Introduzione alla vera storia del cinema
 8895563719, 9788895563718

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Non capita spesso che un grande protagonista dotta storia del cinema abbia l'occasione di raccontare il suo particolare punto di vista Ancor a mono sposso succedo che questo testimonianze vadano ai di li di qualche saggio occasionalo o intervista. L'Introduzione alia storia vera del cinema è invoco un'opera di grande respiro e pertanto eccezionale, magnifica. generosa e dissacrante, come il cinema di Jean-Luc Godard Sette lezioni (tenuto a Montreal, nei Quebec che Godard chiama ’maggi" ). oltre conto Mm visti discussi analizzati nmescolati da un Godard che piu che laro motte m scena la stona dei cinema, (a ancora cinema tacendo critica, stona o conversazione Lumtere e Meftes non possono a mancare. E a sono Rossellini, Hitchcock. Murnau e Minnelli. Frank Capra e Trulfaut. Incontri ravvicinati del letto tipo Un him lungo cent'anni, una stona del cinema che c anche un'autobiogmfia. un manifesto politico, un romanzo, uno spettacolo sempre emozionante. Jean Lue Godard fP»ta v.enegg atoie montatori- * critico cmc-niiitogratico trances*. * una d»n« grand- cone della Nouvede Vague Olito cinomatogrsfco tuffa nvats •Gazati* du c-néma* » pu fard- »ui •Cah-rm; du cmema’ Tra < «uo numerosi film ixzofifcamo La donna e donna; Questa è to mua vite; I carabmien; Il deprezzo. U bandito delle under Due o tre cose che aod toc Vento dell'est. Crepa padrone tutto va bene

24.00 euro

Jean-Luc Godard Introduzione alla vera storia del cinema

PGRECO

JEAN-LUC GODARD

INTRODUZIONE ALLA VERA STORIA DEL CINEMA

PGRECO

C 2012 - PGRECO EDIZIONI Via Gabbro 4-20 i 00 Miliino Per informazioni E-mail: pgrccofc libero.it

K R

Indice

Presentazione

Avvenenza

Introduzione alla vera storia del cinema

5

Primo viaggio

55

Secondo viaggio

95

Terzo viaggio

1)5

Quarto viaggio

183

Quinto viaggio

251

Sesto viaggio

287

Settimo viaggio

535

Filmografia

Presentazione

Ogni tanto la vita ci riserva qualche soddisfazione. Quando (circa un anno fa) Jean-Luc Godard ci ha consegnato i nastri dei suoi inter­ venti a Montréal, dicendo che avrebbe voluto ricavarne un libro, ab­

biamo capito subito che si trattava di uno di quei casi. Abbiamo ascoltato oltre dieci ore di registrazione, che, con lo scorrere del na­

stro sonoro, ci raccontavano le sue incertezze e i suoi interrogativi. 11 testo è stato trascrino da Line Gruyer - che ringraziamo per il

suo lavoro paziente e attento - dopo questo ascolto. La prima versione era una semplice sbobinatura; abbiamo poi

montato il manoscritto viaggio dopo viaggio, secondo l'ordine degli

interventi. Tra una conferenza e l'altra c’erano state parecchie settimane di

intervallo: era ovvio che ci fossero ripetizioni inutili o che si passasse da un argomento all’altro senza che fosse chiaro ed evidente il «filo rosso» che li collegava. Abbiamo fatto pochi tagli: le informazioni

relative al corso, agli studenti, agli orari, ecc.; i passaggi incomprensi­ bili, che non potevano essere resi integralmente. Tutto il resto è ri­

portato tale e quale.

Ci siamo prodigaci perché le parole di Godard, che gii nascono come scrittura, fossero riportate con la massima fedeltà.

Naturalmente abbiamo corretto cene forme del linguaggio parla­ to: ma il più delle volte abbiamo mantenuto determinate reiterazio-

IX

ai, che non ci parevano semplici ripetizioni, ma piuttosto delle affer­ mazioni, delle accentuazioni, e ci ricordavano, un viaggio dopo l'al­

tro, quali erano le preoccupazioni essenziali di Godard.

Abbiamo altresì mantenuto quei «barbarismi» che sono parte in­ tegrante del pensiero del cineasta e della sua capaciti di deformare e di inventare uno specifico linguaggio.

Insomma, ci siamo sforzati di dotare il testo della «scrittura ad al­ ta voce» che è la qualità principale di questa banda sonora; ci siamo sforzati di restituirla integralmente come la sentivamo nelle orec­

chie, con le ripetizioni, le divagazioni, le digressioni, le esitazioni, le domande che la caratterizzavano. Abbiamo eliminato le domande degli spettatori per vari motivi. 11

primo motivo era pratico: spesso le domande erano incomprensibili, per via della lontananza del microfono. Il secondo motivo è che Go­ dard, nella sua risposta, ripeteva il contenuto essenziale della doman­ da. Infine (questo è il terzo motivo) il regista si pone, in quello che

ora è un libro, numerose domande: se avessimo aggiunto anche le domande degli studenti, avremmo esagerato. Come si dice per i cal­

colatori, avremmo fatto troppo rumore: non si sarebbe piu sentito niente.

L’eliminazione delle domande, secondo noi, avrebbe provocato un transfert interessante: dall’interlocutore canadese, quello che ave­

va fatto la domanda, non si sarebbe potuti passare all’interlocutore

del regista in questo libro, cioè al suo lettore? Joel Farges

Avvertenza

Nell’autunno del 1978 Serge Losique, direttore del Conservatorio

d’arte cinematografica di Montréal, che durante l’anno precedente

aveva ospitato Henri Langlois, mi propose di continuare il lavoro iniziato. Piuttosto che tenere dei corsi come oggi si fa in tutte le università del mondo, proposi a Losique di prendere in considerazione, come

se si trattasse di un affare, la coproduzione di una sceneggiatura di una eventuale serie di film intitolata: Introduzione a

vera storia

del cinema e della televisione, vera perché fatta d’immagini e di suoni

e non di testi, per quanto illustrati. Tanto piu che con Langlois già avevamo questo progetto. Cosi la sceneggiatura venne divisa in più capitoli o viaggi (dieci),

con un preventivo di 10.000 dollari canadesi per ogni capitolo, da di­ videre tra il Conservatorio e la società cinematografica di cui faccio pane, la Sonimagc. A ogni viaggio, aggiungevo un po’ della mia storia, mi ci rituffavo

con il ritmo di due film ogni fine del mese, ma l’acqua del bagno

spesso mi rivelava qualcosa di diverso da quanto aveva registrato la

mia memoria, e questo derivava dal fatto che al mattino venivano proiettati dei brani di film che facevano parte della storia del cinema,

che in quel periodo avevano rapporto con quanto andavo facendo.

XI

Commentavo il tutto in diretta, davanti a tre o quattro canadesi per*

duti come me in questa storia del cinema.

Poi tutto si fermò, Losique aveva delle difficoltà finanziarie. Do­ po tutto, perlomeno aveva osato innovare, e... nessuno è perfetto. Jean-Luc Godard

xn

Introduzione alla vera storia del cinema

D'ESPOIR les AVEU parlent ISSUE MOI___

Primo viaggio

Un angelo è caduto. O. Preminger

Fino all'ultimo respiro. J.-L. Godard Preparo, per me stesso, una specie di storia del cinema e della tele­

visione che chiamerò Aspetto sconosciuto della storia del cinema. Fin dalle prime mosse, mi sono reso conto che occorreva poter vedere

dei film. Si doveva fare qualcosa del genere con Langlois, ma a Parigi risultò troppo difficile. Qui, invece, è abbastanza facile vedere dei

film: non so proprio come faccia Serge a sbrogliarsela, ma gli si do­ manda la copia di un film e la si ha.

Avevo un'idea... Vorrei raccontare la storia del cinema non solo cronologicamente, ma piuttosto secondo una sorta di piccola archeo­

logia o biologia. Tentare di mostrare come si sono prodotti dei mo­ vimenti, allo stesso modo in cui nella pittura si potrebbe raccontare

la storia, per esempio, di come è stata creata la prospettiva, in quale data è stata inventata la pittura a olio, e cosi via. Ora, anche nel cine­ ma, nulla è stato facto a caso. Tutto è fatto da uomini e donne che vi­

vono in società in un dato momento, che si esprimono, c imprimo­ no questa espressione, o che esprimono in un ceno modo la loro im­

pressione. E devono esserci degli strati geologici, degli slittamenti dei

terreni culturali; ma, per fare davvero tutto questo occorrono mezzi visivi di analisi, non necessariamente molto potenti ma adatti allo

scopo. Però questi strumenti non esistono, e mi sono accorto che

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io... Insomnia..., oggi, ho cinquant’anni, penso di aver finirò la mia

vita, che mi restano all'incirca trent’anni e che sto per... insomma... per vivermi l’interesse della mia vita, se vogliamo, come un capitale

che avesse cinquant’anni; oggi,

sto

per riscuoterne gli interessi. E al­

lora, ciò che per l’appunto mi interessa è vedere quello che ho fatto,

e in particolare, visto che ho fatto qualche film, intendo approfittar­ ne e tentare di ritornarci su.

Mi sono detto: bene, questo dev’essere più facile; uno che non

avesse fatto dei film e che volesse rivedere la sua vita, la sua vita fami­ liare, potrebbe forse rivedere delle foto, se ne ha conservata qualcu­ na, certo non le ha tutte. Ma della sua vita lavorativa, se ha lavorato

alla carena, o alla General Motors o presso una compagnia di assicu­

razioni, non gli resta un bel niente. Forse qualche foco dei figli, ma del lavoro - credo - non avrebbe neanche un’immagine, per non

parlare dei suoni. Allora mi ero immaginato... insomma... pensavo... scopro che è un’illusione, che nel cinema, dato che ho fatto dei film, potrei alme­

no rivederli - e, in fondo, fare dei film consiste nel registrare delle se­ rie di foto - e che potrei almeno partire da questo passato per rivede­

re il mio, come una psicanalisi di me stesso, e dal punto in cui io stes­ so ho cominciato nel cinema. Però mi sono accorto che, in realtà, la storia stessa del cinema che dovrebbe essere la cosa più facile da farsi

è assolutamente impossibile a vedersi. Si può vedere un film e in se­ guito parlarne; è quello che si fa qui; tutto sommato però, questo è un lavoro abbastanza povero; bisogna allora riuscire a fare qualco­ s’altro. Ma questo forse non lo si può fare subito.

