria ora superba la donna prosegue il racconto dichiarando di essere svenuta e di essersi risvegliata con a lato il marito morto. Ammette di essere fuggita e aver tentato di annegarsi in un laghetto (inquadratura di uno specchio d’acqua trasparente e tranquillo), ma senza successo.

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Sequenza 6. SECONDO INTERMEZZO (inqq. 269-276) 48’51’’50’46’’ [8 inqq. - 1’56’’ - 14,5 sec.] – (Sotto il portale) Continua a diluviare. Ora anche il viandante ha dubbi benché – dice – delle parole proferite da una donna non ci si può mai fidare. Il monaco aggiunge che anche il morto ha parlato, attraverso una medium. La sorpresa del vagabondo si scontra con l’affermazione del taglialegna secondo cui anche questa testimonianza è falsa. Il monaco sbotta, non può credere che anche un morto menta, ma il viandante ribadisce la sua convinzione: nessuno è onesto in questo mondo, tanto meno chi è nell’aldilà. Poi si dice interessato a sentire le parole del morto. Poco prima che qualcuno parli un lampo illumina il portale e un tuono deflagra poco lontano. Due dettagli mostrano l’onigawara 6 abbandonato a terra e sotto la pioggia. Sequenza 7. LA VERSIONE DI TAKEHIRO (inqq. 277-319) 50’47’’1h 01’08’’ [43 inqq. - 10’32’’ - 14,7 sec.] – (Nel cortile) Per mezzo di un rituale spiritico, una sensitiva, la voce da uomo, entra in contatto con il defunto e gli presta la parola. (Nel bosco) Subito dopo la violenza – racconta Takehiro – Tajōmaru chiede a Masago di seguirlo, dicendole che è innamorato. A quell’affermazione la donna solleva lo sguardo e accetta la proposta. (Nel cortile) La medium schiuma di una rabbia che si accresce quando (Nel bosco) prima di fuggire insieme, Masago chiede a Tajōmaru di uccidere il marito. (Nel cortile) Il samurai, dal limbo, denuncia la crudeltà di quelle parole, tali da far impallidire persino il brigante. (Nel bosco) Il bandito, invece di esaudire i desideri di Masago, la getta

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a terra e tenendola ferma con un piede – (Nel cortile) La medium scoppia in una risata cavernosa – (nel bosco) chiede a Takehiro cosa farne, se ucciderla o lasciarla andare. «Per queste parole – aggiunge la voce di commento extradiegetica – posso perdonare il brigante». Tuttavia, approfittando di un attimo di distrazione di Tajōmaru, Masago scappa, inseguita dall’uomo. Takehiro rimane solo, ancora legato all’albero. – Trascorre diverso tempo, fin quando Tajōmaru ritorna, ammette di non aver raggiunto Masago, libera Takehiro dalle corde e se ne va. Il samurai è in preda alla disperazione. In lacrime, recupera il pugnale della moglie e fa seppuku. (Nel cortile) Anche la sensitiva crolla a terra. Poi si rialza e chiude la deposizione sostenendo che qualcuno ha estratto il pugnale dal corpo ancora vivo del samurai. A quelle parole il boscaiolo, seduto sullo sfondo, sbarra gli occhi e sobbalza. Sequenza 8. TERZO INTERMEZZO (inqq. 320-324) 1h 01’09’’1h 03’53’’ [5 inqq. - 2’44’’ - 32,8 sec.] – (Sotto il portale) Il taglialegna sfoga la frustrazione urlando che Takehiro è stato ucciso da una spada e non da un pugnale. Il viandante intuisce che sta nascondendo qualcosa, lo raggiunge e lo incalza. Il monaco è sempre più disperato e il viandante lo zittisce una volta ancora, rammentandogli che anche i demoni, a Rashō, scappano spaventati per la cattiveria degli uomini. E rivolgendosi al boscaiolo gli chiede di raccontare la sua verità. Questi confessa che era presente durante il misfatto…

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Sequenza 9. LA VERSIONE DEL TAGLIALEGNA (inqq. 325-389) 1h 03’54’’-1h 18’32’’ [65 inqq. - 14’36’’ - 13,4 sec.] – (Nel bosco) Tajōmaru chiede a Masago di sposarlo, dicendosi disposto anche a cambiare vita pur di averla al suo fianco. La donna, a terra, piange e ascolta le suppliche del brigante, il quale perde presto la pazienza e la minaccia di morte se non accetta la sua proposta. A quel punto Masago si alza, afferra il pugnale e libera il marito. Tajōmaru capisce che deve uccidere l’uomo prima di averla, ma Takehiro si rifiuta di combattere per una moglie infedele. Lo stesso Tajōmaru, confuso dalle parole del samurai, decide di andarsene. A quel punto, Masago presa dalla disperazione e dall’assurdità della situazione, irride i due uomini per la loro vigliaccheria, spingendoli finalmente a combattere. Ne nasce uno scontro tra avversari pavidi che cadono a terra, s’incespicano, attaccano quando il rivale è in difficoltà, perdono persino la spada. Sarà Tajōmaru a prevalere, anche se la vittoria sarà inutile: Masago scappa e Tajōmaru è troppo stanco per inseguirla. Non gli resta che recuperare la seconda spada e abbandonare il luogo del delitto. La sequenza è l’unica tra quelle ambientate nel bosco senza commento musicale extradiegetico. Bastano, in questo caso, i rumori di fondo della foresta e gli ansimi preoccupati degli uomini a restituire la «verità» del boscaiolo. Sequenza 10. EPILOGO (inqq. 390-421) 1h 18’33’’-1h 27’44’’ [32 inqq. - 9’12’’ - 17,2 sec.] – (Sotto il portale). Il temporale non si placa. Il viandante se la ride, convinto di aver ascoltato l’ennesima fando-

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nia. Il monaco, disperato, piange il fatto di non poter credere più negli uomini. Tra i tre cala il silenzio. All’improvviso si ode un pianto. Il primo ad accorrere verso la parte posteriore del portale, da dove proviene il gemito, è il vagabondo che – senza pensarci due volte – ruba il corredo a un neonato in fasce. Gli altri due cercano di fermarlo, scandalizzati dalla sua avidità, ma quando il boscaiolo, colmo di rabbia, lo prende per il bavero e lo minaccia, questi passa al contrattacco, accusandolo di aver rubato il pugnale e di non poter ricevere lezioni da parte di un ladro. Il taglialegna, vistosamente in imbarazzo, molla la presa. Il viandante prende le sue cose e se ne va ridendo. – Il monaco e il taglialegna sono immobili e pensierosi. Passano i minuti e la pioggia lentamente si arresta. Quando il secondo cerca di prendere il neonato dalle braccia del primo, questi d’istinto si ritrae e si rifiuta di consegnargli il bimbo. Compreso il motivo del gesto, il taglialegna, piangendo, supplica il religioso di fidarsi di lui e gli assicura che si prenderà cura dell’orfano come ha fatto per i suoi sei figli. A quel punto il monaco, vergognandosi della prima reazione e rincuorato dalle parole del compagno di sventure, gli consegna il bebè. Una musica tradizionale giapponese si alza mentre il sole si apre una via tra le nuvole. Il boscaiolo si allontana sorridendo, in braccio la piccola creatura. Viene ripresa un’ultima volta l’insegna del portale su cui compare in sovrimpressione la parola «fine».

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L’articolazione delle sequenze, così come il calcolo del numero e della durata delle inquadrature che presento in queste pagine, sono desunti dalla versione restaurata nel 2008 dall’Academy Film Archive, dal The National Film Center of the National Museum of Modern Art di Tokyo e da Kadokawa Pictures Inc., reperibile su DVD e BluRay solo sul mercato giapponese. Dalla comparsa del logo della Daiei all’ultima inquadratura, questa versione dura 1h27’42’’. Sul mercato occidentale, due sono le versioni che più le si avvicinano, rispettivamente editate da BFI in Gran Bretagna e Criterion Collection negli Stati Uniti, lunghe due secondi in più. In Italia circola una versione del film più «anziana» distribuita prima da Cecchi Gori e poi da Dolmen/Mikado, la quale gode di una diversa velocità di decodifica dal 35mm. Si segnala, infine, che rispetto alla sceneggiatura pubblicata in inglese da Richie in Focus on Rashomon nel 1972 (si vedano i riferimenti in bibliografia), qui varia la numerazione delle inquadrature perché nel découpage inglese non sono considerati i titoli di testa da noi invece doverosamente inseriti. 2 L’ASL (Average Shot Length), misura introdotta negli studi sul cinema da Barry Salt negli anni ’70, non è altro che la durata media delle inquadrature di una sequenza o di un intero film. 3 L’ordine dei tre ideogrammi di origine cinese è capovolto rispetto alla formulazione attuale poiché in epoca Heian (e anche successivamente) era d’uso invertire la disposizione dei kanji. 4 La composizione appartiene al genere Gagaku, la più antica forma musicale medievale giapponese, suonata per lo più nelle corti imperiali e anch’essa di origine cinese. Per approfondimenti si veda: William P. Malm, Traditional Japanese music and musical instruments, vol. 1, Kodansha International, Tokyo 2000, pp. 97-118. 5 Il Kebiishi era un corpo di polizia imperiale che costituiva, di fatto, la principale forza militare in attività durante il periodo Heian, nonché uno degli uffici più importanti dell’amministrazione pubblica di Kyoto. Il declino dell’istituzione attorno al 1000 segnò l’inizio della disintegrazione del controllo centrale sulle aree periferiche del paese. I suoi ufficiali erano uomini che potevano assumere sia funzioni militari che civili. Nel momento in cui il potere del Kebiishi fu esteso anche alle province, gli furono assegnate anche responsabilità giudicanti. Cfr. K. F. Fri1

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day, Samurai, Warfare and the State in Early Medieval, Routledge, London 2004, pp. 36-43. 6 L’onigawara, termine composto da oni (demone) e kawara (tegola), è una scultura decorativa usata come talismano protettivo dagli spiriti e dai demoni, solitamente collocata sui tetti delle case, degli edifici pubblici e dei luoghi di culto.

Sono fedele, ma… L’adattamento di due adattamenti

Quando Hashimoto, giovane sceneggiatore senza alcuna esperienza 1, lavora alle trasposizioni degli scritti di Akutagawa (siamo all’indomani della fine della guerra) non conosce Kurosawa, non sa se coronerà il suo sogno di scrittore e certo non può immaginare che le sue pagine sarebbero diventate uno degli adattamenti più affascinanti che la storia del cinema abbia proposto nella sua ultracentenaria storia. Il motivo è presto detto: Rashōmon è il risultato di un lavoro di impasto e mistura di due racconti di Akutagawa a loro volta ispirati a due aneddoti narrati in una delle più importanti antologie buddhiste del XII secolo. Le stratificazioni intertestuali che ne derivano, frutto di un processo creativo che si alimenta di eventi fortuiti ma anche di un intervento risolutore del regista 2, sono straordinarie e meritano di essere indagate per prime in questo volume, proprio per il numero degli attori che partecipano al rimaneggiamento dei soggetti e per la qualità dei loro interventi. Senza il depositarsi e il fossilizzarsi nella sceneggiatura di un ampia gamma di interventi e di manipo-

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lazioni, il film non avrebbe la forma che conosciamo né la capacità di posizionarsi su nuove reti testuali e sempre inediti tracciati interpretativi. In quanto adattamento di due adattamenti, Rashōmon ha due fonti primarie (gli scritti di Akutagawa) e due secondarie (i due racconti del Konjaku) e dunque è un film intimamente ibrido. E non si può comprendere la bontà del lavoro compiuto da Hashimoto (e Kurosawa) senza conoscere il modo con cui Akutagawa ha riadattato il repertorio medievale di partenza. Cominciamo l’analisi da quest’ultima operazione transtestuale 3.

La fonte indiretta: Il Konjaku Monogatarishū Il Konjaku Monogatarishū è uno dei più autorevoli esempi della cosiddetta Setsuwa Bungaku, la letteratura aneddotica di tradizione buddhista e provenienza indo-cinese diffusasi in Giappone prima per trasmissione orale e in seguito in forma scritta durante il periodo Heian (794-1185). Redatta presumibilmente attorno al 1120 d.C. da autori ignoti 4, è un’antologia composta da 1039 setsuwa (aneddoti) suddivisi in trentun volumi di cui oggi ne restano ventotto 5. I primi cinque ospitano racconti ambientati in India, i secondi cinque in Cina, gli ultimi ventuno in Giappone. Per due terzi hanno soggetto religioso e narrano fatti miracolosi, eventi legati al karman o più semplicemente episodi che riguardano la divulgazione del Buddhismo nelle tre aree culturali menzionate, per il restante terzo (i volumi V, X, XXI-XXXII) i soggetti sono di natura secolare e raccontano storie di imperatori, ministri, guerrieri, vicende amo-

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rose, fatti grotteschi, storie di diavoli o altre creature. La collezione ha una rilevanza assoluta sia dal punto di vista letterario che storico perché costituisce una delle prime testimonianze scritte che riguardano l’arrivo e la diffusione del pensiero buddhista nella terra dei kami e perché delineano le modalità sociali e culturali delle prime esperienze letterarie autoctone. I setsuwa, infatti, servivano a monaci e a predicatori come «letture» di riferimento per divulgare gli insegnamenti del Buddha a un pubblico generalmente analfabeta. Proprio per questa ragione erano brevi, con una struttura narrativa elementare, uno stile sintetico ed essenziale, con riferimenti alla cronaca del tempo e un messaggio morale e spirituale da diffondere. Persino i racconti di natura profana, per quanto articolati sopra accadimenti bizzarri e talvolta ridanciani, non rinunciano alla medesima funzione etica e culturale. Provengono dal medesimo volume, il XXIX, intitolato Diavoli e criminali, entrambi gli ōchōmono 6 che Akutagawa riscriverà circa otto secoli dopo. Il primo, il n. XVIII, si intitola Come un ladro si arrampicò al piano superiore della porta di Rashō e vide un corpo e ha la seguente trama. Un ladro attende il giungere della notte sotto il portale sud della capitale Kyoto e per non farsi scoprire dai passanti decide di salire al piano superiore della struttura. Qui assiste al macabro spettacolo di una vecchia che scalpa la chioma del corpo esanime di una giovane donna. Il ladro, che sulle prime crede di trovarsi faccia a faccia con un diavolo, si fa coraggio, estrae la spada e minaccia l’anziana donna fin quando

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questa non confessa di essere la serva della defunta e di aver bisogno dei suoi capelli per farsi una parrucca. Sordo alle sue suppliche, l’uomo sottrae i vestiti a entrambe, così come i capelli strappati alla giovane e fugge lontano. L’episodio si chiude con il commento del narratore che deplora le decine di corpi abbandonati nel piano rialzato del portale e che ricorda come i fatti siano stati narrati dal punto di vista del ladro.

Il secondo, il n. XXIII, intitolato Come un uomo che stava accompagnando sua moglie alla provincia di Tanba venne legato a Oeyama, narra la seguente vicenda. Un marito e una moglie sono in viaggio verso la provincia di Tanba, lei a dorso di un cavallo, lui a piedi al suo fianco. Nel corso del cammino li raggiunge un giovane uomo che porta con sé una spada finemente lavorata e che lusinga il marito lasciandogli credere di essere disposto a cambiare la propria spada con il suo arco. Quest’ultimo prima accetta lo scambio e poi acconsente a donargli anche alcune frecce, segnando così la propria sventura, giacché il giovane non attende un secondo di più per tendere l’arma contro la coppia, costringerla ad abbandonare il sentiero ed entrare nel cuore della foresta. Una volta lontani da occhi indiscreti, il bandito ottiene indietro la spada e un pugnale, lega il marito al tronco di un albero, costringe la moglie a spogliarsi e poi a giacere con lui. Consumato il rapporto, prende con sé tutte le armi e si dilegua a dorso del cavallo, risparmiando la vita del marito e lasciando a terra i vestiti della moglie. Una volta soli, la moglie insulta il marito per la propria stoltezza, poi i due riprendo-

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no il cammino come se nulla fosse. L’episodio termina con il commento del narratore che sottolinea il gesto di rispetto del bandito verso la moglie e la grande stupidità del marito.

Come si evince dai due riassunti, arriva direttamente dal secondo racconto del Konjaku il nocciolo narrativo del film, quello relativo alle sequenze del bosco. Oltre ai medesimi luoghi e al triangolo amoroso/sessuale, ritroviamo il valore simbolico e diegetico delle armi (spada, arco, frecce e pugnale), lo stratagemma truffaldino del bandito che disarma il marito e violenta la moglie, la stoltezza del primo e l’irritazione della seconda, l’universo di bugie e di silenzi dei tre personaggi e l’ambivalenza dei loro comportamenti (in speciale modo di Tajōmaru, criminale «dal cuore d’oro»). In mancanza di un cadavere e di un omicidio, vi è qui in più una ricomposizione dei conflitti interni alla coppia che rende forse più amaro e corrosivo il finale rispetto alle successive riscritture, giacché i due continueranno a convivere con l’onta della vergogna, impossibilitati a modificare il proprio destino. Del primo racconto invece si salverà ben poco, almeno dal punto di vista diegetico. Forse solo il furto dei vestiti delle due donne da parte del ladro avrà una sorta di raffigurazione nella sequenza in cui il viandante ruba il corredo del neonato. Tuttavia, in compenso, è già attivo uno dei fondamenti strutturali della forma narrativa del film (e di entrambi i racconti di Akutagawa), vale a dire il racconto a focalizzazione interna, con un narratore che s’impegna a riportare gli eventi dal punto di vista di uno dei protagonisti, senza rinunciare a una propria glossa finale.

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La fonte diretta: Akutagawa che riscrive il konjaku Rashōmon non è però la trasposizione di due setsuwa, bensì di due racconti di Akutagawa ispirati ai due setsuwa citati ed è dunque all’universo letterario dello scrittore che occorre guardare per verificare quali altre inscrizioni partecipino al processo di genesi del film. I suoi adattamenti sono tutto fuorché banali riedizioni di soggetti o plot del passato. Si tratta, piuttosto, di riscritture crude, sagaci e salaci di un repertorio allora dimenticato e riesumato per via di alcuni caratteri (la «speditezza» degli aneddoti, la complessità che cova nella struttura elementare, il valore testimoniale e didascalico degli exempla) capaci di «parlare» anche al lettore di epoca Taishō a proposito di questioni attuali come la degenerazione morale, la perdita di coscienza civica ecc. Il Rashōmon di Akutagawa è ambientato sul finire dell’era Heian quando guerre civili, epidemie e catastrofi naturali scuotono il paese e preparano l’avvento della più controversa era Kamakura (1185-1333). Ecco il plot nei suoi tratti essenziali. La porta sud della capitale Kyoto è in rovina, un temporale si abbatte su di essa, nessun essere umano ha il coraggio di avventurarsi da quelle parti, a eccezione di un servo licenziato da pochi giorni e che ora si ripara dalla pioggia. Già a partire dalle prime righe, l’autore – che parla in prima persona – rileva i segni di decadenza del tempo: le statue buddhiste e i suoi ornamenti distrutti e venduti come legna da ardere, la presenza di cadaveri nella parte superiore del portale, l’inquietante sorvolare di corvi alla ricerca di carni umane, la di-

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sperazione del protagonista, privato di ogni mezzo di sussistenza. Di quest’ultimo si riporta con pungente ironia il dubbio morale che lo corrode, vale a dire se morire di fame o alfine diventare ladro. Con l’arrivo della notte, l’uomo sale nel locale superiore per dormire e qui incontra una vecchietta che, facendosi luce con una torcia, strappa i capelli di un cadavere. Prima impaurito e poi arrabbiato reclama le ragioni di quel gesto tanto inumano, ricevendo la più banale delle risposte: sta strappando i capelli per ricavarne una parrucca. Nessun senso di colpa coglie l’anziana donna. Al contrario, come per contrappasso, afferma di aver scelto di levare la capigliatura a una conoscente che in vita truffava i propri clienti vendendo pezzi di serpente come fossero pesci secchi. A quel punto, il servo lascia da parte pietà e scrupoli, spinge a terra la vecchietta, le ruba il kimono e sparisce nel nulla.

Gli interventi di Akutagawa, nel suo primo lavoro dato alle stampe sulla rivista «Teikoku Bungaku» nel 1915, a soli ventitré anni – egli è insomma un’esordiente proprio come Hashimoto! – sono lievi eppure chirurgici. Egli intanto sostituisce la «professione» del protagonista, da ladro a servo appena licenziato, sì da introdurre, in toni irriverenti, la «questione morale» che attanaglia il protagonista e che lo porterà, alla fine del racconto, a scegliere la strada più dissoluta tra quelle che gli si parano davanti. Da questo punto di vista il valore paradigmatico del portale s’intensifica, in quanto luogo simbolo che sta al confine tra due mondi: punto di passaggio da uno stadio all’altro dell’esistenza. Nell’attesa che finisca di piovere [il ser-

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vo] deve decidere cosa fare della sua vita. Andrà via dal portale moralmente intatto o corrotto? È la questione centrale posta dall’autore. Akutagawa mostra così l’uomo mentre passa attraverso una serie di conflitti morali. Con il passare delle ore egli sparisce nel cuore della notte, la sua discesa in uno stadio bestiale [dell’esistenza] è completa. 7

In seconda battuta, Akutagawa decide di rimarcare con forza (e un po’ di cinismo) i segni di decadenza e di caos tipici di una stagione storica che volge al tramonto, descrivendo le calamità naturali che hanno colpito la capitale, disegnando un portale in via di disfacimento, tratteggiando un paesaggio devitalizzato, sferzato da una pioggia torrenziale e abitato da animali predatori, siano essi rettili, serpenti, avvoltoi o esseri umani in preda alla disperazione. Da qui alla rimozione di qualsiasi obbiettivo didattico o illustrativo della fonte di partenza il passo è breve. Non è più tempo per una letteratura edificante, capace di indicare comportamenti o suggerire condotte e non è più tempo nemmeno per uno stile di scrittura semplice e ingenuo, poiché qui i fatti, pur concisi, sono avvolti in un manto di amarezza e corrosività. Il tono grottesco del Konjaku raggiunge nell’ōchōmono il suo parossismo grazie a un narratore che commenta mordacemente le situazioni rappresentate 8 e che, in virtù di un’applicazione sistematica del discorso libero indiretto (che nel film sfocerà in una narrazione a «focalizzazione interna» 9), offre l’intimo e infimo spettacolo della pochezza del protagonista. Lo scrittore sembra divertirsi a spingerlo verso il secondo piano del portale, un non luogo che immediatamente acquista un valore simbolico,

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quasi metafisico. È qui, infatti, dove la dimensione reale incontra quella ultraterrena, che si manifestano con maggiore intensità le inquietudini del protagonista che sono, in verità, quelle proprie dell’animo umano. Il lume che rischiara la stanza potrebbe essere quello della (sua) ragione, dell’orientamento etico o del confronto intergenerazionale che conduce a una saggia decisione. E invece è solo il flebile chiarore di una torcia che brucia e che consuma oltre alla sua estremità infiammabile anche le residue remore di ordine morale del nostro «eroe». Lasciano un solco più profondo, specie sull’architettura narrativa, le azioni di riscrittura del secondo racconto Konjiaku, intitolato Nel bosco (Yabu no Naka) e pubblicato per la prima volta nel gennaio 1922 sul mensile letterario «Shinchō». La storia dell’incontro/scontro tra la coppia e il bandito è riportata, infatti, attraverso sette diverse «testimonianze». Eccone, in sintesi, la scansione. Le prime quattro deposizioni, rilasciate davanti a un funzionario di polizia sono quelle di un boscaiolo (che ricostruisce il momento in cui ha ritrovato il cadavere), di un bonzo (che ricorda di aver incontrato la coppia sulla strada di Yamashina), di un informatore (che dichiara di aver arrestato il celebre bandito Tajōmaru, gemente a terra sul ponte di Awata e in possesso dei beni rubati alla coppia ovvero un cavallo, l’arco e le frecce), di un’anziana donna (che afferma di essere la madre di Masago e di essere preoccupata per la sua fine, dacché di lei si sono perse le tracce). La quinta deposizione, rilasciata dal bandito Tajōmaru non si

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sa a chi e in che luogo, entra nel vivo della vicenda narrando i fatti accaduti nel bosco. L’uomo confessa l’omicidio del samurai, indica un movente, ovvero l’attrazione per la moglie di cui vede il volto grazie a una folata di vento che ne alza il velo, precisa i termini dell’inganno perpetrato ai danni del bushi e descrive lo stratagemma per catturarlo e legarlo al tronco di un albero; rammenta la sorpresa per la reazione aggressiva della donna, pugnale in mano, una volta scoperto il marito inerme, e si dice contento di averla presa di forza senza uccidere il marito. Tuttavia, Tajōmaru riferisce che, una volta consumato il rapporto, la donna lo ha incitato a sfidare il marito per poi concedersi al vincitore, descrive con enfasi il profilo epico del duello (con ben ventitré assalti di spada) e ricorda il disappunto per la fuga di soppiatto della ragazza, durante lo scontro armato. La sesta testimonianza è di Masago, ritiratasi nel tempio Kiyomizu. La donna narra tutt’altro avvenimento, ricordando la sofferenza provata per il marito avvinto alle corde e l’angoscia per il suo sguardo gelido. Rammenta di essere svenuta una prima volta per il dolore e, una volta risvegliatasi e accortasi della fuga del bandito, di aver proposto al consorte un omicidio/suicidio che lavasse l’onta della violenza. L’uomo, ancora legato e imbavagliato, emette un gemito che Masago interpreta come un assenso e così raccoglie il pugnale, lo conficca nel petto di Takehiro e sviene ancora. Ridestatasi una seconda volta, dopo aver liberato il defunto marito dalle corde, cerca in vari modi di togliersi la vita, fallendo per mancanza di coraggio e ripiegando così in un tempio. Settima e ultima deposizione è quella del marito Takehiro che parla (non si sa in quale luogo) attraverso l’intercessione di

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una medium: ricorda le parole adescatrici di Tajōmaru, la bellezza di Masago, il disprezzo per la consorte che chiede al bandito di eliminarlo prima di scappare con lui, il rifiuto di Tajōmaru di combattere, la fuga della donna, quella del bandito, la sua solitudine e la lenta dissociazione dal proprio corpo, il fatale seppuku con il pugnale di Masago. Rammenta infine l’estrazione dello stiletto dal suo corpo esanime per mano di uno sconosciuto.

Anche in questo secondo caso, lo scrittore comincia il proprio lavoro di adattamento assegnando una nuova identità sociale al marito, quella di samurai, identità che iscrive nel testo inediti indirizzi ermeneutici che hanno attinenza con l’etichetta e i doveri morali/sociali della casta di appartenenza, il genere (letterario e poi cinematografico) cui ascrivere il racconto, lo Zeitgeist («lo spirito del tempo») che lega la fine dell’era Heian al periodo Taishō 10. Ancora più rilevante è l’introduzione di uno schema narrativo, forse recuperato da alcuni romanzi europei di fine ’800 11, che giustappone, una dietro l’altra, sette testimonianze riportate in prima persona. La sua efficacia consiste nel produrre una «visualizzazione» dei fatti a partire da punti di vista personali, tra loro contrastanti e senza che un’istanza terza ne evidenzi il carattere veritiero o le falsificazioni. Al contrario, ogni deposizione ha una sua legittimità, una sua valenza semantica, una sua forza diegetica. Ovviamente, volendo scomporre il soggetto Konjaku in un prisma a più facce, Akutagawa è costretto ad aggiungere fatti, stratagemmi retorici, personaggi. Sono invenzioni dell’ōchōmono l’uccisione del bushi (che trasforma il plot in un giallo), la

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cattura del malvivente, l’istituzione di un processo (e quindi di un’indagine), la partecipazione alle vicende (seppur indirettamente) di un monaco, di un taglialegna, della madre di Masago e di un informatore che arresta Tajōmaru, la triplice e contraddittoria confessione, lo stratagemma del cadavere che parla attraverso una medium. Lo stesso dicasi per la scomposizione plurispaziale degli eventi: le prime testimonianze sono rilasciate davanti al Kebiishi, quella di Masago in un tempio, quella di Tajōmaru e Takehiro in località non specificate. Per questi ultimi (e più importanti) casi non è specificato chi sia a raccogliere le testimonianze, se sia sempre lo stesso pubblico ufficiale o più di uno. Come nel primo adattamento, così nel secondo viene meno la volontà didascalica e il profilo pedagogico dei materiali di repertorio: sono addirittura tre i personaggi che confessano la propria colpevolezza, almeno due dei quali mentendo. Si aggiunga che vi è una vera e propria soppressione del finale giacché Nel bosco s’interrompe bruscamente al termine del racconto della sensitiva, senza che vi sia alcun appiglio per l’interpretazione e la soluzione dell’intrigo. Il lettore è abbandonato a se stesso e non può aggrapparsi nemmeno ai toni irriverenti e ammiccanti della scrittura per sapere da che parte si collochi il narratore. Quest’ultimo, a differenza di quello che interviene in maniera esplicita e irriverente in Rashōmon, si accontenta di riportare «fedelmente» e senza ulteriori postille le testimonianze delle parti in causa. Complessivamente, possiamo così dire che Akutagawa imprime nelle sue due rivisitazioni amarezza e scherno, nichilismo e tonalità surreali, concentrandosi sui dettagli (an-

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che quelli della psiche) e soprattutto sulle dinamiche di focalizzazione del racconto. Se il nucleo tematico è identico, le intenzioni di fondo e i contraccolpi semantici che i testi modernisti producono sul lettore si allontanano in maniera radicale da quelli dell’antologia di età Heian. Si pensi all’attenuazione del profilo didascalico e «evangelizzante» del Konjaku, all’ambivalenza che avvolge fatti e atteggiamenti dei personaggi, al loro solipsismo, all’inconsistenza di qualsiasi regola volta al controllo sociale e all’assenza di una comunità di riferimento che protegge e controlla i suoi membri. Si svuotano i meccanismi evenemenziali e viene messa in crisi l’idea stessa di letteratura come coscienza e conoscenza del reale. Infatti, come ricorda Lippit: La dissoluzione del sé negli ultimi lavori di Akutagawa [di cui Nel bosco è uno dei principali esempi] può essere situata in relazione alla dissoluzione di una particolare concezione di modernità organizzata attorno all’istituzione della letteratura. Questa dissoluzione si manifesta nella pratica, attraverso la frammentazione delle forme narrative, e nella teoria, attraverso il concetto di racconto senza plot (hanashi no ani shōsetsu). 12

In qualche misura, l’operazione di Akutagawa si pone anche come atto metaletterario che riflette sulle labili frontiere che separano il personale dal sociale, il falso dal vero, l’etico dall’immorale. Sono frontiere, queste, che la letteratura (e non solo quella) attraversa ovviamente non solo per ragioni metadiscorsive, ma che ne definiscono spesso l’identità.

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L’approdo finale: Hashimoto e Kurosawa che riscrivono Akutagawa che riscrive il konjaku Non è chiaro quanto edotti fossero i due sceneggiatori circa la sofisticata opera di riscoperta della Setsuwa messa in atto da Akutagawa, ma sappiamo che il lavoro di «traduzione iconica» dei suoi due ōchōmono non è stato facile. Come accennato, i due racconti non hanno niente in comune tra loro, a parte l’autore, il periodo storico e, ovviamente, la medesima miscellanea di riferimento. Diversi sono i soggetti, i luoghi e i tempi dell’azione, i personaggi, lo stile di scrittura, il profilo degli intrecci, i rimandi politico-sociali. Invece di avviarsi verso un’improbabile e frankensteiniana cucitura di fatti e situazioni eterogenee, Kurosawa e Hashimoto preferiscono disporre la maggior parte delle contaminazioni su due distinti fronti. Nelle sequenze del portale vengono ampiamente riversate le suggestioni simboliche e le atmosfere decadenti di Rashōmon: ritroviamo la tempesta di pioggia, l’edificio diroccato, il fuoco acceso con materiali «consacrati» (le icone buddhiste in un caso, le assi di legno del portale nell’altro), i riferimenti ai cataclismi e alle guerre che mettono in ginocchio il paese. A queste assonanze, si aggiungono una battuta del viandante che menziona l’accumularsi di corpi senza vita al secondo piano di Rashō, e un suo atto, il furto dei vestiti di una persona indifesa (un neonato) che si ricollega a quello analogo del servo licenziato nei confronti dell’anziana donna. Se nel racconto del 1915 l’ascesa del protagonista verso la parte alta dell’edificio ha caratteri ultraterreni e ripercussioni morali, nel film è l’entrata nel bosco da parte

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del taglialegna e dei tre sospetti a conservare rilievi di analoga natura. I debiti contratti con il secondo ōchōmono, quello del 1922, sono invece riconducibili al fronte della diegesi e della sua organizzazione evenemenziale e vanno a costituire buona parte dei segmenti ambientati nel cortile del Kebiishi e nella foresta. Sono tutto sommato fedeli al testo originale le versioni di Tajōmaru e quelle di Takehiro, mentre uno scarto più consistente tra testo letterario e testo filmico si segnala nella versione di Masago perché viene meno sia il riferimento al doppio svenimento della donna, sia la sua proposta – più ortodossa, più consona ai doveri coniugali – di un shinjū, un doppio suicidio d’amore 13. Analogie e adiacenze sussistono, soprattutto, nella disposizione dell’intreccio e nella cura dei caratteri: la scansione delle testimonianze è quasi identica (si perde quella della madre di Masago); viene conservata l’idea di un giudice terzo, invisibile e senza parola che si limita ad ascoltare, dal «fuoricampo», le risposte a domande che il lettore/spettatore non conosce; simile è il modo con cui si vedono o vengono visti i protagonisti 14. Oltre agli elementi di contiguità appena elencati, esiste ovviamente una nutrita serie di interventi ex novo che Kurosawa e Hashimoto praticano sulla loro sceneggiatura, talvolta cercando di salvaguardare lo «spirito» dei testi di partenza, altre volte allontanandosi dalle fonti con grande disinvoltura e persino con un tocco di inaspettata irriverenza. Sono frutto della penna dei due sceneggiatori i tre personaggi che si riparano sotto il portale, così come i loro dialoghi (che da un certo punto di vista ricordano quelli del jiutai, il coro incaricato di commentare gli eventi porta-

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ti sulla scena nelle pièce del teatro Nō 15), l’episodio del bambino abbandonato, il finale «umanista». Inedita è anche la quarta testimonianza – quella del boscaiolo – che modifica l’equilibrio del racconto introducendo possibili interconnessioni con le questioni del voyeurismo, dell’inattendibilità dei narratori e delle immagini (cfr. cap. 7), delle modalità di raffigurazione di un duello (cfr. cap. 5) e dell’amoralità di fondo di tutti i personaggi. I luoghi delle deposizioni sono uniformati scegliendo la sede del Kebiishi come unico punto di confluenza di tutti i sospetti. Ne consegue che abbiamo un solo ascoltatore che valuta la congruità delle loro dichiarazioni. E se dunque è di Akutagawa la soluzione del magistrato che assiste senza proferire verbo, è specificatamente nel film che la sua figura si eleva a personaggio tra i personaggi, continuamente chiamato in causa dallo sguardo supplicante o supponente dei personaggi. Uno sguardo che (vedremo se in macchina o meno nel cap. 9) coinvolge anche lo spettatore, il quale si sente, giocoforza, maggiormente coinvolto rispetto al lettore akutagawiano che, al contrario, non è mai direttamente interpellato. Stesso procedimento di elevazione semantica coinvolge il boscaiolo, la cui funzione, marginale in Nel bosco, diviene fondamentale nella pellicola: egli è l’unico a raccontare due volte la propria versione dei fatti, a mentire al magistrato, al monaco e al viandante, a concentrare su di sé, con l’affidamento del neonato, le antinomie morali che il film ostinatamente decide di non sciogliere. Il lavoro di Hashimoto e Kurosawa non si ferma qui. Vengono praticate altre piccole sofisticazioni che mi limito a elencare per mancanza di spazio. Eccone alcune:

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– Rimozioni: sparisce la testimonianza della madre di Masago. – Trasferimenti: le considerazioni di Tajōmaru sul progetto di sposare Masago (presenti in Akutagawa) sono spostate nel flashback del taglialegna. L’episodio nel quale Tajōmaru avrebbe violentato e ucciso una giovane donna e la sua serva viene raccontato dal poliziotto nell’ōchōmono e dal viandante nel film. – Integrazioni: nelle parole del boscaiolo si fa cenno alla presenza nel cortile del cadavere del samurai, elemento assente nel testo scritto. – Coloriture: il poliziotto è descritto, a differenza del racconto, in maniera caricaturale e grottesca. – Aggiustamenti: il boscaiolo non trova un pettine e una corda come in Akutagawa, bensì i cappelli dei due sposi, la corda e un amuleto. – Connessioni narrative: l’avvelenamento di Tajōmaru alla fonte, non specificato nel testo letterario, serve a giustificare la cattura del terribile bandito da parte di un inetto poliziotto. – Concessioni visive: sono ricostruiti con tutt’altra carica iconica gli eventi che portano alla violenza sessuale, con lo scambio di sguardi tra i tre personaggi (assente nel testo), il corpo a corpo tra Masago e Tajōmaru (solo accennato) e il bacio voluttuoso (ovviamente assente). Quella appena descritta è, per concludere, una forma di doppio adattamento che, consapevolmente o meno, ha tratti di intelligente e non supina intertestualità. Da un lato l’adesione e il rispetto verso i racconti di Akutagawa so-

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no sorprendenti, tanto che persino la soluzione di riprendere in controluce il sole tra le fronde trova presentimenti in un passaggio della testimonianza di Masago («Dal cielo, dove i cipressi stendevano i loro rami fra i bambù, cadeva un filo di luce del tramonto sulla sua faccia pallida» 16). Si aggiunga che grazie al film, lo schema a «testimonianze discordanti» proposto dallo scrittore acquista una forza sintagmatica inedita per la storia del cinema e quindi per molti versi sconvolgente (per merito della giustapposizione di brani simili da un punto di vista figurativo e opposti da uno narrativo). Dall’altro, il complesso lavoro di integrazione dei due ōchōmono, che ha richiesto alcuni originali interventi di imbastitura e accomodamento, infondono al testo cinematografico direzioni esegetiche precluse all’orizzonte significante letterario. L’inserimento ex novo del viandante, del monaco e del boscaiolo, con la loro funzione di collegamento e mediazione tra i sospetti e gli spettatori rende più doloroso lo scacco epistemologico del film. Se, infatti, Akutagawa si limitava a «dare voce» ai tre rei confessi, senza aggiungere alcuna chiosa alle loro testimonianze, affidando così al lettore il compito di scioglierne eventualmente le contraddizioni reciproche, Kurosawa avvolge il mistero in una fitta rete di ipotetiche spiegazioni, false interpretazioni, commenti pieni di scetticismo, pessimismo o disperazione – quelli avanzati dai tre uomini sotto il portale – che disorientano lo spettatore invece di aiutarlo a raggiungere una verità o un’interpretazione dei fatti condivisa e condivisibile. L’aggiunta dei tre personaggi – non a caso anonimi – infonde, inoltre, una venatura simbolica e sociale alla pellicola, come sociale e simbolica è la lo-

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ro veste pubblica. E se resta viva una direzione a-cronologica e a-diacronica dei fatti, il loro intervento di commento – come quello dei narratori del Konjaku – ha il compito di restituire una certa facilità di accesso se non al senso ultimo del plot, almeno alla sua superficie narrativa. La visione solitaria del portale diroccato, che il film presenta come unico insediamento umano in un paesaggio desertificato, amplifica poi il senso destrutturante e intimamente fragile delle testimonianze (e delle ermeneutiche successive). Il finale, seppur in parte ambiguo, recupera l’afflato didascalico dell’antologia di partenza (assente invece in Akutagawa) così come le modalità di una fruizione partecipata durante la quale l’oralità, il racconto ad alta voce a un uditore attento, torna alle sue funzioni primarie e didattiche. Un’ultima considerazione, anche se non la meno importante: il film avvalora la traccia metadiscorsiva già presente in Akutagawa, e anzi la moltiplica per n volte, quanti sono i narratori e i narratari rappresentati nel testo filmico (cfr. cap. 7). In definitiva, gli interventi di progressiva trasformazione dei plot, delle tematiche di riferimento e delle varie strategie retoriche trovano congruenze inattese, nonostante o forse proprio in virtù del fatto che gli attori che manipolano i testi provengono da stagioni storiche diverse, mirano a obiettivi diversi, lavorano con linguaggi almeno in parte alternativi. In tal senso, il Rashōmon di Kurosawa è di Kurosawa nella misura in cui il regista rinuncia a forme di autonomia discorsiva, ad ambizioni personali, conciliando e valorizzando caratteri e proprietà espressive e narrative comuni a più soggetti e forti di una condivisione culturale allargata.

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Hashimoto Shinobu diventerà da lì a qualche anno uno dei più importanti sceneggiatori giapponesi. Tra le sue tante sceneggiature spiccano titoli kurosawiani come Vivere, I sette samurai, Il trono di sangue, I cattivi dormono in pace (Warui yatsu hodo yoku nemuru, 1960), La fortezza nascosta (Kakushi-toride no san-akunin, 1958) e altri importanti jidaigeki come Samurai (id., 1965) e The Sword of Doom (Dai-bosatsu tōge, 1966) entrambi di Okamoto Kihachi, Hitokiri (id., 1969) di Gosha Hideo, o ancora Harakiri (id., 1962) e L’ultimo samurai (Jōi-uchi: Hairyō tsuma shimatsu, 1967) di Kobayashi Masaki. 2 Come ricorda Hashimoto in un’intervista, l’improvviso riacutizzarsi di una malattia contratta in guerra lo costringe a letto mentre deve ancora ultimare la sceneggiatura. Kurosawa si trova così costretto ad apportare le ultime e decisive modifiche al testo in prima persona (aggiungendo tra l’altro la sequenza del bambino abbandonato) per poi sottoporre così lo script alla Daiei. Cfr. A Testimony As An Image, documentario presente tra gli extra del DVD di Rashōmon, prodotto da Optimum Asia nel 2008. 3 Sono numerosi i saggi che propongono un’analisi comparativa tra i soggetti letterari e il Rashōmon in pellicola. Alcune delle annotazioni del capitolo prendono spunto dai testi di James Goodwin, Akira Kurosawa and Intertextual Cinema, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1994, pp. 117-140; David Boyd, Rashomon: From Akutagawa to Kurosawa, «Literature/Film Quarterly», vol. 15, n. 3. 1987, pp. 155-158; Marc Yamada, Adapting Akutagawa: Kurosawa’s «Rashômon» and the Problem of Narration, «Film Journal», vol. 1, n. 9, estate 2004 (http://www.thefilmjournal.com/issue9/rashomon.html [marzo 2012]). 4 Esistono dei conflitti di attribuzione tra gli storici giapponesi, sia per quanto riguarda il numero di possibili compilatori dell’antologia, sia per quanto riguarda il nome dell’autore. Come ricorda Miriam Ury nell’introduzione alla versione inglese del Konjaku è probabile che alcuni di questi testi siano stati raccolti e redatti da Minamoto Takakumi, un devoto buddhista morto nel 1077. Tuttavia la paternità non è sicura poiché altri studiosi, partendo da riferimenti a fatti di cronaca presenti nel testo, individuano il 1120 come data presunta per l’ambientazione di alcuni setsuwa. La studiosa presenta come plausibili sia l’ipotesi che l’antologia sia stata redatta da diverse mani (magari da alcuni archivisti dei 1

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monasteri dei monti Heiei), sia l’ipotesi speculare che sia stato un solo redattore ad aver uniformato e organizzato in volumi la raccolta degli aneddoti. Cfr. M. Ury (a cura di), Tales of Times Now Past: Sixty-two Stories from a Medieval Japanese Collection, University of California Press, Berkeley 1979 (in particolare il saggio introduttivo pp. 1-21). 5 Sono in particolare i volumi VIII, XVIII e XXI a essere andati perduti. 6 Vedi la nota 14 del secondo capitolo. 7 Keiko I. McDonald, From Book to Screen: Modern Japanese Literature in Film, M.E. Sharpe, Armonk (NY) 2000, p. 47. 8 In un passaggio del racconto di Akutagawa si può leggere ad esempio: «L’autore poco fa ha scritto “un servo aspettava che la pioggia cessasse”, ma il servo non aveva un’idea precisa di cosa fare dopo che la pioggia fosse cessata» […] e poco dopo «Perciò più che “un servo aspettava che la pioggia cessasse” l’autore avrebbe dovuto scrivere “un servo, inchiodato dalla pioggia, non sapeva dove andare, né quando sarebbe andato via di là”». Ryūnosuke Akutagawa, Rashōmon e altri racconti, Tea, Milano 2002, p. 4. 9 Ecco un esempio: «In questo momento se qualcuno gli avesse fatto ricordare quello che egli aveva pensato prima, mentre si trovava di sotto, quando si trattava di morire di fame o diventare ladro, egli probabilmente avrebbe scelto di morire di fame senza nessun rammarico». Ivi, p. 8. 10 L’annotazione di Akutagawa sembra, infatti, recuperare la disposizione diacronica del Gukanshō, una celebre Storia del Giappone redatta nel XIII secolo dal monaco Jien (1155-1225) il quale applica la dottrina buddhista delle tre età del declino del Dharma alla storia del proprio paese facendo iniziare l’ultima delle tre, il mappō, la più degenerativa, nel 1052, ovvero durante la fase terminale del periodo Heian, proprio nello stesso periodo in cui sono ambientati i due racconti di Akutagawa. Jien inoltre afferma – ed è qui il collegamento con i nostri racconti – che è durante questo passaggio che si configurano i presupposti per l’affermarsi della casta dei samurai e per la fossilizzazione, in senso militare, gerarchico e feudale, dell’ordine sociale giapponese di epoca Kamakura. E non a caso tracce di mappō sono, da questo punto di vista, rintracciabili non solo nel «pessimismo» dello scrittore, ma anche nello stesso periodo Taishō in cui egli vive, conosciuto sì come periodo di «grande

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giustizia» e modernità, ma che terminerà, come l’era Heian, con un cataclisma (il terribile terremoto del Kanto, 1923), con la morte dell’omonimo imperatore (1928) e la successiva svolta militare e ultranazionalistica impostasi nell’era Shōwa. Sulle tre età del Dharma – il shōbō, «i primi giorni della legge», il zōhō, «i giorni intermedi della legge» e il mappō, «gli ultimi giorni della legge» del Buddha – si vedano James C. Dobbins, Jōdo Shinshū: Shin Buddhism in Medieval Japan, University of Hawaii Press, Honolulu 2002, pp. 36-37; James Lowry Ford, Jōkei and Buddhist Devotion in Early Medieval Japan, Oxford University Press, Oxford 2006, pp. 128-131; Joseph Mitsuo Kitagawa, Religion in Japanese History, Columbia University Press, New York 1990, pp. 128-130. Per quanto riguarda la produzione letteraria dedicata a Rashōmon è Goodwin il primo a parlare del mappō a proposito dei commenti del monaco. Cfr. Goodwin, Akira Kurosawa cit., p. 120. 11 I testi ispiratori di Akutagawa potrebbero essere The Moonlit Road (1893) di Ambrose Bierce e The Ring and the Book (1869) di Robert Browning. Il primo è un romanzo incentrato su una morte violenta narrata dai tre protagonisti, compresa la vittima che viene convocata grazie alla mediazione di un sensitivo. Il secondo è un poema in versi scandito da venti monologhi che ricostruiscono anche in questo caso una vicenda legata a un omicidio. Sul profilo e la poetica di Akutagawa e sulle influenze che ha esercitato la letteratura europea sulla sua produzione artistica si vedano: Teresa Ciapparoni La Rocca, Akutagawa Ryūnosuke. Un autore giapponese moderno, Il Bagatto, Roma 1983 e Teresa Ciapparoni La Rocca (a cura di), Akutagawa Ryūnosuke, Studi da Oriente ad Occidente, La Nuova Cultura, Roma 2010. 12 S. M. Lippit, Topographies of Japanese Modernism, Columbia University Press, New York 2002, pp. 42-43 (trad. mia). 13 Il termine shinjū indica il doppio suicidio cui potevano ricorrere quelle coppie di innamorati costrette a restare separate per questioni famigliari o per obblighi sociali. Nella letteratura e soprattutto nel bunraku, il doppio suicidio rappresenta una delle soluzioni drammatiche più utilizzate da scrittori e drammaturghi. Secondo Totman la prima versione kabuki di un shinjū compare nel 1683. I più celebri sono quelli scritti e messi in scena da Chikamatzu Monzaemon come Sonezaki shinjū (Doppio suicidio d’amore a Sonezaki, prima rappresentazione: 1703),

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Daikyōji mukashi-goyomi (L’almanacco dei tempi antichi, 1915) da cui Mizoguchi trae spunto per Gli amanti crocifissi o o Shinjūten no Amijima (Doppio suicidio d’amore a Amijima, 1921), portato sullo schermo, tra gli altri, anche da Shinoda Masahiro nel 1969 (cfr. Conrad D. Totman, Early modern Japan, University of California Press, Los Angeles 1995, pp. 217-220). Come si ricorderà, nel racconto di Akutagawa, Masago accenna alla decisione di mettere in atto un doppio suicidio che lavasse le colpe di entrambi i coniugi e di aver chiesto consenso all’azione a Takehiro, ottenendo un cenno del capo a suo dire rivelatore. Si tratta di un intervento in qualche misura manipolativo da parte di Akutagawa, poiché il rito non era ancora stato codificato in epoca Heian. Forse per rispetto alla verosimiglianza storica o forse per accentuare il profilo eretico di Masago rispetto ai suoi doveri coniugali, tale proposito viene tralasciato dall’adattamento di Hashimoto e Kurosawa. 14 Tajōmaru si autocelebra come personaggio spaccone e contraddittorio (ritratta continuamente le sue affermazioni, specie quelle relative alla volontà o meno di uccidere il samurai), ma viene trattato come «eroe» infantile o romantico (viste le sue preghiere di matrimonio) dagli altri due testi; Masago è passionale e selvaggia per i due uomini ma devota e sofferente nella propria autorappresentazione, Takehiro è inetto nella prima versione, algido nella seconda, tormentato e coraggioso nella terza. 15 Il jiutaikata è il coro che intona alcuni brani dei drammi Nō, solitamente con funzione narrativa: commentano gli eventi, li collegano l’uno all’altro, li presentano alla platea. Il coro si compone di sei, otto o dieci elementi seduti in due file e posizionati sulla destra del palcoscenico. Cfr. Kunio Komparu, The Noh theater: principles and perspectives, Weatherhill / Tankosha, New York / Tokyo, 1983. In italiano si veda il capitale Zeami Motokiyo, Il segreto del Teatro Nō, Adelphi, Milano 1966.

Duelli senza codice d’onore. «Rashōmon» e il «jidaigeki»

Film d’autore o film di genere? David Desser in un passaggio di The Samurai Films of Akira Kurosawa scrive: «Sebbene non sia un film di samurai, Rashōmon prepara l’arrivo di La porta dell’inferno o Nuova storia del Clan Taira di Mizoguchi, opere che s’indirizzano, a tentoni, verso drammi che riguardano i samurai» 1. È curiosa e illuminante questa breve affermazione. Secondo lo studioso americano, Rashōmon non apparterebbe al cosiddetto «film di samurai», limitandosi a predisporre il successivo e faticoso avvento di questo «nuovo» genere 2. Se si allarga lo sguardo ci si accorge che l’opinione è indirettamente condivisa da altri studiosi: Alain Silver, nel voluminoso The Samurai Film, dedica a Rashōmon un succinto commento di poche righe (basando l’analisi su aspetti di carattere pittorico), Patrick Galloway, in Stray Dogs & Lone Wolves: The Samurai Film Handbook, se ne libera in tre paginette per poi ignorarlo nel successivo Warring Clans, Flashing Blades: A Samurai Film Companion, scel-

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ta che adotta anche Roland Thorne nell’ancor più agile Samurai Films 3. Se poi si sfogliano i testi che si occupano, in maniera più pertinente, di jidaigeki e chanbara, il panorama non cambia: Yoshimoto Mitsuhiro tratta il cineasta Kurosawa come uno dei più grandi innovatori del genere ma fa partire la sua spinta riformatrice solo con I sette samurai 4; Sybil A. Thornton, nel più recente libro sull’argomento, sfrutta Rashōmon per svolgere un ragionamento sulle forme di racconto in prima persona (in particolare negli adattamenti dei monogatari scritti da Hashimoto) soffermandosi su alcuni suoi aspetti marginali come la rappresentazione del concetto di sofferenza buddhista 5. Lo stesso Focus on Rashomon, l’unico volume in inglese dedicato esclusivamente alla nostra pellicola, non ospita alcun saggio che si ponga interrogativi di genere, se non quello di Richie che imposta il discorso come una sorta di investigazione poliziesca, inventandosi un nuovo titolo, The Great Rashomon Murder Mystery, e così ricollocando il film, una volta di più, nel campo di tensioni del giallo. Quindi nel sistema di generi occidentale 6. La resistenza tassonomica descritta è il sintomo di almeno due tendenze critiche in atto. Considerandolo, fin da subito, come opera di ingegno o di sperimentazione, si è preferito collocare Rashōmon dentro i perimetri del cinema d’autore, orientando così il processo di ricezione verso ambiti interpretativi alti e prestigiosi, piuttosto che verso territori popolari più «bassi» e «contaminati». Forse non serve ricordare che per lungo tempo il cinema di arti marziali non ha goduto dell’attenzione delle riviste né delle storie del cinema più autorevoli, per le quali invece Rashōmon

DUELLI SENZA CODICE D’ONORE. «RASHŌMON» E IL «JIDAIGEKI»

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rappresentava un caso studio interessante in virtù di una forma-saggio che metteva a confronto in termini dialettici e concettuali tematiche e questioni di carattere universale (menzogna/verità, spirituale/materiale, cultura/natura, primitivismo/civiltà) 7. Una seconda disposizione è però emersa con il tempo: allorché ci si è accorti, diciamo intorno agli anni ’80, che le produzioni di Kurosawa avevano giocato un ruolo decisivo non tanto nel cinema d’essai quanto soprattutto nell’evoluzione e nel rinnovamento dei film di genere, ponendosi ad esempio come modelli di ispirazione per cineasti come Sergio Leone o George Lucas, si è sfruttata la sua inafferrabilità esegetica per isolare Rashōmon dal resto della produzione autoctona del periodo e persino da quella dello stesso regista. Il film restava – e sembra esserlo tuttora – non incasellabile. Attributo che, di solito, sancisce l’esclusione di un’opera dalle categorie di genere. E invece, che lo si voglia o no, Rashōmon era ed è un jidaigeki a tutti gli effetti, se non altro perché presenta tutte le sue principali caratteristiche: ci sono un samurai e un bandito che gli si oppone e che minaccia l’incolumità dei suoi cari, alcuni scontri all’arma bianca di cui uno ha, almeno in apparenza, la funzione di climax risolutivo dei conflitti in atto (la terzietà di chi lo racconta dovrebbe garantire l’oggettività di quanto vediamo); compaiono spade anelate, perse, rubate, vendute, simboli dell’identità corrotta degli «eroi» del racconto; si sedimenta, nell’animo del samurai e in parte anche in quello dei suoi compagni di sventura, il conflitto tra il giri (l’insieme dei doveri che i bushi contraggono con il proprio padrone e che ne definiscono il ruolo

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sociale) e il ninjo (il ventaglio di sentimenti di giustizia o di compassione verso i più deboli); scoppiano atti di violenza e/o vendetta e c’è persino un seppuku riparatore. Si aggiunga, a sostegno della nostra (banale) asserzione, che l’organizzazione dell’industria cinematografica giapponese si basa, da sempre, su un sistema di generi ricco e codificato, su una rigida suddivisione di competenze e professionalità e su una ferrea pianificazione produttiva. In altre parole le case di produzione Daiei, Tōhō, Nikkatsu, Shochiku e Shintōhō sono gestite secondo il modello dello studio system, all’interno del quale ogni forma di autonomia «autoriale» – quand’anche riconosciuta da produttori e maestranze – deve negoziare la propria presenza con un alto numero di variabili e, soprattutto, deve sapersi integrare in una gamma di generi riconoscibile e facilmente «vendibile». E sappiamo che (cfr. cap. 2) Kurosawa a quel tempo è ingranaggio tra gli ingranaggi dell’industria cinematografica dell’arcipelago, figura di spicco di un cinema popolare e (inteso nella sua accezione migliore) commerciale. Inoltre, per sua e nostra fortuna, egli non prepara il campo all’avvento di un nuovo genere (già nato da almeno trent’anni), né lavora in una cinematografia che «non vanta una tradizione importante [e le cui] opere (eccenzion fatta per La terra di Uchida) non hanno fino a oggi suscitato un interesse che andasse oltre una benevola curiosità per l’uso, quasi sempre primitivo e ingenuo, dei mezzi espressivi» 8. Al contrario, quando decide, insieme alla sua squadra, di far costruire la porta di Rashō, luogo simbolo della letteratura nipponica 9, o di mettere in scena uno scontro tra tachi (le antiche spade dei primi samurai), sa di doversi misurare

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con un genere (e il suo corpus mitologico) che ha radici profonde nella storia della letteratura e del cinema nazionale e una tradizione raffigurativa codificata e stratificata che sarebbe – questa volta sì – criminale ignorare.

Origini, irritualità e demitizzazione Come molti sanno, il jidaigeki è un macrogenere che si consolida nel corso degli anni ’20 sostituendosi (pur nella continuità) al kyugeki, il «film della vecchia scuola» in voga agli inizi del secolo, sorta di traduzione filmata di celebri pièce del teatro Kabuki. Le novità che il nuovo genere apporta derivano essenzialmente dalla capacità di assorbire e restituire in immagini i soggetti, le ambientazioni e le venature politiche dell’emergente taishu bungaku, la coeva letteratura popolare di area progressista ospitata su alcuni periodici di grande tiratura (dove pubblicavano, tra gli altri, scrittori come Shirai Kyoji, Hasegawa Shin, Nakazato Kaisan e Edogawa Ranpo) e di fare proprie le forme di realismo applicate dal shinkokugeki, il Nuovo Teatro Nazionale fondato da Sawada Soshiro nel 1917, palestra di allenamento per le star del cinema come Ōkōchi Denjirō. Grazie a quest’orbita gravitazionale ricca di intersezioni e influenze, sia nei soggetti letterari, sia in quelli teatrali e cinematografici, in poco tempo prevale, come principale ambientazione storica l’epoca Tokugawa (1603-1868). È sotto lo shogunato gestito dall’omonima famiglia che il Giappone trascorre un lungo periodo di relativa pace interna e isolamento dal resto del mondo, configurandosi come una società feudale,

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con la suddivisione in classi, la parcellizzazione del territorio in province guidate dai daimyō, la trasformazione della casta dei samurai da guerrieri a burocrati al servizio del potere, il proliferare di figure emarginate come i ronin (samurai senza occupazione, vista l’assenza di guerre e di sufficienti posti di potere), la redazione e il consolidamento del bushidō ecc. La predilezione per l’era Tokugawa (o Edo) nasce dal fatto che gli autori che scrivono o mettono in scena i jidai negli anni ’10 e ’20 possono agevolmente proiettarvi conflittualità e dicotomie (come le opposizioni antico/moderno, morale/amorale, potere/anti-potere, privilegi delle caste/povertà della popolazione, individualismo/collettivismo) che germinano anche nel loro presente, in un periodo, il Taishō, in apparenza pacifico e fiorente, in sostanza attraversato da tensioni di natura sociale, economica e politica. Sbaglia insomma chi considera il jidaigeki un genere reazionario, almeno nella sua conformazione iniziale. Quello interpretato da registi come Itō Daisuke, Itami Mansaku o Yamanaka Sadao deve essere invece valutato come una manifestazione artistica moderna e innovatrice, con venature anarchiche (nei soggetti e nelle modalità di rappresentazione), per nulla attratta dall’eroismo affettato e formalizzato dei personaggi kabuki e più prossima a una concezione della rappresentazione come cruda e problematizzata allegoria della realtà contemporanea 10. Rashōmon, invero, ha poco in comune sia con la taishu bungaku, sia con lo shinkokugeki, ma conserva, sottotraccia, alcune significative e poco sottolineate contiguità con il jidaigeki degli anni ’20, con il quale spartisce le medesime certezze nei confronti dei mezzi espressivi del cinema, con-

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siderato una sorta di volano che guida la cinetica dell’azione verso una nuova e più seducente spettacolarità. Se Itō, ad esempio, è stato uno dei primi cineasti a utilizzare la macchina a spalla per infondere energia alle scene chanbara, Kurosawa sfrutta come pochi altri le possibilità offerte dai movimenti di macchina, dalle angolazioni spiazzanti, dai camera-look, dall’illuminazione espressiva, dall’alternanza di piani ravvicinati e campi lunghi, per caricare le immagini di una tensione dinamica mai doma. In seconda battuta Rashōmon condivide con il jidaigeki la preferenza per eroi nichilisti, anticonformisti, trasgressivi, dalla personalità sfaccettata e ambivalente. La scelta di assegnare a Tajōmaru il volto e la fisicità di Mifune, vale a dire di una star di prima grandezza del panorama attoriale postbellico, come lo erano vent’anni prima Bandō Tsumasaburō o Ōkōchi Denjirō, fa del bandito – molto più del guerriero Takehiro – un personaggio pieno di fascino e charme, un antieroe che, come i suoi «fratelli maggiori», non ha paura della morte e anzi sfida apertamente l’autorità, andando incontro, a testa alta, a un destino tragico già segnato nel momento della sua apparizione in scena. Dichiarando, fin da subito, la propria colpa e andando così coscientemente incontro alla propria morte, Tajōmaru sceglie infatti una posizione marginale, alternativa, engagé, accentuata dai suoi modi di fare bestiali, dalla postura animalesca (si pensi a quando schiaccia gli insetti sul petto o sulle braccia seminude), dal corpo muscoloso, esibito, sudato, dai gesti di sfida rivolti al magistrato e all’istituzione che rappresenta 11. Si aggiunga che Rashōmon conserva del primo jidaigeki anche i toni ironici e sarcastici (ad esempio nei confronti della retorica del bushidō e nella

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rappresentazione di un seppuku che vorrebbe riabilitare la figura del samurai, ma che finisce per renderla ancora più inetta) e un sottotesto «anarchico» che informa le azioni dei protagonisti e più in generale definisce i tratti di una società distopica e corrotta. Ciò di cui nel film di Kurosawa, invece, non c’è traccia – ed è bene ribadirlo fin da subito – è quella forma di «ieratica e sacrale appropriazione di un patrimonio culturale classico volto a celebrare l’identità nazionale giapponese» 12, caratteristica che Darrell William Davis assegna ai film nazionalisti che sostituiranno il primo jidai tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’40 e che, giustamente, sono boicottati dall’occupante americano in quanto promuovono una sorta di pura e perfetta giapponesità. Nel nostro film non c’è nessun segno dello sciovinismo militarista, non si celebra l’identità nazionale, né le virtù di un popolo che, a giudicare dai protagonisti del film, è tutt’altro che unito, coeso, solidale. Da queste poche considerazioni si può iniziare a comprendere che Kurosawa realizza un’operazione simile a quella compiuta da Akutagawa tre/quattro decenni prima: torna anch’egli alle origini di una tradizione narrativa per rileggerla in maniera innovativa e soprattutto corrosiva. Le fonti riconducibili alla taishu bungaku sono, ad esempio, sostituite con una letteratura modernista certamente più ricercata e colta (di cui Akutagawa è il principale ma non l’unico esponente 13), che tuttavia proviene dal medesimo crocevia storico e in qualche misura dal medesimo spirito del tempo. Il film coglie alcune parziali direzioni di ricerca anche dal shinkokugeki, come la spinta verso una rappresentazione del duello più verosimile e meno codificata, andando

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però ben oltre le intuizioni di Sawada Soshiro, visto che i due combattimenti all’arma bianca tra Takehiro e Tajōmaru – su cui ci soffermeremo nel prossimo paragrafo – hanno un tono primordiale, disordinato e ambiguo, assente nei più realisti ma pur sempre coreografati combattimenti che farcivano i jidai degli anni ’20. Se si passa poi a valutare l’ambientazione storica, anche qui riscontriamo certi superamenti (pur nella continuità) degli attributi originari del genere. L’epoca Heian – raramente considerata perché appartiene a una fase proto-feudale della storia del Giappone – condivide con la più visitata Tokugawa alcune caratteristiche, come un lungo arco temporale di relativa pace sociale, l’emergere di forme culturali e artistiche destinate alla classicità, la possibilità di accesso alla gestione del potere da parte di classi colte (intellettuali in un caso, samurai nell’altro), una repentina involuzione che sfocia nel caos politico e in un’acuta crisi economica e sociale 14. In più, contrariamente all’età Edo, quella Heian si rivela più efficace come rimando metaforico sia al Taishō sia al secondo dopoguerra perché medesime sono le aperture fideistiche verso le culture allogene più avanzate (quelle cinesi e di profilo buddhista in un caso, quelle occidentali e statunitensi negli ultimi due) e medesimo è il prefigurarsi dell’avvento di una fase reazionaria e militarizzata (l’età Kamakura in un caso, la dittatura militare degli anni ’30/’40 e l’occupazione americana postbellica negli altri due). La datazione storica della vicenda ha una seconda e più importante ricaduta di senso che si collega alla raffigurazione «provocatoria» e «urticante» della figura del samurai. Proprio perché durante il periodo Heian la classe dei guer-

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rieri non era ancora emersa nei suoi tratti più noti, così come non era stato ancora definito il codice di comportamento dei suoi membri (il bushidō), appare storicamente plausibile, eppure inusuale e irrituale, la messinscena di un bushi avido e pavido, falso ed egoista. Egli si lascia sedurre da un’improbabile promessa di ricchezza (per di più avanzata da un personaggio equivoco e animalesco), abbandona la moglie in mezzo al bosco, si prepara a profanare un sepolcro, cade in trappola ingenuamente, rinuncia alla vendetta nei confronti di chi ha ferito l’onore della moglie. Sono condotte queste (mai messe in discussione dalle varie versioni dei fatti) inimmaginabili per figure che dovrebbero eccellere in misura, coraggio, compassione, fedeltà. Ancora più fastidiosi sono i suoi sentimenti, che vanno dalla paura alla codardia, dal disprezzo alla disperazione: dimostrano assenza di autocontrollo e incapacità di gestire le proprie e altrui emozioni. Peraltro, lo abbiamo più volte rammentato in precedenza, anche qualora fossero vere le parole della medium, il suicidio rituale perpetrato dal guerriero appare inadeguato ai doveri imposti dal proprio ruolo in quanto non salda né i debiti verso la società né quelli verso la propria coscienza. Al contrario il gesto sancisce la propria definitiva dissociazione, demarca un’impotenza di fondo poiché «non è conforme agli ideali del bushido ma piuttosto deriva dalle tradizioni dell’agonia romantica» 15. In questo quadro di logorante inettitudine, la figura di Takehiro non è certo abbandonata a se stessa. Anzi, purtroppo è in buona compagnia. Masago, ad esempio, non assolve i propri doveri coniugali: non è fedele (se è vero che accetta, alla fine, le avance del bandito), né remissiva (se crediamo al fatto che si rivolge

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con disprezzo e disappunto verso i due uomini secondo la testimonianza del boscaiolo), né, disposta al sacrificio per e con il proprio uomo, visto che, alla fine, non ricorre al shinjū, la doppia morte onorevole; Tajōmaru, inginocchiandosi e pregando la donna di sposarlo, abbandona quel poco di dignità maschile che ancora gli resta; il tagliaboschi, raccontando il falso a un monaco, oltraggia se stesso, la sua religione e chi ha fiducia in lui. Siamo, insomma, di fronte a un gruppo di personaggi corrotti e traviati, per nessuno dei quali si può provare una simpatia incondizionata. E a dispetto di quanto appena detto, anzi direi proprio in virtù di una posizione così poco ortodossa, Rashōmon si pone, in termini akutagawiani, come una raffinata operazione di rilettura del jidaigeki, poiché ne mette in discussione i principali pattern, ne appura la resistenza, ne sonda gli anacronismi, tessendo inediti equilibri visivi e narrativi. Si pensi, ad esempio, alla negoziazione tra il giri e il ninjo che di solito rende composita e ambivalente l’azione dei samurai (o di loro epigoni) sullo schermo. Qui ogni forma di valutazione etica dipende dalle differenze di condotta dei tre sospetti da un flashback all’altro. Differenze, anche radicali, che però non implicano solo una generica distanza tra l’immagine edulcorata che si vuole offrire di sé e l’immagine più cruda che custodiscono gli altri, bensì denotano anche una inconciliabilità del loro essere nel mondo. Takehiro, e con lui anche Tajōmaru e Masago, sono figure sorde tanto al giri quanto al ninjo perché una volta addentratisi nel cuore del bosco, esclusi da ogni contesto sociale, si disinteressano sia del proprio ruolo nella società sia dei sentimenti di indulgenza che albergano in sé o nel prossimo. A ben vedere, sul piano dei comporta-

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menti e delle identità più profonde, non sussistono significative variazioni tra le loro mitigate versioni dei fatti e quelle più crude dei compagni di sventura: la brama di possesso di Tajōmaru, il recondito proposito di Masago di liberarsi di Takehiro, il disprezzo di quest’ultimo verso la moglie, le sue piccole e grandi meschinità, fanno parte del DNA di ciascun personaggio a prescindere da chi ne narra le gesta. In questa così nefasta rete relazionale, il bushidō appare – ancor prima del suo futuro consolidamento in epoca Tokugawa – un codice di comportamento indispensabile per irreggimentare gli spazi di azione dei singoli e tuttavia insufficiente per governare i loro moti più intimi ed egotisti. Da una parte, l’insieme di condotte e prese di posizioni ambigue e antisociali dei personaggi reclama, infatti, un sistema che normi e regoli le controversie e le contrapposizioni; dall’altra, l’impossibilità di giungere a un verdetto – impossibilità confermata dall’assenza fisica del giudice e soprattutto dal suo «mutismo» – dimostra altresì che è un’illusione affidare il destino degli uomini a etichette rigide e opprimenti o, in alternativa, alla chimerica terzietà della giurisprudenza, o ancora a strumenti di risoluzione dei conflitti primitivi e grezzi come sono i duelli o i seppuku. In altri termini Kurosawa prefigura il bushidō come un codice che, prima ancora di essere scritto, è già improduttivo o anacronistico, destinato, come confermeranno i successivi jidaigeki del Tenno da Il trono di sangue a La sfida del samurai, a frantumarsi in tanti pezzi quante sono le soggettività che, di volta in volta, coinvolge nella sua applicazione quotidiana e, ancor più, filmica. D’altra parte, una qualche ripercussione sulla collocazione di Rashōmon nel jidaigeki devono pur determinarla i «non-

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luoghi» che costituiscono le principali ambientazioni del racconto, spazi fuori dal tempo tali da rendere inutili o superflue le argomentazioni sopra la minore o maggiore fedeltà storica della messinscena. Non vediamo e non sappiamo cosa ci sia oltre il portale, oltre le mura della prigione, oltre i cipressi e i bambù che proteggono il pianoro dove avviene il misfatto. Tutte le location non hanno un fuoricampo visibile e assorbono l’intero universo diegetico dentro l’immagine e dentro i suoi limitati perimetri. Si anela l’esistenza di un altrove (un altrove sociale, un altrove guidato da regole), ma non lo si mostra. Si esige una valutazione della moralità di un gesto (quella del processo o del commento sotto il portale) ma si fa in modo che essa avvenga in un’area irraggiungibile a qualsiasi verifica visiva e intellettuale. Senza dimenticare che il «non luogo» per eccellenza, ovverosia il bosco, è protetto da un involucro i cui strati sono costituiti non solo di piante e rovi, ma anche di flashback e analessi: la dimensione del conflitto tra opposte assiologie s’inscrive così all’interno di un più problematico discorso sulla memoria e sulla faticosa ricostruzione di quel che non è più. Se negli anni ’40 il jidaigeki serviva per far trascolorare nel mito l’identità di una nazione, ora sappiamo che Kurosawa procede in senso opposto, proponendo riscritture del passato parziali, anti-identitarie e focalizzate sulle esperienze di sconfitta dei personaggi. Egli demitizza, dissacra, spoglia, ripulisce, depaupera. Non è una novità. In Quelli che camminavano sulla coda della tigre (Tora no o wo fumu otokotachi, 1945), introduceva una figura caricaturale per depotenziare la carica epica dell’episodio rappresentato. Ne I sette samurai inserirà una considerazione sui rap-

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porti di forza tra guerrieri e contadini (a tutto favore dei secondi), pronunciata dal «perdente» Kambei, che anticipa un senso di sconfitta e di emarginazione dalla storia della casta guerriera 16, mentre ne La sfida del samurai (Yōjinbō, 1961), o in Sanjuro (Tsubaki Sanjūrō, 1962) delineerà un personaggio ormai disinteressato a trovare un compromesso tra fazioni (interpretazioni del reale) in lotta tra loro, a cui si lega solo per calcolo passeggero. In Rashōmon, più ancora che altrove, Kurosawa costringe il jidaigeki a relazionarsi con una narrazione che di fatto sopprime la possibile oggettivazione di una verità e quindi di un solo sistema di valori condiviso. Non si tratta tanto di relativismo e di impossibilità di salvaguardare le ragioni dell’altro, si tratta piuttosto di moltiplicare le condizioni di rappresentazione di una circostanza narrativa e in modo tale da aprire veramente il reale a una continua rilettura che fatalmente non può mai trovare un unico punto di approdo.