Venendo qui con Serge, mi sono per l'appunto reso conto che

avevamo previsto di fare una specie di ricerca; io avevo qualche te­ ma, come per esempio quel che c’è stato di fondamentale nel cinema

e che si chiama - ma la gente non sa cos’è - montaggio. Questo del montaggio è un aspetto che va nascosto perché è qualcosa di abba­

stanza forte, e consiste nel mettere in rapporto le cose, in modo che la gente queste cose le veda... una situazione evidente, voglio dire... Un cornuto, finché non ha visto il tizio che sta con sua moglie, cioè finché non ha due foto, la sua e quella di sua moglie, o la sua e quella dell’altro, non ha visto niente; è sempre necessario vedere due vol­

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te... È questo ciò che io chiamo montaggio: semplicemente un acco­ stamento. In questo su la straordinaria potenza dell'immagine e del suono che l'accompagna, o del suono e dell'immagine che lo accom­ pagna. Ora, tutto questo, la sua geologia e geografia, è quanto è con­

tenuto, a mio parere, nella storia del cinema, e tuttavia resu invisibi­ le. Non bisogna mostrarlo, si dice. E io penso che passerò il resto della mia vita e del mio lavoro nel cinema proprio a tentare di veder­

lo, e innanzitutto per me stesso; e, sempre per me stesso, tenterò di vedere a che punto sono rimasto coi miei film.

Prima di vedere, di cominciare a vedere Griffith e EjzenJtejn o Murnau, tanto per prendere gli esempi piu noti, è difficile mettere

insieme i mezzi tecnici esistenti: proiettare un film, guardarlo al ral­ lentatore, vedere a un cèrto punto come Griffith o un altro si è av­

vicinato ad un attore e ha, se non inventato, quantomeno utilizzato con una certa metodicità il primo piano. Come ne abbia fatto una fi­

gura stilistica, come abbia trovato qualcosa, in modo analogo a quel­ lo degli scrittori che in un certo momento hanno inventato una certa grammatica. Bene, bisogna avere il film di Griffith, avere il tempo di

cogliere nel film di Griffith il momento in cui sentiamo che qualcosa accade... e, se si ritiene, per esempio, che qualcosa di simile, ma in

maniera diversa, è accaduto anche altrove, qualcosa che ne è il segui­ to, l'erede, il cugino o il complemento, in Russia, per esempio; se lo si vuol raffrontare ad Ejzenìtejn, per dire, bisogna scovare il film di

Ejzenàtejn, avere il tempo di individuare il momento, quindi mostra­

re i due momenti, e poi farlo con della gente, non da soli, per vedere se c'è veramente qualcosa. E se, alla fine, si scopre che non c'è nulla,

si deve cercare altrove. Proprio come fanno gli scienziati in laborato­ rio, solo che questo laboratorio non esiste. Il campo in cui si fa dav­

vero ricerca è forse in farmacologia; un po' se ne fa in medicina o in qualche rara università, ma in tal caso sempre legata al sistema milita­ re. Là difatti c'è un po' di ricerca, si forniscono degli strumenti. Nel cinema gli strumenti non ci sono. Qui, se si volesse far ricerca...

Ho l'idea del metodo, ma non ho i mezzi. Già prima della morte di Henri Langlois... è con lui che avrei dovuto fare tutto ciò, e lui

avrebbe potuto indirizzarmi con sicurezza - lui aveva una memoria formidabile e conosceva anche molto bene la storia del cinema -

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avrebbe potuto dirmi: «Bisogna cercare nel tale film e nella tale epo­ ca». A questo punto, ci si rivolgeva a Serge, lui che ha le copie dei

film o che le può trovare... e poi ci si installava da qualche parte. Ma ecco li che bruscamente non c’è piu nulla. Bisogna poter passare il

film, non in proiezione perché, una volta in proiezione, devi poter parlare, dire: «Ahi Vi ricordate? Tre quarti d’ora fa abbiamo visto che...». Ma non è questo che interessa. Quel che interessa, è vederlo e

poi dopo vedere magari un altro primo piano, ma contemporanea* mente. Ma non ho osato farlo oggi per una prima volta... Ciò che sa­

rebbe stato forse più interessante... - ma io non conosco abbastanza bene i film per osare un tentativo - sarebbe stato più interessante proiettarvi una bobina di Un angelo i caduto e poi una di Fino all’ul­

timo respiro. È un po’ arbitrario, ma potrebbe essere interessante far­ lo in piccolo, perché allora si vedrebbe, forse, nel giro di venti minu­

ti, che non c’è da tirarne fuori niente; a quel punto, si monta e si va a

cercare un altro film. Ma per cercare l’altro film ci vogliono se va be­ ne dieci minuti, e magari uno o due giorni se non ce l’hai sottomano.

Infatti, a volerla fare, la storia del cinema sarebbe come un territo­ rio completamente sconosciuto, sepolto non si sa dove; e dovrebbe

invece essere la cosa più semplice, poiché non si tratta che di immagi­ ni, come in un album fotografico. Questo album fotografico esiste,

ma Ì mezzi per sfogliarlo non sono accessibili. 11 telecinema, se ce n’è

bisogno, è in una sala, il proiettore d’analisi è da tutt'altra parte...

Dunque, non si può lavorare. Per questo abbiamo lasciato perde­ re, almeno per il momento; riprenderemo magari l’anno prossimo.

Ma l’anno prossimo significa che dobbiamo fermarci qui, - e non

possiamo contare sull’università per il finanziamento, ma su noi stes­ si... - Bisogna installare un certo numero di mezzi audiovisivi, che noi stessi abbiamo montato e che van bene solo per noi, per due o

tre persone, ma non per una ventina. E a questo punto, il posto giu­ sto è in Europa ma in Europa io non ho i mezzi per avere i film. Beh, fare tutto ciò era molto difficile. Allora mi sono detto: alla

fin fine la prima cosa da fare è rivedere, valersi di questo accordo con il Conservatorio, e, se questo interessa ad altri, io non ho nessun pro­

to

blctna a parlare ad alta voce davanti a loro perché è un po’ come una psicanalisi di me stesso, del mio lavoro... rivedere davanti ad altre persone e insieme a loro... non il mio passato personale ma i miei vent'anni di cinema, e cercare di vederli un pochino diversamente,

cioè un po’ stupidamente, un po' sistematicamente, e questo con cia­

scuno dei miei film, approfittare per rivedere - o per vedere se non

l’avevo visto o se è passato cosi tanto tempo che non me ne ricordo piu - un film o un tipo di film che secondo me abbia un rapporto con qualcuno dei miei film. E cominciare dall'inizio. E oggi... beh... poco fa sono andato a bere un caffè e mi sentivo un po'... come quan­ do devi andare per la prima volta dallo psicanalista, per esempio, o cerchi un poeto e ti devi presentare al datore di lavoro... Ero un po' a

disagio, non avevo voglia di vedere troppo; avevo voglia di rivedere Un trngelo l enteo, ma siccome io rivedevo quasi a mia insaputa, ho avuto paura di vederne piu di una mezz'ora. Poco fa sono venuto a

dare un'occhiata e poi mi sono detto: «Ma è questo il film che venti, venticinque anni fa mi piaceva tanto, c che volevo fare, e che mi pro­

ponevo un po' come modello...». Era come se sfogliassi un album di famiglia e fossi un po' imbarazzato, soprattutto davanti ad altre per­

sone. C'era questo aspetto: rivedere il proprio album di famiglia e

stupirsi, alla fin fine, di far parte di Questa famiglia. E per l'appunto, io, non riesco a vedere molto bene. È come se adesso, rispetto a que­ sti due film, io fossi un po’ al di fuori. Ma è proprio questo che ho

voglia di fare. Allora le prossime volte cercheremo di farlo, diciamo, più sistematicamente a partire da domani, verrò alle date che sono previste, stabilite da ora fino a dicembre, in modo che ci sia una certa regolarità; bene... farò questo lavoro davanti a della gente, cioè cer­

cherò di capire un po' quel che è avvenuto. Ma per farlo ho bisogno di domande, lo, la sola cosa che posso fa­

re è mostrare dove effettivamente questo è accaduto; e cominciare

dall'inizio. Quindi ogni volta si proietteranno due film; domani mat­ tina à sarà il mio secondo grande film, che si intitola Le petit tolte e che, all'epoca, si svolgeva in Francia durante la guerra di Algeria. E poi ho scelto un film senza un riferimento sistematico all'epoca, ma

che oggi... riconosco..., mentre allora mi era in qualche modo sfuggi­ to: è uno degli ultimi film tedeschi di Lang, realizzato prima di la­

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sciare la Germania. Ed è anche un film molto individualista. Dun­

que, forse, un rapporto c’è. Ma se ho scelto Af in rapporto a Le petit soldat è perché il mio «io» oggi mi stava dicendo: «Non c’è tra questi

due film qualcosa che può farmi vedere - a me, oggi - qualcosa?». Il rapporto tra Un angelo è caduto e Fino alTultimo respiro è molto

differente, poiché prima che io girassi Fino all'ultimo respiro c’è stata

tutta quella fase che è stara definita dei «film neri» americani... Ed in Francia stava prendendo piede la «sèrie noire» di Gallimard. Prima

della creazione dei Cahim du ànima. Bazin e DoniobValcroze c cer­

ti altri avevano fondato un cineclub che si chiamava Objectif 49, che

all'epoca ha lanciato tutti i «film neri» americani: Gilda e tutto il re­

sto. E poi, beh... Un angelo è caduto, l’ho scelto perché Serge ce l’ave­

va; gli avevo domandato un altro film di cui mi ricordavo, che si inti­

tolava Sui marciapiedi, anche questo con Dana Andrews. E mi ricor­ do che, a quel tempo, quando giravo Fino all'ultimo respiro, credevo

di fare un film di quel genere. Ma, quando, in seguito, l’ho visto, mi

sono accorto che era un’altra cosa. E oggi mi domando cosa sono questi film, cos’era il mio film e anche cos’era quell’altro film?

Erano dei film ammirati, lanciati perfino come film d’autore; si è

detto: «Questi sono dei grandi registi... degli autori, degli artisti».

Mentre all'epoca non li si considerava tali. Oggi credo di vedere le cose un po' diversamente, ma l’idea di associare i due film stava pro­

prio là. Ricordo che all’epoca, siccome eravamo appassionati di cinema... delle volte ci piaceva semplicemente parlare bene dei nostri amici, e affiggere la locandina di un film... Ricordo di aver affisso un manife­

sto di un film di Aldrich il cui sottotitolo era Vivere pericolosamente

fino alla fine, solo perché allora Aldrich era un punto di riferimento.

Il fatto era che per la verità, da parte mia... Mi ero detto: ecco qua, giocherò apposta la carta sbagliata, se volete, la carta... Beh... chi

punta il dito, chi denuncia, è sempre disprezzato, ebbene imbroglie­ rò apposta le carte, per gusto della contraddizione o meglio... dato

che si tratta del mio film, mi comporterò cosi a bella posta, sicché la gente si porrà domande alle quali non cFè risposta. Piu o meno era

questo che volevo fare. E poi, per me, era diventata una questione di principio dire: i de­

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marciatori denunciano, i conservatori conservano, gli amanti si ama­ no, e in tutto questo non c'è niente di intenzionale. Rivedendo Un

angelo è caduto, devo dire che la cosa piu interessante era la forza

d’attrazione che aveva; ed è quel che d’interessante ci trovo anche og­ gi, perché il cinema (vi si dedicherà un capitolo o uno spazio, se ci

riusciremo, fra uno o due anni, della storia del cinema) è il film poli­

ziesco. Si vive in un sistema di polizia, dove d sono molti sistemi di polizìa, più o meno elaborati. Eppure si può dire che il film polizie­ sco, con tutti i suoi componenti, è sparito. Non ci sono quasi più Him polizieschi propriamente detti, però, si sono moltiplicati sotto

forma di «sèrie»: ce ne sono tre o quattro al giorno, su tutte le reti del

mondo; i Mannix e i Cie sono i diretti nipoti di Dana Andrews. La gente, in genere, ha paura della polizia; se qui entrasse improvvisa­

mente un poliziotto, beh, lo si sentirebbe come qualcuno di diverso, anche se non facesse niente di particolarmente cattivo. Ma nonostan­ te questo, i film polizieschi, che non dovrebbero essere amati pro­

prio perché mettono in primo piano o raccontano la storia di perso­ naggi che non sono amati, con i quali scoccerebbe, li per Ih prendere

il caffè... Voglio dire, se un poliziotto vi domandasse per strada: «Vieni a prendere un caffè?», sareste diffidenti più che con chiunque altro, cosi, senza sapere esattamente perché... I film polizieschi, o le

serie poliziesche, invece piacciono moltissimo, sono fra le cose che hanno più successo; al punto che si può dire siano diventati pane

quotidiano... Non proprio il pane quotidiano del successo, ma perlo­ meno uno dei principali ingredienti. C'è un disegnatore, di nome Gé Bé, che aveva fatto un fumetto sul personaggio del «flic», e che spiegava il paradosso: l'agente, quello

privato, rappresenta (non so per le donne) soprattutto per gli occi­

dentali, il massimo della libertà; è il tipo che non fa un tubo, che en­ tra ogni minuto dentro ai caffè, che guida un catorcio, che accende una sigaretta, che può abbordare la gente, facendo domande, o man­

darla al diavolo se scoccia... insomma, rappresenta la libertà in un

senso un po’ becero: fare quel che si vuole. Lui ha le mani in tasca, non si sporca, dunque non è un lavoratore manuale, e non è neanche un intellettuale, è l’uomo libero,... insomma quel che gli occidentali

sognano come libertà: fare quel che si vuole, andare a fare un’inchie-

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su a Caracas, vedere delle belle ragazze, entrare in caffè pieni di fu­ mo e di musica... insomma viaggiare in continuazione... È per questo che piace molto alla gente. Penso che... in definitiva, mi sono detto,

inconsciamente, rivedendo questi due film che, a priori, non hanno

niente in comune: quel che doveva risultarmi attraente, in questi

film polizieschi, è proprio questo personaggio del poliziotto che mi è stato spiegato vent'anni dopo dal disegno di Gé Bé. È questo tipo di

gente che rende un po’ simili i personaggi di Beimondo e Dana An­ drews, tipi che all’epoca dovevano rappresentare un certo ideale di li­

bertà: cioè fare quel che si vuole senza essere sputtanati. Senza poi fa­

re un granché, dato che sei bloccato in tutte le direzioni e che non

vedi molto bene le strutture generali che ti fanno andare da destra a sinistra. Insomma: un ideale strettamente individualìstico (cosa che mi è stata molto rimproverata), rappresentato da qualcuno senza mo­

rale, qualcuno né pro né contro, che però fa quel che gli passa per la testa, o da un sentimento della libertà anarchico e non politico, se vogliamo. Era questo, credo, quel che ci seduceva (e che doveva sedurre tutti

quanti) nei romanzi polizieschi. E se oggi sono diventati anche abba­

stanza volgari e osceni, tu ci trovi sempre questa specie di libertà ef­

fettiva; in realtà, è una falsa libertà da ragazzaccio che per di piu sta dalla parte giusta, dalla parte della legge; come a dire: ragazzacci si,

ma dalla parte giusta, dalla parte della legge; con tutti i vantaggi, dun­ que! Penso che sia questo il punto di contatto fra i due film e la mia predilezione per le serie nere americane; predilezione che mi viene,

diciamo, dall’Europa, perché la serie nera americana è stata inventata dagli europei - e questa sarà una delle dimostrazioni che daremo nel­

la storia del cinema - e da europei esiliati, in particolare dai tedeschi:

Preminger era viennese, bang tedesco; sono loro che hanno inventa­ to il film di gangster e che hanno messo a punto il film poliziesco.

È un film che ha avuto un grande successo. Aveva un budget mol­

to piccolo, infatti costava la metà delle produzioni medie dell’epoca, circa centomila dollari, quando il film medio cosava allora, in Fran-

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eia, duecento o trecentomila dollari. E poi ha avuto immediatamente molto successo. È stato molto faticoso realizzarlo: da solo non ce l’a­

vrei fatta, ma ero sostenuto dai nomi di Truffaut e di Chabrol, che erano da poco arrivati al successo. La storia tecnica è interessante: è un film che avremmo voluto girare in studio, per esempio. Se ho gi­

rato degli esterni, è stato perché ci era vietato girare negli studi: c’era­ no delle regole sia sindacali che tecniche molto vincolanti, che impe­

divano completamente che si girasse in studio. Cosi abbiamo girato

esecrai per legittima difesa, e - per quanto mi riguarda - senza alcuna teoria. La sola teoria che avevo, siccome non ne sapevo niente, era quella di cercare soprattutto di evitare i divieti. Ero contento di ave­

re come operatore Raoul Coutard perché era uno che non aveva an­ cora fatto niente: soltanto un documentario a colori. E mi ero detto: bene, almeno non avrà mai fatto il bianco e nero; e cosi ho chiesto che si girassero esterni senza illuminazione, come si faceva agli inizi del cinema, e che per gli interni si prendesse una pellicola di una data

sensibilità, che allora esisteva solo come pellicola fotografica; e tutte

le scene notturne sono state girate con questa pellicola, ed è per que­ sto che le inquadrature di notte sono più brevi. Nella mia testa, ero

sicuro che cosi, almeno, nessuno mi avrebbe obbligato a illuminare in una maniera che non mi fosse piaciuta, ma che, siccome tecnica-

mente non mi ci ritrovavo, non avrei saputo impedire dicendo: «No, bisogna fare in un altro modo». Meglio non far niente. Il che è rima­ sto una mia regola, che trovo più semplice, e che permette di fare qualcos'altro, cioè fare quel che si può e non quel che si vuole; fare quel che si vuole a partire da quel che si può, fare quel che si vuole di

ciò che si ha, e non sognare l’impossibile. Se si hanno cinquanta mi­ lioni, e non la luce, ci si arrangia con i cinquanta milioni e senza lu­ ce. E se saltan fuori altre opportunità bene, se no si fa quel che si può

e intanto si cerca di volere; penso che il successo sia arrivato per que­ sto. Ho sempre fatto cosi. È il solo mio film che abbia avuto un suc­ cesso reale e che abbia guadagnato dei soldi, che li abbia fatti guada­ gnare al produttore, e non pochi: dieci, venti volte tanto.

lo sono capirato nel periodo in cui si diceva: «Il cinema francese

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non fa questo, non fa qucst’altro, non dice fa tal cosa, non riprende il tal posto»; ebbene, ho cominciato io. E poi sono partito da uno sche­

ma classico: una storia realmente accaduta, del resto; cosi il pubblico

ha avuto l’impressione di vedere un po’... di realtà, siccome era an­

che fatto con onestà, cercando di esprimere... Tutte le opere prime sono cosi, normalmente, perché si fanno abbastanza tardi. Io ho fat­ to il mio primo film a trent’anni.

A me piace lavorare nella calma, trovo che si lavori bene nella cal­ ma e che per strada non si riesca a lavorare... Non mi piace per nien­ te lavorare per strada, sono sempre terrorizzato che succedano guai,

che le macchine non partano al segnale. Invece mi piacerebbe avere un grande studio o anche un’intera città. È quel che hanno fatto i

russi per certi film di Ejzenàtejn, come per Ottobre, quando tutta una parte di Leningrado è stata utilizzata per cene scene. In quei casi si va

bene, si ha la tranquillità, si ha il tempo necessari. In certi momenti preferisco lo studio, o magari anche le cartoline, perché almeno si ha il tempo di pensare. È un po’ un peccato, ma per strada non si rie­ sce... La televisione non potrebbe piu lavorare per strada, ma dovreb­

be lavorare in un altro modo: si tratterebbe semplicemente di ritra­ smettere le cose che succedono. E cosi non ci sarebbe più la lavora­

zione, non ci sarebbero più cose da regolare con precisione, il che non mi piace molto. I grandi film, i tedeschi, gente come Mumau, un film come il suo Aurora, che è stato girato per strada, beh, tutta la strada era costruita in studio. Ma questo i tedeschi lo sapevano fare, e

c’erano i mezzi finanziari per farlo. Oggi, non ci sono più. E in gene­ re le cose girate per strada sono molto misere. Sono dei piccoli piani coni, non si vede né la folla né l’individuo. Non si può fare, è assolu­

tamente impossibile. La televisione poi, lo sa fare ancora meno; non sa neanche più realizzare delle riprese dirette. Basta guardare come

riprendono l’arrivo di un capo di Stato, fa discesa dall’aereo; il tutto

è di una nullità tecnica enorme! Credo che questo derivi dal fatto che si gira in mezzo a sconosciu­ ti, e gli sconosciuti non sono interessati a quel che si fa. E non vedo come potrebbero esserlo. Prendiamo l’uscita dalle Officine Lumiè-