La possibilità di un non duello Sotto questa luce, non è marginale il fatto che Rashōmon sia uno dei pochi chanbara a raffigurare lo stesso duello due volte (nelle versioni del bandito e del boscaiolo), così come due volte mette in scena la possibilità di un non duello (nelle versioni del marito e della moglie). Sgombrando il campo da una disposizione evenemenziale fondata sulla logica causa/effetto, il film di Kurosawa scinde la relazione tra gesto e sua motivazione etica che è alla ba-

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se di ogni arte marziale. Non è cosa da poco. Tutt’altro. Di solito, il duello è cartina di tornasole per valutare la congruità morale e sociale dei contendenti, scioglie i nodi che si aggrovigliano nel corso della narrazione, sancisce le gerarchie e i talenti, risolve i conflitti. Nel nostro caso, ovvero in una storia dove i personaggi non hanno coerenza nei loro comportamenti, gli intrighi non hanno soluzione, la società è assente, le gerarchie pianificate, i nodi sciolti più e più volte per mano di spade e pugnali (il riferimento è alla legatura che immobilizza Takehiro al tronco dell’albero, tagliata da Masago o Tajōmaru sul finire di ogni flashback e di nuovo integra all’inizio di quello successivo), il climax per eccellenza di ogni jidai diventa viceversa occasione per una sua messa in forma di trasgressiva e sardonica alterità almeno rispetto alle abitudini rappresentative praticate fino ad allora. Vediamo come. Le due sequenze di combattimento, sul finire della prima e della quarta testimonianza, durano rispettivamente 3’33’’ e 4’01’’ e contano 24 inquadrature l’una e 30 l’altra, uno stacco ogni otto/nove secondi. La media dei tagli è quindi quasi equivalente, mentre speculare è la loro funzione diegetica: il duello raccontato da Tajōmaru ci mostra due bushi coraggiosi, prestanti, sicuri, determinati a primeggiare sul rivale; quello narrato dal taglialegna tratteggia due spadaccini pavidi, privi di talento, costretti allo scontro controvoglia. Tuttavia i due corpo a corpo non sono così antipodali come si potrebbe credere da principio. Innanzi tutto, adottano le medesime modalità espressive: le riprese dall’alto (inqq. 206, 209 e 357), gli sguardi in macchina come soluzione originale per cam-

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pi/controcampi (inqq. 210-217 e, 359-362, 367-370), i «girotondi» attorno agli alberi durante gli affondi (inqq. 221222, 375), la proliferazione di campi medi e ravvicinati e, di contro, l’assenza di Totali che collochino i personaggi nell’ambiente circostante. In secondo luogo manca, in entrambe le sequenze, una logica compositiva di tipo plastico che uniformi le inquadrature sia sul versante della messa in quadro (non vi si ritrovano studi sui volumi o sulle linee grafiche) sia su quello della messa in serie (i raccordi non si basano su rime o su motivi di conflittualità tra inquadrature), sostituita da una forma di rappresentazione che, grazie agli scarti, alle fughe, alle attese, ai giochi di luci e ombre, agli stacchi improvvisi, ai bruschi avvicinamenti o allontanamenti della macchina da presa ecc., mira a creare una sorta di polluzione dell’immagine e del racconto, un caos figurativo (controllato) che ribalta la geometrica rigidità delle sequenze del processo o l’elegante e preciso montaggio interno di quelle sotto il portale. Terzo motivo di affinità riguarda il medesimo contrapporsi nei confronti degli altri due duelli «virtuali», quelli promessi dalle analessi della moglie e del marito e infine mancati. Come già detto, nelle due ipotesi centrali dell’intrigo e in ragione della rinuncia a ribellarsi da parte del samurai, vuoi per rabbia o per disperazione, il duello si dissolve in un’inazione che produce però gli stessi risultati dell’azione: Takehiro muore, Masago e Tajōmaru scappano. Questo passaggio è decisivo perché, forse per la prima volta in un jidaigeki, usare la spada o un pugnale, reagire per vendetta o per calcolo, attaccare o fuggire, uccidere o

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suicidarsi sono atti che non determinano effetti significativi sull’esito del racconto. Così, ed è una soluzione veramente scismatica, la possibilità di un non duello si fa strada in un genere che dovrebbe prevedere invece il corpo a corpo come imprescindibile passaggio per la risoluzione dei conflitti. La scelta trasfigura, di fatto, i connotati del chanbara perché lo scontro diviene superfluo o, se non altro, facilmente intercambiabile con uno di segno contrario. Da questo punto di vista, la seconda sequenza di combattimento non fa altro che confermare l’inutilità narrativa della prima (e di quelle che stanno in mezzo). Di più, essendo, almeno in teoria, la versione più «oggettiva» tra quelle narrate, perché frutto del resoconto di un testimone oculare, essa «ontologizza» l’accezione più parodica e irriverente del duello, la meno «credibile» nell’ottica del genere di riferimento. In quest’ultimo scontro, quasi come fossero eroi di una comica di Mack Sennett, Tajōmaru e Takehiro tremano, inciampano nelle corde che hanno in mano, al primo incrociarsi di lame scappano in direzione opposta, scivolano e cadono, perdono le spade, s’imbrattano di terra e la usano per accecare l’avversario. La spada è un impaccio e, non a caso, non viene impugnata quando si tratta di trafiggere l’avversario bensì lanciata da lontano. Quello appena descritto, come altri gesti intempestivi, irrituali o non coordinati, va oltre il ridicolo e restituisce una sensazione di affanno, fatica, apprensione e traduce la riproduzione di ogni movimento in un indistinto e sordido scontrarsi di masse e corpi. Dei due, poi, è il samurai a spiccare per gesti e movimenti «eretici» rispetto al proprio ruolo naturale: attacca il proprio rivale

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quando questi gli porge la spada, alza il braccio in segno di timore qualche minuto dopo di fronte a uno scatto dell’avversario, ha posture ineleganti quando indietreggia o schiva i fendenti vibrati dal brigante, chiede pietà miseramente invece di morire con onore quando ormai tutto è perduto. Per farla breve, si conferma una volta di più, anche sul piano fenomenologico, la concezione antiretorica, dissacrante e demitizzata del kengeki. Meglio ancora, viene sancita così un’idea sporca, grossolana, tattile e virulenta del combattimento che non appartiene alla tradizione del genere ma che diventerà presto una delle sue caratteristiche più «ridondanti», almeno a partire dalla fine degli anni ’50 quando cineasti come Shinoda Masahiro, Masaki Kobayashi, Gosha Hideo o lo stesso Kato Tai, l’aiuto regista assegnato dalla Daiei a Kurosawa e da questi disconosciuto, cercheranno di rinnovare in senso ancora più virulento i suoi canoni stilistici e figurativi. Dispiace che quest’insieme un po’ disordinato di scelte eterodosse e demistificanti abbia spinto amanti (e studiosi) del samurai film a escludere o marginalizzare Rashōmon dalle loro «playlist», quando invece avrebbero dovuto inserirlo ai primi posti, proprio in virtù del fatto che contiene germi e persino gemme di una stagione prossima a venire e oggi considerata, non a torto, tra le più notevoli della storia del jidai. Si aggiunga che la natura parodica del secondo duello dovrebbe spingerci a considerare Rashōmon come un film che riflette meta-discorsivamente sulla propria collocazione nel genere. Mettere in discussione, uno a uno, i contrassegni del chanbara (la caratterizzazione del samurai, quella

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del suo antagonista, la scelta della ambientazione storica, l’estetica del duello, la sua necessità diegetica, il ruolo della spada, l’anacronismo del bushidō, il conflitto tra giri e ninjo) significa, infatti, estenuarne i limiti e le possibilità espressive, e ancora sondarne i margini, i confini, le zone di transizione in vista di una fruizione più matura e raffinata da parte dello spettatore. Approfittando del divieto, sotto l’occupazione americana, di utilizzare ambientazioni e intrecci tradizionali, la nostra pellicola può ritornare a uno stadio pre-configurativo del genere, alle sue radici culturali, alla sua ambizione, spesso utopica, di affermare una verità filmica che vorrebbe essere condivisa (ovvero socialmente accettabile), e che, come dimostrano i quattro (non) duelli, semplicemente non è esplicitata. Misura la resistenza delle fondamenta del jidaigeki e in tal modo non si colloca né fuori né contro di esso, ma ben piazzata al suo interno. La storia di come il film è stato via via recepito dimostra che almeno questo obiettivo può dirsi raggiunto. Nel corso dei decenni, come abbiamo ricordato in apertura di volume, Rashōmon conosce un pullulare di remake e riletture, i suoi stratagemmi narrativi vengono serializzati dal cinema, in TV, nei nuovi media, le sue tracce inondano la semiosfera: non sfuggirà il fatto che tali processi di rilocazione raramente capitano ai cosiddetti «film d’autore», mentre più frequentemente coinvolgono quegli artefatti realmente e genuinamente popolari. Capaci di radicarsi in una cultura. Capaci di trasformarsi da titoli di film in modi di dire comuni. Capaci di contrassegnare un territorio visivo ed esperienziale.

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David Desser, The Samurai Films of Akira Kurosawa, UMI Research Press, Ann Arbor/London 1983, p. 32 (trad. mia). 2 Ricordo che il samurai film è una categoria filmica non giapponese, bensì coniata e diffusa solo in ambito anglosassone, per di più tra appassionati di b movies. Facendo riferimento quasi esclusivamente a titoli distribuiti negli Stati Uniti a partire dalla metà degli anni ’50 in poi, il «genere» ha un orizzonte filmografico limitato sia da un punto di vista storico, sia per quel che riguarda temi e pattern di riferimento. In ambito accademico sono preferite le categorie di genere inventate nel Sol Levante, vale a dire il jidaigeki, macrogenere che indica i film di ambientazione storica, e il sottogenere chanbara (o kengeki) che si riferisce invece ai film (o alle sequenze) con combattimenti all’arma bianca. In questi ultimi due casi, tanto per evidenziare una prima diversità tassonomica, non è necessaria la presenza sulla scena di samurai o di ronin. 3 Raccolgo in un’unica nota i rimandi ai testi citati. Alain Silver, The Samurai Film, Duckworth Publishers, London 2007, pp. 62-64; Patrick Galloway, Stray Dogs & Lone Wolves: The Samurai Film Handbook, Stone Bridge Press, Inc., Berkeley 2005, pp. 51-53; Patrick Galloway, Warring Clans, Flashing Blades: A Samurai Film Companion, Stone Bridge Press, Berkeley 2009; Roland Thorne, Samurai Films, Kamera Books, Harpenden Herts 2008. 4 Cfr. Yoshimoto Mitsuhiro, Kurosawa: Film Studies and Japanese Cinema, Duke University Press, Durham 2000, pp. 182-189. 5 Cfr. Sybil Anne Thornton, The Japanese Period Film: a Critical Analysis, McFarland & Co., Jefferson 2008, pp. 62-65. 6 Donald Richie (a cura di), Focus on Rashomon, Prentice-Hall, London 1972, p. 79. Il medesimo testo è pubblicato anche in Donald Richie, The Films of Akira Kurosawa. Third Edition Expanded and Updated with a New Epiloge, University of California Press, Berkeley 1998, p. 74. 7 Non bisogna dimenticare che Rashōmon ha la fortuna di conquistare il mercato europeo e americano all’inizio degli anni ’50, ovvero nel periodo di maggiore effervescenza (e forza culturale) della critica cinéphile francese che da lì a pochi anni inaugurerà la cosiddetta politique des auteurs. La coincidenza temporale non è secondaria, perché Kurosawa, come altri cineasti che giungono dall’Oriente, primo tra tutti Mizoguchi, verrà scelto come cartina di tornasole per verificare la validità storicamente e geograficamente universale della concezione autoriale del cine1

DUELLI SENZA CODICE D’ONORE. «RASHŌMON» E IL «JIDAIGEKI»

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ma. Per una riflessione sulla «disputa» Mizoguchi-Kurosawa, avvenuta sulle pagine dei «Cahiers du cinéma» si veda: André Bazin, Cinéma de la crauté, Flammarion, Paris 1975 e i testi di Luc Moullet, Cinématèque, «Cahiers du cinéma», n. 68, febbraio 1957, pp. 39-40; André Bazin, Vivre, «Cahiers du cinéma», n. 69, marzo 1957, pp. 36-37; Jacques Rivette, Mizoguchi vu d’ici, «Cahiers du cinéma», n. 81, marzo 1958, pp. 28-30 (incluso in uno speciale della rivista intitolato Rétrospective Mizoguchi, pp. 28-36). 8 Nino Ghelli, Rasho - Mon, «Bianco e Nero», vol. XIII, n. 3, marzo 1952, pp. 86-90. Si segnala che una parte del saggio di Ghelli è pubblicata nel capitolo 10. 9 Vedi nota 12 del primo capitolo. 10 Sulla nascita del jidaigeki si veda in italiano. Maria Roberta Novielli, Storia del cinema giapponese, Marsilio, Venezia 2000, pp. 49-53. In francese: Tadao Satō, Le cinéma japonais, vol. 1, Centre Georges Pompidou, Paris 1997, pp. 95-146. In inglese, Isolde Standish, A New History of Japanese Cinema: a Century of Narrative Film, Continuum International Company, New York 2006, pp. 80-132; Mitsuyo Wada-Marciano, Nippon Modern: Japanese Cinema of the 1920s and 1930s, University of Hawaii Press, Honolulu 2008, pp. 43-61. 11 Nel racconto di Akutagawa, invero, l’attacco di Tajōmaru al Kebiishi è ancora più diretto e irriverente di quanto non avvenga nel film. Il personaggio del racconto condivide con quello della pellicola la postura sgraziata, il linguaggio volgare e irrispettoso, la saccenteria delle argomentazioni, ma si permette, a un certo punto, un atto di accusa così duro da ricordare quello che Kikuchiyo rivolge ai suoi compagni d’avventura ne I sette samurai. «No, non è difficile, come pensate, uccidere un uomo. Per possedere una donna il suo uomo sarà sempre ucciso in qualche modo. Solo che io uso la spada per ucciderlo e voi usate il potere, il denaro o le parole suadenti invece della spada. Certo, così non si vede il sangue, né un morto – ma lo uccidete lo stesso. Se dovessimo giudicare chi è il più colpevole moralmente io o voi, non sarebbe facile dirlo (sorriso ironico)». Cfr. Ryūnosuke Akutagawa, Rashōmon e altri racconti, Tea, Milano 2002, pp. 150-151. 12 Darrell William Davis, Picturing Japaneseness: Monumental Style, National Identity, Japanese Film, Columbia University Press, New York 1996, p. 45 (trad. mia).

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Per un breve e puntuale profilo sulla letteratura di epoca Taishō si veda Donald Keene, Dawn to the West: Japanese Literature in the Modern Era, vol. 1, Henry Holt, New York 1984, pp. 556-89; In italiano: Luisa Bienati (a cura di), Letteratura giapponese, vol. 2 (Dalla fine del’Ottocento all’inizio del terzo millennio), Einaudi, Torino 2005. 14 Cfr. Donald H. Shively, William H. McCullough (a cura di), The Cambridge History of Japan: Heian Japan, Cambridge University Press, Cambridge 1999. 15 «Il suicidio è presentato come un disperato atto di passione da parte di un samurai che ignora il rituale prescritto, mettendo fine alla propria vita in quella maniera. L’eroismo della sua versione non è conforme agli ideali del bushido. Piuttosto deriva dalle tradizioni dell’agonia romantica. Il suo tormento emotivo lo porta a uno stato dissociativo tale da sentire “piangere qualcuno” quando questo qualcuno non è altri che egli stesso. Qualche tempo dopo il pugnale viene estratto dal suo petto, “Qualcuno sembrava avvicinarsi a me… poi ha afferrato il pugnale e l’ha tirato fuori”. Con questo gesto, il samurai muore. […] Si tratta della sola azione che implica indirettamente la presenza del taglialegna. Data la sua condizione dissociata e la sua precedente disposizione d’animo, il samurai potrebbe aver rimosso il pugnale anche per proprio conto». Cfr. James Goodwin, Akira Kurosawa and Intertextual Cinema, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1994, pp. 133-134 (trad. mia). 16 Sul rapporto tra il ronin Kambei e il contadino Kikuchiyo, sulle rispettive rivendicazioni sociali e politiche, si veda Dario Tomasi, Il cerchio e la spada. Lettura de «I sette samurai» di Kurosawa Akira, Lindau, Torino 2008. 13

Notte e pioggia sul Giappone. Sottotesti politici e antiamericanismo

Già dalle prime immagini del film emergono con chiarezza alcuni non troppo taciti riferimenti al Giappone postbellico. La presenza imponente di un monumento diroccato, le sue rovine a terra, la serie di disgrazie elencate dal bonzo (che inizia e che termina forse non a caso con la parola «guerra»), l’allusione del viandante ai cadaveri abbandonati nella parte alta dell’edificio, la «pioggia nera» 1 che investe costruzioni e persone, la desertificazione ai lati del portale, sono tutti elementi che in qualche modo rimandano al paesaggio desolante e tragico consegnato alla Storia dalla seconda guerra mondiale. D’altronde, la fine dell’epoca Heian può essere associata sul piano politico ed economico a questa stagione di guerre e ricostruzioni 2, mentre la decadenza morale, l’individualismo spinto, il cinismo, la falsificazione come strumento di difesa e attacco – azioni di cui si rendono corresponsabili quasi tutti i personaggi del racconto – sono considerati attributi dell’Occidente capitalistico almeno per certa propaganda nazionalista 3. Si aggiunga che lo stesso Kurosawa ricorda 4 di

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aver pensato di inserire come prologo una scena ambientata in un mercato nero in frenetica attività e improvvisamente investito dallo scoppio di un acquazzone: la sequenza, pensata come escamotage per far convergere, dopo un fuggi fuggi generale, il boscaiolo, il monaco e il servo sotto il portale e poi rimasta sulla carta per ragioni di budget, designa una volontà di raffigurare, di sfuggita, uno dei fenomeni più diffusi e deprecabili del Giappone occupato, peraltro già messo in scena in L’angelo ubriaco e Cane randagio. Anche gli americani dovevano essersi accorti di qualche indiretto affondo contro l’occupazione, se nel 1954 Davidson, studioso laureato in Giapponese presso la Navy’s Oriental Language School, e stipendiato per anni dal National Institute of Public Affairs, scrive a proposito di Tajōmaru: Egli è il meno giapponese di tutti i personaggi, è una sorta di incarnazione dell’oni, l’orco, del folclore giapponese, che è spesso stato definito come la raffigurazione dello straniero. I suoi movimenti, la sua postura, i suoi gesti suggeriscono qualcosa della goffaggine dello spilungone che appartiene alle caricature giapponesi degli occidentali. Egli è alternativamente terrificante e ridicolo, ma sempre estraneo rispetto agli altri. Ciò serve a enfatizzare l’avarizia e la follia del samurai, che significativamente abbandona la moglie e s’incammina verso la sua rovina, come una sorta di sventura commerciale. La scena in cui la moglie è sopraffatta in un bacio prolungato (essa stessa quasi uno shock per il pubblico giapponese) è ancora più terrificante perché il suo seduttore è un selvaggio

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madido, graffiante e schiaccia-insetti e non un bandito vestito in kimono blu come descritto in Akutagawa. La forte impressione di differenza culturale, che rasenta quella razziale, infonde, come ulteriore significato, una risoluta intonazione lussuriosa alla scena. 5

Quella riportata non è una considerazione irrilevante. Associando Tajōmaru a una figura del folclore giapponese riconosciuta come personificazione dello straniero e alludendo in tal senso all’invasore yankee, Davidson assevera il fatto che Rashōmon riproduce niente meno che uno stupro etnico o, se si vuole essere meno radicali, la violenza fisica e psicologica che il conquistatore esercita sul popolo conquistato (così come la fascinazione che prova la vittima verso il suo carnefice). Un’ipotesi che, qualora attendibile, denuncerebbe le malversazioni di cui alcuni soldati americani si sono resi responsabili nel corso della loro permanenza nell’arcipelago, con diversi anni di anticipo rispetto al periodo in cui questi fatti sono saliti agli onori, anzi ai disonori della cronaca nazionale e internazionale 6. Su questa falsariga, Sørensen ha proposto pochi anni fa uno studio che perora con grande decisione la tesi di un radicale antiamericanismo del film, ribaltando persino il significato di quelle scelte che, agli occhi dei più, erano sembrate delle concessioni abbastanza manifeste alla nuova amministrazione. Ricordiamole in sintesi, queste concessioni, di cui si è già dato conto nei capitoli precedenti. Appaiono, almeno a prima vista, soluzioni «politicamente corrette» la decisione di adattare i lavori di Akutagawa, già tra-

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duttore di classici europei, la volontà di collocare la storia in un periodo proto-feudale, indice di disponibilità verso una maggiore libertà dei costumi e determinazione che colloca l’opera fuori dai dibattiti della cronaca, nonché la scelta di sfruttare la struttura narrativa del giallo (o del courtroom movie) per avvicinare la pellicola alle abitudini cinematografiche occidentali. Nella stessa direzione potrebbero/dovrebbero andare anche la scena del bacio voluttuoso (esperienza nuova per lo spettatore giapponese e imposta, come manifesto di una maggiore libertà individuale ed eguaglianza tra i sessi, dal CIE di Conde 7), la descrizione di una donna emancipata che sembra scegliere autonomamente il proprio destino, il ricorso a una musica di commento occidentale che rievoca il Bolero di Ravel (e quindi omaggia la tradizione della musica classica) e infine l’adozione del lieto fine. Si tratta, per quest’ultimo punto, di un evento raro nella tradizione chanbara, tanto raro da spingere la critica e il pubblico di allora a sollevare qualche voce di biasimo, poiché la soluzione scelta ribaltava improvvisamente il tono cinico e pessimista del racconto e il gesto del boscaiolo poteva essere letto come l’auspicio per l’avvio di una nuova stagione etica propiziata evidentemente dalla presenza dell’occupante americano e dalle neonate istituzioni democratiche. Ebbene, per Sørensen questi elementi dovrebbero essere considerati da un punto di vista esattamente opposto, in quanto esisterebbe un secondo e più caustico livello di significazione che modifica le coordinate della visione, a cominciare dalla sequenza del bacio, e infonde nuovi sottotesti al film.

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Kurosawa usa una delle raccomandazioni della censura, quella di mostrare delle scene di bacio nei film, come un boomerang per colpire gli americani in faccia. E che bacio! Kurosawa adopera dodici inquadrature per eseguire l’«ordine» degli occupanti. E che fa la donna giapponese? All’inizio fa resistenza com’è suo dovere, getta l’arma per terra, poi guarda dritta nel sole, il simbolo nazionale per eccellenza, che si offusca davanti ai suoi occhi, e poi si concede senza ritegno al bacio del barbaro. Mentre lei viene declassata a rashamen [così venivano chiamate le donne giapponesi che si prostituivano con i soldati americani] il sole si sfuoca. Per uno spettatore giapponese che solo pochi anni prima aveva dovuto riporre le armi e vedere il Sole – incarnato dal discendente del Dio Sole, l’imperatore Hirohito – offuscarsi e sfocarsi, è fin troppo facile leggervi un messaggio sovversivo. 8

Se esista, nella ricorrente immagine del sole tra le fronde, un esplicito riferimento alla storia di Hirohito (o più opportunamente del Shōwa Tennō) e in quel pallido anello tra le foglie l’allegoria crepuscolare del principale simbolo dell’unità del paese, noi non sappiamo con certezza. Tuttavia se accostata con altre sedimentazioni, la supposizione potrebbe apparire anche verosimile. Ad esempio, secondo lo studioso danese, la gestione dei commenti della colonna sonora non è un omaggio ai nostri repertori ma comunica, di sottecchi, la bipartizione occidentale/negativo vs giapponese/positivo. Difatti, a fronte di un ricorso continuo, per tutto il film, a partiture allogene (o ibride), nel finale la musica di sottofondo recupera improvvisamente motivi della tradizione melodica nipponica, nel momento in cui il bo-

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scaiolo prende in carico il neonato abbandonato e si allontana sorridente dal portale (baciato anche da alcuni raggi di sole). Tale disposizione evenemenziale dimostrerebbe una correlazione tra universo distopico del film e ideali occidentali da una parte, cui contrapporre, dall’altra, una contiguità di segno opposto tra ricomposizione dei conflitti, fiducia nel prossimo e manifestazioni musicali autoctone. Ne consegue che il finale positivo non strizza l’occhio al nemico ma cerca di ridare equilibrio a rapporti e assiologie, un equilibrio che, non a caso, si consolida solo nel momento in cui il viandante fugge via. Quest’ultima figura, per certi versi, è associabile a quella di Tajōmaru, una sorta di cinico invasore che «prende possesso» in un secondo tempo del portale, già abitato dal boscaiolo e dal religioso, e che propone una visione del mondo egotista simile a quella degli occupanti. Questa proposta ermeneutica si arricchisce di ulteriori elementi. Secondo Sørensen, il giudice invisibile è anch’egli una figura che rappresenta l’autorità (americana), pronta a sottoporre a domande e a giudizi quei giapponesi che gli si presentano innanzi, il nome Rashōmon ricorda il termine Rashamen, con il quale s’indicavano le prostitute giapponesi che giacevano con i soldati americani e persino la spada dritta che Tajōmaru cerca di vendere a Takehiro è associabile alla soffocante presenza dell’occupante americano visto che ricorda nella sua forma una croce cristiana a differenza di quella impugnata dal samurai, ricurva come lo sono la katana o il più antico tachi (fig. 5). Quella appena descritta è una tesi che ha un suo grado di suggestione (ed è per questa ragione che l’abbiamo ri-

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portata quasi integralmente) anche se abbraccia una prospettiva radicale che rischia di essere, alla lunga, fuorviante per la comprensione del testo. L’eventuale volontà antiamericana del film presupporrebbe, infatti, l’esistenza di una sorta di strategia di prestidigitazione operata ai danni di organi di censura non così ottusi come si è soliti tacciarli e in seconda battuta una concezione del cinema come strumento ideologico che non appartiene a un regista che ha dato prova, in passato, di voler rifiutare un approccio didascalico e unidimensionale al reale anche nei suoi film più «schierati». Implicherebbe una scaturigine creativa inarcata sopra la supposta intenzionalità autoriale di Kurosawa, tralasciando altri piani di significazione come quelli che discendono dai frutti del lavoro di gruppo, dalla fedeltà ai soggetti di partenza, dalla relazione con i canoni di genere ecc. Rischierebbe poi di riportarci allo schema ricettivo dei primi anni ’50, polarizzato e orientalista, fondato ad esempio sull’esclusione di ciò che non è organico alla tesi proposta, sulla riorganizzazione dicotomica dei fatti, su congetture magari affascinanti, ma prive di controprova diretta. Limitandoci a poche obiezioni, ricordiamo che il titolo Rashōmon non può essere stato scelto per l’affinità fonetica con Rashamen, poiché sono diversi due ideogrammi su tre e i due vocaboli non hanno prossimità semantica né un medesimo quadro culturale di riferimento. Inoltre la musica tradizionale non compare solo nel finale ottimista, ma anche, ad esempio, nei «pessimisti» titoli di testa. Infine è poco redditizio applicare a vari personaggi il ruolo di personificazioni delle crudeltà degli occupanti perché si finisce per contraddire se stessi: se è Tajō-

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maru lo straniero, la sua ammissione di colpevolezza pare poco verosimile, così come il suo ruolo di antagonista del Kebiishi e del poliziotto, le figure che rappresentano effettivamente l’autorità pubblica durante il processo; se invece è il giudice invisibile a incarnare il dispotismo degli invasori, allora il bandito non dovrebbe essere altro che la quintessenza del giapponese che si ribella. È chiaro che in questa sorta di sfida a chi opera la più intrigante lettura metaforica, ci vuole poco a sostenere tesi diametralmente opposte con la medesima forza. Lo conferma Dolores Martines che ribalta gli assunti di Sørensen, affermando che le ammissioni di colpevolezza dei tre sospetti non sono tanto un modo per criticare gli americani (a cui il film non era certo rivolto), quanto per biasimare le nuove classi dirigenti del paese che subito dopo la guerra hanno fatto a gara per giustificare il lancio dell’atomica e legittimare il lungo insediamento degli alleati. Kurosawa gira il film al termine di un periodo di occupazione durato sette anni (1945-1952) durante il quale, come confermano tanto gli storici occidentali quanto quelli giapponesi, molti giapponesi hanno trovato un modo per gestire la colpa per la guerra e ogni sua atrocità: la colpa era dei leader della nazione e i giapponesi stessi erano vittime (di più per le bombe atomiche cadute su Hiroshima e Nagasaki). Kurosawa, nella sua autobiografia, riconosce di provare un sentimento di colpa per aver accettato di finire in guerra senza protestare. Nel 1950 poi realizza un film in cui ogni personaggio confessa i crimini di un omicidio. Dato che il suo pubblico di riferimento era giapponese – non aveva certo idea che

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sarebbe stato visto all’estero – sembra che Kurosawa abbia tirato un vero tiro mancino alla propensione dell’essere umano a mentire. 9

Di fronte a opinioni in qualche misura opposte, occorre allora saldare ogni indicazione di criticità con una strategia interpretativa che si schiuda a piani di lettura diversificati, non solo legati a obiettivi di mera polemica cronachistica o di militanza più o meno radicale. Se politica esiste in Rashōmon è una politica che guarda all’arte di governare la Polis (etimo del termine) da una posizione letteralmente periferica, in quanto nel film la città è assente, probabilmente in preda al fuoco e alle fiamme oltre il portale del diavolo, invisibile oltre il muro del tribunale, inaccessibile dal cuore del bosco. Politica allora è la scelta di escludere la polis dalla rappresentazione e così permettersi inferenze che abbracciano in termini larghi e indiretti il presente postbellico. Politici sono ad esempio i modi con cui vengono rappresentate le codificazioni dei ruoli e la loro disintegrazione una volta entrati in quel luogo pre-sociale e antropologico che è il bosco; politiche sono le ambizioni e le lusinghe del potere, indipendentemente dall’occupazione americana, perché i toni da imbonitore di Tajōmaru seducono il futuro rappresentante di una classe dirigente (i samurai) che pare più interessato alla propria ricchezza personale che non a tutelare i propri cari 10. Politica è la questione degli scontri, fisici e psicologici, tra classi sociali (in fondo Tajōmaru è un rappresentante dei «sottoproletari», mentre Takehiro dell’aristocrazia e i loro duelli giungono pochi mesi dopo quelli, altrettanto concreti e assurdi, tra mae-

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stranze e produttori delle major). Politica è la riflessione sulle istituzioni (in senso lato), con un giudice che non giudica, fa domande che non si sentono, non ricostruisce i fatti, ma accoglie silente il loro giustapporsi confuso e contraddittorio. E chi ha letto Metz sa che parlare di istituzione significa anche parlare di dispositivo cinematografico, con la sua imposizione – ovviamente politica – di un punto di vista, di una messa in forma e in simbolo del soggetto scopico, di sollecitazione degli impulsi del desiderio dello spettatore, di costruzione di un’ideologia e di una verità filmica 11. Politico è dunque mettere in scena uno stupro che è anche affermazione del desiderio femminile, suo soffocamento attraverso una volontà di affermazione maschile che si traduce in meschinità e misoginia. Politica è anche la posizione non edificante, almeno nell’ottica buddhista, del bonzo, incapace di seguire un percorso di trasformazione della sofferenza fisica ed emotiva in illuminazione spirituale 12. E così via. Insomma, Rashōmon affronta questioni che dall’ambito politico spaziano a quello antropologico, sociale, spirituale, economico, sessuale, metalinguistico, e perciò si arricchisce di riferimenti non scontati e non unidirezionali, che sarebbe errato far confluire in un solo insieme cognitivo. Per questo, se è bene tenere a mente che la pellicola, come qualsiasi altro manufatto, non si sviluppa in vitro, ma è diretta gemmazione del terreno in cui mette radici, è altrettanto doveroso non accontentarsi di questa prima attestazione perché sono altri gli interrogativi, originali e rari, che ci pone. Ad esempio, ci dovremmo chiedere – e lo faremo nel prossimo e più corposo capitolo – come sia possibile

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che il film, per restare solo ai sottotesti politici (ma il discorso si può estendere ad altri ambiti), si lasci definire da taluni antiamericano e da altri antinipponico, da certuni nazionalista e da certi altri modernista, da questi politicamente militante e da quegli altri escapista. Ovvero come ermeneutiche tra loro inconciliabili trovino per così dire diritto di asilo grazie a una messa in forma e a una struttura narrativa permeabili e accoglienti. E in fondo, e a ben vedere, anche il diritto di asilo è un fatto politico.

Quella che si vede sullo schermo è veramente pioggia nera. Kurosawa aveva chiesto, infatti, che il temporale fosse il più visibile possibile nelle inquadrature ambientate sotto il portale. Per esaudire le richieste del regista, i tecnici furono costretti a diluire diversi litri di inchiostro nei serbatoi delle autopompe che servivano per ricreare in studio il fenomeno atmosferico, sì da determinare un maggior contrasto con le lampade che illuminavano il set. L’episodio è narrato dallo stesso cineasta in Akira Kurosawa, L’ultimo imperatore. Quasi un’autobiografia, Baldini & Castoldi, Milano 1995, p. 242. Il riferimento implicito è però anche alla «pioggia nera» che ha ricoperto Hiroshima subito dopo lo scoppio della bomba atomica e che è stata così ben descritta da Ibuse Masuji (altro scrittore affascinato dalle manifestazioni straordinarie della natura), nel suo romanzo che s’intitola appunto La pioggia nera. Il romanzo è disponibile anche in una versione tradotta in italiano da Luisa Bienati. Cfr. Ibuse Masuji, La pioggia nera, Marsilio, Venezia 1993. 2 «Rashomon è ambientato alla fine dell’era Heian, il periodo della storia giapponese in cui l’imperatore regnava direttamente […] prima che nascesse lo shogunato come principale istituto di autorità, rendendo solo nominale il potere assegnato al trono imperiale. Ci vuole poco a vedere in questa collocazione storica un’allegoria della fine della restaurazione imperiale, dall’epoca Meiji al Taisho e allo Showa. Il portale in rovina 1

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che noi vediamo all’inizio del film segna il declino e la disintegrazione del periodo Heian tanto quanto la devastazione della bomba segna la fine della guerra del pacifico.» Cfr. Scott Nygren, Time Frames: Japanese Cinema and the Unfolding of History, University of Minnesota Press, Minneapolis 2007, p. 111 (trad. mia). 3 Cfr. Barak Kushner, The Thought War: Japanese Imperial Propaganda, University of Hawaii Press, Honolulu 2006; Gerald Horne, Race War! White Supremacy and the Japanese Attack on the British Empire, New York University Press, New York 2005. Per quanto riguarda l’uso (sofisticato) della propaganda nel cinema imperialista giapponese si veda Abe Nornes, Japan/America Film Wars: WWII Propaganda and Its Cultural Contexts, Routledge, London 1994; Peter B. High, The Imperial Screen: Japanese Film Culture in the Fifteen Years’ War, 1931-1945, University of Wisconsin Press, Madison 2003; Darrell William Davis, Picturing Japaneseness: Monumental Style, National Identity, Japanese Film, Columbia University Press, New York 1996. 4 Yoshimoto Mitsuhiro, Kurosawa: Film Studies and Japanese Cinema, Duke University Press, Durham 2000, p. 189. 5 James Davidson, Memory of Defeat in Japan: A Reappraisal of Rashomon, «The Antioch Review», vol. 14, n. 4, inverno 1954, pp. 492-501 (trad. mia); anche in Donald Richie [a cura di], Rashōmon. Akira Kurosawa Director, Rutgers University Press, New Brunswick 1987, p. 163. 6 La bibliografia (e in parte la filmografia) sulle violenze perpetrate dai soldati americani in Giappone, in modo particolare nella regione di Okinawa, è ahinoi sterminata. Per una dettagliata descrizione del sistema di prostituzione nato durante gli anni dell’occupazione rinvio a Michiko Takeuchi, Pan-Pan girls and GIs: the Japan-U.S. Military Prostitution System in Occupied Japan (1945-1952), UCLA, Los Angeles 2009. Per uno sguardo più ampio che descrive anche le azioni altrettanto riprovevoli dei soldati dell’esercito imperiale giapponese in Cina (e non solo) si veda Toshiyuki Tanaka, Japan’s Comfort Women: Sexual Slavery and Prostitution During World War II and the US Occupation, Routledge, London 2002. 7 «Oltre a indicare i soggetti da bandire, il CIE aveva stilato anche una lista di accorgimenti auspicati dalla campagna cinematografica di democratizzazione per offrire un effetto complessivo di ottimismo in opere

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dal taglio moderno come lo erano quelle americane. Uno dei più divertenti aspetti di questo disegno produttivo fu la pretesa di “intimizzare” i rapporti sentimentali tra i personaggi, inserendo scene d’amore e di baci fino a quel momento forte tabù non solo sullo schermo ma anche nella vita pubblica. Si riteneva infatti che l’assoluta mancanza di intimità tra amanti fosse innaturale e derivasse da una costrizione sociale e in quanto tale fosse antidemocratica.» Maria Roberta Novielli, Storia del cinema giapponese, Marsilio, Venezia 2000, p. 126. 8 Lars-Martin Sørensen, MacArthurs filmkys: Kurosawa og den amerikanske besættelsesmagt i efterkrigstidens Japan, «Kosmorama», vol. L, n. 233, estate 2004, pp. 135-136 (trad. di Annette Blomqvist); Sørensen è anche autore di un più recente studio sulle forme di censura applicate dagli americani nei confronti di alcuni cineasti giapponesi. Cfr. Lars-Martin Sørensen, Censorship of Japanese Films during the U.S. Occupation of Japan: the Cases of Yasujiro Ozu and Akira Kurosawa, Edwin Mellen Press, Lewiston 2009. 9 Cfr. Dolores Martinez, Where the Human Heart Goes Astray: Rashomon, Boomtown and Subjective Experience, «Film Studies», n. 11, inverno 2007, p. 29 (trad. mia). 10 A tal proposito, ricordo che il tema del potente corrotto, ambiziosamente individualista e anticomunitario, attraversa molti gendaigeki di Kurosawa, da Vivere a I cattivi dormono in pace, da I bassifondi (Donzoko, 1957) ad Anatomia di un rapimento (Tengoku to jigoku, 1963), per non parlare di altri jidai come Trono di sangue o Kagemusha (id., 1980). 11 L’ovvio riferimento è a Christian Metz, Le signifiant imaginaire: psychanalyse et cinéma, Union Generale d’Editions, Paris 1977 (trad. it. Cinema e psicanalisi, Marsilio, Venezia 1980, pp. 9-21). 12 Non bisogna dimenticare che il film nasce da un soggetto del Konjaku e che quindi, come facevano i monaci buddhisti con gli episodi raccontati nella vecchia antologia, anche il nostro bonzo avrebbe potuto ricavare insegnamenti e rafforzare la propria fede a partire dagli eventi narrati al processo, per poi convincere della bontà delle proprie argomentazioni la gente incolta e analfabeta come molto probabilmente sono sia il viandante, sia il boscaiolo. A questa missione, il monaco rinuncia in poco tempo.