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res. Lumière si era prudentemente messo... con tutto che erano i suoi

operai..., ma si era prudentemente messo di fronte. Ma, se avesse do* vuto fare l'uscita di una officina... Se non sei tu stesso operaio, è pra­

ticamente impossibile. Quel che mi rende nervoso, è che mi sento disturbato dal fatto

d'essere in mezzo a della gente che non è coinvolta da quel che sto fa­ cendo, e non vedo come potrebbe esserlo. E io stesso non mi sento compreso, in un luogo in cui sono costretto a dire: «Ma guarda quel­

la cretina, non potrebbe attraversare un po' più in fretta, che ci Sta a fare in mezzo al campo, a disturbare!», o qualcosa del genere. Insom­ ma, c’è una contraddizione troppo grande. Non si possono fare delle

scene per strada, non si può far niente. Oggi, mi piacerebbe fame; ma questo richiede molto piu sforzo e lavoro di una volta. A quell'epoca, si era un po' ingenui; infatti, abbiamo osato uscire

per strada in un momento in cui era proibito, non fosse che per una

questione di diritto. Per molto tempo, negli Stati Uniti, non si girava per strada - cosa che si è poi soppressa con l'avvento della televisione

- semplicemente perché un passante qualsiasi avrebbe potuto in se­ guito intentare causa dicendo: «Non avete il diritto di mostrarmi».

Ma ho sempre aVuto la sensazione, per strada, d’essere un po’ co­ me un colonialista, come certi film europei o americani che si girava­

no una volta nell'Africa nera. Cose del genere si vedono ancora mol­

to spesso nelle foto pubblicitarie, dove ci sono delle belle ragazze o dei bei ragazzi su una piroga per una reclame della Coca-Cola, e poi due neri che pagaiano, e ho sempre avuto l'impressione che le perso­

ne per strada fossero questi neri che pagaiano. Il che mi ha sempre

dato un po’ fastidio, e ha fatto si che alla fine mi sia allontanato da quella strada in cui ero sceso; ho voglia di ritornarci, oggi, ma come?

In un altro modo... è molto complicato. E poi, in certi momenti, bi­

sognerebbe essere almeno in cinque o sei intorno alla macchina da

presa o al film, tutti molto coinvolti e interessati da questi problemi, magari- con gli stessi sentimenti, o le stesse idee, e nello stesso mo­

mento. Non è per niente facile. Ci sono dei rapporti gerarchici di la­ voro che fan $1 che ci sia uno che comanda... insomma, ci sono cose

di questo tipo che complicano tutto. All’epoca si era completamente ingenui, o mecù pazzi. Girare ad

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Hollywood è sempre suro il nostro sogno, e poi, quando abbiamo

visto cos'era Hollywood... Io non ci sono mai andato, se non un po'

da lontano. Non avrei mai potuto. Io non avrei mai accettato di fare la vita che all'epoca dovevano fare Preminger o cineasti del genere. E

nello stesso tempo, c’è qualcosa che non ho mai ritrovato, che si è

avuto un po' ai Cahiers du ànima: l'aspetto industriale, e il ritrovarsi della gente, e il parlare un po' di film. È da queste cose che viene la

loro forza. Intendo la forza dei nostri film proprio all'epoca del loro successo... I primi film di Truffaut o i miei erano fatti da persone che

parlavano di cinema fra di loro e che dovevano anche criticarsi un po'. Come quando ho rivisto Un angdo è caduto: sono sicuro che

perlomeno lo sceneggiatore, il regista c l'operatore si parlavano. H vero regista del film in America era il produttore, è sempre stato co­

si, gli altri sono degli esecutori. Ma questi esecutori parlavano fra di loro. L'operatore diceva: «Ecco, quell'inquadratura là non è molto

buona», ed il regista non si sentiva ferito nell'orgoglio se gli si diceva

cosi. Oggi, due registi non possono più neanche parlarsi. Credo che la forza della «nouvelle vague* a quei tempi, cosi come, ad un livello molto superiore, la forza di qualche cineasta americano di oggi, è che si tratta di persone che si sono conosciute, che hanno parlato insieme

di cinema. Ma adesso la gente del cinema non si parla, e soprattutto non parla di quello che fa.

Bisognerebbe conoscerli i rapporti di lavoro. E dopo, ci si può chiedere: dove sta il lavoro in un film? che cos'è? Oggi, non so nean­ che piu cosa sia un’inquadratura. In questi ultimi anni ho ripreso del­

le cartoline, e questo mi ha fatto ripensare ai quadri. E difatti perché

il quadro è diventato quadrato, o un po’ rettangolare, e non roton­ do? E perché per registrare questo quadrato bisogna passare attraver­ so degli obiettivi che, invece, sono rotondi? Mettiamo per esempio

una telecamera che vi riprende, voi che parlate e io che rispondo, o il

contrario; a quel punto ci si chiede: «Se si dovesse inquadrare quel che succede, come bisognerebbe fare? Bisognerebbe mettere la came­

ra If, e poi inquadrare tutto insieme? Bisognerebbe fare un primo pia­ no vostro? o un primo piano mio? O cosa?». Dunque, bisogna sapere

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quel che si vuole, per decidere. A quel punto uno avrebbe un'idea di

come può essere un'inquadratura e a cosa possa servire. E allora si penserebbe a quel che in francese si dice «un cadre de vie»; ci sono

quelli che vengono inquadrati; e, generalmente, quelli che dirigono,

vengono chiamati «i quadri»...

Infatti è un film fatto alla fine della «nouvelle vague»; era un film che uon aveva regole, o la cui sola regola era: le regole sono false o

applicate male. Era un film che di regole non ne aveva. Mi ricordavo di una frase che Astruc aveva detto a Vadim: «Stai attento! Di solito,

quelli che sono ai primi film, mettono raramente dei primi piani, si

sbagliano sempre, fanno come i dilettanti; credono che una volta fil­ mato qualcuno in piedi, questo sia sufficiente; e, in genere, non sono mai abbastanza vicini». E io l'avevo fatto solo per precauzione, ma pensando: «Ci deve essere qualcosa di vero»... ma senza sapere... mi

ero detto: «Ecco, per ogni due inquadrature, bisogna che ci sia alme­ no un primo piano». Ma mi dicevo queste cose da imbecille, come se fosse una questione di trucchi..., senza saperne assolutamente niente;

come se mi avessero detto: «Se vai in Inghilterra devi assolutamente dire, per ogni parola, la parola yes> o una cazzata del genere... E c'era un altro luogo comune: cioè che i primi film sono sempre molto lun­ ghi. Perché la gente effettivamente, alla fine di trentanni di vita, cer­

ca di mettere nel suo primo film tutto quanto. E allora va molto per le lunghe. Io non ero sfuggito alla regola, avevo fatto un film di due

ore e un quarto, due ore e mezza; e questo era impossibile; bisogna­ va, per contratto, che non fosse più lungo di un'ora e mezza. E allo­ ra, mi ricordo molto molto bene... come è stato inventato questo fa­

moso montaggio con cui... che oggi si utilizza nei filmini pubblicita­

ri: si sono prese tutte le inquadrature e, sistematicamente, si tagliava

quel che si poteva tagliare, cercando di salvaguardare un minimo di ritmo. Per esempio, c’era a un certo punto una sequenza di Beimon­ do e della Sebcrg in automobile; era stata fatta un'inquadratura svi­

olino e un'inquadratura sull'altra, méntre si parlavano. E quando sia­

mo arrivati a questa scena, che andava accorciata come tutte le altre, abbiamo giocato a testa e croce con l'addetta al montaggio; abbiamo

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detto: «Piuttosto che accorciare un po’ Tuna c un po’ l'altra, e fare delie piccole inquadrature brevi su tutti e due, accorciamo di quattro minuti il pezzo e cagliamo tutta l’inquadratura o dell’uno o dell'al­

tra, e poi di li montiamo l’uno sull'altro, come se si trattasse di un'u­

nica inquadratura». Abbiamo tirato a sorte Beimondo e la Seberg, ed è rimasta la Seberg. Si fa proprio cosi, voglio dire... Non è né meglio

né peggio. Il principio è di fare quel che si può. Quando si hanno quattro soldi in tasca, beh ci si arrangia con quattro soldi, per man­

giare... tutti i disoccupati fanno cosi; anche i ricchi fanno cosi; con

quattro miliardi Rocktfeller fa quel che si può fare con quattro miliar­ di. È una cosa certa; si fa quel che si può, e non quel che si vuole. E

viceversa, si cerca di fare quel che si vuole con il potere che si ha. Il

film doveva essere di un’ora e mezza; piuttosto che lamentarsi dicen­ do: «No, non taglierò un bel niente», era meglio tagliare, ma facendo in modo che questo non comportasse forzature. Perché il ritmo, da

dove viene? Il ritmo viene da un obbligo, c dal fatto di dover soddi­

sfare in un certo tempo quest'obbligo. H ritmo, viene dallo stile, dal­ lo stile che uno ha nel contrastare quest'obbligo. C'è della gente che

evade dalla prigione con molto stile. Fidel Castro è evaso ed è torna­ to all’Avana con un certo stile, con un certo ritmo e un certo obbli­

go, in un dato tempo. Non ha mica detto: «Batista ha sessantamila

uomini che mi attendono nelle baie, quindi io arriverò fra centocinquant'anni, quando avrò duecentocinquantamila uomini ai miei or­

dini». Cera un obbligo. È questo che dà lo stile e il ritmo. E non vuol dire affatto piegarsi, ma anzi, vuol dire rinforzarsi e ammorbi­ dirsi. E il ritmo viene da U dove sei riuscito ad ammorbidirti.

II montaggio per esempio lo si è trovato soltanto in questo modo. Penso che in certi momenti... penso che siano quelli i momenti mi­

gliori, cioè quando c’è una grande libertà di movimento; ecco: c’è un obbligo e poi una grande libertà di movimento per assolverlo.