Ecco l’impero dei segni. Forme, narrazioni, enunciati al dis-servizio delle ermeneutiche

Ai piedi del portale: decostruire il semi-distrutto Torniamo ai piedi del portale. Il degrado è tale che persino chi vi si ripara contribuisce al suo abbruttimento: il viandante stacca delle assi di legno da una parete per accendere un fuoco intorno al quale si riscaldano anche il boscaiolo e il monaco. Quest’ultimo dovrebbe osteggiare la distruzione di un monumento dall’architettura simile a quella di un tempio buddhista, ma non apre bocca, né si cura dell’onigawara, la scultura decorativa usata come talismano contro i demoni, solitamente collocata sui tetti delle case, degli edifici pubblici e dei luoghi di culto per proteggere gli interni, e che invece qui è mestamente riversa a terra e richiederebbe almeno di essere riparata dalla pioggia. La rovina dell’onigawara dimostra che la funzione del portale è venuta meno. Rashō, infatti, dovrebbe segnare il confine tra ciò che è salvo e interno, l’uchi, la città, e quello che è non salvo, esterno, il soto, un luogo dove non solo i de-

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moni possono abitare, ma anche gli dei possono vagabondare liberamente. […]. Il portale devastato implica che ogni barriera è stata rasa al suolo. Le città non sono libere dalla natura per quanto cerchino di tenerla distante. Malattie, guerre e calamità naturali accadono all’interno delle città quanto all’esterno perché ciò che dovrebbe tenerli separati, il portale, in realtà connette i due domini. 1

Ricordo che uchi (dentro) e soto (fuori), qui citati da Martinez, sono termini che definiscono il rapporto di inclusione o esclusione del singolo rispetto a un determinato nucleo sociale (famiglia, amici, colleghi, compaesani, conterranei) 2 e che ovviamente hanno valore solo se distinguono, ordinano, perimetrano insiemi chiusi e definiti. Nel nostro caso, la perdita di funzionalità di Rashō anticipa una verità che amaramente scopriremo poco dopo: non esistono gruppi di persone unite, che si riconoscono e che si alleano tra loro (non lo sono la coppia di sposi, né il monaco e il boscaiolo), ogni personaggio è in qualche modo estraneo al proprio prossimo e non a caso termina la propria parabola diegetica in solitudine (o, nel migliore dei casi, con un piccolo «fardello» cui badare). Abbiamo già ricordato, nell’introduzione, come tale condizione di disfacimento – ben rappresentata dai titoli di testa, undici tessere non giustapponibili di un’immagine musiva destinata a rimanere incompiuta – è una metafora perfetta dell’attività interpretativa dello spettatore. Ora che abbiamo «ricomposto» il contesto interno ed esterno al film e definito i legami che istituisce con l’industria cinematografica di cui è prodotto, le fonti letterarie da cui

ECCO L’IMPERO DEI SEGNI

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trae spunto, i generi cinematografici con cui dialoga e il quadro socio-politico a cui allude (senza dimenticarci la ricezione scomposta determinatasi in Occidente), credo sia chiara qual è l’unica vera «condanna» emessa dal giudice che non vediamo (l’istanza narrante): la condanna a «ricostruire» senso mentre i personaggi distruggono parti dell’edificio e bruciano strutture portanti, la condanna ad «attraversare» territori esegetici senza che vi siano confini netti, portali di accesso, numi tutelati a proteggere chi viaggia. Se osservassimo la storia da un punto di vista delle teorie (e delle pratiche) della testualità letteraria (e cinematografica), potremmo raccontarla così: Rashōmon offre la lusinga di un’azione strutturalista in un testo dal profilo post-strutturale e decostruito. Il decostruzionismo, come è noto, è una corrente critica nata dai lavori di Jacques Derrida che si pone come strategia di superamento del modello finalistico della forma immobile, del testo come sistema chiuso e con un proprio senso originario (e vero). Le proposte del filosofo di origine algerina intendono viceversa porre l’attenzione sulla dimensione della scrittura, intesa come traccia, come segno grafico che differisce dall’ente che lo produce (e dalla sua presunta presenza e intenzionalità) 3. Da qui, ovvero da una scrittura come territorio dell’anonimia e dell’assenza, l’attività ermeneutica si fa lettura che non persegue una volontà onto-logica, che non ricompone valori e concetti universali (o trascendentali) ma che intercetta la différance, le aporie, le contraddizioni interne ai testi, i rimossi, i fantasmi. Nel limitato raggio d’azione concesso alla metafora dal pensiero derridiano 4 e in una funzione prettamente strumentale e retorica perché

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– è bene dirlo senza troppi fronzoli – collocare il decostruzionismo nel panorama culturale del Giappone è operazione tutt’altro che banale e richiederebbe altri spazi e altre priorità di analisi 5, potremmo affermare che il portale di Rashō è immagine figurata della scrittura come traccia senza origine e senza finalità. Nel nostro film, infatti, non esiste un senso ultimo e unico del racconto (il finale abbozzato certo non propone una lettura definitiva alle questioni esistenziali e filosofiche poste in precedenza). Esso è sostituito da una configurazione dei significati decostruita e destrutturata, evidente nell’accumularsi scomposto di reperti e rilievi e da una architettura filmica che fa acqua da tutte le parti. Proprio perché non si presenta come testo finito e autosufficiente (portale integro e pienamente in funzione), bensì come proposta parziale e incoerente (portale distrutto e travolto dalla pioggia), Rashōmon non aiuta l’opera del decostruzionista, ovvero di chi intende «disorganizzare» l’edificio filmico, per il semplice fatto che l’attività decostruttiva, in quanto già visibile nelle immagini, appare inutile o superflua, appare già lì. Al contrario, la parte diroccata del portale esorta all’azione (e conferma la convinzione) di colui che – con approccio strutturalista – prova a rinforzare basamenti, a sorreggere architravi o a disegnare confini e spazi uniformi, o, fuor di metafora, a proporre nuove e sempre diverse ermeneutiche, quasi tutte con l’ambizione di essere chiuse, ultime, risolutive. Pur essendo a tutti gli effetti un film chiuso come tutti gli altri, quindi con un inizio (il logo della Daiei), uno svolgimento e una fine (il carattere 終 che si sovrimpone sull’ultima inquadratura), Rashōmon inganna lo spettatore, lo spinge a

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farsi carpentiere e ricostruire senso, anche se ciò può determinare crolli, a farsi topografo (di geografie disciplinari diverse) e costruire mappe, confini, insiemi chiusi, anche se essi non precludono né attraversamenti pluridirezionali né la perdita di orientamento, proprio perché il primo spettacolo che mette in scena, al di là e ben oltre la storia narrata, è la propria apparente decostruzione, la propria cagionevole fragilità, la richiesta accorata di aiuto.

Equivalenze (non) funzionali Costretti a partecipare alla roulette ermeneutica di Rashōmon con scarse probabilità di vittoria, critici ed esegeti hanno puntato le poche fiche a disposizione sul numero tre. Tre sono infatti i principali luoghi del racconto, cui assegnare tre piani temporali distinti (il portale con i suoi commenti al presente, il cortile del tribunale con le sue testimonianze al passato prossimo, il bosco con le sue violenze al passato remoto); tre i sospetti (Masago, Tajōmaru e Takehiro), tre i personaggi del jiutai (il boscaiolo, il monaco, il viandante), tre i testimoni convocati dalla corte oltre agli imputati (il boscaiolo, il monaco, il poliziotto); tre i giorni che separano l’uccisione del samurai dalla celebrazione del processo, tre le identità sessuali espresse (maschile, femminile e transgender); tre i flashback di un’unica inquadratura che interrompono le dichiarazioni dei sospettati (Tajōmaru che corre a cavallo, Tajōmaru che beve alla fonte, lo specchio d’acqua dove Masago cerca il suicidio); tre gli ambienti acquei verso cui si dirigono i

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personaggi in fuga (il torrente dove si disseta Tajōmaru, il fiume dove si sente male, il laghetto dove Masago cerca la morte); tre i corpus artistici che contribuiscono all’ideazione del soggetto (il Konjiaku Monogatarishū, i racconti di Akutagawa, gli interventi ex-novo di Hashimoto e Kurosawa); tre gli ideogrammi che compongono il titolo del film e che compaiono, invertiti, sull’insegna del portale. Per farla breve: la ricorrenza del tre rappresenta una delle poche certezze di ordine matematico in mano all’analista 6. Eppure, se riproducessimo anche in questa sede il «gioco del tre» faremmo come quel giocatore d’azzardo che rischia la rovina perché crede di possedere sempre il numero vincente. Anche se meno visibili, operano nel racconto altre occorrenze numeriche, diverse da (e talvolta inconciliabili con) quelle finora scandite, di cui bisogna pur tenere conto. Quattro e non tre sono le versioni dell’omicidio, come quattro sono i possibili colpevoli perché anche il taglialegna è visibilmente implicato nella vicenda. Due e non tre sono i personaggi che danno il via al «primo giro» di flashback (il viandante ascolta o narra brevi episodi che non prevedono analessi); cinque e non tre (o sei) sono i personaggi dai quali ha origine il «secondo giro» di analessi (i tre indiziati, più il monaco e il poliziotto), poiché il primo flashback, quello del boscaiolo, non nasce diegeticamente da un racconto riferito nel cortile del tribunale, bensì sotto il portale di Rashō. Le quattro diverse ipotesi dell’omicidio giustappongono gli elementi di variabilità secondo assetti binari e non ternari. I flashback da un’inquadratura non sono tre ma almeno quattro, poiché anche l’in-

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contro del monaco con la coppia si risolve in un’analessi senza stacchi. Le inquadrature del cortile dei Kebiishi, benché fondate su tre piani volumetrici (selciato, muro, cielo) si dispongono su almeno quattro tonalità di grigi (Yoshimoto ne individua fino a sei), dal momento che l’ombra di un secondo muro idealmente posto dietro la mdp si premura di ricoprire parte dell’acciottolato dove i testimoni stanno seduti (fig. 6). Quattro (o cinque o sei) e non tre sono i personaggi che si riparano sotto il portale, poiché ai commentatori già individuati sono da aggiungere il neonato in fasce e, per qualche istante, forse, il genitore (o la coppia di genitori) che ha depositato il bimbo in un angolo dell’edificio. Bene, da questa sfilza di numeri e casi si può evincere che la chiave ternaria è sì indicativa dei dispositivi strutturali in atto, ma non è l’unica e la sola percorribile. Si aggiunga che la malleabilità (anche matematica) di Rashōmon nei confronti dei desiderata degli spettatori, la sua capacità di lasciarsi piegare, flettere, incurvare come più si vuole, sembra coniugare due aspetti tra loro antipodali: su un versante si staglia un paesaggio di cifre e conformazioni numeriche composite e sfuggenti, sull’altro agisce, senza attriti con il primo, un’impressione di accessibilità e comprensione ben sintetizzata dalla facile individuazione della chiave ternaria. È come se la presenza di un complesso algoritmo che regola il meccanismo narrativo sapesse interfacciarsi con la percezione di una soluzione dell’enigma a portata di mano o, meglio ancora, a portata di dita di una mano. In qualche modo, è quanto sostiene, pur con un altro periodare, Bazin:

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La qualità, l’originalità e l’importanza di un’opera come Rashomon sono profondamente disorientanti per la critica. In effetti essa getta di colpo lo spettatore in un universo estetico assolutamente orientale ma questo, con la mediazione di una tecnica cinematografica (fotografia e montaggio) che presuppone una solida e già precedente assimilazione di tutta l’evoluzione del cinema occidentale. In modo che entra senza difficoltà in un sistema completamente estraneo. […] I primi film giapponesi datano, pare, al 1920. La nostra sorpresa davanti a Rashomon è la lontana eco di quella del mondo occidentale davanti alla disfatta russa nel 1905 e più recentemente davanti a Pearl Harbor. Voglio dire davanti alla capacità dei giapponesi di assimilare le tecniche della civiltà occidentale, conservando la metafisica, l’etica o la psicologia orientali. Comunque sia, l’abilità della messinscena propriamente detta, in Rashomon presuppone non solo dei mezzi tecnici dello stesso genere di quelli di Hollywood, per esempio, ma un dominio totale delle risorse espressive del cinema. Il montaggio, la profondità di campo, l’inquadratura, i movimenti di macchina, sono adoperati in funzione del racconto con una libertà e una maestria equivalenti. 7

Al di là delle tensioni orientaliste presenti in queste come in altre frasi scritte all’indomani dell’uscita del film, Bazin ha il merito di individuare, fin da subito, l’interconnessione tra incredulità dello spettatore e ampiezza dell’esibizione tecnica in atto, situando il suo interesse critico all’interno dell’orizzonte emotivo (caldo) della fruizione, piuttosto che in quello speculativo (freddo) della interpretazione. In altri termini, ogni stilema, in quanto espressio-

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ne di una téchne, di un «saper fare» e un «saper operare», coinvolge, interroga, stimola il dominio del sensibile prima ancora che quello intellettivo. Si verifica infatti un fatto curioso ed emblematico. Il film mette in scena l’incapacità di capire e comprendere un evento (una sorta di scacco ermeneutico) attraverso la perizia, l’abilità, il talento della sua messinscena. In tal modo viene prodotto un cortocircuito di senso che da una parte amplifica la fatica della comprensione («sa fare» bene un «non saper far capire»), ma dall’altra, e nel contempo, la bilancia coinvolgendo lo spettatore nel piacere dell’esibizione tecnica, del meccanismo formale colto nella sua migliore performatività. Per usare una metafora scacchistica, possiamo dire che lo scacco del «non saper capire» viene ribattuto da chi guarda (almeno parzialmente e con una certa dose di soddisfazione emotiva) dall’arrocco di un vedere «saper fare». In effetti, a scandagliare le soluzioni formali presenti nel film, ancora oggi ci si sorprende non solo per la «totale conoscenza e possesso delle risorse espressive del cinema» (sappiamo ormai da lungo tempo che il cinema giapponese aveva già negli anni ’20 e ’30 una «coscienza» linguistica e narrativa pari a quella delle cinematografie occidentali), ma anche per il numero di figure espressive presenti all’interno di ogni singola sequenza o addirittura di ogni singola inquadratura. Facciamo il caso dei movimenti di macchina cui ricorrono Kurosawa e Miyagawa nelle sequenze del bosco: per penetrare la fitta vegetazione si servono di carrellate in avanti, indietro, laterali da destra verso sinistra o da sinistra verso destra, panoramiche verticali dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto, orizzon-

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tali destra/sinistra e sinistra/destra, panoramiche pendolari, circolari, a schiaffo destra/sinistra e sinistra/destra, movimenti con la macchina a spalla, dolly e gru, recadrage, in una sinfonia di traiettorie e abbrivi spesso arricchita dal fatto che tali occorrenze vengono coniugate insieme (ad esempio carrellate con panoramiche) o costruiscono rapporti di contiguità/contrappunto con i movimenti in campo e in fuoricampo dei personaggi. Scorrendo l’elenco di «variazioni sul tema» si scopre che tale mutevolezza non istituisce sempre ferrei legami di urgenza con le situazioni narrative rappresentate (non sono quindi tutte diegeticamente necessarie), e si propone invece come una sorta di catalogo dei possibili movimenti di macchina impiegabili in una medesima circostanza drammatica. Come fosse un listino, un inventario, un repertorio di quegli «equivalenti funzionali» di cui parla David Bordwell a proposito del cinema classico americano, con la sola e non innocua differenza che qui li troviamo esposti, tutti assieme, nella vetrina di uno stesso film, senza che l’uno escluda la partecipazione e l’azione dell’altro 8. D’altronde, questo stesso sforzo (o sfoggio) per saggiare ogni possibilità espressiva che la tecnica offre è riscontrabile in quasi tutti i frangenti della significazione rashōmoniana, dall’angolazione delle inquadrature (dall’alto verso il basso, dal basso verso l’alto, frontali, laterali, trasversali, di nuca, ad altezza tatami, aeree ecc.), alla scala dei piani (si va dai campi lunghissimi ai dettagli di mani, occhi, oggetti), dall’illuminazione (dalla più espressionista a quella naturale, dal gioco dei chiaroscuri a quello dei contrasti, da immagini opache ad altre sovraesposte), alla composizione del quadro (da inquadra-

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ture piatte, senza prospettiva a giochi di quadro nel quadro) fino al commento musicale extradiegetico (si va da sequenze che presentano sonorità proprie della musica classica europea ad altre, ad esempio nel corso dei titoli di testa e di coda, che propongono melodie appartenenti alla tradizione autoctona, ad altre ancora, come la nona, che ne sono del tutto prive). È, dunque, per merito dell’impiego quasi contemporaneo di tutte le armi significanti a disposizione, coniugato con la limitatezza degli spazi in cui esse vengono adoperate (i pochi m2 del portale, del cortile e del pianoro nel bosco) e la medesima situazione narrativa inscenata (il processo, la morte del samurai) che si riescono a mettere sotto stress le capacità percettive ed emotive dello spettatore. Tarare, infatti, il proprio campo visivo in funzione di un paesaggio morfologicamente sfuggente e in continua trasformazione, alla lunga logora gli strumenti che consentono l’orientamento e riproduce una sensazione di smarrimento e confusione, come quella ammessa dallo stesso Bazin 9. Tale intensificazione percettiva viene sollecitata anche dai processi di negoziazione che ogni stilema utilizzato attiva con il resto della morfologia testuale in essere. L’ampio numero di carrellate e panoramiche e l’estrema versatilità delle stesse, ad esempio, richiedono, in sede di tournage, una maggiore e più stringente attenzione alla modulazione del montaggio interno, attenzione che a sua volta richiede abilità nel gestire configurazioni plastiche o prospettive scopiche che si raddoppiano o triplicano all’interno dello stesso piano. Prendiamo il caso più appariscente (anche se ovviamente non l’unico) presente nell’inq. 392, una panora-

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mica orizzontale sx/dx che compare nella parte finale del film quando il conflitto e le divergenze tra il monaco senza fede, il vagabondo cinico e il taglialegna smarrito sono al loro acme. A causa di un brusco movimento di macchina laterale, passiamo in pochi istanti dal MPP del monaco piangente appoggiato a una colonna (che copre la metà destra del quadro) alla FI del taglialegna demoralizzato che si trova in piedi al centro del portale (con la stessa colonna che ora copre la metà sinistra del quadro) (figg. 7 e 8). Pur in assenza di stacchi, le due mezze-inquadrature qui descritte si rivelano tra loro autonome (e contrapposte) per angolazione di ripresa, scala dei piani, composizione volumetrica. Sono, nel contempo, un «finto» eppure «vero» campo e controcampo. Sono piani che contrattano la propria presenza all’interno di un unico e ristretto spazio diegetico che integra attriti e addomestica specularità. La conseguenza di tale logica è una scrittura che dà asilo (politico), che accoglie ogni traccia significante bussi alle porte del quadro, purché non ne escluda altre. Quelle eventualmente estromesse agiranno comunque dal fuoricampo, dall’ellissi, dall’extradiegetico: capita alle «foglie» di luci e ombre che danzano sui volti e i corpi dei personaggi nel bosco (si pensi alla sequenza in cui Tajōmaru incontra per la prima volta la coppia), effetti di un dinamismo che è esterno all’immagine ma che nell’immagine chiede di poter entrare e di poter lasciare la propria traccia; capita ai rivoli di pioggia che percorrono le inquadrature «consapevoli» della loro transitorietà, eppure decisi a cambiare, anche solo per pochi istanti, gli equilibri plastici del quadro (i riferimenti alle sequenze ambientate sotto il portale); capita al cadavere che si tro-

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va accanto ai testimoni al processo, poco fuori dal quadro e quindi invisibile al nostro sguardo, e che tuttavia esercita un’influenza sui loro (e i nostri) sentimenti, sul loro (e il nostro) bisogno di accusarsi e autoassolversi. A tal proposito, vale la pena ritornare un’ultima volta sui titoli di testa perché la loro funzione premonitrice e preconizzatrice agisce non solo sul piano simbolico o narrativo, ma anche su quello compositivo. Se si studiano graficamente le undici tessere che compongono il «puzzle» iniziale si scopre che esse non si accontentano di predisporsi secondo motivi e linee di forza diseguali, ma che ricercano una sorta di confronto interno ed esterno (ovvero in rapporto alle dinamiche della messa in quadro e in serie) teso a non escludere nessuna configurazione visiva possibile. A forme geometriche «solide» (le colonne, le architravi, le gradinate) si giustappongono infatti scorrimenti «liquidi» (la pioggia, le pozzanghere, i rivoli d’acqua sui tetti), a piani costruiti con volumetrie definite (quelli ad esempio che ospitano in primo piano le colonne dell’edificio) se ne accostano altri con reticolature quasi distopiche (i tetti divelti, i capitelli a terra), a spazi aperti a più piani prospettici e a diversi giochi di quadro nel quadro se ne accoppiano altri schiacciati e privi di profondità (i dettagli della scalinata). Qualche lettore potrebbe considerare la dialettica or ora descritta in termini ejzenštejniani, ovvero come una rimodulazione del cosiddetto «montaggio delle attrazioni», con inquadrature-cellule che si scontrano tra loro in funzione grafica per produrre senso, verità e pensiero 10. A mio avviso, non è così. Con Rashōmon siamo già entrati, di fatto, in un paesaggio figurativo postbellico do-

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ve non vi sono più conflitti (almeno non tra assiologie e ideologie), dove è visibile solo quel che resta di un qualcos’altro che non è più, ovvero residui e ruderi, strutture risparmiate e vestigia, tracce di storia, di memoria 11, mentre ciò che non si vede – la città, il giudice, il cadavere, lo stupro, il taglialegna nascosto che osserva la scena del delitto, il bambino abbandonato dai genitori e così via – acquista medesimo valore di quanto è mostrato, o forse ancora di più: acquista lo statuto di una nuova possibile storia da narrare, di una nuova voglia di racconto o di ripresa da coltivare. Insomma, la complementarietà degli opposti non produce verità e significati (come nel montaggio intellettuale), ma si limita a marcare la fatica della disponibilità, l’attrito che ogni traccia significante produce nel suo accedere al perimetro del quadro e negoziare la propria funzionalità con le altre già presenti. E, inoltre, segna la forza di tutto ciò che resta fuori. In definitiva, un listino, un repertorio, un’antologia di stilemi e tecniche, ostentati tutti insieme, ci fanno capire che ciò che serve davvero forse non è esposto in vetrina, che le equivalenze non sono mai pacificate, mai del tutto funzionali, se per funzione intendiamo quella della chiarezza, quella della decodifica.

Ripetizioni e scarti Su una seconda asserzione non si è ancora dibattuto. Quando Bazin parla di disorientamento non si riferisce solo all’«abilità della messa in scena propriamente detta», ma anche al fatto che lo spettatore è immerso in «un uni-

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verso estetico assolutamente orientale ma vicino» (corsivo nostro). C’è, come si diceva, una percezione di accessibilità, di vicinanza, che aleggia sul racconto e che non sembra lasciarsi corrompere né da una morfologia composita e sfuggente, né da una narrazione frammentata e discontinua. L’andirivieni tra diverse ambientazioni e tempi filmici produce un effetto ping-pong di stordente vivacità. Inoltre l’intreccio, con le sue quarantuno transizioni spaziali e quarantanove break temporali, esclude ogni miraggio di linearità e concausalità se è vero che anche i passaggi più coerenti del plot o sono messi in discussione dalle successive versioni dei fatti (il ritrovamento del cadavere da parte del taglialegna) o godono di concatenazioni di comodo (a pensarci bene, gli interrogatori nel cortile della prigione potrebbero avere, almeno ipoteticamente, una scansione diversa da quella che ci viene presentata). Ciò nonostante, quando si va al centro del misfatto (nel cuore del bosco) ci si accorge che «il dissenso tra le storie riguarda solo l’omicidio, mentre sull’attacco e sulla violenza sono tutti d’accordo» 12. Ora, per quanto Richie non sia preciso nella ricostruzione delle opinioni (i testimoni ad esempio non concordano tra loro sul fatto che Masago sia o no consenziente durante il rapporto sessuale con Tajōmaru), ha ragione quando afferma che solo una piccola parte del plot beneficia di plurime rappresentazioni visive e che solo alcune circostanze evenemenziali sono soggetto di disputa processuale, mentre le restanti, che sono ben più numerose, sono raccontate una volta soltanto dai sospetti e quindi sono teoricamente attendibili perché accettate dalle parti.

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In effetti, analizzando con cura i quattro flashback, si nota che le divergenze tra i testi riguardano soltanto sei passaggi del misfatto: il tipo di rapporto sessuale; la determinazione del movente; la dinamica della morte del samurai; la modalità di fuga di Tajōmaru; la modalità di fuga di Masago; la fine del pugnale. Non deve sfuggire al lettore che questa bassa «percentuale di indeterminatezza» della fabula è probabilmente la migliore eredità del setsuwa originale, le cui successive manipolazioni e riscritture hanno saputo o dovuto preservare. Ne emerge un quadro di «variabili» tutto sommato ristretto. Vediamo quali sono: – Il rapporto sessuale. (1) Tajōmaru lo descrive come un amplesso, almeno da un certo punto in poi, consenziente. (2) Masago racconta invece di essere stata presa con la forza. Takehiro che parla attraverso la medium e il boscaiolo non esprimono un’opinione chiara sulla natura dell’accoppiamento, ma si può dedurre dalle rispettive parole che (3) il primo aderisce alla versione di Tajōmaru (non si giustificherebbe altrimenti la rinuncia alla vendetta e il suo essere pervaso da una disperazione tale da spingerlo al suicidio) e (4) il secondo alla versione di Masago (altrimenti non si spiegherebbero le suppliche che poi il bandito rivolge alla donna per convincerla a sposarlo). – Il movente. (1) Per Tajōmaru è la donna a indurlo, con insistenti preghiere, al duello; (2) per Masago sono gli sguardi algidi del samurai a portarla a una disperazione tale da provocare il suo svenimento poco prima o durante l’accoltellamento (la confessione della donna è, in tal senso, ambigua e lacunosa); (3) per Takehiro è l’empia crudeltà della moglie a motivare il seppuku; (4) per il tagliaboschi è la

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donna a canzonare entrambi gli uomini fino a costringerli a combattere. – La dinamica della morte di Takehiro. (1) Dopo un duello lungo e coraggioso; (2) per mano della moglie disperata; (3) a causa di un suicidio; (4) dopo un lungo e pavido duello. – L’uscita di scena di Masago. (1) Durante il combattimento; (2) dopo l’omicidio; (3) prima del suicidio; (4) dopo l’omicidio. – L’uscita di scena di Tajōmaru. (1) Dopo l’omicidio; (2) prima dell’omicidio; (3) prima del suicidio; (4) dopo l’omicidio. – Il destino del pugnale. (1) Se ne perdono le tracce; (2) è Masago a servirsene per uccidere il marito; (3) è Takehiro a usarlo per uccidersi prima che una mano misteriosa lo estragga dal suo petto; (4) non se ne fa cenno. Tradotte in tabella le dialettiche evenemenziali descritte riproducono uno schema di questo tipo 13:

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Sono almeno tre le deduzioni narratologiche che si possono evincere dallo schema. La più ovvia riguarda le corrispondenze tra la prima e la quarta versione e tra la seconda e la terza. Le occorrenze delle lettere A e B ci ricordano, infatti, che la testimonianza di Tajōmaru «dialoga» con quella del boscaiolo, mentre quella di Takehiro si specchia in quella di Masago. In termini indiretti significa che il bandito e lo spaccalegna si misurano sul versante del valore penale del gesto (il furto, l’omicidio, la fuga), il marito e la moglie su quello sentimentale e coniugale (il tradimento, la fiducia, l’abbandono, la vendetta). Da qui nasce la sensazione che le opposizioni in atto siano meno antipodali e tra loro più contigue di quanto supposto in un primo momento, se è vero che anche il tagliaboschi è un ladro come Tajōmaru e che il rapporto di coppia si incrina perché entrambi i partner riversano sull’altro le responsabilità della rottura, replicando la medesima, anche se speculare, reazione. D’altro canto, dallo sfondo di un’intelligibilità generale, spicca il pronto agire di uno scarto, di un capovolgimento dei rapporti di forza, di un articolarsi diverso nella reazione di un personaggio, da cui erompono, a seguire, variazioni nel contempo comprensibili (perché provengono da configurazioni narrative già date) e sbalorditive (perché in un attimo ribaltano gli assunti di partenza). Traducendo in «metrica» e un po’ strumentalmente la tabella della pagina precedente cominciamo da una «rima» alternata (1: A B a b), per passare a una incrociata ma capovolta (2: A B -B -A) e a una analoga ma con un principio di indeterminazione (3: A b -B -A), per proseguire con una «rima» alternata ma alterata (4: A B C B) e con una incrociata e finalmente «ortodossa» (5: A B B A),

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per poi finire con una «rima» di nuovo incrociata ma con un doppio motivo di indeterminazione (6: a B -B a). Ne consegue che nessuna delle occorrenze riproduce una scansione identica alle precedenti o successive creando un andamento variabile che determina, oltre ad alcune interessanti corrispondenze 14, un gioco di ripetizioni e scarti che comunicano familiarità e accessibilità scopica da una parte, variazione e volubilità dall’altra. Se questo ragionamento è plausibile per il piano narrativo, lo è ancora di più per quello formale. Torniamo ai movimenti di macchina, limitandoci a commentare, per ragioni di spazio, solo i casi in cui vengono coniugate insieme, nel corso delle sequenze del bosco, carrellate e panoramiche. – Inq. 51. Carrellata laterale sx/dx e panoramica 180° dx/sx. La mdp si avvicina, incrocia e si allontana dal taglialegna che cammina, a passo spedito, lungo il crinale di una montagna. Nell’allontanarsi la cinepresa ruota su se stessa per mantenere al centro del quadro il boscaiolo sempre più lontano. – Inq. 86. Carrellata in avanti e panoramica laterale di 90° sx/dx. Tajōmaru dormiente è mostrato frontalmente in FI. La mdp lo affianca fino a riprenderlo di profilo e in MPP. In secondo piano spunta la coppia di sposi a cavallo. – Inq. 102. Carrellata laterale dx/sx e panoramica laterale di 90° sx/dx. Tajōmaru in MF di profilo guarda passare la coppia a cavallo. La mdp si allontana da lui fino a riprenderlo in CM, prima di spalle e poi frontalmente. In secondo piano la coppia si allontana a cavallo in direzione opposta a quella della mdp. – Inq. 159. Carrellata in avanti e panoramica laterale di 180° sx/dx. Masago sta osservando, ripresa in MF, il marito, in

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secondo piano, legato a un albero. La mdp le si avvicina, la circonda fino a mostrarla frontalmente in MPP. – Inq. 255. Carrellata in avanti e panoramica laterale 180° dx/sx. Masago in MF offre il pugnale al marito (collocato di spalle e in MPP) affinché la uccida. La mdp avanza fino al volto della donna, quasi accarezzandolo, poi si volta fino a riprendere in MF il marito che guarda in maniera sprezzante la moglie (di spalle e in MPP). Dopo pochi secondi la donna attaccherà Tajōmaru con il pugnale. – Inq. 304. Carrellata in avanti e panoramica laterale 90° sx/dx. Takehiro è ripreso di spalle in MPP, davanti a lui in CM Tajōmaru che blocca Masago a terra schiacciandola con la gamba. La mdp avanza e panoramica fino a riprendere in PP ma di profilo Takehiro che guarda verso il FC. La voce narrante della medium informa lo spettatore che Takehiro perdona Tajōmaru per questo gesto di ribellione ai voleri della donna. Basta descrivere il découpage dei piani per accorgersi che non c’è movimento uguale all’altro. Se la macchina si muove da sx a dx in un caso (inq. 51) lo fa da dx a sx in un secondo (inq. 102), se avanza in profondità alcune volte (inqq. 86, 159, 255, 304), nelle restanti si muove orizzontalmente (inqq. 51, 102), se gira di 90° in tre occorrenze (inqq. 86, 102, 304), tocca i 180° nelle altre tre (inqq. 51, 159, 255), se panoramica verso destra in quattro casi (inqq. 86, 102, 159, 304), sceglie la sinistra negli altri due (inqq. 51, 255). Ne consegue un catalogo, l’ennesimo, in cui ogni occorrenza assomiglia, ma a guardar bene, si distingue da quella precedente. Anche le inqq. 86 e 304, pur simili per struttura, si differenziano per la diversa scala dei piani (una FI contro un MPP) e per la diversa direzionalità del

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profilo dei due uomini, il primo che guarda verso destra, il secondo verso sinistra. Ancora più emblematico è un secondo tratto retorico che ritroviamo nei quattro brevi segmenti in cui un personaggio attraversa di corsa il bosco: – quando il boscaiolo si precipita dalla polizia per denunciare il ritrovamento del cadavere (inqq. 66-68), – quando Tajōmaru corre dalla coppia per proporgli l’affare (inqq. 106-108), – quando il bandito torna da Masago dopo aver legato Takehiro (inqq. 130-132), – quando Tajōmaru, portandosi dietro Masago, corre verso il pianoro dove è prigioniero il samurai (inqq. 147-149). Tutti e quattro i passaggi si compongono di tre brevi inquadrature dei personaggi di profilo, tra loro giustapposte con raccordi sull’asse disorientanti. Parlo di raccordi sull’asse perché, grazie alla particolare condizione di «indeterminatezza» dello sfondo boschivo che scorre veloce dietro i personaggi, cambia la scala dei vari piani che si succedono, ma il soggetto viene ripreso dalla medesima angolazione (ovvero lateralmente). Sono altresì cosciente che la definizione scelta è tecnicamente errata perché quelle che scorrono davanti ai nostri occhi sono anche veloci carrellate laterali che mutano il materiale profilmico e modificano la posizione della mdp rispetto a esso. Insomma sono carrellate usate come fossero raccordi sull’asse. Lo stratagemma è probabilmente una delle «invenzioni» più strabilianti del film, insieme alle celebri inquadrature del sole. Eppure Kurosawa non si accontenta di ripetere quattro volte la medesima scansione, ma cerca immediate controprove e riscontri di efficacia

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espressiva, modificando o alterando le occorrenze che le compongono. Nel primo caso, quando il boscaiolo corre dalla polizia, l’uomo è in FI nella prima inquadratura, in MF nella seconda, e infine in MPP nella terza. Nella seconda occorrenza, quella di Tajōmaru che raggiunge la coppia, il bandito è seguito in FI da una carrellata mentre scende lungo un pendio, poi in MF, e infine è ripreso in CM, mentre sale una collinetta grazie a una panoramica verso l’alto. Nel terzo segmento, quando Tajōmaru corre da Masago, abbiamo una MF dell’uomo, poi un suo MPP, e infine un CM che allontana improvvisamente la mdp dal soggetto. Nel quarto brano, quando Tajōmaru e Masago corrono da Takehiro, viene mantenuta sempre la stessa distanza dai personaggi, ripresi in MF, ma cambia il soggetto ripreso, che passa dal busto del bandito, a quello della moglie, e, infine, al dettaglio del cappello che si impiglia su un ramo. Si noti, infine, che per due volte i personaggi corrono verso destra (nel primo e nel terzo segmento) e altre due volte verso sinistra (nel secondo e nel quarto) e che l’inserimento di una dissolvenza a tendina «accompagna» l’uscita di campo del boscaiolo nella prima occorrenza e l’entrata in campo di Tajōmaru nella terza.

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Disponendo nello spazio grafico questa soluzione retorica, si può, una volta di più, visualizzare la volubilità rashomoniana e toccare con mano una percezione spettatoriale affaticata e spossata dal fatto di dover continuamente tarare le coordinate della visione in funzione degli aggiustamenti proposti da questo o quello stilema. Ripetizioni e scarti. Familiarità e straniamenti. Si aggiunga che l’invenzione di questi strani «raccordi sull’asse», la cui filosofia è riproposta in altri casi analoghi 15, ha un che di sintomatico. Quello sull’asse è il raccordo che, più di ogni altro, dovrebbe garantire uniformità allo sguardo della macchina da presa (e dello spettatore) e coerenza allo spazio diegetico. In teoria assicura uno stacco «pragmatico», in quanto risparmia il tempo narrativo che una carrellata in avanti fatalmente ruberebbe. Nel nostro caso, invece, la sua funzione viene corrotta dall’interno: in apparenza, le informazioni che presenta sono sempre chiare e comprensibili, il risparmio pragmatico resiste, eppure tanto il soggetto osservante quanto l’oggetto osservato finiscono per avere configurazioni inafferrabili. Per sfuggire a una stabile e sicura collocazione nello spazio profilmico. Da un certo punto di vista, anche questa è «induzione» all’ermeneutica: l’omogeneità di facciata persuade lo spettatore a trattare le occorrenze che si reiterano come fossero rime baciate o alternate, senza accorgersi che le consonanze sono solo alluse, sostituite da enjambement che collocano parti del senso del discorso in una nuova frase, in un nuovo verso, in un nuovo movimento.

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Riconoscere l’ambiguità Vi è allora qualcosa che non funziona nella relazione tra dati a disposizione (matematici o metrici), percezioni offerte dallo sguardo e reali ricadute di senso e conoscenza. Viene da chiedersi: ci si può fidare di quanto vedono i nostri occhi? Chi si è occupato di psicologia della percezione nell’arte e nella cultura visuale (occidentale) risponderebbe in maniera affermativa alla nostra domanda, a patto che siano fatte salve determinate condizioni. Come ha cercato di dimostrare Gombrich 16, di fronte a un quadro o a qualsiasi altra situazione visiva (film compreso), chi osserva mette in pratica precise strategie volte a gestire i molteplici impulsi sensoriali che riceve: ricerca costanti (ovvero meccanismi di stabilizzazione dell’immagine), maschera o rielabora determinate informazioni ottiche che non aderiscono alle proprie attese (alterando ad esempio la percezione di profondità in caso di cambiamenti di illuminazione o di scala), pratica una continua ed elastica traduzione in codice degli spunti che offre l’esperienza visiva. In estrema sintesi riconosce, rievoca, distingue in virtù della propria capacità di fondere configurazioni dissimili dell’esistente, bypassando i limiti del proprio apparato percettivo e le contraddizioni insite nel dato fenomenico. Percepisce selezionando solo le informazioni che sono tra loro coerenti e che assicurano la funzionalità dello sguardo. Per quanto complesso, tale meccanismo ottico-mentale – prosegue lo storico dell’arte viennese – è altresì semplice da interrompere o far inceppare, ricorrendo ad esempio al travestitismo, sostituendo un volto con una maschera o

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isolando un carattere dal suo contesto. Partendo dall’assunto che è solo attraverso l’interazione di innumerevoli stimoli che è possibile orientarsi nel mondo con relativa facilità, Gombrich capovolge il luogo comune che vuole la separazione degli elementi come pratica di semplificazione ermeneutica, asserendo invece che «l’isolamento indebolisce il senso di famigliarità […] tende ad aumentare l’ambiguità […] e può davvero condurre alla trasformazione o per usare una parola più suggestiva alla trasfigurazione della realtà» 17. La fotografia è uno degli ambiti dove è più chiara l’ambivalenza del prelievo. Quel che è chiaro nel movimento (il senso dell’espressione del volto, lo scopo di un gesto, il contesto sociale o geografico dentro il quale un soggetto è inserito) diventa inafferrabile o traslato nell’istantanea. «Un’analisi dei ritratti fotografici ben riusciti conferma, infatti, l’importanza dell’ambiguità. Non vogliamo vedere il modello nella situazione in cui effettivamente si trovava, vogliamo riuscire a fare astrazione da questo ricordo e vederlo reagire a contesti reali più tipici.» 18 Detto altrimenti: l’ambiguità dell’isolamento è efficace solo se apre a una percezione che aderisce alle attese e ai convincimenti di chi guarda, altrimenti produce scompensi alla visione. Tali considerazioni ci accompagnano, passo dopo passo, nel cuore del bosco di Rashōmon. È indubbio che qui l’isolamento del gesto, che si realizza tramite i flashback, complica l’attività del soggetto interpretante anziché agevolarla. Di più: come possibili istantanee, le versioni dell’omicidio/suicidio interrompono e problematizzano i meccanismi di riconoscimento e rievocazione su cui si basa ogni

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pratica narrativa e li rendono incandescenti nella partita di giro che si attua tra istanza narrante, personaggi e spettatori. Questi ultimi accolgono l’anti-linearità del testo solo perché blanditi dalla lusinga di una facile soluzione dell’enigma, assicurata, in teoria, dall’isolamento dei gesti dei singoli. E viceversa, una volta caduti nel tranello e rinchiusi in un paesaggio dai tratti virtuali, fanno i conti con le fatiche che comporta discernere e distinguere, valutare e individuare senza avere a disposizione la pluralità di stimoli che consente l’orientamento. Le forme di astrazione narrativa e stilizzazione iconica di Rashōmon, a differenza di quella dei fotografi più raffinati, va quindi nella direzione di un capovolgimento dei nostri convincimenti. Estensione, ripetizione e scarto sono tutto fuorché strumenti che facilitano l’attività scopica, semmai la sfiancano 19. Si pensi all’uso centrifugo delle costanti diegetiche. Esse dovrebbero aiutarci a riconoscere e memorizzare volti, gesti, posture e invece si rivelano tra i principali dispositivi di disorientamento. Tutte le volte che Masago, ad esempio, si getta a terra piangente – le capita per ben sette volte – lo fa per motivi sempre diversi: per stanchezza dopo aver cercato di ferire con il pugnale Tajōmaru (inq. 175), per implorare il bandito affinché combatta contro il marito (inqq. 191-199), per sofferenza dopo essere stata violentata (inqq. 239-245), per sottrarsi agli sguardi algidi di Takehiro (inqq. 251-252), perché spinta a terra da Tajōmaru dopo avergli chiesto di uccidere il marito (inqq. 302-305), per angoscia e disgusto nei confronti di un Tajōmaru supplicante (inqq. 325-330), per disprezzo e denigrazione dei due uomini prima dell’ultimo duello (inqq. 346-349). Come possiamo riconoscerci in un gesto

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che ha un così alto numero di varianti motivazionali? Come discernere, selezionare, confinare se ogni costante figurativa o formale è «attraversabile», come il portale di Rashō, da ogni parte? L’ambiguità, insomma, è massima non perché sono massime le trasformazioni, ma perché sono appena percepibili e straordinariamente familiari. Eppure, nel momento in cui ricorriamo a un concetto come quello di ambiguità, dobbiamo tener presente che esso non è da considerarsi un fenomeno disdicevole nella struttura sociale, culturale e linguistica giapponese. Al contrario. Con il termine Aimai, che designa quella «condizione in cui esiste più di un significato possibile e che porta con sé mancanza di chiarezza, confusione e incertezza» 20, si individua un presupposto utile al mantenimento dell’armonia comunitaria, da perseguire nelle interrelazioni con chi non appartiene alla propria cerchia di persone. Questa parola indica più precisamente quella serie di regole di comportamento e forme comunicative di tipo allusivo che consente di porre in una posizione di riguardo il proprio interlocutore, confidando sulla sua attitudine a comprendere il senso di una conversazione a partire dal linguaggio non verbale e dall’atmosfera complessiva venutasi a creare. Prese di posizioni risolute e asserzioni dirette rischierebbero, al contrario, di pregiudicare i rapporti di natura gerarchica che s’istituiscono tra le persone, attraverso l’imporsi di soggettività che schiacciano il fluire dei significati. Ecco perché comunicare o comportarsi con ambiguità, adottare espressioni sfumate e ambivalenti, coltivare silenzi e attese, sono generalmente considerati atti positivi perché consentono alle opinioni di emergere

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spontaneamente. Il risultato è un confronto che non progredisce secondo le regole della dialettica ma della giustapposizione di formule e gesti che, pur nella loro condizione di ambiguità, restano prevedibili (almeno per coloro che li sanno decodificare) 21. Applicare tale sommario, semplificato e per certi versi opinabile 22 «quadro antropologico» alla realtà di Rashōmon ci trasporta in acque diverse da quelle finora navigate perché se un effetto di destabilizzazione esiste, esso va ricercato – almeno per il pubblico «originario» del film, quello giapponese dei primi anni ’50 – non nella presenza di comportamenti ambigui da parte dei personaggi, ma al contrario nell’accumulo di condotte fin troppo energiche e dirette, sintomi di soggettività multiple che intendono prevalere l’una sull’altra. Per quanto mediate e filtrate dal perimetro processuale in cui sono inserite, le variazioni dello spartito proposte da Tajōmaru, Masago, Takehiro e dal boscaiolo rompono di fatto con qualsiasi regola di comportamento e non contemplano alcun riconoscimento reciproco. Fanno terra bruciata di ruoli e posizioni sociali, accumulano espressioni esplicitamente esacerbate, si abbandonano a rivendicazioni solipsistiche. È bene notare ora che la strategia della ripetizione e dello scarto finisce per non lasciare spazio all’intuizione e all’allusione, al riserbo e alla mediazione. Di più: giustapponendo una dopo l’altra una serie di configurazioni dell’esistente già prefissate. Akutagawa prima e Kurosawa poi producono un accumulo di gesti troppo «parlati», tale da disturbare le condizioni dell’ascolto. È in fondo quel che sostiene, pur con altre parole, Davidson: «Il film è pieno di rumori e confusione. A

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parte le isterie della donna, molto chiasso è prodotto dalle risate denigratorie del bandito o dello straniero cinico […]. Si tratta, in sostanza, di comportamenti non rituali che offrono sgradevoli connessioni con il Giappone contemporaneo» 23. L’effetto di straniamento e di instabilità è, in definitiva, comune a vari tipi di pubblico, anche se le ragioni di fondo forse sono diverse. Coloro che sono abituati alla costruzione coerente e finalizzata dei comportamenti, vivono l’isolamento di alcuni gesti come una rottura dei meccanismi di riconoscimento e rievocazione. Coloro che sono abituati a dinamiche relazionali fondate sull’allusione e sul non detto, vivono il moltiplicarsi di atti manifesti e centrifughi come un cortocircuito eversivo che rende faticoso individuare persino quei vuoti e quegli spazi lasciati all’inespresso che dovrebbero assicurare un fluire più armonico dei significati. In entrambi i casi, a differenza di quello che affermano gli psicologi della percezione, è meglio non confidare troppo su quel che captano occhi e orecchie. E sulla capacità di filtro e decodifica dell’attività cerebrale.

Sguardi che distraggono, enunciati che rinunciano Comincia Tajōmaru, rammentando il primo incontro solitario con Masago in riva a un torrente dopo aver immobilizzato Takehiro (inq. 146): Il suo volto impallidì improvvisamente. Mi osservava con occhi di ghiaccio. La sua espressione era intensa come quella

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di un bambino. A quella vista ho invidiato l’uomo e improvvisamente l’ho odiato. E volevo mostrare alla donna quanto era patetico il suo uomo legato a quel pino. Quei pensieri che prima non c’erano mi riempirono la testa improvvisamente (fig. 9b).

Prosegue Masago, intenta a raccontare al giudice la reazione del marito una volta subita la violenza (inq. 248): Ancora adesso quando penso ai suoi occhi il sangue mi si gela in tutto il corpo. Quella che scintillava non era rabbia, né tristezza, ma una luce fredda, uno sguardo di disprezzo e nient’altro (fig. 9d).

Conclude Takehiro (attraverso la mediazione della sensitiva), commentando la reazione positiva della donna nei confronti delle avance del bandito (inqq. 288-292): A queste parole mia moglie alzò la testa e lo guardò come fosse in trance. Io… io non avevo mai visto mia moglie così bella (fig. 9e-f).

Quando si tratta di descrivere lo sguardo del partner, i tre sospetti scelgono di sottolineare il carattere disumano delle rispettive espressioni: Tajōmaru è costernato dagli occhi di ghiaccio di Masago, Masago dallo sguardo algido di Takehiro, Takehiro dallo stato di trance di Masago. Sono sguardi che non prevedono riconoscimento reciproco e che, difatti, non beneficiano di un controcampo, di un riscontro della parte avversa, di una corrispondenza scopi-

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ca. Sono costruiti attorno a congetture avanzate dal soggetto che osserva e che chiosa e sono quindi il risultato delle sue proiezioni più o meno oggettive, delle sue interpretazioni più o meno fondate, delle sue insinuazioni più o meno calcolate. E l’Altro, nell’impossibilità di controbattere tali asserzioni, si trova di fatto privato di un’identità, di un’autonomia di sguardo, di una coscienza di sé: Masago vive per Tajōmaru in uno stadio infantile e per Takehiro in una condizione di estasi; il bushi per la moglie è invece freddo, assente, inespressivo. Queste valutazioni, in parte «addizionali», poiché aggiungono caratteristiche non per forza presenti nell’interlocutore, in parte «additive», poiché adulterano l’idea dell’Altro, istituiscono un fertile contrappunto con tre sguardi «sottrattivi» e «soccombenti» degli stessi personaggi, poco prima o poco dopo le opinioni espresse a voce alta davanti al Kebiishi: – Il primo sguardo, quello di Tajōmaru, si riferisce a quando osserva la donna da lontano, nascosto sotto alcuni rami, sopra una collina. Nel momento in cui si rappresenta il più classico degli sguardi voyeuristici, attraverso alcuni campi/controcampi tra soggetto e oggetto della visione (inqq. 136-141), Masago improvvisamente scosta il velo e si volta nella direzione in cui si trova nascosto il bandito, il quale, per reazione istintiva, gira la testa e sposta lo sguardo altrove, come se temesse di essere scoperto nell’atto di spiarla (fig. 10). Lo sguardo di Tajōmaru, in altre parole, cerca di celarsi e, alla prova dei fatti, si sottrae meccanicamente, incapace di accettare la sfida sessuale che egli stesso ha lanciato. – Il secondo, di Masago, giunge quando la disperazione per il modo sprezzante e gelido con cui il marito la scruta

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è alla sua acme. Si allontana da lui, gli chiede di non guardarla così, di ucciderla piuttosto che mantenere il dispregio nei suoi occhi. Non ottenendo risposte, la donna si copre il volto con le mani per alcuni secondi e poi si getta a terra piangendo, celandosi allo sguardo dell’uomo (inqq. 250-251) (fig. 11). – Leggermente diverso è il terzo sguardo attivato dal samurai nel suo flashback. Non c’è un vero e proprio scambio, perché Tajōmaru e Masago non s’interessano all’uomo che assiste al loro adescamento. Takehiro, dal canto suo, legato a un tronco d’albero, quando vede la donna in trance e afferma la sua bellezza, chiude gli occhi per lo sconforto (fig. 9f). Quando li riapre, l’inquadratura successiva non ci mostra in soggettiva il suo sguardo, perché la macchina da presa viene collocata esattamente dal lato opposto: vediamo Takehiro (sullo sfondo) osservare (in primo piano) la moglie che accetta le avance del bandito. (inqq. 288-292). Nei primi due casi, il tentativo di guardare e di capire viene frustrato da una forma abborracciata di nascondimento messa in atto dal soggetto scopico (Tajōmaru e Masago) per manifesta incapacità di sostenere la reazione o l’ostinata irriducibilità imposta dal soggetto che subisce lo sguardo (Masago e Takehiro), nel terzo caso colui che guarda (Takehiro) viene colto in una posizione di marginalità (sullo sfondo) e di impotenza (abbassa gli occhi) rispetto alla coppia in primo piano. Più in generale, le tre «addizioni additive» verbali poc’anzi individuate e le tre «sottrazioni soccombenti» scopiche qui declinate sono la dimostrazione, simbolica e ottica, di una generale incapacità di «reggere lo sguardo». Di più. Scopriamo che i protagonisti ripro-

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ducono, nell’universo diegetico, quella stessa doppia azione di rottura dei meccanismi di riconoscimento e, insieme, di affermazione del dovere all’ermeneutica cui sono chiamati gli spettatori in sala. Si sarà notato, infatti, che i tre si coprono gli occhi, li chiudono o li abbassano poco prima o poco dopo aver giudicato lo sguardo altrui, disumanizzandolo, manipolandolo, sofisticandolo. Dicono di vedere quel che gli altri vedono, ma lo fanno poco prima o poco dopo aver chiuso i loro occhi. E così facendo, proiettano nel prossimo quel che non riescono a vedere. Sostengono opinioni senza controprove percettive. Fondano convinzioni pur rinunciando ai veicoli ottici che dovrebbero sorreggerle. Questo doppio movimento di sottrazione e addizione è d’altronde praticato, quasi fin da subito, anche dalla macchina da presa. Siamo nella seconda sequenza del film, durante la già citata camminata del boscaiolo. A un certo punto, nel corso di una lunga carrellata a precedere che inquadra in PP l’uomo (inq. 55), la musica extradiegetica s’arresta improvvisamente e lo stesso fa il protagonista lanciando un insistito sguardo in direzione del fuoricampo. Cosa sta osservando (fig. 12a)? La successiva inquadratura promette di offrire – in soggettiva – la risposta alla domanda: si vede distintamente sulla destra del quadro e in primo piano un cappello da signora appeso ai rami di un albero, primo oggetto indiziario dell’omicidio (fig. 12b). Peccato che, dopo qualche secondo, dall’indistinto fondale di foglie sbuchi fuori il nostro uomo, prima avvicinandosi al velo (fig. 12c) e poi saggiandone la consistenza con le dita. Quella che doveva essere la restituzione del suo «punto di vista» si rivela essere – ma solo dopo alcuni lunghi at-

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timi – una falsa soggettiva che presenta la configurazione di un campo scopico esterno, anzi opposto al suo. Così facendo, ci viene promesso e poi sottratto uno sguardo, per aggiungerne un altro per giunta capovolto, speculare e ancora additivo, mistificatore, perché non consente – almeno non subito – di percepire ciò che c’è da percepire (la presenza del boscaiolo) e quindi di capire cosa c’è da capire (la posizione dello spettatore nei confronti del materiale profilmico). La soluzione crea un divario tra vedere e sapere, tra forme del riconoscimento e formazione di un’identità propria o altrui. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la sequenza dentro la quale si colloca la falsa soggettiva è (almeno in parte) menzognera, di una menzogna poi ritrattata dal boscaiolo ma che, in questo momento, lo spettatore non può che prendere per vera, non sospettando l’inattendibilità del suo narratore. Una falsa soggettiva collocata tra altre possibili false oggettive continua a essere falsa, raddoppiando come dire il suo grado di falsità, o rimane vera, della verità della menzogna, della verità della rappresentazione? Eccoci finalmente al punto. Se non ci si può fidare delle immagini che vediamo, ci si può fidare di chi le racconta (i narratori intradiegetici) e soprattutto di chi ha la responsabilità di visualizzarle, la cosiddetta istanza narrante? E quest’ultima, in che modo gestisce – se lo sa fare – le dinamiche enunciative che servono per favorire i processi di ricezione del quadro comunicativo di un racconto? Cosa fa vedere allo spettatore, cosa sottrae al suo sguardo? Quelli appena enucleati sono interrogativi che si sono posti anche alcuni studiosi che hanno partecipato a un am-

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pio e acceso dibattito teorico animatosi nel corso degli anni ’80 e incentrato sull’attendibilità delle immagini e sulle modalità di enunciazione delle stesse. Taluni scegliendo proprio Rashōmon (insieme ad altri classici come ad esempio Paura in palcoscenico) quale materia di verifica empirica delle rispettive tesi. In quella sede ci si domandava, in sintesi, a chi assegnare la paternità e la responsabilità significante delle inquadrature, specie in film dove esistevano falsi flashback, dove narratori intra ed extradiegetici si sovrapponevano, dove il lavoro organizzativo dell’istanza narrante (la cui presenza era, peraltro, messa in discussione da altri teorici del periodo 24) non si distingueva immediatamente. Per ovvi motivi, qui non è possibile ripercorrere l’intero confronto, nondimeno può essere utile proporre una doppia argomentazione che, tenendo conto delle posizioni tenute in quella controversia, ritorni sulla difficoltà di assegnare un’identità enunciativa alle nostre immagini. Ad esempio, a tutti quelli che si sono chiesti se le immagini dei flashback di Rashōmon erano o no la visualizzazione precisa dell’immagine mentale o delle parole dei personaggi che testimoniano al processo e se quindi questi ultimi erano responsabili delle eventuali imposture in esse presenti, bisognerebbe ricordare che la maggior parte delle evocazioni visualizzate hanno una doppia stratificazione, vale a dire che sono il frutto – tranne in due casi, ovvero in entrambe le versioni del boscaiolo – di un prima serie di analessi che parte dal portale e giunge al cortile del Kebiishi e solo da qui, a un grado gerarchico sottostante, «degenera» nelle sequenze della foresta. Detto con uno slogan: quelli del bosco sono flashback di flashback. Si ag-

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giunga che, malgrado quel che pensano illustri studiosi, non siamo mai veramente sicuri su chi sia a narrare (dal portale) come si svolgono le deposizioni davanti al giudice. A ben vedere, infatti, le testimonianze del boscaiolo, del monaco, del poliziotto e di Tajōmaru (sequenze 3 e 4) non derivano dal racconto del taglialegna iniziato alla fine della prima sequenza, ma giungono solo dopo il filtro e l’interruzione della seconda (falsa) sequenza. E se è plausibile immaginare che le dichiarazioni rilasciate dal boscaiolo al magistrato siano il frutto del racconto del medesimo personaggio sotto il portale, nulla ci assicura su chi sia a rievocare le altre tre deposizioni: sempre il tagliaboschi, il religioso (magari solo per la sua deposizione), entrambi in compartecipazione? La successiva presenza al banco degli imputati di Masago sembra invece materializzarsi non dalle parole ma dallo sforzo mnemonico del monaco, il quale, nell’inquadratura che precede l’inizio del flashback, si limita a volgere uno sguardo assorto verso il FC, senza aprire bocca. Anche la sequenza in cui la medium offre corpo e voce a Takehiro per la sua deposizione non ha un narratore intradiegetico definito, ma si apre dopo che un fulmine cade a pochi metri di distanza dal portale (illuminando il tetto dell’edificio) e dopo che la mdp riprende l’onigawara colpito dalla pioggia battente. Anche in questo caso né il boscaiolo né il bonzo prendono parola 25. Ne consegue che il primo giro di analessi si presenta almeno in parte indeterminato, perché è impossibile assegnare «paternità» enunciative certe e, dunque, valide patenti di attendibilità alle immagini. Detto altrimenti: così come i tre indagati hanno offerto al giudice versioni dei fatti cariche di rimo-

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zioni, esagerazioni, semplificazioni e proiezioni dei propri vissuti, anche il monaco e il taglialegna potrebbero aver adottato analoghe tecniche di contraffazione narrando i fatti processuali al viandante e, indirettamente, allo spettatore in sala. E, se così fosse, ci troveremmo innanzi a una questione irrisolvibile: le bugie proferite da Tajōmaru, Masago e Takehiro sono frutto del loro sforzo autoassolutorio o, almeno in parte, sono anche l’esito di «errori di trascrizione» e «pratiche di adattamento» dei primi narratori intradiegetici? Malgrado sia difficile conferire a qualche soggetto intradiegetico la responsabilità significante di versioni dei fatti che altro non sono che ipotesi di configurazione del resoconto di un resoconto, anche accontentarsi di attribuire l’onere e l’onore della visualizzazione dei flashback a un’istanza narrante astratta, quindi terza e indipendente, pienamente cosciente, non pare scelta che ci conduca in territori analitici più sicuri. Certo, la tesi è perorata dalla maggior parte dei narratologi. Per Jost: Ogni racconto è a focalizzazione interna: il personaggio dà conto del proprio modo di vedere le cose e di ciò che sa degli avvenimenti. [E tuttavia] nella misura in cui i quattro personaggi intervengono nella rappresentazione visiva della morte del protagonista, sembra di essere in presenza di una ocularizzazione esterna o zero. Lo prova il primo racconto del boscaiolo. […] I movimenti della macchina, che non si modellano su ciò che accade nell’immagine ma seguono un percorso autonomo, così come gli angoli di ripresa, tradiscono la presenza di un’altra istanza assente dall’immagine – un altro

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grande venditore di immagini – che si serve a momenti delle marche dell’inquadratura soggettiva definite sopra. 26

Per Bettetini: Ogni racconto vi si svolge dimenticando immediatamente la sua origine soggettiva e acquistando lo statuto di una mostra oggettuale. La problematica delle diverse verità che costituisce uno dei temi profondi del film si involgarisce così nella semplice enunciazione di accadimenti diversi all’interno dello stesso evento. 27

Da questi come da altri interventi 28 si evince che la soggettività dei narratori intradiegetici (il boscaiolo, Tajōmaru ecc.) verrebbe oggettivata attraverso una messa in forma che non prevede quasi mai adesione tra ciò che raccontano i testimoni, ciò che vedono le loro «incarnazioni attanziali» (i narratori diventati personaggi) e ciò che mostra (e che sa) la macchina da presa. Pur tuttavia, se è vero che quest’ultima decide autonomamente come organizzare la narrazione, scegliendo il modo migliore per restituire sentimenti, convinzioni, bugie dei narratori intradiegetici, è anche vero che è proprio nel momento in cui stabilisce una separazione tra i suoi saperi e quelli dei personaggi che il gradiente enunciativo delle inquadrature – ovvero quel rapporto che si stabilisce tra immagine e punto di vista, tra contenuto della rappresentazione e «paternità», diegetica o meno, della sua enunciazione – si fa più sfumato e problematico. Antonio Costa ad esempio individua due passaggi molto interessanti a riguardo.

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Ci sono nel racconto del bandito e della donna due scambi campo/controcampo di una suprema ambiguità: nel primo caso un primo piano del bandito in tribunale appare come una soggettiva della donna nel bosco; nel secondo caso la donna in tribunale appare come una soggettiva del marito. Detto in altri termini dislocazioni spazio-temporali vengono raccordate con un procedimento che dà l’impressione di continuità, di intercambiabilità 29.

Costa si riferisce, guarda caso, alla coppia di inquadrature 145-146 (fig. 9a-b) e 247-248 (fig. 9c-d), due delle tre transizioni bosco/cortile ricordate a inizio paragrafo e, se avesse avuto coraggio di cercare un campo/controcampo ancora più eterodosso, avrebbe citato anche il passaggio 290-292, dove Takehiro appare nientemeno come una soggettiva della medium (fig. 9e-f). In effetti, il mantenimento della stessa scala dei piani (un primo piano o un mezzo primo piano) e il reticolarsi di sguardi che sembrano, almeno in parte, incrociarsi, non rompe la continuità narrativa, sebbene ci sia una rapida ma decisa transizione spazio-temporale. È come se passato prossimo e passato remoto della storia si accavallassero senza creare un distacco netto tra enunciatore ed enunciato, ma accentuando, viceversa, la permeabilità reciproca delle testimonianze. Quelle citate poc’anzi sono solo false soggettive, o ipotesi di soggettive. Esistono viceversa ocularizzazioni interne sintatticamente corrette che è ancora più illuminante analizzare. Vediamo le principali occorrenze: – La prima che incontriamo giunge al termine della seconda sequenza. Quando il boscaiolo ritrova il corpo del sa-

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murai, noi non vediamo quest’ultimo, ma l’espressione di spavento del boscaiolo, osservato in MF nientemeno che dalla prospettiva del cadavere (lo si desume dalle braccia mummificate che incorniciano il piano). Filologicamente parlando l’inq. 64 è una soggettiva a tutti gli effetti, ma di un morto. – Vi è un’altra soggettiva poco dopo (inq. n. 74) quando, nel cortile del Kebiishi, ancora legato e silente, Tajōmaru in PP volge lo sguardo verso l’alto. Il piano seguente è il particolare di un cielo rannuvolato riprodotto con un teleobbiettivo. Anche qui la sintassi è corretta, ma è la distanza tra i due piani e la focale scelta che creano destabilizzazione se non del valore enunciativo dell’immagine, certamente del rapporto tra sguardo del personaggio e proporzioni del suo orizzonte scopico. L’immagine poi è così estemporanea (nessun’altra ci mostrerà le nuvole che scorrono in cielo) che potrebbe appartenere a qualunque ambientazione, temporalità, sguardo (figg. 13 e 14). – C’è una terza più celebre soggettiva, di Masago, braccata da Tajōmaru poco prima dell’amplesso. Anche qui ci sono gli estremi per individuare uno stilema corretto: nell’inquadratura 183 vediamo la donna che, senza forze, si lascia baciare dal bandito, guardando nel vuoto; in quella successiva viene visualizzato ciò che guarda, ovvero le fronde degli alberi tra cui filtrano i raggi di un pallido sole. Dopo alcuni campi/controcampi, capiamo che Masago sta perdendo i sensi perché l’immagine delle foglie si sfoca (figg. 15 e 16). La peculiarità, in questo caso, è che «le soggettive non sono quelle di Masago, ma quelle che Tajomaru immagina appartenere a Masago. Sono sogget-

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tive consistenti perché ci dicono molto di più sul carattere di chi narra, Tajomaru, di quanto non dicano del carattere di chi guarda, Masago» 30. – Una quarta soggettiva compare nell’inquadratura 288, quando inizia la versione della medium. Vediamo, in campo medio, Masago e Tajōmaru l’uno di fronte all’altro. Dopo qualche secondo una carrellata indietro fa entrare in campo anche Takehiro, informando lo spettatore che sta osservando i due personaggi dal punto di vista del terzo incomodo. Questa soggettiva è significativa poiché si rivela «a scoppio ritardato» vale a dire solo dopo l’ingresso del samurai nel perimetro del quadro. È, infatti, grazie al movimento a retrocedere della cinepresa che la «falsa oggettiva» (una soggettiva mascherata da oggettiva) si trasforma in semi-soggettiva (un’inquadratura che, posizionata alle spalle di Takehiro, mostra l’uomo che guarda e il suo campo visivo, al centro del quale si stagliano Masago e Tajōmaru); ed è a partire da questa seconda parte di ripresa che possiamo dedurre di aver visto, nella prima parte e solo per alcuni istanti, i due amanti attraverso gli occhi disperati di Takehiro. – Altre soggettive interessanti in campo/controcampo sono quelle che si trovano nelle sequenze dei due duelli tra Takehiro e Tajōmaru. In entrambi gli scontri (inqq. 211-218, 359-362, 367-370), a un certo punto, i due contendenti si fissano l’un l’altro per riprendere fiato e attaccare con più vigore. In un segmento come nell’altro, lo scambio di sguardi viene visualizzato attraverso la giustapposizione di due o più camera look (figg. 17 e 18). L’utilizzo della soluzione espressiva (vedremo nell’ultimo capitolo altri e più signifi-

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cativi casi) ha anch’esso un effetto destabilizzante perché coinvolge una terza soggettività ipoteticamente invisibile, quella dello spettatore. Bastano i pochi casi qui riportati per dimostrare la fragilità di quasi tutte le soggettive proposte dai flashback, ancorché articolate secondo dinamiche linguistiche classiche e intelligibili. Vuoi perché presenta lo sguardo di un morto o di una persona che sta per svenire, vuoi perché coinvolge e trascina altri soggetti estranei alla finzione, vuoi perché è estemporaneo alla diegesi, vuoi perché attesta una soggettività solo quando questa ormai non c’è più, fatto sta che ogni point of view shot del film non ci offre mai lo sguardo di un individuo cosciente e, come se non bastasse, deborda spesso dai perimetri certi di questa modalità enunciativa, così fuggendo in un territorio narratologico indefinito o poco probante delle volontà personali in atto. Ancora una volta ciò che si vede e ciò che si percepisce non è ciò che si sa e ciò che si capisce, né per lo spettatore, né per la macchina da presa, né per il personaggio. Un analogo discorso, persino potenzialmente più esteso visto il maggior numero di casi riscontrabili, potrebbe essere svolto nei confronti delle oggettive, specie di quelle che contengono germi di soggettività non compiuta. Per non fare un altro lungo elenco, invito il lettore a cercare nel testo filmico alcune di queste occorrenze (o accontentarsi di quelle individuate nel prossimo capitolo) saggiando come l’occhio della macchina da presa, pur senza sposare lo sguardo specifico di un personaggio, sembri contaminarsi o alludere a qualche volontà soggettivante 31. Qui in funzione sineddotica ne ricordo solo una. Tajōmaru e Takehiro

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sono appena partiti per andare alla ricerca delle spade e degli specchi da scambiare. Masago è rimasta sola ad attendere i due uomini sulle rive di un ruscello. Il segmento inizia con una panoramica verticale che parte dalle fronde degli alberi e arriva al pianoro dove Masago attende, accanto al cavallo. L’inquadratura è leziosa: un cono di luce s’irradia dall’alto e investe dolcemente la donna; la foresta (vergine) sembra incontaminata come la donna; una dolce musica extradiegetica accentua il carattere serafico e celestiale del personaggio. Visto che i due uomini sono lontani, quella che vediamo è sicuramente una oggettiva, eppure gli elementi significanti appena citati sembrano riprodurre i sentimenti di infatuazione ed esaltazione di un Tajōmaru innamorato che «vede» la sua prossima conquista sotto una luce per così dire auratica (e deformante). Non è forse un’immagine della sua coscienza o della sua immaginazione? Per concludere il nostro ragionamento, possiamo affermare che la divaricazione tra percezione e conoscenza, già attiva nell’accumularsi delle forme espressive e nelle coscienze dei personaggi, trova nell’orizzonte enunciativo appena descritto il suo approdo inevitabile e definitivo. Tramite un certo numero di inquadrature sfuggenti, manipolate, ibride, ci viene restituito un universo diegetico che propone sguardi e sottrae i soggetti scopici o, viceversa, propone soggetti scopici e sottrae i loro sguardi. È ovvio che senza la possibilità di sapere chi sta vedendo, anche quel che sta vedendo assume i germi dell’indeterminatezza e altera gli abituali modi di comprensione e costruzione del senso. Faccio notare, a questo punto, che lo sfumare

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dell’oggettivo nel soggettivo (e viceversa) è in linea con una tendenza abbastanza comune nel cinema nipponico (e più in generale nella sua cultura figurativa), laddove individualismi, proprietà scopiche del soggetto, separazione tra un mondo oggettuale e un universo soggettuale sono categorie assenti o messe in discussione dalle epistemologie più diffuse 32. A ben vedere, è proprio qui che possiamo ritrovare quella rassicurante ambiguità, quell’aimai relazionale, assente nel comportamento e nelle parole dei tre sospetti. La condizione di indefinitezza si trasferisce, in altre parole, dal linguaggio verbale a quello audiovisivo, per mezzo di immagini nelle quali soggettività e oggettività si permeano vicendevolmente. Gli enunciati invece di enunciare, rinunciano a dire, a esplicitare chiaramente, a oggettivare o soggettivare con forza ciò che fanno vedere. Come se aderissero all’etichetta giapponese, le inquadrature di Rashōmon non impongono soggettività definite, bensì soggettività blande, dentro le quali si possono rispecchiare diversi soggetti; quando, invece, presentano presunte oggettività le disseminano di esche tali da escludere una sola giusta e obiettiva decodifica. Quel che qui conta sottolineare – per tornare agli interrogativi posti in apertura di capitolo e avviarci alla conclusione – è la funzione destrutturante e insieme necessaria di queste esche, di questi territori morfologici, narrativi ed enunciativi, sfuggenti. I meccanismi di divaricazione tra percezione e conoscenza funzionano, infatti, solo se i «non capisco» del boscaiolo coinvolgono, implicano, afferrano lo spettatore fino a distrarlo, solo se la promessa di un’addizione (la risposta a un mistero) produce la certezza di

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una sottrazione (la certezza di un senso). L’esperienza del taglialegna è da questo punto di vista esemplare per la sua analogia con quella dello spettatore. Nella sua prima camminata il boscaiolo ci rammenta di non essere un vero detective poiché non segue piste che lo conducano alla soluzione dell’enigma che lo attende. Al contrario. Una volta imbattutosi nel cappello di Masago, si incuriosisce, certo, si guarda intorno, ovviamente, ma sempre senza sapere bene dove rivolgere lo sguardo, senza sapere esattamente dove sta andando. È probabile, ad esempio, che speri di incontrare una bella donna, senza cappello e forse senza altri indumenti. Proseguendo la marcia, rinviene altri oggetti non perché è un abile cercatore, ma perché vi si imbatte casualmente. Li tocca, ne saggia la consistenza e tuttavia non è in grado di farli parlare tra loro e di ricostruire un tracciato di fatti, di prefigurare un evento. Così, quando alla fine del suo tragitto scopre il cadavere – ed è qui il punto – lo fa perché sta guardando nella direzione sbagliata, ovvero verso l’amuleto abbandonato a terra, e perché ci inciampa sopra. Non sarà difficile, giunti alla fine del discorso, trovare nella sequenza i germi dell’ennesima perfetta metafora della visione rashōmoniana. Affinché il film marci è necessario che anche lo spettatore, come il taglialegna, abbia un incedere curioso, inconsapevole e distratto, finanche sollecitato nella sua libido dalla possibilità di assistere a un film che mette in scena un bacio o una violenza carnale (come anticipano per altro manifesti, locandine e trailer). Tuttavia, e ora lo possiamo affermare senza tema di smentita, l’unica assicurazione di successo per il fruitore non è seguire una via razionale, ragionevole, deduttiva che lo conduca a una so-

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luzione certa del mistero, bensì incespicare per caso e senza accorgersene in un proprio personale ed emotivo e impressionabile piacere della visione, guardando altrove e, perché no, raccontandosi/ci bugie, producendo misconoscimenti, perché è il territorio ambiguo – l’aimai formale, narrativo, enunciazionale di Rashōmon – che lo richiede.