In ogni caso, non rifarei mai quel che ho già fatto. Quando ho

provato a rifarlo, per esempio con Numéro rfewr, è stato per ragioni

diverse. All’inizio cercavo dei soldi per cominciare a mettere su que­ sto laboratorio di cui vi parlo, che ti permette di lavorare un po' co­

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me un romanziere. Ma un romanziere che ha bisogno di una biblio­

teca per sapere quel che è suto fatto» per poter raccogliere i libri de­ gli altri» per poter leggere qualcosa di diverso dai libri scritti da lui» e»

al tempo stesso» di una biblioteca che sia anche una tipografia» per poter sapere cosa significa stampare; e per me un laboratorio» uno studio cinematografico è qualcosa di simile a una biblioteca e una ti­

pografia per uno scrittore. E per cominciare a trovare dei soldi per questo, cioè per un altro

genere di tipografia» per un altro genere di biblioteca, volendo fare un altro genere di romanzi, mi ero imbattuto per caso di nuovo in

Beauregard che aveva prodotto all'epoca Fino all'ultimo respiro e qualche altra mia cosa, e gli avevo detto: «Ho degli altri metodi di la­

voro oggi, e vi propongo» quindici anni dopo» di fare un film; è un

remake finanziario, un remake intellettuale, è un remake...» e insom­ ma ne viene fuori tutta un'altra cosa. Questo è quel che chiamerei

«rifare la stessa cosa». Ma inevitabilmente quindici anni dopo, la stes­ sa cosa è impossibile. Se gli americani ricominciassero la guerra del

Vietnam tra una quindicina d'anni, non so come andrebbe a finire...

Quando ho fatto Fino alt'ultimo respiro per me era il risultato di dieci anni di cinema. Fino allora avevo fatto dieci anni di cinema»

senza mai fare film, soltanto tentando di farne. Venivo da una gran­ de famiglia borghese, con la quale avevo rotto molto tardi ma in mo­ do definitivo. Il che fa si che l'unica differenza tra me e qualche mio attuale amico è che, quando vado in vacanza, non so da chi andare. E

poi, entrare nel cinema, era un po' come voler lavorare nel circo: tra l'altro, era un ambiente che godeva di una pessima reputazione e in

piu era estremamente chiuso. 0 cinema dilettantistico non era mica sviluppato come oggi. U cinema era un mondo molto professionale, molto segreto, e non c'era modo di saperne qualcosa. Tutti sapevano chi era Gabin, ma come si facesse un film, come fosse un'immagine

di Gabin sulla pellicola, di tutto questo non si aveva la benché mini­

ma idea. Era proprio un mondo a pane, molto chiuso..., pensate che in Francia la legge proibiva perfino di comperare della pellicola. Dal­ l'occupazione tedesca, la legge considerava la pellicola come materia­

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le strategico. Allora tutto era codificato, e assolutamente chiuso... in­

somma, relativamente... Anche oggi è sempre abbastanza chiuso, ma

allora era davvero chiuso come una cittadella, e questo si trasmetteva un po* di padre in figlio.

Non è che dalla culla io mi sia detto: «Toh, penso proprio che da grande farò dei film». Ero abbastanza portato per le matematiche, e dunque mi ero detto che sarei diventato un ingegnere o qualcosa del genere. E poi, verso Ì venti, ventuno, ventidue anni, a forza di andare

a zonzo per Parigi - dato che venivo dalla Svizzera e Parigi è un po’ come New York per uno che arriva dal Quebec o da Toronto... Non

essendo riuscito in Svizzera a combinare qualcosa, sono tornato a Pa­ rigi. E poi, a poco a poco, mi sono avvicinato al cinema cominciando a scrivere qualche articolo per i giornali. Ho cominciato il cinema intorno ai venti-ventun anni, senza far­

ne, giusto nella mia testa, leggendo delle riviste, roba del genere..., come quando sei giovane, e ti appassioni per questa o quella cosa. In­ somnia, voglio dire che ho fatto Fino all'ultimo rapirò dopo dieci an­

ni di cinema che in realtà non era tale. Eppure, erano gii dieci anni di cinema.

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Af, F. Lang

Le petit toldat, J.-L. Godard

Ecco, quel che mi colpisce guardando Le petit soldati quello che

mi spaventa anche un po'... Per fortuna è passato molto tempo da quando l’ho fatto, perché se dovessi riprendere oggi moke delle cose che si dicono là dentro, mi spaventerebbe proprio il fatto di aver po­

tuto scriverle e farle dire. Nello stesso tempo, credo che quel che c’e­ ra di diverso dagli americani, o l’apporto della ? Nessuno di voi ha detto niente, quando abbiamo visto il brano

dal film di Sternberg con Georges Bancroft ed Evelyn Brent... Tutti quanti avete preso quel film come un film di realtà, un po' di favola

si, ma come segno dell’epoca. Come il modo in cui erano visti i gang­ ster a quell'epoca. I gangster però non erano certo cosi. E allora per­

ché quando facciamo noi la stessa cosa ci sentiamo dire: «Ah, ma i gangster non sono mica cosi»? Penso che abbiate avvertito la diffe­

renza. Penso che abbiate sentito la differenza fra Una storia america­ na e il film di Clint Eastwood. Sono tutti e due dei brutti film» ma

voi trovate che uno non è realista e che l’altro lo è poco. A me sem­ brano tutti e due altrettanto irrealisti.

JDov’è allora la differenza? Cos'è che ti fa dire che il film di Clint Eastwood è un po' realista? Non ti piace, ma cos'è che fa s( che tu lo

trovi realista? Cosa c'è di realista in un fatto di cronaca narrato da un giornale? Questa per me è la cosa sbalorditiva, che si è arrivati a... io, il realismo lo cerco, io sono come Brecht; e cerco un realismo mi­

gliore, un realismo diverso da questo. L'ideale per me sarebbe di fare i film di Clint Eastwood, però farli bene. Ma come si fa, appunto, a fare bene un film di Clint Eastwood?

Per esempio c'è un angolo del mondo che si chiama California e

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guarda caso proprio in quell'angolo si è sviluppato il cinema... Una storia è una cosa che dice appunto queste cose. In realtà è un luogo

dove si è sviluppata molto Telettronica. L'elettronica sono dei circui­ ti, e dei circuiti collegati. E quando arrivi in California in effetti hai

la sensazione fortissima di essere in un posto che non ha nessun peso storico ma che è pieno zeppo di centinaia di piccole storie, ed è que­ sto che fa la sua forza, ed è più forte del peso... cioè non ha nessun bi­ sogno di avere un peso storico, difatti fa la storia proprio perché fa

varie storie, in fondo. Non ha quindi nessun bisogno di avere una storia. Tutto quello che gTimporta è di fame. E tu hai una sensazio­ ne molto strana c molto forte, di specie di mostri che fabbricano tut­

ta la vita.

Ma questo fatto di raccontare una storia, per me è un problema

serio perché... anche solo per poter trovare il modo di fare dei film,

cioè trovare il finanziamento per dei film; perché quello che ti do­ mandano è appunto: «C'è una storia dentro?». Questa è la domanda

che mi sento fare sempre. Rispondo: «Ceno che c*è, è nient’altro che una storia». £ dopo mi sento dire: «Ma questa non è affatto una sto­ ria»; eppure la storia della gente, una storia qualunque, la storia di co­ me uno ruba un biglietto da cento franchi, o di come si è riusciti a far aumentare un salario, o di come uno ha tradito la sua ragazza, so­ no tutte storie appassionanti, e ci vuole del tempo per raccontarle, e

sono le storie di cui sono fatte le ventiquattr’ore su ventiquattro di tutti, la vita della gente, o perlomeno quello che ne resta, quello che

inserisce le persone nella trama sociale, il modo in cui la gente si ri­

corda di se stessa.

Di Wim Wenders ho visto L'amico americane, anzi è il primo

film suo che ho visto; poi l'altro giorno ho visto un pezzo di un altro film intitolato Die Angst des Tormanns beim Elfmeter [La paura del portiere prima del calcio di rigore]. Di Fassbinder ho visto solo i pri­

mi film (ho visto che ne stanno dando uno a Montreal e andrò a ve­ derlo perché quello non l'ho visto). A priori, credo che quella sia sta-

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u un pò* come la «nouvelle vague»» cioè delle persone che parlavano un po’ tra loro - è una resi che ho sviluppato spesso - e questo faceva

si che i film che facevano fossero un po’ migliori degli altri E adesso

che si sono separati i loro film saranno sempre meno buoni» a meno che costoro non riescano a cambiare il sistema, cosa che sembra poco probabile. Ho l’impressione, da quello che ho visto di Wim Wen­ ders, che lui debba molto a uno scrittore come Peter Handke. Non

ho visto il film di Peter Handke tratto dal suo romanzo La donna

mancina. L'amico americano credo che abbia avuto un successo simi­

le a quello di II bandito delle undici A Wenders non interessa la Sto­ ria» e questo è un po’ quello che mi verrebbe da rimproverargli. Io

me ne sono sempre preoccupato... Non ci sono mai riuscito ma la cosa che mi ha sostenuto è stata sempre questa, che volevo sempre raccontare una storia. A modo mio l’ho raccontata; male; e sono

sempre alla ricerca di questo. E in certi periodi cerco di prenderla per un altro verso. In questo momento per esempio cerchiamo di fare queste cinque

puntate d’accordo col governo del Mozambico e di raccontare - il ti­

tolo della serie è «Nascita dell’immagine di una nazione» - come so­ no (visto che le nazioni fabbricano immagini) quelle che il Mozambi­

co ha gii fatte; perché una nazione fa i francobolli, fa le cartoline po­

stali, fa immagini della gente... Ma comunque, da un punto di vista più globale, raccontare sotto forma di storia. Qui è successo come in Germania, in Francia, in America?... Oppure, dato che qui pretendo­

no di vivere un’altra storia, questa scoria la racconteranno in modo

diverso? ^Fassbinder lo rispetto abbastanza; perché è riuscito ad avere un certo potere o una certa energia, cosa che non dev’essere facile. Ogni

volta che ho letto sue interviste mi è sembrato abbastanza giusto, e abbastanza esplosivo che lui faccia quello che fa; mi sembra un uomo abbastanza indipendente. Non so fino a che punto se ne renda con­ to... I cineasti non si parlano fra loro. È difficile...