Dolores Martinez, Where the Human Heart Goes Astray: Rashomon, Boomtown and Subjective Experience, «Film Studies», n. 11, inverno 2007, p. 28 (trad. mia). 2 Per verificare quanto i due termini siano produttivi se applicati al cinema di Kurosawa rimando alla lettura del fondamentale Dario Tomasi, Il cerchio e la spada. Lettura de «I sette samurai» di Kurosawa Akira, Lindau, Torino 1994., pp. 23-62. 3 Jacques Derrida, Marges de la philosophie, Minuit, Paris 1972 (trad. it. Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997). 4 «La metafora è dunque determinata dalla filosofia come perdita provvisoria del senso, economia senza danno di proprietà irreparabile, détour certo inevitabile, ma anche storia in vista e nell’orizzonte della riappropriazione circolare del senso proprio.» Per Derrida la metafora è, insomma, la riproposizione di una visione finalizzata e continuista della filosofia, in quanto mira a una transizione dal figurato al proprio, dal velato al rivelato, dall’informe al vero ed è quindi una figura retorica che la filosofia ha progressivamente usurato, facendole perdere funzione e produttività. Cfr. Derrida, Margini della filosofia cit. e in particolare: «La mitologia bianca. La metafora nel testo filosofico», pp. 273-349. Vedi anche Jacques Derrida, Le retrait de la métaphore, in Psyché. Inventions de l’autre, Galilée, Paris 1998, pp. 63-93 (trad. it. Il ritirarsi della metafora, «aut aut», 1987, n. 220-221, pp. 9-34). 5 Per un primo approfondimento sul rapporto tra Derrida e il pensiero filosofico giapponese rinvio alla lettura di: Steve Odin, Derrida and the De-centered Universe of Ch’an/Zen Buddhism, in Charles Wei-hsün Fu, Ste1

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ven Heine (a cura di), Japan in Traditional and Postmodern Perspectives, Suny Press, Albany 1995, pp. 1-24. Si veda anche: Richard Calichman, Contemporary Japanese Thought, Columbia University Press, New York 2005. 6 La ricorrenza del tre ha anche il merito di offrire corrispondenze alla lettura per quel che riguarda, ad esempio, la strutturazione tripartita di certe inquadrature o di certe transizioni discorsive. Analizzeremo nelle pagine seguenti i tre raccordi sull’asse con cui vengono descritti gli attraversamenti di corsa della foresta da parte dei personaggi. 7 André Bazin, «L’Observateur», 24 aprile 1952 (anche in André Bazin, Le cinéma de la cruauté, Flammarion, Paris 1975 [trad. it. Il cinema della crudeltà, Il Formichiere, Milano 1979, pp. 156-157]). 8 Il principio teorizzato da Bordwell e dalla sua équipe di lavoro è che il cinema hollywoodiano si sia organizzato, nel suo periodo «classico», secondo un sistema tecnologico/produttivo che prevedeva la possibilità di scegliere tra un ventaglio (limitato) di soluzioni espressive tra loro sinonimiche per ottenere effetti o sviluppi narrativi specifici. «Pensare allo stile classico come a un paradigma ci aiuta a comprendere il senso delle scelte possibili per un cineasta all’interno della tradizione. Lo stile rimane unitario perché il paradigma offre alternative limitate. Alternative e limitazioni risultano chiare se pensiamo al paradigma come fornitore di equivalenti funzionali: un cut-in può sostituire un track-in o un colore può sostituire un effetto luministico per rimarcare volumi, purché ogni espediente giochi lo stesso ruolo». David Bordwell, Janet Staiger, Kristin Thompson, The Classical Hollywood Cinema: Film Style & Mode of Production to 1960, Columbia University Press, New York 1985, p. 5 (trad. mia). 9 Donald Richie avvalora indirettamente la nostra tesi quando scrive: «Sebbene [ci siano] scene che durano minuti (quelle di dialogo sotto il portale) la lunghezza media di ogni inquadratura è più breve in Rashōmon che in ogni altro film di Kurosawa» (Donald Richie [a cura di], Rashōmon. Akira Kurosawa Director, Rutgers University Press, New Brunswick 1987, p. 17 [trad. mia]). Basterebbe consultare il sito cinemetrics curato da Yuri Tsivian (allievo di Barry Salt, lo storico che ha inaugurato negli anni ’70 l’approccio matematico-statistico all’analisi del film), per scoprire che l’Average Shot Length della pellicola, di circa 12,5 secondi

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per inquadratura, non è la più bassa tra le produzioni kurosawiane. Ben più «spediti» corrono film come I sette samurai (8,2), Ran (10,2), Kagemusha (10,2), Sugata Sanshiro parte II (10,5), Il trono di sangue (12,3), L’angelo ubriaco (12,4) (cfr. www.cinemetrics.com [marzo 2012]). I dati ci dicono, insomma, che l’affermazione di Richie è imprecisa e ci fanno supporre che sia stata fondata su impressioni ritenute abbastanza solide da rischiare un’asserzione che avrebbe richiesto – per una verifica stringente – un paziente lavoro alla moviola. Quel che è importante notare qui non è solo la prevalenza, anche nelle letture più dotte, del sensazionale sul razionale, del percepito sul verificato, ma dimostrare l’esistenza interna al testo stesso di una sensazione, in questo caso relativa al dinamismo, che sollecita chi guarda a prendere posizione, a rischiare «testimonianze», a formarsi delle opinioni, anche se queste non possono essere immediatamente comprovate. 10 Il che non è da escludere a priori, visto che Kurosawa ha usato spesso il montaggio-re delle avanguardie russe in alcune sequenze dei suoi film. Sulle relazioni tra lo stile del cineasta giapponese e quello del cineasta russo si vedano, tra gli altri: Stephen Prince, The Warrior’s Camera: the Cinema of Akira Kurosawa, Princeton University Press, Princeton 1999, pp. 44-48; Noël Burch, To the Distant Observer: Form and Meaning in Japanese Cinema, University of California Press, Berkeley 1979, pp. 298299. 11 Sul ruolo letterario e mitologico del portale, sulle leggende che lo riguardano, si veda nota 4, cap. 1. 12 Donald Richie, The Films of Akira Kurosawa. Third Edition Expanded and Updated with a New Epiloge, University of California Press, Berkeley 1998, p. 72 (trad. mia). 13 Piccola guida metodologica alla compilazione della tabella. Ho indicato con la lettera A la prima versione di un fatto, con la lettera B la seconda e, in un solo caso, con la C la terza. Nella maggior parte dei casi, quando gli eventi rappresentati si dimostravano diametralmente opposti a quelli messi in scena in precedenza ho aggiunto il segno meno (–) alla lettera già usata, per indicare la specularità delle versioni. Quando invece l’informazione non era sicura, ho preferito inserire una lettera minuscola (a, b) invece che una maiuscola. Segnalo, ovviamente, che questa trascrizione «metrica» non ha alcun intento classificatorio, né al-

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cuna pretesa di esaustività. L’utilità dello schema riguarda soltanto lo specifico interesse verso l’organizzarsi dei fatti secondo specularità e similitudini. 14 Si scopre ad esempio che le deposizioni del samurai e del bandito coincidono nel punto che riguarda il rapporto sessuale «gradito» dalla moglie (sposando l’idea maschilista dello stupro come desiderio segreto della donna e come implicita sottomissione alla forza dell’uomo), mentre quelle di Masago e del boscaiolo collimano sia nel passaggio relativo al carattere coercitivo del rapporto sessuale sia in occasione della fuga della donna dopo la morte dell’uomo, a suggerire una presunta natura femminea e materna del boscaiolo che troverebbe «sfogo» nella scelta di prendersi cura del neonato abbandonato. 15 Tre casi su tutti. Il primo riguarda le prime cinque inquadrature dopo i titoli di testa. Qui passiamo da un Piano Totale del portale di Rashō (inq. 12) al Mezzo primo piano di profilo del boscaiolo e del monaco silenti (inq. 16). La prima transizione è un vero raccordo sull’asse, da un CLL a un CL, ma le tre successive inquadrature variano la prospettiva scopica complessivamente di 90° in modo da passare da un’inquadratura frontale a una laterale. Un medesimo stratagemma si ripresenta nella versione di Masago (inqq. 239-242), con la donna piangente a terra, e in quella di Takehiro, quando questi rimane solo a riflettere (inqq. 306-308, con un forte salto da un CM a un PP) e, infine, nella parte finale del film (inqq. 406-410, con l’inserimento di dissolvenze incrociate e un salto finale da PP a CL), quando il vagabondo fugge via lasciando soli il monaco e il taglialegna. In tutti i casi citati, ogni cambiamento di angolazione richiede, evidentemente, una taratura continua e faticosa dello sguardo spettatoriale. 16 Tra i tanti suoi lavori ricordo almeno: Ernst H. Gombrich, Art and Illusion. A Study in the Psychology of Pictorial Representation, Phaidon, London 1960 (trad. it. Arte e illusione: studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Einaudi, Torino 1965); Ernst H. Gombrich, The Sense of Order. A Study in the Psychology of Decorative Art, Phaidon, London 1979 (trad. it. Il senso dell’ordine, Einaudi, Torino 1984); Ernst H. Gombrich, The Image and the Eye: Further Studies in the Psychology of Pictorial Representation, Phaidon, London 1982 (trad. it. L’immagine e l’occhio: altri studi sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Einaudi, Torino 1985).

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Gombrich, The Image and the Eye cit., pp. 34-35 (ed. consultata: 1998). Ivi, pp. 116-117. 19 Una piccola (e non statisticamente valida) dimostrazione a supporto. Nel corso di una lezione universitaria successiva alla proiezione del film, ho chiesto agli studenti di assegnare a una delle quattro versioni alcuni fotogrammi scelti a caso e proiettati in aula come fossero diapositive. Ebbene, di quindici inquadrature mostrate, solo cinque sono state riconosciute correttamente. 20 Roger J. Davies, Osamu Ikeno, The Japanese Mind: Understanding Contemporary Japanese Culture, Tuttle Publishing, Boston 2002, pp. 9-16 (trad. mia). 21 Cfr. Michael J. Day, Aimai no ronri: the Logic of Ambiguity and Indirectness in Japanese Rhetoric, University of California, Berkeley 1996. 22 Tutte le volte che si cercano generalizzazioni su presunte proprietà culturali, intellettuali, comunicative di un intero popolo, paragonandole a quelle di altre culture (peraltro solitamente di area anglosassone), l’enfasi orientalista è dietro l’angolo e la possibilità di cadere in facili semplificazioni pure. Tratto pertanto il concetto di aimai con tutte le cautele del caso, consapevole che non si possono costruire conoscenze robuste sopra categorie così ampie e generiche, anche in una società molto codificata come la giapponese. Ciò che m’interessa considerare del termine è la sua accezione non negativa, che mi servirà più avanti quando ci sarà da ragionare sulle modalità di enunciazione della pellicola. Comunque sia, per una critica al concetto di aimai in ambito retorico e più in generale per una critica alle forme comunicative che teorizzano una retorica giapponese «pura» si veda: Massimiliano Tomasi, Rhetoric in Modern Japan: Western Influences on the Development of Narrative and Oratorical Style, University of Hawaii Press, Honolulu 2004, pp. 25-42. 23 James Davidson, in Richie (a cura di), Rashōmon cit., p. 126 (trad. mia). 24 David Bordwell è ad esempio contrario al concetto di istanza narrante che, a suo modo di vedere, non aggiunge niente alla comprensione della narrazione filmica, ma semmai complica i piani esegetici. A proposito di Rashōmon dice: «I flashback sono motivati in quanto rappresentazioni delle testimonianze dei personaggi in un processo. Dal momento in cui avvertiamo, fin dal principio (attraverso una “cauzione anticipatoria” nell’esposizione) che le versioni sono incompatibili, consi17 18

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deriamo i flashback nel migliore dei casi come delle ipotesi, nel peggiore come delle fabbricazioni. I personaggi si devono fare carico delle responsabilità circa l’inattendibilità della loro narrazione». Cfr. David Bordwell, Narration in the Fiction Film, University of Wisconsin Press, Madison 1985, pp. 60-61 (trad. mia). 25 È di tutt’altro avviso Richie che individua invece gli autori di ogni testimonianza e acclara la loro eventuale attendibilità. Ecco qui in sintesi le sue conclusioni: 1. la scoperta del corpo del marito è una bugia raccontata dal taglialegna al viandante; 2. l’uomo e la donna visti nella foresta sono una verità raccontata dal monaco al viandante; 3. la cattura di Tajōmaru è una verità raccontata dal poliziotto e riferita al viandante – senza artifici – dal taglialegna o dal monaco; 4. la versione di Tajōmaru è raccontata dal bandito e riferita al viandante – con artifici e bugie – dal taglialegna; 5. la versione della moglie è raccontata da Masago e riferita per la maggior parte dal prete; 6. la versione del marito, raccontata da Takehiro attraverso una medium è accettata come verità e raccontata dal prete; 7. La versione del taglialegna è una bugia raccontata dallo stesso personaggio al viandante. La principale debolezza dello schema richiano riguarda la certezza con cui sono separate le versioni vere da quelle false. Sarebbe fin troppo facile dimostrare che tali patenti di veridicità o falsità sono impossibili da assegnare alle versioni dei personaggi, sia a quelli apparsi al processo, sia a quelli in attesa che spiova sotto il portale. Comunque per verificare come Richie giustifichi le sue deduzioni rimando a The Films of Akira Kurosawa cit., pp. 74-75. 26 François Jost, Narration(s): en deça et au delà, «Communications», n. 38, 1983, pp. 192-212 (in Lorenzo Cuccu, Augusto Sainati [a cura di], Il discorso del film. Visione, narrazione, enunciazione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1987, p. 204). 27 Gianfranco Bettetini, La conversazione audiovisiva. Problemi dell’enunciazione filmica e televisiva, Bompiani, Milano 1984, p. 82. 28 Tra i teorici che si esprimono su Rashōmon ci sono Genette, Jost, Bettetini, Casetti, Bordwell, Costa, Metz, prima di loro Kracauer, il già citato Bazin, Marie, e più recentemente Kovács e Verstraten. I riferimenti ai testi si trovano in bibliografia mentre per un ragguaglio su quel dibattito rimando a Cuccu, Sainati (a cura di), Il discorso del film cit. e a una breve sintesi in Robert Stam, Robert Burgoyne, Sandy Flitterman-

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Lewis, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, Bompiani, Milano 1999, pp. 113-128. 29 Antonio Costa, La voce e la scena, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Akira Kurosawa: le radici e i ponti, ETR Edizioni, Firenze 1988, pp. 55. 30 Cfr. Peter Verstraten, Film Narratology, University of Toronto Press, Toronto 2009, p. 139 (trad. mia). 31 Alcuni suggerimenti per facilitare la ricerca. Nel testo si possono trovare, oltre alle false soggettive (come quella del boscaiolo o quelle individuate da Costa), anche oggettive orientate (che riproducono i movimenti di uno sguardo antropomorfo non definito), semisoggettive (che riproducono, ma solo in parte, il campo visivo di un personaggio), oggettive irreali (con punti di vista irrituali e originali), false oggettive (inquadrature che sembrano impersonali e che invece un movimento di macchina o uno stacco rivelano appartenere a un personaggio), oggettive spiazzanti (perché confondono la percezione scopica modificando improvvisamente la disposizione di elementi diegetici già presenti in piani precedenti). Per un’analisi sulle modalità enunciative dell’immagine cinematografica e quindi per verificare quante e quali sono le possibilità per modulare il punto di vista di un’inquadratura, resta ancora valido il testo: Edward Branigan, Point of View in the Cinema: A Theory of Narration and Subjectivity in Classical Film, Mouton, New York 1984. 32 Per un approfondimento sulla dimensione della soggettività nel cinema asiatico e per ulteriori riferimenti bibliografici sul tema mi permetto di rinviare a Marco Dalla Gassa, Dario Tomasi, Il cinema dell’Estremo Oriente, Utet, Torino 2010.

Cronache entomologiche dal film. Analisi di sequenze

La camminata del boscaiolo – Inq. 40 (5’’). CL. Carrellata dx/sx con inquadratura perpendicolare verso l’alto. Chiome degli alberi oltre le quali, di tanto in tanto, si intravede il sole. Musica extradiegetica di tamburi. – Inq. 41 (6’’). D. Carrellata laterale sx/dx. Dettaglio di un’ascia. Movimento opposto a quello dell’inq. 40. – Inq. 42 (5’’). Da MPP a PP. Carrellata a precedere con piano frontale. Un boscaiolo cammina di buona lena e guarda davanti a sé (nella direzione della macchina da presa). – Inq. 43 (10’’). CL. Carrellata laterale sx-dx, dall’alto verso il basso. L’uomo cammina ripreso da lontano. Comincia un tema musicale che assomiglia al Bolero di Ravel. – Inq. 44 (6’’). PP e CLL. Panoramica dall’alto verso il basso. L’inquadratura mostra la chioma di un albero e poi scende lungo il tronco fino alla sua base, mentre sullo sfondo, in CLL, il boscaiolo attraversa il quadro da sx/dx. – Inq. 45 (10’’). FI. Panoramica sx/dx dal basso verso l’alto. Il personaggio cammina su un ponte di legno. La mdp è col-

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locata sotto il ponte quasi perpendicolare all’uomo e ruota sul proprio asse. – Inq. 46 (6’’). CL. Carrellata in avanti con inquadratura perpendicolare verso l’alto. Ancora ripresa delle chiome degli alberi. Quasi come inq. 40, senza il sole. – Inq. 47 (4’’). MPP. Carrellata a seguire con piano frontale. Prosegue il cammino. La mdp riprende la nuca del personaggio. Opposta a inq. 42. – Inq. 48 (9’’). Da CL a FI. Carrellata trasversale sx/dx. Il boscaiolo sale longitudinalmente il crinale di una montagna. La mdp gli si avvicina progressivamente fin quasi a incontrarsi con lui. – Inq. 49 (6’’). CL. Carrellata in avanti con inquadratura perpendicolare verso l’alto. Chiome degli alberi. Come inq. 46. – Inq. 50 (15’’). Da CL a MPP a FI. Carrellata trasversale sx/dx con panoramica dx/sx a 180°. Il boscaiolo sale sul sentiero. Questa volta la mdp si avvicina, lo incrocia e poi si allontana dall’uomo in direzione perpendicolare. Una panoramica di 180° circa permette di mantenere al centro del quadro il personaggio. – Inq. 51 (5’’). CL. Carrellata trasversale con inquadratura perpendicolare verso l’alto. Chiome degli alberi. Simile a inqq. 46 e 49, ma ora si vede anche il sole come nell’inq. 40. – Inq. 52 (15’’). Da CL a MF. Carrellata laterale dx/sx. L’uomo marcia, ripreso di profilo, in un avvicinamento, allontanamento e avvicinamento alla mdp simile a inq. 48. Le foglie occultano la visione e ci sono giochi contrastati di luce. – Inq. 53 (5’’). Da PP a PPP. Carrellata a seguire con piano frontale. Continua la marcia. La mdp riprende la nuca del

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personaggio, gli si avvicina, facendosi largo tra le fronde. Come inq. 47, opposta a inq. 42. – Inq. 54 (5’’). MPP. Carrellata laterale dx/sx. Come l’inq. 52 ma più ravvicinata. – Inq. 55 (8’’). Da MPP a PP. Carrellata a precedere con piano frontale. Come l’inq. 42 ma più ravvicinata. Il tema musicale del bolero si arresta così come fa il boscaiolo pochi secondi dopo, fermandosi a guardare, con fare sorpreso, innanzi a sé, verso il fuoricampo. – Inq. 56 (26’’). Da CM a PA a CL. Macchina fissa e poi panoramica dx/sx. Un cappello da donna è appeso a un ramo di un albero. Inaspettatamente dal fondo dell’inquadratura avanza il boscaiolo, si avvicina al cappello, ne sfiora il velo, si guarda intorno e poi riprende, più circospetto, il cammino. Questa sequenza è, senza dubbio, una delle più belle realizzate da Kurosawa nel corso di tutta la sua carriera. Abbiamo qui riportato il découpage solo della prima parte (inqq. 40-56) per esigenze di spazio, ma naturalmente per un commento complessivo bisogna considerandola in tutta la sua estensione (inqq. 40-68). Il primo aspetto che colpisce è il realismo della sua scrittura: riprese in esterni, macchina a spalla, illuminazione naturale, preponderanza dell’ambiente sull’uomo, «pedinamento» di quest’ultimo da parte della cinepresa sono stilemi che all’epoca potevano essere persino definiti «neorealisti» 1. Eppure, proprio la verosimiglianza delle immagini, la percezione di verità che esse infondono, nascondono il primo grande inganno del film (verrebbe da dire la prima grande imboscata): la sequenza, almeno in

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parte, è il frutto di una falsa testimonianza. Ciò che sembra vero, reale, attendibile, è invece di una falsità che non lascia tracce sulla superficie dell’inquadratura. D’altra parte verità e affidabilità delle immagini sono presupposti e insieme finalità di una ricerca formale quasi ossessiva, volta a restituire un incedere discorsivo dinamico e trascinante. Circolava sul set una battuta secondo la quale non aveva alcun senso che il taglialegna camminasse così a lungo alla ricerca di alberi da abbattere quando ne aveva attorno a sé centinaia. E, in effetti, la motivazione diegetica del segmento è alquanto debole. Tuttavia persiste una necessità come dire superiore che rende la camminata del boscaiolo inarrestabile e travolgente: si tratta dell’impiego sofisticato e continuo dei raccordi tra un piano e l’altro. I raccordi per una volta non si accontentano di salvaguardare la costanza di direzione di un movimento del protagonista, così come l’omogeneità di un luogo, ma definiscono e pattuiscono in itinere un rapporto paritario e dialogico tra personaggio e macchina da presa. Quest’ultima, infatti, in alcuni passaggi, si conquista una certa autonomia, scegliendo angolazioni spiazzanti, marce divergenti, lontananze o vicinanze di campo improvvise. Capita così che vi siano movimenti di macchina che non hanno una funzione meramente denotativa, bensì connotativa, che siano cioè utili non tanto per descrivere un gesto o un’azione, quanto per creare dialogismi con altri movimenti di macchina o con determinate configurazioni dello spazio. In tal modo, l’articolazione nella sequenza di una serie di movimenti di macchina complessi e tra loro integrati – tale, come vedremo tra poco, da costituire un intero univer-

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so di correlazioni – diventa, essa stessa, una ragione per giustificare la lunga camminata nel cuore del bosco (e la sua studiata e ridondante messa in forma). La «verità» e la «necessità» diegetica dell’intero brano risiedono, in altri termini, nel suo inarrestabile dinamismo, nel suo «esibizionismo» estetico, nella sua messinscena sofisticata (qui intendendola sia nell’accezione di «raffinata» o «ricercata» sia in quella di «adulterata» e «artificiosa», dato che il brano, lo ricordiamo ancora una volta, è la ricostruzione della falsa testimonianza del boscaiolo). Questa «verità» e questa «necessità» trovano nuove ragioni d’essere nell’analisi dettagliata delle corrispondenze tra i piani. Delle prime sedici inquadrature che compongono il brano (quelle che abbiamo riportato qui sopra, ma escludendo per il momento l’inq. 56), otto si dispongono secondo una scansione «incrociata» ABBA. Sono quelle già ricordate poc’anzi. Le inqq. 42 e 55 (due carrellate a precedere sul MPP frontale del boscaiolo) dialogano con le inqq. 47 e 52 (due carrellate a seguire sul MPP della sua nuca), le inqq. 40 e 51 (due carrellate con angolazione di camera rivolta perpendicolarmente verso le chiome degli alberi e il sole) con le inqq. 46 e 49 (analoghe carrellate, ma senza la presenza del sole). Le restanti otto procedono sì per interdipendenze, ma senza una «prosodia» codificata e omogenea: la 45 e soprattutto la 48 preparano l’incrocio e lo scavalcamento d’asse della 50, la 54 è una riproposizione, con scala dei piani più ravvicinata della 52, la 44 contiene una panoramica verticale che contrasta con quella orizzontale presente nella 45, la 43 propone una carrellata laterale sx/dx che si rispecchia nella carrellata laterale dx/sx pre-

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sente nella 52, mentre la più «indipendente» delle sedici, la 41 (il dettaglio dell’ascia) anticipa il valore probatorio degli oggetti che ritroveremo più avanti. Si ripresenta insomma – e non potrebbe essere altrimenti – quel meccanismo di ripetizione e scarto, di rime ed enjambement che stabilisce l’incedere narrativo anche nel resto del film. L’ampia scelta di inquadrature e movimenti di macchina determina, inoltre, analoghi processi conflittuali anche nella gestione figurativa delle linee grafiche (orizzontali, verticali, trasversali), nelle angolazioni di ripresa (laterali/frontali/posteriori, basso/alto o viceversa), nelle occorrenze della scala dei piani (MPP vs CL), oltre che nei movimenti di macchina (carrellate vs panoramiche, movimenti sx/dx vs dx/sx), secondo quella logica di accoglienza delle antinomie espressive che abbiamo visto essere una delle strategie principali di disorientamento ermeneutico proposte dal film. Disorientamento che non è solo interpretativo/intellettuale, ma ovviamente anche fisico e materiale perché non consente al personaggio di muoversi nello spazio con cognizione di causa e, quando necessario, di fuggire. Pochi hanno notato, infatti, che in questa sequenza assistiamo a un cortocircuito di senso (di marcia) nei movimenti del boscaiolo. Nelle prime dieci inquadrature (salvo la 40) l’uomo e con lui la macchina da presa si muovono da sinistra verso destra (41-50). Si stanno dirigendo verso la parte più oscura e incontaminata della foresta. Nel corso dell’inquadratura n. 50, la mdp incrocia il boscaiolo e si allontana da lui determinando un capovolgimento dell’asse visivo e un cambio di direzione dei movimenti del protagonista, ora

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da destra verso sinistra (inqq. 50-58). Dopo una serie di piani fissi che annullano l’inerzia direzionale – piani durante i quali, avvicinandosi verso la cinepresa da fondo campo, il boscaiolo s’imbatte prima in un cappello da uomo, poi in una corda, poi ancora in un amuleto in tessuto che scorge da lontano e infine nel corpo inerme del samurai (inqq. 59-64) –, dopo questi piani quasi fissi, si diceva, assistiamo alla fuga terrorizzata del taglialegna alla ricerca di aiuto (inqq. 65-68). Qui accade un fatto «strano». Nelle quattro veloci inquadrature che chiudono il brano, invece di correre prima verso destra e poi verso sinistra in modo da ripercorrere all’indietro i passi compiuti all’«andata», il boscaiolo segue un percorso opposto, scappando prima verso sinistra (inq. 65) e poi verso destra (inqq. 66-68). In altre parole, la sua fuga verso l’esterno, verso la civiltà, verso il Kebiishi è, almeno sul piano grafico-figurativo, un avventurarsi ancora più affannato nel cuore incontaminato della foresta! Si aggiunga che anche le dinamiche di enunciazione delle inquadrature sono frastornanti. In apparenza nessuno dei piani qui descritti è ascrivibile al campo visivo del boscaiolo, attestandosi nel regime jostiano della ocularizzazione esterna o zero. Inoltre, l’autonomia dei movimenti della macchina da presa già ricordati assegnerebbe al segmento anche un regime di «focalizzazione zero» (e non interna come aveva invece sostenuto Genette), in quanto lo spettatore ha a disposizione – almeno in alcuni passaggi – più informazioni rispetto al boscaiolo, essenzialmente grazie alla predisposizione della colonna sonora che anticipa, con alcune variazioni di melodia, i ritrovamenti del prota-

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gonista. Eppure le forme di oggettivazione del flashback sono tutt’altro che pacificate. Come considerare, per esempio, le quattro carrellate perpendicolari sulle chiome degli alberi già più volte citate (inqq. 40, 46, 49, 51)? Esse non riproducono il campo scopico del boscaiolo (non lo vediamo mai alzare gli occhi al cielo), eppure sono interconnesse con il suo incedere in termini di velocità e direzione. A quale enunciatore «appartengono»? Sono soggettive immaginarie del tagliaboschi che sa cosa «scorre» sopra la propria testa senza dover alzare lo sguardo? Sono (s)oggettive irreali dell’ascia, che è il solo elemento diegetico che «guarda» effettivamente verso l’alto? Sono, più verosimilmente, oggettive che appartengono a un’istanza narrante che tuttavia «oggettiva» immagini superflue, «vuote», sospese 2? Sul piano narratologico-enunciativo, non meno problematiche sono anche altre occorrenze. L’inq. 44 (la panoramica che scende dalle chiome alla base di un albero), la 45 (con la mdp situata sotto un ponte, forse sul gretto di un torrente), le inqq. 47 e 53 che riproducono il rincorrere affannato della mdp dietro il boscaiolo, la 48 che carrella quasi fino a incrociare l’uomo e soprattutto la 50 che lo interseca per un istante e poi si allontana da lui, sono sì tutti casi di «ocularizzazione zero o esterna», ma per via della loro «eccentricità» restituiscono il presentimento di esistenze interne alle diegesi che sembrano assistere, da una posizione marginale e non implicata (quindi come dire a «ocularizzazione parzialmente interna»), alle circonvoluzioni del personaggio. Detto in termini più semplici, l’autonomia della macchina da presa non sarebbe altro che la reificazione di una serie di sguardi (e di movenze) che

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appartengono al bosco e ai suoi «abitanti», sorta di Ko-dama cinematografici (gli spiriti del folclore giapponese che vivono in alcuni vecchi alberi), invisibili agli uomini eppure presenti e attivi nella vita della foresta. In sostanza queste inquadrature paiono comunicare l’orgoglio di chi – si pensi all’inquadratura da sotto il ponte di legno o la stessa falsa soggettiva già commentata nel precedente capitolo –, da una posizione marginale, antitetica o estranea, osserva con malcelato piacere ciò che succede a colui che, per imprudenza o sprovvedutezza, ha deciso di avventurarsi in territori vergini e preclusi all’urgenza civilizzatrice dell’uomo. Se così fosse, se insomma queste inquadrature restituissero almeno l’idea di uno sguardo fantasmatico ma interno al racconto, sarebbe ancora più difficile assegnare un regime di ocularizzazione certo alle immagini, scisse come sono tra una supposta oggettività (che è pur sempre la ricostruzione «oggettiva» della menzogna del boscaiolo) e una blanda soggettività non immediatamente riconducibile a uno sguardo antropomorfo (gli ipotetici ko-dama nascosti nella foresta tutto sono fuorché esseri umani). Il senso di questa ipotesi di lavoro, suggestiva e un po’ eretica 3, è da leggere ovviamente come conferma dei problemi di ricezione, così come della dimensione de-soggettiva e de-oggettiva dell’enunciazione di cui abbiamo già parlato a lungo. Aggiungo solo un ultimo commento che va nella medesima direzione e che riguarda la colonna sonora. È stato già notato che il tema melodico scritto da Fumio Hayasaka richiama il Bolero di Ravel. L’allusione è indubbia, ma la struttura metrica sottostante è diversa. Se nel Bolero c’è un 3/4 regolare e ostinato (il tema è composto

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da due sezioni di sedici battute l’una, ogni sezione ripetuta per ben diciotto volte consecutive, in maniera quasi ossessiva), nella sequenza in oggetto, e in altre nel corso del film, la scansione accentuale è asimmetrica o zoppa (perché tecnicamente composta di «balcanismi» 4), per cui gli scarti sono continui e hanno funzioni essenzialmente narrative. Le sospensioni melodiche, strettamente interconnesse ai movimenti dei personaggi, trovano giustificazioni parallele anche nell’implicito discorso citazionista realizzato da Hayasaka, impegnato a realizzare una sorta di ricodifica mascherata del Bolero di Ravel. Da questo punto di vista, i commenti musicali ripercorrono la stessa logica delle immagini, cercando da una parte corrispondenze con l’universo diegetico e tuttavia ritagliandosi, dall’altra, una propria autonomia di azione (la riscrittura), incapace però di farsi «soggettività», di emanciparsi dalle fonti di partenza o dalle pratiche della denotazione. La melodia proposta è, in altri termini, una «testimonianza» adulterata e scomposta di un’altra melodia che non c’è più: l’ennesima bugia che rende zoppa la camminata del boscaiolo e dello spettatore e favorisce i loro inciampi.

Triangolo di sguardi – Inq. 150 (5’’). CL e FI. Panoramica a schiaffo. Tajōmaru e Masago entrano nel pianoro di corsa. La mdp li aspetta e segue il movimento repentino della donna. La quale si arresta (in FI) davanti a Takehiro (in CL). Raccordo sull’asse verso l’inq. 151.

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– Inq. 151 (1’’). FI. Si vede Takehiro legato e accovacciato, mentre guarda davanti a sé verso il FC, dove sono collocati Masago e Tajōmaru. Raccordo sullo sguardo di Takehiro. – Inq. 152 (7’’). MPP e MF. Masago (MPP) guarda innanzi a sé verso Takehiro in FC. Dietro di lei Tajōmaru (MF) guarda verso il marito in FC, poi avanza ed esce a dx del quadro. Raccordo sul movimento di Tajōmaru. – Inq. 153 (9’’). CL. Si vedono i tre da lontano, con la mdp posizionata tra gli alberi del bosco. Tajōmaru continua ad allontanarsi da Masago, si ferma, fissa prima lei, poi Takehiro. Raccordo sull’asse. – Inq. 154a (5’’). MPP e FI. Ripreso di spalle, Takehiro (MPP) guarda davanti a sé dove c’è Masago (FI) che lo guarda (fig. 19a) e poi (154b) verso il FC di dx dove sta Tajōmaru (fig. 19b). Raccordo sullo sguardo di Takehiro. – Inq. 155a (3’’). MPP e CM. Ripreso di spalle, Tajōmaru (MPP) guarda innanzi a sé verso Takehiro (CM) che lo guarda (fig. 19c), poi (155b) si volta verso il FC di dx dove c’è Masago (fig. 19d). Raccordo sullo sguardo di Tajōmaru. – Inq. 156a (4’’). MPP e CM. Ripresa di lato, Masago (MPP) guarda innanzi a sé verso il FC di dx dove è collocato Takehiro (fig. 19e), poi (156b) volge lo sguardo a sx verso Tajōmaru (CM) che la guarda (fig. 19f). Raccordo sullo sguardo di Masago. – Inq. 157a (5’’). MPP e MF. Ripreso di lato, Tajōmaru (MPP) guarda alla sua dx verso Masago (MF) che lo guarda (fig. 20a), poi (157b) volge lo sguardo innanzi a sé verso il FC di sx dove sta Takehiro (fig. 20b). Raccordo sullo sguardo di Tajōmaru.