Ho gli spiegato come è stato fatto Una noria americana, che è un modo mica tanto onesto di fare un film, diciamolo pure. Se non al­

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tro avremmo dovuto dichiararlo. Un film... dopotutto c’è una certa morale. In quel caso la morale... insomma abbiamo giocato sulla no­ stra faciliti: Beauregard a mettere su una produzione perché aveva

bisogno di montare l’affare per trovare soldi e con quei soldi pagare

dei debiti... io sulla mia facilità a fare - nel senso buono della parola -

qualunque cosa. Ma nello stesso tempo non è mica vero che si può fare qualunque cosa in qualunque momento» diciamolo pure. E que­

sto il punto. A un ceno momento il «qualunque» va troppo oltre. In quel caso non è che abbiamo girato in un modo «qualunque»» forse non era nemmeno un film «qualunque», però era il momento che era «qualunque». Il «qualunque» andava un po’ troppo oltre, questa è

stata la questione, diciamolo pure. Ci può anche essere, nel montare un film, un certo «qualunque», sono d’accordissimo, non c’è niente

di male nel fare una cosa qualunque, però bisognerebbe... Se io dico «uno qualunque» la cosa ha un valore, come dire... Quando diciamo

«quello è uno qualunque» ci mettiamo un senso molto dispregiativo. Però «uno qualunque», se poi lo conosciamo... ha un valore... Insom­ ma, tutto è interessante. Ma non ci si può interessare a qualunque co­ sa in qualunque momento.

Quindi questo: in partenza c’era qualcosa di un po* immorale, ora lo abbiamo spiegato. E forse è andata cosi, che io per compensare questa cosa... perché come cineasta penso comunque che una grossa

parte di morale ci sia» la morale che fa dire a tutti: «Questo sento che

non ho il diritto di farlo» oppure «Questo proprio non posso far­ lo»... Siccome quando fai molte cose ti senti bene» e io in quel mo­

mento effettivamente facevo anche quell’altro film, questo mi ha ma­

scherato la verità.

Sono d'accordo. Però certe volte lui è piu interessato a quello che sta facendo di quanto non lo fossi io in quel momento. E aggiungi

che, per quanto lui sia Clint Eastwood, rispetto a quello che faceva era più onesto. E anche se il risultato è disonesto, l'insieme però è,

come dire, più coerente.

Sarà anche il fatto di avere preso ancora una volta come attrice Anna Karina, benché proprio non avessi nessuna ragione di fare il

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Rim con lei, a pane la forza dell'abitudine. Non è stato molto onesto

verso di lei» tranne il caso che avesse avuto bisogno di soldi (a quel

punto puoi sempre fare un favore a una persona) ma la cosa non era stata posta in questi.termini. E cosi... è stato un po’ come certi film che Sternberg ha fatto con Marlene Dietrich... Certe volte anche li

c’è stata della disonesta verso Marlene. Ed è vero anche l’inverso, perché era ormai più che altro un’abitudine e il film ne risentiva.

Non c’era più il desiderio l'uno dell’altro e nemmeno il desiderio di

fare qualcosa insieme, e di farla passando per quello li e per quella K e

nessun altro; c'era ormai solo l’abitudine. Ed è in questo senso che il film era nettamente commerciale, ma in senso peggiorativo. Non è

sbagliato voler combinare un affare; ma è sbagliato voler combinare semplicemente un affare di questo tipo, voler fare semplicemente e

solo un affare. E a quel punto difatti c’è un aspetto che può dark... -

se hai un po’ di abilità, un po' di pirotecnica o simili - che può darla

a bere. In quel film ci sono delle inquadrature che mi piacciono... ma che vorrei vedere in altri film insieme a un mucchio di altre inqua­ drature... completamente diverse. E c’è una quantità enorme di riem­ pitivi. Ho faticato moltissimo ad arrivare a fare un'ora e venti. È un

film che a guardarlo mi sembra lunghissimo mentre invece dura solo un’ora e venti. Un’ora e venti è un film corto, il che vuol dire... Non

so... Di recente ho fatto dei film per la televisione, puntate che dura­ no solo una mezz’ora. Può darsi che anche li ci sia qualcosa di trop­ po, ma secondo me li non ci si rende conto che il tempo passa.

C'era per esempio Harry Cohn della Columbia; lui sapeva benissimtrdove tagliare un film, nella sua sala di proiezione metteva delle

poltrone che scricchiolavano molto e ogni volta che sentiva lo scric­ chiolio di una poltrona diceva: «Qui dobbiamo tagliare»... Questo

pomeriggio ci sono stati moltissimi scricchiolìi. Forse esagero, però in questo c'è del vero. E io stesso ho ritrovato... ho visto benissimo i

momenti in cui la tiravo per le lunghe per riempire, facendo durare

un’inquadratura a mio piacimento... ma quel piacimento non aveva nessuna ragion d’essere a quel punto 11. È in questo senso che posso dire un film «cattivo»; nel senso... in cui la gente dice la tal cosa è

cattiva.

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La corazzata Potèmkm> S. Ejzcnìlejn L'àge d'or, BuAuel-Dali È arrivala la felicità* F. Capra La cinese, J.-L Godard

Ho messo L'age d'or stamattina proprio perché mi faceste questa domanda, appunto perché ve l'ho mostrato insieme ad alcuni esempi

di film che i registi, quando li hanno girati, hanno considerato film politici. E perché penso che oggi un film come L'Age d'or non verreb­

be mai classificato dai critici cinematografici come film politico,

mentre probabilmente è il solo film di tutta la storia del cinema che

abbia fatto un po' scandalo e che ancor oggi possieda, devo proprio dirlo, una grande forza; cioè ci senti dentro qualcosa che sta cam­

biando, o qualcosa che può cambiare, e che disturba molto. Magari è interessante solo se proiettato dopo il Potèmkin anche se l‘accosta­

mento può sembrare bislacco. Mi sono rivisto anch'io questi brani del Potemkin e... poi stamattina sono andato in giro per Montréal,

Quello è un film girato nel '25, che racconta fatti del 1905 che poi portarono ai fatti del *17, i quali furono un grosso cambiamento so­

ciale, qualcosa comunque che fece molto rumore. E guardavo oggi Cosa resta di quel... Si stamattina guardavo le strade sporche, tutte

quelle macchine, questo week-end cosi triste... Cos'è questa civiltà moderna? E cosa sognava quella gente quarantanni fa? È allora che

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cominci a pensare» e pensi alta gente di quei film come a dei moni di

cui ti ricordi. Anche questo è un modo interessante di guardare il ci­ nema. L’aged’or è, credo, interessante perché ci vedi un cambiamento...

Voglio dire che è un film che parla di forme. Secondo me la cosa più

difficile da cambiare non è mica il contenuto, è la forma. Cioè, per

usare l'opposizione classica e per capirci sulle parole» la forma è la co­

sa più difficile da cambiare. Cambiare un uomo, cambiare la forma, ci vogliono millenni. Quello che è interessante, secondo me, di un film come Ltye d'or. è che lo puoi classificare tra i film politici per­

ché appunto si rivolge ai mutamenti di forme, ai mutamenti di parti­

colari; e ti fa capire che sono quelli i più potenti, e sono le relazioni sociali, sono il modo di comportarsi, sono la buona condotta; ti fa

capire che per davvero i diplomi e l'abbigliamento sono cose estre­ mamente potenti e che se sei vestito male è sicuro che in certi luoghi

non entrerai. Le forme, il modo in cui un capo di governo viene rice­ vuto all'aeroporto, il modo in cui un bambino viene battezzato, il

modo come ci si sposa» che è ancora io credo assai potente e dove le

persone ci tengono moltissimo a tutta una serie di fórme. E i veri cambiamenti avvengono quando cambiano quelle forme, e i veri

non-cambiamenti sono quando cambiano le parole, quando si dice socialista invece di capitalista. Ma che cosa è cambiato veramente? È questo che conca.

Abbiamo visto quattro esempi tra cui La cinese. e subito dopo un quinto esempio tratto da un film di quelli che hanno per tema il cambiamento della gente che vuol cambiare; dove cioè il soggetto si

basa su un personaggio o due personaggi. E cosi abbiamo visto come

la cosa è stata trattata in diverse epoche: dai russi; da due anarchici spagnoli, uno dei quali si è poi convertito al franchismo mentre l'al­ tro si è rifugiato in Messico; poi da una specie di idealista siciliano di­ ventato a un certo punto un re di Hollywood; poi in un film cosid­

detto classico di cui la gente ha parlato molto bene e cioè Z, e infine

in un piccolo film come La cinese che è stato girato un anno prima del '68 francese. Quindi secondo me un film come L'age d’or in questo insieme

c’entrava e come; e se mai bisognerebbe collocarlo fra

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l’orgia del

potere e il Potemkin, Ed è un film che ancora oggi, secondo me, se an­ date a proiettarlo nella buona società - nella cosiddetta buona società

- sarebbe ancora scandaloso; è un film vestito male... Il personaggio di Gaston Modo ha una forza enorme; e inoltre è un film dove l’amore è collegato, contrariamente a ciò che avviene negli altri film. Quando si gira un film politico, 1*amore non è mai una cosa che en­

tra nel calcolo; invece quello è un film che presenta l’amore - ciò che la gente chiama normalmente amore - come un elemento essenziale.

Perche difatti puoi sempre andare a una soirée in casa del primo mi­ nistro e rotolarti per terra con la serva, ma credo che finirai sempre

buttato fuori della porta. E questo, per me, anche questo fa parte del­

la rivoluzione. Con questo non voglio dire che la rivoluzione si fa cosi. Ma... voglio dire che i piccoli cambiamenti sono importanti. Vedo mia figlia a scuola, per esempio. C’è una cosa per me sbalordi­ tiva: se si mette una fascia qui alla Bjorn Borg, la cosa non è tollerata.

Se invece si mette una fascia per tener fermi i capelli, ma la fascia in­ vece di essere messa qui alla hippie o alla Bjòm Borg è messa sempli­

cemente, piu perbenino, sopra, allora è tollerata. Sembra una cosa da niente, sembra semplicemente un modo diverso di mettersi qualcosa

intorno ai capelli. E invece per il direttore della scuola è una cosa

fondamentale: c’è un modo che è accettato e ce n’è un altro che non lo è. E questo è uguale in tutti i collegi e in tutte le università; oppure

guardate come vengono vestiti gli steward e le hostess negli aerei, o

per esempio il modo come vengono vestite le infermiere negli ospe­ dali... L'abbigliamento è qualcosa di estremamente potente. E questo è quello che io chiamo cambiamento di forme.