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– Inq. 158a (6’’). MPP e FI. Ripreso di spalle, Takehiro (MPP) guarda innanzi a sé verso Tajōmaru (FI) che lo guarda (fig. 20c), poi (158b) volge lo sguardo verso il FC di sx dove c’è Masago (fig. 20d). Raccordo sullo sguardo di Takehiro. – Inq. 159a (18’’). MPP e CM. Ripresa di lato, Masago (MPP) guarda innanzi a sé verso il FC di sx dove è collocato Tajōmaru (fig. 20e) e poi (159b) volge lo sguardo alla sua dx verso il marito (CM) che la guarda (fig. 20f). Carrellata in avanti con panoramica a 90°. Nel momento in cui Masago volge lo sguardo verso il marito la mdp avanza con un carrello e ruota sul proprio asse con una panoramica di 180° fino a mostrarci Masago in MF (159c) mentre guarda in direzione del FC (ovvero sempre innanzi a sé, ma ora verso Takehiro che si trova alle spalle della cinepresa). Panoramica a schiaffo. Siamo nel corso della terza sequenza subito dopo la corsa a perdifiato di Tajōmaru e Masago in «soccorso» del marito ipoteticamente avvelenato. Una volta giunti alla piana, la donna si accorge della trappola organizzata dal bandito e intuisce che è lei la vera vittima sacrificale. Prima di attaccare il brigante, in un estremo e disperato tentativo di evitare il peggio, la donna e i due uomini si scrutano per alcuni lunghi secondi. Sono quelli riprodotti in queste dieci inquadrature. Se quello del boscaiolo nella seconda sequenza era il primo sguardo che dava forma al mistero e coinvolgeva in esso – compromettendolo – un personaggio, qui siamo innanzi al primo vero incrocio di sguardi di reciproca accusa e istigazione. Prima di allora, vuoi per il velo che

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copriva la donna, vuoi per l’assenza di uno dei tre contendenti, Masago, Tajōmaru e Takehiro non si erano mai sfidati in campo aperto. Ora, invece, caduto il velo dell’ipocrisia sociale che li avvolgeva, ciascuno di loro si prepara allo scontro e al giudizio altrui: Masago guarda con disprezzo il marito e con provocazione Tajōmaru, Takehiro è remissivo verso la moglie e astioso verso il bandito, Tajōmaru è sprezzante e, insieme, denigratorio verso la coppia. Il brano ha una sua autonomia: comincia con una panoramica a schiaffo che segue da sinistra a destra il movimento della donna, spinta davanti al marito da Tajōmaru, e si conclude con una altra panoramica a schiaffo, da destra a sinistra, sempre a seguire il movimento rapido di Masago, questa volta lanciatasi contro Tajōmaru per difendere la sua dignità e quella del marito. Per una volta i confini sono certi! Anche la costruzione interna della messinscena segue una progressione di ricercata specularità, specialmente tra le inqq. 154 e 159. Questi sei piani sono la somma di due coppie di tre inquadrature in cui viene rappresentata la medesima circostanza evenemenziale: c’è un soggetto che guarda e un soggetto che prima subisce lo sguardo e poi lo rilancia verso il FC dove si trova il terzo personaggio (figg. 19 e 20). Nella prima triade l’ordine discorsivo che vira in senso antiorario è traducibile nella formula SBM (Samurai/Bandito/Moglie, ovvero i personaggi in primo piano, quelli che «sottostanno» allo sguardo e lo rimandano all’esterno); nella seconda triade, l’ordine è invertito, si muove in senso orario e la configurazione può essere rappresentata dalla formula BSM. Al mutamento dei primi due soggetti scopici si contrappone la fissità del terzo (la donna). E al-

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la «rima baciata» degli sguardi in FC – prima verso destra (fig. 19) e poi verso sinistra (fig. 20) – corrisponde la «rima alternata» relativa alla posizione dei personaggi nel quadro: quelli in primo piano sono collocati rispetto a quelli sullo sfondo secondo una dinamica che riproduce un perfetto campo e controcampo, essendo alternativamente o alla loro destra (inqq. 154-156-158) (figg. 19a-19e-20c) o alla loro sinistra (inqq. 155-157-159) (figg. 19c-20a-20e). Ancora più importante è rilevare il sistema di «false soggettive» riproposto per l’occasione: quando, infatti, un personaggio volge lo sguardo verso il FC, l’inquadratura successiva si preoccupa di mostrarci il contenuto di quello sguardo (ovvero un secondo personaggio osservato) non secondo una successione di semi-soggettive o di soggettive come sarebbe lecito attendersi, bensì attraverso il campo visivo del soggetto osservato (con la mdp alle sue spalle e lui in primo piano). La messa in scena e in serie del brano si preoccupano, così, di dare asilo a un insieme di soluzioni espressive che in casi analoghi si sarebbero escluse a vicenda. Se consideriamo come A e B i personaggi interni all’inquadratura e C come quello all’esterno, vediamo nello stesso istante: – Il personaggio A nell’atto di guardare; – Ciò che guarda il personaggio A; – Il personaggio B nell’atto di subire lo sguardo del personaggio A; – Il personaggio B nell’atto di guardare il personaggio A e, subito dopo, rivolgere lo sguardo verso il personaggio C; – Il campo visivo del personaggio B e, in potenza (nel senso che è possibile ottenerlo grazie alle precedenti o successive inquadrature) anche il campo visivo del personaggio C.

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In tal modo, tanto alla dinamica voyeuristica («vedo senza essere visto»), quanto a quella identificativa («vedo con gli occhi del personaggio che vede») proprie del racconto cinematografico, si sostituisce una sorta di «democrazia» di sguardi in cui tutti vedono e sono visti, impongono e subiscono uno sguardo. Tutti si fa per dire, perché esiste nel segmento un elemento di dissimmetria non accidentale, anzi per certi versi fondamentale per la comprensione dell’orizzonte scopico proposto. Il ruolo di Masago è, infatti, alternativo a quello dei due uomini, giacché è lei a interrompere il «giro di sguardi» sia nella prima rotazione antioraria (inqq. 154-156) sia nella seconda oraria (inqq. 157-159). Invece di venire ripresa mentre guarda in campo, la donna volge in entrambe le occasioni (figg. 19e-f e 20ef) il proprio interesse – ostinato e contrario – verso il FC, ribellandosi, quindi, alla «democrazia scopica» poc’anzi definita, alla quale parteciperebbe come oggetto di desiderio e futura vittima sacrificale e dalla quale si può difendere solo rompendo l’ordine… degli sguardi e delle regole sociali, come dimostra un attacco, pugnale in mano, tanto improvviso quanto irrituale. La sua figura è quindi dirimente, perché costituisce l’approdo finale di entrambi i giri di sguardi, e dirompente, perché inibisce l’inerzia del movimento e infrange l’«ordine» (anche in senso sociale e gerarchico) imposto dagli sguardi dei due uomini. È utile notare, a questo punto, che gli sguardi «maschili» di desiderio che investono la donna non sono due, ma forse tre (o quattro, qualora decidessimo di aggiungere quello della macchina da presa) 5. Il terzo è contenuto nell’inq. 153 (fig. 21), l’unica del segmento che inquadra tut-

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ti i tre sospetti contemporaneamente da lontano, da sotto gli alberi. In apparenza, questo CL funge da establishing shot, poiché ha il compito di stabilire il contesto ambientale del brano, individuando l’esatta posizione dei personaggi, in vista della successiva serie di piani ravvicinati. E invece, se confrontiamo questa inquadratura con l’inq. 388 (fig. 22) ci accorgiamo che la rassomiglianza è quasi assoluta. Stesso angolo di ripresa, stessa distanza dal pianoro, stessi rami ricurvi a costruire giochi di quadro nel quadro. Non si tratta di una ripetizione casuale. Quest’ultimo, infatti, è un piano inserito sul finire della versione del taglialegna e mostra un Tajōmaru stremato dal duello che ha appena vinto. Il bandito è a terra, ansima, si alza e cammina a fatica, poi esce dal campo dove si trova Takehiro e vi rientra qualche secondo dopo, brandendo una seconda spada. Osserva ancora una volta, terrorizzato, il cadavere in FC e poi si dà alla fuga. La durata della ripresa (42 secondi) e l’immobilità della mdp, nonostante l’uscita e l’entrata in campo di Tajōmaru, inducono a credere che dietro a quelle fronde sia rannicchiato il boscaiolo e che da lì assista alla scena dell’omicidio. È dunque plausibile che l’inq. 388 sia una sorta di soggettiva (mascherata) del boscaiolo. Se così fosse significa che anche la 153 è una «falsa oggettiva» che, quindi, documenta la presenza dell’uomo prima dell’amplesso e soprattutto prima di quanto riferito all’insistente e cinico viandante. Si può desumere, in buona sostanza, che la «confessione» estorta al boscaiolo sia anch’essa una menzogna, peraltro ben più grave di quella relativa al pugnale rubato: tacere il furto dell’arma può essere una scelta giustificata dal bisogno (l’uomo ha

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diversi figli da mantenere), nascondere la sua presenza durante la violenza o il rapporto carnale, bugia legata a evidenti ragioni di libido, implica una compromissione in quell’atto e più in generale nel sistema di responsabilità penali vagliato al processo. Ne consegue che il corteo di sguardi attivati attorno a Masago, in un segmento che anticipa lo «stupro» e che in qualche misura lo rende ammissibile e persino giustificabile (almeno agli occhi di Tajōmaru che commenta la reazione violenta di Masago, pugnale alla mano, come un implicito invito a conquistarla e a farla sua), rivela nel brano la presenza di un sottotesto di natura sessuale non eliminabile. La donna a questo punto non è solo centro scopico che altera e disturba un ipotetico quanto utopico equilibrio di relazioni maschili 6. È qualcosa di più: è corpo esposto, desiderabile e desiderato, oltre che corpo desiderante. Žižek a tal proposito sostiene che «la Causa definitiva che destabilizza il patto maschile e che “sfoca” la chiarezza della visione maschile, risiede nella donna, nel desiderio femminile» 7: noi aggiungiamo che tale destabilizzazione marca un’irriducibilità di fondo tra percezione calda e decodifica fredda del reale, tra desideri timici che il film si diverte a istigare e possibilità ermeneutiche razionali che, pur stimolandole, si diverte a disorganizzare. Ne consegue una forma di disorientamento emotivo più profonda di quella descritta da Bazin, perché cela una voglia di possesso che va ben oltre le esigenze di interpretazione e conoscenza, l’apprezzamento o meno per raffinate scelte espressive, il controllo dell’inatteso (o meglio la sottomissione di una cultura diversa) attraverso approcci orientalisti all’analisi,

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e coinvolge le latenze di natura sessuale presenti nei meccanismi della visione. Lo sguardo di desiderio del boscaiolo, che è quello dello spettatore, è uno sguardo che si cela dietro la parola, dietro la testimonianza, dietro il «Non capisco» e il «Io confesso», e che in realtà contiene una voglia insopprimibile di amplesso, nel senso etimologico di avvincere, di abbracciamento (potenzialmente soffocante e mortale). È un caso che, non nove mesi dopo, ma solo tre giorni dopo, all’unico voyeur presente nel bosco (nascosto come i nostri più reconditi segreti) sia affidato un «frutto del peccato», un figlio indesiderato che chiede di essere accudito, senza se e senza ma? Anche Brinkema sembra confermare la nostra ipotesi. Rashomon non ragiona sulla verità o sulla relatività o sulla moltiplicazione della/e verità, ma mette in discussione il concetto di interpretazione attraverso l’atto di ricerca della verità, in primo luogo nel linguaggio. Non troviamo quello che è stato chiamato «effetto Rashomon», piuttosto si deve parlare più opportunamente di «affetto Rashomon». Tale affetto è il sentimento vertiginoso del dubbio irrisolvibile e lo stupro è uno dei nomi privilegiati che acquisisce questa rappresentazione viscerale. 8

Una visceralità che passa quindi non dal prevalere di una versione dei fatti sull’altra, ma dalla ragnatela di sguardi nascosti, celati, sublimati, immaginati che ci avvolge e ci rende impotenti. Ed è Takehiro – nel momento in cui anch’egli, come il boscaiolo, ma questa volta in modi manifesti e non subliminali, diventa personificazione diegetica del pubblico in

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sala – ad assumersi il compito di confermare una volta di più la nostra ipotesi di lavoro. L’inquadratura 152, l’unica dedicata a un solo personaggio, raffigura il samurai inerme: egli assiste a uno spettacolo pur essendone escluso, s’immedesima nei due personaggi pur senza essere da questi coinvolto, vive una dimensione di scacco emotiva prima che razionale. La condizione appena descritta, identica a quella dello spettatore pagante «inchiodato» alla sua poltrona, mette in scena una dissociazione di fondo, un’incapacità di tradurre in azione (la vendetta per l’uno, l’interpretazione per l’altro) le informazioni visive che giungono alle rispettive cortecce cerebrali. Restano in campo solo i sentimenti, le sofferenze e perché no, la libido non appagata. Resta in campo uno spettatore imbrigliato, che vive in un limbo senza pace, cui viene precluso, a differenza di Takehiro, persino il piacere masochistico di assistere al rapporto sessuale tra il bandito e la moglie. Ma cui si affida in cambio – e chiedendogli un gesto che non ha nulla di razionale – il prodotto, piangente e indifeso, di quell’incontro di corpi.

Cfr. Georges Sadoul, Existe-t-il un néo-réalisme japonais?, «Cahiers du cinéma», n. 28, novembre 1953, pp. 7-19. 2 Non mi sfugge l’importanza simbolica, dinamica e anche tecnica delle inquadrature in oggetto, non a caso diventate una delle marche più celebrate del film. Ci raccontano, figurativamente, i contrasti tra luci e ombre, anticipando quelli successivi tra verità e menzogna. Tuttavia mi pare indubbio che gran parte del loro fascino derivi dalla loro «estraneità ai fatti», quasi appartenessero a un oltre-diegetico che avvolge e custodisce il segreto del plot. 1

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Eretica sì, ma supportata da alcune pur minime controprove storico-filologiche. I Ko-dama, infatti, sono figure soprannaturali della mitologia nipponica che compaiono con una certa frequenza negli aneddoti del Konjaku Monogatarishū. Non è da escludere, quindi, che potessero esercitare un fascino indiretto tanto nei testi scritti di Akutagawa, quanto nel film di Kurosawa e Hashimoto. 4 Per balcanismo in musicologia s’intende quella composizione che ha metri irregolari, detti «zoppi». Ad esempio un 5/4 che è un 3/4 più 2/4 dove gli accenti cadono sul primo del 3/4 e sul primo del 2/4. 5 Se consideriamo la mdp in senso metziano come mezzo di reificazione di un’istituzione da declinare evidentemente al maschile (data l’organizzazione sociale di stampo patriarcale in vigore in Giappone), l’inq. 159, una carrellata in avanti unita a una panoramica semicircolare che si avvicina, avvolge, lusinga Masago e se ne allontana, può essere considerata alla stregua di un corteggiamento o di un adescamento. 6 Non sarà superfluo ricordare, allargando per un momento l’analisi a tutto il film, il fatto che Masago sia la sola donna a fronte degli almeno sei (sette se si considera il/la medium, otto se si aggiunge il giudice) uomini che in qualche modo la contemplano o la bramano. 7 Slavoj Žižek, The parallax view, MIT Press, Cambridge 2006, p. 174 (trad. mia). 8 Eugenie Brinkema, The Fault Lines of Vision: Rashomon and The Man Who Left His Will on Film, in Dominique Russell, Rape in Art Cinema, Continuum, London 2010, pp. 29-30 (trad. mia). «Effetto Rashōmon» è un’espressione di area anglosassone usata in varie discipline, dall’antropologia alle scienze cognitive, dalla giurisprudenza alla sociologia, per individuare quelle situazioni in cui un medesimo fatto (testuale, sociale, psicologico ecc.) è raccontato da più punti di vista e prospettive. L’espressione è stata introdotta da Karl G. Heider in The Rashomon Effect: When Ethnographers Disagree, «American Anthropologist», New Series, vol. 90, n. 1, marzo 1988, pp. 73-81. 3

Rashō-mon-amour. Una conclusione

Rashōmon, ormai è chiaro, ha una rara peculiarità: quella di prefigurare la storia di come via via sarebbe stato recepito e interpretato, proiettando la propria immagine e la propria conformazione addosso a tutto ciò che gli viene incontro, siano essi saggi, recensioni, altri film o altre discipline. Ripercorriamo alcune di queste prolessi. Le testimonianze contraddittorie dei sospetti di fronte al giudice precorrono quelle dei suoi molti esegeti (e dei molti pseudoremake), in una babele di versioni inconciliabili. E non potrebbe essere che così se già all’inizio del film il portale suggerisce l’idea di un terreno interpretativo disaggregato e di facile attraversamento dove lo sforzo di ricomposizione filmica richiesto allo spettatore – e preannunciato dai titoli di testa – si fa in breve tranello, inciampo, distrazione, come conferma la camminata del taglialegna nella foresta. L’ingresso di quest’ultimo in un universo di luci e ombre, di elementi visibili e invisibili, può essere letto, infatti, metaforicamente, come la formalizzazione di una polarità che ha influenzato la ricezione internazionale del film traccian-

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do letture fondate su binomi come natura/cultura, menzogna/verità e ovviamente Occidente/Oriente; i racconti degli indagati e i relativi flashback riproducono concretamente le dinamiche enunciative, dando corpo e parola a figure astratte della narratologia (il narratore, il narratario ecc.) ed esibendo la propria natura metadiscorsiva. Per alcuni accade persino che la ronda di analessi sia simbolo di un’intera stagione cinematografica. Il modernismo nel cinema inizia quando si assiste a una revisione della struttura narrativa basata sui flashback, i quali si fanno portatori di un’ambiguità che riguarda la costruzione di una narrazione che va oltre le immagini derivate da differenti punti di vista e da differenti punti di osservazione personali. È qui che consiste l’originalità di film come Quarto potere e Rashōmon. 1

Rashōmon come opera che addirittura anticipa il modernismo delle Nouvelle Vague e del film d’arte? Prendendo per buone le dichiarazioni di un Kurosawa influenzato dai classici dell’avanguardia francese degli anni ’20 e ’30 2, gli stessi cui guardavano con ammirazione i cineasti più raffinati degli anni ’50 e ’60, l’ipotesi ha un qualche profilo di legittimità. Che cresce se si considerano le caratteristiche della nostra pellicola come chiavi di accesso a tratti e sensibilità poi alimentate da quella stagione cinematografica: la rottura della logica lineare e concausale del racconto, la (parziale) messa in discussione del découpage classico, lo smembramento delle assiologie (ovvero la rinuncia a separare nettamente i personaggi positivi e negativi), l’adozione di tecniche volte a resti-

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tuire in modo più vivace, più immediato, le intemperanze del reale (macchina a mano, pellicole sensibili), la radicalità nella cura compositiva del quadro, l’integrazione nel testo di linguaggi e riferimenti che provengono da altri domini artistici (letteratura, teatro e pittura su tutti), il manifestarsi di una forza sovradiegetica riconducibile a un’intenzionalità artistica (la mdp che diventa sguardo d’autore), l’evidenza della fallibilità del dispositivo (la messa in crisi dello sguardo come atto metacinematografico) ecc. 3. C’è, poi, chi è arrivato a individuare la modernità di Rashōmon nella sua capacità di dialogare con opere del modernismo pittorico o teatrale emerse nel corso della prima metà del ’900. Scrive Tyler: Lo spazio psicologico dei personaggi del film è reso in termini simultanei come avviene con la Donna di fronte allo specchio di Picasso. Il dispositivo speculare restituisce la doppia immagine della donna di profilo e di fronte. Il suo viso multiforme è la simbolica integrazione di sguardi differenti sulla stessa persona. […] Il corpo della donna è come se fosse visto da se stessa e, contemporaneamente, dalla società. […] Analogamente in Rashomon vediamo personaggi che si comportano tenendo in considerazione il proprio vantaggio personale e l’idea sociale che si ha di loro. […] L’immagine fisica si applica alla memoria di un evento passato dentro il quale il corpoimmagine si carica di integrità morale e di dignità ideale. In un certo senso, la ragazza di Picasso ricostruisce e sintetizza le proprie autodivisioni grazie alla profondità dello specchio. Nel profondo della memoria di ogni spettatore, Rashomon ricostruisce l’immagine ideale del sé. 4

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Aggiunge, molti anni dopo, Volli: Il discorso di Kurosawa potrebbe essere pensato in continuità con Pirandello. Tutti e due dipendono da una tesi nietzschiana secondo la quale non ci sono verità e fatti ma solo interpretazioni e queste interpretazioni sono presentate come fatti e verità sulla base dell’interesse e della volontà di potenza, di vita, del potere dei vari soggetti che intervengono nella sfera pubblica e nelle storie. C’è questo tema ricorrente dell’inesistenza di una realtà oggettiva e dell’esistenza solo di punti di vista discutibili e interessati che oggi pensiamo essere molto contemporaneo, postmoderno, e che invece è un filo che corre attraverso tutto il ’900 e di cui questo film è uno dei momenti più alti ed emblematici. 5

A dispetto della fascinazione per tali collazioni, è bene ricordare che ogni sistemazione di un artefatto in un quadro diacronico o culturale che non gli appartiene rappresenta, al di là di tutto, una forzatura che modifica l’oggetto (il suo profilo, i suoi contorni, la sua essenza) e afferma una prassi storicizzante criticabile sul piano del metodo, prima ancora che del merito. Nel nostro caso basterebbe peraltro modificare il punto di vista per accorgersi ad esempio che non è tutto oro ciò che luccica: La questione attorno alla relatività dei fatti narrati da un racconto è affrontata da un punto di vista morale e commentata come se fosse il risultato di una situazione esistenziale estrema. […] I personaggi non hanno un universo personale indipendente e il solo evento che accade senza il filtro di una sog-

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gettività è il ritrovamento del bambino tra le rovine. […] L’ambiguità del plot non è associata con la natura essenziale della narrazione, è considerata una conseguenza dell’universo morale corrotto. […] E quando un atto altruistico si fa spazio, la narrazione ritorna credibile e comprensibile. Rashomon insomma non fa parte del modernismo, non riflette sul modo di raccontare, si limita a mostrare che in una condizione di corruzione morale è impossibile raccontare una storia non ambigua. 6

E ancora: Kurosawa non è un regista analitico che appartiene a questa tradizione [ovvero di cineasti modernisti che usano il materiale filmico in direzione semiotica] e Rashomon conduce la sua inchiesta sulla costruttività della realtà solo sul piano dei significati. Il film tratta la frammentazione e la relatività in termini di contenuto delle narrazioni e non della loro struttura. […] A differenza del modo con cui nelle pièce di Beckett o Pinter viene usato il linguaggio, qui il materiale semiotico non frammenta o annulla le basi della comunicazione umana né della fiducia reciproca. Sono le personalità dei personaggi, è il desiderio del testimone di presentare se stesso sotto la migliore luce possibile, a determinare tali conseguenze. 7

Eccoci di nuovo di fronte a quattro versioni differenti di un medesimo fatto culturale. Non se ne esce, salvo che non si cerchi una storicizzazione virtuosa che leghi l’opera non al nostro universo culturale, ma a quelli – più d’uno – che condividono il paese, la stagione storica, le personalità che

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hanno contribuito a creare il film. È qui però che accade un cortocircuito interessante che produce e spiega molti altri cortocircuiti a seguire: i principali riferimenti indigeni presenti nel testo rimandano all’età Taishō, appartenendo a quella stagione sia i lavori di Akutagawa sia le opere jidaigeki cui Rashōmon guarda per rinnovare il genere. Com’è noto, l’influenza esercitata durante il Taishō sulla cultura giapponese dalla cultura, dall’arte e dalla tecnologia occidentale è particolarmente forte. Akutagawa medesimo può essersi ispirato a The Moonlit Road di Ambrose Bierce (1907) e The Ring and the Book (1869) di Robert Browning per il suo Nel bosco, ovvero a romanzi che appartengono a quel filone di opere moderne che invadono le arti europee a cavallo tra fine ’800 e inizio ’900 e che coinvolgono personalità come Dostoevskij, Conrad, Joyce, Woolf in letteratura, Strindberg, Ibsen, Wilde, Cocteau in teatro. Le loro opere sono in gran parte tradotte in giapponese e messe in scena negli anni ’20 e ’30 e anche i quadri e i film prodotti dalle «avanguardie» occidentali ricevono una significativa distribuzione nel paese. Ecco quindi come il presunto modernismo di Rashōmon si avvicina alle sensibilità dei movimenti artistici europei attraverso la lente (deformante?) del modernismo di epoca Taishō. Insomma per interposta testualità e per esposta ipertestualità. Tale rete di relazioni testuali è quindi in grado di giustificare le comparazioni più originali o fantasiose, pur restando come dire su un livello epidermico e comunque poco pregnante della similitudine. Non dimentichiamo, ad esempio, che ciò che è considerato sovversivo o sperimentale nel nostro contesto culturale, non è detto che lo sia anche in quello nipponico. Tutt’al-

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tro. E allora, se Rashōmon propone un’idea relativistica della verità, afferma l’inattendibilità e i limiti dello sguardo, sposa una dimensione non finita dell’opera d’arte, aperta a diverse modalità di fruizione e di interpretazione ecc., così come faranno più tardi nelle loro opere moderniste registi del calibro di Antonioni, Godard o Resnais, può dipendere dal fatto che cerchi una certa sintonia con paradigmi culturali già diffusi da secoli nell’arcipelago, senza quindi manifestare alcuno spirito anticonformista o di rottura. Questa evidenza si comprende meglio analizzando un canone espressivo ricorrente sia nei testi modernisti, sia nella nostra pellicola. Mi riferisco allo sguardo in macchina, uno dei principali contrassegni che marca l’autorialità di registi come Godard, Bergman, Straub, Fellini (e molti altri) e che è comunemente considerato un mezzo per squarciare il velo della finzione, rompere l’illusione della trasparenza sintattica, svelare la presenza di un’istanza enunciatrice e, ancora, denunciare il piacere voyeuristico della fruizione cinematografica 8. I film di Kurosawa che presentano alcuni sguardi in macchina – da Una meravigliosa domenica a Vivere! da Il trono di sangue a I sette samurai, da Kagemusha al nostro Rashōmon – non hanno mire «corrosive», in senso straniante e antinarrativo, semmai aspirano ad «accendere» il racconto, a trasmettergli vitalità e scompiglio, sfruttando la perturbazione emotiva che tali soluzioni provocano sullo spettatore 9. È quanto avviene anche in Rashōmon, in modo particolare nelle sequenze ambientate nel cortile del Kebiishi, occorrenze, queste, indicative di un modernismo potenziale che è però tale solo agli occhi e secondo le categorie

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culturali di chi guarda. Boyd ad esempio sostiene che «[la camera] nelle sequenze del tribunale rimane quasi totalmente immobile, passando occasionalmente e in modo non intrusivo da un campo medio a un primo piano, restando però salda, rigorosamente, a un solo asse [in modo tale che] le sequenze sono presentate dal punto di vista fisso di uno spettatore invisibile, il magistrato» 10. A onor del vero, delle trentuno inquadrature che durante le sequenze del tribunale riprendono frontalmente i testimoni (abbiamo escluso la ripresa dei dettagli di alcuni oggetti o altre con angolazioni troppo marcate) sono in realtà solo sette quelle che presentano un vero e proprio sguardo in macchina. In tutti gli altri casi, lo sguardo dei personaggi è sempre orientato, anche se di poco, verso l’esterno dei margini del quadro, e in tutte le direzioni: verso destra, sinistra, in alto, in basso, diagonalmente. Come si può evincere dai fotogrammi pubblicati (fig. 23), c’è una netta separazione tra lo sguardo della macchina da presa (e dello spettatore) e quello del giudice, almeno nella gran parte dei casi. La cinepresa, infatti, non è mai collocata in un solo luogo – l’ipotetico scranno dove è seduto il magistrato – ma varia la sua ubicazione per distanza e angolazione rispetto ai personaggi. Lo capiamo anche solo osservando le figure del taglialegna e del bonzo che si trovano in secondo piano: a volte sono entrambi all’interno del quadro, a volte sono collocati sulla linea ideale che separa il campo dal fuoricampo, altre volte sono «vittime» di fuoricampo interni (perché coperti dai corpi dei testimoni in primo piano), altre ancora sono relegati l’uno o entrambi in fuoricampo (fuoricampo che talora appaiono persino «extradiegetici» 11). Una mobilità, la loro, che dun-

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que è il riflesso di un universo profilmico in continuo, anche se appena percepibile, cambiamento, frutto di decine di piccoli o grandi spostamenti dell’asse visivo, di continui dislocamenti della mdp sul selciato del cortile che riproducono una «delocalizzazione» del giudizio e una predisposizione all’accumulo di sguardi, campi visivi, prospettive scopiche. In tale frangente è impossibile restituire un’immagine nitida e pacificata degli indagati, né assegnare un’esatta posizione fisica (ed etica) al giudice. Prevale la permeabilità del confine, la porosità degli spazi e dei valori, l’osmosi del campo con il fuoricampo, l’interdipendenza del visibile con l’invisibile. La certezza di Boyd verso una granitica sovrapposizione tra le tre entità in gioco (mdp, spettatore, giudice) non trova, in conclusione, codificazioni certe nelle immagini. Anche i sette sguardi in macchina che abbiamo individuato – ma l’identificazione non è stata semplice e resta ambigua in alcuni passaggi 12 – sono meno interpellanti e diretti di quanto si potrebbe supporre. 1) Inq. 81. MF di Tajōmaru (6’’). Lo sguardo in macchina è appena accennato, dura pochi secondi. Data la relativa distanza della cinepresa dal soggetto (una MF o meglio ancora una mezza FI di Tajōmaru, seduto a terra a gambe incrociate), la direzione del suo sguardo non è chiara (il bandito potrebbe rivolgersi, infatti, verso la parte superiore del quadro). Nel corso dell’inquadratura, il personaggio racconta le ragioni della caduta da cavallo. 2) Inq. 146. MPP di Tajōmaru (28’’). L’uomo, volgendo lo sguardo chiaramente verso l’obiettivo, commenta lo sguardo della donna (gli occhi di ghiaccio, l’espressione da

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bambina) nel momento in cui le comunica il presunto ferimento del marito. Lo sguardo fisso di Tajōmaru è nondimeno assorto, perso nel ricordo, non è rivolto alla sala (dura la metà del piano, 14’’) (fig. 24). Poco dopo, infatti, l’uomo si scuote e, guardando sopra la cornice del quadro e verso il giudice (situato in una posizione elevata rispetto alla mdp), confessa che è stato allora che ha deciso di violentare la donna davanti all’inetto marito. 3) Inq. 189. MPP di Tajōmaru (22’’). Il bandito scoppia in una risata fragorosa e sguaiata che, di fatto, conferma l’avvenuta conquista della donna e la consumazione dell’amplesso di fronte a Takehiro. Qui sono pochi i dubbi sul fatto che l’interpellazione sia diretta e incisiva. Posizione del giudice e dello spettatore coincidono (fig. 25). 4) Inq. 248. MPP di Masago (36’’). Masago descrive l’espressione del volto di Takehiro, la luce fredda dei suoi occhi, l’espressione di disprezzo nei propri confronti, di moglie, che ha ceduto alle lusinghe del bandito. Come nell’inq. 146, qui abbiamo uno sguardo assorto: pur guardando in macchina, Masago è come se fissasse il vuoto. Non è detto che stia guardando il Kebiishi, quindi non è detto che vi sia coincidenza di posizione e di sguardo tra il magistrato, la mdp e il pubblico (fig. 26). 5) Inq. 287 e 290. PP della medium (28’’ e 6’’). Due inquadrature identiche che incorniciano la prima analessi della medium. In particolare, nel secondo caso, Takehiro ricorda che Masago era in un’estasi tale da renderla bella come mai prima. Lo sguardo in macchina è diretto, le parole sono rivolte al giudice ma gli occhi della medium hanno un’espressione alterata, spersonalizzata (fig. 9e).

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6) Inq 297. MPP della medium (25’’). La medium, in evidente stato di trance, ricorda l’aberrante proposta di Masago a Tajōmaru di uccidere Takehiro senza pietà. Lo sguardo in macchina in questo caso è filtrato da un velo che copre il volto del personaggio e indebolito dai continui movimenti rotatori del suo corpo. Non è certa l’identità di sguardi tra Kebiishi e spettatore (fig. 27). Si sarà notato che ben tre dei sei/sette camera look individuati sono presenti in tre inquadrature (le numero 146, 248 e 290, figg. 24-26-9e) già analizzate nel capitolo sette, quelle che contengono le battute con le quali Tajōmaru, Masago e Takehiro descrivono al giudice gli sguardi dei loro rispettivi partner. Nella 146 Tajōmaru racconta di aver visto in Masago il volto di un bambino e di essere stato sedotto dai suoi occhi di ghiaccio; nella 248 Masago dice di aver dovuto sfidare lo sguardo algido e stigmatizzante del marito; nella 290 Takehiro rammenta di essersi reso conto della bellezza incommensurabile della moglie mentre rivolgeva a Tajōmaru uno sguardo di estasi. Il lettore ricorderà che avevamo messo in relazione queste glosse – non per forza attendibili, anzi probabilmente «trasfigurate» da soggetti pronti ad aggiungere nello sguardo altrui sfumature che dipendono dalla propria condizione di innamorati (o di sospetti) – con tre momenti di rispettiva inadeguatezza che giungevano, sul piano dell’intreccio, qualche istante prima o qualche istante dopo le testimonianze al processo. Avevamo segnalato in particolare il passaggio in cui Tajōmaru, nascosto dietro un cespuglio, fa finta di guardare altrove quando teme di essere stato scoperto da Masago (fig. 10, inq. 141);

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quello in cui Masago si copre il volto con le mani per proteggersi dallo sguardo accusatorio di Takehiro (fig. 11, inq. 250); quello in cui Takehiro chiude gli occhi per non vedere la coppia amoreggiare dinanzi a sé (fig. 9f, inq. 291). Parlavamo, allora, di parole «addizionali» e «additive» che si scontravano con sguardi «sottrattivi» e «soccombenti». Ora scopriamo che le inqq. 146, 248 e 290, quelle di «trasfigurazione» dello sguardo altrui, contengono anche «strane» interpellazioni spettatoriali. Vale a dire che i tre sguardi in macchina dei personaggi sono sguardi assorti, vuoti, impersonali, rivolti non tanto allo spettatore o al magistrato, quanto a una dimensione del ricordo in gran parte inaccessibile agli altri e che difficilmente può corrispondere ai flashback ricostruiti dall’istanza narrante. Ne consegue che l’aggiunta di significati e sfumature negli sguardi dei partner, operata dalle loro parole di commento, va di pari passo con un contrario «scolorimento» di senso e di coscienza nello sguardo di chi parla, un ulteriore sottrarsi, un ulteriore perdersi in un vuoto dentro il quale però questa volta, attraverso l’interpellazione diretta, è catapultato anche lo spettatore. Anche le altre occorrenze presentano sguardinon sguardi, vuoi perché coperti da un velo, vuoi perché vitrei, vuoi perché la distanza della mdp dal soggetto è troppo marcata per comprendere l’esatta direzione di uno sguardo. Resta solo l’inq. 189 (fig. 25) ad affermare una vera e scomoda interpellazione spettatoriale. Tuttavia la sua messa in presenza non sembra giungere accidentalmente: il ghigno di Tajōmaru, irridente e offensivo, interrompe l’analessi proprio quando si sta per consumare il rapporto con Masago, lasciandolo in ellisse. È, a tutti gli effetti, uno

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sguardo interpellante che si attiva però nell’esatto momento in cui viene negata la possibilità di guardare l’amplesso tanto atteso. Il bandito guarda per sottrarre lo sguardo. Irride – tanto la coppia, di cui infrange l’unione matrimoniale, quanto lo spettatore (nonché il giudice) di cui reprime la libido – per «fagocitare» gli eventi. Interpella lo spettatore per distrarre o interrompere il processo che dalla percezione potrebbe portare finalmente al piacere visivo. Questa serie di determinazioni potrebbe essere annessa all’interno della sensibilità modernista nella misura in cui racconta di uno sguardo che evidenzia se stesso e i propri limiti 13. E pur tuttavia, il raggio d’azione di tale consapevolezza agisce sul piano della storicizzazione solo se si considerano i fenomeni ricettivi del film in Europa e negli Stati Uniti e non certo il suo bacino di intenzionalità originarie. Non esistono, infatti – e i «quasi» sguardi in macchina lo stanno a testimoniare – volontà di lacerazione del racconto o di rottura delle convenzioni, né di riflessione pratico-teorica sulle difficoltà interne ed esterne a ogni narrazione. A tal proposito ha ragione Kovács quando ricorda che «l’ambiguità del plot [o degli stessi sguardi appena citati] non è associata con la natura essenziale della narrazione, ma è considerata una conseguenza dell’universo morale corrotto» 14. Aggiungo da parte mia che lo sguardo come sottrazione e fagocitazione degli eventi, come forma di distrazione ed equivoco – sì causato dalle condizione di corruzione morale che imperversa nell’epoca Heian, ma che chiaramente interessa e coinvolge l’analoga realtà postbellica del Giappone (e quindi le capacità di vedere e capire dello spettatore di allora) – sembra avere co-

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me obiettivo la ricerca di una verità o di una capacità cognitiva che sappia fare a meno dell’apparato ottico, che sappia affidarsi ad altri sensi e soprattutto ad altri spiriti. È il gesto del monaco che consegna il neonato al boscaiolo (e lo trasforma da voyeur a padre), più ancora di quello del boscaiolo che lo chiede e lo accoglie, a rappresentare, in qualche misura, una possibile alternativa alla fallibilità della vista. Il bonzo, infatti, decide di non credere ai suoi occhi, di non ascoltare ciò che gli consiglia l’intelletto e il raziocinio, di disinteressarsi dell’enigma e dei suoi possibili colpevoli affidando a uno sconosciuto il nuovo nato che, sul piano metaforico, è anche una nuova speranza per il futuro, un’altra narrazione e un altro viaggio nel bosco. Lo fa senza avere alcuna garanzia che la fiducia sia ben riposta, senza sapere quali saranno le conseguenze della sua decisione. Sorprende ritrovare il monaco protagonista di una scelta così eclatante poiché è il più inetto e immobile tra i personaggi del film, il solo verso il quale lo spettatore non istituisce legami di identificazione o forme di rispecchiamento. Quasi tutti gli altri suoi «compagni di sventura», invece, si trasformano in simbolo e allegoria dell’esperienza cinematografica: Takehiro legato al tronco che osserva Masago e Tajōmaru senza poter intervenire; Tajōmaru che, nascosto dietro un cespuglio e credendosi invisibile, spia Masago; Masago che, stanca della dappocaggine dei due uomini, li istiga al duello; il boscaiolo che, camminando, diventa detective inconsapevole o, nascondendosi, voyeur licenzioso; persino il viandante che chiede conto e ascolta, che si scalda e che ruba (saperi o corredi, poco importa),

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che arriva per ultimo e scappa per primo. Tutti questi personaggi figurativizzano in qualche modo l’attività spettatoriale di fronte a un film o a un racconto. Il monaco no. Non è implicato nella vicenda, non è testimone oculare, spesso al processo resta fuoricampo, sotto il portale chiude occhi e orecchie, nega l’evidenza, subisce le rivendicazioni ciniche del viandante, non fa nulla per fermarlo nella sua opera di distruzione del portale e nei suoi furti (cognitivi). Eppure il suo dono è il primo e l’unico atto compiuto sotto il portale che non segue una logica dettata dalle evenienze e dall’assenza di alternative. Il viandante corre sotto la tettoia per non bagnarsi, stacca le assi di legno e accende un fuoco per non morire di freddo, ruba il corredo del neonato per non morire di fame (almeno così dice); il boscaiolo e il monaco, da parte loro, si gettano contro il viandante per non lasciarlo scappare e restano immobili e a lungo in silenzio per non ammettere la propria inadeguatezza. Quando il taglialegna si offre di prendere in affido il bambino lo fa (anche) per non apparire ladro e bugiardo agli occhi del religioso. E quest’ultimo, d’altronde, quando il suo interlocutore sta per prendere in braccio il neonato, si volta istintivamente dalla parte opposta per non lasciarlo nelle mani di chi ritiene evidentemente colpevole o inaffidabile. Il successivo e repentino cambio di idea del sacerdote, proprio perché inaspettato, immediato, irriflessivo, offre invece la possibilità di una scelta 15. È una scelta non di poco conto quella che affida senza vedere, che consegna senza sapere, che conferisce senza capire. Che dona senza nulla in cambio. Ma che insieme lancia una sfida, responsabilizza, spinge una volta per tutte il boscaiolo (e lo spet-

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tatore) ad allontanarsi dal portale semidistrutto e a costruire vite e narrazioni altrove. È la predisposizione delle condizioni per un nuovo inizio, per un nuovo racconto, da qualche altra parte, in qualsiasi parte del mondo, che rende Rashōmon un film infinito e senza fine?

1 Roy Armes, The Ambiguous Image: Narrative Style in Modern European Cinema, Indiana University Press, Bloomington 1976, p. 237 (trad. mia). 2 «Mi era sempre parso che, fin dall’avvento del sonoro negli anni ’30, avessimo dimenticato quel che c’era di meraviglioso nei vecchi film muti. Quella perdita estetica mi tormenta in continuazione. Sentivo il bisogno di tornare alle origini del cinema per ritrovare quella bellezza particolare; dovevo dunque ritornare al passato. In particolare, ero convinto che ci fosse qualcosa da imparare dallo spirito dell’avanguardia cinematografica francese degli anni ’20. In quel periodo però in Giappone non c’erano cineteche. Fui costretto a faticose ricerche di vecchi film e a cercar di ricordare la struttura di quelli che avevo visto da ragazzo, riflettendo sulle scelte estetiche che li avevano resi tanto originali», Akira Kurosawa, L’ultimo imperatore. Quasi un’autobiografia, Baldini & Castoldi, Milano 1995, p. 238. 3 Per un rendiconto sulle diverse accezioni assunte dalla nozione di modernità (e di «modernismo») nella storia del cinema si rimanda a: Dominique Païni, Le cinéma, un art moderne, Editions Cahiers du cinéma, Paris 1997; András Bálint Kovács, Screening Modernism: European Art Cinema 1950-1980, University of Chicago Press, Chicago 2007; M. Pomerance (a cura di), Cinema and Modernity, Rutgers University Press, Piscataway (NJ) 2006; Jacques Aumont, Moderne? Comment le cinéma est devenu le plus singulier des arts, Éditions Cahiers du cinéma, 2007 (trad. it. Moderno? Come il cinema è diventato la più singolare delle arti, Kaplan, Torino 2008, pp. 48-49); Giorgio De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche Editrice, Parma 1993. 4 Parker Tyler, The Three Faces of Film, A.S. Barnes & Company, Cranbury 1967 (trad. mia); ora in Donald Richie (a cura di), Rashōmon. Akira Kuro-

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sawa Director, Rutgers University Press, New Brunswick 1987, pp. 156157. 5 Ugo Volli, Quando le immagini mentono, intervento del semiologo presente nei materiali extra dell’edizione italiana in DVD del film, edita da Dolmen Video, 2007. 6 Kovács, Screening Modernism cit., pp. 251-252 (trad. mia). 7 Stephen Prince, The Warrior’s Camera: the Cinema of Akira Kurosawa, Princeton University Press, Princeton 1999, pp. 134-135 (trad. mia). 8 In verità da diversi anni, vari studiosi si sono presi la briga di relativizzare tale convinzione, rilevando come lo stilema sia ricorrente, e senza alcuna dimensione trasgressiva, anche in molto cinema narrativo tradizionale e come spesso la sua presenza non comporti né la rottura della diegesi né l’interpellazione diretta di chi è in sala. A tal proposito si veda: Francesco Casetti, Dentro lo sguardo. Il cinema e il suo spettatore, Bompiani, Milano 1986; Marc Vernet, Figure dell’assenza. L’invisibile al cinema, Kaplan, Torino 2008; Paolo Bertetto, Fritz Lang. Metropolis, Lindau, Torino 1990. 9 Si pensi all’interpellazione diretta dello spettatore in Una meravigliosa domenica quando Masako, la protagonista femminile della coppia, si rivolge direttamente al pubblico in sala chiedendo un applauso di incoraggiamento nei confronti del fidanzato Yuzo che non riesce a dirigere un’orchestra invisibile in un anfiteatro vuoto. Rivolto l’invito, trascorrono effettivamente alcuni secondi di silenzio, nell’ingenua fiducia che lo spettatore al cinema accolga l’invito della ragazza e batta realmente le mani. Questi lunghi secondi di sguardo in macchina non interrompono la diegesi, forse la indeboliscono temporaneamente, per poi farla ripartire con maggiore intensità, giacché subito dopo Yuzo, come se avesse sentito gli applausi di incoraggiamento, alza la bacchetta e la colonna sonora si riempie di un’aria musicale (extradiegetica) che sancisce la ritrovata fiducia dei due innamorati in un futuro migliore. Si pensi, per passare al caso de I sette samurai, anche al celebre monologo di Kikuchiyo che – sguardo in macchina – denuncia la casta dei samurai di gravi ingiustizie storiche nei confronti dei contadini. Anche in questo caso l’interpellazione non rompe il tessuto della diegesi, semmai serve a rendere più intenso l’atto di accusa del personaggio.

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David Boyd, Film and the Interpretive Process: A Study of «Blow-Up», «Rashomon», «Citizen Kane», «8 1/2», «Vertigo» and «Persona», Peter Lang, New York 1989, pp. 55-56 (trad. mia). 11 Segnalo un «errore» grammaticale, forse casuale, forse voluto, certamente indicativo della forza che esercita l’invisibile e l’oltrediegetico sulla produzione di senso e sui meccanismi inconsci di comprensione del film. Durante il rituale di convocazione dello spirito di Takehiro, quando la medium corre attorno a un piccolo altare, vi è un’inquadratura, la 281, in cui il boscaiolo e il monaco spariscono letteralmente dall’immagine, quando invece dovrebbero apparire sulla destra del quadro come avviene per tutte le altre inquadrature, comprese quelle molto simili come la 285 e 287. La breve durata dell’inquadratura e l’attenzione verso le circonvoluzioni in primo piano della medium fanno sì che tale «buco» non sia percepito dallo spettatore, se non nel corso di una visione alla moviola. E nondimeno tale «sparizione» la dice lunga sul valore dell’effimero, del volatile e dell’irrintracciabile nel racconto. 12 È ovvio che definire la direzione di uno sguardo in un attore che cambia espressione e posizione del volto di secondo in secondo non è semplice, né porta a conclusioni certe. Tuttavia le sette inquadrature individuate ci paiono le sole in cui l’occhio dell’obiettivo e quelli dei personaggi si incrociano realmente per almeno alcuni secondi. 13 È interessante notare le similitudini tra il «modernismo» di Rashōmon e quanto sostiene, ad esempio, Naomi Schor a proposito dell’interpretazione come atto di fiction. La studiosa descrive «il doppio scacco ermeneutico» tipico della narrativa modernista come una doppia opposta tensione: da una parte essa chiede al lettore di concentrarsi sul processo interpretativo, dall’altra, contemporaneamente, gli toglie la possibilità di ottenere una valida interpretazione del testo stesso. È quanto propone un certo cinema moderno, ma anche quanto chiede il film di Kurosawa allo spettatore, ma non a ogni spettatore, diremmo solo a uno predisposto in tal senso, a un cinéphile cosciente del proprio ruolo, a un fruitore che apprezza, paradossalmente, la scelta di mettere in discussione la sua capacità di comprendere. Cfr. Naomi Schor, Fiction as Interpretation / Interpretation as Fiction, in Susan Rubin Suleiman, Inge Crosman Wimmers (a cura di), The Reader in the Text: Essays on Audience and 10

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Interpretation, Princeton University Press, Princeton 1980, pp. 165-182. Si veda anche Boyd, Film and the Interpretive Process cit., pp. 70-71. 14 Kovács, Screening Modernism cit., p. 252 (trad. mia). 15 A parziale smentita di quanto andiamo dicendo, occorre segnalare un aspetto perturbante mai notato da alcun commentatore. Nel dialogo tra taglialegna e monaco, quando quest’ultimo prima rifiuta e poi concede il neonato al boscaiolo, le inquadrature sono costruite con marcate angolazioni dal basso verso l’alto, tanto che si vede una parte del soffitto del portale sopra la testa dei due personaggi. La scelta figurativa e compositiva lega questo passaggio ad altri, dove viene adottata la medesima prospettiva come ad esempio nell’attraversamento del ponte da parte del boscaiolo (ovvero nel primo flashback finto), quando un lampo rischiara il portale poco prima che inizi la versione di Takehiro, quando la medium viene ripresa durante il suo rituale, in alcune inquadrature del viandante, specie quando ricorda episodi di crudeltà che avvengono nella parte alta del portale o rompe delle assi di una parete per accendere un fuoco. Sono tutte immagini, queste citate, connotate da una forte ambiguità e da un tentativo di costruire ponti con l’ignoto, il soprannaturale, il paranormale. Il viandante è, infatti, il principale elemento di contiguità tra la parte inferiore del portale e quella superiore (Akutagawa docet) e quindi tra il mondo dei vivi e quello dei morti; i lampi e i tuoni, il finto flashback, la figura della medium sono altri elementi che trasmettono inquietudine e rimandano al soprannaturale. Ecco allora che l’associazione tra questi passaggi e il momento più edificante della storia (l’affido del neonato) mette in dubbio la natura stessa del gesto o se non altro suggerisce di non lasciarsi andare a facili e ingannevoli ottimismi. Pertanto, anche il gesto più coraggioso messo in scena non è esente da stratificazioni di senso, potenzialmente in contrasto con quelle da noi proposte.

Antologia critica

Quella che segue è un’antologia di recensioni comparse su riviste di cinema, settimanali e quotidiani all’indomani della distribuzione di Rashōmon in Europa e in America. Si tratta di pezzi scritti tra l’agosto/settembre 1951, quando il film conquista il Leone d’oro a Venezia, e la metà del 1952 quando esce nelle sale di tutta Europa e vince l’Oscar come miglior film straniero. Come sarà facile scoprire dalla lettura, l’antologia proposta rappresenta un piccolo ma interessante tavolo di lavoro per scoprire quali paradigmi – spesso di ordine orientalista – siano stati impiegati dalla critica per commentare e valutare un’opera che giungeva da una cinematografia e da un paese sconosciuti ai più. Abbiamo ricavato, di testi spesso molto lunghi, i brani che includono le opinioni più personali, i sillogismi più spericolati, le riflessioni più pindariche dei recensori rinunciando alle parti più descrittive. Abbiamo, inoltre, scelto quei passaggi dove emergono i limiti culturali dei critici, il loro disorientamento causato dall’assenza di strumenti interpretativi immediatamente applicabili all’ignoto contesto artistico giapponese. Ne emerge un quadro pieno non solo di molteplici e, almeno in parte, comprensibili inesattezze, ma di una serie di strategie retoriche (confronto Occidente/Oriente, riflessioni sulla forma del film, commenti sul fina-

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le e la «morale della favola») complessivamente omogenea, nonostante, anzi forse in virtù di, testimonianze tra loro discordanti.

Vuole il caso che il primo film che ha suscitato vivo interesse e stupore alla XII mostra veneziana è stato un film realizzato nell’Impero del Sol Levante. Le nostre cognizioni del cinema giapponese sono praticamente nulle; il pubblico non sa neppure che in Giappone si realizzano 400 pellicole all’anno (in passato la cifra era ancora assai più elevata). Cosicché, alla visione di Rasciomon tratto da una novella di R. Acutagawa, Nel bosco, la prima sorpresa era fornita dalla maturità tecnica di quest’opera del regista Achira Curosawa. L’altra e ben più importante rivelazione che dobbiamo a questo film consiste nel suo significato umano che va molto più in là del fattaccio che ci racconta. […] Ciò che mi sembra importante notare a proposito di Rasciomon è che, prescindendo dalla cadenza lenta e grave del racconto o dall’insistenza nei primi piani, d’altronde efficacissimi dei protagonisti, dalla selvaggia e crudele compiacenza nei lunghi duelli, il suo contenuto spirituale e l’indagine psicologica dei personaggi non sono affatto tanto lontani dalla nostra mentalità europea. Ognuno potrà rendersi conto, infatti, delle analogie esistenti circa la relatività delle cose e senza pensare al solo nostro Pirandello, così come ognuno potrà ritrovare motivi e spunti stranamente simili a certi ritratti, magari teatralmente esasperati, appartenenti alla nostra letteratura anche modernissima in questa pellicola che molti si aspettavano soltanto primitiva e violenta, di modo che sarei quasi tentato a considerarla come un equivalente all’odierno esistenzialismo.

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Rudi Berger, Panorama, «Filmcritica», vol. II, n. 8, settembre 1951, pp. 101-102.

Quanto a Rascio Mon, cioè Nel bosco, film giapponese di Curosawa, si tratta di un’opera singolarissima e di eccezionale interesse. Essa è pienamente accessibile al nostro gusto di occidentali e costituisce, senza dubbio, la maggior sorpresa della mostra veneziana di quest’anno. […] A questa curiosa storia del dodicesimo secolo si addice un aggettivo del novecento: essa è prettamente pirandelliana. Come in Così è se vi pare le varie verità restano incomparabili tra di loro, tutte logiche, tutte plausibili. L‘opera d’arte non decide e non sceglie tra di esse: le accoglie tutte sopra uno stesso piano di validità, ciascuna coerente e completa in sè stessa. […] Se terminasse a questo punto, Rascio Mon sarebbe un capolavoro: ma anche in Giappone, a quanto pare, si vuole il «lieto fine». Ne deriva un ultimo episodio, appiccicato come chiusa. […] Finale che ha ben poco a che fare collo scabro e solenne pessimismo di tutto il resto. Piero Gadda Conti, «The River» e «Rascio Mon», «Filmcritica», vol. II, n. 8, settembre 1951, pp. 85-87.

Ci appare oltremodo difficile una analisi approfondita e completa del film giapponese Rasho-mon […]. Quasi nulla infatti ci è noto del cinema giapponese: sappiamo ancor meno della cultura contemporanea di tale paese e soprattutto della condizione spirituale di esso in questo dopoguerra. Quel film comunque ci

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è sembrato che abbia un preciso significato, un determinato valore in sé. […] Vi abbiamo visto il riflesso di una condizione sociale, spirituale, umana che ci è parsa quella d’un intero popolo e tale da assumere una portata universale. Sentiamo di attribuire al film un senso, un valore, attuali: un messaggio che ci interessa direttamente, anche se ci giunge avvolto di mistero. Rasho-mon ha l’impostazione d’un’antica favola drammatica: e quando il dramma comincia a svolgersi, esso sembra fondarsi sui motivi eterni della grande tragedia primitiva: il bene e il male, la violenza, l’onore, la giustizia, il tradimento, la fedeltà, il rispetto umano. Pare che il problema centrale possa esse definito come il problema della verità posto da quattro interpretazioni di un oscuro episodio di violenza: c’è del giallo come ce n’è in Edipo Re. […] È il dramma totale di un paese primitivo, esaltato, fanatizzato, scatenato, imbestiato e poi vinto, massacrato, che non crede più, non solo, ma anche volendo non sa più a cosa credere. Più che il Giappone vinto, della guerra e del dopoguerra di oggi, c’è la guerra, il dopoguerra di ogni paese che sia caduto in quella tragedia. […] L’opera di Curosawa è più importante, a nostro giudizio, di una che ci avesse mostrato le rovine materiali di Hiroshima: tale città si può ricostruire comunque – così come Hitler ricostruì la Germania di Guglielmo – mentre una civiltà si ricostruisce, rinasce, solo quando un popolo, postisi quei problemi, acquista quella coscienza, ritrovata la propria umanità, torna o diviene civile. Per lo stesso motivo Germania anno zero con la tragedia del piccolo Edmund, è più importante di molti film tedeschi pieni di macerie ma vuoti di coscienza. Nel film giapponese c’è la coscienza di un isolato o di una minoranza intellettuale avanzata. […] Simboleggiato vagamente nella donna – fedele

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e infedele a un tempo al suo signore – e nel boscaiolo, il popolo giapponese di oggi, con i suoi problemi attuali è sostanzialmente assente: se fosse stato presente, il finale avrebbe assunto un ben più vasto e concreto progressivo significato. Comunque per quanto piena di patetismo, di semplicismo, e alquanto convenzionale, con il suo mistico ricorso biblico, la conclusione di «Rasho-mon» è altamente positiva. Paolo Jacchia, Dramma e lezione dei vinti in «Rasho-mon» e «Der Verlorene», «Bianco e Nero», vol. XII, n. 10, ottobre 1951, pp. 45-49.

Film stupefacente che ha il merito di aver fatto conoscere agli spettatori del Lido una cinematografia quasi totalmente ignorata, nonostante l’elevata produzione annuale di film giapponesi. Dignitoso, solenne, fortemente drammatico e abilmente recitato, questo film ha il merito di essere soprattutto un film giapponese nella sua ispirazione e realizzazione. Risente indubbiamente della sua origine teatrale e a volte è lento e monotono nella narrazione dei fatti, ma possiede un intenso vigore drammatico, tutto di natura interiore, che riesce a conservare ritmo e vigore. […] Alla domanda rivolta da un cronista di un quotidiano veneziano a un gruppo di ospiti giapponesi, una signora ha risposto: «La nostra cinematografia si differenzia dalla vostra in quanto ci sembra più sofferta, più insinuante, sia nella recitazione, sia nella fotografia, sia nel commento musicale. Le pellicole nipponiche contengono tutto il profumo della nostra terra, tutto un amore chiuso, ma vibrante, cieli, giunche e una grande ingenuità. Domina pure la fatalità nei nostri film. È un senso di misterioso dramma che si deve compiere». Forse questo giudizio può servi-

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re a spiegare il trionfale successo riportato dal film, con l’aggiudicazione del maggior premio della Mostra. Di contenuto moralistico tutto orientale, richiede alcune riserve in linea morale, pur restando un’opera di alto interesse e di notevole correttezza e sobrietà. Luigi Ammannati Floris, Rasho Mon (Nel bosco), «Rivista del Cinematografo», vol. XXIV, n. 9-10, settembre-ottobre 1951, pp. 25-26.

L’aspetto sensazionale della XII Mostra del cinema è Rasho Mon (Nel bosco), proiettato i primi giorni, discusso entusiasticamente per tutta la durata del festival, e vincitore di un premio alla fine. Si tratta del film più impressionante [del programma]. Al riparo da un temporale sotto le rovine di un elegante edificio in legno, tre uomini comuni filosofeggiano a proposito della verità. Esprimono il loro smarrimento e la loro angoscia con alcune parole e molta mimica, per loro un’arte innata che sostituisce il gesto impulsivo formalizzando, intensificando, cristallizzando ogni esperienza. Vivono nel XII secolo. Uno di loro è stato testimone di un omicidio. Egli racconta la propria storia secondo la tradizione cui appartiene – graficamente. […] Un triangolo, flashback, un finale felice. E poi questo film è nuovo nella sua forma e racconto, fresco nella sua reinvenzione dell’antichità, eccezionale nell’uso del mezzo filmico. È fotografato interamente all’aperto da Gazuo Miyagawa, che sfrutta i luccichii del sole attraverso il fogliame, tutte le possibilità offerte dalla natura, dai movimenti delle figure umane, dai loro volti e mani, per creare immagini di tremenda eleganza e bellezza. Il regista, Achira Curosawa, offre allo spettatore qualche cosa co-

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me la riscoperta del mezzo cinematografico: l’intensità e la virtuosità assoluta dei suoi attori è resa nella sua massima efficacia, talvolta grazie a lunghe inquadrature con eccitanti movimenti di macchina, più spesso dal rapido montaggio. Non capisco il giapponese e poco i sottotitoli italiani. Per me Rasho Mon è, comunque, l’esempio supremo del vero film sonoro: la narrativa figurativa mantiene la propria continuità rafforzata, miscelata e non interrotta, dalla colonna sonora. Catherine De La Roche, Venice, «Sight and Sound», vol. XXI, n. 2, ottobre 1951, p. 90 (trad. mia).

Il cinema giapponese non vanta una tradizione importante: le sue opere (eccezion fatta per La terra di Uchida) non hanno fino a oggi suscitato un interesse che andasse al di là di una benevola curiosità per l’uso quasi sempre primitivo e ingenuo dei mezzi espressivi. Nei confronti delle precedenti opere Rashomon con la sua estrema perfezione tecnica e la sua consumata raffinatezza stilistica, rappresenta quindi un’eccezione importante: sotto il piano linguistico non ha nulla da invidiare per meditata esperienza e per coscienza espressiva alle opere dei più scaltriti autori europei e conferma quindi ancora una volta che sia assurdo ogni sistema critico che creda all’esistenza di un concetto di arte condizionata da elementi temporali e ambientali. […] Indubbiamente Rasho-mon è un’opera significativa: per la ricchezza dei problemi posti e per il tentativo, a tratti riuscito, di conferire all’immagine validi significati attraverso una esaltazione dei suoi elementi plastici e figurativi. Il film presenta molti aspetti e lati positivi che non possono però riscattarne piena-

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mente i notevoli difetti facendolo assurgere al mondo immortale dell’arte. Una frattura decisiva è infatti chiaramente individuabile fra la natura sostanzialmente ingenua ed elementare del mondo poetico di Curosawa, palese nella costruzione narrativa e nella scoperta tematica della storia, e l’impiego raffinato fino a divenire decadente dei mezzi espressivi: da cui una inevitabile mancanza di sincerità o se si preferisce di coerenza che non può non invalidare l’opera sul piano strettamente estetico, pur serbando la sua importanza sul piano storico e culturale. L’ingenuità singolare dell’autore è evidente dal come egli, partito da una costruzione tematica cara al suo spirito orientale per gli scoperti intenti moralistici, abbia inteso investirla di una complessità strutturale e narrativa chiaramente estranee al suo mondo e quindi costituente inevitabile elemento di frattura. Da ciò il contrasto e lo stridore tra la costruzione del racconto secondo una schematicità favolistica (con il suo preordinato disporsi di una simmetria geometrica che prevede al termine delle varie storie puntuali ritorni all’ambiente iniziale con divagazioni moralistiche di commento, e alla fine una retorica e forzata conclusione volutamente posta per risolvere l’opera con una affermazione tematica estranea ai personaggi e alla storia) e l’articolarsi della narrazione in episodi esteriormente complessi, per il porsi incerto delle soluzioni narrative e per la problematica dei personaggi: senza che però tale complessità narrativa, che dovrebbe investire alle radici i problemi più essenziali della vita interiore dell’uomo, quali quello della verità e della colpa, assuma un autentico carattere drammatico in un inevitabile conflitto attraverso cui si affermi poeticamente il sentimento dell’autore.

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Nino Ghelli, Rasho-Mon, «Bianco e Nero», vol. XIII, n. 3, marzo 1952, pp. 86-90.

Rasciomon (Rasho-mon, 1951) è opera di una cinematografia industrialmente molto sviluppata, giunta a produrre duecento film all’anno: indice, questo, del fatto che il cinema ha assunto una posizione non più solo marginale nella società giapponese. Purtroppo Rasciomon rimane per noi unico esempio di questa vasta produzione, il che impedisce di spostare il discorso su un piano generale attraverso confronti indicativi. […] Il film è tratto da un racconto (Nel bosco) che lo scrittore Akutagawa Ryunosuke ha scritto nel 1917. Intorno a quegli anni, la cultura giapponese stava elaborando tutto quel complesso materiale ideologico e stilistico che dalla seconda metà dell’800 aveva assorbito dalla cultura cosiddetta occidentale, francese e russa in particolare. Periodo di tentativi, di esperimenti, di tendenze, dove le posizioni più antitetiche cercavano una risultante equilibrata. […] Nasce dalle immagini un messaggio che, per il fatto di fondarsi su una realtà di oggi, ha risonanze impensate. E quel Giappone del 1100, uscito da una guerra, percorso da violenze, stragi, ferocie di ogni genere, è ben vicino a una situazione generale recentissima e insieme, nei suoi elementi sostanziali, vecchia di sempre. La soluzione visiva che Achira Curoshawa dà a questo messaggio è intelligente e preziosa; nella sua compiutezza riesce a fornire ai personaggi e all’ambiente un valore profondo, un movimento e un respiro che sono essenzialmente reali. Potrà sembrare che il linguaggio usato sia di derivazione occidentale, non sia scoperto dall’interno, eppure la sincerità, l’ingenuità, la

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sobrietà hanno una loro nota originale, mostrano una precisa coscienza. […] In questi limiti Rasciomon è opera importante e significativa: in questo risolvere attraverso una forma ingenua e sincera, adeguata, un contenuto dal valore universale e insieme attuale. Il risultato è una sintesi originale che scaturisce da un mondo e da una tradizione ed è, insieme, umana in senso assoluto. Una delle sequenze ricorrenti, nel tempio diroccato, ha inizio con un movimento di macchina che verticalmente, dall’alto del tetto, scopre in basso, piccoli, i tre uomini che si scaldano intorno al fuoco: una inquadratura che nel suo valore di sintesi è legata e insieme rappresenta una cultura figurativa che nei suoi elementi primi è essenzialmente orientale, in particolare giapponese. In questa direzione Rasciomon, lontano da influenze di occidentalismo, si inserisce profondamente in quella civiltà dalla quale è sorto. Marco Siniscalco, Rasciomon, «Rassegna del Film», vol. I, n. 3, marzo 1952, p. 33.

La qualità, l’originalità e l’importanza di un’opera come Rashomon sono profondamente disorientanti per la critica. In effetti essa getta di colpo lo spettatore in un universo estetico assolutamente orientale ma questo, con la mediazione di una tecnica cinematografica (fotografia e montaggio) che presuppone una solida e già precedente assimilazione di tutta l’evoluzione del cinema occidentale. In modo che entra senza difficoltà in un sistema completamente estraneo. I film indiani sono lenti, i film egiziani primitivi e inesistenti, tra le storie che raccontano e noi sembra-

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no interporsi una serie di filtri psicologici che non si identificano mai con l’inettitudine materiale, ma che determinano certi caratteri della tecnica: lunghezza dei piani, lentezza della recitazione, semplicità di montaggio, mancanza di ellisse, eccetera. Orbene, non si è certamente meno disorientati dalla tecnica di Rashomon che da quella di un film sovietico, per esempio. Sarei incline a pensare che questo fenomeno non è che la conseguenza, sul piano del cinema, dell’evoluzione così particolare del Giappone negli ultimi cinquant’anni (e cioè proprio dalla invenzione del cinema). I primi film giapponesi datano, pare, al 1920. La nostra sorpresa davanti a Rashomon è la lontana eco di quella del mondo occidentale davanti alla disfatta russa nel 1905 e più recentemente davanti a Pearl Harbor. Voglio dire davanti alla capacità dei giapponesi di assimilare le tecniche della civiltà occidentale, conservando la metafisica, l’etica o la psicologia orientali. Comunque sia, l’abilità della messinscena propriamente detta, in Rashomon presuppone non solo dei mezzi tecnici dello stesso genere di quelli di Hollywood, per esempio, ma un dominio totale delle risorse espressive del cinema. Il montaggio, la profondità di campo, l’inquadratura, i movimenti di macchina, sono adoperati in funzione del racconto con una libertà e una maestria equivalenti. […] Ho parlato di una maestria equivalente a quella dei cineasti occidentali più evoluti. Non ho detto «identica». Infatti, per certi aspetti, il film è puramente giapponese. Per l’azione, innanzi tutto, come si è visto. Si potrebbe immaginare in America o in Europa un soggetto basato su una situazione così audace: la violenza a una donna davanti a suo marito. E c’è bisogno di dire che non si pensa per un solo istante a questa scabrosità, quanto all’oscenità delle origini di Fedra, ascoltando La fille de Minos et de Pasiphae. […]

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Non si direbbe che il regista imiti qui il cinema occidentale o che vi s’ispiri, sembrerebbe piuttosto che pervenga allo stesso risultato in virtù di un’unità e universalità fondamentale del vocabolario, della grammatica e della stilistica filmica. Una carrellata è una carrellata, che sia giapponese, francese o americana, ma c’è un certo ritmo, una velocità, un rapporto tra l’inquadratura e il movimento della camera che fanno sì che le carrellate di Rashomon non siano d’importazione più della recitazione degli attori. […] Da che cosa deriva, dunque, che tante ragioni di ammirazione non portino tuttavia una completa soddisfazione? Rashomon presuppone l’esistenza antica e futura di una produzione solidamente stabilita, con tecnici abili, artisti perfettamente formati, un genio nazionale cinematografico, in breve una situazione molto più paragonabile a quella dell’Inghilterra o della Francia che a quella del Messico. Frammisto allo stupore ammirato che ci lascia una simile opera, rimane tuttavia una sensazione di delusione. Rashomon, a suo modo, è un film di serie. Non abbiamo forse le stesse sensazioni vedendo per la prima volta un buon film americano? Alla centesima, scopriamo che una retorica non è, alla fine dei conti, che una retorica e che un film è qualcosa di più. In breve, io sospetto, al di là dell’originalità dovuta alla nostra ignoranza, una certa banalità nella perfezione di Rashomon che limita il mio piacere. Questa riserva è anche un complimento. Voglio dire che il Giappone produce migliori film. Lo credo volentieri e non sarei troppo sorpreso di sapere che Akira Kurosawa non è che il Duvivier del cinema giapponese. André Bazin, Rashomon, «L’Observateur», 24 aprile 1952 (trad. it. in André Bazin, Il cinema della crudeltà, Il Formichiere, Milano 1979, pp. 156159).

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La bellezza di questo film non è cosa che si possa dire in poche parole. C’è una tale completezza di tutti gli elementi cinematografici da lasciar pensare che il Giappone abbia un senso cinematografico più sviluppato di quello di molte altre Nazioni. Fotografia, sceneggiatura, interpretazione sono dei veri poemi. […] Malgrado l’azione viva e appassionante, il film ha una tesi di primaria importanza e nella conclusione noi troviamo più Platone e Pirandello che non la filosofia orientale. «Rasciomon» significa infatti «Luce della verità», che se non erriamo dovrebbe essere il nome del vecchio tempio dove i quattro narrano l’avvenuto dramma. […] È sbalorditivo quanto di poco orientale e quanto invece di civiltà latina e greca vi sia nel film. Il fatto che sia stato premiato in ogni Paese è molto dovuto alla facilità di essere compreso dai popoli occidentali. Anche l’America ha assegnato l’Oscar a questo film che è veramente uno spettacolo indimenticabile anche per il pubblico, pur essendo un film da Cineteca. […] Un consiglio agli esercenti: avvertite di vedere il film dal principio. E.F., Rasciomon, «Intermezzo: quindicinale di radio, musica, cinema, teatro, varietà», vol. VII, n. 6, aprile 1952.

L’accoglienza che l’America ha riservato a Rashomon è molto interessante perché rivela, se si sa leggere tra le righe, un’accettazione controvoglia della sua evidente superiorità. Gli americani sono pronti ad ammettere per snobismo, l’eccellenza di un film francese o inglese o anche svedese. Ma quando è un paese come il Giappone, paese orientale le cui abitudini e costumi scioccano spesso gli americani perché considerati primitivi e ar-

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retrati, a realizzare un’opera che tecnicamente e artisticamente eguaglia o addirittura sorpassa ciò che di meglio ha prodotto Hollywood, il critico americano, sorpreso, si sente toccato e cerca facili spiegazioni in qualche influenza straniera. Per lui, Rashomon è un film giapponese del Dopoguerra, è dunque solo in virtù dell’assistenza e della supervisione dell’occupante americano che questo risultato è stato raggiunto. Praticamente tutte le riviste americane che hanno scritto qualche cosa sul film hanno sottolineato «la forte influenza del dopoguerra esercitata da Hollywood» e dicono che «il pubblico giapponese è “viziato” dalle produzioni americane, difficilmente eguagliabili». Sono invece portato a credere che tali affermazioni non siano esatte. Al contrario il cinema giapponese possiede una ricca e brillante tradizione e come cinema nazionale può rivaleggiare con gli altri paesi […]: Francia, Inghilterra, America, Germania, Italia, Russia e Svezia. […] I tre primi e principali episodi sono accompagnati da un tema musicale differente (un po’ irritante per l’orecchio occidentale: un bolero che assomiglia a quello di Ravel) mentre il quarto – volontariamente, perché è l’episodio finale della storia, quello vero – è accompagnato solo dai rumori naturali. È interessante notare che le partizioni giapponesi «occidentalizzate» (ho visto questo in altri film giapponesi) derivano fortemente, nel loro stile, dalla musica francese degli impressionisti e dei post impressionisti Debussy, Ravel, Roussel ecc. […] Il romanzo che è alla base dell’opera è di uno scrittore moderno conosciuto come «l’Ernst Hemingway del Giappone»; […] La storia di Rashomon è quella dell’opposizione tra verità e menzogna. La sua costruzione ricorda le pièce di Pirandello. Siccome non ho letto il romanzo [di Akutagawa], ignoro quali cambiamenti l’adattamento ha

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apportato alla storia originale. Quel che sia, il film vince la partita sul piano prettamente cinematografico. […]. Può essere che il suo stesso successo aprirà al cinema giapponese la via che gli consentirà di guadagnare una giusta e grande nomea da parte di tutte le scuole cinematografiche del mondo. Curtis Harrington, «Rashomon» et le cinéma japonais, «Cahiers du cinéma», n. 12, maggio 1952, pp. 53-57 (trad. mia).

Bibliografia essenziale

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Monografie su «Rashōmon» RICHIE Donald (a cura di), Rashōmon. Akira Kurosawa Director, Rutgers University Press, New Brunswick 1987. RICHIE Donald (a cura di), Focus on Rashomon, Prentice-Hall, London 1972. RIEDER Patrick, Akira Kurosawas «Rashomon»: Eine Analyse der dramatischen Struktur anhand von Syd Fields Drehbuchtheorie, Grin Verlag, München 2010.

Recensioni su quotidiani e settimanali Anonimo, «Cinema: quindicinale di divulgazione cinematografica», 1 ottobre 1951; Anonimo, «Variety», 20 febbraio 1952; Doris Arden, «Chi-

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KUROSAWA AKIRA. RASHŌMON

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Indice

7

Viaggio a Kyoto. Un’introduzione

33

Quelli che camminavano sulla coda del leone. Prima e dopo «Rashōmon»

53

Il film

57

Le sequenze

69

Sono fedele, ma… L’adattamento di due adattamenti

93

Duelli senza codice d’onore. «Rashōmon» e il «jidaigeki»

115

Notte e pioggia sul Giappone. Sottotesti politici e antiamericanismo

129

Ecco l’impero dei segni. Forme, narrazioni, enunciati al dis-servizio delle ermeneutiche

181

Cronache entomologiche dal film. Analisi di sequenze

201

Rashō-mon-amour. Una conclusione

221

Antologia critica

237

Bibliografia essenziale

Finito di stampare nel mese di marzo 2012 presso DigitalPrint Service - Segrate (Mi) per conto di Lindau - Torino