Curioso questo film, Let cinese. All'epoca fu considerato ridicolo: questa non è mica politica, i personaggi non sono mica questi, questi

studenti qui sono dei borghesi, che razza di parole dicono mai, è ro­

ba ridicola... E via dicendo. Io per me avevo voluto fare... come dire, dell’etnologia, una specie di documentario: studiare un certo gruppo

di persone, che all’epoca non conoscevo molto bene. Erano dei grup­ petti di Parigi che si chiamavano marxisti-leninisti, lo non sapevo

molto bene di che cosa si trattasse ma ero alquanto... diciamo attrat­ to da loro; piu che dai sindacalisti del partito comunista o roba del genere, che del resto... non mi avrebbero mai permesso di riprenderli

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in un film. Mentre quel gruppo era un po’ come i primi cristiani... ero molto incuriosito. È cosi che ho conosciuto Jean-Pierre Gorin, è lui che mi ha introdotto un po* nel gruppo perché ne faceva parte -

il mio primo incontro con lui avvenne cosi - faceva parte di quella cerchia. Pubblicavano un coso che si chiamava La cahiers d'étuda

marxista-léninistes. Si riunivano come una società di dotti e lui a quell’epoca passò dei guai con gli altri perché aveva rapporti con me. E per loro lui non doveva avere rapporti con un cineasta borghese

vagamente pseudoanarchico o pseudo non so che. E nel film c'è un altro che è un personaggio vero, quello che fa la parte del nero, si chiamava Omar Diop, e che io conoscevo già tra­

mite Anne Wiazemsky. Anche lui era studente all’università di Nan­ terre. E a lui ho chiesto se poteva fare la parte di se stesso nel film; e a un certo punto mi piacque che fosse lui a far lezione agli altri, appun­

to in quanto nero, diciamolo pure. Omar Diop è morto in una pri­

gione di Senghor nel Senegai tre-quattr’anni fa. E per me questo di­ mostra che... voglio dire che il film non era... Cioè mentre i loro sforzi erano ridicoli, loro non erano ridicoli. Ciò che è ridicolo è che

tutto sia accaduto a quei modo.

E però la vera realtà di quel film è che quelle persone erano ridi­ cole per davvero... Avevo fatto bene attenzione a prendere la sola co­

sa che conoscessi bene, a causa della mìa provenienza, cioè dei ragaz­ zi e delle ragazze di buona famiglia che giocavano al marxismo-leni­

nismo durante le vacanze, come i bambini giocano a costruirsi una tenda da indiani; loro giocavano al marxismo-leninismo, giocavano ai cinesi, per cosi dire. Era l’arrivo dei libretti rossi... Ma oggi, quan­ do guardi cosa sono diventati tutti quei militanti puri e duri... In realtà quel film è un vero documentario e difàtti loro non l'hanno

mai accettato... un documentario è qualcosa che da un lato un po’

commuove dall’altro è un po’ ridicolo, e io tentavo di presentare le cose in maniera plausibile. In realtà è la storia di una ragazza che si chiude nel grande appartamento dei suoi genitori e che per due mesi

vi gioca al marxismo-leninismo come altri hanno fatto per le strade o in altro modo. C’era nello stesso tempo roba vera e roba finta.

E io trovo che quindi il film dà un suono abbastanza vero. E del resto non è un caso che i fatti di Nanterre siano successi un anno do­ 210

po, c'era cioè nel film qualcosa di vero; ma io ho girato il film prima che tutto quel fatto prendesse forma. È in quel senso che m'interessa

di... cioè il cinema può servire a questo, a osservare la creazione delle forme, l'embriologia... L'embriologia è una cosa estremamente mi­ steriosa, una cosa non retta da leggi. Ci sono cioè meno leggi che in

biologia. Perché un uccello ha questo o quest’altro tipo di penne? Com'è che certe persone hanno i capelli castani e altre hanno i capel­

li neri? Insomma, come nasce la creazione delle forme? E ancora, la vita di società: com'è che si formano k società? E le persone si for­

mano, s'informano, si deformano; e come mai a un certo punto c'è un tipo di presa e poi cambia? Potremmo chiamare questo fatto una rivoluzione, un dietrofront... o una spirale, perché se si facesse solo dietrofront il risultato sarebbe un circolo vizioso, e invece come ha

detto Mao Zedong si tratta di spirali ed è cori che le cose cambiano.

Io credo appunto che il modo in cui si racconta la storia - il cine­

ma, la Tv, le immagini - sia piuttosto importante perché è una cosa che non mente. Del resto non c'è di che mentire; certo, la si può fare

mentire, ma un'immagine non è niente piu di un fatto, è solo un mo­

mento di un fatto, mica è tutto. Può mentire, invece, l'uso che se ne fa. Io, la mia unica intenzione nel fare un film non è dire qualcosa; la

mia unica intenzione è riuscire a far si che la gente si dica qualcosa.

La mia sola intenzione è fare i film in un certo modo, non fare dei film in un certo modo affinché; fare i film in un certo modo; se c'è un «affinché» è... affinché accada qualcosa.

Ciò mi serve per mostrare... per poter asserire il fatto che esiste una certa verità, magari ridicola come questa e fatta a questo modo... che c'era qualcosa di interessante e di vero in ciò che è successo. E co­

si come nel '67 in Francia si poteva dire: «Quei ragazzi sono ridico­ li»... e si poteva dire «No»; oggi invece di dire: «Quei ragazzi nel '68

facevano sul serio, hanno fatto delle cose abbastanza serie...», io pos­

so dire anche; «Beh, però sono stati anche un pochino ridicoli».

Chi ha detto che una domanda implica una risposta? Nemmeno il dizionario quando scrive la parola «domanda» dice che la domanda

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chiama una risposta. È tutto un sistema che viene impostato, con una domanda. E io preferisco appunto il sistema delle immagini, do­ ve ci sono anche parole e suoni e... alPaltro sistema, quello delle sole parole, che a lungo andare impedisce il cambiamento delle forme.

Difatti, dire è facile... Si usa molto ad esempio la parola «socialismo», o cose del genere... La gente si scontra su questo tipo di cose invece

di lottare su... Due casalinghe per esempio mica si scontrano, mica dicono: «L'insalata è meglio delle patate» o cose del genere... Una

può fare dei piatti diversi a seconda dei momenti; delle volte te ne

piace uno, delle volte un altro. Tu dici: «La sensazione che tutto ricomincia come prima e che

non ne usciremo mai...». Ma una cosa cosi ci è dettata da qualcosa di contorto, che non era fatto per questo, che sono semplicemente dei suoni organizzati in un certo modo, coi quali si può comunicare ma

che non sono tutta la comunicazione. Oggi invece i nove decimi del­ la comunicazione sono questi suoni. Oggi si arriva a questo punto,

che la televisione ti mette dei testi sul video, e che i giornali per riu­ scire a arrivare in televisione... Cosi leggeremo... Prima ci farà molto

male alla vista ed è importante che la gente si danneggi ben bene la vista perché., certo si venderanno molti occhiali c poi nessuno sarà

piu capace di vedere, quel che dico vedere. La gente ormai saprà solo leggere; useranno gli occhi ma per leggere, non per vedere. Del resto t'insegnano a leggere sempre più presto, cosi sono sicuri che un gior­

no i bambini non rovesceranno mai le cose, oppure che i vecchi -

che cominciano a vedere altre cose - o i popoli primitivi, o lo stregone che aveva una certa sua veggenza non possa più veder niente. E anzi li ridicolizzano dicendo: «Quello che dico io è scientifico... tu

non capisci...». E invece la scienza sta solo in questo, sta nei vedere coi propri occhi, e gli scienziati usano i propri occhi e qualcosa arri­ vano a vederla. I guai cominciano dopo, quando vogliono tradurre, quando tentano di dire quello che hanno visto; invece di fare dei film

o delle immagini (di immagini si servono pure, quando vedono il mondo)... ma invece di fare del cinema, dopo aver usato una cinepre­ sa che si chiama telescopio e aver visto un certo numero di cose, e

aver usato una cinepresa che si chiama microscopio in cui hanno vi­ sto un certo numero di cose... ti scrivono un testo grosso cosi e Firn-

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magine ce la danno solo per provare che quelle cose le hanno davve­ ro viste. Ma a quel punto l’immagine non serve più, restano solo le

parole... Insomma... questa è la mia opinione e ve l’ho gii esposta qui: Einstein ci ha messo molto a scoprire la relatività semplicemente

perché si serviva di parole; la relatività avrebbe potuto essere scoper­ ta molto prima, come un'infinità di altre cose... Ma sono arrivate le

parole e si è mescolato, si è discusso. Hanno fatto un gran discutere...

Prima opponevano il determinismo o non so cosa alla libertà. Oggi

che le cose le puoi vedere, quando guardi come vive un operaio rus­ so, come vive un operaio americano, tu vedi... Se si facessero dei

film, se si guardasse invece di dire, beh ne vedremmo di cose... E a

quel punto capiremmo quello che possiamo conservare e quello che non possiamo conservare. Ma a quel punto le cose cambierebbero talmente che... Ma è una fatica... È un lavoro, e in realtà si preferisce adoperare gli occhi per il piacere, anziché per lavorare.

Si, credo che tutti i Him che ho fatto siano dei film critici... più o meno riusciti. È per questo che adesso non riusciamo piu a vederli fa­

cilmente - un po’ per il tempo passato e un po’ per le idee sbagliate

che io stesso ho contribuito a diffondere. Non si riesce più a vedere facilmente, per via del fatto che si tratta di film critici; c’è qualcosa che col tempo si perde. Un film critico... quello che io intendo per

film critico... è come la giustizia, è una critica... Un film che può mo­

strare certi elementi di un qualcosa e può quindi aiutare a gettare su quella cosa uno sguardo cosiddetto critico. Però la parola ha più di un significato: critico, è anche il punto critico, il punto di cambia­

mento, il punto di ebollizione dell’acqua... o un momento nella si­ tuazione drammatica, anche. Il termine «critico* vuol dire un po’ an­ che questo: una situazione critica... che tra poco cadi dalla bicicletta

o scoppia la guerra o tua moglie ri pianta...

Io ho sempre cercato di filmare il più possibile momenti critici.

Ed è in questo senso che secondo me i miei film sono critici. E quelli che non sono venuti bene, come per esempio Bande à part o quello di ieri Una storia americana, è perché io pensavo di filmare un punto

critico in un dato momento, e invece non lo facevo affatto; non riu­ scivo a farlo; ero lontano dal vero punto critico. Mentre invece qui, con La cinese, credo di essere andato vicino a 213

un punto critico* Ce n’erano moltissimi altri, c’erano un sacco di al­

tri film e di altre cose da fare. Ma questo qui è interessante» perché

mentre ha Varia di essere un po' sfasato e un po' ridicolo» e di parlare di politica con della gente che sono come dei bambini della borghe­ sia..., dentro però aveva qualcosa... Oggi tutti i vecchi militanti maoi­ sti hanno scritto la propria autocritica; certi sono diventati dei guru

in India, altri fanno musica, altri vivono abbastanza isolati. Ma nello stesso tempo, i veri film che si sarebbero dovuti continuare a fare, non sono stati fatti. Quando si dice: «Bisogna stare vicini al popo­

lo...». Insomma... io continuo. Tento sempre. La cinese può servire un po* come documento di cos'era, all'inter­

no degli studenti di Nanterre, una parte di questi studenti da cui a un certo punto ne sono partiti alcuni e... O piuttosto, è passato di li un

certo movimento, o quello è stato uno dei luoghi sociali dove il mo­ vimento è avvenuto. Mi ricordo che ero andato a vedere com'era

Nanterre e in effetti mi sono reso conto che c’erano due mondi. Si

dicevano gii delle cose che nemmeno dopo sono state dette. E oggi, cioè dieci anni dopo, possiamo tornare su questa cosa. Ma cos’è che intendiamo dire quando diciamo...? Cioè» a che pun­

to esattamente la gente fa differenza tra documento e...? Che cos’è un documento? Un documento per esempio dev’essere una cosa sporca? Oppure dev’essere per forza una cosa pulita? Tutto è docu­

mento, assolutamente tutto. Cioè tutto, a un dato momento, quando lo sguardo vi si posa sopra è un momento documentario, vale a dire diventa roba da immagazzinare, roba da mettere nella memoria; ma

questa memoria può diventare di vari tipi: può anche restare memo­ ria di puri documenti... I documenti non sono tutto. Ecco perché, per usare i termini classici di «fiction» e di «docu­

mentario», dico che per me sono due aspetti della stessa cosa. E io ho sempre cercato di dare un aspetto cosiddetto, dalla gente, documen­

tario - per usare i termini abituali - e qualcosa che era fiction; e di fa­

re recitare realmente dei personaggi immaginari, e immaginariamen­ te - se cosi posso dire - della gente vera. Cosi per esempio in questo

film (l’ho fatto anche in altri) c'è Francis Jeanson a cui domando di dire davvero un suo reale testo; però in una situazione un po* imma­ ginaria, che lui non ha scelto ma che però accetta.

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No, non ho inventato io le parole che lui dice» Quello che mi sforzo di fare io, è di parlare con qualche cosa in mano. Altrimenti, beh appunto, non si crea nessuna forma nuova, perché le parole co*

prono tutto. Vedete infatti come le leggi son fatte di parole anziché

d'immagini. L'immagine serve solo a un certo punto, quando si trat­ ta di far applicare la legge, quando a un processo viene mostrata una

prova, quando o la mostra il giudice oppure l'innocente, per provare con l'angolazione di un'immagine la propria innocenza; e può anche essere una cosa scritta, ma in quel momento serve come immagine, è

una cosa che si fa vedere; che tu a un tratto, li, vedi. In matematica si usa l'espressione: «ora vediamo che...». Se manca questo, le parole servono solo a solidificare, a trasformare in legge» sia una legge socia­

le o del pensiero. Una legge sociale è: «Prima di mettersi a tavola ci si lava le mani». Per cambiare una legge come questa occorre delle voi* te che la gente dica: «Già, ma per farlo ci vuole il sapone, e il sapone

è caro». Io cerco di non mettere le due cose una contro l'altra. Infatti io

sono nemico di quelli che, o non si servono delle immagini, o se ne

servono per nascondere anziché per mostrare; e la maggior pane dei film è proprio questo, serve a nascondere. Ed è in questo senso che quei registi amano l'immagine, perché ci vedono dentro delle cose nascoste, e nello stesso tempo ci si nascondono dentro. Si nascondo­

no a se stessi.

In che quadro ci troviamo? Tu entri in casa: hau almeno una fine­

stra in casa tua, questo è già un quadro. Anche la porta. Poi c'è la ta­ vola che è quadrata, il letto che è quadrato... Per forza quindi ti trovi

inquadrato. Il modo stesso in cui ci accostiamo alPembriologia, o alla nascita, o al codice genetico, sono tutti quadri di una data forma. A volte è un bene che il quadro sia rigido, altre volte lo è meno.

Per esempio Omar Diop era un quadro cosi rigido che è finito as­ sassinato da Léopold Senghor. Francis Jeanson a quell'epoca, molto prima del film, era uno dei pochi intellettuali francesi che militassero in una rete detta appunto «rete Jeanson» la quale aiutava attivamente

il Fronte nazionale di liberazione algerino; era ricercato dalla polizia,

e rischiava la pelle come quelli che lavoravano co-ntro i tedeschi du­ rante l'occupazione o come qui, durante la guerra del Vietnam...

215

Francis Jeanson era uno che militava per l’Algeria piu ancora di una

Jane Fonda in America, c che come lei ha corso i suoi rischi. Allora questo film cos’è? un documentario?... Delle volte io non vedo pro­

prio che interesse ci sia a nominare le cose. Certo, le nominiamo per raccapezzarci... Chiamiamo stazione centrale il posto da cui sappia­

mo che partono i treni. Bene... però potremmo chiamarlo con un'al­ tra parola... Ma poi dopo, chiamare una cosa documentario o fic­

tion... è come chiamare una cosa socialismo o capitalismo dicendo: «Beh no, quello che stai facendo tu non è mica socialismo»...

Come abbiamo fatto a fare il film? Beh, allora vi dirò che per quanto mi riguarda è un documentario; perché a quell'epoca io ero

innamorato di Anne Wiazemskv, e lei lavorava a Nanterre e cosi io me ne andavo a studiare a Nanterre; e le chiedevo se aveva dei com­ pagni; avevo delle vaghe idee di sinistra (o di destra o non so), che qualcuno mi aveva messo in testa o che mi ero messo in testa da so­

lo... e andare a girare là voleva dire andare in un posto che già cono­

scevo o che perlomeno avevo voglia di conoscere. E a quel punto vo­

leva anche dire fare il film partendo dalla gente che conoscevo. Se Anne Wiazemsky non fosse stata una che studiava a Nanterre in quel periodo, e se Francis Jeanson non fosse staro uno dei suoi pro­

fessori di filosofìa, non ci sarebbe stato nessun film; è sicuro.

Cosi a un certo punto, se decidi di fare un film, perché non dovre­ sti usare un attore? perché non dovresti usare una macchina da presa

normale? Non è corretto pretendere... C’è gente che per vivere fa

quel lavoro; sono quelli a cui piace recitare... Cosi come ci sono dei

bambini a cui piace travest irsi; e altri bambini a cui piace di meno.

y In questo senso entra in ballo queUa che si è convenuto di chiama­ re «la tradizione del documentario»: si va a girare sul posto e si chie­

de alla gente di rifare i propri gesti; io però chiedo anche che m’in­

ventino una storia, cioè che facciano anche loro un po’ di teatro, un teatro che sia in rapporto col teatro che fanno nella vita. Lei, per

esempio, chi la costringeva a andare a scuola? Nessuno l'obbligava: aveva vent'anni, aveva i soldi... Aveva davvero ancora bisogno di an­

dare a scuola? A quel punto ti viene da chiederle: «Non vorresti im­

maginare un’altra scuola? poi reciteremo tra noi delle scene di teatro;

oppure facciamo un’altra scuola...» Dopodiché tu giri e fai vedere il 216

tuo film alla gente; e il film interessa, e ne discutono un po’, o non

ne discutono affatto, o ti saltano addosso come ha fatto qualcuno, o ti dicono, ma dopo: «Ah, premonitore!...». Ma due anni dopo. Quello che mi sforzo di non far più, è proprio: «Scusi, lei crede nella rivoluzione quando fa un film come questo?». No, non ci cre­

do. Come se dovessi credere nella polizia quando faccio un film co­

me Una storia americana, o dovessi credere nelle automobili quando

faccio un film come Week-end Ciò a cui credo sono le possibilità di cambiamenti. Sono la cosa

più preziosa che ci sia le possibilità di cambiamento, e l‘immagine è più preziosa di ogni altra cosa perché può fissare quei momenti del

cambiamento, sia sotto forma di cinema sia sotto forma di foto; e quindi possiamo verificare e confrontare con altri se le possibilità di

cambiamento che ci sono sono interessanti, utili, o gradevoli a secon­ da dei casi. E se ci sono dei contrasti, potersi mettere d’accordo. E l’immagine è li appunto perché ci si possa ricordare delle possibilità di cambiamento. Perché in certi momenti noi registriamo troppe co­

se e con tutto quello che registriamo dentro di noi, nella memoria, e

dato il modo come la nostra memoria funziona, e dato il modo come siamo aggregati in società... delle volte è troppo difficile spiegarsi; e

difatti la gente passa tutto il tempo a cercare di spiegarsi. Se all’Onu si servissero un po’ più di immagini e un po* meno di parole, l’Onu

sarebbe più efficiente; ma l’Onu non vuole mica essere efficiente. So­ lo in certi momenti si vuol essere efficienti. Per esempio a un certo

punto contro Hitler, perché esagerava... Si, ma gli altri facevano le stesse cose anche loro... Churchill faceva le stesse cose nelle colonie

inglesi c i francesi idem in altri posti... E difatti poi, appena Hitler è

stato liquidato, hanno avuto tutti quanti una voglia sola, di andare

subito a ricominciare quelle stesse cose da altre parti. Hitler almeno era più franco, quelle cose le faceva a casa sua, se non altro. Per que­ sto era veramente pericoloso, da eliminare, perché era matto fino a

quel punto... Lo hanno eliminato semplicemente come un pazzo fu­ rioso; cioè perché era un malvagio che inoltre era più pazzo degli al­ tri e gli altri non li ascoltava nemmeno più.

Ed ecco che in quel caso per un po’ di tempo si sono serviti delle immagini; hanno fatto vedere un po’ di foto di campi di concentra­ si?

mento. Ecco che gli inglesi... che pure si facevano sfruttare da Chur­

chill» hanno detto: