Introduzione alla storia contemporanea [3° ed.] 8815284877, 9788815284877

Nello studio della storia contemporanea assai importanti sono i «caratteri peculiari» di una determinata epoca: quei fen

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Introduzione alla storia contemporanea [3° ed.]
 8815284877, 9788815284877

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Introduzione alla storia contemporanea

Terza edizione

Copyright © 2006 by Società editrice il Mulino, Bologna. Terza edizione 2020.

Premessa, di Stefano Gavazza

p.

17

PARTE PRIMA: I CARATTERI DELLA STORIA CON TEM PORANEA

I.

IL

III.

Le coordinate della storia contemporanea, di Paolo Pombeni

23

1. 2. 3. 4. 5.

23 24 27 30 32

Questioni di periodizzazione Il tempo Lo spazio Il carattere Religione e politica

La società di massa, di Stefano Gavazza

35

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

35 36 40 43 46 48 51

Dall’Antico regime alla società di massa Masse pericolose: la paura del numero Produzione di massa e classi pericolose Consumi di massa e industria culturale Svaghi di massa Masse giovani e anziane, di uomini e donne La massa al potere

Globalizzazione dello sviluppo e delle crisi: un percorso eco­ nomico, di Carlo Paviani 1. 2. 3. 4.

L’eredità della Rivoluzione industriale: la globalizzazione (18701913) Guerre mondiali e crisi economica (1914-45) La ripresa economica (1946-73) La fine dello sviluppo o nuovi equilibri mondiali?

55 55 58 63 65

IV.

L’età delle ideologie, di Giovanni Orsina 1. 2. 3.

73 75 79 83 89

La trasformazione della politica e le costituzioni, di Gaetano Quagliariello

95

1. 2. 3. 4.

VI.

Vili.

I modelli originari: tra Francia e Inghilterra La prima crisi del parlamentarismo liberale: nascita dei partiti e avvento della politica di massa La guerra mondiale e l’«era delle tirannie» Il secondo dopoguerra: la rivincita della liberaldemocrazia

Religioni ed età contemporanea, di Cristiana Facchini 1. 2. 3. 4. 5.

VII.

69

Che cos’è un’ideologia? Le caratteristiche delle ideologie Alcune questioni fondamentali: mutamento, stato, società, indi­ viduo Il reazionarismo dall’Antico regime alla società di massa Il conservatorismo Il liberalismo S o c ia lism o e c o m u n iS m o

4. 5. 6. 7.

V.

p.

Una definizione di modernità Quali religioni? I cristianesimi Islam e induismo Conclusioni

Le relazioni internazionali, di Guido Formigoni

69 70

95 99 104 111

115 116 117 119 126 128

131

1. La «società internazionale» europea e le grandi potenze 2. L’età delle rivoluzioni e l’avvio dell’età contemporanea 3. L’ordine di Vienna e il «concerto europeo» 4. I nuovi movimenti nazionali e la «pax britannica» 5. La crisi del «concerto europeo»: l’unità italiana e quella te­ desca 6. Stato e nazione nell’epoca degli imperialismi 7. La Prima guerra mondiale e il tentativo di costruire un ordine giuridico internazionale 8. L’Europa verso la catastrofe 9. La Seconda guerra mondiale e il nuovo bipolarismo 10. Guerra fredda e stabilizzazione dei blocchi 11. L’indebolimento progressivo e la fine del bipolarismo 12. Un mondo plurale: successi e limiti della globalizzazione

141 144 147 149 152 156

I movimenti delle donne in Europa e negli Stati Uniti d’Ame­ rica, di Raffaella Baritono

159

1. 2. 3.

161 166 171

I movimenti suffragisti e femministi dell’Ottocento Cittadinanza politica e cittadinanza sociale La seconda ondata del femminismo

131 132 133 135 137 139

IX.

X.

XI.

Mass media e politica: dal telegrafo a internet, di Riccardo Brizzi

p.

177

1. Industrializzazione e sviluppo dei mass media 2. La stampa di massa 3. La Prima guerra mondiale: tra censura e propaganda 4. La rivoluzione della radio 5. La Seconda guerra mondiale e la «voce della libertà» 6. La televisione e la «spettacolarizzazione» della politica 7. Internet e la democrazia partecipativa 8. Legittimità mediatica e «contro-sfera pubblica»

177 179 183 185 190 191 194 196

Ambiente, società e politica, di Stefano Cavazza

199

1. 2. 3. 4. 5.

201 203 205 208 212

L’uomo e l’ambiente La Rivoluzione industriale e l’ambiente Limiti della crescita Politica e ambiente Conclusioni

L’emergere dell’Asia nella storia contemporanea, di Antonio Fiori 1. 2.

L’Asia dalla fine della Seconda guerra mondiale alla fine della guerra fredda . Il debutto del nuovo secolo

215 216 225

PARTE SECONDA: CESURE E TORNANTI

XII.

XIII.

XIV.

1789-1815. La nascita dell’età contemporanea, di Emilie Delivré

235

1. 2. 3. 4.

235 236 240 241

L’età delle rivoluzioni La Rivoluzione francese L’Europa napoleonica La Rivoluzione industriale

1848. Costituzioni, diritti, nazionalità, di Salvatore Botta

243

1. 2. 3. 4.

243 245 247 248

Origini e protagonisti di una svolta Le concitate fasi della rivoluzione in Europa La rivoluzione italiana del biennio1848-49 Limiti ed eredità del ’48

1860. La guerra civile americana, di Tiziano Bonazzi

251

1. Stati Uniti ed Europa 2. Le cause e il contesto della guerra

251 252

3. 4.

XV.

XVI.

XVII.

L’esplodere delle tensioni La guerra civile nel contesto internazionale e le sue conseguenze interne

XX.

254 255

1870. Il nuovo equilibrio europeo, di Maria Serena diretti

259

1. L’unificazione tedesca 2. Le conseguenze della sconfitta francese 3. Il nuovo equilibrio europeo

260 262 263

1898. La guerra ispano-americana e l’impero statunitense, di Mario Del Pero

267

1. 2. 3.

268 269 270

Cuba Le cause Le conseguenze

Fine secolo, di Fulvio Cammarano

273

1. 2. 3. 4. 5.

274 275 277 278 279

Italia Francia Gran Bretagna Spagna Germania

XVIII. La Prima guerra mondiale, di Marco Mondini

XIX.

p.

283

1. Perché scoppiò la Prima guerra mondiale? 2. L’attentato di Sarajevo e l’inizio della guerra 3. Dalla guerra di movimento alla guerra di trincea 4. Una guerra totale 5. L’ingresso in guerra dell’Italia e le grandi battaglie del 1915-16 6. Il 1917. La dissoluzione degli eserciti e il tornante della guerra 7. Il 1918 e la conclusione del conflitto 8. I trattati di pace

283 285 285 286 286 288 289 289

1917. Lo spartiacque della Rivoluzione bolscevica, di Giovanna Cigliano

293

1. 2. 3.

La Rivoluzione russa nella storia europea e mondiale Le Rivoluzioni di febbraio e di ottobre I primi passi del nuovo regime

293 295 298

1929. Il grande crollo dell’economia, di Manuela Mosca

301

1. 2. 3. 4.

301 303 304 305

La smania speculativa Le cause della crisi L’entità della crisi Le risposte

5. 6.

7. 8. 9.

XXII.

XXIV.

XXV.

p.

307 310 311 312 313

1936. La guerra civile spagnola e lo scontro tra fascismo e antifascismo, di Alfonso Botti

315

1. 2. 3.

316 316 318

La dittatura di Primo de Rivera L’avvento della repubblica La guerra civile

La Seconda guerra mondiale, di Marco Mondini

323

1. 2. 3. 4. 5. 6.

323 324 325 326 326

7.

XXIII.

Le conseguenze sulle altre nazioni La crisi e l’Italia Il New Deal Nasce la macroeconomia Conclusioni

Le origini e l’inizio della guerra La guerra europea (1939-40) Il nuovo ordine europeo e l’egemonia dell’Asse (1940-41) 1941-42: la globalizzazione del conflitto 1942-44: la svolta della guerra Guerra ai civili e sterminio di massa: i caratteri della guerra ideo­ logica La sconfitta di Germania e Giappone e la conclusione del con­ flitto

327 329

1949. La Rivoluzione cinese, di Antonio Fiori

331

1. 2. 3.

331 334 336

Alle origini della Rivoluzione Ricostruzione e consolidamento L’alleanza con i sovietici

1950. La guerra di Corea, di Antonio Fiori

339

1. 2. 3.

339 341 344

Alle origini del conflitto Il conflitto fratricida Le conseguenze del conflitto

1956. Una svolta nel secolo?, di Stefano Bottoni

347

1. 2. 3.

347 349 352

Il XX congresso del Pcus e il suo impatto in Europa orientale La rivoluzione ungherese e la crisi di Suez L’eredità del 1956

1957.1 trattati di Roma e le origini dell’integrazione europea, di Maurizio Cau

355

1. 2. 3.

355 357 359

Le origini dell’integrazione e il contesto internazionale Vittorie e sconfitte: dalla Ceca alla Ced Il rilancio dell’integrazione. I trattati di Roma

XXVII. 1960. La decolonizzazione in Africa: un processo incompiuto?, di Mario Zamponi 1. L’anno dell’Africa 2. Idee e movimenti nazionalisti 3. Indipendenza politica e sviluppo economico 4. La fine del progetto coloniale 5. La decolonizzazione mancata?

XXVIII. Gli anni Sessanta, di Michele Marchi

XXIX.

XXX.

XXXI.

p.

363 364 365 366 366 367

371

1. L’elezione di Kennedy e la distensione 2. Un decennio gollista 3. Il tentativo riformista italiano: il centro-sinistra 4. Un decennio «ponte»

372 373 376 377

1967. La svolta della «questione mediorientale», di Marcella Emiliani

379

1. La guerra dei Sei giorni 2. Gamal Abdel Nasser 3. Un’«escalation» di violenza e ambiguità 4. La guerra del miracolo 5. Vincitori e vinti 6. Le conseguenze della guerra

379 380 382 384 385 386

1968.1 giovani al potere,di Michele Marchi

389

1. 2. 3. 4.

390 392 393 395

I primi passi del movimento tra Stati Uniti ed Europa Il maggio francese Il ’68 italiano Un bilancio?

1973. La crisi petrolifera e la fine dell’età del benessere, di Riccardo Brizzi

397

1. 2. 3.

397 399 401

La crisi della leadership americana La guerra del Kippur L’arma del petrolio

XXXII. 1973. Prima e dopoil settembrecileno, di Loris Zanatta 1. Il contesto latinoamericano 2. Il modello economico dei regimi latinoamericani 3. L’atteggiamento degli Stati Uniti

405 406 409 410

XXXIIL 1976. Dal franchismo alla democrazia: la transizione spagno­ la, di Alfonso Botti 1. 2.

Il franchismo La transizione

XXXIV. 1989. Il crollo del muro di Berlino e la fine della divisione tedesca,di Giovanni Bernardini

XXXV.

413 416

421 421 423 424 425 426

1992. L’Europa di Maastricht, di Gabriele D’Ottavio

429

1. 2. 3. 4.

429 431 432 434

1. 2. 3.

Le origini Unificazione tedesca e unione monetaria La nascita dell’Unione europea Un processo aperto

La sicurezza degli Stati Uniti La sicurezza internazionale La comunità atlantica divisa

XXXVII. 2008. La crisi finanziaria di un’economia in trasformazione, di Patrizia Battilani 1. Le trasformazioni del settore finanziario 2. Il manifestarsi della crisi negli Stati Uniti e la sua diffusione nel mondo 3. La fase due della crisi e gli attacchi speculativi contro il debito sovrano dei paesi dell’area euro 4. L’Italia di fronte alla crisi

dei nomi

Gli autori

413

1. La Germania dalla sconfitta alla divisione 2. Le due Germanie nella guerra fredda e la costruzione del muro 3. La crisi della «dottrina Hallstein» e la «Ostpolitik» 4. Dalla «seconda guerra fredda» al crollo del muro 5. Epilogo: verso la riunificazione

XXXVI. 2001.11 settembre: un tornante della storia?, di Matteo Battistini

Indice

p.

437 438 440 442

445 445 446 448 450

455 461

All’indomani della caduta del muro di Berlino e della fine dell’Unione Sovietica si diffuse la tesi di una «fine della storia» che sarebbe consistita nella vittoria del modello di vita occidentale - segnatamente americano - e dell’economia di mer­ cato e nell’abbandono dei grandi conflitti ideologici che avevano contrassegnato il Novecento. La storia si è presa, purtroppo anche tragicamente, la sua rivincita su queste previsioni. Gli anni seguiti alla fine del bipolarismo e della guerra fredda hanno rivelato alla lunga una crescente instabilità internazionale e sono culmi­ nati in una crisi economica di proporzioni mondiali che ha riportato alla nostra memoria un passato che sembrava dimenticato, la Grande crisi del 1929. Queste tendenze sono state complicate dal rafforzamento di un processo di globalizzazione che ha investito tutti gli aspetti della vita umana. Lo sviluppo dell’automazione ha prodotto una vera rivoluzione che si sta allargando a tutto il mondo e che sta mettendo a rischio non più il solo lavoro manuale, ma anche le professioni dei cosiddetti colletti bianchi. Notevoli sono stati i mutamenti intervenuti nel mondo dell’informazione. La comparsa di televisioni che trasmettono via satellite ha mo­ dificato il panorama. Reti televisive del mondo arabo come Al Jazeera tentano di competere per il primato con i grandi network occidentali; i loro canali in lingua inglese mostrano non di rado una gerarchia di notizie diversa rispetto a quella a cui siamo abituati. Ma nell’ultimo decennio il panorama dell’informazione sem­ bra essere stato ulteriormente modificato dall’evoluzione di internet. Grazie alla rete ognuno di noi può acquisire informazioni da ogni parte del pianeta in pochi secondi. Lo sviluppo dei social network e l’evoluzione tecnologica degli strumenti di comunicazione (primo fra tutti il cellulare) hanno reso possibile promuovere mobilitazioni di massa al di fuori dei canali tradizionali non solo nei paesi demo­ cratici, ma anche nei regimi autoritari. La brutale repressione del regime siriano riecheggia per ferocia i massacri compiuti dal padre dell’attuale presidente Assad, ma, grazie alle nuove forme di comunicazione, la notizia di queste stragi è riuscita a entrare nelle nostre case quasi in tempo reale e ha contribuito a mobilitare la comunità internazionale. Al medesimo tempo questi stessi strumenti sono diventati la cassa di risonanza di posizioni radicalizzate e intolleranti, accompagnando un processo di polarizzazione nella sfera politica che sembravamo aver dimenticato. Come reazione ai processi di globalizzazione, le ideologie riferite allo stato-nazione

e al nazionalismo sono tornate in auge, assumendo varie forme. La stessa unifica­ zione europea è parsa subire un rallentamento, di fronte alla pressione dei fautori dell’Europa delle nazioni. L’emergere di movimenti populisti, da un lato, e il rie­ mergere di pulsioni di estrema destra, dall’altro, mettono in difficoltà la stabilità delle democrazie nate alla fine della Seconda guerra mondiale. Sul piano economico si è registrata la comparsa di nuovi aggressivi attori come Cina e India, in grado di insidiare le posizioni in testa alla classifica, finora assegnate alle potenze industriali euroamericane. Il rilievo assunto da questi paesi non è legato solo al basso costo del lavoro, ma anche alla capacità di produrre (a volte imitando) beni di alta qualità. Un produttore di sistemi di telecomunicazione come la cinese Huawei gareggia per la leadership mondiale nel suo settore e non ha nulla da invidiare in termini di qualità tecnologica ai suoi competitors. Da questi eccellenti risultati è derivata una crescita economica invidiabile, che ha portato la Cina ad assurgere a un ruolo di prima grandezza nella scena internazionale. Questi mutamenti negli equilibri economici mondiali sono stati accompagnati da altrettan­ ti sommovimenti geopolitici. La Cina ha sviluppato una strategia di penetrazione in Africa. Nel Mar Cinese Meridionale le rivendicazioni di Pechino e il rifiuto di accettarle da parte della comunità internazionale hanno generato un forte clima di tensione nell’area, oltre a rappresentare un segnale della volontà cinese di espande­ re la sua influenza sul Pacifico. La Russia, nonostante una struttura economica più fragile, è riuscita a rientrare in gioco nell’area mediorientale grazie all’intervento in Siria, mentre in Europa resta senza soluzione il conflitto in Ucraina. Le grandi trasformazioni che stiamo osservando sono però il risultato di proces­ si di lungo periodo. Mai come oggi, perciò, è importante studiare la storia contem­ poranea per decifrare le complessità del presente; inoltre, si tratta di una materia che deve essere indagata in un quadro globale. Negli ultimi anni la storiografia ha sottolineato la necessità di prendere in esame le interazioni e le interdipendenze tra i fenomeni storici assumendo una prospettiva globale. L’idea che si debba studiare una global history e non più una storia circoscritta ai confini nazionali si è fatta strada nella comunità scientifica, mentre nuovi filoni di ricerca (la storia ambien­ tale o la storia dei consumi solo per fare qualche esempio) sono ormai consolidati. Nel progettare questa nuova edizione dell 'Introduzione alla storia contem­ poranea i curatori hanno inteso inserire nuovi elementi desunti dal tempo presente, collocandoli però in un’ottica di lungo periodo. Dell’architettura del volume, che continua ad essere valida, merita di essere segnalato innanzi tutto l’arco cronologi­ co, che parte dall’età dei diritti e delle rivoluzioni - considerati momento fondativo della contemporaneità - per arrivare al tempo presente con la crisi avviatasi nel 2008, che sembra sempre più assumere il carattere di una cesura storica. È stata raf­ forzata l’attenzione al problema della globalizzazione economica registratasi negli ultimi due secoli - a partire dalla Rivoluzione industriale fino ai giorni nostri -, ma anche alle contraddizioni derivate dallo sfruttamento indiscriminato dell’ambiente e delle risorse e ai rischi di cambiamento climatico. Inoltre, si è posto in evidenza l’emergere dell’Asia nel mondo contemporaneo e il ruolo dell’Unione europea nel contesto globale. Naturalmente la storia politica resta l’asse centrale del volume, ma è intesa in un senso ampio, come analisi diacronica della sfera delle relazioni di potere tra movimenti, partiti, ideologie, generi, stati. Infine, nel predisporre la nuova edizione del volume si è fatto tesoro delle esperienze precedenti maturate dai curatori. In linea con questa tradizione si è fatto

uso di un linguaggio accessibile anche a chi non faccia lo storico di professione o a chi muova i primi passi negli studi universitari. Per la stessa ragione è stata mantenuta la breve bibliografia di riferimento al termine di ogni saggio, evitando pesanti apparati critici. In conclusione, l’obiettivo che ci ha mosso era quello di fornire uno strumento di lettura della storia contemporanea che fosse non solo aggiornato, ma che sapesse anche mettere in relazione i temi più consolidati della ricerca sull’età contempo­ ranea con nuove prospettive e nuovi argomenti. Solo la risposta dei lettori potrà dirci se abbiamo raggiunto il nostro scopo. Stefa n o C

avazza

I caratteri della storia contemporanea

Le coordinate deila storia contemporanea di Paolo Pombeni

L’espressione «storia contemporanea» può sembrare un ossimoro: ciò che è contemporaneo non è ancora storia e ciò che è storia non è più contemporaneo. In realtà si tratta in origine di una definizione residuale: quella storia che «si è fatta e si fa» dopo la chiusura dell’età moderna. Dove fissare tale chiusura è tuttora controverso: molto dipende dall’ambito a cui si fa riferimento (politico, economico, socioculturale, religioso, ecc.). Conviene quindi soffermarsi sugli elementi che connotano l’individuazione di un’epoca: il «tempo», lo «spazio», e ciò che potremmo chiamare l’«atmosfera», cioè quel complesso di fattori la cui presenza ci segnala che siamo entrati «in un altro mondo».

A cosa serve studiare la storia? Qualsiasi epoca si studi, non si può che partire da questo interrogativo. Magari quando si parla di «età contemporanea» (un ter­ mine che sembra già in conflitto con quello di «storia») la domanda suona quasi impertinente: un po’ perché manca la sensazione di dover capire un mondo lontano da noi (altrimenti che senso avrebbe chiamarlo contemporaneo?), un po’ perché ci si illude che in fondo delle cose importanti di quest’epoca - che per definizione fa ancora parte di ciò che stiamo vivendo - conserviamo in automatico memoria e comprensione per tradizioni che ci sono più o meno familiari. Naturalmente non è così ed è molto facile constatarlo. Innanzitutto perché siamo in presenza di un’evoluzione così veloce, che persino uno stacco di alcuni decenni ci rende estraneo il «mondo di ieri». Nella vita sociale sono presenti fenomeni che separano il vissuto delle generazioni più giovani da quello dei loro padri, per non dire dei loro nonni: il computer, internet, i telefoni cellulari, i voli low cost hanno cambiato la fisionomia dei contesti in cui sono cresciute le ultime generazioni, tanto da far apparire arcaici fenomeni come la televisione, per non parlare della radio. 1.

Questioni di periodizzazione

La storiografia ha da tempo definito che dopo le tre fasi classiche consolidate nel suo canone di studi, cioè l’età classica (che va più o meno dall’antichità egizia

fino alla caduta di Roma, 476 d.C.), il Medioevo (che convenzionalmente si fa in genere finire con la scoperta dell’America, 1492), e l’età moderna, si debba venire ad un’ulteriore fase che viene etichettata come «età contemporanea» per il fatto che essa arriva a coinvolgere i tempi attuali. Tuttavia proprio nel fissare i confini della storia moderna nascono problemi non facilmente risolvibili. Per la verità anche per le altre fasi storiche si tratta di inizi e conclusioni fissati del tutto arbitrariamente, per convenzione, prendendo come punto di svolta un evento che, a posteriori, può venire considerato emblematico: in realtà ovviamente l’Impero romano d’Occidente era in crisi e in decadenza prima del 476 mentre quello d’Oriente gli sopravvisse ben più a lungo, né il Medioevo finì il giorno in cui Cristoforo Colombo mise piede sulle coste americane, essendo noto che per certi versi il declino del contesto medievale era iniziato già da prima e per altri esso continuò a vivere oltre quella data. Da tempo una sensibilità storiografica più raffinata ha messo in questione partizioni storiche così ampie che contengono universi difficilmente considerabili come omogenei: fra la civiltà egizia dei faraoni e delle piramidi e l’età augustea della Roma classica c’è grande differenza; nell’alto Medioevo intorno all’anno 1000 e nelle civiltà tra la fine del 1200 e il 1300 troviamo mondi assai diversi. Altrettanto può dirsi per quel che riscontriamo nel XVI e quel che ci si presenta nel XVIII secolo. Nonostante questo le partizioni in storia antica, medievale e moderna sono divenute canoniche, cioè comunemente accettate come grandi categorie di riferimento. Altrettanto si può dire per la convinzione che quella che è definita come «storia moderna» venga ad un certo punto a concludersi per lasciare posto ad una nuova fase. Il problema è che manca un tornante storico pacificamente accettato come spartiacque, perché la sensibilità degli studiosi si è molto raffinata; mentre la mes­ sa in discussione della validità delle tre «età» sopra ricordate non viene proposta - sebbene nessuno le consideri veramente categorie omogenee e significative -, recependo invece la tradizione per definire l’età contemporanea, entra in gioco la consapevolezza della complessità dei fattori da tenere in considerazione. In termini generali e un po’ rozzi possiamo dire che nel tentare di definire i caratteri di una grande epoca storica possiamo partire dalla considerazione di tre fattori: il tempo, lo spazio e quell’insieme di elementi che ne hanno caratterizzato la vita che definiamo per brevità l’«atmosfera». 2.

Il tempo

Il tempo ha a che fare con gli eventi che si usa chiamare «periodizzanti», cioè con quegli eventi che, come si dice anche nel linguaggio comune, «segnano un’e­ poca». Alcuni possono essere facilmente percepibili nella loro individualità, perché segnano immediatamente il vissuto delle persone e determinano conseguenze che la memoria collettiva fa agevolmente risalire ad essi. L’esempio tipico è costituito dalle guerre, ma altrettanto emblematiche possono essere le rivoluzioni. Altri eventi possono essere anche più capaci di determinare grandi cambiamenti, ma non fanno capo a degli «accadimenti circoscritti» che diano subito percezione di un prima e un dopo. E tipico delle scoperte scientifiche e tecnologiche: il trasporto ferroviario ha cambiato il mondo, ma subito dopo il giorno in cui venne usata la prima locomotiva

non cambiò nulla. Così fu, per continuare con esempi facilmente comprensibili, con l’invenzione del telefono, o della radio. Da un certo punto di vista è più facile creare periodizzazioni riferendosi ad eventi del primo tipo, perché comportarono per così dire un «urto», una «frattura», che furono percepiti dai contemporanei e vennero di conseguenza usati per spie­ gare il cambiamento dei parametri a cui si era abituati. La Rivoluzione francese, che aveva proclamato quanto era esistito prima come «Antico regime», è un buon esempio di evento periodizzante e infatti essa è usata da alcuni come momento di inizio dell’età contemporanea. In effetti idee che certo erano maturate prima del fatidico 1789 divennero dopo quell’anno dominanti nell’organizzazione della sfera politica: sovranità popolare, diritti dell’uomo, decisioni basate sul sistema costituzionale-rappresentativo si imposero progressivamente tanto da diventare pilastri strutturanti a cui tutti avrebbero poi fatto riferimento. Si poteva però sostenere che quelle idee erano state solo patrimonio di una cerchia ridotta di fruitori e che solo in seguito si sarebbero imposte senza più rivali, tanto che anche coloro che non le accettavano preferirono presentarsi come interpreti di una loro realizzazione «più vera». Così il tempo di svolta avrebbe potuto essere definito prendendo in considerazione altri eventi: il 1848, quando in tutta Europa venne clamorosamente messo in discussione il tentativo di restaurare, almeno a parole, l’Antico regime; oppure il 1870 quando si venne a compiere una riorganizzazione del sistema de­ gli stati che modificava a fondo la carta politica della Restaurazione; o ancora il periodo 1917-19 quando fra la Rivoluzione bolscevica e la fine della Prima guerra mondiale la riorganizzazione della politica, almeno nel mondo occidentale, si venne strutturando sul coinvolgimento programmatico delle masse nello spazio del nuovo stato che assorbiva in maniera massiccia e a volte totale la vita dei suoi cittadini. Ci sono però trasformazioni che si realizzano in maniera meno eclatante, anzi a volte senza essere neppure immediatamente percepite, perché determinano mu­ tazioni che vengono riconosciute solo quando raggiungono un certo grado di intensità. Così è per esempio per i fenomeni economici come le «Rivoluzioni industriali», che vennero identificate come tali solo al raggiungimento di un certo livello di sviluppo. Indubbiamente la prima Rivoluzione industriale, che secondo una datazione tradizionale si può collocare circa fra il 1760 e il 1830, cambiò in maniera notevole la distribuzione sociale e geografica delle popolazioni, oltre ad incidere sulle dinamiche di formazione e accumulazione della ricchezza; anche questo fenomeno potrebbe essere considerato un elemento per datare il passaggio dal mondo moderno alla fase successiva. Si potrebbe però ritenere che molti aspetti del modo precedente di produrre rimasero immutati e che solo con la cosiddetta seconda Rivoluzione industriale, quella determinata dall’utilizzo dell’elettricità e dallo sfruttamento dei progressi della chimica, ci fu un deciso distacco dalle coordinate precedenti. Anche in questo caso è impossibile stabilire una datazione precisa per indicare la «svolta»: l’11 gennaio 1881 alla Scala di Milano veniva messo in scena uno spettacolo di balletto denominato Excelsior, in cui si celebravano le nuove meraviglie del progresso scientifico-tecnologico, ma solo una ventina d’anni dopo si videro consolidate quelle conquiste. È dunque impossibile determinare un unico momento di rottura fra il mondo «moderno» e quello che si definirà «contemporaneo»: c’è piuttosto una lunga fase di transizione, che va grosso modo dalla fine del XVIII secolo agli inizi del XX, in cui elementi di novità e permanenze del sistema precedente non solo convivono,

ma lo fanno in conflitto fra di loro. Quel che invece si può dire con ragionevole certezza è che il passaggio fra il XVIII e il XIX secolo fu vissuto dalle punte più avvertite dell’opinione pubblica come un momento di rottura. Alessandro Manzoni scrivendo l’ode 11cinque maggio in morte di Napoleone I nel 1821 lo presentò fra il resto come arbitro fra «due secoli l’un contro l’altro armati»: è una testimonianza di un modo di sentire diffuso (che fu condiviso, per esempio, dal grande poeta tedesco Goethe). Anche per queste ragioni si diffuse l’abitudine di dare un significato partico­ lare al «secolo». Proprio per la rottura che era stata percepita tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800 ci fu una notevole aspettativa per l’avvento del nuovo secolo, il 1900, che fu atteso come un’epoca che avrebbe segnato un nuovo scatto nella storia dell’umanità. Questo modo di vivere i passaggi di date appunto fra i secoli si sarebbe ripresentato per l’avvento del XXI, che fra le altre cose aveva la caratteri­ stica aggiuntiva di aprire un nuovo millennio (sebbene in questo caso non si siano ripetute le attese apocalittiche che avevano caratterizzato l’avvento dell’anno 1000). Poiché però ci si rese conto che era piuttosto difficile vedere il passaggio dal 1899 al 1900 come qualcosa di particolarmente significativo, venne proposto, e oggi è abbastanza comunemente accettato, che il passaggio andasse spostato in avanti allo scoppio della Prima guerra mondiale, nel 1914: nacque così la convenzione che parla di un «lungo Ottocento». Ma quando sarebbe finito il nuovo secolo apertosi allora? Su questo punto non c’è concordia fra gli studiosi, mentre nella pubblica opinione ha avuto un certo successo la tesi dello storico inglese Eric Hobsbawm, che ha definito il Novecento un «secolo breve», racchiudendolo fra la Rivoluzione bolscevica (1917) - cui attribuiva il carattere di un evento che aveva cambiato le coordinate del mondo - e la caduta del Muro di Berlino (1989), quando del risultato di quella Rivoluzione, cioè l’affermazione di un modo alternativo e concorrenziale di organizzare la vita degli uomini, si constatò il fallimento. Scientificamente la tesi non regge, perché la Rivoluzione bolscevica non fu in grado di cambiare davvero il mondo e il fallimento di quella potenza politica che aveva preteso di incarnare e far procedere quel cambiamento non segnava alcuna «fine della storia», come sostenne un altro studioso, lo statunitense Francis Fukuya­ ma. A trent’anni di distanza e rileggendo gli avvenimenti dalla fine del XVIII secolo ad oggi si può concludere che la storia contemporanea, almeno sotto il profilo dei grandi fenomeni di organizzazione della sfera politica, non è ancora conclusa. Naturalmente l’approccio è più problematico se si considera la questione dal punto di vista delle mutazioni nell’ambito della scienza e soprattutto della tecnolo­ gia. I progressi della conoscenza scientifica, soprattutto nel campo della medicina, hanno cambiato il rapporto delle persone con il loro vissuto, almeno in quella parte del mondo che è stata in grado di trarre beneficio da quei progressi. F’introduzione di nuove tecnologie nella comunicazione, prima la radio, poi la televisione, infine internet, hanno avuto un effetto di mutazione paragonabile a quello che si ebbe con l’invenzione della stampa (1454), ma cambiamenti rilevanti si possono trovare con lo sviluppo di altre «macchine», dagli aerei ai missili, ai telefoni, dagli elettrodomestici ai computer. E possibile considerare qualcuna di queste invenzioni come emblematica di un «cambiamento di epoca»? Certamente sì, se restringiamo la considerazione al campo di diretta applicazione di queste tecnologie. Diventa più problematico se lo poniamo in rapporto con il modo di rappresentarsi e di capire il mondo che ci

circonda da parte degli uomini: indubbiamente in parte questo è sensibilmente mutato, ma non possiamo ancora dire che esso sia non solo radicalmente diverso da quello che aveva dominato l’epoca precedente, ma tale da non consentire un adattamento di quanto preesisteva a ciò che mettono a disposizione le nuove stru­ mentazioni. E dunque prudente accontentarsi, per quanto riguarda la delimitazione dell’età contemporanea, a considerare che essa ha origine con il tramonto dell’indiscutibilità a livello sociale delle categorie del mondo moderno, sia sul piano politico che sociale e scientifico, così come si determinò nel tramonto del XVIII secolo. Eleggere emblematicamente a simbolo di questa rottura la Rivoluzione francese ha ancora un significato, ovviamente se ragioniamo nell’ottica della cultura occiden­ tale: ma su questo punto torneremo parlando del problema dello «spazio» della storia contemporanea. È invece impossibile, almeno per ora, stabilire una «fine» dell’età contem­ poranea. Ciò che risulta dallo studio dei due secoli con cui ci siamo misurati è che siamo in presenza di un’età di transizione storica (che è qualcosa di più e di diverso dal normale processo per cui si è in presenza di trasformazioni continue), una lunga e ampia ridefinizione delle coordinate con cui gli uomini si misurano nella loro attività di rapporto e comprensione col mondo in cui vivono. Come in tutte le grandi transizioni siamo in presenza di un susseguirsi di cambiamenti e di ridefinizioni che coinvolgono vari aspetti: non solo l’organizzazione dei sistemi di convivenza politica e sociale, ma anche le modalità di esprimersi e comunicare, le espressioni delle arti, la cultura con cui si interpretano gli avvenimenti passati e presenti, nonché le aspettative di futuro che abbiamo davanti. Questo divenire, che avviene con modalità accentuate e talora tumultuose, ha caratteristiche diverse nelle diverse fasi di questo lungo periodo, sicché possiamo poi suddividerlo con ulteriori periodizzazioni, che peraltro possono essere anche specifiche a seconda dell’oggetto della nostra indagine (i «tempi» della politica non necessariamente coincidono con quelli della letteratura, della musica, dell’economia, della scienza e via elencando). 3.

Lo spazio

Indubbiamente però una caratteristica dell’età contemporanea è data da una diversa considerazione dello spazio. Il nostro pianeta non è ovviamente cambia­ to, ma quello che assume rilievo per la storia (che è una costruzione della mente umana, non qualcosa che si trova in natura) è stato diverso nelle differenti epoche: la Cina esisteva anche nell’età antica, ma era un universo quasi mitico con cui mancavano contatti, l’America non si sapeva neppure che esistesse; nel Medioevo l’Africa non aveva rilevanza oltre le coste raggiungibili attraverso il Mediterraneo; nell’età moderna l’esplorazione sistematica del mondo divenne un dovere, ma le terre che venivano ad essere inglobate nella sfera di conoscenza dell’Occidente avevano significato quasi solo come spazi di «conquista» che si aprivano per esso. Nell’età contemporanea il mondo inizia ad essere uno scenario complesso, oggi si direbbe globale. Già la Rivoluzione francese ebbe eco e conseguenze in alcune colonie, ma soprattutto giunse dopo la Rivoluzione americana che aveva portato alla fonda­

zione di un sistema politico di tipo «europeo» (nel caso specifico anglosassone) in un altro continente. Del resto le rivoluzioni liberali del primo Ottocento ebbero profonde ripercussioni in America Latina, con un significativo ridisegno della sua carta geopolitica. Progressivamente il tema della diffusione del modello politico europeo allargò la sua sfera di influenza: nel 1854 uno squadrone navale statunitense forzò l’isolamento giapponese e da allora in quel paese iniziò una trasformazione che l’avrebbe portato ad un’occidentalizzazione, per quanto limitata e sui generis. Dal 1839 al 1842 e dal 1856 al 1860 si verificarono due guerre in Cina che la con­ trapposero ai britannici, che riuscirono a piegarla (guerre dell’oppio). Nel 1857 scoppiò nel Bengala la rivolta dei Sepoy, truppe locali al servizio della britannica Compagnia delle Indie, un episodio che assumerà poi il significato della prima rivolta indiana per l’indipendenza del subcontinente. Sebbene sia giusto prendere in considerazione il fatto che le storie dei paesi «non occidentali» hanno proprie specificità e tradizioni e che siamo lontanissimi dall’idea che si trattasse di paesi «arretrati», va considerato che anch’essi vennero inseriti, pur in diversa misura, nelle dinamiche che si erano instaurate e si stavano sviluppando in Europa e in Nord America. Uno dei dati che spiega questo fatto è l’educazione di una quota non piccola delle loro élite da parte della cultura euro­ americana: in non pochi casi perché dei loro membri avevano studiato in università europee, spesso più semplicemente per l’opera di missionari europei e americani che aprivano scuole in quelle nazioni. Ciò non avvenne senza tensioni. Sia le élite occidentalizzate contribuirono a riscoprire le radici endogene delle loro culture, sia le élite tradizionali fecero leva sulle popolazioni perché si ribellassero alla perdita delle loro radici culturali. Si tenga anche conto che in vari casi si trattava di culture che avevano un’antica e fiorente tradizione alle spalle: la cultura indiana, quella cinese, quella giapponese vantavano storie più che gloriose. Gli europei per spiegare il fenomeno di paesi di così antica civiltà in decadenza sul piano politico e incapaci di adeguarsi al pro­ gresso tecnologico, elaborarono la tesi defl’«immobilismo cinese» contrapposto alle «civiltà progressiste» dell’Occidente, ma si trattava di una spiegazione in gran parte di comodo. Resta il fatto che durante l’Ottocento si giunse abbastanza rapidamente all’in­ serzione, diretta o indiretta, praticamente di tutte le regioni del mondo in una dinamica che le interconnetteva passo dopo passo non solo in un sistema generaliz­ zato di scambi commerciali (quello era esistito, sia pure su diversa scala, anche nei secoli precedenti), ma nella condivisione, più o meno profonda, dell’ideologia di progresso e di conseguenza di indipendenza nazionale e organizzazione di questa entro schemi che risentivano in diversa misura del modello del costituzionalismo rappresentativo. Ciò si verificò, come è facile immaginare, in maniera conflittuale, con vittorie e sconfitte delle varie componenti. Già alla fine dell’Ottocento il leader cinese Sun Yat-sen iniziò la sua lotta per l’abbattimento del potere imperiale e nel 1911 riuscì a varare una prima repubblica cinese che non ebbe lunga vita, ma che segnò una svolta (e per di più essa si fonda­ va su un «partito politico», un’altra istituzione occidentale che veniva importata). Nella guerra russo-giapponese del 1904-05 si vide una potenza «gialla» che sconfisse pesantemente quello che ancora passava come il potente Impero zarista proprio grazie all’adozione delle tecnologie e delle tecniche militari occidentali. Nel 1908 nell’Impero ottomano, quello che veniva considerato «il malato d’Europa», si

ebbe la rivolta di un movimento prevalentemente animato da giovani ufficiali e che divennero noti come «Giovani turchi»: essi riuscirono ad imporre al sultano delle modifiche costituzionali (peraltro l’Impero aveva formalmente una costituzione dal 1876) e una modernizzazione in stile europeo del paese. Questo coinvolgimento globale delle varie componenti del mondo in una stessa dinamica divenne palese con la vicenda della guerra del 1914-18. Quella che all’ini­ zio pareva fosse principalmente una «grande guerra europea» divenne abbastanza rapidamente la Prima guerra mondiale perché attirò nel suo gorgo, direttamente o indirettamente, la maggior parte dei paesi del mondo. Lo si sarebbe visto quasi emblematicamente nei negoziati di pace a Parigi (Versailles) nel 1919 quando i principali vincitori - Gran Bretagna, Francia, Usa con l’appendice dell’Italia misero mano ad un ridisegno globale della carta del mondo che toccò in qualche modo tutti i continenti, tranne il Sud America e l’Australia (sebbene quest’ultima fosse stata tra i belligeranti in quanto parte del sistema britannico). Da quel momento in poi la storia divenne a tutti gli effetti una storia mondiale, perché si andò oltre il semplice problema dell’espansione completa della rete dei commerci e degli scambi economici: per esempio le ideologie elaborate in Europa penetrarono nei nuovi paesi, talora per effetto della «contaminazione» delle truppe coloniali coinvolte nelle dinamiche belliche, talaltra in conseguenza degli studi delle diverse élite politiche. Non fu più soltanto il caso del modello costituzionale-rappresentativo, che, almeno a parole, era quanto i vincitori avevano presentato come caratteristica della loro civiltà politico-giuridica: accanto ad esso giocò un ruolo sempre più determinante il marxismo (che la nascita dell’Urss aveva dimostrato applicabile), che divenne un’ideologia rivoluzionaria in teoria internazionalista, ma invece profondamente legata ai progetti di emancipazione nazionale di molti paesi di quello che, più tardi, sarebbe stato definito come «Terzo mondo». Un impatto molto minore ebbero i fascismi, che trovarono qualche penetrazione in alcuni contesti oltre i paesi di origine, ma in nessun caso paragonabili alla diffusione che ebbe il marxismo, soprattutto perché l’influenza di quest’ultimo non fu come nel caso dei fascismi circoscritta al periodo fra le due guerre. In ogni caso con la Seconda guerra mondiale il coinvolgimento di tutto il mondo nella medesima vicenda divenne palese: si può ragionevolmente dire che la globalizzazione politica iniziò allora. Non si trattò semplicemente, come nel caso della Prima guerra mondiale, della presenza sulla scena di una pluralità di paesi, ma del fatto che quella guerra ebbe chiaramente due «fuochi»: uno «atlantico» e uno «pacifico». Infatti la guerra in Estremo Oriente non fu affatto un’appendice minore, ma un momento centrale della dinamica complessiva e lo slogan de «l’Asia agli asiatici» avrebbe lasciato una scia di evoluzioni destinate a grandi sviluppi. Dopo il 1945 lo spazio della storia contemporanea divenne mondiale in un senso che non si era ancora visto. Si trattò della pretesa in un primo tempo di riorganizzare gli spazi attorno a due grandi superpotenze, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che non si presentavano semplicemente come sistemi di egemonia politico-militare, ma come serbatoi di contrapposti sistemi socioculturali, ciascuno dei quali ambiva a forgiare di sé la più vasta area possibile del mondo. In questo processo peraltro si inserì il risorgere delle dinamiche nazionali, che portavano sulla scena nuovi stati o la ridefinizione degli stati esistenti. Il fenomeno più macroscopico fu da questo punto di vista la riorganizzazione della carta poli­ tica dell’Africa, dove crollarono le dominazioni coloniali europee facendo sorgere

nuovi stati. Erano spesso trasformazioni delle vecchie entità, che però contenevano diversità sia di componenti etniche che di realtà con differente grado di sviluppo sociale ed economico: di qui tensioni e problematiche che dureranno fino ad oggi. In complesso però si registrò col tempo una ridefinizione delle polarizzazioni: al dominio bipolare dei due sistemi americano e sovietico si affiancò il sorgere della Cina, dal 1949 divenuta una repubblica comunista, dapprima come polo di attrazione alternativo delle élite dei paesi che volevano ispirarsi ad un’ideologia sganciata dalle due sfere dominanti, poi come grande potenza economica che re­ gistrava uno sviluppo impressionante della ricchezza. Sul finire del XX secolo lo «spazio» conobbe una ulteriore ridefinizione, mentre lo sviluppo dei mezzi di comunicazione a basso costo e soprattutto le tecnologie di comunicazione immediata lo unificava con modalità del tutto nuove. Tornarono in scena non solo le dissoluzioni delle stabilizzazioni seguite a quanto deciso dopo le due guerre mondiali (emblematico il caso delle vicende che interessarono il Medio Oriente), ma il sorgere di una messa in discussione del valore dominante del modello occidentale di cui in definitiva il sistema sovietico era una variante, per quanto sviluppatasi in modo radicale. La riscoperta delle radici autoctone di molte culture dei paesi non occidentali creava una contestazione dei parametri socioculturali che si erano imposti con la diffusione dei modelli della civiltà occi­ dentale. Il fenomeno più eclatante a partire dagli ultimi decenni del Novecento fu l’imporsi di un’alternativa nata all’interno del mondo islamico. Se già nel 1978-79 con la rivolta khomeinista in Iran questi eventi cominciarono ad attirare l’atten­ zione dell’opinione pubblica, il fenomeno andò crescendo nei decenni seguenti coinvolgendo entrambe le componenti dell’islamismo, quella sciita (come in Iran) e quella sunnita, prendendo sia la via della ricerca di nuove egemonie regionali da parte di stati per così dire tradizionali, sia la via del sorgere di movimenti terroristici che agirono con varie modalità in molti e diversi contesti geografici, giungendo ad interessare la stessa sfera europea e nordamericana. Anche questo era un fenomeno legato all’interconnessione sempre più forte che si affermava fra le varie parti del mondo. Ad esso fu dato il nome di «globalizzazio­ ne» e viene presentato come una novità assoluta: tale è, se si ha riguardo alle dimen­ sioni planetarie di queste interconnessioni e interdipendenze, mentre l’esistenza di qualcosa di simile in bacini geografici più circoscritti (peraltro relativamente) era presente anche nella tarda antichità classica e nei secoli d’oro dell’età moderna. 4.

Il carattere

Se è stato possibile in qualche modo definire il tempo e lo spazio in cui collocare la storia contemporanea meno agevole è determinare i «caratteri» che contraddi­ stinguono quest’epoca. L’impresa è ardua perché se si volesse essere analitici ci si perderebbe in un elenco assai lungo, mentre a sintetizzare tutto attorno ad alcuni concetti chiave non si può evitare il rischio della parzialità. Scegliamo dunque di indicare alcune caratteristiche che, pur con molte varianti sia sul piano geografico che su quello temporale, possono connotare quella che, per cavarcela con un’im­ magine evocativa, chiameremo l’«atmosfera» della contemporaneità. Il primo dato da sottolineare è che si portò a termine quell’evoluzione che ridefiniva i soggetti della vita sociale e politica come «individui» e non come ap-

partorenti a un sottosistema sociale specifico. Per dirla in termini banali, ciascuno doveva essere considerato arbitro della costruzione del proprio destino e della propria collocazione, indipendentemente dal suo punto di origine. Naturalmente nella realtà non era esattamente così, perché la «storia» che pesava sulle spalle di ogni individuo contava e ne poteva determinare il destino, ma la novità era che questo poteva valere come un dato di fatto, non come un presupposto giuridico che lo inchiodava ad un certo ruolo. Di qui discesero molti cambiamenti, come per esempio l’instaurazione, progressiva e niente affatto scontata, del diritto rico­ nosciuto a ogni individuo di contare nella determinazione delle scelte politiche attraverso la sua partecipazione, tramite il voto, al sistema di selezione di chi do­ veva sedere negli organismi di governo. Ne venne però anche un’implementazione decisa della mobilità sociale, favorita dal riconoscimento del diritto all’istruzione su base generale e paritaria. Anche qui con un lungo percorso, perché dal diritto a un’istruzione generalizzata a livello «elementare» si passò via via a garantire la possibilità di accesso, senza oneri, sino ai livelli più alti del sistema di istruzione. E emblematica da questo punto di vista la vicenda del riconoscimento della parità di posizioni e diritti fra uomo e donna. A lungo la donna era stata contrad­ distinta da un ruolo ancillare nella distribuzione dei ruoli sociali (gestione della famiglia, procreazione e prima educazione dei figli), ma progressivamente ad essa venne riconosciuto sia il diritto alla parità di accesso nel sistema dell’istruzione (che si portava dietro il pieno accesso al mondo delle professioni), sia il diritto al voto attivo e passivo. Né l’evoluzione si fermò a questi stadi, perché le donne stesse elaborarono un nuovo modo di intendere il proprio ruolo e soprattutto la propria soggettività, con la conseguente ridefinizione della distribuzione delle posizioni e delle presenze sociali. Accanto a queste trasformazioni della sfera sociopolitica si collocano quelle della sfera economica. Se oggi appare riduttivo considerare, come si fece tra Otto e Novecento, il modello della produzione industriale come tratto dominante della nuova razionalità contemporanea, non c’è dubbio che una caratteristica della nostra età sia costituita dall’esigenza, e talora quasi da un’ansia angosciosa, di organizzare lo svolgersi dell’economia. Sebbene in origine - ma anche oggi - ci siano correnti che insistono sulle capacità di auto-organizzazione da parte del sistema degli scambi (il mercato con la sua «mano invisibile»), in realtà tutti nella pratica vogliono poi introdurre elementi di regolamentazione: possono essere generali fino al generico (i sistemi di formalizzazione giuridica alla base dei rapporti economici) o più co­ genti, capaci di utilizzare i poteri di intervento della sfera pubblica per disciplinare l’attività economica e la produzione della ricchezza. Ciò è dipeso, nella storia della nostra età, da due fattori, solo in parte sovrappo­ nibili. Da un lato la convinzione che la ricchezza di una nazione è la base della sua «potenza», che si interpreti questo in senso «imperialistico» (dominio rispetto ai concorrenti) o in termini di sviluppo e tutela delle proprie opportunità di crescita. In questo secondo risvolto troviamo un’importante caratteristica dell’età contem­ poranea: la convinzione che sia compito della sfera pubblica (lo stato o chi per lui) non solo garantire le migliori condizioni di vita possibili per i propri membri, ma certi standard di vita sotto i quali non è possibile considerare una comunità come una comunità «civile». Si è così passati dalla lotta alla povertà della prima fase, alla promozione di una fruizione prima assistita e poi generalizzata dei servizi essenziali per un buon livello di vita (scuola, assistenza sanitaria, copertura degli

infortuni e malattia, pensione di vecchiaia), e infine a una tutela dei «consumi», cioè dell’accesso a quelle opportunità di buon vivere che dovevano, almeno entro certi limiti, superare le barriere delle differenze di posizione sociale e di reddito. Questa dinamica - che secondo alcuni ha per esempio portato al collasso del sistema sovietico, incapace di garantire ai suoi cittadini condizioni di vita paragonabili a quelle che si potevano trovare nei paesi rivali «capitalistici» - ha prodotto molte conseguenze, come la diffusione di ribellioni e ribellismi da parte di chi si sentiva, spesso non a ragione, vittima di discriminazione rispetto a queste aspettative di fruizione del «benessere». Un altro aspetto rilevante dell’età contemporanea è stato il suo complesso rapporto con la produzione di una «cultura» capace di creare nelle varie sfere di fruizione quella «comunità di destini» che genera la solidarietà sociale e la tenuta dei sistemi di convivenza. Durante il suo corso si è assistito ad un indebolimento progressivo dei canoni che nei vari contesti si erano ereditati dalle epoche prece­ denti, pur nelle forme riviste sotto l’impulso dei cambiamenti a cui abbiamo già accennato. Il modo di intendere i doveri sociali, il ruolo dell’uomo e della donna, le regole che governano i rapporti tra gli stati, le dinamiche che presiedono allo sviluppo o all’arretramento delle fortune economiche e sociali, non solo sono mu­ tati, ma non sono più riusciti a produrre almeno un canone dominante sugli altri. Progressivamente, concetti che pure sembrarono un tempo saldissimi (si pensi all’idea di «patria», al dovere del sacrificio oggi per un migliore futuro domani, all’uso socialmente utile dei talenti individuali, solo per fare qualche esempio) sono divenuti evanescenti, intesi nei modi più diversi. Di qui un emergere non solo della valorizzazione del «soggetto», cioè della posizione/capacità di ogni persona, che è un fatto molto positivo, ma della deviazione verso un «soggettivismo» che suppone che ogni singolo sia legge a sé stesso e al contesto in cui vive, senza alcun dovere di confronto con un sistema sociale che produce, o dovrebbe produrre capacità di interpretazione fondata e razionale del mondo: e questo non è certo positivo. 5.

Religione e politica

Un fenomeno che ha evidenziato queste dinamiche è stato quanto è accadu­ to alla religione, che è uno degli strumenti tipici di aiuto alla comprensione del rapporto dell’uomo con la complessità del mondo e del suo destino. Per un lungo tratto, la storia contemporanea ha conosciuto una crisi del sistema religioso che più di tutti aveva dominato culturalmente, cioè quello delle chiese cristiane nelle loro diverse confessioni. Sebbene esso avesse conosciuto nelle sue espressioni più alte una ridefinizione in senso razionalistico, nella pratica aveva indubbiamente avuto declinazioni in cui prevalevano devozionismo, utilizzo di riverniciature religiose per adeguarsi alla morale corrente, tradizionalismi e chiusure settarie. Tutto questo aveva indebolito la presenza e il significato delle comunità cristiane in Occidente, mentre delle altre religioni non si aveva che una conoscenza molto limitata: in ogni caso non le si considerava all’altezza di competere con il ruolo storico che il cristianesimo aveva avuto nella costruzione della civiltà occidentale. Questa convinzione era condivisa anche da tutta quell’intellettualità che si era distaccata, più o meno radicalmente, dalle pratiche religiose. La presenza di religioni diverse dal cristianesimo nel mondo occidentale era estremamente limitata e circoscritta

a piccole comunità. L’eccezione era ovviamente data dall’ebraismo che aveva una radicata presenza storica nell’Occidente e le cui comunità avevano intessuto re­ lazioni culturali complesse e spesso molto proficue sia in Europa che in America. Questa comunità avrebbe conosciuto il dramma storico della persecuzione nazista e dello sterminio nei campi di concentramento, ma superato questo sconvolgimento, l’ebraismo aveva mantenuto i suoi insediamenti storici e la sua forza di presenza culturale, che semmai andava accrescendosi con l’avventura della fondazione di uno stato ebraico in Palestina. Tuttavia, al di là del problema storico dell’antisemitismo - che non è una caratteristica esclusiva dell’età contemporanea poiché è stato presente sia in ambito medievale che moderno - la mancanza nell’ebraismo di una volontà di estendersi oltre i confini delle proprie comunità, convertendo altre persone, aveva limitato fortemente il problema di un conflitto religioso vero e proprio con le altre confessioni religiose. Il panorama è cambiato a partire dalla seconda metà del XX secolo, anche se in maniera graduale. Il conflitto mediorientale fra Israele e gli stati arabi confinanti, che in una prima fase ebbe carattere più politico che religioso, venne sviluppando una dimensione di scontro con l’islamismo, coinvolgendo anche il cristianesimo per il sostegno che l’Occidente prestava allo stato israeliano. Tuttavia il vero ritorno del piano religioso (o meglio sarebbe dire di un uso strumentale del richiamo alle identità religiose tradizionali) come terreno di tensione, e talora di vero e proprio scontro a livello diffuso, si è registrato fra la fine del XX e i primi decenni del XXI secolo per l’allargarsi di un’ideologia fondamentalista nei territori di tradizione islamica e per la sua crescente presenza in Occidente nelle comunità di immigrati provenienti da quelle aree. L’islamismo radicale fornisce uno strumento di difesa identitaria per comunità che vengono a vivere in contesti in cui si trovavano in senso letterale «spaesate», mentre nei loro territori storici può essere vissuto sia come mezzo per consolidare il potere di élite governanti sia come via per metterle in crisi e sostituirle con nuove forze. In seguito a queste trasformazioni la questione religiosa è tornata ad avere un peso non indifferente nel mondo contemporaneo, non certo in tutti i contesti, ma indubbiamente in modo non del tutto circoscritto. Del resto a fronte delle crisi che varie società attraversano nei primi decenni del XXI secolo si registra un certo ritorno di attenzione ai problemi religiosi, a volte con ripresa di vitalità nelle loro istituzioni tradizionali, a volte con l’affermarsi di approcci «fai da te» a quelle tematiche. Come si è detto, si potrebbe continuare a lungo nell’esporre caratteristiche di ciò che abbiamo chiamato l’«atmosfera» della contemporaneità. Per esempio si potrebbe ragionare del dominio, poi della crisi e infine di una certa rinascita delle ideologie politiche come caratterizzanti le dinamiche dalla fine del XVIII secolo ad oggi. Si potrebbe considerare il ruolo della dinamica fra individuo e «masse» sia in assoluto che in relazione al rilievo che questo assume in diversi contesti, considerati con riguardo sia alle fasi della storia contemporanea sia ai differenti ambienti geografici. Sono solo due esempi, ma delle molte problematiche che pone lo studio dell’età contemporanea si troverà ampia trattazione nelle pagine che seguono. Queste non volevano essere che un invito ad inquadrare qualche aspetto preliminare di questo studio.

Percorso di autoverifica

1. 2. 3. 4. 5.

Quali problemi pone la definizione di «storia contemporanea»? Quali eventi si possono considerare periodizzanti per quest’epoca? Come si è ridefinita la geografia storica dell’età contemporanea? Quali caratteristiche assume il cambiamento nell’età contemporanea? Quali fenomeni hanno maggiormente caratterizzato quest’epoca?

Per saperne di più

A.M. Banti, Le questioni dell’età contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2017. F. Cammarano, M.S. Piretti e G. Guazzaloca, Storia contemporanea, Firenze, Le Monnier, 2009. C. Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2017. R. Romanelli, Ottocento. Lezioni di storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2011. R. Romanelli, Novecento. Lezioni di storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2014.

La società di massa di Stefano Cavazza

La Rivoluzione francese, sancendo i diritti fondamentali degli individui e il principio dell’uguaglianza e aprendo la strada al suffragio universale, contribuì al processo storico che portò alla moderna società di massa. La Rivoluzione industriale, se da una parte mise in moto un incremento costante della ricchez­ za, offrendo così le basi materiali per una diffusione generalizzata dei consumi, fu anche all’origine della formazione del proletariato urbano e in seguito di un nuovo ceto medio, parti di un’unica struttura sociale. La dimensione di massa assunta dalla politica, da un lato, portò alla nascita di organizzazioni permanenti come i partiti; dall’altro favorì nuove forme di comunicazione e nuovi media.

1.

Dall’Antico regime alla società di massa

Nel film M il mostro di Dusseldorf, girato nel 1931 dal regista tedesco Fritz Lang, una folla proveniente dai bassifondi della città insegue un assassino di bambine, lo cattura e lo sottopone a un processo per condannarlo a morte. La trama del film fa leva su alcuni temi ricorrenti neH’immaginario legato al concetto di massa. Da un lato l’idea del bassofondo, manifestazione delle viscere della società urbana e ricettacolo del crimine, ma anche espressione di un proprio codice di condotta; dall’altro l’immagine della folla che cerca di farsi giustizia da sola mossa da un istinto primordiale. L’immagine della folla inferocita fu al centro delle analisi sui comportamenti collettivi a fine Ottocento ed è, anche grazie alla letteratura, una delle fonti principali che ha dato corpo al concetto a noi familiare dell’irrazionalità delle masse contrapposta al comportamento razionale dell’individuo. Eppure noi viviamo quotidianamente in una società di massa nella quale il nostro agire come liberi individui è garantito anche dall’esistenza stessa delle masse di cui noi, volenti o nolenti, facciamo parte. Non solo: la società attuale è una configurazione sociale in cui ogni aspetto ha una potenziale dimensione di massa. Per esempio, la stessa fruizione individuale di un determinato bene sotto forma di consumo presuppone che quell’oggetto sia stato prodotto in serie per essere acquistato da un certo numero di persone. La dimensione di massa assunta dalla nostra quotidianità è il punto di arrivo di un lungo cammino, in cui la liberazione dell’individuo dai suoi vincoli

corporativi d’Ancien Regime ha prodotto le masse come soggetti sociali e politici in grado di riempire piazze, stadi, grandi magazzini, teatri, facendo di questi aggregati di volta in volta cortei di protesta, curve di tifosi osannanti, schiere di consumatori in cerca dei regali di Natale, ascoltatori entusiasti di concerti. Se la massa può essere considerata la cifra politico-sociale dell’età contemporanea, la sua comparsa come soggetto sociale e politico ha generato fin dall’inizio timori nelle classi dirigenti. Del resto se guardiamo all’etimologia della parola «massa» la faremo risalire al greco pà^a, termine che definiva l’impasto necessario per fare il pane. Il lemma «massa» fu dunque usato principalmente per indicare un ammasso indistinto i cui elementi costitutivi scomparivano nell’insieme. Trasferito alla realtà politico-sociale, il con­ cetto poteva facilmente assumere connotazioni negative per designare uno stato sociale nel quale il singolo perdeva la sua individualità confondendosi nell’indistinto aggregato della massa. Questa iniziale connotazione negativa si ritrova spesso nei termini derivati, come «massificazione» o «massificato». Sentirsi attribuire l’etichetta di «massificato» non equivale certo a ricevere un complimento. 2.

Masse pericolose: la paura del numero

La paura della massa affonda le sue radici nelle folle rivoluzionarie che assalta­ rono la Bastiglia, di cui l’immagine del sanculotto «bevitore di sangue» costituiva l’emblema. Non fu certo un caso che lo studio sulla Rivoluzione francese di Hippolyte Taine, scritto dopo l’insurrezione della Comune di Parigi, fosse una delle fonti degli psicologi sociali di fine Ottocento come Gustave Le Bon. Tuttavia la paura delle masse non era solo terrore del sangue, ma anche e soprattutto timore e rimpianto per la distruzione dei legami sociali di Antico regime che l’emergere delle masse aveva prodotto. Il principio di uguaglianza degli uomini introdotto dall’Illu­ minismo e incorporato nel pensiero rivoluzionario aveva minato alla base VAncien Régime fondato sull’idea della disuguaglianza. In base a questa concezione, la società non era costituita da individui ma da corpi sociali e la sua struttura gerarchica era considerata un prodotto della natura, in quanto tale immodificabile. Quest’ultimo aspetto aveva delle immediate conseguenze nella sfera della politica nella quale il diritto di partecipare alla decisione politica risultava limitato ad alcuni strati so­ ciali. La società di «Antico regime» - termine in origine dispregiativo coniato dai rivoluzionari dell’89 - era dunque caratterizzata da vincoli e barriere giuridiche che impedivano la mobilità sociale e territoriale e miravano, in campo economico, a proteggere i mercati locali dalle ingerenze esterne. La divisione in ordini cetuali della società significava che ogni ordine aveva propri sistemi di rappresentanza, poteva godere di privilegi concessi dal monarca, era giudicato da corti speciali (l’an­ tico foro privilegiato). La propria posizione nella società era confermata sul piano simbolico anche da regolamenti coercitivi come quelli relativi all’abbigliamento. Che si potesse punire chi indossava abiti di altre classi, o che un bottaio tedesco a Laichingen, come ricorda lo storico tedesco Hans Medick, ancora all’inizio dell’Ot­ tocento potesse finire in carcere perché non aveva indossato l’abito della festa per recarsi in un ufficio pubblico, sono usanze che ai nostri occhi appaiono come vincoli alla libertà dell’individuo. Non meno rigide erano le norme non scritte. Ancora nel Settecento il matrimonio tra persone di ceto diverso era criticato e visto come un attentato all’ordine naturale delle cose. Quando oggi noi parliamo di classe o ceto

ci riferiamo a individui che vengono raggruppati in classi per finalità statistiche e scientifiche, senza che ciò ne limiti giuridicamente la libertà di azione. Senza più essere appannaggio di nobili e colti, la politica, durante la Rivolu­ zione francese, assunse un carattere di massa, grazie alla nascita dei «club», asso­ ciazioni finalizzate all’azione politica, come il famoso club dei giacobini dominato dalla figura di Robespierre. Si trattava - è bene ricordarlo - ancora di associazioni temporanee finalizzate al raggiungimento degli obiettivi rivoluzionari, e non di organizzazioni permanenti come sarebbero stati i partiti di fine Ottocento. La volontà generale della nazione non poteva infatti conoscere divisioni permanenti una volta che la rivoluzione si fosse imposta. L’azione dei club sarebbe stata, però, vana se non avesse potuto contare sui sanculotti, che agivano come esercito dell’élite giacobina. La rivoluzione prese forma via via che gli eventi precipitavano senza un piano preordinato o un complotto, come i critici della rivoluzione immaginarono all’indomani dell’89 per mettere rilluminismo sul banco degli imputati. Senza voler approfondire i complessi rapporti tra rivoluzione e Illuminismo, quest’ultimo preparò il terreno agli eventi dell’89 nella misura in cui diffuse l’idea della libertà di critica senza pregiudizio e sostenne il libero esame dei fatti applicato alle vicen­ de umane. Sul piano politico esso contribuì a minare le basi teoriche del potere assoluto del sovrano ribadendo la natura contrattualistica del potere. Su questa strada si erano già avviati Locke e Hobbes, quando avevano messo in discussione il fondamento teocratico della società moderna in cui Dio e la tradizione diventavano gli elementi che rendevano giusta l’obbedienza a un potere e avevano avanzato l’idea del contratto, cioè della cessione da parte dei membri di una comunità del proprio potere individuale a un terzo soggetto - chiamatelo Leviatano o stato, poco importa - per rendere possibile l’amministrazione della comunità. Se le teorie di Hobbes erano la base per legittimare lo stato assoluto, il richiamo a un contratto come base del potere politico apriva la strada alla laicizzazione della politica, cioè al suo liberarsi dai vincoli della religione, e introduceva uno strumento potente di legittimazione del potere politico. Trasferito in Rousseau questo strumento diventa­ va la base per sostenere che la decisione politica era il frutto della volontà generale dei membri di una comunità. In tal modo veniva non solo demolita l’idea di un potere assoluto, cioè sciolto dai vincoli della tradizione e/o di una legge divina, ma si poneva la base per l’affermazione della completa uguaglianza politica. Infatti, se è vero che il problema si spostava ora alla definizione dei criteri di appartenenza a una comunità o cittadinanza, è altrettanto vero che il postulato dell’uguaglianza dei diritti degli uomini diventava facilmente uguaglianza politica degli uomini e quindi apriva la strada a una rivoluzione di enorme portata, come ha notato lo storico francese Pierre Rosanvallon, all’interno della quale il potere di decidere non poteva alla lunga venire circoscritto solo ad alcuni membri di una comunità. Il «Terzo stato», in verità, non intendeva sostenere inizialmente l’uguaglianza politica come principio, perché convinto che alla rivendicazione di uguaglianza degli individui non dovesse corrispondere una universale concessione dei diritti politici. Tuttavia la polemica antiaristocratica, utilizzando come criterio distintivo e nobilitante il lavoro contro i nobili che non lavoravano, contribuì a rafforzare il principio dell’uguaglianza di tutti i membri della nazione. Se tutti erano uguali, come si poteva allora giustificare la concessione dell’elettorato attivo (il diritto di voto) e di quello passivo (l’eleggibilità alle cariche pubbliche) solo a una parte della popolazione? La base su cui poggiava il suffragio ristretto era la maggiore

capacità dell’élite di fare gli interessi generali, ma se si riconosceva che tutti gli uomini erano dotati di ragione, sarebbe diventato difficile resistere alla pressione per l’allargamento del diritto di voto. Per partecipare alla vita politica occorreva, prima di tutto, poter esercitare libe­ ramente il diritto di critica, in secondo luogo potersi associare e infine poter parteci­ pare agli organi di rappresentanza. Se si ritiene infatti che i membri di una comunità politica debbano concorrere alla formazione delle decisioni politiche, essi avranno bisogno di un organo di rappresentanza e i criteri di scelta di tale rappresentanza dovranno essere attribuiti a chi ha la pienezza del diritto di cittadinanza, cioè a chi è membro a pieno titolo di una comunità. Nel periodo successivo al Congresso di Vienna prevalse il mantenimento di una forma di rappresentanza basata sul suffragio ristretto per censo che, nonostante le intenzioni restauratrici, si discostava dalle for­ me tradizionali di rappresentanza cetuale perché, pur con le limitazioni imposte alle assemblee così formate, veniva attribuita a tali organi una partecipazione al processo legislativo, come già prevedeva, in certa misura, la stessa costituzione francese con­ cessa dal sovrano nel 1814. Le rivoluzioni del 1830 portarono al varo di costituzioni liberali in Francia e Belgio in cui però il criterio censitario restava il perno dell’accesso al diritto di voto, escludendo larga parte della popolazione. Si dovette attendere il 1848 per vedere realizzato il principio dell’universalità del suffragio sia pure solo maschile nella Francia della Seconda repubblica. In altri paesi il superamento dei limiti basati sul censo richiese tempo. In Gran Bretagna l’allargamento del suffragio fu realizzato gradualmente attraverso le riforme del 1832, del 1867 e del 1884-85, secondo lo schema tipicamente inglese di prudente evoluzione costituzionale. Oltre Manica si dovette attendere il nuovo secolo per vedere introdotto il suffragio uni­ versale. Sul continente, al criterio censitario si stava però sostituendo quello basato sull’istruzione, che prefigurava un continuo progressivo allargamento, dato che in parallelo veniva introdotto l’obbligo scolastico. Non fu un caso se la legge Coppino sull’istruzione (1877) fu varata prima della riforma elettorale italiana del 1882, che rendeva l’istruzione elementare criterio sufficiente per avere diritto al voto. Ciò nonostante gran parte della popolazione continuava a essere esclusa dal suffragio. In Gran Bretagna ancora nel 1867 poteva votare il 5% della popolazione; in Italia la riforma del 1882 fece salire il numero degli elettori dall’1,9% a circa il 6,9%. Tuttavia la tendenza prevalente era quella di allargare progressivamente il suffragio, segno del riconoscimento inevitabile del ruolo delle masse nella vita politica. In alcuni casi si cercò di limitare tale ruolo intervenendo sulle modalità di elezione. In Prussia, dove nel dicembre 1848 era stato istituito il diritto di voto generale (segreto, ma indiret­ to) per eleggere l’Assemblea costituente, terminate le agitazioni politiche, la legge del 30 maggio 1849 mantenne il principio del voto per tutti, ma ne limitò gli effetti mediante l’introduzione del «sistema delle tre classi», che assegnava un peso diverso al voto (non segreto e indiretto) dei membri di ciascuna classe di elettori (tali classi si costruivano in base al gettito d’imposta). A causa del meccanismo di costruzione delle classi il voto dei membri dei ceti inferiori finiva per contare meno di quello dei ceti superiori. Nel corso del tempo il postulato dell’uguaglianza politica finì per aprire le porte al suffragio universale. Nel 1870 la Terza repubblica francese mantenne il suffragio universale e l’anno seguente la Germania unita concesse il diritto di voto a tutti i maschi adulti per la camera elettiva (Reichstag). Nel 1912 fu sostanzialmente introdotto il suffragio universale maschile in Italia (fino al 1919 gli analfabeti poterono votare compiuti i trent’anni, in seguito alla maggiore età), nel 1918 in Inghilterra.

La conseguenza sul piano politico delle trasformazioni che abbiamo descritto ri­ siedeva nella funzione legittimante assunta dal voto delle masse per i sistemi politici. La stessa Germania di Otto von Bismarck, che certo non voleva collocarsi nel solco tracciato dalla Rivoluzione francese, utilizzò il suffragio universale maschile per legittimare all’interno e all’esterno il nuovo stato, nella convinzione che il suffragio potesse essere utile anche alle monarchie. Sia la legge elettorale della Confederazio­ ne tedesca del Nord del 1867, sia quella del Reich unificatosi con l’inclusione degli stati meridionali nel 1871 prevedevano, infatti, il voto segreto per tutti i maschi che avessero compiuto venticinque anni. In Francia, con i colpi di stato del 1851 e del 1852, Luigi Napoleone Bonaparte trasformò la Seconda repubblica nel Secondo impero e da presidente divenne imperatore come Napoleone III, legittimando i suoi atti con il consenso popolare attraverso dei plebisciti. Era il segno che la politica richiedeva ormai l’avallo della massa per la sua legittimazione. Ne è una prova ulteriore il fatto che le dittature del XX secolo ricorsero alla legittimazione derivante dal suffragio generale, per quanto manipolato e senza reale competizione. Le difficoltà incontrate dall’allargamento del suffragio vanno ricondotte al timore dei conservatori e anche di una parte dei liberali verso una presunta irra­ zionalità delle masse. Tra i fattori che avvaloravano questo pregiudizio vi era prima di tutto l’idea diffusa tra le classi alte che il voto di massa avrebbe distrutto quella comunanza di vedute che derivava dall’omogeneità sociale degli elettori. Anche se sarebbe sbagliato pensare che dall’appartenenza a una certa classe sociale discen­ dano in maniera deterministica le idee politiche degli individui, come testimonia il fatto che molti borghesi erano a capo di partiti operai, è indubbio che la comune appartenenza sociale favorisca una certa omogeneità di comportamenti e di lin­ guaggi e, quindi, renda probabile un certo grado di condivisione di scelte politiche. Era il caso dei sistemi politici di buona parte dell’Ottocento, in cui il suffragio era così ristretto ed elitario da favorire la convergenza delle opinioni in materia di decisione politica. Questa omogeneità sociale spiega in parte come mai i liberali avessero per lungo tempo concepito il partito come pura corrente d’opinione e non come forma organizzata di rappresentanza di interessi politici. L’allargamento del suffragio, inoltre, rischiava di mettere in secondo piano il ruolo di intellettuali e politici del ceto medio-alto, in difficoltà nella competizione con l’organizzazione del voto da parte dei nascenti partiti di massa cattolici e socialisti. Per questa ragione le critiche aU’allargamento del suffragio associavano spesso l’ingresso della massa in politica alla vittoria della demagogia, ponendo così l’enfasi sugli aspetti emotivi della propaganda politica rivolta alle masse e sul ruolo degli apparati di partito nella costruzione del consenso elettorale. In secondo luogo, con lo sviluppo dell’industrializzazione, la concentrazione di grandi masse operaie nelle città, che spesso vivevano in pessime condizioni igieniche e con bassi salari, finiva per alimentare il conflitto sociale. Nella prima metà del secolo lo sviluppo di alcune aree urbane alimentò il timore verso le «classi pericolose» e la criminalità, spesso rappresentate come terra di confine del com­ portamento criminale e della depravazione. Lo shock costituito dal 1848 in Europa si deve sia alla rivendicazione generalizzata del principio costituzionale, sia alla presenza visibile di operai sulle barricate a Parigi come a Berlino. L’intensificarsi delle agitazioni, l’emergere di una questione sociale e le radicalizzazioni politiche, anche cruente come l’insurrezione della Comune nel marzo 1871, non fecero che alimentare i timori dell’opinione pubblica moderata nei confronti del ceto operaio e

delle «piazze». Se si considera l’idea di società diffusa tra le classi medie nell’Otto­ cento, si comprendono quindi il timore di molti di fronte alle rivendicazioni sociali e la paura di veder degenerare la politica da campo in cui si formulava la «decisione migliore» per effetto della discussione di uomini assennati, a spazio preda della demagogia imposta dalle masse. 3.

Produzione di massa e classi pericolose

A partire dalla metà del Settecento si avviò in Inghilterra uno sviluppo econo­ mico con caratteristiche del tutto nuove e destinato ad aprire una nuova era. La disponibilità di materia prima proveniente dalle colonie, una robusta domanda interna, la creazione di prerequisiti allo sviluppo come il miglioramento delle vie di comunicazione, e alcuni progressi tecnici portarono al sorgere della cosiddetta «Ri­ voluzione industriale», un’espressione resa celebre dallo storico Arnold Toynbee nella seconda metà dell’Ottocento. Essa ebbe inizio nel settore della filatura con l’invenzione di alcune macchine che semplificavano il lavoro. Gli effetti di queste innovazioni, legati a una domanda stabile, influenzarono anche il settore siderurgico e portarono a un generale aumento del tasso della produzione industriale (180010: 22,9%; 1810-20: 38,6%; 1820-30: 47,2%). Lo sviluppo economico conobbe una seconda fase dominata dall’industria pesante e dalla chimica che registrò l’emergere di una nuova e flessibile forza motrice: l’energia elettrica. Più difficile appare periodizzare le fasi più recenti che sono peraltro segnate da due innova­ zioni significative: lo sfruttamento dell’energia atomica e lo sviluppo di sistemi di calcolo automatizzati. Le radici della rivoluzione informatica risalgono al secondo dopoguerra, ma il processo si è accelerato negli anni Settanta con l’invenzione del microchip di silicio che ha permesso di elevare le prestazioni dei calcolatori con­ ferendo a piccoli personal computer una grande potenza di calcolo. Per quanto riguarda gli effetti sociali di queste trasformazioni economiche, le innovazioni permisero prima di tutto l’ingresso nel ciclo produttivo di donne e bambini e, in genere, di lavoratori non qualificati. Fu inoltre possibile concentrare in locali di proprietà dell’imprenditore il lavoro consentendo di esercitare su di esso un maggior controllo. L’impiego di strumenti che non richiedevano grande esperienza, la tendenza a frazionare il processo lavorativo in tante piccole e semplici parti, portarono all’ampliamento del numero dei lavoratori e a un mutamento nei rapporti tra lavoratore e committente. In precedenza un tessitore esperto con anni di preparazione alle spalle era in grado di dettare le sue condizioni al commerciante che gli procurava il lavoro e poteva lavorare a casa propria organizzando il lavoro come voleva. Con il nuovo sistema di fabbrica e le nuove macchine, gli abili tessitori non riuscivano a reggere la concorrenza di lavoranti meno esperti, ma aiutati dai nuovi strumenti tecnici. Inoltre, come abbiamo detto, la concentrazione in locali de­ putati alla produzione accresceva le possibilità di controllo sui lavoratori e favoriva l’imposizione di una rigida disciplina. Se prima si lavorava quel tanto che bastava a garantirsi la sopravvivenza, ora era il proprietario a dettare i ritmi della produzione grazie alle macchine, alla sostituibilità della manodopera e alla concentrazione fisica in un unico luogo che, associata ai regolamenti orari, imponeva il ritmo di lavoro. Nell’Ottocento lo sviluppo dell’economia rendeva quindi necessario concentrare masse di lavoratori nei dintorni delle fabbriche e in aree vicine alla forza motrice,

fosse essa l’acqua o in seguito il carbone. Nascevano così le città industriali nelle quali la popolazione cresceva rapidamente. L’inurbamento di grandi quantità di persone nei centri sedi di fabbriche (ad esempio Manchester in Gran Bretagna) portò anche a utilizzare un nuovo concetto, il proletariato. Ripreso dalla parola latina che designava l’ultima delle classi romane, quella che non possedeva nulla se non i figli (la prole), il vocabolo era progressivamente servito per indicare i lavora­ tori manuali delle grandi fabbriche. Utilizzato dai teorici saintsimoniani francesi, il concetto migrò in Germania e fu rielaborato da Karl Marx che lo inserì in una teoria generale dello sviluppo economico-sociale; secondo Marx il proletariato nasceva dalla dinamica del sistema capitalistico che portava alla contrapposizione tra due classi sociali: i capitalisti e coloro che non possedevano altro che la propria forza lavoro. Per il proletariato la dimensione di massa era costitutiva della propria essenza. Erano infatti la concentrazione di tanti uomini in spazi ristretti, da un lato, e la perdita dei tradizionali legami rurali, dall’altro, a determinare la nascita di una coscienza collettiva dell’operaio definita da Marx come coscienza di classe. La classe è, sostanzialmente, una massa di persone circoscritta dall’elemento di omo­ geneità costituita dal fatto di essere un lavoratore manuale, di vivere di un salario e di lavorare in grandi fabbriche. Ma la concentrazione provocava anche effetti disastrosi per la qualità dell’ambiente di vita e di lavoro. Nel 1845 Friedrich Engels scrisse un saggio sulla condizione della classe operaia inglese in cui ne descriveva le condizioni di vita, come l’abitare nelle «case peggiori nella zona peggiore della città», disposte lungo strade «non lastricate, ma piene di buche, sporche, cosparse di rifiuti [...] ma provviste di fetide pozzanghere stagnanti». Ancora più pesanti erano le condizioni di lavoro. Secondo una testimonianza dell’epoca gli operai lavo­ ravano assai duramente: «dalle cinque del mattino fino al tramonto, quattordici ore cioè, con un’interruzione di mezz’ora per la colazione e di un’ora per il pranzo, le altre tredici ore sono di lavoro duro senza un soffio d’aria che ci rinfreschi mentre soffochiamo, senza mai vedere il sole da una finestra, in una atmosfera densa di polvere e di scorie di cotone» («Pennsylvanian», 28 agosto 1833). Per i vecchi lavoratori qualificati, il nuovo sistema industriale rappresentò una disgrazia e questo spiega la tendenza a battersi contro l’introduzione delle mac­ chine, arrivando talvolta a distruggerle. Questo fenomeno, chiamato luddismo, si manifestò all’inizio dell’Ottocento e non va considerato un segno del rifiuto del progresso. Solo in rari casi si arrivò infatti alla distruzione vera e propria delle macchine. Piuttosto questa forma di protesta mirava a rallentare l’introduzione dei macchinari e a mitigarne gli effetti sociali, utilizzando la minaccia della distruzione come forma di pressione (Hobsbawm). Accanto a queste prime forme radicali di protesta, si registrarono, inizialmente tra i lavoratori qualificati, anche agitazioni finalizzate al miglioramento delle proprie condizioni di lavoro e all’aumento della retribuzione. In seguito anche i nuovi lavo­ ratori meno qualificati chiesero migliori condizioni di lavoro, orari meno pesanti, aumenti salariali. Nella prima metà dell’Ottocento le rivendicazioni operaie furono sostenute dallo spirito filantropico di benestanti come Robert Owen, che diede vita nella prima metà dell’Ottocento a una città ideale, New Lanark, in cui accanto alle fabbriche venivano costruite scuole, asili, ospedali. Nel caso di Owen e di altri filantropi il miglioramento delle condizioni di vita degli operai rientrava all’interno di un’ideologia socialista, la quale ipotizzava una società ideale in cui la proprietà non fosse più la molla dell’agire economico e in cui i profitti della produzione

potessero essere distribuiti, almeno in parte, tra i lavoratori. È questo il caso, per esempio in Francia, dei falansteri di Charles Fourier, che ambivano a sperimentare una riorganizzazione generale della produzione. Queste prime ideologie socialiste riprendevano elementi di antiche ideologie comunitarie o di comuniSmo primitivo e rappresentarono un tentativo di offrire un’alternativa a un sistema produttivo che appariva iniquo e ingiusto. Per noi oggi i congedi pagati per malattia o le ferie pagate sono cose ovvie per lo meno nel mondo occidentale, ma non era altrettanto vero per gli operai del XIX secolo. Negli ultimi decenni gli storici hanno lunga­ mente discusso sugli effetti immediati dell’industrializzazione. Alcuni, come Max Hartwell, hanno sostenuto che le condizioni di vita degli operai migliorarono perché, sulla base di alcune statistiche storiche, nel periodo tra il 1790 e il 1830 i salari sarebbero aumentati (+43%) più del costo della vita (+ 11%). Altri, come Eric J. Hobsbawm, hanno contestato l’attendibilità delle ricostruzioni statistiche e ricordato l’esistenza di altri fattori negativi come l’aumento della disoccupazione. In tempi più recenti Eduard P. Thompson, pur riconoscendo l’esistenza di un miglio­ ramento salariale, ha sposato la tesi «pessimistica» perché la perdita di autonomia dei lavoratori qualificati, costretti a lavorare alle macchine, i pessimi alloggi e gli orari imposti dalla disciplina di fabbrica costituivano per la maggioranza degli operai dell’epoca un peggioramento delle proprie condizioni di vita. Tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo riprese vigore il dibattito sul «pauperismo» e sui modi per migliorare la condizione dei poveri, il cui numero sembrava aumentare anche a causa deH’industrializzazione. Anche lo stato dell’età moderna aveva praticato forme di assistenza ai poveri. La nascente economia di mercato imponeva ora nuove forme di assistenza, ma introduceva anche un po­ tenziale contrasto tra queste ultime e le esigenze del mercato. Nel 1795 era stato introdotto a Speenhamland, in Inghilterra, un sistema di aiuti che garantiva il diritto alla sussistenza integrando il reddito fino a raggiungere il minimo vitale. Il sistema di sussidi, in vigore in alcune contee, alla fine fu abolito perché ostacolava lo sviluppo del mercato del lavoro. Proprio perché garantiva comunque il minimo vitale al lavoratore, non spingeva i poveri a uscire dalla loro condizione. Invece, la creazione di un mercato del lavoro mobile e nazionale imponeva che il povero fosse spinto a cercarsi un lavoro dalla necessità di sopravvivere. Riguardo ai poveri, William Townsend scrisse, infatti, alla fine del Settecento, che «in generale soltanto la fame [...] può spronarli e pungolarli al lavoro». Le variazioni dell’andamento del mercato e le crisi economiche spinsero i la­ voratori a organizzarsi per garantirsi sostegno in caso di difficoltà e/o per chiedere miglioramenti economici. La prima fase di questa organizzazione fu costituita dal diffondersi in Europa di società di mutuo soccorso, il cui fine era aiutare, con un sussidio, i soci in difficoltà perché malati o disoccupati. La seconda fase fu la nascita di leghe e sindacati, organizzazioni permanenti che raggruppavano i lavo­ ratori fungendo da intermediari nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore. La cronologia variò da paese a paese. In Inghilterra l’organizzazione dei lavoratori fu precoce perché là era iniziata la Rivoluzione industriale, ma qui la tendenza a contaminare l’attività sindacale con quella politica fu minore rispetto al resto dell’Europa, dove, durante gli anni Trenta dell’Ottocento, si registrarono proteste sociali anche violente di operai (per esempio a Lione nel 1831). Durante i moti del 1848 fu dapprima teorizzato da Louis Blanc e poi messo in pratica dal governo della Seconda repubblica il principio del «diritto al lavoro» garantito dallo stato

attraverso l’istituzione dei cosiddetti «opifici nazionali», fabbriche statali create per dar lavoro ai disoccupati. Nella concezione originaria di Blanc «diritto al lavoro» significava non solo garantire un’occupazione, ma anche e soprattutto garantire al lavoratore lo svolgimento di mansioni in cui era specializzato grazie all’intervento dello stato. Era una posizione che già durante la Seconda repubblica francese veniva avversata da quanti vedevano negli «opifici nazionali» uno strumento per promuovere lavori pubblici. In quel contrasto si intravedevano le radici di una tensione sociopolitica tra le esigenze del mercato e le esigenze di stabilità del lavoro che avrebbe accompagnato anche successivamente la storia della società di massa. In seguito nacquero partiti che si richiamavano ai valori socialisti e volevano rappresentare gli interessi della classe operaia. Nel 1863 era nata l’Associazione dei lavoratori tedeschi di Lassalle, nel 1869 il Partito socialista dei lavoratori di August Bebel. Nel 1875 dalla fusione di queste due forze nacque il Partito socialdemocratico tedesco a Gotha. In tempi diversi, partiti socialisti nacquero in altri paesi (Francia, Italia, ecc.). In questi partiti convivevano posizioni più moderate, attente alle richieste di riforme sociali per le classi inferiori, e posizioni più radicali che rifiutavano il dialogo con i partiti «borghesi» in nome dei principi della rivoluzione. Nel dibattito interno alla socialdemocrazia europea un ruolo importante fu svolto dal «revisionismo» di Eduard Bernstein, favorevole a una revisione della teoria marxiana in nome di una concezione di evoluzione graduale verso il socialismo. La contrapposizione tra le due anime del movimento operaio si ripropose dopo la Seconda guerra mondiale anche per effetto dell’impatto simbolico della Rivoluzio­ ne russa (1917). Nel periodo tra le due guerre movimenti di massa operai chiesero un maggior controllo sulla produzione e sull’attività economica, ottenendo risultati non di poco conto - come l’arbitrato del lavoro e i consigli a Weimar (1919), i con­ sigli di fabbrica in Italia, poi aboliti dal fascismo -, ma incontrando anche pesanti sconfitte, come il grande sciopero delle Trade Unions inglesi del 1926. Con la crisi economica del 1929 si compì una svolta che portò a un maggior intervento dello stato nell’economia che ebbe ripercussioni sulle relazioni tra sindacati e imprenditori. Infine, per quanto riguarda la stratificazione sociale, l’industrializzazione non ha prodotto solo la nascita del proletariato, ma ha anche allargato l’area del ceto medio, modificandone la composizione interna a favore di nuove figure sociali. L’impiegato della grande impresa o dello stato rappresentò nel Novecento un nuovo tipo umano dai comportamenti politici difformi rispetto alla massa operaia e oggetto di molte indagini sociologiche a partire dal periodo tra le due guerre mondiali. Se per certi versi il lavoro impiegatizio è stato a lungo visto come una sorta di proletariato intellettuale, è anche vero che la differenziazione delle sue funzioni è stata molto ampia (un quadro d’azienda e un semplice impiegato non sono la stessa cosa). 4.

Consumi di massa e industria culturale

L’aumento della produzione fu una delle condizioni necessarie per realizzare il cammino verso la società dei consumi di massa, ma un prerequisito essenziale fu rappresentato dal mutare dell’orientamento verso il consumo: l’abbandono dell’idea che la parsimonia fosse una virtù e che il consumo fosse un peccato o un

vizio. Inizialmente limitata alle classi superiori o borghesi, la pratica del consumo si fece largo anche fra i ceti sociali inferiori. Al declino definitivo dell’autoconsumo, impossibile nelle aree urbane, si ac­ compagnò la necessità per un’industria dall’offerta produttiva crescente di assi­ curarsi sempre nuovi compratori. La massa, oltre che attore politico che esigeva i suoi diritti, diventava consumatore che reclamava i suoi prodotti. Se nelle epoche precedenti la gran parte dei beni voluttuari era stata appannaggio di una minoranza che poteva praticare il consumo vistoso come segno di prestigio sociale, a partire dall’Ottocento l’acquisto di merci non solo alimentari si estese progressivamente a tutti gli strati della società. Nacquero così i grandi magazzini dove nel corso del tempo divenne possibile comprare tutto. Ma, poiché le possibilità di spesa erano in un primo tempo limitate, l’industria dovette variare la sua offerta puntando al prezzo sempre più basso per conquistarsi acquirenti. Si trattò di una necessità vitale per un sistema economico finalizzato a produrre eccedenze di beni e quindi alla costante ricerca di compratori. Sul piano economico ciò significò che la crisi non nasceva più dalla penuria, ma dall’abbondanza di beni che non trovavano com­ pratori. L’aumento dei redditi dei ceti inferiori divenne così utile a tenere alta la domanda di beni. Nello stesso tempo la necessità di una vendita di massa spinse alla ricerca di sempre nuovi acquirenti attraverso il ricorso alla pubblicità dei prodotti. Una seconda conseguenza riguardò la stessa estetica dei prodotti. Prima della Rivoluzione industriale l’arredamento era cosa per ricchi; la gran parte della società viveva in ambienti ristretti. Se si osserva una normale casa contadina dell’età mo­ derna si coglierà il ruolo della cucina come luogo di ritrovo della famiglia, la scarsa separazione degli ambienti e la limitatezza delle suppellettili e dell’arredamento: cassapanche e armadi, un tavolo, il focolare e poco altro. Non meno povera era la casa operaia di inizio Novecento: poche suppellettili, in genere arnesi da cucina, pochi arredi. I pochi soldi da spendere per quanto non fosse cibo e vestiario di prima necessità non offrivano lo stimolo a una produzione di massa per la quale non esistevano del resto le condizioni tecniche. Per quanto veloci, gli artigiani potevano produrre solo un limitato numero di pezzi e dal momento che dettavano loro le condizioni al mercante, potevano produrre non tanto in funzione delle esigenze del mercato quanto delle proprie. Con l’avvento della meccanizzazione e della divisione del lavoro fu possibile aumentare sensibilmente la produttività del lavoro, senza dover dipendere dagli artigiani più esperti. Per quanto riguarda l’estetica degli oggetti di consumo, dunque, la possibilità di moltiplicare la produzione, la cosiddetta produzione in serie, se da un lato ren­ deva possibile garantire bassi prezzi per i manufatti, dall’altro andò inizialmente a scapito della forma esteriore dell’oggetto, aprendo un conflitto tra produzione in serie e produzione artigiana, segnato da accese discussioni tra intellettuali e artisti, i cui echi sono giunti fino ai giorni nostri. Non fu certo un caso se negli anni Cinquanta dell’Ottocento un museo di Londra aprì una «camera degli orrori» per documentare polemicamente la scadente qualità estetica dei nuovi prodotti in serie. Nella prima metà dell’Ottocento nacquero così movimenti di artigiani e intellettuali al fine di tutelare l’artigianato non solo come attività economica, ma anche come produzione di forme estetiche migliori di quelle prodotte in serie. In Inghilterra, patria della Rivoluzione industriale, se ne fecero sostenitori l’artista e scrittore John Ruskin e il socialista umanitario William Morris. Questi movimenti idealizzavano la figura dell’artigiano medievale, cioè di un uomo che produceva a

contatto con la natura dando sfogo alla sua creatività e trasferendo parte del suo essere nell’oggetto prodotto. L’artigiano diventò così il simbolo di una società non alienata, in cui l’uomo manteneva un rapporto naturale con il suo lavoro. Negli anni Novanta dell’Ottocento Frederick Taylor aveva inventato un sistema di controllo della produzione basato sulla misurazione dei tempi di lavoro denominato «orga­ nizzazione scientifica del lavoro» e nel 1904 erano uscite dalla fabbrica di Henry Ford le prime macchine costruite assemblandone i vari pezzi lungo una rotaia su cui scorreva il telaio. Con la nascita del taylorismo e della catena di montaggio la disumanizzazione del lavoro, di cui il film Tempi moderni di Charles Chaplin dà un’esemplificazione convincente, sembrò toccare il suo culmine e cancellare ogni piacere nel lavoro. Il mito dell’artigiano continuava così a essere l’occasione per rimpiangere il buon tempo antico, quando l’uomo godeva dal lavorare e sentiva suo il frutto del lavoro. La riscoperta dell’artigianato servì in larga misura alla ricerca di modelli estetici tradizionali da offrire ai nuovi consumatori, ma fu a volte anche fonte di ispirazione per un design innovativo. Se nell’Ottocento si sperava di far rinascere una produzione artigiana per le masse, nel Novecento si cominciò a pensare a una produzione in serie che fosse più attenta alla bellezza e potesse dar vita a stili caratteristici di paesi e nazioni. Nel 1907 in Germania nacque il Werkbund, che riuniva artigiani, industriali e artisti al fine di produrre un nuovo stile che potesse diventare punto di riferimento per la produzione industriale tedesca, cercando di far convivere fautori della tradizione e innovatori. Nel 1919 un gruppo di artisti e architetti guidati da Walter Gropius fondò il Bauhaus, una scuola-officina destinata a insegnare il «design industriale». In una prima fase anche questo movimento architettonico e di design, che voleva costruire una forma adatta alla nuova epoca, mostrò interesse per la semplicità del lavoro artigiano; in un secondo tempo, però, questo indirizzo fu abbandonato per fare posto all’esaltazione della forma tecnica, cioè di una forma che fosse derivata direttamente dalle caratteristiche funzionali dell’oggetto. L’idea di una linea sempli­ ce e funzionale si legava al progetto di offrire alloggi a basso costo, sposando così architettura e ingegneria sociale, come testimoniava la costruzione del quartiere Weijienhofsiedlung a Stoccarda nel 1927, sotto la guida dell’architetto Ludwig Mies van der Rohe. La produzione di massa finì per imporsi, non solo per il miglioramento della qualità dei suoi prodotti, ma anche perché riuscì a trovare un «luogo» in cui poter commercializzare al meglio i suoi prodotti. Il grande magazzino è l’emblema di questa società del consumo di massa e il suo luogo d’origine - primato in verità con­ teso dalle imprese americane - fu Parigi dove, nel 1852, un commerciante, Aristide Boucicaut, fondò i grandi magazzini Au Bon Marche. Nei decenni successivi il suo esempio fu seguito negli altri paesi. Il grande magazzino offriva una grande scelta di prodotti di ogni tipo, consentendo al cliente di risparmiare non solo tempo attra­ verso l’acquisto di beni diversi in uno stesso spazio, ma anche denaro grazie ai bassi prezzi resi possibili dal grande smercio. La vendita per corrispondenza, destinata a raggiungere i clienti anche nelle aree poco convenienti per la costruzione di grandi magazzini, rese possibile ampliare ulteriormente il commercio di massa. Infine, l’aumento di produzione, consumo e concorrenza rese indispensabile far conoscere i propri prodotti, facendo nascere così la pubblicità, a cui ben presto venne in aiuto la psicologia sociale nella ricerca delle forme migliori per catturare l’attenzione del consumatore, anche a rischio di indurre bisogni non necessari, come lamentarono in

seguito alcuni sociologi. La grande distribuzione si sviluppò rapidamente negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei come la Germania, e procedette più lentamente in Italia, ma ebbe effetti sociali rilevanti. Da un lato ridusse la quota di commercianti autonomi all’interno del ceto medio per effetto della chiusura dei piccoli esercizi; dall’altro, però, consentì a un numero sempre maggiore di persone di «migliorare» il proprio tenore di vita, anche con normali redditi da lavoro, grazie al basso livello dei prezzi delle merci. Se il grande magazzino conobbe la sua grande stagione tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, nel Novecento nuove forme di distribuzione presero progressivamente piede rivolgendosi anche ai ceti popolari. Importato dagli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, si diffuse il supermercato di generi alimentari. 5.

Svaghi di massa

Il cammino verso la società di massa portò anche a un mutamento delle con­ cezioni e delle tipologie di divertimento. Nel Medioevo feste e svaghi (le fiere di paese, i carnevali, le stesse veglie invernali della famiglia contadina) erano scanditi dal calendario naturale e religioso e mancava anche una rigida e netta separazione fra tempo lavorativo e non lavorativo all’interno della giornata. Il tempo agricolo era scandito dal ciclo stagionale e solare, mentre un lavorante operaio a domicilio, legato solo alle scadenze di consegna al mercante, poteva gestirsi il tempo come meglio credeva. Se i nobili potevano prendere parte a volte ai divertimenti popolari, gli svaghi nobiliari erano preclusi ai ceti inferiori. Nella società contemporanea il tempo di lavoro è invece rigorosamente fissato e imposto dai ritmi della fabbrica. Il tempo non lavorativo è quindi un tempo di riposo e di riproduzione della propria forza lavoro. Nel momento in cui l’orario la­ vorativo cominciò a ridursi, emerse il problema di come l’operaio dovesse occupare il suo tempo libero. Nell’Ottocento si cominciò ad affermare il diritto della massa lavoratrice al tempo libero. Nel 1883 il socialista francese Paul Lafargue scrisse un’opera dal titolo Diritto all’ozio, in cui rivendicava il diritto allo svago per la classe operaia contestando l’idea che l’aumento di produzione migliorasse la qualità della vita degli operai. Alla fine del secolo, l’americano Thorstein Veblen nel suo volume Teoria della classe agiata sottolineò la diffusione del consumo vistoso nella società moderna dalle classi aristocratiche alle classi medie. Il primo luogo di ritrovo per gli operai fu l’osteria, ma politici e riformatori spesso criticavano questa abitudine sia per il timore del diffondersi dell’alcolismo, sia per la paura che l’aggregazione spontanea nelle osterie potesse favorire quella politica. L’offerta di svaghi per il tempo libero degli operai, spesso con intenti educativi, provenne sia da associazioni filantropiche sia da organizzazioni legate al nascente movimento operaio. Nella seconda metà dell’Ottocento all’interno del movimento operaio nacquero associa­ zioni sportive ed escursionistiche per il tempo libero degli operai, e anche alcune aziende come i grandi magazzini cominciavano a offrire divertimenti ai propri dipendenti. Negli Stati Uniti la richiesta di ricreazione operaia andò aumentando e si svilupparono associazioni ricreative e organizzazioni specializzate per giovani, esperienze a cui a volte si guardò con interesse anche in Europa. Nel periodo tra le due guerre mondiali il dibattito e le iniziative nel campo del tempo libero operaio si intensificarono, anche per impulso delle organizzazioni internazionali del lavoro, per effetto della tendenza a introdurre il limite di otto

ore di lavoro. Nel 1924 il congresso dell’Ufficio internazionale del lavoro invitò a promuovere attività ricreative tra gli operai al fine di contribuire alla loro ele­ vazione morale e intellettuale preservandoli dai vizi e favorendo il miglioramento dell’istruzione professionale. Anche le dittature fasciste furono coinvolte nell’or­ ganizzazione del tempo libero, in parte perché volevano distogliere gli operai da possibili attività antifasciste, in parte per offrire loro forme alternative alle limitate capacità di consumo e compensazioni all’eliminazione delle organizzazioni sin­ dacali e operaie. Per queste ragioni l’Italia istituì l’Opera nazionale dopolavoro nel 1925, organo di partito e di stato che avrebbe dovuto fornire divertimenti e istruzione professionale ai lavoratori che avessero voluto aderire, anche se non fascisti. L’ente privilegiò però la ricreazione sull’istruzione e si servì del dopola­ voro per controllare la popolazione. La Germania nazista creò un’organizzazione simile denominata «Forza attraverso la gioia». Rispetto ad altri paesi che lasciarono sviluppare un sistema di associazionismo volontario e pluralistico, la natura dit­ tatoriale dei regimi fascisti impedì che potessero sorgere associazioni concorrenti delle organizzazioni di stato. Nel secondo dopoguerra l’associazionismo ricreativo si sviluppò ulteriormente, assumendo un ruolo fondamentale per permettere l’ac­ cesso a beni di consumo individuali e collettivi ancora troppo costosi per il singolo lavoratore. Con la crescita del benessere e l’accesso generalizzato al consumo di massa, il ruolo delle associazioni ricreative si è mantenuto, ma ha perso importanza rispetto al mercato individuale. Se spostiamo lo sguardo al campo della produzione per il consumo culturale, in ambito editoriale aumentò il peso di editori e autori che producevano per un vasto pubblico puntando sul prodotto di «genere» (romanzi d’amore, gialli, fan­ tascienza). Il ricorso a emozioni forti era presente già nel feuilleton francese e nel romanzo d’appendice ottocentesco. Si trattava di opere che venivano pubblicate a puntate sui giornali e che quindi dovevano ricorrere a espedienti narrativi (omicidi, disgrazie, disvelamento di identità sconosciute, ecc.) per tenere desta l’attenzione del lettore e invogliarlo a proseguire la lettura. La produzione di libri destinati a un vasto pubblico rese possibile la nascita di aziende editoriali di dimensione nazionale. Se l’accesso alla lettura fu inizialmente limitato, la diffusione dell’istru­ zione e delle biblioteche pubbliche consentì un’espansione della cerchia dei lettori. Nel Novecento l’intrattenimento offerto dalla lettura cominciò a misurarsi con la concorrenza del cinema, nato nel 1896, che divenne ben presto una vera e propria industria che garantiva alti profitti. La radio, inventata nello stesso anno da Gu­ glielmo Marconi, fu utilizzata per regolari trasmissioni a partire dal 1920, prima in America, poi in Europa. L’Italia iniziò nel 1924 e intensificò i suoi sforzi in questo settore per impulso del fascismo che vedeva nella radio un potente strumento di propaganda. La televisione cominciò le prime esperienze di trasmissione negli anni Trenta in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei. Nel dopoguer­ ra, prima gli Stati Uniti e poi gli altri paesi avviarono regolari trasmissioni fino a rendere il televisore un elettrodomestico consueto nelle nostre case. La diffusione della televisione introdusse una diversa fruizione dell’intrattenimento che entrava nel salotto delle proprie case. La produzione televisiva ha aumentato l’offerta di prodotti dell’industria culturale introducendo generi specifici per la televisione (come il telefilm o il talk show) e ha finito per contaminare la stessa informazione generando il cosiddetto infotainment, un genere di intrattenimento che contiene al suo interno spazi dedicati all’informazione. Il consumo culturale di massa è stato

oggetto di un vivace dibattito alimentato da chi imputava all’industria culturale la bassa qualità e ripetitività della sua produzione e la parallela distruzione della genuina cultura popolare. Sostenitori di questa linea di pensiero sono stati in parti­ colare gli studiosi della Scuola di Francoforte Theodor Adorno e Max Horkheimer. Secondo la loro Dialettica deirilluminismo (1947), l’industria culturale costituiva la fine dell’arte e della genuina espressione artistica nella misura in cui l’industria dell’intrattenimento realizzava la subordinazione dell’autore alle esigenze del mer­ cato e nello stesso tempo alimentava con le tecniche del marketing il desiderio dei prodotti dell’industria culturale nel consumatore. Alla fine degli anni Sessanta Guy Debord, riprendendo questa linea di pensiero, ha teorizzato l’instaurazione di una «società dello spettacolo». Altri osservatori hanno dato un’interpretazione meno catastrofica dell’evoluzione culturale in corso, rilevando come, anche nel settore della cultura, il consumatore non vada considerato un semplice oggetto di manipolazione. Già nel periodo tra le due guerre mondiali Walter Benjamin, pur riconoscendo il mutamento introdotto dalle riproducibilità della forma artistica con la perdita della sua «aura», aveva però richiamato l’attenzione sul fatto che tali mutamenti consentivano la diffusione di valori artistici tra le masse e costituivano dunque un fattore positivo di democratizzazione. Più recentemente studiosi come Pierre Bourdieu hanno peraltro posto l’accento sul persistere di differenziazioni sociali all’interno dell’apparente uniformità del consumo di massa e sul processo di sostituzione dei prodotti di élite. E infatti indubbio che taluni prodotti culturali (si pensi per esempio all’opera lirica o al jazz), un tempo destinati a un pubblico di massa, sono diventati oggi prodotti riservati a cerehie ristrette di appassionati. 6.

Masse giovani e anziane, di uomini e donne

L’avvento della società di massa ha anche provocato mutamenti nel modo di percepire i passaggi di età e le differenze di genere. Culture diverse nello stesso periodo o la medesima cultura in epoche diverse possono infatti interpretare in maniera assai differenziata fenomeni biologici come la morte. Per l’uomo medievale la visione della morte era un’esperienza frequente, cosa che rendeva l’evento certo doloroso, ma meno traumatico di quanto non accada all’uomo contemporaneo occidentale che ha allontanato dal suo orizzonte quotidiano questa esperienza. Anche la manifestazione di fenomeni biologici risente dei mutamenti sociali nella misura in cui questi ultimi, attraverso i cambiamenti delle condizioni di vita e dei sistemi sanitari, influenzano il corso fisiologico dell’esistenza. L’allungamento della vita media dei paesi occidentali è legato in gran parte al miglioramento alimentare e igienico-sanitario che ha drasticamente abbassato la mortalità infantile. Se nel Medioevo la gente viveva in media poco più di trent’anni mentre oggi supera ab­ bondantemente i settanta, e in alcuni stati arriva ad oltre ottanta, ciò non dipende dal fatto che nel Medioevo si vivesse meno a lungo. Chi sopravviveva agli alti tassi di mortalità infantile poteva sperare in una vita abbastanza lunga, ammesso che fosse riuscito a sopravvivere a malattie oggi quasi scomparse come peste, tifo, ecc. I mutamenti socioeconomici e i loro effetti biologici sono stati accompagnati da profonde modificazioni della mentalità e dei comportamenti. La società di massa si caratterizza quindi per un diverso modo di intendere le età dell’uomo. L’idea che i bambini debbano avere un’infanzia, cioè un momento della loro vita dedicato ai

giochi e alla formazione primaria (imparare a leggere, scrivere e far di conto) senza dover lavorare per vivere, rappresenta per noi un’idea ovvia e valida anche quando la realtà che ci circonda la nega, come nel caso dei figli di famiglie disagiate o dei bambini lavoratori del Terzo mondo. Una condizione del genere ci appare come un segno di arretratezza economica e culturale. In realtà, l’infanzia come momento separato è un prodotto legato all’evoluzione storica della famiglia e soprattutto all’emergere della famiglia borghese all’interno di uno sviluppo economico che ha consentito di soddisfare i propri bisogni primari (vitto e alloggio) senza dover ricorrere al lavoro dei bambini. Ciò rese anche possibile l’istruzione obbligatoria per i primi anni di età. Anche il tempo dell’adolescenza e il passaggio all’età adulta si sono progres­ sivamente separati e definiti in base alla diversa esperienza delle fasi della vita dell’uomo. L’esperienza fatta da un adolescente operaio di fabbrica negli anni Venti e Trenta del Novecento è molto diversa da quella fatta dallo stesso adolescente di famiglia operaia che negli anni Sessanta o Settanta di quello stesso secolo ha potuto formarsi sui banchi di scuola. L’istruzione ha consentito a giovani di bassa estrazione sociale di poter scegliere lavori diversi e più qualificati rispetto a quelli dei padri, o ha comunque ampliato lo spettro di opportunità anche nel campo del tempo libero. Nella società di massa, quindi, esiste una tendenza alla separazione dell’espe­ rienza a seconda delle fasce di età. I giovani danno così vita a proprie associazioni giovanili. Nell’Ottocento i giovani borghesi costituivano associazioni perché erano alla ricerca di una vita comunitaria a contatto con la natura. E il caso dei movimenti giovanili tedeschi e soprattutto dei Wandervogel (uccelli migratori) nati all’inizio del Novecento o di esperienze come quelle dei boy-scout di Baden-Powell. Se in queste organizzazioni prevaleva l’aspetto culturale, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento la gioventù si politicizzò con la creazione di organismi giovanili di par­ tito (nel 1904 nacque per esempio l’organizzazione giovanile socialdemocratica in Germania) che nel periodo tra le due guerre mondiali attirarono anche i ragazzi tra i 10 e i 14 anni di età. L’organizzazione per fasce d’età venne promossa dagli stati fascisti in Italia e Germania e si estese anche all’Unione Sovietica e, nel secondo dopoguerra, ai paesi del cosiddetto socialismo reale. Far parte di questa «gioven­ tù di stato» per i ragazzi significava iscriversi, inizialmente su base volontaria, in seguito per obbligo, alle organizzazioni di partito divise per fasce d’età. Nei regimi fascisti l’addestramento militare e l’indottrinamento politico si univano allo svago e a iniziative assistenziali. Si pensi ai campi estivi dei giovani fascisti che per i bambini dei ceti inferiori rappresentarono l’unica opportunità per fare vacanza. Tutti i regimi autoritari hanno posto una grande attenzione alla mobilitazione dei giovani e al controllo della loro socializzazione e della loro edu­ cazione per garantirsi un alto grado di controllo sociale e per costruire il cittadino leale ai valori del sistema politico. Anche nei regimi democratici la formazione dei giovani intesa come formazione del cittadino riveste un ruolo importante; essa avviene attraverso l’istruzione, in genere pubblica, e la socializzazione, la quale oltre che nella scuola trova realizzazione nell’adesione volontaria ad associazioni giovanili autonome dallo stato. La parcellizzazione delle esperienze di vita investe anche la fase di studio all’università. Per i giovani dei ceti alti esistevano già nell’Ottocento organizzazioni studentesche che volevano ricollegarsi idealmente a quelle delle antiche università.

In Germania esistevano le Burschenschaften pervase da un senso dell’onore di tipo militare. In Italia verso la fine deU’Ottocento nacque, per esempio, l’organizzazione Corda Fratres e in seguito numerose altre organizzazioni goliardiche che vivevano il periodo dello studio universitario come un tempo separato da quello della vita adulta e che rendevano possibili comportamenti trasgressivi. Fino alla Seconda guerra mondiale la composizione sociale di questo tipo di organizzazioni era pre­ valentemente medio e alto-borghese riflettendo il processo di selezione sociale che si compiva salendo i gradi dell’istruzione. Fascismo e nazismo esercitarono un rigido controllo su queste organizzazioni studentesche assorbendo o sciogliendo quelle esistenti. Per quanto riguarda le donne il discorso è più complesso perché il rapporto tra i generi assume nell’età contemporanea una dimensione del tutto particolare e specifica. Già durante la Rivoluzione francese la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouges aveva posto l’accento sulla necessità di una parificazione dei diritti estesa alle donne. Non si deve infatti dimenticare che nell’Ottocento alle donne era precluso l’accesso alle libere professioni e all’eserci­ zio del voto. In Italia il codice civile del 1865 continuava a prevedere una previa autorizzazione maritale affinché le donne potessero svolgere attività economiche o anche solo aprire un conto in banca. Contro questa supposta minorità della donna crebbero i movimenti di massa che rivendicavano la parità tra i sessi. Le prime richieste furono il diritto di voto (suffragismo) e il superamento delle barriere che impedivano l’accesso delle donne a determinate professioni. Per quanto riguarda il voto il primo stato a concederlo fu la Nuova Zelanda nel 1893, mentre la prima na­ zione in Europa fu la Finlandia nel 1906. Nel primo ventennio del Novecento molti altri stati seguirono l’esempio. In campo sindacale emersero spinte femminili alla parificazione salariale tra uomini e donne. Di fronte a queste tendenze emancipatrici e agli effetti sui costumi indotti dalla modernizzazione che si stava diffondendo in Europa, i regimi di destra cercarono di proporre nel Novecento un modello di donna più tradizionale legato alla sua funzione materna. Nello stesso tempo però questi stessi regimi per le loro esigenze di formazione del consenso organizzarono anche le donne (per esempio il fascismo con i fasci femminili) attribuendo loro funzioni subordinate, ma portandole comunque fuori da quella dimensione dome­ stica a cui le si voleva riconsegnare e innescando una contraddizione irrisolta. Nel secondo dopoguerra e in particolare dagli anni Sessanta e Settanta il movimento di rivendicazione femminile è cresciuto di intensità e si è rivolto alla dimensione privata (riscoperta del corpo, diritto all’aborto, ecc.) attribuendo a essa in alcuni casi una connotazione politica. La segmentazione per fasce d’età e per genere ha degli effetti anche sul piano economico che diventano visibili già tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del No­ vecento con la nascita di pubblicazioni specifiche per donne, giovani, bambini. Questa tendenza alla diversificazione dell’offerta di prodotti di consumo si è pro­ gressivamente estesa a tutti i settori merceologici. Manifestazioni di questa tendenza sono evidenti tra le due guerre mondiali e diventano ormai consuete nel secondo dopoguerra quando la pianificazione della produzione dipende sempre più dalle ricerche di mercato volte a individuare potenziali consumatori per i nuovi prodotti che vengono spesso pensati in funzione delle fasce d’età. La stessa pubblicità riflette la tendenza a diversificare gli obiettivi, un fenomeno manifesto nel campo televisivo.

7.

La massa al potere

Molte analisi sulla società di massa insistono sull’importanza della rescissione dei legami sociali tradizionali (e anche di quelli più recenti come la classe), sulla perdita di punti di riferimento e sull’isolamento del singolo soggetto che diventa ricettore passivo dei messaggi propagandistici che gli provengono dall’alto e al tempo stesso protagonista, nel momento in cui l’unità della massa si ricompone, per esempio sulla scena di una piazza. La dimensione di massa della politica richiede sempre più il ricorso a forme di coinvolgimento emotivo accanto a quelle razionali. Ciò avviene, prima di tutto, attraverso gli strumenti di formazione dell’opinione pubblica e qui il pensiero corre ai giornali popolari, all’uso preponderante dei titoli sui commenti e le informazioni. Un tipo di giornalismo diffuso soprattutto nel mondo anglosassone, ma poi esteso a tutto il mondo occidentale. In una prima fase è contro questa degenerazione che si rivolge l’attenzione dei critici. Il ricorso ai sentimenti, alle emozioni anziché alla ragione, l’importanza del «signore pelato appeso all’omnibus» (Walter Bagehot) mettono in luce il ruolo ormai determinante dell’opinione pubblica e quindi del numero sulla capacità. Questi timori hanno il loro riflesso nel dibattito politico nella contrapposizione all’emergere del numero come fattore determinante della lotta politica. Il comizio e il corteo divennero parte essenziale dell’attività politica e strumento primario di diffusione di valori politici per i propri militanti. Già uomini politici liberali come l’inglese William Gladstone fecero un uso pianificato del comizio per far leva sull’opinione pubblica sfruttando la cassa di risonanza dei mezzi di comunicazione di massa, divenuti poi indispensabili alla politica. Nell’Ottocento furono i giornali a svolgere questo ruolo. In secondo luogo l’avvento delle masse in politica si tradusse effettivamente in un aumento del ruolo svolto dal coinvolgimento emotivo e dalla comunicazione simbolica nella vita politica. La lotta politica di massa richiede oggetti in cui in forma sintetica e semplice siano riassunti i principi dei movimenti cosicché i singoli possano identificarsi in essi. Questo compito è svolto dalle bandiere e dai simboli. Furono soprattutto i socialisti a fare per primi largo uso di questi elementi (ma anche altri partiti come in Italia i repubblicani). Nell’Ottocento il simbolo utilizzato dai socialisti era costituito da due mani intrecciate, un’eredità delle associazioni di fratellanza operaia, che con quel simbolo volevano porre l’accento sull’elemento solidaristico che esprimeva l’appartenenza al movimento. Nel Novecento, soprat­ tutto dietro la spinta comunista, la sinistra cominciò invece a utilizzare come segno di identificazione il pugno chiuso, spostando quindi l’accento sull’elemento della lotta. I fascisti italiani e anche i nazisti tedeschi utilizzarono invece il braccio alzato con la mano aperta. Il gesto fascista imitava il saluto degli antichi romani e così come altri simboli del fascismo (il fascio littorio, ad esempio) voleva alludere alla continuità con la grandezza di Roma imperiale. In terzo luogo questo tipo di politica ha necessità di luoghi di riunione in cui la massa si mostri nel suo insieme. Bandiere, cortei, canzoni e slogan che accom­ pagnano ancora oggi la nostra vita politica sono un prodotto della modernità e sono inseparabili dall’idea stessa di società di massa. Anche nel caso della ritualità politica, per comprenderne la genesi dobbiamo risalire alla Rivoluzione francese e al ruolo assunto in essa dalla festa come tramite della memoria tra la rottura rivoluzionaria e il presente. I rivoluzionari volevano aprire una nuova era che si contrapponesse a quella dell 'Ancien Regime e vivevano la data della rivoluzione

come una cesura. Perciò la ricorrenza laica della rivoluzione assumeva il ruolo di memoria storica dell’evento che aveva partorito una nuova era. Da un lato questo significava rileggere la storia: furono i rivoluzionari a organizzare musei AeWAncien Regime, luoghi cioè in cui suppellettili e oggetti vari della nobiltà venivano messi in mostra per testimoniare la decadenza di quel periodo e far vedere il contrasto con l’età nuova. Dall’altro, la Rivoluzione francese, per sottolineare la rottura con il passato, cambiò addirittura il calendario introducendo nuovi nomi per i mesi dell’anno: se la rivoluzione doveva aprire una nuova era, anche il tempo doveva scorrere diversamente. In sostanza, con l’avvento delle masse in politica, segnato dai moti rivoluzionari che, a partire dal 1789, scossero l’Europa per tutto l’Ottocento fino alla presa del potere di un partito che si richiama esplicitamente alla massa operaia e contadina, i bolscevichi, nella Russia zarista nel 1917, si modificarono anche il linguaggio della politica e i suoi simboli. Riti e simboli politici divennero indispensabili nella lotta politica. Dopo il 1789, data emblematica della vittoria della Rivoluzione francese, la festa divenne il rito politico in cui i movimenti politici accendevano gli animi dei propri «membri» e trasmettevano loro i valori comuni. Il prototipo era costituito dalla Festa della Federazione del 1790, nella quale le tappe della rivoluzione erano ricostruite a uso del pubblico in una cornice di massa. La ritualità politica si è manifestata sia come rito collettivo in cui la nazione si ricono­ sce unita (14 luglio francese, 4 luglio americano), sia come riti di partiti e gruppi, come forme di identificazione per subculture politiche (partiti, leghe, ecc.). Il 1 maggio, che riprende il moving day americano di fine Ottocento, non nacque come una festa esclusivamente di sinistra, ma nel corso del tempo la sua immagine si è spesso identificata con le forze socialiste e comuniste. Non a caso il fascismo la vietò nel 1923, sostituendola con una «festa del lavoro» collocata il 21 aprile, giorno del natale di Roma, cioè della ricorrenza del presunto giorno della fondazione della Roma antica. I nazisti invece mantennero la data, ma cancellarono ogni riferimen­ to al passato socialista trasformando la ricorrenza in una festa del lavoro tedesca. Emerge così una differenza fondamentale tra le simbologie di destra e di sinistra: le prime utilizzano massicciamente miti e simboli tratti dall’antichità. Se nei paesi dell’Europa occidentale la festa del lavoro, organizzata dai sindacati e dai partiti di sinistra, era caratterizzata dalla partecipazione spontanea dei lavoratori, nei regimi comunisti al potere nell’Europa orientale la festa del 1° maggio aveva assunto un carattere ufficiale diventando una festa celebrativa del potere. Nel periodo tra le due guerre mondiali fece la sua comparsa la radio, che fu largamente usata come veicolo di comunicazione politica sia dalle dittature fascista e nazista, sia dalle democrazie: si pensi alle conversazioni davanti al caminetto di Franklin Delano Roosevelt. Nel secondo dopoguerra la televisione vide crescere la sua influenza rispetto alla radio, diventando uno strumento indispensabile per la comunicazione politica e la formazione dell’opinione pubblica. Se la televisione ha cominciato a superare in maniera significativa le barriere nazionali consentendo di diffondere notizie e amplificarne gli effetti, la fine del Novecento ha visto la nascita di una nuova forma di comunicazione di massa, il World Wide Web, la gigante­ sca rete di comunicazione tra computer. La rete ha aperto nuovi possibili scenari nella comunicazione politica, con la possibilità di raggiungere fasce selezionate di pubblico con costi limitati e di interagire con il circuito dell’informazione nazio­ nale e internazionale. La rete e i nuovi strumenti di comunicazione sociale come Facebook e Twitter hanno favorito mobilitazioni di massa anche in paesi autoritari. °

Il movimento di protesta iraniano contro i brogli alle elezioni del 2009 si è potuto mobilitare anche grazie a questi strumenti. La stessa «Primavera araba» nel 2011 è stata sostenuta dall’utilizzo della rete sia per quanto riguarda le mobilitazioni sia per quanto concerne la trasmissione delle informazioni al di fuori dei confini nazionali. Il web è quindi assurto sempre più a emblema della libertà di espres­ sione e a nuovo strumento di discussione e partecipazione politica. Recentemente la profilazione dei consumatori basata sull’analisi di grandi quantità di dati e la diffusione intenzionale di notizie false propagatesi nel web ha mostrato anche la possibilità di un uso manipolatorio della stessa rete. L’attenzione agli aspetti simbolici dell’azione politica e di governo è caratteristi­ ca di tutta l’età delle masse, ma in particolare riguarda i regimi politici di destra e di sinistra etichettati con la definizione, in verità insoddisfacente per alcuni aspetti, di totalitarismo. Con questo termine si è soliti indicare un tipo particolare di regime che va ricondotto a quel fenomeno tipico dell’età contemporanea che consisterebbe nella perdita, che sperimenta l’individuo, dei legami con i suoi simili, siano essi tradizionali, la comunità, siano essi moderni, la classe. Spinto in questo isolamento il singolo diventerebbe facilmente preda di ideologie che gli restituiscono un sen­ so di appartenenza, ma sottoponendolo a una dittatura «totale». Secondo questa impostazione i regimi totalitari sarebbero contraddistinti dal monopolio dell’in­ formazione e della propaganda, dall’avere un’ideologia unica non soggetta alla possibilità di critica, dal monopartitismo, dall’uso del terrore e dal culto del capo. Questi elementi sono indubbiamente comuni a tutti questi regimi, mentre altri individuati da alcune teorie (il monopolio dell’attività economica, ad esempio) sono specifici solo di alcuni. Su questa categoria è in corso da molto tempo una discussio­ ne, a volte aspra, che in parte è stata frutto di contrapposizioni politiche e in parte di obiezioni di metodo. In area anglosassone l’equiparazione tra fascismo e comu­ niSmo nel segno della categoria del totalitarismo ha conosciuto fasi diverse in parte legate all’evoluzione dei rapporti tra Usa e Urss nel secondo dopoguerra. Sul piano scientifico resta indubbio che questi regimi, pur diversi per base sociale e finalità dichiarate d'egualitarismo comunista si differenzia per esempio dall’idea, comune a fascismo e nazismo, che il fondamento gerarchico della società abbia una base naturale), hanno entrambi usato forme totalitarie di dominio. Nello stesso tempo la categoria presenta alcune difficoltà nel suo impiego analitico soprattutto in campo storico, come la difficoltà di distinguere con chiarezza tra stato totalitario e stato autoritario o l’estensione eccessiva della categoria a regimi di aree extraeuropee. Premesso che per quanti sono stati vittime di tali regimi queste obiezioni sono scarsamente significative, per uno studioso intenzionato a comprendere le dinamiche dei fenomeni esse sono invece essenziali. Si può senz’altro convenire che le dittature di massa del XX secolo presentino modalità di esercizio del po­ tere diverse dalle tirannie delle epoche antiche. Nell’età contemporanea, infatti, la mobilitazione delle masse rappresenta un elemento centrale per la formazione del consenso di questi regimi. D’altra parte se l’impiego di forme totalitarie di dominio, le si definisca o meno con il termine «totalitarismo», rappresenta una caratteristica della società di massa, va ricordato che non si tratta di un punto di arrivo, ma di una degenerazione delle sue tendenze di formazione. Nell’Europa del primo Novecento, per esempio, fu l’incapacità dei sistemi politici di alcuni paesi a rispondere alle richieste che provenivano dalla società civile, assicurando nuove relazioni sindacali ed adeguando i propri sistemi costituzionali, che produsse

l’emergere delle dittature. Le democrazie politiche in cui viviamo oggi sono demo­ crazie di massa perché in esse l’esercizio della sovranità nell’età delle masse non può prescindere dalla ricerca di una legittimazione di massa, una legittimazione che nell’area euroamericana è stata raggiunta anche grazie alla diffusione del benessere e alla riduzione delle disuguaglianze. Percorso di autoverifica

1. Illustrate il significato che l’istruzione ha avuto per lo sviluppo della società di massa. Quali effetti produsse la diffusione del principio di uguaglianza sancito dalla Rivolu­ zione francese nella sfera politica? 3. Quale significato ha assunto l’essere giovani nella società di massa? 4. Come si è realizzata la diffusione del consumo di massa? 5. Quali sono le differenze principali tra società di Antico regime e società di massa? 6. Quale ruolo ha l’opinione pubblica nella società di massa? 7. Quali mutamenti ha conosciuto il ruolo della donna nel processo di formazione della società di massa? 8. Quali caratteristiche hanno avuto le dittature di massa del XX secolo? 9. Quali sono le nuove forme di comunicazione politica nella società di massa? 2.

Per saperne di più

H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, Bompiani, 1978. S. Barrows, Distorting Mirrors. Visions o f thè Nineteenth-Century France, New HavenLondon, Yale University Press, 1981. P. Capuzzo, Culture del consumo, Bologna, Il Mulino, 2006. S. Cavazza, Dimensione massa. Individui, folle, consumi 1830-1945, Bologna, Il Mulino, 2004. S. Cavazza ed E. Scarpellini, La rivoluzione dei consumi. Società di massa e benessere in Europa, Bologna, Il Mulino, 2010. G. Cross, Tempo e denaro. La nascita della cultura del consumo, Bologna, Il Mulino, 1998. P. Rosanvallon, La rivoluzione dell’uguaglianza. Storia del suffragio universale in Francia, Milano, Anabasi, 1994.

Globalizzazione dello sviluppo e delle crisi: un percorso economico di Carlo Taviani

L’economia contemporanea è caratterizzata da tendenze contrapposte: nuove potenze, come la Cina e l’India, fanno la parte del leone nelle piazze com­ merciali e finanziarie di tutto il mondo mentre il vecchio continente europeo subisce i contraccolpi di una grave crisi. Queste pagine guardano al passato e si soffermano su un periodo che va dall’apogeo dell’Europa nel tardo Ottocen­ to alla supremazia novecentesca degli Stati Uniti. La globalizzazione segnò i decenni successivi alla Rivoluzione industriale, poi un lungo periodo di guerre mondiali e di crisi ha progressivamente indotto gli stati ad accentuare il proprio ruolo in campo economico. I decenni successivi alla Seconda guerra mondiale sono stati caratterizzati da una forte ripresa fino alla crisi degli anni Settanta. Gli ultimi paragrafi di questa storia restano però ancora da scrivere, dato che siamo tuttora immersi in un profondo processo di transizione.

1.

L’eredità della Rivoluzione industriale: la globalizzazione (1870-1913)

All’alba dell’Ottocento l’Europa si trovava alle soglie di una profonda trasfor­ mazione economica: solo pochi anni prima in Gran Bretagna erano state create nuove tecnologie che ora potevano essere applicate in diversi settori. La Rivoluzione industriale di fine Settecento aveva infatti permesso di produrre elevate quantità di beni, attingendo a una nuova fonte di energia, il carbone. Fino ad allora gran parte del lavoro era stata svolta grazie all’impiego di energie con un modesto impatto sull’ambiente, quali quelle eoliche, idriche, quelle ricavate dagli animali o dalle popolazioni rese schiave. Dal tardo Settecento furono le macchine a svolgerlo, con risultati molto più elevati in termini quantitativi. Gli effetti positivi erano sotto gli occhi di tutti, quelli negativi furono percepibili più lentamente, a distanza di molti anni. Oggi che si è sviluppata una maggiore attenzione agli effetti della trasfor­ mazione dell’energia non rinnovabile, prodotta da fonti fossili, sappiamo che tali innovazioni avevano un costo ambientale molto elevato. Il tardo Ottocento fu un periodo caratterizzato dalla forza economica dell’Euro­ pa. Il suo prodotto interno lordo (Pii), cioè il valore dei beni e dei servizi, costituiva il 46%.di quello mondiale nel 1870 e il 47% nel 1913. Nel mondo, però, comincia­

vano a emergere nuove economie che progredivano a tassi di crescita molto elevati: il Pii del Nord e del Sud America, dell’Australia e della Nuova Zelanda incideva su quello mondiale per il 13% nel 1870 e per il 26% nel 1913. Nel corso dello stesso secolo, la Rivoluzione industriale non solo fece sentire i suoi effetti nel campo della produzione dei beni, ma ebbe un impatto sulla vita delle popolazioni a molteplici livelli. Tra i fenomeni sociali di grande rilievo, si annovera l’inurbamento di grandi masse di lavoratori che si spostarono dalle campagne alle città per trovare un impiego nelle industrie. Fu questo un fenomeno migratorio interno, che anticipò in scala più ridotta un processo di ben più vaste proporzioni che caratterizzò l’Ottocento e il primo decennio del Novecento. Gli economisti lo definiscono con il termine globalizzazione e con esso si riferiscono alla circolazione oltre i confini nazionali non solo delle persone, ma anche dei beni, dei capitali e delle idee. Per spiegarlo hanno misurato direttamente questi quattro elementi, oltre che altri parametri che indirettamente forniscono una prova della loro circolazione. Lo scambio dei beni aumentò del 16,1% all’anno tra il 1830 e il 1870 e del 4,1% dal 1870 al 1913. Anche la differenza dei prezzi tra un luogo e l’altro subì una grande variazione: essa si ridusse notevolmente, segno che le merci si spostavano di più e più velocemente rispetto al passato. Tra il 1870 e il 1913, ad esempio, la differenza del prezzo del grano tra Liverpool e Chicago si ridusse del 42%. In secondo luogo anche i capitali circolarono di più: tra il 1870 e il 1913 l’Europa finanziò in misura maggiore rispetto al passato soprattutto gli Stati Uniti, il Canada, l’Argentina e l’Australia, e nel 1914 i paesi europei più ricchi, cioè la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, il Belgio, i Paesi Bassi e la Svizzera, finanziavano da soli l’87% degli investimenti mondiali. Sappiamo inoltre che i capitali si muovevano di più, perché diminuì il legame diretto tra risparmi locali e investimenti locali. Ciò significa che nel corso dell’Ottocento sempre più attività economiche e in misura maggiore vennero finanziate con denaro che proveniva dall’estero e non dal paese dove esse avevano sede. Esiste infine un ultimo elemento che fornisce un’indicazione dell’integrazione dei capitali, cioè la variazione del differenziale di rendimento di due titoli di stato di paesi diversi. Ogni paese emetteva, come accade anche oggi, delle cedole che rappresentavano una frazione del suo debito pubblico, i titoli di stato, e dopo averle vendute ai propri cittadini, o agli investitori stranieri, pagava periodicamente gli interessi fino a una cifra che superava il capitale investito. Quan­ to più l’interesse era alto, tanto meno valeva il titolo di debito: in pratica, quanto più l’economia di un paese era in cattiva salute, tanti più interessi doveva pagare ai suoi creditori. La differenza tra il rendimento di due titoli di paesi diversi è detta spread. Se nel 1870 lo spread tra i titoli di Germania, Francia e Gran Bretagna, da un lato, e quello dei paesi meno ricchi dell’Europa, dall’altro, si attestava al 5%, nel 1914 scese fino all’1%, segno che ormai a questa data i capitali erano molto integrati, perché gli investitori dei paesi più ricchi avevano fiducia e investivano anche nelle economie più povere. Come terzo importante fattore che indica quanto il processo di globalizzazione fosse esteso consideriamo le migrazioni di persone. Esse aumentarono notevolmente, raggiungendo cifre che nemmeno nei tempi più recenti sono state mai toccate: l’immigrazione europea nelle Americhe (del Nord e del Sud, complessivamente) negli anni Venti era intorno alle 15.380 unità per anno. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo raggiunse le 178.530 unità e nel 1900 si attestava a più di un milione di persone. L’Italia raggiunse delle cifre molto elevate a partire dai primi anni del Novecento, quando circa il 10,77% della

popolazione emigrò per cercare fortuna. Come ultimo elemento, consideriamo ora la circolazione delle idee e delle tecnologie, un fenomeno rilevante ma diffi­ cilmente quantificabile. Le idee circolavano attraverso le persone e dunque altri fattori, quali la riduzione del costo dei viaggi e le politiche di immigrazione, furono responsabili della loro diffusione. Inoltre, in misura molto più rilevante rispetto al passato, le idee circolavano anche attraverso le macchine. Queste ultime infatti non erano solo delle merci, ma anche un concentrato di nuove tecnologie: esse potevano inizialmente essere acquistate dai paesi che non le possedevano solo al fine di produrre beni. In un secondo momento, però, venivano studiate per essere replicate o trasformate. Come conseguenza, molte imprese non sentirono tutelata la proprietà intellettuale dei loro prodotti e cominciarono a stabilire delle sedi all’estero per produrli e venderli sul posto. Esse persero così il loro carattere locale e divennero delle multinazionali. Il processo di globalizzazione secondo alcuni studiosi fu reso possibile da un sistema di regolazione delle monete definito «gold standard». Esso viene conven­ zionalmente fatto iniziare nel 1717 in Gran Bretagna, quando Isaac Newton stabilì il cambio fisso dell’oro (un’oncia per 3 sterline, 17 scellini e 10,5 pence). Si tratta di un sistema inizialmente entrato in vigore solo in Gran Bretagna, poi via via anche in altri stati, in base al quale ogni paese decideva di mantenere fisso il cambio tra la propria moneta e l’oro. Il gold standard si basava sull’adesione ad alcune «buone regole»: un paese non poteva stampare più carta moneta dell’oro che possedeva, né avrebbe dovuto deliberatamente importare oro. Quando si rispettavano queste regole, entrava in azione automaticamente una serie di meccanismi che avviavano un processo di stabilizzazione dell’economia, principalmente equilibrando i prezzi e la differenza dei capitali tra i paesi. Vediamo come funzionava il caso della stabi­ lizzazione dei prezzi in due paesi. Se accadeva che la bilancia dei pagamenti di un paese era in deficit, cioè se il paese spendeva più di quanto guadagnava, si riduceva naturalmente la quantità di oro. Esso infatti veniva richiesto all’estero come paga­ mento delle merci, perché era preferibile essere pagati in oro che in carta moneta. Fino a questo punto, si trattava di una normale dinamica economica. Per rispettare le «regole del gold standard», cioè la parità del cambio con l’oro, il paese in deficit doveva ritirare artificialmente anche la carta moneta circolante. La contrazione della quantità di carta moneta induceva il ribasso dei prezzi. Di conseguenza, venivano stimolate le esportazioni, perché altri paesi erano interessati a comprare merci meno costose. Viceversa un paese nel quale entrava più oro, perché la bilancia dei pagamenti era in attivo, doveva stampare più carta moneta (seguendo le regole) e ciò causava un innalzamento dei prezzi. Conseguentemente, le esportazioni di­ minuivano, perché gli altri paesi non avevano convenienza a comprare beni che costavano di più, e le importazioni aumentavano. L’efficacia del gold standard è stata largamente enfatizzata, soprattutto a parti­ re dalla fine della Prima guerra mondiale, che, con le sue tragedie, segnò a lungo l’immaginario europeo. In questo periodo si tese a idealizzare gli anni precedenti e si identificarono le cause della crescita nel rispetto delle «buone regole» eco­ nomiche del patto moneta-denaro. In realtà, gli studi attuali tendono a rivedere questa interpretazione, mettendo in luce come le speculazioni finanziarie e i piccoli dissesti fossero all’ordine del giorno. Il sistema non funzionò perfettamente per diversi motivi. Oltre a basarsi sul rispetto delle regole del gioco, il gold standard si fondava sull’assunto che la quantità di oro nel mondo fosse sempre la stessa.

Senza il rispetto di questi due parametri non sarebbero potuti entrare in azione i meccanismi di aggiustamento automatico. La realtà fu diversa, sia a causa della scoperta di nuove miniere d’oro (in California, nel 1848), sia perché alcuni paesi (ad esempio la Francia e il Belgio) non rispettarono le regole e variarono delibera­ tamente il rapporto oro-moneta, acquistando appositamente più metallo prezioso. Nel complesso, gli anni che vanno dal 1870 al 1914 furono caratterizzati da una crescita del Pii in molti paesi. Non è possibile delineare un quadro omogeneo europeo, perché i paesi dell’area settentrionale crebbero di più, mentre quelli dell’a­ rea mediterranea subirono profondi rallentamenti. Questo stesso periodo fu però attraversato da momenti di debolezza e ripresa, che alcuni economisti definirono «cicli economici». Tra il 1873 e il 1893 i prezzi subirono una flessione considere­ vole, tanto che questi anni sono conosciuti con il nome forse un po’ improprio di «Grande depressione». Ad esso seguirono alcuni anni di ripresa e innalzamento dei prezzi, grossomodo dal 1895 al 1914, e proprio questo fu il periodo poi ecces­ sivamente enfatizzato, tanto da prendere il nome di Belle Epoque. 2.

Guerre mondiali e crisi economica (1914-45)

Tra il 1914 e il 1945 si verificarono grandi cambiamenti economici, oltre che politici: l’Europa perse la sua egemonia nel mondo, attraverso quella che può essere considerata come un’unica grande fase di recessione. Se nel 1913 contribuiva al 47% del Pii di tutto il mondo, nel 1950 invece solo al 7%. Nello stesso periodo emersero gli Stati Uniti, che passarono dalla condizione di debitori a quella di creditori, e altri paesi, come l’Unione Sovietica, si fecero strada come nuova po­ tenza politica e militare. All’interno di questi tre decenni, possiamo identificare tre momenti di maggiore crisi: dal 1914 al 1921, dal 1929 al 1932 e dal 1946 al 1949. Il primo e il terzo periodo corrispondono alle due guerre mondiali, mentre il secondo alla crisi finanziaria del 1929, passata alla storia come la «Grande crisi». Se l’economia degli Stati Uniti crebbe anche durante le guerre (e tra il 1938 e il 1944 raddoppiò), essa subì un forte rallentamento in conseguenza della crisi del ’29. Per comprendere in che modo le due guerre mondiali incisero sull’economia, dobbiamo considerare che normalmente le trasformazioni economiche avvengono sul lungo periodo, mentre eventi come quelli bellici, che in gran parte possono essere spiegati attraverso dinamiche politiche, si verificano su un più corto lasso di tempo. Dal punto di vista economico le due guerre mondiali richiesero un’enorme quantità di risorse. L’indirizzo dei governi direttamente coinvolti fu quello di tentare di produrre di più che in tempo di pace e provare a consumare e investire di meno. Di fatto, però, le economie direttamente coinvolte nei conflitti, anche considerando gli armamenti, non sempre aumentarono la loro produzione. Oltre alle tremende distruzioni che riguardarono uomini e beni, sul lungo periodo furono rilevanti i danni apportati al sistema economico nel suo. complesso. Vediamo nel dettaglio le vicende economiche riguardanti la Prima guerra mondiale. Nel breve periodo alcuni settori dell’economia furono stimolati artifi­ cialmente, mentre altri vennero ridotti. Su un periodo più lungo occorre conside­ rare che la guerra segnò una fase di arretratezza rispetto all’epoca precedente, che come abbiamo visto era stata caratterizzata dal proliferare del commercio e dalla creazione di un reticolo globale di rapporti economici e finanziari. Questa fase di

globalizzazione si arrestò durante gli anni di guerra e il suo declino continuò anche in seguito. Così, se alla fine del conflitto, seppur a gran fatica, i paesi si ripresero dai danni materiali, il mercato non proliferò più con la stessa libertà. I danni materiali della guerra furono comunque ingenti: furono 10 milioni i morti tra i soldati e 20 milioni i morti per fame e malattie. I costi diretti della guerra ammontarono a una cifra che oscilla tra i 180 e i 230 miliardi di dollari, mentre i costi per i danni alle proprietà a circa 150 miliardi. Le aree direttamente danneggiate furono soprattutto la Francia settentrionale, il Belgio, una parte dell’Italia settentrionale e alcune regio­ ni dell’Europa dell’est. Le esportazioni dei paesi europei si ridussero drasticamente: se la Germania subì ingenti limitazioni a causa dall’embargo navale, anche quelle che ebbero maggior libertà di allocare le proprie merci, come la Gran Bretagna, a causa dello sforzo bellico videro ridursi drasticamente gli introiti che provenivano dal commercio. Fu questo il momento in cui Stati Uniti e Giappone cominciarono la conquista dei mercati extraeuropei. La mappa della produzione agricola venne completamente ridisegnata, perché i territori europei divennero campi di battaglia. Di conseguenza venne stimolata la produzione agricola in altre aree, come gli Stati Uniti e il Sud America. Gli stati coinvolti nella guerra, dovendo procurarsi diverse risorse, soprattutto nel campo industriale, stamparono maggior carta moneta e di conseguenza si ebbe un aumento dei prezzi (inflazione). Non vennero più rispettate le regole di cambio tra oro e moneta e il gold standard venne sospeso. Altrettanto gravi, soprattutto nel lungo periodo, furono le conseguenze eco­ nomiche della pace. Al termine della guerra nella conferenza di Versailles venne ridisegnata la mappa di parte dell’Europa: venne smembrato l’Impero asburgico, quello ottomano e la Germania perse circa il 13 % dei suoi territori. Questa enorme trasformazione della geografia politica dell’Europa centro-orientale determinò una serie di problemi economici. I nuovi paesi (come l’Austria, l’Ungheria, la Jugoslavia) dovettero creare nuove monete, pianificare il sistema delle infrastrutture, creare strutture politiche e istituzionali, ecc.; quelli che avevano ampliato o ristretto il proprio territorio (la Germania, la Romania, la Bulgaria, la Polonia, l’Italia) do­ vettero allocare diversamente le proprie risorse industriali e finanziarie e videro variare la propria popolazione. La Germania subì le conseguenze più rilevanti sul piano economico, perché, ritenuta responsabile del conflitto, dovette pagare ai paesi alleati vincitori un’enorme cifra di denaro come riparazione. Dopo una vicenda piuttosto complessa, nel 1921 si stabilì la cifra di 132 miliardi di marchi. Un grande economista del tempo, John Maynard Keynes, in modo quasi profeti­ co ammonì i paesi vincitori che una cifra così ingente avrebbe potuto procurare dei danni di lunga durata, perché il paese non sarebbe stato in grado di pagare e avrebbe covato un profondo risentimento. La Germania era impossibilitata a pagare, perché i versamenti dovevano essere fatti in oro, o in valuta straniera, e ciò significava che la sua bilancia dei pagamenti sarebbe dovuta essere in attivo e quindi che avrebbe dovuto produrre da subito un’eccedenza di ricchezza. Gli alleati avevano imposto così tante restrizioni che già nel 1922 il valore del marco cominciò a scendere drasticamente e alla fine dello stesso anno i tedeschi avevano interrotto i pagamenti. Nel 1914, ancora all’interno del gold standard, un dollaro valeva 4,2 marchi tedeschi. Alla fine della guerra, fuori dal gold standard, un dol­ laro valeva 14 marchi, nel luglio del 1922 493, nel gennaio del 1923 17.792 e verso la fine dell’anno il marco valeva meno della carta su cui era stampato. All’inizio del 1923 la Francia e il Belgio, non ricevendo i pagamenti, occuparono la regione

tedesca della Ruhr e cercarono di appropriarsi del carbone estratto dalle miniere. Già alla fine dell’anno i francesi si ritirarono, perché la manovra non aveva ottenuto le risorse desiderate. La situazione della Germania ebbe una ripercussione anche sui paesi vicini, soprattutto in termini di inflazione: persero potere d’acquisto le monete polacca, bulgara, greca e austriaca. Anche l’economia della Gran Bretagna non si riprese dopo la guerra: essa aveva un debito con gli Stati Uniti di 4,7 miliardi di dollari e le sue industrie non erano più in funzione come prima della guerra. Fu però a causa di un’errata economia finanziaria che si aggravò la sua situazione. Durante la guerra, come si è detto, gli Stati Uniti avevano guadagnato nuovi spazi, la loro economia era cresciuta molto e inoltre erano rimasti legati al gold standard. Molti paesi europei, prendendo atto della situazione, tornarono al gold standard con tassi di cambio molto inferiori a quelli precedenti. Ad esempio, prima della guerra il franco francese veniva cambiato a un tasso di 5,18 a 1, mentre nel 1925 fu posto a 25,53 a 1, con effetti stabilizzanti per l’economia. Ciò che aggravò la situazione della Gran Bretagna, invece, fu che nel 1925 si reintrodusse il gold standard a un tasso di cambio molto alto con il dollaro, cioè di 4,85 dollari americani contro una sterlina, come prima della guerra. A quel punto però l’economia inglese non era più tanto competitiva: vennero applicati tassi molto alti di interesse e crollarono le esportazioni. Un percorso del tutto diverso dai paesi dell’Europa occidentale fu quello intra­ preso dalla Russia: qui nel 1917 scoppiò una rivoluzione che portò a cambiamenti molto profondi in quella che era stata fino ad allora una società prevalentemente agricola. Dopo una fase iniziale di rivolgimenti politici, il nuovo regime diede avvio a una serie di trasformazioni economiche radicali, quali la nazionalizzazione delle industrie, sviluppate attraverso una serie di piani quinquennali, e la collettiviz­ zazione di gran parte delle terre. In pratica si cercò, attraverso un processo della durata di diversi anni, di abolire completamente la proprietà privata. Nel corso dei decenni successivi, l’Unione Sovietica continuò a rafforzare il proprio isolamento politico e affidò la gestione di tutti i processi economici allo stato, attraverso un sistema che tendeva a eliminare completamente le dinamiche del mercato e la li­ bera concorrenza. Se escludiamo il caso tedesco e inglese e il percorso particolare dell’Unione Sovietica, gli anni Venti, e in particolare il periodo 1924-29, furono caratterizzati da una ripresa economica e niente faceva presagire che nel 1929 si sarebbe verificata una delle più infauste crisi della storia, la Grande crisi. Su quali furono le cause della crisi, gli storici dell’economia e gli economisti dibattono tuttora. Nel corso del 1929, in seguito alle notizie che la borsa americana stava aumentando le vendite, gli investitori americani spostarono i loro capitali dai titoli di stato europei alle azioni della borsa di Wall Street. Non solo i grandi capitali venivano spesi in azioni, ma molte persone che fino a quel momento non avevano mai «giocato» in borsa investirono i loro pochi risparmi, con la speranza di fare fortuna. Già in estate l’Europa cominciò a risentire della mancanza dei capitali americani, tuttavia ciò che fece precipitare la crisi non fu una questione di tipo finanziario, ma strutturale: la stessa economia americana infatti stava per arrestare la sua corsa. La produzione di automobili, un indice importante nella corsa ai consumi del dopoguerra, passò dalle 622.000 unità di marzo alle 416.000 di settembre. I segnali di recessione che arrivavano dalla Germania, dalla Gran Bretagna e a quel punto anche dall’Italia cominciarono a insospettire gli investitori americani, che ritirarono dal mercato le proprie azioni. Il 24 ottobre 1929, il «giovedì nero», e il

martedì successivo, l’indice della borsa di Wall Street crollò, le banche iniziarono a ritirare i prestiti che avevano concesso ai cittadini ed essi vendettero ancora più azioni sul mercato, innescando un circolo vizioso. La crisi del 1929, per quanto disastrosa sia sembrata la caduta di Wall Street, non fu dunque inizialmente determinata da cause finanziarie. Il crollo della borsa fu piuttosto un indizio del fatto che l’economia stava rallentando drasticamente. In effetti gli anni Venti, sebbene fossero stati positivi per l’economia, registrarono almeno una fase di recessione tra il 1924 e il 1927. Una delle cause più probabili della depressione viene individuata nella diminuzione di spesa da parte dei con­ sumatori cui seguì il rallentamento della produzione. Secondo alcuni studiosi la diminuzione della spesa fu dovuta anche a un’errata politica monetaria, perché vennero tenuti alti i tassi di interesse. Nel corso del 1931 il volume del commercio mondiale era sceso di un terzo rispetto al 1929, la disoccupazione in Germania era aumentata fino alla cifra di due milioni di persone e la banca Austrian Creditanstalt di Vienna sospese i pagamenti ai correntisti. Come si diceva, non c’è ancora un accordo tra gli economisti sulle cause della crisi: alcuni hanno messo l’accento sui motivi monetari - si sarebbe cioè verificata una contrazione della quantità di moneta circolante - altri invece sulla riduzione dei consumi e conseguentemente sulla produzione dei beni. Ciò che è certo è che sul lungo periodo le conseguenze furono serie. Se negli anni successivi ci si rese presto conto che l’impero economico della Gran Bretagna era finito e gli Stati Uniti erano ormai in ascesa, sul più lungo periodo la crisi segnò l’inizio di un nuovo modo di concepire la politica economica. Mentre nei decenni precedenti si era creduto che il miglior modo di far proliferare l’economia consistesse nel lasciare libero il mercato di agire - e abbiamo visto quanto l’economia si fosse globalizzata -, a partire dagli anni Trenta si affermò la tendenza a incentivare il ruolo dello stato in tutte le attività economiche. Molti paesi attuarono una politica di regolamentazione dell’economia, altri, anche a costo di un deficit dello stato, introdussero nel proprio sistema economico capitali pubblici, con la speranza di riattivare un circolo virtuoso tra aumento dei consumi e ripresa della produzione industriale. Le politiche economiche della maggior parte dei paesi toccati dalla crisi, però, non furono efficaci ed essi si risollevarono solo dopo la Seconda guerra mondiale. Vediamo nel dettaglio alcuni casi. La Gran Bretagna nel 1931 era uscita dal gold standard - dopo che, come abbiamo visto, aveva fatto di tutto per cercare di restarvi ancorata - e nel 1932 la sterlina si era svalutata del 30% rispetto al dollaro. Se negli anni Venti le esportazioni erano crollate, perché la moneta aveva un valore molto alto rispetto alle altre e non era conveniente comprare i prodotti inglesi, con la svalutazione la Gran Bretagna cominciò a esportare di più, offrendo merci a più basso prezzo. Di fatto, però, la Gran Bretagna arrivò alla vigilia della Seconda guerra mondiale con un tasso di disoccupazione molto elevato, segno che la crisi non era passata. Solo nel 1939 aumentò l’occupazione, perché la popolazione fu impiegata nella produzione di armamenti. Gli Stati Uniti lanciarono attraverso il loro presidente Franklin Delano Roosevelt una nuova politica, il New Deal, che mirava ad aumentare i salari e allo stesso tempo i prezzi dei beni. Vennero attuati una serie di piani, come l’Nra (National Recovery Act), con il fine di risollevare le sorti dell’industria, attraverso la regolamentazione della competizione, o la Aaa (.Agricultural Adjustment Act), che doveva riportare in salita i prezzi dei prodotti agricoli, restringendo la superficie coltivata. Di fatto, però, questi programmi non

riuscirono a creare le condizioni favorevoli per risollevare l’economia, anche perché a distanza di pochi anni vennero dichiarati incostituzionali dalla Corte Suprema. L’Nra, inoltre, fu percepito dai consumatori come un programma che aumentava la corruzione, perché sanciva la creazione di organismi misti (formati da industriali e impiegati del governo) e incrementava la collusione tra le industrie e lo stato. Inoltre esso non riuscì a riscuotere nemmeno tanto consenso tra le imprese, perché non solo esse videro limitati i prezzi dei propri prodotti per legge, ma dovettero subire la competizione dei grandi gruppi industriali, che venivano favoriti dalla stessa struttura governativa. Gli studiosi hanno notato che una delle politiche che bloccò l’espansione economica negli Stati Uniti fu l’eccessiva attenzione a non aumentare il deficit del paese. Quando Roosevelt assunse la presidenza ribadì più volte che non avrebbe aumentato il deficit e nonostante ciò esso crebbe già nel periodo 1935-36, quando passò da due a tre miliardi di dollari. A dire il vero non si trattò di un aumento mirato, ma fu del tutto involontario e non pianificato. Se altri paesi, come la Ger­ mania, attuarono deliberatamente una politica di deficit spending, come si diceva allora, gli Stati Uniti solo nel 1938 decisero di spendere oltre il proprio budget per incrementare la ripresa dei consumi. Inoltre, pesarono sull’economia statunitense anche una mancata redistribuzione delle entrate ottenute con le tasse e la mancanza di investimenti privati. Nel complesso l’economia americana fu in ripresa dal 1933 al 1936, ma subì un forte rallentamento nel 1937, quando la produzione industriale calò del 30%. Nel 1939 la disoccupazione ammontava ancora a circa 9 milioni di persone, cioè circa il 17% della popolazione attiva. Dove le cose andarono meglio fu in Germania. Nel considerare i risultati economici raggiunti negli anni Trenta in questo paese, dobbiamo includere la tra­ sformazione del sistema politico, che da una struttura democratica si trasformò in una delle dittature più feroci che la storia abbia mai conosciuto. Fallita l’esperienza della Repubblica di Weimar, i nazisti presero il potere e attuarono una politica economica che nel giro di pochi anni, dal 1933 al 1939, eliminò completamente una disoccupazione che si attestava intorno ai 6 milioni di persone. Per immettere più denaro nelle casse dei cittadini, venne usato un sistema di cedole di credito, parallelo alla carta moneta. Si trattava di un modo per aggirare il divieto di stam­ pare banconote, uno dei vincoli del gold standard che il trattato di pace vietava di abbandonare. Inoltre, venne attuato un vasto programma di opere pubbliche nelle quali vennero impiegati molti lavoratori: venne fondata l’industria automobilistica Volkswagen e venne costruita una grande rete autostradale. Questa grande espan­ sione fu attuata a spese di parte della stessa società tedesca (dissidenti politici e sindacali ed ebrei, in primo luogo) e attraverso una politica militare espansiva. Dal 1938, con l’annessione dell’Austria, cominciò «la politica dello spazio vitale», in base alla quale la Germania estese progressivamente i propri confini a scapito dei paesi confinanti. Via via questo programma fu allargato ad altri paesi e ad altre popolazioni, fino a prendere le proporzioni di un vasto sistema che realizzava lo sfruttamento economico di milioni di esseri umani, molti dei quali ridotti a una condizione di schiavitù, o se possibile inferiore. Durante la Seconda guerra mondiale le energie della Germania nazista fu­ rono indirizzate a un tipo di economia che è stata definita di «vampirismo puro e semplice». Sul piano della manodopera, nel 1940 la Germania importava con mezzi coercitivi 1 milione di operai stranieri, 4 milioni nel 1942 e 8 milioni nel

1944. Verso la fine della guerra vennero impiegati circa 600.000 uomini, deportati nei campi di concentramento, fatti vivere in condizioni disumane e sfruttati fino all’annientamento. Nulla può facilitare la comprensione dello stato in cui versava­ no, dal momento che la detenzione, il controllo e l’eliminazione avevano costi che sfuggono anche a qualsiasi logica economica. Complessivamente, il costo in vite umane della guerra in Europa fu di circa 15 milioni di persone (tra cui 6 milioni di militari e 8 di civili, tra i quali si calcola circa 6 milioni di ebrei). In Russia morirono, tra civili e soldati, 15 milioni di persone. In Cina 2 milioni solo tra i militari e non sono noti i milioni di civili morti sia per azioni di guerra che per malattie e fame. In Giappone circa 1,5 milioni, tra cui 100.000 a causa delle bombe atomiche americane lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Complessivamente, i danneggiamenti alle città e ai beni superarono di molto quelli della Prima guerra mondiale, sia in termini di potenza dovuta alle tecnologie, sia in termini di strategia. Le città di Amburgo e Dresda furono letteralmente rase al suolo dagli americani, rispettivamente nel 1943 e alla fine della guerra. Dal punto di vista delle politiche monetarie, la Seconda guerra mondiale segnò un passaggio piuttosto importante, perché con gli accordi di Bretton Woods del 1944 si decise di trasformare il sistema del gold standard. Da quel momento in poi non fu più l’oro il punto di riferimento dei cambi, ma il dollaro americano. In pratica, si decisero dei tassi fissi di cambio tra le monete di tutti i paesi e il dollaro. Una delle ragioni che determinò questo cambiamento fu il fatto che gli Stati Uniti detenevano la maggior parte delle riserve mondiali di oro. 3.

La ripresa economica (1946-73)

Al termine della guerra gli Stati Uniti abbandonarono la politica di isolazioni­ smo nei confronti del resto del mondo e in particolare dell’Europa, anche sotto il profilo economico. La diversa impostazione rispetto alla posizione di chiusura che era stata prevalente nel passato prese il nome di dottrina Truman, dal nome del presidente che la adottò nel 1946. Inoltre, dal momento che la ripresa economica in Europa stentava ad avviarsi e poiché la politica espansiva del blocco sovietico faceva temere la possibile perdita di influenza nei paesi dell’area occidentale dell’Euro­ pa, nel corso del 1947 gli Stati Uniti avviarono un programma di aiuti economici, l’European Recovery Program, o piano Marshall, dal nome del segretario di stato che l’aveva annunciato. Tra i motivi che mossero gli Stati Uniti ad avviare tale piano, vi era la necessità di mantenere il principale partner economico in grado di acquistare i suoi prodotti: l’Europa. Il piano si proponeva di versare nelle casse europee 13,2 miliardi di dollari fino al 1952, attraverso una forma mista, composta da prestiti e donazioni, ed era ini­ zialmente destinato anche ai paesi del blocco sovietico e alla stessa Unione Sovietica, ma per volere di Stalin essi furono esclusi. Il ruolo economico del piano Marshall è stato ampiamente dibattuto e ciò che più ha fatto discutere gli economisti è se esso sia stato alla base della crescita economica dei decenni successivi, definita come «età dell’oro», o «miracolo economico». Questi termini rinviano a una fase di circa due decenni, iniziata grossomodo negli anni Cinquanta e terminata nel 1973, durante la quale la crescita mondiale ebbe un tasso annuo dell’8% ed ebbe luogo soprattutto in Europa. Tali risultati furono ancora più incisivi nei paesi più poveri che avevano una

maggior disponibilità di manodopera proveniente dalla riduzione del settore agricolo. Al contrario, la crescita nei paesi europei più avanzati fu inferiore. Oggi si ritiene che il piano Marshall non ebbe un’influenza diretta sullo sviluppo europeo, cioè che non furono semplicemente le risorse allocate che generarono ricchezza, ma piuttosto le strutture e i processi avviati durante quella fase. In particolare furono rilevanti l’intensificazione degli scambi commerciali e l’avvio del processo di integrazione europea, elementi che favorirono il trasferimento delle risorse tecnologiche in Europa e ridussero il gap con gli Stati Uniti. Alcuni economisti hanno inoltre recentemente dato maggior enfasi al ruolo svolto dall’aumento della produttività industriale. Essa sarebbe stata favorita non solo dagli investimenti di denaro in questo settore, ma soprattutto dalla capacità sociale di accettare contratti con alti tassi di produttività, cioè da un basso costo del lavoro. Ciò significa che le risorse investite non vennero assorbite in misura eccessiva dagli aumenti salariali, ma che, grazie alla capacità sociale della popolazione di sostenere salari contenuti, gran parte di esse furono allocate nell’aumento della produttività. Il ciclo funzionò in maniera positiva non solo per il sistema produttivo, ma per gli stessi lavoratori, che come abbiamo detto provenivano in prevalenza dal settore agricolo e videro crescere i propri redditi. Dal punto di vista sociale, gli anni del benessere economico furono caratterizzati da un regime di welfare state, cioè dal sostegno dello stato ai cittadini in molteplici settori: dalla sanità all’educazione, dall’istruzione all’assistenza agli anziani. Più che favorire l’economia, il piano Marshall ebbe effetti indiretti in quanto accelerò il processo di integrazione europea che ebbe una gestazione piuttosto lunga e complessa e che ancora dura tutt’oggi. Si metteranno in risalto solo alcuni dei momenti di tale percorso e principalmente quelli economici. Nel 1950 nasceva l’Epu (European Payment Union) con un prestito base di 500 milioni di dollari da parte degli Stati Uniti. L’Epu aveva lo scopo di fare da tramite tra le bilance dei pagamenti all’interno dell’Europa e funzionava solo per i paesi europei. Se alla fine del mese la bilancia dei pagamenti di un paese era in perdita, esso versava una parte del suo credito in oro all’Epu e il suo debito veniva cancellato. Se al contrario un paese era in credito per una grossa cifra, riceveva la differenza direttamente dall’Epu in oro e la possibilità di importare dalla zona del dollaro. L’istituzione che più fece da volano all’integrazione europea nei primi anni Cinquanta fu però la Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), nata con il proposito di gestire il mercato e la produzione del carbone e dell’acciaio. La storia della sua nascita è strettamente legata a quella del dopoguerra. Al termine della guerra, infatti, la Fran­ cia era preoccupata dalla ripresa dell’industria pesante in Germania, che poteva ancora costituire un pericolo, in quanto era utilizzabile per produrre armamenti. Venne quindi proposta dal ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, la creazione di un organismo che controllasse l’approvvigionamento e la produzione di materie legate all’industria pesante, quali appunto il carbone e l’acciaio. Nel 1957 veniva creata la Comunità economica europea (Cee), con l’intento di formare un’unica entità per il commercio. In pratica, i paesi membri venivano identificati anche all’esterno come un unico soggetto commerciale. L’abolizione delle barriere doganali, elemento necessario al completamento del processo, venne pianificata su più anni e vi si arrivò nel 1968. Gli anni Ottanta e Novanta segnarono, come vedremo, ulteriori importanti passi verso il processo di unificazione. Sul piano internazionale furono determinanti alcune istituzioni nate a ridosso della guerra, quali il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Quest’ul­

tima ebbe e ha tuttora il compito di sviluppare le risorse dei paesi in via di sviluppo; il primo, invece, venne fondato con l’incarico di intervenire a sostegno dei paesi che versavano in difficoltà economiche temporanee e con il compito di analizzare i parametri per reintrodurre e garantire nel tempo il gold exchange standard. Questo ruolo cessò nel 1973 quando, in seguito alla crisi economica, si decise di abbando­ nare il gold exchange standard, che aveva peraltro dato segni di debolezza fin dagli anni Sessanta, quando gli Stati Uniti avevano visto ridursi notevolmente le proprie risorse d’oro. I benefici economici di questo periodo espansivo dell’economia non riguardarono l’Europa dell’Est e l’Unione Sovietica. Quest’ultima, come si è detto, sviluppò un sistema economico totalmente controllato dallo stato e abolì la proprietà privata. Al termine della Seconda guerra mondiale, inoltre, estese la sua influenza sull’Europa orientale e nel 1949, quando l’Europa occidentale muoveva i suoi primi passi verso l’integrazione economica, creò il Consiglio per la mutua assistenza economica (Comecon), un organismo che aveva il compito di coordinare le economie dei diversi paesi comunisti europei e promuovere una suddivisione del lavoro. Vi aderirono l’Albania, la Bulgaria, la Romania, l’Ungheria, la Ceco­ slovacchia, la Polonia e la Germania orientale. In realtà, il Comecon si dimostrò essere nel corso del tempo uno strumento di controllo, perché i paesi coinvolti acquisirono sempre più una funzione di satellite rispetto all’Unione Sovietica. Le relazioni commerciali infatti erano bilaterali, cioè avvenivano tra l’Unione Sovietica e i paesi satellite e non tra di essi. 4.

La fine dello sviluppo o nuovi equilibri mondiali?

Nel 1972 un team di ricercatori del Mit (Massachusetts Institute of Technology) pubblicò un volume dal titolo I limiti dello sviluppo che paventava il pericolo di una drastica riduzione delle risorse energetiche nel mondo. S’ipotizzava che, poiché la crescita della popolazione mondiale era in continuo aumento e le risorse energetiche non erano infinite, il futuro sarebbe stato caratterizzato da una fase di recessione, o perlomeno da una contrazione dei consumi. L’anno successivo una crisi energetica senza precedenti sconvolse i paesi occidentali. Essa era iniziata con l’aumento del prezzo del petrolio da parte dei principali paesi produttori, in maggioranza arabi, in seguito alla guerra arabo-israeliana. Il prezzo del petrolio negli Stati Uniti passò in pochi mesi da 25 centesimi a più di un dollaro al gallone, con effetti di restrizio­ ne dei consumi molto profondi, che incisero sia sul tenore di vita delle persone, sia sull’organizzazione della produzione industriale. Nell’immagine che i paesi più ricchi avevano del proprio livello di vita questi eventi ebbero e hanno ancora un’influenza molto forte, tale da far apparire, come si è detto, il quarto di secolo successivo alla Seconda guerra mondiale come un’età dell’oro e gli anni Settanta come una lunga fase di rallentamento della crescita economica. A ben vedere il decennio 1970-80 rappresenta la fine della crescita per alcuni paesi - perché si era ormai esaurita l’onda lunga della ricostruzione postbellica e l’inizio di un periodo di deindustrializzazione, caratterizzato dal prevalere del settore dei servizi, molto più debole, rispetto a quello industriale. La crisi ebbe conseguenze molto forti ed evidenti nell’Europa orientale e in Unione Sovietica e fu uno dei fattori che determinarono la caduta del muro di Berlino. L’Europa oc­ cidentale fu colpita in misura minore, ma comunque molto più che gli Stati Uniti.

Alcuni economisti hanno spiegato questa differenza con il fatto che in Europa la produttività era ed è più bassa del Nord America, anche in conseguenza del siste­ ma dell’organizzazione del lavoro, che prevede meno ore di produzione rispetto al tempo libero. Alcuni paesi dell’Europa meridionale, come l’Italia, soffrivano inoltre di ritardi culturali, come la mancanza di accesso al mercato del lavoro da parte della popolazione femminile, che a lungo e ancora oggi si riflettono nella capacità di produzione. Gli Stati Uniti furono comunque segnati dalla crisi degli anni Settanta: essi subirono un aumento dell’inflazione e un forte passivo della bilancia commerciale. Tra il 1971 e il 1973 questi due fattori furono determinanti per l’abbandono del sistema del gold exchange standard che, come abbiamo visto, già nel 1944 aveva subito una trasformazione con gli accordi di Bretton Woods. La crisi degli anni Settanta però non incise nello stesso modo ovunque: se il mondo occidentale e l’Europa orientale non crebbero e i paesi africani soffrirono molto, non si può dire lo stesso per le economie dell’Asia e del Sud America. Nella decade 1970-80 alcuni paesi dell’Asia orientale videro crescere il loro Pii in misura tale che non è davvero possibile parlare di un rallentamento: quello di Hong Kong aumentò dell’84,4%, quello di Singapore del 104%, quello di Taiwan del 107,3% e quello della Corea del Sud del 90%. Anche l’India e la Cina mantennero dei livelli molto elevati di crescita (rispettivamente il 39,5 e il 76,3%). In Sud America l’aumento del Pii si attestò su un livello simile a quello dell’India (il 36,7%). Per analizzare gli anni successivi alla crisi petrolifera e alla crescita delle «tigri asiatiche» (cioè i paesi che abbiamo visto crescere a tassi elevati in Asia), si posso­ no fornire alcuni dati e occorre lasciare in via ipotetica le interpretazioni, perché man mano che ci avviciniamo agli avvenimenti contemporanei diventa sempre più difficile scorgere delle costanti e delle spiegazioni nei fenomeni economici e la visione storica assume contorni più sfumati e meno chiari. Gli anni che vanno dal 1980 al 2008 sono stati segnati da una ripresa gene­ ralizzata, alla quale ha contribuito da un lato un periodo di relativa pace, con la caduta del blocco sovietico, e dall’altro un nuovo processo di globalizzazione. L’aumento della velocità dei trasporti è stato determinante per questo fenomeno, ma anche lo sviluppo delle tecnologie informatiche e dal 1991 soprattutto la dif­ fusione di internet. L’uso del web globale è aumentato in misura notevole negli ultimi anni: nel 2011 si connettevano alla rete 2 miliardi e 187 milioni di persone (il 31,5% della popolazione mondiale), contro appena i 16 milioni del 1995 (lo 0,4% della popolazione mondiale). Il Pii mondiale è aumentato del 60% e alcuni dei vecchi paesi ricchi hanno grossomodo mantenuto livelli elevati di crescita (Stati Uniti 62% e Gran Bretagna 74%), ma l’Asia orientale ha visto crescere ancora la sua ricchezza in misura incredibilmente più elevata: la Cina del 1.083%, la Corea del Sud del 360% e l’India del 230%. Milioni di contadini che abitano in Asia in questi anni hanno potuto migliorare il proprio tenore di vita, permettendosi un cellulare, la televisione, un mezzo di locomozione a motore, e un milione di persone è ora milionario - esattamente come in Europa - e investe nei mercati globalizzati una grande somma di denaro. Progressivamente questo numero sta raggiungendo quello degli Stati Uniti, che si attesta a 3,1 milioni. Nel vecchio con­ tinente europeo il processo di integrazione è proseguito: nel 1987 è stato firmato l’Atto unico, un documento di intesa per la realizzazione di un mercato unico. Nel febbraio del 1992 a Maastricht si è dato vita all’Unione europea: un unico spazio politico ed economico con un’unica moneta. Il trattato prevedeva il raggiungi­

mento di una serie di obiettivi economici da attuarsi progressivamente nel corso del tempo. All’inizio del 2002 è entrata in circolazione la moneta unica europea, l’euro. Hanno invece mantenuto la loro valuta la Gran Bretagna, la Danimarca e la Svezia. Il rispetto di alcuni parametri monetari e finanziari si sta rivelando molto difficile. In particolare, i paesi più poveri si sono trovati in difficoltà a mantenere bassa l’inflazione e soprattutto il deficit di bilancio e il debito pubblico. Secondo gli accordi questi ultimi due parametri devono rispettare alcuni livelli: il primo deve essere inferiore al 3% del Pii, mentre il secondo non deve superare il 60%. Un elemento interessante, che mostra sul piano concreto il livello di integrazione raggiunto negli ultimi tempi in Europa, consiste nel fatto che i governi della Grecia e dell’Italia, due dei paesi più a rischio in termini di gestione del debito pubblico, sono estremamente dipendenti dalle istituzioni europee sul piano della leadership e sono stati formati in larga parte proprio da economisti che hanno collaborato nel passato con le istituzioni europee. Tra i più importanti avvenimenti che recentemente hanno scosso i sistemi economici mondiali, vi è la crisi dei mutui subprime del 2008, che ha mostrato tutte le debolezze dell’evoluzione dei meccanismi della finanza. Una delle cause scatenanti della crisi è la facilità con cui negli Stati Uniti sono stati concessi i mutui per l’acquisto delle case, detti subprime, o secondari. Questa particolare forma di mutuo si basa sul basso tasso di interesse a corta scadenza e sul forte incremento con il tempo. I mutui sono stati concessi anche a chi non poteva permettersi di pagare le rate, perché si riteneva che i prezzi delle abitazioni continuassero a salire e quindi il proprietario avrebbe con il tempo visto rivalutato il proprio capitale. Si è trattato però di una bolla, cioè di un’espansione artificiale del prezzo non legato a una concreta crescita economica, che alla fine si è arrestata e, quando nel 2005 i prezzi si sono fermati e poi ridotti drasticamente, i proprietari che avevano con­ tratto i mutui non hanno potuto più saldare le rate. Molte banche hanno investito grandi somme di denaro in questo tipo di prestiti e alcune di esse si sono trovate altamente esposte. Lehman Brothers, il caso più eclatante, è andata in bancarotta nel settembre del 2008, perdendo 2,8 miliardi di dollari. Conseguentemente nelle settimane successive l’indice Dow Jones della borsa di Wall Street ha perso il 27% e la crisi si è estesa velocemente a molti altri paesi, compresi quelli europei. Una delle ragioni della profonda interazione delle economie dei paesi ricchi risiede non solo genericamente nella globalizzazione, ma anche nel fatto che negli anni precedenti al 2007 gli Stati Uniti hanno accumulato un debito pubblico molto elevato e i loro titoli di stato sono stati acquistati principalmente da paesi come la Cina e l’Arabia Saudita, interessati a esportare proprio negli stessi Stati Uniti i propri prodotti. Negli ultimi tempi sembra che, anche se con una certa difficoltà, i paesi più ricchi, come gli Stati Uniti, la Germania e la Gran Bretagna, stiano uscendo dalla crisi finanziaria, che probabilmente non ha intaccato i settori più solidi dell’economia. Particolari difficoltà stanno invece sperimentando i paesi meno ricchi dell’Unione europea che hanno un elevato debito pubblico. Molto spesso è stato evocato il pa­ ragone tra la recente crisi e quella del 1929. Se però negli anni successivi alla crisi del ’29 tra gli economisti si è fatta strada la convinzione che per superare crisi di quel tipo si poteva mettere in campo una politica di aumento della spesa pubblica, anche a costo di un aumento del debito pubblico, ora questo tipo di manovre non è più possibile. Secondo i parametri europei che abbiamo appena elencato, infatti, il debito pubblico non può più aumentare al di sopra di una certa soglia. Paesi

europei come la Grecia, il Portogallo, l’Italia e la Spagna subiscono oggi dunque una tensione tra necessità di aumentare i consumi, per riattivare l’economia, e l’impossibilità di far crescere la spesa pubblica. Se allontanandoci dal vecchio continente allarghiamo la prospettiva e consi­ deriamo il contesto globale, possiamo notare che, nonostante negli ultimi decenni vi siano stati momenti critici (la stagnazione dei primi anni Settanta e la recente crisi finanziaria), è comunque in atto oggi un processo costante di crescita. Proprio alcuni paesi che nel Novecento erano molto lontani dalla ricchezza, crescono ora a un ritmo elevato. Appare dunque possibile un rivolgimento degli equilibri mondiali e una diversa configurazione delle risorse e dei capitali, che potrebbero ridisegnare la mappa dei paesi ricchi e poveri. Certo, poiché ad accrescere la propria ricchezza sono proprio i paesi molto popolati, come la Cina, l’India e il Brasile, le risorse energetiche appaiono diminuire velocemente. Percorso di autoverifica

1. Cosa fu la globalizzazione dell’Otto-Novecento e come è stata misurata? 2. Come agivano i meccanismi del gold standard? 3. Quali furono le conseguenze economiche della Prima guerra mondiale e della successiva pace? 4. Quale tendenza economica caratterizzò gli anni Settanta del Novecento? 5. Cosa si intende con l’espressione «fine dello sviluppo»? 6. Quali sono i paesi emergenti del secondo Novecento?

Per saperne di più

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S. Broadberry e K.H. O ’Rourke (a cura di), The Cambridge Economie History o f Modem Europe, voi. II: 1870 to thè Present, Cambridge, Cambridge University Press, 2010. R. Cameron e L. Neal, Storia economica del mondo, 2 voli., Ili ed., Bologna, Il Mulino, 2005. B. Eichengreen, Glohalizing Capital: A History ofthe InternationalMonetary System, II ed., Princeton, N.J., Princeton University Press, 2008. J. Foreman-Peck, Storia dell’economia internazionale dal 1850 a oggi, Bologna, Il Mulino, 1999. D.S. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Eu­ ropa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 1978. S. Pollard (a cura di), Storia economica del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2005. V. Zamagni, Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea. Breve storia economica dell’Europa contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1999.

L’età delle ideologie di Giovanni Orsina

Il concetto di «ideologia», di origine filosofica, costituisce uno strumento co­ noscitivo composto da elementi teorici che prendono la forma di un sistema destinato all’interpretazione della realtà e alla sua valutazione. Gli ambiti con­ cettuali fondamentali entro i quali si muovono le ideologie sono la questione del mutamento, la reciproca influenza fra stato e società, il rapporto tra individuo e collettività. All’interno di queste relazioni si sviluppano le principali «famiglie» ideologiche - reazionarismo, conservatorismo, liberalismo, socialismo - che vengono qui descritte attraverso la loro origine.

S 1.

Che cos’è un’ideologia?

Il termine «ideologia» è di provenienza filosofica. Fu utilizzato per la prima volta in modo chiaro e sistematico da un gruppo di filosofi, il più importante dei quali fu A.-L.-C. Destutt de Tracy, che vissero e operarono in Francia fra gli ultimi decenni del Settecento e i primi dell’Ottocento. Il termine, nell’uso che ne facevano gli «ideologi», stava a indicare lo studio delle sensazioni e delle idee che si produ­ cono nella coscienza umana. Di provenienza illuministica e di fede politica liberale, gli ideologi assunsero una posizione critica nei confronti tanto di Robespierre e del Terrore rivoluzionario quanto di Napoleone. L’imperatore, in polemica con loro, diede alla parola ideologia un significato negativo, utilizzandola per definire un tipo di pensiero politico del tutto astratto e dottrinario, privo di contatto con la realtà e di alcun valore o riflesso pratico. Qualche decennio più tardi, in un contesto del tutto diverso e con ben altra motivazione intellettuale, la parola fu nuovamente utilizzata, ancora con una con­ notazione negativa, da Karl Marx. Il materialismo storico e dialettico del filosofo tedesco attribuisce un’importanza centrale, sul piano sia economico, sia sociale, sia politico, alle classi - aristocrazia feudale, borghesia, proletariato - e allo scontro in atto fra di esse. La vicenda umana è fatta di lotta tra le classi, lotta dalla quale una sola classe - diversa a seconda dei momenti storici - riesce a emergere vincitrice, trovandosi così nelle condizioni di dominare sulle altre. Il dominio di classe, unica autentica realtà dei rapporti sociali, economici e politici, non è tuttavia esplicito e sfacciato, ma si nasconde dietro a teorie, idee, principi, finalizzati da un lato a

legittimarlo, dall’altro a occultarne la spietata durezza. Questo paravento teorico è per Marx l’ideologia. Le caratteristiche della definizione marxiana di ideologia sono dunque due: in primo luogo l’ideologia ha un’origine sociale, ovvero è prodotta dalla classe dominante; in secondo luogo essa è falsa, ossia consiste di idee e dottrine prive di corrispondenza con la realtà e anzi finalizzate soltanto a nasconderne la sostanza - che, lo ripetiamo, è fatta di lotta e dominio di classe. Dopo la Seconda guerra mondiale il concetto di «ideologia» si è trasferito dal­ la filosofia alle scienze sociali. In questo nuovo ambito esso ha perduto qualsiasi connotazione positiva o negativa e si è trasformato in uno strumento conoscitivo neutro, utilizzato al fine di riunire in un’unica categoria analitica diversi fenomeni storici - il liberalismo, il socialismo, il conservatorismo, ecc. - stabilendone la natura e le caratteristiche comuni. Di definizioni del concetto di «ideologia», assunto in questo nuovo significato, gli scienziati sociali ne hanno date numerose. Esse con­ dividono tuttavia alcune caratteristiche: a) Le componenti di base di un’ideologia sono elementi teorici e astratti, idee, principi, valori, credenze quali la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, la tutela della proprietà privata. b) L’ideologia non si basa su uno solo di questi elementi, ma assume le ca­ ratteristiche di un sistema, ovvero include al proprio interno numerosi elementi, li fa interagire e li coordina, così da trasformarsi in un insieme di parti integrate dotato di un sufficiente grado di coerenza. Il liberalismo, ad esempio, non si fonda soltanto sul valore della libertà, ma anche sulla convinzione che l’uomo sia razio­ nale e perfettibile, su una moderata fede nel progresso, sulla pace e cooperazione internazionale, sull’uguaglianza davanti alla legge, sull’idea che la concorrenza promuova il benessere sociale, ecc. c) Questo sistema di credenze comprende al proprio interno elementi sia descrit­ tivi sia prescrittivi. In altre parole: da un lato esso pretende di fornire strumenti utili a interpretare la realtà, a comprendere in che modo funzionino l’economia, la società, la politica e quindi i motivi per i quali accadono determinati eventi, a prevedere che cosa avverrà nel futuro. Dall’altro, esso intende fornire una guida per l’azione poli­ tica, ossia indicare agli individui in quale modo sia opportuno e giusto comportarsi, quali siano i fini che devono essere perseguiti e con quali mezzi. Ad esempio: davanti all’avvento del fascismo, nell’Italia del 1922, chi aderisce all’ideologia comunista, da un lato, potrà interpretare l’evento come il prodotto politico di un sistema economico capitalistico vicino al collasso, e prevederne la non lontana crisi mortale (elemento descrittivo, o giudizio di fatto); dall’altro saprà che deve opporsi recisamente al nuovo regime e affrettarne la fine (elemento prescrittivo, o giudizio di valore). d) Infine, l’ideologia svolge un’importante funzione di legittimazione, ovvero dà agli attori politici, siano essi al potere o all’opposizione, la possibilità di giustifi­ care il proprio operato facendo ricorso a una visione globale del mondo, a principi e concetti di portata ampia e generale. 2.

Le caratteristiche delle ideologie

Le singole ideologie - liberalismo, socialismo, conservatorismo - non sono fenomeni semplici, dei quali sia possibile dare una definizione chiara, univoca, conclusiva, non controversa.

In primo luogo, un’ideologia non viene prodotta da un’entità unica - un pen­ satore, una setta, un partito -, ma nasce dalla convergenza di concetti, valori e principi elaborati, spesso indipendentemente l’uno dall’altro, da più individui o gruppi di individui, in tempi, luoghi e circostanze differenti. Una volta emersa da questo sforzo collettivo, l’ideologia viene adottata e utilizzata da un numero ancora più ampio e diversificato di soggetti, in paesi spesso molto dissimili per bisogni e tradizioni, lungo un arco di tempo considerevole durante il quale il contesto sto­ rico può trasformarsi anche radicalmente. Ciascuno di questi soggetti, individuali o collettivi, facciano essi parte del gruppo dei «creatori» o degli «utilizzatori» dell’ideologia, o di entrambi i gruppi, reinterpreta in qualche misura l’ideologia, la adatta alle proprie necessità, ne accetta alcuni elementi ma non altri, attribuisce ad alcuni termini significati leggermente o anche ampiamente differenti rispetto a quelli tradizionali. Alla fine di questo processo avremo innumerevoli versioni, ad esempio, del liberalismo: una caratteristica dell’Italia post-unitaria, una della Gran Bretagna di metà Ottocento, una ancora della Gran Bretagna, ma elaborata e diffusa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, una tedesca, una americana, una sostenuta e descritta da Friedrich A. von Hayek, una da Léonard T. Hobhouse, una da Benedetto Croce, e così via. La situazione viene ulteriormente complicata dall’essere le ideologie anche un terreno di scontro politico. In altre parole, spesso la medesima ideologia viene reclamata, in un unico paese e contemporaneamente, da due o più parti politiche, che ne danno interpretazioni differenti e si scontrano sul terreno politico-culturale per accreditare ciascuna la propria versione. Ci potranno così essere partiti e rag­ gruppamenti che si affrontano sostenendo ciascuno di essere il vero socialista o il vero conservatore. Far prevalere la propria concezione del vero socialismo o del vero conservatorismo diviene in questo caso un obiettivo della lotta politica. Le ideologie, infine, si stendono su più di un piano disciplinare: derivano da un’elaborazione teorica, e fanno quindi parte del regno della filosofia; ispirano la costruzione di istituzioni, e possono pertanto essere studiate dai giuristi; si incar­ nano in personaggi e movimenti concreti, e sono dunque analizzate dagli storici. Questa loro interdisciplinarità fa sì che esse possano essere affrontate con approcci e strumenti diversi - e mutare approcci e strumenti significa, in questo come in molti altri casi, ottenere anche risultati differenti, spesso molto differenti. Studiare filosoficamente il conservatorismo significherà definire sul piano astratto e teorico che cosa sia il conservatorismo, quali i suoi elementi essenziali, quali le sue caratte­ ristiche, per poi magari andare a verificare, sulla base di questa definizione, quali personaggi o partiti concreti siano stati veramente conservatori. Studiare storica­ mente il conservatorismo implicherà invece ricercare quali individui e movimenti politici nella storia abbiano scelto di chiamarsi conservatori, per poi eventualmente giungere a una definizione di conservatorismo che derivi dall’analisi congiunta di tutti i casi concreti esaminati. Punti di partenza evidentemente diversi, che non potranno non condurre a conclusioni altrettanto diverse. Tanto gli elementi di base, i concetti fondamentali, con i quali sono costruite le ideologie, quanto gli interrogativi ai quali esse devono trovare risposta sono sostan­ zialmente gli stessi per tutte le ideologie. Ciascuna ideologia, ad esempio, conterrà indicazioni sulla natura dell’uomo, su chi sia legittimamente intitolato a detenere il potere politico, sulla maniera nella quale affrontare la questione della proprietà pri­ vata, sul modo per risolvere il dilemma autorità/libertà, sul problema della giustizia.

E tutte le ideologie forniranno queste indicazioni attingendo al medesimo insieme di concetti: razionalità, uguaglianza, felicità, potere, individuo, progresso, ecc. Se i problemi da risolvere e gli strumenti concettuali sono gli stessi per tutte le ideolo­ gie, quello che cambia, da ideologia a ideologia, è evidentemente la maniera nella quale i problemi sono risolti, ossia la maniera nella quale i concetti sono utilizzati, ordinati, interpretati. Un’analogia, proposta dallo studioso Michael Freeden, può essere d’aiuto. L’ideologia è come una stanza ammobiliata. Qualsiasi stanza si debba ammobiliare, i problemi che si presentano sono sempre gli stessi: è necessario che essa sia illuminata, che contenga mobili sui quali sedersi, sui quali poggiare oggetti, all’interno dei quali riporre oggetti, che sia esteticamente soddisfacente, che sia funzionale, ecc. Gli strumenti a nostra disposizione per risolvere questi problemi sono anch’essi sempre gli stessi: tavoli, sedie, poltrone, divani, lampade, armadi, tappeti, quadri, ecc. Quello che cambierà, allora, da una stanza all’altra, è la diversa maniera in cui risolviamo i soliti problemi, ovvero la diversa maniera in cui dispo­ niamo i soliti mobili nello spazio che dobbiamo riempire. La stanza socialista e la stanza liberale dovranno entrambe rispondere alle questioni sollevate dal rapporto individuo/collettività, e lo dovranno entrambe fare con i mobili della libertà, del­ l’uguaglianza, della giustizia, dell’autorità; soltanto, nelle due stanze i mobili saranno disposti diversamente: quale in primo piano, quale in secondo, quale in piena luce, quale in penombra, ecc. Diversamente che per gli architetti, però, per chi esamina le ideologie i proble­ mi vengono ulteriormente complicati dal fatto che i singoli concetti, i mobili, non possono essere descritti e definiti in maniera univoca e conclusiva. Il concetto di libertà, in altre parole, è ben più elusivo del concetto di poltrona. Ciascuna ideo­ logia, infatti, ridefinisce i concetti che utilizza: la stessa parola, libertà, acquista un senso diverso a seconda che venga pronunciata da un liberale o da un socialista. E il contesto all’interno del quale quella parola viene pronunciata, gli altri con­ cetti che la precedono e la seguono, che ci aiuta a comprendere quale sia il suo vero significato. Accanto a «libertà» il socialista dirà «giustizia», «uguaglianza», «collettività», mentre il liberale dirà «concorrenza», «individuo», «mercato». Nei due diversi contesti, la medesima parola assumerà immediatamente due significati differenti. Per recuperare la metafora architettonica, potremmo dire che lo stesso divano sarà, ad esempio, in stile «impero» in un salotto conservatore, in stile mo­ derno in un salotto socialista. Il compito di chi intende studiare le ideologie è reso ancor più difficile dal fatto che le diverse ideologie non si escludono Luna con l’altra, ma spesso si intersecano e sovrappongono. Utilizzando esse, come si è detto, tutte lo stesso apparato con­ cettuale al fine di rispondere sostanzialmente agli stessi interrogativi, può accadere che alcune parti di un sistema ideologico siano disposte in maniera simile o anche identica rispetto alle parti di un altro sistema. La varietà delle interpretazioni alle quali un’ideologia è sottoposta, nei diversi tempi e luoghi, rende inoltre proba­ bile e frequente la nascita di forme ideologiche ibride: liberalismo conservatore, liberalsocialismo, conservatorismo sociale, ecc. I confini che delimitano le ideo­ logie, in altre parole, non devono essere considerati rigidi e immutabili, ma fluidi e mutevoli, tali da agevolare intersezioni e sovrapposizioni, da far nascere aree concettuali comuni, da rendere impossibile tirare fra questa e quella ideologia una linea diritta e netta e attribuire con certezza, in via definitiva, all’una o all’altra le zone di confine.

3.

Alcune questioni fondamentali: mutamento, stato, società, individuo

Prima di passare a un esame più puntuale delle diverse aree ideologiche, rite­ niamo possa essere utile considerare alcuni dei problemi - o meglio, degli ordini di problemi - che tutte le ideologie si trovano a dover risolvere. L’analisi svolta in questo paragrafo non esaurisce affatto l’insieme delle questioni affrontate dalle ideologie; deve essere quindi considerata semplicemente come una specie di mappa, alquanto rozza, finalizzata ad agevolare la comprensione del panorama ideologico otto-novecentesco che sarà presentato di seguito. Si tenga inoltre presente che i quattro ordini di problemi qui esaminati spesso si intersecano e sovrappongono l’uno con l’altro. 3.1. Il problema del mutamento

L’ideologia deve affrontare la questione del rapporto fra realtà storica e azio­ ne umana. L’ideologia può considerare positivamente le circostanze politiche, economiche e sociali all’interno delle quali viene elaborata, ritenendo che esse debbano essere conservate e salvaguardate perché rappresentano il prodotto or­ mai collaudato di una lunga evoluzione storica, ossia perché i secoli che le hanno precedute e create forniscono loro significato e legittimità. Oppure, adottando una posizione diversa da quella appena presentata, ma affine a essa, l’ideologia può ritenere che tali circostanze, indipendentemente dal loro essere positive o negative, non possano essere cambiate, perché l’uomo non ha il potere di trasformare in misura significativa l’ambiente all’interno del quale si muove. Alternativamente, l’ideologia può invece ritenere che la realtà possa e debba essere trasformata dall’uomo, ovvero che l’uomo debba elaborare un disegno razionale del mondo nel quale vorrebbe vivere, debba darsi da fare per adeguare il mondo reale a quello desiderato, e possa con quest’attività ottenere dei risultati positivi. Quest’ultima posizione si divide ulteriormente in opzioni diverse a seconda del ritmo che l’ideo­ logia vuole imporre al mutamento: l’uomo può infatti cercare di trasformare il proprio mondo in maniera riformistica - lenta, cauta e graduale - oppure rivo­ luzionaria - violenta, immediata, radicale. Infine, l’ideologia può ritenere che il «mondo perfetto» sia già esistito in un più o meno remoto momento storico, e sia stato corrotto e peggiorato da eventi successivi; in questo caso, l’ideologia intende reagire all’evento corruttore, così da tornare alla situazione positiva che era stata raggiunta nel passato. Le soluzioni ideologiche al problema del mutamento, così com’è stato appena presentato, possono applicarsi separatamente ai diversi campi dell’attività umana politico, sociale, economico, culturale. Un’ideologia, insomma, potrebbe puntare alla trasformazione del contesto politico, intendendo però conservare immutato il contesto sociale ed economico, o viceversa. Bisogna infine rilevare l’esistenza di una ricca e influente tradizione filosofica definibile in senso lato evoluzionista, o storicista, che punta a riconciliare la storia con la razionalità. Secondo questa tradi­ zione - all’interno della quale rientrano filoni di pensiero diversi quali l’hegelismo, il marxismo, il positivismo - lo sviluppo storico segue un percorso rigidamente stabilito e necessario che l’uomo non ha alcun potere di deviare o influenzare. L’esito finale di tale percorso, però, sarà positivo: il mondo reale, seguendo le leggi

ferree dell’evoluzione, giungerà da solo, spontaneamente, a coincidere con il mondo razionalmente disegnato e desiderato dall’uomo. 3.2. Dalla società allo stato

L’ideologia deve indicare quale sia il soggetto, individuale o collettivo, le­ gittimato a detenere il potere politico, ovvero deve rispondere al quesito: a chi spetta governare? Sulla base di quanto esposto al paragrafo 3.1, la risposta a tale interrogativo può essere di natura tradizionale, appoggiarsi cioè all’autorità della storia, oppure fondarsi su criteri non storici di giustizia, opportunità, razionalità o rappresentatività. Nel primo caso si sancirà il dominio di chi «da sempre» ha detenuto il potere politico: di norma un sovrano ritenuto legittimo in quanto deriva il proprio potere da Dio oppure un gruppo aristocratico fortemente radicato nelle comunità locali. Il secondo caso può invece condurre a molteplici risposte diverse. L’ideologia può infatti ritenere che tutti gli individui, maschi o di entrambi i sessi, purché giunti all’età della ragione, siano intitolati a detenere il potere politico nel nome dell’universale diritto dell’uomo all’autogoverno. Oppure può sostenere che a governare debba essere un unico individuo che, per le proprie capacità personali, sia in grado di rappresentare misticamente l’intera collettività nazionale o popolare. Oppure ancora può cercare di identificare quale sia la categoria sociale più adatta a detenere e gestire il potere politico, quella cioè capace di promuovere il mag­ gior benessere possibile per l’intero corpo sociale. Questo secondo interrogativo può suscitare, e ha storicamente suscitato, numerose risposte: c’è chi ha ritenuto che il gruppo sociale più adatto a governare fosse la burocrazia (Georg Friedrich Hegel), chi invece gli individui in possesso di determinati requisiti di proprietà (il costituzionalismo liberale moderato), chi gli individui con un grado minimo di istruzione (il costituzionalismo liberale progressista), chi il proletariato (Karl Marx) o le avanguardie del proletariato (Lenin), ecc. 3.3. Dallo stato alla società

L’ideologia deve affrontare il problema del rapporto fra stato e società, ovvero di quanto il primo possa e debba intervenire sulla seconda, regolandola, modifican­ dola, indirizzandola, o anche sostituendosi a essa. A un’estremità del continuum che contiene le possibili soluzioni a questo problema c’è chi ritiene che la realtà sociale ed economica sia comunque portatrice di valori positivi e che debba dunque essere lasciata evolvere secondo le proprie dinamiche e i propri ritmi: si va da posizioni anarchiche, ossia di rifiuto totale dello stato, a posizioni liberali di tipo libertario, ovvero di massima possibile limitazione dello stato. All’estremità opposta c’è invece chi ritiene che la realtà sociale ed economica sia intrinsecamente e irrimediabilmen­ te frammentata, contraddittoria, sbagliata e corrotta, e che le istituzioni pubbliche debbano pertanto intervenire pesantemente su di essa fino a riassorbirla all’interno dello stato, annullandola completamente: sono le posizioni totalitarie. Fra queste due estremità si colloca un’ampia gamma di soluzioni intermedie, da quelle liberali non libertarie - che ammettono in parecchi casi la legittimità dell’azione statale, in un contesto però di sostanziale valorizzazione dell’autonomia sociale - a quelle

socialdemocratiche o cristiano-sociali - che promuovono la massiccia ingerenza del potere pubblico, ma salvaguardando alcuni capisaldi dell’indipendenza della società civile. Le ideologie che ammettono, o caldeggiano, una dose consistente di intervento dello stato nella società possono poi indirizzare tale intervento verso il conseguimento degli scopi più diversi: l’uguaglianza fra i cittadini, la coesione socia­ le, l’ordine pubblico, la libertà individuale, ecc. La questione che abbiamo appena presentato, infine, si sovrappone con quella esposta al paragrafo 3.1: l’intervento dello stato è infatti finalizzato alla trasformazione della realtà economica e sociale secondo un progetto razionale che indica come essa dovrebbe essere. 3.4. Individuo e collettività

L’ideologia può ritenere che l’entità fondamentale della vita sociale e politica, i cui bisogni e interessi devono prima di tutto essere considerati, sia il singolo in­ dividuo. Oppure può ritenere che debba essere privilegiato il gruppo di individui, e che questo o quel singolo possa anche essere sacrificato quando tale sacrificio appaia utile al benessere collettivo. Se assume questa seconda posizione, l’ideo­ logia si trova a dover decidere quale sia il gruppo da valorizzare e privilegiare: la famiglia, la comunità locale, la classe sociale, la comunità dei credenti, la nazione, ecc. Spesso si ritiene che questo problema coincida con quello presentato al para­ grafo 3.3: i sostenitori delle ragioni dell’individuo sarebbero contrari all’intervento dello stato nella vita sociale ed economica; i sostenitori delle ragioni del gruppo sarebbero invece favorevoli a esso. Benché in molti casi quel che si è appena detto risulti vero, questa corrispondenza non si verifica però sempre. E possibile che un individualista sostenga la necessità dell’intervento statale quando ritiene che questa intromissione serva a liberare l’individuo da vincoli sociali o economici; è possibile che un sostenitore della centralità, ad esempio, della famiglia o delle comunità locali sia contrario all’intervento dello stato, quando esso sembri mettere in pericolo gli interessi di queste collettività. 4.

Il reazionarismo dall’Antico regime alla società di massa

L’ideologia reazionaria - come del resto è suggerito dalla parola stessa - in­ tende reagire a un evento o serie di eventi che giudica negativamente. Punta ad annullarne, o almeno minimizzarne, le conseguenze, in maniera da ripristinare una condizione il più possibile simile a quella che esisteva prima del mutamento. Per il reazionarismo ottocentesco l’evento «corruttore» è rappresentato dalla Rivolu­ zione francese del 1789. La rivoluzione è, se non l’unica, certamente la principale fra le sorgenti delle ideologie ottocentesche e novecentesche; sarebbe dunque estremamente complesso riassumere in poche righe l’enorme patrimonio di idee che essa ha generato. Trattando del reazionarismo è importante tenere presente soprattutto che la rivoluzione accredita e diffonde il principio —già descritto nel paragrafo 3.1 - secondo il quale è possibile, e doveroso, ricostruire tanto la politica quanto la società secondo un piano «giusto» e «razionale», senza tenere conto, o comunque tenendo scarsamente conto, tanto della tradizione storica quanto dei valori religiosi e trascendenti. L’assetto sociale e politico che le diverse ragioni prò­

dotte dalla Rivoluzione rifiutano e intendono riformare più o meno radicalmente è quello della Francia settecentesca - un assetto che, dopo il 1789, verrà chiamato Antico regime. E dunque a esso che guarda il reazionarismo ottocentesco, pur nella consapevolezza - espressa ad esempio dal filosofo antirivoluzionario Joseph de Maistre - che i risultati del 1789 non potranno mai essere cancellati del tutto, e che quindi ritornare compiutamente al passato non sarà comunque possibile. Gli antirivoluzionari negano che gli uomini abbiano il diritto di organizzare liberamente, secondo i dettami della ragione, la propria vita associata. Ritengono, al contrario, che l’assetto politico e sociale debba essere modellato sulla base di prin­ cipi che non sono stati inventati - e quindi non possono nemmeno essere respinti o modificati - dagli uomini, ma che derivano invece dall’ordine naturale delle cose, e quindi dalla divinità che tale ordine ha creato. La rivoluzione non appare dunque loro semplicemente come la sostituzione di un tipo di organizzazione sociale a un altro, ma come una ribellione sacrilega ai dettami eterni e giusti di Dio e della Natura. Vediamo quali sono, secondo i reazionari, questi dettami. Il potere politico spetta al re, che è tale non in virtù della propria forza o del consenso dei governati, ma per volontà divina. Non è dunque sufficiente che vi sia un monarca qualsiasi: è necessario che regni il sovrano legittimo, ovvero quello che, per appartenenza dinastica e secondo le leggi della successione, si ritiene sia destinato da Dio a oc­ cupare il trono. In virtù di questa sua origine trascendente il potere del monarca non deve essere condiviso con nessun’altra persona o istituzione, né può essere da alcuno limitato, controllato o sindacato. Il re, tuttavia, non è affatto onnipotente: nemmeno lui ha la facoltà di disattendere o modificare i principi dell’organizzazione sociale, che derivano anch’essi da Dio. Questi principi sono anti-individualistici: le strutture della società sono considerate più importanti della singola persona, che viene subordinata a esse. In secondo luogo tali strutture - la famiglia, la comunità locale, la chiesa - hanno una forma piramidale e sono gerarchiche; al loro interno l’autorità viene affidata interamente ai vertici delle piramidi - il padre nella famiglia, i nobili nella comunità locale, ecc. I singoli individui, infine, sono tenuti a conser­ vare la posizione sociale che è stata loro assegnata dalla nascita, non essendo loro data la facoltà di scegliere liberamente la propria professione né di guadagnare posizioni lungo la scala gerarchica. Come si è appena visto, il reazionarismo ottocentesco si appoggia fortemente sull’elemento divino e religioso, attribuendogli la funzione di legittimare l’intero sistema politico e sociale. Così facendo esso crea un legame naturale con la chiesa cattolica, legame ulteriormente irrobustito dalle marcate tendenze antireligiose e anticlericali che manifestò invece la Rivoluzione francese. Questa relazione non deve però essere considerata scontata e automatica. La riflessione politica cattolica, come vedremo anche più avanti, è articolata e pluralista, ricca di contrasti e di cor­ renti interne; non sono mancati numerosi e importanti pensatori cattolici che hanno cercato di riconciliare almeno alcuni dei principi del 1789 con il cristianesimo, e nel 1846 perfino il papa Pio IX avviò un processo di apertura nei confronti del liberalismo, conclusosi poi bruscamente col terremoto rivoluzionario del 1848. In generale, comunque, la chiesa si oppose con forza alla Rivoluzione francese e alle sue conseguenze pratiche e ideologiche. Basti in questa sede ricordare il Sillabo, un documento di condanna della riflessione filosofica e politica ottocentesca annesso all’enciclica Quanta cura promulgata da Pio IX nel 1864. E stato soltanto nel XX secolo che la chiesa è giunta ad accettare pienamente alcuni dei principi ideolo­

gici creati o diffusi dalla Rivoluzione francese, quali il liberalismo e la democrazia. Fondamentali da questo punto di vista sono stati i radiomessaggi diffusi da papa Pio XII durante il secondo conflitto mondiale. L’immagine dell’Antico regime che abbiamo presentato, alla quale il reazio­ narismo ottocentesco si ispira, corrisponde soltanto in parte a quel che l’Antico regime fu davvero. In LAntico regime e la rivoluzione, pubblicato nel 1856, Alexis de Tocqueville affermava che vi erano forti elementi di continuità tra la Francia antecedente e quella successiva al 1789, sostenendo in particolare che già sotto l’Antico regime era iniziato un processo di dissoluzione delle strutture sociali dal quale era emerso in primo piano, nella sua solitudine, il singolo individuo. L’i­ deologia insomma, in questo come in numerosissimi altri casi, non mostra alcun interesse per la ricostruzione spassionata e fedele del passato, ma considera i dati storici come semplici strumenti, che essa deve utilizzare per acquistare maggiore forza e legittimità e che, a questo fine, possono anche essere deformati. Il comune riferimento a\VAncien Régime e all’elemento religioso rende il rea­ zionarismo un fenomeno presente con caratteristiche piuttosto simili in tutti i paesi europei. All’interno di questo panorama la Gran Bretagna rappresenta però un’eccezione, essendo qui il filone ideologico reazionario invece sostanzialmente assente. Lungo quasi tutto il 1600 e nella parte iniziale del 1700 l’Inghilterra visse circostanze di estrema instabilità politica, culminate nella Grande rivoluzione dei decenni 1640 e 1650 e nella Gloriosa rivoluzione del 1688. Da questi cento anni di sconvolgimento emerse un sistema politico che già garantiva ai sudditi consistenti diritti di libertà, già si era sbarazzato del principio dell’origine divina dei sovrani e già prevedeva che il potere regio fosse sottoposto al controllo di un’assemblea elettiva. Il sistema politico-istituzionale della Gran Bretagna settecentesca, in altre parole, non aveva le caratteristiche dell’Antico regime, e conteneva in sé i germi di una possibile evoluzione verso un assetto costituzionale pienamente moderno. L’opposizione inglese alla Rivoluzione francese del 1789 - un nome per tutti, Edmund Burke - fece forza su questa tradizione politica, e non può dunque essere inserita nel filone reazionario, appartenendo piuttosto al conservatorismo e per certi aspetti al liberalismo. Il reazionarismo ottocentesco perse la battaglia per la ricostruzione, completa o quasi completa, dell’Antico regime. Già nel 1815 il Congresso di Vienna, cercando di restaurare l’ordine europeo sconvolto dalla Rivoluzione e dalle guerre napoleo­ niche, si rese conto che troppo era ormai mutato perché si potesse ritornare all’ori­ gine come se nulla fosse accaduto. Il XVIII secolo lasciò tuttavia in eredità al XIX numerosi elementi politici, istituzionali e sociali di considerevole importanza: dalla monarchia alla nobiltà, dall’esercito alla burocrazia. Fu proprio su questi elementi che il reazionarismo potè fare forza nella sua opposizione radicale e irrevocabile ai principi del 1789, principi che la storia politica dell’Ottocento europeo andava invece, almeno in parte, realizzando gradualmente. Pur risultando infine sconfitto, insomma, esso riuscì a influenzare in misura considerevole il ritmo e la profondità del processo di modernizzazione politica. È convivendo con questo processo, e prendendo atto dell’ineluttabilità di alcune delle sue conseguenze, che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX il reazionarismo acquista caratteristiche nuove e diverse. Esso continua sia a respin­ gere senza compromessi la Rivoluzione francese e i principi del 1789, sia - almeno nel contesto francese, dove la «mutazione» del pensiero reazionario ha inizio - a

richiamarsi con convinzione ai valori del cattolicesimo. Rimane pertanto avverso al liberalismo, alla democrazia e al socialismo, nella convinzione che i rapporti gerarchici vadano salvaguardati e rafforzati e che l’ordine sociale debba avere la precedenza sul singolo individuo. Questo impianto «tradizionale» appare però sempre meno adatto a un contesto politico che ha ormai conosciuto l’avvento della dimensione di massa. Nell’arena politica non si muovono più solamente le oligarchie dirigenti, o le fasce sociali più significative per censo e istruzione, ma l’intera popolazione; è dunque necessario, per il reazionarismo così come per le altre famiglie ideologiche, utilizzare strumenti nuovi che rendano possibile rivolgersi a un nuovo pubblico, molto più vasto di quello antico, sollecitandolo, convincendolo e mobilitandolo. Lo strumento che l’ideologia reazionaria - così come del resto quella conservatrice e, in misura minore, quella liberale - sceglie al fine di ampliare la portata del proprio appello e raggiungere i nuovi soggetti politici è la nazione. I nuovi reazionari puntano dunque sui sentimenti di apparte­ nenza alla comunità nazionale e di contrapposizione rispetto alle altre nazionalità, inglobandoli nel proprio patrimonio ideologico e utilizzandoli come veicoli per la diffusione e l’irrobustimento di quel patrimonio in un contesto politico di massa. In alcuni paesi, soprattutto la Francia e la Germania, i sentimenti di appartenenza nazionale (o razziale) vengono anche rafforzati dall’antisemitismo, il quale pro­ muove l’avversione nei confronti di quelli - gli ebrei, appunto - che della nazione (o della razza) si ritiene non facciano parte. La profonda trasformazione dell’impianto ideologico reazionario indotta dall’ac­ cettazione della dimensione politica di massa e dall’acquisizione dei valori nazionali­ stici diviene particolarmente rilevante e visibile in Italia con il fascismo e in Germania con il nazismo, pur nella diversità dei due casi. Nazismo e fascismo conservano l’av­ versione radicale nei confronti del liberalismo, della democrazia, dell’uguaglianza, e continuano a ritenere che la società debba essere ordinata e gerarchica e gli indi­ vidui subordinati alla collettività: si contrappongono insomma ai principi del 1789 (anche se non bisogna dimenticare che pure l’idea di nazione era stata rilanciata, se non creata, proprio dalla Rivoluzione francese). Il processo di modernizzazione ha tuttavia trasformato in maniera tale il contesto politico da rendere impossibile un ritorno all’Antico regime, e quindi irrilevante qualsiasi riferimento a esso. Tanto più in due nazioni come l’Italia e la Germania, che soltanto grazie alla crisi dell’Antico regime e contro i principi di legittimità che lo avevano caratterizzato si erano potute unificare in uno stato. Nazismo e fascismo abbandonano dunque completamente il principio monarchico, e ancor di più la teoria del diritto divino, e affidano il potere politico a un unico individuo - duce in Italia, Fùhrer in Germania -, scelto in virtù della sua abilità personale e della capacità di rappresentare la volontà dell’intera comunità nazionale, mantenendosi con essa in un contatto quasi mistico. In secondo luogo rinunciano a qualsiasi riferimento trascendente, recidendo così le radici che il reazionarismo aveva nel cattolicesimo: per quanto complessi siano i rapporti che fascismo e nazismo, in quanto regimi storici, hanno con le istituzioni ecclesiastiche, e con la chiesa cattolica in particolare, nei loro profili ideologici essi sono anticristiani quando non atei, e puntano a creare proprie «religioni» e propri riti immanenti in sostituzione delle religioni tradizionali. Negandone l’origine divina, fascismo e nazismo lasciano infine l’assetto sociale completamente in balìa del potere politico, attribuendogli il diritto di inglobare l’intera società al proprio interno e di guidarla e trasformarla secondo i propri desideri.

In tutti questi suoi elementi il reazionarismo novecentesco smarrisce almeno in parte il riferimento al passato e alla tradizione che aveva invece caratterizzato in maniera forte il reazionarismo ottocentesco: i principi ideologici in base ai quali fascismo e nazismo intendono ricostruire l’ordine politico e sociale sono nuovi, originali, e i due movimenti - il primo più ancora del secondo - guardano più in avanti che all’indietro. In questa maniera essi finiscono per recuperare dal 1789 l’idea rivoluzionaria, ovvero il principio secondo il quale la realtà può essere radicalmente trasformata utilizzando strumenti politici - principio che forse più di tutti gli altri il reazionarismo ottocentesco aveva invece rifiutato. E in questo elemento rivoluzionario, nella pretesa di riassorbire tutta la vita sociale e culturale all’interno delle strutture politiche, che i teorici del totalitarismo hanno ritrovato forti elementi di somiglianza fra il reazionarismo moderno di fascismo e nazismo - nato in opposizione ai principi del 1789 - e il rivoluzionarismo moderno del comuniSmo - nato invece per dare a quei principi completo e radicale sviluppo. 5.

Il conservatorismo

Fra tutti i filoni ideologici, il conservatorismo è forse il più complesso e diffe­ renziato, quello che ha mostrato il maggior numero di varianti da tempo a tempo e da luogo a luogo. Il reazionarismo - e altrettanto, come vedremo, liberalismo e socialismo - ha avuto lungo tutto il XIX e, in parte, il XX secolo dei punti di rife­ rimento più o meno stabili e condivisi nei diversi paesi: da un lato l’Antico regime e dall’altro, a contrario, la Rivoluzione del 1789. Non così il conservatorismo, che si è modificato in misura considerevole in dipendenza dall’evoluzione storica e che, soprattutto nei suoi elementi politici, si è appoggiato pesantemente alle diverse tra­ dizioni nazionali, mostrandosi così con caratteristiche anche notevolmente diverse da un luogo all’altro. A motivo di ciò, c’è chi ha sostenuto che il conservatorismo non debba essere considerato un’ideologia vera e propria, quanto piuttosto uno «stato d’animo». Questa conclusione si fonda sulla convinzione che l’ideologia sia un blocco compiuto e coerente, definibile una volta per tutte e rigidamente distinguibile dalle ideologie concorrenti. Come abbiamo visto nei primi paragrafi, però, un’ideologia è in realtà un sistema concettuale alquanto vago e mutevole, non necessariamente coerente né sempre uguale a sé stesso. Assumendo il termine «ideologia» in questa seconda accezione, anche il conservatorismo può allora essere considerato senz’altro un’ideologia. Il conservatore - simile in questo al reazionario - affronta con notevole diffi­ denza, quando non aperta ostilità, il razionalismo rivoluzionario emerso nel 1789. Ritiene infatti che l’uomo non abbia il potere di ricostruire a proprio piacimento la realtà sociale, economica e politica che lo circonda, poiché a suo avviso essa si fonda su principi non modificabili, deducibili dalla religione, dalla natura umana o dalla storia, oppure da tutte e tre allo stesso tempo. Diversamente dal reazio­ narismo, tuttavia, il conservatorismo non ha in mente un mondo completamente immobile, sempre uguale a sé stesso, né, in epoca post-rivoluzionaria, vagheggia il ritorno all’Antico regime. Al contrario, è disposto a entrare in un rapporto dialettico con quanti chiedono la trasformazione anche radicale dell’esistente - potremmo chiamarli genericamente «progressisti» -, a cedere ad alcune loro richieste, purché però le riforme non indeboliscano eccessivamente i principi fondamentali ai quali

esso si ispira e che ritiene irrinunciabili. «L’idea di tradizione» - scrive il filosofo Edmund Burke nel 1790, riflettendo sulla Rivoluzione francese - «mette a nostra disposizione un solido principio di conservazione, e un solido principio di trasmis­ sione; senza però escludere affatto un principio di progresso. Consente il progresso; ma rende sicuro quel che acquisisce». Il conservatorismo, in conclusione, è diverso dal reazionarismo perché non rifiuta il mutamento, ma accetta di interagire con esso, pure se intende rallentarlo e limitarne i «danni». Quali sono dunque, schematicamente, i valori essenziali che un conservatore, pur nell’evoluzione storica, intende salvaguardare? In primo luogo la struttura ge­ rarchica della società. Il conservatorismo è antiegualitario, ritiene che le differenze fra gli uomini non possano né debbano in alcun modo essere eliminate e che chi sta «in alto» abbia il dovere - e di conseguenza la responsabilità - di guidare chi sta «in basso» e, di conseguenza, il diritto di essere obbedito. In secondo luogo l’ordine e la coesione sociale. La piramide gerarchica non deve essere contestata né messa in pericolo e i diversi strati che la compongono non devono mettersi in contrapposizione l’uno con l’altro, ma mantenere un atteggiamento solidale di coo­ perazione. La salvaguardia dell’ordine è affidata anche al potere pubblico, che deve pertanto essere forte, autorevole e rispettato. Poi la famiglia, considerata una delle dimensioni naturali del vivere e dell’agire umano. In quarto luogo il riferimento alla trascendenza, la religione, che quasi sempre il conservatore intende tutelare tanto in sé stessa quanto nella sua espressione organizzata, la chiesa. Infine la proprietà privata, che rappresenta fra l’altro uno degli elementi in base ai quali è costruita la piramide sociale. La maniera in cui i conservatori affrontano quest’ultima questione, la proprie­ tà privata, ha tuttavia bisogno di essere ulteriormente sviluppata e precisata. Di norma il conservatorismo non è individualistico. Questo significa - come si è già spiegato - che esso ritiene la salvaguardia del gruppo più importante della tutela del singolo. Inizialmente, la dimensione del «gruppo» per il conservatore è rap­ presentata sostanzialmente dalla comunità locale: un nucleo piuttosto ristretto di persone, collocate su un territorio di estensione ridotta, che conducono vite forte­ mente interdipendenti le une dalle altre e condividono valori e interessi. Verso gli ultimi decenni dell’Ottocento - come vedremo meglio fra breve - la prospettiva si allarga, e pur mantenendo comunque l’attenzione concentrata più sui molti che sul singolo il conservatore comincia ad attribuire maggiore importanza alla dimensione nazionale piuttosto che a quella comunitaria. L’ottica collettivistica, sia essa di tipo comunitario o di tipo nazionale, conduce comunque l’ideologia conservatrice a porre dei limiti al completo affermarsi del principio della proprietà privata. Tale principio deve essere salvaguardato, poiché rappresenta una pietra fondante dell’or­ dine sociale, ma la piena disponibilità che il proprietario ha dei propri beni, e il libero utilizzo che può farne, non devono arrivare al punto di mettere in pericolo gli interessi, o peggio ancora l’esistenza, della collettività. Conseguentemente il conservatorismo ritiene che alla proprietà siano legate anche delle responsabilità, ovvero che gli strati privilegiati del corpo sociale debbano in qualche modo conside­ rare e almeno in parte soddisfare le necessità dei gruppi meno fortunati. E, in altre parole, un’ottica di tipo paternalistico: come il padre detiene il potere all’interno della famiglia, ma ha anche il dovere di garantirne il benessere, allo stesso modo i gruppi dirigenti devono comportarsi nei confronti dell’intera collettività. Anche perché così facendo essi potranno dar vita a una collettività soddisfatta, che accet­

terà di buon grado la struttura sociale tradizionale e le sue gerarchie e garantirà la sopravvivenza dei valori fondamentali che il conservatorismo vuole difendere. Nella dimensione comunitaria lo svolgimento della funzione sociale della proprietà è garantito soprattutto dai meccanismi interni, tradizionali e spontanei, della comunità. Con l’insorgere negli ultimi decenni dell’Ottocento della questio­ ne sociale e con l’affermarsi del principio nazionale, i conservatori cominciano ad accorgersi che per soddisfare le richieste materiali delle classi inferiori il ceto dirigente può utilizzare anche l’apparato statale. Nasce così un filone di pensiero conservatore - il cosiddetto «socialismo della cattedra», importante soprattutto in Germania - che teorizza l’intervento del potere pubblico al fine di tutelare il benessere dei meno abbienti, con sussidi di disoccupazione, assicurazioni contro la malattia e gli infortuni, pensioni di anzianità. Le teorie trovano in Germania anche una traduzione pratica, e negli ultimi decenni dell’Ottocento Bismarck crea un primo embrione di stato sociale. Questo filone ideologico - che potremmo definire di «conservatorismo sociale» non si spegne durante il Novecento, ma acquista anzi un impulso ulteriore. Da un lato - soprattutto in Italia e Germania - il conservatorismo si identifica sempre di più con i partiti di ispirazione cattolica, e assorbe attraverso di essi le propensioni sociali che il cattolicesimo politico ha acquistato in forma sempre più marcata fin dalla pubblicazione, nel 1892, dell’enciclica Rerum novarum. Non è un caso che lo stato sociale creato in Germania e in Italia dopo la Seconda guerra mondiale sia in realtà molto più democratico cristiano che socialista o socialdemocratico. Dall’altro lato il conservatorismo si rimodella sulla base dello «spirito» dell’epoca, e questo spirito, dopo il 1945, mostra un ampio consenso intorno all’idea che il potere pubblico debba tutelare i meno abbienti e redistribuire la ricchezza. E necessario, tuttavia, ricordare che dagli anni Settanta questo consenso cessa di esistere, e acquista invece sempre maggior peso, soprattutto negli Stati Uniti con Ronald Reagan e in Gran Bretagna con Margaret Thatcher, un filone di conserva­ torismo individualistico e liberale che avversa recisamente l’intervento pubblico nell’economia e punta a ridurre il peso e il costo degli apparati statali. Nel mondo anglosassone, del resto, rispetto al continente, l’ibridazione fra conservatorismo e liberalismo è favorita dalla presenza di una tradizione politica nella quale i valori liberali occupano una posizione preminente - come vedremo meglio nel prossimo paragrafo. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, come si è già accennato, il conservatorismo non rimane affatto insensibile all’affermarsi del principio nazionale. Questa evo­ luzione può essere considerata soprattutto da tre diversi punti di vista. Gli ultimi trent’anni del XIX secolo e i primi tre lustri del XX costituiscono quella che gli storici hanno battezzato l’«età dell’imperialismo». Con tale espressione si intende segnalare fra l’altro l’affermarsi nei paesi europei di un modello più aggressivo di gestione delle relazioni internazionali, nei confronti tanto degli altri paesi europei quanto dei territori extraeuropei. All’interno del continente si assiste al formarsi di un equilibrio incerto, indebolito da sospetti e diffidenze reciproche, fra paesi sempre più pesantemente armati - equilibrio che esploderà infine nel 1914, dan­ do origine alla Prima guerra mondiale. Al di fuori del continente i paesi europei cercano, invece, in competizione l’uno con l’altro, di allargare e consolidare i propri possedimenti coloniali. In genere all’interno di ciascun paese sono le forze politiche conservatrici quelle che con maggiore convinzione sposano questo nuo­

vo modello di relazioni internazionali, sostenendo la necessità, da un lato, che gli interessi nazionali siano salvaguardati in maniera convinta e decisa, dall’altro che i territori coloniali vengano difesi e ampliati. Oltre che in politica estera, i conser­ vatori utilizzano il principio nazionale anche in politica interna. L’idea di nazione infatti, ponendo l’accento sugli elementi comuni a tutti i membri di una comunità politica, indigenti o benestanti, nobili, borghesi o proletari, aiuta a riunificare e compattare quella comunità, aumentandone la solidarietà interna e facendo sì che singoli e gruppi sociali ne accettino la struttura gerarchica consolidata. Richiaman­ do l’attenzione sulla competizione fra le nazioni, insomma, i conservatori cercano di cancellare l’idea che vi possa essere una competizione fra le classi - idea che proprio in quegli anni, come si vedrà, stavano diffondendo le forze politiche socialiste - e di salvaguardare così i propri valori sociali. Infine, come abbiamo già visto per il reazionarismo, l’idea di nazione viene utilizzata dai conservatori per affrontare la sfida posta dall’avvento delle masse sulla scena politica: uno strumento ideologico estremamente efficace per convincere e mobilitare quegli strati della popolazione, numericamente considerevoli, che in precedenza erano stati raramente raggiunti dalla politica, o non lo erano stati mai. In origine il conservatorismo è avverso ai principi della democrazia. Quei valori di stabilità e gerarchia che caldeggia sul piano sociale, li sostiene anche sul piano politico: il potere politico spetta agli strati superiori della società, quelli che da sempre lo detengono e sono abituati a utilizzarlo, ed è sbagliata e pericolosa l’idea che chiunque faccia parte di una comunità abbia il diritto di partecipare al governo di essa. «Per quanto riguarda quella parte di potere, autorità e potestà direttiva della quale ciascun individuo dovrebbe godere nella gestione dello stato», scrive ancora Edmund Burke nelle Riflessioni sulla rivoluzione francese, «io nego che questo godimento sia uno dei diritti primitivi e originari dell’uomo nella so­ cietà civile». I conservatori, di conseguenza, da un lato, come i reazionari, cercano di salvaguardare il ruolo delle istituzioni non democratiche ereditate dall’Antico regime - monarchia, camera alta, esercito, burocrazia -, facendo forza su di esse per difendere e far prevalere i propri principi, dall’altro puntano a limitare il più possibile il potere delle istituzioni rappresentative e a far sì che al loro interno siano comunque preponderanti gli strati superiori della gerarchia sociale. Quando tuttavia le istituzioni politiche di un paese hanno ormai compiuto un passo in avanti sulla strada della democrazia, ad esempio con un ampliamento del suffragio, i conservatori solitamente dimostrano di accettare il mutamento - salvo poi cercare di limitarne il più possibile gli effetti. Come abbiamo già accennato, il conservatorismo non è immobilista, né vagheggia il ritorno a un Antico regime nel quale le istituzioni rappresentative non abbiano alcun peso. Piuttosto, esso tenta di salvaguardare alcuni principi - in questo caso l’assunto secondo il quale non dovrebbero essere le masse a governare -, conservando però sempre un rap­ porto dialettico con il progressismo e accettando i risultati che esso riesce via via ad acquisire. Nel Tamworth Manifesto (1834), parlando della riforma elettorale inglese del 1832, il conservatore Robert Peel afferma: «ritengo che il Reform Bill sia la soluzione finale e irrevocabile di una grande questione costituzionale - una soluzione alla quale nessuno che abbia a cuore la pace e il benessere di questo paese cercherebbe di attentare, né direttamente, né per vie oblique». Per questi motivi, quando dopo il 1945 i valori della democrazia prevalgono definitivamente nel mondo occidentale, il conservatorismo finisce grosso modo per riappacificarsi

con essi. Diventa allora estremamente difficile stabilire chi sul piano costituzionale sia conservatore e chi progressista. Il discorso su come il conservatorismo affronta la questione dell’ordine politico­ istituzionale necessita di qualche specificazione ulteriore. E necessario, in primo luogo, distinguere fra la Gran Bretagna e il continente europeo. In Inghilterra essere conservatori sul piano istituzionale implicava non solamente il desiderio di salva­ guardare il potere delle strutture statali non rappresentative, ma, più in generale, la volontà di difendere un modello tradizionale di costituzione mista o equilibrata, nel quale coesistevano un potere monarchico (il sovrano), uno aristocratico (la camera dei Lord) e uno democratico (la camera dei Comuni). Questo modello si era sviluppato gradualmente, senza fratture traumatiche, fin dal tardo Seicento, e da allora non avrebbe più conosciuto rivoluzioni. Il continente europeo, invece, è attraversato fin dal tardo Settecento da numerosi rivolgimenti istituzionali, che non consentono ai conservatori dei diversi paesi di far riferimento a tradizioni conso­ lidate, tanto più che alcune di quelle cesure - e si pensi, per tutte, al processo di unificazione tedesca - sono state prodotte proprio da uomini e forze politiche che si rifanno all’ideologia conservatrice. In assenza di queste tradizioni, nell’Europa continentale i conservatori si limitano, come si è detto, a far forza su quello che è rimasto dei regimi precedenti ai rivolgimenti - ad esempio, in Italia e in Germania, la monarchia - e a cercare di impedire che il potere politico venga condiviso anche con gli strati inferiori della società. In secondo luogo, è necessario tenere presente che il desiderio dei conservatori di salvaguardare il potere delle classi dirigenti ha percorso talvolta delle strade imprevedibili. Per limitarci a un solo esempio, non sempre i conservatori sono stati contrari all’ampliamento del corpo elettorale. Il cancelliere Bismarck diede al neonato Impero tedesco una camera bassa eletta a suffragio universale maschile, e il conservatore italiano Sidney Sonnino era favo­ revole per l’Italia a una riforma che andasse nella medesima direzione. In questo caso i conservatori contavano sui meccanismi gerarchici presenti nella società ci­ vile, soprattutto nelle aree rurali, ossia speravano che gli elettori appartenenti alle classi inferiori votassero, per deferenza, secondo le indicazioni provenienti dai loro «superiori» sociali, rafforzandone così il potere politico. 6.

Il liberalismo

Elemento centrale dell’ideologia liberale è l’individualismo, ovvero la tutela dell’autonomia del singolo e la sua valorizzazione di fronte, se necessario contro, alle pretese degli organismi collettivi, qualsiasi essi siano. All’interno del percorso storico che ha condotto alla nascita e all’affermazione dei valori dell’individuo, ha avuto un’importanza particolare la profonda frattura nella coscienza europea determinata dalla riforma protestante. Lo smarrimento del riferimento comune alla chiesa cattolica e il sorgere di numerose diverse interpretazioni della religione cristiana hanno infatti posto in maniera pressante - anche se certamente non per la prima volta - il problema della convivenza e reciproca tolleranza di opinioni diffe­ renti, oltre che, in qualche misura, del diritto che ciascuna persona ha di scegliere liberamente fra di esse. Nel corso del Settecento, l’Illuminismo, sviluppando idee e principi emersi già nei secoli precedenti, ha contribuito, almeno in alcuni suoi filoni, a trovare per questo problema una soluzione individualistica, attribuendo

la massima importanza alla ragione del singolo, alla sua autonomia di giudizio e di azione. Il liberalismo, insomma, si fonda su una filosofia della conoscenza di tipo relativistico. Chi crede di aver raggiunto la verità assoluta può costringere gli altri a conformarsi a essa; se invece si ritiene che la verità assoluta non sia conoscibile, o quanto meno conoscibile oggettivamente, bisognerà permettere a ciascuno di cercare la propria verità personale e di adeguare a essa il proprio comportamento. «Individualismo», tuttavia, nell’ideologia liberale non può in alcun modo signifi­ care atomismo sociale - un mondo di monadi autosufficienti ed egocentriche -, né «relativismo» vuol dire incomunicabilità. Al contrario, il liberalismo è un’ideologia dell’interazione umana: parte dall’individuo proprio perché è convinto che, senza bisogno che li si costringa, gli individui siano capaci di collaborare spontaneamente e pacificamente in una forma ordinata. Ritiene che siano i singoli capaci di questo in quanto dotati di ragione, la quale, pur non portandoli mai a convergere su una verità unica, consente loro di dialogare gli uni con gli altri nella comune ricerca di una verità plurale e provvisoria. Il liberalismo, inoltre, crede fermamente che la spontanea e pacifica interazione umana sia non solo possibile, ma progressiva - anzi, che essa sia l’unica forma progressiva di organizzazione della convivenza umana. Progressiva a tutto tondo, ossia generatrice di livelli sempre crescenti di benessere materiale, innovazione scientifica, energie etiche e spirituali, pace universale. Il liberalismo, da questo punto di vista, può essere definito una «utopia per appros­ simazione»: non agisce in base a un piano razionale nel quale sia disegnato un mondo perfetto, né ritiene che sarà mai possibile raggiungere un mondo perfetto, ma ha fiducia nella perfettibilità, ossia in un processo di miglioramento graduale, costante e infinito. Questa convinzione che vi sia un legame necessario fra libertà individuale e progresso rende l’ideologia liberale tanto potente quanto fragile. Potente perché è capace di rispondere con forza a una domanda cruciale della modernità: come possa gestirsi un mutamento storico sempre più rapido, disordinato e ansiogeno. Fragile perché, nei frequenti momenti storici in cui la libertà individuale pare generare non progresso ma caos, il liberalismo viene a trovarsi in grandissima difficoltà. Tanto più che gli «individui liberali», ossia quelli capaci di cooperare pacificamente e progressivamente gli uni con gli altri, non si trovano «già pronti» in natura, ma sono essi stessi il prodotto di un processo storico. Là dove quel processo storico non sia iniziato spontaneamente - il che sostanzialmente significa: ovunque tranne che nel mondo anglosassone -, esso dovrà dunque essere sollecitato. Il successo del liberalismo dipenderà allora dall’awiarsi di un circolo virtuoso fatto di cresci­ ta individuale e progresso sociale. Un circolo virtuoso tanto fragile e complicato quanto facile a trasformarsi in un circolo vizioso e a degenerare in autoritarismo. La libertà delPindividuo, secondo il liberalismo, deve essere gelosamente difesa prima di tutto dalle possibili intrusioni del potere pubblico. Nel corso dei secoli il costituzionalismo liberale ha elaborato una serie di meccanismi, norme e istituzioni finalizzati a regolare e limitare l’attività dello stato, e di conseguenza a definire gli ambiti all’interno dei quali non è a esso consentito violare l’autonomia del cittadino. La suddivisione del potere statale fra più di un’istituzione - governo, parlamento, giudici -, la subordinazione di ogni atto pubblico alla legge, l’esplicita statuizione dei diritti di libertà dei cittadini - libertà di coscienza, di parola, di stampa, di associazione, inviolabilità della proprietà privata, ecc. -, la creazione di istituzioni giudiziarie speciali che costringano lo stato a rispettare queste regole - corti costi­

tuzionali - sono alcuni degli strumenti utilizzati dal costituzionalismo liberale al fine di difendere gli individui dalle possibili violenze del potere pubblico. Portate alle loro estreme conseguenze, la centralità dell’individuo e la conseguente avver­ sione per lo stato conducono a sostenere la completa o quasi completa scomparsa di qualsiasi forma di potere pubblico: si tratta di forme radicali di liberalismo, anarchiche, libertarian o anarco-capitaliste. Normalmente, però, i liberali ritengono che lo stato, per quanto limitato, debba esistere. Il potere pubblico, infatti, non è il solo nemico della libertà dell’individuo. Essa può essere violata anche dai centri del potere sociale - la famiglia, la chiesa, la comunità, la corporazione -, oppure dall’azione di altri individui. Lo stato avrà in questo caso il diritto e il dovere di intervenire, e il suo intervento non rappresenterà più un pericolo per la libertà individuale, ma servirà anzi a difenderla e ripristinarla. Uno degli ambiti fondamentali in cui la libertà dev’essere tutelata è quello dell’attività economica. Né la proprietà privata né la discrezionalità del proprieta­ rio possono essere contestate all’interno del panorama ideologico liberale - anche se, come vedremo, possono essere sottoposte ad alcune condizioni. Sul mercato si tende poi a lasciare al singolo larga autonomia: comprare, vendere, investire, assumere o farsi assumere, contrattare il prezzo o il salario, iniziare o terminare un’attività economica sono decisioni che spettano all’individuo. La libertà econo­ mica non viene difesa soltanto perché deriva dal più generale patrimonio dei valori liberali, ma anche in virtù della convinzione che essa sia lo strumento più efficace per promuovere il benessere dell’intera collettività. Di nuovo: il progresso è insepa­ rabile dalla libertà. Questo collegamento non vale soltanto sul terreno economico, come talvolta sostengono polemicamente i critici del liberalismo, ma vale senza dubbio anche sul terreno economico: la ricchezza e lo sviluppo produttivo sono il frutto della creatività e dell’intraprendenza dei singoli, della loro concorrenza cooperativa. Intralciare gli individui e la competizione fra di essi, in conclusione, significherebbe ostacolare l’avanzamento di tutta la società. Sul piano economico lo stato deve quindi lasciar fare il più possibile, permettendo che il libero gioco degli attori economici giunga spontaneamente alle soluzioni ottimali. In particolare, dal momento che la competizione deve coinvolgere il maggior numero possibile di individui sul territorio più vasto possibile, lo stato deve evitare di intralciare, o peggio ancora impedire, il commercio, ponendo barriere o tasse doganali. Le merci devono poter circolare fra tutte le nazioni liberamente e senza aggravi aggiuntivi, così che sul piano mondiale possano prevalere le soluzioni produttive migliori. L’affermarsi dei valori liberali, storicamente, ha seguito due percorsi differenti nei paesi anglosassoni e sul continente europeo. In Gran Bretagna questi valori sono riusciti a vincere una prima grande battaglia nel corso del Seicento, in seguito alle due rivoluzioni - la Grande e la Gloriosa - già menzionate, e da allora hanno potuto, gradualmente, rafforzarsi e svilupparsi. Nel fare questo, si sono inoltre riallacciati a un ancor più remoto passato di diritti di libertà, che aveva le sue radici nel Medioevo e il suo simbolo nella Magna Charta Libertatum, un documento di garanzia concesso nel 1215 da re Giovanni Senzaterra. I principi del liberalismo si sono quindi intrecciati con la tradizione politica della Gran Bretagna, sono sca­ turiti dalla storia stessa della società inglese e lentamente all’interno di essa sono venuti costruendosi ed evolvendo. Il fatto che le libertà inglesi si siano sviluppate «spontaneamente» ha portato il liberalismo anglosassone a guardare con particolare sospetto il potere pubblico, visto molto più come il potenziale nemico di libertà già

acquisite che come il costruttore di libertà ancora assenti. Il patrimonio ideologico prodotto in Gran Bretagna si è poi trasferito negli Stati Uniti, dove ha ispirato la rivoluzione del 1776 e tutta la successiva tradizione politica americana. Sul continente europeo i principi del liberalismo non sono venuti emergendo gradualmente come risultato di una lunga tradizione storica e politica. Essi si sono invece proposti sul piano dottrinario e filosofico, solitamente sotto la più generale etichetta di «diritti dell’uomo», e si sono messi subito in radicale contrapposizione con la realtà storica, che nell’Europa continentale era, come si è detto, la realtà dell’Antico regime. Nel Settecento, insomma, un sostenitore inglese delle ragioni dell’individuo avrebbe potuto guardare con soddisfazione al proprio paese, mentre un suo amico francese avrebbe dovuto meditare con tristezza sull’enorme lavoro che era necessario compiere affinché la Francia fosse davvero libera. La Rivoluzio­ ne del 1789 ha rappresentato, almeno in parte - una grossa parte - un gigantesco tentativo di compiere questo lavoro. Ponendosi alla ricerca di strumenti che gli consentissero di svolgere quest’opera di «liberazione», un liberale continentale si sarebbe subito imbattuto nel potere pubblico. Utilizzando le strutture dello stato egli avrebbe potuto distruggere tutte quelle istituzioni di Antico regime - le cor­ porazioni, le chiese, le comunità locali - che contribuivano a ostacolare e limitare l’autonomia individuale. La fiducia che il liberalismo continentale ha riposto nello stato come difensore e garante della libertà individuale ha trovato la sua massima espressione nel pensiero di Georg Friedrich Hegel - pensiero che ha influenzato enormemente la tradizione liberale tanto tedesca quanto italiana. La differenza fra il liberalismo anglosassone e quello continentale non deve essere esagerata: i due filoni si sono non poco influenzati a vicenda e possono comunque rientrare all’interno della medesima categoria ideologica. Si può tuttavia grosso modo sostenere che il primo ha un’origine storica ed è pertanto più diffidente nei confronti dello stato (più libertario); il secondo ha invece un’origine filosofica e guarda quindi con maggior favore al potere pubblico (più liberazionista). Il termine «democrazia» ha assunto storicamente due significati diversi. In un primo senso esso indica la più o meno larga partecipazione del popolo al governo dello stato, solitamente partecipazione non diretta, ma attraverso rappresentanti eletti; in un secondo designa, invece, la tendenza a creare fra i cittadini la massima uguaglianza possibile. Il liberalismo è fin dalla sua nascita indissolubilmente legato alla prima di queste due concezioni. L’esistenza di istituzioni rappresentative, infat­ ti, è forse la maggiore fra le garanzie elaborate dal costituzionalismo liberale al fine di limitare il potere dello stato. Attraverso il parlamento i cittadini possono impedi­ re, o quanto meno ostacolare, i provvedimenti eccessivamente o inutilmente lesivi della loro libertà, e soprattutto controllare i livelli di imposizione fiscale (si pensi al noto slogan parlamentaristico inglese «No taxation without representation»). Non bisogna tuttavia pensare che il liberalismo ottocentesco intendesse con­ cedere a tutti i cittadini, uomini e donne, benestanti e indigenti, intellettuali e analfabeti, il potere di intervenire nella gestione della cosa pubblica - ossia, con­ cretamente, di partecipare come votante o come candidato alle elezioni per il parlamento. I liberali ritenevano che tale potere dovesse essere affidato a chi dava garanzie di saperlo usare appropriatamente, ovvero a chi era in grado di formarsi autonomamente, al di fuori da ogni condizionamento, un’opinione politica. I criteri utilizzati per identificare chi rispondesse a questi requisiti - oltre al sesso - erano sostanzialmente due, da utilizzare alternativamente l’uno all’altro oppure insieme: la

proprietà e l’istruzione. Pur sostenendo l’importanza delle istituzioni rappresenta­ tive, inoltre, i liberali ottocenteschi sono spesso riusciti a convivere senza eccessive difficoltà con quei «residui» istituzionali del Settecento che rappresentativi non erano affatto - ad esempio, come si è già detto, la monarchia e la camera alta. Accanto a questo liberalismo che solo cautamente e moderatamente sosteneva la partecipazione del popolo al governo, nel XIX secolo in tutti i paesi europei si è mostrata una corrente ideologica appartenente anch’essa in gran parte alla famiglia liberale, ma molto più democratica: il radicalismo. Strenuo sostenitore alla pari degli altri liberalismi dei diritti dell’individuo, della limitazione del potere dello stato e della libertà economica, il radicalismo ottocentesco si è opposto però con forza alla permanenza di istituzioni non rappresentative, desiderando allo stesso tempo che quelle rappresentative fossero il più possibile avvicinate al popolo, at­ traverso l’allargamento del suffragio, la moralizzazione delle procedure elettorali, la riduzione della durata dei parlamenti, la retribuzione dei deputati. Con il tra­ scorrere dei decenni, comunque, anche le forme più moderate di liberalismo hanno sostanzialmente accettato l’affermarsi di procedure e istituzioni politiche sempre più democratiche. Se il termine «democrazia» implica la partecipazione di tutti i cittadini adulti al governo attraverso istituzioni rappresentative, il liberalismo del Novecento - soprattutto dopo il 1945 - può essere con buona approssimazione ribattezzato «liberaldemocrazia». Se per «democrazia» intendiamo invece, come si è detto sopra, un sistema nel quale gli uomini debbano tendenzialmente essere uguali, la sua compatibilità con il liberalismo diviene allora assai meno scontata. Il liberalismo ammette inequi­ vocabilmente un solo tipo di uguaglianza: quella formale, secondo la quale tutti devono essere uguali davanti alla legge, avere i medesimi diritti e i medesimi doveri. L’ideologia liberale (e a maggior ragione quella radicale) è avversa ai privilegi creati e difesi dal potere pubblico: essendo individualista non vede la ragione per la quale una persona debba essere trattata diversamente da un’altra, e ritiene inoltre che le regole del gioco aH’interno delle quali si svolge la competizione fra i singoli debbano essere il più eque possibile. Quanto però alle disuguaglianze esistenti nella società indipendentemente dalla politica, quelle create dal caso, dall’appartenenza fami­ liare, dall’intelligenza e dall’energia personali, il liberalismo ritiene che esse siano almeno in una certa misura inevitabili, spesso giustificate dal merito individuale, oltre che utili a promuovere la competizione e quindi lo sviluppo della società. Con molta cautela e molte eccezioni, in Europa il XIX secolo può essere considerato il secolo del liberalismo. Non dappertutto, non completamente e a prezzo di faticosissime battaglie politiche e intellettuali, nell’Ottocento si sono affermati gradualmente i principi tanto del costituzionalismo liberale - istituzioni rappresentative, diritti di libertà, separazione dei poteri - quanto del liberalismo economico - astensione dello stato dall’intervenire nell’economia, libero commer­ cio. Già alla fine del secolo, tuttavia, l’ideologia liberale ha cominciato a mostrare dei rilevanti segni di cedimento e la fiducia nel legame necessario fra libertà e pro­ gresso si è non poco affievolita. Sul terreno filosofico e culturale l’individualismo è entrato in grave crisi. A questa crisi si è collegato inoltre l’emergere, sul piano politico e delle sensibilità collettive, di due fenomeni alquanto lontani dall’universo ideologico liberale: una concezione organicistica - e quindi anti-individualistica - della nazione e la questione sociale. Il primo di questi fenomeni, sostenuto da profonde trasformazioni nella struttura economica e produttiva, ha condotto negli

anni Ottanta dell’Ottocento anche all’abbandono del più classico dei dogmi liberali, il libero commercio. Soltanto la Gran Bretagna ha continuato anche in quel periodo a conservare le proprie frontiere aperte alle merci estere. Il liberalismo (e anche il radicalismo) non è restato del tutto insensibile alla «sirena» nazionalista - intesa, in questo caso, come l’affermarsi di un modello di re­ lazioni internazionali più bellicose ed espansioniste. Molti liberali sono certamente rimasti fedeli ai valori della pace, del libero scambio commerciale e della coope­ razione internazionale, opponendosi nei rispettivi paesi agli esempi più eclatanti di aggressività nei confronti tanto delle altre nazioni europee quanto dei territori coloniali o colonizzabili. Altri - che riprendendo l’etichetta usata in Gran Bretagna potremmo genericamente definire «liberali imperialisti» - hanno accettato invece le nuove forme di gestione della politica estera. E hanno accettato anche, almeno in parte, le implicazioni che esse avevano sul piano interno: un più forte appello alla disciplina e alla coesione nazionale, una minore tolleranza per gli scontri interni alla società e per quelle opinioni che si configuravano come «antinazionali», una maggiore disponibilità nei confronti dell’intervento statale nell’economia. Tutto questo era però solo limitatamente compatibile con i valori liberali e coloro i quali si sono spinti troppo avanti su questa strada hanno finito per esorbitare dall’ambito ideologico del liberalismo. Anche l’insorgere della questione sociale ha apportato delle mutazioni significa­ tive nel patrimonio ideologico liberale. Fino alla fine del XIX secolo la libertà difesa dal liberalismo era stata soprattutto una libertà negativa: un individuo non poteva essere ostacolato nelle sue attività, a condizione che esse fossero lecite. L’assenza di ostacoli creati dallo stato o da altre persone non implicava però necessariamente che l’individuo fosse davvero in grado di fare ciò che voleva, poiché potevano esistere altri impedimenti: la povertà, l’ignoranza, la malattia, la vecchiaia. La crescente at­ tenzione con la quale dagli ultimi decenni dell’Ottocento si è cominciato a guardare a quei problemi ha condotto all’elaborazione di un nuovo concetto di libertà, quello di libertà positiva. Non era più sufficiente che l’individuo non fosse ostacolato, ma diventava necessario che gli venissero anche forniti gli strumenti minimi perché egli fosse davvero in grado di vivere, ragionevolmente, come desiderava: soprattutto salute fisica, istruzione e un livello minimo di benessere materiale. Su questa base, pur senza rinunciare alle radici individualistiche, è potuto nascere un liberalismo sociale, che identificava soprattutto nello stato il fornitore dei servizi essenziali necessari a rendere «positiva» la libertà. Come abbiamo già detto distinguendo tra il filone anglosassone e quello continentale dell’ideologia liberale, anche in questo caso il liberalismo ha potuto guardare al potere pubblico non come a un nemico della libertà individuale, ma come a un suo difensore e creatore. Inoltre, questo mutamento è avvenuto anche - anzi, soprattutto - in Gran Bretagna, con la nascita tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento di un «nuovo liberalismo» attento alla questione sociale. Saranno proprio due «figli» di questa corrente neoliberale, John Maynard Keynes e William Beveridge, a costruire nel periodo fra le due guerre le fondamenta intellettuali dello stato sociale. Quelli compresi fra i due conflitti mondiali sono stati anni bui per il libe­ ralismo: ferito a morte dalla Grande guerra del 1914-18 in quanto progetto di gestione pacifica delle relazioni internazionali, e dalla Grande crisi del 1929 in quanto teoria dell’economia capitalistica e della libertà internazionale di com­ mercio; spettatore impotente del culminare di quella crisi di fiducia nel legame

fra libertà e progresso che, come abbiamo visto, era venuta montando fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento; sconfitto e negato da regimi autoritari o totalitari in gran parte del vecchio continente. Durante il periodo racchiuso fra il 1945 e il 1989, invece, in Europa occidentale si è assistito al ritorno dell’ideologia liberale. Ma non si è trattato affatto di una rivincita completa. Sono ritornate appieno le istituzioni politiche liberaldemocratiche: diritti di libertà, parlamenti, separazione dei poteri, corti costituzionali. E ritornata l’economia di mercato e si è riavviato un processo di crescente integrazione commerciale internazionale. Ma questo mercato e questo commercio sono stati circondati almeno fino agli anni Ottanta, e per certi versi anche dopo, da un’imponente «cintura» di pratiche e istituzioni che ne hanno circoscritto e limitato l’impatto - lo stato sociale, un tasso elevato di intervento pubblico nell’economia, meccanismi protezionistici, organismi inter­ nazionali -, tanto da far parlare (l’espressione è di John Gerard Ruggie, mutuata da Karl Polanyi) di un embedded liberalism, ossia di un liberalismo economico immerso e, per così dire, attutito da un insieme di ammortizzatori. Non sono invece più ritornate le forze politiche che si dichiaravano esplicitamente liberali e che, marginalizzate ovunque in Europa dalla Prima guerra mondiale, marginali sono rimaste anche dopo la Seconda. In questi ultimi decenni il patrimonio ideologico liberale è stato sottoposto a sol­ lecitazioni e mutazioni di varia natura. A partire dalla fine degli anni Settanta hanno riacquistato forza, a livello sia culturale sia politico, i temi della libertà economica e di mercato - in forma particolarmente visibile negli Stati Uniti durante la presiden­ za di Ronald Reagan e in Gran Bretagna con la premiership di Margaret Thatcher. Parallelamente, e non indipendentemente, hanno subito un’accelerazione marcata i processi di integrazione commerciale mondiale, che proprio verso la fine degli anni Settanta hanno preso il nome di «globalizzazione». Il liberalismo può per tanti versi essere considerato l’ideologia della globalizzazione, a una condizione però: che non si dimentichi come per molti liberali l’evoluzione dell’economia internazionale debba essere costantemente accompagnata da una parallela evoluzione istituzionale e politica che la indirizzi e amministri - una sorta, per così dire, di «globalizzazione dal volto umano». La caduta del Muro di Berlino nel 1989, la crisi del comuniSmo mondiale e il collasso dell’Unione Sovietica hanno, inoltre, contribuito a confermare e rafforzare sia i processi di globalizzazione sia il liberalismo. Appartengono almeno per alcuni versi al patrimonio ideologico liberale, infine, i movimenti cosiddetti «neo­ radicali»: ambientalismo, femminismo, salvaguardia dei diritti delle minoranze, ecc., anch’essi sviluppatisi negli ultimi quarant’anni. Alcune correnti di questi movimenti partono infatti da un approccio individualistico, e intendono rimuovere - quasi sempre attraverso l’intervento dello stato - privilegi, impedimenti e iniquità che limitano la libertà dei singoli. Se però, per portare a compimento questo processo di «liberazione», essi chiedono che altri diritti di libertà siano fortemente limitati, se per sopprimere alcuni privilegi ne creano di nuovi, di segno opposto, i neoradicalismi finiscono per uscire dall’ambito dell’ideologia liberale. 7. Socialismo e comuniSmo

Se il liberalismo, almeno nella sua versione continentale, deriva dal primo dei tre concetti che compongono il grande slogan del 1789 - «Libertà, uguaglian­

za, fraternità» -, la tradizione socialista (e comunista) si fonda invece sugli altri due. Da un punto di vista intellettuale questa tradizione non nasce affatto con la Rivoluzione francese: se ne possono trovare i più o meno distanti progenitori in Platone, nell’Utopia di Thomas More, nella filosofia illuministica di Jean-Jacques Rousseau. Il 1789, comunque, contribuisce senza alcun dubbio a rilanciarla, e crea l’ambiente ideologico adatto per il suo pieno dispiegamento e la sua forte affermazione nel XIX e soprattutto XX secolo. La cifra fondamentale del sociali­ smo è anti-individualistica: massima priorità viene attribuita alla costruzione e al benessere del corpo sociale. Il quale dovrà essere omogeneo al proprio interno (uguaglianza): non vi potranno essere differenze rilevanti nelle quantità di potere politico, economico e sociale attribuite a ciascuna persona o gruppo di persone; e sarà anche solidale (fraternità): i singoli dovranno essere «altruisti», ovvero tenere in maggiore considerazione gli interessi dell’intera società che i propri. Sul piano politico questi principi portano a caldeggiare una forma compiuta di democrazia, ossia la partecipazione di tutti i cittadini alla gestione del potere pubblico. Sul piano economico conducono invece a sostenere la scomparsa completa o quasi completa della proprietà privata a favore di forme collettive di possesso e di ge­ stione economica. L’impianto collettivistico realizzerà, secondo i socialisti, anche la massima possibile felicità dei singoli individui, che verranno finalmente liberati dall’egoismo, dalla subordinazione, dallo sfruttamento. I primi decenni dell’Ottocento vedono emergere nella riflessione dei francesi Charles Fourier, Pierre-Joseph Proudhon e Henri de Saint-Simon, e dell’inglese Robert Owen, una forma di socialismo che più tardi sarà definita «utopistica». Pur con differenze notevoli tra l’uno e l’altro di questi pensatori, la cifra comune della loro elaborazione ideologica consiste nel desiderio di realizzare i principi del socialismo non attraverso un’azione violenta e rivoluzionaria, ma attraverso un’opera lenta e graduale di ricostruzione morale e psicologica della società. Fra gli strumenti che possono essere utilizzati al fine di realizzare quest’opera vi è la creazione di piccole comunità socialiste, esempio e prefigurazione di quel che sarà la società futura. Tanto Owen quanto i discepoli di Fourier tenteranno concretamente di dar vita ad alcune di queste comunità, fallendo però del tutto nel loro intento. All’interno del filone ideologico socialista può essere inserito almeno in parte anche Giuseppe Mazzini. Oltre a sostenere con forza la trasformazione delle istituzioni in senso compiutamente democratico e repubblicano, Mazzini prevedeva infatti il declino dell’individualismo e l’affermarsi - prima in una dimensione nazionale, poi, attraverso le nazioni, su scala mondiale - di nuovi valori associazionistici e solidaristici. II contributo più rilevante e influente all’ideologia socialista è stato senza dubbio fornito dalla riflessione congiunta di Karl Marx e Friedrich Engels. Come abbiamo già accennato nel primo paragrafo, secondo Marx l’elemento determinante del divenire storico è costituito dallo scontro fra le classi. Questa lotta è non solo inevitabile, ma anche predeterminata nei suoi esiti: la classe dominante in un dato momento, infatti, è destinata prima o poi a essere sconfitta e soppiantata dal gruppo sociale subordinato. Gli anni nei quali egli vive e scrive sono da Marx considerati l’epoca del sistema produttivo capitalistico, fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sullo sfruttamento della mano d’opera, e del dominio di classe della borghesia. In un futuro più o meno prossimo questa situazione, secon­ do il filosofo tedesco, è inevitabilmente destinata a entrare in una crisi profonda

e irreversibile, che condurrà al rovesciamento del capitalismo e della borghesia e alla costruzione di un nuovo assetto economico, sociale e politico fondato sulla classe che dalla borghesia è oppressa: il proletariato. La dittatura del proletariato sarà diversa dagli altri predomini di classe perché per la prima volta la classe al potere non sarà costituita da una minoranza, ma dalla larghissima maggioranza della popolazione. Questa dittatura sarà pertanto meramente transitoria e da essa si giungerà presto alla realizzazione di una società senza classi, priva di proprietà privata, di subordinazione, di sfruttamento, di disuguaglianze. Rispetto alle altre teorie socialiste quella marxiana ha in più un fortissimo elemento deterministico: l’avvento della dittatura del proletariato e della società senza classi non è un’even­ tualità, ma una certezza. Il modello di evoluzione storica, inoltre, prevede anche un atto rivoluzionario, che dovrà però essere compiuto soltanto quando il capitalismo sarà giunto all’apice della sua crisi, e che servirà a precipitarne la fine. Negli ultimi decenni dell’Ottocento cominciarono a essere fondati partiti po­ litici che si ispiravano all’ideologia socialista - il primo, più grande e influente dei quali fu quello tedesco, nato nel 1875 - e che facevano appello prevalentemente, pure se non esclusivamente, agli strati inferiori della società, soprattutto gli operai ma, in alcuni casi, anche i contadini. Il patrimonio ideologico al quale questi partiti facevano riferimento era per lo più quello marxista. Avevano però un’influenza notevole anche altri filoni del socialismo - umanitari, positivistici, democratico­ radicali, laburisti, ecc. Come abbiamo già notato, in questi stessi anni - e si tratta di sviluppi connessi alla crescita del movimento socialista - cominciarono anche a essere maggiormente avvertiti i problemi sociali, mentre si rafforzava la convinzione che le risorse del potere pubblico potessero essere utilizzate al fine di rimediare ai casi più clamorosi di malessere delle classi subordinate. Il socialismo dunque, anche in connessione con il contemporaneo processo di democratizzazione delle istituzioni politiche, cominciò a guardare con maggiore interesse allo stato e alle amministrazioni locali come strumenti da utilizzare per modificare la realtà eco­ nomica e per ottenere una più solida tutela dei meno abbienti, un maggior tasso di uguaglianza aH’interno della società, un incremento nella quantità di risorse gestite dalla collettività, e quindi sottratte alla proprietà privata. La fine dell’Ottocento - lo abbiamo detto in più di un’occasione - è stata an­ che l’età dell’imperialismo e del trionfo dei valori nazionalistici. Rispetto a questi fenomeni il socialismo acquistò un atteggiamento di recisa contrapposizione. La lotta di classe, nell’approccio marxiano, non si svolge in questo o in quel paese, ma in tutto il mondo; solidarietà e conflitti non devono pertanto essere «verticali» (borghesi e proletari italiani contro borghesi e proletari francesi), ma «orizzon­ tali» (proletari italiani e francesi contro borghesi italiani e francesi). Il Manifesto del partito comunista scritto nel 1848 da Marx ed Engels si concludeva con la notissima frase «lavoratori di tutti i paesi, unitevi!». Inoltre, nel 1864 fu fondata la Prima Internazionale socialista, che intendeva raccogliere e collegare in un unico organismo i movimenti socialisti dei diversi paesi. La politica estera aggressiva ed espansionista era vista dal socialismo come una conseguenza del sistema economico capitalistico, finalizzata secondo alcuni - ad esempio secondo Lenin - a fornirgli nuove risorse da sfruttare e nuovi mercati da colonizzare, e a ritardarne così la crisi finale. In politica interna l’appello ai sentimenti nazionali distoglieva l’atten­ zione dalle iniquità sociali e dalla lotta di classe, rafforzando un sistema politico ed economico gerarchico e ingiusto. L’uso politico dell’idea di nazione da parte di

reazionari, conservatori e talvolta liberali rappresentava del resto, almeno in una certa misura, un tentativo di contrastare il socialismo, mobilitando e coinvolgendo le masse sulla base di un appello ideologico diametralmente opposto a quello clas­ sista. Nemmeno i socialisti, comunque, restarono del tutto insensibili al richiamo della fedeltà nazionale. Quando, nel 1914, scoppiò la Prima guerra mondiale, in quasi tutti i partiti socialisti d’Europa i valori patriottici finirono per prevalere su quelli internazionalistici. Come si è già accennato, tra la fine deU’Ottocento e l’inizio del Novecento in numerosi paesi europei cominciarono gradualmente a essere affrontate almeno alcune delle questioni poste dai socialisti. In particolare si tentò di porre rimedio ai casi più macroscopici di malessere sociale e si allargarono i canali di partecipazione alla gestione del potere pubblico. Questi primi, parziali successi resero ancora più acceso e urgente il dibattito sulla tattica da seguire e sugli strumenti da utilizzare per la realizzazione della società socialista - un dibattito che nasceva sia dalla già ricordata presenza, all’interno del socialismo, di più scuole, sia dalle numerose e differenti interpretazioni ch’era possibile dare degli scritti di Marx ed Engels. Un primo filone del pensiero socialista - il revisionismo o riformismo, massimo teo­ rico del quale fu il tedesco Eduard Bernstein - sosteneva la necessità di rinunciare a una strategia di contrapposizione rigida e frontale con le istituzioni politiche, sociali ed economiche dell’epoca. Era invece opportuno, secondo questa corrente, lavorare aH’interno di esse, migliorando per gradi la posizione delle classi operaie e facendo sì che la proprietà privata cedesse progressivamente il campo alla pro­ prietà collettiva, fino a scomparire del tutto o quasi del tutto. Un secondo filone, che potremmo definire «integralista», intendeva invece conservare una posizione di radicale rifiuto dell’assetto socioeconomico fondato sulla proprietà privata. I socialisti avevano il dovere di organizzarsi e fare proseliti, mantenendosi però rigorosamente separati dall’ambiente che li circondava - una specie di «mondo a parte» o, come si disse, di «stato nello stato» -, nell’attesa che la crisi finale del capitalismo desse loro l’opportunità di giungere al potere. Vi era infine chi riteneva che al socialismo si dovesse giungere con un atto rivoluzionario, da compiere o sul piano economico-sociale attraverso il sindacato o sul piano politico attraverso il partito. Quest’ultima corrente si rafforzò soprattutto nei primi anni del XX secolo, grazie all’evoluzione del clima culturale connessa alla crisi del determinismo posi­ tivistico, ed ebbe particolare fortuna nei paesi politicamente ed economicamente arretrati, che meno si dimostravano disponibili a cedere alle prime e più moderate richieste del socialismo riformista. Il socialismo mondiale compì una considerevole svolta in senso rivoluzionario nel 1917, in seguito al successo dei comunisti in Russia. Alla base della Rivoluzione russa, sul piano ideologico, si poneva la rielaborazione del pensiero marxista opera­ ta fin dai primi anni del secolo da Lenin. Il leninismo rifiutava recisamente non solo la prospettiva riformistica, ma anche quella integralista, ritenendo che, una volta postosi su una di queste due strade, il socialismo sarebbe stato ben presto riassor­ bito dai regimi «borghesi». L’unica via praticabile per la piena realizzazione della società senza classi era dunque la rivoluzione. Su questa via, guida, avanguardia e guardiano del popolo sarebbe stato il Partito comunista: partito di pochi membri, compatto, ideologizzato e rigidamente disciplinato, in grado di gestire il processo rivoluzionario con forza, convinzione e assoluta unità di intenti. Una volta acquisito il potere, i comunisti non avrebbero fatto ricorso ai meccanismi istituzionali della

democrazia «borghese» - parlamenti, elezioni, partiti -, ma avrebbero instaurato una nuova forma di democrazia diretta incentrata sui soviet, assemblee di operai che si riunivano nei luoghi di lavoro. La creazione di istituzioni sovietiche non avreb­ be però soppiantato né reso superfluo il partito, che avrebbe comunque dovuto mantenere salda la presa sul potere ed esercitare sulla società un controllo rigido e capillare, al fine di garantire che il paese si mantenesse, senza incertezze o devia­ zioni, sulla strada del socialismo. Nello svolgere questa funzione il partito avrebbe utilizzato anche le strutture coercitive dello stato. Questa sarebbe stata in sostanza la fase della dittatura del proletariato - fase la cui gestione, nell’interpretazione che Lenin dava del pensiero di Marx, non era dunque affidata direttamente al proleta­ riato, ma alla sua avanguardia rivoluzionaria, il partito. Sulla base dell’elaborazione ideologica leninista il comuniSmo russo, nell’attesa che l’avvento della società senza classi rendesse superflua la dittatura, finì per dare vita a un apparato istituzionale totalitario per molti versi simile, come abbiamo già notato, a quello che avevano edificato il nazismo in Germania e, in misura molto minore, il fascismo in Italia. Nel corso del ventennio compreso fra i due conflitti mondiali il comuniSmo leninista si diffuse e rafforzò in tutta Europa, spinto dal «mito» della Rivoluzione del 1917 e aiutato direttamente daU’Unione Sovietica e dall’organizzazione inter­ nazionale del comuniSmo - la Terza Internazionale. Al di fuori della Russia non riuscì tuttavia a giungere al potere in alcun paese. Né riuscì a soppiantare le più antiche, e più moderate, tradizioni socialiste, che in tutta l’Europa democratica continuarono a esistere e a contare sia sul piano ideologico sia su quello politico. All’interno di queste tradizioni sopravvissero anche le vecchie divisioni, ulterior­ mente aggravate dalla forte attrazione che il comuniSmo esercitava sull’ala socialista di estrema sinistra. L’Unione Sovietica emerse dalla Seconda guerra mondiale come una delle potenze vincitrici, e partecipò alla successiva ristrutturazione degli equilibri in­ ternazionali. Potè così costruire attorno a sé un vasto polo geopolitico, costi­ tuito inizialmente dai paesi dell’Europa orientale, nel quale esportò il modello politico-istituzionale comunista. Nei decenni successivi al 1945 questo modello ebbe un fortissimo potere di attrazione anche al di fuori dell’Europa, nei paesi sottosviluppati che emergevano dal processo di decolonizzazione. In particolare, esso fu realizzato in Cina, sia pure in una forma particolare quale quella teorizzata e praticata da Mao Zedong. Partiti comunisti più o meno forti continuavano poi a esistere anche negli stati liberal-democratici. Questo patrimonio ideologico, politico e istituzionale sembra oggi essere stato messo definitivamente in crisi dal tracollo dell’Unione Sovietica, avvenuto fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, e dalla successiva dolorosa riconversione di quasi tutti i paesi comunisti all’economia capitalista e a una qualche forma - non sempre compiuta - di democrazia liberale. Mentre il modello comunista si affermava in Europa orientale, nell’Europa occidentale post-1945 il socialismo concludeva il lungo processo di riavvicinamento ai valori della liberaldemocrazia. L’evento forse più emblematico, da questo punto di vista, è stato il congresso del Partito socialdemocratico tedesco svoltosi a Bad Godesberg nel 1959. Il socialismo ha rinunciato a sostenere forme di democrazia alternative a quella parlamentare, ha dato il proprio pieno contributo alla difesa dei diritti individuali non economici, ed ha anche accettato che buona parte dell’e­ conomia continuasse a essere gestita con metodi capitalistici. In questo contesto,

esso ha cercato di dare allo stato un peso sempre maggiore nella vita economica e sociale e di creare una sempre più robusta rete di protezione per le fasce più svantaggiate della popolazione. Ha così contribuito, in collaborazione con forze politiche cattoliche in alcuni paesi, con forze conservatrici in altri, alla nascita e alla costruzione dello stato sociale. Percorso di autoverifica

1.

Illustrate il concetto di ideologia, le sue principali caratteristiche e la sua funzione primaria. 2. Che cosa caratterizza l’ideologia reazionaria? 3. Come si modifica l’ideologia reazionaria negli ultimi decenni del XIX secolo? 4. Che cosa s’intende per ideologia conservatrice? 5. Quali sono le principali differenze tra conservatorismo e reazionarismo? 6. Qual è il valore fondante dell’ideologia liberale e quali ne sono le forme estreme? 7. Illustrate i concetti di radicalismo, liberaldemocrazia e costituzionalismo liberale. 8. Su quali concetti si fonda il socialismo? 9. Illustrate i caratteri dell’ideologia socialista teorizzata da Marx. 10. Quali sono i tratti principali del leninismo?

ss

Per saperne di più

. Freeden, Ideologie e teoria politica, Bologna, Il Mulino, 2000. . Freeden, Liberal Languages: Ideological Imaginations and Twentieth-century Progressive Thought, Princeton, N.J., Princeton University Press, 2005. C. Galli (a cura ài), Manuale di storia del pensiero politico, III ed., Bologna, Il Mulino, 2011. F. Rossi-Landi, Ideologia. Per Vinterpretazione di un operare sociale e la ricostruzione di un concetto, Roma, Meltemi, 2005.

La trasformazione della politica e le costituzioni di Gaetano Quagliariello

Elemento caratterizzante della disamina dell’evoluzione costituzionale aH’interno dell’ordine politico occidentale tra la fine del XVII secolo e la fine del XX è la centralità del «modello inglese», dominato dal principio della batance of power, dal government by discussion e successivamente dall’introduzione del partito politico extraparlamentare. La modernità di tale modello e soprattutto la sua capacità di adattamento emergono nel confronto con le differenti esperienze europee (italiana, francese, tedesca, ma anche sovietica), in particolare nel momento in cui queste ultime mostrano tutta la loro incapacità di autodifesa di fronte al demone totalitario.

1.

I modelli originari: tra Francia e Inghilterra

Nel XIX secolo il dibattito sui sistemi politici che si svolse tra uomini politici e intellettuali ruotò prevalentemente intorno al cosiddetto «modello inglese». Con questa espressione veniva comunemente indicata la realtà politico-istituzionale della Gran Bretagna. Si trattava di un sistema che affondava le sue radici nel mondo medievale e che, perfezionatosi nel tempo, assicurava alla nazione che lo aveva plasmato stabilità e progresso: condizioni per la sua indiscussa egemonia sullo scenario mondiale. A questo sistema politico la gran parte del liberalismo continentale guardava con ammirazione e favore. Nella convinzione che l’esportazione della formula che sull’isola aveva dato magnifici frutti avrebbe garantito, pure in mutate condizioni ambientali, crescita ed equilibrio. Se le radici del sistema politico inglese possono rintracciarsi in epoche antichis­ sime, la matrice della sua configurazione ottocentesca veniva comunemente indicata nella Gloriosa rivoluzione del 1688. Essa era interpretata dai suoi estimatori in contrapposizione con la Rivoluzione francese, che circa un secolo dopo, nel 1789, avrebbe infiammato la Francia. Mentre quest’ultima era vissuta e concepita come un momento di rottura radicale aH’interno della storia politica francese, la Rivo­ luzione del 1688 era piuttosto letta come un momento di risanamento: il tentativo di chiudere la ferita che si era aperta negli anni Quaranta del XVII secolo con la

«grande ribellione» di Oliver Cromwell e con il regicidio del 1649. Essa, dunque, giunse a'negare la frattura tra Ancien Regime e mondo moderno che si sarebbe invece affermata un secolo più tardi con la Rivoluzione francese. Tale implicita affermazione di continuità depotenziava all’origine il conflitto tra i fautori della rivoluzione e quelli della controrivoluzione. La circostanza, in realtà, evidenziava un aspetto che contribuiva ad acuire le differenze tra l’isola e il continente: nella Rivoluzione inglese del 1688 la pas­ sione politica aveva svolto una funzione secondaria. Fra le cause principali della rivoluzione vi erano motivazioni religiose: il conflitto tra anglicani e cattolici. La sua risoluzione aveva dato luogo a un potere politico tollerante e rispettoso degli equilibri sociali. In altre parole, il potere pubblico rinunciava alla pretesa d’imporsi sulla società, e le divisioni politiche si fermavano in superficie non affondando nel corpo sociale della nazione. La filosofia della storia che si trovava alla base della Gloriosa rivoluzione avrebbe ricevuto una sua traduzione anche in ambito politico-istituzionale. Essa si incarnava in una forma di stato monarchico-costituzionale che lasciava ampi spazi di autonomia e autodecisione alle comunità locali. In origine il re era il titolare del potere esecutivo, ma la prassi istituzionale portò sempre più la corona a rappresentare l’unità superiore della nazione e a proporsi come potere di controllo e di garanzia. Il potere legislativo era invece detenuto da due camere: quella elettiva (camera dei Comuni) riuniva i rappresentanti delle diverse parti della nazione; quella ereditaria (la camera dei Lord) costituiva la principale espressione della parte nobile del sistema e aveva il ruolo di preservare le tradizioni immodificabili del costume nazionale. Le due camere erano animate da un bipartitismo tendenziale, in grado di garantire al meglio il collegamento tra il potere legislativo e l’esecutivo, nonché un forte ricambio alla guida del paese. I due partiti «storici» erano il Whig e il Tory e fino al 1870 essi mantennero una struttura di natura eminentemente parlamentare, potendo contare nel paese solo su un embrione organizzativo. II primo ministro veniva scelto tra i ranghi di una maggioranza parlamentare più o meno stabile e dopo la seconda grande riforma elettorale del 1867 a tale ca­ rica sarebbe assurto il leader del partito vittorioso alle elezioni. Il primo ministro avrebbe poi raccolto i membri più autorevoli della compagine nel gabinetto, vero centro del potere esecutivo e garante della parte efficiente del sistema. Le riunioni di questo organismo ristretto erano segrete e la leggenda vuole che non di rado fossero burrascose. Il gabinetto, però, davanti al paese si sarebbe sempre presentato con decisioni unanimi, condivise e difese da tutti i suoi membri. Il leader del partito soccombente diveniva il capo dell’opposizione e presiedeva il governo-ombra con il compito di contrastare le decisioni del governo effettivo, preparandosi così alla successione. Il governo aveva bisogno della fiducia della camera dei Comuni. Ma il legame tra legislativo ed esecutivo era reso ancor più stretto dalla possibilità concessa al primo ministro di decretare lo scioglimento della camera dei Comuni. Si creavano così le condizioni per un sistema di contrap­ pesi che faceva dipendere l’esecutivo dal legislativo, attraverso la previsione del rapporto di fiducia, e il legislativo dall’esecutivo, in quanto quest’ultimo avrebbe potuto in ogni momento utilizzare il suo potere di sciogliere la camera elettiva. La moderazione del sistema si fondava su questo complesso equilibrio interno alla dinamica istituzionale. All’esterno, essa riceveva il contributo di un suffragio assai

limitato che avrebbe allargato i suoi confini gradualmente, con grande riluttanza, respingendo il precetto illuministico per il quale ogni uomo doveva avere pari diritti. Infine, anche il sistema elettorale maggioritario a turno unico contribuiva a forgiare la peculiarità del «modello inglese». Questo tipo di scrutinio metteva in luce le radici medievali e «corporative» del sistema politico inglese: originariamente il deputato non era il rappresentante di una corrente ideologica né della «volontà nazionale» bensì della comunità locale dalla quale veniva eletto. In questa maniera l’asprezza del conflitto politico veniva limitata e non arrivava mai a intaccare la trama unitaria della società civile. Il «modello inglese» non fu estraneo alle dinamiche istituzionali attivate dagli eventi rivoluzionari che introdussero il XIX secolo. Fu l’esempio che più di ogni altro ispirò l’esperimento statunitense che prese avvio con la Rivoluzione del 1776 e fu tenuto in gran conto nel dibattito istituzionale che seguì la Rivoluzione francese del 1789. In particolare, i national builders americani cercarono di adattare quel «miracolo della storia» che erano state le istituzioni della Gran Bretagna a un paese privo di passato nazionale e che si trovava in una condizione geopolitica compietamente diversa. Tale tentativo di empirico adattamento del «modello inglese» portò alla nascita di un sistema politico che esasperava la tendenza all’autogoverno delle istanze locali giungendo a prevedere una struttura statale federale. Per quanto riguarda la forma di governo diede invece vita a un sistema presi­ denziale con un presidente della repubblica eletto a suffragio universale alla testa dell’esecutivo dello stato centrale e dunque un sostituto «laico» del re d’Inghilterra. Il suo potere sarebbe stato contrastato a livello diffuso dalle istituzioni dei diversi stati federati, oltre che, a livello centrale, dalla forza «concorrente» del potere le­ gislativo. In luogo del collegamento tra esecutivo e legislativo previsto dal sistema inglese, nel sistema americano i poteri si presentavano divisi a garanzia di un più efficace bilanciamento. Grande importanza era infine concessa ai cosiddetti organi di garanzia, primi tra tutti la Corte Suprema federale che si ergeva a guardiano del rispetto dei limiti imposti ai differenti poteri. Nella Francia della Rivoluzione, invece, il tentativo di giungere all’edificazione di un sistema politico costruito sull’esempio che proveniva da oltre Manica uscì sconfitto. La Rivoluzione, però, non riuscì nel compito di edificare un sistema alter­ nativo ugualmente solido. In ambito istituzionale il suo lascito fu una situazione di instabilità endemica. Nei primi cinquant’anni del secolo, nel tentativo di condurre in porto la rivoluzione, la Francia conobbe l’impero, la monarchia «restaurata», la monarchia costituzionale, la repubblica presidenziale: un vero e proprio catalogo dei regimi politici possibili. Questa grande incertezza permise agli anglofili francesi di presentare il «modello inglese» alla stregua di una grande occasione mancata. Del resto, nel corso dell’Ottocento la ricezione del «modello inglese» - quan­ to meno nei suoi tratti più evidenti ed esteriori —caratterizzò la maggior parte delle monarchie europee, le quali diedero vita a regimi costituzionali e bicame­ rali. Seppure a diversi gradi d’approssimazione (e con differenze non secondarie riguardo alla natura e alla composizione della seconda camera), le istituzioni dell’isola ispirarono le monarchie belga, olandese, italiana, spagnola, portoghese. In Francia un ritorno al «modello inglese» si concretizzò attraverso la cosiddetta Monarchia di Luglio, frutto della rivoluzione che nel 1830, dopo aver cacciato la famiglia «legittima» regnante dei Borbone, mise sul trono Luigi Filippo d’Orléans. In luogo della mitica stabilità inglese, però, i francesi conobbero un regime che

progressivamente si ripiegava su sé stesso, assumendo un volto oligarchico e cor­ rotto. Tale deriva causò nel 1848 l’esplosione di una nuova fiammata rivoluzionaria che tornò a incendiare l’Europa e che in Francia, dal punto di vista istituzionale, portò alla nascita della Seconda repubblica: un regime presidenziale che preve­ deva l’elezione del presidente a suffragio universale. Anche questo esperimento, tuttavia, non fu coronato da successo. Nel dicembre del 1848 l’elezione di Luigi Napoleone Bonaparte a presidente della repubblica rappresentò il prodromo deha fine della Seconda repubblica. Tre anni più tardi, il 2 dicembre 1851, un colpo di stato metteva fine alla Seconda repubblica e il successivo 21 dicembre un ple­ biscito ratificava la restaurazione dell’impero. Nel dibattito sui sistemi politici la svolta del 2 dicembre 1851 ha avuto, tra l’altro, due effetti: uno di lunga durata, l’altro più immediato. Nel lungo periodo consolidò la diffidenza nei riguardi dei sistemi che avrebbero previsto l’elezione del vertice dell’esecutivo da parte del popolo e, più generalmente, nei riguardi degli strumenti di democrazia diretta. La degenerazione plebiscitaria ha ostacolato le richieste di rafforzamento del potere esecutivo e, indirettamente, ha agevolato l’identificazione tra regime democrati­ co e sistemi fondati sulla centralità del parlamento. Solo le vicende della Quinta repubblica francese voluta nel 1958 dal generale Charles de Gaulle avrebbero, in parte, cancellato tali pregiudizi. Eppure, se si presta attenzione al dibattito istitu­ zionale che seguì l’avvento di Napoleone III, sarà facile notare che il giudizio dei contemporanei sul sistema politico del Secondo impero e le previsioni sulle sue possibili evoluzioni non erano affatto scontati. Basti pensare che Walter Bagehot - l’autore di La Costituzione inglese, il libro destinato a divenire il classico per antonomasia sul «modello inglese» - nutrì una spiccata simpatia per Napoleone III e, soprattutto, era convinto che il sistema politico da lui edificato potesse approssi­ marsi al sistema di gabinetto vigente in Gran Bretagna assai più di quanto non era riuscita a fare la Monarchia di Luglio che, pure, si era richiamata esplicitamente all’esperienza d’oltre Manica. L’evoluzione in senso liberale dell’impero nella primavera del 1870 sembrò per un attimo confermare le sue previsioni. Quel che però è più importante notare è che, in quei frangenti, la propensione di Bagehot era il sintomo di un fenomeno più generale che il dibattito sui sistemi politici del tempo mise bene in evidenza: l’equilibrio e la dinamica dei poteri proposti dal «modello inglese» iniziavano ad autonomizzarsi dalla soluzione monarchica e si rendevano utilizzabili anche per esperienze istituzionali differenti. Se ne ebbe la prova effettiva in Francia, una volta caduto il Secondo impero a Sedan, nelle tribolate vicende che portarono alla nascita della Terza repubblica. Quest’ultima fu una soluzione di compromesso tra monarchici e repubblicani. Alla ripresa della vita politica, dopo la sanguinosa parentesi della Comune, i primi potevano contare sulla maggioranza ma non avevano una concreta soluzione dinastica da proporre al paese. Ciò portò i secondi, più deboli dal punto di vista elettorale, a trovarsi in una posizione di indiscutibile vantaggio sul terreno della proposta politica. La crisi istituzionale venne così empiricamente risolta adattando a una soluzione repub­ blicana lo schema formale della monarchia costituzionale inglese. La maggioranza dei repubblicani accettò il conveniente compromesso che li obbligava a rinunciare al patrimonio assembleare, retaggio dell’eredità rivoluzionaria, in cambio della repubblica. I monarchici, dal canto loro, nutrivano la segreta speranza di poter un giorno sostituire alla testa dello stato il presidente della repubblica con il re, senza stravolgere le istituzioni.

Il sistema politico del nuovo regime fu definito da una serie di leggi «fondamen­ tali» approvate nel 1875. E qui può già scorgersi un evidente «cedimento» verso la tradizione anglosassone. Con questa scelta, infatti, la Francia rinunciava a darsi una «costituzione programma» che prevedesse precise finalità. Si accontentava più empiricamente di una serie di leggi che avrebbero regolato il funzionamento delle principali istituzioni. Il sistema politico della Terza repubblica, così come la monarchia inglese, sarebbe stato bicamerale. Anche in questo caso l’azione della camera bassa, eletta a suffragio universale diretto, avrebbe dovuto essere bilanciata dal ruolo di freno e conservazione svolto dalla camera alta. In luogo della camera dei Lord, era infatti previsto un senato la cui composizione sarebbe scaturita da elezioni di secondo grado. Nello spirito del compromesso istituzionale, questa istituzione avrebbe dovuto rappresentare la Francia profonda; la concretezza del­ la provincia francese legata alla monarchia, naturalmente diffidente nei riguardi dell’innovazione e diga naturale verso gli «astratti» furori rivoluzionari della capita­ le. Come in Gran Bretagna, anche nella Francia della Terza repubblica esecutivo e legislativo erano uniti dal rapporto di fiducia. Inoltre, per prevenire possibili derive assemblearistiche era attribuito al presidente della repubblica il potere di sciogliere la camera bassa, previo parere conforme del senato. Tale schema istituzionale si allontanava sensibilmente dalle speranze di quanti si sentivano eredi della tradi­ zione della rivoluzione e avrebbero voluto una repubblica costruita sulla centralità assoluta del parlamento. Ma d’altro canto, esso s’innestava su una premessa che non poteva dispiacere agli estimatori del 1789: la conferma del suffragio universale, che nell’immaginario collettivo assurgeva al ruolo di vera e propria «arca santa» del nuovo sistema. 2.

La prima crisi del parlamentarismo liberale: nascita dei partiti e avvento della politica di massa

L’adeguamento del «modello inglese» a una forma di stato repubblicana in Francia segnò l’apice della sua influenza sulla realtà politico-istituzionale dell’Eu­ ropa ottocentesca. In quello stesso torno di tempo, infatti, iniziò il suo declino. Le ragioni del progressivo affievolirsi dell’attrattiva del «modello inglese» vanno innanzi tutto ricercate nell’evoluzione della realtà politica e istituzionale interna alla Gran Bretagna. Le riforme elettorali del 1832 e, ancor di più, del 1867 allargarono sensibilmente il suffragio e, inevitabilmente, scolorirono i tratti «corporativi» d’ori­ gine medievale propri della concezione inglese della rappresentanza. Inoltre, tra le conseguenze non previste delle leggi che allargavano e riformavano il suffragio, vi fu la nascita del moderno partito politico extraparlamentare. Questo nuovo soggetto fece la sua comparsa nella vita istituzionale inglese dopo il Reform Act del 1867. Il suo «inventore» fu un homo novus della politica inglese, Joseph Chamberlain, il quale sperimentò l’efficacia della nuova «macchina politica» innanzi tutto nella mu­ nicipalità di Birmingham, nella quale era consigliere comunale. L’esperimento ebbe un incredibile successo e permise ai liberali di stravincere le elezioni. Gli oppositori politici di Chamberlain denominarono sprezzantemente la sua invenzione «caucus di Birmingham» (caucus era il nome con il quale venivano indicate le assemblee dei partiti americani, accusate di essere fonte di corruzione e luoghi dominati da uomini politici spregiudicati, i cosiddetti boss). Ciò, però, non bastò ad arrestare l’ascesa

del nuovo partito. In poco tempo esso si propagò da Birmingham ad altre località e il fenomeno portò nel 1877 al varo di un’organizzazione nazionale attraverso la federazione delle differenti esperienze partitiche locali, la National Liberal Federation. Anche in casa tory la nascita nei tardi anni Sessanta delle National Union of Conservative and Constitutional Associations e del Conservative Central Office segnò l’avvio a livello nazionale del modello di partito extraparlamentare. Ben presto, insomma, il partito politico che poteva contare su un’organizza­ zione capillare radicata nel territorio divenne un protagonista imprescindibile della dinamica politica inglese. La circostanza preoccupò non poco quanti avevano fino a quel punto ammirato acriticamente il «modello inglese». Essi temevano l’emergere di un nuovo ceto politico radicale che avrebbe stravolto con la sua ca­ rica ideologica sia il sistema parlamentare sia quello partitico. Pochi anni più tardi, queste fosche previsioni vennero smentite dall’andamento della vita politica: il leader del partito parlamentare conservò la propria egemonia sulla «macchina»; l’importanza del voto radicale rimase contenuta entro limiti fisiologici; la tendenza alla semplificazione dello schieramento partitico venne confermata. In sintesi, si può affermare che il «modello inglese» dimostrò un’incredibile capacità di adatta­ mento al mutare delle condizioni storico-sociali. D ’altro canto, altre circostanze concorsero a favorire tale esito. A partire dagli anni Settanta si fece sempre più evidente che lo spirito del «modello inglese» non riusciva ad attecchire in quei paesi che, pure, avevano ispirato a esso l’organizzazione dei rispettivi sistemi poli­ tici. L’Italia rappresentò in tal senso un esempio eloquente. C’è chi ha giustamen­ te notato come la quasi totalità della classe politica italiana risorgimentale - da Sella a Zanardelli, da Cairoli a Rudinì - sentisse il bisogno di inserire in ogni suo scritto o discorso politico dedicato alla costruzione dello stato un riferimento all’esempio inglese. D’altro canto, non si può fare a meno di notare come le scelte contingenti dello stato unitario giunsero a contraddire apertamente queste evoca­ zioni. Infatti, nei primi decenni di vita del nuovo stato, e ancor prima nell’espe­ rienza costituzionale del Piemonte sabaudo, non furono poche le decisioni che allontanarono l’Italia dall’Inghilterra: la legge elettorale basata sul collegio unino­ minale a doppio turno (anziché a turno unico, come in Gran Bretagna); il cosid­ detto «connubio» che vide la convergenza al centro delle forze favorevoli al siste­ ma e, dunque, la negazione del bipartitismo tipico del «modello inglese»; la centralizzazione amministrativa; il «trasformismo». Per molte di queste scelte, i national builders giustificarono il loro distacco da quel modello tanto apprezzato con l’eccezionaiità della situazione politica e con le esigenze particolari del proces­ so unitario. Il nuovo stato era una costruzione molto fragile e, perciò, avrebbe dovuto guadagnarsi ogni giorno la legittimazione. La classe politica che lo aveva edificato doveva guardarsi a destra dai «neri» (così erano denominati i cattolici che, a causa del conflitto tra stato e chiesa, non accettavano di prendere parte at­ tiva alla vita politica) e a sinistra dai «rossi» (repubblicani e radicali che, pur avendo dato un contributo all’unificazione, avrebbero voluto trasformare la forma di stato da monarchica in repubblicana). Essa, inoltre, doveva affrontare le diffi­ coltà provenienti dalla mancanza di un’amministrazione nazionale. Tali difficoltà risultavano ancor più acuite per il fatto che il conflitto politico era fortemente se­ gnato da problemi e dinamiche di carattere locale e regionale: residuo inevitabile della stagione preunitaria. Infine, da Cavour in poi, la classe politica liberale si trovò a sostenere un confronto interno con la corona nel tentativo di trasformare

la monarchia costituzionale in monarchia parlamentare. In altri termini, sfruttan­ do la natura non rigida dello Statuto albertino, intendeva far sorgere un rapporto di fiducia tra governo e parlamento, depotenziando di senso istituzionale il loro comune riferimento al monarca. Fino agli anni Settanta i national builders italiani si limitarono, dunque, a citare l’esempio inglese a sostegno di opzioni che, in realtà, ne contraddicevano la pratica. L’evoluzione costituzionale della Terza repubblica francese rappresentò un caso ancora più evidente e radicale di distacco dal model­ lo originario, e il processo mise in rilievo come, paradossalmente, fosse proprio il primato della prassi sulla legge scritta - principio sacro per ogni anglofilo che si rispetti - ad allontanare la Terza repubblica dall’esempio che ne aveva ispirato la nascita. La svolta fondamentale avvenne nel 1877. Alla testa della repubblica, che nel 1875 aveva ricevuto le sue leggi «fondamentali», era stato eletto nel 1873 Patrice de Mac-Mahon, militare di tendenze conservatrici intenzionato a ricostituire l’ordine morale appoggiandosi all’esercito e alle istituzioni secolari della chiesa. Tale progetto di restaurazione politica s’integrava perfettamente col tentativo di adattare il «modello inglese» a una forma di stato repubblicano. Fu proprio questa forte compenetrazione che condannò l’anglofilia francese a un nuovo insuccesso. Per realizzare le sue mire politiche, infatti, Mac-Mahon aveva bisogno di conferire reale autonomia all’esecutivo. Tentò, perciò, di costruire un arco di ponte tra la presidenza della repubblica e il governo poggiando tale costruzione sul senato per bilanciare e comprimere il potere della camera elettiva. Si trattava, in altri termini, di mettere in discussione la centralità assoluta del parlamento a favore di un equi­ librio dei poteri piuttosto spostato verso l’esecutivo. In questo tentativo MacMahon trovò un alleato nel duca Albert de Broglie, liberale orleanista assai legato a Guizot e alla tradizione anglofila. I presupposti del progetto politico di MacMahon rendevano inevitabile lo scontro istituzionale tra presidente e parlamento. E infatti Mac-Mahon nel maggio 1876, utilizzando le prerogative presidenziali, costrinse alle dimissioni Jules Simon, presidente del Consiglio allora in carica, e lo sostituì proprio con de Broglie. Immediatamente dopo chiese al senato l’autoriz­ zazione per sciogliere le camere. L’autorizzazione gli venne concessa, sebbene di misura. Questi atti istituzionali suscitarono la violenta reazione della camera che, a larga maggioranza, sottoscrisse un manifesto di denuncia della politica reaziona­ ria e avventurista del presidente e votò una mozione di sfiducia al suo indirizzo. Tutto ciò portò alle elezioni legislative che si preparavano ad assumere il senso di un vero e proprio referendum sulle istituzioni. Per forza di cose, i sostenitori del «modello inglese» si trovarono a far fronte comune con conservatori e «clericali» contro i repubblicani «laici» sostenitori della centralità assoluta del parlamento. Le elezioni si svolsero il 14 e il 28 ottobre 1877 (primo e secondo turno) e diedero un’indiscutibile anche se non eclatante vittoria agli avversari di Mac-Mahon. Tale risultato ebbe conseguenze importanti sullo sviluppo delle istituzioni della Terza repubblica, indebolendo definitivamente il ruolo del presidente della repubblica. Ma soprattutto portando il potere esecutivo a configurarsi come una sorta di pro­ iezione dell’assemblea, ripristinando così la centralità del parlamento tanto cara alla tradizione repubblicana. In tale contesto, anche i partiti politici avrebbero trovato una legittimazione, a condizione che il loro ruolo fosse ancillare rispetto a quello delle istituzioni parlamentari e, più specificamente, a quello del singolo deputato legato al suo arrondissement dal sistema elettorale vigente.Vi è, infine, un’ultima ragione tra quelle che determinarono il tramonto del «modello inglese».

Gli anni Settanta dell’Ottocento in Europa furono segnati anche e soprattutto dalla formazione dell’Impero tedesco, conseguenza della forza militare prussiana e, da ultimo, della vittoria della Prussia nella guerra che nel 1870 la oppose alla Francia di Napoleone III. La nascita del nuovo impero fu un evento che sconvolse l’ordine geopolitico europeo, compromettendo seriamente l’equilibrio costruito nel Congresso di Vienna. L’artefice primo dell’unificazione tedesca fu il cancellie­ re prussiano Otto von Bismarck. Salito al potere nel 1862, intraprese una politica estera che seppe armonizzare aggressività e diplomazia. Nel campo della politica interna, invece, utilizzò la priorità dell’unificazione nazionale per dare una solu­ zione autoritaria ai problemi costituzionali aperti, spiazzando i liberali e indebo­ lendo fortemente le loro richieste. Da tali premesse derivò nel 1871 una costitu­ zione imperiale fondata sul principio monarchico. Il sistema si configurava come una monarchia militare che, incredibilmente, si sarebbe trovata a convivere con un parlamento eletto a suffragio universale maschile diretto e segreto, utilizzando un sistema elettorale maggioritario, uninominale a doppio turno. La struttura parla­ mentare era bicamerale: prevedeva una camera bassa (Reichstag) e una camera alta (Bundesrat). Quest’ultima riuniva i rappresentanti degli stati della federazione e al suo interno la Prussia - esprimendo da sola ben 17 dei 58 voti previsti - aveva un ruolo fortemente egemone. Il parlamento, però, godeva di scarsissime preroga­ tive in quanto il punto di riferimento di ogni potere e il centro di ogni decisione restava l’imperatore. A esso faceva riferimento anche il fortissimo elemento buro­ cratico, l’azione del quale sfuggiva del tutto al controllo del parlamento. La costi­ tuzione imperiale del 1871 prevedeva, infine, anche la figura del «cancelliere dell’impero», capo dell’esecutivo in posizione sovraordinata rispetto ai ministri, responsabile solo di fronte all’imperatore. Questa struttura istituzionale così peculiare merita qualche riflessione. Innanzi tutto non va perso di vista l’elemento contingente: il tentativo di Bismarck di fare del suo personale ruolo di cancelliere la chiave di tutto il sistema. Il «modello te­ desco» conteneva elementi che consentivano di conciliare la richiesta più classica dei movimenti liberali e democratici - il suffragio universale - con una razionalità di fondo che restava autoritaria. Fu questa commistione di reazione e moderniz­ zazione che affascinò i contemporanei. Non furono pochi gli uomini politici e gli intellettuali europei che reagirono alla crisi del positivismo e della religione del progresso, al crescere della tensione sociale e al radicalizzarsi del conflitto di classe, alla nascita dei primi partiti operai, rintracciando nel «modello tedesco» una possibile soluzione ai problemi dei rispettivi paesi. Essi prestarono assai poca attenzione a un aspetto che, involontariamente, il «modello tedesco» favoriva: lo sviluppo di fortissimi partiti extraparlamentari. Concorrevano a tale risultato sia il suffragio universale, sia il fatto che alcuni partiti erano obbligatoriamente portati a costruirsi come strutture di opposizione permanente al sistema, sia le campagne repressive che Bismarck scatenò prima contro i cattolici del Zentrum, poi contro i socialdemocratici dell’Spd. In particolare quest’ultimo partito (destinato a divenire il modello del partito moderno, extraparlamentare e di massa) si configurò come un vero e proprio piccolo «stato nello stato». La formula - parafrasata da Robert Michels - evidenzia come l’Spd avesse strutture d’integrazione, simboli e miti al­ ternativi a quelli dell’ente sovrano; ma soprattutto esso imponeva un’obbligazione politica per forza di cose destinata a entrare in concorrenza con quella dello stato. Il cittadino, in altri termini, era portato prima a sentirsi iscritto al partito e poi sud­

dito del Reich. Tale novità, astrattamente considerata, aveva in sé la potenzialità di sovvertire i principi propri della teoria rappresentativa. Alcuni casi storici, riferiti a epoche diverse, avrebbero dimostrato la flessibilità degli istituti della rappresen­ tanza e la loro capacità di convivere anche con l’ingombrante presenza dei partiti, modificandosi senza snaturare il loro equilibrio interno. La paura che tale convivenza non fosse possibile fu una delle cause che, negli ultimi decenni del XIX secolo, conquistò molti liberali alla causa dell’autoritarismo. Al cospetto di uno scontro sociale che montava, di richieste sempre più radicali, di un conflitto politico che dalle aule parlamentari si spostava con preoccupante frequenza nelle piazze, nei principali paesi dell’Europa continentale fu forte e diffusa la tentazione di reagire alla sfida attraverso la costruzione di stati forti e l’adozione di politiche repressive. Questi tentativi furono però sconfitti e il nuovo secolo si aprì nel segno del parlamentarismo e della democrazia. Persino la Russia zarista - il sistema più autoritario d’Europa - conobbe a partire dal 1905 una limi­ tata apertura nella direzione dei principi costituzionali. Essa, però, era il segno del mutamento dei tempi. Dopo la sconfitta del 1905 nella guerra contro il Giappone e la conseguente rivoluzione che, nello stesso anno, fece vacillare il potere zarista, nel 1906 si svolsero le elezioni (anche se a suffragio ristretto) della prima duma (parlamento); essa godeva di poteri assai ridotti e si trovava alla mercé dello zar e del potere esecutivo, che potevano proclamarne la dissoluzione ogniqualvolta essa contraddicesse! loro piani. In Germania, invece, l’avvento degli anni Novanta segnò il fallimento della legislazione antisocialista e, contemporaneamente, mise termine al potere di Bismarck. Infine il «cancelliere di ferro» fu vittima del sistema che aveva edificato e, non riuscendo più a proporsi come punto di mediazione delle forze che aveva egli stesso attivato, nel marzo del 1890 venne licenziato dall’imperatore Guglielmo IL In Francia alla crisi determinata dal «tentativo Mac-Mahon» seguirono, nei due decenni successivi, altre due scosse politiche che misero in forse le basi stesse del regime. Negli anni Ottanta il protagonista fu il generale Boulanger; nel decennio successivo fu il cosiddetto «affaire Dreyfus» a mobilitare le coscienze e a rendere popolare la lotta politica come mai era avvenuto in precedenza. In entrambe le occasioni la Francia tornò a spaccarsi in due schieramenti antitetici. La circostan­ za dimostrò come la debolezza politico-istituzionale fosse destinata a divenire un elemento caratteristico dell’esperienza della Terza repubblica. Proprio tale debolezza «costitutiva» avrebbe consentito di saldare un fronte repubblicano in difesa del regime, contro la minaccia che proveniva da destra. Tale schieramento uscì vittorioso dalle ripetute crisi e conferì alle istituzioni della Terza repubblica una torsione decisamente parlamentare. Così, negli ultimi decenni del secolo la Rivoluzione francese riusciva finalmente a entrare in porto. La sua tradizione cul­ turale e istituzionale era stata recepita e addomesticata da un regime che, seppure tra difficoltà e sussulti, aveva conquistato la durata. In Italia le difficoltà non furono meno acute. Si può affermare che gli anni di fine secolo videro svilupparsi la prima crisi politica di ampiezza realmente nazio­ nale, combattuta sul terreno del liberalismo e del parlamentarismo. Da una parte si schierarono le forze che, di fronte alle crescenti difficoltà soprattutto di ordine pubblico, ritennero necessaria una restrizione delle libertà collettive e individuali, nonché un passo indietro in ambito istituzionale (questa politica di abbandono del parlamentarismo fu emblematicamente sintetizzata dal titolo dell’articolo di Sidney

Sonnino, Torniamo allo Statuto). Dall’altra si schierarono quanti ritenevano che bisognasse proseguire lungo la via della democratizzazione dello stato, rafforzando l’esperienza parlamentare. Dalla crisi uscì vittorioso lo schieramento liberaldemocratico (che, nell’oc­ casione, si estese fino ai socialisti). Giovanni Giolitti fu l’uomo politico che in quell’occasione emerse, candidandosi a esercitare una durevole egemonia sul sistema politico italiano. Per formazione, per convinzione e per realismo Giolitti non tentò di edificare un sistema dotato di strutture partitiche stabili. Preferì razionalizzare il parlamentarismo raffinando i sistemi di cooptazione dei singoli deputati nell’area della maggioranza e cercando di allargare le basi del sistema in direzione dei socialisti riformisti. Certamente questa soluzione rappresentò un progresso e un rafforzamen­ to del sistema negli anni d’inizio secolo. Ci si è però a lungo domandati se il sistema giolittiano non fosse destinato a corrompersi molto presto e se alla vigilia della guerra mondiale fosse ancora in grado di fronteggiare una realtà politica che, grazie alla concessione del suffragio quasi universale maschile nel 1913 e al progressivo inserimento dei cattolici nella vita politica, si era molto modificata. A tal proposito, nella storiografia si rintracciano due tesi che, schematicamente, possono così essere riassunte: una ha sostenuto che nel 1915 il sistema giolittiano possedeva ancora energie e strumenti per affrontare con profitto la realtà politico­ sociale italiana; l’altra ha invece sottolineato i segni di crisi che esso avrebbe già manifestato negli anni che precedettero la guerra, nonché i sintomi del suo immi­ nente esaurimento. Ciò che è indiscutibile sono i mutamenti che la guerra mondiale portò alla concezione e alla pratica della lotta politica: cambiamenti destinati ad avere effetti sconvolgenti su uno stato come quello italiano relativamente giovane e che non aveva ancora del tutto superato la sua crisi di legittimazione. 3.

La guerra mondiale e l’«era delle tirannie»

La guerra mondiale fu un salto nel buio del quale nessun governo, nessuna classe politica o singolo statista potè valutare in anticipo tutte le implicazioni e le conseguenze. Fino ad allora nessun conflitto armato aveva imposto uno sforzo di mobilitazione così esteso e prolungato. Essa portò con sé l’abitudine alla gerarchizzazione dei contesti sociali e alla logica del comando e condusse a un’inevitabile radicalizzazione delle passioni politiche. D’altro canto, non si può pensare che la dinamica amico/nemico, resa ancor più pervasiva dalla propaganda di guerra (arma di tipo nuovo alla quale ricorsero tutti i paesi belligeranti), potesse restare confinata alle trincee. Su questo substrato s’innestarono le novità politiche delle quali la Prima guerra mondiale fu la levatrice: prima fra tutte la Rivoluzione bol­ scevica del ’17. Protagonista principale dell’avvento del comuniSmo fu un partito di tipo nuovo, non più di massa (con l’obiettivo d’integrare strati sempre più ampi di popolazione per «derivare» infine una società di tipo socialista), bensì partito di quadri selezionati, rivoluzionari di professione che avevano il compito di causare una rottura violenta della continuità statuale. L’esportazione di questo partito fuori dalla Russia sarebbe stata il mezzo per diffondere la Rivoluzione bolscevica. I comunisti avevano vinto nel paese economicamente più arretrato d’Europa, con una struttura sociale e un’economia di tipo prevalentemente contadino. Tale realtà smentiva le previsioni marxiste che avrebbero voluto il comuniSmo come

la conseguenza necessaria dello sviluppo capitalistico. Per i comunisti salvare l’o­ biettivo di lanciare la sfida al sistema capitalistico su scala mondiale e sul terreno della modernizzazione significava estendere la loro rivoluzione ad altri contesti. Così, l’occasione si presentava propizia in quei paesi usciti sconfitti dalla guerra: in primo luogo la Germania, che a suo tempo era stata indicata da Marx come la terra promessa della rivoluzione comunista. Il tentativo, da parte dei comunisti, di utilizzare lo smarrimento della sconfitta per conquistare alla causa della rivoluzione i paesi soccombenti non riuscì. Questo insuccesso rappresentò una carenza originaria del progetto di creare un sistema comunista su scala mondiale. D’altro canto, nell’immediato dopoguerra i sistemi liberaldemocratici si trovarono ad affrontare problemi di portata non minore. L’in­ troduzione di un’economia controllata nel corso del periodo bellico aveva messo in forse i postulati più tradizionali dell’economia liberale aprendo ampi spazi alla proposizione di modelli economici che andavano dalla concertazione al piano. A livello delle istituzioni si avvertì l’inadeguatezza degli strumenti classici della rappre­ sentanza per fronteggiare il tumultuoso avvento delle masse sulla scena politica e i mutamenti strutturali che avevano investito il mondo del lavoro. Si è già detto come le istituzioni rappresentative fossero riuscite ad assorbire e superare l’affermarsi di partiti non più solo parlamentari, ma diffusi e radicati sul territorio. La nascita delle «macchine» politiche aveva portato a una revisione di costumi e strumenti consolidati, ma non aveva stravolto i postulati di fondo della teoria rappresentativa. Questi furono invece radicalmente negati dall’incontro tra il partito e la rivoluzione. Tale connubio aveva infatti lo scopo di affermare una precisa concezione ideolo­ gica e una specifica organizzazione statuale attraverso l’annientamento di tutte le posizioni contrastanti. Veniva così radicalmente negato il fine ultimo della rappre­ sentanza: quello di creare uno spazio regolato nel quale il conflitto politico potesse avere corso ordinario e ordinato. Come è ovvio, tale concezione non fu propria di tutti i partiti ma solo di quelli che - da posizioni ideologiche differenti e anche opposte - si posero obiettivi di assoluta negazione dello stato liberaldemocratico. La presenza di tali soggetti politici però - coniugata con i residui lasciati dal tempo di guerra - contribuì a creare un clima che coinvolse tutti i partiti irrigidendo le loro strutture organizzative e radicalizzando la loro proposta politica. Anche da tale dinamica derivò una spinta ad accentuare la proporzionalità dei sistemi politici, che investì tutta quanta l’Europa. Persino in Gran Bretagna, patria e regno del sistema maggioritario, si diffuse la forte tentazione di adottare un sistema proporzionale che fu vinta solo in extremis. Francia, Italia e Germania - sebbene in tempi e attraverso leggi assai differenti - non riuscirono invece a sfuggire all’imperioso affermarsi della logica proporzionale, e la circostanza contribuì non poco a modificare (e, nel caso della Germania, a modellare) i rispettivi sistemi politici. Tutto ciò porta a descrivere il primo dopoguerra come il tempo nel quale si produsse una crisi di portata europea dei principi e delle soluzioni che i sistemi liberaldemocratici avevano pazientemente selezionato nel corso dell’Ottocento e nel primo decennio del nuovo secolo. Tale crisi attraversò vincitori e vinti e fu resa drammatica dalla sfida che proveniva da quanti ritenevano ormai agli sgoccioli il tempo del liberalismo e della democrazia. Questa circostanza impedisce di giudi­ care le proposte e i tentativi di rinnovamento del patrimonio liberaldemocratico, che la sfida con il totalitarismo stimolò nei diversi paesi europei, solo con il metro dell’efficacia nell’impedire l’avvento di dittature illiberali. Tra questi tentativi, nel

campo delle soluzioni istituzionali, un posto di particolare rilievo occupa la cosid­ detta Repubblica di Weimar. Fu questo il nome (derivato dalla città nella quale sedette l’Assemblea costituente) dato al regime politico che successe alla dissolu­ zione dell’Impero guglielmino, formandosi sulle ceneri della Rivoluzione tedesca del 1917-18. La forma di stato prevista dalla nuova costituzione rimase federale con diciotto stati membri. Attraverso il suffragio universale allargato alle donne al di sopra del ventesimo anno di età, si eleggeva il Reichstag. Accanto a esso continuava a persistere un parlamento federale nel quale i diversi stati avevano una rappre­ sentanza proporzionata all’ampiezza dei rispettivi territori. Il governo, presieduto da un cancelliere non più sovraordinato rispetto ai suoi ministri, avrebbe dovuto ricevere la fiducia del Reichstag, mentre alla testa dello stato - ed era questa la grande novità proposta dalla costituzione di Weimar - fu posto un presidente della repubblica con poteri non secondari (tra i quali quello di scioglimento praticamente diretto della camera alta), che ogni sette anni veniva eletto a suffragio universale. Questo sistema politico-istituzionale, nonostante le innovazioni proposte e il ruo­ lo accresciuto che al suo interno vennero a occupare i partiti, non fu in grado di evitare che nel 1933 Adolf Hitler e il Partito nazionalsocialista salissero al potere. Dopo essere stata sconfitta in Russia nel ’17 e in Italia nel ’22 dove, come si dirà, Benito Mussolini era salito al potere ponendo le premesse per l’instaurazione del regime fascista, la democrazia capitolava in un altro grande paese europeo. Si delineava quella che un grande intellettuale europeo, Elie Halévy, ha battezzato l’«era delle tirannie». Alcune analisi storiche e sociologiche hanno utilizzato la nozione di «regime totalitario» per accostare il comuniSmo sovietico, il fascismo italiano e il nazismo tedesco. Con ogni evidenza, un’analisi dei tre sistemi sotto il profilo ideologico e della loro struttura istituzionale impedisce l’uso della categoria per stabilire l’equivalenza di esperienze profondamente dissimili. Il discorso si fa differente se, invece, il «totalitarismo» è inteso come idealtipo weberiano: costru­ zione astratta che, applicata a situazioni storiche concrete, agevola la comparazione, aiutando a cogliere le loro differenze, ancor più che le loro uniformità. L’idealtipo del regime totalitario può essere così sinteticamente tratteggiato: un sistema in grado di garantire a un’unica forza organizzata il controllo dei processi sociali e politici e di imporre una rigida pianificazione economica i cui obiettivi prescindano del tutto da una logica di mercato. Tale definizione consente di stabilire le princi­ pali differenze tra i regimi totalitari e i regimi autoritari. Nella sfera economica i primi ricercano l’abolizione del mercato mentre i secondi, pur proponendo forme di oppressione e illibertà politica in alcuni casi identiche, si disinteressano del controllo dei processi economici. In ambito politico-istituzionale, il regime totali­ tario deve essere, con ogni evidenza, un regime sostanzialmente monopartitico (si usa l’avverbio in quanto, soprattutto nel secondo dopoguerra, sono esistiti regimi politici formalmente multipartitici che nascondevano una realtà ben diversa). Questa, però, è condizione necessaria ma non sufficiente. Vi sono state, infatti, dittature a partito unico - come il Portogallo di Antonio Salazar e di Marcelo Caetano (1925-74) e la Spagna di Francisco Franco (1936-75) - che non possono essere classificate tra i regimi totalitari. La sostanziale indifferenza di questi regimi verso il controllo dei processi economici e la creazione di società nuove ha portato la Falange spagnola e l’Unione nazionale portoghese (erano così denominati i due partiti di regime) a occupare un ruolo che può definirsi marginale all’interno dello stato. La Falange ha gradatamente perso importanza; l’Unione nazionale non ha mai

avuto un ruolo significativo e nell’ultimo periodo del regime è divenuta pressoché inesistente. Queste considerazioni consentono di comprendere perché nei regimi totalitari il partito unico debba godere di una posizione istituzionale centrale, che tende all’edificazione di un vero e proprio «stato-partito». E questa, infatti, una condizione indispensabile affinché siano conseguibili gli obiettivi di monopolio sociale e di controllo del ciclo economico che caratterizzano ogni regime totalita­ rio. Da tale esigenza deriva un’altra prerogativa dell’idealtipo dei sistemi politici totalitari: il carattere fittizio del costituzionalismo da essi espresso. In realtà, le leggi e le procedure sono stabilite e modificate secondo la volontà della suprema leadership del partito. Tali condizioni si ritrovano nell’Unione Sovietica, che nella sua storia ha cono­ sciuto ben quattro costituzioni: del 1918, del 1924, del 1936 e del 1977. Prima di addentrarsi nella ricognizione di queste Carte va, però, ancora una volta rimarcato come la struttura e il funzionamento dello stato da esse regolato, nella concreta realtà storica, siano stati sottomessi al ruolo egemone esercitato dal partito e dalla sua nomenclatura. Da un punto di vista storico, va notato come la costituzione del ’18 fu applicata solo in Russia e servì da modello a quelle delle altre repubbliche che, con la disfatta dell’Esercito bianco, caddero di fatto nell’orbita russa. Essa conserva un’importanza originaria in quanto conferì un impianto piramidale all’organizzazione dei poteri (i poteri si disponevano verticalmente, partendo dalla base e giungendo, per deleghe successive, fino al vertice del potere supremo), che contraddiceva la disposizione orizzontale dei poteri propria delle liberaldemocrazie. La costituzione del ’24 fu la prima a essere applicata all’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss). Prevedeva una forma di stato federale e, di conseguenza, presentava una struttura bicamerale. Questa Carta venne perfezionata nel 1936 dalla costituzione che espres­ se la maturità del regime e che - altra espressione caratteristica del totalitarismo - costituzionalizzò aspetti che nel XIX secolo i regimi liberaldemocratici avevano riservato alla legge ordinaria. Gli organi politici federali previsti a partire dalla costituzione del 1936 furono tre: il Soviet supremo, il Presidium e il Consiglio dei commissari del popolo (dal 1946 ribattezzato Consiglio dei ministri). A sua volta il Soviet supremo, costruito sul modello dei parlamenti federali, comprendeva due camere: nel Soviet delle na­ zioni erano rappresentati gli stati federati sui quali la Russia esercitava un’evidente egemonia. La seconda camera era chiamata Soviet dell’Unione ed era eletta a suf­ fragio universale diretto (introdotto per la prima volta dalla costituzione del ’36). Il Presidium era invece un organo che non trova corrispóndenti nei sistemi politici occidentali. Era composto da un presidente, 14 vicepresidenti e 20 membri eletti dalle due camere del Soviet supremo in seduta comune. I suoi poteri erano vasti ed eterogenei e potrebbero ricordare quelli attribuiti a un presidente della repubblica in un sistema semipresidenziale. Infine, vi era il Consiglio dei commissari del popolo i cui componenti erano nominati dal Soviet supremo e potevano in ogni momento essere da questo revocati. Il Consiglio non deteneva i poteri dell’esecutivo così come inteso dalle costituzioni occidentali (questo potere era proprio del Soviet supre­ mo e del Presidium). Esso era, piuttosto, l’organo superiore dell’amministrazione statale con il compito di tradurre in pratica le decisioni del Soviet supremo e del Presidium. Va aggiunto che le repubbliche federali avevano formalmente proprie costituzioni che avrebbero dovuto, però, riproporre lo stesso schema formale della

Carta federale. Inoltre, l’unicità del partito e la sua centralizzazione avrebbero dovuto garantire l’omogeneizzazione dell’Unione. Quel che però va posto in rilievo è che l’organizzazione statuale descritta trovava una struttura parallela e corrispondente nell’organizzazione del partito. Questa presentava il medesimo carattere piramidale dello stato con al vertice un Comitato centrale (corrispondente al potere legislativo), un Ufficio politico e la Segreteria (organi del potere esecutivo), la quale aveva gli strumenti e le prero­ gative per affermare un potere di fatto assoluto. Tali gerarchie parallele - quella dello stato e quella del partito - consentivano ai livelli più bassi della piramide uno sdoppiamento reale di funzioni e di persone. Man mano che si procedeva verso il vertice, tale margine diminuiva e la struttura statale si appiattiva progressivamente su quella del partito assicurando a quest’ultimo l’assoluta centralità nel sistema. La doppia struttura aveva, in ogni caso, una funzione che può essere compresa alla luce della pretesa del sistema sovietico di soggiogare ai suoi fini il processo economico e giungere all’abrogazione del mercato. Essa consentiva, infatti, di correggere le rigidità della pianificazione centrale laddove i risultati economici reali avessero smentito le previsioni: l’impossibilità di realizzare il calcolo economico in assenza di mercato aveva forgiato uno strumento istituzionale che consentiva al regime di aggiustare i suoi obiettivi. La Germania nazista, che ancora nel 1939 non aveva trovato una sua stabiliz­ zazione definitiva a livello di regime, presentò una ridotta innovazione nell’ambito delle concrete realizzazioni istituzionali, mentre la sua originalità fu decisamente maggiore nell’ambito delle teorie giuridiche e filosofiche che furono prodotte per giustificare la natura totalitaria del regime. Adolf Hitler salì al potere nel gennaio 1933, in conseguenza di una crisi politica ed economica aggravatasi dopo la crisi dell’economia mondiale del 1929. Il regime assunse subito i tratti di una dittatura repressiva e il 14 luglio del 1933 il Partito nazionalsocialista fu proclamato partito unico. Si trattava di un «partito milizia» che proponeva la struttura piramidale ca­ ratteristica delle organizzazioni totalitarie, nonché le medesime simbologie: divise, rigido inquadramento gerarchico, marce, bandiere e simboli. La sua organizzazione assumeva a modello la struttura gerarchica del mondo militare e il nucleo più im­ portante era rappresentato dalla milizia (le famigerate squadre d’assalto), vero e proprio esercito di partito. Nel dicembre dello stesso anno una nuova disposizione normativa pose le basi per una sempre maggiore compenetrazione tra stato e parti­ to. Essa, infatti, dispose che i membri del partito avrebbero goduto di uno statuto speciale, sottraendoli così al giudizio dei tribunali ordinari, che il responsabile politico-organizzativo del partito (denominato «sostituto del Fùhrer») e il capo dello stato maggiore delle Sa fossero membri di diritto del governo, e prescrisse la «massima collaborazione» tra organi di partito e pubbliche autorità. Infine, la morte del presidente della repubblica Hindenburg nell’agosto del 1934 portò Hitler a unificare nella sua persona le funzioni di capo di stato e capo del governo. Da un punto di vista formale il regime nazista non si spinse oltre. Non si arrivò mai ad abrogare il regime legale precedente né venne mai sanzionata la subordinazione legale dello stato al partito. Questa si produsse nei fatti, attraverso l’abolizione del sistema federale e la progressiva conquista di quasi tutti i ruoli di dirigenza politica (assai meno di quella amministrativa) da parte di uomini che occupavano posi­ zioni eminenti all’interno del partito. Semmai, il ruolo egemone del partito trovò una limitazione nell’assolutezza del dominio di Hitler. La posizione del Fùhrer fu

teorizzata dai giuristi del regime, che ne stabilirono la legittimazione nell’essere il referente unico del popolo: entità mitica e unitaria definita dal sangue e dal terri­ torio. Da tale fonte sarebbe derivata la giustificazione delle più atroci persecuzioni razziali che la storia ha conosciuto. Sarebbero scaturiti, inoltre, il Fuhrerbefehl (il principio per il quale ogni cosa doveva essere sottoposta all’approvazione del capo) e il Fùhrerprinzip (per il quale ogni controversia doveva risolversi secondo questo principio di autorità). Il fascismo italiano, rapportato al nazismo, ebbe una storia più lunga e costi­ tuzionalmente più complessa. Benito Mussolini salì al potere nel 1922, undici anni prima di Hitler. E la costruzione del suo regime non conobbe la repentinità che fu impressa in Germania da chi, nel corso di una lunga traversata nel deserto, aveva avuto tutto il tempo di ben meditare intorno a un programma d’azione. Infatti, la svolta decisiva in senso autoritario si ebbe soltanto negli anni 1925-26 con l’appro­ vazione delle cosiddette «leggi fascistissime» che non abrogarono formalmente lo Statuto albertino ma segnarono una profonda rottura con la prassi costituzionale in vigore fino al 1922. Esse assicurarono la preminenza del capo del governo nell’or­ dinamento, riconoscendogli poteri e prerogative di grande ampiezza. La presenza della monarchia avrebbe sempre impedito a Mussolini di riunire nella sua persona come potè fare Hitler nel ’34 - le funzioni di capo del governo e di capo dello stato. Non di meno, le leggi in questione lo posero in posizione di superiorità gerarchica rispetto agli altri ministri che divenivano responsabili verso il re e verso di lui e sarebbero stati nominati e revocati per decreto reale su sua proposta. Il capo del governo acquisì inoltre il potere di determinare l’ordine del giorno della camera, ma la subordinazione del potere legislativo all’esecutivo non si limitò a tale aspetto. Le camere, infatti, persero ogni possibilità di controllo e sanzione dell’esecutivo che, inoltre, vide formalmente riconosciuti e sensibilmente ampliati i propri poteri normativi (tra l’altro, il termine per la conversione di un decreto-legge da parte delle camere fu fissato in due anni). Quel che più conta, sempre nel 1926 furono anche proclamate la decadenza dei parlamentari delle opposizioni (con la giustificazione formale che tutti, tranne i comunisti, dopo il delitto Matteotti avevano abbando­ nato l’aula in segno di protesta) e la soppressione dei partiti politici. Fu questa la premessa alla «costituzionalizzazione» del partito unico che avvenne nel 1928-29 attraverso le leggi che fecero del Gran consiglio del fascismo (la massima espressio­ ne del Pnf) un organo dello stato alle dirette dipendenze del capo del governo. Il Gran consiglio avrebbe dovuto essere obbligatoriamente ascoltato su ogni questio­ ne costituzionale (tra le quali furono espressamente previste la successione al trono e le prerogative della corona) e su altre questioni di primaria importanza (trattati internazionali, ordinamento sindacale e corporativo, rapporti tra stato e chiesa, ecc.). Infine, sempre nel 1928, vennero radicalmente innovate e adeguate alla realtà di un regime a partito unico le modalità di elezione della camera. Il nuovo sistema elettorale affidò alle organizzazioni collaterali al partito (sindacati, associazioni, ecc.) il diritto di proporre al Gran consiglio mille nominativi, tra i quali questo ne avrebbe selezionati quattrocento da sottoporre a un plebiscito nazionale nel quale gli elettori, riuniti in un collegio unico nazionale, avrebbero avuto solo la possibilità di approvare o respingere la lista. Questo sistema fu sperimentato una prima volta nella consultazione plebiscitaria del 24 marzo 1929 e una seconda volta nel marzo 1934. Una legge del 19 gennaio 1939 provvide poi ad abrogare la camera elettiva e a istituire la camera dei Fasci e delle Corporazioni, nella quale sarebbero stati

cooptati quanti rivestivano determinate cariche in seno al partito e alle corporazioni. Questa legge espelleva dal sistema gli ultimi residui di rappresentatività politica e affermava al loro posto una concezione funzionale della rappresentanza. Il regime intese in tal modo rilanciare e portare a compimento sul terreno istituzionale la costruzione dello stato corporativo: obiettivo originario del fascismo e uno dei suoi principali miti politici. Nel corporativismo di marca fascista si ritrovano, adattati alle peculiarità di una determinata contingenza storica, gli elementi caratteristici di quello che può definirsi il corporativismo classico caratteristico della società cetuale à’Ancien Regime: critica dell’individualismo borghese, opposizione al mercato, rifiuto della concorrenza. Elementi considerati tutti pericolosi veicoli di disgregazione sociale. Per quanto presente sin dalle origini del movimento come suggestione e indicazione programmatica, il corporativismo si presentò soprattutto come l’arma ideologica più caratteristica del fascismo-regime, a partire dalla fine degli anni Venti. Sul terreno internazionale, infatti, la Grande crisi dell’autunno del ’29 e, correlativamente, gli apparenti successi dell’economia pianificata sovie­ tica, spinsero il fascismo a proporre la politica corporativa come mito della «terza via», in grado di oltrepassare l’alternativa secca tra socialismo e capitalismo. Ciò gli avrebbe consentito di prendere le distanze dalla «decrepita plutocrazia» re­ sponsabile della crisi mondiale, risuscitando la connotazione rivoluzionaria degli esordi. Tale politica, in una dimensione interna al movimento, servì al fascismo per reagire ai primi sintomi di sclerosi e alla pressione determinata dall’avvento di una nuova generazione, consentendogli di rivitalizzare - attraverso la proposizione di un mito di modernizzazione - il proprio rapporto con le generazioni più giovani. Non a caso, il dibattito sul corporativismo trovò un’eccezionale risonanza nella stampa dei Gruppi universitari fascisti (Guf). Se si guarda ai tentativi del regime di trasformare il corporativismo nel principio ordinatore del nuovo stato fascista - dalle prime realizzazioni degli ultimi anni Venti, fino alla creazione nel ’39 della camera dei Fasci e delle Corporazioni - è necessario concludere che tale politica si risolse in un completo fallimento. Questo giudizio può essere considerato ormai un risultato consolidato della ricerca storiografica sin dal 1965 con le analisi di Aquarone sull’organizzazione dello stato fascista, sostanzialmente confermate dalle successive ricerche. Il discorso muta di prospettiva laddove si valuti il significato del corporativismo nell’ambito del dibattito sulla natura totalitaria o meno del fenome­ no fascista. Quanti rifiutano di accostare il fascismo alle altre forme di totalitarismo insistono soprattutto su tre elementi: i «residui» istituzionali ed economici della stagione liberale che il fascismo non riuscì a eliminare (monarchia, senato, chiesa, imprenditoria); la natura marcatamente personale della dittatura mussoliniana; il ruolo istituzionale del partito che, a prima vista, non avrebbe quella centralità che gli riservano il sistema stalinista e quello hitleriano, risultando infine subordinato allo stato (e più precisamente all’esecutivo) e, con il tempo, confinato sempre più evidentemente al ruolo di macchina propagandistica e cassa di risonanza del duce. Va però notato, a tal proposito, che la struttura organizzativa del Pnf anticipò la forma di «partito milizia» già descritta per il nazismo. Inoltre, gli studi più recenti hanno messo in dubbio la sua marginalità sia per ciò che concerne il rapporto con lo stato, sia per il grado di presenza e penetrazione nella società, sia, infine, per il significato della propaganda da esso prodotta che assurse a tentativo di dotare il re­ gime di una propria religione civile. Infine, il programma corporativo - soprattutto nelle sue espressioni più radicali - recuperò a livello ideologico quell’avversione al

mercato e quell’esigenza di controllo del ciclo economico che furono propri degli altri esperimenti totalitari. Queste considerazioni spingono verso una conclusione: se il totalitarismo s’intende come modello perfetto da incarnare, è difficile negare che il fascismo ne fu distante; se però lo si assume come costruzione idealtipica e, dunque, obiettivo tendenziale al quale sistemi differenti tesero nel corso degli anni Trenta, è assai arduo escludere il fascismo dal novero di questi regimi. 4.

Il secondo dopoguerra: la rivincita della liberaldemocrazia

La conclusione del secondo conflitto mondiale segnò una ripresa della demo­ crazia. Tale processo, però, si presentò limitato da almeno due motivi di grande rilevanza. Innanzi tutto la Seconda guerra mondiale non fu lo scontro finale tra le forze del totalitarismo e quelle della democrazia. Gli stati democratici, per scon­ figgere Hitler e le sue pretese egemoniche sulla realtà mondiale, avevano dovuto contrarre una decisiva alleanza con l’Urss comunista di Stalin. Il prezzo di questo accordo avrebbe pesato sugli assetti mondiali del dopoguerra. Esso avrebbe por­ tato alla divisione del mondo in blocchi e a un conflitto - non cruento ma non per questo privo di conseguenze politiche - tra due concezioni dell’organizzazione sociale inconciliabili. Tale realtà s’integrava con l’altro limite di fondo che scontò la ripresa democratica. Esso consistè nel residuo culturale che l’era delle tirannie aveva lasciato dietro di sé. Tale limite fu colto con lucidità già nell’immediato dopoguerra dai maggiori intellettuali europei: negli anni in cui la democrazia sembrava soccombere erano stati forgiati una cultura e dei concetti-simbolo che erano dilagati sul continente, non arrestandosi ai confini degli stati che avevano direttamente conosciuto esperienze totalitarie. Solo il mondo anglosassone era rimasto relativamente immune da tali contaminazioni. Nel più specifico ambito delle istituzioni, va notato come il ciclo costituzionale inauguratosi con il secondo dopoguerra innovò la propria tradizione prevedendo, accanto alla trattazione dei più tradizionali diritti politici, la statuizione dei diritti sociali per la prima volta contemplati dalla costituzione di Weimar. Va invece smentita la completa insensibilità di queste costituzioni al problema dell’instabilità del potere esecutivo. Sia la costituzione della Quarta repubblica francese sia quella della Repubblica italiana e ancor più la Carta della Repubblica federale tedesca cercarono di rafforzare la stabilità dei rispettivi esecutivi. Le esperienze di un pas­ sato troppo recente impedirono che - quanto meno in Francia e in Italia - queste preoccupazioni approdassero a soluzioni efficaci, e i deboli tentativi sarebbero stati ben presto smentiti dalla pratica politica. Accanto ad alcuni tratti comuni delle Carte di «nuova generazione», vanno segnalati gli aspetti più importanti che hanno caratterizzato una sorta di «costitu­ zione materiale europea». L’attenzione va in primo luogo posta sul ruolo assunto dai partiti politici aH’interno delle dinamiche istituzionali. Su questo aspetto è assai difficile generalizzare in quanto in alcuni contesti, come l’Italia, il partito ha avuto una posizione assolutamente centrale divenendo l’elemento di reale razionalizza­ zione del parlamentarismo. In altri, come in Francia, il suo ruolo ha avuto un’e­ stensione assai differente a seconda delle diverse fasi storiche. In altri ancora, come in Germania, i suoi compiti istituzionali sono stati ampi ma costanti nel tempo. Quel che si può notare è che, in ogni caso, il ruolo assunto dai partiti è stato assai

più significativo di ciò che una lettura delle costituzioni del dopoguerra avrebbe potuto far ritenere. In queste Carte, infatti, la loro regolamentazione è ridotta ad aspetti marginali, quando non è proprio del tutto assente. L’altra grande tappa della «costituzione materiale europea» si colloca intorno agli ultimi anni Settanta quando ovunque in Europa si sarebbe tornato a parlare di neocorporativismo. Va subito chiarito come, in questo caso, al termine «corporativismo» fu data un’accezione totalmente diversa rispetto a quella alla quale ci si è riferiti parlando del fascismo. La soluzione neocorporativa, infatti, non si connotava più come una soluzione globale dei problemi politici ed economici ma, più pragmaticamente, come forma di politica economica concertata tra grandi gruppi organizzati: comparti produttivi, organizzazioni sindacali e d’impresa da una parte, governo dall’altra. In questa fase, però, l’Europa era già interessata dal grande fenomeno delle «transizioni»: il passaggio da regimi autoritari o totalitari a regimi democratici. Que­ sta lunga stagione avrebbe visto il passaggio da dittature di «destra» o di «sinistra» a sistemi liberaldemocratici. Prima di accennare a tali eventi epocali, va però chiarito che la vicenda storica del secondo dopoguerra ha proposto anche un’altra tipologia di transizione. Il passaggio in Francia dalla Quarta alla Quinta repubblica, realiz­ zato come già detto da de Gaulle nel 1958, ha infatti rappresentato una transizione tra due modelli diversi di democrazia: da un modello di democrazia storicamente esauritosi si passò a un modello ancora inedito. Questo tipo di transizione ha in­ trodotto nell’orizzonte europeo il cosiddetto semipresidenzialismo. Un sistema nel quale il presidente eletto dal suffragio universale (in Francia questa correzione alla costituzione della Quinta repubblica sarebbe stata introdotta nel 1962 attraverso un referendum popolare) conferisce l’indirizzo politico alla nazione e vede i suoi poteri ampliarsi nei momenti di emergenza. A differenza del presidente americano, però, egli non è il capo dell’esecutivo perché tale funzione è riservata al presidente del Consiglio il cui ministero è legato da un rapporto di fiducia con il parlamento. L’avvento della Quinta repubblica può essere ritenuto una svolta nella storia del costituzionalismo europeo. Esso ha esercitato un’influenza sulle costituzioni più giovani che prescinde dalla mera ricezione del «modello francese». In sintesi, po­ trebbe affermarsi che l’avvento della Quinta repubblica abbia segnato la fine della subordinazione del potere esecutivo al potere legislativo: e tale svolta ha trovato conferma nelle costituzioni che si sarebbero date la Spagna, il Portogallo e la gran parte dei paesi dell’ex area d’influenza sovietica. Per concludere questa sintetica rassegna che ha attraversato due secoli, resta da accennare all’altra tipologia di transizioni. La strada, in questo campo, fu aperta nel 1974 dal Portogallo e l’anno successivo dalla Spagna. Il fenomeno si sarebbe riproposto con dimensioni ben maggiori dopo che il disfacimento dell’impero so­ vietico e la caduta del muro di Berlino hanno creato le premesse per l’unificazione della Germania e il ritorno alla democrazia dei paesi collocati nella sfera d’influenza sovietica. Si può anche già sostenere sul piano storico come questi ultimi fenomeni di transizione - in alcuni casi ancora in evoluzione sotto i nostri occhi - hanno presentato una complessità maggiore rispetto a quelli degli anni Settanta. In questi paesi, infatti, non vi è stato solo da rifondare istituzioni democratiche sulle macerie di democrazie popolari oppressive e illiberali. E stato necessario anche ricreare una economia di mercato che il più grande esperimento d’ingegneria istituzionale mai prodotto dalla storia dell’umanità aveva distrutto. E senza la quale la democrazia, in ogni epoca storica, non è altro che una mera illusione.

Percorso di autoverifica

1. Che cosa si intende, a livello politico-costituzionale, per «modello inglese»? 2. Per quale motivo la Terza repubblica francese nella sua veste originaria può essere considerata un modello costituzionale intermedio? 3. Che cosa si intende per «partito extraparlamentare»? 4. Illustrate i caratteri del «modello tedesco». 5. Come viene definito il modello di partito politico rappresentato dalla Spd, e perché? 6. Perché il Partito bolscevico può essere considerato un «partito nuovo»? 7. Che cosa si intende per idealtipo totalitario? 8. Quali sono le principali differenze tra un sistema autoritario e uno totalitario? 9. Descrivete il progetto fascista di creazione di uno stato corporativo. 10. Illustrate l’apporto della Quinta repubblica alla storia del costituzionalismo europeo.

Per saperne di più

E. Capozzi (a cura di), Le costituzioni anglosassoni e l’Europa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002. L. Diamond e R. Gunther, Politicai Parties and Democracy, Baltimore, Jhu University Press, 2001 .

P. Grilli di Cortona e G. Pasquino (a cura di), Partiti e sistemi di partito nelle democrazie europee, Bologna, Il Mulino, 2007. A. Panebianco, Il potere, lo stato, la libertà. La gracile costituzione della società libera, Bo­ logna, Il Mulino, 2004. L. Viviani, L’Europa dei partiti. Per una sociologia dei partiti politici nel processo di integra­ zione europea, Firenze, Firenze University Press, 2009.

Religioni ed età contemporanea di Cristiana Facchini

Con l’incedere della modernità, le religioni dovettero far fronte a una serie di nuove sfide poste in essere dai cambiamenti economici e politici che investiro­ no le società occidentali dopo le Rivoluzioni americana e francese. L’avvento dello stato liberale, la diffusione dell’idea di tolleranza religiosa, di nuove forme di individualismo e gli straordinari risultati delle scoperte scientifiche, furono tra i fattori più rilevanti che incisero sulla formazione della società moderna. Cristianesimi, ebraismo, islam e induismo cercarono di reagire a queste sfide in diversi modi. Le risposte che elaborarono nel corso dell’Ottocento permetto­ no di comprendere molti fenomeni attuali che riflettono le tensioni tra società moderna e sfera del religioso.

In questi ultimi decenni la religione sembra aver recuperato un rinnovato ruolo pubblico e per svariati motivi è tornata al centro del dibattito mediatico. A catturare l’attenzione degli osservatori politici e dei commentatori, ovviamente, sono fatti legati alle vicende dell’islam politico e in particolare del fondamentalismo religio­ so. Più in generale, la religione sembra ricoprire un ruolo molto rilevante anche in altri contesti culturali, intercettando questioni politiche di natura diversa, come ad esempio il nazionalismo etnico. Negli Stati Uniti, così come in alcuni paesi europei, i rappresentanti ufficiali delle religioni organizzate prendono parola per indirizzare le scelte dei governi e dei cittadini su temi molto importanti come aborto, fecondazio­ ne artificiale, diritti civili, fino a incidere sul rapporto tra scienza e fede, questione quest’ultima che sembrava del tutto superata, almeno nel mondo occidentale. Molti osservatori si sono quindi posti nuove domande relative a quel processo di secolarizzazione che sembrava essere destinato ad affermarsi con la diffusione della modernità. Che cos’è accaduto in questi ultimi decenni? Quali sono le carat­ teristiche specifiche della secolarizzazione? Che ruolo ha la religione nella società contemporanea? Quale è stato il suo ruolo storico a partire dalla Rivoluzione fran­ cese? Si può ora parlare di ritorno del religioso o il religioso non è mai scomparso dall’orizzonte del contemporaneo? Per rispondere ad alcune di queste domande è necessario definire alcune que­ stioni preliminari. L’età contemporanea si apre con due Rivoluzioni, quella americana

e quella francese. Entrambe contribuirono a definire i caratteri di un nuovo assetto politico, lo stato liberale, in cui il ruolo della chiesa e delle chiese nella sfera pubblica subiva un netto ridimensionamento. È su questo snodo centrale che si inserisce il dibattito circa il rapporto tra religioni e secolarizzazione. Con quest’ultimo termine si indica un processo di svuotamento e ridimensionamento della sfera religiosa a vantaggio di quella profana (o secolare, utilizzando un termine che deriva dal latino e indica lo spazio di azione esterno agli interessi della chiesa). La secolarizzazione descriverebbe quindi quel processo culturale, connesso alla diffusione della moder­ nità, in cui il ruolo delle chiese istituzionali viene lentamente eroso sia all’interno delle istituzioni pubbliche sia nella società. Il ridimensionamento delle religioni istituzionali permette di costruire un ideale spazio neutro a cui hanno idealmente accesso tutti i membri della collettività, indistintamente dalla loro fede religiosa. I due modelli politici, quello francese e quello statunitense, danno vita però a forme molto diverse di secolarizzazione e a rapporti quasi opposti tra religioso e non religioso. Nel caso del modello francese è possibile parlare di una separazione tra stato e chiesa tendente a proteggere lo stato dall’ingerenza del sistema religioso. Nel caso del modello statunitense, invece, si può affermare l’opposto, che il prin­ cipio di separazione tra stato e chiesa serve per proteggere le comunità religiose (sempre al plurale) dall’ingerenza dello stato. 1.

Una definizione di modernità

Per comprendere la storia delle religioni in età contemporanea occorre prima di tutto far luce su alcune questioni preliminari e presentare alcune definizioni atte a indirizzare la lettura di queste problematiche. Innanzi tutto possiamo cer­ care di circoscrivere la nozione di modernità, un termine centrale nella riflessione storiografica ed epistemologica, ma sempre più sottoposto a critica in questi ultimi decenni di «post-modernità» o «sur-modernità». La modernità può essere definita in termini politici, filosofici, economici, sociali, religiosi e culturali. Per semplificare possiamo cercare di abbozzare una sorta di modello ideale per capire che cosa si intenda quando utilizziamo questo termine, che ci possa inoltre guidare nella lettura dei fenomeni religiosi in età contemporanea. 1. Da una prospettiva economica, la modernità è l’esito di un processo connes­ so alla nascita e alla diffusione del capitalismo industriale, che, a sua volta, ha inciso sui processi di inurbamento mutando radicalmente il paesaggio tradizionale. Grandi flussi migratori dai villaggi verso la città, dalle zone povere dell’Europa orientale o mediterranea verso le metropoli dei paesi industrializzati, caratterizzarono la storia europea nel corso dell’Ottocento, così come quella di altri continenti nel secolo successivo. Questi massicci flussi migratori cambiarono radicalmente il tessuto culturale delle città europee e americane, contribuendo in modo determinante alla nascita di società multi-religiose. Ma, soprattutto, questo processo contribuì ad affievolire i sistemi religiosi tradizionali. 2. Un ruolo centrale assunse nel corso dell’Ottocento la scienza moderna, i cui risultati si posero, talvolta, in netta contrapposizione con le verità e le certezze di molte tradizioni religiose. A questo livello le ortodossie religiose furono chiamate a un confronto che spesso si trasformò in uno scontro. Il risultato di tale incontro

produsse, in certi contesti, una radicalizzazione dei comportamenti culturali, raf­ forzando le posizioni di difesa religiose o quelle antireligiose. 3. La modernità è caratterizzata, inoltre, dalla diffusione di una nuova forma politica, lo stato liberale, il quale si fonda su una nuova concezione di cittadinanza e sull’applicazione del principio di separazione tra stato e chiesa. All’interno di questo contesto, si diffonde la teoria della tolleranza religiosa, che assume, a partire dalla riflessione ottocentesca, una rilevanza e centralità inedite. 4. Corollario di questi diversi aspetti fu l’intensificarsi della moderna conce­ zione dell’individuo e della sua autonomia, che aumentò il senso della libertà di coscienza, in una prospettiva sia esistenziale sia religiosa. Questa condizione fu bilanciata, nel corso del XX secolo, dalla centralità assunta dai movimenti politici di massa e da una rinnovata rilevanza assunta dalla dimensione collettiva. I processi che produssero questi cambiamenti ebbero origine a partire dalla prima età moderna, in particolar modo nel corso del Seicento. E in questo secolo che si manifestarono i primi conflitti tra libertà religiosa e di coscienza, tra scienza e fede. Questi problemi però trovarono una loro più ampia diffusione nel corso dell’Ottocento, per riproporsi, con modalità e sfumature diverse, anche nel corso del Novecento. Per comprendere quindi il ruolo delle religioni in età contemporanea occor­ re tenere ben presente questi punti che definiscono alcuni aspetti centrali della modernità. Ogni sistema religioso rispose in tempi e modi diversi alle sfide poste in essere dall’avvento della modernità, che fosse politica, filosofica, economica, sociale, o culturale. I tipi di reazioni furono ovviamente definiti anche dal ruolo della tradizione religiosa e dalle decisioni che i rappresentanti dei sistemi religiosi posero in essere. Molto spesso, le leadership religiose non furono coerenti e si di­ visero al loro interno, dando vita a fratture che percorsero, e percorrono tutt’oggi, il sistema religioso nel suo complesso. Ora volgiamo lo sguardo ad alcuni dei sistemi religiosi che più hanno giocato un ruolo attivo in relazione al dipanarsi della storia contemporanea e che hanno offerto un’ampia gamma di risposte a questi quesiti. 2.

Quali religioni?

Prima di tutto possiamo fin da subito indicare una nozione operativa di religio­ ne. Che cosa si intende con tale termine? Seguendo un’impostazione di derivazione durkheimiana, possiamo definire la religione come un «sistema» che per essere tale deve comporsi di un gruppo sociale, di un certo numero di credenze e di riti attraverso i quali il gruppo si tiene in continuo contatto con le entità sovramondane (divine). In questa sede ci occuperemo da un lato delle religioni monoteiste di derivazio­ ne biblica, altrimenti definite «religioni fondate», religioni abramitiche o religioni del libro. Tutte queste definizioni in realtà indicano il rapporto genetico che defi­ nisce ebraismo, cristianesimi e islam, tre religioni che in modi diversi dipendono da una connessione o da una relazione con la Bibbia. La Bibbia, una raccolta di testi che divennero canonici per gli ebrei nel mondo antico e sulla base della quale si fonda l’ebraismo, divenne poi il testo autoritativo del cristianesimo nascente, che vi aggiunse una serie di suoi scritti sacri, denominati Nuovo Testamento. La

Bibbia cristiana, composta da un Antico Testamento e da un Nuovo Testamento, divenne il testo di riferimento per tutte le comunità cristiane. L’islam invece sorse sulla base di una rivelazione divina che produsse un testo sacro del tutto nuovo, il Corano, nel quale vennero incluse anche alcune concezioni, norme, mitologemi presenti nella Bibbia ebraica e nel Nuovo Testamento. Mentre cristianesimo e islam furono destinati a un’ampia diffusione al di fuori della zona che le originò - il Medio Oriente e la penisola arabica - l’ebraismo si ritrasse entro i confini di una comunità molto più ristretta, rinunciando in parte alla sua vocazione universale, ora raccolta da cristianesimo e islam. L’ebraismo tuttavia sopravvisse, tollerato e in posizione subalterna, all’interno delle società cristiane e musulmane, sviluppando caratteri specifici e propri. Per comprendere il rapporto tra religioni e cultura moderna occorre però partire dal cristianesimo - sia nella sua variante protestante sia in quella cattolica - per poi volgersi ad altre tradizioni religiose. Perché iniziare dal cristianesimo? Perché il processo storico che diede l’abbrivo alla modernità ebbe luogo all’interno di culture che erano strutturalmente cristiane. Non è necessario riconoscere la validità dell’interpretazione weberiana della nascita del capitalismo come pro­ dotto del protestantesimo calvinista per affermare che certi fenomeni moderni come la concezione scientifica del mondo, la lettura critica delle sacre scritture, o addirittura la nascita di concezioni politiche fondate sul principio della tolleranza religiosa, come il principio di separazione tra stato e chiesa, trovarono i loro primi sostenitori e ideatori proprio all’interno di culture che erano cristiane, in cui il cristianesimo orientava tutti i comportamenti della società, da quelli collettivi a quelli individuali. Solo con l’Illuminismo, che in alcune sue correnti definì in toni sempre più negativi il ruolo della religione nella società, e poi con la Rivoluzio­ ne francese, il rapporto tra sistema religioso e sistema politico, e poi di seguito società moderna, divenne sempre più conflittuale. Se quindi, da un certo punto di vista, alcune forme del cristianesimo svolsero un ruolo rilevante nella nascita della cultura moderna, in una seconda fase esse dovettero confrontarsi con una cultura moderna che diventava sempre più autonoma ed emancipata dai suoi retaggi religiosi. Innanzi tutto cercheremo di descrivere quali tipi di reazione i cristianesimi e l’ebraismo diedero alle questioni individuate come topiche della modernità nascen­ te. Successivamente cercheremo di individuare le forme di risposta alle sfide della modernità messe in atto da islam e alcune religioni orientali che maggiormente si trovarono a contatto con il colonialismo europeo, che si diffuse parallelamente allo stato nazionale. Affrontiamo così quei sistemi religiosi che vennero descritti, dalle scienze sociali europee, come religioni universali (Weltreligionen o tvorld religions). Il motivo di questa scelta è intuitivo: queste religioni sono sopravvissute nel corso dei secoli cristallizzando le loro tradizioni in forma scritta, in una composita mole di testi che hanno costituito un’inesauribile fonte di arricchimento del sistema stesso, che ha posto in essere sistemi normativi, mitici, simbolici, corredati da specialisti e istituzioni altamente complesse e specializzate nelle loro funzioni. Come si vedrà i sistemi religiosi reagirono in tre modi diversi rispetto alle sfide poste dalla modernità. Solo una comprensione adeguata di queste risposte può aiutare a capire il ruolo delle religioni nelle società contemporanee e alcuni dei fenomeni che sembrano presentarsi come nuovi ma che in realtà sono il frutto e lo sviluppo di orientamenti già presenti a partire dall’Ottocento.

A titolo indicativo si può fin d’ora affermare che i sistemi religiosi ebbero tre tipi differenziati di reazione rispetto all’avvento della modernità: a) una reazione positiva che cercò fin da subito di conciliare tutte le scoperte e le richieste della società moderna con la tradizione religiosa; b) una seconda reazione che invece rifiutò nettamente molti degli aspetti della modernità e che si pose quindi in una posizione di aperta opposizione, antagonista rispetto alla modernità; c) infine una terza, meno nota, opzione, che mostrò un netto disinteresse nei confronti della modernità, continuando a vivere al di fuori di essa, come se nulla fosse cambiato. Occorre fin da subito sottolineare che queste reazioni non si presentarono in forma distinta, ma si diversificarono in relazione alle questioni di volta in volta presentate. Inoltre, anche le posizioni più intransigenti dovettero, ad un certo punto, trovare una forma di compromesso con le esigenze provenienti dalla società moderna. 3.

I cristianesimi

3.1. Le confessioni protestanti

Il protestantesimo, che sorse in Europa nel corso del XVI secolo per iniziativa di grandi personalità come Lutero, Zwingli e Calvino consolidandosi e differen­ ziandosi in diverse confessioni nel secolo successivo, può a giusto titolo essere considerato tra i movimenti religiosi che diedero un’impronta decisiva alla cultura moderna. Se osserviamo il mondo occidentale a partire dalla fine del Settecento, si nota con chiarezza che le diverse confessioni protestanti sono cristallizzate in paesi europei del centro, del Nord Europa, nonché nel Nord America, dove molte ex colonie furono fondate da gruppi di protestanti radicali, fuggiti alla persecuzione religiosa europea. Agli inizi dell’Ottocento, e per tutto il corso del secolo, uno dei dati più evidenti che appariva agli occhi degli osservatori era che i paesi protestan­ ti, nel complesso, erano quelli più avanzati dal punto di vista economico, dove il capitalismo si era formato e successivamente sviluppato. Anche nella Germania, che si era unificata lentamente nella seconda metà del secolo, era evidente che la cospicua minoranza cattolica era economicamente più arretrata e culturalmente più tradizionalista. Solo la Francia, di tradizione cattolica ma che aveva sperimen­ tato una rivoluzione in parte anche anticristiana, mostrava un dinamismo simile ai paesi protestanti. Se guardiamo alle diverse domande poste in essere dalla modernità, possiamo affermare che i protestantesimi, nella versione luterana, calvinista e anglicana, e delle chiese non-conformiste, mostrarono fin da subito un atteggiamento più aperto nei confronti delle nuove scoperte scientifiche. A differenza di altri cristianesimi, come quello ortodosso e quello cattolico, il mondo protestante manifestò una grande apertura nei confronti della critica biblica, e quindi si fece portavoce di un radicale ridimensionamento del testo sacro - la Bibbia - che divenne, nel corso dell’Ottocento e sotto la critica sistematica dei grandi teologi protestanti, un testo sempre più storicizzato. Questa critica, che coinvolse anche le verità dogmatiche del cristianesimo protestante, non contribuì al ridimensionamento della religione cri­ stiana dall’orizzonte di senso della cultura tedesca, ma di certo influì nella direzione di una sua nuova configurazione, che talvolta si espresse nella simbiosi tra filosofia

e religione. La critica biblica tedesca ebbe un notevole influsso sulla cultura, da quella sociologica a quella storica, dalla letteratura alle altre scienze umane. Tra i suoi esponenti più noti occorre ricordare Rudolf Bultmann, Albert Schweitzer, Adolf von Harnack, solo per menzionare alcuni esponenti tra i più autorevoli. Nel mondo protestante di lingua inglese l’atteggiamento nei confronti della cul­ tura moderna fu più variegato. Il XIX secolo fu certamente un momento di grande espansione grazie anche alle strutture dellTmpero britannico. Il protestantesimo celebrò sé stesso come la «religione della modernità», quella che per prima rico­ nobbe il principio della libertà di coscienza e della separazione tra stato e chiesa, mostrando tra l’altro un rinnovato interesse e un’inedita apertura nei confronti delle altre religioni - in particolar modo nei confronti delle tradizioni orientali e dell’ebraismo - pur nella ferma convinzione di essere l’unica vera religione, espres­ sione di una civiltà superiore. E infatti del tutto inadeguato parlare di «secolarizzazione» nell’accezione che abbiamo presentato sopra per quanto concerne i protestantesimi. Più opportuno è parlare di trasformazione e diffusione dei messaggi religiosi che, sia attraverso l’Impero britannico, sia attraverso la grande originalità e creatività statunitense, si espressero in forme inedite, come nei movimenti della Christian Science, nei gruppi unitariani o nella Ethical Society. Proprio negli Stati Uniti i gruppi protestanti di varia estrazione - dai Quaccheri ai Mennoniti - si fecero agenti attivi di politiche di riforma sociale, affrontando i problemi della povertà dei ceti proletari provenienti in massa dall’Europa e confluiti nelle grandi metropoli statunitensi. L’Ottocento americano fu un secolo permeato da forti istanze religiose: i tre Great Awakenings (grandi risvegli) si manifestarono periodicamente e influirono attivamente sulla graduale estensione dei diritti civili. Più complesso e sofferto fu invece l’adattamento delle culture protestanti ri­ spetto alle radicali scoperte provenienti dal mondo della scienza: se nel Seicento, sotto l’influsso delle politiche suggerite da Bacon, l’approccio alla nuova scienza venne più facilmente incorporato nelle politiche culturali inglesi, più controversa fu l’adesione alle visioni delle scienze ottocentesche, dalla geologia al darwinismo, che mettevano fortemente in crisi i presupposti di alcuni fondamenti della religione cristiana. Nel complesso, molti gruppi cristiani protestanti cercarono di adattare i precetti e gli insegnamenti religiosi alle scoperte scientifiche, o più saggiamente cercarono di separare la sfera teologica da quella scientifica. E proprio sulla questione relativa alle scoperte scientifiche che il protestan­ tesimo manifestò una delle sue prime forti resistenze, o meglio, un netto rifiuto, che in sostanza sta alla base della nascita del fondamentalismo religioso. Infatti il fondamentalismo religioso fu un prodotto eminentemente americano e tardoottocentesco, e ha costituito il modello con cui si sono poi confrontati altri tipi di fondamentalismo provenienti da ambiti religiosi diversi. Non è un caso che esso si manifesti in una cultura fortemente segnata da veloci processi di modernizzazione e non in una società tradizionale. Storicamente, quindi, il fondamentalismo si presenta come una reazione alla modernità e come un recupero di principi fon­ damentali su cui fondare la vita cristiana. Alla convenzione di Niagara Falls, che si tenne nel 1895, alcuni gruppi protestanti conservatori stesero un documento volto a riaffermare la centralità della Bibbia e il rifiuto dell’esegesi moderna che aveva condotto a una relativizzazione del testo sacro. I principi più importanti stabilirono: 1) l’inerenza della Scrittura; 2) la centralità della divinità di Cristo; 3)

la sua nascita verginale; 4) la centralità della redenzione per mezzo della morte e resurrezione di Cristo; 5) la resurrezione dei corpi e la seconda venuta di Cristo (parusia). Il primo e l’ultimo punto sono di centrale rilevanza perché risacraliz­ zano alcune verità derivate dalle narrazioni bibliche e rafforzano o recuperano le tradizioni del millenarismo cristiano, fondato su una fede assoluta nell’imminente fine del mondo e nell’attesa del regno di Dio sulla terra. Sulla base di questa ulti­ ma credenza fiorirono e nacquero nuovi movimenti religiosi, come i Testimoni di Geova, i Mormoni, i Pentecostali e gli Avventisti del settimo giorno. I principi di Niagara Falls ebbero una vasta diffusione nei decenni successivi a opera di pastori evangelici che li raccolsero in volumetti dal titolo Fundamentals (da cui il termine fondamentalismo). Negli anni Venti del Novecento, un grande caso giudiziario sull’insegnamento del darwinismo divenne oggetto di dibattito pubblico. Fu pro­ prio in occasione di questo processo che il fondamentalismo fece la sua apparizione pubblica nella società americana. 3.2. Il cattolicesimo

Diffuso nelle nazioni dell’Europa meridionale - Spagna e Italia -, in Francia, Irlanda, Belgio, in vaste aree dell’Europa centrale - dall’Impero austroungarico ai Balcani -, nella Polonia dell’Impero zarista, in America Latina, e infine come consistente minoranza in Germania, Inghilterra e Stati Uniti, il cattolicesimo ebbe un rapporto molto più conflittuale e controverso con l’avvento e lo sviluppo della società moderna. Se alcuni storici hanno individuato questo conflitto nel trauma della Rivoluzione francese e dei suoi orientamenti anticlericali che sfociarono nello scontro violento con la chiesa cattolica, vero è che tendenze particolarmente conservatrici si manifestarono già a partire dal Seicento, soprattutto in riferimento alla diffusione della nuova scienza. Il caso Galilei è esemplare della tendenza di alcuni ambienti ecclesiastici nell’optare per un confronto con la cultura moderna di carattere antagonistico e conflittuale. Il cattolicesimo manifestò anche, ad un certo punto, e soprattutto dopo i moti rivoluzionari del 1848, una netta critica nei confronti del liberalismo e della cultura moderna, che venne magistralmente espressa dal Syllabus pubblicato nel 1864. Con la Breccia di Porta Pia e l’avanza­ mento del processo di unificazione dell’Italia, la chiesa cattolica romana rafforzò le sue tendenze conservatrici opponendo alla società moderna una fiera resistenza. Questa netta presa di posizione antagonistica ebbe il suo fulcro nella figura del pontefice, il cui potere venne progressivamente accentrato e rafforzato, e nella curia romana, che si fece garante di un cattolicesimo ortodosso che doveva indirizzare la vita di tutto il mondo cattolico. L’inasprimento dei rapporti tra stato e chiesa in Italia, il Kulturkampf in Germania, gli sviluppi sempre più anticlericali in Francia, portarono a uno scontro culturale tra istanze moderne e religione cattolica che si espresse attraverso il netto rifiuto di tutte quelle componenti elencate sopra e che definiscono i caratteri principali della modernità. La chiesa cattolica oppose un netto divieto a tutte le forme di esegesi biblica storica e critica, che si aggiungeva a una cultura poco avvezza alla conoscenza della Bibbia fin dall’età della Controrifor­ ma, quando tutte le traduzioni del testo sacro in lingua volgare vennero distrutte. Parimenti, la chiesa cattolica rifiutò di conciliare alcuni dei suoi insegnamenti con le scoperte scientifiche del tempo, condannandole come materialistiche e distrut­

tive dell’ordine voluto da Dio. Tutta la cultura moderna era riconducibile, nella ricostruzione genealogica che ne avevano fatto i più importanti esponenti dell’ala intransigente, alla riforma luterana, opera del diavolo, da cui derivavano successiva­ mente la cultura dei Lumi, la libertà di pensiero, l’ateismo e la Rivoluzione francese, l’esito finale di una tradizione ereticale che aveva condotto alla distruzione della perfetta Societas Christiana incarnata nel modello della chiesa medievale. Questa genesi della modernità e della secolarizzazione, figlie dell’operare del maligno nella storia, poneva la chiesa in una posizione radicalmente critica. Gli esponenti delle tradizioni più liberali del cattolicesimo che avevano dato voce a esigenze di tutt’altro segno, centrate sulla possibile e auspicabile conciliazione di alcuni inse­ gnamenti cattolici con elementi della modernità, in particolare con i principi dello stato e della cultura liberali, vennero così condannati a un ruolo marginale. Il loro diritto alla cittadinanza nel mondo cattolico venne per un certo periodo revocato. Il corollario di tale posizione è facile da immaginare: la chiesa fu promotrice di una cultura antiliberale e antimoderna, che si sposò spesso con ideologie politiche e con concezioni del mondo che direttamente e indirettamente minarono le già labili basi dello stato liberale, soprattutto nei paesi di cultura cattolica come l’Italia. A correggere questa impostazione - ma non in modo significativo - fu la decisione, presa da Leone XIII, di confrontarsi direttamente con la società moderna su al­ cune sfide che divennero, alla fine dell’Ottocento, sempre più rilevanti, come la questione sociale. Nella variegata costellazione di posizioni che vennero elaborate rimase tuttavia centrale la condanna del capitalismo come sistema economico che aveva minato le fondamenta della società cristiana tradizionale. A partire dal pontificato di Leone XIII la chiesa cattolica inaugurò una politica ambivalente di febbrile attività intra-mondana, pur contemplando allo stesso tempo la sua condizione e centralità ultra-mondana, il suo rappresentare un ordine divino che era stato usurpato dalla Rivoluzione francese. Più concretamente, le attività politiche della chiesa cattolica furono indirizzate alla stesura dei Concordati tra stati e chiese, che avevano il fine prioritario di salvaguardare la presenza e l’auto­ nomia della chiesa cattolica nella società. Più in generale, nei paesi a maggioranza cattolica, il Concordato sanciva un ruolo di preminenza della chiesa nelle politiche educative e sociali, mentre laddove i cattolici erano minoranza l’interesse era volto a garantirne l’incolumità e l’autonomia. Tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta la chiesa stilò il Concordato col regime fascista e quello col nazismo, conferendo quindi autorevolezza e sostegno a questi regimi. Il rapporto della chiesa cattolica coi regimi totalitari è oggetto di grande dibattito tra gli storici: se da un lato la visione teologica totalitaria elaborata dalla chiesa viene a scontrarsi con i totalitarismi politici, i quali furono spesso interessati a discriminare o ridurre il peso della cultura cattolica nel loro contesto, vero è che la mancanza di una visione meno intransigente della modernità non permise alla chiesa di capire la natura del dramma che stava per abbattersi sull’Europa. Anzi, il tatticismo politico spesso espresso anche attraverso il sostegno a movimenti nazionali di impronta cat­ tolica dai tratti fortemente autoritari e antiliberali (soprattutto nei paesi dell’Europa centrale), accompagnato alla convinzione di una superiorità teologica e ideologica e alla mancanza di una moderna cultura della libertà, resero i vertici ecclesiastici inadeguati e impreparati a una concreta ed efficiente opposizione al totalitarismo. Lo stesso atteggiamento intransigente la chiesa cattolica lo manifestò all’inizio del Novecento nei confronti di un piccolo gruppo di sacerdoti ed ecclesiastici che,

influenzati dalla cultura moderna, tentarono di modernizzare l’approccio allo studio della Bibbia e alla storia del cristianesimo incorporando metodi analitici provenienti dalle discipline storiche e dalle scienze umane. Il modernismo cattolico fu un fe­ nomeno che investì diversi paesi europei, come Francia, Germania, Inghilterra e Italia, e testimoniava un’esigenza, a lungo repressa, di rinnovamento religioso che proveniva dal cuore stesso del cattolicesimo. Era l’espressione più esplicita e diretta di una richiesta di riforma, un richiamo ad aprirsi verso il mondo moderno, che si era andato manifestando in ampi strati delle società cattoliche. La repressione del movimento fu durissima. 3.3. Il cristianesimo ortodosso

L’ortodossia, tra tutte le chiese cristiane, è diffusa in ampie zone dell’Europa orientale (in particolar modo nell’Impero zarista e ora in Russia e Ucraina) e nei Balcani e si differenzia, per la scelta della lingua liturgica, dall’ortodossia di lingua greca, che accoglie l’eredità dell’Impero bizantino ed è diffusa in Grecia e tra la diaspora greca. A questo gruppo appartengono anche alcune chiese autocefale. Nel corso dell’Ottocento l’ortodossia è presente in aree geografiche molto ar­ retrate dal punto di vista dello sviluppo economico. Nell’Impero zarista, dove risiede la maggior parte degli ortodossi di lingua slava, le condizioni sociali ed economiche non sono di certo migliori. Le chiese ortodosse, separate da quella cattolica romana e da quelle protestanti, hanno avuto uno sviluppo peculiare, che si esprime in una differente tradizione teologica, organizzazione del culto e liturgia. Gli studiosi, soprattutto occidentali, hanno avuto la tendenza ad elaborare una visione romantica dell’ortodossia, come se essa fosse espressione di un mondo astorico e separato dalle asperità della vita reale. Tuttavia, l’orto­ dossia, anche se mantenne una forte attitudine alla conservazione e una scarsa predisposizione all’apertura verso la cultura moderna, fu invece molto legata e intrecciata alle vicende dei nazionalismi balcanici e orientali. La chiesa ortodossa si fece promotrice attiva del processo di indipendenza greca, anche perché in funzione anti-islamica. In modo simile, giocarono un ruolo importante le chiese ortodosse nel definire i processi di indipendenza di paesi come la Romania, e successivamente Serbia e Bulgaria. In Romania, così come nell’Impero zarista, la chiesa ortodossa fu anche una forte sostenitrice dei movimenti antisemiti che spesso sfociarono in violenti attacchi alle numerose comunità ebraiche insediate in queste aree geografiche. In questo senso i paesi con forte tradizione ortodossa furono meno ricettivi nei confronti di un concetto di cittadinanza esteso a minoranze etniche e religiose. L’ortodossia si caratterizzò per la sua riluttanza a recepire tutti quegli elementi della cultura moderna che abbiamo indicato come fondamentali. L’esegesi biblica moderna come si era sviluppata nel mondo protestante non venne accolta, così come la struttura liturgica ortodossa rimase ancorata, similmente a quella catto­ lica, a una conservazione della tradizione. Una possibile riforma, che cominciava a prendere forma negli ambienti russi prerivoluzionari, fu di fatto bloccata dagli eventi politici, che portarono successivamente a una prima fase di persecuzione di tutte le religioni e poi a un compromesso nel periodo staliniano. Lo stesso avvenne in altri paesi che confluirono poi nel blocco socialista.

L’ortodossia, orgogliosamente ancorata alla sua tradizione teologica, al suo definirsi fuori dalla storia (come altre tradizioni religiose) ha suscitato un grande fascino nella cultura occidentale, ma dal nostro punto prospettico presenta un netto rifiuto e una incapacità storica a rispondere ai quesiti posti dalla modernità, un pro­ blema che tende a radicalizzarsi nella fase post-sovietica, segnata da un ritorno del religioso anche se ancora fortemente sottoposto alle esigenze della classe politica. 3.4. L’ebraismo

Possiamo ora affrontare il tipo di risposta che l’ebraismo produsse nei con­ fronti del mondo moderno. Prima però di individuare alcune delle tendenze più specifiche occorre fare una premessa di carattere fenomenologico. Come abbiamo visto, i cristianesimi sono quasi sempre religioni di maggioranza, in taluni casi sostenuti dalle strutture dello stato, come nel caso del luteranesimo e del catto­ licesimo prima della Rivoluzione francese. Negli Stati Uniti i gruppi protestanti esprimono in genere la maggioranza della popolazione, ma sono autonomi sulla base delle diverse tradizioni confessionali, e sono caratterizzati da un pluralismo molto esteso e variegato. Nel caso dell’ebraismo siamo di fronte a una situazione estremamente diversa: religione antica, tra le poche sopravvissute delle antiche religioni mediterranee, l’ebraismo si trova a vivere, per circa due millenni dalla distruzione del secondo tempio per mano dei romani nel 70 d.C., come religione esclusivamente diasporica, senza stato e potere politico istituzionale. Si trova, sia nel mondo musulmano sia in quello cristiano, in condizione di minoranza subal­ terna, frequentemente sottoposta a persecuzioni come espulsioni e conversioni forzate, soprattutto nei domini cristiani. La sua condizione politica subalterna è generalmente giustificata in termini teologici come prova della vittoria religiosa e politica del cristianesimo (e lo stesso vale nel mondo musulmano per cristiani ed ebrei). Gli ebrei costituiscono per molti secoli l’unica minoranza non cristiana nell’Europa cristiana (con l’eccezione della penisola iberica prima della riconquista cattolica). Vivono in comunità semiautonome sulla base di una condotta negozia­ ta col governo della città o del paese in cui risiedono, che può essere revocata a discrezione del sovrano. Sono concepiti come un popolo ospite, che vive secondo proprie norme e riti, contenuti nella Bibbia e nei testi della tradizione orale, messa per iscritto nella letteratura rabbinica e soprattutto nei due Talmudim (il Talmud di Gerusalemme e quello di Babilonia). Le comunità sono in genere guidate da una leadership scelta sulla base del censo e dell’autorevolezza professionale e religiosa. I leader religiosi sono i rabbini, che conoscono la tradizione giuridica e teologica dell’ebraismo e sono in grado di applicare la legge sulla base della tradizione. Gli ebrei, fin dal Medioevo, occuparono un ruolo di servizio nelle società cristiane, specializzandosi in attività economiche che furono spesso vietate ai cristiani, come il prestito a interesse. Nel corso del Seicento sarebbero riusciti anche a imporsi come elementi dinamici nel commercio atlantico e mediterraneo. Nel corso del Settecento gli ebrei erano stanziati in diverse zone europee: in numeri molto contenuti nel centro e Nord Italia, in Francia, in Inghilterra e in Olanda per quanto concerne l’Europa occidentale. In numeri cospicui nellTmpero asburgico e nellTmpero zarista che avevano incorporato, sul finire del secolo, ampie zone della Polonia, densamente popolata da ebrei. La Rivoluzione francese, anche

in questo caso, accelerò un processo in corso che non era però ancora ben defini­ to. La parificazione giuridica delle minoranze ebraiche venne sancita, non senza un vivace dibattito, in uno dei paesi in cui gli ebrei costituivano una minoranza piuttosto esigua dal punto di vista numerico. Maggior rilevanza ebbero le politiche modernizzatrici degli Asburgo, i quali emisero una patente di tolleranza nel 1782 che permise agli ebrei di avere accesso a professioni prima di allora vietate. Attra­ verso la modernizzazione del sistema scolastico gli Asburgo cercarono di integrare gli ebrei nelle diverse città dell’impero. In parte vi riuscirono e, nel corso di un secolo, alla fine dell’Ottocento gli ebrei erano divenuti una componente dinamica e creativa in tutte le grandi città dell’impero, da Vienna a Budapest, da Praga e Lemberg. Nelle zone rurali e poverissime della Galizia gli ebrei rimasero fortemente ancorati alle tradizioni religiose più ortodosse o al chassidismo (vedi infra), molto diffuso anche nei vasti insediamenti ebraici dell’Impero zarista. Le risposte del mondo ebraico nei confronti della modernità furono molto diverse: da un punto di vista religioso, il polo più avanzato della riflessione teolo­ gica e religiosa si colloca nel mondo di lingua tedesca, in particolare in Germania. Berlino costituisce, dalla fine del Settecento fino all’avvento del nazismo, uno dei poli culturali ebraici più importanti. Molti noti intellettuali ebrei che diedero un grande contributo alla riflessione filosofico-religiosa - come Martin Buber, Hans Jonas, Gershom Scholem - furono di cultura e lingua tedesca. E in questo contesto culturale, filosofico e politico che l’ebraismo, in un serrato confronto con la teologia protestante liberale, costruisce una religione moderna, capace di confrontarsi in modo dinamico con tutte le sfide della modernità. Accoglie con coraggio metodi e risultati delle scienze moderne, dalla critica biblica alle scienze esatte, proponendo anche una riforma dell’ebraismo che, pur raccogliendo molti consensi, non riuscì a imporsi su tutto il mondo ebraico, il quale spesso optò per l’abbandono della religione o la salvaguardia della tradizione. L’ebraismo riformato rifiutò la concezione di religione nazionale, adottò la lingua tedesca anche nella litur­ gia, e abolì tutti quei riti e quelle credenze che erano ritenuti obsoleti o frutto di una lunga storia di interdizioni. La riforma si diffuse in altre zone dell’Europa occidentale ma soprattutto negli Stati Uniti, dove le condizioni di accoglimento di una religiosità improntata alla fede nel progresso, nella libertà e in alcuni principi etici biblici poteva trovare un più ampio pubblico anche tra la crescente popolazione di emigrati. Il conflitto, innescato dall’ebraismo riformato, contribuì a creare un ebraismo ortodosso, che pur non disdegnando i metodi della critica scientifica, non accettò di eliminare l’ebraico come lingua liturgica e mantenne un rigoroso rispetto di tutti i precetti previsti dalla tradizione religiosa antica, come le norme sul cibo, sul matrimonio, la circoncisione e altri riti che regolamentano la vita di un ebreo religioso. I riformati invece cercarono di eliminare tutti quegli elementi che con­ tribuivano a mantenere un’esplicita differenza dell’identità culturale ebraica. Nei paesi di tradizione cattolica, così come nelle zone dell’Europa centrale e orientale, dove le tradizioni religiose della maggioranza furono meno aperte ai cambiamenti della modernità, gli ebrei si trovarono a scegliere, come i cittadini di altre religioni, tra una rigida ortodossia e un’uscita dalla religione, optando per l’adesione ai vari movimenti politici del tempo, dai socialisti ai liberali, fino al nascente nazionalismo ebraico, che sorse non a caso tra gli ebrei degli imperi multinazionali. Tra Ottocento e Novecento, milioni di ebrei dell’Europa orientale emigrarono verso gli Stati Uniti, destinato a diventare, dopo la Shoah, il più importante polo

della diaspora ebraica, ancora numerosa in Unione Sovietica fino agli anni Settan­ ta del XX secolo, dove milioni di ebrei ebbero accesso alla cittadinanza dopo la Rivoluzione bolscevica. Negli Stati Uniti l’ebraismo si organizzò sul modello del congregazionalismo statunitense e protestante dando vita a diversi movimenti religiosi, l’ebraismo rifor­ mato, quello ortodosso, a cui si aggiunsero due movimenti americani, il movimento conservativo (che come quello riformato accetta donne rabbino) e quello ricostruzionista, che concepisce l’ebraismo come una civiltà sempre capace di modificarsi. Accanto a questi movimenti si trova anche l’ebraismo chassidico, sorto nel corso del Settecento nelle zone dell’Europa orientale, una forma di ebraismo estatico, fondato sulla devozione a singoli rebbe, in origine concepiti come grandi saggi e taumaturghi. Questo tipo di ebraismo conserva tratti molto particolari e sembrò non accogliere, in principio, nessun tipo di modernità, vivendo in un mondo del tutto isolato, in modo molto simile ai gruppi protestanti degli Amish. Solo dopo la Seconda guerra mondiale emergerà un terzo polo dell’ebraismo - in senso sia culturale sia religioso - costituito dallo stato di Israele (sorto come stato indipendente nel 1948), che in parte nasceva sulle ceneri dell’ebraismo europeo. Israele, che sorse inizialmente come stato laico, accolse paradossalmente le tradi­ zioni meno liberali dei diversi movimenti religiosi diffusi in Europa. 4.

IsIam e induismo

L’idea di trattare insieme induismo e islam è determinata da una comunanza storica, ossia dal fatto che, per l’epoca di cui ci occupiamo, entrambi i sistemi religiosi, per quanto diffusi in diverse zone geografiche, subirono l’esperienza del dominio coloniale. L’islam, a differenza di ebraismo e cristianesimo, è una religione il cui fondato­ re, Maometto, fu personalità di grande successo. Egli riuscì a diffondere l’islam già nel corso della sua vita e, nei secoli successivi, questa religione ebbe un’estensione geografica notevole, diffondendosi presso culture molto diverse. Come l’ebraismo, l’islam è una religione dell’ortoprassi, che si fonda su una ricca tradizione norma­ tiva e sulla sua applicazione. In questo senso, sono di centrale rilevanza le scuole giuridiche che si sono sviluppate nel corso dei secoli. Diviso tra sciiti e sunniti e molte altre sette e confraternite, l’islam ha avuto una grande capacità di assimilare al suo interno culture molto diverse e, per certi aspetti, ha mostrato, soprattutto nel periodo della dominazione moghul in India, una certa capacità di tolleranza religiosa anche nei confronti di culti e tradizioni così diverse come quelle indiane. Tuttavia l’islam, più di ogni altra religione, sembra avere reagito con più dram­ maticità agli elementi della modernità culturale. La spiegazione di questo proble­ matico rapporto è spesso individuata nell’impatto che il dominio coloniale sembra aver causato nel mondo islamico. Tuttavia, questa spiegazione non pare sufficiente a spiegare la sua tensione antimoderna e la difficoltà dei processi di secolarizzazione a manifestarsi nelle culture dominate dall’islam. Pur se nel corso del Settecento in diversi luoghi del mondo islamico comincia­ rono a sorgere diverse posizioni miranti a una riforma dell’islam, questo dibattito ebbe luogo senza la preoccupazione del confronto con l’Occidente. Uno degli ef­ fetti di questi movimenti riformisti all’interno del mondo musulmano fu la nascita

del wahabismo, una corrente che attualmente rappresenta l’islam più ortodosso di provenienza saudita. L’auspicato ritorno a un radicale monoteismo delle origini si accompagna in questo caso a un rigoroso rispetto delle norme religiose e a un recupero della tradizione islamica più vicina alle origini. Se vogliamo accettare l’idea che la spedizione di Napoleone in Egitto nel 1798 costituisca una data periodizzante emblematica, con la quale sancire il traumatico confronto tra islam e mondo occidentale, occorre sottolineare che, nel corso del XIX secolo, questo incontro produsse una prima serie di riflessioni volte a cercare una sorta di conciliazione tra potenze coloniali e islam. Se svariati furono i rapporti tra esponenti dell’islam e l’intellettualità francese, i primi autori ad articolare una risposta conciliante nei confronti delle potenze coloniali provennero dall’Impero britannico. Ahmad Khan fu un giureconsulto e membro delle classi colte musul­ mane e cercò di presentate l’islam nel lessico teologico e filosofico della cultura occidentale. Definito come stratega della sconfitta - sancita dall’insurrezione del 1857 poi repressa nel sangue dai britannici -, la sua opera venne presto dimenti­ cata per lasciare posto a intellettuali preparati a elaborare strategie di difesa, come Jamal al-Din al-Afghani, il quale sensibilizzò le classi colte musulmane a una critica resistenza nei confronti del colonialismo, facendosi sostenitore di un movimento panislamico. Tuttavia, forse per la vastità dei territori e la differenza di culture, le opere di questi riformatori, per quanto importanti, come ad esempio quella di Muhammad ‘Abduh, non ebbero grande impatto. La lotta contro il colonialismo e la costruzione dello stato islamico furono gli obiettivi prioritari delle generazioni novecentesche e, per certi aspetti, questo indica già una contraddizione e un’aporia tra islam e modernità per come l’abbiamo definita. Diverso appare invece il panorama indiano nel versante induista, per una se­ rie di motivi culturali che devono essere brevemente esposti. L’India britannica, così come l’India attuale, è un vasto territorio che contiene una molteplicità di tradizioni religiose. L’induismo attrasse una notevole attenzione nelle accademie europee, e come islam ed ebraismo fu oggetto di sistematica analisi da parte di esperti orientalisti. Tuttavia, a differenza delle religioni bibliche, l’induismo eser­ citò notevole fascino, soprattutto nelle sue tradizioni filosofiche, sugli intellettuali europei e americani. Furono diversi i movimenti hindu riformisti che si dedicarono a diffondere la conoscenza dell’induismo in Occidente e a trasformare la religione indiana in religione universale, insistendo sulla sua tradizione razionale, sulle so­ miglianze col cristianesimo e denunciando apertamente i tratti più problematici, come il sistema castale, il suicidio delle vedove e il matrimonio infantile. Tra i personaggi più noti va ricordato Ram Mohan Roy, straordinario poliglotta e fon­ datore del Brahmo Samaj, un movimento dedicato alla riforma dell’induismo, a un suo ritorno alle origini ma in forma moderna. Sostenitore di una concezione della divinità tollerante, conciliò tradizioni religiose filosofiche occidentali e orientali e promosse una cultura del confronto tra tradizioni religiose diverse. Accanto a questo movimento vanno ricordati quelli di Ramakrishna e Vivekananda. Mentre il primo fu un mistico visionario che visse sempre nei pressi del tempio, Viveka­ nanda, suo discepolo, fu una figura di primo piano nella cultura moderna india­ na e nella diffusione di un induismo tollerante e inclusivo che si propagò sia in Occidente sia tra le classi medie indiane. Nel solco di queste tradizioni si colloca l’esperienza, religiosa e politica, del leader emblema della lotta anticoloniale e del fondatore del movimento pacifista, Gandhi.

Come per tutte le altre tradizioni religiose, anche nell’induismo il confronto con la modernità e la lotta contro il colonialismo hanno contribuito alla nascita di movimenti nazionalisti di destra, spesso sostenuti da ideologie politiche in cui la religione gioca un ruolo determinante. Il movimento riformatore che ha per primo manifestato questa tendenza è XArya Samaj, un’associazione fondata nel 1875 e volta a riformare l’induismo in una direzione esclusivista e intollerante. 5.

Conclusioni

Come abbiamo cercato di mostrare, i sistemi religiosi hanno reagito in modi diversi alle sfide che la modernità ha posto loro a partire dall’età contemporanea. Nel corso del XX secolo le religioni hanno mostrato una straordinaria vitalità anche in società decisamente secolarizzate o post-secolari, dove accanto alle tra­ dizioni consolidate sono apparse nuove forme del sacro. Le religioni hanno costi­ tuito una fonte straordinaria per i movimenti di liberazione o di resistenza a regimi oppressivi (come nel caso della Polonia) o a drammatiche pratiche di ingiustizia (come nel caso di Martin Luther King). Anche la chiesa cattolica, con il Concilio Vaticano II, abbracciò, negli anni Sessanta del XX secolo, una visione positiva nei confronti della cultura moderna e dei suoi principi liberali e democratici. Se, da un lato, è possibile osservare come le tradizioni più vicine al centro di irradiazione della cultura moderna abbiano reagito in modo più dinamico e positivo - come nel caso delle tradizioni di matrice protestante - sono altresì riscontrabili orientamenti che vi si oppongono. Tra questi il fondamentalismo evangelico, che riappare sulla scena politica a partire dalla fine degli anni Settan­ ta del XX secolo, per assurgere a movimento relativamente visibile nel contesto culturale attuale. I fondamentalismi religiosi apparsi sulla scena internazionale in questi ultimi decenni si sono manifestati in tutte le tradizioni religiose, dall’islam all’ebraismo, dall’induismo al protestantesimo, fino ad alcune correnti del cattoli­ cesimo. La loro genesi è riscontrabile e comprensibile entro il quadro storico che abbiamo cercato di descrivere, come una forma o reazione religiosa alla cultura moderna, che si esprime nel rifiuto di alcuni suoi principi e spesso si combina con le istanze del nazionalismo politico. Percorso di autoverifica

1. Quali sono i tratti tipici della modernità? 2. Cosa si intende per secolarizzazione? 3. Come reagisce il cristianesimo protestante alle sfide poste dalla cultura moderna? 4. Quali sono le caratteristiche fondamentali della chiesa cattolica nei confronti della società moderna? 5. Quali sono le caratteristiche dell’ebraismo e come reagisce all’avanzamento della cultura moderna? 6. Indica le differenze tra islam e induismo nel confronto con la cultura occidentale. 7. Che cos’è il fondamentalismo religioso? Dove nasce e come si diffonde?

Per saperne di più

G.A. Almond, S.R. Appleby ed E. Sivan, Religioni forti. L’avanzata dei fondamentalismi sulla scena mondiale, Bologna, Il Mulino, 2006. D. Bidussa (a cura di), Ebraismo, in G. Filoramo (a cura di), Le religioni e il mondo moderno, voi. II, Torino, Einaudi, 2008. W. Ende e U. Steinbach (a cura di), Lislam oggi, Bologna, Edb, 1991. G. Flood, Induismo, Torino, Einaudi, 2000. D. Menozzi (a cura di), Cristianesimo, in G. Filoramo (a cura di), Le religioni e il mondo moderno, voi. I, Torino, Einaudi, 2008. G.L. Potestà e G. Vian, Storia del cristianesimo, Bologna, Il Mulino, 2012. R. Tottoli (a cura di), Islam, in G. Filoramo (a cura di), Le religioni e il mondo moderno, voi. Ili, Torino, Einaudi, 2009. W.M. Watt, Cristiani e musulmani, Bologna, Il Mulino, 1994. W.M. Watt, Breve storia dell’Islam, Bologna, Il Mulino, 2001.

Le relazioni internazionali di Guido Formigoni

Il sistema internazionale contemporaneo è nato da quello tradizionale europeo sorto in età moderna. Dopo lo sconvolgimento delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche, prese corpo il modello del cosiddetto «concerto europeo», imper­ niato su una stabilità negoziata, rotto poi dalla dinamica sempre più unilaterale dei comportamenti delle grandi potenze, che portò alla Prima guerra mondiale. Seguì una stabilizzazione fondata sulla spontaneità del mercato, crollata però con la crisi del ’29. Le conseguenti competizioni imperiali spiazzarono defini­ tivamente la centralità europea: il mondo venne ad essere governato da un meccanismo bipolare (Stati Uniti e Unione Sovietica). Durante la guerra fredda il blocco occidentale conobbe la coesistenza di regolazioni statali forti e di una progressiva integrazione economica: il modello entrò però in crisi negli anni Settanta e ne uscì avviando la contemporanea forma della «globalizzazione». Alla sua ombra, esaurito il bipolarismo con l’implosione dell’impero sovietico, sono emersi nuovi protagonisti statuali.

1.

La «società internazionale» europea e le grandi potenze

Il mondo internazionale alla vigilia dell’età contemporanea (fine del Settecen­ to) era frutto di una precedente evoluzione lenta e plurisecolare. L’Europa stava diventando il suo centro, per la posizione globale ormai dominante del suo siste­ ma economico e militare (non sempre era stato così nei secoli precedenti). Si era sedimentato nei secoli sul continente europeo un «sistema» di rapporti tra entità politiche diverse, che si concepivano come «sovrane»: gli stati moderni, nati dalla dissoluzione di quell’universo medievale concepito come fortemente unitario e anzi tendenzialmente universale (ancorché frammentato al suo interno), nella duplice ma interconnessa matrice di un impero sacrale e di una chiesa cristiana diffusa su tutto il continente. La nascita degli stati moderni implicava la decisione di un principe di assumere la propria autonomia dall’impero e dal papato (superiorem non recognoscens) e al tempo stesso la volontà di centralizzare l’autorità in un ben definito territorio {rex in regno suo est imperator). Questo processo durò secoli ma era ormai molto

avanzato alla metà del Seicento (pace della Westfalia, 1648). È decisivo notare come questo sistema contemplasse contemporaneamente logiche particolaristiche e tendenze universalistiche. Da una parte infatti la «ragion di stato» portava ogni principe a voler mantenere, tutelare e rafforzare il proprio dominio politico come primo obiettivo. Dall’altra, continuava a operare la visione pregnante di una sorta di «comunità» tra gli stati: Edmund Burke parlava alla fine del Settecento di una «repubblica diplomatica d’Europa». Proprio l’affermazione della sovranità aveva infatti come risvolto necessario il riconoscimento reciproco degli stati in un rap­ porto teoricamente paritario. Da qui si sviluppò un insieme di regole di relazione (il diritto internazionale), di mezzi di comunicazione e scambio (la diplomazia), che configurò lentamente una vera e propria «società internazionale» di stati in Europa. Certo, nella misura in cui questa rete di rapporti non fosse bastata a soddisfare le esigenze di un sovrano, il ricorso allo strumento militare era frequentissimo. Lo ius belli (il diritto di fare la guerra) era del resto parallelo alla capacità degli stati di imporre l’ordine e la sicurezza all’interno del proprio territorio. I monarchi europei cercarono anche di organizzare le economie al servizio della propria potenza. La concezione mercantilistica esprimeva questa visione, anche se una rete di iniziative imprenditoriali e commerciali indipendenti aveva posto le basi della ricchezza e della capacità tecnologica europee. Le diversità strutturali tra gli stati diventarono quindi un elemento importantissimo: all’inizio dell’Ottocento venne formalizzato il concetto di «grande potenza»: cioè gli stati estesi, con interessi generali e capacità di gestione del «sistema». Questi stati erano a quel punto cinque (Gran Bretagna, Francia, Impero asburgico, Russia, Prussia). Altre grandi monarchie erano ormai in decadenza (prime fra tutte la Spagna o la meteora Svezia), mentre declinarono repubbliche marinare come Venezia o i Paesi Bassi. Tra questi attori maggiori, il gioco della ricerca di «egemonia» si era intrecciato con la visione di un «equilibrio» pluralistico (balance of power), codificata già con il trattato di Utrecht del 1713. La visione meccanicistica dell’equilibrio era in realtà solo teorica: se contro i tentativi egemonici nascevano spesso alleanze contrapposte, tale regola non aveva nessuna efficacia quando una grande potenza si rapportava ai soggetti minori: la spartizione dello stato polacco tra Russia, Austria e Prussia nei decenni finali del Settecento fu solo l’esempio più eclatante. Il sistema europeo era da secoli in rapporto (non sempre pacifico) con altri sistemi di entità politiche confinanti o lontani: dalla catena di potentati islamici che si estendeva dal Maghreb all’Indonesia e dal Caucaso all’Africa nera, in cui era centrale l’Impero ottomano, fino al lontano sistema imperiale cinese. Dal 1500 in poi, le potenze europee avevano cominciato a espandere lentamente la propria influenza mondiale, ma alle soglie della contemporaneità non si poteva ancora parlare di un controllo esteso. Studi recenti anzi indicano che il Celeste Impero cinese era una realtà economicamente e politicamente solida, con un grado di civiltà paragonabile all’Europa. 2.

L’età delle rivoluzioni e l’avvio dell’età contemporanea

Questo sistema fu scosso dai cambiamenti politici ed economici prorompenti dei decenni finali del Settecento. Le Rivoluzioni americana del 1776-83 e francese del 1789-99 videro ambedue all’opera forze nuove, dando luogo all’elaborazione

di concetti e prospettive che ebbero notevole influsso anche sul sistema interna­ zionale. La Rivoluzione industriale britannica stava intanto ponendo le basi di un cambiamento del rapporto economia-politica. Un lungo ciclo di guerre pesanti e distruttive (1792-1815), conseguente a questi fatti, doveva mettere alla prova le dinamiche essenziali del sistema. In termini di potere non mutò molto perché il sistema si assestò, mentre la co­ stituzione stessa degli Stati Uniti non rappresentava ancora un allargamento della sfera politica internazionale, data l’intenzione del nuovo stato di distaccarsi dal quadro europeo, nell’ambizione radicale di un «nuovo inizio» politico e ideale. In termini di cultura del sistema, i cambiamenti furono invece più forti e duraturi. Nel contesto rivoluzionario francese, cominciò a essere usata in senso politico nuovo l’antica idea di «nazione», che alludeva alla comunanza di nascita di un gruppo sociale su un territorio: il popolo-nazione diveniva soggetto politico unitario e organizzato, di fronte al potere del sovrano. La cultura romantica le diede nuova forza, identificando in modo efficace (ancorché spesso arbitrario) le nazioni come organismi viventi nei secoli. Questa nuova ideologia si proiettava nei rapporti tra gli stati. La Francia diventava così la Grande Nation: forte e capace di comunicare a tutta l’Europa la spinta originale della libertà. Espansionismo e missione universale tendevano a coincidere, mentre i particolarismi delle varie potenze impedirono che prendesse forma una subitanea coalizione generale antifrancese. Sull’onda della sua abilità militare e sfruttando l’eredità del messaggio moder­ nizzante rivoluzionario, Napoleone imperatore dopo il 1804 radicalizzò la tendenza francese verso l’egemonia europea. Solo Gran Bretagna e Russia riuscirono a man­ tenere un ruolo di grande potenza di fronte alla Francia: gli altri stati - comprese grandi potenze come l’Austria e la Prussia -, più volte sconfitti militarmente, divennero satelliti del sistema francese, che si estendeva nel 1809 dalla Spagna alla Polonia e dalla Svezia a Napoli. Napoleone non fu però in grado di stabilizzare la situazione di dominio, proprio per la troppo angusta finalizzazione dell’impero agli interessi francesi. La volontà di andare militarmente sempre oltre i risultati raggiunti 10 portò a compiere scelte improvvide, come la campagna di Russia del 1812, men­ tre emergevano reazioni di tipo nuovo nei confronti dell’impero: dai rivoluzionari traditi e scontenti alle identità nazionali espresse in senso antifrancese (in Spagna, Tiralo, nella stessa Russia e in Prussia). La nuova coalizione europea antinapoleo­ nica, nata nel 1813, si impegnò a ricondurre la Francia nei suoi storici confini, ma non solo. Ciascuna potenza dichiarava in modo inedito di voler cooperare per i vent’anni successivi con gli altri contraenti per controllare la pace europea (trattato di Chaumont, 1814). Era un salto di qualità rispetto all’affidamento dell’equilibrio al semplice gioco anarchico delle potenze. 3. L’ordine di Vienna e il «concerto europeo»

Dopo che la coalizione antinapoleonica vittoriosa impose una pace alla Francia che la ridimensionava nei confini del 1792, si decise di convocare a Vienna un gran­ de congresso europeo che avrebbe dovuto mettere le basi di un ordine stabile per 11futuro. L’elemento innovativo più forte fu proprio un progetto di stabilizzazione consensuale: le controversie andavano risolte in un quadro capace di imporre un ordine condiviso e soprattutto presentabile di fronte all’opinione pubblica na-

scente. La versione di questo principio proposta dal cancelliere austriaco Klemens von Metternich coincideva con la restaurazione dei sani principi della tradizione, dalla monarchia di diritto divino alla morale cristiana. Si parlò di «legittimismo»: l’Europa riconosceva sé stessa come una comunità basata sul diritto, in cui i governi validi erano quelli sanzionati dalla tradizione, dalla legge riconosciuta e last but not least dalla religione. Principio sfruttato anche dal nuovo ministro degli Esteri francese Charles-Maurice de Talleyrand, per ottenere il reinserimento nel sistema del suo paese, dove appunto era stata restaurata la monarchia legittima dei Borbone. La volontà di riportare sui troni le dinastie legittime prerivoluzionarie fu attuata in realtà con una certa prudenza e senza automatismi costrittivi. Inoltre, furono solo i quattro vincitori più la stessa potenza sconfitta e ritornata parte integrante del sistema a prendere le decisioni importanti: le «grandi potenze» erano «l’Europa». La revisione dei confini attuata al Congresso di Vienna provò comunque che le esigenze delle diverse potenze non erano affatto facili da contemperare. La casa d’Austria ottenne un’influenza prevalente in Italia ed in Germania, la Gran Breta­ gna confermò un predominio esclusivo nel settore extraeuropeo, la Russia ottenne di spingersi verso il centro dell’Europa occupando la maggior parte della Polonia, la più modesta potenza prussiana ottenne nuovi territori sul Reno. Si elaborò poi un accordo per costituire una serie di «corpi intermedi», che fungessero da cuscinetto rispetto alla potenza francese, servendo anche da equilibratori rispetto alle contrapposizioni delle grandi potenze. Non è del tutto vero che nel compiere questa operazione ci fosse totale disinteresse per la sorte dei popoli: si mise all’o­ pera per la prima volta un apparato statistico e di conoscenze imponente (nei limiti dell’epoca). Tipico esempio dei compromessi con la tradizione fu la sistemazione della Germania, dove una drastica semplificazione della carta geografica, con la scomparsa di molti staterelli, fu completata con una blanda confederazione di 39 stati (il Deutscher Bund) presieduta da Vienna. Analogo ma diverso il caso italiano, con il rafforzamento del Regno di Sardegna, mentre l’Austria confermò il controllo su Venezia ed aumentò la propria influenza attraverso un attento dosaggio dinastico negli altri staterelli della penisola. Lo zar Alessandro I propose quindi di costituire una Santa Alleanza dei sovrani cristiani europei che impegnava i firmatari a prestarsi reciproco sostegno secondo «i principi inderogabili della giustizia, dell’amore e della pace» per ottenere «la fe­ licità dei popoli troppo a lungo tenuti in agitazione». Era una versione rigidamente tradizionalista dell’idea di cooperazione delle grandi potenze, mentre più sobria e pratica era l’interpretazione inglese del «concerto europeo» (l’espressione fu pro­ posta da lord Castlereagh). Il modello funzionò, con alterne vicende ed efficacia variabile, per circa quarant’anni. La sua prima fase dopo il 1815 si imperniò su periodiche riunioni al vertice tra gli esponenti delle grandi potenze (diplomacy by conference). Le regole inespresse ma generalmente accettate del sistema stabilivano che ciascun problema europeo dovesse ricevere soluzioni «europee»; che ogni po­ tenza prima di agire in un campo che toccasse lo status, gli interessi o i diritti delle altre dovesse consultarle; che nessuna delle grandi potenze potesse essere esclusa da una conferenza o congresso; che ci fosse bisogno di consenso per modificare lo status quo (ogni grande potenza aveva una sorta di diritto di veto); che i piccoli stati avessero diritto di protezione e di ascolto, ma non di decisione. L’ipotesi diffusa di nuove minacce all’ordine europeo portate dalla Francia si rivelò eccessiva: il paese viveva una marcata instabilità interna, ma evitò di ripetere

esperienze aggressive. La minaccia allo status quo cominciò piuttosto a provenire dal moltiplicarsi di rivoluzioni costituzionali e liberali, oppure nazionali. L’ideo­ logia legittimista imponeva un vincolo stretto tra il sistema internazionale e i si­ stemi politici interni, in quanto la «rivoluzione» era stata all’origine della «grande guerra» europea. Secondo la versione metternichiana della pace europea, tutte le crisi chiedevano quindi l’intervento militare delle grandi potenze, per restaurare l’ordine legittimo. In alcuni casi si arrivò faticosamente all’accordo per interventi di questo tipo: le conferenze al vertice di Troppau (1820) e Lubiana (1821) prelusero a interventi austriaci in Germania e Italia. Progressivamente emerse lo scontro già implicito tra diverse visioni del ruolo del concerto d’Europa: alla posizione più intransigente si contrappose la linea britannica, che intendeva difendere l’assetto di Vienna solo nella misura in cui ne fossero messe in questione le basi territoriali, senza per questo dover sostenere ogni vacillante trono europeo. La tensione fu forte sul caso spagnolo nel 1821, dove il governo inglese non accettò il mandato alla Francia di ripristinare l’ordine, su richiesta del sovrano. Questa situazione si trascinò dietro il problema delle colonie americane che si volevano staccare dal governo di Madrid: di fronte alla sola ipotesi che la re­ staurazione attraversasse l’Atlantico, appoggiata dagli eserciti europei, la Gran Bretagna fece valere la minaccia del proprio controllo dei mari. A quel punto, la giovane repubblica degli Stati Uniti prese una prima rilevante posizione interna­ zionale con la famosa «dottrina Monroe» (1823): il principio della diversità dei due «mondi», europeo ed americano, escludeva che si potesse ripristinare un controllo coloniale europeo in America, dove gli Usa si candidavano alla guida di un nuovo sistema. Complesso fu anche il caso greco, in cui si sommava il tema di una rivoluzione «nazionale» contro il sovrano turco alla questione della protezione europea delle comunità cristiane orientali che avevano storicamente goduto di autonomia nell’Impero ottomano. Nacque da questi fatti la cosiddetta «questio­ ne d’Oriente», cioè il problema della lenta dissoluzione dell’Impero ottomano a fronte della frammentazione nazionale dell’area balcanica, in cui si inseriva uno scontro di potenza tra la Russia zarista protesa all’estensione della propria influenza verso il Mediterraneo e la Gran Bretagna che intendeva controllare le rotte marittime e quindi difese fino all’ultimo la «Sublime porta». Anche in questo caso, elaborati compromessi vennero però raggiunti sia nel 1829-30 (indipendenza della Grecia), che nel 1840. 4.

I nuovi movimenti nazionali e la «pax britannica»

Dopo queste vicende, la «diplomazia delle conferenze» non funzionò più e la trama di relazioni bilaterali, che regolò ancora per qualche decennio le relazioni internazionali, conobbe pericolosi scricchiolii. Il sistema di Vienna, nel suo sempre più netto arroccamento reazionario, subì una nuova consistente crisi nel 1830-31 con la Rivoluzione di luglio in Francia e le rivoluzioni esplicitamente nazionali che scoppiarono in Belgio e in Polonia. Furono trovati criteri di compromesso tra le grandi potenze: riconosciuto il Belgio indipendente dai Paesi Bassi, venne lasciata mano libera alla repressione zarista in Polonia e a quella austriaca nella propria zona d’influenza. Il caso delle agitazioni costituzionali in Germania era però complesso, perché si univa al dualismo tra l’Austria e la giovane potenza prussiana, che ottenne

nel 1834 di unire i maggiori stati in un’unione doganale (il Deutscher Zollverein) che escludeva le terre tedesche dell’Impero austriaco. Indubbiamente un elemento decisivo dei decenni centrali del secolo fu la diffu­ sione di nuovi movimenti culturali e politici che facevano delle identità nazionali la loro cifra caratterizzante. La ricerca culturale, linguistica, storica, poneva in luce o «costruiva» - ovviamente il confine tra le due versioni è sottilissimo - nuove identità nazionali, che scoprivano una tradizione nel passato e al contempo una «missione» rivolta al futuro (espressa a volte con il linguaggio di una religione secolare della «patria»). Nuovi movimenti si ispirarono quindi al principio di nazionalità messo a punto dai giuristi internazionalisti: «Ad ogni nazione deve corrispondere uno stato». Era un principio eversivo dell’ordine tradizionale: chiedeva unificazioni in territori storicamente frammentati, oppure autonomie fino all’«indipendenza» po­ litica di alcuni territori omogenei, il che avrebbe comportato far esplodere antiche costruzioni statuali dinastiche. Questi movimenti politici nazionali avevano spesso caratteri elitari e socialmente ristretti, ma seppero avvalersi di contesti economici e civili in via di modernizzazione per rafforzarsi. Non avevano generalmente grandi visioni d’insieme del quadro europeo, ma un’ottica piuttosto particolaristica, an­ che se la prevalenza di un orizzonte culturale romantico garantì generalmente in questi decenni una visione di cooperazione delle nazionalità e di intreccio con il nascente liberalismo. Ebbe un certo peso anche la diffusione di una nuova cultura economica, critica dell’impostazione mercantilista tradizionale. Sotto la spinta dei modelli capitalistici imperniati sulla libera iniziativa individuale e soprattutto con l’aumento progres­ sivo della velocità dell’attività economica causato dalla Rivoluzione industriale, si affermò una concezione della ricchezza come frutto di una dinamica economica e commerciale il più possibile libera da vincoli. La diffusione del commercio e della prosperità era vista come potente antidoto alla guerra. Un sistema di mercato mon­ diale autoregolato secondo le nuove idee liberiste avrebbe infatti favorito rapporti pacifici tra i popoli. L’esempio inglese dava forza a queste idee. Il primato temporale nella Rivolu­ zione industriale aveva condotto il paese insulare a divenire l’economia più pro­ duttiva (e quindi commercialmente dominante) e a creare un mercato finanziario cruciale per tutto il mondo. Su queste basi, si sviluppò un’egemonia mondiale di tipo nuovo, che fino al 1870 doveva restare pressoché unica, con una «coscienza imperiale», espressa dal motto della pax britannica, riallacciato al modello di Roma classica. Il perno del sistema era una sfera «informale» di influenza economicopolitica sempre più estesa a livello globale: nuovi mercati e nuovi territori erano avvicinati dalla rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni. In queste aree si imponeva spontaneamente il primato del commercio inglese, sostenuto da una flotta commerciale solidissima. Attorno alla metà del secolo la classe dirigente inglese si convertì definitivamente al liberismo, abbandonando il mercantilismo e il protezionismo del passato e richiedendo analoga apertura ai propri partner commerciali. Una rete di investimenti finanziari in molti paesi completava tale influenza, ed era l’espressione del ruolo dominante della City di Londra e del peso della sterlina come moneta-chiave di un sistema di scambi internazionali in cui le monete principali erano ancorate all’oro (gold standard). Il governo inglese - in cui la figura più rappresentativa fu per trentanni il visconte di Palmerston - si ispirò alle idee liberiste, senza peraltro abbandonare

gli strumenti della potenza e continuando ad applicare selettivamente la propria influenza, con i mezzi dell’aumentata superiorità della propria flotta da guerra. L’uso limitato della forza serviva per far rispettare interessi o per affermare la stessa logica della «porta aperta» verso le merci inglesi contro sovrani riluttanti (tipiche furono la guerra dell’oppio contro la Cina nel 1839-42, la penetrazione in Giappone, l’influenza in Egitto e nell’Impero ottomano). Al contempo, Londra sorvegliava la situazione europea dall’esterno, con pragmatica attenzione all’e­ quilibrio continentale, affidandosi a occasionali interventi periferici e limitati per mantenerlo. Completavano il quadro le vere e proprie colonie, in primis l’India, dove verso la metà del secolo, dopo la sanguinosa rivolta dei Sepoys, venne impo­ sto il governo della corona (sostituendo il ruolo della potente Compagnia privata delle Indie orientali). Inoltre, c’erano le vecchie colonie di popolamento (Australia, Canada, Nuova Zelanda), mentre ci furono nuove acquisizioni selettive di territori e basi marittime sparse per il pianeta, indispensabili punti d’appoggio per la flotta imperiale (da Hong Kong ad Aden, dalla colonia del Capo a Singapore). I critici dell’impero, che lo ritenevano un costo senza benefici evidenti (molto forti nelle correnti liberiste radicali), non ottennero nessun successo: non ci fu nessun arre­ tramento volontario di posizioni. 5.

La crisi del «concerto europeo» : l’unità italiana e quella tedesca

Gli anni Trenta dell’Ottocento videro una tendenza a contrapporre in Europa un raggruppamento di «corti reazionarie» dell’area orientale e settentrionale (Vienna, Berlino, San Pietroburgo) a un’Europa occidentale «liberale» costituita attorno alla cooperazione tra Londra e Parigi. Le ragioni del «concerto europeo» si erano peral­ tro fortemente indebolite. La crisi liberal-nazionale si generalizzò in tutta Europa nel 1848. La rivoluzione dilagò con ampiezza e profondità sconosciute - tranne in Gran Bretagna e Russia, non a caso -, soprattutto dopo i primi cedimenti delle monarchie, in preda al panico ed alla confusione. Il tema centrale, diffuso in modo molto omo­ geneo in Europa, era la battaglia per realizzare la sovranità nazionale, nel duplice aspetto della nuova legittimazione «liberale» delle istituzioni statuali ed eventual­ mente della revisione dei confini ingessati dalla tradizione, per attuare finalmente il principio di nazionalità. A partire dalla Rivoluzione parigina del febbraio 1848, che instaurò la Seconda repubblica, una serie di altri episodi pose in crisi l’Impero asburgico (sollevazioni di Praga e Budapest) e aprì la questione dell’unificazione italiana e tedesca. Sia l’esperienza italiana della Prima guerra d’indipendenza a guida sabauda, sia quella tedesca del parlamento liberale «rivoluzionario» di Francoforte, rientrarono però di fronte alla rottura del fronte rivoluzionario, all’assestamento moderato della Seconda repubblica francese con la presidenza di Luigi Napoleone Bonaparte e alla ripresa del potere asburgico nella forma di una dittatura militare. Emerse anche con chiarezza la possibilità reale di contrasti tra le diverse nazionalità. Il Congresso panslavo di Praga o i patrioti croati sostennero l’unità sovranazionale asburgica, temendo i nazionalismi tedesco o ungherese. La sconfitta della rivoluzione magiara, nel 1849, con il determinante sostegno militare russo all’Austria, fu l’ultima manifestazione della solidarietà della Santa Alleanza. La scossa rivoluzionaria aveva quindi ulteriormente indebolito il sistema inter­ nazionale di Vienna. La divaricazione all’interno dei movimenti rivoluzionari e la

stessa amarezza per la sconfitta avevano spazzato via il «romanticismo politico» e condotto molti degli stessi protagonisti delle forze del cambiamento a scoprire un nuovo interesse per la potenza e la forza degli stati, che avrebbero potuto utiliz­ zare al proprio servizio la nuova carica dinamica delle agitazioni di massa e delle ideologie diffuse. Un Cavour, un Bismarck, uno Schwarzenberg, in parte lo stesso Napoleone III, erano ormai politici di tale fatta, come avrebbero dimostrato le relazioni internazionali del ventennio successivo. Bastava un momento di contrasto ulteriore tra le potenze per far crollare le basi del sistema. L’occasione fu appunto la guerra di Crimea (1853-56), frutto di una nuova iniziativa zarista nella questione d’Oriente, contrastata da Francia e Gran Bretagna che appoggiarono la resistenza ottomana. Episodio in sé circoscritto e tormentato, tale guerra era la prima da quarantanni che vedeva alcune grandi potenze contrapposte militarmente in modo diretto. Portò alla rottura del legame tra Austria e Russia, umiliò la potenza militare russa, isolò ulteriormente la Prussia e fece tornare in primo piano il ruolo europeo della potenza «revisionista» france­ se. Il Congresso di Parigi del 1856 espresse questo nuovo panorama, senza poter ristabilire le regole di funzionamento del «concerto europeo». Non è un caso che, in questa fase di sospensione di un quadro di procedure internazionali condivise, i movimenti nazionali più solidi (o più abili nel giocare le carte delle grandi potenze una contro l’altra), come quello italiano e tedesco, riu­ scissero a ottenere i loro obiettivi. L’operazione cavouriana di tradurre il problema italiano in termini di dinamiche internazionali riuscì a valersi della leva militare francese per la guerra all’Austria del 1859 e poi dell’appoggio ideologico britannico e dell’impotenza delle altre potenze isolate per costituire nel 1861 il Regno d’Italia. Un nuovo attore non secondario per realtà geografica e demografica entrava a far parte del sistema, ancorché difficilmente qualificabile come una «grande potenza» per ragioni di arretratezza economica e debolezza militare. Dal canto suo, il cancelliere prussiano Bismarck operò una sapiente sintesi di tradizionalismo dinastico e uso strumentale del sentimento nazionale tedesco per aggirare le frustrazioni del movimento nazionale-liberale, e affermare per gradi un disegno di unificazione tedesca guidato saldamente dallo stato militare prussiano. La sua «antirivoluzione creativa» si basò sull’uso spregiudicato della forza (Eisen und Blut, il ferro e il sangue, dovevano decidere la soluzione degli affari tedeschi), ma anche su un’accorta valutazione delle circostanze. La guerra all’Austria del 1866, prevista e preparata, fu il passo decisivo per escludere gli Asburgo dagli affari tedeschi e rompere il guscio tradizionalistico del Deutscher Bund. La guerra alla Francia del 1870, più occasionale nella sua genesi, gli permise di far appello al nazionalismo tedesco e di completare così l’opera di unificazione dei diversi principi tedeschi sotto la corona prussiana, che nel Secondo Reich rinverdiva la tradizione imperiale, piegandola a disegni di potenza totalmente moderni. L’unificazione del «centro debole» dell’Europa doveva modificare molte carte del sistema europeo. In questo spazio senza più procedure concertate e cooperative, le azioni uni­ laterali di potenza da parte degli stati maggiori miravano a far riconoscere nuove situazioni di fatto. In realtà, almeno le forme del concerto tradizionale furono fa­ ticosamente salvaguardate: la diplomazia europea entrava comunque in funzione, per controllare e moderare gli effetti delle crisi così innescate, ma solo a posteriori, in modo indiretto, senza nessun elaborato compromesso preventivo. Bismarck si era fatto beffe in più occasioni di coloro che enfaticamente si richiamavano

alP«Europa»: per lui esistevano solo gli obiettivi delle singole potenze, mentre l’Europa non era che una notion géographique. La Gran Bretagna gladstoniana aveva nel frattempo accentuato il proprio carattere di potenza marittima e mondiale con una visione di «splendido isola­ mento» rispetto agli affari europei, rifiutando apertamente alleanze segrete che implicassero impegnativi vincoli alla difesa reciproca per il futuro. La Russia si accontentò di modesti miglioramenti del proprio status nel Mar Nero e del soste­ gno bismarckiano alla causa della repressione polacca. La Francia sconfitta, con la lunga e tormentata transizione alla Terza repubblica, covava senza molte speranze i sogni di una revanche. L’Austria, spodestata dalle sue posizioni realmente «im­ periali» in Germania e Italia, trovava nuova stabilità ne\YAusgleich del 1867 che, elevando l’antico Regno d’Ungheria a struttura dominante paritetica dell’impero, introduceva nuovi elementi geopolitici balcanici e anti-russi. Bismarck riuscì a gestire per vent’anni diplomaticamente dal centro berlinese un’egemonia conti­ nentale del nuovo stato tedesco in Europa, attraverso una rete complessa di al­ leanze e legami (dalla Lega dei tre imperatori del 1873 alla Duplice austro-tedesca del 1879, estesa all’Italia nella Triplice del 1882, fino agli accordi mediterranei che coinvolgevano la Gran Bretagna nel decennio successivo): l’obiettivo rimase mantenere isolata e debole la Francia e gestire faticosamente il nuovo scontro austro-russo del 1875-78 sulla questione d’Oriente. Ma i dati essenziali del sistema stavano ormai cambiando. 6.

Stato e nazione nell’epoca degli imperialismi

Il trionfo del principio nazionale nel 1861-70 era in realtà l’altra faccia di un’e­ voluzione forse ancor più decisiva per le relazioni internazionali contemporanee: il consolidamento definitivo dello stato territoriale moderno. A livello globale, in questi anni una serie di guerre definite ora da Charles Maier di «ricostituzione nazionale» fissarono l’esistenza di nuovi attori politici statuali o mostrarono l’inca­ pacità di altri a consolidarsi: nel primo caso fu determinante la guerra di secessione negli Stati Uniti che mise capo alla vittoria dell’Unione nordista (1861-65), oppure la «restaurazione Meiji» in Giappone (1868) che avviò il paese all’acquisizione dei modelli della potenza europei, mentre nel secondo caso la durissima guerra civile collegata alla rivolta dei Taiping (1851-64) impedì alla Cina di compiere lo stesso passo di consolidamento, accelerando la sua caduta sotto l’influsso occidentale. L’ormai compiuta centralità degli aggregati politici nazionali, indipendenti e sovrani, costituiva un elemento essenziale del quadro internazionale, con la sconfitta di ogni modello federale e di ogni sopravvivenza dell’intreccio complicato di autori­ tà sociali ed amministrative diverse, tipica àeWAncien Regime. Più la responsabilità dello stato nella trama della vita sociale cresceva, più occorreva una legittimazione estesa, che sfruttava la forza dell’appello nazionale: si è parlato efficacemente di «ufficial-nazionalismo». Gli sviluppi verso una politica «democratica» (allargamento del suffragio e mobilitazione politica dei ceti piccolo-borghesi e popolari) furono la base del processo di «nazionalizzazione delle masse»: la nazione doveva infatti essere costruita dallo stato nelle coscienze dei suoi membri, attraverso molteplici strumenti (dalla scuola all’esercito). Alla svolta finale del secolo, il nazionalismo divenne dottrina aggressiva e particolaristica dell’affermazione assoluta degli in­

teressi del proprio stato, sposandosi spesso con preferenze autoritarie in politica interna e staccandosi dal liberalismo. Tutto ciò avveniva nell’epoca della rapida diffusione geografica della Rivoluzio­ ne industriale, che si traduceva anche nell’accelerazione subitanea dei trasporti e delle comunicazioni. La creazione di una politica mondiale integrata fece passi da gigante. L’influenza europea raggiunse tutto il pianeta, nella forma di una penetra­ zione economica e commerciale. Antiche civiltà come quella cinese e giapponese, o anche lo stesso Impero ottomano, caddero sotto la tutela finanziaria e giuridica delle potenze europee, mentre i loro mercati venivano inondati dalle merci a basso costo prodotte negli opifici europei. Dopo il 1880 iniziò l’età deH’imperialismo, basata sulla centralità della conquista coloniale europea di territori e popolazioni extraeuropee, con la partecipazione di nuove potenze oltre al Regno Unito (Francia, Germania, financo l’Italia, mentre la Russia si espandeva in Asia centrale). L’Africa fu rapidamente spartita, non senza qualche tensione tra le maggiori potenze colo­ niali, ma senza scontri aperti. Proprio le caratteristiche dominanti di quest’epoca «del carbone e dell’acciaio», del telegrafo e delle ferrovie, condussero a porre la questione dell’espansione eco­ nomica guidata dallo stato come condizione di sopravvivenza della stessa struttura industriale. Non a caso il commercio estero divenne un elemento competitivo sem­ pre pili centrale, unitamente alla protezione dell’industria nazionale e al tentativo di costruire un’autosufficienza alimentare: si voleva uscire dall’incipiente divisione internazionale del lavoro, conseguenza dell’impostazione liberoscambista. Di qui le scelte protezioniste di molti paesi: Germania 1879, Italia 1887, Francia 1892. La Gran Bretagna resistette ad alcune di queste dinamiche, difendendo la pratica del libero scambio, ma partecipò alla nuova gara imperiale: il caso egiziano del 1882 fu assolutamente rilevante. L’accresciuta competizione commerciale ed economica rafforzava al tempo stesso nuove forme di rivalità di potenza. Nella trama di queste novità, si fece strada anche un mutamento del giudizio culturale collettivo verso la guerra, imma­ ginandola a servizio non più di uno specifico e limitato obiettivo di potenza (come nell’esempio bismarckiano), ma della complessiva competizione nazional-statuale. Si manifestava nella cultura europea una crisi radicale del precedente ottimismo sul progresso e sul miglioramento indefinito dei rapporti tra i popoli. La profezia apocalittica di una catastrofe imminente segnava nel profondo le spensieratezze della cosiddetta Belle Epoque. La società internazionale europea si avvolse quindi in una spirale di contrap­ posizioni nazionalistiche in cui ogni stato nazionale ambiva ad assumere caratteri apertamente «imperiali». Gli statisti europei cercarono di affrontare la compe­ tizione sfruttando alleanze bilaterali e intese segrete - inizialmente a carattere difensivo - che si sedimentarono lentamente fino a costituire due veri e propri blocchi contrapposti. L’avvio di questo processo risaliva all’epoca bismarckiana (con la crescente importanza dell’alleanza austro-tedesca del 1879), ma la defini­ tiva svolta fu rappresentata dall’alleanza franco-russa del 1891-94: le due potenze superarono ogni difficoltà politica per la comune esigenza di trovare un sostegno militare nel caso di un conflitto con la Germania o l’Inghilterra (da cui erano se­ parate da rivalità imperialistiche). Il bipolarismo tendenziale era reso più elastico soltanto dalla collocazione defilata della Gran Bretagna di Robert Albert Salisbury: l’ipotesi di un’alleanza con la Germania cadde di fronte alla rudezza della politica

del Reich guglielmino dopo l’allontanamento di Bismarck dal potere nel 1890. La formula della Weltpolitik (politica mondiale) alludeva infatti alla necessità dello stato tedesco, con il suo forte dinamismo economico e demografico, di modificare i rapporti di forza, per puntare al controllo della Mitteleuropa, ponendo così le basi per un confronto imperiale più ampio nel mondo. Questa visione era sostanziata in chiave anti-inglese con la minacciosa costruzione di una flotta d’alto mare. In contrapposizione a questo spettro, maturarono sia il riavvicinamento franco-inglese (Entente cordiale) del 1904 che quello anglo-russo del 1907, iniziando proprio dalla soluzione di alcune controversie coloniali. Alleanze permanenti e intese impegnative chiedevano strutturalmente la con­ servazione del segreto diplomatico, e inoltre spiazzavano ogni forma di regolazio­ ne formale del tipo «concertato» delle relazioni internazionali. Le competizioni imperialistiche tra le potenze europee non sfociarono in una guerra aperta, ma il loro influsso problematico fu difficile da controllare. Minarono anche le basi della tradizionale visione di un «equilibrio» continentale, in quanto l’equilibrio dove­ va ormai costruirsi tra imperi mondiali. Si susseguirono le azioni unilaterali e le forzature dovute alla convinzione di avere comunque fedeli alleati su cui contare: tipica l’annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina nel 1908. Tale competizione era ormai inscritta nelle nuove dimensioni mondiali della politica internazionale. L’affermazione definitiva di due nuovi attori localizzati ma potenti come Stati Uniti e Giappone era un segno dell’estensione del mondo politico internazionale. Negli anni Novanta il Giappone sconfisse la Cina e si conquistò posizioni di duraturo influsso sul continente, in competizione aperta con le potenze europee, fino alla sconcertante e inattesa vittoria sulla Russia nella guerra del 1904-05; gli Stati Uniti sconfissero la Spagna nel 1898, in una guerra nata sul destino coloniale dell’isola di Cuba, ma estesa a dare alla potenza americana un orizzonte imperiale nel Pacifico (con la conquista delle Filippine). In molti paesi dipendenti cominciavano intanto a scoppiare le prime rivoluzioni anti-europee di segno vagamente nazionalistico (si pensi alla Persia, al Messico, alla Cina, alla stessa rivolta dei Giovani turchi nell’Im­ pero ottomano). C’erano tutte le premesse per un grande scontro di tipo nuovo. 7.

La Prima guerra mondiale e il tentativo di costruire un ordine giuridico internazionale

La Prima guerra mondiale scoppiò secondo una dinamica parzialmente casuale e non controllabile: fu la rapida generalizzazione di una crisi locale come quella austro-serba susseguente all’attentato mortale di Sarajevo (28 giugno 1914) contro l’erede al trono d’Austria, messo in atto da nazionalisti serbo-bosniaci. Vienna decise di risolvere una volta per tutte il problema slavo e la minaccia costituita da un punto di aggregazione nazionalistico come la Serbia per il proprio delicato mosaico di popoli, riducendo a condizioni subalterne il piccolo vicino. La crisi si generalizzò piuttosto rapidamente, per le conseguenti rigidità degli avversari e degli alleati del vecchio Impero austroungarico. Nessuna cancelleria cercò aperta­ mente una guerra europea, va detto, ma tutte erano disposte a correrne il rischio per affermare i propri interessi vitali: la somma di questi comportamenti fu fatale. Berlino si dispose a sostenere fino in fondo Vienna, mentre da parte russa non si poteva abdicare al proprio ruolo di grande protettore dei popoli slavi e Parigi non

volle lasciar solo il suo alleato russo contro la Germania. Dall’ultimatum austriaco alla Serbia allo scoppio di una guerra tra le due alleanze storiche del continente passarono pochi giorni. L’incertezza sul comportamento inglese impedì alle diverse cancellerie previsioni sicure: a Londra non si voleva comunque far schiacciare la Francia e si colse l’occasione della violazione tedesca del Belgio neutrale (attuata per perseguire il vecchio piano Schlieffen, che prevedeva di chiudere velocemente le ostilità dapprima sul fronte occidentale) per giustificare l’intervento dalla parte dell’Intesa franco-russa. Altri paesi interverranno dopo qualche settimana oppure qualche mese: la Turchia e la Bulgaria dalla parte degli imperi centrali; l’Italia per la Triplice Intesa, superando i precedenti legami d’alleanza, in nome di un disegno di completamento dell’unità nazionale e di espansione adriatica di segno antiasburgico (patto di Londra dell’aprile del 1915). Per altro verso, lo scoppio della guerra sembrò la nemesi di una tragica previ­ sione da tempo inscritta nel cuore della cultura europea e degli stessi meccanismi di alleanze rigide e di militarizzazione crescente del confronto tra le grandi potenze. Preparata come rapido scontro di eserciti in una brillante campagna militare estiva, la guerra si tradusse nel logoramento di una guerra di trincea, sporca, fangosa, duratura. La guerra assunse caratteri mai sperimentati prima d’allora, per l’esten­ sione della mobilitazione sociale alle masse e la radicalità dell’impegno necessario di risorse umane e produttive. Fu una netta svolta rispetto all’Europa ottocentesca: nessuna pace di compromesso sembrò possibile di fronte ai sacrifici durissimi chie­ sti alle popolazioni. L’obiettivo della vittoria divenne più importante di qualsiasi contenuto della pace da conseguire. La guerra diventava sinistramente «totale». La guerra europea divenne poi «mondiale» estendendosi all’area asiatica per l’intervento giapponese contro la Germania, ma ancor più con l’ingresso degli Stati Uniti nel 1917. Il presidente Woodrow Wilson, dopo aver gelosamente difeso la neutralità e la diversità americana, come sorgente di un possibile ruolo di media­ zione super partes, impegnò contro il militarismo tedesco il già rilevante potenziale della democrazia americana, lanciando l’idea di un’associazione (non alleanza) all’Intesa, il che implicava non voler condividere le intese imperialistiche già strette fra i belligeranti. Alcuni stati non ressero lo scontro, come la Russia zarista travolta dalla Rivoluzione del febbraio 1917 (nell’ottobre ci sarà la conquista bolscevica del potere) e lo stesso Impero asburgico, in cui i movimenti delle nazionalità subalter­ ne approfittarono della finale sconfitta militare per smantellare il vecchio guscio dinastico e sovranazionale. Alla fine, lo stesso stato maggiore tedesco riconobbe di non poter più continuare le ostilità, per esaurimento degli approvvigionamenti alimentari e militari, nonostante sperasse fino all’ultimo di poter dare la spallata decisiva sul fronte occidentale, dopo aver imposto alla Russia una pace come quella di Brest-Litovsk (marzo 1918) che le permetteva di sfruttare risorse economiche europee orientali. La sconfitta militare tedesca non fu un tracollo, ma una resa: essa travolse però lo stesso Reich, aprendo una fragile transizione repubblicana. Anche i vincitori erano comunque in condizioni fortemente provate nel 1918. La costruzione della pace seguì canali parzialmente tradizionali (la convocazione di un grande congresso, la mediazione tra obiettivi delle singole potenze), frammisti con aspetti decisamente nuovi. Alcuni erano effetto della guerra totale: ad esempio la rigida imposizione sul vinto dello stigma della colpa di aver scatenato la guerra (fissata in un articolo del trattato di pace di Versailles, al di là della stessa comples­ sità storica delle vicende del 1914). C’era poi aperta la sfida deH’internazionalismo

proletario socialista, incarnato ormai in un nuovo stato, quello russo, portatore di un principio rivoluzionario. Lenin lanciò simbolicamente l’idea di una svolta nella politica internazionale, oltre la «vecchia diplomazia», pubblicando tutti i documenti relativi ai trattati segreti stipulati dal governo zarista nei decenni precedenti. Questa sfida fu raccolta dal presidente americano Woodrow Wilson, con la sua idea di un ordine imperniato su stati democratici e nazionali, stabilizzato però da un’organizzazione giuridica permanente di stati. Al tradizionale equilibrio delle po­ tenze, tradotto in alleanze rivali, egli contrappose il principio dell’associazione delle forze (community of power), in un quadro giuridicamente garantito che avrebbe dovuto essere gestito con una «diplomazia aperta», senza segreti, attraverso cui i popoli avrebbero controllato e moderato l’azione dei governi e dei vertici militari. Erano elementi forti, seppure un po’ schematicamente espressi: la potenza ormai economicamente centrale degli Stati Uniti non si accontentava più di difendersi dal mondo esterno, ma pensava di poter iniziare a forgiarlo a propria immagine. La Società delle Nazioni (Sdn) nacque quindi alla conferenza per la pace di Parigi, che iniziò nel gennaio del 1919, proprio su pressione americana. Era un’asso­ ciazione di stati sovrani che concordarono di limitare le proprie sovranità: avrebbe potuto intervenire nelle crisi internazionali, con una limitata gamma di sanzioni politiche ed economiche. La difficoltà di realizzare il nuovo ordine apparve però evidente quando si entrò nei dettagli dell’elaborazione dei trattati di pace. L’ere­ dità delle profonde lacerazioni nazionali e sociali della guerra di massa dominava il campo. La conferenza per la pace smentì fin dai primi passi le promesse di una diplomazia aperta e pubblica, risolvendosi in una trattativa segreta a quattro (il presidente americano Woodrow Wilson, il premier inglese David Lloyd George, il presidente del Consiglio francese Georges Clemenceau e quello italiano Vittorio Emanuele Orlando, peraltro in posizione marginale). Rispetto alla questione tedesca, la conferenza non sciolse il nodo tra l’ulteriore ridimensionamento del peso internazionale della Germania e la posizione delle premesse per un suo pacifico reinserimento nel sistema. La Francia ottenne la punizione del paese sconfitto, che fu psicologicamente rafforzata dalle modalità in cui il trattato fu imposto, senza negoziati. Un punto delicatissimo fu il complesso meccanismo finanziario delle «riparazioni di guerra», che doveva servire ad addos­ sare all’aggressore i costi subiti dai vincitori, calcolati con analitico e astratto criterio ragionieristico (cosa diversa dalle vecchie «indennità di guerra»). Le riparazioni non furono fissate quantitativamente alla conferenza e rimasero un problema aperto che avvelenò il clima europeo. Tale situazione indebolì la neonata Repubblica di Weimar, senza peraltro poter realmente ridurre il paese antagonista a totale im­ potenza. Infatti, la più drastica ipotesi francese di ridurre i confini occidentali del paese al Reno, staccandone i territori occidentali in cui si agitava un movimento autonomista, non ottenne il consenso inglese e americano. A Est, l’indipendenza polacca fu costruita con i territori ex russi ed ex asbur­ gici, a cui si aggiunsero la Posnania e la Pomerania abitate anche da molti tedeschi (soprattutto l’internazionalizzazione della città tedesca di Danzica e la creazione di un «corridoio» per dare uno sbocco al mare alla Polonia dovevano essere fonte di infiniti contrasti). Per il resto, si rafforzò un «cordone sanitario» di stati anti­ bolscevichi, soprattutto dopo che era fallito l’intervento occidentale per sconfiggere la Rivoluzione sovietica e la guerra civile stava mostrando le capacità di resistenza del nuovo regime. La nascita o la ricostituzione di molti stati nazionali nell’area ex

asburgica ed ex zarista, avviate dalle élite locali guadagnate alla causa nazionale (Cecoslovacchia e Jugoslavia in particolare), lasciarono alla conferenza solo un ruolo di arbitro e garante dell’equa redistribuzione territoriale delle terre impe­ riali tra i nuovi stati riconosciuti indipendenti e i residui dell’impero (la piccola Repubblica austriaca e il ridotto Regno d’Ungheria). Tale lavoro non fu semplice, creando nuove minoranze nazionali e stati insoddisfatti. Francia e Gran Bretagna ottennero poi l’ultimo successo dell’imperialismo europeo, approfittando del crollo dell’Impero ottomano per estendere il proprio controllo in alcune delle zone arabe (la prima in Siria e Libano, la seconda in Pa­ lestina, Transgiordania ed Iraq, dove si cominciava ad estrarre petrolio). Peraltro, dovettero accettare il principio voluto da Wilson secondo cui le potenze ottenessero «mandati» della Sdn ad amministrare questi territori in vista della futura indipen­ denza dei popoli. In questa zona, si affermò però dopo il 1920 il revisionismo turco, che sotto la guida di Mustafà Kemal riuscì a far modificare il trattato di Sèvres ed affermare uno stato nazionale laico in Anatolia. Inoltre, il nazionalismo arabo, lan­ ciato nel corso della guerra proprio in funzione anti-ottomana, sarebbe rimasto un elemento del gioco non più trascurabile. Dal canto suo, il Giappone ottenne dalla conferenza di pace di sostituirsi alle posizioni tedesche in Cina, divenendo ancor più chiaramente la potenza regionale egemone in Estremo Oriente. All’ordine abbozzato a Versailles mancò sostanzialmente la guida, in quanto non emerse né una potenza dominante in grado di imporlo, né una solidarietà convinta tra i maggiori vincitori. La Francia restava la potenza militare maggiore del conti­ nente ma viveva in condizioni di forte incertezza, anche per i trend demografici ed economici non brillanti: il suo «sistema diplomatico» di alleanze nell’Est europeo con i paesi «soddisfatti» dell’assetto della pace (Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Romania) si doveva rivelare abbastanza fragile. La Gran Bretagna doveva riela­ borare la perdita del primato produttivo e finanziario mondiale a vantaggio degli Stati Uniti. La Russia era esclusa dal sistema e in preda alla guerra civile, anche se il governo bolscevico sopravvisse alle durezze della prima fase postbellica e Lenin riuscì a salvare l’eredità sostanziale della tradizione imperiale russa nella forma di un’unione di repubbliche sovietizzate (l’Urss, nata nel 1922). L’Italia era nelle condizioni storiche per superare i limiti imposti dalla propria debolezza economica e militare, ma consumò tale possibilità in quanto la sua classe dirigente si ritrovò politicamente concentrata in modo ossessivo ed improvvido sui soli problemi di sistemazione delle proprie frontiere orientali (la cosiddetta «questione adriatica»). Soprattutto, fu decisiva per il futuro la decisione del Congresso americano di non ratificare il trattato e quindi non partecipare alla Sdn, dal momento che Wilson non era riuscito a far comprendere l’importanza di accettarne vincoli e responsa­ bilità. Tale scelta privò il nuovo assetto di quella che era ormai la maggior potenza finanziaria e militare del pianeta. 8.

L’Europa verso la catastrofe

Gli anni Venti videro quindi una prima fase tormentata da parecchie crisi post­ belliche di assestamento, fino alla nuova militarizzazione dello scontro tra Francia e Germania sulle riparazioni (occupazione francese della Ruhr, 1923). Il vicolo cieco indusse i leader dei due paesi a cambiare rotta, verso una certa stabilizza­

zione, maturata dal 1924-25. Il ministro degli Esteri tedesco Gustav Stresemann e quello francese Aristide Briand capirono che non c’era alternativa al migliora­ mento negoziale dei reciproci rapporti. Anche i rapporti finanziari internazionali sembrarono andare verso una fase più stabile, con la riduzione delle riparazioni tedesche, mediante un piano messo a punto nel 1924 dal banchiere americano Charles G. Dawes, che avviava finalmente un circuito di pagamenti e prestiti che coinvolgeva gli Stati Uniti, i paesi vittoriosi della guerra e la stessa Germania. La ripresa economica dei diversi paesi europei sembrò accompagnare questa ritrovata stabilità. Il trattato di Locamo del 1925 fissò l’accettazione tedesca del confine del Reno (che lasciava aperte altre speranze o illusioni revisioniste). Ma elementi nuovi si introducevano nel sistema. Intanto, nacquero esperimenti politici in Europa ben lontani dal mondo di stati nazionali democratici immagi­ nato da Wilson. L’Urss aveva scelto una linea di «isolazionismo antagonistico» rispetto al capitalismo mondiale, protesa nella costruzione del «socialismo in un solo paese», come recitava la formula di Stalin dopo il 1926 (pur mantenendo il Comintern come possibile minaccia rivoluzionaria globale). La vittoria del fasci­ smo in Italia tra 1922 e 1925 realizzava un primo stato tendenzialmente «totali­ tario» - l’espressione coniata dagli antifascisti fu orgogliosamente fatta propria da Mussolini - che fondeva il nazionalismo esasperato di inizio secolo con una mobilitazione permanente della società di massa, tipica della lezione della Prima guerra mondiale. Ambedue i regimi tennero inizialmente una linea di politica estera prudente, ma i germi del cambiamento erano seminati. L’illusione wilsoniana della stabilizzazione democratico-nazionale dell’Europa fu ulteriormente smontata da una serie di trasformazioni autoritarie, come si vede da una semplice evocazione cronologica: Ungheria (1919), Italia (1922), Spagna, Romania e Bulgaria (1923), Polonia e Lituania (1926), Jugoslavia (1929). L’apparente stabilizzazione internazionale realizzata nella seconda metà degli anni Venti non resse al grande sconvolgimento messo in moto dalla crisi economica intemazionale del 1929. Nata come fenomeno interno di inceppamento della mac­ china produttiva e finanziaria americana, drogata da un decennio di mano libera al big business e alla speculazione, la crisi si tradusse in una radicale depressione produttiva, che raggiunse sia l’Europa che il mondo extraeuropeo. L’incerta rea­ zione delle classi dirigenti a un fenomeno così grave, percepito come il crollo di un intero mondo, si tradusse in una nuova ondata di chiusura delle economie e nel rilancio di un ciclo ideologico e politico nazionalistico. Le maggiori potenze non si limitarono a innalzare il protezionismo commerciale e a chiudere il circuito valutario, ma si orientarono a costruire attorno al proprio paese sfere d’influenza economiche imperiali chiuse e competitive. Per gli Stati Uniti esisteva il sistema continentale americano, riformulato secondo lo slogan rooseveltiano del «buon vicinato»; la Francia cercò di sviluppare in questa direzione il suo sistema diplo­ matico di alleanze in Europa orientale (per la verità con scarso successo); la Gran Bretagna arrivò dopo quasi un secolo a mettere in discussione il suo liberoscam­ bismo e a convertire il Commonwealth in un sistema di preferenze economiche sostanzialmente chiuso (conferenza di Ottawa, 1932). Più complesso fu il caso tedesco, perché la crisi agì come catalizzatore dell’in­ combente fallimento della Repubblica di Weimar. La radicalizzazione politica frutto dell’estesa disoccupazione e delle preoccupazioni dei ceti medi portò all’aumento notevolissimo dei consensi elettorali per il movimento nazionalsocialista di Hitler,

capace di sfruttare il disorientamento con un’aggressiva propaganda antisemita e xenofoba. Portato alla cancelleria dal presidente Paul von Hindenburg nel 1933, Hitler nel giro di pochi mesi instaurò una dittatura di tipo fascista. Il programma di reazione nazionalista assunse quindi caratteri ideologicamente molto netti, tramite il revisionismo aperto contro Versailles, un programma di riarmo nascosto, e la proclamazione dell’obiettivo di riportare nei confini del Terzo Reich tutti i tedeschi d’Europa. Al fondo, già nello scritto propagandistico Mein Kampf {La mia batta­ glia, 1923), stava un programma di estensione del dominio tedesco in Europa, che vagheggiava un «nuovo ordine» gerarchico dominato dalla razza ariano-tedesca, in cui la Germania trovasse finalmente il proprio Lebensraum («spazio vitale»). Alternando tatticamente distensione e aggressione, Hitler avviò fin dal 1933 una politica coerente con tale strategia. Nel frattempo, l’economia tedesca risaliva la china sotto la spinta del riarmo, costruendosi anch’essa una sorta di informale ma estesa area di influenza nell’Europa centro-orientale. Parallelamente, si delineava una nuova stagione di aggressività giapponese in Estremo Oriente, con la decisione di uscire dal paventato accerchiamento economico tramite l’espansione territoriale, avviata con la conquista della Manciuria nel 1931. Insomma, la segmentazione del mondo era affidata ormai anche alle armi, non più solo all’economia. La risposta ai nascenti revisionismi dei paesi delusi, da parte dei paesi che gestivano l’ordine di Versailles, fu debole e scoordinata. Da parte britannica si affacciò l’idea dell’appeasement: una politica che intendeva pacificare il dittatore tedesco accettando le sue mosse e raggiungendo compromessi politici, fino al limite degli interessi imperiali britannici, confidando nel fatto che ciò avrebbe stempera­ to la sua aggressività, in modo da evitare un nuovo bagno di sangue. La richiesta francese di una resistenza più decisa era invece condizionata dalle incertezze di Parigi (le cui forze armate avevano sposato una linea difensivistica ad oltranza, simboleggiata dalla costruzione della cosiddetta linea Maginot). La mossa sovietica di avvicinamento alla «sicurezza collettiva» (Stalin nel 1934 decise di aderire alla Sdn), completata nel 1935 dalla richiesta politica da parte del Comintern di mol­ tiplicare intese «antifasciste» tramite «fronti popolari», non era intanto sufficiente a superare antiche remore e sospetti. L’aggressione italiana all’Etiopia nel 1935 ebbe un notevole ruolo nel peggio­ rare il quadro delle relazioni europee. Mussolini sperava di poterla far accettare a Francia e Gran Bretagna, proprio per il suo peso importante di fronte alla ripresa di un revisionismo tedesco aggressivo: ma il limite del compromesso fu superato e la rottura tra Italia e Sdn (con le modeste ma simbolicamente evidenti «sanzioni» economiche) mutò l’orientamento del regime fascista. L’avvicinamento a Hitler fu proclamato proprio nel 1936 (si parlò di un Asse Roma-Berlino). La succes­ siva rimilitarizzazione tedesca della Renania sfruttò la finestra temporale creata dall’iniziativa mussoliniana. Altro focolaio di crisi divenne la Spagna, con l’inter­ nazionalizzazione rapida della guerra civile tra il governo repubblicano legittimo del Fronte popolare e i ribelli militari nazionalisti guidati da Franco: si intrecciò sugli eventi spagnoli del 1936-39 un simbolico scontro internazionale tra fascismi e antifascismi, anche se in forme ancora molto precarie. Sembrava nascere una convergenza dei revisionismi di segno autoritario e fascista (patto anti-Comintern tra Germania e Giappone). La Germania nazista giunse nel 1938 a prendere di petto gli assetti territoriali di Versailles, attraverso una serie di colpi di mano: l’Anschluss (annessione) dell’Austria, nonostante il divieto del trattato di Versailles, fu

seguita dalla pressione sulla Cecoslovacchia con il pretesto della presenza di una nutrita minoranza di tedeschi nella regione dei Sudeti. La conferenza di Monaco del settembre 1938, convocata dai quattro grandi (Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna), fu il vertice della politica di appeasement, le potenze occidentali cercarono di salvare la pace accettando le richieste hitleriane alle spalle del governo cecoslovacco. Monaco sembrò inizialmente un successo dell’arte negoziale, ma doveva ben presto diventare e rimanere il simbolo dei limiti di una diplomazia pericolosamente angusta e illusoria. La nuova sfida hitleriana del marzo 1939, con lo smembramento della restante Cecoslovacchia, fece irrigidire la politica britannica. L’aggressione alla Polonia motivata dal pretesto di risolvere la questione di Danzica - portò nel settembre dello stesso anno Francia e Gran Bretagna a far scattare le garanzie promesse, dichiarando guerra alla Germania. Stalin aveva invece nel frattempo scelto la via del compromesso con il nazismo: rinviando il pericolo di uno scontro, migliorava decisamente la sua situazione strategica, con una grande spartizione delle «zone d’influenza imperiali» tedesca e sovietica nell’Europa orientale (patto RibbentropMolotov dell’agosto 1939). Il quadro del conflitto appariva per il momento limitato allo storico scontro sul Reno, con un nuovo episodio di quell’assalto della Germa­ nia al potere mondiale che aveva come premessa la costruzione di una solida base continentale. 9.

La Seconda guerra mondiale e il nuovo bipolarismo

Dopo alcuni mesi di stallo, la campagna di primavera del 1940 condusse l’eser­ cito hitleriano a sconfiggere rapidamente la Francia e isolare la Gran Bretagna (in cui comunque il nuovo governo di Winston Churchill si dispose a una intransigente resistenza, mobilitando tutte le risorse imperiali). Le nuove forme della guerra di movimento con l’utilizzo di colonne motocorazzate e di bombardamenti aerei tattici avevano sconvolto le previsioni di una nuova guerra di trincea. Mentre anche Mus­ solini entrava in guerra e altri nazionalismi minori europei cercavano di ritagliarsi uno spazio, l’ordine nazifascista a egemonia tedesca si allargava sul continente europeo. Nell’autunno-inverno del 1940-41 si estendeva ai Balcani, raggiungendo un’ampiezza già maggiore di quella napoleonica. I caratteri dell’egemonia imperiale continentale dell’Asse non erano però tali da renderla stabile, essendo imperniata su una brutale superiorità militare, senza capacità di immaginare una duratura sfera di compartecipazione politica delle grandi potenze e dei nazionalismi minori. Lo scontro di logoramento imperniato sulle risorse economiche e militari tornò a essere centrale, in quanto la resistenza inglese non potè essere sconfitta con la sola arma aerea (battaglia d’Inghilterra), perché la Gran Bretagna trovava nuovi sostegni di mezzi e risorse finanziarie da oltreoceano (con la decisione degli Stati Uniti di uscire dai limiti di una neutralità angustamente intesa). Nel 1941 la guerra conobbe però una svolta fondamentale, sia sul piano geo­ politico che su quello ideologico. In giugno Hitler, nonostante la guerra aperta a Occidente (erano fallite le sue proposte di una pace di compromesso), scelse di lanciare l’attacco decisivo all’Urss, in una vera e propria guerra di sterminio ideologico-razziale delle popolazioni inferiori dell’Est (Operazione Barbarossa). Le ultime velleità di «guerra parallela» di Mussolini si infrangevano intanto in

Grecia, riducendo ancora più chiaramente l’Asse a uno strumento della politica tedesca. In parallelo, la classe dirigente militare giapponese stringeva un patto di neutralità con Stalin - che avrebbe retto fino alla fine della guerra - e sceglieva di sfidare a Sud il potere marittimo inglese e americano, fino all’attacco a sorpresa di Pearl Harbor del dicembre dello stesso anno. Le potenze del patto Tripartito (Ger­ mania, Giappone e Italia) diedero così carattere veramente mondiale alla guerra, senza impostare peraltro un saldo coordinamento della loro strategia. Provocarono piuttosto la saldatura contro di loro di una «strana alleanza» antifascista, che avviò forzosamente la cooperazione tra Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica. La somma e l’intreccio di queste diverse dimensioni del conflitto, di obiettivi sta­ tuali nazionali e di mete ideologiche causò quindi il nuovo carattere della Seconda guerra mondiale. Essa approfondiva le dinamiche totalizzanti del primo conflitto, ma rappresentò anche una novità indiscussa proprio per il crescente carattere ideologico assunto dopo il 1941 sul discrimine fascismi/antifascismi, che divise profondamente tutte le società. Dal punto di vista delle risorse economiche e militari, lo scontro che si deli­ neo era impari, grazie soprattutto al potenziale produttivo americano. Le armate naziste tennero l’iniziativa fino alla fine del 1942, ma senza riuscire a costringere Stalin alla resa, grazie alle risorse dello sterminato territorio russo e alla presa di una mobilitazione patriottico-nazionale che superò anche la tragica stagione delle «purghe» interne al regime staliniano. La svolta del conflitto venne quando le truppe tedesche furono ricacciate indietro nella battaglia di Stalingrado, prima di raggiungere i campi petroliferi del Caucaso. Nel luglio del 1943 l’Italia era il primo satellite dell’Asse a cedere, dopo la cacciata dal governo dello stesso Mussolini e la dissoluzione del regime fascista, che lasciava il posto a un duro biennio di oc­ cupazioni militari contrapposte al Sud e al Nord del paese e di guerra civile tra la Resistenza antifascista e il neofascismo repubblicano. I giapponesi ebbero anch’essi inizialmente rapidi successi militari nell’area sudorientale dell’Asia, conquistando posizioni inglesi e occupando le colonie francesi, e tentarono di legittimare la loro espansione con l’idea di un’alleanza di popoli asiatici oppressi contro la razza bianca, in chiave anticoloniale. L’idea di una «sfera di co-prosperità» asiatica fece breccia presso alcuni nazionalismi autoctoni ma non coprì per molto tempo gli aspetti militaristici dello sfruttamento nipponico. Anche nel Pacifico, il tornante della guerra venne nel 1943. Nel pieno dello sforzo economico, umano e militare in vista della vittoria, iniziò una complessa negoziazione del futuro all’interno della Grande Alleanza. Alcune conferenze al vertice (Teheran 1943; Jalta 1945) cercarono di evitare quello che veniva percepito come l’errore della Prima guerra mondiale: rinviare totalmente al tavolo della pace le definizioni dell’assetto futuro. Le prospettive delle tre po­ tenze maggiori non erano però prive di scontri di interesse: non si trattava solo del sospetto persistente tra occidentali e sovietici. Esisteva anche una tensione angloamericana attorno al problema del futuro degli imperi territorialmente de­ finiti. La visione americana cercava infatti di affermare il prioritario disegno di integrazione economica globale, affiancandolo al rilancio di una forma organiz­ zativa giuridica «wilsoniana», temperata dal ruolo determinante del «direttorio internazionale» delle grandi potenze (Roosevelt parlava dei «quattro poliziotti» del mondo: appunto, i «Tre grandi» alleati più la Cina). Tale prospettiva ebbe un apparente iniziale successo: prima della fine delle ostilità infatti la conferenza di

Bretton Woods del 1944 pose le basi del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, embrioni di una struttura di coordinamento e governo leggero dell’economia mondiale aperta. Le conferenze di Dumbarton Oaks e San Francisco tra 1944 e 1945 fondarono le Nazioni Unite (Onu). Tali organismi sarebbero però stati condizionati dalla nuova situazione postbellica. 10. Guerra fredda e stabilizzazione dei blocchi

Alla fine della guerra l’Europa aveva ormai perso quasi tutte le sue carte sul possibile gioco della competizione mondiale. Si delineava il bipolarismo di due superpotenze extraeuropee, ancorché storicamente legate all’Europa, come gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Il concetto di «superpotenza» nacque in questi anni, proprio per distinguere una nuova categoria di soggetti della politica internazionale, diversa dalle grandi potenze europee tradizionali: si trattava di stati che godevano di dimensioni e potenzialità demografiche ed economiche almeno semicontinentali, capaci di gerarchizzare gli altri stati nazionali attorno alle proprie mete. C’erano posizioni diseguali tra loro, data la preponderanza assoluta americana sotto il pro­ filo materiale e politico e le enormi perdite umane e distruzioni lasciate dietro di sé dalla guerra nell’Urss. Tuttavia, esse condividevano uno statuto imparagonabile a quelli degli altri stati, tale da farle diventare rapidamente i punti di riferimento di un nuovo sistema internazionale. L’alleanza di guerra fu presto superata. Gli accordi sui trattati di pace con gli alleati minori dell’Asse (compresa l’Italia), firmati nel 1947, furono la sua ultima operazione consensuale. L’impossibilità di accordarsi sul futuro della Germania sconfitta, provvisoriamente divisa in quattro zone d’occupazione militare, fu accom­ pagnata dalle tensioni sulla brutale e rapida sovietizzazione dei paesi dell’Europa orientale occupata dall’Armata Rossa. L’obiettivo primario di Stalin era infatti rea­ lizzare una zona d’influenza strategica concepita alla vecchia maniera territoriale e ciò indusse l’Urss a sottrarsi all’organizzazione dell’interdipendenza mondiale in un sistema aperto. Nel 1947 un punto di non ritorno fu rappresentato dalla proclamazione ame­ ricana della «dottrina Truman», vero manifesto ideologico dell’impegno globale anticomunista, e dalla successiva proposta del piano Marshall - un progetto di ricostruzione europea secondo le linee di un capitalismo cooperativo e integrato - che il ministro degli Esteri sovietico Molotov rifiutò, chiudendo ogni spazio di collaborazione tra i mondi ideologicamente contrapposti. La Germania divisa vide i confini tra Est e Ovest irrigidirsi fino alla costituzione di due stati (a Ovest la Brd e a Est la Ddr, 1949), divenendo con la sua divisione permanente il simbolo più chiaro della guerra fredda. Il bipolarismo di potenza si collegò a uno scontro ideologico che avvampò sulla discriminante tra comuniSmo e «mondo libero», attraversando trasversalmente molte società e culture. La contrapposizione totalizzante di visioni del mondo e di, ordinamenti politico-sociali chiaramente alternativi in un certo senso rappresentava la continuazione della «guerra civile europea» ideologizzata del conflitto precedente. I vent’anni successivi alla guerra configurarono un sistema di continua tensio­ ne, al limite dello scontro militare. Si ingessò la situazione territoriale uscita dalla Seconda guerra mondiale, con la costituzione di due imperi informali rivali, tra cui

la tensione restò altissima, senza tuttavia mai sfociare nel confronto militare diretto. Una terza guerra mondiale globale sembrava dietro l’angolo, ma proprio l’eredità della tragedia bellica contribuì a scongiurarla dalle intenzioni e dai comportamenti dei due rivali. La guerra di Corea del 1950-53 fu l’episodio più serio di militarizza­ zione della guerra fredda, ma venne tenuta localizzata. Anche il crescente timore di una possibile guerra atomica contribuiva alla tensione, dato che il primato america­ no, affermato con le bombe di Hiroshima e Nagasaki che avevano accelerato la fine della guerra con il Giappone nell’agosto del 1945, era stato parzialmente avvicinato dai sovietici. La messa a punto dei missili balistici intercontinentali tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo definì il cosiddetto «equilibrio del terrore»: proprio l’entità delle minacciate distruzioni allontanava il rischio di usare tali armi, anche se non impediva di costruirne sempre più nuove e sofisticate. L’organizzazione dei due blocchi attorno alle superpotenze procedette comun­ que con una certa rapidità dopo il 1947: la politica americana di «contenimento» del comuniSmo continuò il progetto di riordinare il mondo in chiave di multilateralismo economico, unendovi la disponibilità a dispiegare localmente forze militari e a dare garanzie agli alleati minori per la loro sicurezza. L’idea americana di National Security coincideva sempre più con l’impegno a costruire un orizzonte generale stabile e quindi funzionale al ruolo americano di primato nel mondo. Non a caso la guerra fredda coincise (soprattutto in Europa) con una sorta di pax americana, dato che la leadership di Washington era determinante e politicamente creativa a livello mondiale, al di fuori del «ridotto» continentale sovietico. In questa logica, si spiegano l’alleanza atlantica del 1949 ed il recupero all’Occidente del potenzia­ le tedesco-occidentale e giapponese. Il primato produttivo americano reggeva il quadro delle interdipendenze tra i diversi paesi e tra le regioni sviluppate e quelle arretrate, collegato alla duratura collocazione del dollaro come moneta fondamen­ tale dei pagamenti internazionali. L’amministrazione americana accettò che, per giungere alla meta di un’eco­ nomia mondiale aperta, gli stati nazionali governassero prudentemente la pro­ pria integrazione e apertura. Il mercato intemazionale autoregolato, secondo le illusioni ottocentesche, era stato seppellito dalla lezione della Grande crisi. Gli stati nazionali intermedi dell’area europea occidentale si collegarono in un’esile ma resistente trama di interdipendenze continentali (a partire dal piano Schuman del 1950, primo cenno di un superamento dello storico dissidio franco-tedesco, finalizzato peraltro proprio a controllare la ripresa produttiva e poi quella militare tedesca, da cui nacque la prima Comunità europea «a sei», la Ceca). I paesi euro­ pei non erano più potenze militari (nemmeno la stessa Gran Bretagna aveva molte carte da giocare in questo senso), ma difesero la propria autonomia. Un negoziato continuo e un compromesso fra tendenze americane ed europee misero capo a un sistema articolato che contemperava le esigenze politiche nazionali di controllo e quelle economiche internazionali di liberalizzazione, che negli anni Trenta si erano scontrate. Il tentativo di dare a questa cooperazione europea un volto istituzional­ mente e politicamente più solido fallì con il rigetto del trattato del 1952 per una Comunità europea della difesa (Ced) da parte dell’Assemblea nazionale francese. Ma la volontà di continuare a perseguire il compromesso non sparì. A seguito della nascita di un Mercato comune dell’area europea occidentale (1957), i paesi europei cominciarono anche a ridurre la disuguaglianza economica rispetto alla potenza-guida americana.

D’altra parte, il blocco sovietico era più circoscritto geograficamente e restò condizionato dalla sua struttura staliniana. Il modello sovietico era sopravvissuto a molte sfide e l’aura della vittoria sul nazismo lo rendeva un punto di riferimen­ to per la prima volta esportabile. Il volto drastico e brutale della sovietizzazione dell’Est europeo e la sua forma chiusa suscitarono però preoccupazioni e timori: molti arrivarono a paventare una politica di nuova espansione militare russa, no­ nostante il fatto che il paese mancasse del tutto delle necessarie risorse. Questo paradossale equilibrio tra debolezza interna e apparenza espansionista doveva rimanere strutturale e condizionare fortemente sia l’immagine che l’effettiva forza della «seconda» superpotenza. Del resto, dopo lo «scisma» jugoslavo del 1948, dovuto alla volontà del regime di Tito di conservare margini di autonomia nella zona balcanica, la stessa potenza imperiale russa si orientò a tollerare alcuni margini di variabilità politica all’interno della sua sfera d’influenza (anche se non potevano essere superati i limiti della partecipazione alla sicurezza collettiva e al sistema di cooperazione economica previsto con il «Comecon»), Nel frattempo, la fine della tradizionale centralità europea poneva le premes­ se per il rapido crollo degli imperi coloniali e l’apparire di molteplici nuovi stati indipendenti, che dovevano gestire l’eredità dell’imperialismo. Già subito dopo il 1945 il processo si era avviato in Asia: relativamente pacifico in India per la deci­ sione britannica di concedere l’indipendenza (1947, con la nascita conflittuale dei due stati dell’Unione indiana e del Pakistan), teso in Indonesia e nelle Filippine, apertamente sanguinoso in Indocina, data la resistenza militare francese (sfociata in una vera e propria guerra, 1947-54). La competizione bipolare attraversò anche queste nuove esperienze politiche, intrecciandosi con conflitti locali. L’Urss tentò di inserirsi nei processi di decolonizzazione, riscoprendo la visione antimperialista leniniana, che valorizzava il nazionalismo anticoloniale (dopo anni in cui si era teorizzato che solo l’adesione al marxismo-leninismo garantiva la purezza rivolu­ zionaria). Non riuscì a ottenere grandi successi, ma irrigidì senz’altro le speculari preoccupazioni americane. Il limite più grosso della politica sovietica verso il mondo extraeuropeo doveva rivelarsi la nuova situazione cinese: la vittoria della Rivoluzione comunista guidata da Mao Zedong nel 1949 sembrò estendere enormemente l’influsso del «campo socialista» internazionale. Nel giro di dieci anni, però, tra i due paesi comunisti si avviò un dissidio ideologico e politico così serio da sfiorare la tensione militare. D’altro canto, l’iniziale simpatia americana verso l’emancipazione dei popoli ex coloniali si modificò ben presto in una preoccupazione per le infiltrazioni comuniste nei movimenti di liberazione nazionale. L’estensione della teoria del «contenimen­ to» del comuniSmo a livello globale impedì di allargare il modello di stabilizzazione nella democrazia sperimentato in Europa occidentale. Gli Stati Uniti si risolsero ad appoggiare anche regimi autoritari e violenti purché anticomunisti: la guerra fredda fuori d’Europa fu tutt’altro che un periodo stabile e prospero. Un’area delicata di confronto cominciò a divenire il Medio Oriente, sempre più cruciale per il nuovo ruolo decisivo nella produzione petrolifera: le rivalità dei due blocchi si innestarono quindi su parecchi conflitti locali (massimamente quello avviato dalla costruzione del nuovo stato d’Israele, osteggiato dalle popolazioni arabe, che già nel 1948 aveva dato luogo a una guerra). Il socialismo arabo nasseriano in Egitto o quello baathista in Siria e Iraq si appoggiarono a Mosca, mentre le tensioni proseguirono con le guerre del 1956 e del 1967. La crisi di Suez del 1956, con il fallimento dell’inter­

vento militare anglo-francese contro Gamal Abdel Nasser, che aveva nazionalizzato la compagnia del canale di Suez, indicava nel frattempo il limite definitivo delle velleità imperiali delle «medie potenze» europee. Come frutto della decolonizzazione, apparvero sulla scena nuovi interlocutori mondiali: la conferenza di Bandung dei popoli afroasiatici del 1955 poneva le basi di un modello di emancipazione del cosiddetto «Terzo mondo», che sarebbe sfociato di lì a poco in un movimento internazionale dei paesi «non allineati». Era il frutto dell’incontro dell’impostazione del premier indiano Jawaharlal Nehru con il comuniSmo autonomo di Tito e il panarabismo di Nasser. L’allargamento quantitativo dell’Onu rese l’Assemblea del palazzo di vetro un’efficace tribuna di questo nuovo slancio riformatore delle relazioni internazionali: si arrivò a parlare di un «nuovo ordine economico internazionale» da sostituire alle relazioni «neo­ coloniali» che i paesi avanzati volevano mantenere per sfruttare commercialmente i paesi dipendenti. La grande ondata di nuovi paesi indipendenti apparve proprio nei primissimi anni Sessanta, con lo smantellamento degli imperi coloniali africani. La fine della guerra d’Algeria (la sanguinosa opposizione francese all’indipendenza di quella terra) fu un segnale decisivo (1962). Per un verso, i paesi di nuova indipendenza dimostrarono il notevole successo dei modelli statuali e delle pratiche di relazioni internazionali nate nella società degli stati europei, acquisendoli rapi­ damente. D’altra parte, essi rivelavano tutte le fragilità di strutture statuali spesso approssimative, basate su un trapianto esteriore delle istituzioni amministrative occidentali in contesti che mal le sopportavano, con l’eredità dei confini imposti dal colonialismo che non favoriva certo il rispetto della coesione etnico-nazionale o tribale. La stabilizzazione dei due blocchi si accompagnò comunque alla riduzione delle tensioni globali. Dopo il 1955 la cosiddetta «distensione» si sviluppò anche se tra ricorrenti crisi, dovute all’incontro-scontro tra le due originali leadership di Nikita Chruscèv e di John F. Kennedy: si pensi alla crisi del blocco orientale nel 1956 (con la destalinizzazione in Urss e le rivolte polacca e ungherese, sfociata quest’ultima nell’intervento militare sovietico a Budapest), oppure alle crisi ricorrenti attorno al ruolo di Berlino (fino alla costruzione del muro nel 1961). La guerra fredda raggiun­ se anche il continente americano, dopo che a Cuba il governo di Fidel Castro, che nel 1959 aveva sconfitto la dittatura di Fulgencio Batista, si trovò a schierarsi dalla parte sovietica. Attorno a Cuba si ebbe una delicatissima crisi internazionale nel 1962, con l’installazione di missili sovietici nell’isola e un’aperta protesta americana: il mondo arrivò sull’orlo dello scontro atomico, ma una soluzione di compromesso fu raggiunta. Un altro punto critico fu l’aggravamento progressivo della situazione in Vietnam, dopo la fine dell’occupazione francese nel 1954 e la divisione provvi­ soria del paese in due: il crescente coinvolgimento americano, divenuto massiccio a partire dal 1963-65, per contrastare l’azione dei ribelli vietcong contro il regime filoccidentale di Saigon, era un segnale di una volontà di estensione globale del modello del containment. 11. L’indebolimento progressivo e la fine del bipolarismo

La vera e propria stagione della distensione tra le due superpotenze doveva quindi attendere un momento specifico per avviarsi: quello in cui cominciarono ad

apparire i loro rispettivi limiti come potenze-guida dei due «mondi». La leadership sovietica, rassicurata dal raggiungimento di una sostanziale parità strategica con gli Usa e alle prese con il difficile problema di superare la fase di sviluppo economico incentrata esclusivamente sull’industria pesante e sulle infrastrutture strategiche, cominciava a confrontarsi con il duro dissidio con la Cina e a vedere il terzo­ mondismo assumere modelli e ideologie che non riusciva a controllare. Nel 1968 Mosca decise un nuovo intervento militare, che bloccò la «primavera di Praga» di Alexander Dubcek e ridusse palesemente il blocco europeo orientale a un assetto militarizzato. La classe dirigente americana si trovava invece di fronte alle difficoltà finanziarie suscitate dal proprio esposto ruolo globale, proprio mentre il modello produttivo americano era raggiunto o superato dalle economie europee e da quella giapponese, che sfruttarono meglio il grande ciclo economico espansivo del dopo­ guerra (iniziava così una tendenza di lungo periodo all’indebitamento internazio­ nale e al deficit commerciale degli Usa). Al contempo, il gollismo francese sfidava la visione classica degli equilibri euroamericani e la crisi vietnamita evidenziava come fosse impossibile controllare direttamente i processi di decolonizzazione. Per non parlare dei movimenti di contestazione, che in tutti i paesi occidentali incri­ navano sostanzialmente il consenso interno dei primi anni della guerra fredda. La crisi del dollaro del 1971 fu percepita come un passaggio epocale, ponendo fine a due decenni di stabilità finanziaria internazionale: il presidente Richard Nixon ne dichiarò l’inconvertibilità e lo svalutò. La moneta americana non riuscì a restare unico perno di un sistema di cambi stabili, anche se non fu sostituita da nessun’altra nel ruolo di moneta internazionale prevalente. Da queste esigenze parallele di fare i conti con le difficoltà del ruolo globale delle superpotenze prese le mosse un itinerario di dialogo sul controllo degli ar­ mamenti nucleari (i primi accordi del 1963 sull’abolizione dei test nell’atmosfera e del 1968 sulla cosiddetta «non proliferazione» nucleare aprirono la strada al trattato Salt 1 del 1972, che istituzionalizzava la deterrenza reciproca). Il punto critico della distensione restò la competizione dispiegata per l’influsso nelle aree del Terzo mondo. Reciproci sospetti irrigidirono il confronto in America Latina tra la guerriglia di ispirazione guevarista e il sostegno americano ai regimi autoritari, che erano visti come unica ancora di salvataggio per le posizioni occidentali dopo il fallimento della kennediana «Alleanza per il progresso». Nuovi episodi di scontro in Medio Oriente alzavano periodicamente la tensione. Oppure ancora, emergeva dopo il 1973 una nuova determinazione sovietica ad allargare la propria influenza marittima e a penetrare in Africa (Angola, Mozambico, Etiopia). Il senso della distensione va però colto non solo nei rapporti Usa-Urss: le potenze europee la utilizzarono per metabolizzare l’eredità della Seconda guerra mondiale, trovando forme di convivenza e cooperazione nuove, che scavalcassero in qualche modo i confini dei blocchi e quindi aprissero una versione meno conser­ vatrice e immobilista. La cosiddetta Ostpolitik dei governi tedeschi, avviata con il 1966, fu l’episodio più evidente di questa volontà. Due trattati di non aggressione della Germania occidentale con l’Unione Sovietica e con la Polonia prepararono la strada al «trattato fondamentale» Brd-Ddr del 1972, che riconosceva l’esistenza di due stati in una sola nazione tedesca. Si arrivò fino alla Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce) celebrata a Helsinki nel 1973, che stabilizzò i confini ereditati dal 1945 (pur senza ingessarli). La conferenza individuò nuove mete della cooperazione tra gli stati europei, come la tutela dei diritti umani delle

popolazioni (tema che i sovietici accettarono a malavoglia, e che a lungo andare doveva rivolgersi contro le loro prassi). Si avviò anche un’estesa trama di scambio economico che doveva minare le precarie basi finanziarie di molti stati dell’Est. Insomma, in Europa si delineò una concezione della distensione diversa da quella bipolare, potenzialmente orientata a superare la divisione dei mondi. Nel 1973 si innestò su questi turbamenti la crisi energetica scatenata dalla de­ cisione dei paesi arabi membri dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), a seguito della guerra arabo-israeliana dello Yom Kippur, di quadruplicare i prezzi della fondamentale materia prima. Si esaurivano intanto le premesse del compromesso fordista tra imprenditori e lavoratori. La complessa crisi di «stagfla­ zione» (stagnazione + inflazione) evidenziò la difficoltà di continuare un modello di espansione che era parso indefinito, facendo entrare le economie occidentali in una fase di incertezza. Il rischio di ritornare alle competizioni ferocemente nazio­ nalistiche degli anni Trenta fu paventato da più parti, con svalutazioni competitive delle monete alternate a scelte deflazioniste che aumentarono il costo dei capitali. In effetti, però, le forze che continuavano a puntare all’apertura e alla coope­ razione economica internazionale erano ormai dotate di un dinamismo autonomo e continuavano sostanzialmente a operare anche in assenza di una capacità egemo­ nica americana. Riunioni informali come i vertici dei paesi più industrializzati (il cosiddetto G-7, avviato nel 1973) funzionarono da esile trama di compensazione. Pur nell’instabilità complessiva e nella redistribuzione problematica della ricchezza, le difficoltà degli anni Settanta, per quanto riguardava i paesi sviluppati, furono superate tramite un nuovo affidamento ideologico al mercato (neoliberismo), ma soprattutto con scelte politiche (monetarismo e lotta all’inflazione, liberalizzazione dei movimenti dei capitali) che portarono il centro anglosassone del sistema globale a specializzarsi nella finanza, mentre la nuova internazionalizzazione spostava la produzione di massa in periferia e la rivoluzione informatica rendeva sempre più rapido il flusso delle comunicazioni globali. In fondo, dopo le difficoltà degli anni Settanta, la leadership americana trovò modo di rispondere alla sfida. La ridefinizione della posizione degli Stati Uniti nel mondo, nell’epoca di Nixon, era coerente con una visione più sobria e disin­ cantata della tradizionale politica di contenimento del comuniSmo. Normalizzan­ do i rapporti con la Cina (1972), districandosi dalla palude vietnamita al costo di sopportare un’evidente sconfitta come l’unificazione comunista del Vietnam, riducendo i costi dell’apparato militare ed appoggiandosi più decisamente su stati intermedi responsabili militarmente della sicurezza di aree geografiche delimitate (Iran, Israele, Pakistan, Arabia Saudita, Sudafrica, Brasile ecc.), la superpotenza si adattava a un mondo più complesso. L’evoluzione sempre più articolata del blocco occidentale introduceva elementi nuovi nei rapporti centro-periferia e un’indubbia dinamicità sulla scena del con­ fronto bipolare. L’incremento e l’allargamento lento ma costante della Comunità europea (con l’adesione inglese nel 1973, poi quelle di Grecia, Portogallo e Spagna) si collegavano al raggiungimento di dimensioni politiche significative di paesi come la Germania (vero regolatore finanziario e commerciale dell’economia continentale) e il Giappone, nonostante l’assenza sostanziale di una loro capacità militare. Potere e ricchezza sembravano non andare più di pari passo, nel mondo contemporaneo. L’assenza di una rielaborazione analoga da parte sovietica rispetto ai modi in cui esercitare la guida del proprio blocco, oltre alla difficoltà del sistema economico

pianificato ad andare oltre la fase dell’industrializzazione pesante, spiega l’indebo­ limento del sistema. La sua condizione stagnante era ormai palese alla fine degli anni Settanta e fu aggravata dalle forti spese per mantenere uno strumento militare all’altezza della velleità imperiale (armamenti atomici, aeronautica e flotta d’alto mare). L’unico modo di reggere la sfida fu valorizzare le estese risorse naturali (pe­ trolio e gas), la cui vendita ai più alti prezzi del mercato internazionale permetteva all’Urss di acquisire parte della tecnologia mancante. La sconfitta più drastica, nella crisi di passaggio tra i decenni Sessanta e Set­ tanta, toccò all’ipotesi dell’emancipazione del Terzo mondo. L’inizio degli anni Settanta aveva rappresentato infatti una finestra di opportunità uniche per i paesi extraeuropei usciti dalla dipendenza. L’allentamento della guerra fredda e la per­ dita apparente di capacità egemonica americana sembrarono dare più forza alla domanda politica di revisione degli assetti di potere mondiale. Nella nuova ondata di rivoluzioni tra 1974 e 1979, i modelli politici si differenziarono: quella islamista iraniana avviò un esperimento molto lontano da ogni logica cooperativa. I paesi esportatori di petrolio scoprivano nuove chances finanziarie, mentre un ristretto novero di paesi asiatici (le «tigri» del Sud-Est) entrava rapidamente nel modello dell’industrializzazione basata sull’esportazione e sull’afflusso di capitali stranieri. Il modello «occidentale» prometteva sviluppo, ma solo lentamente avrebbe compor­ tato una crescita della libertà politica e sociale. Gran parte dei paesi africani, arabi e latinoamericani furono ricacciati invece nella periferia, strangolati spesso nel loro indebitamento dal rialzo dei tassi di interesse globali. Le leadership terzomondiste mostrarono tutti i loro limiti, mentre si appannavano i modelli castrista e cinese. Il movimento dei paesi non allineati smarrì la propria ragion d’essere nella misura in cui si era rivelato impossibile costituire un «terzo polo» mondiale coeso e organico. I primi anni Ottanta videro una battuta d’arresto sul terreno della distensione globale, con l’irrigidimento della leadership americana (già dagli ultimi tempi del­ la presidenza Carter e poi soprattutto con il repubblicano Reagan) nei confronti di quello che appariva un baldanzoso rilancio della pressione internazionale so­ vietica. La crisi più grave fu suscitata dal dispiegamento nella Russia europea di nuovi missili nucleari a raggio intermedio (euromissili) SS-20, che causarono una reazione della Nato e reazioni di aumento degli arsenali occidentali. La tensione sull’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 e sull’irrigidimento interno del regime polacco nel 1982 (contro il primo episodio di sindacato indipendente, Solidarnosc) si collegò a un ciclo politico conservatore, rilanciato in Europa dalla vittoria elettorale dei tories inglesi guidati dalla linea dura di Margaret Thatcher. La perdita di iniziativa sovietica, connessa all’incerta transizione della leader­ ship, con la morte dell’anziano Leonid Breznev e poi dei successori, fu bloccata solo nel 1985 con l’ascesa al potere di Mikhail Gorbacév. Egli tentò una svolta politica per rivitalizzare il sistema, restando inizialmente all’interno della tradi­ zione leninista, reinterpretata in chiave più aperta tramite i concetti di perestrojka (ristrutturazione) e glasnost (trasparenza). L’arduo compito di una riforma econo­ mica che modificasse prudentemente la pianificazione centralizzata si collegava quindi al ripensamento delle forme di potere del Partito comunista. Premessa del tentativo era comunque ridimensionare le velleità imperiali e le connesse spese: ciò conduceva alla chiusura della guerra fredda. Per questo nel giro di tre anni la nuova leadership sovietica trovò spettacolari accordi sugli armamenti con gli Stati Uniti, ritirò le sue truppe d’occupazione in Afghanistan e ridusse la presenza militare

nell’Est europeo. La guerra fredda si concludeva quindi in termini sostanzialmen­ te pacifici. Sottoprodotto di questa scelta fu però la fine del sistema sovietico in Europa orientale: non più sostenuti dall’Urss, nel 1989 i regimi comunisti di tutti questi paesi implosero rapidamente. Dopo il crollo del muro di Berlino e la crisi della Ddr, Gorbacèv arrivò ad accettare nel 1990 la stessa riunificazione tedesca nella Nato, imposta dal cancelliere Helmut Kohl anche ai propri alleati riluttanti. L’aspetto interno della riforma gorbacioviana doveva invece essere molto meno efficace e lungimirante, concludendosi nella dissoluzione della stessa Urss nel 1991 dopo un fallito golpe conservatore - con la secessione delle repubbliche in stati indipendenti - e nell’avvitamento della stessa Repubblica russa in un’incerta fase di passaggio politico-economico. Se quasi ovunque queste transizioni sono state pacifiche (anche se non prive di costi sociali ed economici nel rapido e caotico in­ serimento dell’economia di mercato), la dissoluzione dello stato federale jugoslavo nelle sue repubbliche costitutive (tra 1991 e 1994) fece riapparire dopo quattro decenni nel cuore dell’Europa la guerra e la violenza etnica e nazionalistica. 12. Un mondo plurale: successi e limiti della globalizzazione

La fine del blocco sovietico e della stessa Urss lasciava sul terreno un’unica superpotenza politico-militare, cioè gli Stati Uniti. Essi hanno riaffermato questo ruolo in diverse operazioni militari internazionali: la guerra del Golfo del 1991 contro l’aggressione irachena al Kuwait, l’intervento nella crisi ex jugoslava (1994 e 1999) e poi, dopo l’impressionante attentato terroristico di al-Qaida del settembre 2001, le spedizioni in Afghanistan (2001) e Iraq (2003). Tale ruolo però non è più supportato da una struttura economico-finanziaria solidissima (la tendenza all’inde­ bitamento internazionale dell’economia statunitense è drammaticamente cresciuta), e soprattutto sembra non aver trovato una legittimazione ideologica tale da non crea­ re più nemici di quanti ne possa sconfiggere. Il concetto unilaterale ed enfatizzato di «guerra al terrore» lanciato dall’amministrazione Bush jr. ha finito per isolare il paese. Il democratico Barack Obama, vinte le elezioni del 2008 grazie soprattutto a una condizione di dura crisi economica, ha condotto il paese a ridurre l’esposi­ zione internazionale, mediando alcuni conflitti duraturi (Cuba, Iran). L’elezione dell’outsider repubblicano Donald Trump (2016) ha di nuovo modificato il quadro. Il mondo attorno alla superpotenza è comunque sempre più complesso. La diversificazione crescente dei centri di potere economico internazionale ha raffor­ zato un’area del Pacifico in cui, accanto al Giappone e alle «tigri» neoindustriali del Sud-Est, è emersa la pragmatica Cina post-maoista con il nuovo leader Deng Xiaoping. Dopo aver reagito in modo autoritario alle richieste di liberalizzazione del 1989 (piazza Tiananmen), il Partito comunista ha imboccato la strada dell’economia di mercato esportatrice nell’apertura internazionale: l’incredibile dinamismo, pur non privo di squilibri, di questa impresa ha portato la Cina nel 2010 a divenire la seconda economia globale e su questo slancio ad assumere una posizione politica sempre più assertiva con una rete di investimenti all’estero collegata alla ricerca crescente di influenza politica. Anche la Russia post-comunista, stabilizzata dopo il 2001 con la presidenza semiautoritaria di Vladimir Putin, ha rilanciato un ruolo politico internazionale che passa per la rottura dell’accerchiamento occidentale (Georgia, Ucraina) e per una presenza mediorientale che sembra riprendere eredità

sovietiche. Anche in America Latina e in Africa sono emersi paesi democratici con ruoli nuovi di relativa solidità economica (Brasile, Cile, Sudafrica). A bilanciamento della ricostituzione di una potenza tedesca unita, prese invece le mosse un ulteriore percorso di approfondimento dell’Unione europea (trattato di Maastricht, 1992): la creazione di una moneta comune, l’euro, circolante dal 2002 in dodici paesi, fu un gesto di grande portata politica, anche se non venne accompagnato dalla creazione di regole per realizzare un soggetto europeo integrato sul piano internazionale. L’instabilità accentuata provocò invece nuove incertezze soprattutto nell’area dei paesi islamici, con la crescita di un’ondata radicale di movimenti politici, che dalla contestazione contro le classi dirigenti interne sono passati all’azione terro­ ristica antioccidentale. Da una parte in queste tensioni pesa lo scontro di potere e l’influenza tra mondo sunnita guidato dall’Arabia Saudita e mondo sciita sotto l’influsso dell’Iran. Dall’altra, nel 2011 sono iniziate una serie di rivoluzioni - de­ nominate «primavere arabe» - che hanno fatto cadere parecchi dittatori (Tunisia, Egitto, Libia), ma raramente hanno condotto a stabilizzazioni democratiche solide. Nel caso egiziano la vittoria elettorale dei Fratelli musulmani ha condotto a un nuo­ vo golpe militare, la Libia ha conosciuto l’esplosione della coesione territoriale del paese, la Siria una tragica guerra civile, in cui ha preso piede anche un movimento islamista (Daish o Isis) che ha controllato per alcuni anni un esteso territorio al confine con l’Iraq dilaniato anch’esso da scontri politici armati. La globalizzazione dell’economia, ancora parziale in termini reali, ma molto più forte in termini finanziari, ha modificato profondamente le relazioni internazionali. L’economia mondiale integrata non si è però dimostrata stabile e capace di autore golarsi. Dopo parecchie crisi settoriali (una importante in Asia nel 1997), la grave crisi globale iniziata negli Stati Uniti nel 2008 attorno allo scoppio di un’enorme bolla speculativa sui valori immobiliari, ha messo a dura prova la stessa globaliz­ zazione. Non a caso, si è parlato di un ritorno delle sovranità statuali, chiamate in causa almeno come istanze di salvataggio del sistema dall’autodistruzione. Forme flessibili di integrazione delle sovranità come la stessa Unione europea, sono state sfidate a fondo dagli effetti della crisi (che ha soprattutto ingigantito i debiti pub­ blici degli stati membri, facendo esplodere nel 2011 sul caso greco una crisi che ha portato a rischi per l’esistenza della moneta unica e soprattutto a divaricazioni tra i governi dei paesi favorevoli all’austerità e quelli in deficit). Non a caso, contro l’interdipendenza globale si sono mostrate nuove tendenze alla frammentazione, alla protezione di identità circoscritte, a volte basate su un feroce etno-nazionalismo. I paesi emergenti dell’Asia orientale, ma anche dell’America Latina e addirittura dell’Africa, sono sembrati in grado di assorbire meglio gli effetti della crisi e han­ no iniziato ad assumere posizioni sempre più assertive e influenti negli organismi internazionali (come il nuovo cosiddetto G-20, somma del G-7 con i paesi emer­ genti). Peraltro, la fine della competizione ideologica ha lasciato il sistema privo di una solida base di principi orientativi condivisi. La timida velleità di inserire una nuova base ideale del sistema attorno al riconoscimento del primato di un diritto internazionale dei diritti umani, che scavalcherebbe la tradizionale sacralità delle sovranità e dei confini («ingerenza umanitaria» della comunità internazionale), ha aperto nuovi scenari e nuovi problemi. Dopo una finestra successiva al 1991 in cui venne chiamata ad agire in parecchie crisi, l’Organizzazione delle Nazioni Unite è sembrata ancora indebolirsi, dato lo scarso investimento dei maggiori stati nel suo funzionamento.

Percorso di autoverifica

1. Quando nasce la «società intemazionale»? 2. Che cosa si intende con l’espressione balance of power? 3. Che cosa sono l’ordine di Vienna e il «concerto europeo»? 4. Quando si sviluppa e in che cosa consiste la pax britannica? 5. Quali sono le principali caratteristiche dell’età dell’imperialismo? 6. Che cosa si intende con le espressioni Weltpolitik e Ostpolitik? 7. Quali ricadute sul sistema delle relazioni internazionali ha la crisi economica del ’29? 8. Che cosa si intende con l’espressione appeasement? 9. Che cosa sostengono la «dottrina Monroe» e la «dottrina Truman»? 10. Illustrate i tratti distintivi e l’evolversi della guerra fredda.

Per saperne di più

C.A. Bayly, La nascita del mondo moderno 1780-1914, Torino, Einaudi, 2007. A. Colombo, La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, Bologna, Il Mulino, 2006. E. Di Nolfo, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici. La politica internazionale dal X X secolo a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2007. G. Formigoni, Storia della politica internazionale in età contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2018. P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Milano, Garzanti, 1989. F. Romero, Storia della guerrafredda. L‘ultimo conflitto per l’Europa, Torino, Einaudi, 2009.

I movimenti delle donne in Europa e negli Stati Uniti d’America di Raffaella Baritono

I movimenti attraverso i quali le donne hanno conquistato i diritti di cittadinanza diritti politici, sociali e civili - e hanno affermato la loro soggettività sul piano della sfera pubblica, come pure di quella privata e familiare, avevano preso avvio già all’epoca delle grandi rivoluzioni e sono giunti a conclusione nel XX secolo, per dare vita a nuove forme di partecipazione politica femminile. Si è trattato di un processo lungo e conflittuale che ha investito tutti i settori della vita politica, eco­ nomica e sociale e che ha conosciuto fasi differenti a seconda dei diversi paesi e delle diverse tradizioni giuridiche e politiche, e che è tutt’altro che concluso. Il cammino compiuto dai movimenti delle donne è dunque particolarmente degno di nota in quanto ha segnato, in maniera critica, la costruzione della modernità politica occidentale sia in Europa sia negli Stati Uniti.

Il Novecento è stato spesso definito il «secolo delle donne». In realtà, nel XX secolo sono giunti - nel contesto europeo e statunitense a cui qui ci riferiamo in modo specifico - a una prima conclusione quei processi, avviati già all’epoca delle grandi rivoluzioni della fine del Settecento (quella americana del 1776 e quella francese del 1789), attraverso i quali le donne (con i movimenti suffragisti e femministi in primo luogo) hanno conquistato i diritti di cittadinanza - diritti politici, sociali e civili - e hanno affermato la loro soggettività sul piano della sfera pubblica come pure di quella privata e familiare; vale a dire si sono costituite come individui autonomi, titolari di diritti propri e non, come tradizionalmente erano state considerate, soggetti il cui ruolo e la cui identità si definivano in funzione di qualcuno (figlie, mogli, madri). Si è trattato di un processo lungo e conflittuale che ha investito tutti i settori della vita politica, economica e sociale e che ha conosciuto fasi differenti a seconda dei diversi paesi e delle diverse tradizioni giuridiche e po­ litiche, e che ha perciò segnato, in maniera critica, la costruzione della modernità politica occidentale sia in Europa sia negli Stati Uniti. Le ragioni del ruolo subordinato della donna nella sfera politica devono essere rintracciate in quella divisione, che si ritrovava già nel pensiero greco classico, tra la «casa», la famiglia e la vita privata, e l’agorà, la sfera pubblica. Aristotele distin­ gueva Yotkos, la casa, ciò che doveva rimanere nascosto, e la pòlis, la politica, ciò

che doveva essere visibile a tutti. Oltre alla differenziazione tra una sfera pubblica e una privata, che con accenti diversi si è tramandata fino ad oggi, al pensiero clas­ sico va fatta risalire un’altra distinzione altrettanto importante per comprendere la specificità della subalternità delle donne: quella fra il lògos, la ragione, e il corpo. Secondo i filosofi greci, il cui pensiero in questo senso fu ripreso anche dai teorici contrattualisti e liberali, le donne, a causa della differenza biologica e delle loro funzioni riproduttive, svolgevano un ruolo separato e opposto a quello dell’uomo. La donna, cioè, in virtù della sua «natura» non era in grado di trascendere il proprio corpo e le passioni, di sviluppare un ordine morale razionale e quindi di costituirsi come soggetto autonomo nella pòlis. Il suo ruolo non poteva che essere legato alla sfera affettiva, familiare, alla procreazione e alla cura dei figli e della casa. Questa idea di una separazione fra il corpo (la donna) e la ragione (l’uomo) fu alla base della divisione tra una sfera pubblica - razionale (e quindi maschile) - e una sfera privata - affettiva (femminile) - che nell’Ottocento definì il contesto politico e culturale europeo-occidentale e statunitense. La teoria delle «sfere separate», come questa distinzione fu allora definita, se significava l’esclusione della donna dalla sfera politica, nell’ambito della sfera privata invece poteva far intravedere spazi imprevisti per l’azione delle donne. Soprattutto in area angloamericana, proprio in virtù della sua specificità biologica e della sua funzione riproduttiva ed educativa, si riconosceva alla donna uno status morale superiore a quello dell’uomo, necessario per crescere ed educare i futuri cittadini della nazione. Se l’esclusione dalla politica non si coniugava logicamente alla completa su­ bordinazione, era questa però la condizione della donna che si poteva osservare nella sfera privata e familiare. Le donne erano soggette all’autorità del padre o del marito e, come si vedrà in seguito, la loro condizione giuridica era assimilabile a quella dei bambini e degli idioti, come fecero osservare le prime suffragiste. Questa minorità era conseguenza di una struttura fondata sul potere patriarcale (il potere dei padri sui figli, ma anche del marito sulla moglie) che sopravvisse anche quando i contrattualisti prima e i teorici della democrazia liberale poi elaborarono un mo­ dello politico basato sul contratto e sulla relazione fra individui liberi e autonomi. Ma in questa definizione di individui liberi e autonomi non furono ricomprese le donne, considerate parte integrante della sfera privata e quindi separata da quella pubblica, fondata sui principi di uguaglianza, di libertà, di diritti o di cittadinanza Questa contraddizione ha segnato il percorso politico dei moderni stati occi­ dentali ed è stata, altresì, la scintilla che nel corso dell’Ottocento e del Novecento ha provocato la formazione dei primi movimenti suffragisti e femministi per il riconoscimento e la rivendicazione dei diritti di cittadinanza. Si è trattato di un processo lungo e conflittuale che ha investito tutti i settori della vita politica, eco­ nomica e sociale e che ha avuto fasi e tappe differenti a seconda dei diversi paesi e delle diverse tradizioni giuridiche e politiche. Ad esempio, il diritto di voto è stato a volte preceduto dalla conquista di alcuni diritti sociali e civili; altre volte l’acquisizione della cittadinanza politica non ha significato il riconoscimento di una piena e autonoma uguaglianza giuridica e sociale. Fin dall’inizio i movimenti delle donne si sono mossi, inoltre, su un duplice piano: da un lato la rivendicazione dell’uguaglianza e del riconoscimento dei di­ ritti universali che sono il fondamento della modernità politica e delle democrazie liberali; dall’altro la rivendicazione e la difesa di una specificità femminile, di una differenza. Vale a dire la richiesta di accesso ai diritti universali in quanto individui.

ma soprattutto in quanto donne. Tale duplicità ha caratterizzato tutto il percorso del movimento suffragista e femminista e ha costituito però anche il segno più evi­ dente della possibilità, proclamata dalle donne, di rivendicare l’acquisizione sia di un’identità individuale (che alle donne era sempre stata negata) sia di un’identità collettiva sulla base di un’affermazione della differenza femminile vista come valore positivo invece che come espressione di inferiorità. 1.

I movimenti suffragisti e femministi dell’Ottocento

La contraddizione insita nella teoria liberale, a cui si è accennato sopra, tra una sfera pubblica fondata sui concetti di uguaglianza, libertà e diritti e una sfera privata in cui vigevano elementi arcaici di potere patriarcale, fu subito colta dalle prime teoriche del suffragismo e poi dai movimenti e dai gruppi di donne che si svilupparono nel corso dell’Ottocento, i quali facevano spesso riferimento alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo per denunciare lo stato di subordinazione femminile nell’ambito familiare e in quello politico. Nel 1791 Olympe de Gouges nella sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina prendeva proprio a modello la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, ricalcandone la struttura, per rivendicare anche alle donne il riconoscimento dei diritti naturali e l’uguaglianza politica e sociale. Un anno dopo l’inglese Mary Wollstonecraft, nella sua Vindication of thè Rights ofWoman, sosteneva non solo che le donne dovevano godere degli stessi diritti dell’uomo, ma che solo in questo modo potevano diventare vere compagne per l’uomo, perché, sosteneva Wollstone­ craft, esse non volevano avere il potere sugli uomini, ma su sé stesse. Qualche lustro prima, Abigail Adams, moglie di uno dei Padri fondatori, nonché futuro presidente degli Stati Uniti d’America, John Adams, in una serie di lettere del 1776, sollecitava il marito, proprio sulla base delle ragioni che stavano conducendo i coloni ameri­ cani a ribellarsi a quella che veniva considerata la tirannia dellTmpero britannico, a porre fine a quella uguale tirannia delle leggi che subordinava le donne ai padri e ai mariti. E qualche decennio dopo, la convenzione delle donne riunita nel 1848 a Seneca Falls, che per la prima volta negli Stati Uniti avanzò pubblicamente la rivendicazione del diritto di voto, si concluse con l’approvazione di una Declaration of Sentiments, il cui preambolo richiamava in modo niente affatto sorprendente la Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776. Fin dall’inizio, quindi, le donne avevano ben chiaro che l’affermazione della loro identità come individui razionali e soggetti pubblici passava sia attraverso il riconoscimento dei diritti naturali (la libertà e l’uguaglianza) nella sfera pubblica e in quella privata, sia tramite lo svelamento di quella contraddizione che identi­ ficava l’individuo universale e razionale con l’uomo. Conquistare il voto, perciò, non era sufficiente: le donne dovevano innanzi tutto vedersi riconosciute come individui dotati di autonomia e di libertà di giudizio e di azione. Ciò significava eliminare quei vincoli che vedevano la donna giuridicamente subordinata all’uomo, riconoscere il suo diritto di accesso all’istruzione e alla libertà di disporre dei beni di proprietà, come pure il suo diritto al lavoro, alla parità salariale, ma anche al divorzio e alla sessualità. Se questo processo fu comune ai movimenti delle donne nel loro complesso, assunse aspetti del tutto peculiari in paesi come gli Stati Uniti e l’Inghilterra, nei

quali la teoria delle sfere separate, nel corso dell’Ottocento, definiva l’area di in­ fluenza degli uomini (la scena pubblica e la politica) e quella delle donne (la fami­ glia, il privato, la domesticità). Come si è accennato, essa riconosceva alle donne, in quanto procreatrici ed educatrici dei futuri cittadini della nazione, principi morali superiori. Ciò condusse le suffragiste inglesi e americane a considerare la differenza come un valore positivo e la maternità come principio di altruismo e compassione per i deboli. L’accettazione dell’esistenza di due sfere separate ebbe però nel corso del secolo conseguenze impreviste e a volte contraddittorie. Infatti, in entrambi i paesi, la separatezza dei due ambiti, unita all’idea di una superiore moralità delle donne, venne usata come argomento per giustificare, di fronte ai primi fermenti suffragisti, l’esclusione delle donne dal voto. Proprio perché superiore all’uomo e a causa dell’altissimo valore morale della sua funzione (la maternità e la cura dei figli), la donna non poteva, se non corrompendo la sua natura e provocando una deleteria confusione dei ruoli, far parte della sfera politica. Questi argomenti furono a più riprese fatti propri da uomini politici americani e inglesi, ma anche da quelle donne che, pur rivendicando un ruolo sociale tutt’altro che subordinato e a partire dal riconoscimento della loro differenza dagli uomini, si opponevano al voto. Ma, e qui si poteva osservare una prima importante contraddizione, sulla base dell’accettazione della differenza sessuale e della distinzione dei ruoli maschile e femminile, si produsse in questi due paesi una progressiva crescita del protago­ nismo femminile, sull’onda di un concetto di «domesticità» (vale a dire di quei compiti che erano propri della sfera domestica e familiare) che si ampliava tanto da superare la soglia della casa per estendersi alla società, allo stato fino a investire 10 spazio internazionale. La responsabilità nei confronti dell’educazione e della morale, anche sociale, fu il grimaldello usato, in maniera più o meno consapevole, dai movimenti delle donne per intervenire nell’ambito politico e sociale. D’altra parte, gli stessi partiti politici, che pure si opponevano alla cittadinanza politica femminile, usarono lo stesso strumento - il concetto di una domesticità allargata - per coinvolgere le donne in quelle attività di supporto e di ricerca del consenso proprie di un sistema di partiti come quello americano e inglese. Negli Stati Uniti, nella prima metà del secolo, l’abolizionismo costituì uno de: terreni principali per molte donne che volevano lottare contro le ingiustizie. Le organizzatrici della convenzione di Seneca Falls (Lucretia Mott, Elisabeth Cady Stanton, solo per citarne alcune) potevano vantare nella maggior parte dei casi un’attività di militanza nella Anti-Slavery Society. Non del tutto casualmente, quin­ di, a partire dagli anni Quaranta le suffragiste americane accentuarono le analogie fra la subordinazione e l’incapacità giuridica delle donne e quelle degli schiavi e la lotta contro la schiavitù fu considerata uno strumento che poteva veicolare anche quella per il suffragio. Si trattò però, secondo l’opinione di alcune studiose, di una strategia perdente poiché l’abolizionismo costituì invece un freno a che i diritti delle donne divenissero, assieme alla causa dell’emancipazione degli schiavi, un punto prioritario dell’agenda politica del Partito repubblicano. Il tentativo del movimento suffragista, infatti, di ottenere il voto attraverso il XIV emendamento (che, ratificato nel 1868, concesse il diritto di cittadinanza ai neri) si risolse con un insuccesso. Non solo, fu questa l’occasione in cui per la prima volta fu esplicitamente introdotto 11 termine «cittadino maschio». La sconfitta accelerò, però, l’organizzazione e lo sviluppo del movimento suffragista. Nel 1869 nacquero due movimenti di lotta per il voto, la National Association for Woman Suffrage e la American Woman Suffrage

Association - che si fusero nel 1890 nella National American Woman Suffrage Association -, avviando una forte campagna di mobilitazione a livello sia statale sia nazionale che darà i suoi frutti, come si vedrà, solo dopo la Prima guerra mondiale. Se nell’area angloamericana la teoria delle sfere separate aveva giustificato l’esclusione delle donne dalla cittadinanza, nel resto dell’Europa le motivazioni erano comunque similari e facevano riferimento alla differenza femminile: la vita delle donne biologicamente condizionata; la fragile emotività e passionalità; la naturale divisione sessuale che considerava le donne «nate per le virtù e le cure domestiche». A differenza degli Stati Uniti dove, a partire dalla fondazione nel 1837 della National Female Anti-Slavery Association e poi dalla convenzione di Seneca Falls, il movimento suffragista si pose come realtà consolidata a livello nazionale, in Europa, durante la prima metà del secolo, i movimenti e le associazioni che si battevano per la liberazione delle donne emersero in modo sporadico solo in mo­ menti di crisi politica ed economica: i club femminili all’epoca della Rivoluzione francese, le saintsimoniane nel 1830, le associazioni di donne nel 1848. Il Codice napoleonico del 1804 - che condizionò lo status giuridico delle donne in buona parte dell’Europa - offrì un avallo giuridico al concetto della donna come proprietà dell’uomo, la cui funzione principale era quella della procreazione, anche se non mise completamente fine al processo di organizzazione delle donne. I gruppi femminili subirono, anzi, nel corso della prima metà del secolo, una trasformazione: da club tutto sommato di tipo intellettuale si modificarono in movimenti politici di lotta, subendo l’influenza dei circoli socialisti utopistici e di quelli saintsimoniani in particolare. Inoltre, come negli Stati Uniti il movimento suffragista e femminista si svilup­ pò in connessione con il movimento abolizionista, in Europa i primi movimenti femministi si affermarono spesso in collegamento con i movimenti democratici e nazionali: in Francia con i club patriottici nel periodo rivoluzionario prima e in connessione con i movimenti democratici e i circoli socialisti poi; in Germania, seppure in forma ridotta, con la Rivoluzione del 1848; in Italia, «donne illustri» erano al centro di salotti politici frequentati da patrioti ed esponenti del socialismo utopistico (Clara Maffei, Cristina Trivulzio di Beigioioso, Ester Martini Currica). Infine, la mobilitazione e la circolazione delle idee femministe furono favorite dal­ lo sviluppo dei primi giornali femminili a livello nazionale - come i francesi «La Femme Libre», «La Femme Nouvelle», «La Tribune des Femmes» e «La Voix des femmes», la «Frauenzeitung» di Lipsia o l’americano «The Lily» - e successiva­ mente a livello internazionale, come nel caso di «La Solidarité», il primo giornale a diffusione internazionale creato nel 1868 a Ginevra. A partire dalla seconda metà del secolo, tuttavia, anche in Europa i movimenti e le associazioni di donne cominciarono ad assumere la connotazione di fenomeni di massa in connessione sia allo sviluppo dei movimenti democratici e socialisti sia alla trasformazione economica che aveva ripercussioni anche sulle tradizionali strutture familiari. In Germania, in Inghilterra e poi a partire dalla fine del secolo in Francia e in Italia i movimenti suffragisti e le associazioni delle donne proliferarono a volte in stretta connessione con associazioni o partiti politici (liberali, democratici e socialisti) a volte in forma autonoma come nel caso della Allgemeiner Deutscher Frauenverein, fondata nel 1865 dalla suffragista tedesca Louise Otto, che si ba­ sava sulla rivendicazione dell’autonomia e del concetto del self-help femminile, o dell’inglese National Society for Women’s Suffrage, costituita nel 1866, all’indomani

cioè del rigetto della grande petizione a favore del voto presentata da John Stuart Mill. Unica eccezione alla politica di alleanza fra movimenti suffragisti e partiti e movimenti politici fu rappresentata dal caso italiano. Una delle figure storiche del suffragismo, Anna Maria Mozzoni, negli anni Ottanta, tentò di collaborare con la massoneria italiana, i repubblicani e i liberali, ma non ebbe successo, tanto è vero che questo fallimento la spinse a orientarsi sempre di più verso posizioni socialiste. A questo riguardo bisogna osservare che, pur nella ricerca di alleanze e contatti con i partiti e i movimenti politici, il rapporto fra questi ultimi e i movimenti suf­ fragisti fu spesso problematico. Più in generale il movimento suffragista, nei diversi contesti nazionali, dovette quasi sempre cercare di adottare strategie e modalità di mediazione e di negoziazione non solo per agire sui parlamenti, ma anche per non alienarsi l’appoggio, più o meno diretto, della maggioranza delle donne che conti­ nuavano a pensare che la loro funzione fosse tutta all’interno della famiglia. Da un lato i partiti, compresi quelli democratici e socialisti, si mostravano refrattari alle istanze delle donne, a volte opponendo un netto rifiuto, altre volte subordinando la questione della cittadinanza femminile al successo di altri punti considerati prio­ ritari (questo valeva in modo particolare per il Partito socialista). Dall’altro lato, però, soprattutto in quei paesi dove i partiti avevano assunto la connotazione di forti partiti di massa (gli Stati Uniti, l’Inghilterra, ma anche in Germania o in Francia alla fine del secolo), si poteva assistere a una maggiore permeabilità ad accogliere le istanze del movimento suffragista, che riguardavano non solo la questione del voto, ma anche l’ottenimento dei diritti civili e sociali. Particolarmente complesso e contraddittorio fu il rapporto, ad esempio, tra femminismo e socialismo, che pure fin dagli inizi del secolo avevano individuato obiettivi comuni. Se nell’ambito liberale il libro di John Stuart Mill, La schiavitù delle donne, del 1869, divenne un testo classico per i movimenti di ispirazione liberale, in campo socialista i fondamenti teorici si ritrovavano in Lorigine della famiglia, della proprietà privata e dello stato di Friedrich Engels del 1884 e in La donna e il socialismo di August Bebel pubblicato l’anno prima, nel 1883, i quali individuavano la radice della subordinazione delle donne nella divisione sessuale fra produzione e riproduzione imposta dal processo di trasformazione capitalistico. Anche se, a partire dagli anni Novanta, le donne socialiste incrementarono i loro sforzi per creare organizzazioni autonome, i tentativi non ebbero successo. Ancora più difficile, se non del tutto assente, fu poi la capacità di ascolto del movimento anarchico nei confronti delle istanze femministe. Una delle conseguenze del difficile rapporto fra partiti, movimenti politici e suffragismo fu la necessità da parte dei movimenti delle donne di ridefinire obiettivi e tattiche. Non solo; all’interno del movimento suffragista e femminista si verificò un processo di differenziazione che riguardava non solo le strategie (moderate o radi­ cali) che si volevano adottare, ma anche i contenuti dell’azione. Se molte suffragiste esprimevano, almeno pubblicamente, molta cautela e moderazione circa l’effetto che il voto delle donne avrebbe avuto sul tessuto sociale e familiare, altre esponenti del movimento ritenevano che la loro lotta dovesse avere come obiettivo non solo il voto, ma l’affrancamento delle donne da una subordinazione all’interno della famiglia che si fondava pure sullo sfruttamento sessuale. Anche in questo caso spesso le strategie di azione erano il frutto di un processo di mediazione. Josephine Butler, per esempio, per non compromettere l’azione in favore del suffragio della Society inglese, fondò la Ladies’ National Association per combattere lo sfruttamento sessuale.

Se, quindi, verso la fine del secolo, si potè assistere a un’accelerazione dell’a­ zione suffragista - in relazione anche all’attivismo del movimento socialista e a una progressiva radicalizzazione delle tattiche usate: tecniche di propaganda, disobbedienza civile, non violenza e violenza fisica - nello stesso periodo la mo­ bilitazione delle donne assunse una connotazione più generale che andava oltre l’obiettivo del voto. Sulle parole d’ordine della conquista del suffragio e della lotta allo sfruttamento sessuale (inteso nella sua accezione più vasta: dalla lotta alla pro­ stituzione alla rivendicazione di un’autonomia delle donne per quanto riguardava la sfera riproduttiva e sessuale nell’ambito familiare) si avviò, infatti, un processo più vasto di coinvolgimento e partecipazione femminile su temi di ordine sociale (dalla questione della cittadinanza alla lotta contro gli abusi della legge e del codi­ ce civile, dalla lotta alla prostituzione e all’alcolismo all’impegno nel campo della riforma sociale). Negli Stati Uniti, come si è visto, le strategie femministe avevano perseguito fin dall’inizio l’obiettivo della rivendicazione dell’uguaglianza attraverso un’azione pubblica che si legittimava in quanto espansione di quei compiti di cura propri della cosiddetta sfera d’azione femminile. Alla fine del secolo questa strategia fu ampliata in maniera considerevole da quelle donne bianche di classe media che condividevano gli ideali riformatori propri del movimento progressista - lotta alla corruzione dei partiti, efficienza e trasparenza amministrativa, ruolo di rego­ lamentazione economica e sociale dello stato. Nel periodo fra Otto e Novecento, proliferarono i club e le associazioni impegnati sul terreno della riforma locale e urbana per la soluzione di disagi sociali ed economici. Molte di queste associazioni, nate sulla scia del movimento filantropico, erano formate da donne che, in nome della domesticità, si imposero sulla scena pubblica agendo sui meccanismi della gestione politica e amministrativa a livello urbano e statale. Da parte di queste donne, spesso social workers come Jane Addams, il «maternalismo» - vale a dire l’idea della maternità come valore sociale - fu lo strumento che le impose sul piano pubblico, per quanto riguardava sia l’attività di riforma sia l’azione di pressione nei confronti delle amministrazioni locali e dei legislativi statali e federali. Le associa­ zioni di riforma femminili si fecero portavoce in maniera più o meno consapevole di una cultura delle donne, che allargando la sfera della domesticità all’ambito sociale e politico, da un lato imponeva modalità nuove di azione politica (attraverso ad esempio l’azione di lobby sui deputati e sui consiglieri comunali per l’approvazione di leggi di riforma), sganciate da una diretta connessione con il partito politico, dall’altro legittimava le donne non solo come mogli e madri, ma come cittadine. O meglio, il concetto di cittadinanza si ampliava per comprendere quelle prerogative (cura, assistenza, educazione) che sembravano essere proprie della sfera privata e familiare. Il caso americano, seppure peculiare per le caratteristiche proprie dello sviluppo politico e istituzionale del paese, non costituiva tuttavia un fatto isolato. Il concetto della maternità come valore sociale e fondamento per la costruzione dell’identità sociale e politica delle donne fu condiviso anche dai movimenti emancipazionisti europei, compreso quello italiano. Nel corso dell’Ottocento, il movimento suffragista e femminista si sviluppò an­ che grazie alla creazione di una rete di relazioni e di solidarietà fra donne di diversi paesi. A partire dalla fine del Settecento si era andata configurando una «cultura transatlantica femminile», elaborata da scrittrici e attiviste, che aveva sostenuto un attivismo transnazionale femminile legato ai movimenti democratici e al socialismo

utopistico, a quelli antischiavisti o ai movimenti di natura religiosa, filantropica e pa­ cifista. AH’interno di queste reti presero avvio forme organizzative e istituzionali vere e proprie. Il primo tentativo fu quello messo in atto da Marie Goegg-Pouchoulin, nel 1868, attraverso un appello lanciato dal giornale «Les Etats-Unis d’Europe» per fondare una Association Internationale des Femmes. Le americane Susan Anthony ed Elisabeth Cady Stanton si fecero promotrici, sulla scia del successo della World’s Christian Temperance Union, nel 1888 a Washington della International Council of Women (Icw), in occasione del 40° anniversario della Dichiarazione di Seneca Falls. Nel 1904 venne creata la International Woman Suffrage Alliance che, a differenza della Icw, riteneva non eludibile la questione del voto. L’orrore della Prima guerra mondiale, poi, spinse le femministe pacifiste americane ed europee a formare nel 1919 la Women International League for Peace and Freedom, che legava in maniera molto chiara l’affermazione della cultura della pace e la questione della cittadinanza femminile al tema della democrazia e dell’istituzione di organismi di governance internazionale come la Società delle Nazioni. Furono queste organizzazioni a dare l’avvio, quindi, alla cosiddetta Internationalfirst ioave, centrata sui temi della pace e della giustizia sociale, che rimase viva negli anni fra le due guerre e che si ripropose in forme e modalità diverse, all’indomani della Seconda guerra mondiale, quando la costituzione delle Nazioni Unite sembrò offrire nuove possibilità di azione per l’affermazione dei diritti delle donne sul piano globale, testimoniate dalla creazione nel 1946 della Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione delle donne. 2.

Cittadinanza politica e cittadinanza sociale

Sul finire del secolo sia in Europa sia negli Stati Uniti, la lotta per il diritto al voto divenne l’obiettivo principale dei movimenti suffragisti e femministi. In In­ ghilterra e negli Stati Uniti, alla vigilia della Prima guerra mondiale, molti furono i sit-in, le manifestazioni, gli scioperi della fame, messi in atto dalle suffragette, che dovettero anche subire la repressione delle forze dell’ordine. E fu proprio la guerra mondiale, con il suo carico di morti, con la mobilitazione della società civile e delle donne in particolare - che costituirono uno dei pilastri dell’economia di guerra, dello sforzo produttivo interno, e dell’assistenza morale e sanitaria sui campi di battaglia (pensiamo solo al ruolo svolto dalle volontarie e dalle crocerossine) - a far sì che in alcuni paesi la questione dell’allargamento del suffragio non potesse più essere ignorata. Anche se già prima della guerra il voto alle donne era stato introdotto in alcune nazioni europee (la Finlandia nel 1906 e la Norvegia nel 1913) e in alcuni stati della federazione statunitense (1910 stato di Washington, 1911 California, 1912 Arizona, Kansas e Oregon), la fine del conflitto bellico costituì una prima importante tappa per la concessione dei diritti politici alle donne. Il voto alle donne fu introdotto nel 1918 nel Regno Unito (in parte) e in Austria, nel 1919 nella Germania di Weimar, nei Paesi Bassi e in Lussemburgo, nel 1920 negli Stati Uniti (con la ratifica del XIX emendamento costituzionale) e in Canada, nel 1921 in Svezia e successivamente, prima della Seconda guerra mondiale, nel 1928 nel Regno Unito estesamente e nel 1931 in Spagna. Come si è accennato in precedenza, però, il diritto di voto, pur rappresentando la condizione essenziale per un’effettiva uguaglianza politica e sociale, si inserì fin da subito in un progetto più complessivo che aveva come obiettivo la conquista di

quel pacchetto di diritti - politici, sociali, economici - che il sociologo Thomas H. Marshall ha definito come cittadinanza. All’inizio dell’Ottocento l’accesso all’istruzione superiore fu per esempio un elemento importante della battaglia delle donne borghesi e aristocratiche. Sia in Europa che negli Stati Uniti alle donne era vietato l’accesso alle università e a corsi di laurea come giurisprudenza e medicina. Il dibattito che si sviluppò a partire dalla fine del Settecento e poi nel corso del XIX secolo si incentrò sulla necessità di una migliore educazione delle bambine e delle donne, sia perché a queste ultime era affidato il compito dell’educazione dei figli e quindi dei cittadini, sia perché, successivamente, l’istruzione fu considerata elemento indispensabile per il miglio­ ramento economico e l’accesso alle professioni. A partire dalla fine del secolo però la questione dell’istruzione venne affrontata dalle socialiste o dalle donne impegnate nell’assistenza sociale, per esempio in Italia da Sibilla Aleramo e dall’Unione femminile nazionale o dalle social workers inglesi e americane, come strumento di emancipazione delle donne contadine, operaie e immigrate attraverso l’organizzazione di corsi serali di alfabetizzazione e, negli Stati Uniti, di apprendimento della lingua inglese per le donne immigrate, assolvendo quindi a compiti che sarebbero stati propri dello stato. Se il diritto all’istruzione (che la scrittrice Virginia Woolf avrebbe aggiunto alla «stanza tutta per sé», come recita il titolo di un suo libro famoso) fu consi­ derato una conquista importante per il processo di emancipazione femminile (si pensi che università come Yale e Princeton aprirono l’accesso alle donne solo alla fine degli anni Sessanta del XX secolo), altrettanto significativa fu la lotta per i diritti civili che procedette di pari passo con quella per il diritto al voto; anzi in molti casi l’arretratezza giuridica fu la molla che spinse le donne a lottare contro la disuguaglianza. Nei paesi di common lato (Gran Bretagna e Stati Uniti in particolare), la condi­ zione giuridica della donna era ritenuta alla stregua di uno stato di servitù feudale, simile a quella dei bambini e degli idioti. Nel 1758 William Blackstone, nei suoi Commentaries on thè Laivs ofEngland, aveva definito la condizione giuridica della donna sposata come dipendente da quella del marito; ciò significava che la donna sposata non poteva disporre dei propri beni (compresi quelli che facevano parte della sua dote), non poteva fare contratti o testamenti, non poteva disporre del proprio salario, non aveva la custodia dei figli, non poteva rendere testimonianza in tribunale. Negli Stati Uniti, a differenza delllnghilterra, già in epoca coloniale (nel New England in particolare) erano comunque state introdotte delle norme che difendevano, seppure parzialmente, la proprietà della moglie e in caso di divorzio la facevano tornare in possesso della sua dote. Nei paesi di common law, l’accesso ai diritti civili precedette quindi spesso quello ai diritti politici. Nel 1848 negli Stati Uniti e nel 1882 in Inghilterra fu introdotto il Married Women’s Property A d che riconosceva alla donna la piena capacità di disporre dei propri beni e di stipulare contratti. Nel 1886 e nel 1925 furono introdotte, in Inghilterra, misure che stabili­ vano poi la condizione di parità di padre e madre di fronte ai figli. Provvedimenti analoghi furono introdotti anche nei paesi scandinavi. Anche nei paesi europei che avevano recepito il Codice napoleonico del 1804 o in cui permanevano forti influenze del diritto romano la capacità di agire delle donne era fortemente limitata. Il codice civile albertino, per esempio, che si rifaceva a quello napoleonico, preve­ deva il mantenimento della patria potestà sulle figlie fino alla morte del padre. Il

Codice Pisanelli, che rimase in vigore fino al 1919, riaffermava la prevalenza della capacità giuridica del marito sulla moglie. E pur se, a partire dal 1918, alle donne in Italia fu riconosciuta la piena capacità giuridica in campo civile, l’avvento del fascismo segnò, anche dal punto di vista giuridico, il tentativo di relegare le donne nella sfera familiare: nel 1923 si impedì alle donne di ricoprire la carica di presidi di scuola media; nel 1926 di insegnare storia, filosofia ed economia nelle scuole medie superiori; nel 1934 si vietò loro di accedere ad alcuni concorsi pubblici e si autorizzarono le amministrazioni dello stato a fissare una quota massima di assunzione di donne, misura questa che fu rafforzata nel 1938 con una legge che imponeva all’amministrazione pubblica e alle imprese private un tetto massimo del 10% di assunzione di personale femminile. Il lavoro femminile rappresentò, a partire dalla fine dell’Ottocento, uno dei principali terreni di mobilitazione dei gruppi e delle associazioni di donne. Questi lottarono per il riconoscimento di una serie di misure a tutela del lavoro femminile, della maternità e della cura dei figli o per il miglioramento delle condizioni di vita delle donne lavoratrici e povere, delle donne sole con o senza figli. In Francia, nel 1868, la questione del lavoro delle donne costituì l’argomento principale dei primi raduni pubblici femministi. La battaglia per la cittadinanza, quindi, passava anche per la lotta per l’assistenza e la tutela. Si è parlato a questo proposito di un «femmi­ nismo maternalista», per indicare quei movimenti e quelle donne che ponevano la questione della maternità al centro del loro progetto e delle loro battaglie politiche. D’altra parte, la seconda Rivoluzione industriale si caratterizzò per un aumento non solo della manodopera femminile, ma della povertà femminile, aggravata dai rischi tipici della vita di una donna. Fra questi la maternità che - e ciò costituì un’importante innovazione - non poteva essere considerata un problema isolato o un fatto «privato», ma una condizione comune a tutte le donne e una «questione» che aveva una forte rilevanza sociale. Sia in Europa che negli Stati Uniti la pressione del movimento delle donne sui legislativi ebbe risultati importanti. In Italia nel 1910 fu istituita la Cassa di mater­ nità, una proposta avanzata già a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento da molti gruppi femministi (la Lega per la tutela degli interessi femminili di Paolina Schiff, per esempio) per l’assistenza alle operaie madri; negli Stati Uniti furono approvate, in vari stati, leggi sulle pensioni di maternità (la prima fu emanata nel 1911 dallo stato deH’Illinois) e misure di aiuto alle madri; sempre negli Stati Uniti nel 1912 fu istituito presso il Department of Labor del governo federale il Children’s Bureau, grazie all’opera di pressione di riformatrici legate al movimento del social work e al National Congress of Mothers. Il Children’s Bureau fu il primo organismo federale gestito e diretto da donne (Julia Lathrop fu posta a capo dell’istituto) per la tutela delle madri e del lavoro minorile. In Europa, le prime forme di welfare state, di programmi statali di assistenza e tutela sociale si basarono, oltre che sulle misure previdenziali e di legislazione sociale a favore dei lavoratori, anche sull’approvazio­ ne di leggi che obbligavano i padri al sostentamento dei figli illegittimi, garantivano periodi di assenza dal lavoro e la conservazione del posto alle donne in gravidanza oppure obbligavano i datori di lavoro a concedere un periodo di congedo per maternità retribuito, indennità e assicurazione obbligatorie per le lavoratrici. Nei primi due decenni del XX secolo, misure di questo tipo, pur variamente articolate, furono approvate in Francia, in Germania, in Inghilterra e nei paesi scandinavi (Danimarca, Norvegia, Svezia).

Non tutte le femministe del periodo condividevano le analisi che ponevano la maternità al centro delle loro strategie d’azione. Per alcune, come per le esponenti del movimento a favore della contraccezione (per esempio Margaret Sanger negli Stati Uniti) e per quelle che privilegiavano la lotta per l’uguaglianza fra i sessi, le leggi di tutela e di protezione sociale sembravano avvalorare l’idea della donna come soggetto debole, da tutelare. Negli Stati Uniti proprio su questo punto si produsse una divisione, a partire dal 1912, all’interno del movimento femminista, fra chi riteneva centrale la questione dell’uguaglianza dei diritti e chi invece considerava cruciale la questione della tutela e il miglioramento delle condizioni sociali delle donne. Se le prime focalizzarono la loro azione sulla questione del suffragio, anche attraverso una radicalizzazione delle forme di lotta e, dopo la conquista del voto nel 1920, sul tentativo, infruttuoso, di fare approvare 1’Equal Rights Amendment (la proposta costituzionale sulla completa uguaglianza e parità di diritti fra uomo e donna), le seconde colsero un importante successo con l’approvazione, nel 1921, dello Sheppard-Towner Maternity and Infancy Act, che si rifaceva alle esperienze e ai programmi Mothers’ Pensions, introdotti a livello statale a partire dagli anni Dieci del Novecento. La legge, osteggiata dalla potente lobby dei medici, venne progressivamente vanificata fino alla sua completa abolizione nel 1929. Solo nel 1935, nell’ambito del Social Security Act approvato in pieno New Deal, furono adottate misure assistenziali che riprendevano lo Sheppard-Towner Act, rivolte però non alle madri, ma ai figli bisognosi; solo a partire dagli anni Cinquanta e poi dagli anni Sessanta e Settanta, saranno di nuovo approvate leggi che tuteleranno le madri oltre ai bambini poveri. Come si è accennato sopra, la questione della tutela della maternità provocò fratture e divisioni all’interno del movimento femminista. Ciò che le femministe cercarono di affermare con forza era che la tutela della maternità non poteva esse­ re disgiunta né dall’idea di un’identità femminile né dal concetto di cittadinanza. Una questione, questa, dirimente e che non a caso si riproporrà a partire dagli anni Sessanta, con la cosiddetta seconda ondata del femminismo. Ma anche le suffragiste e le femministe della prima ondata erano convinte, seppure con qualche contraddizione e persistenza di un moralismo di stampo vittoriano (specie negli Stati Uniti e in Inghilterra), che la maternità fosse parte integrante dell’affermazione della soggettività femminile. Non a caso una delle battaglie più importanti fu quella condotta affinché gli assegni familiari fossero pagati alle madri e non all’uomo. Non bisogna quindi confondere le richieste avanzate dai movimenti delle donne e parzialmente accolte da alcuni stati democratici con i provvedimenti che furono presi, a partire dagli anni Venti, da quei regimi, come quelli fascista e nazista, che sulla retorica della maternità riaffermarono i vincoli che relegavano le donne nella sfera familiare nel tradizionale rispetto della divisione dei ruoli. L’orientamento pro-natalista nel periodo fra le due guerre, che per certi versi reagiva al declino del tasso di natalità, favorì una maggiore attenzione da parte dello stato nei confronti della tutela e dell’assistenza alle madri, ma all’interno di un disegno che voleva comunque riaffermare l’esclusione delle donne dal mondo del lavoro e la preminenza dei ruoli tradizionali all’interno della sfera familiare. Sia i regimi fascisti (quello italiano, la Francia di Vichy e la Spagna franchista) sia, seppure con diversa caratterizzazione, quello nazista adottarono dunque politiche a favore dell’incremento demografico, ma all’interno di un progetto che aveva al centro non tanto la tutela delle donne e delle lavoratrici madri e dei loro diritti,

quanto una politica demografica di rafforzamento della «razza» (nella Francia di Vichy l’aborto era considerato un reato contro la «nazione»). In Italia, nel 1925 viene istituita l’Onmi (Opera nazionale per la maternità e l’infanzia), finanziata dallo stato che forniva educazione sanitaria e assistenza soprattutto alle madri povere e a quelle nubili. Con il regio decreto-legge n. 850 del 13 maggio 1929 si ampliavano le disposizioni sull’assistenza e sulla protezione delle lavoratrici madri e dell’infanzia, estendendo l’assicurazione a tutte le operaie e alle impiegate delle aziende indu­ striali e commerciali, e veniva concesso, inoltre, un periodo di astensione dal lavoro (un mese prima e un mese dopo il parto), con la garanzia del mantenimento del posto di lavoro. Veniva infine fissata la corresponsione di un’indennità pagata dalla Cassa nazionale di maternità. L’intera materia fu successivamente regolamentata con una legge del 1934 che prevedeva norme di tutela per le donne che svolgevano lavori meno garantiti e dannosi per la salute. Una legislazione, quindi, per certi versi all’avanguardia, all’interno però di un progetto più ampio che tendeva a rafforzare un’idea di famiglia centrata sul ruolo preminente del padre. Alla fine degli anni Venti infatti fu introdotta una riduzione delle tasse per il capofamiglia in base al numero dei componenti del nucleo familiare; nel 1936 gli assegni familiari per la moglie e per i figli a carico vennero corrisposti ai padri che avevano un lavoro; nel 1939 poi fu introdotta la corresponsione di premi di natalità. Anche nella Germa­ nia nazista, il culto della paternità e della virilità fu all’origine dell’introduzione di una serie di misure di assistenza sociale: prestiti matrimoniali, riduzione delle tasse sul reddito, assegni per i figli corrisposti ai padri. Più che aderire a una politica pro-natalista, il regime nazista si fece interprete però di una politica demografica di tipo selettivo: la prima legge sulle nascite del 1933 prevedeva la sterilizzazione obbligatoria per gli «inadatti» e i «biologicamente inferiori». Le politiche adottate dai vari stati dell’Europa occidentale e dagli Stati Uniti nel periodo fra le due guerre furono particolarmente significative perché erano l’indizio di una serie di profondi cambiamenti nella vita politica, sociale e familiare che saranno poi all’origine della seconda ondata del femminismo a partire dagli anni Sessanta. Se, nel periodo fra le due guerre, sembrava che il movimento suffra­ gista e femminista si fosse per certi versi ritratto dopo aver ottenuto il suffragio in alcuni paesi e in seguito all’avvento dei regimi totalitari che avevano pesantemente riaffermato i ruoli familiari tradizionali, non di meno si potevano scorgere segnali che indicavano come le tradizionali divisioni fra pubblico e privato e all’interno della famiglia fossero ormai radicalmente incrinate. Le politiche di welfare messe in atto dagli stati all’indomani della crisi economica del 1929, le politiche di na­ zionalizzazione delle masse, centrate sulla riproposizione della divisione sessuale dei ruoli all’interno della famiglia, ma che al contempo rendevano la maternità una questione sociale e fondativa del carattere della nazione, la mobilitazione e l’irreggimentazione delle donne da parte degli stessi regimi nazista e fascista, l’avvento del consumismo di massa furono tutti elementi che posero definitivamente in crisi il modello liberale di divisione netta fra pubblico e privato, famiglia, individuo e stato. All’interno di questo processo, di cui la Seconda guerra mondiale costituì una sorta di accelerazione solo per quanto riguardò la generalizzazione del suffra­ gio, le donne non furono, ancora una volta, soggetti passivi, meri ricettori delle politiche assistenziali o dei modelli ideologici imposti dai regimi totalitari come pure dalle industrie di consumo di massa o dall’industria cinematografica. L’azione delle donne fu spesso «silenziosa», di resistenza ai modelli politici e culturali che

si volevano imporre loro. Altre volte, invece, esse si assunsero una responsabilità diretta, divenendo agenti dei processi di trasformazione politica ed economica, come nel periodo di mobilitazione bellica o in quello della ricostruzione dopo la fine del secondo conflitto mondiale. E solo se si tiene conto di questo che si può capire la portata e la radicalità del cambiamento imposto dai movimenti femministi degli anni Sessanta. 3.

La seconda ondata del femminismo

La fine della Seconda guerra mondiale non rappresentò per le donne una cesu­ ra, una sorta di turning point nel processo di emancipazione femminile, nonostante la conquista del voto nella quasi totalità dell’Europa occidentale: in Francia nel 1944, in Italia nel 1945, in Belgio nel 1948, in Grecia nel 1952 (ma in Svizzera il voto alle donne fu concesso nel 1971 e in Portogallo nel 1976). Come era successo all’indomani della Prima guerra mondiale, anche nel secondo dopoguerra il pro­ cesso di smobilitazione significò per le donne il tentativo di rimandarle a casa, in nome del civismo, della necessità della ricostruzione nazionale, della loro differenza, del ruolo centrale della famiglia. Gli anni Cinquanta videro quindi trionfare il modello della donna-mogliemadre-casalinga, veicolato dai nuovi mezzi e strumenti di comunicazione di mas­ sa: cinema, radio, televisione, pubblicità, riviste femminili. Un vero e proprio processo di condizionamento ideologico che fu definito nel 1963 dall’americana Betty Friedan come «mistica della femminilità». In Francia, all’indomani della guerra, la scrittrice Simone de Beauvoir pubblicò nel 1949 quello che diventerà, soprattutto per le femministe americane, uno dei testi fondamentali per lo sviluppo della cosiddetta seconda ondata del femminismo, Il secondo sesso. In questo libro de Beauvoir si poneva la domanda: «Che cosa è una donna?». Un interrogativo che a suo avviso costituiva già una prima risposta perché un uomo non si classifica mai come un individuo di un certo sesso: che sia uomo è sottinteso. De Beauvoir, attraverso un’analisi di tipo storico, economico e culturale, affermava che la donna aveva sempre rappresentato l’altro, il polo negativo; la sua individualità era sempre stata definita e determinata in relazione all’uomo. Questa individualità negata, che aveva portato la donna a essere definita «altra», non costituiva un dato naturale, ma era il frutto di determinati processi e rapporti economico-sociali, così come della costruzione culturale e ideologica di ciò che doveva essere considerata una «don­ na». La «liberazione» (e non solo l’emancipazione) della donna dalle condizioni di oppressione e subordinazione non poteva, però, che essere collettiva e il frutto di un processo di affermazione di sé come soggetto che passava necessariamente dalla relazione con le altre donne che vivevano la stessa condizione di oppressione. Per de Beauvoir, la prima condizione per il processo di liberazione della donna era costituita dall’evoluzione della sua condizione economica e dall’uguaglianza politica, economica e sociale. Il libro di Simone de Beauvoir fu particolarmente significativo perché già all’indomani della Seconda guerra mondiale si poneva con molta forza la con­ traddizione, allora ancora più stridente nelle democrazie che avevano sconfitto il nazifascismo, fra le nuove strutture democratiche e, nonostante la conquista del voto, la «cittadinanza imperfetta» delle donne. Se, infatti, all’indomani della

Seconda guerra mondiale, nei paesi del Nord Europa e negli Stati Uniti, le donne avevano da tempo ottenuto i diritti politici e quelli civili, nei paesi latini il rico­ noscimento del diritto di voto non significò un affrancamento dalla condizione di subordinazione nei confronti del marito. Fu solo a partire dalla fine degli anni Sessanta, a seguito dell’ondata di lotte e della mobilitazione delle donne, che vennero approvate e modificate le norme per accogliere le istanze di uguaglianza giuridica e sociale fra uomo e donna. In Francia una legge del 1965 emancipò le donne dalla tutela maritale e fu perfezionata con le leggi del 1975 e del 1985 che prevedevano il divorzio consensuale, la depenalizzazione dell’adulterio e la parità completa dei coniugi nella gestione del patrimonio familiare. In paesi come Italia, Spagna, Portogallo e Grecia negli anni 1975-80 furono approvate leggi di riforma che affrancavano le donne dalla tutela maritale: la scomparsa del valore legale del matrimonio religioso e l’introduzione del matrimonio civile in Italia nel 1970 (confermata dal referendum sul divorzio del 1974), in Portogallo nel 1975, in Spagna nel 1981 e in Grecia nel 1982; l’affermazione del principio di parità dei coniugi nell’amministrazione dei beni e la corresponsabilità per quanto riguardava l’educazione dei figli. Il movimento femminista che si sviluppò, con varie fasi e caratteristiche, in tutto il mondo occidentale a partire dagli anni Sessanta ebbe come obiettivo non solo l’emancipazione delle donne, il raggiungimento di una completa uguaglianza giuridica, politica e sociale, ma la loro liberazione da un sistema di potere patriarcale che nell’ambito familiare aveva giustificato la condizione subordinata della donna. Non a caso il movimento si scagliò contro quella «mistica della femminilità» che aveva definito il modello femminile proposto negli anni Cinquanta: rassicurante, incentrato sul ruolo di moglie e madre casalinga, rispettoso delle tradizionali norme sessuali, che però si poneva in contraddizione con l’evoluzione economica e sociale delle donne stesse. Negli Stati Uniti, il sentimento di scontento e di frustrazione apparteneva sia alle donne bianche di classe media che vivevano nei suburbi delle grandi città, sia alle operaie che si vedevano discriminate all’interno dello stesso sindacato, gode­ vano di minori diritti e di salari più bassi a parità di lavoro. Se il sentimento di disagio e malcontento serpeggiava tra le donne bianche, segni di mutamento, alla fine degli anni Cinquanta si potevano osservare anche fra le donne afroamericane. Il movimento per i diritti civili, che prese il via in America a partire dalla metà degli anni Cinquanta, vide le donne nere, attive in realtà fin dall’Ottocento con proprie organizzazioni e associazioni, non solo fortemente impegnate nello sviluppo del movimento di protesta contro il regime di segregazione razziale negli stati del Sud, ma anche rivestire un ruolo fondamentale di raccordo e di leadership: si pensi, per fare un solo esempio, all’importanza avuta da Rosa Parks - che nel 1955 a Mont­ gomery in Alabama si rifiutò di cedere il posto che, nell’autobus che la riportava a casa dopo una giornata di lavoro, era riservato ai bianchi - nell’avvio della protesta e delle manifestazioni negli stati del Sud. Ma negli Stati Uniti e poi nell’Europa occidentale fu soprattutto sull’onda dello sviluppo dei movimenti di contestazione giovanile e studentesca, dei gruppi della nuova sinistra europea e di quelli pacifisti contro la guerra in Vietnam che ripresero vigore i movimenti femministi e di liberazione delle donne. Se nel 1966 fu creata negli Stati Uniti la National Organization for Women (Now) che si batteva, in un’ottica di azione liberale, per la messa in atto di leggi federali antidiscrimina­

torie, a partire dalla fine del decennio e all’inizio degli anni Settanta si formarono gruppi più radicali in America come pure nei paesi dell’Europa occidentale in contrapposizione a quelli della nuova sinistra. Questi gruppi si scagliavano contro quelle forme di discriminazione che si potevano riscontrare nei comportamenti personali e nella prassi politica (dalla considerazione del ruolo delle donne nei gruppi in veste di semplici ausiliarie a quella dell’irrilevanza delle tematiche da queste sollevate) dei membri dei gruppi di protesta, nello Sncc (Student Nonviolent Coordinating Committee) come nel Black Panther Party in America, nei gruppi nati dalla protesta del maggio francese del 1968 come pure nei partiti tradizionali della sinistra e nei gruppi della nuova sinistra nati alla fine degli anni Sessanta in Italia e in Germania. Proprio l’esperienza e le contraddizioni rilevate nei movimenti di contestazione femminile spinsero le donne a riflettere sulle ragioni profonde della subordina­ zione, a ripensare in modo critico i modelli culturali che regolavano i rapporti uomo-donna, a riappropriarsi del proprio corpo e della propria sessualità come tappa fondamentale per rompere l’ordine patriarcale all’interno della famiglia e dei rapporti di coppia. Nei testi delle teoriche femministe di quegli anni (Shulamite Firestone, La dia­ lettica dei sessi-, Germaine Greer, L’eunuco femmina-, Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, solo per citarne alcuni) furono approfonditi i temi messi in evidenza da Simone de Beauvoir: la donna come altro, esclusa, alienata, negata, l’idea di un legame fra la singola donna e le altre donne. I rapporti di produzione, il nesso capitalismopatriarcato, la divisione del lavoro che all’interno della famiglia diviene divisione sessuale dei ruoli e fondamento del rapporto di potere dell’uomo sulla donna, l’autodeterminazione (a partire dal problema dell’autodeterminazione del proprio corpo) furono i temi sollevati dalla riflessione e dalla lotta delle femministe della seconda ondata. La parola d’ordine delle femministe più radicali, «Il personale è politico», rappresentò per molte la sintesi più efficace di una lotta che si poneva come fine non soltanto l’uguaglianza dei diritti, ma una rivendicazione di identità e di costruzione del soggetto femminile che sovvertiva i tradizionali confini tra pubblico e privato. L’autocoscienza come pratica politica portava in primo piano, poi, il vissuto soggettivo, la quotidianità, la ricerca della relazione con l’altra, in una dimensione e in un progetto politico in cui la costruzione dell’identità della singola donna era il risultato di un processo di decostruzione dell’idea tradizionale di femminilità e della relazione con le altre donne. Il concetto di differenza sessuale come strumento di analisi e di critica di un sistema di potere in cui i soggetti da prendere in considerazione sono quantomeno due, l’uomo e la donna, metteva in discussione l’universalismo liberale fondato su un’idea neutra e astratta di indivi­ duo che, invece, sostenevano le femministe radicali, era modellata sull’individuo maschio, bianco e proprietario. Non si trattò di un movimento omogeneo. Molte furono le differenze fra le femministe a seconda sia dei paesi e dei contesti socioculturali e politici sia della definizione che si attribuiva ai concetti stessi di femminismo e di liberazione della donna. Se i movimenti femministi, nati sull’onda delle lotte di contestazione degli anni Sessanta, criticarono ferocemente le tradizionali organizzazioni femminili (pensiamo per esempio all’Udi - Unione donne italiane - o ai comitati femminili dei partiti socialista e comunista), a partire dalla metà degli anni Settanta in particolare, vi furono uno scollamento e uno scontro aspro tra le femministe più radicali e quelle

organizzazioni che pure, come la Now americana, erano state fra le protagoniste dell’avvio del movimento. Inoltre, così come era avvenuto in passato, le differenze etniche e razziali cominciarono a produrre divisioni all’interno dei movimenti. Negli Stati Uniti, le femministe afroamericane misero in evidenza la specificità della loro condizione, la necessità di tenere conto della «doppia oppressione» come donne e come nere così come un’analoga riflessione riguardava le donne latinas e quelle di origine asiatica. Posizioni critiche furono espresse anche dai movimenti lesbici (anch’essi in alcuni casi risalenti ai decenni precedenti) che mettevano in discussione un concetto di differenza basato sulla dicotomia rigida uomo-donna che marginalizzava soggetti ritenuti «eccentrici» perché fuoriuscivano da una visione eteronormativa delle relazioni sociali. Il movimento femminista della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta, pur dentro pratiche politiche spesso di tipo separatista, ha esercitato un’azione di pressione nei confronti dei governi dei paesi occidentali per il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti e l’adozione delle cosiddette «azioni positive». Molte e importanti sono state quindi le conquiste che il movimento, pur in tappe succes­ sive, è riuscito a ottenere nei diversi paesi: le leggi per la parità salariale, contro la discriminazione sessuale, contro la violenza domestica e sessuale, i congedi per maternità, le leggi di legalizzazione dell’aborto, quelle che rafforzano i diritti delle donne nelle cause di divorzio, le riforme del diritto di famiglia (per esempio quella italiana del 1975). A partire dalla fine degli anni Settanta e soprattutto dalla metà degli anni Ottanta, la spinta propulsiva del movimento delle donne sembrò calare, in alcuni contesti nazionali. Negli Stati Uniti, nel 1970, alla camera fu ripresen­ tato 1’Equal Rights Amendment, dopo la mancata approvazione negli anni Venti. Nonostante un iter lungo e complesso, la proposta costituzionale non fu ratificata dai tre quarti degli stati e nel 1982 venne definitivamente sconfitta. Ma anche se l’onda lunga del movimento di contestazione sembrava essersi arrestata, in realtà l’azione delle donne, negli Stati Uniti, come pure in Europa, ha, da allora, indivi­ duato canali e percorsi molteplici, a volte finalizzati a singole issues. Il concetto di «differenza sessuale» è entrato a far parte della cultura che ha prodotto le leggi di parità in Francia, le nuove leggi sociali in Italia, le politiche di affirmative actions negli Stati Uniti come pure le politiche e le direttive comunitarie in materia di parità e uguaglianza dei diritti. A partire dagli anni Ottanta, tuttavia, è sempre più evidente, non tanto un pre­ sunto declino, quanto un dispiegarsi di una pluralità di percorsi, riflessioni, forme di attivismo, modalità diverse di pensare la presenza pubblica delle donne, frutto anche dell’utilizzo di nuovi approcci, da quello di genere (inteso come costruzione storica della relazione tra maschile e femminile), al principio della simultaneità dei dispositivi di oppressione (intersezionalità), all’accento posto sulle costruzioni ibride dell’identità. Se in contesti come quelli dell’Europa del Nord (e in partico­ lare dei paesi scandinavi) la battaglia politica delle donne ha condotto a una forte presenza politico-istituzionale (tanto da far parlare di un «femminismo di stato») e se la cultura delle pari opportunità è stata promossa a livello nazionale grazie alle pressioni di Nazioni Unite e Unione europea che hanno permesso di veicolare concetti come quello di empowerment delle donne o di gender-mainstreaming, in altri contesti, come quello italiano, abbiamo avuto pratiche di femminismo diffuso (centri delle donne, antiviolenza, ecc.). Forme di attivismo politico sono anche quelle sperimentate dalle generazioni più giovani, con una più forte dimensione

individuale, che usano nuove modalità comunicative proprie della rivoluzione informatica (network informatici, blog, social network). Particolarmente significativo poi è stato il processo attraverso il quale i movi­ menti delle donne, agendo sul piano internazionale, hanno imposto un ripensamen­ to del concetto stesso di «diritti umani», privandolo di quell’apparente neutralità che sembrava aver informato il linguaggio della stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo approvata dalle Nazioni Unite nel 1948. Anche se nella dichiarazione non si ritrova alcun cenno alle discriminazioni nei confronti delle donne, proprio a partire da questo documento (nella redazione del quale le donne ottennero una prima, importante vittoria quando fu sostituita la parola «uomini» con «esseri umani») vi è stato un lungo processo di elaborazione, di mobilitazione e di lotta che ha portato nel 1979 all’approvazione della Cedaw (Convention on thè Elimination of Discrimination against Women, ratificata ed entrata in vigore nel 1981) dove si parla esplicitamente di violenza e discriminazione contro le donne, di rapporti di potere all’interno della famiglia che possono causare violazioni dei diritti della donna, e dove si tenta di decostruire la gerarchia dei diritti, che vede prevalere i diritti politici e civili, mettendo in primo piano invece la violazione dei diritti eco­ nomici, sociali e culturali che colpisce in modo particolare le donne. Tutto ciò ha portato poi alla promozione di una serie di conferenze promosse dagli organismi internazionali (Città del Messico nel 1975, Copenaghen nel 1980, Nairobi nel 1985, fino ad arrivare alla conferenza di Pechino del 1995, considerata il culmine di questa forma di attivismo), in cui il concetto di differenza sessuale e di genere viene usato come categoria interpretativa per analizzare la specificità delle violazioni dei diritti e della discriminazione nei confronti della donna e la natura del rapporto fra donne e sviluppo economico-sociale, soprattutto per quello che riguarda il nuovo contesto della globalizzazione economica e il ruolo centrale che le donne hanno all’interno della nuova divisione del lavoro a livello globale - con i relativi processi migratori. Non è casuale che proprio all’interno dei nuovi scenari internazionali e globali che gli anni Novanta testimoniano si compia un passaggio politico e simbolico significativo: il femminismo occidentale ha dovuto sempre più fare i conti con le critiche di quelle attiviste che, da prospettive e angolature diverse come quelle dei paesi post-coloniali, del Sud del mondo o delle nuove comunità immigrate, lo hanno visto portatore non di un linguaggio universale, bensì di un progetto «parziale». Questi sviluppi hanno indotto anche a rivedere criticamente il percorso stesso del femminismo occidentale, svelando ad esempio le ambiguità, se non le contiguità con il potere imperiale esercitato nei riguardi dei contesti coloniali. Se i femminismi occidentali avevano, nel corso dell’Ottocento e del Novecento, dettato l’agenda politica ed elaborato le strategie di critica alle forme di oppressione, il XXI secolo si è aperto con un mutamento denso di significati: la leadership dei movimenti delle donne si è adesso spostata a Sud e ha rilanciato in forme nuove i temi della violenza sessuale e del femminicidio, dello sfruttamento, delle nuove «catene della cura», delle nuove schiavitù che stanno riplasmando le relazioni economiche e sociali a livello globale.

Percorso di autoverifica

1. Quale contraddizione nelle teorie liberali era alla base dell’esclusione delle donne dalla politica nell’Ottocento? 2. Quali furono le rivendicazioni dei primi movimenti suffragisti e femministi dell’Otto­ cento? 3. Maternità, diritto al voto, istruzione: in che modo tali questioni permearono la lotta per l’emancipazione femminile? 4. Quale impatto ebbero le due guerre mondiali sulla questione femminile? 5. Quali furono le principali politiche riguardanti la questione femminile attuate dai governi nel periodo fra le due guerre? 6. Quali furono le politiche attuate dai regimi totalitari in materia? 7. Quali furono le differenze principali fra i primi movimenti suffragisti e la seconda ondata del femminismo? 8. Illustrate l’importanza dell’opera di Simone de Beauvoir, II secondo sesso.

Per saperne di più

T. Bertilotti e A. Scattigno (a cura di), Ilfemminismo degli anni Settanta, Roma, Viella, 2005. N.M. Filippini e A. Scattigno, Una democrazia incompiuta. Donne e politica in Italia dall’Ot­ tocento ai nostri giorni, Milano, Angeli, 2007. E. Guerra, Storia e cultura politica delle donne, Bologna, ArchetipoLibri, 2008. C.T. Mohanty, Femminismo senzafrontiere: teoria, differenze, conflitti, a cura di R. Baritono, Verona, ombre corte, 2012. S. Moller Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, Milano, Cortina, 2007.

Mass media e politica: dal telegrafo a internet di Riccardo Brizzi

A partire dalla fine dell’Ottocento l’estensione della Rivoluzione industriale al campo delle comunicazioni ha decretato l’inizio dell’«età dell’oro» della stampa, primo mezzo di comunicazione di massa dell’età contemporanea. La Grande guerra ha visto l’emergere della radio. Con gli anni Cinquanta e l’avvento delibera televisiva» i mass media hanno acquisito una crescente centralità, modificando logiche e linguaggi della comunicazione e contribuendo all’af­ fermazione di una legittimità «mediatica» senza tuttavia impedire che si regi­ strasse una progressiva presa di distanza dell’opinione pubblica rispetto alla politica. Il recente sviluppo di internet, pur caratterizzato da una progressiva democratizzazione del dibattito pubblico, non sembra in grado di arginare il discredito crescente della politica che si registra nelle democrazie occidentali e pare piuttosto favorire l’emergere di una «contro-sfera pubblica».

Quando si riflette sul ruolo e sull’impatto politico dei mass media i ricordi affol­ lano la mente, numerosi, carichi di significato. E difficile, in effetti, evocare qualche avvenimento della nostra epoca spogliandolo della dimensione radiofonica, di quella televisiva o, da ultimo, dalle immagini acquisite attraverso internet. Hitler e Mussolini senza il suono delle loro urla isteriche trasmesse attraverso le onde dell’etere sono quasi inconcepibili. Lo studente di piazza Tiananmen che affronta coraggiosamente il carro armato o i giovani «a cavalcioni» sul muro di Berlino dopo che ne era stata disposta la demolizione, sono rimasti nella memoria collettiva grazie alle immagini televisive. Allo stesso modo gran parte delle immagini degli attentati dell’11 settembre 2001 è stata resa disponibile grazie a filmati amatoriali trasmessi attraverso la rete. 1.

Industrializzazione e sviluppo dei mass media

Ancora alla metà dell’Ottocento l’idea stessa di comunicazione, in quanto en­ tità distinta dal generale concetto di trasporto, e quella di media, come strumenti distinti da altri utili allo scambio e allo spostamento, non esisteva neppure nel dibattito intellettuale.

Era tradizione che i flussi dell’informazione seguissero quelli commerciali, poiché i mercanti e gli uomini d’affari che viaggiavano per mare e per terra, assieme alle loro merci, portavano notizie. La stampa stessa si era diffusa in Europa dalla Magonza di Gutenberg seguendo il corso del Reno. Tra il XVI e il XVIII secolo i messaggi su carta seguivano la rotta dell’argento, dalle miniere del Messico e del Perù all’Europa, o quella dello zucche­ ro, dalle piantagioni caraibiche a Londra. La novità, in questo periodo, è costituita dalla consapevolezza crescente del problema delle vie fisiche della comunicazione: i governi cominciavano a preoccuparsi in maniera sempre maggiore dei problemi del sistema viario. Questo interesse, ovviamente, era dovuto in buona parte alla necessità di trasmettere più rapidamente gli ordini dalla capitale alle province, in un’epoca in cui gli stati europei divenivano sempre più centralizzati. Lo storico francese Fernand Braudel, nel suo celebre Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età diFilippo II (1949), descrive l’Impero spagnolo dell’epoca (155698) come «un’impresa colossale di trasporto per mare e per terra», che richiedeva il «dispaccio quotidiano di centinaia di ordini e rapporti». Il grande problema era il tempo che occorreva ai documenti per arrivare alla corte di Filippo, el rey papelero («il re burocrate»), e, inversamente, il tempo richiesto ai suoi ordini per raggiun­ gere i destinatari: i problemi di comunicazione erano enormi in un impero che si estendeva attraverso il Mediterraneo dalla Spagna alla Sicilia, al di là dell’Atlantico dal Messico al Perù e, attraverso il Pacifico, fino alle Filippine. Fu solo attorno al 1840, con l’invenzione e la messa a punto del telegrafo elettrico, che fu possibile spezzare il legame millenario fra il trasporto e la comu­ nicazione dei messaggi. Sino ad allora le notizie si erano mosse alla velocità del messaggero, cioè alla velocità delle gambe dell’uomo e del cavallo o, nel migliore dei casi, a quella della corrente dei fiumi o della locomotiva dei primi treni. Tutti i tentativi di una tra­ smissione istantanea dei messaggi erano inesorabilmente falliti. Il 1844, anno in cui, grazie a 30.000 dollari forniti dal Congresso Usa, Samuel Morse inaugurò un collegamento telegrafico tra Washington e Baltimora, può essere assunto come data di inizio della cultura dei media elettrici: la tipografia cominciò a veder vacillare il suo monopolio nel mondo della comunicazione e ben presto essa stessa sarebbe stata vittima di una profonda trasformazione. Affidandoci alle parole di Marshall McLuhan, celebre teorico delle comunica­ zioni, l’uomo entrò in un «mondo nuovo di zecca fatto di subitaneità», un mondo dove «il tempo è cessato, lo spazio svanito»: il cosiddetto «villaggio globale». Alla fine del XIX secolo un acuto osservatore come il primo ministro inglese Salisbury riconobbe come il telegrafo avesse «raccolto tutta l’umanità su un unico grande piano da cui può vedere tutto ciò che si fa e sentire tutto ciò che viene detto e giudicare ogni politica adottata, nel momento stesso in cui gli avvenimenti hanno luogo». È tuttavia singolare osservare come l’impressionante processo che portò nel decennio a cavallo tra il XIX e il XX secolo alla nascita di nuovi e fondamentali mezzi di comunicazione - dal cinema alla radio, dal grammofono al telefono —non venisse percepito come un fenomeno unitario. Da allora lo sviluppo di questi e altri strumenti di comunicazione è stato, se non lineare, certamente ininterrotto, e l’idea stessa di comunicazione - l’espressione «media» è entrata nel linguaggio comune nel corso degli anni Venti - si è affermata nella sua specificità e autonomia, imponendosi come perno centrale della vita sociale e politica.

Lo sviluppo dei mass media, il ruolo sempre più rilevante da essi rivestito nella vita sociale e politica, le stesse dimensioni quantitative della loro produzione e del loro pubblico, non possono essere colti se non si comprende come, a partire dalla metà dell’Ottocento, gli sviluppi tecnici, economici e industriali abbiano esteso la Rivoluzione industriale anche al campo delle comunicazioni. L’industrializzazione della produzione culturale ha rappresentato però un fenomeno diverso e proba­ bilmente più complesso di quello che si era avviato alla fine del Settecento con la prima Rivoluzione industriale nel campo dei beni materiali. Innanzi tutto accanto a trasformazioni di natura economica e tecnologica questo processo ha comportato innovazioni a carattere più propriamente culturale. Se, da un lato, la produzione cul­ turale ha dovuto adattare le proprie forme alle esigenze della produzione industriale e della distribuzione sul mercato di massa, dall’altro questo ha significato la nascita di forme e generi nuovi, rispondenti alla logica e alle esigenze della produzione in serie. La produzione diventa centralizzata e standardizzata: se ancora non ha a dispo­ sizione la catena di montaggio e il know-how fordista, essa funziona tuttavia non più tanto sulla base della piccola richiesta del mercato, quanto piuttosto sull’offerta del produttore. La merce viene prima prodotta e poi diffusa. Dal punto di vista economico la centralizzazione della produzione genera una riduzione dei costi: la produzione però, non essendo più intrinsecamente legata alla domanda dei sin­ goli, genera un mercato di clienti che è «potenziale». Questo, dal punto di vista sociale, implica una trasformazione del rapporto con le merci: il pubblico diventa di massa, anonimo e indifferenziato. Allo stesso tempo il divaricarsi del rapporto tra venditore, merce e cliente introduce le prime forme di pubblicità moderna. Il contratto fiduciario tra produttore e acquirente non si fonda più sul concetto di verità ma su quello di plausibilità, dalla realtà si slitta lentamente verso l’opinione e il discorso diventa inevitabilmente persuasivo. 2.

La stampa di massa

Il periodo compreso tra gli anni Cinquanta dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale è stato, nel mondo occidentale, l’«età dell’oro» della stampa, sempre più diffusa e non ancora sottoposta alla concorrenza dei nuovi media che sarebbero, di lì a poco, comparsi. La stampa stessa subì però una trasformazione epocale, dovuta a un duplice movimento: da un lato l’innalzamento del livello medio di istruzione e la diminu­ zione dell’analfabetismo stavano permettendo a un pubblico sempre più ampio di interessarsi alla lettura della stampa scritta, dall’altro quest’ultima cominciò a trasformarsi per andare incontro alle esigenze e ai gusti del grande pubblico. In seguito a questi fenomeni, e in particolare alla crescente industrializzazione del settore editoriale e all’espandersi del mercato, cominciò a mutare anche la base finanziaria della stampa. Mentre i giornali del XVII e XVIII secolo si rivolgevano prevalentemente a un pubblico ristretto - ai settori colti e benestanti della popola­ zione - l’industria dei giornali dei due secoli successivi si propose a un pubblico più vasto, abbandonando il tradizionale stile letterario, per adottarne uno giornalistico, più leggero, brillante e vivace. I giornali andavano così strutturandosi come un’impresa economica che vende un prodotto accessibile anche alle classi medie e proletarie e in cui il guadagno non è

più determinato soltanto dal numero delle copie vendute, ma anche dalla pubblicità commerciale (i cui costi sono legati sì alla tiratura del giornale ma anche al profilo specifico del particolare bacino di lettori). I giornali si trasformarono gradualmente in imprese commerciali su vasta scala, per la cui nascita e sopravvivenza - in un panorama caratterizzato da una crescente competizione - erano necessari capitali sempre maggiori. L’impresa familiare dell’editore-proprietario tradizionale lasciava gradualmente il posto a organizzazioni di grandi dimensioni, proprietarie di più periodici e talvolta anche di diversi tipi di media. Gli imprenditori compresero dunque la necessità di ridurre tanto i costi di produzione del giornale quanto il livello intellettuale del prodotto. Negli Stati Uni­ ti, il «New York Sun» e il «New York Herald», editi rispettivamente a partire dal 1833 e dal 1835, erano venduti a un cent soltanto. In Gran Bretagna cominciarono ad affermarsi i giornali a uno («London Evening News», 1855) o a mezzo penny («Evening News», 1881; «Star», 1888). In Inghilterra lo sviluppo della stampa quotidiana fu caratterizzato dalla mitica figura di Alfred Harmsworth, divenuto lord Northcliffe (1905) dopo aver fatto fortuna. Nel 1896 fondò il «Daily Mail», venduto a mezzo penny , che trasformò la fisionomia della stampa popolare introducendo titoli a effetto, una grande varietà dei soggetti trattati, rubriche destinate espressamente al pubblico femminile, ecc. Due anni dopo la sua nascita il giornale stampava 400.000 esemplari, raggiun­ gendo il milione nel 1900. Grazie ai guadagni del «Daily Mail», Northcliffe acquistò un «Times» in pieno declino e, senza mutargli fisionomia, ne abbassò il prezzo da tre pence a un penny, provocando un’impennata spettacolare nelle vendite. Negli Stati Uniti, la guerra di secessione aprì una nuova era, fornendo uno slancio incredibile alla stampa: all’inizio del Novecento si vendevano ogni giorno 24.000.000 di copie, suddivise tra 2.430 titoli. Nel panorama americano si stagliava­ no due grandi figure: Joseph Pulitzer (1847-1931), oggi celebre per i premi letterari e giornalistici a lui intitolati, fondò nel 1895 il «New York World», che raggiunse alla vigilia della Prima guerra mondiale una tiratura di 850.000 esemplari, utilizzan­ do tutte le tecniche della stampa popolare; William Randolph Hearst (1863-1951), celebre anche per aver ispirato il film Quarto potere (Citizen Rane, 1941) di Orson Welles, sempre nel 1895, creò il «New York Journal». In Francia i giornali più diffusi inaugurarono la pratica della pubblicazione dei romanzi a puntate, i cosiddetti «romanzi d’appendice»: «La Presse» pubblicò i romanzi di Balzac, il «Siècle» I tre moschettieri di Dumas, mentre il «Journal des Débats» optò per I misteri di Parigi di Eugène Sue. Una caratteristica fondamentale del «penny paper» comune a tutti i principali paesi occidentali fu quella di contribuire a un radicale cambiamento di linguaggio nella stampa. La grande diffusione, infatti, obbligava gli editori a pensare nuovi modelli comunicativi, fondati sulla consapevolezza che la carta stampata non ave­ va più un modello di lettore impegnato e appartenente a un determinato gruppo sociale. Il lettore-tipo era ora il «lettore di massa», che non era semplicemente un destinatario meno colto rispetto a quello del giornalismo politico del Settecento e dei primi dell’Ottocento, ma era piuttosto un lettore interclassista astratto, forte­ mente interessato al giornalismo narrativo degli eventi, all’informazione rapida concisa come il messaggio telegrafico - e poco sensibile al fascino del giornalismo letterario che aveva a lungo dominato la scena. La struttura redazionale stessa si

dovette adeguare alle nuove funzioni. Con l’invenzione del telegrafo, attorno agli anni Quaranta dell’Ottocento, si trasformò l’intera rete informativa e i giornali diventarono progressivamente i luoghi della produzione finale di scrittura rispetto a una selezione di eventi già avvenuta attraverso le corrispondenze telegrafiche. Di lì a poco la fonte delle informazioni sarebbe diventata un’organizzazione esterna ai giornali stessi. Nel momento in cui, grazie ai progressi tecnici e all’allargamento della curiosità di un pubblico più esteso, il commercio deH’informazione diveniva mondiale, la maggior parte degli organi di stampa non si poteva ancora permettere il mante­ nimento di corrispondenti all’estero, dati gli elevati costi per la sistemazione e la trasmissione delle notizie. Si sviluppò un vero e proprio mercato delle notizie, caratterizzato dalla nascita e dalla proliferazione delle agenzie di stampa, che assunsero in breve tempo un ruolo centrale. Il precursore fu il francese Charles Havas, fondatore, nel 1835, sotto la Monar­ chia di Luglio, dell’omonima agenzia. Inizialmente si trattava di un semplice studio di traduzione della stampa estera al servizio dei diplomatici locali e di una piccola rete di quotidiani, ma ben presto Havas decise di creare una rete di corrispondenti vendendo le loro informazioni. Lo sviluppo dell’agenzia, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, si fondò su due attività principali. Innanzi tutto la borsa: a uno stormo di piccioni viaggiatori era affidata quotidianamente la trasmissione dei dati provenienti dallo Stock Exchange di Londra. Poi la guerra: una serie di conflitti spettacolari permise ad Havas di inviare corrispondenti in Crimea, Italia, Messico, Stati Uniti, ecc. L’imprenditore, lungimirante e astuto, intuì le potenzialità dell’abbinamento tra la funzione di informazione e quella pubblicitaria. Fondò una società specia­ lizzata nel promuovere la pubblicità commerciale nei giornali. Idea rivoluzionaria fu quella di far pagare ai grandi quotidiani le notizie fornite in spazi pubblicitari: questo sistema, vantaggioso per le casse dei magnati della stampa, permetteva ad Havas di rivendere, con ampi margini di guadagno, questo spazio direttamente a industriali e commercianti. Questo binomio reggerà fino al 1940 quando la funzione di informazione (oggi delegata all’Agence France Presse) sarà distinta da quella pubblicitaria (ancora appannaggio della Havas). E singolare notare come in Germania e Inghilterra le maggiori agenzie di stampa furono fondate da vecchi impiegati di Charles Havas. E il caso di Bernard Wolff in Germania (1849) e di Julius Reuter (1851) a Londra, quest’ultimo favorito dal fatto di lavorare in uno dei centri commerciali e finanziari più importanti del mondo, da cui partiva il maggiore circuito internazionale di cavi telegrafici. Date le ingenti spese a carico di ogni agenzia (per la raccolta e la trasmissione delle notizie), fu giocoforza per loro intraprendere accordi per limitare la concor­ renza: si decise così per una rigida divisione del mercato, scambiando le notizie internazionali sui mercati nazionali. Il primo accordo di questo tipo fu firmato tra Havas, Wolff e Reuter nel 1859. Queste tre agenzie europee si assicurarono una sorta di monopolio nei rispettivi paesi, a differenza degli Stati Uniti dove l’Associated Press (nata nel maggio 1848) soffriva di un panorama dominato dal proliferare di piccole e dinamiche agenzie locali. Il 1889 fu un anno fondamentale per la legittimazione dell’informazione in­ ternazionale di massa. In quell’anno si verificarono tre eventi che catalizzarono l’interesse dell’opinione pubblica: la crisi di Fascioda, il caso Dreyfus e lo sbarco

dei marines a Cuba. Per fare scoppiare la guerra nell’isola caraibica, uno degli ultimi possedimenti del moribondo Impero spagnolo alle prese con una r i b e l l i o n e della popolazione locale, la stampa sensazionalistica di William Randolph Hearst lanciò una gigantesca e martellante campagna che scatenò accese manifestazioni di piazza. Le immagini di miseria e di fame, di donne e bambini scheletrici rinchiusi nei reconcentrados (campi di raccolta), in modo da evitare ogni contatto tra loro e gli insorti, vennero sapientemente utilizzate per mobilitare gli animi e l’opinione pubblica mondiale, diventando presto l’alibi per giustificare l’intervento militare americano. Un celebre aneddoto chiarisce perfettamente il potere assunto già sul finire dell’Ottocento dai grandi mezzi di informazione. Hearst aveva inviato a L’Ava­ na un reporter e un celebre disegnatore, Frederic Remington, il quale, dalla capitale cubana, telegrafò al suo datore di lavoro: «Niente da segnalare. Tutto tranquillo. La guerra non ci sarà. Conviene rientrare». Hearst gli rispose immediatamente: «Vi prego di restare. Datemi le immagini, io vi darò la guerra». Alcuni tratti accomunano lo sviluppo della stampa nei paesi occidentali a par­ tire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, primo tra tutti la conquista della libertà, che sarà rimessa in causa solo dai regimi totalitari negli anni Venti e Trenta del Novecento. Se negli Stati Uniti la libertà di stampa era un principio affermato da tempo, in Gran Bretagna essa venne definitivamente assicurata dopo l’abolizione delle tasse e del deposito cauzionale nel 1869. In Germania, dopo la vittoria della Prussia contro la Francia a Sedan e la nascita dellTmpero tedesco, una legge del 1874 unificò il regime della stampa. Nonostante Bismarck continuasse a esercitare una pressione piuttosto forte con il mantenimento di disposizioni estremamente repressive per tutti i casi di «lesa maestà», la cancellazione completa delle censure preventive e l’introduzione, in numerose regioni, di un jury popolare solitamente meno rigido dei magistrati professionisti fecero indubbiamente registrare una prima apertura. In Francia, il 29 luglio 1881, il parlamento approvò una legge che esordiva con parole che segnarono un’epoca: «La stampa è libera». Venivano così rimosse le vecchie restrizioni, compreso l’obbligo per i direttori di giornali di depositare una cauzione come garanzia nei confronti di eventuali multe per diffamazione o reati simili. Questo testo di legge, il più liberale del mondo, veniva adottato nel momento dello stabilizzarsi della Terza repubblica, seguita alla vittoria dei repub­ blicani e al fallimento del progetto conservatore di Mac-Mahon. I padri fondatori della Terza repubblica, ferventi sostenitori dello spirito illuministico e degli ideali rivoluzionari di libertà, uguaglianza e fraternità si erano formati combattendo contro l’autoritarismo del Secondo impero. Fedeli ai principi proclamati nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 26 agosto 1789, essi ritenevano la libertà di stampa un diritto sacro, indispensabile per la formazione civica e politica di un popolo. È il momento in cui in Francia i repubblicani nazionalizzano la propria cultura (istituendo il 14 luglio come festa nazionale e la Marsigliese come inno, facendo rientrare a Parigi il parlamento), legandola intimamente alla scuola, intesa come strumento primario di acculturazione, alla repubblica e alla democrazia. La libertà di stampa era quindi intesa come il solo strumento che, accanto a un’istru­ zione estesa a tutti (è il periodo in cui i maestri elementari erano considerati come «missionari dello stato»), potesse garantire al popolo l’esercizio saggio e ponderato della propria sovranità. Emblematiche sono al riguardo le parole del relatore della legge al senato, Eugène Pelletan:

La stampa a buon mercato è una tacita promessa della repubblica a suffragio universale. La stampa, la parola presente ovunque ed alla stessa ora grazie al vapore ed all’elettricità, è la sola cosa che possa tenere la Francia intera unita come su una pubblica piazza, e che possa, giorno per giorno e persona per persona, rendere ognuno partecipe di tutti gli avvenimenti ed informato di tutte le questioni.

Questi propositi, che rimandano al passato e alla speranza dei rivoluzionari di ricostruire attraverso la stampa un nuovo foro o una moderna agorà, costituiscono, al tempo stesso, il preludio all’era della radio e della televisione. In tutti i paesi occidentali alle soglie del XX secolo la stampa si era affermata come una forza autonoma aH’interno della società: essa, stando alla definizione coniata dallo storico Thomas Macaulay, costituiva ormai un «quarto potere» con il quale la politica doveva fare i conti. L’esercizio della libertà di stampa e del suffragio universale, ponendo in maniera piuttosto sentita la questione della manipolazione delle folle, contribuì a focalizzare l’attenzione degli intellettuali sui comportamenti e sulle reazioni delle masse. 3.

La Prima guerra mondiale: tra censura e propaganda

Al termine della Grande guerra si disse che la verità era stata «la prima vittima». Il conflitto conferì alla propaganda e ai mass media - alla stampa in particolare una prima dignità. La pace li consacrò come strumento di governo. A dominare, anche nelle democrazie dove era assicurata la completa libertà di stampa, fu lo scontro durissimo tra ragion di stato (incaricata di far sopravvivere la nazione, mantenendone alto il morale) e diritto alla verità. Il dibattito morale e civico che aveva diviso la Francia relativamente all’affaire Dreyfus si moltiplicò, estendendosi a tutti i paesi impegnati nei combattimenti. L’atteggiamento dei governi deve però essere osservato operando una distinzione tra l’azione «negativa» dello stato - la censura - che si proteggeva dalle scomode realtà raccontate dai giornali e l’azione «positiva» - la propaganda - messa in campo dai governi per conquistare i cuori e le menti, all’interno e all’esterno dei confini nazionali. L’azione di censura non si limitò a colpire la stampa, ma qualsiasi forma di comunicazione suscettibile di incrinare il morale delle masse. In diversi paesi - tra i quali l’Italia - allo scopo di ergere una difesa contro le armi, talora persino involontarie, della comunicazione fu instaurata una serie di uffici di censura che vistavano preventivamente non solo la posta, ma persino le fotografie inviate dal fronte. I paesi anglosassoni dimostrarono di essere i più liberali. Gli Stati Uniti, entrati in guerra solo nel 1917, misero in piedi una censura tardiva e limitata, attraverso un controllo dei cavi telegrafici e della circolazione delle notizie, che venivano filtrate prima di arrivare ai giornali. In realtà la parte­ cipazione degli Stati Uniti alla guerra è stata troppo tardiva perché il problema si ponesse davvero. In Gran Bretagna, dove la tradizione di libertà era la più antica e la più forte, i giornalisti pensarono con lo scoppio delle ostilità che, come nel caso della guerra dei boeri a inizio secolo, i poteri pubblici non avrebbero imposto alcuna misura restritti­ va, affidandosi al patriottismo dei redattori. Il governo britannico però, data l’elevata posta in gioco, mise ben presto in campo una timida forma di censura. Lo fece però

in maniera piuttosto virtuale fino a quando, per accordi successivi, si elaborò una sorta di compromesso tra il governo e la grande stampa, che permise all’Inghilterra di restare l’unico paese in cui non fosse presente un controllo preventivo sui giornali. A differenza della censura, la propaganda implica invece un’azione «positiva» e «creatrice», che ebbe nella stampa la sua arma principale, ma che si avvalse an­ che di media nuovi e molto spesso elementari, quali il volantino. In Francia, ad esempio, nell’agosto 1915 venne creato un servizio di propaganda aerea, idea che venne ripresa alla fine della guerra in Gran Bretagna da lord Northcliffe. Fu così che nel corso dell’ultima estate di combattimenti l’aviazione britannica scaricò oltre le linee nemiche centinaia di migliaia di volantini al giorno. I testi dei messaggi erano i più vari, ma avevano un denominatore comune: quello di fiaccare lo spirito combattivo del nemico, invogliandolo ad abbandonare le armi. Altro strumento di comunicazione apparso durante la guerra furono i cinegior­ nali, a lungo guardati con grande diffidenza tanto dalle autorità politiche quanto dai vertici militari. In Francia, ad esempio, il «servizio cinematografico» impiegò migliaia di collaboratori per la realizzazione di cinegiornali settimanali che veniva­ no proiettati in tutte le sale del paese prima di ogni film. Nonostante le diffidenze iniziali il governo si interessò ben presto a questa nuova forma di comunicazione, controllandola piuttosto rigidamente (impedendo, ad esempio, che comparissero cadaveri sullo schermo). Un’altra novità che accomunò i paesi coinvolti nel conflitto fu l’utilizzo delle nuove tecniche della propaganda commerciale per fini politici di persuasione. Molte nazioni, ad esempio, si servirono di manifesti sia per lanciare i prestiti nazionali sia per invitare i giovani all’arruolamento volontario. Alcuni di questi, come quello americano dello «zio Sam» con il celebre indice puntato verso lo spettatore, sono rimasti nella storia. Se queste innovazioni non devono far dimenticare come la stampa sia rima­ sta, per tutta la durata del conflitto, l’arma propagandistica principale, la varietà degli strumenti e l’intensità del loro utilizzo fanno della Prima guerra mondiale il primo evento che abbia riconosciuto e, di conseguenza, utilizzato la potenza delle comunicazioni di massa. Primo conflitto «totale», la Grande guerra fece della «mobilitazione delle coscienze» secondo alcuni, del «bombardamento dei cervel­ li» secondo altri, una priorità assoluta. Si deve poi considerare l’effetto perverso della censura, delle illusioni collettive, dei disordinati sforzi propagandistici. La popolazione, priva di notizie certe, cercava continuamente nuovi modi per reperire informazioni attendibili, non fidandosi più della stampa ufficiale. Prima il dubbio, poi un solido scetticismo si impadronirono dei lettori. Sicuramente questi sforzi propagandistici incessanti, questa sorta di «lavaggio del cervello» collettivo, con­ tribuirono a rafforzare il morale nelle retrovie, ma con il proseguire della guerra il sistema si usurò rapidamente, cominciando a mostrare falle sempre più ampie. Nel complesso il prezzo pagato dalla stampa e dagli ambienti intellettuali fu molto alto in quasi tutti i paesi impegnati nel conflitto. Dopo il 1919 in nazioni come la Francia e la Germania, dove la propaganda era stata più marcata che altrove, dove il «lavaggio del cervello» era stato più spudorato, la carta stampata non fu più in grado di riconquistare il prestigio di cui aveva goduto prima del 1914. Aveva dila­ pidato un credito di fiducia che non avrebbe più ritrovato. Fu in queste condizioni di incertezza che la stampa si trovò ad affrontare la sfida lanciatale da un temibile quanto inaspettato rivale: la radiodiffusione.

4.

La rivoluzione della radio

Il primo mezzo di trasmissione a distanza dei suoni è stato il telefono, il cui (contestato) brevetto fu ottenuto da Alexander Bell nel 1876. Negli anni successivi altri scienziati introdussero importanti perfezionamenti: Thomas Edison elaborò il primo microfono moderno, l’americano Almon Strowger ideò i primi apparecchi di commutazione che permisero a ogni telefono di una rete di raggiungere tutti gli altri. Agli inizi del Novecento al telefono si affiancò la radio. Nata dalle idee e dagli sforzi di molti scienziati, ma resa effettivamente operante solo nel 1895 grazie all’esperimento decisivo di Guglielmo Marconi, la radio nacque come sistema di telegrafia senza fili che inviava messaggi in codice Morse nell’etere, attraverso onde elettromagnetiche. Fu solo qualche anno dopo, grazie alle ricerche deU’americano Reginald Fessenden, che la radio si trasformò in uno strumento di trasmissione del suono. Il primo collegamento per la voce umana venne realizzato nel 1908 dalla Tour Eiffel e raggiunse Villejuif, piccola cittadina ad appena quindici chilometri da Parigi. Furono i militari a servirsi per primi di questa invenzione, sfruttandola in particolare per collegamenti con le navi in mare. Questo contribuì in maniera deter­ minante, tra l’altro, alla sopravvivenza della Tour Eiffel che, creata per l’esposizione universale del 1889, avrebbe dovuto essere demolita nel 1905. Rappresentando però la migliore antenna possibile, venne utilizzata per molti anni dall’esercito come trasmettitore. Fu solo al termine della Prima guerra mondiale, quando gli stati accettarono di privarsi dell’esclusiva di uno strumento che durante il conflitto era stato essenzial­ mente militare, che il mezzo radiofonico potè decollare. Si creò allora un pubblico di appassionati, inizialmente piuttosto ridotto, che si costruiva da sé il proprio ricevitore a galena e che rappresentò il primo bacino di potenziali utenti del nuovo mezzo. L’evoluzione della radio è in pratica debitrice di uno strano paradosso per il quale il contenitore ha preceduto il contenuto: si è giocato con i tubi senza sapere cosa farvi passare dentro. Solo in un secondo tempo i costruttori di apparecchi radiofonici compresero che per rendere più appetibile il loro prodotto avrebbero dovuto sviluppare apposite emittenti. La diffusione circolare e le onde hertziane, che si propagano nell’etere senza restrizioni e sono captabili da chiunque disponga dell’attrezzatura adatta, diffe­ renziarono la radio da tutti gli altri media esistenti. Il telegrafo e il telefono esclu­ devano dallo scambio punti diversi dai due collegati, i contenuti restavano privati e la loro circolazione era personalizzata. Con la radio, per la prima volta, una rete di comunicazione non era adibita a stabilire uno scambio paritario ed esclusivo tra due soggetti, ma a generalizzare su un ampio numero di utenti un flusso erogato dal centro: da questo punto di vista la radio agiva esattamente come i distributori di copie. Rispetto a essi, però, mostrava di avere tre vantaggi cruciali: operava in tempo reale, permettendo al messaggio di essere ricevuto nel momento stesso in cui veniva trasmesso; raggiungeva facilmente un pubblico ampio, indefinito e disperso; i contenuti erano trasmessi senza interruzioni o intermittenze, in modo continuo. Per la prima volta nella storia un mezzo di comunicazione permetteva la creazione di una grande «platea» che reagiva all’unisono allo stesso messaggio, pur essendo fisicamente sparsa in migliaia di luoghi differenti. La risposta del pubblico nei confronti di questo nuovo mezzo di comunica­ zione fu, a dir poco, clamorosa. La radio suscitò un’enorme emozione quando si

comprese che permetteva di superare un limite che era sempre parso invalicabile: grazie a essa si sarebbe potuto partecipare a eventi distanti - sia di intrattenimento sia di attualità - proprio durante il loro svolgimento. Con la radio la casa venne proiettata in luoghi in cui si compivano fatti importanti, dove si vivevano le espe­ rienze più significative. La vita domestica non era più isolata dalla storia, vi entrava direttamente, come orecchio partecipe. Se nel 1923 gli apparecchi in funzione negli Stati Uniti erano appena 400.000 (1,5% delle famiglie), nel 1929 erano ben 10.200.000 (30% delle famiglie). Alla fine degli anni Trenta la diffusione di apparecchi radiofonici (27.500.000) raggiungeva la quasi totalità delle famiglie americane. Anche in Europa l’espansione della radio fu rapida: prima che gli anni Venti si concludessero, a meno di un decennio dal suo esordio incerto e improvvisato, la radio appariva già un settore industriale solido, strutturato e in espansione. Questo sviluppo si costituì attorno a due modelli, quello americano e quello britannico, che differivano tanto per le forme organizzative quanto per i canali di finanziamento. Il sistema radiofonico americano, fondato sulla «libertà di antenna», si finanziava esclusivamente attraverso la pubblicità, e la costituzione di compa­ gnie radiofoniche era libera, in mano al mercato. Il sistema britannico, invece, non contemplava la pubblicità ma solo programmi, ed era finanziato, come una rivista, dagli abbonamenti del pubblico. Questo era possibile anche perché la Bbc operò da subito in regime di monopolio: pur essendo un’azienda privata essa si comportava come «delegato» dello stato, unico e incontrastato proprietario delle onde dell’etere e, di conseguenza, unico in grado di imporre ai proprietari di ap­ parecchi il pagamento del canone di abbonamento. Se questi sistemi costituivano dei modelli, essi rappresentavano anche i due estremi: la maggior parte dei sistemi radiofonici creati in Europa tra gli anni Venti e la Seconda guerra mondiale mostrò infatti di avere caratteristiche «miste» rispetto a quelli americano e britannico. È il caso della Francia, dove si svilupparono parallelamente un apparato radiofonico pubblico titolare del diritto a un canone e una galassia di piccole e grandi radio private, a carattere locale, interamente finanziate dalla pubblicità. Anche il sistema italiano, sebbene profondamente diverso da quello transalpino, può essere definito come «misto»: fin dal 1924, infatti, il regime fascista impose l’unificazione delle diverse compagnie in un’unica società concessionaria, l’Uri poi Eiar, della quale lo stato era socio di maggioranza. Seguendo un modello simile a quello della Germania nazista, in Italia fu istituito un canone sugli apparecchi ma, a differenza della Gran Bretagna, l’Uri scelse fin dal 1926 di autorizzare la pubblicità commerciale (strettamente sorvegliata dal potere mussoliniano), affiancando così alla fonte di finanziamento tipicamente «pubblica», il canone, quella propriamente «privata», la pubblicità. Nel corso degli anni Trenta la radio diventò un mezzo «di massa»: alle soglie della Seconda guerra mondiale gli apparecchi presenti nelle case americane erano quasi 28 milioni, in Germania 10, in Francia 5, mentre nell’Italia fascista poco più di un milione. Il potere politico si rese rapidamente conto delle straordinarie opportunità offerte da questo mezzo. Il primo uomo politico a essersi rivolto alla nazione at­ traverso la radio con una certa regolarità fu il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, con i suoi celebri «discorsi al caminetto», attraverso i quali si propose di far «entrare il governo nella sala da pranzo di tutti i cittadini». La

famiglia raccolta attorno alla radio per ascoltare la voce del leader costituisce si­ curamente Fimmagine simbolicamente più efficace del nuovo rapporto che, nella società di massa, si immaginò potesse stabilirsi tra i cittadini e lo stato: una nazione sintonizzata era un’entità unitaria, una vera comunità, nonostante le distanze fisiche, le differenze sociali o le diverse appartenenze politiche. Immagini simili hanno contribuito a radicare nella memoria collettiva e nella storiografia l’idea che la radio sia stata, in quell’epoca, quasi esclusivamente un mezzo di propaganda. In realtà, nelle democrazie liberali i sistemi radiofonici non erano così facili da piegare ai voleri del potere politico, come testimonia il ritardo con cui molte nazioni cominciarono a rispondere alle campagne propagandistiche dei regimi totalitari, in primis di quello nazista. La radio in molti paesi era vista come un possibile incentivo alla «democrazia», come uno strumento che avrebbe favorito il senso di partecipazione politica del cittadino. Secondo Herbert Hoover la radio consentiva di fare degli americani «fisicamente, letteralmente, un popolo solo in tutte le occasioni di interesse pubblico». Gli stessi «discorsi al caminetto» di Roosevelt, presentati come una «forma di pedagogia collettiva», non devono far dimenticare la contemporanea presenza di una stampa e di decine di stazioni radiofoniche decisamente ostili al presidente né, soprattutto, le centinaia di stazioni che riducevano al minimo le trasmissioni a contenuto politico, preferendo dedicarsi al più proficuo intreccio di intrattenimento e pubblicità. «Informare, intrattenere ed educare» era la missione definita dallo statuto regio della Bbc, che in Gran Bretagna era considerata da tutti un’istituzione. Lo aveva detto già nel 1926 l’arcivescovo di Canterbury e pochi anni dopo la Bbc sarebbe sta­ ta paragonata alla chiesa d’Inghilterra. Direttore generale era il celebre John Reith, ingegnere scozzese che viveva il suo incarico come una vera e propria missione: per lui utilizzare il broadcasting solo per intrattenere sarebbe equivalso a «prostituirlo». Non desiderava offrire alla gente soltanto «ciò che essa voleva» (un celebre motto di Churchill vedeva gli inglesi interessati soltanto «al proprio stipendio e al calcio») ma vedeva nella Bbc lo strumento per «portare nel maggior numero possibile di case [...] tutto il meglio della conoscenza, degli sforzi e delle realizzazioni umane, in ogni campo». Lo strumento che permetteva a Reith di portare avanti la propria missione era il monopolio, che consentiva di sottrarre lo strumento radiofonico alla pura legge del mercato e ai diktat della pubblicità, evitandogli di basare la propria politica esclusivamente sugli indici di ascolto. Allo stesso tempo, però, la Bbc si proteggeva molto bene dalle ingerenze della maggioranza politica di turno, affer­ mando così una dignità e una popolarità che avrebbe raggiunto l’apice negli anni bui del secondo conflitto mondiale. L’evento cruciale che ne sancì l’indipendenza dal potere politico fu lo sciopero generale che dal 3 al 12 maggio 1926 paralizzò tutti i media britannici, creando un vuoto assoluto nell’informazione. Il cancelliere dello scacchiere e futuro premier Winston Churchill, nel tentativo di utilizzare la radio contro gli scioperanti, si dovette scontrare con la ferma opposizione del direttore generale della Bbc. Fu Reith, al termine di un duro braccio di ferro, a spuntarla: il primo ministro Stanley Baldwin prese pubblicamente le sue difese e fu costretto a sconfessare Churchill. Il paese in cui la funzione propagandistica della radio si sviluppò in modo più accurato e con maggiore successo fu, naturalmente, la Germania nazista dove il ministro della Propaganda, Joseph Goebbels, si occupò personalmente del mezzo. Eliminata nell’arco di pochi mesi la vecchia dirigenza, Goebbels, intento in maniera

ossessiva e isterica a celebrare il regime e il consenso di cui esso godeva nelle masse, diede vita a uno stile nuovo, aggressivo e violento. In Italia Mussolini si servì abbondantemente della radio, con una cronaca fa­ scista trasmessa tre volte alla settimana e con una riproduzione integrale dei suoi interminabili discorsi. Nell’Italia fascista si realizzò una sorta di complementarietà tra diversi media. Il regime adottò tecniche piuttosto sottili per quel che riguarda il cinema, del quale si serviva per presentare l’immagine di un’Italia del consenso, pacificata, dalla quale era scomparso ogni conflitto sociale, senza tuttavia utilizzare il grande schermo per celebrare direttamente la politica estera fascista. Al contrario, la radio era il mezzo di sostegno più diretto e immediato del regime: Mussolini se ne serviva infatti per celebrare senza sosta il proprio personaggio e le ambizioni «imperiali» del regime. La radio era uno strumento utile per intense e massicce campagne di propagan­ da interna, ma consentiva allo stesso tempo - grazie alle onde corte - di valicare facilmente i confini nazionali. La prima nazione che si distinse nella realizzazione di strategie internazionaliste fu l’Unione Sovietica. Lenin aveva mostrato di aver compreso in modo magistrale l’importanza del controllo dei mezzi di informazione quando, nel 1917, appena un mese dopo la rivoluzione, aveva affermato: Solo il governo dei soviet può lottare con successo contro un’ingiustizia clamorosa come il fatto che i capitalisti, grazie ai milioni rubati al popolo, sono padroni delle più importanti tipografie e della maggioranza dei giornali. I giornali controrivoluzionari borghesi [...] devono essere soppressi, le loro tipografie confiscate, la pubblicità privata monopolizzata dallo stato e riservata ad un giornale governativo pubblicato dai soviet e che dica la verità ai contadini. E questo il solo mezzo per strappare alla borghesia l’arma potente della stampa, di cui essa si serve per mentire e per calunniare impunemente, per ingannare il popolo, per indurre i contadini in errore e per preparare la controrivoluzione.

La radio consentiva di superare le frontiere, e fedele alla strategia di «esporta­ zione della rivoluzione» formulata nel 1921 nel corso del III congresso dell’Inter­ nazionale comunista, il governo sovietico, a partire dal 1929, diede il via a regolari trasmissioni in tedesco e in francese e, a partire dall’anno seguente, anche in inglese e in olandese. Una struttura centrale mondiale come il Comintern consentì di gettare le basi per una prima rete di «comunicazione internazionale», all’interno della quale i «partiti fratelli» costituivano i punti di appoggio e di collegamento, in costante contatto con l’agenzia di stampa sovietica Tass. A partire dal 1931 anche la chiesa cattolica si dotò di un mezzo di comunicazione poliglotta come Radio Vaticana per raggiungere vari paesi del mondo, ma fu soprattutto a partire dalla Germania degli anni Trenta che l’internazionalizzazione della radio prese lo slancio definitivo. Ispirandosi al Mein Kampf àx Hitler, il regime nazista elaborò il concetto di «guerra psicologica», applicandolo alla propria politica estera. Nel 1933 venne inaugurata la stazione radio a onde corte di Zeesen, vicino a Berlino, le cui trasmissioni erano destinate sia alle numerose comunità tedesche presenti all’estero sia, ben presto, a tutte le nazioni straniere. Durante i giochi olimpici di Berlino (1936), che avrebbero dovuto testimoniare al mondo la superiorità della razza ariana, la radio tedesca trasmise in diretta in ventotto lingue verso tutti i principali paesi del mondo, Stati Uniti compresi.

Il primo a opporsi alle trasmissioni provenienti da Berlino fu il coriaceo can­ celliere austriaco Engelbert Dollfuss che nel febbraio 1934, poco prima di essere assassinato dai nazisti (luglio 1934), decretò il disturbo delle frequenze radiofoniche utilizzate dai tedeschi, dando il via alla prima interferenza politica nella storia della radio. Cercò poi di contrattaccare, creando un potente trasmettitore attraverso il quale cominciò a denunciare anche all’estero l’imperialismo aggressivo della Ger­ mania nazista. Questa «battaglia delle onde» - la prima nella storia internazionale -, se da un lato vide fallire ogni mediazione della Società delle Nazioni volta a fissare «patti di non aggressione radiofonica», rese però coscienti gli esitanti governi oc­ cidentali della necessità di preparare una controffensiva. Domenica 30 ottobre 1938, ore otto in punto di sera. Orson Welles, all’epoca ventitreenne, scrive, dirige e interpreta per la Cbs, nella serie Mercury Theatre of thè Air, il celebre dramma La guerra dei mondi, tratto dall’omonimo romanzo di H.G. Wells che immagina l’arrivo di marziani negli Stati Uniti. Il radiodramma giocava su un colossale equivoco: la trasmissione sembrava un classico programma musicale intervallato da notiziari, ma i notiziari erano inventati e raccontavano in modo parossistico di un fantomatico sbarco di extraterrestri che stavano attaccan­ do la costa orientale degli Stati Uniti. Quando Welles diede la parola a un finto ministro degli Interni che pregò il pubblico di non lasciarsi prendere dal panico invitandolo - persa ogni speranza - ad abbandonarsi alla preghiera, il panico esplose incontrollato. Lunghe file di auto abbandonarono New York, negozi furono saccheggiati e si verificarono violenze di ogni genere. Quello di Welles è stato definito da alcuni studiosi «il reportage del secolo» che «contribuì alla comprensione dell’hitlerismo, del mussolinismo, dello stalinismo e di tutti gli altri terrorismi della nostra epoca più di tutte le parole scritte in proposito da uomini di buon senso». Welles dimostrò in modo spettacolare la (onni)potenza dei mass media ma, allo stesso tempo, ne evidenziò un aspetto particolare. La comunicazione di massa funzionava ormai per generi ed era il genere a garantire la veridicità del messaggio. Qualsiasi cosa «sembrasse» informazione «era» informazione e, di conseguenza, era ritenuta vera. Ciò che invece «sembrava» spettacolo «era» spettacolo e non poneva di fronte al problema di verificarne l’autenticità. Se ogni genere era dotato di un linguaggio specifico e piuttosto codificato la trasmissione di Welles mise però in chiaro come i confini tra «informazione» e «in­ trattenimento» fossero sempre meno definiti. La radio e la televisione impareranno ad applicare, da allora, il principio della spettacolarità dell’informazione, facendo leva su una delle loro principali caratteristiche - la contemporaneità con cui l’evento si trasforma in notizia - che consente al pubblico di non dover più attendere i tempi lunghi della stampa. La funzione informativa andò progressivamente affidandosi ai mezzi elettrici ed elettronici, mentre ai giornali, che cominciarono proprio in questo periodo a subire i primi contraccolpi con notevoli diminuzioni di tirature e vendite, veniva delegata ormai la funzione di interpretare e commentare i fatti. La grande stampa quotidiana, insomma, cominciò un cammino a ritroso che pareva riportarla al giornalismo d’opinione del secolo precedente. La via era oltretutto senza ritorno: nel 1940, un anno dopo l’inizio della guerra in Europa, un’inchiesta della giovanissima Gallup stabilì che la radio veniva considerata dagli americani fonte di notizie certe di gran lunga superiore a quella dei giornali. Le inchieste successive avrebbero confermato questo risultato sorprendente.

5.

La Seconda guerra mondiale e la «voce della libertà»

Il peso della propaganda sulle sorti del primo conflitto mondiale, riconosciuto da entrambi gli schieramenti, aveva conferito ai media di massa una reputazione di onnipotenza. Fin dagli anni Venti il dibattito intellettuale si era interrogato sul ruolo crescente svolto dai mass media nella formazione dell’opinione pubblica. Nel 1922, l’americano Walter Lippmann (1889-1974) pubblicò il celebre L’o­ pinione pubblica: in quest’opera l’autore sviluppava una prima teoria dell’opinione pubblica e dei suoi rapporti con la pace internazionale, a partire dal comportamento tenuto dai media durante la Grande guerra e nell’immediato dopoguerra. Dalla sua esperienza di capitano impegnato nella propaganda bellica e di consigliere della delegazione statunitense alla conferenza di pace, Lippmann trasse una prima riflessione sulla natura dell’informazione e sulle distorsioni che impedivano ai governi e ai popoli di capirsi. L’autore aveva già sperimentato la sua teoria in una lunga analisi pubblicata nel 1920 in un supplemento del «New Republic» assieme al collega Charles Merz sul modo in cui il «New York Times» aveva costruito, tra il 1917 e il 1920, l’immagine del «pericolo rosso». In questo articolo-rapporto i due autori avevano denunciato la sistematica campagna di disinformazione destinata al pubblico americano fondata sugli stereotipi utilizzati dal Dipartimento di giustizia e dall’Fbi per lanciare la prima caccia alle streghe contro gli «agenti e i cospiratori pagati da Mosca». Tale campagna sarebbe culminata nel 1927 con l’esecuzione degli immigrati e anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, simbolo di un errore giudiziario favorito dalla pressione di un’opinione pubblica surriscaldata. Proprio in quell’anno il politologo americano Harold Lasswell pubblicò un libro fondamentale nel campo della sociologia dei media, Propaganda Techniques in thè World War, che presentò la propaganda con un’aura di onnipotente efficacia. Nel 1928, il grande drammaturgo Bertolt Brecht pubblicò alcuni scritti sulla radio, denunciando il sistema di riproduzione sociale che essa aveva inaugurato. Secondo Brecht il paradosso della radio consisteva nel fatto che essa non veniva utilizzata per canalizzare le domande che l’opinione pubblica rivolgeva al potere, quanto piuttosto per dar voce alle risposte di questo a domande che nessuno aveva formulato. Negli anni Trenta e Quaranta sarà poi la celebre scuola di Francoforte a denunciare i pericoli di un utilizzo totalitario dei nuovi mezzi di comunicazione, come la radio e il cinema, in quanto organizzatori di consenso ai regimi dominanti. Alle soglie della Seconda guerra mondiale (quando il socialista tedesco Sergej Ciacotin pubblica e si vede subito censurare dal regime nazista Le viol des foules par la propagande politique, tradotto in Italia negli anni Sessanta con il titolo Tecnica della propaganda politica) il clima intellettuale, filosofico e politico aveva preparato l’opinione pubblica all’idea che la radiodiffusione avrebbe potuto essere l’arma decisiva per le sorti dell’imminente conflitto e che, in ogni caso, se utilizzata a dovere, essa avrebbe contato più di intere divisioni corazzate. Due anni dopo il reportage di Welles, la maggior parte delle stazioni radiofo­ niche europee era in mano ai nazisti e la domanda di notizie «vere» era più sentita che mai. Nel fornirle, la radio, grazie alla sua capacità di prendersi gioco delle frontiere, aveva un chiaro vantaggio sui giornali ed era fonte di libertà «privata» per popolazioni oppresse dall’occupante nazista. Fu così che la Bbc, una volta abbandonata la politica dell’appeasement, incarnò per tutto il conflitto la «voce della libertà» che teneva duro, nonostante tutto.

Se ancora nel marzo 1940 il «Daily Mail» aveva potuto scrivere: «Sul campo di battaglia decisivo della propaganda, la Gran Bretagna ha subito una disfatta decisiva. Le radio tedesche non influenzano solo le popolazioni civili, ma anche le forze armate», la spinta dell’opinione pubblica e l’attacco tedesco del 10 maggio 1940 trasformarono la situazione. Churchill, che ai Comuni aveva promesso «la­ crime e sangue» in attesa della vittoria finale, comprese immediatamente l’utilità di accogliere ai microfoni della Bbc giornalisti stranieri e rappresentanti dei governi in esilio a Londra. Il 18 giugno 1940, pochi giorni dopo che anche la Francia ave­ va accettato l’armistizio imposto dall’occupante nazista, fu proprio dalla Bbc che un quasi sconosciuto ufficiale francese, Charles de Gaulle, fuggito a Londra per organizzare le file della resistenza, invitò i francesi a continuare la guerra contro la Germania. La radio diventava per la prima volta arma di guerra e di resistenza: in tutti i paesi occupati le formazioni partigiane fecero della radio lo strumento operativo principale per il coordinamento delle operazioni. La Bbc cominciò ben presto a trasmettere in quarantacinque lingue verso tantissimi paesi - molti dei quali occupati dai nazisti -, e lo fece scegliendo fin da subito un principio, quello della verità, cui restò fedele anche nei momenti più difficili. Fu questo coraggio che, anche nei giorni più bui, assicurò alla Bbc un ascolto eccezionale in tutta l’Europa occupata, oltre che un credito di fiducia di cui avrebbe goduto per decenni. Tra il 1939 e il 1945 si combattè anche con le parole e il microfono rappresentò un’arma potente tanto nei paesi democratici quanto nei regimi totalitari. Nei due paesi che sarebbero usciti come superpotenze dal conflitto però si sarebbe dovuto attendere il 1941, e l’inizio delle operazioni militari, per fare della radio uno strumen­ to di guerra. Nell’Unione Sovietica in lotta contro l’occupante nazista, se la stampa «rivaleggiava come arma da guerra con le mitragliatrici e l’artiglieria» e i poeti e i romanzieri erano mobilitati per la causa, anche la radio cominciò a giocare un ruolo importante. Nel suo primo discorso radiofonico, il 3 luglio 1941, Stalin si rivolse alla nazione usando le parole «fratelli e sorelle»: alcune settimane dopo la lettura di lettere dal fronte di uomini e donne diventava una delle maggiori attrazioni della radio e un vero e proprio mezzo per unire la nazione in momenti difficili. Negli Stati Uniti fu solo dopo l’attacco a sorpresa dei giapponesi a Pearl Harbor (7 dicembre 1941) che si cominciò a rispondere alla propaganda delle for­ ze dell’Asse. Dal febbraio 1942, gli Stati Uniti, tramite il neocostituito Ufficio deH’informazione di guerra, cominciarono a trasmettere verso l’Europa: era la Voice of America. Se questa non raggiunse mai sul vecchio continente un’influenza paragonabile a quella della Bbc, a partire dallo sbarco in Normandia gli europei anglofoni cominciarono ad apprezzare soprattutto la radio delle truppe americane, l’«American Forces Network», le cui trasmissioni erano precedute dalla celebre sigla Moonlight Serenade. Più distintamente si riusciva a sentire la canzone suonata dall’orchestra di Glenn Miller, più si gioiva per 1’awicinarsi delle truppe americane e per la prossima fine di tante sofferenze. 6.

La televisione e la «spettacolarizzazione» della politica

A partire dalla metà degli anni Venti furono fatti molti esperimenti per superare quello che appariva il principale limite della radio: l’assenza di immagini in movi­

mento. Il mondo aveva ormai da decenni sperimentato la produzione tecnica delle immagini: prima la fotografia, poi il cinema avevano offerto al grande pubblico la possibilità di ammirarle. Nella seconda metà degli anni Trenta in vari paesi si era già pronti per la televisione, ma la crescente tensione internazionale che avrebbe condotto alla guerra impedì tanto gli investimenti necessari per la produzione degli apparecchi quanto le condizioni sociali di fondo che potevano facilitare lo sviluppo e la diffusione della televisione. Queste condizioni si verificarono invece dopo la guerra: dal 1947 al 1954 la te­ levisione conquistò oltre metà delle abitazioni americane, mentre nei paesi dell’Eu­ ropa occidentale (in Italia la Rai inaugurò le trasmissioni nel 1954) si impose nella maggioranza delle case entro la metà degli anni Sessanta, quasi fosse considerata la continuazione più ovvia e logica della radio e il coronamento necessario di una tendenza pluridecennale volta a trasferire all’interno delle abitazioni tutte le forme di comunicazione che prima avvenivano in luoghi separati. La televisione si sviluppò con un ritmo impressionante: negli Stati Uniti gli apparecchi in una decina d’anni passarono da 1 a 50.000.000; in Inghilterra, primo paese europeo a riprendere la programmazione (il 7 giugno 1946, con lo stesso car­ tone animato di Topolino con cui si erano interrotte le trasmissioni all’inizio della guerra), il balzo fu ugualmente significativo: da circa 120.000 apparecchi a 9.000.000. La televisione mantenne quasi ovunque una forte continuità organizzativa con la radio: negli Usa gli stessi tre principali network che avevano coordinato le emissioni radiofoniche nazionali diventarono immediatamente «network televisivi», adattando strutture organizzative, sistemi di raccolta pubblicitaria e programma­ zioni al nuovo mezzo. In Europa gli enti radiofonici pubblici si trasformarono in enti radiotelevisivi mantenendo pressoché inalterata la loro natura giuridica e la loro organizzazio­ ne. Anche sul piano del linguaggio tra la radio e la televisione vi fu a lungo una sostanziale continuità: i generi di maggiore ascolto dei primi anni, dal quiz ai con­ corsi canori, dal varietà al teatro leggero, furono gli stessi che si erano consolidati nell’esperienza radiofonica dei decenni precedenti. Come era già successo per la radio, due furono i modelli di sviluppo principali: il primo - a cui si ispirarono gli Stati Uniti, il Giappone e molti paesi deH’America Latina - vide il sistema articolarsi in stazioni locali private, collegate tra loro in reti generalmente controllate da grandi gruppi finanziari e industriali e alimentate dalla pubblicità; il secondo - che si sviluppò prevalentemente in Europa - si ba­ sava su reti nazionali di proprietà pubblica o semipubblica, finanziate attraverso gli abbonamenti, i contributi statali e la pubblicità. I due modelli si svilupparono seguendo logiche del tutto diverse: da una parte il processo produttivo era con­ trollato dall’alto, dall’altra, applicando le tecniche del management e del marketing più avanzato, tutta la produzione veniva pianificata e serializzata. Nata come una sorta di appendice della radio, la televisione ha rapidamente ribaltato il rapporto di sudditanza, affermandosi come principale medium di massa in tutti i paesi sviluppati e radicandosi allo stesso tempo come importante strumento politico e sociale. Se i limiti del potere politico della stampa furono rivelati nel 1945, quando no­ nostante le indicazioni del «Daily Mail» e del «Daily Express» Winston Churchill il leader che aveva guidato alla vittoria la Gran Bretagna nella Seconda guerra mon­ diale - fu pesantemente sconfitto dai laburisti di Clement Attlee in occasione delle

elezioni politiche, la televisione apparve a molti come uno strumento onnipotente. Chi se ne fosse assicurato il controllo avrebbe goduto di un potere assoluto: grazie alla televisione i politici hanno sognato di raggiungere quella sorta di personaggio mitico che è l’elettore indeciso, chiuso tra le mura di casa e facilmente manipolabile. La convinzione si è suffragata di false evidenze, peraltro non confermate da alcuna controprova o da indagini di tipo scientifico. Il dibattito televisivo Kennedy-Nixon in occasione delle elezioni presidenziali americane del 1960, ad esempio, instillò nella mente dei protagonisti politici dell’Europa occidentale la certezza del potere illimitato del mezzo televisivo. Nixon - lo stesso cui era stato attribuito un innato talento mediatico nelle apparizioni del 1952, quando si difese brillantemente in televisione da accuse di frode, guadagnandosi la candidatura alla vicepresidenza - era sofferente a un ginocchio, era mal truccato e non rasato di recente: tutto ciò gli sarebbe costato la presidenza, andata a un Kennedy fresco e roseo. Allo stesso tempo, in Francia, i frequenti messaggi televisivi del presidente de Gaulle, tornato al potere nel 1958, fecero insorgere un’opposizione che attribuiva al monopolio mediatico del generale - primo caso di «telecrazia» della storia europea - la ragione principale del suo vasto consenso politico. E in questo contesto che l’affermazione del piccolo schermo ha sancito una netta evoluzione nelle relazioni tra media e politica. L’austerità e il riserbo che avevano caratterizzato l’interazione tra questi due ambiti lasciano progressivamente spazio a una crescente «spettacolarizzazione» e «personalizzazione» della politica. Le principali conseguenze di questa svolta sono due. La prima attiene al cre­ scente condizionamento che il piccolo schermo ha iniziato a esercitare sulle mo­ derne democrazie, in relazione alla definizione dell’agenda, della selezione del personale politico e delle forme di comunicazione adottate. Il dibattito su questi temi è fiorito proprio a partire dai primi anni Sessanta. Uno dei primi a rendersi conto della potenziale deriva generata dalla «spettacolarizzazione» televisiva è stato Daniel Boorstin, che nel suo The Image (1961) concentra l’attenzione su due fenomeni tipici dell’età dei media di massa: gli «pseudo-eventi» fabbricati dai media e le «celebrità» che, a differenza degli «eroi» dei tempi antichi, devono la propria notorietà all’immagine e non a quello che sono riusciti a realizzare («prima un uomo aveva bisogno di un segretario privato che facesse da barriera tra lui e il pubblico. Oggi ha un addetto-stampa che lo tiene opportunamente sotto gli occhi del pubblico»). Nella Società dello spettacolo (1967) Guy Debord ha sostenuto che «nelle società dove predominano le condizioni moderne di produzione, tutta la vita si presenta come un’accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che veniva vissuto direttamente è sostituito da una rappresentazione». La tesi della progressiva «spettacolarizzazione» della politica, o meglio dello «stato spettacolo», ha trovato una sistemazione organica nell’omonimo volume di Roger-Gérard Schwartzenberg, pubblicato nel 1977 e consacrato dall’elezione nel 1980 di Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti. L’ingresso alla Casa Bianca di un ex attore dall’indiscutibile presenza scenica e dal grande talento comunicativo (sarebbe passato alla storia come il «grande comunicatore») parve dimostrare come l’industria dello spettacolo stesse imponendo le proprie regole alla politica, sottraendole ogni residuo di «sacralità» e diventando parte del più ampio palcoscenico della rappresentazione mediale. La seconda conseguenza dell’ascesa del mezzo televisivo e della sua progressiva interazione con la sfera politica, contribuendo così a conferire un carattere diretto

alla percezione dei candidati e degli eletti da parte degli elettori, è consistita in una profonda trasformazione del concetto di rappresentanza. Il candidato ha progres­ sivamente potuto, come avveniva un tempo, farsi conoscere senza passare dalla mediazione di organizzazioni militanti. In questo senso la televisione ha risuscitato il carattere personale della relazione rappresentativa ottocentesca, precedente l’av­ vento dei partiti di massa. A partire da questo momento la discussione sui destini della pòlis non è dunque più stata riservata alle camere (come nel parlamentarismo) o ai comitati di concertazione tra partiti e gruppi di interesse organizzati (come nella democrazia dei partiti), ma è stata portata direttamente di fronte al pubblico. 7.

Internet e la democrazia partecipativa

Un’evoluzione ulteriore in questo percorso si è determinata, a partire dalla metà degli anni Novanta, con la sensazionale affermazione di internet, che non solo ha trasformato in profondità le forme della socialità ma anche quelle della competizione politica. Benché sia piuttosto complicato fare il punto su una tecnica in piena evoluzione, non si può prescindere dal dedicare attenzione a questo nuovo fenomeno, che ha caratterizzato in misura così rilevante le società post-industriali nell’ultimo ventennio. Per rendersi conto della rapidità dell’entrata di internet all’interno del panora­ ma mediatico è sufficiente considerarne i tassi di crescita. Secondo Internet World Stats, tra il 1995 e il 2011 si è passati da 26 milioni a 2,3 miliardi di internauti. Nel 2000 il 60% degli utenti della rete era concentrato tra Nord America ed Europa, mentre oggi esse non raccolgono che il 34,1% del totale mondiale (rispettivamente il 12 e il 22,1%), a fronte del 45% dell’Asia, del 10,4% deU’America Latina, del 6,2% dell’Africa, del 3,4% del Medio Oriente, dell’1% dell’Oceania. Se ancora i tassi di penetrazione sul totale della popolazione segnalano una grande disparità regionale (in Nord America si raggiunge il 78,6%, in Oceania il 67,5%, in Europa il 61,3%, in America Latina il 39,5%, in Asia il 26,2% e in Africa il 13,5%), è indubbio che i tassi di crescita nell’accesso alla rete lasciano intravedere un pro­ gressivo riequilibrio geografico degli accessi: l’incremento maggiore, nell’ultimo decennio, si è registrato proprio in Africa (con una crescita del 3.000%), in Medio Oriente (2.245%), in America Latina (1.205%) e in Asia (800%), a frónte di tassi di crescita comunque sostenuti ma decisamente inferiori in Europa (376%), Oceania (214%) e Stati Uniti (153%). Al di là delle cifre, è essenzialmente a partire dagli attentati dell’11 settembre 2001 che il web ha acquisito una crescente legittimazione all’interno del panorama comunicativo: in questa occasione i media tradizionali, a partire dalle televisioni, hanno dato ampia visibilità a filmati amatoriali, fotografie e testimonianze trasmesse attraverso internet, prendendo immediatamente atto dell’elevato potenziale della comunicazione decentrata. Lo stesso giornalismo professionale - comprese le emittenti più accreditate a livello globale, Cnn, Al Jazeera e Bbc - ne è stato pro­ gressivamente condizionato, riuscendo a coprire alcune crisi internazionali soltanto attraverso il contributo di utenti comuni della rete (emblematico è stato il ruolo di blog e social network in occasione della cosiddetta Primavera araba). Nel corso dell’ultimo decennio internet ha avviato un condizionamento crescen­ te della dinamica politica: blog e social network (Facebook e Twitter in particolare)

hanno favorito l’avvio di un dialogo paritario e interattivo, che non si limita alla manifestazione del consenso o del dissenso, ma fornisce un reale supporto (in ter­ mini di proposta e discussione) all’elaborazione del processo decisionale e dando vita a una nuova forma di democrazia deliberativa elettronica. Una prima importante applicazione elettorale di questo modello partecipa­ tivo si è avuta alla vigilia della campagna per le presidenziali francesi del 2007 con la folgorante ascesa di Ségolène Royal, fondata sulla pretesa di incarnare la democrazia d’opinione contro i candidati della democrazia rappresentativa. Il principale elemento di novità è consistito nel fatto che internet ha contribuito in modo determinante a «creare» la candidata che, pur senza rivestire una posizione di primissimo piano nell 'establishment del partito, in occasione delle primarie socialiste del novembre 2006 ha superato rivali in partenza più accreditati (Domi­ nique Strauss-Kahn e Laurent Fabius) anche grazie all’attivismo di blog e social network in suo favore. In particolare, il forum partecipativo «Désirs d’avenir» ha svolto un ruolo decisivo non soltanto per «pubblicizzare» la candidata socialista, ma anche nella definizione del suo programma presidenziale, rappresentando un primo laboratorio sperimentale di democrazia partecipativa. La consacrazione politica di internet si è avuta in occasione della campagna presidenziale americana del 2008, quando il democratico Barack Obama (che non a caso aveva inserito nella propria squadra alcuni guru del web, dal capo di Google, Eric Schmidt, al co-fondatore di Facebook Chris Hughes) ha trovato nella rete un sostegno fondamentale, prima nella conquista della nomination del Partito democratico, strappata a Hillary Clinton, e successivamente nella corsa trionfale alla Casa Bianca contro il candidato repubblicano John McCain. Obama si è ser­ vito di internet come mai alcun politico aveva saputo fare, esaltandone il ruolo per tutta la durata della campagna elettorale: dalla fase di raccolta fondi (grazie al milione di piccole donazioni raccolte via internet - dato senza precedenti - che gli ha consentito il lusso di rifiutare gli 84 milioni del finanziamento pubblico), alla definizione del programma realizzata con il contributo fondamentale del sito mybarackobama.com, progettato dal co-fondatore di Netscape Marc Andreessen, che ha rappresentato il più riuscito esempio di comunità politica online. L’eccezionale attivismo del candidato democratico sul web è riuscito a coin­ volgere circa 30 milioni di elettori, favorendo una comunicazione dal basso, orizzontale, animata in gran parte da giovani, che si è integrata perfettamente con quella centralizzata e verticale realizzata attraverso i mezzi tradizionali. Negli ultimi anni il protagonismo acquisito dai social media è stato testimoniato non soltanto dalla «Twitter-bulimia» del successore di Obama, Donald Trump (au­ tore di 2.568 tweet nel primo anno alla Casa Bianca), ma anzitutto dalla centralità acquisita come strumenti d’informazione. Secondo il Pew Research Center il 62% degli americani si serve dei social per informarsi: Facebook è ampiamente in testa utilizzato dal 44% dei cittadini Usa, seguito a grande distanza da YouTube (10%), Twitter (9%) e Instagram (4%). Questa ascesa si è accompagnata tuttavia a una serie di crescenti preoccupazioni legate a due derive principali: i social sono accusati di avere dato larga eco alle fake news che hanno intossicato le ultime campagne elettorali e di essere stati utilizzati (Facebook in primis) da società di analisi di big data, a partire dall’inglese Cambridge Analytica, per profilare surrettiziamente gli utenti, rivendendo le informazioni al miglior offerente, spesso per fini elettorali. Se durante le Primavere arabe Facebook e Twitter erano stati celebrati come straor­

dinari strumenti di democratizzazione, oggi sono accusati in misura crescente di distoreere il fisiologico dibattito democratico e di avere favorito la Brexit, la vittoria di Donald Trump negli Usa e l’ascesa di formazioni populiste in Europa. 8.

Legittimità mediatica e «contro-sfera pubblica»

L’ascesa di questi nuovi media permette di effettuare alcune considerazioni siste­ miche sull’evoluzione del rapporto tra politica e mezzi di comunicazione di massa. Il primo aspetto concerne l’elevato grado di complementarità delle funzioni rivestite da ogni medium e della tecnologia che ne è alla base: l’introduzione di nuovi media non ha provocato la scomparsa dei vecchi ma, piuttosto, sono tra loro coesistiti e hanno interagito fino a formare un sistema coeso, una rete globale. I media vanno cioè visti come un sistema in perenne mutamento, nel quale i diversi elementi giocano un ruolo maggiore o minore, ma all’interno del quale il mutamento si configura più come aggiunta che come sostituzione. Per lungo tempo, ad esempio, il giornale, il libro, la radio e il telefono erano prodotti di industrie differenti: tanto per cultura quanto per dimensioni economi­ che di riferimento appartenevano a mondi distinti, caratterizzati da pochi punti di contatto. L’evoluzione tecnologica più recente, in particolare lo sviluppo della microelettronica e della digitalizzazione, la possibilità di immagazzinare, elaborare e trasmettere informazioni a costi ridotti, hanno avvicinato progressivamente questi mondi, ne hanno aumentato la compenetrazione, unificandoli progressivamente nell’unico grande universo chiamato «mondo della comunicazione» o «industria dell’informazione». Il secondo aspetto sul quale occorre insistere è la progressiva democratizzazio­ ne del dibattito pubblico, ossia, da un lato, l’inclusione progressiva di nuovi gruppi e categorie nella vita politica, dall’altro, l’estensione delle questioni sottoposte al controllo popolare, oltre che la maggiore efficacia di quest’ultimo. Tale fenomeno si ricollega strettamente all’ultimo aspetto degno di nota, che riguarda l’evoluzione dei parametri di legittimità della politica. Nel corso del pe­ riodo considerato si assiste, per così dire, a un suo sdoppiamento. Da un lato, esiste la legittimità rappresentativa tradizionale, determinata dal momento elettorale, che giuridicamente regola la vita politica, conferisce autorità agli eletti e impone obbedienza agli elettori. Il suo fulcro è l’istituzione parlamentare. Dall’altro, è progressivamente emersa una legittimità mediatica, informale ma onnipotente, che ha nel piccolo schermo e nei nuovi mezzi di comunicazione la sua collocazione naturale, che obbliga il governo (e più in generale la classe politica) a comunicare continuamente per poter usufruire appieno del primo tipo di legittimità. Questo sdoppiamento di legittimità, che si è registrato con intensità crescente a partire dagli anni Sessanta, con l’ascesa del mezzo televisivo, era stato general­ mente salutato come la possibilità di riconciliare i cittadini e la classe politica. La democrazia rappresentativa avrebbe beneficiato, grazie ai media di massa, della vicinanza e della trasparenza che a lungo le era mancata. «Presidential power is thè power to persuade» scrisse nel 1961 Richard Neustadt in un volume destinato a segnare la scienza politica americana, osservando come l’avvento dei media di massa contribuisse a instaurare un dialogo continuo e privo di intermediari tra i leader politici e l’opinione pubblica.

A mezzo secolo di distanza l’impressione è che queste premesse si siano, sino a oggi, rivelate infondate e si stia piuttosto assistendo a un cocente fallimento ri­ spetto all’ambizioso obiettivo di avvicinare l’uomo politico al cittadino attraverso il dialogo e lo scambio continuo. All’alba del nuovo millennio, quantomeno nelle democrazie occidentali, ci tro­ viamo di fronte a un’esasperazione crescente dell’opinione pubblica nei confronti di una classe politica sempre più screditata, e a una comunicazione politica che è a buon titolo considerata la nuova regina dello spazio pubblico, senza pertanto compiere la propria mission. Essa infatti è nata per servire l’azione politica, non per divenire un fine in sé, né per sostituirsi all’azione politica stessa, come sembra sempre più ricorrente. Il rischio e il paradosso attuale è, insomma, che i media di massa invece che servire l’azione politica contribuiscano, al contrario, ad alimentare la sfiducia verso la politica o, quantomeno, preoccupanti forme di disincanto democratico. Sotto questa luce sarà interessante osservare lo sviluppo di uno strumento come internet che - pur estendendo i confini della sfera politica tradizionale - non pare in grado di arginarne il discredito e la presa di distanza da parte dell’opinione pubblica, ma sembra piuttosto favorire l’emergere di una sorta di «contro-sfera pubblica».

Percorso di autoverifica

1. Perché il telegrafo può essere definito il primo medium che ha dato vita al «villaggio globale»? 2. Che legame intercorre tra industrializzazione e sviluppo dei mass media? 3. Quale fu l’«età dell’oro» della stampa e cosa si intende con questa espressione? 4. Quali caratteristiche contraddistinsero la «commercializzazione» della stampa alla fine dell’Ottocento? 5. Perché le agenzie di stampa giocarono un ruolo importante nello sviluppo della pub­ blicità? 6. Che differenza intercorre tra censura e propaganda e quali caratteristiche assunsero durante la Prima guerra mondiale? 7. Perché l’introduzione della radio nel sistema dei mass media è paragonabile a una rivoluzione? 8. Quali sono le principali conseguenze della «spettacolarizzazione» della politica? 9. Per quale ragione internet favorisce una democrazia partecipativa? 10. Perché la campagna presidenziale francese del 2007 e quella americana del 2008 sono state importanti nell’accreditamento politico di internet?

Per saperne di più

A. Briggs e P. Burke, Storia sociale dei media, III ed., Bologna, Il Mulino, 2010. L. Gorman e D. McLean, Media e società nel mondo contemporaneo, II ed., Bologna, Il Mulino, 2011. J.-N. Jeanneney, Storia dei media, Roma, Editori Riuniti, 2003. M. Mezza (a cura di), Obama.net. New Media, New Politics? Politica e comunicazione al tempo del networking, Perugia, Morlacchi, 2009.

R. Negrine, The Transformation of Politicai Communication. Continuities and Changes in Media and Politics, Basingstoke, Paigrave Macmillan, 2008. P. Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, metodologie, Milano, Il Saggiatore, 2009. C.R. Sunstein, #Republic.com. La democrazia nell’epoca dei social media, Bologna, Il Mulino, 2017. C. Vaccari, La politica online. Internet, partiti e cittadini nelle democrazie occidentali, Bo­ logna, Il Mulino, 2012. A. Valeriani, Twitter factor. Come i nuovi media cambiano la politica internazionale, RomaBari, Laterza, 2011.

Ambiente, società e politica di Stefano Cavazza

Il problema di come instaurare un corretto rapporto tra uomo e ambiente ac­ compagna l’intera storia dell’umanità, ma è diventato centrale dopo la Rivolu­ zione industriale quando l’uomo ha aumentato in misura significativa la capacità di modificare il proprio habitat. Negli ultimi decenni la politica si è misurata con le sfide poste da partiti, movimenti ambientalisti e opinione pubblica in tema di ambiente, inquinamento e impoverimento delle risorse.

Nel film di fantascienza Soylent Green (1973), in una terra sovrappopolata e priva di risorse, la popolazione è costretta a nutrirsi con sostanze prodotte dai cadaveri. In quel periodo anche Hollywood risentiva della tendenza a interrogarsi sul futuro della specie umana, a fronte di un uso delle risorse per lo sviluppo con­ siderato già allora da alcuni indiscriminato. L’uscita del film seguiva di un anno la pubblicazione del rapporto del Mit (Massachusetts Institute of Technology) sui limiti dello sviluppo (1972), di cui parleremo più avanti e che rappresentò un punto di svolta nel dibattito sulla natura della crescita economica. Se gli anni Sessanta sono stati il punto più alto della fiducia per le possibilità dischiuse dal progresso, di cui la conquista della luna appariva l’emblema, già in quel periodo e ancor più nel decennio successivo cominciò a farsi strada nell’opinione pubblica la presa di coscienza dei problemi connessi alla crescita economica. Lo shock petrolifero del 1973 sembrò confermare le previsioni negative mettendo in luce lo stretto legame che intercorreva tra disponibilità di risorse energetiche e benessere. La ricezione di questi temi nella letteratura e poi nel sistema hollywoodiano era dunque il punto di arrivo di studi e riflessioni che si erano manifestate già durante gli anni Sessanta. Se già nel 1962 il libro di Rachel Carson, Primavera silenziosa, aveva richiamato l’attenzione sui rischi dell’abuso di pesticidi in agricoltura (in particolare del Ddt), nel 1968 il libro di Paul Ehrlich, The Population Bomb (La bomba demografica), aveva ammonito sui rischi dell’espansione demografica. Negli anni Settanta, Barry Commoner con il testo II cerchio da chiudere diede una svolta alla riflessione ecolo­ gista. La letteratura critica sullo sviluppo non si limitava a mettere in discussione la possibilità di aumentare le risorse in corrispondenza dell’aumento demografico, riprendendo in parte le tesi di Thomas Robert Malthus, ma sollevava anche il

problema di un corretto rapporto tra uomo e ambiente e poneva l’accento sulla necessità di garantire un equilibrio tra uso e reintegro di risorse. Il già citato rap­ porto del Mit del 1972, con le scioccanti conclusioni sull’impossibilità di garantire indefinitamente uno sviluppo economico auto-sostenuto, trovava dunque un terre­ no già fertile. Nella premessa firmata dai membri del Club di Roma si sintetizzava il rapporto con la convinzione che «l’umanità non può continuare a proliferare a ritmo accelerato, considerando lo sviluppo materiale come scopo principale, senza scontrarsi con i limiti naturali del progresso» (I limiti dello sviluppo, 1972). Nel 1973 la riduzione delle forniture petrolifere da parte dei paesi dell’Opec costrinse i paesi occidentali a introdurre restrizioni ai consumi energetici, arrivando a vietare in Italia la circolazione delle auto la domenica, e toccando così uno dei «feticci» dello sviluppo dei consumi italiano. Negli anni successivi la sensibilità per i temi ambientali andò crescendo nell’opinione pubblica dei paesi economicamente più sviluppati diventando un tema imprescindibile di ogni agenda politica. In tempi recenti, anche nei paesi in via di sviluppo e nelle economie emergenti la questione ambientale ha cominciato a farsi strada, anche se spesso vi sono resistenze da parte di chi vede in essa uno strumento attraverso il quale le classi politiche dei paesi di più antica industrializzazione cercano di frenare l’espansione economica dei nuovi arrivati. Il termine ecologia, coniato dal biologo tedesco Ernst Haeckel nel 1886 per indicare la branca della scienza che studia l’interazione tra esseri viventi e ambiente, è diventato familiare presso l’opinione pubblica e uno dei temi più trattati nelle scuole. La riflessione sulle conseguenze della crescita economica ha influenzato anche la storiografia generando un settore di studi specifici denominato environment history. Le radici di questo filone di ricerca storica sono molteplici e legate a tradi­ zioni culturali preesistenti. Negli Stati Uniti, gli studi di storia ambientale si sono, in parte, alimentati alla cultura della frontiera e della ivilderness contrapposta alla civilizzazione, di cui l’opera storiografica di Turner e le opere di Thoreau sono an­ tesignane nei rispettivi campi. In Germania, la sensibilità per l’ambiente affonda le sue radici nella stessa tradizione culturale del paese e nella reazione al mutamento del paesaggio provocata dall’industrializzazione che diede vita, tra le altre cose, nel 1907, al movimento per la protezione dell’ambiente e del paesaggio (Heimatschutzbewegung). In Italia, l’interesse per il paesaggio e i monumenti portò, soprattutto a cavallo tra Otto e Novecento, alla costituzione di associazioni che si preoccupavano della tutela di questi aspetti in vari modi, in alcuni casi assumendola come fine sta­ tutario principale o all’interno di finalità di tipo escursionistico. In questa direzione si muovevano il Club alpino italiano (1863), il Touring Club (1894), la Pro Montibus et Silvis (1898) e l’Associazione per i paesaggi e i monumenti italici (1906). La storia dell’ambiente ha le sue radici principalmente negli studi di storia dell’agricoltura, in particolare nelle opere di Piero Bevilacqua e Diego Moreno, e si è poi arricchita dall’incontro con le suggestioni provenienti dalla tradizione anglosassone. Due appaiono le caratteristiche comuni alla storia ambientale. Prima di tutto, l’interesse per l’ambiente come tema di ricerca storica è spesso nato in concomitanza con lo sviluppo di movimenti ambientalisti e ne ha recepito sensibilità e istanze. Pertanto, spesso tali studi tendono a leggere la questione ambientale all’interno di una critica al capitalismo e/o al modello di sviluppo basato sull’industria. In secondo luogo, nelle fasi iniziali, nella environmental history ha talvolta prevalso un approccio molto critico nei confronti dell’intervento umano e che contrapponeva la natura,

intesa come fattore positivo, all’uomo, percepito come elemento di alterazione del processo naturale. Negli ultimi anni si sono diffuse sempre più concezioni diverse che hanno analizzato l’evoluzione naturale mettendola in relazione allo sviluppo antropico, sviluppo che veniva ora considerato parte del processo di evoluzione in veste di elemento co-evolutivo (Armiero e Barca). Con l’approfondimento degli studi, la storia ambientale ha quindi sviluppato filoni diversi di specializzazione: alcuni rivolti a indagare le cause dei processi di trasformazione ecologica, altri indirizzati ad approfondire le cause di carattere sociale (Neri Serneri). In questo capitolo non ricostruiremo, però, i complessi percorsi della storia ambientale, né analizzeremo il problema ecologico in tutti i suoi molteplici aspetti, ma cercheremo di focalizzare alcuni snodi del rapporto tra ambiente e società che sono necessari per la comprensione della vicenda storica contemporanea, tenendo conto sia delle acquisizioni della storia dell’ambiente sia della dimensione globale oggi indispen­ sabile per l’analisi storica. 1.

L’uomo e l’ambiente

È bene premettere che, nel cammino dell’evoluzione, l’uomo ha interagito sempre con l’ambiente circostante, utilizzandone le risorse, e utilizzare significa consumare. Si è soliti ritenere che il neolitico abbia costituito uno dei più grandi mutamenti della storia umana. Attraverso la lavorazione della pietra per costruire utensili, l’uomo fu in grado di operare modifiche al suo ambiente e ciò rese possibile il passaggio da una società basata sulla caccia e la raccolta a una società agricola. L’idea che l’uomo interferisca con l’ambiente solo nella modernità e che prima della Rivoluzione industriale tutto fosse in armonico equilibrio è dunque frutto di una semplificazione. Il problema dell’equilibrio tra popolazione e risorse ha in realtà accompagnato la storia umana fin dagli albori. Gli insediamenti umani si sono concentrati là dove esisteva ampia disponibilità di risorse, per esempio, e non è un caso che importanti civiltà siano sorte nella «mezzaluna fertile» (area mesopotamica), dato che l’uso di queste risorse e il rapporto tra queste ultime e il tasso di incremento demografico hanno influenzato l’esistenza stessa delle civiltà, contri­ buendo a volte a decretarne il declino. Va anche ricordato che la stessa agricoltura ha sempre avuto un impatto sull’ambiente. La pratica agricola impoverisce, infatti, i terreni e, in passato, i coltivatori erano costretti a far ruotare i terreni coltivabili lasciandone alcuni a riposare. Anche nelle epoche precedenti uno sfruttamento indiscriminato del suolo avrebbe finito per rendere sterili i terreni. Sotto questo profilo un’importante innovazione fu rappresentata dall’introduzione di piante che fertilizzavano il terreno rilasciandovi azoto. Queste piante avevano anche il pregio di poter essere usate come foraggio per gli animali che a loro volta con le loro deie­ zioni fornivano concime naturale. Le rotazioni agrarie, così, potevano sfruttare in ogni periodo la terra senza depauperarla. Il miglioramento delle tecniche agricole comportò un incremento della produttività per ettaro di terra, rendendo possibile ottenere una maggiore disponibilità di cibo. E stato sottolineato dagli storici del­ l’agricoltura come questi miglioramenti delle tecniche agricole fossero inseriti in un sistema equilibrato e auto-riproduttivo in cui minimo era l’intervento dall’esterno, mentre oggi l’agricoltura su vasta scala richiede cospicui investimenti in prodotti fertilizzanti per poter mantenere elevata la produttività della terra.

È certamente vero che nell’età contemporanea l’espansione demografica e la necessità di estendere le coltivazioni senza un’adeguata considerazione dell’impatto sull’ambiente abbiano portato a conseguenze disastrose, come nel caso - più volte citato dalla storiografia - del Dust Bowl negli Stati Uniti. La diffusione nelle pia­ nure nordamericane delle coltivazioni in terreni aridi, un tempo adibiti a pascolo, produsse come risultato, negli anni Trenta, in concomitanza con l’arrivo di una serie di tempeste di sabbia, la distruzione dei raccolti e l’impoverimento di masse di contadini. In tempi più recenti, le pratiche di deforestazione messe in atto nella foresta amazzonica per fare spazio a terreni coltivabili sembrano riflettere la stessa assenza di lungimiranza, trattandosi di terreni poco adatti alla coltivazione. Nel ri­ costruire la storia dei rapporti tra uomo e ambiente nell’età contemporanea vi sono però anche esempi in controtendenza che dimostrano la capacità di far tesoro dei propri errori. La superficie boschiva dei paesi europei negli ultimi anni è tornata ad aumentare. Certamente ciò è il risultato delle politiche di riforestazione legate a esigenze ambientali e anche del venire meno della necessità di sostituire i boschi con coltivazioni, grazie aU’incremento delle rese agricole. E peraltro innegabile che sia stata proprio l’introduzione dei concimi chimici a contribuire a elevare sensibilmente la produttività dell’agricoltura, permettendo di fornire cibo a un elevato numero di persone, pur con il permanere - non va dimenticato - di dislivelli inaccettabili tra aree del pianeta, alcune invase dall’abbondanza di cibi e altre ancora soggette al flagello della fame. Se, da un lato, l’esser riusciti a produrre in una parte del pianeta più del fabbisogno delle popolazioni locali è stato in larga misura il risultato dell’im­ piego di fertilizzanti chimici, dall’altro, l’uso costante di tali prodotti ha messo in moto un circolo vizioso che sembra richiedere sempre più fertilizzanti per mantenere i rendimenti dei terreni. Da questo punto di vista il rapporto tra uomo e ambiente nell’epoca preindustriale era senza dubbio meno invasivo rispetto a quello odierno, soprattutto perché minore era la capacità umana di modificare il proprio habitat. Tuttavia, non si deve pensare che, solo perché radicato nel passato preindustriale, tale rapporto fosse necessariamente sempre in equilibrio. È stato ricordato, per fare un esempio, come il disboscamento selvaggio messo in atto nell’Isola di Pasqua dai suoi primi abitanti, insediatisi attorno al 900 d.C., contribuì alla deforestazione dell’i­ sola e al declino demografico tanto che nel 1872 la popolazione si era ridotta a sole 111 unità (Paolini). Le economie africane precoloniali erano sicuramente in maggior equilibrio con l’ambiente rispetto al periodo coloniale, anche se non mancarono casi in cui questo equilibrio venne alterato. Tuttavia, è indubbio che l’espansione colo­ niale, diffondendo modelli agricoli monoculturali, abbia messo rapidamente in crisi gli equilibri delle economie agrarie precoloniali, rendendo alcuni stati dipendenti dall’andamento di mercato di pochi prodotti, distruggendo anche i meccanismi di funzionamento delle economie locali e introducendo un rapporto meno equilibrato con l’ambiente. Nel 1973 l’economista Ernst Schumacher, nel suo volume Piccolo è bello, mise in luce il rischio di depauperamento ambientale derivato da un uso indiscriminato delle risorse e propose ai paesi poveri di abbandonare il gigantismo dei grandi interventi, privilegiando tecnologie semplici e in grado di essere gestite dalle popolazioni locali come strumenti di crescita. Sulla scia di quelle riflessioni e delle esperienze sul campo, una parte della cooperazione internazionale è orientata oggi a favorire la diffusione di microprogetti. L’intento principale è quello di con­ sentire uno sviluppo in grado di essere gestito in maniera autonoma dalle comunità locali e con modalità meno dannose per l’ambiente.

2.

La Rivoluzione industriale e l’ambiente

La Rivoluzione industriale ha senza dubbio costituito un altro cambiamento di grandi proporzioni nella storia umana e rappresenta uno dei passaggi fondamentali che hanno plasmato l’età contemporanea. Negli ultimi tre secoli si è avviata una fase di sviluppo continuativo che si è allargata ad altri paesi rispetto al suo punto di inizio e ha portato alla scomparsa, in Europa e in America, dell’«era della scarsità». La carestia e la fame sono scomparse dall’esperienza quotidiana degli abitanti del mondo occidentale. Nello stesso tempo la Rivoluzione industriale portò con sé ele­ vati tassi di inquinamento fin dal suo sorgere. L’uso del carbone come combustibile produceva non solo fumi tossici, ma anche particolati che si fissavano nei polmoni e, diffondendosi nell’atmosfera, ricadevano a terra con la pioggia. Il concetto di «pioggia acida» non è infatti una scoperta recente, ma si deve allo scienziato inglese Robert Angus Smith, che lo utilizzò nel 1872 per descrivere un fenomeno che si era manifestato già allora proprio nella patria della Rivoluzione industriale. Il fatto che molte raffigurazioni della Rivoluzione industriale associassero le fabbriche a paesaggi infernali non era solo l’effetto di un atteggiamento anti-industriale, ma rispecchiava il cambiamento del paesaggio e delle condizioni di vita prodotte dalle fabbriche. Vivere nei quartieri operai delle città industriali dell’Ottocento non era facile. L’inurbamento aveva portato al sovraffollamento dei quartieri vicino alle fabbriche e l’assenza di fogne - che furono progressivamente introdotte nel corso del secolo - univa all’inquinamento industriale i pericoli sanitari dell’evacuazione di liquami nelle pubbliche vie. Le descrizioni delle città industriali come luoghi di sofferenza e l’insoddisfazione popolare nei confronti di questo genere di vita sono state alla base di rivendicazioni politiche da parte della classe operaia. Va anche ricordato, però, che fino agli anni Settanta le organizzazioni politiche legate al movimento operaio avevano prestato maggiore attenzione al problema della cre­ scita e dei posti di lavoro, collocando in secondo piano il tema dello sfruttamento delle risorse e dell’inquinamento, anche se un’attenzione crescente fu riservata ai pericoli per la salute del lavoratore. Tuttavia, anche in questo caso, gli anni Settanta e Ottanta del Novecento sono stati decisivi per modificare l’atteggiamento delle organizzazioni sindacali. L’idea che le politiche di protezione ambientali portino alla chiusura di fabbriche e alla perdita di posti di lavoro è stata per lungo tempo diffusa tra i ceti operai e in parte lo è ancora, soprattutto nelle zone a basso tasso di sindacalizzazione come, per esempio, in alcune aree degli Stati Uniti e nelle zone a cultura monoindustriale. Qui, il timore che norme ambientali rigide possano far scappare le industrie induce, spesso, le comunità locali ad assumere atteggiamenti critici verso l’ambientalismo. Naturalmente, rigide politiche ambientali possono compensare i posti di lavoro persi con la creazione di nuove occupazioni nei settori collegati all’ambiente. Tuttavia, spesso, i nuovi lavori non si generano nelle zone colpite ed è quindi comprensibile la resistenza delle comunità locali. In Europa la condivisione delle politiche ambientali, le compensazioni introdotte dall’intervento statale e una maggiore sensibilità al tema rendono le politiche ambientali più ac­ cettabili in tutti gli strati sociali, anche se ciò non esclude il persistere di conflitti. In generale, è innegabile che lo sviluppo dell’industria abbia prodotto un am­ pliamento del benessere generalizzato e al tempo stesso abbia causato anche danni ambientali significativi. Tuttavia, nel corso del tempo, le popolazioni hanno preso coscienza delle conseguenze dell’inquinamento. Su questo hanno giocato un ruolo

anche incidenti che hanno portato sotto gli occhi di tutti i danni biologici causati da determinate produzioni. Per citare un caso italiano, si può ricordare l’incidente avvenuto nel 1976 nello stabilimento Icmesa di Seveso, un piccolo comune della Lombardia, quando ingenti quantità di diossina, un composto altamente tossico, fuoriuscirono dallo stabilimento e una nube tossica raggiunse i comuni di Seveso, Meda, Cesano Maderno e Desio. L’effetto di vicende come questa ha rafforzato le battaglie dei movimenti ambientalisti che hanno portato a un miglioramento della situazione. Rispetto agli anni Sessanta e Settanta possiamo ritenere che l’in­ quinamento industriale nel mondo occidentale, e soprattutto in Europa, sia oggi minore rispetto al passato. Ciò è senza dubbio il risultato di politiche di controllo ambientali più severe, di miglioramenti tecnologici nel filtraggio delle emissioni, ma anche - è bene ricordarlo - della riduzione degli impianti industriali per effetto di politiche di delocalizzazione produttive in altri paesi, in genere collocati in aree meno sviluppate in cui il lavoro costa meno e minori sono le regole da rispettare. Le popolazioni di questi paesi hanno quindi assunto il rischio di produzioni indu­ striali inquinanti. L’incidente avvenuto a Bhopal, in India, nel 1984, quando una fabbrica della Union Carbide rilasciò per un incidente ingenti quantità di isocianato di metile, mise di fronte agli occhi del mondo una sorta di nuovo colonialismo, rap­ presentato dall’esportazione di produzioni inquinanti e pericolose in paesi esterni al mondo occidentale. Centinaia di migliaia di persone furono esposte alla sostanza tossica, si contarono alcune migliaia di morti e oltre 20.000 persone subirono danni permanenti. Allo stesso tempo, in Europa, il problema deH’inquinamento resta rilevante nelle aree urbane, anche per la diffusione della motorizzazione privata che ha raggiunto livelli un tempo impensabili. In paesi come l’Italia tale questione appare particolarmente problematica sia per la difficoltà a chiudere efficacemente i centri storici sia per la debolezza delle infrastrutture del trasporto pubblico come le metropolitane nelle grandi aree urbane. E evidente che una società senza inquinamento sarebbe la soluzione più auspicabile, ma nello stesso tempo occorre realisticamente contemperare esigenze diverse: quelle della tutela ambientale e quelle della produzione di beni. Il rilievo acquisito dai fattori ambientali ha condotto studiosi e organizzazioni internazionali a mettere in discussione la validità delle ordinarie misurazioni economiche. E stato in sostanza sostenuto da diversi autori che il calcolo della ricchezza in termini di semplice Prodotto interno lordo (Pii) sia ormai insufficiente. Secondo questi cri­ tici sarebbe necessario introdurre nel calcolo degli indici economici anche il costo ambientale. A questo fine sono stati proposti vari indici. L’economista pakistano Mahbub ul-Haq nel 1990 ha proposto lo Human Development Index (Hdi, Indice di sviluppo umano, Isu) che è stato assunto dall’Onu nel 1993 come indicatore dello sviluppo reale degli stati. Nel 2005 alla conferenza annuale di Davos (Svizzera) del World Economie Forum è stato presentato l’Esi, vale a dire l’Environmental Sustainability Index (Indice di sostenibilità ambientale) elaborato dal Yale Center for Environmental Law and Policy dell’Università di Yale e dal Center for Interna­ tional Earth Science Information Network dell’Università di Columbia. L’indice si prefigge di misurare la capacità delle nazioni di proteggere l’ambiente nei prossimi anni e prende in esame i seguenti indicatori: ecosistemi, riduzione degli stress am­ bientali, riduzione della vulnerabilità umana agli stress ambientali, capacità sociale e istituzionale di rispondere agli stress ambientali, amministrazione globale. L’Esi intende porsi come lo strumento più idoneo per offrire informazioni al decision

making in campo ambientale, per misurare il progresso più efficacemente del Pii e dell’Isu e per calcolare le performance nel campo delle politiche ambientali (2005, www.yale.edu/esi). 3.

Limiti della crescita

Abbiamo già visto come il dibattito sui limiti della crescita sia cominciato a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. I temi principali di questo dibattito hanno riguardato, prima di tutto, la crescita demografica in rapporto alla produzione alimentare, in secondo luogo il problema della disponibilità di materie prime e in particolare del petrolio, infine la questione del riscaldamento globale (global warming). Per quanto riguarda il primo punto occorre tenere conto, prima di tutto, che la popolazione mondiale è cresciuta in misura significativa negli ultimi due secoli. All’inizio dell’Ottocento si calcola che la terra fosse abitata da circa 1 miliardo di persone. Nel 1999 era stata superata la soglia dei 6 miliardi di abitanti, nel 2012 si è stimato di aver superato il tetto di 7 miliardi. La crescita della popolazione mondiale è frutto prima di tutto dell’abbattimento della mortalità infantile. Secon­ do il rapporto Unicef del 2010 la mortalità infantile entro i primi 5 anni di vita è scesa dagli 89 morti per mille nati del 1990 a 60 morti per mille nati nel 2009 con un decremento del 33%. Nello stesso periodo il calo in Europa è stato del 50%, da 26 morti ogni mille nati nel 1990 a 13 nel 2009. Per avere un’idea del trend di lungo periodo si consideri che al momento dell’unificazione il tasso di mortalità in Italia era di circa 400 decessi ogni mille nati contro i 4 attuali (Istat 2011). La tendenza al declino della mortalità infantile è dunque un fenomeno globale, sia pure con cospicue differenze tra paesi occidentali e paesi in via di sviluppo. Un secondo fattore che ha favorito la crescita della popolazione è il miglioramento del tenore di vita che si è manifestato a livello globale, pur aH’interno - sia chiaro - di differenze enormi tra Nord e Sud del mondo. La crescita demografica comporta, prima di tutto, la necessità di fornire cibo alle persone, e una corrente di pensiero che risale a Malthus mette in dubbio la possibilità che l’espansione demografica possa essere accompagnata da una corri­ spondente crescita di risorse alimentari. Un’altra corrente di pensiero appare meno pessimista e individua nel miglioramento della produzione (soprattutto nei paesi in via di sviluppo) e in una riduzione degli sprechi (per esempio nei meccanismi di distribuzione) la soluzione al problema, ma richiama l’attenzione sulla neces­ sità di affrontare questi problemi a livello globale. Nei paesi in via di sviluppo il problema della crescita demografica resta centrale. In Africa e in Asia esistono ancora aree di malnutrizione con tassi di mortalità inaccettabili e aspettative di vita assai limitate. Non va dimenticato, peraltro, come giochino un ruolo importante rispetto al problema di insufficienti risorse alimentari anche i fattori di instabilità politica. Paesi come la Cina hanno utilizzato, in passato, politiche di pianificazione familiare autoritarie proprio per ridurre l’espansione della popolazione. Nei paesi più industrializzati dell’area occidentale non vi è, invece, un problema di crescita demografica, semmai il tasso di natalità appare troppo basso, anche se va detto che le migrazioni sembrano poter costituire un fattore di bilanciamento del declinante tasso di natalità. Il mondo occidentale si misura, quindi, con il fenomeno di un

progressivo invecchiamento della popolazione, dovuto a una crescita della speranza di vita legata al benessere conseguente l’affermazione del welfare state. Nei paesi occidentali la speranza di vita alla nascita è cresciuta enormemente, lambendo o superando gli 80 anni, e continua a migliorare anche la speranza di vita nelle età più avanzate. Nel 2008 in Italia, secondo l’Istat, la speranza di vita alla nascita era di 78,8 anni per gli uomini e di 84,1 per le donne, mentre quella a 65 anni era ri­ spettivamente di 17,9 e di 21,6. L’aumento della popolazione anziana imporrà alle società di risolvere il problema della sostenibilità economica dei sistemi pensionisti­ ci e dei sistemi sanitari, concepiti in periodi in cui la «piramide della popolazione» aveva una diversa struttura. Benché non sia di per sé un problema ambientale, un disequilibrio della piramide della popolazione, nella misura in cui si traduce in una riduzione dei lavoratori attivi, comporta l’ampliamento dell’area del consumo a scapito di quella della produzione e ha quindi indirettamente conseguenze sulle risorse. Per inciso, politiche di pianificazione familiare rigide potrebbero portare a un disequilibrio generazionale simile, come alcuni paventano, per la stessa Cina, che si stima destinata ad avere una crescita della popolazione anziana difficilmente sostenibile dal sistema previdenziale di quel paese. Tuttavia, è evidente che la questione centrale relativa alla crescita demografica non riguarda tanto la sostenibilità in termini economici classici, quanto la soste­ nibilità ambientale. La domanda da porsi è quanta popolazione possa vivere sulla terra. Secondo la stima fatta dall’olandese Antoni van Leeuwenhoek e ripubblicata nel 1948 la capienza massima della terra sarebbe di 13,4 miliardi di abitanti, ma se si scorrono le stime di vari autori riportate da Joel Cohen si vedrà come il grado di variabilità sia assai elevato a riprova di una sostanziale difficoltà nel fornire una risposta univoca. Come lo stesso Cohen ha sottolineato, anche se non è possibile individuare con certezza una cifra limite alla capacità della terra di sostenere la popolazione, è comunque ragionevole ritenere che si sia entrati in una fase in cui la questione dei limiti di capacità del pianeta deve essere presa in considerazione e tenuta sotto osservazione. La necessità di alimentare una popolazione in continua crescita si intreccia anche con il secondo tema, quello della disponibilità di materie prime e di energie. Il rapporto del Mit del 1972 era stato commissionato dal Club di Roma e, grazie a un finanziamento della Fondazione Volkswagen, aveva applicato il modello di dina­ mica dei sistemi (System dynamics) elaborato da Jay Wright Forrester del Mit allo studio dell’evoluzione della società umana. Il gruppo di lavoro, guidato da Dennis Meadows, aveva utilizzato cinque indicatori: «industrializzazione crescente, rapi­ da crescita della popolazione, sottoalimentazione diffusa, depauperamento delle risorse naturali, deterioramento dell’ambiente», e ne aveva calcolato evoluzione e interazione. La conclusione era che nell’arco dei successivi cento anni lo sviluppo sarebbe stato destinato a trovare il suo limite naturale, a meno di non cambiare modello di sviluppo. Il rischio non riguardava solo un insufficiente approvvigio­ namento alimentare, ma anche e soprattutto l’esaurimento delle materie prime indispensabili per il funzionamento di una società moderna. Nel dibattito sui limiti dello sviluppo il tema dell’energia riveste un ruolo pri­ vilegiato, dato che l’energia è un fattore decisivo per lo sviluppo e che il consumo di energia delle società moderne cresce in misura significativa. La stessa agricoltura moderna ha un’elevata necessità di energia per produrre su vasta scala. Da questo punto di vista possiamo affermare che l’Ottocento fu il secolo del carbone, il No­

vecento è stato il secolo del petrolio, mentre è ancora incerto quale sarà la risorsa energetica principale del XXI secolo. Infatti, l’energia atomica ha perso molto del suo fascino, la fusione nucleare appare assai lontana e le energie rinnovabili sono indubbiamente promettenti, ma ancora incapaci di sostituire il petrolio, anche perché spesso richiedono ancora sovvenzioni per essere competitive. Resta quindi indubbio che la disponibilità di energia costituirà uno dei problemi centrali del prossimo futuro. Il dibattito sulla disponibilità dei combustibili fossili (petrolio, metano, carbo­ ne) dura ormai da diversi anni. Quando finirà il petrolio? Questa resta la doman­ da principale essendo il carbone ormai residuale e comunque insufficiente (così come altri gas naturali) a garantire l’approvvigionamento energetico assicurato dal petrolio. A questa domanda è stato finora difficile dare una risposta certa. Le previsioni sulla fine dell’«oro nero» sono controverse e le prime stime sono state più volte riviste. Due sono stati i fattori che hanno contribuito a spostare in avanti la data della fine dell’era del petrolio. Prima di tutto, le valutazioni sui giacimenti sono state sottovalutate, come testimoniato dalla scoperta di nuovi giacimenti, mentre l’innovazione tecnologica ha consentito di sfruttare giacimenti un tempo inaccessibili. Tuttavia è evidente come non sia realistico pensare di continuare a incrementare all’infinito i giacimenti. In secondo luogo, il miglioramento delle tecnologie di utilizzo ha consentito di usare meno petrolio per svolgere le stesse funzioni. Lo shock petrolifero del 1973 ebbe sotto questo profilo un effetto positi­ vo, stimolando ricerche sull’efficienza energetica di autoveicoli, elettrodomestici e impianti industriali. Variazioni di prezzo verso l’alto dei combustibili fossili hanno sempre spinto a cercare modi di sfruttare più razionalmente l’energia esistente. I miglioramenti sensibili nella resa di motori a scoppio, elettrodomestici e impianti industriali sono dunque legati non solo all’introduzione di politiche volte a favorire il risparmio energetico, ma anche alla necessità di abbattere i costi a fronte di un prezzo del petrolio crescente. I sostenitori dell’attuale modello di sviluppo hanno spesso richiamato il ruolo positivo svolto dal mercato sia nel favorire la ricerca di fonti energetiche più convenienti, sia nel rendere appetibile il business ecologico. Tuttavia, è evidente che anche i vantaggi derivanti dal risparmio energetico possono solo rallentare il consumo di petrolio spostando semplicemente in avanti la lancetta. Vi sarebbe poi un’altra considerazione di carattere più generale. Come sottolineò alla fine degli anni Settanta l’economista Lester Thurow nel suo volume La società a somma zero, l’uso dei combustibili fossili è economicamente più conveniente nel breve periodo, ma depaupera le risorse delle generazioni future, tanto da chiedersi se sia una soluzione razionale esaurire completamente il pianeta da una risorsa non rinnovabile. Benché i costi delle energie alternative siano ancora meno competitivi rispetto al petrolio e ai suoi derivati, l’incremento dei rendimenti induce a ben sperare per il futuro. Proprio le dinamiche di riequilibrio del mercato hanno spinto alcuni eco­ nomisti a mettere in dubbio le previsioni del Mit e dei suoi epigoni. Senza entrare nel dettaglio di questi dibattiti, si può osservare che la critica alle previsioni del Mit, che viene qui preso ad esempio di messa in discussione del modello di svilup­ po, si è rivelata corretta in una prospettiva di breve periodo, mentre in un’ottica di medio-lungo periodo le analisi del Mit continuano ad apparire fondate. D’altra parte gli autori del rapporto Mit hanno pubblicato nel 1992 Beyond thè Limits, in cui, ribadendo la bontà della loro valutazione, hanno espresso ottimismo per la

possibilità di una crescita sostenibile che tenga in maggior conto i fattori di lungo periodo e che punti alla qualità della vita più che all’incremento quantitativo della produzione. Da un diverso punto di vista autori come Serge Latouche hanno insisti­ to, sulla scia delle riflessioni di Ivan Illich, sulla necessità di contrastare l’ideologia dello sviluppo senza limiti, proponendo il concetto di decrescita. Negli ultimi anni, nell’agenda politica è stato inserito un altro rilevante tema ambientale: il timore del riscaldamento globale. Esiste un ampio consenso nella comunità scientifica sul fatto che l’emissione di gas che producono un effetto serra contribuisca all’innalzamento delle temperature del pianeta. Ciò potrebbe portare, da un lato, alla desertificazione di vaste aree oggi con clima temperato e, dall’altro, allo scioglimento dei ghiacci dei poli con conseguente innalzamento del livello dei mari. Per contrastare questa tendenza furono stipulati accordi internazionali a partire, nel 1992, dall’United Nations Framework Convention on Climate Change (Unfccc) definito a Rio de Janeiro, a cui fece seguito il cosiddetto protocollo di Kyoto, un documento prodotto dalla conferenza Cop3 (Conference of Parties III), svoltasi nella città giapponese nel 1997, ed entrato in vigore nel 2003. Secondo il protocollo i paesi aderenti al trattato avrebbero dovuto ridurre le loro emissioni dei principali inquinanti (tra cui il biossido di carbonio) del 5% rispetto ai valori del 1990. Alla scadenza del periodo di vigenza dell’accordo con il Doha Amendment, l’accordo fu prorogato fino al 2020 e nel 2016 a Parigi fu siglato un trattato per prolungare la limi­ tazione delle emissioni oltre il 2020. La volontà più volte manifestata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump di recedere dall’accordo di Parigi testimonia però la difficoltà di rendere stabili politiche di tutela dell’ambiente a livello internazionale. Da questo punto di vista, nonostante le resistenze provenienti dai settori industriali, l’Unione europea è stata finora più conseguente nel perseguire le finalità degli accordi, emanando direttive volte a raggiungere gli obiettivi fissati dal protocollo. 4.

Politica e ambiente

La questione ambientale interessa lo studio storico non solo dal punto di vista della ricostruzione dell’evoluzione tra uomo e ambiente, ma si intreccia anche con la storia politica. E stata la crescente sensibilità per la questione ambientale a rendere l’ambiente un tema centrale del dibattito politico. Un ruolo importante è stato giocato dai movimenti e dai partiti ambientalisti, sia nel sensibilizzare l’opi­ nione pubblica sia - soprattutto in Europa - nell’influenzare il processo di decision making entrando nei parlamenti nazionali. Benché partiti verdi siano nati anche al di fuori dell’Europa, come il neozelandese Values Party (1972), è nel vecchio continente che i partiti ecologisti hanno segnato i risultati migliori, diventando partiti consolidati all’interno dei sistemi politici postbellici. Se il primo partito am­ bientalista (People) nacque in Gran Bretagna nel 1973, e tale esempio fu seguito in diversi paesi europei, è in Germania che l’ecologismo politico ha trovato lo spazio maggiore. Nati nel 1980 all’interno della galassia delle Bùrgerinitiativen (Iniziative civiche), i Grùnen riuscirono a superare nel 1983 la soglia di sbarramento del 5% entrando nel Bundestag con 27 deputati. Inizialmente divisi tra una componente di ecologismo radicale (Funài), il cui principale esponente era l’intellettuale Rudolf Bahro, e una componente caratterizzata da un maggior realismo politico e aperta a collaborazione con altri partiti (Realos), i Grùnen hanno visto alla fine prevalere la

seconda componente. Ciò li ha condotti a far parte, assieme ai Socialdemocratici, dei due governi guidati da Gerhard Schròder tra il 1998 e il 2005, contribuendo alla decisione di porre fine all’uso del nucleare nel corso dei prossimi trent’anni, ma anche accettando di sostenere le riforme sociali proposte da Schròder nella cosiddetta Agenda 2010. L’azione dei movimenti e partiti ecologisti ha contribuito a modificare in misura significativa l’agenda politica in senso ambientalista. In Europa la società è com­ plessivamente più attenta alle questioni ambientali e la classe politica del vecchio continente ha perseguito politiche attente all’ambiente in maniera più conseguente di paesi come gli Stati Uniti, dove pure sono state approvate leggi contro l’inquina­ mento. Va anche detto che, peraltro, l’assunzione delle direttive europee da parte dei singoli stati componenti l’Ue non è stata sempre tempestiva ed efficace. Uno dei temi centrali del dibattito politico sulle questioni ambientali è costi­ tuito dal modo di produrre energia. La questione nucleare ha rappresentato un esempio delle implicazioni politiche in ambito energetico. La possibilità di sfrut­ tare l’energia nucleare a scopi bellici e civili ha rappresentato un evento di grande impatto sull’opinione pubblica ed è stato uno dei simboli del potere della scienza e della fisica in particolare. Negli anni Cinquanta e Sessanta l’idea di sfruttare pacificamente il nucleare si fondava sul consenso di vasti settori dell’opinione pubblica. Dopo la Seconda guerra mondiale l’impiego dell’energia atomica per usi civili apparve in sostanza come la logica soluzione al bisogno di energia e la via verso una sua produzione illimitata. Di conseguenza, centrali nucleari si diffusero in tutti i paesi più industrializzati. Nel 1957 a Vienna fu fondata la International Atomic Energy Agency (Iaea), un’agenzia delle Nazioni Unite volta a promuovere l’uso pacifico dell’atomo. Questo vasto fronte di consenso cominciò negli anni Settanta a essere eroso. Preoccupazioni per la salute dei lavoratori e delle comu­ nità locali misero in dubbio le certezze nella sicurezza delle centrali, aprendo una discussione tuttora viva. I sostenitori delle centrali nucleari tendono, in genere, a sottolineare il debole impatto ambientale di una centrale in normale funziona­ mento, valutano come molto basso il rischio di incidenti, considerano le scorie radioattive un problema tecnicamente risolvibile e giudicano la diffidenza verso il nucleare come frutto di una carente informazione dell’opinione pubblica. I critici delle centrali ammoniscono, invece, di fronte agli effetti di un possibile incidente, osservano che i costi crescenti per garantire la sicurezza delle centrali si riflettono sul prezzo dell’energia prodotto e la rendono meno appetibile, ritengono non ri­ solto il problema delle scorie. La questione nucleare resta dunque controversa. La convinzione nella sicurezza degli impianti nucleari fu scossa in misura significativa nel marzo 1979 dall’incidente di Three Miles Island, negli Stati Uniti, che portò a sigillare uno dei reattori. Ma fu soprattutto la catastrofe di Chernobyl nell’aprile 1986, con il rilascio nell’atmosfera di materiali radioattivi trasportati dal vento in tutta Europa, a rafforzare i sentimenti antinucleari dell’opinione pubblica. L’anno successivo il movimento antinucleare italiano vinse il referendum abrogativo che portò alla fine dell’esperienza del nucleare civile in Italia. Il recente incidente di Fukushima ha rafforzato lo scetticismo dell’opinione pubblica nei confronti dell’atomo e sembra aver avviato anche un ripensamento della filosofia della sicu­ rezza nelle centrali. Ne è una prova il fatto che lo stesso colosso nucleare francese Areva inizi il suo ultimo rapporto scrivendo che «oggi nessuno parla di nucleare senza pensare a Fukushima» e, a riprova dell’efficacia del discorso ambientalista,

presenti il nucleare come forma di energia pulita integrabile con le fonti rinnova­ bili (2010 Responsible Groivth, 2011). Indubbiamente, la sicurezza delle centrali più moderne è cresciuta nel corso degli ultimi anni. Nello stesso tempo, se è vero che le centrali nucleari hanno elevati standard di sicurezza, non va dimenticato che un incidente grave come quelli qui ricordati avrebbe rilevanti effetti di lungo periodo. La sicurezza dei reattori si basa su soluzioni ingegneristiche che attraverso sofisticati sistemi cercano di impedire il verificarsi di incidenti e, in particolare, la temuta fusione del nocciolo e il rilascio di sostanze radioattive nell’atmosfera. Questa strada non può però garantire una sicurezza assoluta. Molte speranze sono ora riposte nei reattori a sicurezza intrinseca, attualmente in progettazione, basati su una diversa architettura rispetto ai reattori in esercizio. In caso di pericolo questi reattori si spegnerebbero automaticamente per effetto delle stesse leggi della fisica, ma - come si è detto - sono impianti ancora in fase di progettazione. In ogni caso la tecnologia nucleare implica sempre uno smaltimento di scorie radioattive, che resta un problema spinoso. Per le scorie con un lungo periodo di decadimento radioattivo si devono individuare luoghi di stoccaggio che siano sicuri per un lasso di tempo di gran lunga superiore alla durata delle nostre vite e di quelle di diverse generazioni di discendenti. L’isotopo di plutonio239 ha un tempo di dimezzamento delle radiazioni di circa 24.000 anni, con una soglia di pericolo che potrebbe superare i 100.000 anni, anche a seconda delle condizioni di stoccaggio delle scorie. Per dare un’idea della dimensione temporale, basti pensare che il periodo considerato da noi come «storia» è cominciato da poco più di 5.000 anni e che il Neolitico si stima ebbe inizio circa 10.000 anni fa. Anche se il pluto­ nio rappresenta una parte minima del totale dei rifiuti radioattivi e anche se altri prodotti decadono in materiali inerti in tempi più brevi, per una parte delle scorie esistenti parliamo comunque di tempi di decadimento lunghi, che in alcuni casi possono coprire anche più generazioni umane. E evidentemente difficile garantire a così lungo termine la sicurezza di un sito di stoccaggio dovendo tenere conto di molteplici fattori, dai rischi di infiltrazione delle falde acquifere alla possibilità di eventi naturali catastrofici come i terremoti. Ugualmente difficile appare assicurare che non vi sarà in futuro una perdita di consapevolezza del pericolo rappresentato dalle scorie, circostanza che potrebbe essere la conseguenza del declino dei sistemi politici e sociali che hanno generato i rifiuti nucleari. Questa situazione genera due diversi problemi di natura politica. Vi è prima di tutto un evidente problema etico, poiché in tal modo si rischia si scaricare la responsabilità delle nostre azioni sulle generazioni future in una misura che non ha avuto eguali nel passato. Il secondo problema è legato al consenso delle comunità locali, che spesso rifiutano la co­ struzione di depositi, come testimonia il caso italiano di Scanzano Ionico, dove la comunità locale si oppose nel 2003 con successo al tentativo del governo Berlusconi di costruire un sito di stoccaggio delle scorie della centrale di Caorso. Si tratta di una tendenza che è stata definita «Not in my backyard» (non nel mio giardino). Senza entrare nel merito delle singole situazioni locali in cui posizioni di rifiuto potrebbero essere giustificate da difetti di progettazione dei siti, entriamo qui in uno dei paradossi delle società democratiche. Il principio «Not in my backyard» applicato alle questioni ambientali si può sintetizzare in questo modo: pretendere un alto tenore di vita con il conseguente costo in termini di consumo di energia e nello stesso tempo non accettare la condivisione dei costi nella propria vita. Ciò non riguarda solo il nucleare, ma è un problema che tocca tutta la sensibilità ecologista

maturata nell’opinione pubblica in questi anni. Si pensi alle difficoltà di individuare siti per i rifiuti o alle polemiche diffuse ovunque sulla distribuzione di pale eoliche di cui si lamenta l’inquinamento acustico e l’impatto ambientale sul paesaggio. Queste polemiche mostrano la complessità di una corretta politica ambientale e le difficoltà che si incontrano nel costruire un rapporto con l’opinione pubblica, ma sono anche una spia della rigidità di alcune forme di ambientalismo. C’è da sperare che il XXI secolo sia il secolo del risparmio energetico, ma per quanto si possa risparmiare, l’energia dovrà comunque essere prodotta in elevate quantità a meno di non ipotizzare una riduzione sensibile e generalizzata del tenore di vita. Siamo quindi arrivati al tema più scottante: quello delle implicazioni po­ litiche del dibattito sui limiti dello sviluppo. La democrazia si è sviluppata a partire dal riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti avvenuto nel Settecento. Il radicamento della democrazia è stato un processo tutt’altro che semplice, aiutato dall’incremento generalizzato del benessere, le cui basi risiedono nello sviluppo generato dalla cosiddetta Rivoluzione industriale, ma che si è realizzato in forme prima sconosciute soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale. Dopo il 1945 il mondo occidentale è divenuto un luogo in cui anche gli strati sociali inferiori della popolazione potevano accedere a beni di consumo in una misura in altre epoche impensabile. La cultura della parsimonia è stata così superata dalla cultura dell’ab­ bondanza. Rispetto a questo sviluppo, le critiche ambientaliste spesso riprendono temi classici della polemica anticonsumista, nella misura in cui insistono sul ca­ rattere superfluo di molti consumi. Tuttavia, poiché i beni di consumo non sono solo oggetti, ma sono connessi a pratiche sociali che si legano alla soddisfazione dell’individuo, la semplice critica del superfluo rischia di essere un argomento di scarsa efficacia. Se esigenze ambientali dovessero portarci a una riduzione signifi­ cativa del tenore di vita le conseguenze sulla stabilità dei sistemi politici sarebbero tutt’altro che marginali. Se l’accesso al benessere si è registrato senza dar luogo a una significativa redistribuzione di beni, ma semplicemente aumentando le dimensioni della «torta», come molti indicatori sembrano confermare, allora una riduzione dei consumi metterebbe in crisi gli equilibri politici esistenti. Le epoche anteriori alla Rivoluzione industriale dovevano fare i conti con la scarsità di risorse all’interno di un sistema di valori che assumeva la disuguaglianza come un dato strutturale, fondato sulla natura. In altre parole, la cultura della parsimonia delle epoche precedenti era un prodotto certamente della scarsità di beni, ma nella sua applicazione alla società era legittimata da concezioni non egualitarie della socie­ tà, in cui il dislivello nell’accesso ai beni dipendeva da una stratificazione sociale giustificata in termini di natura. Le società democratiche sono invece nate su un presupposto egualitario e la giustificazione degli squilibri di reddito presenti nella società possono in realtà essere giustificati proprio dalla possibilità di accedere al benessere per tutti e dall’idea, vera o presunta, di poter accrescere, per esempio con il lavoro, tale benessere. La necessità di un abbassamento significativo del tenore di vita imposto da esigenze ambientali - cosa ben diversa da ciò che accade per effetto di politiche deflattive - riproporrebbe il tema delle disuguaglianze in maniera acuta e metterebbe a rischio la pace sociale acquisita, non senza sforzo, nel corso dell’età contemporanea.

5.

Conclusioni

Nel 1991 il miliardario texano Edward Bass finanziò con circa 150 milioni di dollari il progetto Biosfera 2. Alcuni volontari simularono le condizioni di so­ pravvivenza che avrebbero trovato in un’ipotetica base su Marte e vissero, senza collegamenti con l’esterno salvo sporadiche comunicazioni, all’interno di una cupola che conteneva piante e orti. L’idea alla base del progetto era raggiungere l’autosostentamento della piccola colonia, che avrebbe dovuto vivere coltivando il cibo all’interno della cupola e riciclando l’ossigeno per mezzo della fotosintesi. L’esperimento fu un parziale insuccesso perché fu necessario pompare ossigeno e in­ tegrare il cibo prodotto dentro la cupola. La ragione dell’insuccesso risiedeva nella limitata conoscenza degli equilibri che garantiscono la vita sulla terra, che non era stato possibile ricreare correttamente. Questa vicenda è un buon esempio del gap di conoscenze che separa ancora l’uomo dalla comprensione piena dell’ambiente in cui vive. Più che da un eccesso di tecnologia e scienza, i problemi ambientali che viviamo trovano la loro prima causa nella scarsa conoscenza che abbiano dell’inte­ razione tra gli elementi della biosfera. Una migliore comprensione di tali rapporti non è condizione sufficiente per un’interazione positiva con l’ambiente, ma certo è condizione necessaria. Conoscere tali interazioni ci renderebbe più consapevoli delle conseguenze delle nostre decisioni, accrescere la conoscenza ci permette­ rebbe di manipolare l’ambiente con maggior successo, ma, nello stesso tempo, ci metterebbe in grado anche di scegliere in maniera più consapevole evitando azioni troppo invasive. Tuttavia, la scienza non è condizione sufficiente. Anche se avessimo raggiunto una totale comprensione delle interazioni tra uomo e ambiente, sarebbe poi necessario diffondere gli effetti di tale consapevolezza nella società. È la sfera della politica a giocare pertanto un ruolo decisivo nel mettere a frutto i prodotti della conoscenza. Negli ultimi anni è cresciuta la sensibilità ambientale nell’opinione pubblica e ciò ha significato rendere la parola «ambiente» un lemma presente in ogni linguaggio politico. Questa sensibilità ambientalista a volte si è tradotta solo nella ricerca di giustificazioni ambientaliste a copertura delle scelte compiute dalla politica. Sarebbe invece ragionevole incorporare stabilmente la variabile ambientale nel calcolo politico ed economico. La ricerca di uno sviluppo e di un consumo più sostenibili dovrebbe costituire una priorità dell’agenda politica. Nello stesso tempo, sarebbe opportuno evitare di assumere posizioni dogmatiche dimenticando la complessità del rapporto tra legittimità e potere. L’impossibilità di ripristinare condizioni preindustriali - ammesso che risultassero poi così gradite a chi le viveva - impone di pensare a una forma di sviluppo sostenibile che non privi le popolazioni del benessere diffuso in cui siamo vissuti negli ultimi anni. Percorso di autoverifica

1. Illustrate il problema dei limiti dello sviluppo proposto dal Mit. 2. Ricostruite l’evoluzione del rapporto uomo-ambiente a cavallo della Rivoluzione indu­ striale. 3. Illustrate il dibattito sull’energia nucleare. 4. Illustrate il problema della crescita demografica. 5. Analizzate la questione dell’uso dei combustibili fossili.

Per saperne di più

M. Armiero e S. Barca, Storia dell’ambiente. Una introduzione, Roma, Carocci, 2008. P. Bevilacqua, La Terra èfinita. Breve storia dell’ambiente, Roma-Bari, Laterza, 2006. R. Carson, Primavera silenziosa, Milano, Feltrinelli, 1999. J.E. Cohen, Quante persone possono vivere sulla terra?, Bologna, Il Mulino, 1998. B. Commoner, Il cerchio da chiudere, Milano, Garzanti, 1987. P. Ehrlich, The Population Bomb, New York, Ballantine, 1968. D. H. Meadows, I limiti dello sviluppo, Milano, Mondadori, 1972. S. Neri Serneri, Incorporare la natura. Storie ambientali del Novecento, Roma, Carocci, 2005. F. Paolini, Breve Storia dell’ambiente nel Novecento, Roma, Carocci, 2009. E. F. Schumacher, Piccolo è bello, Milano, Mondadori, 1977. L. Thurow, La società a somma zero, Bologna, Il Mulino, 1980.

L’emergere dell’Asia nella storia contemporanea di Antonio Fiori

Alla conclusione della Seconda guerra mondiale l’Asia era poco più di una mera espressione geografica. Oggi, al contrario, si guarda al continente asiatico come a una delle regioni più vibranti del mondo, lontana dalla condizione di povertà e frammentazione in cui versava. La trasformazione è stata il prodotto di due fattori chiave che hanno dominato le relazioni internazionali dell’Asia dal 1945: da una parte la competizione tra l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti, volta a porre sotto il rispettivo ombrello i singoli stati della regione; dall’altra la lotta condotta da leader nazionalisti per garantirsi il sostegno necessario al mantenimento del potere e dell’indipendenza in un contesto internazionale estremamente instabile.

La Seconda guerra mondiale, da una prospettiva generale, costituì un fondamentale punto di svolta che modificò profondamente la struttura delle relazioni internazionali rispetto al periodo precedente. Nel contesto della guerra fredda, l’Asia divenne una delle arene principali di scontro tra le due superpotenze e su di essa ebbe un notevole impatto, sagomando le relazioni tra gli stati asiatici e le interazioni tra questi e il resto del mondo. Da una prospettiva regionale, il conflitto mondiale impose un riposizionamen­ to dei paesi asiatici nell’ordine internazionale. Al principio di questo periodo le potenze imperiali che avevano colonizzato quasi interamente l’Asia nel corso dei quattro decenni precedenti - Gran Bretagna, Francia, Olanda, Giappone e Stati Finiti - persero i loro possedimenti: ciò avvenne sia per effetto dell’indebolimento delle potenze coloniali seguito all’impegno bellico, sia in seguito all’esplosione del sentimento nazionalistico all’interno delle colonie che alimentò i movimenti indipendentisti. I leader degli stati post-coloniali della regione asiatica, nell’immediato dopo­ guerra, si sforzarono di sfruttare il sentimento nazionalistico e di trovare ricette economiche che potessero favorire lo sviluppo interno. In ambito internazionale era necessario definire delle misure che avrebbero consentito di difendere l’appena conquistata sovranità, in un quadro che andava rapidamente polarizzandosi in una lotta per il potere tra gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali da un lato e l’Unione

Sovietica e il suo blocco dall’altro. Nello sforzo di scendere a patti con la pressione imposta dal bipolarismo, i nuovi stati asiatici seguirono percorsi diversi: per alcuni - Corea, Cina e Vietnam - l’allineamento con una delle due superpotenze trasformò la linea di confronto ideologica in una separazione territoriale. In altri casi, come quello indiano, si scelse la via della neutralità. In altri ancora, come nel caso della Repubblica popolare cinese, ci si schierò con un polo, per poi - dopo un periodo di lungo isolamento - avvicinarsi all’altro e infine liberarsi dai legami, perseguendo una linea di apertura all’economia globale. In molti casi i benefici della cooperazione nei campi della sicurezza e dell’e­ conomia attraverso l’allineamento con una delle due superpotenze fecero sì che la politica interna e quella estera dei nuovi stati asiatici fossero intimamente inter­ dipendenti. La maggior parte dei nuovi regimi era infatti relativamente debole e necessitava di un supporto esterno di tipo economico e militare. Allo stesso tempo, in molti casi, i leader dei neonati stati dovettero confrontarsi con un’opposizione politica che complicava e a volte minacciava il loro controllo sul potere. In tali cir­ costanze, i sentimenti nazionalistici che avevano alimentato le lotte indipendentiste divennero potenti strumenti politici nelle mani dei leader e dei loro oppositori, e le questioni di politica estera ebbero delle profonde ricadute sui contrasti politici interni. La guerra fredda, inoltre, condizionò la politica internazionale della regione asiatica e fu a sua volta influenzata dalle priorità e dalle politiche degli stessi paesi della regione. Nei paesi divisi - Corea, Cina e Vietnam - al fine di massimizzare la propria influenza, ognuna delle due superpotenze individuò e sostenne un con­ tendente per il potere nazionale emerso dalle élite nazionaliste locali. Il risultato fu che le lotte per il potere e le guerre civili si intrecciarono, in questi paesi, con le esigenze imposte dalla guerra fredda. La fine del confronto bipolare e il successivo crollo del comuniSmo nel 1991 contribuirono all’archiviazione delle dinamiche che avevano plasmato le relazioni internazionali dei paesi asiatici nei decenni precedenti. Tra i cambiamenti più degni di nota che anticiparono la trasformazione dello scenario vi furono il riawicinamento tra gli Stati Uniti e la Repubblica popolare cinese, l’avanzamento del Giappone, la fine della guerra del Vietnam, il decollo della Corea del Sud e di Taiwan, l’ascesa della Cina di Deng e dei suoi successori. 1.

L’Asia dalla fine della Seconda guerra mondiale alla fine della guerra fredda

1.1. Il Giappone dall’occupazione al «miracolo economico»

Quando, il 15 agosto del 1945, l’imperatore Hirohito annunciò la volontà di arrendersi, i giapponesi rimasero increduli: per molti di loro la semplice idea dell’occupazione del loro territorio da parte di truppe straniere era inimmaginabile e inaccettabile. Ciò nonostante, il primo contingente militare giunse in Giappo­ ne - fiaccato e impoverito dal conflitto mondiale - alla fine del mese. Il generale Douglas MacArthur, nominato Comandante supremo delle forze alleate (Scap), ricevette il compito di guidare la smilitarizzazione e la democratizzazione del paese. La principale preoccupazione degli americani, condivisa dai loro alleati, era quella di disinnescare il potenziale bellico dei nipponici. Di conseguenza, le forze armate e la polizia militare giapponesi furono smantellate, l’industria bellica distrutta e

venne creato, nel maggio 1946, il Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente, deputato a giudicare i responsabili delle atrocità come criminali di guer­ ra. Il secondo, non meno importante, obiettivo degli occupanti stava nell’avvio del processo di democratizzazione dell’arcipelago nipponico. In questo senso, i giapponesi furono costretti ad accettare una nuova costituzione, redatta dallo staff di MacArthur ed entrata in vigore nel 1947, che interveniva principalmente sulla figura dell’imperatore: quest’ultimo, avendo rinunciato al carattere divino della sua figura, veniva ridotto a mero simbolo dello stato e privato di qualunque potere effettivo. In base alla nuova Carta il Giappone adottava un sistema par­ lamentare di tipo inglese, in cui la Dieta, cioè il massimo organo di potere dello stato, assumeva una configurazione bicamerale. Il diritto di voto era garantito a tutti i cittadini, uomini e donne, di almeno vent’anni di età. Il potere giudiziario venne reso indipendente da quello legislativo e alla Corte Suprema venne affidato il controllo della costituzionalità degli atti legislativi. In accordo con le priorità degli americani, l’articolo 9 della nuova costituzione imponeva ai giapponesi la rinuncia alla guerra come diritto sovrano della nazione e, di conseguenza, negava loro la facoltà di dotarsi di forze armate. Poche di queste riforme sarebbero state adottate volontariamente dai giapponesi, i quali dovettero però adattarsi al nuovo sistema velocemente. L’elenco delle riforme, tuttavia, passava anche dalla necessità di imporre dei cambiamenti alla sfera economica. Gli americani forzarono l’introduzione di un programma di riforma terriera nelle zone rurali del paese e, al contempo, provarono a smantellare gli zaibatsu, enormi conglomerati che dominavano il panorama pro­ duttivo ed erano ritenuti responsabili di aver spalleggiato il militarismo imperialista. In quel periodo, inoltre, grazie anche alla proliferazione di organizzazioni sindacali furono introdotte delle norme che miravano a migliorare le condizioni lavorative e salariali dei lavoratori. Insomma, non vi è ombra di dubbio che - nonostante le resistenze di parte delle élite locali, dei burocrati e degli uomini d’affari - il Giappone del dopoguerra andasse gradualmente assumendo una configurazione nettamente democratica ed egualitaria. La figura politica di centrale importanza negli anni dell’occupazione americana fu il primo ministro Yoshida Shigeru. Questi, un ex diplomatico moderato, svi­ luppò un’eccellente collaborazione con MacArthur, in particolar modo dopo che le pressioni statunitensi per l’avvio delle riforme sociali ed economiche si furono ammorbidite. Una parte considerevole del successo di Yoshida veniva dall’abilità con cui egli sfruttò il timore della diffusione del comuniSmo, che condivideva con MacArthur e che, gradualmente, dette forma all’agenda di Washington. Nel 1948 il corso dell’occupazione prese una piega differente: le politiche di riforma furono allentate o in certi casi abbandonate, gli zaibatsu riguadagnarono il dominio dell’economia e le forze di polizia furono investite di maggiori poteri di controllo. Rispetto al periodo iniziale, quindi, le autorità occupanti «invertirono la rotta», stringendo un giro di vite contro le forze politiche progressiste. Una delle interpretazioni maggiormente accreditate per spiegare il cambiamento di rotta americano è quella per cui l’impatto della guerra fredda spostò l’asse della politica di occupazione dal percorso riformista alla percepita necessità di resistere all’espansionismo sovietico. Ad ogni modo, il Giappone era ormai pronto per il suo reintegro nel sistema internazionale e le sue élite tradizionali stavano riguadagnando il controllo degli affari del paese.

Nella primavera del 1950 il Giappone entrò in una fase di recessione come conseguenza del programma di austerità imposto da Washington l’anno prima. Gli enormi investimenti che furono concessi dagli americani nel corso della guerra di Corea aiutarono economicamente il Giappone, ingabbiandolo però al contempo in una sorta di dipendenza economica. Nel settembre 1951, con la ratifica del trat­ tato di San Francisco, che pose fine all’occupazione americana, il Giappone potè riguadagnare la sua indipendenza formale. La ricostruzione del sistema economi­ co cominciò a emergere come priorità imprescindibile nel panorama politico del paese. Al fine di ottenere ulteriori sostanziosi aiuti, Yoshida continuò a esercitare pressioni sugli americani, aprendo al contempo però nuove rotte commerciali in direzione sia della Cina continentale sia di Taiwan. Intrattenere buone relazioni con gli statunitensi rimaneva comunque fondamentale per Tokyo. Nel contesto della guerra fredda era necessario mostrarsi allineati alle posizioni di Washington per garantirsi la sua protezione e prosperare sotto l’ombrello nucleare americano: si lasciava, insomma, che fosse l’America a battersi per il Giappone. Se la garanzia di fruire della protezione americana era una questione vitale, altrettanto importante era per i giapponesi la possibilità di avere accesso al mercato interno statunitense. Alla metà degli anni Cinquanta l’economia giapponese entrò in una spirale virtuosa di crescita che fu brevemente limitata solo dalla recessione globale del 1958. In quel periodo le performance finanziarie statunitensi e il sup­ porto che gli americani offrivano ai loro alleati favorivano la crescita economica mondiale, creando un clima propizio alle esportazioni nipponiche. I giapponesi, inoltre, negli anni Cinquanta e Sessanta beneficiarono molto della diminuzione dei prezzi del greggio e dei materiali non lavorati. Queste condizioni favorevoli esterne furono abilmente sfruttate dal Giappone, la cui crescita annua cominciò a raggiungere traguardi sino a quel momento inimmaginabili. Alla metà degli anni Sessanta le esportazioni giapponesi risultarono maggiori delle importazioni, il credito maggiore del debito e le riserve di valuta straniera cospicue. Il «miracolo» giapponese si era concretizzato: quella nipponica era di­ ventata la seconda economia mondiale e poteva sognare addirittura di scalzare gli americani dalla vetta. Questo successo scatenò le paure di Washington in primis, ma anche dei vicini regionali che ben si ricordavano delle sofferenze patite a causa del dominio giapponese. Inizialmente gli americani avevano accolto positivamente l’evoluzione giap­ ponese: le considerazioni politico-militari della guerra fredda superavano di gran lunga quelle relative alle questioni commerciali. In quel frangente, tuttavia, le recriminazioni delle industrie nazionali, ferite profondamente dalla competizione dei giapponesi, non potevano più essere ignorate. Si originarono quindi frizioni che misero in pericolo le relazioni tra i due paesi e che ebbero delle ripercus­ sioni anche in campi diversi da quello economico, come per esempio la disputa sull’utilizzo dell’isola di Okinawa come base per i movimenti militari degli Stati Uniti. Se la tensione si acuì negli anni successivi, nel 1971 i Nixon shocks resero tutto ancor più difficile. Nel luglio di quell’anno, infatti, Nixon annunciò - senza informare preventivamente i giapponesi - di voler procedere a colloqui con la leadership della Repubblica popolare cinese in vista di un progressivo disgelo. Il mese successivo, viste le gravi difficoltà dell’economia americana, derivanti in gran parte dall’impantanamento in Vietnam, Nixon impose un aumento del 10% sulle tariffe statunitensi, svalutando di fatto il dollaro per rendere le merci americane

più competitive. Washington stava mandando un messaggio molto chiaro a Tokyo: non avrebbe più subordinato gli interessi economici agli obiettivi di politica estera. Agli inizi degli anni Settanta l’eccezionale crescita economica giapponese si arrestò, complice anche la guerra del Kippur scoppiata nell’ottobre del 1973, che limitò fortemente i rifornimenti di petrolio, di vitale importanza per l’economia nipponica. L’anno seguente il Giappone entrò in una fase di profonda recessione, che però non cancellò i traguardi raggiunti nei due decenni precedenti. La ripresa, alla metà degli anni Settanta, continuò a dipendere dalle esportazioni, che inne­ scarono, all’inizio del decennio successivo, una serie di guerre commerciali con gli Stati Uniti e con l’Europa, la cui conseguenza immediata fu l’avvio di pressioni protezionistiche nei confronti delle merci giapponesi. Tali pressioni, protrattesi negli anni Ottanta, costrinsero Tokyo a promettere una serie di cambiamenti interni volti a pacificare i suoi partner commerciali. Le enormi riserve in valuta estera di cui il paese era arrivato a disporre condus­ sero verso la fine degli anni Ottanta a una diffusa speculazione nel campo immobi­ liare e azionario che produsse un vertiginoso aumento dei prezzi. Ciò costrinse la Banca del Giappone ad alzare i tassi di interesse: la conseguente bolla speculativa mise in dubbio la possibilità che il Giappone potesse effettivamente rimanere una delle potenze economiche globali. Dopo la bolla, il paese entrò in un lungo periodo di stagnazione, comunemente definito come il «decennio perduto», che non si limitò all’ambito economico, ma si abbatté con forza anche sulla società nipponica. In particolare, il famoso impiego a vita era divenuto ormai una chimera: si era obbligati a lavorare più a lungo e più duramente, a livelli di salario invariati, con conseguenze spesso drammatiche, come l’aumento delle morti per superlavoro (karoshi) ma anche dei suicidi per effetto della crescente disoccupazione. 1.2. La Repubblica popolare cinese da Mao all’apertura al mondo

Il 1° ottobre 1949, dopo circa un ventennio di lotta contro i nazionalisti del Guomindang, i comunisti cinesi - guidati da Mao Zedong - proclamarono la nascita della Repubblica popolare cinese. Per la leadership di Pechino non vi era nessuna alternativa realistica per il paese se non seguire la via sovietica allo sviluppo economico; l’unico, del resto, con cui la gran parte di essi avesse una qualche di­ mestichezza. L’adesione al modello sovietico implicava, soprattutto, l’introduzione della pianificazione economica centralizzata e l’adozione di piani quinquennali, atti a darsi obiettivi produttivi e di investimento. Il Primo piano quinquennale, varato formalmente nel settembre 1933, rendeva chiaro l’assunto in base al quale la Cina necessitava di una forte espansione del settore deH’industria pesante che poteva es­ sere sostenuta solo attraverso lo sfruttamento dei surplus prodotti dall’agricoltura. Alla metà degli anni Cinquanta il partito cominciò a essere attraversato da numerose divisioni. Subito dopo la vittoria sui nazionalisti, i suoi leader aveva­ no approntato la gran parte delle linee politiche interne: la riforma terriera era essenziale per mantenere il supporto delle masse popolari che avevano spinto i comunisti al successo; l’attacco nei confronti degli uomini d’affari sembrava necessario per spezzare qualunque fonte di opposizione al ruolo del partito; il modello sovietico di sviluppo economico rimaneva l’unico perseguibile. Alcune

differenze cominciarono tuttavia a emergere relativamente al ruolo degli intellet­ tuali: nel 1957 venne lanciata la campagna dei «Cento fiori», con cui si offriva agli intellettuali l’opportunità di esprimere il loro parere sui passi compiuti dalla Cina e sulle riforme verso cui tendere in futuro. In risposta, però, giunsero soprattutto numerose critiche nei confronti del partito, contro cui Mao reagì dichiarando conclusa l’esperienza dei Cento fiori e dando inizio a una feroce repressione. Nel 1958 Mao lanciò il cosiddetto «Grande balzo in avanti» il cui obiettivo era mobi­ litare le masse per giungere a un rapido avanzamento nella produzione agricola e industriale. Questo intervento implicava l’abolizione degli appezzamenti privati e la nascita di grandi comuni agricole. La creazione di milioni di fornaci da cortile, con cui si doveva produrre acciaio, si risolse in un netto fallimento, conducendo peraltro a un crollo nella produzione agricola che determinò una forte carestia. Molti cominciarono a convincersi del fatto che il paese dovesse seguire strategie di sviluppo differenti da quelle intraprese da Mao. Nel 1966, mentre il paese si riprendeva dal Grande balzo, esplose la Rivolu­ zione culturale, che produsse un inarrestabile culto della personalità nei confronti di Mao, ponendo un freno alla crescita economica del paese. Il tentativo di Mao di liberarsi dei suoi oppositori all’interno del partito, facendo leva sulla comunanza di intenti delle giovani Guardie rosse, gettò il paese nel caos, scatenando veri e propri conflitti tra fazioni. Centinaia di migliaia di intellettuali e quadri di partito furono mandati al confino nelle zone rurali per lavorare ed essere rieducati. Fino all’estate del 1968 non venne ristabilito alcun tipo di ordine interno. Nel 1970 Mao si persuase che la Rivoluzione culturale dovesse essere contenuta e che l’organiz­ zazione partitica rafforzata. In prospettiva internazionale, l’allontanamento che si era verificato tra Pechino e Mosca alla fine degli anni Cinquanta fu il presupposto per una distensione nei rapporti tra cinesi e americani, anche se la convergenza continuava a essere resa complicata a causa della frizione tra Cina continentale e Taiwan, tra cui si erano sviluppati degli attriti già nel 1954 e nel 1958. La formula vincente fu però rintrac­ ciata all’inizio degli anni Settanta, allorché gli Stati Uniti riconobbero, compiendo una mirabolante operazione diplomatica, che entrambi gli attori sullo Stretto insistevano sulla presenza di un’unica Cina, augurandosi che il futuro di Taiwan sarebbe stato determinato in maniera pacifica successivamente. Nel luglio 1971 il mondo intero venne a conoscenza del fatto che cinesi e statunitensi si erano parlati a lungo e che lo stesso Nixon avrebbe visitato la Cina l’anno successivo. Quasi immediatamente, gli americani crearono le condizioni perché i cinesi continentali potessero appropriarsi del seggio alle Nazioni Unite, che venne strappato dalle mani di Taiwan. Successivamente, le crisi interne a entrambi i paesi preclusero altre mosse conciliatorie per svariati anni; nondimeno, nel 1976 Cina e Stati Uniti avevano ormai smesso di essere avversari. La decisione dei leader cinesi, sul finire degli anni Settanta, di abbandonare l’autosufficienza per ricercare la rapida modernizzazione della propria industria attraverso aumentati rapporti con il mondo esterno ebbe un effetto dirompente sull’economia mondiale. Alla vigilia della morte di Mao, nel 1976, si era aperta una frattura all’interno del partito tra coloro che volevano preservare la Cina da qua­ lunque influenza esterna e quelli che invece propugnavano una sempre maggiore apertura del paese e un reintegro all’interno del sistema internazionale. Quelli che ritenevano che la Cina potesse trarre vantaggio dall’importazione di tecnologia

ed expertise straniera senza per questo motivo sacrificare i suoi principi politici prevalsero, ma forti tensioni perdurarono per anni. Il principale attore nel processo di apertura cinese al mondo fu Deng Xiaoping, uno dei leader del partito, esautorato all’inizio della Rivoluzione culturale e poi assurto a guida a partire dal 1978. Deng e i suoi si mossero velocemente nella direzione della riforma dell’economia, spesso spalleggiati da figure importanti del partito che, pur essendo meno ricettive all’integrazione nell’economia mondiale, erano ugualmente convinte che la visione utopica di Mao avesse spinto il paese alla rovina. Un certo grado di modernizzazione era auspicato da tutti i leader cinesi, affinché il paese potesse rafforzarsi e prosperare. Tutti quindi remarono nella dire­ zione prospettata da Deng, cioè verso l’attuazione delle «quattro modernizzazioni», nei campi dell’agricoltura, dell’industria, della scienza e tecnologia, e della difesa. La decisione della leadership del partito di accettare prestiti stranieri e di per­ mettere gli investimenti diretti - attraverso la creazione di alcune zone economiche speciali - fu importantissima. Miliardi di dollari cominciarono ad affluire nel paese, insieme agli uomini d’affari di tutto il mondo i quali desideravano esplorare il vasto mercato cinese e investire nelle industrie, beneficiando, inoltre, dell’enorme sacca di lavoratori a basso costo e non sindacalizzati che la Cina poteva offrire. Deng cercò anche di riallacciare i rapporti con gli Stati Uniti, nonostante la questione taiwanese costituisse ancora uno scoglio insormontabile. La crescita economica della Cina e la velocità con la quale il paese si trasformò in un grande protagonista dei mercati mondiali fu stupefacente. Naturalmente, ciò non cancellò le debolezze di cui il paese soffriva: la forte corruzione, le disugua­ glianze nella distribuzione del reddito, le resistenze protezionistiche da parte delle economie avanzate. Alcuni di questi problemi fecero sorgere dei dubbi all’interno del partito sulla reale efficacia delle riforme, ma Deng ormai aveva intrapreso la strada dell’«economia socialista di mercato», una sorta di ossimoro che prevedeva la pacifica coesistenza di un partito il cui ruolo non poteva in alcun modo essere messo in dubbio e di una economia sempre più internazionalizzata che faceva da contraltare, per certi versi, all’impermeabilità politica. 1.3. La guerra del Vietnam

Fino alla fine degli anni Quaranta la regione del Sud-Est asiatico era rimasta esclusa dall’orbita sovietica: la sua lontananza impediva che Stalin se ne facesse carico, nonostante a lungo avesse preso in considerazione questa possibilità. Due importanti eventi, coincidenti cronologicamente con la guerra di Corea, modifica­ rono la situazione: il successo comunista nella guerra civile in Cina, che consentì a Mao di inviare armi e munizioni verso l’Indocina, e il fatto che i successori di Stalin, morto nel marzo del 1953, fossero molto interessati a sostenere i loro compagni nel Sud-Est asiatico oltre che, più in generale, le nazioni del «Terzo mondo». Nel 1950, proprio grazie all’aiuto cinese, la Lega per l’indipendenza del Viet­ nam (Viet Minh) era quasi riuscita a liberarsi dei francesi, che ricevettero però l’aiuto degli americani, allarmati dall’intervento cinese nella guerra di Corea e dal riconoscimento da parte dei sovietici e degli stessi cinesi del governo di Ho Chi Minh. Alla metà degli anni Cinquanta, allorché tutto lasciava presagire che i francesi non avrebbero resistito a lungo, Mosca e Pechino cominciarono a sospet­

tare che un intervento statunitense in Indocina andava approssimandosi: una tale eventualità avrebbe impedito la vittoria, che appariva scontata, delle truppe di Ho e costituito una minaccia ai confini meridionali della Cina. Sovietici e cinesi, quindi, proposero una conferenza internazionale che servisse a ricercare una pace negoziata in Indocina per prevenire un’umiliante sconfitta francese e un conse­ guente coinvolgimento americano. Statunitensi, britannici e francesi accettarono di incontrarsi a Ginevra nel maggio 1954, ma in quei mesi sia i francesi che la Vièt Minh cercarono di avanzare sul terreno di battaglia: gli asiatici ebbero la meglio sugli europei, annichilendoli nella famosa battaglia di Bièn Bièn Phù. Il governo francese si impegnò a mettere fine alla guerra, arrivando infine ai colloqui di Gi­ nevra che si tennero nelle settimane successive. Lo sganciamento francese dall’Indocina venne visto con molta insoddisfazio­ ne dagli americani, i quali si rifiutarono di siglare un accordo finale che avrebbe immediatamente dischiuso a Hó Chi Minh il controllo del Vietnam a Nord del 17° parallelo e portato il resto del paese a elezioni generali nel 1956. Non era quello, nella visione di Washington, il modo migliore per contenere l’avanzata del comuniSmo. L’obiettivo degli americani divenne quindi quello di realizzare una divisione al 17° parallelo, creando un regime nazionalista nella parte meridionale che avrebbe fermato l’avanzata del comuniSmo. L’Indocina sarebbe stato il tassello successivo nel quadro del confronto tra Stati Uniti e blocco cino-sovietico. Così, collaborando con Ngò Dình Dièm, un cattolico nazionalista, gli Stati Uniti versa­ rono milioni di dollari in aiuti militari e civili al Vietnam del Sud in supporto di un regime anticomunista, mentre le elezioni del ’56 furono bloccate nel timore che Hò potesse stravincere. Il principio di elezioni libere perdeva qualunque significato a Washington nel caso in cui si sospettasse che a vincere potessero essere i comunisti. Al principio la strategia statunitense funzionò, ma solo fino a quando la Vièt Minh non ritornò attiva a Sud, grazie anche all’aiuto del governo di Hò ad Hà Nói. Determinati a prevalere, gli statunitensi impiegarono tecniche di controinsurrezione, ricorsero alle più moderne tecnologie militari, sostituirono Dièm e molti dei suoi successori, utilizzarono il napalm e defolianti chimici: tutto si rivelò inutile nei confronti dei «Vièt Cong». Cominciò così l’afflusso di truppe americane in Vietnam, prima migliaia e poi centinaia di migliaia, e il bombardamento severo in particolare nel Nord del paese. Dall’altra parte della barricata Hò, grazie agli aiuti cino-sovietici, rimpinguava sempre di più le file del suo esercito in lotta con gli americani. Il numero dei morti crebbe incessantemente da ambedue le parti. Nel maggio 1968 si aprirono i negoziati tra Washington e Hà Noi, ma la guerra sarebbe andata avanti coinvolgendo anche il Laos e la Cambogia. Alla fine, Nixon riuscì a convincere sovietici e cinesi della necessità di porre fine al conflitto, in termini accettabili a Sài Gòn. Hà Nói, quindi, era rimasta vittima delle pressioni dei suoi alleati, per i quali - per motivi diversi - era necessario adesso migliorare le proprie relazioni con gli Stati Uniti. Nel febbraio del 1973 la guerra era esau­ rita da parte americana, mentre i vietnamiti combatterono ancora per due anni, fino a quando i comunisti non riuscirono a porre sotto il loro controllo l’intero paese rinominando Sài Gòn come Hó Chi Minh City. Dopo trent’anni di guerra la rivoluzione vietnamita aveva avuto la meglio su francesi, americani e sull’in­ tera opposizione interna. Poco dopo la caduta di Sài Gòn, i khmer rossi (khmer krohom) trionfarono in Cambogia e, successivamente, il movimento Pathet Lao assunse il controllo del Laos. Dove il tricolore francese aveva sventolato esisteva­

no adesso tre stati indipendenti, uniti dalla condivisa fedeltà dei loro leader agli assunti marxisti-leninisti. 1.4. La Corea del Sud e Taiwan: dall’autoritarismo alla democrazia

Il modello di sviluppo giapponese fu seguito fedelmente da alcuni paesi della regione, in particolare da quelli che avevano subito la colonizzazione di Tokyo. Tra questi la Repubblica di Corea e la Repubblica di Cina. Immediatamente dopo la fine della guerra civile, la Corea del Sud era un paese frastornato e selvaggiamente ferito, senza una base industriale sulla quale imperniare un processo di costruzione dell’economia. I generosi aiuti americani furono importanti per il paese, che dovette però scontare per anni l’incompetenza economica e l’autoritarismo politico del regime di Syngman Rhee, fino alla cac­ ciata di quest’ultimo nel 1960. Il periodo successivo, tuttavia, non si rivelò più facile dal punto di vista politico per la Corea: a metà del 1961 il generale Pak Chóng-hui guidò un colpo di stato militare che gli consegnò il comando del paese. L’aiuto americano, tuttavia, non venne meno, così come l’accesso privilegiato ai mercati statunitensi. Naturalmente, ciò che interessava agli americani era il fatto che i sudcoreani riuscissero a difendersi adeguatamente dai loro vicini del Nord, contribuendo alla salvaguardia del «mondo libero». La missione principale di Pak e dei suoi consiglieri era rappresentata dal rilancio economico del paese, che avrebbe dovuto basarsi sulle esportazioni, considerata la relativa limitatezza del mercato interno. Se uno dei perni principali della cresci­ ta economica era rappresentato dalla forza lavoro, ben istruita e a basso costo, lo sforzo non doveva essere inficiato da alcun agente esterno e, proprio per questo, la burocrazia - responsabile per l’attuazione dei piani economici - fu tenuta al riparo da qualunque tipo di contestazione sociale. Negli anni Sessanta gli Stati Uniti non ponevano alcun ostacolo alle esportazioni coreane di merci a basso costo. In questa maniera lo standard di vita dei coreani aumentò considerevolmente, nonostante il pae­ se soffrisse ancora di una vasta sperequazione nella distribuzione della ricchezza. Per Pak la creazione di ricchezza si tramutò in una costante accumulazione di consenso. Alla fine di quel decennio, tuttavia, temendo uno sganciamento degli Stati Uniti, che avrebbe significato una riduzione degli aiuti, Pak si spinse a dichiarare lo stato di emergenza, calpestando la costituzione che limitava la durata della sua presidenza ed emanando una nuova carta che rendeva «legale» la sua dittatura. Assicuratosi così il controllo del paese, Pak passò al gradino successivo della propria agenda economica, cioè lo sviluppo delle industrie pesanti, come quelle siderur­ giche o la cantieristica navale. Persuaso del fatto che la Corea avesse necessità di grandi gruppi industriali per poter competere a livello internazionale, egli spinse sull’acceleratore dello sviluppo dei grandi conglomerati, le chaebol. Il suo governo ricevette il supporto dei ricchi uomini d’affari, dando loro incentivi fiscali e prestiti agevolati e tenendo sempre sotto controllo i sindacati. Qui ebbe origine l’annosa relazione di convenienza sviluppatasi tra il regime militare e i grandi conglomerati industriali. La Corea riuscì nell’obiettivo di sviluppare il settore dell’industria pesante e accaparrarsi larghe fette del mercato dell’elettronica. La morte di Pak, avvenuta per mano di un suo collaboratore nell’ottobre del 1979, fu seguita quasi immediatamente da un nuovo colpo di stato militare, gui­

dato dal generale Chón, il quale non poteva essere accostato al suo predecessore per intelligenza politica e lungimiranza economica. Anche sotto Chón lo sviluppo economico del paese ebbe un ruolo centrale, ma l’ex militare non riuscì a tener conto del cambiamento dello scenario mondiale apportando i necessari aggiusta­ menti interni. La brutale repressione a cui Chón faceva spesso ricorso per porre sotto controllo il malcontento non fece altro se non radicalizzare la protesta degli studenti e dei lavoratori. Nel giugno del 1987 Chón capitolò sotto l’irresistibile pressione della società civile che, stanca di un quarto di secolo di autoritarismi, invocava la democrazia. Nel 1949, non appena i comunisti ebbero conquistato il potere nella Cina continentale, le loro mire si estesero anche a Taiwan, da cui i colonizzatori giap­ ponesi si erano ritirati nel 1945. L’attacco sembrava talmente scontato che perfino gli americani avevano deciso di farsi da parte, lasciando l’isola al proprio destino. Mao e i suoi, però, non si sentivano ancora pronti per scagliarsi contro Taiwan e presero tempo. Lo scoppio della guerra di Corea impose un completo ripensamento del ruolo di Taiwan: per gli americani l’isola assumeva un’assoluta centralità dal punto di vista geostrategico. Gli statunitensi presero a fornire assistenza militare ed economica, stringendo perfino un patto di mutuo aiuto con il governo di Jiang Jieshi (Chiang Kai-shek). Numerose riforme - innescate dai cospicui aiuti degli americani - furono introdotte, tanto che alla fine degli anni Cinquanta l’economia si era ormai stabilizzata. Era chiaro però che il passo successivo doveva essere quello della promozione delle esportazioni, sul modello giapponese, per riuscire a dare una netta accelerazione allo sviluppo economico dell’isola, aggiustando la struttura produttiva in relazione alle opportunità presenti nel quadro economico mondiale. A metà degli anni Sessanta, in parte in risposta alle pressioni statunitensi, Taiwan cominciò ad aprirsi all’imprenditoria privata e agli investimenti esteri, che afflui­ rono in massa. Alla morte di Jiang, avvenuta nel 1975, Taiwan era ormai diventata una delle principali potenze commerciali del mondo, seconda solo al Giappone per capacità di accumulo di riserve valutarie. Alla metà degli anni Ottanta, con la nascita del Partito democratico progressi­ sta, Taiwan comincia a lasciarsi alle spalle il dominio politico esercitato dai nazio­ nalisti del Guomindang: la transizione a un regime di stampo democratico aveva ormai avuto inizio. Le elezioni del 1996, le prime in cui ai cittadini era data la possibilità di eleggere in forma diretta il capo dello stato, rappresentarono un vero e proprio snodo politico per il paese, mentre in quelle tenutesi nel 2000 l’esponente del Partito democratico progressista riuscì a ottenere la maggioranza, diventando il primo presidente non proveniente dalle file del Guomindang. Nonostante il periodo di relativa distensione intercorso tra il presidente cinese Xi Jinping e quello taiwanese Ma Ying-jeou (2008-2016) - coronato dallo storico incontro svoltosi a Singapore nel novembre 2015 - qualunque progresso sostanziale nelle relazioni cino-taiwanesi è ostacolato dal perdurare della disputa attorno al concetto di «Unica Cina», della quale Taiwan farebbe parte. Nel 1992 si era giunti a un compromesso (1992 Consensus) in base al quale ognuna delle parti avrebbe ammesso l’esistenza di una Cina indivisa il cui significato sarebbe stato legato, però, alla propria definizione: per Taipei la sovranità sarebbe spettata legittimamente alla Repubblica di Cina mentre per Pechino alla Repubblica popolare cinese. Un’intesa che resta valida per il Guomindang, ma che il Partito democratico progressista non ha mai voluto riconoscere.

2.

Il debutto del nuovo secolo

2.1. Il Giappone alla ricerca della «normalità»

Il 7 gennaio 1989, con la morte dell’imperatore Hirohito, l’era Showa giunse alla fine. Quello di Hirohito era stato il regno più lungo della storia della monarchia. Il governo annunciò tempestivamente il nome del regno che avrebbe avuto inizio: Heisei (letteralmente «raggiungere la pace»), con l’ascesa al trono del principe Akihito, il 12 novembre 1990. La chiusura dell’era Showa segnò anche l’inizio della fine della lunga egemonia politica del Partito liberal-democratico (Pld), che, coinvolto in una serie di scandali legati alla corruzione dei suoi uomini, cominciò a perdere il consenso dei suoi elet­ tori. Con la fine della guerra fredda, infatti, i sostenitori del Pld divennero meno riluttanti a criticare apertamente il partito, e i media costantemente incoraggiati a scagliarsi contro i politici corrotti. Il Pld riuscì a rialzarsi nel 2001, quando un membro di una fazione minoritaria, Koizumi Junichiró, riuscì ad affermarsi vincendo le elezioni e assumendo la carica di primo ministro, che avrebbe conservato fino al settembre 2006, diventando uno dei più longevi primi ministri dai tempi di Yoshida Shigeru, col quale molto spesso sono state rintracciate delle analogie. Le riforme strutturali di Koizumi rilanciarono l’economia, aprendo un periodo di nuova espansione. A dir la verità, tuttavia, i tassi di crescita si rivelarono modesti e, nonostante il calo della disoccupazione, anche i salari medi si abbassarono. In aggiunta, i nuovi posti di lavoro erano in gran parte a breve termine, tanto che una fetta considerevole della forza lavoro giapponese cominciò ad essere composta da lavoratori part-time e temporanei. La politica economica di Koizumi si focalizzò soprattutto sulle privatizzazioni, come quella delle poste, che in Giappone posse­ deva la gran parte del denaro dei risparmiatori. In ambito internazionale Koizumi non si distanziò dalla via segnata dalle pre­ cedenti amministrazioni, considerando prioritario il rapporto con gli Stati Uniti, ed anzi rinsaldandolo attraverso la partecipazione attiva alle iniziative americane di lotta al terrorismo. In questo senso, è importante notare che proprio Koizumi scelse di mandare le truppe nipponiche in Iraq - dando un segnale ben preciso in riferimento alla partecipazione attiva in campagne militari delle forze armate giapponesi - e introdusse una proposta di legge in cui si chiedeva che l’Agenzia di difesa fosse trasformata in ministero, come poi avvenne puntualmente nel gen­ naio 2007. Durante il suo premierato Koizumi si recò anche due volte in Corea del Nord, soprattutto al fine di chiarire con i nordcoreani la questione relativa ai cittadini giapponesi rapiti tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Koizumi è salito spesso agli onori delle cronache anche per le sue molteplici visite al santuario shintoista Yasukuni, nel quale riposano, tra gli altri, coloro che hanno combattuto al servizio dell’imperatore - e quindi anche alcuni criminali di guerra - che hanno scatenato le reazioni indignate dei cinesi e dei coreani, oltre che di parte dell’opinione pubblica nipponica. Lo sdegno dei vicini fu così grande che sia i leader cinesi che sudcoreani per un certo periodo rifiutarono di incontrare il premier giapponese; le relazioni si normalizzarono solo dopo che Koizumi si fu recato in visita in queste due nazioni. A sua discolpa, Koizumi sostenne che le sue visite al tempio erano state fatte in forma strettamente privata e non ufficiale: queste

comunque non si fermarono neanche dopo le sue dimissioni da primo ministro, ma ovviamente ebbero una eco molto minore. In conformità con le regole del partito, Koizumi si dimise nel 2006, rinunciando peraltro a scegliere il suo successore. Il 20 settembre di quell’anno Abe Shinzò fu eletto presidente del Pld, succedendo a Koizumi in qualità di primo ministro alcuni giorni dopo. Abe è stato il più giovane premier del Giappone del dopoguerra ed il primo ad essere nato dopo la guerra. Durante il suo breve mandato da primo ministro, durato soltanto un anno, Abe cercò di dare seguito alle riforme fiscali del suo predecessore. Alcune delle scelte compiute da Abe, tuttavia, sono state aspramente criticate. In particolare, egli ha offerto il proprio sostegno alla controversa Società giapponese per la riforma dei libri di testo, ha negato il rapimento delle «donne di conforto» ad opera delle truppe nipponiche, e ha marchiato le critiche sudcoreane alla ri­ scrittura dei libri di testo come un’interferenza negli affari interni al Giappone. Abe ha anche cercato di modificare l’articolo 9 della costituzione nipponica, così che il Giappone potesse avere il proprio esercito de iure: per questo motivo, nel 2007, fu istituito il ministero della Difesa in sostituzione della precedente Agenzia della difesa. Il primo governo Abe, tuttavia, anche a causa di problemi di salute del primo ministro, ebbe una durata breve, pari a un anno. Lo stesso Abe, però, si è ripresentato alle elezioni del 2012, vincendole e dando vita a un nuovo governo; tale risultato è stato successivamente confermato in occasione delle consultazioni del 2014 e del 2017. Agli iniziali successi in ambito economico hanno fatto da con­ traltare le numerose dispute irrisolte con i vicini regionali, con i quali le relazioni hanno vissuto di alti e bassi. La questione più rilevante, e più difficile da digerire in particolare per Corea del Sud e Cina, è quella relativa alla nozione di «pacifismo proattivo» introdotta da Abe, vale a dire la trasformazione del Giappone in un paese «normale», in grado di difendersi autonomamente. Ciò ha infatti condotto Abe a riconfermare la volontà di sottoporre la costituzione a un cambiamento che consenta il diritto di «autodifesa collettiva». Ciò permetterebbe alle forze di auto­ difesa di intervenire in difesa di un alleato sotto attacco, spingendosi eventualmente anche al di fuori dei confini nazionali. Ciò sarebbe in antitesi con quanto stipulato dalla costituzione vigente, secondo cui il ricorso alla forza sarebbe consentito solo per fini di assoluta autodifesa. 2.2. La Cina post-maoista: dal massacro di Tiananmen al protagonismo internazio­ nale

Le riforme portate avanti da Deng si erano affermate con successo, in particola­ re nel settore agricolo e industriale, determinando un generalizzato miglioramento degli standard di vita della popolazione. In questa fase, all’apprezzamento dei paesi occidentali verso le riforme corrispose l’atteggiamento critico di alcuni membri con­ servatori del partito, preoccupati da quelle che consideravano deviazioni rispetto all’ortodossia marxista-maoista. Ciò nonostante, Deng non si fece intimorire e continuò a spingere sul pedale delle riforme. Questo naturalmente non significava che Deng fosse interessato a ciò che i giovani cinesi cominciarono a definire la «quinta modernizzazione», e cioè una profonda trasformazione di natura politica che avrebbe potuto condurre

alla transizione democratica. Ciò nonostante, man mano che i cinesi prendevano coscienza del mondo che li circondava cominciarono a sperare in condizioni di vita migliori. Essi volevano essere liberi dall’esercizio arbitrario del potere di governo, liberi di criticare i funzionari incompetenti e corrotti, liberi di esprimere le loro opinioni e magari di scegliere i propri leader. Nel 1987 i conservatori convinsero Deng a rimuovere il suo possibile erede politico, Hu Yaobang, dalla posizione di segretario generale del partito, a causa del suo presunto sostegno agli studenti che chiedevano l’avvio di riforme politiche. La rimozione di Hu non arrestò, tuttavia, un forte fermento sociale nel paese. Le università stavano preparandosi a ricordare il settantesimo anniversario del movi­ mento del 4 maggio e, oltretutto, Gorbacév, il simbolo della liberazione dell’Unione Sovietica, era atteso a Pechino in visita, come segnale di riconciliazione dei rapporti cino-sovietici. Nell’aprile 1989 la morte improvvisa di Hu Yaobang diede il via a nu­ merose manifestazioni in piazza Tiananmen, che andò gradualmente riempiendosi di studenti inneggianti alla democrazia. Il governo cinese rispose con un’estrema chiusura, lasciando però che per settimane i giovani rimanessero in piazza. Deng era però particolarmente impaziente: voleva che la piazza fosse sgomberata, il mo­ vimento per la democrazia annientato e i suoi leader puniti. Così, il 4 giugno 1989 le truppe cinesi massacrarono centinaia, forse migliaia, di manifestanti in piazza Tiananmen e nei suoi pressi. La brutale repressione nei confronti di questi giovani, alcuni dei quali iscritti al Pcc, spezzò i sogni di coloro che immaginavano che la Cina potesse instradarsi verso la democrazia attraverso metodi non violenti. Le azioni del governo cinese furono immediatamente condannate dagli Stati Uniti e dai principali paesi europei. Deng e il suo programma di modernizzazione cominciarono a mostrare delle difficoltà, ma ben presto, nel corso dei mesi successivi, tutti gli attori internazionali gradualmente abbandonarono parte delle sanzioni imposte contro la Cina: il gigante asiatico era troppo grande, potente e appetibile per poter essere trascurato o isolato. Nel giugno del 1989, immediatamente dopo il massacro, Jiang Zemin fu eletto segretario del Partito comunista e, poco più tardi, assunse la carica di presidente della commissione militare centrale e di capo dello stato. Jiang ha rappresentato una scelta di compromesso tra la componente più conservatrice e gli esponenti più liberali del partito. La sua leadership ha manifestato una forte continuità con quella precedente, sia sotto il profilo economico che politico. Il principale contributo ideologico di Jiang si è sostanziato nella cosiddetta teoria delle «tre rappresentan­ ze», secondo cui il partito costituisce l’unica legittima forza motrice dello sviluppo cinese. Sotto la sua leadership (1989-2002), sia Hong Kong (nel luglio 1997) sia Macao (nel dicembre 1999) furono restituite alla sovranità cinese. Con la quarta generazione di leader, guidata da Hu Jintao (2002-12), la Cina ha attraversato una fase di crescita economica ancora più pronunciata, nonché un certo miglioramento del suo prestigio internazionale. Sotto la leadership di Hu, idee quali «società armoniosa» - in riferimento alla necessità di provvedere a un più equo sviluppo economico interno - e «ascesa pacifica» cinese - in contrapposizione alle teorie della minaccia rappresentata dal successo cinese sul piano internazionale - hanno costituito le linee guida della politica interna e internazionale di Pechino. Accompagnata dalla generazione politica successiva, inaugurata da Xi Jinping nel 2012 e tuttora in corso, la Cina ha vissuto un relativo ridimensionamento della sua crescita economica (attualmente attorno al 6,8% su base annua) e una più

pronunciata assertività in politica estera. Nel 2013, il leader cinese ha lanciato la cosiddetta «Nuova via della seta», un progetto di connessione infrastrutturale che, nonostante si trovi ancora allo stato embrionale, dovrebbe coinvolgere più di sessanta paesi diversi. Sotto la leadership di Xi, Pechino ha mostrato posizioni più intransigenti rispetto alle dispute marittime e territoriali in cui è coinvolta, mentre il suo ruolo trainante nel campo dell’economia internazionale si è ulteriormente affermato. Sul piano interno, la leadership di Xi Jinping si è distinta per un irri­ gidimento dell’approccio verso le voci critiche, il dissenso sociale e la libertà di informazione. Nel marzo 2018, inoltre, una modifica costituzionale ha rimosso il limite dei due mandati per il capo dello stato, abolendo di fatto qualsiasi termine temporale per la presidenza Xi. 2.3. La penisola coreana tra nucleare e prove di distensione

Il 1987 fu un anno cruciale nella storia della Corea del Sud, perché coincise con l’instaurazione della democrazia nel paese e con la successiva indizione di elezioni presidenziali con metodo diretto. Le forze di opposizione compresero che soltanto unendosi, e quindi puntando su un unico candidato, avrebbero avuto qualche spe­ ranza di sconfiggere il candidato conservatore, No T’ae-u, alle urne. Le differenze tra i due principali esponenti dell’opposizione erano però troppo marcate e così il 16 dicembre No risultò eletto con solo il 36,6% delle preferenze. Per ironia della sorte, quindi, toccò proprio a uno dei principali protagonisti del precedente regime dittatoriale, un ex generale, inaugurare il nuovo corso democratico della Corea. All’inizio degli anni Novanta - complice il collasso dell’ideologia comunista - le due Coree ripresero i colloqui, che condussero alla ratifica di importanti accordi tra cui la Dichiarazione congiunta, che proibiva ai due attori di procedere a dotarsi o utilizzare armamenti nucleari. Anche questo accordo, tuttavia, non condusse ad alcun cambiamento tangibile nelle relazioni, e così, ancora una volta, si entrò in una fase di stallo, mentre il regime nordcoreano riprendeva il suo solito atteggiamento di sfida e minaccia. Al Nord, la morte di Kim Il-sòng, avvenuta l’8 luglio 1994, giunse improvvisa e inaspettata. Soltanto due settimane prima il Grande Leader aveva partecipato a una serie di colloqui con l’ex presidente statunitense Jimmy Carter in merito al programma nucleare nordcoreano. Il potere passò nelle mani del figlio maggiore Kim Chóng-il, col quale il ruolo dei militari diventò sempre più rilevante: alle forze armate veniva garantita una funzione di preminenza nell’assetto politico e sociale nordcoreano. Nel frattempo, la situazione economica del paese continuò rapida­ mente a deteriorarsi. Questo processo era la conseguenza sia delle vecchie scelte di politica economica sia dell’inatteso collasso dell’Unione Sovietica, che mise ancora di più in difficoltà l’economia di P’yòngyang. A partire dagli anni Ottanta la Corea del Nord aveva intrapreso un program­ ma segreto per dotarsi di armamenti nucleari, e tale scelta, una volta diventata di pubblico dominio, aveva condotto il paese sull’orlo della guerra con gli Stati Uniti guidati da Bill Clinton. Dopo la morte di Kim Il-sóng i negoziati condussero alla ratifica, nel 1994 a Ginevra, dell’Accordo Quadro, in base al quale P’yòngyang accettava di sospendere il programma nucleare e aprire il sito nucleare di Yòngbyòn alle verifiche degli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea)

in cambio della fornitura di due reattori ad acqua leggera che avrebbero comun­ que consentito alla Corea del Nord di approvvigionarsi di energia nucleare per scopi civili. Un’altra questione della massima importanza era data dal programma missilistico di P’yóngyang. La Corea del Nord, infatti, possedeva già dei missili a corto raggio e stava sviluppando la tecnologia necessaria per dotarsi di un missile a medio raggio. Nonostante il clima di tensione, il presidente sudcoreano Kim Tae-jung, eletto nel 1998, decise di affrontare la Corea del Nord seguendo un approccio alternati­ vo, denominato Sunshine Policy, che mirava a costruire una relazione pacifica con P’yòngyang. La strategia del nuovo presidente sudcoreano puntava a favorire la nascita di legami commerciali, economici e culturali con la Corea del Nord, così da spingere P’yòngyang a intraprendere gradualmente un percorso riformista e a ridurre le tensioni. Nel suo discorso pronunciato nel marzo 2000 alla Freie Universitàt, noto come la «Dichiarazione di Berlino», Kim Tae-jung rassicurò la Corea del Nord di volerle offrire assistenza economica e sostegno in ambito internazionale e di non avere alcuna intenzione di minacciarla militarmente. Il 10 aprile arrivò la sorprendente notizia che i leader delle due Coree si sarebbero incontrati per la prima volta in assoluto. L’incontro tra Kim Tae-jung e Kim Chóng-il si tenne a P’yòngyang nel giugno 2000, e condusse allo scambio continuo in ambito economico, sociale e culturale e alla possibilità di brevi visite per i membri delle famiglie separate dalla guerra. Per la prima volta sembrava veramente che il muro si stesse sgretolando, facendo uscire il «regno eremita» dal suo lungo isolamento, anche in virtù delle successive visite del presidente russo Putin, in luglio, del segretario di stato americano Albright, in ottobre, e in seguito di autorità cinesi e dell’Unione europea. Le cose però si rivelarono molto più difficili del previsto, anche a causa dell’e­ lezione negli Stati Uniti di George W. Bush, molto critico rispetto alla politica di apertura sudcoreana alla Corea del Nord. I rapporti tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti hanno continuato a trascinarsi in maniera molto altalenante, e certa­ mente le colpe non sono addebitabili ai soli nordcoreani. In un discorso del 2002 il presidente americano inserì la Corea del Nord tra i paesi che davano forma al cosiddetto «asse del male». La situazione si aggravò ulteriormente quando, alla fine di quell’anno, gli americani accusarono i nordcoreani di aver ricominciato segre­ tamente a sviluppare materiale nucleare, sospendendo immediatamente l’Accordo Quadro siglato nel 1994. Uno dei motivi principali alla base della crisi fu la mancata costruzione dei due reattori ad acqua leggera, la cui realizzazione avrebbe dovuto essere ultimata entro il 2003. La Corea del Nord decise di espellere gli ispettori della Aiea, riti­ randosi dal trattato di non proliferazione nucleare. Probabilmente il regime di P’yóngyang cercava, attraverso la crisi, di crearsi un’opportunità per istituire un tavolo negoziale con gli americani. Questi ultimi, ovviamente, rifiutarono di incon­ trarsi in tali colloqui, perché ciò avrebbe potuto essere considerato come una resa al cattivo comportamento di P’yóngyang, ma furono d’accordo a essere coinvolti nei «six-party talks», una serie di colloqui multilaterali, iniziati soprattutto grazie all’impegno della Cina. Questi colloqui miravano a dare una risoluzione al proble­ ma nucleare nella penisola coreana, attraverso la partecipazione di tutti gli attori coinvolti, cioè, oltre alle due Coree, Stati Uniti, Cina, anche Giappone e Russia. Negli anni seguenti ci sono stati diversi rounds dei colloqui a sei, ma senza alcun

significativo passo avanti. Sostanzialmente, i nordcoreani hanno cercato il ricono­ scimento diplomatico dagli Stati Uniti e l’assicurazione che non avrebbero subito alcun attacco militare; gli americani, da parte loro, hanno continuato a chiedere il completo smantellamento nucleare prima di raggiungere un accordo. Il tavolo negoziale è definitivamente naufragato all’inizio del 2009. Il 4 luglio 2006, la Corea del Nord lanciò una serie di missili, a inclusione di un vettore a lungo raggio, potenzialmente in grado di raggiungere l’Alaska o le Hawaii. Nell’autunno dello stesso anno P’yóngyang si arrischiò perfino a compiere un piccolo esperimento nucleare sotterraneo, in una zona vicina al confine con la Cina. Queste azioni miravano verosimilmente a conferire alla Corea del Nord un peso maggiore nei colloqui, così come a convincere gli Stati Uniti dell’assoluta necessità di negoziare con P’yóngyang. Sia la Cina che la Corea del Sud reagirono con disappunto al test nucleare, ma non ci furono apprezzabili ammonimenti nei confronti della Corea del Nord, soprattutto perché la Cina era, e continua a essere, intimorita dalla possibilità che una pressione troppo forte possa determinare la caduta del regime e il successivo incontrollabile caos sul confine. Di conseguenza, Pechino ha continuato a fornire a P’yòngyang petrolio scadente e un qualche aiuto di tipo economico. E inutile dire che anche i sudcoreani nutrono da sempre un certo timore nei confronti di una modificazione nell’assetto politico della Corea del Nord: nel loro caso, infatti, ciò potrebbe significare accollarsi la gran parte dei costi sociali, condannando Seoul a una regressione significativa nella scala della ricchezza mondiale. La morte improvvisa del dittatore nordcoreano Kim Chòng-il, nel dicembre del 2011, ha innescato una transizione «guidata» al vertice del regime, chiusasi con l’avvento del figlio terzogenito Kim Chóng-un. Negli anni a seguire, il gio­ vane leader ha rinnovato il quadro politico interno, sbarazzandosi di numerosi esponenti che avevano fedelmente «servito» il padre e rimpiazzandoli con nuove figure dalle quali era lecito attendersi lealtà e legittimazione. Kim ha anche inau­ gurato una nuova strategia definita byungjin, che prevedeva il contestuale sviluppo dell’arsenale atomico e di una serie di riforme economiche di cui i nordcoreani avrebbero beneficiato. Il primo dei due versanti della byungjin ha rappresentato senza dubbio la pietra angolare del regime negli ultimi anni: i test nucleari - sei in tutto allo stato attuale, l’ultimo dei quali avvenuto il 3 settembre 2017 - e i conti­ nui lanci di missili, sospettati di poter raggiungere anche le coste degli Stati Uniti, hanno rappresentato un Leitmotiv contro cui la comunità internazionale ha reagito imponendo dure sanzioni commerciali. L’aggressività della Corea del Nord è stata particolarmente pronunciata nel corso del 2017, facendo riflettere molti sulla ne­ cessità di un intervento militare ai danni del regime di P’yóngyang, che, comunque, rimane una soluzione estrema, viste le ovvie difficoltà militari e le conseguenze che ciò determinerebbe sui già fragili equilibri in questa zona del Pacifico. L’obiettivo del regime nordcoreano rimane, probabilmente, quello di consolidarsi come stato nucleare armato - condizione ribadita anche nella carta costituzionale emendata nel 2012 - per tornare poi al tavolo negoziale da una posizione di forza. La Corea del Sud, dopo il decennio progressista chiusosi nel 2008, ha visto succedersi due amministrazioni conservatrici: la seconda, in modo particolare, è stata guidata da Pak Kun-hye (2013-17), figlia del dittatore Pak Chóng-hui. Fin dal suo esordio, però, il governo della presidentessa Pak è stato al centro di una serie di scandali politici culminati con la scoperta - sul finire del 2016 - del coinvolgimento

negli affari di stato di una confidente della stessa Pak, che si era servita del proprio fortissimo ascendente sulla presidentessa per scopi personali. L'affaire si è concluso con l'impeachment, nel dicembre 2016, seguito dall’arresto e dalla condanna a 24 anni di detenzione per l’ex capo di stato. Nel maggio 2017 è stato eletto alla pre­ sidenza il progressista Mun Chaein, le cui posizioni di apertura nei confronti di P’yóngyang fanno ben sperare per la ripresa del dialogo tra le due Coree. Percorso di autoverifica

1. 2. 3.

Quali sono le principali riforme che gli Stati Uniti sviluppano in Giappone durante il periodo dell’occupazione? Quali sono gli elementi principali del modello di sviluppo economico nipponico? Cosa si intende con «economia socialista di mercato»?

4.

Che cos’è la Sunshine Policy?

5. 6.

Quali fattori determinano l’origine dei fatti di Tiananmen del 1989? Secondo i nazionalisti del Guomindang, su quale principio devono poggiare le relazioni tra le due sponde dello Stretto?

Per saperne di più

J. Bouissou, Storia del Giappone contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2003. A. Buzo, The Making o f Modem Korea, Abingdon, Routledge, 2008. R. Caroli e F. Gatti, Storia del Giappone, Roma-Bari, Laterza, 2004. J.W. Dower, Embracing Defeat: ]apan in thè Wake o f World War II, New York, W.W. Norton & Co., 1999. A. Fiori, L'Asia Orientale. Dal 1945 ai giorni nostri, Bologna, Il Mulino, 2010. A. Fiori, Il nido del falco. Mondo e potere in Corea del Nord, Firenze, Le Monnier, 2016. T.B. Lam, A Story o f Vietnam, Parker, Outskirts Press, 2010. D. Roy, Taiwan, a Politicai History, Ithaca-London, Cornell University Press, 2003.

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Cesure e tornanti

1789-1815. La nascita dell’età contemporanea di Emilie Delivré

Fine di un’epoca o inizio di una nuova era, il periodo 1789-1815 costituisce una fase di transizione in cui si compie il passaggio dall’età moderna all’età contemporanea, momento di transizione fra XVIII e XIX secolo, a cavallo tra Illuminismo e Romanticismo. Le rivoluzioni americana e francese, le agitazioni politiche, le guerre napoleoniche e la fine del Sacro Romano Impero ridisegna­ rono in meno di tre decenni la mappa politica europea e trasformarono anche l’orizzonte di aspettativa di gran parte della popolazione occidentale. La politica dei sovrani, la legittimità dei governi e i modelli sociali che ne dipendevano vennero rimessi in discussione, mentre gli inizi deH’industrializzazione in Gran Bretagna mostrarono già tutte le caratteristiche di un processo che avrebbe mutato definitivamente l’economia mondiale.

1.

L’età delle rivoluzioni

Per capire come uno stato centralizzato e ben articolato come quello francese, che godeva del sostegno di istituzioni molteplici nonché della chiesa, possa essere stato scosso in pochi mesi occorre considerare una lunga serie di avvenimenti duran­ te il Settecento, circostanze eccezionali ma anche lenti processi. Uno di questi è la guerra dei Sette anni (1756-63) che oppose i Borboni (Francia e Spagna) e la Gran Bretagna, e che avrebbe lasciato la Francia indebolita e la Gran Bretagna ben decisa ad approfittare delle nuove terre americane conquistate dai francesi per mandare nuovi emigranti. Già nel 1770, però, cominciarono azioni di protesta da parte degli «insorgenti» americani. Dal 1775 al 1783, la Rivoluzione americana (in inglese American War oflndependence) oppose le 13 colonie inglesi dell’America del Nord alla loro madrepatria. Il 4 luglio 1776 (YIndependence Day oggi ricordato come festa nazionale) la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, redatta da Thomas Jefferson con Benjamin Franklin, Roger Livingston e John Adams, fu proclamata e posta come pietra fondante della creazione di un nuovo stato federale, gli Stati Uniti d’America. I capi della ribellione erano infatti riusciti a dare un fondamento universalistico alla loro resistenza, ottenendo così un appoggio (spesso interessato) in Europa. E così che, prima ancora del trattato di Parigi del 1783 che vedeva la

Gran Bretagna riconoscere l’indipendenza della sua colonia, parole come libertà, diritti o costituzione oltrepassarono l’Atlantico insieme a un corpo di spedizione francese, nel quale si trovava l’aristocratico francese liberale La Fayette, venuto a raggiungere l’esercito continentale condotto da George Washington (che diventerà il primo presidente degli Stati Uniti nel 1789). Da questa rivincita contro la Gran Bretagna la Francia, però, non trasse vantaggi economici, al contrario: lo stato era indebitato e non riuscì a compiere riforme effettive, ritrovandosi intrappolato fra una struttura sociale fondata sui privilegi e il funzionamento sempre più liberale dell’economia. Nel frattempo, il mondo occidentale continuava a essere turbato da una serie di moti rivoluzionari: contemporaneamente ci furono agitazioni politiche e popolari in Irlanda e Gran Bretagna, movimenti democratici a Ginevra nel 1768 e nel 1782, rivendicazioni democratiche nelle Province Unite negli anni 1783-83 e insurrezioni nei Paesi Bassi Austriaci (il futuro Belgio) alla fine degli anni Ottanta. In un ambiente politico, sociale ed economico particolarmente difficile (i raccolti erano stati scarsis­ simi dopo un inverno molto duro che nel 1788 provocò una carestia), il re Luigi XVI convocò eccezionalmente gli Stati generali (Etats Généraux) del Regno francese, che rappresentavano i tre ordini (nobiltà, clero, Terzo stato), innescando tutta quella serie di avvenimenti rivoluzionari che avrebbero posto fine all’Antico regime. 2.

La Rivoluzione francese

La Rivoluzione francese convenzionalmente viene collocata tra la trasforma­ zione degli Stati generali in Assemblea costituente (1789) e il colpo di stato del 18 brumaio anno V ili (1799) e può essere distinta in quattro fasi. 2.1. L’Assemblea costituente (1789-91)

All’inizio del 1789 vennero redatti dagli Stati generali i Cahiers de Doléances da presentare al re, dove erano espresse in parte aspirazioni illuministiche, come il principio di eguaglianza per le tasse o richieste anti-signorili. L’abate Sieyès pubblicò in gennaio il suo pamphlet in forma di catechismo politico: Qu’est-ce que le Tiers-Etat? (Che cose il Terzo stato?), rispondendo polemicamente: tutto. Faceva riferimento al 98% della popolazione francese che costituiva quello stato e che non aveva alcuna rappresentanza nell’ordine politico. Con una concezione rivoluzionaria, Sieyès attribuiva al Terzo stato la volontà di diventare «qualcosa». In questo modo veniva espressa l’idea di popolo come soggetto politico unitario e organizzato, formato da non privilegiati, produttore della volontà della nazione e detentore della sovranità nazionale, in grado di esprimersi in forme giuridiche e di essere rappresentato. Sieyès ebbe un effetto enorme con il suo pamphlet, e il terzo stato, rifiutando il principio del voto secondo l’ordine sociale, contestò giuridicamente la sua costituzione come camera particolare e prese in giugno il nome di Assemblea nazionale. Si riunì nella sala del Jeu de Paume, dove prestò il famoso giuramento che porta il nome del luogo. In luglio, si autoproclamò As­ semblea costituente e il giacobino Mirabeau fu eletto presidente, mentre numerosi pamphlet anonimi (scritti per esempio da Marat) continuavano a incoraggiare il

vento rivoluzionario; quando il re revocò il ministro riformatore Necker, scattò una reazione spontanea, una violenta rivolta popolare contro i simboli dell’oppressione. La presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789, diventerà il simbolo della rivoluzione e la festa nazionale francese. Questo movimento si accentuò durante tutta l’estate, mentre nelle province francesi i patrioti si costituirono in comitati permanenti. Il 4 agosto 1789 l’Assemblea abolì i privilegi e, poco dopo, il 26 agosto, adottò gli articoli della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino: il primo articolo prevedeva che «Les hommes naissent et demeurent libres et égaux en droits, les distinctions sociales ne peuvent ótre fondées que sur l’utilité commune» (Gli uomini nascono e vivono liberi ed eguali nei diritti, le distinzioni sociali non possono che essere fondate sull’utilità comune). Era un certificato di morte dell’Antico regime, anche se vennero omessi le donne, le minoranze religiose e gli schiavi. Le sommosse popolari, nelle campagne e a Parigi, non cessarono; anche per chi sosteneva la rivo­ luzione, si pose ben presto il problema: come mettere fine ai movimenti spontanei che l’avevano iniziata? Come evitare l’anarchia? Come erigere un nuovo ordine al posto del precedente? L’Assemblea nazionale riorganizzò durante il 1790 l’amministrazione, la giu­ stizia e l’economia francesi. Inoltre, promulgò la Costituzione civile del clero, che modificò fondamentalmente i rapporti fra lo stato e la chiesa (i preti erano ormai eletti dai cittadini e dovevano prestare giuramento sulla costituzione, preceden­ temente erano anche stati nazionalizzati i beni della chiesa). Questo fenomeno di secolarizzazione, molto criticato da papa Pio VI, provocò una radicalizzazione degli antagonismi interni e proseguirà nel 1793-94 con lo sviluppo del «culto della ragio­ ne e dell’essere supremo». All’inizio del 1791, i moderati dell’Assemblea speravano ancora nell’istituzione di una monarchia costituzionale, nella quale il re avrebbe ancora avuto diritti importanti come quello di veto, mentre i repubblicani, come Condorcet, erano una minoranza. Ma la fuga del re a Varennes per raggiungere l’estero, il 20 giugno 1791, insieme alla successiva «fusillade du Champ-de-Mars» quando la guardia nazionale, il 17 giugno 1791, aveva aperto il fuoco sulla folla a Parigi - accentuò la divisione tra foglianti moderati e giacobini radicali (Danton e Robespierre). 2.2. L’Assemblea legislativa (1791-92)

L’adozione della costituzione nel settembre 1791 non impedì né lo sviluppo della controrivoluzione interna (ad esempio nella Vandea), né l’intensificarsi della minaccia esterna. I nobili francesi avevano cercato e trovato appoggio da parte dell’imperatore del Sacro Romano Impero, Leopoldo II, e del re di Prussia, Federico Guglielmo IL Pubblicarono nell’agosto 1791 la Dichiarazione di Pillnitz, risoluti ad agire per sostenere la monarchia francese in caso di necessità. Ma la seconda generazione rivoluzionaria, quella dei girondini, esibì l’intenzione di difendere la propria novità politica radicale, dichiarando nel 1792 la guerra contro l’Austria e la Prussia. La «nazione in armi» (il concetto secondo il quale a combattere non era più un re contro un altro sovrano, ma il popolo mobilitatosi volontariamente per difendere la «patria in pericolo» e i nuovi diritti) portò a un altro concetto: quello della missione rivoluzionaria e rigeneratrice della Francia dei sanculotti, che doveva «liberare» gli altri popoli, come fu previsto dalla Convenzione del novembre 1792.

2.3. La Convenzione nazionale (1792-95)

Nella Parigi minacciata dal generale Brunswick, il re, accusato di tradimento per avere dato informazioni al nemico, fu fatto prigioniero e condannato a morte. La Convenzione abolì la monarchia e proclamò, il 22 settembre 1792, l’anno I della Prima repubblica, una e indivisibile, mettendo di fatto fine alla costituzione del 1791; inoltre, introdusse il calendario rivoluzionario e, in agosto, promulgò una costituzione dell’anno I, decisamente democratica (prevedeva il suffragio maschile universale), che però non entrò mai in vigore: a questo punto si era infatti creata la prima coalizione degli stati europei contro la Francia antimonarchica, oltre che contro le ambizioni egemoniche della giovane nazione. Fra il 1792 e il 1814 si for­ marono sei coalizioni, complesse e articolate, contro la Francia: la guerra cominciò a essere utilizzata dai rivoluzionari più radicali come un diversivo alla situazione interna spesso caotica, in modo che la Convenzione potè creare, nell’aprile 1793, il Comitato di Salute Pubblica. Dopo aver cacciato i girondini, i radicali monta­ gnardi, tra cui Robespierre e Saint-Just, instaurarono un regime dittatoriale, poi denominato il «Terrore», per «salvare» la rivoluzione dai nemici esterni e interni, quindi anche da coloro che non seguivano esattamente la linea governativa (è il caso di Danton, che come tanti altri venne ghigliottinato). Ma le divisioni interne al Comitato, la scarsa mobilitazione dell’opinione pubblica, l’inquietudine della Convenzione, nonché la congiuntura delle vittorie militari misero fine al Terrore il 9 termidoro anno II (27 luglio 1794), seguita alcuni mesi dopo dalla soppressione del tribunale rivoluzionario. 2.4. Il Direttorio (1795-99)

La Convenzione termidoriana voleva ora stabilizzare la rivoluzione e conside­ rava la costituzione precedente troppo democratica. Elaborò quindi la costituzione dell’anno III (1795), molto più favorevole alla borghesia liberale (suffragio censitario). I sans-culottes si lasciarono disarmare. Gracchus Baboeuf, nel suo Manifeste des Egaux (1796), difese ancora la proprietà collettiva della terra ma fu arrestato e condannato a morte nel 1797. Il potere esecutivo fu dato a cinque direttori, da qui il nome di Direttorio. La separazione dei poteri era radicale, e non prevedeva vie di uscita in caso di conflitto fra assemblee e direttori, offrendo così la tentazione di un colpo di stato, cosa che avvenne nel settembre 1797 (contro i realisti), nel maggio 1798 (contro i giacobini), nonché nel 1799 (da parte di Bonaparte). La Francia era allora alle prese con le guerre di «liberazione» e di conquista: dopo il 1792 aveva portato un aiuto spesso interessato ai patrioti e giacobini all’estero: nel Belgio, nei territori renani, nella Repubblica delle sette province unite (Paesi Bassi), nella penisola italiana e in Svizzera. Col Trattato di Campoformio nel 1797, che metteva fine alla prima campagna d’Italia, l’Austria cedeva alla Francia vittoriosa, guidata dal giovane generale Bonaparte, i territori renani, il Belgio, e riconosceva la Repubblica cisalpina, una repubblica sorella creata dall’unione delle repubbliche transpadane e cispadane. Insieme a essa, sarebbero nate altre repubbliche, come la Repubblica batava (Paesi Bassi olandesi), la Repubblica ligure, la Repubblica napoletana e la Repubblica romana, luoghi del triennio rivoluzionario (1797-99) e del movimento giacobino italiano. In questo periodo, l’esercito francese diventò

un elemento sempre più decisivo al servizio del potere e nella vita pubblica. La coscrizione fu presto resa obbligatoria (1798), contribuendo alla militarizzazione della società francese, mentre la seconda coalizione (1798-1801), con Gran Bre­ tagna, Austria e Russia, riunita per contrastare la politica italiana ed egiziana del Direttorio, conobbe nuove sconfitte. E in questo contesto che, dopo averlo ben preparato assicurandosi l’appoggio di personalità politiche e il sostegno finanziario, Napoleone Bonaparte guidò il colpo di stato del 18 brumaio anno V ili (novembre 1799), instaurando col Consolato una dittatura militare che pose definitivamente fine alla Rivoluzione francese. Dal punto di vista storiografico è soltanto a partire dagli anni Cinquanta del Novecento che gli storici hanno cominciato a vedere nel triennio rivoluzionario un momento importante della storia dell’Italia contemporanea, allontanandosi in parte da un teleologismo legato alla lettura nazionalista delle origini del Risorgimento che vedeva la Rivoluzione francese come interruzione inopportuna delle riforme del Settecento, o al contrario come il momento di nascita di una coscienza nazio­ nale italiana, seppure condannabile per i suoi eccessi. In Francia, già negli anni Sessanta, lo storico Francois Furet aveva incoraggiato a «ripensare la Rivoluzione francese» fuori da una lettura marxista: fino ad allora, la storiografia identificava ancora la fine della «grande rivoluzione» nel 9 termidoro, quando i robespierristi erano stati sconfitti, e di fatto tralasciava di prendere in considerazione la Con­ venzione termidoriana nonché il Direttorio. Ne risultava così la visione di una rivoluzione unicamente giacobina, nata da un sollevamento delle masse popolari, mentre il Terrore veniva dipinto come un male necessario per contrastare la rivolta della Vandea e la coalizione straniera, ma anche più generalmente per rigenerare la società francese dell’Antico regime. Il bicentenario della Rivoluzione francese, nel 1989, fornì l’occasione per in­ numerevoli studi innovativi, che si concentrarono soprattutto attorno al nodo pro­ blematico delle origini intellettuali, politiche, culturali e religiose della rivoluzione. Mentre l’interpretazione classica francese identificava una linea di continuità che legava inevitabilmente l’Illuminismo europeo e il suo spirito filosofico con la presa della Bastiglia, ricerche più recenti, condotte sulla lunga durata (Baker, Chartier), hanno portato alla luce legami più complessi con la cultura politica dell’Antico re­ gime. Dal 1750, Turgot, Malesherbes, Mably o Rousseau avevano cercato soluzioni alla disaggregazione del discorso assolutista, attraverso diversi canali concorrenti (giudiziari, politici o amministrativi), partecipando alla creazione di una nuova categoria: l’opinione pubblica. Essa si impose già prima della rivoluzione come fonte di legittimazione di ogni autorità non arbitraria. Un «tribunale dell’opinione» che, mentre diventava attivo, escludeva contemporaneamente tutti i cittadini non idonei dall’esercitare un giudizio o dal concorrere alla formazione di un’opinione illuminata. Un’ultima osservazione ci permette di riflettere anche sulla cosiddetta portata universalistica della Rivoluzione francese: recenti studi, meno eurocentrici, hanno sempre più spesso insistito sugli «esclusi della rivoluzione»: le donne, estromes­ se dal suffragio universale; gli schiavi, che insorsero nelle colonie francesi come Santo Domingo e Guadalupe ed ebbero difficoltà ad affermarsi, anche di fronte ai rivoluzionari, come esseri umani a pieno titolo, cioè a godere degli stessi diritti (la schiavitù fu abolita soltanto nel 1794 dalla Convenzione, e venne ristabilita da Napoleone nel 1802). Infine, le «rivoluzioni» non finirono nemmeno nel 1799: se

così può sembrare per l’Europa, non è il caso delle Americhe, dove nel 1810 si propagò un’insurrezione generale delle colonie spagnole, dalla Colombia al Cile, diretta da uomini come Simón Bolivar e Francisco de Miranda. 3.

L’Europa napoleonica

«All’inizio fu Napoleone», sono le prime parole della Deutsche Geschichte dello storico Thomas Nipperdey (1994). Con questo incipit l’autore intendeva insistere sul fatto che non fu tanto la Rivoluzione francese a creare le condizioni per l’in­ gresso della Germania nella contemporaneità, quanto piuttosto Napoleone, che a suo giudizio creò la possibilità di una «storia tedesca»: dal 1648 (pace di Westfalia e fine della guerra dei Trent’anni) il Sacro Romano Impero della nazione germa­ nica era diventato una realtà solo nominale (circa 800 principi, territori ed entità rappresentati nella Dieta). Le guerre napoleoniche - Befreiungskriege (guerre di liberazione) in tedesco, guerra dell’Independencia (guerra di indipendenza) per gli spagnoli - provocarono la sua liquidazione nel 1806. Già nei primi anni dell’O t­ tocento, la Francia cominciò a dominare tutta l’Europa centro-occidentale. Le prime vittorie francesi (Hohenlinden, Marango), la pace di Lunéville con l’Austria (9 febbraio 1801) e quella di Amiens (1802) con la Gran Bretagna, confermarono la sua posizione di forza: quattro dipartimenti renani si aggiunsero al territorio nazionale e il Sacro Romano Impero, dopo il Reichsdeputationshauptschluss (deli­ berazione della Deputazione Imperiale), le sconfitte di Ulm e Austerlitz nel 1805 e la creazione della Confederazione del Reno, vide il suo imperatore Francesco II deporre la corona il 6 agosto 1806 (per diventare imperatore d’Austria con il nome di Francesco I), mettendo fine alla sua più che millenaria esistenza. Ora c’erano le premesse per la formazione di un futuro stato nazionale, che si sarebbe poi costi­ tuito nell’Ottocento intorno alla Prussia. Bonaparte, nel frattempo, era diventato uno dei tre consoli francesi e aveva messo in atto una politica di pacificazione interna, ben accetta da molti dopo gli anni rivoluzionari. In un primo tempo egli mantenne le diverse innovazioni della rivoluzione, insistendo sulla riconciliazione nazionale. Attraverso un plebiscito, fece approvare la costituzione dell’anno V ili (da notare che il calendario rivoluzionario veniva ancora utilizzato). Utilizzò la religione come strumento di pacificazione, firmando il Concordato con il nuovo papa Pio VII e introducendo un catechismo imperiale (che richiedeva fra l’altro di pregare Napoleone e presentava l’obbedienza al nuovo sovrano come un dovere religioso). Nel 1800 Napoleone istituì un siste­ ma giudiziario, contributivo e amministrativo molto complesso e centralizzato: è il caso di ricordare il codice civile, la nomina di prefetti in ogni dipartimento, l’istruzione pubblica, la stabilizzazione del franco. E anche importante notare come questi cambiamenti rimarranno ben visibili nel quadro istituzionale della Francia contemporanea. Sulla scorta di quanto detto, occorre dunque chiedersi se Napoleone debba essere considerato l’affossatore della rivoluzione, o piuttosto l’incarnazione dei principi di uno stato moderno nato dalla rivoluzione. Nel 1802 Napoleone divenne console a vita; il 2 dicembre 1804 assunse la carica di imperatore dei Francesi e venne consacrato con il nome di Napoleone I a Parigi. All’inizio del 1805 egli assunse anche il titolo di re d’Italia, consolidando il suo potere con la creazione di una dinastia (Napoleone sposò in seconde nozze

Maria Luisa, la figlia dell’imperatore austriaco), la ricerca di legittimazione sulla base di modelli derivati dall’antichità romana o dalla tradizione carolingia, la di­ stribuzione della sua famiglia presso tutti i troni europei (ad esempio suo fratello maggiore Giuseppe diventò re di Napoli e poi re di Spagna). Si affermò un sistema di mobilitazione militare permanente, al quale si aggiunse la propensione a espan­ dere razionalizzazione e modernizzazione delle strutture statuali in tutto l’impero napoleonico (la codificazione napoleonica fu conservata in molti paesi e province dopo la caduta dell’imperatore). Così facendo, l’azione di Napoleone incontrò sia l’entusiasmo delle nuove élite economiche (in parte anche di quelle straniere), che la reazione esasperata delle popolazioni vittime delle esazioni dell’invasore (o l’odio nazionalista e lealista degli insorti in Spagna o in Tirolo). Le posizioni degli stati europei ostili a Napoleone condussero, a partire del 1811, alla creazione di una coalizione antinapoleonica più efficace e unita delle precedenti, rinforzata dalla rovinosa campagna di Russia della Grande armée nel 1812. Includeva la Gran Bretagna (già vittoriosa a Trafalgar nel 1805), che voleva mettere fine al blocco continentale che la escludeva in parte del commercio europeo, la Russia, la Prussia e l’Austria, che conseguirono una prima grande vittoria alla Vòlkerschlacht (battaglia delle nazioni) di Lipsia nell’ottobre 1813. L’impero era ormai invaso da più parti, messo al bando della chiesa cattolica, la popolazione era stanca dopo anni di guerra. L’imperatore dovette abdicare il 6 aprile 1814, mentre il senato chiamò Luigi XVIII di Borbone sul trono. Quest’ultimo concesse una carta costituzionale, fissando alcune acquisizioni della rivoluzione ma restaurando al contempo tanti privilegi dell’Antico regime. Napoleone, esiliato sull’isola d’Elba, tentò un ritorno sulla scena durante i cosiddetti Cento giorni (marzo-inizio luglio 1815), per poi essere definitivamente sconfitto dall’ultima coalizione a Waterloo, in giugno. Convocato nel settembre del 1814 e durato fino a metà 1815, il Congresso di Vienna, dominato dalla figura del ministro degli Esteri austriaco, principe Klemens von Metternich, concluse la Santa Alleanza fra Austria, Prussia e Russia e organizzò una politica di restaurazione delle monarchie. Il congresso procedette alla ridefinizione della carta politica europea, che preservò per un secolo il continente da un nuovo conflitto generalizzato, e integrò lo sconvolgimento dello spazio germanico (Confederazio­ ne germanica). Con la sua politica reazionaria, però, incoraggiò indirettamente lo sviluppo di un movimento complesso che avrebbe portato infine all’emergere di stati nazionali nelle aree tedesca e italiana. 4.

La Rivoluzione industriale

Possiamo parlare di una Rivoluzione industriale, come si era parlato di Rivo­ luzione americana o di Rivoluzione francese? Secondo lo storico Fernand Braudel sarebbe più appropriato evocare un processo lungo, quello dell’industrializzazione. Nel periodo qui preso in esame, questo coinvolse soprattutto la Gran Bretagna, che nel Settecento cominciò a soppiantare i Paesi Bassi negli interscambi com­ merciali e a edificare il proprio impero. Contemporaneamente venivano gettate le basi dell’economia politica con La ricchezza delle nazioni dello scozzese Adam Smith. Rapidamente la Gran Bretagna iniziò a essere il teatro di quella che è stata chiamata la prima Rivoluzione industriale. Questa fu caratterizzata dall’innova­ zione di tecniche e strumenti legati alla trasformazione dell’agricoltura. Nell’era

preindustriale la produzione di una tonnellata di grano richiedeva 1.800 ore di lavoro. Nel 1840, negli Stati Uniti, essa ne richiedeva soltanto 86 (oggi meno di 21). Le risorse finanziarie ed economiche crebbero grazie alla modernizzazione agricola, perm ettendo la creazione di un capitale utilizzato poi per ulteriori inve­ stimenti nell’industria. Le innovazioni tecniche continuarono a svilupparsi con la dom anda di ferro. Infatti, le industrie dei trasporti o delle armi avevano bisogno di macchine, e l’uso del carbone al posto del legno come fonte d ’energia costituì la prima tappa della modernizzazione della siderurgia. Anche il tessile si sviluppò considerevolmente, con l’esportazione di prodotti di cotone che richiedevano la meccanizzazione della produzione. La popolazione aumentò, accelerando l’esodo rurale e la crescita rapida delle città, soprattutto Londra, producendo una grande quantità di mano d ’opera a buon mercato, il futuro proletariato.

Percorso di autoverifica

1. 2.

Quali furono le origini della Rivoluzione francese? Quali fasi principali della Rivoluzione francese si possono rintracciare, e con quali contributi? 3. Perché si considera la Rivoluzione francese come un momento chiave della modernità? 4. Quando e come la Rivoluzione francese si internazionalizzò, e quali furono le conse­ guenze per l’Italia? 5. Ritenete che Napoleone debba essere considerato un dittatore e l’affossatore della rivoluzione, oppure un modernizzatore dello stato europeo? 6. Quale ordine nacque dal Congresso di Vienna nel 1815? 7. Perché si parla di Rivoluzione industriale?

Per saperne di più

R.C. Alien, La rivoluzione industriale inglese, Bologna, Il Mulino, 2011. A. De Francesco, L’Italia di Bonaparte. Politica, statualità e nazione nella penisola tra due rivoluzioni, 1796-1812, Torino, Utet, 2011. F. Furet, Critica della rivoluzione francese, III ed., Roma-Bari, Laterza, 1989. L. Hunt, La rivoluzione francese: politica, cultura, classi sociali, Bologna, Il Mulino, 2001. A. Pillepich, Napoleone e gli italiani, Bologna, Il Mulino, 2005. D. Sutherland, Rivoluzione e controrivoluzione: la Francia dal 1789 al 1815, Bologna, Il Mulino, 2000.

1848. Costituzioni, diritti, nazionalità di Salvatore Botta

Guerra e diplomazia, nazionalismo e costituzionalismo furono gli ingredienti dell’esperienza rivoluzionaria del 1848. Da Parigi a Vienna, da Berlino a Pa­ lermo i popoli reclamarono, negli scontri di piazza, quelle libertà (di stampa, di riunione, di associazione, di autodeterminazione) e quei diritti fondamentali (in primis, il diritto di voto) sconfessati nel 1815 dal Congresso di Vienna. Pur uniti dal desiderio di chiudere l’esperienza dei governi d ’Ancien Régime, operai, artigiani e borghesi si divisero ben presto tra sostenitori di una soluzione liberalmoderata e fautori di un repubblicanesimo avanzato, determinando nell’immediato il fallimento dei moti, senza però disperderne il patrimonio di conoscenze ed esperienze, come la storia successiva avrebbe dimostrato.

1.

Origini e protagonisti di una svolta

La terza ondata rivoluzionaria del XIX secolo ebbe tutte le caratteristiche di una vera e propria rivoluzione europea. Nella primavera del 1848 la sollevazione all’unisono dei popoli oppressi manifestò una carica collettiva di lotta e una volontà di emancipazione politica dallo straniero e dai regimi autoritari tanto matura e consapevole che i primi incerti tentativi insurrezionali degli anni Venti e Trenta sembrano appartenere a un’altra epoca. A scatenare una contestazione così radicale all’ordine costituito fu la pericolosa miscela creata dal concomitante manifestarsi in più punti del vecchio continente di crisi economica e difficoltà politiche, di fame e repressione. Impossibile, per i governi usciti dalla Restaurazione, trovare la formula con cui conciliare le crescenti richieste di aiuto provenienti dagli strati più poveri della popolazione e il rigido mantenimento dell’ordine pubblico, la reiterata richiesta di diritti (in primo luogo, quello di voto) e la censura, la tutela delle libertà di pensiero e d’impresa e la totale mancanza di fiducia nei cittadini. Da qui una mobilitazione sociale che assunse i connotati di una vera e propria rivoluzione, nel momento in cui alla crescita demografica e al manifestarsi dei segni di una prima industrializzazione non priva di contraddizioni (gli operai erano mal pagati e per nulla tutelati, il loro potere d’acquisto irrisorio) si venne sovrapponendo, nel bien­ nio 1845-46, una crisi agricola dagli effetti devastanti.

Tuttavia, non sarebbe bastata la miseria in sé ad alimentare un’ondata di tu­ multi di piazza così vasta se il malcontento non avesse trovato un proprio punto di riferimento politico in quel nucleo di intellettualità e borghesia urbana illuminata che sosteneva da tempo gli ideali di libertà e di modernizzazione esportati in ogni angolo d’Europa dalle truppe napoleoniche. Nel volgere poi lo sguardo oltre Ma­ nica, gli esponenti di questa classe sociale emergente mostravano di voler porre un freno ai regimi arbitrari usciti dal Congresso di Vienna del 1815: riducendo il potere della monarchia e della chiesa, ampliando il coinvolgimento dei cittadini nella gestione del bene pubblico attraverso sistemi costituzionali parlamentari fondati sulla legalità e la divisione dei poteri. Al contempo, però, questi sosteni­ tori del pensiero liberale rifiutavano l’idea di democrazia, di sovranità popolare in senso pieno, poiché giudicata foriera di disordini, di pulsioni anarchiche. A guidare il cambiamento potevano essere destinati solo gli esponenti di quelle classi medie agiate che, pagando le tasse e dimostrandosi culturalmente prepara­ te, apparivano come le uniche in grado di attuare progetti politici più avanzati, senza però rischiare «salti nel buio». In altri termini, i rappresentanti di questa borghesia moderata (avvocati, professori, medici, ingegneri, giornalisti, uomini d’affari e dell’alta burocrazia) non intendevano mettere a repentaglio quelli che giudicavano essere i capisaldi della convivenza civile: dal diritto di proprietà alla rappresentanza dei migliori. Al fine di scongiurare tale pericolo, i riformisti europei appartenenti alle fasce più agiate e istruite della popolazione cercarono di creare un «ponte» con la gran massa di diseredati delle città e delle campagne attraverso quella piccola borghesia fatta di artigiani, commercianti e operai specializzati che nutriva sì progetti di cambiamento, ma al pari delle classi inferiori temeva il mon­ tare dell’insicurezza economica. A questi soggetti andò sempre più indirizzandosi la pubblicistica moderata, nel tentativo di creare un ampio movimento d’opinione capace d’immaginare soluzioni alternative ali’Ancien Regime che non sfociassero per forza in un bagno di sangue. Ma il traguardo della mobilitazione senza rivoluzione non era ciò cui aspiravano i democratici, ossia quel cenacolo d’intellettuali, custodi di una tradizione repub­ blicana e socialisteggiante (si pensi a Saint-Simon, Fourier, Blanc, Blanqui, solo per citarne alcuni) che affondava le proprie radici nel 1789 e dintorni, il cui solidarismo ed egualitarismo apparivano agli antipodi rispetto alla politica dei «piccoli passi» propugnata dalla borghesia. Il loro obiettivo rimaneva, infatti, quello di creare una netta cesura tra l’Europa delle monarchie «di diritto divino» e l’«Europa dei popoli» liberi e uguali (secondo la definizione coniata da Mazzini) e di dare alle strutture dello stato una legittimazione «dal basso» e lineamenti tali da rendere significativa la partecipazione popolare alla gestione delle risorse pubbliche. Una metamorfosi che, proprio alla vigilia dei moti del 1848, trovò la propria espressione più avanzata nel Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels, pamphlet al quale si deve la prima compiuta teorizzazione della lotta di classe e della funzione rivoluzionaria del proletariato. Tuttavia, mentre i paesi che già possedevano un ordinamento liberal-moderato, come la Francia, furono interessati da lotte democratiche guidate in larga parte da repubblicani e socialisti, nei paesi politicamente divisi o soggetti a regimi assoluti­ stici (gli stati tedeschi e quelli italiani, l’Ungheria, la Polonia, l’Austria) le tensioni sociali si tradussero in un abbraccio tra liberalismo e nazionalismo, cioè in una combinata rivendicazione di libertà e regimi costituzionali fondati sullo statuto,

che tutti, dal sovrano al più umile cittadino, dovevano rispettare, oltre che sulla piena indipendenza dallo straniero. 2.

Le concitate fasi della rivoluzione in Europa

I tumulti del 1848 produssero una crisi politica di portata eccezionale non solo per l’ampiezza dell’area geografica interessata dagli scontri, ma anche per la rapidità e la quasi simultaneità con cui s’infiammarono le piazze d’Europa. Nondimeno, la Francia ritornò a essere in quel delicato frangente il centro d’irradiazione del diffuso malessere che ormai da tempo covava sotto le fondamenta di molte case regnanti. Tra cui, appunto, quella degli Orléans. A Parigi, infatti, nonostante l’avvio di alcune importanti riforme, la monar­ chia di Luigi Filippo, inaugurata con i moti del 1830, si stava rivelando sorda alle reiterate richieste di equità sociale e partecipazione politica avanzate dai cittadini. L’ostilità dei repubblicani, dei socialisti di Louis Blanc, ma anche dei legittimisti, che non si erano rassegnati alla caduta dei Borbone, e dei nostalgici della grandeur napoleonica, rendeva inoltre la posizione del sovrano ancora più incerta. Ma gli insorti che il 23 febbraio scesero in strada a protestare contro la decisione del governo Guizot di vietare una manifestazione a favore della modifica del sistema elettorale (i cosiddetti «banchetti») erano per lo più piccolo-borghesi, operai e studenti uniti sotto la bandiera della repubblica, unica panacea, secondo loro, alla crisi economica. II sovrano, sotto la pressione crescente della folla, fu costretto ad abdicare, mentre la crisi venne risolta con l’istituzione di un governo provvisorio che pro­ clamò immediatamente la nascita della Seconda repubblica. La connotazione democratica dell’esecutivo si tradusse in provvedimenti di grande impatto sociale e politico: la liberazione degli schiavi nelle colonie, la riduzione dell’orario di lavoro, l’abolizione della pena di morte. Vennero aperti degli ateliers nationaux (opifici nazionali) allo scopo di mitigare la disoccupazione, che impiegavano operai in la­ vori pubblici finanziati dallo stato. Inoltre, si svolsero in tutta la Francia elezioni a suffragio universale maschile (le prime di questo tipo in Europa) per la formazione di un’Assemblea costituente. Gli aventi diritto al voto crebbero da 250 mila a 9 milioni, mentre a Parigi cominciò ad affluire una moltitudine di disperati attratta dalle iniziative avviate dal governo. Ma la maggioranza della popolazione rurale non manifestava grande simpatia per la svolta rivoluzionaria presa dagli eventi. Prova ne sia il fatto che l’Assemblea uscita dalle urne il 23 aprile dimostrò subito il proprio profilo moderato chiudendo gli opifici nazionali. Tale scelta determinò lo scoppio di gravi disordini che vennero duramente repressi. Il 26 giugno, dopo quattro giorni di violenti scontri, l’ordine fu ristabilito e l’esperienza di governo socialista chiusa. Il 4 novembre fu promulgata la nuova costituzione che prevedeva un parlamento pletorico composto da un’unica camera di 750 membri e un potere esecutivo delegato per quattro anni a un presidente scelto come il parlamento a suffragio universale. Il capo dello stato, alla luce della forte legittimazione popolare conferitagli dalla nuova Carta, venne così assumendo, più che il ruolo di presi­ dente del Consiglio, quello di «monarca» al di sopra delle istituzioni. Inoltre, nel licenziare la costituzione nulla era stato stabilito circa l’ineleggibilità delle famiglie reali detronizzate. In occasione del primo appuntamento elettorale i socialisti

candidarono alla presidenza Alexandre Ledru-Rollin, i repubblicani Louis-Eugène Cavaignac, mentre i nostalgici del bonapartismo si affidarono a Luigi Napoleone, nipote del condottiero corso. Quest’ultimo era diventato negli ultimi anni pala­ dino delle classi lavoratrici, arrivando persino a criticare il governo provvisorio per l’energica azione repressiva messa in atto nel mese di giugno. Nelle elezioni del 10 dicembre 1848 egli riuscì a conquistare agevolmente il consenso di oltre 5 milioni di francesi, aprendo così una nuova stagione della storia repubblicana d’oltralpe che in breve tempo si tradurrà nella restaurazione dell’impero. L’eco delle vicende parigine si diffuse rapidamente nel cuore dell’Europa coinvolgendo anche un gendarme della reazione come la monarchia degli Asbur­ go. Nel marzo del 1848 gli studenti austriaci scesero nelle piazze e occuparono la sede della Dieta a Vienna nel tentativo di ottenere libertà di stampa e di associa­ zione, una giustizia più equa e umana, nonché la sostituzione della Dieta con un parlamento che tenesse conto delle trasformazioni sociali in atto. Sollecitavano inoltre la creazione di una Guardia Nazionale che proteggesse le conquiste dei moti e la fine del governo guidato dal cancelliere Metternich. Questi, di fronte al montare della protesta, scelse di riparare in Inghilterra, mentre il sovrano, Ferdinando I, si rifugiò a Innsbruck. Superato però l’iniziale disorientamento, il precipitare degli eventi convinse l’imperatore della necessità di intervenire mili­ tarmente. L’esercito regolare entrò nella capitale a novembre avviando un periodo di sanguinosa repressione. Tuttavia, a far vacillare l’autocrazia degli Asburgo contribuì pure la crescente insofferenza dei popoli presenti entro i confini dell’im­ pero multinazionale. L’eco dei tumulti scoppiati a Vienna il 13 marzo del 1848 spinse infatti ungheresi, serbi, croati e cechi a chiedere, se non l’indipendenza, almeno maggiore autonomia. Nel marzo del 1848 la Dieta ungherese, nettamente riformista, diede vita a un parlamento di fatto autonomo dall’impero austriaco ed espresse un governo nazionale guidato dal nobile liberale Lajos Batthyàny. Furono sollecitate una serie di riforme (abolizione dei diritti feudali, tassazione e giustizia più eque, libertà religiosa) e un nuovo assetto costituzionale che rendesse l’Ungheria autonoma, sebbene unita al resto dell’impero attraverso la persona di Ferdinando I. Una scelta moderata vanificata dalle richieste di rappresentatività da parte delle minoranze rumene, slave, tedesche e valacche, a cui si opponeva l’ala più radicale del movimento rivoluzionario, guidata dal leader democratico Lajos Kossuth. Alla reazione dell’esercito asburgico, che nel settembre del 1848 occupò Budapest, il parlamento ungherese reagì chiamando il popolo in armi e convocando, nell’aprile 1849, l’Assemblea nazionale con il compito di decretare l’indipendenza nazionale. Nonostante l’aiuto di volontari provenienti dalla Polonia e dall’Italia, il movimento insurrezionale nulla potè contro l’avanzata dell’eser­ cito russo, intervenuto in base agli accordi della Santa alleanza a tutelare le sorti dell’imperatore austriaco. Stretti nella morsa dai due eserciti, il disegno politico d’indipendenza dei rivoltosi magiari s’infranse con la sconfitta a Vilàgos del 13 settembre 1849, che diede inizio a un prolungato stato di assedio durato fino al 1854. Anche i cechi si mobilitarono per chiedere, oltre alla fine della servitù della gleba, il riconoscimento di una nazionalità slava. Nel mese di aprile del 1848 venne creato un governo provvisorio. Nel mese di giugno, invece, si riunì a Praga un congresso a cui parteciparono delegati di tutti i territori slavi. Il clima di aperta sfida alla corona imperiale fu però rapidamente sedato dall’arrivo nella capitale boema delle truppe imperiali.

Le notizie dei moti viennesi rimbalzarono a Berlino creando grande entusia­ smo nel movimento liberale. Le manifestazioni popolari del 14-18 marzo 1848 costrinsero Federico Guglielmo IV a permettere la convocazione di un parlamento prussiano (Landtag) che si pronunciò per la concessione delle libertà fondamentali. Subito dopo, il contagio rivoluzionario si allargò a gran parte della confederazione germanica: a Francoforte fu convocata l’Assemblea costituente eletta a suffragio universale con il compito di elaborare un’unità politica più ampia dell’accordo doganale (lo Zollverein) siglato all’inizio del XIX secolo da molti stati tedeschi e uscito razionalizzato dal Congresso di Vienna. Tuttavia, i lavori di quest’assise procedettero fin da subito con grande difficoltà per due ragioni. In primo luogo, perché il movimento liberal-democratico prussiano (il più importante e vasto) perse la propria spinta propulsiva a causa di una borghesia sempre più spaventata dal montare delle agitazioni sociali. In secondo luogo, all’interno dell’Assemblea si venne palesando una frattura insanabile tra i sostenitori del progetto «piccolo­ tedesco» di una Germania raccolta intorno alla Prussia e senza l’Austria e quello «grande-tedesco» con l’Austria imperiale posta a guida dell’unione tra gli stati germanici. Alla fine prevalse l’opzione «piccolo-tedesca» e una delegazione si recò a offrire la corona imperiale al re di Prussia, che però la rifiutò sdegnosamente poiché offerta «dal basso», da un’assemblea popolare. Questo evento segnò la fine dell’esperienza rivoluzionaria nei territori tedeschi. La Prussia ritirò dall’Assem­ blea la propria rappresentanza, mentre i democratici, nel tentativo di far soprav­ vivere il principio della sovranità popolare, si trasferirono a Stoccarda. La brutale repressione del giugno 1849 pose però fine anche a quest’ultimo sussulto di libertà. 3.

La rivoluzione italiana del biennio 1848-49

In Italia, come nei territori di lingua tedesca, la domanda di riforme avanzata dal mondo liberale (dalla libertà di stampa al diritto di voto) vide intrecciarsi due obiettivi diversi: la concessione di costituzioni basate sul principio rappresentativo e un ripensamento dei confini nazionali. Così, in Sicilia i moti del 12 gennaio 1848 videro i democratici ribellarsi al retrogrado regime di Ferdinando II di Borbone nel tentativo di separare i destini dell’isola da quelli di Napoli (fu offerta la corona al figlio primogenito di Carlo Alberto che però la rifiutò). Il sovrano cercò di spe­ gnere l’ondata rivoluzionaria accordando ai sudditi del Regno delle due Sicilie una carta costituzionale ricalcata su quella di Cadice del 1812. Per quanto positiva, la mossa inaspettata del sovrano non fu sufficiente a fermare la protesta che si estese alla provincia di Napoli e al resto della penisola. Tant’è che gli altri regnanti, Carlo Alberto di Savoia, Leopoldo II di Toscana e Pio IX, furono costretti a correre ai ripari concedendo anche loro in tutta fretta la costituzione. Il clima di euforia alimentato da quanto stava accadendo a Vienna accese le polveri della protesta nel Lombardo-Veneto, provincia nata dopo il Congresso di Vienna nell’estremo sud dellTmpero asburgico. A Venezia, il 17 marzo 1848, una sollevazione popolare portò alla scarcerazione dei prigionieri politici, tra cui il leader dei democratici Daniele Manin, che si pose subito alla testa del movimento rivoluzionario. I reparti austriaci furono cacciati e il 23 marzo un governo provvisorio guidato da Manin proclamò la nascita della Repubblica veneta. Anche Milano fu contagiata dalla rivolta. Dal 18 al 23 marzo (le famose

«cinque giornate») borghesi e popolani, artigiani e operai salirono sulle stesse barricate per opporsi ai soldati del generale Radetzky, il quale, di fronte alla stre­ nua resistenza organizzata dal consiglio di guerra presieduto da Carlo Cattaneo e temendo un intervento del Piemonte a favore degli insorti, ritirò le proprie truppe nel quadrilatero formato dalle fortezze di Verona, Legnano, Mantova e Peschiera. Sollecitato da liberali e democratici desiderosi di liberare l’Italia dal giogo au­ striaco, tentato dall’idea di allargare i confini del proprio regno e allo stesso tempo preoccupato che la svolta repubblicana dei moti nel Lombardo-Veneto potesse contagiare anche il vicino Piemonte, Carlo Alberto decise di dichiarare guerra all’Austria. Gli altri regnanti della penisola, timorosi del diffondersi dell’agitazione democratica, inviarono proprie truppe in appoggio ai Savoia. Ma l’illusione di una «guerra nazionale» durò molto poco. Le esitazioni di Carlo Alberto e il rapido dietrofront in primo luogo del pontefice (a disagio nel combattere una grande potenza cattolica) e poi di Ferdinando II e del granduca di Toscana (sempre più convinti, tra l’altro, che della guerra avrebbe beneficiato solo il Regno di Sardegna) vanificarono le vittorie iniziali (Goito, Pastrengo). I Savoia, insieme a un manipolo di democratici, tra cui Giuseppe Montanelli e Giuseppe Garibaldi, si ritrovarono da soli a contrastare le armate imperiali. Fu così che il 25 luglio 1848, dopo tre giorni di serrati combattimenti nel territorio di Custoza, presso Verona, le truppe piemontesi si ritirarono oltre il Ticino abbandonando il Lombardo-Veneto al proprio destino. Ciò nonostante, la situazione nella penisola rimaneva quanto mai incerta. In Sicilia, in Toscana e a Venezia i rivoltosi non si rassegnavano all’idea di deporre le armi. Lo stesso a Roma, da cui Pio IX era fuggito in seguito all’assassinio del primo ministro pontificio Pellegrino Rossi. Qui, nel gennaio del 1849, e in tutti i territori del papa, si tennero elezioni a suffragio universale per un’assemblea costituente chiamata a decretare la fine del potere temporale del pontefice e la nascita della Repubblica romana. In Piemonte, invece, Carlo Alberto riaprì le ostilità, con esiti sconfortanti: il 22-23 marzo nei pressi di Novara l’esercito sabaudo fu nuovamen­ te sconfitto; il re, oltre a firmare l’armistizio con gli austriaci, abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele IL Nel breve volgere di pochi mesi le armate asburgiche riportarono la penisola sotto il controllo della Santa Alleanza. Caddero Brescia, Venezia, le legazioni pontificie e la Repubblica toscana, mentre Ferdinando di Borbone sbarcò in Sicilia. L’ultima a cadere sotto la scure della restaurazione fu la Repubblica romana. Animata da uomini come Garibaldi, Mazzini, Saffi e Mameli, essa aveva tentato di imboccare la strada del rinnovamento politico, laicizzando l’amministrazione dello stato e varando una riforma agraria che prevedeva la di­ stribuzione ai poveri delle terre confiscate al clero. Ma la calata di reparti francesi (inviati da Napoleone III nel timore di un intervento austriaco e allo scopo di assicurarsi in patria i voti dei clerico-moderati) decretò, nonostante la resistenza degli insorti, la fine di quest’esperimento avanzato di democrazia. 4.

Limiti ed eredità del ’48

Indubbiamente, la «primavera dei popoli» fu alla prova dei fatti un totale fallimento. Se si esclude l’esperimento costituzionale piemontese, nessuno dei regimi nati in Europa dai moti del 1848 sopravvisse all’ondata restauratrice. Una

disfatta la cui causa principale va identificata nell’inconciliabile frattura tra due opposte visioni del concetto di riformismo e di libertà: quella liberal-moderata e quella democratico-radicale. Mentre la prima mirava a scardinare VAncien Regime attraverso un misurato costituzionalismo, la seconda ambiva a realiz­ zare un progetto avanzato di repubblicanesimo col quale, da un lato, far tabula rasa delle case regnanti e dei loro privilegi, dall’altro accentuare l’interventismo sociale dello stato. La borghesia europea, allarmata dagli esiti di quest’ultima opzione, dopo gli entusiasmi iniziali tornò celermente su posizioni conservatri­ ci, abbandonando i democratici al proprio destino. Lasciati soli a sostenere lo scontro politico e militare con le forze della restaurazione, i democratici furono fatalmente sconfitti. Inoltre, l’idea di «guerra di popolo» dei patrioti italiani, capace di coniugare il progetto di liberazione della penisola dallo straniero con quello di emancipazione politica e sociale delle plebi, si scontrò con l’immobilismo delle masse contadine, estranee, se non apertamente refrattarie, alle lotte organizzate nei centri urbani dalla piccola e media borghesia. Ciò si tradusse nella benevola concessione da parte dei sovrani di statuti molto simili tra loro che contemplavano una camera bassa elettiva (secondo un sistema fortemente censitario), una camera alta di nomina regia e un governo responsabile del proprio operato solo davanti al re. Leggi fondamentali che riconoscevano l’emergente ruolo economico e politico della borghesia, ignorando del tutto invece il «popolo minuto». Ma il fallimento della rivoluzione europea si spiega anche nell’intreccio tra questioni politiche e questioni nazionali. Inizialmente, le lotte per i diritti e la de­ mocrazia andarono a braccetto con quelle per l’indipendenza, ma poi queste ultime prevalsero, scagliando i popoli gli uni contro gli altri e soffocando definitivamente qualsiasi aspirazione alla libertà e alla democrazia, a tutto vantaggio delle autocrazie. Si pensi al caso ungherese, che vide aprirsi una competizione tra la popolazione magiara e quella slava. Si pensi al caso tedesco, dove i liberali, pur di veder realiz­ zata l’unità degli stati tedeschi, furono disposti a offrire la corona imperiale a un sovrano dispotico come Federico Guglielmo IV. Ma l’insuccesso della strategia rivoluzionaria del ’48 non bastò a cancellare alcune importanti novità dalle quali, nei decenni successivi, non sarà più possibile prescindere. La «seconda» restaurazione non mise fine alle aspirazioni nazionaliste dei popoli che componevano l’impero asburgico, né quelle degli stati italiani e tede­ schi. Anche le monarchie più conservatrici cominciarono a riconoscere la necessità di riforme costituzionali. Inoltre, si venne registrando una sensibile crescita della partecipazione politica prodotta da un movimento d’opinione che potè giovarsi del rapido sviluppo della stampa. Movimenti, sindacati, associazioni professionali assunsero un primordiale ruolo di collettore e sintesi degli interessi espressi da diverse fasce della popolazione, mentre il panorama politico si andò arricchendo di maggiori sfumature, anche estreme (dal socialismo al nazionalismo di stampo sciovinista, passando per il liberalismo, il radicalismo e il conservatorismo), che avrebbero influito sulla storia d’Europa per il resto del XIX secolo.

Percorso di autoverifica

1. 2. 3. 4.

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Quale differenza intercorre tra il progetto «grande-tedesco» e quello «piccolo-tedesco» emersi duranti i lavori dell’Assemblea di Francoforte? Per quali motivi i moti del 1848 fallirono in tutta Europa? A quale scopo vennero creati gli ateliers nationauxì Quali aspetti istituzionali accomunano gli statuti concessi in Italia dai sovrani durante i moti del 1848? Quale leader democratico si pose alla guida della rivolta ungherese contro la domina­ zione degli Asburgo? Chi erano i legittimisti nella Francia del 1848? Perché gli stati italiani abbandonarono progressivamente il loro sostegno al Piemonte nella lotta contro le armate austriache? Quali classi sociali furono protagoniste dei moti del 1848?

Per saperne di più

. Agulhon, La Francia della seconda repubblica: 1848-1852, Roma, Editori Riuniti, 1979. Colombo, Con lealtà di Re e con affetto di padre. Forino, 4 mano 1848: la concessione dello Statuto albertino, Bologna, Il Mulino, 2003. E. Di Rienzo (a cura di), Nazione e controrivoluzione nell’Europa contemporanea (1799-1848), Milano, Guerrini e Associati, 2004. R. Ferrari Zumbini, Tra idealità e ideologia. Il rinnovamento costituzionale nel Regno di Sardegna fra la primavera 1847 e l'inverno 1848, Torino, Giappichelli, 2008. E. Francia, 1848. La rivoluzione del Risorgimento, Bologna, Il Mulino, in corso di pubbli­ cazione. C. Ghisalberti, Dall’Antico Regime al 1848. Le origini costituzionali dell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 1999. P. Ginsborg, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49, Torino, Einaudi, 2007. R. Price, Le rivoluzioni del 1848, Bologna, Il Mulino, 2004. M. Rapport, 1848. Danno della rivoluzione, Roma-Bari, Laterza, 2009. G. Rebuffa, Lo Statuto albertino, Bologna, Il Mulino, 2011.

1860. La guerra civile americana di Tiziano Bonazzi

Se la guerra civile rappresenta per tutti gli americani la «grande tragedia nazio­ nale» - con oltre mezzo milione di morti e un lungo strascico di ostilità che al dramma della schiavitù sostituirono la segregazione razziale -, essa, tuttavia, si comprende solo inserita in un contesto storico e geografico più ampio. Il conflitto che iniziò nel 1861, infatti, rientra nel quadro della «grande Europa» di metà Ottocento, neN’ambito del quale giunsero a un primo consuntivo le profonde trasformazioni degli assetti politici e costituzionali dell’epoca e iniziò a farsi largo la «questione sociale».

1. Stati Uniti ed Europa

NeH’immaginario collettivo del popolo americano la guerra civile del 1861-65 occupa un posto particolare, che un secolo e mezzo di storia non è riuscito a scal­ fire. Centinaia di musei, un fiume di pubblicazioni, di siti internet, di ricostruzioni storiche che si ripetono annualmente indicano un continuo rinnovarsi della sua memoria. In una storia come quella degli Stati Uniti, che sembra il prototipo delle storie di successo - un gruppo di lontane, oscure colonie che diventa un modello poli­ tico ed economico e la prima potenza al mondo -, la guerra civile è l’evento che più di ogni altro dà agli americani il senso di una grande tragedia nazionale, con 630.000 morti, la distruzione di intere aree del paese, il lungo strascico di ostilità che si lasciò dietro e il dramma della schiavitù che fu abolita, ma a cui si sostituì la segregazione razziale, mentre il razzismo restava immutato. Tuttavia se, sull’onda di una memoria così intensamente americana, si guarda alla guerra civile come a un evento soltanto statunitense, si rischia di restare intrappolati in una visione parziale e di cedere all’idea che la storia degli Stati Uniti sia qualcosa di autoreferenziale. La storia americana è, invece, parte integrante di quella europea e gli Stati Uniti appartengono - fino alla Seconda guerra mondiale, dopo la quale tutto è cambiato - al sistema della «grande Europa», nato dall’ampliarsi del sistema degli stati europei agli stati sorti dalle ex colonie inglesi, spagnole, portoghesi e francesi nel Nuovo mondo.

Fin dalla loro nascita, infatti, gli Stati Uniti si integrarono perfettamente nel sistema economico atlantico e nella prima metà dell’Ottocento divennero grandi esportatori di prodotti agricoli, forti importatori di prodotti industriali e, con la loro moderna flotta mercantile, vettori commerciali di rilievo. Lo stesso deve dirsi per quanto riguarda la politica internazionale, anche se nella prima metà dell’Otto­ cento erano un paese estraneo ai grandi giochi di potenza europea. Sapevano, però, difendere bene i loro interessi nazionali, come indicano la famosa Dichiarazione di Monroe del 1823, l’abile politica di trattati con Francia, Spagna e Gran Bretagna con cui ampliarono il proprio territorio fino al Pacifico, nonché la guerra vittoriosa del 1846-48 contro il Messico, che costò a quest’ultimo quasi la metà del proprio territorio e nella quale si mostrarono in grado di mettere in campo un esercito a migliaia di chilometri di distanza dalle basi di partenza. E, infine, un segnale di appartenenza all’Europa il fatto che la Rivoluzione americana del 1776 si fondò sui diritti naturali dell’individuo, la sovranità popola­ re, la separazione stato-chiesa - cioè sulla libertà per cui lottava l’Illuminismo - e che proprio negli Stati Uniti, a partire dalla fine degli anni Venti dell’Ottocento, nacque la moderna democrazia politica fondata sul suffragio universale maschile e sui partiti. 2.

Le cause e il contesto della guerra

La guerra civile interruppe, quindi, drammaticamente lo sviluppo di un paese che, sia pur periferico, apparteneva all’Europa e vi godeva di molta considerazione. Si trattava di un paese dalla struttura sociale e culturale complessa e articolata, tanto è vero che possiamo considerare il federalismo contenuto nella costituzione del 1787 una risposta pragmatica e geniale al problema di far convivere tredici stati le cui profonde differenze religiose, economiche e culturali risalivano al passato di tredici colonie ognuna con una propria, autonoma storia. Tale complessità non fece che aumentare nei decenni successivi, con l’avanzata della frontiera a Ovest, l’immigrazione che rendeva sempre più composita la popolazione e la rapidissima modernizzazione economica che dava luogo a spinte contraddittorie sia verso la nazionalizzazione che verso la regionalizzazione. Nel 1860, al momento dell’elezione di Lincoln, gli Stati Uniti erano uno stato-continente, il secondo per estensione nel mondo euroamericano e il ter­ zo per popolazione, dopo Russia e Francia, in quanto il boom demografico e l’immigrazione li avevano fatti passare da circa 3.000.000 di abitanti nel 1776 a 31.000.000. Le istituzioni ressero bene a una crescita tanto imponente. Il fe­ deralismo impedì che l’Ovest cadesse in una situazione di dipendenza dall’Est e portò all’ingresso nell’Unione di venti nuovi stati con diritti uguali a quelli dei tredici originari. La democratizzazione, a sua volta, integrò nella nazione in modo consensuale una popolazione in continua crescita, compresi i sempre più numerosi immigrati - nonostante l’ostilità verso gli irlandesi cattolici -, e aiutò la nascita di un ardente nazionalismo popolare. Introiettati i rivoluziona­ ri principi del 1776, gli americani presero, infatti, a scorgere nel loro paese il luogo destinato dalla provvidenza divina al fiorire della libertà religiosa e civile, in contrapposizione al dispotismo monarchico e all’alleanza fra trono e altare dominanti in Europa.

Alle spinte politiche e sociali verso il rafforzamento delle istituzioni e dell’i­ dentità nazionale si sommarono quelle economiche, dal momento che nei circa ottant’anni fra l’indipendenza e la guerra civile gli Stati Uniti divennero uno dei paesi più dinamici del mondo euroamericano. Nel 1860 l’agricoltura americana, pienamente commerciale, esportava tabacco, riso, grano, granturco, indaco e so­ prattutto dominava il mercato internazionale del cotone, materia prima indispen­ sabile per l’industria europea; ma gli Stati Uniti non erano più soltanto un paese agricolo, anzi, avevano completato la propria rivoluzione industriale, tanto è vero che alla vigilia della guerra civile metà del loro prodotto interno lordo proveniva dall’industria e dai servizi. Inoltre, contrariamente a quanto avveniva in Europa, dove l’industrializzazione avanzava a scapito dell’agricoltura, gli Stati Uniti erano in grado di far crescere assieme i due settori, per quanto riguardava sia il numero degli addetti sia il valore del prodotto. Se non ancora un gigante economico, l’America di metà Ottocento era un paese ricco, con un benessere diffuso e soprattutto in grado di servirsi delle tecnologie di punta, tanto da possedere la metà delle ferro­ vie mondiali, le quali stavano dando vita a un’industria siderurgica e meccanica di rilievo, oltre a interconnettere con grandi benefici mercati altrimenti lontani e isolati nell’immenso territorio nazionale. Il successo degli Stati Uniti nel creare in pochi decenni uno stato forte, una nazione vitale, un sistema politico democratico e un’economia avanzata non ci deve, tuttavia, far dimenticare le controspinte a cui dava vita la crescente complessità del paese. Lo sviluppo economico, ad esempio, aveva caratteristiche opposte al Nord e al Sud. La posizione di forza del cotone e del tabacco americani nel mer­ cato internazionale spingeva, infatti, gli abitanti del Sud a investire quasi soltanto nell’agricoltura - un’agricoltura, per di più, che aveva bisogno di notevoli capitali, sia perché cotone e tabacco esaurivano velocemente la produttività dei terreni, sia per l’investimento in schiavi -, e ciò aveva conseguenze di notevole portata, anche se non nel senso di rendere il Sud una regione arretrata, perché la democrazia vi si affermò come altrove e perché il sistema di piantagione aveva caratteristiche di modernità capitalistica e capacità di creare profitto paragonabili a quelle dell’industria. A Nord, invece, pur se l’agricoltura a grano e granturco fondata sulla piccola proprietà contadina aveva grande importanza, buona parte dei capitali interni e internazionali andavano a finanziare la nascente industria e la marineria commerciale delle zone atlantiche. Non era, tuttavia, sul terreno strettamente economico che Nord e Sud potevano dar vita a una frattura sezionale, perché fra le due economie vi era una notevole integrazione: le fabbriche tessili del Nord avevano bisogno del cotone sudista, mentre i capitali, i cereali e i servizi marittimi nordisti erano necessari al Sud. Nel corso della prima metà dell’Ottocento gli stati del Nord abolirono uno dopo l’altro la schiavitù, inutile all’economia e moralmente osteggiata. Le conse­ guenze furono importanti per la cultura sociopolitica dell’intero paese centrata fin dalle origini sull’idea, tratta dalle teorie del repubblicanesimo radicale inglese, che il buon cittadino capace di difendere la libertà dai potenti doveva essere moralmente puro ed economicamente indipendente. Un modello che trovava nel contadino proprietario il proprio ideale. Ciò non implicava uguaglianza sociale; ma, nel modo in cui veniva interpretato nel Nord alla luce del diritto naturale alla libertà sancito nella Dichiarazione di Indipendenza, ogni maschio adulto doveva essere messo nella condizione di provare a sé stesso e agli altri se era capace di essere un vero cittadino

e di poter godere, di conseguenza, dei diritti civili e politici. Fu questo a facilitare l’abolizione della schiavitù e fu questo che, nei decenni seguenti, portò a equiparare la figura dell’operaio, che conoscendo un mestiere era in grado di essere autonomo col proprio lavoro, a quella del contadino. Nel Sud, invece, il repubblicanesimo si combinò con l’assoluta prevalenza di un’economia agraria schiavista che impedì, da un lato, di pensare alla schiavitù come a un male e, dall’altro, portò i bianchi a considerare gli operai prossimi agli schiavi, in quanto entrambi privi di autonomia, e a considerare il lavoro salariato indegno di un uomo libero. Non fu, quindi, il biforcarsi dell’economia americana a dare in sé origine alla spaccatura fra Nord e Sud, e non lo fu neppure l’atteggiamento dei nordisti nei confronti dei neri, perché, pur abolendo la schiavitù in quanto immorale, essi rimasero razzisti e negli stati del Nord i neri liberi, considerati inferiori, non ven­ nero ammessi se non in pochi casi, e solo parzialmente, a godere dei diritti civili e politici. La maggioranza dei nordisti, inoltre, fedele ai principi del federalismo, fino alla vigilia della guerra civile non pretendeva la fine della schiavitù nel Sud e riteneva che la soluzione migliore fosse il ritorno dei neri in Africa, in Liberia, il primo stato nero africano indipendente, voluto proprio a questo fine dagli Stati Uniti. Fondamentali, invece, nel condurre alla guerra civile, furono le opposte visioni sulla natura della repubblica che si diedero nel Nord e nel Sud a partire dalle questioni illustrate finora. 3.

L’esplodere delle tensioni

Nordisti e sudisti si erano spesso scontrati su questioni politiche ed economiche, ad esempio a proposito del protezionismo, voluto dai primi e avversato dai secondi; ma compromessi erano sempre stati raggiunti, da quello informale per cui doveva esserci parità numerica fra stati schiavisti e non, onde mantenere un equilibrio fra le due sezioni in Congresso, al Compromesso del Missouri del 1821, che fissò una linea fino al Pacifico a Sud della quale la schiavitù era legittima mentre non lo era a Nord, e garantì così un’area di espansione sulla frontiera sia a schiavisti che ad antischiavisti. A poco a poco, tuttavia, le differenze presero a essere interpretate nel quadro di due visioni politiche e morali contrapposte. La rigida difesa sudista del sistema di piantagione parve ai nordisti parte di una generale avversione al progresso economico e morale del paese; mentre nel Sud il materialismo e l’amore del Nord per un’astratta idea di libertà venivano contrapposti alla vera libertà dei bianchi sudisti, legati alla terra, alla comunità locale, alle tradizioni. Nord e Sud presero quindi ad autopercepirsi come entità culturali autonome e vieppiù incompatibili. Negli anni Cinquanta, dopo un ultimo, instabile compromesso raggiunto nel 1850 sul destino schiavista o meno dei territori - dal Nuovo Messico alla California strappati al Messico, il conflitto precipitò. I sudisti si resero conto di non potersi più espandere, perché le aride terre del Sud-Ovest erano inadatte alla coltivazione del cotone, e di essere minoranza nel paese, in quanto gli immigrati si fermavano nel Nord industriale. Da qui, nel timore che il Nord avesse la forza politica per eliminare la schiavitù, essi reagirono aspramente in difesa della loro «peculiare isti­ tuzione». Essi cercarono di costituzionalizzarla indirettamente facendo approvare leggi come il Fugitive Slave Act del 1850, che costringeva gli stati del Nord a resti-

tuire ai proprietari gli schiavi fuggiti sul loro territorio con l’aiuto di organizzazioni antischiaviste attraverso quella che veniva chiamata la underground railway, o con sentenze di una Corte Suprema, a maggioranza sudista, come nel caso Dred Scott del 1857 che ne riconosceva la liceità costituzionale; ma con questo non fecero che radicalizzare il Nord, la cui classe dirigente ormai pensava in termini economici continentali e pianificava la prima ferrovia dall’Atlantico al Pacifico, che prese a percepire il Sud come il luogo di una «cospirazione schiavista» che intendeva im­ porre un modello sociale ed economico retrogrado oltre che moralmente ignobile. Alla fine del decennio l’equilibrio fra le spinte nazionalizzanti e quelle sezionali venne meno. Il Sud, che riteneva che il diritto naturale alla libertà si applicasse solo ai bianchi, difendeva lo schiavismo come il sistema sociale più corretto per governare i rapporti fra razze superiori e inferiori ed esaltava l’uguaglianza fra i bianchi del Sud accusando al tempo stesso il Nord capitalista di schiavizzare - cioè di proletarizzare - una parte della popolazione bianca. Il Partito nazionale maggio­ ritario, quello democratico, si spaccò in una componente nordista e una sudista, mentre il nuovo Partito repubblicano, fondato nel 1854 negli stati del Nord-Ovest, antischiavista anche se contrario all’abolizione forzosa della schiavitù, stava diven­ tando maggioranza nel Nord. La scintilla che fece esplodere la situazione furono le elezioni del 1860. Il Partito democratico, a cui erano appartenuti tutti gli ultimi presidenti, non riuscì a mantenersi unito e presentò due candidati, uno al Nord e uno al Sud, il che diede spazio al candidato repubblicano Abraham Lincoln che, vincendo in tutti gli stati del Nord, anche se perse nel Sud, ottenne la presidenza con una maggioranza relativa del voto popolare, il 40%, ma con la maggioranza assoluta del voto elettorale, che secondo la costituzione è quello che assegna la vittoria. Un mese soltanto dopo le elezioni di novembre, la Sud Carolina dichiarò la secessione e nel febbraio 1861 nacquero i Confederate States of America, in cui entrarono a far parte undici stati sudisti (altri quattro rimasero nell’Unione). In aprile, con l’attacco delle milizie della Sud Carolina a Fort Sumter, un forte nella baia di Charleston che era rimasto fedele all’Unione, ebbe inizio la guerra. 4.

La guerra civile nel contesto internazionale e le sue conseguenze interne

Gli Stati Uniti nella prima metà dell’Ottocento avevano ottenuto molti successi, soprattutto erano riusciti a imbrigliare la propria grande e crescente complessità con istituzioni come il federalismo e la democrazia che consentivano l’espressione e la composizione pacifica dei tanti e divergenti interessi presenti nel paese. Gli Stati Uniti, insomma, erano una società e una nazione pluralista; ma quando si manifestò la divisione sezionale seguire questa strada si dimostrò impossibile e il paese si spaccò, perché Nord e Sud, da regioni diverse, divennero quasi due sub­ nazioni all’interno della nazione americana. Nel 1861 il conflitto fu letto in questi termini anche negli ambienti del nazio­ nalismo liberale europeo, con molti dei suoi esponenti di spicco, fra cui Giuseppe Mazzini, che in nome della libertà dei popoli guardarono con simpatia alla causa confederata, anche se la abbandonarono per la strenua difesa sudista della schiavitù. La guerra civile non fu, pertanto, un fenomeno strettamente americano, ma rientra in un quadro di trasformazioni profonde che investirono il mondo della grande Europa nei decenni in cui la Restaurazione entrò in crisi per la duplice richiesta

di libertà politica e di libertà nazionale. Essa venne, infatti, combattuta negli anni dell’unificazione italiana e tedesca, dei moti nazionali polacchi contro la Russia, del compromesso ungherese all’interno dell’Impero asburgico e di guerre che in America Latina rafforzarono la dimensione nazionale di Cile, Argentina, Uruguay. Nei casi italiano, tedesco, americano e in quello argentino con la guerra contro il Paraguay del 1865-70, le istanze regionali o di stati minori furono sconfitte da quelle di stati o regioni più forti che riaffermarono il loro potere. Nel nome dell’unità nazionale, a uscirne sconfitti furono ipotesi e assetti politici decentrati: si pensi alle idee federali ventilate in Italia durante il Risorgimento o, proprio negli Stati Uniti, al cosiddetto «federalismo duale» pre-guerra civile, in cui il governo federale esercitava ben pochi poteri sui singoli stati e questi perseguivano politiche statali o regionali autonome. Negli Stati Uniti ciò avvenne attraverso la tragedia di una guerra che costò la vita al 7% della popolazione maschile abile alle armi, una percentuale che si raddoppiò per il Sud. Quest’ultimo, pur molto inferiore da un punto di vista sia numerico, avendo una popolazione complessiva di poco più di 9.000.000 di abitanti di cui 3.500.000 schiavi, sia economico, riuscì a resistere per quattro anni; il che fu possibile perché combatteva una guerra difensiva strategicamente più semplice di quella offensiva del Nord, perché i sudisti si batterono fino allo stremo in difesa del «loro» way oflife e anche per il genio militare di molti suoi leader come il generale Robert E. Lee. Alla fine l’Unione ebbe la meglio: la guerra civile, combattuta da grandi eserciti su un territorio immenso, fu, da un punto di vista logistico e orga­ nizzativo, la prima guerra industriale e su questo terreno il Sud non poteva che restare schiacciato. L’egemonia militare ed economica del Nord conseguente alla guerra civile implicò una ridefinizione della nazione, una sorta di ri-nazionalizzazione, che ebbe, tuttavia, un andamento complesso, la cui fine non può essere fissata al mo­ mento della resa di Robert Lee nell’aprile del 1865. L’emancipazione degli schiavi, avvenuta con il Proclama di Lincoln del 1° gennaio 1863, e la scomparsa della Confederazione fanno parte, infatti, di un processo storico più ampio che termi­ na solo con l’accordo del 1876 che pose fine al periodo della Ricostruzione. Se, infatti, lo scontro fra Nord e Sud riguardava due progetti diversi per la nazione americana all’interno di un comune nazionalismo democratico e pluralista, è solo con quest’accordo che quello nordista ebbe davvero via libera. Si trattava di un progetto, elaborato già durante la guerra, di accelerata industrializzazione, basato sulla costruzione di un network continentale di linee ferroviarie e telegrafiche destinate a consentire lo sfruttamento delle immense risorse minerarie del paese e a creare un mercato nazionale dei prodotti industriali e agricoli. Di esso era parte integrante anche un’ideologia del progresso che aveva il suo fulcro in una gene­ rale idea di libertà, che portò il Congresso ad approvare fra il 1865 e il 1869 gli emendamenti costituzionali che garantivano cittadinanza e diritti agli ex schiavi e che lo guidò anche nel tentativo di «ricostruire» politicamente il Sud, onde fargli accettare sia l’industrializzazione che la partecipazione dei neri alla vita sociale e politica. La resistenza sudista all’integrazione dei neri fu però talmente aspra, nonostante la lunga occupazione militare della ex Confederazione, da convincere il Nord che continuare la Ricostruzione aveva un prezzo troppo alto. Fu così che, in occasione delle contestate elezioni presidenziali del 1876, al voto dei democra­ tici sudisti al Congresso che consentì di eleggere un presidente repubblicano del

Nord, si accompagnò l’impegno nordista a lasciare che il Sud gestisse da solo le proprie questioni interne. La ridefinizione del senso della nazione provocata dalla guerra civile si concluse con un accordo che diede via libera al progetto economico nordista, rafforzò i poteri del governo centrale e mise fine a ogni ulteriore ipotesi secessionista; ma escluse i neri dal patto nazionale e li lasciò alla mercé della volontà segregazionista del Sud e del razzismo di gran parte del paese. Le trasformazioni e le guerre di metà Ottocento portarono ovunque a statinazione internamente forti e volti a perseguire in modo vieppiù esclusivo l’interesse nazionale. Se negli Stati Uniti questo non portò a un sistema politico con caratteri autoritari come in Germania o a uno stato il cui centralismo doveva ovviare alla de­ bolezza della nazione come in Italia, e se lo stato-nazione americano rimase, quindi, sia democratico che pluralista, ciò, tuttavia, avvenne al costo di una ridefinizione in senso razziale della nazione le cui conseguenze politiche si sono fatte sentire per quasi un secolo e quelle sociali non sono ancora del tutto superate. Percorso di autoverifica

1. Quali ripercussioni politiche e sociali ebbe nell’immediato la guerra civile americana e quali nel lungo periodo? 2. Come si presentano gli Stati Uniti nel 1860? 3. Quali compromessi consentirono il mantenimento dell’unità nazionale fino al 1860? 4. Quali politiche sostiene il Partito democratico? 5. Quali quello repubblicano? 6. Quali furono le conseguenze del compromesso del 1876?

Per saperne di più

D. W. Blight, Race and Reunion. The Civil War in American Memory, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2001. E. Foner, Reconstruction. America’s Unfinished Revolution, 1863-1877, New York, Cam­ bridge University Press, 1990. W.E. Gienapp, Abraham Lincoln and Civil War America, New York, Oxford University Press, 2001. R. Luraghi, Storia della guerra civile americana (1966), Milano, Rizzoli, 2009. R. Mitchell, La guerra civile americana, Bologna, Il Mulino, 2009.

1870. Il nuovo equilibrio europeo di Maria Serena Piretti

Vent’anni dopo la «primavera dei popoli», fallita nel 1848, l’equilibrio europeo fu segnato da processi di mutamento che l’avrebbero accompagnato fino alle soglie della Prima guerra mondiale. La Francia, gli stati di lingua tedesca e la penisola italiana furono i paesi maggiormente interessati da questi mutamenti. La carta degli equilibri geopolitici, tracciata all’inizio del secolo, fu sostituita da un nuovo assetto che vide fortemente ridimensionato il potere esercitato dall’Impero austroungarico.

Passati circa vent’anni dagli eventi del 1848, l’equilibrio politico europeo, che il fallimento della «primavera dei popoli» aveva prodotto, riceve una nuova scossa e registra, quasi in sordina, una serie di trasformazioni destinate a durare fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. I paesi maggiormente interessati a questi mutamenti sono la Francia, gli stati di lingua tedesca e la penisola italiana, mentre la Gran Bretagna, che è solo indi­ rettamente toccata dalla parziale risistemazione della carta geopolitica dell’Europa, procede, secondo lo stesso modulo che già l’aveva accompagnata in un riformismo senza rivoluzione negli anni del ’48, a un riequilibrio della balance of power che caratterizza il suo sistema politico. La causa congiunturale che sta all’origine di questi eventi è il fatto che sul trono nel Regno di Spagna si sia esaurita una dinastia, senza che sia chiaro a chi tocchi la successione sullo stesso: ciò scatena gli appetiti delle monarchie europee, ingene­ rando contemporaneamente i logici timori derivanti da un possibile disequilibrio nella distribuzione del potere politico fra le diverse case regnanti. Com’è naturale, gli interrogativi più pressanti circa la risoluzione di questa diatriba sono quelli della Francia che, per la posizione geografica confinante con la Spagna, sarebbe sottopo­ sta al pericolo più immediato di un ipotetico assedio psicologico, se a regnare sullo stato al di là dei Pirenei venisse posta una monarchia che già esercita il suo potere in un paese posto ai suoi confini orientali (cioè se si trattasse di una casata tedesca). In realtà la crisi congiunturale della successione spagnola non rende piena ragione della trasformazione in atto e lo sbocco di questa crisi non sarebbe com­ prensibile se non si considerassero gli sviluppi che lo scenario europeo presenta

nell’intervallo tra il 1848 e il 1870. È per questo che, per spiegare gli eventi, è necessario fare un passo indietro rispetto agli avvenimenti del ’70. Il ’48, come peraltro già il 1815, aveva negato risoluzione ai problemi delle «nazionalità» e il tentativo esperito dai popoli di lingua tedesca di darsi una pro­ pria struttura, indipendentemente dal controllo della Confederazione germanica e quindi dell’Austria, era abortito di fronte al rifiuto espresso da Federico Guglielmo IV all’offerta del titolo di imperatore, che gli veniva presentata dall’Assemblea di Francoforte, liberamente eletta, all’indomani dello scoppio della rivoluzione, per coronare i sogni di un’unificazione dei territori tedeschi. Questo diniego opposto dalla monarchia degli Hohenzollern è legato, tuttavia, non alla volontà prussiana di mantenere inalterati i rapporti di potere sanzionati nel Congresso di Vienna (e quindi all’accettazione di un ruolo non così paritario rispetto all’Austria) bensì al rifiuto di un impianto costituzionale che, provenendo dal basso, avrebbe per sua stessa natura sottolineato la debolezza della forma sta­ tuale che rispondeva al «principio monarchico» (il sovrano che non derivava il suo potere da alcuno). Conforta questa linea interpretativa l’abile mossa di Federico Guglielmo IV, posta in essere all’indomani della stessa Rivoluzione del ’48, quando, per affermare il ruolo preminente della Prussia rispetto agli altri stati membri della Confederazione, tenta di avviare, d’accordo con i Regni di Sassonia e dell’Hannover, un movimento di unificazione nazionale degli stati tedeschi del Nord. Tentativo subito sventato dall’Austria che, con il trattato di Olmutz del novembre 1850, riaf­ ferma il suo ruolo guida all’interno della Confederazione e vieta qualsiasi alleanza strutturale ai paesi posti all’interno della stessa. 1.

L’unificazione tedesca

Alla Prussia, a cui la strada diplomatica verso una risoluzione della «questione nazionale» viene irrimediabilmente preclusa, non resta che prepararsi a percorrere quella che Bismarck in una famosa frase definirà la via «del ferro e del sangue». Riorganizzato l’esercito, in forza della destinazione della maggior parte delle entrate dello stato al ministero della Difesa, secondo un disegno prefigurato da Gugliel­ mo I, il successore di Federico Guglielmo IV, e reso possibile dalla chiamata alla carica di primo ministro prussiano di Otto von Bismarck, la Prussia si appresta a guadagnare sul campo di battaglia quella leadership che da più parti e a più riprese le era stata riconosciuta, ma che l’Austria non le aveva mai accordato. Si veniva così pianificando per tappe successive la costruzione di un impero tra i popoli di lingua tedesca non inclusi nellTmpero asburgico (soluzione «piccolo-tedesca»). I conflitti del ’64, del ’66 e del ’70 sono le pietre miliari di questo percorso. Nel 1864 l’occasione dello scontro è data dal tentativo di Cristiano IX, re di Dani­ marca, di procedere a un’annessione incruenta dei Granducati dello Schleswig e dell’Holstein, posti ai confini tra la Confederazione germanica e la Danimarca e controllati parzialmente sia dalla monarchia danese sia dagli stati della Confedera­ zione. La vittoria ottenuta dall’alleanza austro-prussiana con la sconfitta della Dani­ marca, grazie anche a un mancato intervento inglese, permette alla Prussia, in forza di una posizione geografica strategicamente favorevole, di puntare sull’annessione piuttosto che sulla scelta, favorita dall’Austria, del conferimento ai Granducati dello status di membri indipendenti all’interno della Confederazione.

Questo contrasto che si viene a creare tra Prussia e Austria è all’origine del conflitto del 1866. A questa data, la Prussia, prima di scendere sul campo di bat­ taglia, si assicura la neutralità della Francia e l’alleanza dell’Italia (i cui territori nordorientali erano ancora parzialmente controllati dall’Austria), il che favorisce 10 svilupparsi del conflitto lungo il confine meridionale, mentre l’Austria cerca l’alleanza degli stati del Sud della Confederazione quali la Baviera, il Baden, la Sassonia e il Wurttemberg. La vittoria ottenuta dalla Prussia, in appena due mesi di combattimenti, segna un evidente passo avanti rispetto al progetto di una potenziale unificazione tedesca controllata dai prussiani. La struttura della Confederazione germanica lascia infatti, a partire dal 1866, il posto da un lato alla Confederazione tedesca del Nord, in tutto e per tutto controllata dalla Prussia, mentre dall’altro gli stati tedeschi del Sud, che avevano sostenuto l’Austria nel conflitto, mantengono una formale indipendenza, ma sono costretti a legarsi alla Prussia con una serie di trattati segreti. La struttura politica della nuova Confederazione, sulla quale troneggia la figura di Guglielmo I di Prussia, rappresenta un po’ il banco di prova rispetto al futuro impero. La direzione politica viene assunta dalla figura di un cancelliere, posto alle dirette dipendenze del monarca, come pure alle dirette dipendenze del monarca sono posti tutti i ministri, capi dei diversi dicasteri, mentre la rappresentanza viene affidata a due organi: il primo rappresentativo dei governi dei singoli stati membri della Confederazione, che insieme al cancelliere, da cui è presieduto, è responsabile dell’indirizzo politico dello stato; il secondo, che assume già a questa data il nome classico di Reichstag, e che è eletto a suffragio universale diretto e segreto secondo 11 sistema maggioritario uninominale a due turni, a cui compete invece il potere legislativo (ma che non ha potere di rovesciare il governo). Queste vicende portano Bismarck, che è in tutto e per tutto l’artefice del pro­ cesso di unificazione tedesca, e che proprio per questo viene a giocare il doppio ruolo (che da questo momento in avanti verrà informalmente istituzionalizzato) di primo ministro prussiano e di cancelliere della nuova Confederazione, a prestare particolare attenzione al futuro degli stati tedeschi paladini dell’Austria. In forza di questa obbligata cura viene avviata una politica che si gioca su due piani: da un lato accordi militari privilegiati con gli stati del Sud, dall’altro costituzione di un parlamento doganale, di cui entrano a far parte sia i membri del Reichstag, sia i rappresentanti degli stati del Sud. In questo modo la frattura emersa in seguito agli eventi del ’66 tra gli stati posti a Nord e a Sud del Meno tende a essere progressivamente riassorbita in forza dei nuovi interessi comuni che saldano l’alleanza tra tutti gli stati di lingua tedesca, estromettendo di fatto l’Austria da ogni controllo sull’Europa centro-settentrionale. Questo è il quadro politico che si delinea tra il 1868 e il 1870, quando, resosi vacante il trono di Spagna, in seguito alla fuga in Francia di Isabella II senza una formale abdicazione per il legittimo discendente (il figlio Alfonso, che salirà poi al trono nel 1874 col nome di Alfonso XII), tra le candidature più solide che vengono a delinearsi figura quella di Leopoldo di Hohenzollern, della casata reale prussiana. Il timore dell’accerchiamento porta la Francia a chiedere al re di Prussia assi­ curazioni circa il ritiro della candidatura tedesca, che avrebbe reso implicitamente vulnerabili gli interessi francesi in politica estera. La risposta negativa del re di Prussia - passata alla storia come «dispaccio di Ems», volutamente manipolata e resa pubblica da Bismarck, al fine di renderla inaccettabile agli occhi di Napoleone

III e dei francesi - rappresenta l’ultima mossa per costringere la Francia a un conflitto a cui non era preparata, al fine di manifestare a tutte le potenze europee la superiorità della Germania nell’Europa centrale e con l’obiettivo soprattutto di stornare dagli stati tedeschi del Sud qualsiasi potenziale idea di indipendenza sotto il patrocinio di Francia o di Austria. La guerra franco-prussiana che si combatte lungo tutto l’arco del 1870 e che termina con l’assedio di Parigi e l’annientamento della capitale, costretta a subire l’onta dell’occupazione da parte delle truppe prussiane, segna un’importante svolta neH’equilibrio del sistema politico europeo. Le conseguenze di questa guerra si ri­ flettono infatti, con un effetto boomerang, oltre che sui paesi direttamente coinvolti nel conflitto, anche sulla penisola italiana. 2.

Le conseguenze della sconfitta francese

Per la Prussia, la vittoria significa il coronamento di quel progetto eluso dalle potenze mondiali fin dal 1815: se a Vienna l’idea di uno stato compatto al centro dell’Europa sembrava troppo rischiosa, nel ’70 questo disegno diventa realtà e tutti gli equilibri di potere che si erano andati progressivamente costruendo vengono repentinamente rimessi in discussione. Per la Francia la sconfitta del Secondo im­ pero accelera a quella evoluzione in senso liberale del sistema di Napoleone III che, con l’affidamento del governo all’ex repubblicano Émile Ollivier, si era avviata fin dal 1869, e la sola conseguenza possibile alla caduta dell’imperatore sarà alla fine la formalizzazione della repubblica (1875), anche se restano tuttavia in predicato le connotazioni politiche della stessa. In ultimo, la sconfitta della Francia lascia campo libero all’azione della monarchia italiana rispetto allo Stato pontificio che, dopo la formazione del Regno d’Italia avvenuta nel 1861, controllava ancora la regione circostante la città di Roma, impedendo agli italiani di legare ai destini del proprio stato unitario quelli della città ritenuta, per il suo significato simbolico e la sua posizione strategica, l’unica vera capitale del regno. In realtà la convenzione stipulata nel 1864 tra Vittorio Emanuele II e Napoleone III avrebbe dovuto allon­ tanare per sempre qualsiasi mira annessionistica dell’Italia rispetto a Roma, ma il segnale del trasferimento della capitale del regno da Torino a Firenze, avvenuto nel 1865, a suggello della convenzione, in realtà era stato percepito, soprattutto dalle forze della democrazia, solo come una tappa d’avvicinamento rispetto al conseguimento della piena unità nazionale, che la cultura dell’epoca si rifiutava di ritenere compiuta finché la città di Roma fosse stata controllata dal pontefice. Nel ’70, dunque, con il coronamento dei sogni inerenti le due nazionalità sto­ riche che si erano affermate più solidamente (l’italiana e la tedesca), quella carta degli equilibri geopolitici, tracciata all’inizio del secolo, viene definitivamente compromessa, e a essa se ne sostituisce un’altra che vede fortemente ridimensionato il potere esercitato dallTmpero austroungarico: il vecchio garante dello status quo risulta così irrimediabilmente battuto. È evidente, tuttavia, che la data del ’70 porta con sé, come diretta conseguen­ za di una diversa organizzazione territoriale dell’Europa, anche il profilarsi di un nuovo equilibrio politico che coinvolge l’intera compagine del vecchio continente, ma che risulta in stretta relazione con l’evoluzione che i sistemi politici registrano all’intemo di ogni singolo stato nazionale. Per l’Impero tedesco la scommessa bi-

smarckiana si gioca tutta nel contemperamento di legittimazione/conservazione. La legittimazione può derivare dal diretto coinvolgimento nelle scelte politiche dello stato della totalità della popolazione tedesca grazie al suffragio universale maschile, che risulta dunque secondo la modellistica del tempo - che escludeva a livello di principio le donne dall’elettorato attivo - una scelta obbligata, se si vogliono spingere verso la costruzione di un’identità nazionale il più possibile omogenea popolazioni che hanno alle loro spalle tradizioni culturali, religiose e po­ litiche diverse. Nel contempo, tuttavia, il meccanismo individuato come strumento privilegiato nella via della legittimazione non deve interferire con l’impianto strut­ turalmente conservatore che la nuova forma di stato federale deve assumere: alla camera elettiva, il Reichstag, quindi spetta la funzione legislativa, ma non compete alcun tipo di controllo sull’indirizzo politico che invece risiede, lungo una scala gerarchica, nell’imperatore, nel cancelliere, nei ministri e nel Bundesrat, la camera' rappresentativa dei governi dei singoli stati membri. In questo quadro l’imperatore mantiene quindi, in forza di quel principio monarchico che già era stato alla base della monarchia costituzionale prussiana, un potere di fatto sovracostituzionale. Il paradosso tedesco risulta così da questo Giano bifronte che tiene unito il massimo livello di democratizzazione di uno stato, rappresentato dal suffragio universale, con una venatura di potere assoluto tipico delle migliori forme statuali di Ancien Regime. 3.

Il nuovo equilibrio europeo

Per contro, la Repubblica francese in formazione risente dell’essere più il prodotto obbligato della sconfitta del regime precedente avvenuta sul campo di battaglia che una scelta operata dal confronto tra le forze politiche in gioco sulla scena nazionale. E dunque una scelta istituzionale tendenzialmente debole, che ha bisogno di cimentarsi in uno scontro politico che ne definisca la reale portata. La prima prova del fuoco che il sistema politico francese attraversa è il bagno di sangue della «Comune» (il tentativo di autogoverno dal basso del popolo di Parigi). La repressione della rivolta mostra come la scelta repubblicana sia capace di tenere testa ai tentativi insurrezionali, grazie anche allo sfruttamento di una divisione politica dei territori francesi secondo una linea di demarcazione che faccia perno sulla tendenza conservatrice della Francia rurale contro quella rivoluzionaria della Francia urbana. E così evidente che l’avvio della nuova forma di stato non potrà che essere posto sulla strada della moderazione, secondo la nota affermazione di Adolphe Thiers: «La repubblica o sarà moderata o non sarà». Ragione di questo daranno sia la formazione dell’Assemblea costituente eletta nel 71, che vedrà al proprio interno una maggioranza conquistata dalla destra legittimista favorevole persino a una restaurazione della monarchia, sia nel ’73 la chiamata alla presidenza della repubblica del generale Mac-Mahon, l’artefice militare della sconfitta dei comunardi. Bisognerà attendere perché i disegni di una repubblica presidenziale, auspicata dai conservatori, come via sussidiara all’impossibilità di ripristino della monarchia, vengano definitivamente sconfitti. Questo avverrà nel 1877, quando le forze politiche moderato-progressiste, riunite sotto l’ampia bandiera del «Partito della repubblica», riusciranno a imporre in via definitiva l’impianto parlamentare alla Terza repubblica francese.

In questo senso, anche nel 70, la Francia è il paese che fa proprio un impianto statuale che tende ad affondare le proprie radici negli eventi della sua storica rivo­ luzione, mostrando a tutti che quell’eredità è ancora ben viva e capace di incarnarsi in una sua forma di statualità peculiare. Per l’Italia, il passo avanti nel processo di unificazione porta, invece, a un ridimensionamento delle storiche differenze tra la destra e la sinistra del movimento liberale al potere. Ciò impone alle parti politiche una ridefinizione delle rispettive posizioni nei confronti dello stato e della politica di governo: se si confinano nelle fila ultraconservatrici i clericali puri, si emargi­ nano dalla vita dello stato i più ampi gruppi del movimento cattolico, costretti ad accettare la posizione intransigente del pontificato (non si partecipa alla vita dello stato usurpatore), e si avvia contemporaneamente la separazione, all’interno della sinistra, tra le forze costituzionali politicamente alternative rispetto agli equilibri di governo, ma omogenee a esse come grande visione politica, e quelle invece che vengono definite «estreme» e che continuano a chiedere la messa in discussione della forma dello stato. Per l’Italia, dunque, l’acquisizione di Roma capitale apre un periodo nuovo nella politica nazionale, che spiana lentamente la strada a quella trasformazione dei partiti che investirà, alla chiusura degli anni Settanta, la scena politica del paese. La Gran Bretagna è spettatrice esterna di queste trasformazioni che, sottratto il ruolo di paese guida del continente all’Impero austroungarico, riconoscono al nuovo Impero tedesco la leadership nel centro Europa. Questo, però, non significa che l’inizio degli anni Settanta non sia ugualmente testimone di una certa svolta nella politica di quel paese. La Gran Bretagna continua, infatti, a procedere sulla via delle «riforme senza rivoluzione». La trasformazione, nel 1867, del sistema elettorale in vigore, al fine di ammettere all’elettorato attivo gran parte delle po­ polazioni urbane, modifica sensibilmente il rapporto tra classe dirigente e società, accorciando le distanze che separano il paese legale dal paese reale e producendo una serie di effetti a cascata che stanno alla base del nuovo equilibrio istituzionale che caratterizza la scena politica britannica all’indomani del 70. E a questa data, infatti, che vanno fatte risalire, da un lato, la piena affermazione istituzionale dei due grandi partiti liberale e conservatore (il che significa che dal 1868 ogni governo che si insedierà a Downing Street sarà diretto dal leader del partito che ha vinto le elezioni), dall’altro, la progressiva trasformazione, descritta da Walter Bagehot nel suo La Costituzione inglese, della balance «istituzionale», che originariamente era caratterizzata dall’equilibrio dei tre organi chiave del sistema - corona, camera dei Comuni e camera dei Lord - e che ora viene sempre più attestandosi nella ricerca di equilibrio tra la parte «emozionale» del sistema (corona e camera dei Lord) e quella «propulsiva» (camera dei Comuni e gabinetto), indicando implicitamente come il centro motore del sistema politico siano diventate quelle istituzioni che svolgono una funzione preminente di ponte tra lo stato e la società. Questa evoluzione diverrà la caratteristica principe del cosiddetto popular government britannico e darà fama alla forma di questo stato, ponendola a modello per gli impianti istituzionali dei paesi dell’Europa continentale. Sono dunque gli anni Settanta dell’Ottocento che riducono al silenzio i grandi della restaurazione e mantengono sulla scacchiera del potere mondiale un ruolo privilegiato a un vecchio continente che ha tuttavia rinnovato il proprio personale politico: gli uomini che si trovano ora alla guida dei diversi stati nazionali hanno dell’inizio del secolo solo una memoria che è stata tramandata loro dalla storia.

Percorso di autoverifica

1. Quali sono i paesi maggiormente interessati dagli avvenimenti del 1870?

2. Quali, invece, furono i paesi meno coinvolti e perché? 3.

Qual è la causa congiunturale all’origine degli eventi che caratterizzarono l’Europa in questo periodo? 4. Quale problema generò la guerra franco-prussiana? 5. Che cosa s’intende con l’espressione «soluzione “piccolo-tedesca”»? 6. Quale funzione svolse la costituzione del parlamento doganale?

Per saperne di più

P. Barjot, J.P. Chaline e A. Encrevé, Storia della Francia nell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 2003. ,D. Pugh, Storia della Gran Bretagna 1789-1990, Roma, Carocci, 2002. Romanelli, Ottocento. Lezioni di storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2011. A.J.P. Taylor, Bismarck. L’uomo e lo statista, Roma-Bari, Laterza, 2004.

1898. La guerra ispano-americana e l’impero statunitense di Mario Del Pero

Nel 1898 gli Stati Uniti dichiararono guerra all’Impero spagnolo. Il conflitto scop­ piò in risposta alle azioni spagnole a Cuba, che all’epoca faceva ancora parte dell’impero e dove si era sviluppato un movimento nazionalista che rivendicava l’indipendenza dell’isola. La guerra durò pochi mesi e si concluse con un facile successo per gli Stati Uniti, che li portò ad acquisire il controllo diretto delle Filippine, di Portorico e dell’isola di Guam nel Pacifico. Cuba, per la cui indi­ pendenza si era combattuto, venne rapidamente trasformata in un protettorato degli Stati Uniti. La guerra sanzionò l’affermazione nordamericana nell’arena internazionale e la nascita dell’impero statunitense.

È consuetudine tra gli storici della politica estera americana considerare la guerra del 1898 tra gli Stati Uniti e la Spagna come uno spartiacque cruciale. Un momento di svolta che segnerebbe l’inizio dell’inarrestabile ascesa degli Usa a indiscussa potenza globale. Secondo tale lettura, la guerra del 1898 inaugurereb­ be, con solo due anni d’anticipo, quello che quattro decenni più tardi il magnate dell’editoria Henry Luce avrebbe definito il «secolo americano». Questa interpretazione offre molti vantaggi, anche sul piano didattico e divulga­ tivo. Su tutti quello di fornire una periodizzazione, semplice e conveniente, che usa il XX secolo come propria unità di misura. Non di meno, una sovra-enfatizzazione della portata della rottura del 1898 nella storia statunitense non permette di com­ prendere il legame che vi fu tra la guerra con la Spagna e precedenti processi poli­ tici, diplomatici ed economici che avevano qualificato l’espansionismo statunitense durante tutto l’Ottocento e concorso alla formazione di un impero continentale in Nord America. Processi la cui continuità non trovava certo una soluzione in occasione della guerra con la Spagna. La guerra del 1898 rappresentò pertanto un salto di qualità, più che un momento di rottura dell’espansionismo statunitense. Tale tradizione necessitava infatti di una rimodulazione, resa necessaria sia dal completamento dell’espansione continentale sia dalla progressiva globalizzazione degli interessi, strategici ed economici, degli Stati Uniti. In tal senso l’annessione delle Hawaii, anch’essa del 1898, e preceduta da un’intensa discussione politica e pubblica, rappresentò un viatico e un segnale importante. Per la loro collocazione,

le Hawaii rappresentavano un’importante base, militare e commerciale, in direzione del continente asiatico, verso cui s’indirizzavano le attenzioni crescenti del mondo politico ed economico statunitense. 1.

Cuba

Nell’emisfero occidentale, le isole di Cuba e Portorico costituivano le ultime vestigia di quello che era stato il grande Impero spagnolo. Lasciti che la Spagna faceva peraltro sempre più fatica a controllare. A Cuba le proteste sociali e le rivendicazioni politiche avevano contribuito alla formazione di un movimento di resistenza al dominio spagnolo che rivendicava l’indipendenza dell’isola. Attivo sin dagli anni Sessanta dell’Ottocento, tale movimento aveva intensificato la propria azione nell’ultimo decennio del secolo. A partire dal 1895, gli spagnoli cercarono di reprimere quella che a tutti gli effetti era divenuta un’insurrezione. Lo fecero con metodi feroci, ancorché inefficaci e non dissimili da quelli utilizzati da altre potenze imperiali, e istituendo un brutale sistema di campi di concentramento per isolare i civili dai combattenti. Le pratiche repressive spagnole furono denunciate dalla stampa popolare statunitense, suscitando genuino orrore tra settori consistenti dell’opinione pubblica del paese. Cuba aveva da tempo un rapporto particolare con gli Stati Uniti: era stata spesso oggetto delle ambizioni espansionistiche norda­ mericane; nell’isola vi erano forti interessi economici americani, in particolare nei settori saccarifero ed estrattivo; negli Usa viveva già allora una significativa comu­ nità cubana (in particolare in Florida, nel New Jersey e nello stato di New York). L’attenzione verso quanto stava accadendo a Cuba non implicò subito una volontà interventista da parte di Washington. La comunità imprenditoriale era di­ visa su un possibile intervento militare, come lo erano il mondo politico e la stessa amministrazione. Il presidente McKinley - la cui posizione è tuttora oggetto di discussione tra gli storici - optò inizialmente per un gesto simbolico: nel febbraio 1898 egli inviò la corazzata Maine all’Avana, per esprimere l’intenzione di proteg­ gere e tutelare gli interessi statunitensi sull’isola, minacciati dal caos e dalla guerra, e per proteggere i cittadini americani da possibili azioni delle truppe spagnole. Un incidente causò però l’affondamento del Maine e la morte di 260 marinai statu­ nitensi. Negli Usa si diede per scontato che si trattasse di un attentato spagnolo. I sostenitori dell’intervento utilizzarono strumentalmente l’episodio, approfittando dell’ondata di patriottismo emotivo che esso aveva concorso a generare. Il Con­ gresso stanziò una somma straordinaria di 50.000.000 di dollari per preparare la guerra. McKinley lanciò un ultimatum alla Spagna, chiedendole di eliminare i campi di concentramento, interrompere le ostilità e iniziare un negoziato con i ribelli. Madrid accettò le prime due clausole, ma non la terza. Il 25 aprile 1898 gli Stati Uniti dichiaravano guerra all’Impero spagnolo. Il conflitto fu breve e trionfale per la giovane nazione americana: una «splendi­ da piccola guerra», nella definizione che ne diede l’allora segretario di stato, John Hay. Questo a dispetto deH’inefficienza con cui fu mobilitata la macchina bellica negli Usa e deH’imperizia con cui furono gestite le operazioni militari, come ben evidenziò il rapporto tra i soldati americani caduti per mano nemica e quelli morti per malattia (solo 460 soldati statunitensi furono uccisi nei combattimenti, più di 5.200 morirono invece di malaria, dissenteria e tifo).

Il fronte di guerra non si limitò solo al teatro cubano. Non appena iniziato il conflitto, la marina militare americana - che era stata potenziata, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, grazie a un massiccio programma di investimenti attaccò la flotta spagnola nelle Filippine. Successivamente, un corpo di spedizione statunitense, operando al fianco di insorti filippini, sconfisse l’esercito spagnolo. Durante la guerra, gli Stati Uniti procedettero inoltre a occupare l’isola di Portorico, un’altra colonia spagnola nell’area caraibica, che aveva peraltro ottenuto una sorta di semi-indipendenza negli anni precedenti. La guerra durò meno di 4 mesi. Altrettanti furono necessari per giungere a una pace tra le due parti. L’accordo di Parigi del dicembre 1898 riconosceva i termini dei diversi armistizi firmati durante il conflitto. Cuba otteneva così la propria indipendenza. Gli Stati Uniti acquisivano Portorico, l’isola di Guam nel Pacifico (che sarebbe diventata un’importante base militare soggetta all’amministrazione della Marina) e, soprattutto, le Filippine. La Spagna, umiliata militarmente, riceveva dagli Usa un compenso di 20.000.000 di dollari. 2.

Le cause

Diverse ragioni indussero l’amministrazione McKinley a muovere guerra alla Spagna. L’enfasi su una di queste motivazioni a discapito delle altre ha spesso quali­ ficato le interpretazioni delle diverse scuole storiografiche statunitensi. Quasi tutte le spiegazioni hanno accettato il presupposto che gli Usa operassero con modalità, e in virtù di logiche, diverse da quelle che connotavano l’imperialismo europeo dell’epoca. Negli ultimi anni anche questa lettura è stata contestata, e da più parti si è presentata la guerra del 1898 come espressione di una più generale competizione imperiale intraeuropea, alla quale anche gli Usa partecipavano. Le cause generali che spiegano la decisione americana d’intervenire contro la Spagna possono essere riassunte in quattro categorie. In primo luogo agiro­ no considerazioni di ordine strategico. All’epoca era diffusa l’idea secondo la quale la potenza dominante sarebbe stata quella in grado di controllare le vie di comunicazione navale. Questa analisi geopolitica fu popolarizzata dagli studi di Alfred Mahan e recepita politicamente dal futuro presidente americano Theodore Roosevelt, all’epoca vicesegretario alla Marina. Da tale prospettiva, la rilevanza strategica dei territori per cui si combattè nel 1898 è evidente: Cuba e, in scala, Portorico costituivano degli snodi cruciali di tutte le possibili vie di comunicazio­ ne nei Caraibi; le Filippine e le basi navali lì ottenute permettevano di stabilire un’importante stazione intermedia verso il continente asiatico; analogo discorso valeva infine per Guam. In secondo luogo, con la guerra si sperava di ottenere importanti vantaggi economici e commerciali, diretti e indiretti. A spingere per la guerra non vi fu, come sostenuto da taluni, una comunità imprenditoriale uniformemente allineata al fianco dell’amministrazione: imprenditori importanti si schierarono anzi con il fronte antimperialista. Forti pressioni per l’intervento furono però esercitate da im­ prenditori e grandi proprietari terrieri già presenti a Cuba, che videro nella guerra lo strumento attraverso cui sostituirsi definitivamente alla presenza spagnola. Ma soprattutto l’intervento fu sostenuto da chi riteneva che la costruzione di una rete di basi navali avrebbe permesso l’accesso ai nuovi mercati emergenti in Asia, su

tutti quello cinese. Mercati ritenuti vitali per un’economia, come quella americana, che nel 1893 era stata colpita da una pesante e drammatica recessione. Una terza matrice dell’intervento americano fu quella ideologica. Di fatto la guerra fu presentata, e concepita da ampi settori deH’opinione pubblica, come una guerra umanitaria, contro la barbarie spagnola, e come una guerra di civiltà, per civilizzare popoli ancora arretrati e sottosviluppati. Come la guerra di un imperia­ lismo liberale che obbligava gli Stati Uniti ad assumersi quel «fardello dell’uomo bianco» fino ad allora sopportato primariamente dal Regno Unito (la definizione fu coniata dallo scrittore Joseph Rudyard Kipling proprio in riferimento all’intervento statunitense nelle Filippine). Di nuovo tornavano tematiche antiche del discorso pubblico statunitense: su tutte l’idea che il paese avesse un «destino manifesto», che ne catalizzava e giustificava l’espansione. Una quarta e ultima spiegazione della decisione di McKinley è legata alla politica interna. In un clima politico come quello dell’America di fine Ottocento, con il peso che la carta stampata cominciava a esercitare e con una partecipazione al processo elettorale che nel 1896 sfiorava l’80% degli aventi diritto, la scelta di entrare o meno in guerra non poteva non essere influenzata da considerazioni di ordine politico ed elettorale. Non si andava, ovviamente, in guerra solo per vincere le elezioni. Ma si andava in guerra in un determinato momento e con determinate modalità, anche per vincere le elezioni. L’ondata patriottica e nazionalista concorse inoltre a offrire ai sostenitori dell’intervento, e soprattutto a Theodore Roosevelt, un capitale di popolarità che fu poi speso con successo negli anni successivi. 3.

Le conseguenze

Se queste sono le cause della guerra, restano da definire quali furono le sue conseguenze, per gli Stati Uniti e per la politica internazionale. L’effetto principale del conflitto fu che gli Usa, potenza economicamente e militarmente in ascesa, entrarono pienamente nell’arena internazionale. Diventa­ rono, cioè, un soggetto i cui comportamenti incidevano sul sistema delle relazioni internazionali e con il quale le altre potenze dovevano giocoforza relazionarsi. Non a caso da allora in poi gli Stati Uniti sarebbero stati invitati a partecipare ai vertici internazionali, fungendo anche da mediatori in alcuni importanti momenti di crisi, come in occasione della guerra russo-giapponese del 1904-05. Gli Stati Uniti diventarono a pieno titolo una grande potenza anche e soprat­ tutto perché diventarono un impero riconosciuto come tale. Un impero formale, laddove incorporava territori, e informale, laddove i territori liberati diventavano a tutti gli effetti dei protettorati statunitensi. Ciò fu particolarmente vero per l’isola di Cuba, in nome della cui indipendenza si era iniziata la guerra con la Spagna. La dichiarazione di guerra dell’aprile 1898 era stata accompagnata da un emendamento (l’«emendamento Teller»), il quale stabiliva che gli Usa rinunciavano a qualsiasi sovranità, giurisdizione o controllo sull’isola. Non di meno, il corso della guerra e il riaffiorare di antiche ambizioni spinsero Washington a esercitare controlli sempre più stretti e rigidi sullo stato cubano. Pur avendo ottenuto l’indipendenza, Cuba continuò a rimanere sotto l’occupazione militare statunitense, che sarebbe durata fino al 1902. Parallelamente, si estese e si ramificò la presenza economica e finan­ ziaria statunitense, mentre il governo americano promosse una serie di importanti

investimenti infrastrutturali finalizzati alla modernizzazione (ed alla civilizzazione) del paese. Vi furono diversi tentativi di abrogare l’«emendamento Teller». Soprat­ tutto, nel 1901 il Congresso approvò l’«emendamento Platt» in risposta alla pro­ mulgazione a Cuba di una costituzione che gli Stati Uniti ritenevano insoddisfacente per tutelare gli interessi statunitensi sull’isola e nella regione. L’«emendamento Platt» - che fu incorporato nella nuova costituzione cubana - vietava a Cuba la possibilità di firmare trattati con altri paesi, ponendo di fatto la politica estera cubana nelle mani degli Usa. L’emendamento autorizzava gli Usa a costruire una base navale a Guantànamo e permetteva loro d’intervenire militarmente a Cuba, per salvaguardarne l’indipendenza e per tutelare la vita e le proprietà dei cittadini statunitensi presenti sull’isola. Negli anni successivi Washington avrebbe in più occasioni esercitato tale diritto, inviando le proprie truppe a Cuba. Portorico venne invece acquisito dagli Usa come «territorio non incorporato» (,unincorporated territory). Agli abitanti di Portorico veniva cioè concesso il diritto di essere protetti dagli Stati Uniti, ma non quello di essere riconosciuti come cittadini statunitensi. Analogo destino sarebbe toccato alle Filippine. Anche in questo caso come affermò la Corte Suprema in una celebre sentenza - la bandiera statunitense avanzava senza essere seguita dalla costituzione: le Filippine venivano annesse senza che vi venissero estesi i diritti garantiti ai cittadini dell’Unione. Questa decisione fu aspramente dibattuta all’interno. Nelle Filippine si sviluppò rapidamente un movimento di resistenza e guerriglia indigena contro l’occupazione americana. Ne seguì un conflitto lungo e brutale, nel quale furono coinvolti circa 200.000 soldati statunitensi, e che vide da parte americana la deliberata applicazione di metodi simili a quelli usati nei decenni precedenti nelle guerre contro i nativi del Nord America. Più di 4.000 soldati statunitensi persero la vita nelle Filippine. Stime im­ precise collocano il numero delle vittime filippine tra i 50.000 e i 200.000. Anche nelle Filippine vennero promossi imponenti programmi di modernizzazione, nel sistema dei trasporti così come in quello educativo e in quello sanitario. La pro­ tratta azione contro la guerriglia rese però sempre più difficili questi tentativi di modernizzazione. Proprio nelle Filippine fu particolarmente stridente il contrasto tra la volontà civilizzatrice deH’imperialismo liberale nordamericano e le brutali pratiche repressive adottate per garantire il controllo degli Stati Uniti sui nuovi territori. Dopo il 1905 gli americani avrebbero abbandonato il tentativo di creare un governo locale, trasferendo di fatto tutto il potere esecutivo nelle mani di un governatore generale di nomina presidenziale. L’ascesa imperiale degli Stati Uniti dopo il 1898 fu al contempo accompagnata dalla riaffermazione di alcuni principi classici della politica estera statunitense. In particolare l’avversione alla possibilità che la competizione imperiale portasse alla formazione di aree economiche chiuse e impermeabili, che limitassero le possibilità del commercio internazionale e lo rendessero inaccessibile alle merci statunitensi. Questo fu particolarmente vero per il mercato cinese, che scatenò gli appetiti di tutte le potenze, Usa inclusi, e il cui accesso fu tra i fattori alla base dell’intervento del 1898. Per questo nel 1899 e nel 1900 il segretario di stato Hay emise una serie di note (le cosiddette «note della porta aperta»), nelle quali gli Usa chiedevano alle altre potenze presenti in Cina di non creare sfere d’influenza chiuse ed esclu­ sive, di garantire reciprocità di trattamento tra le varie aree concesse dal governo cinese a stati stranieri, ed evitare che vi fossero dazi doganali o tariffe ferroviarie e portuali diverse.

L’imperialismo statunitense fu così connotato - in una felice espressione sto­ riografica - come un «imperialismo della porta aperta». Un imperialismo che aveva delle somiglianze con quello britannico, ma anche delle spiccate peculiarità. L’impero che gli Stati Uniti edificarono anche grazie alla guerra del 1898 fu, infatti, un impero in larga misura informale, che abbisognava - per ragioni strategiche ed economiche - di basi e territori, ma che cercava deliberatamente di evitare sovraestensioni territoriali: la sua superficie complessiva fu infatti equivalente solo a un ottavo di quella dell’Impero tedesco e a un trentottesimo di quella dell’Impero britannico. Era un impero, quello americano, fondato sull’idea della missione ci­ vilizzatrice e del destino manifesto degli Stati Uniti, oltre che sulla centralità della dimensione commerciale, come sempre nella storia del paese. Ideologia e interesse, scelte politiche e necessità (in particolare la persistente condizione di debolezza militare rispetto alle grandi potenze europee) convergevano nel dare una forma pe­ culiare e in parte diversa all’impero americano e aH’imperialismo statunitense, i cui rappresentanti principali sarebbero stati, non a caso, i commercianti e i missionari. Percorso di autoverifica

1. Quali furono i diversi teatri di guerra durante il conflitto tra Spagna e Stati Uniti del

1898? 2. Ricapitolate le quattro cause principali della decisione statunitense di muovere guerra alla Spagna. 3. In che modo l’emendamento Platt trasformò Cuba in una sorta di protettorato statu­ nitense? 4. Che cosa s’intende quando si afferma che a Portorico e nelle Filippine la bandiera statunitense avanzò senza essere seguita dalla costituzione? 5. Perché quello statunitense è stato definito un «imperialismo della porta aperta»?

Per saperne di più

M. Del Pero, Libertà e Impero. Gli Stati Uniti e il Mondo, 1776-2011, Roma-Bari, Laterza, 2011 .

P.T. McCartney, Power and Progress: American National Identity, thè War o f 1898, and thè Rise o f American Imperialism , Baton Rouge, Louisiana State University Press, 2006. L.A. Perez Jr., The War ofl898. The United States and Cuba in History and Historiography, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1998. F. Romero, Uimpero americano. Gli Usa potenza mondiale, Firenze, Giunti, 2001. A. Testi, Il secolo degli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 2008.

Fine secolo di Fulvio Cammarano

Nei principali paesi europei - Italia, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Ger­ mania - si riproposero in modo conflittuale, negli ultimi anni dell’Ottocento, le tensioni riguardanti il funzionamento delle istituzioni rappresentative che aveva­ no percorso la storia politica europea a partire dalla Rivoluzione francese. La radicalizzazione fu il risultato di diversi fattori - declino della proprietà terriera, ascesa del movimento operaio e crisi economiche - che amplificarono la per­ cezione di precarietà del sistema politico-istituzionale liberale. Tale processo, in particolare per Italia, Francia e Gran Bretagna, si risolse con l’affermazione di un modello più liberaldemocratico.

Gli ultimi anni del XIX secolo e i primi del XX rappresentarono per molti paesi europei un momento di travagliato trapasso politico-istituzionale, spesso associato a forti contrasti d’ordine sociale. Nella fase finale del suo lento tramonto l’Ottocento ripropose in modo concentrato e conflittuale quell’impasto di ansie e speranze circa il funzionamento delle istituzioni rappresentative che aveva accompagnato, con diverse sfumature, la storia di questo secolo, a partire dalla Rivoluzione francese. Molti fattori avevano contribuito a radicalizzare questi anni di «frontiera», già di per sé simbolicamente evocativi di mutamenti epocali, a cominciare dal declino della proprietà terriera e dei suoi valori negli anni Settanta, e dalla rapida ascesa del movimento operaio organizzato. Tali aspetti ebbero modo di alimentare l’impres­ sione di precarietà della civiltà liberale, anche perché amplificati da una delle prime grandi depressioni economiche mondiali del sistema capitalistico che, in alcuni paesi, estese le sue propaggini sino alla seconda metà degli anni Novanta. Di fronte a tale scenario iniziò a incrinarsi la fiducia di una parte delle classi dirigenti liberali in una possibile, sebbene cauta, integrazione delle grandi masse nei regimi politici di tipo parlamentare. Alcuni settori delle élite cominciarono a percepire i parlamenti come luoghi in cui venivano messe in discussione le gerarchie tradizionali e in cui si affaccendavano demagoghi impegnati solamente a soddisfare interessi di parte e a solleticare gli appetiti delle masse in funzione elettorale. Con modalità e pathos differenti a seconda dei paesi, si affrontarono dunque per la prima volta in modo aperto e palese i difensori del sistema politico basato sullo sviluppo del sistema

parlamentare e del suffragio elettorale e i propugnatori di un sistema incentrato su un esecutivo quanto più possibile sganciato dalla volontà dell’elettorato. Nel complesso si possono intrawedere i tratti di un’unica grande crisi in cui due diverse visioni dei sistemi politici si batterono duramente per una posta che in gran parte d’Europa era la definizione dell’assetto costituzionale in senso liberal-parlamentare o conservatore-autoritario. 1.

Italia

Per l’Italia la fase acuta della crisi si ebbe a partire dall’uscita di scena di Francesco Crispi, dopo la sconfitta dell’esercito coloniale ad Adua nel 1896. Lo statista siciliano aveva cercato di far fronte alle proteste del proletariato agricolo e al problema delle crescenti pressioni del movimento socialista inasprendo le misure di polizia. In Sicilia, in particolare, le agitazioni ebbero vaste ripercussioni e si svolsero sotto la guida dei cosiddetti «Fasci dei lavoratori» (in seguito definiti Fasci siciliani), unioni sindacali dirette da socialisti. Gli scontri tra forze dell’ordine e dimostranti causarono, tra il 1893 e il 1894, 92 vittime. Crispi fece proclamare nell’intera isola lo stato d’assedio, che fece poi estendere in Lunigiana, tra Toscana e Liguria, dove si era diffuso un movimento d’ispirazione anarchica. Nel 1894, in seguito a un attentato, fallito, contro la sua persona e uno, riuscito, di un anarchico italiano contro il presidente della repubblica francese Sadi Carnot, Crispi fece ap­ provare delle leggi che aggravavano le pene per i reati di opinione a mezzo stampa e vietavano le organizzazioni con finalità socialiste. Lo scioglimento del partito di Turati fu accompagnato da deportazioni al domicilio coatto per la maggior parte dei dirigenti socialisti e condanne severissime da parte dei tribunali militari nelle zone in stato d’assedio. La caduta del governo Crispi sembrò attenuare la morsa repressiva. Il suo successore, Antonio Starabba, marchese di Rudinì, concesse l’amnistia ai detenuti politici e molti dei condannati in Sicilia e Lunigiana furono scarcerati. Non per questo si placarono i motivi di malcontento. Il cattivo anda­ mento del raccolto nel 1897 e il carovita provocarono un incremento del numero degli scioperi e delle sommosse a cui il governo rispose con blande misure di ri­ forma, tra cui la momentanea riduzione del dazio sul grano. D’altronde Rudinì, al pari di Crispi, riteneva più importante intervenire contro socialisti e anarchici, che considerava responsabili principali dei disordini. Per questo sciolse la Camera del lavoro di Roma e incrementò il contingente militare. Nel frattempo usciva, anoni­ mo, l’articolo di Sidney Sonnino Torniamo allo Statuto, che focalizzava le ragioni del disappunto del liberalismo più moderato nei confronti del ruolo assunto dal parlamento, attaccando «un potere nuovo, parassita e ibrido, dallo Statuto non contemplato, il quale facendosi strumento e sgabello delle pretese dottrinarie e delle crescenti usurpazioni della Camera dei deputati, che vorrebbe arrogare a sé sola il diritto di parlare come interprete della volontà della nazione», era riuscito a usurpare «quasi tutte le funzioni normali della Corona». Per tale motivo Sonnino invocava, in difesa delle istituzioni liberali minacciate dall’invadenza socialista e cle­ ricale, un ritorno alla «lettera» dello Statuto albertino, che affidava esclusivamente al sovrano la gestione del potere esecutivo, anziché a un presidente del Consiglio sorretto da una maggioranza parlamentare. Il 1898 si apriva con un ulteriore aggra­ vamento della tensione nelle piazze italiane. L’ondata di tumulti, spesso sanguinosi,

raggiunse il suo culmine a Milano nel maggio 1898 quando l’esercito, al comando del generale Fiorenzo Bava Beccaris, a cui erano stati concessi i pieni poteri, sparò sui dimostranti provocando oltre cento morti. Il generale, inoltre, soppresse la stampa socialista, repubblicana e cattolica, facendo arrestare i militanti più in vista delle organizzazioni dell’opposizione. Il sovrano Umberto I volle, di sua iniziativa, decorare l’alto ufficiale per la sua opera al servizio delle istituzioni. Nonostante le dimissioni del ministro della Giustizia, Giuseppe Zanardelli, avessero indebolito il governo, Rudinì tentò di legalizzare lo stato d’assedio presentando alcuni disegni di legge lesivi delle libertà dei cittadini. Sconfitto, si dimise lasciando l’incarico al generale Luigi Pelloux, che nei mesi precedenti aveva operato come responsabile dell’ordine pubblico in Puglia evitando di ricorrere a eccessi repressivi. In realtà, il nuovo presidente del Consiglio intendeva portare avanti un progetto politico di più ampio respiro incentrato sulla limitazione del ruolo del parlamento e sulla repres­ sione delle libertà d’opinione e associazione. Tale prospettiva dovette infrangersi contro la tattica ostruzionistica messa in atto alla camera dei deputati dall’estrema sinistra, formata dai gruppi parlamentari repubblicano, radicale e socialista, a cui si aggiunsero, nelle fasi più drammatiche dello scontro parlamentare, anche i deputati che facevano capo a Giovanni Giolitti e Zanardelli. L’ostruzionismo, portato avanti mediante interminabili discorsi e facendo leva sul regolamento della camera, finì per produrre veri e propri disordini che di fatto riuscirono a impedire la trasformazione in legge di decreti illiberali e del nuovo progetto di regolamento parlamentare. Il livello di tensione era talmente alto che si decise per lo scioglimento della Camera e l’indizione di nuove elezioni i cui risultati tuttavia, pur concedendo al governo una risicata maggioranza, non garantivano la possibilità di condurre in porto ambiziosi progetti di trasformazione costituzionale. A Pelloux successe Giuseppe Saracco con un ministero di transizione che raffreddò il clima di tensione ritirando le proposte del precedente governo. La crisi di fine secolo si avviava al suo epilogo con la sconfitta del tentativo d’interpretazione autoritaria dello Statuto. La parola fine, tuttavia, venne posta dall’anarchico Gaetano Bresci, che il 29 luglio 1900 uccise Umberto I, ritenuto responsabile delle stragi degli anni precedenti. Il successore, Vittorio Emanuele III, alla caduta del governo Saracco, ratificò la necessità di voltare pagina chiamando a dirigere l’esecutivo Zanardelli, leader storico della sinistra liberale. 2.

Francia

Negli stessi anni anche la Francia era sottoposta a una violenta crisi politico­ istituzionale. Esplosa nella seconda metà degli anni Novanta, essa deve tuttavia essere interpretata in un contesto di prolungata sfida delle forze monarchiche e della destra nazionalista alla Terza repubblica. Più volte negli anni Settanta e alla fine degli anni Ottanta le istituzioni avevano respinto l’attacco sferrato da una robusta area di malcontento nei confronti della realtà parlamentare, identificata con quella del privilegio, della corruzione e dello scarso attaccamento ai valori della patria e della fede religiosa. La crisi francese di fine secolo s’inserì all’interno di questo conflitto ma allo stesso tempo ne rappresentò un’estensione poiché aprì nuovi fronti, a cominciare dall’impegno degli intellettuali e dal nuovo ruolo dell’opinione pubblica. La causa scatenante fu la vicenda giudiziaria che prese il

nome di «affaire Dreyfus». Il capitano ebreo Alfred Dreyfus venne condannato nel dicembre 1894 alla degradazione e aH’esilio perpetuo nell’isola del Diavolo per attività di spionaggio militare a favore dell’odiata Germania. Il fatto si trasformò in una vicenda politica allorché, in seguito alla scoperta di nuovi elementi che scagionavano Dreyfus, l’ipotesi di revisione del processo divenne l’occasione per un regolamento di conti tra avversari e difensori dei valori della repubblica par­ lamentare. Il conflitto conquistò ben presto le prime pagine dei giornali quando lo scrittore Emile Zola pubblicò sul quotidiano «L’Aurore» una lettera aperta al presidente della Repubblica, intitolandola ]’accuse. L’articolo, che evidenziava le irregolarità giudiziarie di quegli anni e che costò all’autore una condanna penale, diede inizio a una nuova fase in cui gli intellettuali e la stampa presero posizione a favore o contro la revisione del processo. Una vicenda di presunto spionaggio si trasformò così in un affare di opinione che infiammò le piazze francesi e diede vita a leghe contrapposte. Tra i colpevolisti, che facevano leva su un radicato spirito antisemita (nel 1897 era stata rivitalizzata la Lega antisemita francese che con le altre leghe di destra mise in atto innumerevoli azioni intimidatorie contro gli av­ versari e provocò violente manifestazioni che non di rado sfociavano in sommosse e saccheggi di proprietà ebraiche), c’erano tutti coloro che, incuranti della verità, volevano difendere l’onore dell’esercito. In realtà, il vero obiettivo di questa com­ ponente era quello di colpire l’intera cultura liberale, considerata responsabile del declino della tradizione, della cattolicità e della grandezza della patria. Daffaire Dreyfus fu, a destra, l’espediente per ricompattare e rilanciare le speranze di un nazionalismo che predicava la necessità di un nuovo sistema di potere autoritario. In questo clima, non a caso, maturò l’idea di un possibile ribaltamento delle basi costituzionali del paese. Nel febbraio del 1899 Déroulède, leader della Ligue des patriotes, una struttura politica di destra finalizzata all’azione diretta, tentò senza successo di promuovere un vero e proprio colpo di stato. Dall’altra parte dello schieramento, a difesa delle istituzioni, si ritrovarono i paladini dei diritti dell’uomo e della giustizia. Per i più decisi, che si raccolsero nella Lega per i diritti dell’uomo e del cittadino, il principio etico della verità doveva prevalere anche a scapito della «ragion di stato». Di fatto i «dreyfusardi» difendevano, con maggiore o minore convinzione, gli ideali della repubblica parlamentare e poterono contare, dopo alcune iniziali incertezze, anche sull’apporto dei socialisti e in particolar modo di Jean Jaurès. Va comunque detto che molti dei repubblicani dreyfusardi non erano interessati a\Yaffaire dal punto di vista dei principi ma solo per sconfiggere la crescente ondata eversiva della destra. Tra il 1898 e il 1899 emersero, grazie alle confessioni dei responsabili (uno dei quali, il maggiore Henry, si suicidò), le prove delle falsificazioni dei documenti a danno di Dreyfus ma, a conferma del carattere esclusivamente politico del conflitto in corso, consistenti settori dello stato maggiore e del ministero della Guerra operarono per mantenere l’ombra del sospetto sull’ex capitano. Il secondo processo a Dreyfus si concluse dunque con una specie di compromesso che permetteva di interrompere la detenzione del condannato senza mettere in cattiva luce l’onore dell’esercito: venne così emessa un’altra, sia pure più mite, condanna e allo stesso tempo fu concessa la grazia dal presidente della repubblica Loubet. Nonostante questo tentativo, che rinviò al 1906 la definitiva sconfessione del verdetto e la reintegrazione di Dreyfus nell’esercito, la sconfitta politica della cultura antidreyfusarda apparve inevitabile dopo la for­ mazione, nel giugno 1899, di un governo di «difesa repubblicana» capeggiato dal

repubblicano Waldeck Rousseau che comprendeva anche un esponente socialista. Con il superamento di questa crisi la Francia stabilizzò definitivamente le proprie istituzioni repubblicane che, in seguito alle elezioni del 1902, assunsero un profilo marcatamente laico e radicale. 3.

Gran Bretagna

Meno traumatica ma non per questo meno importante fu la crisi che attraver­ sò la Gran Bretagna negli ultimi anni dell’Ottocento. L’elemento scatenante fu senza dubbio la proposta, poi respinta, del leader liberale William E. Gladstone nel 1885 di concedere l’autonomia all’Irlanda (Irish Home Rule). Di fatto, tale ipotesi fu l’occasione per un violento scontro politico che finì per dividere, nel 1886, il Partito liberale, garantendo così ai conservatori un prolungato periodo di egemonia. Dietro quello che appare un riallineamento politico c’era la sottile ma profonda inquietudine di una società che aveva cominciato a interrogarsi sul tema della national efficiency e su come adeguare le proprie strutture socioeconomiche e amministrative alle nuove sfide provenienti da paesi in vertiginosa crescita, come Germania e Stati Uniti, che intendevano sostituire il primato britannico. Anche il paternalismo nei rapporti sociali aveva iniziato a non essere più così solido. Nel 1889 nacque il cosiddetto «nuovo unionismo», cioè un nuovo tipo di sindacato che intendeva difendere, contrariamente a quanto era accaduto sino ad allora, anche gli interessi delle categorie di lavoratori non specializzati. Era il segnale della tra­ sformazione in corso all’interno del movimento operaio che cominciava a mettere in discussione le tradizionali fedeltà politiche. Nel 1900 i sindacati (Trade Unions) decisero di darsi una propria autonoma rappresentanza politica in parlamento. Fu così che ebbe origine il Labour Party, una federazione di diversi organismi politici e sindacali, le cui fortune furono rapidamente accresciute dal TaffVale ]udgement, una sentenza del 1902 con cui di fatto veniva reso difficile per i sindacati operare legalmente. In seguito a tale disposizione gli sforzi del movimento dei lavoratori si concentrarono sul versante partitico per aumentare l’impatto politico del la­ burismo. Sebbene privo del tradizionale approccio rivoluzionario del socialismo continentale, il processo di crescita di un’autonoma organizzazione politica del movimento operaio aumentò le ansie sulla tenuta di un equilibrio costituzionale tutto basato sulle consuetudini e sugli antichi equilibri sociali di responsabilità e deferenza. La mancanza di un testo costituzionale scritto rendeva più evidente l’insicurezza della tradizionale classe dirigente, che nella fine del secolo scorgeva un generale processo di disintegrazione. Se il simbolo più evidente della crisi era la proposta autonomia dell’Irlanda (definita all’epoca una guerra civile senza spargimento di sangue), non meno allarmanti si presentavano gli altri segnali che mostravano perdita di competitività sui mercati mondiali e scarsa efficienza degli apparati amministrativi e militari. Un riflesso clamoroso di questa realtà si svelò a un’incredula opinione pubblica britannica in occasione del conflitto con la popo­ lazione bianca del Sudafrica, i boeri, per il controllo del Transvaal (1899-1902). Le difficoltà incontrate dal maggiore impero mondiale nel piegare le resistenze di una piccola comunità accrebbero gli interrogativi sul modo migliore di gestire la sfera pubblica. Anche qui la crisi di fine secolo, che dal 1885 si prolungò sino al 1911, divenne l’occasione per ridefinire i rapporti di potere all’interno delle

istituzioni liberali. Un tentativo di ridimensionare la forza del parlamento a van­ taggio dell’esecutivo era già stato portato avanti senza successo da due uomini politici insofferenti del tradizionale assetto politico del paese, Randolph Churchill e Joseph Chamberlain, che nella seconda metà degli anni Ottanta immaginarono un grande partito di centro su cui si sarebbe basato un governo più forte e senza ostacoli parlamentari. Il problema di un adeguamento istituzionale venne conge­ lato a causa delle difficoltà del conflitto anglo-boero ma si ripropose, sia pure in un’altra direzione, una volta terminata la lunga egemonia conservatrice (1886-1905 se si esclude la breve parentesi 1892-95). Tra il 1909 e il 1911 le forze del nuovo liberalismo spalleggiate dai laburisti operarono per introdurre alcuni elementi basilari di assicurazione sociale e soprattutto introdussero una clamorosa novità costituzionale riducendo il potere della camera dei Lord. Dal 1911 venne sancita la superiorità della camera dei Comuni su quella dei Lord, a cui veniva sottratta la possibilità di porre il veto sulle decisioni di tipo finanziario prese dalla camera elettiva. Una modificazione che sanciva la fine di una tradizione ma che in realtà traduceva in legge una percezione ormai diffusa. In questo modo si può dire che la Gran Bretagna usciva dal XIX secolo e dalla sua crisi con una rinnovata fiducia nei valori del parlamentarismo e inglobando la nuova forza politica laburista all’interno del suo delicato sistema di balance costituzionale. 4.

Spagna

Il discorso che si deve fare per la Spagna è, invece, parzialmente diverso da quel­ lo fatto sinora, benché esista anche in Spagna una «crisi di fine secolo». Nell’arco del più ampio periodo che nella storia spagnola viene definito la «restaurazione» (1875-1923, e che non ha nulla a che fare con la restaurazione come epoca storica seguita al Congresso di Vienna, ma segna invece la restaurazione di una stabile monarchia spagnola dopo un lungo periodo di violente lotte civili e dinastiche) gli anni di fine secolo furono segnati da alcuni avvenimenti «drammatici», primo fra tutti la perdita delle grandi colonie (Cuba e le Filippine) a causa della sconfitta subita dagli Usa (1898). L’anno precedente era stato assassinato il primo ministro Cànovas del Castillo, artefice della costituzione del 1876, grande esponente del moderatismo conservatore e inventore della formula cosiddetta «turnista», cioè dell’alternarsi al potere di forze moderate di diverso orientamento (un sistema che si mantenne sino al 1918). Nel 1890 era stato introdotto in Spagna il suffragio universale maschile e ciò aveva portato alla necessità di una svolta nella gestione della politica per tenere sotto controllo una società ancora arretrata nel suo complesso e priva di una rete di culture sociopolitiche in grado di mantenere coeso il sistema nazionale. La ma­ nipolazione delle elezioni ha così garantito, in proporzione diversa a seconda del luogo e della regione, la formazione di un sistema «non violento» di gestione del conflitto e la creazione di una rete alternativa di referenti locali legati al potere in grado di spingere il voto (con tutti i mezzi possibili, leciti o meno) nella direzione di un’adesione alla politica del governo (il cosiddetto «caciquismo»). Dal lato opposto, si ebbe il graduale emergere, soprattutto nelle grandi città, di forze anti­ sistema (anarchici, socialisti e repubblicani), accanto alle quali cominciarono ad agire, in Catalogna e nei Paesi Baschi, forze politiche le cui rivendicazioni di au­

tonomia politico-amministrativa risultavano poco compatibili con il centralismo dello stato spagnolo. A queste ultime si rispose con la repressione e di conseguenza si ebbe un ra­ pido recupero di potere dell’esercito che era uscito assai malconcio dalle sconfitte coloniali: ma se l’esercito guadagnò grande autonomia e privilegi nell’ambito del sistema di potere (culminati con le Leyes de ]urisdicciones del 1906), non trovò completa legittimazione presso la popolazione. Come altrove, però, la crisi di fine secolo ebbe in Spagna un certo effetto di accelerazione della presa di coscienza della crisi politica e, di conseguenza, della volontà di fronteggiarla in maniera positiva. Proprio a partire dalla crisi del 1898 il dirigente conservatore Francisco Silvela esprimeva in un importante articolo dal titolo Sin Pulso (senza nerbo) l’appello a ripensare la politica e ad adoperarsi per una «rigenerazione». Tramontato l’impero, restava una nazione da rigenerare. Di qui l’affermarsi di un composito movimento «rigenerazionista» (che può essere considerato come nazionalista) che, se nei settori liberali e socialmente avanzati guardava all’Europa e propugnava la modernizzazione economica e sociale del paese, nei settori ultramontani pensava che la fine della decadenza e l’uscita dalla crisi poteva avvenire solo attraverso la riaffermazione dei valori cattolici tradizionali e della cristianità. Tuttavia il tentativo non ebbe successo, sia per l’ostilità della monarchia, che in questo dibattito vedeva emergere molti elementi di disgregazione legati alla vivacità di varie regioni «periferiche» ma socialmente ed economicamente avanzate (prima fra tutte la Catalogna), sia per l’ostilità di altre forze contrarie alla modernizzazione (dall’esercito alla chiesa). 5.

Germania

La crisi, intesa come sfida tra prospettive costituzionali alternative, non riguar­ dò direttamente la Germania, in quanto negli anni tra l’uscita di scena di Bismarck e lo scoppio della Prima guerra mondiale non venne mai messa seriamente in discussione la stabilità del sistema basato sul costituzionalismo puro da cui nel 1871 era sorto l’impero. Tutto questo, però, non significa che la Germania non sia stata attraversata proprio in quegli anni da alcune delle tensioni che attraversa­ rono gli altri paesi, a cominciare dalla tendenza del Reichstag a occupare sempre più spazio politico. Se fino al momento delle dimissioni di Bismarck il quadro politico-costituzionale - in particolare il rapporto tra la conflittualità partitica in parlamento e le esigenze del governo - rimase sotto il controllo, per quanto sempre più difficoltoso, del grande cancelliere che l’aveva ideato, dopo il 1890 la situazione era destinata a mutare. Paradossalmente, a dispetto del disprezzo e dell’ostilità del nuovo imperatore Guglielmo II nei confronti del parlamentarismo, il sistema parlamentare crebbe d’importanza - pur continuando a non avere voce in capitolo nella formazione degli esecutivi - perché stava crescendo, di fronte a un’attività statale sempre più intensa, l’attività legislativa. I progetti imperiali (flotta e armamenti) richiedevano un impegno finanziario senza precedenti e ciò comportava un maggiore coinvolgimento del Reichstag, che però non riusciva ad accrescere la sua influenza istituzionale sul governo. Con la fine del secolo i tedeschi maturarono una sempre più convinta consapevolezza dell’appartenenza al Reich che implicava, di conseguenza, una riduzione dell’importanza dei singoli stati federali.

Tale trasformazione culturale mise in crisi il modello bismarckiano tutto incentrato sull’equilibrio federale tra Reich e Lànder, grazie al quale Bismarck era riuscito a imporre la supremazia della Prussia. La fine di quella che era stata chiamata la «dittatura del cancelliere» spinse Guglielmo II a immaginare un regime personale dell’imperatore con cui contrastare le sempre maggiori pretese della politica che reclamava un ruolo più attivo nella gestione della sfera pubblica rispetto alla corte, alla burocrazia e all’esercito. Le stesse campagne elettorali, peraltro, alimentavano una cultura pubblica di partecipazione. Non a caso i successori di Bismarck, figure deboli e sottomesse al volere del sovrano, come Caprivi e Hohenlohe, furono scelti da Guglielmo in modo che non potessero interferire con la sua volontà. Il progetto di un sistema politico governato direttamente dall’imperatore non riuscì - anche per i limiti caratteriali del sovrano —ma si affermò comunque nel paese un’attitudine militarista che esaltò il ruolo della nobiltà prussiana in contrasto con le aspettative di un nuovo e più influente ruolo dei civili e della politica. A sostegno di questa prospettiva, mentre la socialdemocrazia cresceva sia in prestigio sia come forza parlamentare, s’inaugurò una fase di intensa mobilitazio­ ne sociale dei ceti «d’ordine» in direzione opposta rispetto alle dinamiche di fine secolo in altri paesi: in Germania ad agitarsi furono infatti molto più le forze della «destra» che non quelle della «sinistra». Nel 1893 venne formata la «Lega panger­ manica» per sostenere Limperialismo; nel 1898 la «Lega navale» per sostenere le leggi di investimento sulla flotta, senza contare varie altre organizzazioni minori che si agitavano sempre su questi temi, mentre un cenno va fatto alla fondazione di una «lega dell’agricoltura» (Bund der Landwirte, 1893) per la tutela di interessi economici corporativi. In questo contesto di culture e idee conservatrici sempre più aggressive che propugnavano una militanza attiva e che soprattutto criticava­ no apertamente la «moderazione» (del tutto presunta) del governo nella gestione dell’ordine pubblico, la Weltpolitik rappresentò la via di fuga con cui Guglielmo riuscì a imbrigliare le richieste di maggior protagonismo parlamentare che di fatto si esaurirono, mettendo fine alle speranze di riforma costituzionale, dopo la crisi divampata in seguito all’intervista dell’imperatore, non concordata con il cancelliere Bulow, al quotidiano britannico «Daily Telegraph». Le polemiche per il contenuto della conversazione sui delicati temi di politica estera e l’indifferenza con cui l’imperatore continuava a muoversi istituzionalmente suscitarono per un breve periodo l’ostilità di tutti i partiti del Reichstag nei confronti dell’eccessiva libertà politica garantita al sovrano, ma nel momento in cui si profilò la possibilità di battersi per un sistema di governo a responsabilità parlamentare, i conservatori fecero un passo indietro, permettendo così all’ossatura dell’impianto costituzio­ nale (a cominciare dal sistema elettorale delle «tre classi» presente in alcuni stati attraverso cui la Prussia e il suo blocco di potere militare aristocratico continuava a tenere sotto controllo la democratizzazione del paese) di superare indenne la crisi e di salvaguardare quella mancanza di coerenza del sistema politico con cui la Germania si avviò verso la Prima guerra mondiale.

Percorso di autoverifica

1. 2. 3. 4. 5.

Qual è la proposta politica dell’articolo Torniamo allo Statuto di Sidney Sonnino? Quali sono le conseguenze politiche dell 'affaire Dreyfus? Quali sono le caratteristiche della crisi di fine secolo in Gran Bretagna? Perché la crisi di fine secolo in Germania è diversa da quella degli altri paesi? Illustrate scopo ed esiti del movimento «rigenerazionista» spagnolo.

Per saperne di più

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F. Cammarano, Storia dell’Italia liberale, Roma-Bari, Laterza, 2011. V. Duclert, La République imaginée 1870-1914, Paris, Belin, 2010. E. Feuchtwanger, Imperiai Germany 1850-1918, London-New York, Routledge, 2001. G. Guazzaloca, Fine secolo. Gli intellettuali italiani e inglesi e la crisi tra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 2004. P. Pombeni (a cura di), Crisi, consenso, legittimazione, Bologna, Il Mulino, 2003. G.R. Searle, A New England? Peace and War 1886-1918, Oxford, Oxford University Press, 2004. . Stiirmer, L’impero inquieto. La Germania dal 1866 al 1918, Bologna, Il Mulino, 1993. . Suàrez Cortina, La Espana liberal (1868-1917): politica y sociedad, Madrid, Sintesis, 2006.

La Prima guerra mondiale di Marco Mondini

Il 28 giugno 1914 l’erede al trono austriaco venne assassinato. L’attentato di Sarajevo fu la scintilla che alimentò una conflagrazione europea, motivata da cause politiche profonde (le rivalità tra le grandi potenze), da cause culturali (il radicarsi dei nazionalismi) e dalla rigidità dei sistemi di alleanze. La guerra non fu breve, come tutte le parti coinvolte avevano creduto, ma si trasformò in una logorante guerra di trincea. L’Italia intervenne nel 1915 a fianco di Francia, Gran Bretagna e Russia. Nel 1917 la Russia si arrese, mentre gli Stati Uniti entrarono in guerra contro la Germania. La Prima guerra mondiale terminò nel novembre 1918 con la resa degli imperi centrali (Germania, Austria-Ungheria e Turchia) e l’apertura della conferenza di pace di Parigi (1919-21).

1.

Perché scoppiò la Prima guerra mondiale?

Le origini del conflitto possono schematicamente essere ricondotte a tre ordini di cause: cause di natura politica, cause di natura culturale, cause di natura militare. Le cause politiche profonde della guerra vanno cercate nel contesto competi­ tivo e conflittuale delle relazioni tra le principali potenze europee. Semplificando un quadro estremamente complesso, si può sostenere che la crisi del 1914 sia dipesa dalla rottura dell’equilibrio internazionale raggiunto alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento, dopo che la guerra franco-prussiana (1870-71) e l’ascesa del Secondo Reich tedesco avevano radicalmente mutato i rapporti di forza sul continente. Il Congresso di Berlino del 1878 aveva ratificato un nuovo ordine europeo ma non aveva eliminato le tensioni esistenti. Uno dei primi fattori di instabilità nel sistema internazionale fu la persistenza del conflitto franco-tede­ sco. La Francia perseguiva con forza una politica «revanchista», che la spinse ad accantonare la tradizionale rivalità con il Regno Unito (trattato dell 'Enterite cordiale, 1904) e a riavvicinarsi alla Russia zarista, con cui venne siglata nel 1894 un’alleanza antitedesca che nel 1907, integrata da un accordo anglo-russo, diventò la «Triplice Intesa». A questo «accerchiamento» (come lo definì il cancelliere Bùlow nel 1904) la Germania rispose con una politica estera e militare sempre più aggressiva: gli effettivi dell’esercito e della marina vennero aumentati e le

dimostrazioni di forza nei confronti della Francia spinsero le relazioni dei due paesi al punto di rottura. Nel 1905 e ancora nel 1911 (crisi di Agadir) il tentati­ vo tedesco di impedire l’estensione del protettorato francese al Marocco giunse a un passo dallo scatenare una guerra aperta. Berlino era tuttavia sempre più isolata diplomaticamente, mentre il riarmo navale lanciato dal kaiser Guglielmo II all’inizio del secolo si rivelò un insuccesso: la Germania non aveva le risorse per dotarsi in tempi rapidi di una marina da guerra in grado di competere con la Royal Navy britannica. Al contrario, la sfida al suo tradizionale dominio dei mari spinse la Gran Bretagna ad aderire al blocco antitedesco. Altro elemento di destabilizzazione fu la rivalità russo-austriaca, catalizzatore delle molte tensioni nazionali che agitavano la «polveriera balcanica». Ergendosi a tutore dell’aggres­ sivo regno serbo e proponendosi quale paladino di una politica panslava, la Russia minacciava direttamente l’Austria-Ungheria, sia perché indeboliva il suo ruolo come principale potenza regionale dell’area balcanica sia perché, fomentando il nazionalismo slavo, metteva in forse la stessa esistenza del multinazionale Impero asburgico. Di conseguenza, nel 1879, Austria-Ungheria e Germania strinsero un’alleanza difensiva antirussa nota come «Duplice Alleanza», a cui avrebbe aderito di lì a poco anche il Regno d’Italia (Triplice Alleanza, 1882). Questo com­ plesso sistema delle alleanze venne alla fine messo in crisi dal crollo dell’Impero ottomano: aggredito dall’Italia (guerra di Libia) e poi sconfitto dalla coalizione di Serbia, Montenegro, Bulgaria e Grecia nel corso della Prima guerra balcanica (1912), il vecchio impero fu ridotto alla Turchia e ai possedimenti mediorientali, mentre gli ex alleati si scontravano tra di loro per la suddivisione dei territori conquistati nella cosiddetta Seconda guerra balcanica (1913). Una situazione di instabilità che esacerbò i timori per l’imminente fine della convivenza pacifica tra le nazioni, in un clima di generalizzata corsa agli armamenti. Tra le cause culturali del conflitto, la più importante si ritrova nella convinzio­ ne, comune tra i contemporanei, che la lotta per la sopravvivenza e la supremazia delle potenze fosse inevitabile. Il radicalizzarsi dei nazionalismi e un malinteso darwinismo diffuso, che sosteneva la visione della guerra come banco di prova delle nazioni e occasione per «migliorare i popoli», alimentarono l’immagine, familiare nella cultura europea all’inizio del XX secolo, di un’imminente «grande guerra». Certo, si trattava di sentimenti condivisi da segmenti minoritari delle popolazioni europee, soprattutto politici, intellettuali, artisti e mondo studen­ tesco; d’altra parte, la maggioranza (particolarmente i contadini) si rassegnava alla guerra come un evento sventurato, oltre che fatale. L’antimilitarismo inter­ nazionalista e il pacifismo di matrice cristiana non avevano infatti fatto breccia nelle masse europee. Infine, non vanno trascurate alcune cause tecniche militari, riconducibili all’au­ tonomia concessa agli Stati maggiori (soprattutto in Germania) e alla rigidità dei piani di mobilitazione. La convinzione che la guerra sarebbe stata breve e che fosse necessario attaccare per primi portò entrambi gli schieramenti ad avviare con la massima celerità possibile le disposizioni per la mobilitazione generale. Eserciti di milioni di coscritti vennero richiamati alle armi, equipaggiati e avviati al fronte prima che la diplomazia avesse esaurito le sue opzioni; un atto collettivo di ostilità che pregiudicò l’esito della crisi nelle sue ore cruciali.

2.

L’attentato di Sarajevo e l’inizio della guerra

Il 28 giugno 1914, l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono d’Austria-Ungheria, venne assassinato a Sarajevo da Gavrilo Princip, uno stu­ dente bosniaco. Le indagini rivelarono che l’attentato era stato progettato da una società segreta (la Crna Ruka) di cui facevano parte membri delle forze armate e del governo serbo. Il 28 luglio, poco dopo l’invio di un duro ultimatum, l’AustriaUngheria dichiarò guerra al Regno di Serbia. Il giorno dopo l’Impero russo ini­ ziò la mobilitazione delle proprie forze armate; la Germania intimò alla Russia di sospendere i propri preparativi e il 1° agosto le dichiarò guerra. Prevedendo l’ingresso in guerra dei francesi, e temendo di dover sostenere una guerra su due fronti, lo Stato maggiore tedesco scelse di dare subito corso al piano Schlieffen, una direttiva strategica che prevedeva un rapido attacco a sorpresa in direzione di Parigi, allo scopo di costringere la Francia alla resa per poi rivolgersi contro i russi. Il 2 agosto, i tedeschi occuparono il Lussemburgo e il giorno successivo il kaiser Guglielmo dichiarò guerra alla Francia. Il 4 le armate tedesche invasero anche il Belgio, la cui neutralità era garantita internazionalmente dal Regno Unito. La decisione provocò la reazione dell’opinione pubblica e del governo inglesi, fino ad allora profondamente divisi riguardo alla prospettiva di un conflitto. Il Regno Unito dichiarò guerra alla Germania, mentre centinaia di migliaia di sudditi inglesi si arruolavano volontari. Nell’arco di pochi giorni l’intero continente si mobilitò: il 6 agosto l’Austria-Ungheria aprì le ostilità contro la Russia, lo stesso giorno la Serbia dichiarò guerra alla Germania; il 9 la Francia dichiarò guerra all’AustriaUngheria, seguita tre giorni dopo dalla Gran Bretagna. Il 23 agosto, il Giappone dichiarò guerra a Germania e Austria-Ungheria e il 29 ottobre la Turchia prese le armi contro la Triplice Intesa: la guerra europea era diventata mondiale. 3.

Dalla guerra di movimento alla guerra di trincea

Il tentativo dello Stato maggiore tedesco di replicare la vittoria del 1870, inve­ stendo Parigi da Nord-Ovest e prendendo alle spalle il grosso dell’esercito francese, non riuscì. I francesi e il corpo di spedizione britannico (Bef) furono rapidamente sconfitti nel corso della «battaglia delle frontiere» (14-24 agosto) ma riuscirono a ritirarsi fino al fiume Marna dove respinsero l’offensiva del generale Moltke (pri­ ma battaglia della Marna, 5-12 settembre). Nelle settimane successive il fronte si stabilizzò lungo una linea Nord-Ovest/Sud-Est che correva dal mare del Nord alla frontiera svizzera. Col sopraggiungere dell’autunno, gli eserciti, senza più riserve di uomini e armi, approntarono una serie di fortificazioni campali e di ricoveri in cui vivere e combattere in vista di uno stallo delle operazioni. Nei quattro anni successivi, le trincee sarebbero diventate l’elemento più caratteristico del nuovo modo di condurre la guerra di posizione moderna. Alla fine del 1914 il fronte era costituito da un’unica teoria di quasi 800 chilometri di postazioni contrapposte, di­ fese da filo spinato, parapetti e mitragliatrici e protetto dall’artiglieria. Nelle trincee i soldati combattevano e vivevano, esposti alle intemperie, in pessime condizioni igieniche (soprattutto nei primi mesi) ed esposti quotidianamente alla morte. La combinazione tra nuove armi e protezione naturale garantiva un’enorme superiorità dei difensori rispetto agli attaccanti, ma questo non avrebbe impedito ai generali

europei di tentare ripetutamente lo sfondamento del fronte nemico attraverso im­ ponenti (quanto inutili) offensive. Solo sul fronte orientale la guerra non diventò di posizione. Allo scoppio delle ostilità i russi attaccarono la Prussia orientale con una rapidità inaspettata. Dopo un successo iniziale vennero però duramente battuti dai generali Hindenburg e Ludendorff alle battaglie di Tannenberg (26-30 agosto) e dei laghi Masuri (7-13 settembre). In Galizia, al contrario, gli austriaci andarono incontro a disastrose sconfitte. Alla metà di settembre i russi minacciavano ormai il cuore dell’impero e solo una disperata controffensiva riuscì ad allontanare in dicembre il pericolo di un’invasione dell’Ungheria. 4.

Una guerra totale

Tutti gli stati maggiori avevano programmato una guerra breve, al massimo di alcuni mesi, che si sarebbe risolta in poche grandi battaglie campali; i piani si ri­ velarono però fallimentari. Il primo inverno di guerra sorprese gli eserciti esausti e impreparati: mancavano equipaggiamenti per il freddo, armi, munizioni e gli uffici di reclutamento stentavano a colmare i vuoti aperti dalle enormi perdite delle pri­ me settimane. Il nuovo tipo di guerra impose agli stati coinvolti di adottare misure straordinarie. Per sostenere la vita e l’operatività di milioni di soldati era necessaria la mobilitazione totale di ogni risorsa economica e spirituale del paese: la società europea subì così una progressiva militarizzazione. La mobilitazione economica mise l’industria e il commercio sotto il controllo dei governi e dei comandi militari: il modello, imitato ovunque con poche varianti, fu quello del Kriegsroshtoffabteilung (dipartimento per l’approvvigionamento delle materie prime) ideato e diretto dall’industriale tedesco Walter Rathenau e attivo presso il ministero della Guerra di Berlino già dal 1914 allo scopo di porre sotto il controllo dello stato la produzione, il commercio e l’impiego delle materie prime. In tutta Europa le fabbriche vennero convertite alla produzione di materiale bellico e il mercato venne disciplinato per assicurare il nutrimento delle popolazioni e dei combattenti: venne introdotto il ra­ zionamento dei generi alimentari e i prezzi vennero calmierati (socialismo di guerra). Le libertà civili vennero drasticamente limitate, l’iniziativa politica dei parlamenti ridotta al minimo e i comandi supremi videro crescere il proprio potere, fino a di­ ventare (come in Germania) forme di governo parallele e autonome. I sacrifici e il dolore per le continue perdite di vite umane (in Francia morivano mediamente 830 uomini ogni giorno a causa del conflitto) ponevano seriamente in forse la tenuta del consenso da parte delle popolazioni. Per questo in ogni paese si assistette anche a una mobilitazione culturale, in gran parte spontanea. Intellettuali, accademici, giornalisti e artisti dipinsero la guerra come una crociata contro il male e per la sopravvivenza della propria nazione. Gli eserciti si dotarono inoltre di appositi uffici di propaganda che dovevano incentivare lo spirito patriottico e l’odio verso il nemico tra le truppe. 5.

L’ingresso in guerra dell’Italia e le grandi battaglie del 1915-16

Nel 1914 l’Italia non era entrata in guerra, come previsto dalla Triplice Al­ leanza. Dopo lunghe trattative segrete con tutti e due gli schieramenti, il Regno d’Italia si alleò con la Triplice Intesa (patto di Londra, aprile 1915) e il 24 maggio

dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. Le ragioni della scelta italiana furono varie e suscitano ancora oggi discussione tra gli storici. Una forte pressione in tal senso veniva esercitata dalla possibilità di completare il progetto risorgimentale con l’an­ nessione delle terre irredente (il Trentino, Trieste, lTstria e la Dalmazia costiera). Ma esistevano anche altre ragioni. L’Italia soffriva di uno status incerto nel consesso delle potenze, aveva collezionato alcuni insuccessi pesanti nel campo della politica estera; vari segmenti dell’opinione pubblica e del mondo parlamentare vedevano di buon occhio una guerra che dimostrasse le reali capacità militari della nazione, assicurando inoltre importanti conquiste territoriali e una vasta area di influenza nel Mediterraneo orientale. Non va dimenticato infine l’opposto desiderio di una guerra che disciplinasse il paese e rendesse più forte il sentimento nazionale (come pensavano molti esponenti conservatori) o che, viceversa, innescasse una rivoluzio­ ne proletaria o anarchica. A favore dell’intervento per uno solo o per tutti questi motivi erano i cosiddetti interventisti: nazionalisti, parlamentari liberali di destra (capeggiati da Salandra e Sonnino), scrittori di estrema destra e artisti delle avan­ guardie (come i futuristi), ma anche intellettuali e politici della sinistra democratica di ispirazione mazziniana, repubblicani, alcuni socialisti rivoluzionari, gli irreden­ tisti (capeggiati da Cesare Battisti), larga parte del mondo giovanile e studentesco. Per il mantenimento della neutralità (neutralisti) erano i socialisti, gran parte del mondo cattolico e i liberali di sinistra capeggiati da Giovanni Giolitti, all’epoca capo del governo. Benito Mussolini, già direttore del quotidiano socialista «L’Avanti!», aderì all’interventismo e venne espulso dal Partito socialista; fondò quindi «Il Popolo d’Italia», uno dei più «aggressivi» quotidiani interventisti. Da un punto di vista strategico, l’ingresso in guerra italiano fu un insuccesso. Nella primavera 1915 l’esercito russo, indebolito dalle grandi offensive dei mesi precedenti, non rappresentava più un’imminente minaccia, e la resistenza serba era cessata del tutto; lo Stato maggiore austro-ungarico potè così trasferire truppe e materiali sul fronte italiano. L’esercito italiano, inoltre, era ancora impreparato a un conflitto moderno e fu inizialmente molto mal guidato. Luigi Cadorna, comandante dell’esercito, era convinto di ottenere una vittoria rapida e decisiva ma non riuscì a forzare le linee difensive austriache sul Carso, davanti a Trieste, malgrado una serie di offensive frontali molto costose in termini di vite umane (battaglie dell’Isonzo, 1915-17). Sugli altri fronti, il 1915 e il 1916 furono caratterizzati dal tentativo di porre fine alla guerra di posizione. Il 22 aprile i tedeschi, nel corso della battaglia di Ypres, usarono gas tossici a base di cloro. Fu il primo impiego sistematico di armi chimiche della storia; da quel momento i gas venefici divennero un’arma consueta negli arsenali di tutti i contendenti, aumentando il livello della mortalità sui campi di battaglia. In maggio inglesi e francesi contrattaccarono nell’Artois e in settembre nella regione della Champagne. In tutti questi casi, le offensive, condotte con il metodo dell’assalto frontale della fanteria, costarono decine di migliaia di morti senza conseguire risultati. Nel tentativo di sbloccare la situazione, l’Intesa progettò uno sbarco in forze nella penisola dei Dardanelli, con l’obiettivo di marciare su Costantinopoli e costringere la Turchia alla resa, ma l’operazione fu un fallimento e gli alleati furono costretti a reimbarcarsi dopo aver perso oltre 250.000 uomini. Il miraggio della «battaglia decisiva» fu inseguito ancora nel 1916. A Verdun, una cit­ tadella fortificata nella regione della Mosa, tedeschi e francesi si affrontarono nella più lunga e cruenta battaglia di tutto il conflitto, dal 21 febbraio all’11 luglio 1916. I francesi resistettero e infine respinsero l’attacco, anche se a un prezzo enorme

(probabilmente 315.000 morti da parte francese, 280.000 da parte tedesca; i feriti e mutilati furono complessivamente altri 800.000). Il 1° luglio gli alleati attaccarono a loro volta nella zona del fiume Somme: dopo cinque mesi di assalti consecutivi, in cui furono impiegati i primi carri armati, gli anglo-francesi avevano perso oltre 620.000 uomini, i tedeschi poco meno di 600.000 e il fronte si era mosso di circa cinque chilometri. Le perdite furono così gravi che, per la prima volta, il Regno Unito dovette ricorrere alla coscrizione obbligatoria. Lontano dal fronte occidentale si assistette a grandi battaglie di movimento, che non assunsero tuttavia il carattere di sfondamento strategico. Nel maggio 1916 il feldmaresciallo austriaco Conrad attaccò in Trentino (Strafexpedition) per prendere alle spalle la massa dell’esercito italiano schierato sull’Isonzo. Dopo un successo iniziale, l’offensiva venne respinta prima di raggiungere la pianura veneta. In giugno, i russi lanciarono una vasta operazione attraverso la Polonia austriaca (offensiva di Brusilov): fu la più grande vittoria russa di tutta la guerra ma dissanguò l’esercito dello zar (con oltre 500.000 soldati morti o dispersi) senza raggiungere alcun obiettivo strategico. 6.

Il 1917. La dissoluzione degli eserciti e il tornante della guerra

Nel corso del 1917 le condizioni morali dei combattenti e delle popolazioni andarono rapidamente peggiorando e il consenso alla guerra si incrinò progressi­ vamente. Nell’aprile 1917 il comandante francese Nivelle lanciò quella che doveva essere l’offensiva definitiva sul fronte occidentale: oltre un milione di uomini at­ taccò la linea difensiva tedesca col sostegno di 7.000 cannoni, carri armati e aerei, ma senza scalfirla. Esausti e falcidiati, alcuni reggimenti francesi si ribellarono. Il generale Pétain riportò l’ordine sospendendo ogni azione offensiva e migliorando le condizioni dei combattenti. Nel frattempo la stanchezza dei civili si manifestò in moti popolari (rivolta di Torino, agosto 1917), in diserzioni di massa in AustriaUngheria e soprattutto nelle rivolte di soldati e operai in Russia che portarono alla cosiddetta Rivoluzione di febbraio. Le enormi perdite di vite umane in tre anni di guerra e le privazioni avevano minato la disciplina dell’esercito russo. Quando la carenza di cibo nelle città spinse la popolazione di Mosca e Pietroburgo a prote­ stare, le truppe inviate a reprimere le manifestazioni si ammutinarono. Il 2 marzo lo zar Nicola abdicò e il potere passò a un governo guidato dal socialdemocratico Aleksandr Kerenskij, deciso a continuare la guerra a fianco dell’Intesa. Il rapido de­ terioramento della situazione militare, la stanchezza della popolazione e dei soldati e le divisioni tra i generali (tra cui molti ancora fedeli allo zar) compromisero però la possibilità della Russia di proseguire la guerra. Alla fine di ottobre, i bolscevichi guidati da Lenin rovesciarono il governo provvisorio e si impadronirono del potere (Rivoluzione d’ottobre). Poco dopo vennero intavolate trattative di pace con gli imperi centrali che portarono alla pace di Brest-Litovsk (3 marzo 1918). La resa della Russia venne solo parzialmente compensata dall’entrata in guerra degli Stati Uniti (aprile 1917), che ruppero il loro tradizionale isolamento schierandosi a fianco dell’Intesa (pur senza farne parte). Gli Stati Uniti, tuttavia, non avevano un esercito da inviare in Europa e avrebbero impiegato molti mesi prima di reclutarne e addestrarne uno. Germania e Austria-Ungheria poterono così trasferire ingenti forze dal fronte russo agli altri teatri di guerra. Il 25 ottobre 1917 truppe austriache e tedesche insieme lanciarono una massiccia offensiva sull’Isonzo nella zona di

Caporetto: logorate da tre anni di assalti inutili e dispendiosi, colte di sorpresa e in inferiorità numerica, le truppe italiane vennero travolte (battaglia di Caporetto). La caotica ritirata che seguì comportò l’abbandono di tutto il Veneto orientale fino al Piave. Dopo alcune settimane di ripetuti attacchi lungo il fiume e sul Monte Grappa, gli austro-tedeschi furono però fermati (novembre-dicembre 1917). 7.

Il 1918 e la conclusione del conflitto

L’ultimo anno di guerra fu caratterizzato dal tentativo austro-tedesco di ottenere una vittoria decisiva prima che l’arrivo delle truppe statunitensi facesse pendere la bilancia dell’equilibrio militare a favore dell’Intesa e prima che il blocco navale imposto dagli alleati, che dal 1915 impediva agli imperi centrali ogni commer­ cio con l’estero, peggiorasse ulteriormente le condizioni di vita già difficili delle popolazioni. Dal 21 marzo al 15 luglio i generali Hindenburg e Ludendorff, che avevano assunto il comando delle truppe tedesche (e di fatto il controllo politico­ militare della Germania), lanciarono cinque offensive consecutive su tutto il fronte occidentale. I tedeschi arrivarono fino a pochi chilometri da Parigi, ma furono nuovamente fermati. Nelle stesse settimane, le prime divisioni americane entravano in linea, avanguardia di un esercito di oltre un milione di combattenti già presenti in Francia (e altrettanti in addestramento negli Usa): gli alleati disponevano ora di una schiacciante superiorità di uomini e mezzi. L’8 agosto inglesi, americani e francesi contrattaccarono sul fronte di Amiens con l’appoggio di 500 carri armati, costringendo l’esercito tedesco alla ritirata; il 28 settembre l’estrema linea tedesca (la cosiddetta «linea Hindenburg») venne definitivamente travolta. Anche sugli altri fronti la guerra giunse a un punto di svolta: il 29 settembre, minacciata dall’inva­ sione di un’armata anglo-francese, la Bulgaria depose le armi, seguita il 30 ottobre dalla Turchia. In giugno gli austro-ungarici tentarono di replicare il successo di Caporetto per costringere l’Italia alla resa, ma furono respinti sul Piave e sul Monte Grappa (battaglia del Solstizio). Il 24 ottobre l’esercito italiano passò all’offensi­ va: inizialmente l’esercito austro-ungarico resistette ma poi, esausto e minato nel morale, cedette di colpo. In pochi giorni gli italiani raggiunsero Trento e Trieste mentre l’armata imperiale si dissolveva e le truppe seguivano i destini dei paesi di appartenenza. Il 28 ottobre a Praga venne proclamata una repubblica cecoslovacca, il 1° novembre l’Ungheria si proclamò indipendente dal governo di Vienna. Il 4 novembre l’esercito comune austro-ungarico si arrese, ultimo atto di un impero che non esisteva più. In Germania, ormai minacciata da un’invasione alleata, re­ parti dell’esercito e della marina si ammutinarono, rendendo vana l’intenzione del kaiser di tentare un’ultima resistenza. Il 9 novembre, mentre Berlino era scossa dai tumulti popolari, il nuovo governo guidato dal socialista Friedrich Ebert richiese l’armistizio senza condizioni all’Intesa; il kaiser abdicò e fuggì in Olanda. Alle 11 dell’l l novembre 1918 l’armistizio entrava in vigore su tutti i fronti. 8.

I trattati di pace

Il 18 gennaio 1919 si aprì a Parigi la conferenza di pace (1919-20), durante la quale si sarebbero dovuti discutere i trattati di pace. La conferenza di Parigi

avrebbe dovuto anche rispondere all’esigenza, particolarmente avvertita nell’o­ pinione pubblica europea, di un nuovo ordine mondiale ispirato ai principi del wilsonismo. I cosiddetti «Quattordici punti» del presidente Wilson prevedevano un sistema internazionale basato non più sull’equilibrio delle potenze, ma sull’au­ todeterminazione dei popoli in base al criterio della nazionalità, sulla tutela delle minoranze e sulla composizione dei conflitti internazionali mediante l’arbitrato di una «lega delle nazioni». La visione di Wilson si scontrò con la necessità di stabilizzare la situazione geopolitica europea, dove tre imperi si erano dissol­ ti (asburgico, russo e ottomano) lasciando nel caos l’Europa centro-orientale, mentre quello tedesco era caduto lasciando il posto alla cosiddetta Repubblica di Weimar, fragile e attraversata da forti spinte centrifughe. La pace imposta a Parigi risultò un compromesso tra i principi di Wilson e il desiderio delle maggiori potenze (Francia, Gran Bretagna, Usa e Italia) di impedire una nuova minaccia tedesca. Il trattato di Versailles (giugno 1919) tra la Germania e gli alleati stabilì così condizioni molto dure: la Germania perse l’Alsazia-Lorena, che tornava alla Francia; la Prussia occidentale, Danzica, la Posnania e parte della Slesia, che concorsero a formare un nuovo stato polacco; tutte le colonie. Inoltre, lo stato tedesco venne considerato responsabile della guerra (art. 231) e condannato a pagare una fortissima somma in oro a titolo di riparazione alle nazioni invase o danneggiate. Infine, la Repubblica di Weimar non avrebbe potuto più avere un esercito di leva, ma solo un contingente limitato (100.000 uomini) per la sicurezza interna, né un’aviazione e una flotta da guerra. Nel settembre successivo venne firmato il trattato di St. Quentin con l’Austria. Gli alleati permisero la nascita di una piccola repubblica austriaca di lingua tedesca ma vietarono per sempre la sua unione alla Germania e ridistribuirono i territori dell’ex impero asburgico seguendo solo parzialmente il principio di nazionalità. L’Italia ottenne il Trentino e il distretto di Bolzano fino al Brennero, Trieste, l’Istria, la Dalmazia costiera. Non ottenne però territori coloniali né la città dalmatica di Fiume, abitata da italiani ma non compresa nell’originale patto di Londra del 1915; la questione fiumana sarebbe divenuta poi causa di forti attriti con gli alleati e il nuovo regno jugoslavo. Con il trattato del Trianon (giugno 1920) vennero stabilite anche le frontiere ungheresi: rispetto all’antico regno che aveva fatto parte dell’AustriaUngheria il nuovo stato indipendente veniva ridotto di oltre due terzi mentre 2.000.000 di magiari divennero cittadini di altri paesi. In Ungheria rimasero d’altra parte circa 1.500.000 tedeschi e slovacchi, che furono oggetto di persecuzioni etniche. Dai territori dell’ex impero asburgico sorsero nuovi stati, la Polonia e la Cecoslovacchia, mentre Croazia, Slovenia e Bosnia-Erzegovina confluirono nella nuova Jugoslavia. La Transilvania, abitata da ungheresi e tedeschi, venne data alla Romania. In nessun caso si riuscirono a creare degli stati nazionali omogenei e quasi ovunque scoppiarono guerre interne a sfondo etnico. Con il trattato di Neuilly (novembre 1919) anche la Bulgaria subì alcune perdite territoriali minori. La nuova repubblica della Turchia riuscì invece a rivedere le clausole punitive del trattato di Sèvres (1920), che mutilava il suo territorio nazionale a favore della Grecia: grazie a una guerra vittoriosa condotta da Kemal Atatiirk venne stipulato un nuovo trattato internazionale (trattato di Losanna, 1923) che garantiva alla Turchia il pieno possesso di tutta l’Anatolia, compresa Smirne, di Adrianapoli e Costantinopoli (Turchia europea).

Percorso di autoverifica

1. Quali sono le cause politiche profonde della Prima guerra mondiale?

2. Cosa si intende per «mobilitazione totale»? 3. Che cosa causò il fenomeno di ribellione e ammutinamento negli eserciti del 1917? 4. Quali sono i fattori che portano alla sconfitta degli imperi centrali? Per saperne di più

ss

T. Ashworth, Trench Warfare. 1914-18. The Live and Let Live System, New York, Holmes & Meier, 1980. 5. Audoin-Rouzeau e A. Becker, La violenza, la crociata, il lutto, Torino, Einaudi, 2002. P. Fussell, La Grande Guerra e la memoria moderna, II ed., Bologna, Il Mulino, 2000. A Gibelli, La grande guerra degli italiani. 1915-1918, Milano, Sansoni, 1998. J. Horne e A. Kramer, German Atrocities 1914. A History o f a Denial, New Haven-London, Yale University Press, 2001. . Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, Bologna, Il Mulino, 2007. . Isnenghi e G. Rochat, La Grande Guerra. 1914-1918, Bologna, Il Mulino, 2008. J. Joll, Le origini della prima guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 1985. E.J. Leed, Terra di nessuno, Bologna, Il Mulino, 2004. D. Stevenson, Armaments and thè Corning o/War. Europe 1904-1914, Oxford-New York, Oxford University Press, 1996.

1917. Lo spartiacque della Rivoluzione bolscevica di Giovanna Cigliano

I

Come la Rivoluzione francese inaugura il «lungo Ottocento», quella russa si colloca aH’inizio del «secolo breve», il Novecento, la cui periodizzazione (191489) coincide in larga misura con la parabola dell’Unione Sovietica. La prima fase rivoluzionaria (la Rivoluzione di febbraio) sfocia nel crollo dello zarismo e nell’instaurazione di un dualismo di potere fra il soviet, egemonizzato dai so­ cialisti menscevichi, trudoviki e rivoluzionari, e il governo provvisorio, guidato dal liberale L’vov. Nel corso dell’estate, rivoluzione agraria e diserzioni di mas­ sa minano il potere del governo provvisorio e la capacità di portare avanti la guerra contro i tedeschi. I bolscevichi guadagnano poi consensi e per iniziativa del loro leader Lenin prendono il potere con la Rivoluzione d’ottobre. Nei primi mesi del 1918 sciolgono l’Assemblea costituente e firmano con i tedeschi la pace di Brest-Litovsk.

Nel 1917 il corso della Prima guerra mondiale fu mutato da eventi che ebbero per protagonisti due paesi di cultura europea ma di dimensione continentale, de­ stinati a subentrare, dopo la Seconda guerra mondiale, all’Europa nell’egemonia mondiale: l’intervento nel conflitto degli Stati Uniti, sollecitato dal nuovo impulso dato dalla Germania alla guerra sottomarina; il succedersi nell’Impero russo di due Rivoluzioni, di febbraio e di ottobre, che provocarono prima l’indebolimento della resistenza antitedesca sul fronte orientale, e poi l’uscita della Russia dal conflitto con l’onerosa pace di Brest-Litovsk. 1.

La Rivoluzione russa nella storia europea e mondiale

Alla Rivoluzione russa è stata attribuita un’importanza epocale, tale da pa­ ragonarla, per dimensioni e durevolezza di impatto, alla Rivoluzione francese del 1789. Così come questa ha inaugurato il «lungo Ottocento», quella ha dato inizio, assieme alla Prima guerra mondiale, al «secolo breve», il Novecento, la cui periodizzazione (1914-89) coincide in larga misura con la parabola di vita dell’Unione Sovietica. Anche al 1917, non diversamente dal 1789, si può attribuire

la duplice valenza di rivoluzione nazionale, in quanto momento di fondazione di un nuovo stato, con una nuova legittimazione popolare e un nuovo senso di appartenenza collettiva, e di rivoluzione di portata internazionale, nella misura in cui i suoi principi e ordinamenti divengono modelli e punti di riferimento per i rivoluzionari di altri paesi, o sono esportati con gli strumenti della diplomazia, della propaganda, della conquista militare. La rilevanza dell’impatto mondiale del 1917 si comprende anche tenendo conto della natura bifronte dell’Impero russo, esteso tra Europa e Asia, anello arretrato del sistema delle potenze occi­ dentali e avamposto dell’Occidente in Oriente, metropoli imperiale e periferia semicoloniale. Nel breve termine la rivoluzione produsse in Russia una drammatica accelera­ zione del mutamento storico: alla disgregazione delle istituzioni e al sovvertimento dei rapporti sociali, alla ricostruzione di un nuovo stato e di un nuovo sistema di potere, si accompagnò una guerra civile brutale e devastante (1918-20), destinata a coinvolgere, in modo diretto o indiretto, la maggioranza della popolazione. Ma l’interpretazione di quegli eventi è stata di volta in volta condizionata dalle circostanze storiche e politiche. Innanzi tutto bisogna ricordare che furono i pro­ tagonisti della rivoluzione a fornirne l’immagine di rottura radicale nella storia dell’umanità. La storiografia sovietica poi ha consolidato quella rappresentazione, in modo funzionale alla legittimazione del regime, attribuendo un rilievo prepon­ derante all’ottobre, descritto come una rivoluzione di massa quale in realtà non fu. Dopo il 1989 si è assistito a un ridimensionamento del 1917 come spartiacque epocale, e alla riconsiderazione dell’ottobre nei termini di una sorta di «colpo di stato» che coinvolse direttamente poche migliaia di persone. Al tempo stesso è stata approfondita la riflessione sulla connessione tra guerra, mobilitazione totale e rivoluzione, al punto che alcuni storici hanno proposto di collocare nel 1914 il vero spartiacque della storia russa contemporanea e di interpretare la sequenza «guerra-rivoluzione-guerra civile» (1914-21) come un unico «continuum di crisi», del quale il 1917 è stato il fulcro. Sul piano della collocazione geopolitica e dei rapporti internazionali, conse­ guenza immediata della Rivoluzione bolscevica e degli accordi di Brest-Litovsk fu il ridimensionamento consistente del versante occidentale dell’ex Impero zarista, ricondotto nei confini della Moscovia seicentesca (almeno fino al 1920, quando l’Ucraina fu riconquistata dai bolscevichi). Ciò comportò la fine temporanea per la Russia del ruolo di grande potenza europea e lo spostamento del suo baricentro verso l’Oriente e l’Asia, tanto più che l’isolamento politico e ideologico del regime fu ratificato dall’adesione delle potenze vincitrici all’idea del «cordone sanitario» attorno all’«infezione» rivoluzionaria, concretizzatasi durante la conferenza di Parigi nel consolidamento dei neocostituiti stati dell’Europa centro-orientale. Nelle regioni dell’Asia centrale la combinazione leninista di socialismo e autode­ terminazione nazionale sembrò, almeno inizialmente, inaugurare per quelle popo­ lazioni una stagione inedita di riscatto ed emancipazione. In generale, l’esempio russo divenne punto di riferimento per le lotte di riscatto sociale e di liberazione nazionale dal dominio imperialistico portate avanti nel Terzo mondo, anche se i tentativi rivoluzionari compiuti dai comunisti in diversi paesi (Cina, Indonesia, Brasile) non ebbero successo. In Europa, l’esempio della Rivoluzione bolscevica, del suo immediato ripudio della guerra unito agli ambiziosi programmi di giustizia sociale, infiammò le masse

popolari negli anni 1918-20: divamparono rivoluzioni, poi represse, in Europa centro-orientale, e massicce agitazioni sociali e politiche in Europa occidentale. In questo contesto nacquero i partiti comunisti, destinati a raccogliere il consenso di intellettuali e operai che erano rimasti delusi dalle ambiguità e dai compromessi delle socialdemocrazie nell’epoca della Prima guerra mondiale. In generale, la risonanza dell’evento nell’opinione pubblica mondiale fu amplissima, e il mito che fu costruito intorno a esso, e alla realtà sovietica che ne era scaturita, risultò tanto più durevole e credibile alla luce della crisi nella quale i paesi dell’Occidente capitalistico erano stati precipitati dalla guerra e successivamente dalla catastrofe economica del ’29 e dall’involuzione autoritaria dei regimi politici. E frequente nella storiografia recente il ricorso a concetti quali «guerra dei Trent’anni» del XX secolo oppure «guerra civile europea» per definire il periodo 1914-45, caratterizzato dalla contrapposizione tra sistemi politici e sociali alternativi (democrazia, fascismo, comuniSmo), dallo scontro tra ideologie e fedi contrapposte, dalla trasformazione della politica interna dei singoli paesi in una sorta di guerra civile permanente, di volta in volta latente o aperta. Il 1917 russo riveste evidente­ mente, rispetto a questo periodo, un ruolo fondante, che deve però essere precisato e circoscritto: ci appaiono infatti scarsamente fondate quelle interpretazioni che, considerando il fascismo e il nazismo come fenomeni prodotti dalla reazione al comuniSmo, giungono ad attribuire alla nascita del regime bolscevico in Russia un ruolo del tutto spropositato nello spiegare vicende europee complesse e dalle molteplici radici.

2.

Le Rivoluzioni di febbraio e di ottobre

Ripercorriamo ora le tappe salienti delle Rivoluzioni di febbraio e di ottobre. Nell’autunno del 1916 erano in molti a considerare la rivoluzione come un’eventua­ lità concreta nell’Impero russo, perché alla delegittimazione dei vertici, provocata dalla gestione disastrosa della guerra e acuita dal discredito gettato sulla famiglia reale e sulla corte dalle voci scandalistiche e dal ruolo di consigliere informalmente ricoperto dal monaco Grigorij Rasputin, si accompagnava il peggioramento della vita quotidiana di milioni di persone, a causa dell’inflazione impetuosa e della penuria di viveri e di combustibile, inasprita dal deterioramento del sistema dei trasporti e particolarmente grave nelle città del Nord. Furono proprio le strade di Pietrogrado a divenire, tra il 23 e il 27 febbraio 1917, il teatro della Rivoluzione di febbraio (le date si riferiscono al calendario giuliano, in vigore all’epoca in Rus­ sia, che comportava una sfasatura di 13 giorni rispetto a quello gregoriano, fatta eccezione per le date relative agli eventi del febbraio-marzo 1918, poiché il nuovo governo aveva a quel punto introdotto il calendario gregoriano). Frutto di una mo­ bilitazione di massa spontanea, essa ebbe inizio con le manifestazioni organizzate per la festa della donna, presto affiancate dai cortei degli operai, e sfociò poi nello sciopero generale. Fu l’ordine dello zar di impiegare la forza per sedare i disordini a far precipitare la situazione: alcuni reggimenti della guarnigione di Pietrogrado, che erano stati costretti a fare fuoco sui manifestanti, si ammutinarono. Mentre gli insorti assumevano nei fatti il controllo della capitale, e i membri del governo rassegnavano le dimissioni, si formavano i nuclei costitutivi del nuovo potere: il so­ viet (Consiglio) dei deputati operai (presto affiancati dai soldati), egemonizzato da

menscevichi, trudoviki e socialisti rivoluzionari, e il governo provvisorio, composto da deputati della duma (il parlamento russo) appartenenti al blocco progressista (cadetti, ottobristi, progressisti), con l’unica eccezione del socialista (prima trudoviko, poi socialrivoluzionario) Aleksandr Kerenskij, e presieduto da un liberale non iscritto ad alcun partito, il principe Georgi] L’vov. Lo zar Nicola II fu costretto ad abdicare a favore del fratello Michele, che rinunciò al trono a sua volta il 3 marzo: era la fine della dinastia dei Romanov e del potere monarchico in Russia. I due organismi, che attingevano a fonti diverse di legittimazione, giunsero a un accordo instabile attorno ad alcuni punti programmatici, quali l’amnistia per tutti i prigionieri politici, la preparazione delle elezioni per l’assemblea costituente, lo smantellamento degli organi di polizia e la loro sostituzione con le milizie popolari, l’elezione a suffragio universale di nuovi organismi di autogoverno. Dettero vita nei mesi successivi al cosiddetto «dualismo di potere», nel quale il governo provvisorio deteneva formalmente tutte le responsabilità del potere, ma era di fatto costantemente vincolato, e sovente scavalcato, dalle deliberazioni deìì’Ispolkom (il Comitato esecutivo del soviet), su questioni cruciali quali l’organizzazione delle forze armate e la conduzione della guerra. Una prima crisi di governo divampò in primavera, appunto sul tema della guerra e della pace, e si risolse con le dimissioni del ministro degli Esteri Pavel Miljukov e del ministro della Guerra Aleksandr Guckov, sosteni­ tori della necessità di continuare la guerra mantenendo fermi gli obiettivi strategici segretamente concordati con gli alleati, e con l’ingresso dei socialisti, menscevichi e socialisti rivoluzionari nel governo (Kerenskij divenne ministro della Guerra). Questi ultimi erano fautori del «difensivismo rivoluzionario», che coniugava l’a­ desione a una campagna internazionale «classista» contro la guerra imperialista con l’idea dell’unità nazionale attorno all’obiettivo della guerra difensiva: era questa la linea che era stata ufficialmente sposata dal soviet e che riscuoteva il consenso delle consistenti manifestazioni popolari verificatesi in quei giorni nella capitale. Allo scoppio della rivoluzione gran parte dei leader dei partiti rivoluzionari russi erano all’estero, in prigione o in esilio. Vladimir Lenin giunse in treno a Pietrogrado il 3 aprile da Zurigo con l’aiuto del governo tedesco, interessato a favorire il successo della propaganda «disfattista» in Russia. Le sue posizioni, favorevoli a una rottura netta con il governo provvisorio, all’uscita dalla guerra, alla concentrazione del potere nelle mani dei soviet, al superamento immediato della «fase borghese» della rivoluzione in vista dell’instaurazione della dittatura del proletariato, furono presentate nelle famose Tesi di aprile-, accolte inizialmente con scetticismo dagli altri dirigenti del partito per il loro carattere di rottura con l’ortodossia marxista, esse guadagnarono ai bolscevichi molti consensi presso operai, soldati, marinai delle generazioni più giovani. Dopo il fallimento dell’offensiva estiva, lanciata il 18 giugno lungo il fronte occidentale, i soldati furono spinti definitivamente tra le braccia di coloro che in­ vocavano un’immediata pace separata. Mentre si moltiplicavano diserzioni e fraternizzazioni, il «bolscevismo di trincea» trionfava, ponendo le premesse della futura svolta politica. Le manifestazioni contro la guerra nella capitale sfociarono in una sollevazione, nella cui organizzazione svolsero un ruolo significativo i bolscevichi, che mirava a esautorare il governo provvisorio per attribuire tutti i poteri al soviet, i cui dirigenti erano del resto assai riluttanti ad assumerli. Fu in questo contesto, reso ancor più incandescente dal precipitare della questione nazionale ucraina (la Rada centrale, il parlamento di quella nazione, aveva proclamato l’indipendenza),

che si consumò all’inizio di luglio una nuova crisi di governo, sfociata nelle dimis­ sioni di L’vov, nell’assunzione della leadership da parte di Kerenskij, nel definitivo spostarsi a destra di forze liberali come i cadetti, nella repressione dell’insurrezione e nell’arresto o nella fuga di molti militanti e dirigenti bolscevichi. Nel mese di agosto il tentativo di Kerenskij di accreditarsi come il leader che avrebbe salvato la Russia dall’anarchia rivoluzionaria e dalla sconfitta fallì: le forze moderate venivano ormai individuando nel generale Lavr Kornilov l’uomo forte che avrebbe potuto riportare l’ordine e garantire l’integrità nazionale. Kerenskij, ritenendo che Kornilov fosse intenzionato a scalzarlo per porsi a capo di una dit­ tatura militare, decise di giocare d’anticipo esautorandolo e proclamando sé stesso comandante in capo. Kornilov, infuriato per essere stato accusato di tradimento, e a sua volta convinto che il capo del governo fosse divenuto ostaggio dei bolscevichi, decise a quel punto di far marciare su Pietrogrado le truppe a lui fedeli, bloccate prima di arrivare in città dalla mobilitazione organizzata dai militanti bolscevichi. Il materializzarsi dello spettro della controrivoluzione ebbe due importanti con­ seguenze politiche: la riabilitazione del partito di Lenin, considerato ora la forza politica che aveva salvato la rivoluzione, e l’indebolimento del potere di Kerenskij e dell’intero governo provvisorio, reso inevitabile dalla polarizzazione politica che ne assottigliava i sostenitori, a destra come a sinistra. Tra la fine di agosto e il mese di ottobre i bolscevichi conquistarono la mag­ gioranza nelle elezioni per i parlamenti municipali, nonché negli esecutivi dei soviet locali. Nel soviet di Pietrogrado Lev Trockij divenne il nuovo presidente dell’lspolkom. Nel frattempo la rivoluzione agraria, divampata nel corso dell’estate, procedeva speditamente: le comunità di villaggio, che dopo il febbraio avevano conosciuto una nuova vitalità, avevano approfittato della debolezza del potere cen­ trale per procedere alla spartizione tra i contadini delle terre dei proprietari. Non poche diserzioni al fronte erano motivate dalla volontà dei contadini-soldati di fare ritorno ai rispettivi villaggi per partecipare alla redistribuzione delle terre. D’altra parte, proprio il crescente afflusso di questi ultimi aveva provocato uri escalation di brutalità e di odio di classe: alle confische si accompagnavano saccheggi, violenze, regolamenti di conti con i proprietari terrieri e le loro famiglie. Alla metà di ottobre Lenin aveva ormai concentrato tutte le proprie energie nella preparazione dell’insurrezione armata, intenzionato a prendere il potere prima dell’apertura del Congresso panrusso dei soviet, prevista per il giorno 25. Il Comi­ tato rivoluzionario militare, costituitosi come organismo di difesa rivoluzionaria e composto da bolscevichi e con una minoranza di socialrivoluzionari di sinistra, il 21 ottobre si autoproclamò suprema autorità militare della capitale. Nella notte del 24, con un’azione che coinvolse qualche migliaio di persone, si impadronì senza sforzo di luoghi strategici come le stazioni, le poste, i ponti sul fiume Neva. La mattina del 25 Kerenskij fuggì precipitosamente; il Palazzo d’inverno fu espugnato senza spargimento di sangue e i ministri dichiarati in arresto e poi rinchiusi nella fortezza di Pietro e Paolo. Il Congresso dei soviet, dopo che i menscevichi e i socialisti rivoluzionari ebbero abbandonato i lavori in segno di protesta, ratificò la presa del potere da parte dei bolscevichi, la Rivoluzione di ottobre, avvenuta formalmente in nome dei soviet. Furono poi approvati i due celebri decreti sulla pace e sulla terra: con il primo si lanciava un appello internazionale per l’immediata sospensione delle attività belliche e per una pace «senza annessioni e indennità», che salvaguardasse il

diritto di tutte le nazioni all’autodeterminazione; con il secondo, che faceva proprio integralmente il programma di «socializzazione» della terra elaborato dai socialisti rivoluzionari, si legittimava quanto stava già accadendo nelle campagne. Con un terzo decreto fu istituito il nuovo governo, il Consiglio dei commissari del popolo (,Sovnarkom), organismo temporaneo che sarebbe dovuto rimanere in carica fino alla convocazione dell’assemblea costituente. La sua struttura era analoga a quella del governo provvisorio, fatta eccezione per una significativa novità: l’introduzione di un «ministero» per le Nazionalità, affidato a Stalin. A capo del Sovnarkom era Lenin, che presiedeva anche il Comitato centrale bolscevico, concentrando così un enorme potere nelle proprie mani. Il 3 novembre Lenin e Stalin promulgarono una Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia, che riconosceva il diritto all’autodeterminazione nazionale e apriva la strada alla secessione delle regioni periferiche che rivendicavano l’indipendenza. 3.

I primi passi del nuovo regime

Il nuovo governo dovette fronteggiare nelle prime settimane l’ostruzionismo della burocrazia, sconfitto ricorrendo a epurazioni, spostamenti di grado e di funzioni e l’istituzione di un rigido controllo da parte di commissari politici. No­ nostante l’isolamento di cui soffriva, il regime riuscì in soli tre mesi a consolidare il proprio potere, grazie al ruolo determinante svolto in tutti i momenti cruciali dalla personalità di Lenin, e anche grazie all’abilità con la quale la macchina statale fu demolita e ricostruita ai suoi diversi livelli. Mentre alla base si assecondò l’esercizio della democrazia diretta a livello locale (soviet, assemblee di villaggio, comitati di fabbrica, comitati dei soldati), così da svuotare le istituzioni esistenti e favorire la frammentazione, ai vertici istituzionali il potere fu concentrato eliminando ogni possibile opposizione politica. Strettissima e costante fu sin dall’inizio l’interazione tra Sovnarkom e Comitato centrale bolscevico, come dimostra la sistematica con­ versione delle risoluzioni di partito in decreti del governo; a essa si accompagnò il rapido esautoramento del Comitato esecutivo del soviet, in nome del quale pure il Sovnarkom era stato formalmente istituito. Le elezioni a suffragio universale per l’Assemblea costituente ebbero inizio il 12 novembre. La partecipazione fu molto elevata ma non dette il risultato sperato dal nuovo governo: la maggioranza relativa dei voti fu conquistata dai socialisti rivolu­ zionari (38%), mentre i bolscevichi ottennero il 24%. I menscevichi si attestarono al 3% e i cadetti al 5%. Il Sovnarkom decise di rinviare a tempo indeterminato la seduta inaugurale dell’assemblea (prevista per il 28 novembre) e istituì procedure atte a favorire la revisione dei risultati elettorali sgraditi. Il 5 gennaio 1918 l’as­ semblea finalmente si riunì per la sua prima e unica seduta: il giorno seguente fu sciolta con la forza dal regime bolscevico, che, dopo aver militarizzato le strade e proclamato la legge marziale in città, impedì ai deputati di rientrare il mattino seguente nel palazzo di Tauride. Il nuovo potere aveva sin dall’inizio manifestato disprezzo per le regole de­ mocratiche e Lenin aveva in più occasioni sostenuto la necessità del terrore di massa per difendere la rivoluzione. Giornali e riviste dell’opposizione furono posti fuorilegge, il sistema giudiziario (corti, tribunali, professioni legali) fu smantellato per instaurare una giustizia fondata sulla «coscienza rivoluzionaria», amministrata

dalle corti popolari e dai tribunali rivoluzionari per i reati contro lo stato. All’inizio di dicembre fu costituito il famigerato servizio segreto del nuovo regime, la Com­ missione straordinaria panrussa per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio (Ceka), a capo della quale fu nominato Feliks Dzerzinskij. Un passo decisivo in direzione dello scatenamento del cosiddetto «terrore rosso» fu compiuto con il decreto «La patria socialista è in pericolo!», firmato da Lenin il 21 febbraio 1918: il governo legittimava l’esecuzione sul posto, senza processo, di speculatori, criminali e «agitatori controrivoluzionari», categoria nella quale potevano rientrare avversari politici e nemici di classe. Gli accordi che sancirono l’uscita dalla guerra della Russia furono siglati il 3 marzo a Brest-Litovsk. Lenin era giunto a minacciare le dimissioni dal Comitato centrale del partito per superare l’opposizione al trattato, fortissima soprattutto tra gli esponenti della fazione raccolta intorno a Nikolaj Bucharin. La pace, siglata in condizioni difficilissime, mentre i tedeschi conquistavano di giorno in giorno ampie porzioni di territorio, ratificò la perdita di Finlandia, Lettonia, Estonia, Lituania, Polonia, Ucraina (nonché di alcuni territori della Transcaucasia a favore della Turchia), ma consentì di salvare il regime comunista in Russia, come Lenin aveva tempestivamente e lucidamente compreso. Percorso di autoverifica

1. 2. 3. 4. 5.

Come si spiega la Rivoluzione di febbraio nel contesto della Prima guerra mondiale? Quali sono le implicazioni della Rivoluzione di febbraio? Che caratteristiche ha il regime politico nel periodo compreso tra le due rivoluzioni? Quali furono le conseguenze della Rivoluzione di ottobre? Quali furono i termini della pace di Brest-Litovsk? Per saperne di più

G. Cigliano, La Russia contemporanea. Un profilo storico (1855-2005), Roma, Carocci, 2005. O. Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa. 1891-1924, Milano, Tea, 2000. O. Figes e B. Kolonitskii, Interpreting thè Russian Revolution. The Language and Symbols o f 1917, New Haven, Yale University Press, 1999. A. Graziosi, L’Unione Sovietica. 1914-1991, Bologna, Il Mulino, 2011. R. Pipes, La rivoluzione russa. Dall’agonia dell’ancien régime al terrore rosso, 2 voli., Milano, Mondadori, 1995. A. Wood, La rivoluzione russa, Bologna, Il Mulino, 1999.

1929. Il grande crollo dell’economia di Manuela Mosca

La Grande depressione, sopraggiunta alla fine degli anni Venti a seguito di un’inversione nel ciclo economico americano e aggravata dal crollo della borsa, rappresentò un fenomeno drammatico che coinvolse quasi tutti i paesi del mon­ do. Fra le varie conseguenze, furono notevoli il calo della produzione e il forte aumento del tasso di disoccupazione; la crisi del ’29 pose fine all’egemonia della teoria economica del laissez-faire e il ruolo dello stato nella vita economi­ ca divenne più attivo proprio allo scopo di evitare l’insorgere di altri squilibri di tale portata. Le varie strategie di politica economica tese a contrastare gli effetti della crisi si concretizzarono negli anni Trenta nel New Deal, il programma di ripresa attuato da Roosevelt.

La profonda recessione economica che, a partire dal 1929, investì quasi tutti i paesi del mondo è nota come Grande depressione. La stessa data - il 1929 - è divenuta il modo sintetico per indicare quella grave crisi; in particolare nomi­ nando il 1929 ci si vuole riferire all’autunno di quell’anno, quando il mercato azionario di New York subì un violento crollo, e a tutte le conseguenze che ne derivarono. Gli sconvolgimenti determinati dalla crisi del 1929 negli equilibri nazionali e internazionali furono di portata epocale, confrontabili soltanto con quelli di una guerra mondiale. Le difficoltà economiche rafforzarono in Italia i poteri della dittatura, resero più profondo il rancore dei tedeschi verso i paesi vincitori della Grande guerra e favorirono l’ascesa di Hitler al potere, inducendo anche i paesi non totalitari ad adottare politiche protezionistiche ostili. L’assetto internazionale che ne emerse conteneva ormai in sé tutti quei fattori che avrebbero determinato poco tempo dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale. 1.

La smania speculativa

Durante la Prima guerra mondiale gli Stati Uniti avevano fornito ai paesi dell’Europa beni e risorse finanziarie necessari a sostenere i bisogni delle loro

economie in guerra. Alla fine del conflitto l’America del Nord si trovò pertanto nella vantaggiosa posizione di paese creditore netto, che l’avrebbe in breve portata al ruolo di guida dell’economia mondiale. Oltre a godere di condizioni favorevoli in fatto di materie prime (tra le quali il petrolio, che in quegli anni cominciava a diventare una risorsa chiave per lo sviluppo dei trasporti) e al rapido progresso tecnologico, gli Stati Uniti adottarono negli anni Venti politiche economiche che favorirono il loro sviluppo. Gli aumenti dei dazi sulle importazioni di beni stra­ nieri che miravano a proteggere i beni americani dalla concorrenza mondiale, la sospensione delle leggi antitrust che incoraggiarono le concentrazioni industriali e lo sviluppo di grandi società finanziarie, la creazione all’estero di imprese di proprietà americana furono tutti elementi che consentirono agli imprenditori sta­ tunitensi di realizzare profitti molto più elevati che in passato; inoltre, le autorità politiche americane nel dopoguerra, d’accordo con i sindacati, imposero restrizioni all’immigrazione, limitando le quote di lavoratori in entrata; questo fattore, unito alla convinzione degli imprenditori che percependo salari più elevati i lavoratori sarebbero stati più produttivi e più fedeli, consentì anche agli operai di godere di condizioni economiche più favorevoli. Gli anni Venti furono quindi per gli Stati Uniti un periodo di espansione produttiva, di progresso tecnologico e di prosperità. Va detto però che diversi settori della popolazione americana rimasero esclusi dai benefici dell’espansione economica: gli agricoltori, per esempio, dopo la caduta della domanda dei loro beni da parte dell’Europa dovuta alla fine della guerra, non riuscirono a risollevarsi. Anche lo stato di degrado delle periferie urbane rivelava che la nuova ricchezza non si era distribuita equamente e che ampi strati della popolazione erano rimasti in una situazione di grande povertà. Durante tutto il decennio le fluttuazioni economiche non mancarono, ma furono tanto lievi e di breve durata da far ritenere che gli Stati Uniti fossero entrati definitivamente in una «nuova era» di progresso e di benessere. Questa convinzione si diffuse e si radicò talmente nella popolazione che i cit­ tadini americani cominciarono a credere che arricchirsi fosse un’attività semplice e veloce. Si verificò un boom degli investimenti immobiliari, si acquistarono terreni specialmente in Florida perché si riteneva che, grazie al suo clima e alle nuove vie di comunicazione, sarebbe diventata la meta di un continuo e crescente turismo annuale. Ma non si compravano terreni per edificare, si compravano per rivenderli, quindi con intenzioni speculative, e più si comprava più i prezzi dei lotti di terra aumentavano, fornendo profitti facili e rapidi e rafforzando la convinzione che arricchirsi fosse alla portata di tutti. Queste stesse motivazioni e questo stesso mec­ canismo caratterizzarono il boom della borsa che precedette il crollo dell’autunno del 1929. Il mercato azionario cominciò la sua lunga ascesa nel 1927: gli investitori americani avevano cominciato a comprare azioni alla borsa di New York in vista del rialzo del loro prezzo, che inevitabilmente si verificava perché altri investitori desideravano comprare con lo stesso obiettivo, quindi chi aveva comprato titoli a un certo prezzo trovava sempre degli acquirenti a cui rivenderli a prezzi più elevati. Come era avvenuto per la speculazione immobiliare, si organizzarono sistemi di finanziamento («a riporto») grazie ai quali era possibile acquistare azioni senza pa­ garne interamente il prezzo e così non solo i ricchi, ma, in tutta l’America, strati di popolazione più diversi furono contagiati da questa febbre, che dalla borsa di New York si era estesa alle borse americane più periferiche; si organizzò la possibilità di operare in borsa persino dai transatlantici. Quella della fine degli anni Venti fu una

vera e propria smania speculativa, dovuta all’euforia che si autoalimentava per il fatto che le aspettative di facili guadagni puntualmente si realizzavano. 2.

Le cause della crisi

Mentre il prezzo dei titoli continuava a crescere, nel 1928 l’economia ameri­ cana cominciò a dare i primi segni di una contenuta flessione. In alcuni settori, come l’edilizia e le automobili, già in quell’anno la produzione aveva comincia­ to a diminuire. Nei primi tre trimestri del 1929, prima della crisi della borsa, cominciò a ridursi la produzione industriale complessiva. Il motivo di questa svolta negli indicatori della produzione americana è oggetto di dibattito tra gli economisti: alcuni ritengono che la stretta monetaria attuata all’inizio del 1928 dall’autorità responsabile della politica monetaria americana (il Federai Reserve System) attraverso vendite di titoli pubblici con l’intenzione di frenare la spe­ culazione fu nociva per i settori indicati sopra, che più direttamente dipendono dalle condizioni del credito; il resto sembra vada imputato all’aumento dei tassi di interesse richiesti da chi prestava somme di denaro agli speculatori durante il boom. Altrettanto dibattuto è se la causa dell’inversione di tendenza che seguì nei comportamenti degli speculatori di borsa sia da cercarsi in questi segnali di flessione dell’attività economica o in altri fattori che ne scossero la fiducia. Sta di fatto che a partire dai primi giorni di settembre del 1929 gli operatori di Wall Street (la borsa di New York) cominciarono a ricevere ordini di vendita da parte dei possessori di attività finanziarie, determinando così un ribasso dei prezzi dei titoli e inducendo via via altri investitori a «tirarsi fuori» in tempo, prima di ulteriori ribassi. Il 24 ottobre (il «giovedì nero» della borsa di New York) questo processo a catena diede luogo alla prima di una serie di ondate di panico in cui una enorme folla di proprietari di titoli desiderosi di vendere massiccia­ mente non trovava acquirenti se non a prezzi fortemente ridotti. Altre giornate nere seguirono a raffica e più il panico si diffondeva, più si cercava di vendere i titoli a qualsiasi prezzo. In poche settimane sfumarono le fortune dei cittadini meno esperti, poi quelle dei più ricchi, infine persino quelle degli stessi gruppi finanziari che si erano mobilitati per sostenere il prezzo dei titoli; a parte qual­ che breve «rimbalzo» la borsa americana continuò a scendere per tutto il 1930, tutto il 1931, fino al giugno del 1932. Agli speculatori che vendevano titoli per necessità si aggiunsero i «ribassisti», vale a dire gli speculatori che «vendevano allo scoperto»: aspettandosi un ribasso del valore delle azioni, questi operatori prendevano a prestito i titoli, li rivendevano ai prezzi correnti, li ricompravano più tardi a prezzi più bassi per poi restituirli traendone un profitto. Le vendite massicce da parte di queste categorie di speculatori erano esse stesse causa di ulteriori cadute nel prezzo delle azioni. Vi furono anche coloro che, dopo mesi e mesi di caduta dei prezzi dei titoli, ritennero che la borsa avesse toccato il fondo, ricomprarono titoli a prezzi che a loro parere avevano raggiunto il valore minimo, ma persero tutto perché la borsa continuò a scendere. Nei lunghi mesi della crisi di borsa tutti ebbero bisogno di molta liquidità perché, dato il ribasso continuo dei prezzi dei titoli, i creditori che avevano pre­ stato denaro agli speculatori per acquistarli volevano tornarne in possesso al più presto; così i detentori di titoli chiesero alle banche il rimborso dei loro depositi

per ripagare i debiti. Purtroppo però la speculazione in borsa durante gli anni del boom del mercato azionario aveva coinvolto non soltanto i singoli risparmiatori, ma anche le imprese, le società, le stesse banche, e con il crollo dell’ottobre del 1929 molte imprese e società fallirono e anche il patrimonio in azioni delle banche si ridusse drasticamente. A causa dei fallimenti delle imprese e delle società che avevano ottenuto dalle banche somme in prestito e a causa delle perdite subite dalle banche stesse, si ridusse anche la capacità delle banche di esaudire le richieste di rimborso dei depositi. Tra i risparmiatori si diffuse l’aspettativa che, per via delle difficoltà economiche delle banche e dei suoi debitori, non vi fosse più la certezza del rimborso dei depositi. Con questa paura cominciò la corsa agli sportelli per ritirare i depositi prima che fosse troppo tardi, vale a dire prima che la banca non fosse più stata in grado di pagare. In condizioni economiche stabili una banca può fare fronte alle normali richieste dei depositanti tenendo in forma liquida soltanto una piccola parte delle sue attività, quindi nessuna banca normalmente tiene in moneta riserve sufficienti a pagare le richieste di ritiro simultaneo di tutti i depositi; in una grave situazione come quella descritta le somme che una banca era in grado di rimborsare in tempi brevi erano ancor più limitate; la pressione sulle riserve delle banche fu accentuata anche dalla richiesta da parte di banche e di privati di molti altri paesi di convertire in oro i loro dollari per paura che il dollaro potesse essere svalutato. In generale le banche con problemi di liquidità possono, per evitare il fallimento, ricorrere al prestito da parte della banca centrale, se quest’ultima è disposta a concederlo; ciò non accadde purtroppo negli anni della crisi poiché il Federai Reserve System, per motivi che vedremo in seguito, fu tendenzialmente con­ trario a concedere finanziamenti alle banche in difficoltà. Così i fallimenti bancari furono inevitabili, in particolare in un sistema basato su molte piccole banche locali indipendenti come quello americano. Dopo che si verificarono i primi fallimenti bancari, nell’ottobre del 1930, la scelta sbagliata del Federai Reserve System, unita a problemi internazionali che coinvolsero gli Stati Uniti e sui quali torneremo in seguito, determinò per due volte, in marzo e in ottobre del 1931, nuove corse agli sportelli e nuovi fallimenti fino a che nel 1933 l’economia americana già depressa fu colpita dalla più grave ondata di panico che portò il sistema bancario americano sull’orlo del crollo totale; nel marzo del 1933 le banche dell’intera nazione restarono chiuse per una settimana, non tutte riaprirono ed entro la fine dell’anno quasi 9.000 banche americane avevano sospeso le operazioni. 3.

L’entità della crisi

Se non vi è accordo sulle cause della crisi, altrettanto può dirsi dei canali attraverso i quali la crisi finanziaria trasformò l’iniziale recessione in un tracollo economico così profondo e di così lunga durata. Tuttavia il drammatico effetto sulle grandezze economiche è evidente: qui di seguito riportiamo i dati del Pnl reale (che esprime in miliardi di dollari i livelli della produzione nazionale americana nei diversi anni, tutti calcolati ai prezzi di uno stesso anno, il 1958, in modo che le variazioni che si verificano nel livello dei prezzi tra un anno e l’altro non influi­ scano sui confronti intertemporali), del tasso di disoccupazione (cioè la quota di disoccupati rispetto al totale della forza lavoro) e del livello dei prezzi (si tratta di un indice, il deflatore del Pnl, che consente di confrontare i prezzi di tutti i beni e

T ab. 20.1. L’effetto della crisi sui principali indicatori economici

1929 1930 1931 1932 1933

Pnl reale

Livello dei prezzi

Tasso di disoccupazione

203,6 183,5 169,5 144,2 141,5

100 97,4 88,5 79,4 77,7

3,2 8,9 16,3 24,1 25,2

Fonte: Rielaborazioni da Historical Statistics o f thè United States, Washington, 1975, riportato in G. Mankiw, Macroeconomia, Bologna, Zanichelli, 1998.

servizi prodotti in anni diversi ponendo pari a 100 l’indice di un anno scelto come base, in questo caso il 1929). Come si vede dai dati della tabella 20.1, tra il 1929 e il 1933 la riduzione della produzione fu drastica già in termini di medie annuali; ancora maggiore se si con­ fronta il picco dell’agosto del 1929 con il livello minimo del marzo 1933, intervallo in cui il prodotto americano diminuì del 50%. Anche il livello dei prezzi si ridusse ininterrottamente (si verificò cioè una deflazione): nello stesso arco di tempo la riduzione fu del 25%. La produzione crollò perché chiusero i battenti società finanziarie e istituti bancari, fabbriche e imprese commerciali, miniere e imprese agricole. Il fallimento di queste attività comportò ovviamente il licenziamento di coloro che vi lavoravano e ciò spiega l’impressionante aumento del tasso di disoc­ cupazione riportato nella tabella: il primo dato, quello del 1929, corrisponde a circa 1.500.000 disoccupati, quello finale, del 1933, a quasi 13.000.000: nell’ultimo anno di recessione una persona su quattro della forza lavoro americana non aveva lavoro. Una crisi di questa entità non si era mai verificata; da paese che stava realizzando il sogno dell’opulenza, gli Stati Uniti si trovarono a essere un paese di indigenti. 4.

Le risposte

Cosa fecero le autorità di politica economica inizialmente per limitare la spe­ culazione, poi per evitare la crisi di borsa, più tardi per impedire i fallimenti delle banche e in ultimo per risollevare il paese dalla depressione? Il comune giudizio è che le politiche economiche adottate dal 1929 al 1932 peggiorarono la situazione. Uno dei soggetti istituzionali che, come si è già accennato, avevano il potere di intervenire nella sfera economica era il Federai Reserve System, un organismo decentrato costituito da dodici banche distrettuali (Federai Reserve Banks) coor­ dinate dal Federai Reserve Board. Alcuni studiosi sostengono che esso ebbe una parte rilevante di responsabilità nella recessione: nel febbraio del 1929, per tentare di porre un freno alla speculazione limitò la disponibilità di credito ai clienti da parte del sistema bancario nella convinzione che, poiché la speculazione si effettua­ va con denaro preso a prestito, tale limitazione avrebbe calmato la borsa. Tuttavia questa misura, contrastata dai gruppi finanziari che avevano interesse a tenere alti i prezzi delle azioni, danneggiò la situazione di quei settori che più fortemente dipendevano dal credito bancario senza peraltro riuscire a impedire che la borsa, dopo una temporanea flessione in marzo, continuasse a salire fino all’autunno.

Nei mesi successivi al crollo all’interno del Federai Reserve System si verificò un conflitto di competenze tra la Federai Reserve Bank di New York, la più potente tra le banche distrettuali che fino a quel momento aveva sempre agito autonoma­ mente e imposto le sue decisioni alle altre banche del sistema, e il Federai Reserve Board, che non accettava più la leadership di New York ma d’altra parte non era attrezzato e forte abbastanza da intraprendere un’azione adeguata all’emergenza. Pur se prevalentemente passiva, e malgrado alcune misure espansive varate indi­ pendentemente dalla Federai Reserve Bank di New York o imposte al Board dal Congresso, la politica monetaria in quegli anni fu complessivamente restrittiva soprattutto per via dei fallimenti delle banche, che per scelta non vennero salvate durante le ondate di panico. L’altro fondamentale soggetto decisionale erano i presidenti degli Stati Uniti, in quegli anni i repubblicani Calvin Coolidge (1923-28) e Herbert Hoover (1928-32). Coolidge, nel suo ultimo messaggio al Congresso del dicembre 1928, manifestò assoluto ottimismo sulle prospettive future dell’economia americana. Hoover si trovò nella tempesta; alcuni ritengono che la sua ostilità verso la speculazione e le sue dichiarazioni allarmistiche svolsero una parte nella perdita di fiducia che sfociò nella crisi di borsa. La dottrina economica prevalente in quell’epoca era quella del laissez-faire, che professava la fiducia nella capacità del mercato di ristabilirsi da sé e il precetto di non intervenire nella sfera economica; questa impostazione teorica aveva come corollario il pareggio del bilancio pubblico, cioè l’uguaglianza tra le en­ trate e le spese dello stato. A questa dottrina si erano sempre ispirati i repubblicani, anche se negli anni della Grande depressione le difficoltà sociali erano così acute che fu difficile per Hoover attenersi sempre con coerenza a questo principio. Dopo il crollo di borsa, a metà novembre, mentre pubblicamente esprimeva continue rassicurazioni che il peggio era ormai alle spalle, Hoover decise una troppo modesta riduzione delle imposte. Poi, quando la crisi si fece più intensa e gli effetti sociali cominciarono a essere drammatici, promosse programmi di rilancio dell’economia e dell’occupazione: creò il Federai Farm Board per finanziare le aziende agricole, nominò un comitato per aiutare gli enti di assistenza (President’s Unemployment Relief Organization); nel 1931, allarmato dalla dimensione dei fallimenti bancari, creò una National Credit Corporation per effettuare prestiti alle banche in diffi­ coltà; poi, per lo stesso scopo e per aiutare le imprese private, nel gennaio 1932 fece istituire la Reconstruction Finance Corporation. Queste misure però furono insufficienti: Hoover era per principio contrario all’assistenza diretta e ai sussidi ai disoccupati, ma soprattutto tale era il timore per il deficit del bilancio che nel 1932, con il Revenue Act, impose addirittura nuove tasse e riduzioni della spesa pubblica deprimendo così ulteriormente la produzione. Dopo aver ricordato quali furono le misure di politica economica intraprese dagli organi competenti negli anni cruciali della crisi, si comprende come possano esserci, da un lato, studiosi che sostengono che fu la stretta monetaria, accentuata dai fallimenti bancari, a provocare la riduzione del reddito e dei prezzi e, dall’altro, studiosi per i quali la crisi fu causata dalla riduzione della spesa dovuta inizialmente al crollo di borsa e poi aggravata dall’aumento delle imposte. Senza dubbio si può affermare che le misure di politica monetaria e fiscale adottate in quel drammatico momento non furono d’aiuto alla ripresa. Bisognerà aspettare l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti per assistere a un’azione politica nella sfera economica energica e costruttiva.

Stupisce il fatto che le scelte delle autorità responsabili della politica economica non venissero criticate dagli economisti dell’epoca, ma fu questo ciò che accadde. L’ottimismo degli anni Venti aveva evidentemente contagiato anche i più autore­ voli studiosi: Irving Fisher, noto professore di economia all’Università di Yale, la Ivy League (associazione dei migliori studiosi del Nord-Est degli Stati Uniti), la Harvard Economie Society (prestigioso istituto extrauniversitario di economia) sostennero dapprima che non ci sarebbe stato alcun crollo, poi che la borsa si sarebbe velocemente ripresa e infine che la recessione economica sarebbe stata di breve durata. Solo un opinionista economico, Roger Babson, e la stampa finan­ ziaria, in particolare il «New York Times», nel settembre del 1929 prospettarono correttamente la fine del boom e il mercato, quella volta, credette al loro allarme e cominciò a vendere. 5.

Le conseguenze sulle altre nazioni

La Grande depressione fu un fenomeno drammatico che colpì in forma più o meno grave quasi tutti i paesi del mondo. Nella tabella 20.2 è riportata la di­ minuzione percentuale della produzione industriale in ventidue nazioni ottenuta confrontando il valore più alto che questa grandezza economica aveva raggiunto quando cominciò la recessione con il valore più basso al quale scese prima di ri­ cominciare a migliorare. A differenza del Pnl reale, che si riferisce alla produzione di tutti i beni finali, questa voce comprende soltanto la produzione industriale. Nella tabella non vengono riportati i dati di molti altri paesi colpiti dalla crisi economica, ma la portata della crisi fu mondiale. L’unico paese a non risentire degli effetti della Grande depressione fu l’Unione Sovietica, grazie alla limitatezza dei suoi rapporti economici con il resto del mondo e alla pianificazione della sua economia prevista e attuata sulla base del primo piano quinquennale relativo al periodo 1929-32. Tra gli storici e tra gli economisti non c’è unanime consenso sul fatto che la crisi del 1929 ebbe origine autonomamente negli Stati Uniti; alcuni ritengono che l’Europa avrebbe comunque sperimentato una fase di recessione alla fine degli anni Venti, anche se l’economia americana non fosse arrivata al collasso. Ciò in quanto nel decennio successivo alla fine della Prima guerra mondiale l’Europa non conobbe un periodo così prospero come quello verificatosi nell’America del Nord. Usciti indeboliti dalla Grande guerra, i paesi europei ebbero un ritmo di ripresa molto disuguale. Molti di essi per finanziare le spese per la ricostruzione e per saldare i debiti di guerra, prevalentemente agli Stati Uniti che come si è detto avevano fornito finanziamenti, ricorsero all’emissione di moneta determinando spinte inflazionistiche (cioè aumenti dei prezzi). In alcune nazioni - tra le quali la Germania, che era tenuta a pagare ai paesi vincitori enormi somme di denaro per le riparazioni della guerra - il tasso di inflazione fu straordinariamente elevato e si verificò l’iperinflazione, che fu posta sotto controllo con grandi costi e in ultimo con l’adozione di nuove monete. Finita la Grande guerra l’obiettivo prioritario divenne ripristinare il sistema del «gold standard» che era stato in vigore prima del conflitto. Il gold standard era un accordo monetario tra diversi paesi che prevedeva la convertibilità delle valute in oro a un tasso fisso (parità aurea) e di conseguenza tassi di cambio fissati in

T ab . 2 0 .2 . Produzione industriale. Variazione percentuale dal valore massimo al valore minimo

Paesi Grecia, Giappone, Nuova Zelanda Danimarca, Romania, Svezia, Regno Unito Cile, Estonia, Finlandia, Ungheria, Norvegia Belgio, Francia, Italia Austria, Paesi Bassi Canada, Cecoslovacchia, Germania Polonia, Stati Uniti

Da

A

0,1 10,1 20,1 30,1 40,1 50,1 60,1

10 20 30 40 50 60 70

Fonte: League of Nations, 1936, riportato da C.D. Romer, The Nations in Depression, in «Journal of Economie Perspectives», voi. VII, n. 2, 1993.

termini di oro tra le valute. Gli Stati Uniti ristabilirono la convertibilità del dollaro nel 1919, la Gran Bretagna riallineò la sterlina nel 1925, il governo fascista dell’I­ talia nel 1927 e in questi anni molti altri paesi tornarono al gold standard. Quello che si ristabilì non fu però esattamente il gold standard del periodo prebellico, ma una sua versione modificata: il gold exchange standard. Questo sistema prevedeva che le monete nazionali fossero convertibili non direttamente in oro, ma in valute estere convertibili in oro. Ovviamente anche in questo sistema i tassi di cambio tra le valute e con l’oro erano fissati, esattamente come nel sistema precedente alla guerra, anche se talvolta su valori diversi. Il cambio della sterlina, ad esempio, fu fissato nel 1925 al livello prebellico malgrado il fatto che fosse sopravvalutato, vale a dire che non rispecchiasse le condizioni meno floride dell’economia britannica degli anni Venti. Il cambio so­ pravvalutato comportava che i beni inglesi costassero più che altrove non tanto perché i prezzi interni fossero più elevati, ma perché la sterlina in sé costava troppo. Il fatto che i beni inglesi fossero troppo costosi ne riduceva gli acquisti sia da parte dei paesi stranieri (il che riduceva le esportazioni inglesi) sia da parte degli stessi inglesi che trovavano più conveniente acquistare beni di produzione straniera (e ciò accresceva le importazioni inglesi). Poiché le importazioni superavano le esporta­ zioni la bilancia commerciale britannica era in deficit e per pagare l’eccesso di beni stranieri acquistati all’estero l’oro defluiva dalla Gran Bretagna, prevalentemente in direzione degli Stati Uniti. Più volte si tentò di attuare una politica deflazionistica, cioè di ridurre i prezzi. Le riduzioni dei salari e le altre misure di controllo dei prezzi determinarono crisi economiche e conflitti sociali che sfociarono nel 1926 in uno sciopero generale. Tale era la situazione non soltanto della Gran Bretagna, ma di tutti quei paesi che avevano fissato il valore del cambio delle proprie valute a livelli troppo elevati: per difendere le parità, cioè per mantenere stabile il valore del cambio della propria moneta rispetto alle altre appartenenti al sistema, essi furono costretti a modificare le condizioni interne delle loro economie. Sembra peraltro che sia stata proprio una delle misure adottate per difendere le parità europee a dare il primo avvio alla febbre speculativa americana: nel 1927, allo scopo di frenare il deflusso d’oro verso gli Stati Uniti, i governatori di alcune banche centrali europee chiesero all’allora molto influente governatore della Fe­ derai Reserve Bank di New York Benjamin Strong di ridurre i tassi e aumentare i prezzi per rendere meno convenienti i beni americani e meno redditizi gli investi­ menti finanziari negli Stati Uniti. Per realizzare questi obiettivi Strong decise un

massiccio acquisto di titoli pubblici e la conseguenza fu che i venditori di titoli si trovarono a disporre di una quantità di denaro liquido che decisero di investire in azioni o di prestare agli speculatori. Secondo alcuni, tra cui il presidente Hoover, il boom della speculazione in borsa sarebbe partito proprio da questo eccesso di liquidità a disposizione del pubblico. L’andamento della borsa di New York fu nocivo per le economie europee già prima del crollo di ottobre. Nel 1928, mentre negli Stati Uniti la borsa saliva vertiginosamente, gli investitori di tutto il mondo furono attirati dai formidabili rendimenti che si ottenevano investendo a Wall Street o prestando agli speculatori. Gli investitori statunitensi ritirarono i prestiti che avevano concesso all’Europa per farne quest’uso speculativo e anche gli europei trovarono più conveniente fare altrettanto. La ridotta disponibilità di fondi in Europa ebbe inevitabilmente un impatto depressivo: nell’agosto 1929, ben prima del «giovedì nero», fallì in Ger­ mania una grande compagnia di assicurazioni e a settembre la stessa sorte toccò a una società finanziaria inglese. Dopo il crollo della borsa negli Stati Uniti si abbatterono sulle economie eu­ ropee già in difficoltà due altri eventi negativi: il primo ebbe origine dall’ulteriore ritiro dei prestiti americani, questa volta per il bisogno di liquidità dovuto alla crisi, il secondo dalla caduta della spesa americana in beni europei. Se i tassi di cambio fossero stati flessibili la svalutazione delle valute europee avrebbe fatto recuperare competitività, ridimensionando la portata della recessione nei paesi che avessero svalutato. Ma la difesa del cambio, considerata un imperativo dal quale dipendeva il prestigio dei governi, e il timore di dover conseguentemente abbandonare il gold exchange standard, indussero misure monetarie restrittive che depressero la produzione, i prezzi e l’occupazione in tutti i paesi che aderivano al sistema. Sembra sia proprio questa la causa principale della propagazione della crisi partita dagli Stati Uniti: l’imperativo di mantenere le parità dei tassi di cambio tra le valute per poter restare nel gold exchange standard. È stato notato che dalla Grande crisi si ripresero prima i paesi che abbandonarono per primi il gold exchange standard. Ma un altro canale attraverso il quale la crisi americana si trasmise al resto del mondo furono gli effetti a catena su scala internazionale delle crisi finanzia­ rie. L’anno delle crisi bancarie e valutarie in Europa fu il 1931. Dopo l’ondata di fallimenti bancari americani di marzo la Credit Anstalt, la maggiore banca privata austriaca, fallì in maggio dando all’Europa un segnale inequivocabile della gravi­ tà della depressione in corso; seguì una fuga dal marco e dopo due mesi la crisi della Reichsbank tedesca e l’uscita della Germania dal gold exchange standard-, in settembre, a causa della pressione sulla sterlina, la Gran Bretagna abbandonò la parità aurea. Gli effetti della svalutazione della sterlina rimbalzarono negli Stati Uniti aggravando ulteriormente la situazione: si temette l’uscita del dollaro dal sistema, si determinò una nuova corsa agli sportelli e la crisi bancaria di ottobre. Le massicce richieste di conversione dei dollari in oro per paura della svalutazione della moneta americana indussero il Federai Reserve System ad attuare ancora una volta, malgrado si fosse nel cuore della più grave crisi mai sperimentata, una manovra monetaria restrittiva (aumentò il tasso di sconto per limitare il deflusso di oro dagli Stati Uniti). Negli anni della Grande depressione anche in Europa le politiche adottate furono per lo più controproducenti sia, come si è detto, perché condizionate dall’o­

biettivo di difendere a ogni costo le parità, sia perché anche in Europa vigevano ancora il timore dell’inflazione e il dogma del pareggio del bilancio. Dopo che la Gran Bretagna abbandonò il gold exchange standard, a grappolo venticinque altri paesi la seguirono formando il «blocco della sterlina». In seguito molti altri paesi svalutarono tanto che nel 1933, quando anche gli Stati Uniti uscirono dal sistema, i paesi che ancora aderivano al «blocco dell’oro» erano soltanto sei, e tra questi l’Italia. 6.

La crisi e l’Italia

L’Italia era rientrata nel gold exchange standard nel dicembre del 1927 dopo una costosa politica deflazionistica volta a stabilizzare la lira per riportarla al livello al quale Mussolini l’aveva trovata nel 1922 quando aveva preso il potere. A partire dal 1926 l’imperativo del regime fu raggiungere «quota novanta», vale a dire por­ tare il cambio della valuta italiana a novanta lire per una sterlina (si ricordi che nel gold exchange standard solo alcune valute erano convertibili in oro e tra queste la sterlina). Come per la Gran Bretagna e per tutte quelle nazioni che avevano fissato un cambio sopravvalutato, anche per l’Italia la difesa della parità era stata fonte di pesanti sacrifici: riduzioni dei salari, controlli dei prezzi, politiche monetarie e fiscali restrittive avevano determinato una diminuzione della spesa, della produzione e dell’occupazione. La crisi del 1929 trovò quindi l’Italia in una situazione già molto difficile e durante i tre anni più duri tutte le imprese, e maggiormente quelle di dimensioni minori, attraversarono gravi difficoltà, la disoccupazione aumentò, il reddito si ridusse, i consumi diminuirono. Con il perdurare della crisi le difficoltà si trasmisero dalle imprese, incapaci di pagare i debiti alle banche che le avevano finanziate, al sistema bancario. Quelle italiane erano «banche miste», vale a dire banche che, oltre a svolgere le funzioni del credito ordinario, concedevano prestiti a lungo termine, possedevano nel loro patrimonio partecipazioni in imprese industriali ed erano a loro volta possedute da società. Tuttavia, nonostante i problemi di liquidità in cui incorse il sistema bancario italiano, nel nostro paese non si verificò mai nessuna corsa al ritiro dei depositi e nessun fallimento bancario. In Italia le banche non chiusero perché non fu permesso loro di fallire: i cosiddetti «salvataggi bancari» non erano nuovi per il nostro paese, ve ne erano già stati nell’immediato dopoguerra. A partire dal 1931, con l’inasprirsi della crisi internazionale, vennero salvate dal fallimento molte banche miste, le più importanti delle quali furono il Credito italiano, la Banca commerciale italiana e il Banco di Roma. Le operazioni di salvataggio non scatenarono il panico come accadde in Austria e in Germania perché la dittatura consentì di condurle in assoluta segretezza, non trapelò nessuna notizia sui problemi del sistema bancario e né il parlamento né il pubblico ne vennero a conoscenza. Il salvataggio consistette nella trasformazione, con l’aiuto dello stato, delle «banche miste» in banche ordinarie e nella cessione dei loro titoli e dei crediti difficilmente esigibili dapprima a società finanziarie appositamente create e sostenute da finan­ ziamenti statali, poi direttamente allo stato. Per sostituirsi alle banche miste nella funzione di concedere credito a lungo termine alle imprese il regime fondò due enti pubblici: Limi (Istituto mobiliare italiano) nel 1931 e poi, nel 1933, l’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), che fu creato come un’istituzione temporanea ma che è rimasto in funzione fino ai nostri giorni.

I salvataggi delle banche e le azioni intraprese per sostenere l’industria non furono i soli interventi nell’economia italiana attuati dal regime fascista; essi furono parte di un piano generale che comprendeva anche opere pubbliche, spe­ cialmente nell’edilizia, lavori di bonifica e, dal 1936, l’autarchia, vale a dire un protezionismo spinto fino all’annullamento degli scambi commerciali con l’estero. La pianificazione dell’economia italiana che si realizzò durante il fascismo fu una conseguenza del fatto che sotto la dittatura di Mussolini le decisioni di politica economica erano centralizzate e la crisi del 1929 costituì un’occasione ulteriore per rafforzare l’ingerenza del regime nell’economia e il suo controllo sulla struttura industriale italiana. 7.

Il New Deal

Negli Stati Uniti la ripresa cominciò nel 1933. Alle elezioni presidenziali Hoover fu sconfitto e fu eletto il democratico Franklin D. Roosevelt. Nonostante il fatto sorprendente che nella campagna elettorale entrambi i candidati si fossero impegnati a ridurre le spese pubbliche (tale era la forza del dogma del pareggio di bilancio), già dai primi giorni (i «cento giorni» rimasti famosi) Roosevelt prese molteplici ed energici provvedimenti per attuare un programma di ripresa eco­ nomica che chiamò New Deal. Il nuovo presidente si insediò il 4 marzo 1933, mentre in America si stava verificando la più tragica e paralizzante crisi bancaria e valutaria. Roosevelt impose la chiusura delle banche di tutta la nazione per una settimana, sospese i pagamenti in oro, obbligò chiunque possedesse oro a depo­ sitare o a cedere in cambio di dollari alle banche della Federai Reserve tutte le monete, i lingotti e anche i certificati d’oro, ridusse il contenuto aureo del dollaro e abbandonò il gold exchange standard lasciando fluttuare il valore della moneta americana. Nel gennaio del 1934 stabilì una nuova, più bassa, parità aurea: essendo il dollaro svalutato rispetto all’oro, le riserve del Tesoro americano aumentarono di valore in termini di dollari, così, senza contravvenire all’obbligo di tenere in oro una certa percentuale della moneta in circolazione, si emisero titoli per un valore pari aU’incremento del prezzo in dollari dell’oro, titoli che vennero depositati nelle banche della Federai Reserve in cambio di un credito; l’utilizzo di tale credito per spese pubbliche accrebbe la quantità di moneta in circolazione. Queste manovre monetarie espansive attuate dopo anni di politiche deflazionistiche cominciarono a dare un po’ di respiro all’economia americana, ma il piano di ripresa di Roose­ velt non si limitò alla politica monetaria. L’intervento di Roosevelt in economia fu decisamente composito: promosse un programma di assistenza per alleviare la miseria; istituì l’Agricultural Adjustment Administration attraverso la quale controllò la produzione agricola acquistando le eccedenze di produzione per di­ stribuirle ai bisognosi e consentire un aumento immediato dei prezzi dei prodotti agricoli; sostenne le industrie utilizzando la Reconstruction Finance Corporation istituita dal presidente Hoover; finanziò lavori pubblici; regolamentò le attività delle banche aumentando le riserve obbligatorie, vietando gli investimenti in proprio e istituendo la Federai Deposit Insurance Corporation per garantire i depositi bancari; conferì più poteri al Federai Reserve Board per conseguire l’unità d’azione delle dodici banche della Federai Reserve; impose controlli governativi sugli istituti finanziari e autorizzò a operare soltanto i più solidi; con il Security

Act proibì le operazioni di borsa più azzardate esigendo informazioni sulle nuove emissioni di titoli, eliminando le operazioni «allo scoperto», regolamentando gli acquisti di azioni finanziati «a riporto», istituendo la Security and Exchange Commission con funzioni di sorveglianza delle borse. Roosevelt si spinse fino al punto da istituire, nel giugno del 1933, una National Recovery Administration intesa a fare rispettare da parte delle imprese un «codice di concorrenza leale» che prevedeva tra l’altro un minimo salariale e la settimana lavorativa di quaranta ore. Quella attuata da Roosevelt rappresentò una svolta drastica nel ruolo dello stato nella vita economica. Venne chiamato «capitalismo democratico», un capitalismo cioè che prevedeva la regolamentazione dell’attività economica e la mediazione da parte dello stato tra le parti sociali. Senza mutare l’assetto istituzionale del paese, per la prima volta Roosevelt prese in tempo di pace provvedimenti che erano tipici delle economie in guerra, elaborò un «piano» economico e mobilitò le risorse della nazio­ ne per sconfiggere il nuovo nemico: la crisi economica. Roosevelt si ispirò realmente alle scelte di politica economica effettuate durante la Grande guerra, mentre altri insegnamenti li trasse dalle economie pianificate; in effetti, come si è visto, l’Unione Sovietica era il solo paese non toccato dalla Grande depressione e anche l’Italia, che si era salvata dalle crisi bancarie, stava attuando una programmazione dell’economia anche prima che Mussolini varasse il programma di autarchia del 1936. La depressione durò in tutto circa dieci anni: solo alla fine degli anni Trenta, probabilmente grazie anche alla preparazione della Seconda guerra mondiale, gli indicatori economici tornarono ai livelli precedenti alla crisi. 8.

Nasce la macroeconomia

Oltre a una svolta nell’economia mondiale e nella politica economica, la Grande depressione segnò un cambiamento decisivo anche nella teoria economica. Dopo la crisi del 1929 gli economisti di tutto il mondo si dedicarono allo studio del ciclo economico, delle sue cause, della durata delle sue fasi, delle possibili misure per sta­ bilizzare le oscillazioni del reddito. Un economista inglese, John Maynard Keynes, nel 1936 pubblicò la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, un libro che modificò le stesse categorie teoriche degli economisti. Fu una vera rivoluzione, sia sul piano metodologico, sia nell’interpretazione del funzionamento delle economie capitalistiche. Per la teoria economica allora dominante, che come si è detto prescriveva il laissez-faire, la disoccupazione rappresentava un fenomeno di squilibrio temporaneo che sarebbe scomparso se si fossero lasciate agire le forze spontanee del mercato. Fortemente critico nei confronti di questa dottrina, Keynes sostenne invece che il sistema economico lasciato a sé stesso può non essere in grado di raggiungere la piena occupazione (cioè di procurare un lavoro per tutti) e la crisi del 1929 lo dimostrava. Che cosa era successo infatti ai sistemi economici durante la Grande depressione? I beni prodotti non avevano trovato acquirenti, le imprese avevano ridotto la produzione e licenziato i lavoratori. Una volta perso il lavoro e non percependo più un reddito i disoccupati necessariamente avevano limitato gli acquisti di beni, il che aveva creato ulteriori difficoltà alle imprese produttrici. Keynes individuò questo circolo vizioso; attribuì un’importanza fon­ damentale alle decisioni di spesa dei consumatori, degli imprenditori e del governo (cioè alla domanda aggregata) e mostrò che in certe circostanze il permanere di un

livello non sufficientemente elevato di domanda aggregata può rendere duraturo il fenomeno della disoccupazione. Con il suo libro Keynes dette un fondamento teorico alla crucialità del ruolo dello stato nell’economia: egli riteneva infatti che con adeguate misure di politica economica il governo potesse (e dovesse) rompere il circolo vizioso e portare la domanda aggregata al livello necessario per accrescere la produzione e assorbire la disoccupazione. Con queste idee Keynes costruì un apparato concettuale alternativo a quello allora dominante, fondando un nuovo approccio teorico: la macroeconomia. 9.

Conclusioni

La crisi del 1929 inferse un colpo molto duro, anche se non definitivo, alla fede nel laissez-faire. Il tipo di capitalismo che emerse dalla ripresa non era più quello che era stato fino agli anni Venti perché il ruolo dello stato nella vita economica era diventato più attivo e più responsabile. Anche la percezione delle forze eco­ nomiche da parte della gente comune ne uscì profondamente modificata. Negli anni Venti i cittadini di tutto il mondo o avevano speculato in borsa, o tenevano i loro risparmi depositati in banca, o ricevevano un reddito lavorando in proprio o presso qualche impresa. Con la Grande depressione ognuno di essi capì che cos’è una crisi finanziaria, valutaria ed economica perdendo i risparmi investiti in bor­ sa, o correndo a recuperare quelli depositati in una banca che stava per fallire, o vedendo scendere i prezzi dei propri prodotti, o perdendo il posto di lavoro nelle imprese che chiudevano i battenti. Non solo gli esperti di problemi economici e finanziari, ma anche la gente comune di ogni paese si rese conto che l’economia ha un andamento ciclico con fasi depressive che possono durare anche molto a lungo e i cui effetti negativi ricadono su tutti. Dopo quella crisi, che sembrava senza confini nello spazio e nel tempo, anche il modo di pensare diffuso subì una svolta, si divenne più attenti a fenomeni che prima apparivano distanti e innocui per la maggior parte dei cittadini e si divenne infine più coinvolti nel giudicare le azioni di politica economica adottate dai governi. Percorso di autoverifica

1. 2. 3. 4. 5.

Quali furono le principali cause della crisi economica? Che cos’è il Federai Reserve System e quali compiti svolge? Quale fu l’unico paese a non risentire degli effetti della Grande crisi e perché? Che cos’è il gold standard? Quali misure e politiche intraprese il presidente americano Roosevelt per risollevare il paese dalla crisi? 6. In che modo l’economista John Maynard Keynes influenzò la teoria economica?

Per saperne di più

B. S. Bernanke, Essays on thè Great Depression, Princeton N.J., Princeton University Press, 2000 .

M. Friedman e A.J. Schwartz, Il dollaro: una storia monetaria degli Stati Uniti 1867-1960 (1971), Torino, Utet, 1979. J.K. Galbraith, Il grande crollo (1954), Milano, Bur, 2009. C. P. Kindleberger, The World in Depression 1929-1939, Berkeley, University of California Press, 1973. P. Temin, Lessons from thè Great Depression, Cambridge, Mass.-London, Mit Press, 1989. G. Tomolo (a cura di), Industria e banca nella grande crisi 1929-1934, Milano, Etas, 1978.

1936. La guerra civile spagnola e lo scontro tra fascismo e antifascismo di Alfonso Botti

La guerra civile che ebbe inizio nel luglio del 1936 e che insanguinò la Spagna per quasi tre anni fu la conseguenza di un colpo di stato militare che riuscì solo in parte per le resistenze incontrate in circa la metà del territorio naziona­ le. Scoppiata per motivi prossimi e remoti che affondano le radici nella storia del paese iberico, essa si internazionalizzò immediatamente per gli aiuti che i ribelli ottennero dapprima da Mussolini e Hitler, poi dall’Llnione Sovietica e dai volontari antifascisti accorsi da tutto il mondo per difendere la repubblica. Per tre anni il paese iberico fu teatro di uno scontro tra fascismo e antifascismo che allora apparve decisivo, ma che in realtà ebbe soluzione solo alcuni anni dopo con la vittoria degli Alleati nella Seconda guerra mondiale.

I generali che provocarono l’alzamiento del 17-18 luglio 1936 non pensa­ vano che esso si sarebbe trasformato in una lunga e sanguinosa guerra civile. Il loro piano era quello di agire con la massima tempestività e violenza proprio per stroncare sul nascere le possibilità di risposta e reazione popolare. Tra di loro vi erano monarchici e repubblicani, privi entrambi di un progetto condiviso su che cosa fare dopo. Li accomunava la volontà di mettere fine ai conflitti sociali, sventare la minaccia di un progressivo scivolamento del paese verso il comuni­ Smo (spauracchio con il quale erano avvezzi indicare qualunque cambiamento in senso democratico o a favore dei lavoratori), difendere l’unità territoriale che consideravano minacciata dalle spinte autonomiste di catalani e baschi, ristabilire, in definitiva, l’ordine e con esso l’assetto sociale precedente al 1931. Puntavano a instaurare una dittatura militare come quella che il generale Miguel Primo de Rivera aveva imposto al paese nel 1923. La Spagna del 1936, però, non era più quella dell’inizio degli anni Venti e, dopo il consolidamento del fascismo in Italia e l’avvento al potere di Hitler, neppure l’Europa era più la stessa. Con lo scoppio della guerra civile, così, la Spagna divenne la frontiera più avanzata dello scontro tra fascismo e antifascismo.

1.

La dittatura di Primo de Rivera

Anche nel 1923, di fronte a un sistema politico mostratosi incapace di rinnovarsi e integrare le forze politiche d’orientamento democratico, alle richieste d’autonomia politica-amministrativa provenienti dalla Catalogna e dai Paesi Baschi, ai rovesci nella guerra coloniale in Marocco (disastroso era stato l’esito della battaglia di Annual nel 1921), agli scioperi e alle agitazioni sociali prodottesi sull’onda della rivoluzione bolscevica, erano stati i militari a prendere in mano le redini del paese. Con l’avallo del sovrano, che in questo modo aveva anch’egli tradito la costituzione del 1876, Primo de Rivera, dopo essersi impadronito del potere senza incontrare resistenze, aveva imposto un direttorio militare salutato dagli ambienti conservatori ed ecclesiastici come il provvidenziale avvento di quel «chirurgo di ferro» da tempo vagheggiato come il solo in grado di sopperire alle insufficienze della politica, di ripristinare l’ordine e rigenerare il paese. Si era trattato di una soluzione consueta per la storia del paese, dove frequente era stato l’intervento dei militari nella vita pubblica. Nata come militare, tradizionale e transitoria, la dittatura, che aveva be­ neficiato della favorevole congiuntura economica internazionale, non era rimasta immune alle suggestioni provenienti dal fascismo italiano, al quale si era progres­ sivamente ispirata studiandone il modello corporativo, introducendo con l’Unión patriótica (Up) il partito unico, avviando una politica tesa al coinvolgimento del mondo del lavoro, tentando di istituzionalizzarsi poi come regime con la convo­ cazione di un’assemblea nazionale con funzione costituente. Tuttavia, il progetto era rimasto incompiuto e il proposito era fallito per la mancanza di un soggetto politico su cui far leva (l’Up non aveva basi di massa), l’opposizione del mondo studentesco e intellettuale, la progressiva disaffezione degli ambienti ecclesiastici e degli stessi militari. Così Primo de Rivera era stato costretto a rassegnare, alla fine del gennaio 1930, le proprie dimissioni nelle mani del re, che aveva affidato a un altro militare, Dàmaso Berenguer, il compito di transitare gradualmente il paese verso la normalità costituzionale. Incapace di far fronte alla difficile situazione, dato che nel frattempo i partiti repubblicani avevano trovato un accordo con il patto di San Sebàstian dell’agosto 1930 per instaurare la repubblica, Berenguer si era dimesso e il re l’aveva sostituito con l’ammiraglio Aznar che convocò elezioni amministrative. 2.

L’avvento della repubblica

Il primo turno delle elezioni amministrative, che erano state sospese assieme a quelle politiche per tutta la durata della dittatura, si tenne il 12 aprile 1931. Dalle urne uscì una maggioranza repubblicana. Senza abdicare, Alfonso XIII abbandonò il paese e il 14 aprile venne proclamata la repubblica, alla quale seguì la formazione di un governo provvisorio guidato dal cattolico moderato Niceto Alcalà-Zamora che indisse elezioni costituenti per il 28 giugno, dalle quali uscì una solida maggioranza repubblicano-socialista. La nuova costituzione, approvata dalle Cortes il 9 dicembre 1931, e le leggi attuative che ne derivarono produssero una rottura nella storia del paese iberico e vi impressero una svolta profonda. Se per la storia europea la cesura è certamente rappresentata dal 1936, per la storia spagnola le sue premesse sono da rinvenire senza dubbio nel 1931. Non solo la Spagna cessò allora di essere una

monarchia, considerata come forma naturale di governo per il paese, ma spezzò il tradizionale centralismo consentendo l’autogoverno regionale. Stato confessionale praticamente senza soluzione di continuità dai tempi dell’Antico regime, la Spagna introdusse una drastica separazione tra lo stato e la chiesa, costituzionalizzando la soppressione dalla Compagnia di Gesù. A temperare gli impeti laicizzatoti delle Cortes fu Manuel Azana, che era riuscito a limitare ai gesuiti la soppressione delle congregazioni religiose a seguito di un discorso parlamentare nel quale, con poca accortezza tattica, ma volutamente frainteso dagli avversari, aveva annunciato che la Spagna non era più un paese cattolico. Nel bene e nel male fu Azana la figura centrale della politica spagnola durante la Seconda repubblica e la guerra civile. In­ tellettuale raffinato, capo del più consistente tra i partiti repubblicani, Azana guidò la coalizione repubblicano-socialista che governò il paese fino al novembre del 1933. Un biennio nel quale mise personalmente mano alla riforma dell’esercito, favorendo il prepensionamento degli alti gradi e la promozione di quelli intermedi con il pro­ posito di democratizzarlo, mentre veniva avviata la riforma agraria (rallentata dalla mancanza di affidabili mappe catastali) e il decentramento amministrativo con l’avvio dell’autogoverno in Catalogna. Un progetto ambizioso di riforme radicali dall’alto, ma poco attento ai reali rapporti di forza nel paese e alla loro ridislocazione, che, mentre dovette quotidianamente fare i conti con le insoddisfazioni e impazienze dei settori sociali e delle forze politiche alla sua sinistra (anarchici e comunisti), sottova­ lutò le capacità di riorganizzazione delle destre, finendo per rinsaldare l’alleanza tra benestanti, latifondisti, ambienti militari reazionari e cattolici profondamente turbati dalle politiche laicizzatrici del governo. Questi ultimi, organizzatisi con l’appoggio della chiesa nella Ceda (Confederazione spagnola delle destre autonome), un partito confessionale e conservatore guidato da José Maria Gil-Robles, uscirono vincitori delle elezioni del novembre del 1933 assieme al Partito radicale di Alejandro Lerroux. Le sinistre battute elettoralmente non si rassegnarono e anziché interrogarsi sui motivi della sconfitta coltivarono, specie nei settori più radicali, propositi di rivincita che andavano ben al di là di quanto consentito dalla costituzione. Nel biennio che seguì, pertanto, si confrontarono aspramente, da una parte, forze politiche legittimate dal risultato elettorale e desiderose di ridimensionare la portata delle riforme del precedente biennio, quando non di cancellarle e di procedere a una riforma costituzionale in chiave restauratrice, dall’altra movimenti sociali e partiti che leggevano il successo delle destre spagnole come effetto dell’on­ da lunga del fascismo e del nazismo in Europa. Il culmine fu raggiunto quando, in seguito all’ingresso nel governo, ai primi di ottobre del 1934, di Gii Robles, a torto identificato dalle sinistre come propugnatore di un progetto di natura fascista (ma senza che questi facesse nulla per smentirlo), scoppiò una rivoluzione che, pensata per coinvolgere tutto il territorio nazionale, ebbe un’effimera riuscita solo nella regione mineraria delle Asturie. Nel determinarla non era stato ininfluente il quadro internazionale che, dopo la fascistizzazione dell’Italia, aveva visto l’avvento al potere di Dollfuss in Austria, di Hitler in Germania e, con il Concordato tra il Reich e la Santa Sede, l’instaurarsi di un’apparente pacifica convivenza tra le chiese e il regime nazionalsocialista. Rapidamente e brutalmente repressa, la rivolta delle Asturie non diede avvio a un ripensamento né tra le destre, la cui politica sorda al miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici ne era stata la causa princi­ pale, né nella sinistra estrema, che continuò a propugnare la rivoluzione sociale o politica come unica soluzione. Diviso al proprio interno, incapace di assestarsi su

una politica moderata e di dare risposta almeno ad alcuni dei gravi squilibri sociali e territoriali, colpito dagli scandali che travolsero l’anziano Lerroux, il governo sopravvisse poco più di un anno alla rivoluzione delle Asturie. Alle sue dimissioni, il presidente della repubblica Alcalà Zamora convocò elezioni politiche generali per il 16 febbraio 1936. In esse si confrontarono la coalizione di sinistra sotto le insegne del Fronte popolare (Fp), la coalizione di destra Fronte nazionale e al centro il Partito Nazionalista Basco (Pnv), che nonostante le forti pressioni vati­ cane aveva rifiutato di aderire al cartello delle destre. Il Fp era frutto della nuova politica varata dall’Internazionale comunista nel suo VII congresso dell’estate del 1935, durante la quale era stato approvato il rapporto del dirigente bulgaro Dimitrov sull’interesse per i partiti comunisti di costruire ampie alleanze con i partiti socialisti e democratici «borghesi» a difesa dei sistemi costituzionali democratici per sbarrare la strada al fascismo. Essa, così, trovava la sua prima attuazione in Spagna dove il Partito comunista (Pce) era una forza dal peso trascurabile, mentre era la sinistra socialista a essere bolscevizzata. Tant’è che era stato Azana a proporne la formazione. Tuttavia si trattava di un mero cartello elettorale dal bassissimo pro­ filo propositivo, fatta eccezione per il primo punto del programma che prevedeva l’amnistia per i detenuti della rivolta delle Asturie. Proprio il Fp uscì vincitore dalle elezioni e, per quanto fosse accusato nei ballottaggi del secondo turno di alcune irregolarità, non persistono dubbi sulla regolarità della sua vittoria. Qualche mese dopo il Fp avrebbe sperimentato il suc­ cesso nelle elezioni francesi portando al governo il socialista Leon Blum. Il vento della reazione che aveva da tempo preso a spazzare l’Europa sembrò allora trovare dei baluardi di resistenza. Ne fu ben consapevole Mussolini, la cui preoccupazione principale fu da quel momento evitare che la minaccia francese dalle Alpi fosse rafforzata da un governo amico al di là dei Pirenei. Ma si trattò di una resistenza destinata a infrangersi nel volgere di pochi anni. I mesi che seguirono la vittoria del Fp in Spagna, fino al luglio del 1936, segnarono il progressivo logoramento della ancor fragile democrazia spagnola. Diversi fattori contribuirono a questa evoluzione: l’atteggiamento delle destre che non accettarono il risultato elettorale e che in alcuni suoi settori militari e politici avviarono le trame che portarono poi all’alzamiento\ i principali partiti di sinistra che preferirono appoggiare dall’ester­ no un governo scarsamente rappresentativo; il massimalismo rivoluzionario della sinistra socialista che assieme al Pce, al piccolo raggruppamento trotzkista e al forte movimento anarchico puntarono a far cadere il governo per dare avvio a un vero processo rivoluzionario; la scarsa consistenza sul piano numerico e gli errori delle forze politiche repubblicane moderate, il cui ancoraggio alla democrazia si mostrò assai fragile. Se ne ebbe conferma con le dimissioni a cui fu costretto Alcalà Zamora, sostituito ai vertici dello stato da Azana. Furono dunque questi i principali motivi che, facendo traboccare il vaso, portarono alla sollevazione militare e al conseguente drammatico conflitto civile. 3.

La guerra civile

L’alzamiento non ebbe l’immediato successo che i militari ribelli avevano auspi­ cato. Rispetto agli anni Venti la Spagna era un paese profondamente trasformato, in cui la socializzazione della politica aveva compiuto passi da gigante e le masse

avevano fatto irruzione negli spazi pubblici e nella storia. La sollevazione militare riuscì, pertanto, solo in circa metà del paese con l’aiuto delle milizie carliste (in Navarra) e della Falange, provocando la risposta della metà rimasta fedele alla re­ pubblica e alla costituzione. Di qui l’avvio della guerra civile. Varie le cause remote (sperequazioni sociali, squilibri regionali, latifondismo diffuso, nazionalizzazione incompiuta e crescita di nazionalismi centrifughi, radicamento di una mentalità integralista nel mondo ecclesiastico, debolezza della classe media, scarsa abitudine alla democrazia, ecc.), esasperate dal clima internazionale (ascesa al potere delle forze fasciste, paura del bolscevismo, appeasement britannico, ecc.). Scoppiato per cause eminentemente interne, il conflitto spagnolo si internazio­ nalizzò subito per il coinvolgimento di altri protagonisti e per la posta che pareva essere in gioco dato il più ampio contesto europeo. Governo e ribelli chiesero aiuti all’esterno quasi contemporaneamente. Il primo alla Francia, dove l’opposizione al governo Blum esercitò forti pressioni affinché il paese rimanesse neutrale, pres­ sioni alle quali si aggiunsero quelle del governo conservatore britannico. I ribelli a Berlino e Roma, ottenendo l’invio di aerei per il trasbordo delle truppe dall’Africa all’Andalusia, rispettivamente il 25 e 27 luglio. Stalin si risolse a inviare aiuti il 14 settembre e il 18 l’Internazionale comunista avviò formalmente il reclutamento di volontari che avrebbero poi formato le Brigate Internazionali. Nel frattempo, su iniziativa francese, il 1° agosto si era costituito il Comitato del non intervento che alla fine del mese già raccoglieva tutti gli stati europei, oltre all’Urss: un simulacro che, mentre rallentò e poi impedì l’afflusso di aiuti alla repubblica, non ebbe il minimo effetto su quelli nazifascisti a Franco. Gli autori più affidabili stimano in circa 2.000 unità il personale miliare inviato dall’Unione Sovietica, in 33.000 circa i volontari non spagnoli che combatterono nelle Brigate internazionali in difesa della repubblica, in circa 80.000 gli uomini inviati da Mussolini (includendovi esercito e milizie del Corpo truppe volontarie, Aviazione legionaria e personale ausiliario) e tra i 15.000 e i 19.000 gli uomini delle legione Condor mandati da Flitler. Per non dire dell’ingente materiale bellico. Per circa tre anni la Spagna fu il campo di battaglia in cui non solo si decise il destino del paese iberico, ma in cui quello dell’Europa sembrò essere la posta in gioco. Di qui il coinvolgimento delle migliaia di antifascisti europei e di democratici di tutto il mondo che in Spagna andarono a combattere volontari con il proposito di imprimere una svolta alla china in cui era precipitato il vecchio continente. L’affermazione di Carlo Rosselli «oggi in Spagna, domani in Italia» è quella che meglio riassunse le motivazioni dell’impegno dell’antifascismo italiano di allora. All’indomani della sollevazione militare, e come risposta a essa, in alcune zone del paese (Catalogna, Aragona, Levante e Madrid) si sviluppò un processo rivoluzionario lungo tre direttrici: violenze anticlericali, occupazione delle terre e autogestione delle fabbriche. La chiesa, che non era coinvolta nella cospirazione, in seguito alle violenze di cui fu oggetto (circa 7.000 ecclesiastici furono uccisi durante la guerra), si schierò apertamente con i rivoltosi, interpretando il conflitto come una crociata e offrendo ai franchisti il bagaglio ideologico che, dopo aver convissuto conflittualmente per qualche tempo con l’opzione fascista rappresentata dalla Falange, finì per imporsi. Il governo repubblicano, affidato il 19 luglio a José Girai e ormai debole, si limitò a fare da osservatore durante la rivoluzione, non intervenne a impedire e poi stigmatizzare le violenze anticlericali. Recuperò autorità nella fase del governo di Largo Caballero (4 settembre 1936-17 maggio 1937) che,

tra l’altro, convinse anche alcuni esponenti anarchici a entrare nel governo. Ma mentre nel campo franchista la tendenza fu all’accentramento (dal 1° ottobre 1936 Franco fu capo politico e militare dei ribelli) e all’unificazione delle forze sul campo (un decreto del 19 aprile 1937 accorpò falangisti e carlisti in un unico partito), nel campo repubblicano continuarono a esistere due linee che arrivarono allo scontro armato (una sorta di guerra civile nella guerra civile) ai primi di maggio del 1937 a Barcellona. Comunisti, socialisti, repubblicani e nazionalisti baschi sostenevano che occorresse sconfiggere il fascismo e cioè vincere anzitutto la guerra, rinviando le riforme sociali all’indomani; anarchici e trotskisti del Partido obrero de unificación marxista (Poum) erano convinti che solo dal superamento del capitalismo potesse giungere la sconfitta del fascismo e quindi sostenevano la simultaneità della guerra con il processo rivoluzionario. I primi non esitarono a utilizzare tutti i metodi per avere ragione dei sostenitori della linea rivoluzionaria, e, approfittando dei fatti barcellonesi (secondo alcuni provocati ad arte dai comunisti proprio per sbaraz­ zarsi delle componenti più radicali), costrinsero Largo Caballero alle dimissioni. Il 17 maggio 1937 venne nominato al suo posto Juan Negrin, socialista gradito ai comunisti. Da considerare a parte il caso dei Paesi Baschi, dove il Pnv, avendo ottenuto dalla repubblica l’autonomia dei territori baschi, formò il 7 ottobre 1936 un governo di Fronte popolare e in seguito un proprio esercito che si batté contro le truppe franchiste fino alla caduta di Bilbao nell’estate del 1937. La peculiarità della situa­ zione basca sta nel fatto che, essendo il Pnv un partito d’ispirazione cattolica, la sua scelta invalidava lo schema interpretativo della crociata con cui l’istituzione ec­ clesiastica aveva preso a interpretare il conflitto. Di qui le pressioni dell’episcopato spagnolo e vaticane affinché i cattolici nazionalisti baschi rinunciassero all’alleanza con i comunisti, considerata innaturale e per questo condannata. Durante la guerra il Pce vide crescere enormemente i consensi: per il respiro della propria linea politica, per gli aiuti sovietici dei quali fu diretto intermediario e per i metodi usati per eliminare, anche fisicamente, anarchici e militanti del Poum. Al 30 aprile 1938 e al varo del suo secondo governo risalgono i 13 punti programma­ tici nei quali Negrin fissava gli obiettivi per i quali la guerra proseguiva e sui quali intavolare un eventuale negoziato con il nemico. Ma Franco respinse l’offerta e la guerra proseguì con la completa occupazione della Catalogna il 10 febbraio 1939. Prossima a cadere, il 5 marzo 1939 Madrid conobbe un colpo di mano di segno anticomunista del colonnello Segismundo Casado che, già in contatto con agenti franchisti, formò un Consiglio nazionale di difesa al quale aderirono socialisti ed esponenti anarchici nell’estremo tentativo di ottenere dalle truppe di Franco con­ dizioni di resa meno svantaggiose. La capitale fu teatro di scontri tra casadisti e comunisti che si protrassero fino al 12 marzo, quando i primi ebbero il sopravvento. Respinta ogni possibilità d’intesa sulle condizioni, le truppe franchiste misero fine alla guerra civile entrando nella capitale il 29 marzo. Il 1° aprile Franco emanava il bollettino della vittoria. Sull’esito del conflitto influirono in modo diverso vari fattori: i tempi con i quali giunsero gli aiuti (fondamentali quelli che Franco ricevette per trasportare le proprie truppe marocchine in Andalusia nell’estate del 1936); le divisioni all’interno del Fp a cui corrispose la progressiva unificazione militare e politica nel campo avverso; la decisione delle potenze democratiche di non esporsi e quindi di non aiutare la repubblica spagnola; la capacità di persuasione dell’interpretazione ec­

clesiastica e l’efficacia propagandistica della difesa dell’occidente cristiano contro la decrescente presa (per via dell’intervento sovietico e dell’accresciuto peso dei comunisti) dell’idea che si stesse combattendo per la difesa della democrazia. Nel corso della guerra fu brutale la repressione nelle due retrovie, dove, in entrambi i campi, furono perpetrati orrendi crimini. Da parte franchista con il massacro di Badajoz, i bombardamenti su Madrid, poi su Durango, Guernica, indi su Barcellona, opera questi ultimi dell’aviazione fascista italiana. Dall’altra parte con i massacri di Paracuellos de Jarama e Santa Maria de la Cabeza. Il numero dei caduti nel conflitto, per molti anni dilatato, è negli ultimi tempi stato fissato attorno al mezzo milione. Altrettanti gli esiliati, una parte dei quali fece rientro nei primi anni del franchismo. Ogni approccio storico che si rispetti alla guerra civile spagnola non può prescindere dalla comprensione del fatto che essa continuò per molti versi nei quattro decenni successivi per opera del regime che nella vittoria in essa trovò la propria legittimazione e che, anche per questo, ne tenne vivo il ricordo, escludendo gli sconfitti che non si mostrassero pentiti ed evitando la riconciliazione. Percorso di autoverifica

1. 2. 3. 4. 5. 6.

Chi è Miguel Primo de Rivera? Che cos’è Xalxamiento e perché non ebbe pieno successo? Chi è Manuel Azana? Quando nasce il Fronte popolare e perché? Quali sono le principali cause prossime e remote della guerra civile? Quali sono i principali motivi della vittoria di Franco?

Per saperne di più

A. Beevor, La guerra civile spagnola, Milano, Rizzoli, 2006. B. Bennassar, La guerra di Spagna. Una tragedia nazionale, Torino, Einaudi, 2006. H. Browne, La guerra civile spagnola, Bologna, Il Mulino, 2000. G. Ranzato, L’eclissi della democrazia: la guerra civile spagnola e le sue origini, 1931-1939, Torino, Bollati Boringhieri, 2004. H. Thomas, Storia della Guerra civile spagnola, Torino, Einaudi, 1963.

La Seconda guerra mondiale di Marco Mondini

La Seconda guerra mondiale inizia nel 1939, con l’aggressione della Germania alla Polonia. Nel 1940 la Germania sembra vicina alla vittoria: l’Italia si schiera al suo fianco, la Francia è costretta alla resa e la Gran Bretagna rimane da sola a combattere. Nel 1941 la Germania invade l’Unione Sovietica ma viene sconfitta; il Giappone, alleato di Italia e Germania, attacca gli Stati Uniti a Pearl Harbor. Tra 1942 e 1945 i paesi dell’Asse vengono sconfitti: l’Italia si arrende nel 1943, la Francia è liberata nel 1944. Nel maggio 1945 i russi conquistano Berlino, Hitler si uccide e in Europa la guerra ha termine. Il Giappone resisterà fino al settembre successivo, quando si arrenderà dopo essere stato colpito dalle prime bombe atomiche.

1.

Le origini e l’inizio della guerra

Il secondo conflitto mondiale viene convenzionalmente fatto iniziare alle 4.45 del 1° settembre 1939, quando le armate tedesche invasero la Polonia provocando la reazione di Gran Bretagna e Francia, che dichiararono guerra alla Germania. Ma l’aggressione alla Polonia fu solo l’ultimo atto della politica revisionistica condotta da Adolf Hitler al fine di rivoluzionare l’ordinamento europeo stabilito dai trattati di pace del 1919. Fin dal 1933 Hitler aveva sistematicamente violato i limiti imposti alle forze armate tedesche, ripristinando la coscrizione obbligatoria e avviando un imponente programma di riarmo (fondazione della Wehrmacht, 1935). Nel marzo 1936 truppe tedesche occuparono la Renania, provincia demilitarizzata amministrata dalla Società delle Nazioni. Nel marzo 1938 l’Austria venne annessa alla «Grande Germania» (Anschluss), unione espressamente proibita dal trattato di Versailles. Infine, nell’estate 1938, Hitler proclamò la sua volontà di incorporare nel nuovo «Terzo Reich» il territorio dei Sudeti, regione di confine della repubblica cecoslo­ vacca a prevalenza germanofona. La Cecoslovacchia era una creatura di Versailles: pensata dalle potenze vincitrici come stato cuscinetto da opporre a un eventuale riarmo tedesco, faceva parte anche del «cordone sanitario» antisovietico (con la Polonia e gli stati baltici) e la sua sicurezza era garantita da Francia e Gran Bretagna. Tuttavia, nel corso della conferenza di Monaco (settembre 1938) queste e l’Italia

acconsentirono alle richieste di Hitler. La Cecoslovacchia cessò di esistere come stato indipendente; dopo aver ceduto i Sudeti, nel marzo 1939 venne smembrata in un «governatorato di Boemia e Moravia» (amministrato da Berlino) e in una Slo­ vacchia formalmente autonoma. Le democrazie occidentali furono accusate di aver sacrificato la Cecoslovacchia nel tentativo di arrivare a un compromesso con Hitler (politica dell 'appeasement). Va sottolineato che l’opinione pubblica e gli ambienti politici a Parigi e Londra erano in maggioranza contrari a una guerra. Inoltre, ben­ ché il Regno Unito e la Francia si stessero riarmando fin dal 1936, era convinzione comune che non fossero ancora in grado di sfidare la Wehrmacht, le cui potenzialità erano sopravvalutate. In ogni caso, la distruzione della Cecoslovacchia dimostrò il fallimento della politica di mediazione. Nel marzo 1939 venne sottoscritto un accor­ do militare anglo-polacco, mentre gli Stati maggiori francese e inglese iniziarono a coordinare una difesa comune. La possibilità che tali iniziative potessero intimidire Hitler venne però meno con la stipula di un patto di non aggressione russo-tedesco (patto Ribbentrop-Molotov) mediante il quale la Germania si assicurava la bene­ volenza dell’Urss in cambio della cessione della Polonia orientale. 2.

La guerra europea (1939-40)

La guerra rimase inizialmente confinata nel teatro europeo. La Germania aveva in effetti stipulato fin dal 1936 un patto di cooperazione con l’Impero giapponese (patto anti-Comintern) ma si trattava di un accordo politico, che impegnava i con­ traenti a condurre una lotta comune contro la generica minaccia dell’Internazionale comunista. Il Giappone, che dal 1937 stava conducendo una guerra di conquista in Cina, non entrò dunque subito in guerra. Più vincolante era l’alleanza stretta con l’Italia: l’intesa denominata «Asse Roma-Berlino» (1936) aveva portato, nel maggio 1939, alla firma dell’alleanza nota come patto d’Acciaio. Tuttavia, allo scoppio delle ostilità l’Italia dichiarò la «non belligeranza», escludendo per il mo­ mento l’estensione delle ostilità ai teatri coloniali. L’Unione Sovietica, dopo aver completato la conquista della Polonia orientale, attaccò la Finlandia dando inizio alla «guerra d’inverno» (settembre 1939-marzo 1940). Nonostante la riprovazione internazionale per questo atto di aggressione (l’Urss fu espulsa dalla Società delle Nazioni), il conflitto russo-finnico rimase limitato ai due paesi: molti volontari europei si arruolarono nell’esercito finlandese, ma nessun’altra potenza impegnò direttamente le proprie forze armate. Sul fronte occidentale, la dichiarazione di guerra non corrispose all’avvio di un ciclo operativo paragonabile al 1914. Fu la cosiddetta dróle de guerre (strana guerra): un periodo di inattività che durò dal settembre 1939 alla primavera 1940, in cui gli anglo-francesi rimasero trincerati dietro la linea Maginot, un imponente complesso di fortificazioni costruito lungo la frontiera. La convinzione che il tempo giocasse a favore di una migliore preparazione militare e che il sistema economico tedesco non avrebbe retto al blocco navale impostole, come nel 1914-18, spinsero gli Alleati a non attaccare. Da parte francese giocavano un ruolo particolare il ricordo dei massacri della Grande guerra e la convinzione che la Maginot fosse invalicabile. Inoltre, la propaganda sovietica contro le «potenze occidentali impe­ rialiste» ebbe il suo peso nell’alimentare contrasti all’interno dell’opinione pubblica, già poco entusiasta di un nuovo conflitto.

Dopo aver invaso nell’aprile 1940 Danimarca e Norvegia, il 10 maggio l’Okw (Comando supremo delle forze armate tedesche) lanciò un’imponente offensiva attraverso Belgio, Lussemburgo e Olanda. L’operazione permise di aggirare la li­ nea Maginot e di sorprendere gli Alleati grazie alla velocità dei reparti corazzati e all’impiego coordinato di aviazione e truppe aviotrasportate (tattica poi battezzata Blitzkrieg, «guerra lampo»). In tre settimane di combattimenti l’esercito francese venne travolto, quello olandese e belga si arresero e il corpo di spedizione britan­ nico fu costretto a reimbarcarsi a Dunkerque facendo ritorno in Inghilterra. Il 25 giugno la Francia si arrese. 3.

Il nuovo ordine europeo e l’egemonia dell’Asse (1940-41)

Nell’estate 1940 il grande Reich germanico dominava l’Europa: aveva annesso Danzica e il suo territorio (il «corridoio»), una larga parte dell’ex Polonia occidentale e l’Alsazia-Lorena; controllava direttamente il Governatorato generale della Polonia, il Protettorato di Boemia e Moravia, la Francia settentrionale e atlantica, i regni di Belgio, Olanda, Danimarca e Norvegia (presidiati da truppe tedesche). Rimanevano stati liberi la Svizzera, la Svezia, la Spagna (che aveva dichiarato la non belligeranza), la Jugoslavia e la Grecia; Ungheria, Romania, Bulgaria e Slovacchia erano alleati o «satelliti» del Reich. Per quanto riguarda l’Italia, il timore di rimanere isolato diplomaticamente e la certezza che la guerra sarebbe terminata in breve spinsero Mussolini a far entrare in guerra il paese, nonostante alcune resistenze all’interno della corte e della stessa dirigenza fascista. Le forze armate italiane erano imprepara­ te a una guerra moderna, dotate di armamenti scarsi e obsoleti, afflitte dall’incapacità dell’industria nazionale di produrre armamenti competitivi in quantità soddisfacenti e guidate da una generazione di generali invecchiati. Il 10 giugno 1940, quattro giorni prima che i tedeschi entrassero a Parigi, il governo italiano dichiarò guerra alla Francia e al Regno Unito. Una modesta offensiva sulle Alpi meridionali rivelò le deficienze dell’esercito. Per riaffermare il prestigio guerriero dell’Italia fascista e ritagliarsi una propria sfera di influenza imperiale, Mussolini impegnò il paese in una guerra parallela, condotta in autonomia e con obiettivi propri. Nell’ottobre 1940 attaccò la Grecia, rimasta fino ad allora neutrale. La campagna si risolse in un disa­ stro: gli italiani vennero respinti in Albania fino a che un’armata tedesca e bulgara costrinse la Grecia alla resa (aprile 1941). Sorte non migliore ebbe la decisione di Mussolini di attaccare l’Egitto, protettorato britannico che confinava con la Libia. L’offensiva del generale Graziani (settembre 1940) procedette con molta lentezza; in dicembre gli inglesi annientarono la 10a armata italiana e si impadronirono della Cirenaica. L’intervento di un altro contingente tedesco, il corpo motocorazzato del generale Rommel (Deutsches Africa Korps), riequilibrò le forze e permise la ricon­ quista della Libia (aprile 1941). Da quel momento l’Italia avrebbe continuato la guerra come un subordinato più che come un alleato della Germania. Con l’occupazione della Jugoslavia (aprile 1941), la Gran Bretagna rimase sola in Europa. Guidata dal primo ministro Winston Churchill, respinse le offerte di pace di Hitler e resistette ai massicci attacchi aerei condotti dall’aviazione tedesca sulle installazioni militari e sulle città (battaglia di Inghilterra, agosto 1940-maggio 1941), pur essendo quasi isolata dal suo impero e in procinto di perdere la battaglia per il controllo dei mari contro la flotta di sottomarini tedeschi (battaglia dell’Atlantico).

4.

1941-42: la globalizzazione del conflitto

Le sorti del conflitto furono determinate da due eventi: la decisione di Hitler di attaccare l’Urss (21 giugno 1941) e l’adesione di Italia e Germania alla guerra contro gli Stati Uniti provocata dal Giappone (dicembre 1941), che trasformò la guerra da europea in mondiale. La scelta di aggredire la Russia rispondeva a ragioni profonde dell’ideologia nazionalsocialista: già nelle pagine del Mein Kampf si esaltava la necessità di con­ quistare un nuovo «spazio vitale» a Est debellando il bolscevismo internazionale. L’operazione Barbarossa fu coronata inizialmente da un successo inaspettato. In breve i tedeschi conquistarono quasi tutta la Russia europea: a Nord Leningrado fu assediata (settembre 1941), a Sud l’Ucraina venne conquistata dopo una colossale battaglia di annientamento che costò ai sovietici oltre 700.000 morti e prigionieri (battaglia di Kiev, agosto-settembre 1941) e nell’area centrale i sobborghi di Mo­ sca vennero raggiunti il 9 dicembre. Con l’arrivo dell’inverno, tuttavia, l’offensiva si esaurì: privi di equipaggiamento invernale ed esausti, i soldati tedeschi furono respinti e dovettero ritirarsi (dicembre 1941-gennaio 1942). La dichiarazione di guerra di Italia e Germania agli Stati Uniti fu invece una combinazione di obblighi politici (il patto tripartito siglato dei tre paesi dell’Asse nel settembre 1940) e di previsioni sbagliate (la possibile rivalità degli Stati Uniti nei confronti di una Germania «potenza mondiale» e la sottovalutazione della potenza statunitense). La politica del presidente Roosevelt era di appoggiare in ogni modo la lotta antinazista pur senza schierarsi esplicitamente, a causa dell’isolazionismo tradizionalmente dominante nella politica americana. L’attacco alla base di Pearl Harbor (7 dicembre 1941) scatenò tuttavia una reazione fortissima nell’opinione pubblica: gli Usa entrarono in guerra contro l’Impero giapponese (8 dicembre) e contro Italia e Germania (11 dicembre), alleandosi con la Gran Bretagna, l’Au­ stralia, i dominions del Commonwealth e l’Olanda. Per quasi sei mesi i giapponesi sembrarono inarrestabili: vennero conquistati i territori dell’impero britannico nel Sud-Est asiatico, le Filippine (maggio) e tutte le Indie olandesi, fondamentali per i giacimenti di petrolio, con la creazione di una vasta zona imperiale nipponica tra Asia e oceano. Il 4 giugno 1942, tuttavia, la flotta imperiale venne sconfitta in una grande battaglia aeronavale al largo delle isole Midway. L’industria giapponese non era in grado di rimpiazzare le perdite subite (specialmente di portaerei e velivoli): l’iniziativa strategica passò agli Alleati. 5.

1942-44: la svolta della guerra

Nell’estate 1942 le forze dell’Asse ripresero ad avanzare sul fronte russo giun­ gendo fino a Stalingrado, importante centro industriale e porta del Caucaso. Dal 23 agosto 1942 fino al 31 gennaio 1943 tedeschi e russi combatterono per il possesso della città, fino a quando gli ultimi superstiti della 6a armata del generale Friedrich Paulus si arresero. Contemporaneamente, i sovietici lanciarono un’offensiva di vasta portata contro le linee tedesche, italiane, ungheresi e rumene sul Don, tra­ volgendole (operazione Urano). Nel crollo del fronte russo fu coinvolta l’Armata italiana (Armir), le cui truppe furono lasciate di retroguardia per proteggere la ritirata. Isolato e accerchiato, il corpo d’armata alpino uscì dalla sacca dopo una

marcia di 350 chilometri e con il sacrificio di 46.000 uomini (su 57.000) tra morti, congelati e prigionieri, mentre l’Armir nel complesso perse 115.000 uomini su 230.000. Nel luglio successivo i tedeschi tentarono un contrattacco nel saliente di Kursk (battaglia di Kursk) ma furono sconfitti e iniziarono a ripiegare verso la Germania. In Nord Africa la guerra venne decisa con la seconda battaglia di E1 Alamein (novembre 1942); le truppe italo-tedesche vennero battute e si ritirarono fino in Tunisia, dove il 13 maggio capitolarono. La conquista del Nord Africa fu una svolta più politica che militare: coincise con il collasso della cosiddetta Francia di Vichy, alleata del Terzo Reich, che aveva fino ad allora mantenuto il controllo della gran parte dell’impero coloniale. La Francia centro-meridionale, rimasta fino ad allora libera, venne occupata da truppe tedesche, mentre il ruolo di guida politica dei francesi passava al generale de Gaulle, capo della France Libre. Il possesso delle coste africane permise d’altra parte di invadere l’Italia: il 10 luglio le truppe alleate sbarcarono in Sicilia dove sconfissero la guarnigione italo-tedesca. L’invasione e gli incessanti bombardamenti delle città italiane portarono alla caduta del regime fascista: il 25 luglio Mussolini venne arrestato e il generale Badoglio divenne capo del governo. L’8 settembre l’Italia si arrese agli Alleati (armistizio di Cassibile). Il re e il governo si rifugiarono nel Sud controllato da inglesi e americani, mentre i tedeschi occupavano Roma e il Centro-Nord piegando facilmente la resistenza di­ sorganizzata dell’esercito italiano. Insediati nei maggiori centri industriali del paese e molto abili nello sfruttare in difesa i contrafforti appenninici, i tedeschi riuscirono a organizzare un’efficace difesa, costringendo gli Alleati a una lentissima risalita della penisola. Nel Nord Italia venne instaurato un regime fantoccio filo-tedesco (la cosiddetta Repubblica sociale di Salò) alla cui guida venne posto Mussolini. Come negli altri paesi occupati, anche in Italia si formò una resistenza che combatteva i tedeschi e le truppe della Rsi («repubblichini») con metodi da guerriglia: le prime formazioni partigiane furono composte da ex militari dei reparti dissoltisi dopo l’8 settembre, ma ben presto si formarono unità «politiche». La vera svolta strategica del conflitto non fu, tuttavia, la campagna d’Italia, ma l’apertura di un secondo fronte in Francia, come richiesto insistentemente da Stalin nel corso della conferenza di Teheran (dicembre 1943). Il 6 giugno 1944 gli Alleati sbarcarono in Normandia. Nonostante l’accanita resistenza tedesca, Parigi venne liberata il 25 agosto e in settembre gli ultimi reparti della Wehrmacht abbandonarono la Francia. Anche nel teatro asiatico il 1944 vide importanti sconfitte per l’Asse. Il 19 e 20 giugno la flotta giapponese venne disastrosamente sconfitta nella battaglia del Mar dei Coralli; le navi superstiti sarebbero state distrutte nella battaglia di Leyte (ottobre), atto finale della potenza navale nipponica. 6.

Guerra ai civili e sterminio di massa: i caratteri della guerra ideologica

La Seconda guerra mondiale è generalmente considerata l’evento più violento del XX secolo e la guerra più sanguinosa della storia (vedi tab. 22.1). Anche se tali dati sono del tutto approssimativi e non tengono conto della moria causata dalla pandemia influenzale «spagnola» nel primo dopoguerra, risulta subito evidente un dato che differenzia la Prima dalla Seconda guerra mondiale: non solo quest’ultima causò molti più morti, ma la maggioranza delle vittime del conflitto furono civili. Il carattere ideologico della guerra esasperò una tendenza già in atto

T ab . 22.1. Le perdite umane delle guerre mondiali

Stato Austria-Ungheria (fino al 1918)

Morti militari 1914-18

Morti civili 1914-18

1.200.000“ 2.220.000*

300.000

Ungheria (dal 1919) Austria (dal 1919) Germania Russia-Urss Francia Regno Unito Usa Italia Cina' Totale dei paesi coinvolti"

1.800.000“

760.000

4.200.000* 1.350.000 715.000 126.000 650.000

3.000.000 40.000 -

5.300*

-

-

9.800.000

6.000.000"

Morti militari 1939-45

120.000“ 350.000* 230.000 3.250.000“ 5.300.000* 13.600.000* 250.000 370.000 300.000 320.000’ 4.500.000 24.500.000

Morti civili 1939-45

80.000“ 40.000 3.600.000“ 7.500.000* 270.000 60.000 -

130.000 10.000.000 28.600.000

Note-, “Accertati;* Compresi i dispersi;“ fonte: M. Sorge, The OtherVrice ofH itler’s War, Greenwood, 1986; d fonte: R. Overmans, Deutsche militàrische Veriuste im Zweiten Weltkrieg, Monaco, 2004; compren­ de 1.200.000 soldati morti in prigionia;“ stimati;* compresi 3.300.000 soldati morti in prigionia; * stimati; b comprende marinai civili e passeggeri di navi affondate; ' comprende caduti della Rsi, militari regolari morti in prigionia e partigiani combattenti, fonte: Istat, Morti e dispersi per cause belliche negli anni 194045, Roma, 1957; ‘ in guerra dal 1937; ” compresi i paesi non menzionati nella tabella; " non comprende le vittime dell’influenza spagnola.

nel 1914-18: la scomparsa della distinzione tra civili e combattenti tramite l’eser­ cizio di una sistematica violenza contro le popolazioni considerate nemiche. Nel primo conflitto mondiale questa brutalizzazione dei costumi si era espressa nelle violenze a danno delle popolazioni occupate in Belgio o nell’Italia nordorientale e nel genocidio armeno. Tra 1939 e 1943 le popolazioni civili furono oggetto di persecuzioni soprattutto (ma non solo) a opera delle forze armate tedesche. La guerra di sterminio sul fronte orientale, con l’annientamento delle popolazioni non tedesche (considerate Untermenschen, razzialmente inferiori) si intrecciò con le politiche razziali già applicate in Germania. Lo sterminio degli ebrei d’Europa o Olocausto, perpetrato soprattutto nei campi di concentramento a partire dalla conferenza di Wannsee (gennaio 1942), fu il capitolo principale ma non l’unico della guerra contro i civili da parte tedesca, che colpì: - Ebrei (di diverse nazionalità): 6.000.000; - Slavi: tra cui 3.000.000 soldati sovietici, 1.800.000 polacchi e almeno 2.500.000 tra civili russi, ucraini, bielorussi, jugoslavi; - Rom e Sinti: 250.000 / 500.000. A queste cifre vanno aggiunti i civili vittime di rappresaglia durante la guerra anti-partigiana nei paesi occupati (10.000 dei quali solo in Italia). D’altra parte, va rilevato come le popolazioni non combattenti divennero obiettivo strategico anche al di fuori della persecuzione nazista. In Asia, il massacro dei civili fu abituale tra le truppe giapponesi e portò all’eliminazione di forse 10.000.000 di individui solo nella Cina occupata. Dei 5.500.000 polacchi non in armi morti durante la guerra più della metà furono presumibilmente uccisi dai sovietici nel 1939-41, nel contesto dell’eliminazione sistematica delle classi dirigenti dei paesi occupati, politica che venne rivelata pubblicamente dalla scoperta dell’eccidio di Katyn (maggio 1940).

L’Armata Rossa fu responsabile, inoltre, del massacro o della morte per stenti di forse 1.500.000 / 2.250.000 tedeschi tra 1944 e 1945, in una politica deliberata di de-germanizzazione della Germania orientale. Infine, le popolazioni civili furono tra i principali obiettivi dei bombardamenti strategici operati soprattutto da bri­ tannici e statunitensi sull’Europa continentale e sul Giappone. Il bombardamento terroristico (condotto su obiettivi non prevalentemente militari) era stato adottato come arma inizialmente dalla Luftwaffe durante la battaglia di Inghilterra. A partire dal 1943, il bombardamento delle città fece almeno 600.000 morti in Germania, 60.000 in Italia e 400.000 in Giappone. 7.

La sconfitta di Germania e Giappone e la conclusione del conflitto

Nel dicembre 1944 i tedeschi lanciarono una disperata controffensiva per ca­ povolgere la situazione sul fronte occidentale. Nonostante un iniziale successo, la battaglia delle Ardenne (dicembre 1944-gennaio 1945) si risolse in un fallimento che esaurì le ultime riserve di mezzi corazzati. All’inizio del 1945 la sconfitta della Germania era ormai palese, ma Hitler ordinò una resistenza a oltranza. In marzo gli angloamericani varcarono il Reno e le armate tedesche si sfaldarono, mentre i soldati si arrendevano in massa. Sul fronte italiano, le SS e la Wehrmacht si arre­ sero il 1° maggio, dopo l’insurrezione generale della resistenza italiana (25 aprile) e la fucilazione di Mussolini (28 aprile). Sul fronte orientale la resistenza fu più accanita, alimentata fondamentalmente dal terrore dei russi: la Prussia fu invasa in gennaio ma gli ultimi difensori si arresero in aprile, Vienna fu conquistata il 13 aprile, Berlino fu attaccata il 20 e accerchiata il 24; il 25 aprile le truppe alleate e quelle sovietiche si incontrarono a Torgau, sul fiume Elba. La battaglia di Berlino (20 aprile-2 maggio) fu l’atto finale della guerra: poco prima che i sovietici conqui­ stassero la città, dove si erano ammassati i resti delle divisioni SS europee, Hitler si suicidò (30 aprile). L’ammiraglio Dònitz, nuovo capo del governo, si arrese agli Alleati l’8 maggio. Con la resa delle forze tedesche rimaneva in armi solo il Giap­ pone, ormai ridotto alle isole metropolitane. Alleati e Urss ne richiesero la resa incondizionata (conferenza di Potsdam, luglio 1945) minacciando la distruzione del paese. Di fronte al rifiuto opposto dal governo di Tokyo, il 6 agosto gli Stati Uniti usarono la prima bomba atomica sulla città di Hiroshima, seguita il 9 da una seconda su Nagasaki. Il 15 agosto l’imperatore Hirohito si arrese. Percorso di autoverifica

1. 2. 3. 4. 5. 6.

Quali sono le cause politiche profonde e immediate dello scoppio della Seconda guerra mondiale? Cosa si intende per Blitzkrieg} Quando la guerra europea diventa compiutamente «guerra mondiale»? Quali sono gli episodi che segnano il massimo del successo dell’Asse e l’inizio della sconfitta? Quali sono gli elementi che rendono la Seconda guerra mondiale irriducibile alle espe­ rienze belliche precedenti? Quando termina la Seconda guerra mondiale?

Per saperne di più

O. Bartov, Fronte orientale, Bologna, Il Mulino, 2003. O. Bartov, Hitler’s Army. Soldiers, Nazis and War in thè Third Reich, Oxford-New York, Oxford University Press, 1992. J. Bourke, La seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2005. A. Hillgruber, Storia della 2“guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 1989. R. Overy, La strada della vittoria. Perché gli Alleati hanno vinto la seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2002. R. Overy, Le origini della seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2009. G. Schreiber, La seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 2004.

1949. La Rivoluzione cinese di Antonio Fiori

Dopo una lunga guerra civile tra i nazionalisti e i comunisti, inframmezzata dalla ricomposizione del fronte in chiave anti-nipponica, il 1° ottobre 1949 viene proclamata, dal leader comunista Mao Zedong, la nascita della Repub­ blica popolare cinese. Da questo momento inizia un processo di ricostruzione del paese che passa attraverso l’attuazione di una serie di importanti riforme sociali, economiche e politiche. Oltretutto, la polarizzazione provocata dalla guerra fredda non risparmierà la neonata Repubblica popolare cinese, che dovrà decidere al fianco di chi schierarsi.

1. Alle origini della Rivoluzione

Il Partito comunista cinese (Pcc) nacque il 1° luglio 1921 a Shanghai, allorché dodici delegati si incontrarono in rappresentanza di oltre cinquanta membri dei gruppi locali per il I congresso nazionale. Molto probabilmente, pochi tra questi delegati avrebbero scommesso che, dopo meno di trent’anni, quella stessa forma­ zione sarebbe arrivata a dominare la scena politica cinese. Il Pcc era, in un certo senso, figlio delle aspettative originatesi in Cina in seguito alla Rivoluzione d’otto­ bre e traeva forza da una nuova generazione di studenti, attivisti e professori che desideravano fortemente sanare le profondissime disuguaglianze sociali presenti nel paese. Il II congresso nazionale del Pcc si tenne di nuovo a Shanghai nel luglio del 1922 e segnò una svolta rilevante per la vita del giovane partito: in base alle indi­ cazioni del Comintern, al quale il Pcc si era iscritto formalmente, fu deciso che i comunisti avrebbero dovuto cercare un’alleanza politica con i rappresentanti del «movimento democratico borghese illuminato». Solo attraverso questa strada, in­ fatti, il Pcc avrebbe potuto sperare di diventare un attore rilevante nello scenario politico cinese. Fu così che si andò verso la composizione di un «fronte unito» con il Guomindang, il partito nazionalista guidato dall’autorevole Sun Yatsen. L’alle­ anza tra l’ala destra e quella sinistra del partito, però, diventò sempre più instabile in seguito alla morte di Sun, nel marzo del 1925, e peggiorò quando il controllo del movimento nazionalista passò nelle mani dell’ambizioso Jiang Jieshi (Chiang

Kai-shek), comandante dell’Accademia militare di Huangpu. Quest’ultimo, infatti, fece di tutto per marginalizzare i comunisti, imponendo loro delle restrizioni nella partecipazione alla vita del partito nazionalista. Diventato Comandante in capo dell’Esercito rivoluzionario nazionale, Jiang lanciò alla fine di luglio del 1926 la cosiddetta «Spedizione settentrionale», il cui obiettivo era quello di porre sotto controllo i «signori della guerra», cioè coloro che al crollo della dinastia Qing, nel 1911, si erano divisi il potere nella maggior parte della Cina settentrionale: l’obiettivo dichiarato era quello di riunificare il paese sotto l’egida del Guomindang. La campagna riscosse un enorme successo e, dopo aver conquistato Shanghai in marzo, Jiang decise di approfittarne per regolare i conti con i comunisti colpendoli a tradimento e passando per le armi gran parte del nucleo originario del Pcc. Dopo aver sfasciato di fatto l’alleanza con i comunisti, Jiang venne nominato presidente del nuovo governo nazionale nel 1928: si trattava in effetti di una dittatura militare con una limitatissima base di potere popolare. La sconfitta dei «signori della guerra» e la riunificazione di gran parte del paese non aveva comunque risolto i grandi problemi che affliggevano la Cina: un sistema economico precario, una diffusa povertà che tormentava le zone rurali, l’esteso problema della corruzione. Più che di occuparsi di dare una soluzione a tali que­ stioni, Jiang spendeva le sue energie nella lotta al Pcc che, nonostante fosse ormai un’organizzazione clandestina, aveva fatto breccia tra gli agricoltori e gli allevatori impoveriti. Alcune grandi «basi rivoluzionarie» comuniste emersero nella Cina centrale e meridionale: una di quelle più grandi in assoluto, quella dello Jiangxi una delle zone più remote e povere dell’intero paese - era comandata da un giovane leader di nome Mao Zedong. In antitesi all’esempio sovietico, Mao credeva che la spina dorsale della rivoluzione comunista cinese dovesse essere costituita dagli agricoltori e non dai lavoratori delle zone urbane o dagli intellettuali. La lotta alle basi comuniste divenne una delle priorità assolute delle campagne militari dei nazionalisti. Nel corso delle cinque campagne di «accerchiamento e annientamento» le truppe di Jiang minacciarono seriamente la stabilità della base nello Jiangxi. I leader comunisti, allora, decisero di sfuggire alla minaccia naziona­ lista dando inizio nell’autunno del 1934 alla Lunga marcia, durata fino alla fine del 1935.1 comunisti attraversarono il paese da Sud a Nord, percorrendo migliaia di chilometri e pagando un tributo enorme in termini di vite umane. Nel gennaio del 1935, nel corso della Lunga Marcia, si tenne una storica riunione allargata dell’Uf­ ficio politico del Comitato centrale, nota come «conferenza di Zunyi»: in seguito a questo incontro, l’influenza del Comintern sul Pcc risultò significativamente ridotta e, al contempo, la figura di Mao cominciò ad assumere sempre maggiore centralità nell’organizzazione. Il periodo che va dal 1936 al 1945, indicato anche come periodo di Yan’an (cioè il luogo in cui Mao stabilì la capitale dell’esercito comunista), fu di centrale importanza per una molteplicità di ragioni. In primis i comunisti e i nazionalisti dettero vita a un secondo «fronte unito» per cercare di arginare l’invasione dei giapponesi, avviatasi in grande stile nel 1936. Dopo un decennio di lotta ai comu­ nisti, Jiang fu costretto dai suoi generali ad accettare la ricomposizione del fronte come unica possibilità per contrastare i giapponesi. Nonostante ciò, il conflitto tra comunisti e nazionalisti non si risolse completamente, con le due parti che continuarono a combattersi a vicenda. Gradualmente, però, furono i comunisti a ottenere un maggiore vantaggio, dotandosi di un contingente militare sempre più

nutrito e ampliando progressivamente le zone sottoposte al loro controllo. Questa espansione coincise con la maturazione di tutta una serie di esperienze in campo amministrativo e organizzativo che vennero portate avanti nelle «basi rivoluziona­ rie», in particolare nella roccaforte di Yan’an, e che entrarono a far parte di quel bagaglio culturale che avrebbe accompagnato il partito dopo il 1949. Non bisogna scordare, inoltre, la profonda opera di riorganizzazione e consolidamento messa in atto da Mao in quel periodo, che consentì al partito di passare da 40.000 iscritti nel 1937 a circa 1.200.000 nel 1945. L’invasione su larga scala della Cina da parte dei giapponesi nel 1937 spinse Jiang e il suo governo a fronteggiare gli invasori, i quali avevano utilizzato la base in Manciuria per espandere il loro controllo nelle contee a Nord della grande muraglia e nella Mongolia interna. I primi passi dell’invasione giapponese cominciarono il 7 luglio 1937, nei pressi di Pechino; un secondo fronte si aprì quasi immediatamente a Shanghai. L’avanzata sembrava inarrestabile e, sul finire della stagione estiva, le città principali a Nord del Fiume Giallo erano ormai cadute nelle mani dei nipponici. Nel dicembre di quell’anno i giapponesi avevano occupato con successo Shanghai e attaccato in maniera brutale Nanchino, costringendo Jiang e il suo governo a rifugiarsi nell’entroterra, a Chongqing. Intrappolato all’interno del paese, senza poter contare sulla produttività o sulle finanze delle industrie dell’Est, il governo nazionalista - nelle aree da esso controllato - dovette fare ricorso all’imposizione di una pressione fiscale insostenibile, subito seguita dalla coscrizione coatta. Que­ ste vessazioni furono mal sopportate e generarono una crescente ostilità verso il governo di Jiang in tutti i settori della popolazione. Solo la sconfitta dei giappo­ nesi da parte degli Alleati, nel 1945, mise Jiang nelle condizioni di riguadagnare il controllo del suo paese. La fine della Seconda guerra mondiale, tuttavia, non consegnò la pace alla Cina. Al contrario, i comunisti cominciarono a far pesantemente leva sulla propaganda per contrastare i nazionalisti. Essi furono involontariamente aiutati dagli insufficien­ ti risultati dell’azione del governo nazionalista nei mesi immediatamente successivi alla vittoria alleata nella Seconda guerra mondiale. La ripresa del controllo sulla Cina orientale fu caratterizzata da molteplici episodi di corruzione da parte dei funzionari nazionalisti, che ammassarono ingenti fortune a spese della popolazione che aveva dovuto sopportare la dominazione giapponese per otto lunghi anni. L’animosità tra i comunisti e i nazionalisti riemerse prepotentemente nonostante gli sforzi volti alla mediazione fatti dagli americani. Nel 1946, infatti, la Cina entrò in una brutale guerra civile (1946-49), in cui il confronto tra le due parti fu emi­ nentemente militare. I nazionalisti di Jiang, fruendo dei cospicui aiuti - finanziari e militari - degli americani, erano numericamente di gran lunga superiori alle forze dell’Armata di liberazione popolare dei comunisti. Dopo che i nazionalisti si furono aggiudicati una serie di rapide vittorie, tutto lasciava presagire che Jiang e i suoi avrebbero avuto la meglio sui loro oppositori. L’inadeguata leadership militare e il bassissimo morale tra le truppe nazionaliste, intimamente connesso alla capacità di conquistare la fiducia e la collaborazione delle masse da parte dei comunisti, sovvertirono le sorti del conflitto. Tra il 1947 e il 1948 una serie di significative sconfitte in Manciuria mostrarono la superiorità dei comunisti. Jiang fu costretto a indietreggiare e, come ultima ratio, non potè far altro se non fuggire sull’isola di Taiwan aspettando, con le sue truppe, un attacco finale che non arrivò mai. Al contrario, nell’estate del 1949, il Pcc cercò di consolidare il suo potere sull’intero

territorio continentale, distogliendo la sua attenzione dalla colonia britannica di Hong Kong, da quella portoghese di Macao e, per l’appunto, da Taiwan, ove i nazionalisti sconfitti avevano trovato rifugio. In qualità di nuovo leader, Mao Zedong proclamò la nascita della Repubblica popolare cinese il 1° ottobre 1949 a Pechino, da un podio da cui dominava Tian’an men, la «Porta della pace celeste». «La Cina si è rialzata», dichiarò il «grande ti­ moniere», inaugurando in tal modo una nuova era nella storia cinese. 2.

Ricostruzione e consolidamento

Per la maggior parte dei 500 milioni di abitanti dell’epoca, il successo dei comu­ nisti sulle forze nazionaliste di Jiang Jieshi fu motivo di celebrazione. Lunghi anni di guerra, che avevano diviso il paese e provocato miseria per milioni di persone, erano giunti al termine e adesso si nutriva la viva speranza che per la Cina potesse aprirsi un periodo di rinascita. Contadini e lavoratori che avevano sostenuto i rivo­ luzionari anticiparono l’inizio di una nuova era e il Pcc si mosse immediatamente per impostare quei cambiamenti che avrebbero ripagato l’appoggio popolare. Le sfide che attendevano il nuovo governo erano senz’altro mastodontiche. Oltre a dover alleviare la grande miseria provocata da anni di guerra, i nuovi go­ vernanti dovevano farsi carico di problemi come la malnutrizione della popolazione o la salute pubblica. Gran parte delle infrastrutture - strade, ferrovie, ponti - era stata resa inutilizzabile dal conflitto, rendendo oltremodo difficoltoso raggiungere le aree più remote del paese. L’economia si limitava al sistema del baratto, consi­ derato che la vecchia valuta nazionalista non aveva più alcun valore. Alla metà del XX secolo il prodotto interno lordo prò capite della Cina era equivalente a circa un terzo di quello dell’Inghilterra del tardo XVII secolo, mentre la produzione agricola era pari a circa la metà del prodotto interno lordo complessivo. Come se non bastasse, migliaia di soldati nazionalisti costituivano una sfida potenziale al controllo del Pcc, così come le migliaia di sostenitori dei nazionalisti che non erano ancora riusciti a lasciare la Cina continentale per rifugiarsi a Taiwan o a Hong Kong. Malgrado il confronto con questa serie di problematiche sarebbe stato impegnativo per qualunque governo, i rappresentanti della neonata Repubblica popolare cinese ottennero immediatamente dei risultati stupefacenti. La priorità assoluta per i comunisti al potere era quella di consolidare il proprio controllo sull’intero territorio cinese. Mentre alcune province furono velocemente occupate dai rappresentanti del partito e da alcune unità dell’Esercito di liberazione popolare, altre, soprattutto quelle più periferiche, in particolare nel Nord-Ovest del paese, opposero maggiore resistenza. Il Pcc scelse di dotarsi di un sistema modera­ tamente decentralizzato per un periodo di tempo limitato, con la ferma intenzione di procedere alla centralizzazione non appena le condizioni lo avessero consentito. Il paese venne quindi diviso in sei regioni principali, caratterizzate dalla presenza di organi periferici di partito, di governo e militari. In mancanza di una struttura amministrativa completa, il potere del gruppo dirigente si realizzò soprattutto attraverso lo strumento della mobilitazione. Le po­ litiche venivano decise centralmente e attuate attraverso «campagne»: la prima - e simbolicamente più importante per un gruppo che aveva raggiunto il suo potere partendo proprio dalle zone rurali - fu quella per la riforma agraria, lanciata nel

1950, in base alla quale gli appezzamenti agricoli del paese vennero confiscati ai proprietari terrieri e ridistribuiti ai contadini poveri. In questa maniera il partito avrebbe potuto simultaneamente rimpiazzare le vecchie élite rurali con una struttura di potere comunista nelle campagne e ripagare il debito contratto con gli agricoltori durante gli anni della contrapposizione ai nazionalisti. Del resto, anche l’organizza­ zione della produzione e della vita nelle campagne subì un profondo mutamento: tra il 1950 e il 1952 le famiglie contadine si articolarono in gruppi di mutuo aiuto, mettendo in comune il lavoro ma non la terra né i mezzi di produzione, una strada già ampiamente percorsa nel periodo anteriore al 1949 nelle zone di competenza dei comunisti. Soltanto nel 1952 i villaggi cominciarono a essere interessati dal processo di costituzione dei collettivi agricoli, in cui il collettivo deteneva la proprietà dei mezzi di produzione e la retribuzione avveniva sulla base della quantità di terra, mezzi di produzione o lavoro conferiti dalle diverse famiglie. Dopo essersi concentrato sulla riforma terriera, nella primavera del 1951 il Pcc volse la sua attenzione alle città, dalle quali era rimasto sostanzialmente escluso dopo la rottura con il Guomindang nel 1927. Se nelle zone rurali a essere presi di mira furono i proprietari terrieri, ai quali era necessario strappare il controllo del territorio e la produzione agricola, nelle città gli obiettivi furono altri, contro i quali vennero attuate principalmente tre campagne politiche: il Movimento per la soppressione dei controrivoluzionari, che aveva come target principale i membri del Guomindang e coloro che avevano collaborato con i nazionalisti; i Tre contro, volta a contrastare principalmente i «tre mali» di cui erano preda i funzionari go­ vernativi, cioè la corruzione, lo spreco e la cultura burocratica; i Cinque contro, diretta contro la borghesia nazionale, gli industriali e i mercanti accusati di attività illecite, e volta a sradicare l’evasione fiscale, la corruzione di pubblici ufficiali, la truffa contrattuale, l’appropriazione indebita e il furto di beni dello stato e di informazioni sull’economia nazionale. Un altro obiettivo del Pcc fu risolvere la tradizionale diseguaglianza tra uomo e donna. L’ordine patriarcale cinese tollerava la dominazione delle vite delle don­ ne da parte degli uomini: la legge sul matrimonio del 1950 rese i due sessi eguali dinanzi alla legge, sancendo il diritto di una donna di chiedere il divorzio dal suo sposo. L’età legale per contrarre matrimonio fu fissata a 20 anni per gli uomini e a 18 per le donne; fu inoltre stabilito che si contraesse matrimonio solo per libera scelta, non per imposizione della famiglia. Malgrado l’assoluta modernità di questo provvedimento, il diritto di divorzio diede origine a moltissimi problemi derivanti dalla mole di domande che dovettero essere gestite. I comunisti si preoccuparono anche del cattivo stato in cui versavano i servizi sanitari nel paese, specialmente nelle zone rurali. Essi cercarono di collocare una clinica in ogni contea e di educare gli operatori sanitari a intervenire più efficace­ mente nei confronti di alcune delle più ricorrenti patologie. Ai giovani fu insegnato a riconoscere le malattie contagiose più frequenti e a diffondere nei villaggi le infor­ mazioni sull’importanza di una corretta igiene. Lo sforzo fu ampiamente ripagato e l’aspettativa di vita aumentò da 36 anni nel 1949 a 57 nel 1957. Un’altra priorità per i comunisti fu rappresentata dal miglioramento del sistema educativo. Programmi di alfabetizzazione della popolazione adulta furono istituiti in molti villaggi, e molto spesso si fece ricorso a insegnanti giovanissimi nello sforzo di migliorare velocemente il livello scolastico della popolazione, anche se questo obiettivo non sarebbe stato raggiunto pienamente ancora agli inizi degli anni Set­

tanta. Gli ideogrammi tradizionali vennero modificati dai letterati con l’obiettivo di rendere l’apprendimento della lingua scritta più agevole e, gradualmente, ideo­ grammi «semplificati» divennero la forma standard di scrittura. Al fianco di questa nutrita serie di riforme, i leader del Pcc cominciarono a premere sull’acceleratore della costruzione in senso socialista dell’economia, dando vita, nel 1953, al primo piano quinquennale di programmazione economica. Il piano risentì fortemente dell’impostazione sovietica: del resto, quello era l’unico esempio di sistema economico con il quale i leader cinesi avevano familiarità. Esso rendeva chiaro l’assunto secondo il quale la Cina aveva necessità di una forte espansione del settore dell’industria pesante e che questo obiettivo poteva essere realizzato solo attraverso lo sfruttamento dei surplus prodotti dall’agricoltura. Nel periodo del primo piano quinquennale vi furono notevoli cambiamenti istituzionali e sociali che condussero alla sostanziale eliminazione del settore pri­ vato e al controllo diretto dell’industria da parte dello stato, in un’operazione di «trasformazione socialista dell’industria». Gli imprenditori vennero convinti, anche in cambio di ingenti pagamenti, a cedere allo stato le proprie imprese. Questo processo impresse un’accelerazione notevole allo sviluppo industriale del paese, il quale, però, a differenza dell’Unione Sovietica, non poteva consentirsi, data la limitatezza delle sue risorse, di sacrificare lo sviluppo agricolo a favore di quello industriale, come venne successivamente dimostrato dal fallimento del cosiddetto Grande balzo in avanti. 3.

L’alleanza con i sovietici

In ottica internazionale, considerate le scarse possibilità di assistenza economica da parte delle nazioni occidentali, Mao decise di volgere l’attenzione verso il solo paese che avrebbe potuto aiutarlo e con cui condivideva la matrice ideologica, cioè l’Unione Sovietica. Nel 1950 fu siglato il trattato di amicizia, alleanza e mutua assistenza che era inteso a legare i due stati per sempre, anche dal punto di vista militare nel caso uno o l’altro fossero stati sottoposti ad aggressione. Allo stesso tempo, i rappresentanti dei due paesi siglarono accordi separati relativamente al ritiro delle truppe sovietiche dalla Manciuria e alla restituzione dei diritti sulla ferrovia mancese e di altre proprietà a Dalian e a Port Arthur alla Cina. Attraverso questi accordi, quindi, l’Unione Sovietica rinunciava a tutti i suoi privilegi speciali in Cina. Oltretutto, i sovietici accordarono ai cinesi un credito per un totale di circa 300 milioni di dollari, da restituire con un interesse annuo dell’1%. La guerra di Corea offrì ai sovietici l’occasione di testare la fedeltà dei comunisti cinesi, della quale Stalin non era particolarmente sicuro. Lo scoppio della guerra, nel giugno del 1950, non implicò alcuna partecipazione da parte dei cinesi, che intervennero nel conflitto solo nell’ottobre di quell’anno, quando l’Armata di libe­ razione popolare respinse l’avanzata delle forze alleate che avevano oltrepassato il 38° parallelo: i cinesi avevano del resto già intimato agli Alleati di non procedere verso il confine cinese. Il comandante delle forze alleate, Douglas MacArthur, scelse di ignorare gli avvertimenti cinesi spingendosi, con le sue truppe, fino allo Yalu, limite naturale tra il territorio nordcoreano e quello cinese. A quel punto Pechino decise di agire, respingendo militarmente gli Alleati e costringendoli a ritornare alla situazione di partenza in prossimità della zona di demarcazione al 38°

parallelo. Al termine delle ostilità, nel luglio 1953, con l’armistizio di P ’anmunjòm, approssimativamente due terzi delle divisioni da combattimento cinesi avevano servito in Corea. L’intervento in Corea non fece altro se non avvicinare ancor di più Pechino all’Unione Sovietica, a causa dell’isolamento diplomatico in cui la Cina era piombata dopo la condanna come paese aggressore da parte delFOnu e il mancato riconoscimento da parte di moltissime potenze occidentali. In aggiunta, è necessario precisare che presso le Nazioni Unite il seggio cinese era stato affidato, e lo rimase fino al 1971, ai rappresentanti nazionalisti di Taiwan. La morte di Stalin, nel 1953, rinsaldò ulteriormente il rapporto tra Pechino e Mosca, ma l’avvio del processo di destalinizzazione, guidato da Chruscév in Unione Sovietica, deteriorò le relazioni al punto che cinesi e sovietici cominciarono a scontrarsi su numerose questioni di ordine politico, ideologico, militare ed eco­ nomico. In particolare, Mao fu negativamente colpito dagli attacchi di Chruscév alla figura di Stalin e dalla decisione del leader sovietico di riaprire le relazioni con la Jugoslavia di Tito. Del resto, per Mao era impossibile comprendere Chruscév quando questi proponeva l’idea di «coesistenza pacifica» tra nazioni comuniste e capitaliste, perché ciò avrebbe minato la stessa scelta di campo che i cinesi avevano fatto dopo la fine della guerra con i nazionalisti: con la destalinizzazione Chruscév non faceva altro se non rendere nulle le condizioni in base alle quali era stata sancita l’alleanza con i cinesi nel 1950. Mao riteneva che i sovietici stessero facendo un passo indietro ideologico rispetto all’ideologia marxista-leninista e alla lotta globale per l’instaurazione del comuniSmo. La tensione semplicemente precedette la rottura tra i due vecchi alleati, che arrivò puntuale nel 1959-60 come risultato di diversi fattori: l’incontro di Chruscév col presidente americano Eisenhower teso a diminuire le tensioni con gli statu­ nitensi, la neutralità sposata da Mosca nella disputa sui confini sino-indiani, la sospensione degli aiuti economici, le polemiche scatenatesi durante le conferenze dei partiti comunisti tenute a Bucarest e Mosca. Il miglioramento nelle relazioni tra i due paesi avrebbe dovuto attendere molto a lungo. Percorso di autoverifica

1. 2. 3. 4.

Quando nacque il Partito comunista cinese? Cosa si intende per «fronte unito»? Quali furono le principali riforme attuate dai comunisti all’inizio della fase di ricostru­ zione? Quali furono le cause della frattura tra cinesi e sovietici?

Per saperne di più

M. Bergère, La Cina dal 1949 ai giorni nostri, II ed., Bologna, Il Mulino, 2003. M. Dillon, Contemporary China. An Introduction, Abingdon, Routledge, 2009. K. Lieberthal, Governing China. From Revolution Through Reform, New York, W.W. Norton & Company, 2003. J.A.G. Roberts, Storia della Cina, III ed., Bologna, Il Mulino, in corso di pubblicazione. G. Samarani, La Cina del Novecento. Dalla Fine dell’Impero a oggi, Torino, Einaudi, 2004. L. Tomba, Storia della Repubblica popolare cinese, Milano, Bruno Mondadori, 2002.

1950. La guerra di Corea di Antonio Fiori

La guerra di Corea, ancora poco studiata in Occidente, costituì il primo gran­ de conflitto internazionale dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Essa rappresentò uno snodo fondamentale per lo sviluppo della guerra fredda, mostrando chiaramente come nel secondo dopoguerra il mondo fosse diviso in due sfere di influenza rigide e in conflitto tra di loro. Lo studio del conflitto coreano evidenzia il destino di un paese distrutto e tragicamente separato, che ancora oggi soffre le conseguenze della guerra fredda.

1. Alle origini del conflitto

Il 15 agosto del 1945, non appena si diffuse la notizia della dichiarazione di resa pronunciata dall’imperatore giapponese Hirohito, i cittadini coreani poterono liberare tutta la loro gioia e l’intera penisola proruppe in festeggiamenti. L’occu­ pazione nipponica, cominciata formalmente nel 1910, era giunta al termine, anche se il prezzo della colonizzazione era stato estremamente alto per la Corea, che ne uscì molto provata. Nessuno, in quel preciso istante, avrebbe potuto immaginare quale terribile sorte il destino aveva in serbo per la penisola coreana. Già molto tempo prima della fine della guerra si era cominciato a discutere sulle modalità attraverso le quali disporre dei possedimenti coloniali nipponici. Alla conferenza del Cairo, nel novembre del 1943, il presidente americano Roosevelt, il primo ministro inglese Churchill e il leader del partito nazionalista cinese Jiang Jieshi (Chiang Kai-shek) si incontrarono per coordinare l’azione degli Alleati con­ tro l’Impero giapponese e stabilire le successive mosse da intraprendere in Asia nel dopoguerra. I tre, oltre a ribadire la loro ferma convinzione di continuare a combattere contro il Giappone fino alla sua resa incondizionata, conclusero che le colonie nipponiche, a inclusione della Corea, avrebbero riguadagnato la loro libertà e indipendenza a «tempo debito», dopo un periodo più o meno lungo di «amministrazione fiduciaria» da parte delle grandi potenze. Successivamente, nel febbraio del 1945, Roosevelt e Churchill incontrarono Stalin alla conferenza di Yalta; il leader sovietico accettò l’idea di un’«amministrazione fiduciaria» per la Corea, anche se questa avrebbe dovuto essere di breve durata. In quella sede si

decise, inoltre, che l’Unione Sovietica, alla fine del conflitto in Europa, sarebbe intervenuta contro i giapponesi in Manciuria e Corea, in modo da alleggerire la pressione sugli Stati Uniti, che avrebbero così potuto concentrarsi sul Giappone. I sovietici, infatti, dichiararono guerra al Giappone l’8 agosto 1945 e, quasi conte­ stualmente, cominciarono a penetrare in territorio coreano dal confine di Nord-Est. Gli americani cominciarono ben presto a temere che i sovietici avrebbero finito per occupare l’intera penisola: essi non erano ancora pronti a partecipare all’occupazione della Corea né tanto meno potevano a quel punto combattere contro i sovietici per scacciarli dal territorio coreano. Si pensò, quindi, di arrestare l’avanzata sovietica in Corea proponendo a Stalin la divisione della penisola in due parti all’altezza del 38° parallelo. Stalin, da una parte preoccupato per la superiorità militare degli americani e, dall’altra, desideroso di giocare un ruolo nell’occupa­ zione del Giappone, non si oppose alla proposta degli statunitensi, avallando così la creazione di due sfere di occupazione sul suolo coreano. Agli inizi di settembre del ’45, quando le truppe statunitensi comandate dal generale John R. Hodge giunsero sulla penisola trovarono una situazione politica intricata e orientata a sinistra. Per arginare questa deriva, gli americani decisero di appoggiare, come futuro leader, Syngman Rhee, acceso nazionalista e fervente anticomunista. Al Nord, invece, la scelta dei sovietici cadde su un giovane uomo, Kim Il-sóng, che si era particolarmente contraddistinto in Manciuria negli anni Trenta nelle fila della resistenza coreana in funzione anti-giapponese. Sin dai primi mesi deH’amministrazione controllata divenne chiaro che nella penisola coreana stavano nascendo due entità statuali nettamente distinte e sepa­ rate. Nonostante ciò, ancora nel dicembre del 1945, quando le potenze alleate si incontrarono alla conferenza dei ministri degli Esteri a Mosca, non solo si convenne sul carattere di transitorietà della fase di occupazione della Corea, ma anche sulla necessità di dar vita a una commissione congiunta, sovietico-americana, che avrebbe dovuto gettare le basi per la formazione di un governo coreano unificato. Tale so­ luzione, tuttavia, oltre a non soddisfare le legittime aspirazioni di autogoverno dei coreani, non poteva prevedere l’imminente e netto peggioramento delle relazioni tra Unione Sovietica e Stati Uniti, che sfociò nel 1947 nell’inizio della guerra fredda. Nel novembre del 1947, vista la situazione di stallo in cui versava la commis­ sione congiunta, venne creata dalle Nazioni Unite, peraltro largamente controllate dagli Stati Uniti, la Commissione temporanea delle Nazioni Unite sulla Corea. Tale organismo avrebbe dovuto accompagnare il paese a elezioni generali, facilitando in questa maniera la nascita di un governo coreano indipendente e, di conseguenza, di un parlamento unico. Il trasferimento di potere a questa istituzione avrebbe deter­ minato il conseguente abbandono della penisola da parte degli occupanti americani e sovietici, lasciando ai coreani la piena sovranità sul proprio territorio. Sperare che una delle due superpotenze potesse fare delle concessioni all’altra in questo frangente era tuttavia irrealistico, e infatti i sovietici si rifiutarono di riconoscere qualsivoglia autorità alla neonata Commissione, rendendo così di fatto impossibile l’indizione di elezioni al Nord. Le elezioni volte a dar vita a un’assemblea nazionale si tennero nella sola par­ te meridionale nel maggio 1948, e videro la definitiva consacrazione politica di Syngman Rhee. Quest’ultimo, infatti, venne nominato presidente il 20 luglio di quell’anno, mentre il 15 agosto fu proclamata formalmente la nascita della Repub­ blica di Corea. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite prese atto della validità

delle elezioni tenutesi al Sud, dichiarando quello appena eletto il solo governo legittimo della Corea. Le autorità del Nord risposero proclamando a loro volta le elezioni, che sancirono, il 9 settembre 1948, la nascita della Repubblica democratica popolare di Corea, in cui Kim Il-sòng assumeva la carica di primo ministro. La penisola coreana era ormai inesorabilmente spaccata in due. La Repubblica di Corea dovette confrontarsi con una serie innumerevole di difficoltà nei suoi primi anni di vita. La cronica instabilità politica del periodo im­ mediatamente successivo alla liberazione si era evoluta in insurrezione aperta, sotto forma di guerriglia, nell’estate del 1948. Rhee non aveva sostanzialmente alcuna opposizione nel paese, sia per il limitato spazio di manovra assegnato all’Assemblea nazionale, sia per l’uso sfrenato che egli fece della Legge di sicurezza nazionale, ricorrendo alla quale poteva mettere a tacere i suoi oppositori senza ostacoli. Alcune settimane prima dello scoppio della guerra, Rhee incontrò a Seoul il futuro segre­ tario di stato americano John Foster Dulles, con il quale ebbe un colloquio in cui non si parlò solo di un impegno americano nella difesa della parte meridionale della Corea, ma probabilmente anche della possibilità di sferrare un attacco sul Nord. Anche Kim Il-sòng aveva cominciato a prendere in considerazione la possi­ bilità di procedere alla riunificazione della penisola; per questo motivo, alla fine di febbraio del 1949 egli si recò a Mosca, ove ebbe un incontro con Stalin, con il quale discusse dell’opportunità di lanciare un attacco sulla parte meridionale della Corea. Stalin, inizialmente poco favorevole a un’azione di questo tipo, fu convin­ to dalle rassicurazioni di Kim, secondo cui l’attacco avrebbe comportato scarsi rischi e successo assicurato e, soprattutto, dalla mutata situazione in Cina, dove i comunisti avevano ormai assunto il potere. In aggiunta, la dichiarazione fatta nel gennaio 1950 dal segretario di stato americano, Dean Acheson, secondo cui la linea di difesa statunitense avrebbe incluso il Giappone e le Filippine, lasciando fuori la Corea e Taiwan, potrebbe aver acceso le speranze di successo di Stalin, Kim e Mao. 2.

Il conflitto fratricida

L’origine del conflitto coreano continua a dare adito a elaborate discussioni nella storiografia contemporanea. Senza ombra di dubbio la divisione del paese era una condizione poco gradita ai coreani: anche i leader dell’epoca mal sopportavano l’esistenza di due governi distinti nella penisola, ma ritenevano questa condizione di mera temporaneità in attesa della riunificazione. Non era infrequente che sul confine tra i due paesi si verificassero scaramucce militari, alcune anche di seria entità. Tale situazione era ulteriormente esacerbata dal clima di tensione tra le due superpotenze e dal suo allargamento all’Asia, dove il successo dei comunisti di Mao in Cina e la firma del trattato di amicizia sino-sovietico, nel 1950, avevano rappre­ sentato un palese insuccesso per gli Stati Uniti - che a lungo avevano sostenuto Jiang Jieshi - e, al contempo, una fonte di instabilità nella regione. Malgrado siano state scritte intere biblioteche sulla guerra di Corea, molti sono ancora i punti oscuri che avvolgono tale avvenimento, anche a causa del segreto di stato che incombe su numerosi documenti. Uno degli interrogativi maggiori riguarda proprio le responsabilità della «prima mossa», visto che rimane ancora molto arduo stabilire con precisione cosa accadde nelle prime ore del mattino del 25 giugno 1950. Di certo violenti scambi di artiglieria riecheggiarono nella penisola

di Ongjin, sul Mar Giallo, e poche ore dopo l’inizio del confronto il fronte sudco­ reano fu travolto dall’avanzata dei nordcoreani, che procedettero speditamente alla conquista di Seoul, facendola capitolare in soli tre giorni. La rapidità dell’attacco nordcoreano mostrò chiaramente la mancanza di preparazione ed esperienza dell’e­ sercito del Sud, oltre al suo basso morale. Il presidente Rhee decise di allontanarsi immediatamente dalla capitale, cercando rifugio nel perimetro difensivo della città di Pusan, gettando nello sconforto sia le truppe che i civili. Gli americani portarono immediatamente l’accaduto all’attenzione delle Nazioni Unite, ottenendo prima una ferma condanna delle operazioni militari nordcoreane e, in seguito, l’autorizzazione all’invio di forze armate internazionali in soccorso della Corea del Sud. Queste risoluzioni avrebbero potuto essere sot­ toposte al veto dell’Unione Sovietica in sede di Consiglio di sicurezza, ma in quel frangente i sovietici stavano boicottando le Nazioni Unite a causa del mancato riconoscimento della Repubblica popolare cinese. Di fatto, l’assenza del rappre­ sentante sovietico in sede di Consiglio di sicurezza diede il via libera all’intervento militare internazionale. Gli Stati Uniti, a cui apparteneva la gran parte delle truppe alleate, furono na­ turalmente posti a capo del contingente internazionale, composto da 16 nazioni che contribuirono inviando contingenti militari. Il comando delle operazioni fu assegnato dal presidente Truman al generale Douglas MacArthur. Questi ordinò un attacco navale diversivo sulla costa Est, spingendo i nordcoreani a credere che una controf­ fensiva sarebbe potuta giungere da quel lato. Il 15 settembre 1950, invece, il teatro dello sbarco alleato fu Inch’ón, sulla costa occidentale, non lontano da Seoul. Questa magistrale mossa militare consentì a MacArthur di rompere l’assedio al perimetro di Pusan, ove le truppe del Sud si erano concentrate, e di costringere i nordcoreani a ripiegare verso Nord. La prima fase della guerra si concluse il 30 settembre 1950, allorché gli Alleati attraversarono la linea di demarcazione spingendo all’indietro i norcoreani in rapida ritirata. A MacArthur fu però ordinato di evitare qualunque mossa che potesse scatenare una guerra su più ampia scala con i sovietici o i cinesi. Mao Zedong aveva già deciso di scendere in guerra al fianco dei nordcoreani nel caso in cui gli americani avessero varcato il 38° parallelo, minacciando così direttamente la Cina. Un’eventuale sconfitta nordcoreana avrebbe significato l’instaurazione di un regime alleato degli Stati Uniti sui confini della Manciuria, e una tale eventualità avrebbe minacciato il processo di consolidamento del regime comunista cinese, fa­ vorendo forse i nazionalisti di Jiang Jieshi, rifugiatisi a Taiwan. Poco dopo lo sbarco americano, quindi, il primo ministro cinese Zhou Enlai diffidò pubblicamente gli Alleati dall’oltrepassare la linea di demarcazione; gli statunitensi non dettero troppo peso a queste dichiarazioni, anche perché non avevano una grande considerazione delle capacità militari cinesi. Le forze alleate presero P’yòngyang il 19 ottobre e poi continuarono a spingersi verso Nord, fino alle rive del fiume Yalu, il confine naturale tra la Corea del Nord e la Cina. Fu proprio a quel punto, quando MacArthur riteneva di aver ormai avuto la meglio sull’esercito di Kim Il-sòng, che più di 200.000 «volontari» cinesi comin­ ciarono a penetrare il territorio nordcoreano, con un impatto violentissimo sulle truppe alleate e sulle stesse sorti del conflitto. Gli americani non riuscirono in alcun modo a intercettare i numerosi soldati cinesi che con circospezione superavano le rive dello Yalu: essi infatti si muovevano con il favore della notte, nascondendosi nelle montagne durante il giorno.

L’aviazione americana, che aveva bombardato le città e gli accampamenti nord­ coreani fin dall’inizio del conflitto, assunse in questo momento un ruolo ancor più centrale. MacArthur, infatti, ordinò la distruzione di qualunque infrastruttura civile e militare per migliaia di chilometri all’interno del territorio della Corea del Nord. Intere città furono ridotte in cenere in conseguenza dell’uso di bombe incendiarie e del napalm, e questo accanimento, durato sostanzialmente fino alla ratifica dell’ar­ mistizio nel 1953, ebbe delle ricadute profonde anche sul futuro della Corea del Nord, che precedentemente aveva rappresentato il cuore industriale e produttivo della penisola. Con l’aiuto dei cinesi, tuttavia, le truppe nordcoreane si risollevarono e ripresero la loro marcia verso Sud, reimpossessandosi di Seoul il 4 gennaio 1951. In marzo le truppe alleate ripresero Seoul e oltrepassarono nuovamente il 38° parallelo, ma non furono in grado di spingersi oltre. MacArthur, intanto, si lasciava andare a dichiarazioni farneticanti in cui invocava l’allargamento della guerra e la possibilità di fare ricorso all’arma nucleare per avere la meglio sui nemici. Tali posizioni estremistiche, e la paura che la situazione potesse sfuggire di mano dando il via a un conflitto su più larga scala, fecero sì che Truman richiamasse MacArthur in patria, affidando il comando al generale Ridgway. Nei due anni successivi alla rimozione di MacArthur la guerra non ebbe par­ ticolari sussulti, facendo muovere l’asticella leggermente più a Nord o più a Sud del 38° parallelo a seconda degli esiti delle continue battaglie. Data questa situazione di stallo, gli attori in gioco cercarono altre vie per ne­ goziare una possibile conclusione del conflitto. I primi tentativi in tal senso erano stati fatti già nel luglio del 1950, quando i negoziatori si erano incontrati a Kaesòng, l’antica capitale della dinastia Koryò, a Nord del 38° parallelo. I colloqui si trasci­ narono stancamente per quasi tutta l’estate del 1951, senza segnare alcun progresso significativo. Verso la fine di luglio gli Alleati presero a bombardare P’yòngyang violentemente, con l’intento di conferire un’accelerazione ai negoziati, ma i bom­ bardamenti non sortirono alcun effetto particolare se non quello di mettere fine agli sterili colloqui di Kaesòng. In ottobre le parti si dissero pronte a riprendere le trattative, ma da quel mo­ mento in avanti fu il piccolo villaggio di P’anmunjóm, sulla linea di demarcazione, a essere scelto come luogo ufficiale di incontro, rimanendolo fino ai giorni nostri. I negoziati produssero alcuni passi in avanti, ma solo per arenarsi nuovamente, e per lungo tempo, sulla questione della sorte dei prigionieri di guerra. Il numero dei prigionieri nelle mani degli Alleati era circa dieci volte maggiore di quelli cat­ turati dai comunisti: ciò rendeva naturalmente impossibile uno scambio alla pari. Gli Alleati volevano dare ai prigionieri la possibilità di scegliere di rimanere nel «mondo libero», mentre i comunisti insistevano perché tutti i prigionieri fossero reimpatriati in Corea del Nord o in Cina. Le elezioni presidenziali americane del 1952, che contrapposero il democratico Adlai E. Stevenson all’eroe della Seconda guerra mondiale, Dwight D. Eisenhower, furono viste come un referendum sulla Corea. Eisenhower ottenne un successo nettissimo, interpretando questa sua affermazione come un monito ad andare via dalla Corea nel più breve tempo possibile. Immediatamente dopo la sua elezione, Eisenhower volò in gran segreto alla volta della Corea, per incontrare gli ufficiali americani e rendersi conto della situazione di persona. Fu necessario attendere fino alla primavera del 1953 per notare dei significativi progressi sulla questione dei prigionieri di guerra. L’8 giugno di quell’anno, infatti,

le due parti raggiunsero un accordo in base al quale quei prigionieri che avessero rifiutato di fare ritorno ai loro paesi d’origine avrebbero dovuto essere messi sotto gli auspici di una commissione neutrale per un periodo di tre mesi. Se, alla fine dei tre mesi, essi avessero ancora opposto un rifiuto al reimpatrio sarebbero stati posti in libertà. Con la soluzione all’annosa questione dei prigionieri sembrava che la conclusione del conflitto fosse imminente. Il 27 luglio del 1953, proprio a P ’anmunjòm, le parti firmarono un armistizio, alla cui stipula non presero parte i sudcoreani. L’armistizio riconosceva in sostanza i confini prebellici e sanciva la creazione di un territorio cuscinetto tra i due paesi, la cosiddetta «zona smilitarizzata», in cui nessuno avrebbe dovuto avere accesso. Nonostante ciò, sul confine avrebbero continuato a fronteggiarsi all’incirca un milione di soldati, rendendolo uno dei territori con la maggiore concentrazione di truppe al mondo. 3.

Le conseguenze del conflitto

La guerra di Corea fu una tragedia di proporzioni epocali. Le vittime furono quasi tre milioni - circa il 10% dell’intera popolazione della penisola - in buona parte civili, milioni di famiglie furono separate per sempre, il paese ridotto allo stremo dal punto di vista economico e infrastrutturale e, soprattutto, diviso a metà esattamente come prima del conflitto. Immediatamente dopo la guerra gli statunitensi intervennero pesantemente, soprattutto dal punto di vista finanziario, in soccorso della Corea del Sud, in modo da favorirne la ricostruzione. Questo aiuto fu necessario per rimettere in moto un sistema economico che usciva dal conflitto completamente devastato. La guerra fratricida era servita al regime sudcoreano per legittimarsi attraverso lo spettro - continuamente evocato - del comuniSmo, che aveva funzionato non solo da collante, ma anche come giustificazione dello stesso stato sudcoreano: la Corea del Sud si trasformava in un avamposto della lotta al comuniSmo. La guerra aveva lasciato in dote anche un esercito nazionale più nutrito, meglio addestrato ed equipaggiato. Da quel momento, inoltre, la presenza statunitense in Corea avrebbe significato anche una più stringente dipendenza culturale dall’Occidente. Nella parte settentrionale la guerra aveva determinato una chiusura pressoché ermetica. Il regime cominciava a mostrare il suo lato più intransigente: l’ossessione della mobilitazione di massa, l’indottrinamento ideologico della popolazione, l’ultranazionalismo, la centralità dell’autosufficienza, l’ostilità nei confronti di Seoul e dei suoi alleati hanno contribuito a fare della Corea del Nord un paese isolato e imperscrutabile, la cui natura ha alimentato il clima di tensione in cui la penisola coreana è stata costretta a vivere per decenni. La guerra scoppiata con l’obiettivo di riunificare la penisola aveva finito per dividerla definitivamente, dando origine a due paesi distinti in conflitto tra loro e consolidando gradualmente due sistemi ideologici assolutamente antitetici. Per tutti i coreani, del Sud e del Nord, la divisione era una condizione allo stesso tempo inaccettabile e temporanea. Nondimeno, la terribile tragedia del paese si era compiuta.

Percorso di autoverifica

1.

In quali condizioni si trovò la penisola coreana al termine della Seconda guerra mon­ diale? 2. Perché le truppe nordcoreane oltrepassarono il 38° parallelo? 3. Descrivete le fasi in cui si articolò il conflitto coreano. 4. Quando e secondo quali modalità avvenne l’intervento occidentale? 5. Quale fu il ruolo delle Nazioni Unite nella guerra di Corea? 6. Per quale ragione e quando i «volontari» cinesi attraversarono il fiume Yalu? 7. Perché i negoziati tra le parti si trascinarono a lungo? 8. Il conflitto coreano può definirsi una guerra internazionale o una guerra civile?

Per saperne di più

B. Cumings, Korea’s Place in thè Sun: A Modem History, New York, W.W. Norton & Com­ pany, 2005. B. Cumings, The Korean War: A History, New York, Modera Library Chronicles, 2010. S. Hugh Lee, La Guerra di Corea, Bologna, Il Mulino, 2003. P. Lowe, The Korean War, Basingstoke, Macmillan, 2000. W. Stueck, The Korean War. An International History, Princeton, N.J., Princeton University Press, 1995.

1956. Una svolta nel secolo? di Stefano Bottoni

Idealmente iniziato a febbraio, con il XX congresso del Pcus e ia denuncia dei crimini di Stalin pronunciata da Chruscèv, il 1956 si chiuse simbolicamente a inizio novembre con la sanguinosa repressione della rivolta un­ gherese da parte dei carri armati sovietici. Fu un anno di crisi internazionali anche al di fuori del blocco sovietico, con l’aggressione anglo-francese dell’Egitto e la crisi di Suez. Il rafforzamento dell’egemonia americana e sovietica aH’interno delle rispettive sfere d’influenza aprì la strada a forme di «convivenza» più o meno pacifica tra i blocchi politico-militari della guerra fredda, mentre la capacità dimostrata da Mosca di bloccare ogni spinta centrifuga garantì per decenni la sopravvivenza dell’impero sovietico.

1.

Il XX congresso del Pcus e il suo impatto in Europa orientale

Il 1956 fu un anno di rinnovamento e crisi, che chiuse la fase di più aspro confronto della guerra fredda per aprirne una più aperta e dinamica, sebbene non meno conflittuale. In realtà, i meccanismi che avrebbero portato ai conflitti esplosi quell’anno si erano già innescati in seguito alla morte di Stalin, avvenuta il 5 marzo 1953. Alla destalinizzazione avviata in Unione Sovietica e nel blocco orientale (il «disgelo» nelle parole dello scrittore Il’ja Grigorevic Erenburg) si accompagnò la graduale ripresa di rapporti fra l’Urss e la Jugoslavia di Tito e la fondazione, nel 1955, del movimento dei paesi non allineati, guidati dal primo ministro indiano Nehru e dal presidente egiziano Nasser. Nello stesso 1955 i paesi del blocco sovie­ tico avevano formalizzato la propria cooperazione militare mediante la costituzione del patto di Varsavia, un’alleanza dall’assetto strategico offensivo contrapposta alla Nato. Fu tuttavia il X X congresso del Pcus a dare avvio a un’ondata di cambiamenti che avrebbe presto sconvolto equilibri ritenuti consolidati non solo all’interno del blocco sovietico, ma nell’intera rete delle relazioni internazionali. Il rapporto sui crimini e gli errori di Stalin, letto nella notte del 24-25 febbraio 1956 dal segretario del Pcus Nikita Chruscèv, gettò nel panico i partiti comunisti europei, i cui leader provenivano senza eccezione dall’esperienza politica e culturale dello stalinismo, e

provocò nel blocco sovietico una grave crisi di legittimità. In aprile fu sciolto il Cominform, ormai svuotato di ogni funzione dopo la riconciliazione con Tito. In Polonia e in Ungheria l’ammissione degli errori e delle illegalità rafforzò le correnti riformiste e contribuì a delegittimare le forze al potere. A Varsavia il rapporto «segreto» divenne di pubblico dominio pochi giorni dopo la morte del segretario comunista Bierut. Nei dibattiti pubblici organizzati durante la primavera il partito polacco si divise fra coloro che intendevano riformare le istituzioni dello stalinismo e i conservatori, con il nuovo segretario Edward Ochab nel ruolo di mediatore. La censura fu allentata, il parlamento riacquistò un più alto profilo pubblico, molti oppositori furono rilasciati, mentre Wladislaw Gomulka si riaffacciava alla vita politica dopo anni di ostracismo. Nella primavera-estate 1956 molti polacchi non respingevano il sistema comunista in quanto tale, ma ne chiedevano una declinazione più umana e «nazionale». L’illusione di una liberalizzazione controllata si spezzò con la rivolta scoppiata nel centro industriale di Poznah il 28 giugno. Nata come un conflitto sindacale di carattere economico, la protesta degli operai del complesso metallurgico intito­ lato a Stalin si trasformò, il 29-30 giugno, in un’insurrezione repressa nel sangue dalle forze speciali polacche, sostenute da contingenti sovietici. La rivolta destò impressione a Varsavia come a Mosca. Il 18 luglio, il VII Plenum del CC del par­ tito polacco fissò norme per il ripristino della «legalità», mentre l’interpretazione ufficiale della rivolta di Poznah si premurò di distinguere fra i pochi provocatori e la moltitudine degli onesti, che rivendicavano migliori condizioni di lavoro e la rimozione dei dirigenti compromessi. In autunno lo stato di agitazione si allargò a tutto il paese, coinvolgendo non solo operai (questi ultimi riuniti in consigli elettivi), ma anche contadini e studenti. I manifestanti chiedevano norme di lavoro sostenibili, più attenzione ai beni di consumo e la fine della collettivizzazione agricola. I conservatori «mo­ scoviti» prospettarono concessioni simboliche, o demagogiche: la cooptazione di Gomulka nell’Ufficio politico, il rilascio del cardinale Wyszynski, un aumento dei salari e la purga dei numerosi ebrei dagli apparati statali. La pressione della piazza si esprimeva ormai in assemblee e manifestazioni spontanee convocate in tutto il paese, nelle quali trovava sfogo un’opposizione diffusa al regime e, soprattutto, alla dipendenza del paese dall’Unione Sovietica. L’VIII plenum del CC, convocato per il 19 ottobre in presenza di Gomulka e di una delegazione sovietica al massimo livello si svolse in un clima di recriminazioni reciproche e intimidazioni, mentre le truppe sovietiche avanzavano su Varsavia. Il giorno 20, all’insaputa dei sovietici, appena tornati a Mosca, Ochab lasciò la carica di segretario generale a Gomulka, mentre diversi «stalinisti» guidati dal ministro della Difesa Rokosovskij furono allontanati dai vertici del partito. La manovra fece infuriare Chruscèv, il quale, dopo aver ponderato un intervento militare per reprimere l’insubordinazione di Varsavia, optò per una soluzione politica della crisi in cambio della garanzia della permanenza della Polonia nel patto di Varsavia. Il 24 ottobre 1956 Gomulka chiese all’immensa folla riunitasi nella capitale per acclamarlo come un eroe nazionale di sospendere ogni manifestazione e di riprendere il lavoro. L’ottobre polacco si chiuse dunque con un compromesso politico su tre punti essenziali: la decollettivizzazione della terra e il mantenimento della piccola pro­ prietà contadina; la fine del controllo sovietico sulle strutture militari polacche, con il richiamo dei consiglieri militari sovietici e le dimissioni del ministro della Difesa Rokosovskij; e, infine, il rafforzamento dei rapporti con la chiesa cattolica

che implicò il rilascio di Wyszyhski, il 28 ottobre. Nei mesi successivi alla crisi, le energie sprigionatesi nei dibattiti e nelle manifestazioni dell’autunno si incanalarono in una liberalizzazione controllata. Alle elezioni del gennaio 1957, oltre un terzo dei mandati fu assegnato agli alleati contadini e democratici, molti altri a candidati indipendenti e una dozzina al movimento cattolico Znak (simbolo), tollerato dalle autorità e appoggiato dalle gerarchie ecclesiastiche. Ciò avrebbe rappresentato sino al 1989 il massimo di pluralismo politico concesso in Europa orientale da un regime comunista. Nonostante gli spazi di autonomia permessi alla società si restrinsero sin dal 1957-58, l’impatto della destalinizzazione fu così profondo da trasformare la Polonia di Gomulka e dei suoi successori in un sistema politico autoritario ma non più totalitario, dotato di una società vitale e assertiva. 2.

La rivoluzione ungherese e la crisi di Suez

La rivoluzione ungherese che prese avvio sull’onda delle manifestazioni polac­ che fu l’esito di una crisi politica che durava dalla primavera 1953 e al centro della quale vi era l’insanabile conflitto fra l’ala stalinista e quella riformatrice del Partito comunista. All’inizio del 1956 gli stalinisti, guidati dal Màtyàs Ràkosi, riuscirono a emarginare Imre Nagy e i suoi seguaci, ma dopo il XX congresso del Pcus l’op­ posizione interna riprese vigore. Ritenuto il principale responsabile delle illegalità e degli errori economici degli anni 1948-53, nell’estate Ràkosi fu abbandonato anche dal Cremlino, costretto a dimettersi da segretario generale ed esiliato in Urss. Le autorità ignorarono, tuttavia, la richiesta dell’opposizione interna di un ritorno di Nagy al vertice del partito e sostituirono Ràkosi con Ernò Gero, un fun­ zionario dogmatico e implicato nella stessa disastrosa politica. Mentre in Polonia la credibilità del cambiamento fu assicurata dalle concessioni e dalla popolarità del nuovo leader, in Ungheria la destituzione di Ràkosi non spense e anzi alimentò l’insoddisfazione popolare. Questa si nutriva di un doppio ordine di motivazioni: emotive e «nazionali», legate alla presenza delle truppe di occupazione sovietica, ed economiche. Anche il quadro internazionale contribuì a destabilizzare la situazione. La popolazione era al corrente delle manifestazioni in corso in Polonia, guardava con speranza al ritorno di Tito nella comunità socialista e, soprattutto, interpretava erroneamente il trattato di pace con l’Austria del maggio 1955, il ritiro delle truppe sovietiche da quel paese e l’ammissione dell’Ungheria e degli altri paesi dell’Europa orientale all’Onu, nel dicembre 1955, come eventi forieri di un cambiamento. L’in­ garbugliata situazione ungherese mise in allerta anche il rappresentante sovietico in Ungheria, l’ambasciatore Jurij Andropov, che coltivava una vasta rete di rapporti informali all’interno del partito ungherese. Il malcontento e le tensioni interne ed esterne al partito esplosero in ottobre, dopo i solenni funerali celebrati all’ex ministro dell’Interno, Làszló Rajk, e ad altri esponenti comunisti caduti vittime delle purghe staliniste. Il 22 ottobre, gli studenti convocarono nella capitale un’assemblea nella quale vennero avanzate precise richieste sociali, politiche e simboliche (aumento dei salari e delle borse di studio, libere elezioni, ritiro delle truppe sovietiche, reintroduzione dello stemma prebellico sulla bandiera nazionale). Per il giorno successivo, il 23 ottobre, fu convocata una manifestazione di solidarietà con gli studenti polacchi. Le autorità mostrarono incertezza: in un primo momento vietarono, ma in seguito autoriz­

zarono, la manifestazione, che divenne una marcia di protesta cui parteciparono decine di migliaia di persone. Dopo un raduno davanti al parlamento, gli scontri armati iniziarono nella serata alla sede della radio, dove altri cittadini chiedevano la lettura del programma degli studenti ma dovettero, invece, ascoltare un discorso di Gero, fortemente provocatorio nei confronti dei manifestanti. Nelle prime ore la repressione sui civili, armatisi grazie al saccheggio di alcune caserme cittadine, non fu condotta dalle truppe sovietiche, che su richiesta dello stesso Gero entrarono a Budapest all’alba del 24 ottobre, quanto piuttosto dalle forze di sicurezza ungheresi. Nella notte Nagy venne nominato capo del governo, mentre le autorità ordinaro­ no lo stato d’emergenza e il coprifuoco: un espediente che avrebbe consentito in seguito di identificare nel politico riformista il responsabile della repressione. L’ap­ parato statale si disintegrò con una rapidità che sorprese tutte le parti in conflitto. Per oltre una settimana Budapest visse in uno stato di guerra non dichiarata fra le truppe sovietiche, sostenute dalla polizia politica ungherese, e diverse migliaia di civili armatisi alla meglio. L’esercito ungherese ricevette l’ordine di restare nelle caserme. Pochi furono i militari che seguirono l’esempio del colonnello Pài Maléter e della sua guarnigione, passati dalla parte dei rivoltosi il 28 ottobre. In provincia la rivoluzione ebbe un carattere meno violento e più negoziato. In ogni centro urbano e capoluogo distrettuale si formarono comitati rivoluzionari che presero il controllo degli organi di governo. I funzionari comunisti più moderati e stimati dalla popolazione furono cooptati nelle nuove istituzioni. I protagonisti della rivolta (i comunisti riformisti, i cittadini in armi, gli operai, i contadini) nutrivano visioni difficilmente conciliabili del socialismo e del multipartitismo e questa circostanza indebolì le possibilità di successo di un’insurrezione che nessuno aveva pianificato, né previsto. Imre Nagy fu chiamato al governo senza godere dell’appoggio sovietico e senza disporre di un apparato disposto a eseguire i suoi ordini; questi non guidò, ma piuttosto rincorse una rivoluzione antisovietica nella quale il funzionario, con un passato di emigrazione moscovita, stentava a identificarsi. Il Partito comunista aveva subito un processo di delegittimazione tale da vanificare gli effetti del cambio al vertice: nonostante Jànos Kàdàr, ex ministro degli Interni reduce da cinque anni di prigione per volere di Ràkosi, sostituisse il 25 ottobre l’impopolare Gero, questi conservava sui sovietici un’influenza che uti­ lizzò per complottare contro Nagy. Il 28 ottobre, dopo una trattativa serrata con gli inviati sovietici, Nagy annunciò la formazione di un governo nazionale disposto ad accogliere alcune delle rivendicazioni dei rivoltosi: il ritiro dei contingenti sovietici dalla capitale, il cessate il fuoco, lo scioglimento della polizia politica, rimpiazzata da una nuova forza di sicurezza comprendente i rivoluzionari, e l’amnistia per tutti i combattenti. Il 30-31 ottobre la rivoluzione giunse a una svolta e impose ai sovietici una decisione sulle sorti dell’Ungheria. Sotto la pressione dell’opinione pubblica, Nagy annunciò la restaurazione del multipartitismo, formò un nuovo governo che includeva i partiti, nel frattempo ricostituitisi, della breve transizione democratica postbellica, e cercò di trasformare le milizie spontanee in una Guardia rivoluzionaria. I messi del Cremlino, Mikojan e Suslov, approvarono i primi atti del secondo governo Nagy e spinsero il Partito comunista a sciogliersi e a ricostituirsi, il 31 ottobre, come Partito socialista dei lavoratori ungheresi, sotto la guida di Kàdàr. Lo scenario internazionale aveva tuttavia subito nel frattempo un drammatico mutamento con lo scoppio della crisi di Suez. Presidente dal 1952 della neoco­ stituita repubblica egiziana, Gamal Abdel Nasser eliminò nell’ottobre 1956 la

primate della chiesa cattolica ungherese, József Mindszenty, liberato pochi giorni prima insieme ad altre centinaia di prigionieri politici, lesse alla radio un discorso di aspra condanna del regime comunista, nel quale domandò la riparazione dei torti compiuti ai danni della chiesa cattolica, come l’esproprio dei possedimenti agricoli e la chiusura delle scuole confessionali. 3.

L’eredità d e ll 956

Il secondo intervento sovietico annullò ogni margine di manovra. All’alba del 4 novembre il comando sovietico dette il via a un’imponente operazione militare denominata «Tempesta», che piegò in una settimana la resistenza dei civili e delle poche unità militari a disposizione degli insorti. Dopo aver lanciato, la mattina del 4 novembre, un appello radiofonico a proseguire la difesa, Imre Nagy e altri dirigenti di spicco si rifugiarono nell’ambasciata jugoslava. Nonostante l’immunità diplomatica accordata dal governo di Belgrado, il 22 novembre le forze speciali sovietiche arrestarono il primo ministro e i suoi seguaci. Il primo ministro sarebbe rimasto in prigionia per oltre un anno in una località romena presso Bucarest, prima di essere riportato in Ungheria per essere sottomesso al processo che lo avrebbe condannato a morte nel giugno 1958. Mindszenty si rifugiò presso l’ambasciata statunitense, dalla quale sarebbe uscito soltanto nel 1971. Nel frattempo Kàdàr aveva lanciato un appello per la costituzione di un gover­ no rivoluzionario operaio-contadino. Il 7 novembre i suoi sostenitori entrarono a Budapest scortati da unità sovietiche e iniziarono la ricostituzione delle strutture di potere comuniste. Il bilancio delle tre settimane di scontri registrò fra gli insorti oltre 2.500 morti e 10.000 feriti: oltre l’80% delle vittime erano operai e la metà di esse aveva meno di trent’anni. Le perdite sovietiche, soprattutto nella prima fase della rivolta, furono anch’esse gravi: 722 morti e quasi 1.500 tra feriti e dispersi. Fino a dicembre, quando le autorità ungheresi chiusero i confini occidentali, quasi 200.000 persone lasciarono il paese attraverso l’Austria o la Jugoslavia. La rivoluzione ungherese è stata oggetto, prima e dopo il 1989, di un ampio dibattito storiografico e civile. L’interpretazione ufficiale la bollò a lungo come un movimento controrivoluzionario fomentato dall’estero. Dalle ricerche più recenti emerge l’e­ strema differenziazione delle posizioni politiche degli insorti: a parte un consenso indifferenziato sull’indipendenza nazionale e il distacco da Mosca, le loro aspira­ zioni spaziavano dal socialismo anti-stalinista alla restaurazione della democrazia capitalistica, passando per la «terza via» dei populisti agrari. Il 1956 viene generalmente considerato una spia della crisi che un trentennio più tardi, nel 1989-91, avrebbe determinato il crollo dei sistemi di tipo sovietico in Europa orientale. In una prospettiva di lungo periodo, depurata dai fattori locali ed emotivi che caratterizzano la sterminata memorialistica, la portata storica del XX congresso del Pcus, dell’ottobre polacco e soprattutto della rivolta ungherese esce, tuttavia, ridimensionata. Se il 1956 precipitò i partiti comunisti occidentali, politi­ camente ed economicamente legati a Mosca, in una crisi di consenso e legittimità sociale dalla quale, con l’eccezione del Pei, non si sarebbero più ripresi, nel blocco orientale la crisi ungherese avviò dinamiche assai diverse. Secondo Mark Kramer, il 1956 non anticipò affatto la stagnazione degli anni Settanta e Ottanta, mentre è vero l’esatto contrario: la decisione presa da Chruscév di invadere l’Ungheria

ricompattò - almeno temporaneamente - i regimi comunisti e garantì al blocco sovietico oltre tre decenni di sopravvivenza. L’Urss e i suoi satelliti vissero fino alla prima metà degli anni Settanta il periodo di maggiore vitalità economica e stabilità sociale. A partire dal 1956 il blocco orientale perseguì una politica di sviluppo che, senza rinnegare il primato dell’industria pesante, prestasse maggiore attenzione alle esigenze fondamentali della popolazione. La tiepida reazione americana alle crisi polacca e ungherese rassicurò la leadership sovietica sull’accettazione, da parte di Washington, degli equilibri della guerra fredda in Europa. Nuove espressioni come «coesistenza pacifica» e «distensione» sostituirono l’attesa di un «inevitabile» conflitto armato che nessuna delle parti aveva intenzione di combattere. Dal canto suo, l’Unione Sovietica uscì dalla dimensione eurocentrica propria dello stalinismo e acquisì i tratti di un impero in espansione, votato all’offensiva nei paesi asiatici e africani di recente decolonizzazione, fra i quali riuscì a stabilire la propria influenza nel nome della formazione di un «campo del progresso e della pace» e della com­ petizione economica e tecnologica con l’Occidente. Percorso di autoverifica

1. 2.

Quali furono i segnali di disgelo in Unione Sovietica dopo la morte di Stalin? Quali furono i termini del compromesso fra potere comunista e popolazione, che con­ sentì alla Polonia di evitare l’intervento sovietico durante la crisi dell’ottobre 1956? 3. Perché lo stato comunista ungherese si disgregò immediatamente dopo l’inizio della rivolta a Budapest? 4. Come si giunse alla decisione sovietica di soffocare la rivolta ungherese? 5. Che legame può essere individuato fra la crisi ungherese e quella di Suez? 6. Quale eredità lasciò il 1956 in Unione Sovietica e nel blocco orientale?

Per saperne di più

S. Bottoni, Un altro Novecento. L’Europa orientale dal 1919 ad oggi, Roma, Carocci, 2011. M. Byrne (a cura di), The 1956 Hungarian Revolution, National Security Archive Cold War Reader, Budapest, Central European University Press, 2002. M. Flores, 1956, Bologna, Il Mulino, 1996. B. Fowkes, L’Europa orientale dal 1945 al 1970, Bologna, Il Mulino, 2004. J. Rothschild e N. Wingfield (a cura di), Return to Diversity, A Eolitical History of East Central Europe Since World War II, Oxford, Oxford University Press, 2000. D. Varble, The Suez Crisis 1956, London, Osprey, 2003.

1957.1trattati di Roma e le origini dell’integrazione europea di Maurizio Cau

I trattati di Roma (1957) rappresentano il risultato di un cammino decennale compiuto dai paesi dell’Europa occidentale alla ricerca di strumenti di integra­ zione economica e politica capaci di garantire, nella complessa fase della ripre­ sa postbellica, un miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni e delle relazioni tra gli stati. Intimamente legata alle evoluzioni della guerra fredda, la prima fase del processo di integrazione europea ha seguito uno svolgimento complesso e a tratti imprevisto. A prevalere nel progetto di costituzione di un’unità politica europea è stata l’ottica funzionalista, orientata a uno sviluppo graduale dell’integrazione, da perseguire attraverso la fusione progressiva di singole funzioni statali.

1.

Le origini dell’integrazione e il contesto internazionale

La firma dei trattati di Roma con cui, il 25 marzo 1957, fu sancita l’istituzione della Comunità economica europea (Cee) e della Comunità europea dell’energia atomica (Euratom) costituisce una delle tappe fondamentali del processo di inte­ grazione europea avviatosi nel secondo dopoguerra. Ogni inizio è al tempo stesso un approdo, tanto più se in gioco ci sono fenomeni complessi come la costruzione di ordini politici ed economici sovranazionali. Vale dunque la pena richiamare le principali tappe che, non senza sorprese e svolte impreviste, hanno condotto alla definizione, nella seconda metà degli anni Cinquanta, delle basi istituzionali intorno a cui si sarebbe in seguito edificata l’unità europea. E necessario tornare al periodo immediatamente successivo al secondo con­ flitto mondiale, poiché è nel panorama di distruzione e desolazione dell’Europa postbellica che hanno preso le mosse i primi tentativi di dare forma a un ordine mondiale capace di evitare nuove cadute nella catastrofe. La vicenda europeista va dunque inquadrata nel più generale contesto politico del dopoguerra, segnato dalla rottura dell’alleanza anti-hitleriana e da una progressiva polarizzazione del campo ideologico. In seguito all’enunciazione della «dottrina Truman», in base alla quale gli Stati Uniti si impegnavano a «sostenere i popoli liberi che si oppongono ai tentativi di oppressione da parte di minoranze armate o di pressioni esterne»,

e in conseguenza del definitivo fallimento delle trattative tra Alleati occidentali e Unione Sovietica per la definizione di un possibile trattato di pace con la Germania, una cortina di ferro calò sull’Europa. La contrapposizione tra il costituendo blocco occidentale e l’area di influenza sovietica, giocata in buona parte intorno al destino della Germania e alla conseguen­ te ridefinizione degli assetti europei, andò assumendo contorni sempre più accesi. Il varo del piano Marshall, promosso dagli Stati Uniti a sostegno della ricostruzione e della ripresa economica europea, sancì l’inconciliabilità tra i disegni politici ameri­ cani e quelli sovietici. La successiva costituzione del Cominform (1947), l’organismo che riuniva i partiti comunisti e attraverso il quale l’Unione Sovietica reagiva alla dottrina Truman promuovendo la propria egemonia sui paesi dell’Est, non fece che rendere ancor più esplicita la divisione dello scacchiere internazionale in due blocchi contrapposti, sancendo di fatto l’avvio della guerra fredda. Il colpo di stato comunista a Praga (25 febbraio 1948), l’avvio del blocco di Berlino imposto da Mosca agli Alleati occidentali (20 giugno 1948), la firma a Bruxelles del trattato di difesa collettiva stipulato tra Francia, Gran Bretagna e paesi del Benelux (17 marzo 1948) furono manifestazioni della rapida accelerazio­ ne del conflitto, rispetto al quale il braccio di ferro sugli assetti della Germania e la ricerca di nuovi equilibri europei ebbero una rilevanza sostanziale. Nell’ottica di un contenimento della minaccia comunista, la rinascita politica ed economica della Germania costituiva infatti per gli Stati Uniti un obiettivo fondamentale, per il perseguimento del quale si rendeva necessaria un’intensa azione di concertazione a livello sovranazionale. Per il governo americano il rilancio dell’Europa doveva passare dalla ricostruzione della Germania, ma questa non era perseguibile al di fuori di un’azione di integrazione delle differenti politiche nazionali. L’instabile fase della ricostruzione postbellica costituiva un terreno fertile per lo sviluppo di ideologie di marca europeista, che iniziarono a confrontarsi sui possibili assetti futuri del vecchio continente. Che non fosse un fronte ideale omogeneo lo dimostrò il Congresso dell’Aja (maggio 1948), che raccolse numerosi delegati da tutta Europa e in seno al quale vennero a confronto tre differenti modi di intendere il processo di integrazione. I «confederalisti» (o «unionisti»), che si richiamavano al progetto paneuropeo promosso nei primi anni Venti da Richard Coudenhove-Kalergi, si spesero per promuovere forme di cooperazione rispettose della piena sovranità dei singoli ordinamenti nazionali. Su un piano diverso si mossero le correnti «federaliste», orientate al superamento degli stati nazionali in nome di un’architettura istituzionale sovraordinata e dotata di organi legislativi, esecutivi e giudiziari. Una terza via era perseguita dai rappresentanti del cosiddetto «funzionalismo», prospettiva che mirava a un modello di integrazione graduale ed evolutivo, da esercitare anzitutto nei settori economico-commerciali, cui sarebbe seguita nel tempo una progressiva trasmissione di poteri e funzioni a istituzioni indipendenti di carattere sovranazionale. La conferenza, promossa e presieduta da Churchill, non giunse a risultati con­ creti significativi, ma definì i contorni delle prospettive politiche che nel corso degli anni seguenti si sarebbero contese la guida del progetto di riordino della comunità politica ed economica europea. Fu altresì l’occasione in cui si manifestarono in termini evidenti i differenti approcci nazionali all’integrazione: più sensibili a un disegno europeista le delegazioni di Francia, Belgio e Italia, maggiormente vicine a forme più tradizionali di cooperazione intergovernativa le prospettive di Gran Bretagna, Irlanda e paesi scandinavi.

Un primo risultato dell’interazione che nei mesi seguenti si produsse tra mo­ vimenti europeisti e governi fu la nascita, il 5 maggio 1949, del Consiglio d’Eu­ ropa, un organo consultivo nato dall’intesa tra dieci paesi (Belgio, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Svezia) con l’obiettivo di definire azioni comuni in ambito economico, sociale, scientifico e culturale. Pur dotato di due organi quali il Comitato dei ministri - composto da rappresentanti dei vari governi - e l’Assemblea consultiva - formata da membri eletti nei parlamenti nazionali -, il Consiglio d’Europa ebbe margini di intervento limitati, per via della mancata devoluzione di poteri effettivi da parte dei vari paesi. Forme di cooperazione economica erano state sperimentate l’anno precedente con l’istituzione dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (Oece), sorta per organizzare la ricostruzione postbellica resa possibile dagli aiuti del piano Marshall varato nel giugno del 1947. La mancanza di strumenti idonei a dare efficacia alle deliberazioni dell’organizzazione e le azioni di resistenza opposte dalla Gran Bretagna non consentirono peraltro all’Oece di svolgere una funzione di integrazione realmente propulsiva. A fornire uno spunto decisivo all’azione di condivisione delle politiche economiche furono piuttosto, ancora una volta, gli sviluppi della guerra fredda. Raggiunto un accordo sulle sorti della Ruhr, nodo storico della contrapposi­ zione tra francesi e tedeschi, gli Alleati occidentali diedero impulso alla nascita della Repubblica federale tedesca, che venne proclamata nel maggio 1949. Poche settimane prima era stato varato il patto atlantico, l’organizzazione di difesa euro­ americana promossa dagli Stati Uniti e realizzata grazie alla mediazione della Gran Bretagna con l’obiettivo di legare i destini militari dei principali paesi dell’Europa occidentale, Italia compresa. Se per gli Stati Uniti si trattava del superamento della tradizionale pratica «isolazionista», per i paesi europei che vi aderirono costituiva un importante passo verso forme di alleanza politica sempre più strutturate. 2.

Vittorie e sconfitte: dalla Ceca alia Ced

La nascita dello stato federale tedesco promossa dagli Stati Uniti nel quadro dell’integrazione economica del continente comportò per la Francia un profondo riorientamento della propria politica internazionale. Resasi impercorribile l’ipotesi di un ridimensionamento della potenza tedesca, la Francia si mosse alla ricerca di una soluzione che le consentisse di riguadagnare nel quadro della politica europea la centralità smarrita, affrontando con singolare inventiva istituzionale il problema del rilancio della produzione industriale e della politica energetica. E in questo contesto che prese corpo il cosiddetto «piano Schuman», promosso dal ministro degli Esteri francese Robert Schuman ma ideato da Jean Monnet, fi­ gura attivissima nel processo di ricostruzione politica ed economica del dopoguerra francese. Orientato a rilanciare le produzioni di energia e acciaio, snodo nevralgico per la ripresa dell’economia transalpina, Monnet propose l’istituzione di un’autorità sovranazionale a cui affidare il controllo della produzione e della commercializzazione di carbone e acciaio. Il cancelliere tedesco Konrad Adenauer aderì al progetto, che si concretizzò nella dichiarazione con cui Schuman il 9 maggio 1950 annunciò la messa in comune franco-tedesca delle produzioni del carbone e dell’acciaio, da pensarsi come prima tappa nel cammino verso la costruzione di una federazione europea.

La nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), che potè contare sull’adesione dell’Italia e dei paesi del Benelux ma non della Gran Breta­ gna, fu perfezionata a Parigi il 18 aprile 1951; la sua entrata in vigore avvenne nel luglio del 1952. Dal punto di vista istituzionale erano previsti quattro organi: l’Alta autorità, organo esecutivo permanente cui era affidata la definizione della politica di indirizzo dell’organizzazione; l’Assemblea, organismo con funzioni di controllo politico composto da 78 membri nominati dai parlamenti nazionali; il Consiglio dei ministri, organo intergovernativo cui erano affidati compiti di mediazione e armonizzazione tra l’Alta autorità e i singoli governi; la Corte di giustizia, chiamata a pronunciarsi in caso di conflitti tra Ceca e stati membri, violazioni del trattato e illegittimità degli atti dell’Alta autorità. Un passo significativo nella direzione della costruzione di un mercato comune concorrenziale e aperto alla libera circolazione delle merci si era così compiuto, ma il cammino verso una piena integrazione economica e politica sarebbe stato ancora lungo. Sull’onda del successo della Ceca le diplomazie europee, fedeli al gradualismo dell’opzione «funzionalista», mossero un nuovo passo nella direzione di una sempre più salda integrazione sovranazionale della vecchia Europa. Sotto la pressione esercitata dalla guerra di Corea (1950-53) e dall’aggressiva politica di espansione promossa dall’Unione Sovietica staliniana nell’Europa orientale, presero forma i primi progetti di costituzione di un esercito europeo integrato. L’apertura di un nuovo fronte di guerra nell’Estremo Oriente aveva rilanciato prepotentemente la questione degli equilibri militari europei e, in particolare, del riarmo tedesco. Il segretario di stato americano Dean Acheson propose al Consiglio atlantico la costituzione di un gruppo di forze armate integrate che prevedesse la diretta partecipazione delle divisioni tedesche all’azione di difesa dell’Europa oc­ cidentale, la quale sarebbe stata spinta fino alla linea dell’Elba. La netta avversione del governo francese alla proposta americana, colpevole di aprire alla Germania l’ingresso nel patto atlantico, fu all’origine di un nuovo progetto, frutto anch’esso della collaborazione tra Schuman e Monnet. Il cosiddetto piano Pleven prevedeva la costituzione di un esercito europeo - al quale avrebbero partecipato in stato di sostanziale subalternità anche truppe tedesche - e la nomina di un ministro europeo alla Difesa. Nel febbraio 1951 presero avvio a Parigi i lavori della conferenza per la costituzione dell’esercito europeo, che procedette non senza intoppi e frizioni. Un ruolo attivo nel delicato gioco diplomatico che condusse alla formulazione del trattato per la Comunità europea di difesa (Ced) lo ebbe il governo italiano, che in precedenza si era mosso prevalentemente di rimessa. Influenzato dalla vi­ sione autenticamente federalista di Altiero Spinelli, suo consigliere, De Gasperi impresse per il tramite della delegazione italiana una decisa svolta in chiave federale alla discussione parigina proponendo l’istituzione, accanto all’esercito europeo, di un’assemblea parlamentare eletta a suffragio universale diretto. Nel disegno del trattato fu così inserito, sulla base di un’intesa raggiunta tra Spaak e De Gasperi, un articolo che impegnava l’Assemblea parlamentare della Ced a elaborare il progetto di fondazione di un’autorità politica europea a struttura federale o confederale. Sulla scorta del mandato contenuto nell’art. 38, il Consiglio della Ceca incaricò l’Assemblea parlamentare di elaborare un progetto di Comunità politica europea (Cpe), che venne presentato nel marzo 1953. Esso prevedeva un sistema bicamerale fondato su una camera a suffragio universale e un senato nominato dai parlamenti nazionali, cui si sarebbero affiancati un consiglio esecutivo, un consiglio dei ministri

nazionali, un consiglio economico e sociale e una corte di giustizia. Nei disegni dei suoi ideatori, la Comunità politica europea avrebbe avuto funzioni direttive nel campo della difesa e dei rapporti internazionali e un ruolo di coordinamento in ambito economico e finanziario. La concreta realizzazione del progetto dipendeva però dalla ratifica del trattato costitutivo della Ced, e fu quello lo scoglio su cui si infranse il processo di costruzione di una comunità politica europea di tipo federale. I problemi principali si ebbero sul fronte italiano e francese. In Italia il dibat­ tito parlamentare era assorbito in quei mesi dalla riforma della legge elettorale e si decise di attendere gli sviluppi della ratifica francese. In Francia, dopo mesi di dure contrapposizioni, l’Assemblea nazionale si espresse nell’agosto del 1954 contro la ratifica del trattato, decretando il fallimento del progetto federalista ap­ poggiato con decisione da Spaak, Monnet, De Gasperi e Adenauer. Dopo esserne stata l’incubatrice, la Francia - condizionata dalle incertezze legate alla guerra in Indocina e da una riviviscenza del nazionalismo - abbandonava il progetto di costituzione della Ced, imprimendo all’integrazione politica europea una battuta d’arresto pesantissima. 3.

Il rilancio dell’integrazione. I trattati di Roma

II fallimento del progetto della Ced fu all’origine di una profonda impasse diplomatica. Il tentativo di accelerare il processo di costruzione del nuovo ordi­ ne europeo abbandonando la via del gradualismo funzionalista in favore di una concezione più apertamente politica dell’integrazione si doveva confrontare con l’insuccesso. La soluzione passò ancora una volta attraverso le vie della diplomazia. Il ministro degli Esteri britannico Anthony Eden propose di riprendere il patto di Bruxelles firmato da Francia, Gran Bretagna e Benelux nel 1948, estendendolo alla partecipazione di Italia e Germania. L’adesione dei due paesi all’Unione dell’Eu­ ropa occidentale (Ueo) consentiva di sbloccare la questione del riarmo tedesco, aprendo le porte all’ingresso della Repubblica federale nell’Alleanza atlantica. Il processo di ratifica del trattato da parte dei parlamenti nazionali non conobbe le disavventure incontrate in precedenza dal progetto della Cpe e nel maggio 1955 l’Ueo diventò operativa. La via per dare concretezza ed effettività alla nuova costruzione istituzionale fu individuata da Monnet nella politica energetica nucleare e nella creazione di un mercato comune sovranazionale con unità tariffarie e abolizione delle dogane. Si trattava di un ritorno a forme di integrazione orizzontale per settori, come già era avvenuto per la Ceca. Per pianificare il rilancio europeo si tenne a Messina nel giugno 1955 una conferenza dei ministri degli Esteri dei «sei», in occasione della quale fu deliberata la creazione di un comitato intergovernativo - presieduto da Spaak - per lo studio dei processi di collaborazione integrata tra i diversi stati. Nel maggio del 1956 fu presentato alla conferenza di Venezia un primo rapporto sulle possibilità di creazione di un mercato comune e di un’organizzazione sovranazio­ nale per l’energia atomica. Nei mesi seguenti i negoziati proseguirono con intensità e, sempre sotto la guida di Spaak, si giunse a un accordo formalizzato nei trattati di Roma firmati il 25 marzo 1957 dai rappresentanti di Italia, Francia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo (la Gran Bretagna aveva nel frattempo abbandonato i negoziati). Si istituivano così la Comunità economica europea (Cee)

e la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom). Era un ritorno all’imposta­ zione funzionalista, orientata alla costruzione dell’unità politica europea per gradi. Anche in questo caso, la buona riuscita dei negoziati dipese dall’atteggiamento della Francia e dai più generali equilibri di politica internazionale; la crisi di Suez (1956) e il fallimento della campagna militare anglo-francese in Egitto avevano infatti portato a galla la debolezza politica della Francia, la quale per rilanciare il proprio ruolo internazionale scelse di seguire nuovamente la via dell’integrazione comunitaria. Scopo dichiarato dell’istituzione della Cee era di «promuovere, mediante l’instau­ razione di un mercato comune e il graduale riavvicinamento delle politiche econo­ miche degli Stati membri, uno sviluppo armonioso delle relative attività nell’insieme della Comunità» (art. 2). Ne sarebbe dovuto derivare un miglioramento del tenore di vita e delle relazioni tra stati, da perseguire attraverso la creazione di un’unione doganale, la promozione della libera circolazione di capitali, servizi e cittadini e la definizione di politiche economiche comuni nei campi di agricoltura, trasporti e concorrenza. All’Euratom venivano invece attribuite funzioni di coordinamento e sviluppo dell’attività scientifica e commerciale nell’ambito dell’energia nucleare. Il trattato entrò in vigore il 1° gennaio 1958, ma i programmi di attuazione del nuovo disegno istituzionale si svolsero all’insegna della gradualità, con un trasferimen­ to progressivo di porzioni di sovranità ai nuovi organismi e nel quadro di una forma di negoziazione permanente delle modalità di realizzazione degli obiettivi. I trattati di Roma non davano corso a una ridefinizione in chiave federale della geografia politica continentale, ma riuscivano nel compito storico di definire un livello istituzionale di carattere intergovernativo in ambito comunitario; intorno a esso si sarebbe andato strutturando nei decenni successivi il processo di integrazione europea. Dal punto di vista dell’architettura istituzionale, i trattati di Roma prevedevano la formazione di un’Assemblea parlamentare e di una Corte di giustizia comuni alle tre Comunità (Cee, Euratom e Ceca), affiancate da un organo intergovernativo (il Consiglio dei ministri, diverso per ogni Comunità) e un organo esecutivo (la Com­ missione per Cee ed Euratom, l’Alta autorità per la Ceca). Il Consiglio dei ministri, espressione dei governi membri, rappresentava l’organo legislativo ed esecutivo, mentre alla Commissione veniva demandato il controllo del processo di attuazio­ ne dei trattati. Mancando di reali strumenti esecutivi, i poteri della Commissione risultarono ben presto limitati, proprio come accadde all’Assemblea parlamentare, cui erano riservati poteri di controllo e censura solo parziali. Si dovrà attendere il cosiddetto «trattato sulla fusione» firmato a Bruxelles nel 1965 per vedere ridimensionata la frammentata composizione istituzionale europea attraverso l’istituzione di un unico Consiglio e di un’unica Commissione per le tre diverse Comunità. Fu un’ulteriore tappa del processo di consolidamento delle istituzioni comunitarie, che attraverso riformulazioni e nuove sfide (si pensi all’Atto unico europeo del 1986) condurrà all’unificazione dei tre soggetti nel quadro del trattato sulPUnione europea (1992).

Percorso di autoverifica

1. Cosa sancirono i trattati di Roma? 2. Quale rapporto è possibile riconoscere tra gli sviluppi della guerra fredda e i primi passi compiuti dal processo di integrazione europea? 3. Cos’è la Comunità europea di difesa? 4. Quali orientamenti ideali si sono confrontati al Congresso dell’Aja? 5. Come è sorta la Ceca? 6. Cos’è il piano Pleven?

Per saperne di più A 50 anni dai trattati di Roma, in «Ventunesimo secolo», VI, 2007. G. Mammarella e P. Cacace, Storia e politica dell’Unione europea (1926-2003), Roma-Bari,

Laterza, 2003. B. Olivi e R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda alla Costituzione dell’Unione, Bologna, Il Mulino, 2010. E. Serra (a cura di), Il rilancio dell’Europa e I trattati di Roma. Actes du colloque de Rome 25-28 Mars, Bruxelles-Milano-Paris-Baden-Baden, Bruylant/Giuffrè/L.G.D.J./Nomos, 1987.

1960. La decolonizzazione in Africa: un processo incompiuto? di Mario Zamponi

I processi di decolonizzazione che prendono avvio dopo la Seconda guerra mondiale trovano tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessan­ ta l’apice della loro realizzazione. In quel periodo la maggior parte dei paesi ex coloniali - ci si sofferma qui in particolare sulla liberazione in Africa delle colonie francesi e britanniche - diventa indipendente ed entra nel consesso internazionale delle nazioni libere e sovrane e il 1960 viene scelto a emblema del processo storico che pone fine agli imperi coloniali. Proprio nel 1960, ad esempio, ottiene l’indipendenza il Congo belga, simbolo di una decolonizzazio­ ne traumatica che investe le stesse Nazioni Unite e che evidenzia la difficoltà della costruzione politica degli stati-nazione postcoloniali.

Le idee e le rivendicazioni di emancipazione politica e sociale che nei territori coloniali di Africa e Asia si erano andate sempre più rafforzando durante la fase coloniale, dopo le grandi trasformazioni degli assetti mondiali originati dalla fine della Seconda guerra mondiale giungono a compimento. Il processo di decolonizza­ zione è il risultato congiunto di trasformazioni e di decisioni a livello internazionale unite a processi di riforma degli stati coloniali stessi e alle rivendicazioni politiche e sociali di gruppi e movimenti interni alle colonie (che diverranno poi i movimenti nazionalisti e i partiti al potere nel periodo postindipendenza). In Asia il processo di decolonizzazione prende l’avvio neH’immediato periodo postbellico: nel 1946 diventano indipendenti le Filippine e, in Medio Oriente, Siria, Libano e Giordania, nel 1947 l’India (anche se con il trauma della spartizione fra India e Pakistan), nel 1948 Birmania (Myanmar) e Ceylon (Sri Lanka), nel 1949 l’Indonesia, mentre nel 1954, con la sconfitta francese in Indocina, si formano gli stati di Laos, Cambogia e il Vietnam diviso in due. Nel 1948, inoltre, nasce lo stato di Israele, mentre si apre la non ancora risolta questione palestinese. In Africa, dove alla fine della Seconda guerra mondiale soltanto due paesi erano formalmente indipendenti (Liberia ed Etiopia) - oltre all’anomalo caso del

Sudafrica che nel 1948 istituzionalizza il regime di apartheid - il secondo dopo­ guerra produce grandi trasformazioni soprattutto nelle colonie delle due grandi potenze coloniali (Gran Bretagna e Francia), cui si aggiunge il Belgio in una fret­ tolosa decolonizzazione, mentre l’Italia aveva perso le sue colonie a seguito degli eventi bellici (la Somalia nel 1950 viene assegnata all’Italia in amministrazione fiduciaria dalle Nazioni Unite). Il Portogallo, invece, resta irriducibile nelle sue mire coloniali, contribuendo a creare in Africa australe il cosiddetto «bastione bianco», ossia un sistema regionale incentrato sul controllo delle comunità bian­ che, composto dalle colonie portoghesi di Mozambico e Angola, dal Sudafrica dell 'apartheid che amministra anche come propria provincia interna l’Africa del Sud-Ovest (Namibia) - formalmente un mandato assegnato dalla Società delle Nazioni al Sudafrica dopo la Prima guerra mondiale -, cui nel 1965 si aggiunge la Rhodesia (Zimbabwe) con la dichiarazione unilaterale di indipendenza della piccola comunità di coloni bianchi. Una situazione che darà origine a quella che sarà definita la «seconda decolonizzazione» in Africa caratterizzata da movimenti armati di liberazione nazionale. 1.

L’anno dell’Africa

Il 1960 può essere considerato come anno di svolta della formazione dell’Africa indipendente, in quanto diventano indipendenti 16 stati. Negli anni precedenti erano già diventati indipendenti Libia (1951), Sudan, Marocco e Tunisia (1956), Costa d’Oro, col nuovo nome di Ghana (1957), Guinea-Conakry (1958), mentre l’Egitto, che già godeva di uno statuto di autonomia concesso dagli inglesi nel 1922, nel 1952 trasforma radicalmente il suo assetto politico a seguito della presa del po­ tere da parte dei militari guidati da Gamal Nasser, con la conseguente destituzione del re. L’Egitto assume così un ruolo di primo piano nella politica nazionalista, anticoloniale e panaraba. Iniziava così anche in Africa un processo che aveva acceso speranze e aspet­ tative sia a livello internazionale per la formazione di un consesso delle nazioni nuovo, democratico e basato sull’autodeterminazione, sia, in particolare, a livello interno dove il discorso delle élite politiche locali, da un lato, e le aspettative dei popoli fino ad allora sudditi della colonia, dall’altro, erano fortemente orientati alla libertà politica ma anche, e soprattutto, a speranze di emancipazione e riscat­ to sociale ed economico dopo la fase della sopraffazione e dello sfruttamento del periodo coloniale. La Seconda guerra mondiale aveva indubbiamente rappresentato un impor­ tante momento di cesura a livello internazionale, decretando la fine del progetto imperiale ottocentesco che aveva retto i sistemi coloniali fino a quel momento. Il nuovo assetto internazionale aveva profondamente modificato il ruolo e l’immagine delle potenze coloniali europee. Inoltre elementi nuovi di geopolitica si andavano formando. Da un lato il nuovo ruolo degli Stati Uniti e il contesto di bipolarismo rappresentato dal confronto Est-Ovest, dall’altro una politica dell’Unione Sovietica sempre più attenta a quello che era diventato il Terzo mondo (termine coniato nel 1952 dall’economista francese Sauvy), così come lo diventa la politica cinese dopo la Rivoluzione del 1949 e in seguito dal 1956 in poi, con l’avvio del «Grande balzo in avanti», quando anche la Cina si fa sempre più interventista nello scacchiere

internazionale sulle questioni della decolonizzazione. A questo si deve aggiungere il ruolo politico, ma anche morale, del nuovo organismo internazionale costituito nel 1945, le Nazioni Unite. 2.

Idee e movimenti nazionalisti

Sul piano locale, la formazione di nuovi gruppi dirigenti, lo sviluppo di idee emancipatone, la formazione di gruppi di opposizione, in alcuni casi rivoluzionari (come era il caso di Hò Chi Minh che nel 1925 fonda la Lega vietnamita dei giovani rivoluzionari), avevano radicalmente trasformato il panorama coloniale. In Africa, in particolare, emergevano movimenti nazionalisti che, per quanto diversificati, avevano tutti lo scopo di portare i propri paesi all’indipendenza, alla formazione del regno della politica - secondo la celebre espressione di Kwame Nkrumah che diverrà il leader del Ghana indipendente - in un contesto in cui movimenti politici e culturali quali il panafricanismo rafforzavano le idee di emancipazione degli afri­ cani. «Per noi l’Africa con le sue isole è una sola Africa», «L’Africa deve unirsi», «La libertà e l’indipendenza del Ghana sono prive di significato se non sono legate alla liberazione dell’Africa intera»: queste sono alcune fra le considerazioni espresse da Nkrumah, esponente di spicco del panafricanismo in Africa, che sottolineano non solo l’idea dell’indipendenza ma di una unità di intenti nel continente. Unità che in realtà resta sulla carta, un’unità debole, più dichiarata che reale, ma che, comunque, nel 1963 conduce a un passaggio importante nel processo di indipendenza politica in Africa, la formazione dell’Organizzazione dell’unità africana (che nel 2002 si ristruttura in Unione africana). Il panafricanismo traeva le sue origini dall’elaborazione di alcuni scrittori carai­ bici che già nel XIX secolo avevano iniziato a parlare delle comuni origini dei neri sulle due sponde dell’Atlantico. Un momento chiave della riflessione e dell’agire panafricano è rappresentato dal quinto congresso del movimento tenutosi nel 1945 a Manchester, in Gran Bretagna, che vede la presenza significativa di leader africani come Nkrumah e il kenyano Kenyatta. Ancora nel 1958 ad Accra, capitale del Ghana, alla conferenza degli stati africani indipendenti si dava enfasi all’unità e all’esigenza fondamentale di portare a compimento la decolonizzazione in Africa. I leader dei movimenti nazionalisti e coloro che elaboravano teorie e prassi e discutevano dell’emancipazione dei popoli colonizzati facevano parte di un’élite intellettuale che aveva per lo più studiato in Occidente e che, quindi, presentava le proprie rivendicazioni rivolgendosi agli europei, alle madrepatrie coloniali, a coloro che erano visti come gli oppressori delle popolazioni colonizzate. Pietra miliare di questo tipo di riflessioni è certamente l’opera del martinicano Frantz Fanon, la cui opera, I dannati della terra, pubblicata per la prima volta in francese nel 1961, è forse un caso unico per l’attenzione e il dibattito suscitati dalla sua chiara e decisa denuncia del colonialismo e della sua oppressione. Al centro della discussione in quella fase della decolonizzazione c’erano, infatti, la ferma denuncia e la netta condanna dello sfruttamento coloniale, un dibattito che ovviamente metteva in discussione i punti cardine dei sistemi coloniali basati sugli opposti (luce/tenebra, centro/periferia, dominatore/dominato, colonizzatore/ colonizzato), riassumibili nell’idea della «missione civilizzatrice», del «fardello dell’uomo bianco», per usare le parole di Kipling.

Un secondo elemento caratterizzante la riflessione politica della decolonizza­ zione era rappresentato dall’idea dell’affermazione nazionale e della sovranità po­ polare, questioni enunciate con chiarezza da Amilcar Cabrai, leader del movimento indipendentista della Guinea Bissau e Capo Verde, il quale sosteneva il diritto di ogni popolo al proprio destino e alla propria storia. 3.

Indipendenza politica e sviluppo economico

A fianco della riflessione sull’indipendenza politica, prioritaria era la questione dello sviluppo economico e sociale. Ancora per Cabrai la liberazione nazionale avrebbe infatti dovuto significare reclamare il diritto usurpato dalla dominazione imperialista, ossia la liberazione del processo di sviluppo delle forze produttive nazionali. Lo sviluppo assumeva pertanto grande importanza nel discorso sulla decolonizzazione in quanto elemento che si proponeva in termini nuovi anche nel dibattito internazionale. Nel 1949 il presidente statunitense Truman delineava il concetto di sottosviluppo, mentre già nel 1948 la Banca mondiale aveva comin­ ciato a discutere della concezione di povertà e quindi dell’esigenza dello sviluppo. Infine la decolonizzazione si legava all’idea di creare un nuovo ordine mondia­ le, una riflessione che si andava sviluppando in molti consessi internazionali e fra settori dell’opinione pubblica internazionale. La questione coloniale sarà, infatti, centrale nel dibattito del citato congresso panafricano del 1945 e alla conferenza di Bandung in Indonesia del 1955, alla quale partecipano ventinove stati dell’A­ frica e dell’Asia. Nella dichiarazione finale si sanciscono i principi della sovranità nazionale, del rispetto dei diritti umani e dell’eguaglianza fra popoli e nazioni. Si rafforza in quell’occasione l’immagine del Terzo mondo e del non allineamento, sancito ufficialmente nel 1961 alla conferenza di Belgrado. 4.

La fine del progetto coloniale

In questo contesto di nuove elaborazioni politiche e ideologiche, alcuni avve­ nimenti mettono ulteriormente in crisi il progetto coloniale. Fra questi certamente cruciale è la crisi di Suez del 1956 che in un certo senso impone, anche per la con­ danna da parte statunitense dell’intervento anglo-francese, una svolta al disimpegno coloniale in Africa delle due principali potenze: Francia e Gran Bretagna. La Francia, in modo particolare, era restia ad abbandonare i suoi progetti co­ loniali. L’idea dell’«assimilation» e di creare una communautéfrancese d’oltremare era ancora forte dopo la Seconda guerra mondiale. L’assimilation veniva ribadita come cardine della politica francese nel 1944 dal generale de Gaulle alla conferenza di Brazzaville, con l’intento di rafforzare la politica economica, culturale e sociale all’interno della comunità francese. Dopo la fine della guerra, la costituzione fran­ cese del 1946 rappresenta un compromesso fra le idee legate all’assimilation (con il riconoscimento dell’uguaglianza fra tutti i cittadini metropolitani e coloniali) e le tesi «associazioniste» in quanto promotrici della riformulazione del sistema colo­ niale. Fondamentale fu la Loi cadre del 1956, nota come Defferre, l’allora ministro della Francia d’oltremare, che smantellava lo stato centralizzato e riconosceva le autonomie dei diversi territori.

Possiamo dire che, comunque, la svolta verso la concessione di autonomia e poi di indipendenza ai territori africani da parte della Francia è dettata dalle riper­ cussioni interne alla madrepatria di alcuni importanti avvenimenti internazionali: la guerra in Indocina, l’inizio nel 1974 della lotta di liberazione in Algeria, la già ricordata crisi di Suez. In particolare la guerra d’Algeria ha effetti devastanti sulla politica francese. De Gaulle nel 1978, con i nuovi assetti costituzionali, ristruttura anche la presenza francese in Africa (con l’eccezione dell’Algeria ovviamente), come la costituzione di una comunità franco-africana, immaginata come una federazio­ ne fra i diversi territori d’oltremare con la Francia al vertice. Nello stesso anno la costituzione viene sottoposta a referendum nei territori africani. I risultati sono favorevoli al progetto di de Gaulle, con la sola eccezione della Guinea. Tuttavia, non tutti i leader africani delle colonie francesi sono sulle stesse po­ sizioni. Anche se il progetto in quel momento è approvato, ben presto le diverse opinioni, le tensioni interne e regionali determinano la fine della costituzione franco-africana favorendo l’indipendenza dei diversi territori coloniali nel 1960 e negli anni immediatamente successivi. A Londra il processo di decolonizzazione è visto come un processo più gra­ duale e preparato, preso in considerazione caso per caso. La Gran Bretagna prefigurava il passaggio a forme di autogoverno locale con associazione al Com­ monwealth. Già nel periodo fra le due guerre il sistema di amministrazione inglese noto come indirect rule si era concretizzato e riformulato mediante la creazione di organi amministrativi locali. Nel 1947 il segretario alle colonie Creech-Jones dà un ulteriore impulso al sistema delle amministrazioni locali attraverso la formazione di consigli locali elettivi. Nell’ambito di questi processi di trasformazione locale, le esigenze indipendentiste trovano man mano accoglimento a livello nazionale. Il Ghana è certamente il precursore dell’elaborazione politica postcoloniale nelle ex colonie britanniche. Nel 1960 diviene indipendente, su costituzione federale, il colosso dell’Africa: la Nigeria. Una complessa decolonizzazione che evidenziava i problemi e le difficoltà incontrati anche dagli inglesi nel processo di gestione della fase di transizione all’indipendenza. Questo è particolarmente evidente anche nel caso del Kenya, che raggiunge l’indipendenza nel 1963 mediante un processo negoziale che fa seguito a una delle più importanti ribellioni armate degli anni Cinquanta in Africa subsahariana, la rivolta Mau-Mau. 5.

La decolonizzazione mancata?

Gli stati indipendenti dovevano fronteggiare difficili eredità che di fatto hanno reso il processo di decolonizzazione complesso e, se vogliamo, non totalmente compiuto. Certamente il regno della politica è stato in qualche modo raggiunto, l’integrità di stati artificiali e asimmetrici eredi degli assetti coloniali non si è rotta, nemmeno laddove lunghi e gravi conflitti hanno devastato l’Africa postcoloniale (con la sola eccezione della formazione nel 2011 dello stato del Sud Sudan). Tut­ tavia l’indipendenza economica e il progresso sociale per la maggior parte delle popolazioni non si è realizzato. Il lungo e violento conflitto che ha colpito la Repubblica democratica del Congo esemplifica questo percorso problematico. Così come oggi, la decolonizzazione nel 1960 dell’immensa colonia belga nel cuore dell’Africa, nata per volontà del re

Leopoldo II e più di ogni altro caso simbolo della violenza coloniale, evidenzia non solo le difficoltà che gli stati indipendenti in Africa avrebbero incontrato nel loro processo di emancipazione e sviluppo, ma anche la crisi, i problemi, le contrad­ dizioni della politica internazionale. Le divisioni del sistema bipolare si scaricano drammaticamente sulla crisi congolese, che rappresenta un passaggio tragico per l’Africa la quale, in seguito, diverrà uno dei teatri di scontro armato, con conse­ guenze devastanti, del confronto Est-Ovest. Quella crisi mette altresì in evidenza le difficoltà delle Nazioni Unite, come organismo sovranazionale di pacificazione, nell’affrontare adeguatamente la crisi congolese (nel 1961 moriva in un incidente aereo dalle cause mai accertate il suo segretario generale, Dag Hammarskjòld). La crisi congolese esprime, infine, in maniera drammatica la cesura che il co­ lonialismo aveva prodotto in Africa e gli effetti traumatici che esso rappresenterà anche nella storia successiva del continente. Cesure ed eredità storiche ben eviden­ ziate dal nuovo leader del Congo, Patrice Lumumba, il giorno dell’indipendenza (30 giugno 1960) quando con il suo discorso segna la rottura con tutti i potenti. Alla presenza del re Baldovino del Belgio (l’ex potenza coloniale) egli inizia il suo discorso indirizzandosi non al re e alle altre personalità presenti ma direttamente «ai congolesi e alle congolesi, ai combattenti per l’indipendenza». Prosegue dicendo: «Abbiamo conosciuto gli insulti, i colpi che abbiamo dovuto subire mattino, mez­ zogiorno e sera perché eravamo dei “negri”» e continua ricordando lo sfruttamento coloniale del suo paese, per concludere affermando che «tutto ciò era finito» e che sta per iniziare «una nuova lotta, una lotta sublime che porterà al nostro paese la pace, la prosperità, la grandezza» e che metterà fine a «qualunque tipo di discri­ minazione». Ciò non può essere tollerato. Undici giorni dopo l’indipendenza, la crisi congolese precipita e Lumumba, vittima degli interessi internazionali, viene ucciso nel gennaio 1961. I tragici avvenimenti che sconvolgono il Congo in quegli anni sono certamente una pagina buia della storia internazionale, una pagina difficile di quella decolo­ nizzazione che aveva acceso tante speranze di riscatto per i popoli colonizzati e aveva fatto pensare alla costruzione di una fase nuova della storia dell’umanità. Al tempo stesso, la morte di Lumumba è anche l’emblema di come tante aspettative siano andate ben presto fallite, della grande disillusione che il postcolonialismo ha portato in Africa. Una morte che pesò allora sul processo di decolonizzazione e che rimane ancora a emblema del difficile percorso degli stati postcoloniali in Africa e altrove. Percorso di autoverifica

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Qual è il contesto internazionale in cui si realizza la decolonizzazione? Quali sono gli obiettivi dei movimenti nazionalisti? In che contesto si parla di sottosviluppo? Quali sono le caratteristiche della decolonizzazione inglese e francese in Africa? Quali problemi ha incontrato la decolonizzazione? Perché il processo di decolonizzazione può essere definito incompiuto?

Per saperne di più

R.F. Betts, La decolonizzazione, II ed., Bologna, Il Mulino, 2007. C. Coquery-Vidrovitch, Breve storia dell’Africa, Bologna, Il Mulino, 2012. A. M. Gentili, Il leone e il cacciatore: storia dell’Africa sub-sahariana, Roma, Carocci, 2008. P. Nugent, Africa since Independence: A Comparative History, Basingstoke, Paigrave Mac­ millan, 2004. M. Shipway, Decolonization and its Impact: A Comparative Approach to thè End of thè Colonial Empires, Malden, Mass., Blackwell, 2008. B. Stora, La guerra d’Algeria, Bologna, Il Mulino, 2009.

Gli anni Sessanta di Michele Marchi

Gli anni Sessanta sono di solito descritti come un «decennio felice». La cre­ scita economica e il consolidarsi di un avanzato sistema di welfare sono tratti determinanti della golden age. Non bisogna però sottostimare le fratture e le discontinuità che fanno degli anni Sessanta un «decennio ponte», dominato dal concetto di affluent society, ma anche anticipatore di alcune difficoltà che carat­ terizzeranno gli anni Settanta. Dal punto di vista delle relazioni internazionali le due figure chiave sono quelle di Kennedy e de Gaulle. Sul fronte italiano, con il centro-sinistra di Moro, il nostro paese tenta una via particolare al riformismo, evidenziando nuovamente le peculiarità del suo bipartitismo imperfetto, in par­ ticolare l’impossibilità dell’alternanza di governo.

Gli anni Sessanta sono spesso ricordati, perlomeno nell’immaginario colletti­ vo, come un «decennio felice». Tale immagine convenzionale è soprattutto legata alla prosperità dell’Occidente industrializzato. Secondo questo approccio gli anni Sessanta diventano sinonimo del trionfo della «civiltà del benessere». Non vi è dubbio che nella maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale, distrutti dagli eventi bellici, il prodotto interno lordo raggiunse in maniera più rapida del previsto i livelli degli anni Trenta del Novecento. Già dunque alla metà degli anni Cinquanta l’obiettivo della ricostruzione era stato centrato. Gli anni Sessanta diventavano così il fulcro della cosiddetta golden age o dei trentes glorieuses per utilizzare il termine francese. Accanto alla crescita economica vera e propria, l’altro indicatore caratteri­ stico del decennio fu l’aumento della spesa pubblica. Il decennio segnò il consolida­ mento del welfare state, vero e proprio simbolo della diffusione capillare dei diritti sociali (sanità, previdenza, sussidi), contemporaneamente espressione e strumento della modernizzazione, del progresso sociale, ma anche veicolo di strutturazione del consenso politico all’interno delle principali democrazie liberali. L’immagine probabilmente più adatta per descrivere questa società dominata dal progresso e dai consumi privati fu quella offerta dall’economista John Kenneth Galbraith nel suo libro del 1958 intitolato La società opulenta. Ciò di cui parlava Galbraith, rela­ tivamente al caso statunitense, al netto delle specificità nazionali, stava avvenendo

anche nei principali paesi dell’Europa occidentale. Si stava infatti strutturando una affluent society, cioè una società nella quale una quota sempre più ampia della popolazione era «libera» dai meri problemi di sussistenza. Di conseguenza, da un lato, il consumo poteva rivolgersi verso beni non più di primaria necessità. D’altra parte, lo sviluppo economico avrebbe dovuto concentrarsi in quegli ambiti necessari a combattere le residue forme di ineguaglianza, con l’obiettivo di allargare sempre più le basi di tale «società del benessere». Eppure sia dal punto di vista degli equilibri politico-sociali interni, sia da quello delle relazioni internazionali, il decennio non mancò di alcune significative turbolenze. Lo stesso sviluppo economico non spense in molti frangenti i conflitti sociali, anzi in alcuni casi (come per gli eventi del 1968) finì per aumentarli. Inoltre, la coesistenza tra i due blocchi Est-Ovest certamente si consolidò e si confermò, ma questo avvenne anche attraverso momenti di duro scontro (come la crisi dei missili di Cuba) e comunque, nella seconda parte del decennio, fu rimessa in grave crisi dall’acuirsi del conflitto in Vietnam e dal riacutizzarsi di quello arabo-israeliano in occasione della guerra dei Sei giorni. Il tutto si innestava poi sul non ancora completato movimento di decolonizzazione, che visse una fase particolarmente traumatica nella conclusione del conflitto algerino, e infine su una decisiva e rivo­ luzionaria svolta all’interno della chiesa cattolica, impegnata nel periodo 1962-65 nel Concilio Vaticano II. 1.

L’elezione di Kennedy e la distensione

L’elezione alla presidenza degli Stati Uniti del giovane candidato democratico John Fitzgerald Kennedy nel novembre 1960 segnò, anche da un punto di vista simbolico, l’avvio del decennio. Sin dal suo discorso di insediamento, ricco di richiami ai suoi predecessori democratici (Wilson e Roosevelt), Kennedy incarnò grandi speranze. Sia per quanto riguardava la promozione dei diritti all’interno del paese, sia per quello che concerneva i rapporti internazionali, il presidente parlava di una «nuova frontiera» da raggiungere, e questa volta non si trattava soltanto di avanzamenti materiali, ma di un miglioramento spirituale e culturale. Da un punto di vista di politica interna i progetti di Kennedy incontrarono ben presto due ostacoli nell’opposizione repubblicana al Congresso e nei dissidi interni al proprio partito che, in particolare nel Sud del paese, si mostrava reticente sui temi dell’integrazione razziale proposti dall’inquilino della Casa Bianca. Ma fu certamente la politica estera, e in particolare il confronto Est-Ovest, a creare notevoli difficoltà sin dai primi passi alla nuova amministrazione democra­ tica. Il primo incontro tra Kennedy e Chruscév nel giugno del 1961 si concluse con un nulla di fatto. Se Washington confermò il suo impegno nella difesa di Berlino Ovest, Mosca replicò con la costruzione del muro che dall’agosto dello stesso anno rese molto più complesse le fughe dalla parte Est della città e si tramutò nel simbolo della guerra fredda. Dall’Europa il conflitto tra Usa e Urss si spostò a Cuba. Qui l’amministrazione Kennedy cercava, in maniera più o meno esplicita, di soffocare il regime socialista instaurato da Fidel Castro. Il tentativo di spedizione armata sull’isola dell’aprile del 1961 si concluse in un fallimento e da questo momento Mosca intensificò l’assistenza economica e militare nei confronti del regime castrista, arrivando a

installare sull’isola basi di lancio per missili che avrebbero potuto raggiungere il territorio americano. Nell’ottobre del 1962 la scoperta di queste basi da parte degli Usa spinse Kennedy a imporre un blocco navale attorno a Cuba, per impedire alle navi sovietiche di raggiungere l’isola. Tra il 16 e il 21 ottobre si giunse molto vicini allo scoppio di un conflitto armato tra Washington e Mosca, ma alla fine Chruscèv accettò di smantellare le basi in cambio dell’impegno Usa ad astenersi da azioni militari contro Cuba. Raggiunto l’apice, lo scontro Est-Ovest parve diminuire di intensità nei mesi successivi. Infatti Usa e Urss firmarono un trattato che metteva al bando gli esperimenti nucleari in atmosfera e istituirono la cosiddetta «linea rossa», una linea telefonica sempre attiva tra Casa Bianca e Cremlino. La distensione in atto tra i due blocchi fu messa a dura prova, da un lato, dall’u­ scita di scena improvvisa di Kennedy e Chruscèv e, dall’altro, dall’esplosione del conflitto in Vietnam. Il 22 novembre 1963, infatti, Kennedy fu ucciso a Dallas in un attentato sul quale ancora oggi non è stata fatta chiarezza. A un anno di distanza Chruscèv fu estromesso da tutte le cariche politiche. A Kennedy successe il suo vicepresidente Lyndon Johnson (che fu poi rieletto presidente nel 1964). Johnson proseguì neH’implementazione della legislazione sociale che Kennedy aveva cominciato a strutturare sin dai primi mesi del suo mandato. In particolare, egli portò a termine l’iter legislativo del Civil Rights Act e avviò un progetto di lotta alla povertà su scala nazionale che avrebbe dovuto costituire il fulcro del suo più ampio disegno di creazione di una «grande socie­ tà», dominata da un sistema avanzato di welfare. In realtà una parte consistente di questi progetti si infranse di fronte all’escalation militare che lo stesso Johnson impresse alla guerra del Vietnam. A partire dal 1965 il coinvolgimento americano nel conflitto divenne sempre più massiccio. L’invio continuo di truppe causò forti turbolenze politiche, economiche e sociali. L’intero paese fu sconvolto dall’esito di una guerra lunga, costosa in termini di vite umane e di bilancio federale. In particolare dopo l’attacco su larga scala condotto dalle forze comuniste nel gen­ naio 1968, la cosiddetta «offensiva del Tet», fu evidente a tutti che il conflitto non sarebbe terminato con una vittoria da parte degli Usa. Infatti, pur non riuscendo a ottenere decisivi risultati dal punto di vista militare, la guerriglia vietcong riuscì a mostrare grande vitalità anche quando Washington aveva sul terreno circa mezzo milione di militari. Proprio lo scoramento e la critica al coinvolgimento americano in Vietnam furono alla base della decisione di Johnson di non ricandidarsi nel 1968 e giocaro­ no a favore del candidato repubblicano Richard Nixon. Il suo ingresso alla Casa Bianca, nel gennaio 1969, per molti aspetti chiuse gli anni Sessanta e aprì un nuovo decennio, che sarà caratterizzato dalla fine del conflitto del Vietnam, ma anche dalla crisi del sistema monetario di Bretton Woods e da quella petrolifera del 1973, segnali inequivoci dell’entrata in crisi della società del benessere. 2.

Un decennio gollista

Se il decennio americano degli anni Sessanta può essere considerato dominato dalla figura di Kennedy e in generale dai tentativi democratici di offrire una pecu­ liare declinazione della cosiddetta «società del benessere», senza dubbio in Europa occidentale si può parlare di un «decennio gollista».

Infatti Charles de Gaulle, richiamato al potere sull’onda della crisi algerina, riuscì a chiudere l’ultimo e più delicato capitolo della decolonizzazione del paese. Con il trattato di Evian del 1962 e la successiva indipendenza algerina, la Francia scriveva la parola «fine» a qualsiasi velleità imperiale e, nel caso dell’Algeria, ri­ nunciava a quella che aveva sempre considerato un’appendice della madrepatria. Ma il gollismo presenta almeno altre due caratteristiche. Fu, prima di tutto, una peculiare declinazione del trionfo della società del benessere, fondata, da un punto di vista politico, sul primato dell’esecutivo, da quello economico, sulla centralità della grande industria, della tecnocrazia e di un imponente quanto funzionale ap­ parato burocratico e, da quello sociale, su un tentativo, il più delle volte riuscito, di mediazione diretta tra le istanze produttive e quelle del lavoro, saltando l’interfaccia politica e quella sindacale. Fu, in secondo luogo, una particolare lettura del conflitto tra i due blocchi. De Gaulle tentò infatti di sfruttare gli anni della distensione per consolidare un’in­ terpretazione francese (ed europea) della guerra fredda, declinazione all’interno della quale a Parigi doveva naturalmente spettare un ruolo di leadership, una sorta di secondo pilastro dell’edificio occidentale, aperto al confronto con l’Est e il più possibile autonomo dalla tutela americana. Il progetto di grandeur gollista cercò di strutturarsi su due assi principali. Da un lato, de Gaulle mostrò un accentuato attivismo a livello europeo, nella fase immedia­ tamente successiva alla nascita della Comunità economica europea (Cee). Dall’altro, il generale optò per un irrigidimento delle sue posizioni nei confronti dell’alleato americano, proponendo una sorta di «terza via» francese allo scontro bipolare. Sul fronte europeo la riflessione di de Gaulle partiva da una convinzione ma­ turata nel corso della Seconda guerra mondiale e che doveva non poco al pessimo rapporto che l’allora leader della France Libre aveva instaurato con il presidente Usa F.D. Roosevelt. De Gaulle era convinto che a inizio anni Sessanta fosse giunto a compimento il declino dell’influenza morale e politica degli Usa nei confronti del vecchio continente. Per questo motivo il gollismo era pronto a presentare una sua idea di Europa, naturalmente dominata politicamente da Parigi. Questa Europa doveva essere una «unione di stati» e da qui il piano Fouchet del novembre 1961, fondato su un’idea intergovernativa della costruzione europea, in antitesi totale rispetto alla visione federalista. Fallita tale ipotesi, per l’opposizione dei partner minori della Cee, ma anche della Germania federale, de Gaulle cercò di giocare la carta dell’alleanza franco-tedesca. La firma del trattato dell’Eliseo del 22 gennaio 1963 costituì il punto più alto, ma anche il momento di maggior contraddizione, della proposta gollista. Infatti l’accordo sanciva senza dubbio un’importante collaborazione tra i due paesi pro­ tagonisti della rinascita postbellica dell’Europa. Ma al momento della ratifica del trattato, il Bundestag vi aggiunse un preambolo che parlava esplicitamente del legame decisivo tra la Germania Ovest e l’alleato americano e della centralità dell’in­ tegrazione europea per la Germania di Bonn. Se nuovamente nel corso del 1965 de Gaulle si oppose a qualsiasi evoluzione federalista della costruzione europea, ritirando i suoi rappresentanti da tutte le istituzioni comunitarie e bloccando così con il proprio veto ogni decisione per circa sei mesi (si trattò della politica della «sedia vuota»), il momento forse più simbolico del decennio gollista, perlomeno sul fronte europeo, fu costituito dal doppio veto, nel 1963 e nel 1967, all’ingresso di Londra nel mercato comune europeo. Nel doppio «no» di de Gaulle si sovrap­

ponevano timore di perdita della leadership politica, opposizione al più fedele alleato degli Usa e paura della creazione di un asse privilegiato Bonn-Londra, sempre legato all’alleato americano. Peraltro sia in Gran Bretagna sia in Germania il cosiddetto «decennio gollista» fu caratterizzato da importanti novità politiche. Da un lato a Londra l’ottimismo del primo ministro conservatore Harold Macmillan e del suo slogan del 1959 «never had it so good» non riusciva a celare i problemi di un paese che in realtà era parecchio distante dai livelli di crescita del resto del continente. Proprio le difficoltà nel riadattare il proprio comparto indu­ striale e manifatturiero alle sfide della modernità furono determinanti nell’indurre il primo ministro ad avanzare la candidatura britannica alla Cee, dopo il fallimento della European Free Trade Association (nata per ridurre i dazi doganali tra Gran Bretagna, Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia e Svizzera). Il già citato veto francese e la difficile congiuntura economica furono alla base della sconfit­ ta conservatrice e dell’arrivo alla guida del paese del Labour party, con Harold Wilson come primo ministro. Il governo laburista, oltre alla complicata situazione economica, dovette affrontare il riacutizzarsi della questione irlandese, l’ultima fase di decolonizzazione dell’impero (Malta, Singapore, Aden) e il nuovo veto gollista all’ingresso della Gran Bretagna. Sul fronte tedesco l’ottobre del 1963 segnò la fine della lunga era politica di Konrad Adenauer, il quale lasciò l’incarico di cancelliere al protagonista della po­ litica economica cristiano-democratica della fase postbellica, quel Ludwig Erhard che con la sua «economia sociale di mercato» aveva garantito alla Rft alti livelli di crescita economica, uno standard di vita elevato e una scarsa conflittualità sociale. Proprio i primi sintomi di una decelerazione della crescita economica furono alla base della rottura dell’alleanza tra Cdu e liberali e della nascita di una «grande coalizione» tra i primi e la Spd. Personaggio di spicco della nuova compagine go­ vernativa era il socialdemocratico Willy Brandt, vice-cancelliere e ministro degli Affari Esteri del governo di «grande coalizione», ma dal 1969 primo cancelliere socialdemocratico della Repubblica federale tedesca. Il progetto «terzaforzista» di de Gaulle aveva anche una chiara dimensione dia­ lettica nei confronti degli Usa che, tornando alla Francia, si concretizzò in particolare in tre ambiti. Da un lato, una critica continua rispetto alla guerra del Vietnam e nel 1967 anche un atteggiamento ostile nei confronti di Israele, impegnato nel riacu­ tizzarsi dello scontro arabo-israeliano con lo scoppio della guerra dei Sei giorni. In secondo luogo, Parigi, oltre a portare avanti un progetto autonomo di difesa nucleare (la cosiddetta force defrappe), giunse al ritiro completo dal comando integrato Nato e impose agli americani la chiusura delle basi presenti sul territorio francese. Infine, de Gaulle arrivò a denunciare in maniera esplicita il sistema monetario fondato sulla parità oro-dollaro, considerato svantaggioso per i paesi europei e solo finalizzato all’esportazione da parte di Washington della propria inflazione. Sconfitto in un referendum nell’aprile del 1969, de Gaulle abbandonò la po­ litica, sconfessato più per il suo immobilismo in politica interna che per la sua politica estera, piuttosto apprezzata dai francesi. Georges Pompidou fu eletto alla presidenza e scelse un primo ministro, Jacques Chaban-Delmas, con un progetto ambizioso di «nouvelle société», che avrebbe dovuto rispondere almeno a una parte delle rivendicazioni emerse nella contestazione del ’68. Accanto al governo Chaban, la vittoria dei socialdemocratici di Brandt e la presenza dei laburisti di

Wilson alla guida della Gran Bretagna, certificarono uno spostamento a sinistra del baricentro politico europeo. Anche l’Italia non si discosto da questa tendenza dal momento che tutto il decennio fu dominato dall’esperienza del centro-sinistra. 3.

Il tentativo riformista italiano: il centro-sinistra

L’Italia fu senza dubbio uno dei paesi occidentali nei quali più evidente risultò il consolidarsi della cosiddetta società del benessere a inizio anni Sessanta. Proprio sul finire degli anni Cinquanta e all’inizio del decennio successivo tutti gli indica­ tori economici mostravano un vero e proprio «miracolo italiano». La disponibilità di manodopera a basso costo unita alla possibilità di sfruttare la politica di libero scambio del mercato comune condussero al decollo industriale del paese. L’Italia, sull’onda della crescita, subì un profondo mutamento demografico (urbanizzazione accentuata, migrazioni da Sud a Nord), ma anche una prima evoluzione sul fronte dei consumi e in generale del modello di vita, basti pensare all’irruzione della televisione e dell’automobile. Per accompagnare questi mutamenti economico-sociali, la classe politica de­ mocristiana al governo cercò di allargare le basi della democrazia del paese con l’ingresso del Partito socialista in un’alleanza di governo riformista. A questo progetto di centro-sinistra cominciò a lavorare Amintore Fanfani a partire dal 1954 ma con scarsi successi, vista, in particolare, l’opposizione degli ambienti più conservatori del Vaticano. Fu solo sull’onda della grave crisi politica del 1960, culminata negli scontri di piazza che coinvolsero numerose città tra cui Genova e Reggio Emilia e a seguito dell’arrivo alla Casa Bianca del democratico Kennedy e della presa di distanza del pontefice Giovanni XXIII dalla politica italiana, che Aldo Moro, nuovo segretario della De, riuscì a condurre in porto l’operazione. Dopo una difficoltosa e lenta opera di mediazione, Moro riuscì a vincere le molte resistenze interne al suo stesso partito e, nel febbraio 1962, nacque il primo go­ verno, guidato da Fanfani, appoggiato in parlamento dal Partito socialista. Anche se il nuovo governo non poteva contare ancora su ministri socialisti, dal punto di vista programmatico erano notevoli le novità. Oltre al tentativo di mettere in atto una vera e propria programmazione economica, nel novembre 1962 si giunse alla nazionalizzazione del comparto elettrico e un mese dopo si istituì la scuola media unica. Solo dopo le elezioni dell’aprile del 1963 si riuscì a giungere al cosiddetto «centro-sinistra organico», con Moro presidente del Consiglio e il leader socialista Pietro Nenni vice-presidente del Consiglio. In realtà, giunto in porto sfibrato dopo anni di mediazioni e dopo un risultato mediocre alle elezioni dell’aprile 1963, il governo di centro-sinistra organico aveva perso gran parte del suo afflato riformi­ sta. A questo contribuì anche la crisi interna al Partito socialista e quella sociale nel paese che esplose in ambito giovanile a partire dal 1967, ma che culminò nelle rivendicazioni sociali del cosiddetto «autunno caldo» del 1969. Nonostante alterne fortune la formula di collaborazione tra democristiani e socialisti rimase in piedi per un decennio ed entrò in crisi solo a inizio anni Settanta. Da un punto di vista simbolico, però, il decennio riformista italiano già alla metà degli anni Sessanta sembrò in grave crisi; crisi che assunse un carattere drammatico con l’avvio di una lunga e oscura fase di terrorismo politico il 12 dicembre 1969, quando esplose una bomba a Milano, in piazza Fontana, presso la sede della Banca

nazionale dell’agricoltura. I 17 morti e gli oltre 100 feriti sancivano l’avvio della tragica «strategia della tensione», tratto distintivo degli anni Settanta italiani. 4.

Un decennio «ponte»

Dunque gli anni Sessanta possono essere considerati un decennio periodizzante nella storia postbellica? Si può ancora parlare di netta cesura tra i Cinquanta e i Settanta? Da un punto di vista economico-sociale, cosi come da quello politico, sarebbe forse più opportuno parlare di un decennio «ponte» o «cerniera», una fase di transizione nel corso della quale giungono a compimento una serie di evoluzioni avviate perlomeno dalla metà degli anni Cinquanta, ma allo stesso tempo si apro­ no alcuni interrogativi che saranno decisivi nel corso del decennio successivo. La «società del benessere» si caratterizza così come il punto più alto e innovativo al termine della fase di ricostruzione, ma anche come primo passo verso una crisi del modello capitalistico di matrice occidentale che proprio nel decennio successivo vedrà la sua definitiva esplosione. Percorso di autoverifica

Cosa si intende con l’espressione affluent society? In che anno J.F. Kennedy fu eletto presidente degli Stati Uniti? 3. Quale presidente accentuò l’impegno militare americano in Vietnam a partire dal 1965? 4. Quanti furono i «no» francesi all’ingresso della Gran Bretagna nella Cee? In che anno furono pronunciati? 5. In che senso de Gaulle era sostenitore di una sorta di «terza via» tra capitalismo e 1.

2.

6. 7.

comuniSmo? Cosa si intende in Italia con l’espressione centro-sinistra? Quale evento può essere considerato l’avvio della cosiddetta «strategia della tensione»?

Per saperne di più

M. Flores, Il secolo mondo. Storia del Novecento, voi. II: 1945-2000, Bologna, Il Mulino, 2002. J. Fourastié, Les trente glorieuses ou la révolution invisible de 1946 à 1975, Paris, Fayard, 1979. J.K. Galbraith, La società opulenta (1958), Torino, Boringhieri, 1976. U. Gentiioni Silveri, L’Italia e la nuova frontiera 1958-1965, Bologna, Il Mulino, 1998. W.I. Hitchcock, Il continente diviso, Roma, Carocci, 2003. F. Romero, Storia della guerra fredda, Torino, Einaudi, 2009. P. Scoppola, La repubblica dei partiti, Bologna, Il Mulino, 1991. J. Suri, Power and Protest: Global Revolution and thè Rise ofDétente, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2003.

1967. La svolta della «questione mediorientale» di Marcella Emiliani

La guerra dei Sei giorni ha determinato la nascita di un nuovo Medio Oriente, sull’onda della bruciante sconfitta inflitta da Israele ai paesi arabi. Sulla genesi del conflitto e sulle sue finalità ancor oggi si assiste a un acceso dibattito sto­ riografico che investe anche il ruolo svolto dalle due superpotenze dell’epoca, Stati Uniti e Unione Sovietica. Di fatto la guerra del ’67 segnò il declino irre­ versibile della presidenza di Nasser in Egitto, accelerò il colpo di stato in Iraq del ’68 che portò al potere il partito Ba’th di Saddam Hussein e favorì il golpe con cui nel ’70 Hafez al-Assad andò al potere in Siria. Infine, nessun paese arabo accettò la proposta di Israele di vedersi restituiti i territori persi in cambio di una pace duratura.

1.

La guerra dei Sei giorni

Quando, la mattina del 5 giugno 1967, 183 aerei dell’aviazione israeliana si alzarono in volo dando inizio a quella che sarebbe stata chiamata la «guerra dei Sei giorni», nessuno, ma proprio nessuno immaginava le conseguenze che il terzo episodio del conflitto arabo-israeliano, dopo il 1948 e il 1956, avrebbe avuto sugli equilibri del Medio Oriente e - più in generale - sull’insieme delle relazioni inter­ nazionali. La «guerra dei Sei giorni» come la chiamano gli israeliani, o «la guerra di giugno» come la chiamano gli arabi, è entrata subito, di prepotenza, nel mito e ancor oggi il suo racconto è oggetto di accaniti dibattiti tra scuole storiografiche. Tale dibattito si può brevemente riassumere come segue: per la storiografia araba, la guerra non è stata altro che l’ennesima manifestazione della natura imperialista dello stato di Israele, pedina degli interessi occidentali in Medio Oriente e loro braccio armato nella guerra fredda. Il conflitto, dunque, sarebbe stato scatenato per acquisire territori con la forza, con la complicità degli Stati Uniti, interessati a umiliare l’altra superpotenza, l’Unione Sovietica, attraverso i paesi arabi suoi alleati nell’area. Per parte israeliana, l’attacco preventivo con cui le Idf (Israeli Defence Forces) sorpresero gli eserciti arabi si giustifica come risposta a una serie di «atti ostili» da parte di Siria ed Egitto. Nella fattispecie: il moltiplicarsi di incursioni terroristiche di guerriglieri palestinesi a partire dalla Siria, dal Libano e dalla

Giordania; il bombardamento da parte dell’artiglieria siriana degli insediamenti ebraici sottostanti le alture del Golan; ma soprattutto l’allontanamento dal confine israelo-egiziano dei caschi blu dell’Onu, ivi insediati al termine della guerra di Suez del 1956, e la successiva chiusura da parte dell’Egitto degli stretti di Tiran alle navi battenti bandiera israeliana. Per Israele, nel 1967 come già nel 1948, si trattava insomma di sopravvivere in un contesto estremamente ostile, coi paesi arabi impegnati a coordinare un attacco congiunto contro il suo territorio col pieno appoggio dell’Unione Sovietica. E l’Urss un ruolo nello scatenarsi della guerra lo ha avuto indubbiamente. Mosca era uscita sconfitta dal braccio di ferro con gli Usa sulla «crisi dei missili» a Cuba dell’inizio degli anni Sessanta e il confronto continuava più aspro che mai nella guerra del Vietnam. Per questo cercava una sorta di rivincita in Medio Oriente dove aveva fatto affluire dal 1956 aiuti militari per 2 miliardi di dollari, andati per il 43 % al solo Egitto di Gamal Abdel Nasser. Dal ’66 era entrata pienamente nell’orbita sovietica anche la Siria a seguito dell’ennesimo golpe militare che questa volta aveva portato al potere Nureddin al-Atassi, ma soprattutto quella parte del partito Ba’th che, pur dicendosi campione dell’unione araba tanto quanto Nasser, intendeva rafforzare l’appello nazionalista siriano e, a differenza di Nasser - che di comunisti riempiva le prigioni patrie -, era più ligio all’ortodossia ideologica di Mosca. Il nuovo go­ verno di Damasco non solo intensificò gli atti di aggressione lungo il confine con Israele, ma accelerò il programma di sbarramento sul fiume Banias, affluente del Giordano, minacciando in tal modo il regime delle acque del lago di Tiberiade, la maggior riserva idrica israeliana, e intensificò anche il proprio aiuto alla guerriglia palestinese. Tra il gennaio ’66 e il giugno ’67 si registrarono 122 incursioni pale­ stinesi in Israele provenienti soprattutto da Giordania e Libano, ma era noto che proprio dal febbraio ’66 al-Fatah, la formazione principale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OIp), era addestrata e armata dalla Siria che, in questo appoggio militante, tentava di scalzare l’Egitto, sponsor tradizionale e privilegiato della causa palestinese. In questo modo Damasco non solo aspirava alla leadership del mondo arabo, ma «dirottava» la puntuale rappresaglia israeliana contro altri stati arabi che gravitavano nell’orbita occidentale, Giordania e Libano appunto, evitando di essere colpita direttamente dalle Idf. Detto in parole povere, il nuovo regime del Ba’th, che al ministero della Difesa aveva insediato Hafez alAssad, faceva di tutto per trascinare Israele, ma anche i paesi arabi «fratelli», in un nuovo conflitto. 2.

Gamal Abdel Nasser

Chi invece era molto restio a un nuovo confronto armato con Israele era il leader indiscusso del mondo arabo, quel Gamal Abdel Nasser che - dopo la guerra di Suez del ’56 - era diventato l’idolo delle masse mediorientali e di buona parte del Terzo mondo per la sfida che aveva saputo portare avanti e vincere (se non militarmente, almeno politicamente) contro le ex potenze coloniali del Medio Oriente, Francia e Gran Bretagna, nazionalizzando la Compagnia del canale. La retorica di Nasser, proprio dopo il ’56, si era fatta particolarmente fiammeggiante e aggressiva contro Israele poiché era sulla distruzione di Israele che il rais egiziano intendeva cemen­ tare l’unità araba. Questo non significa che, nel ’67, si sentisse pronto a una guerra.

Fin dal ’66, anzi, Nasser temeva che la Siria trascinasse l’intero mondo arabo in un’avventura assai pericolosa e si affrettò a firmare col nuovo regime di Damasco un trattato di mutua difesa, nella speranza di riuscire a contenere l’aggressività siriana. Questo gli sarebbe costato la rottura della tacita alleanza che l’Egitto aveva stipulato con la Giordania proprio in funzione anti-siriana, ma l’importante era non far precipitare la situazione in termini militari con Israele. Quello che Nasser temeva maggiormente infatti era un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti a fianco degli israeliani, nonostante il possente programma di riarmo dell’Egitto attuato dall’U­ nione Sovietica. Dal ’62 parte dell’esercito egiziano - circa 50.000 effettivi - era impegnato (per non dire impantanato) nella guerra civile yemenita a fianco della fazione «rivoluzionaria» che si opponeva alla fazione «conservatrice» appoggiata dall’Arabia Saudita filoccidentale e la stessa guerra civile in Yemen era la negazione provata di quella fratellanza araba che costituiva l’asse portante della politica di potenza di Nasser in Medio Oriente; fratellanza che già aveva subito un duro colpo col fallimento dell’unione tra Egitto e Siria che era stata tentata con la Repubblica araba unita (Rau) nel 1958 e che già nel 1961 era miseramente naufragata. In caso di guerra con Israele, il rais temeva inoltre che proprio le profonde divisioni tra i regimi arabi avrebbero avuto pesanti conseguenze sulla loro performance militare come era già successo nella guerra del ’48 che li aveva portati alla grande naqba, la grande catastrofe. A Nasser le cose non andavano meglio in casa propria. Nel ’66 infatti si ritrovò a fronteggiare un’altra ondata di contestazione da parte dei Fratelli musulmani (il movimento islamista che aveva già falcidiato con una durissima repressione nel 1954, dopo che l’organizzazione aveva attentato alla sua vita) e non poteva nascon­ dere a sé stesso che la spinta rivoluzionaria tentata col golpe dei Liberi ufficiali, che lo aveva portato al potere nel 1952, andava pericolosamente esaurendosi. Ben prima della pesante sconfitta nella guerra dei Sei giorni, Nasser si era già trasformato in un dittatore militare di stampo populista che del dittatore aveva tutte le paranoie, ma anche tutte le insicurezze. La sua «anima nera» era il comandante in capo delle forze armate egiziane, il generale Abdel Hakim Amer, uno dei Liberi ufficiali della prima ora e suo grande amico, di quegli amici - per intenderci - con cui ci si appa­ renta e a cui difficilmente si può negare qualcosa. Ad Amer, Nasser aveva delegato fin dal ’52 il delicato compito di tenere i militari lontano dalla politica, di evitare cioè un golpe ai danni del suo regime; in cambio gli aveva dato carta bianca, tanto che il generale aveva trasformato le forze armate in un suo feudo personale, in cui le promozioni avvenivano più in virtù della lealtà al capo che non per meriti di servizio. Nasser in certa misura temeva Amer, tant’è che lo faceva sorvegliare dai servizi segreti, ma raramente gli si opponeva. Di fronte all’escalation di violenza tra arabi e israeliani che si ebbe nel ’66, Amer non condivideva affatto le remore di Nasser, anzi spingeva il presidente a far precipitare la situazione, confidando ciecamente nella forza dell’esercito egiziano e nell’appoggio dell’Unione Sovietica in caso di guerra con Israele. Fu lui a suggerire già il 4 dicembre del ’66 al rais di ritirare l’Unef, la United Nations Emergency Force, stanziata nella penisola del Sinai dopo la guerra di Suez come forza di interposizione tra Egitto e Israele, e di chiudere gli stretti di Tiran alle navi israeliane dirette ad Eilat. Nasser quella volta si oppose nonostante avesse urgente bisogno di mostrare di essere all’altezza della sua fama di leader del mondo arabo per rispondere alle accuse di «vigliaccheria» che gli venivano mosse dalla Giordania di re Hussein. Era infatti successo che il

13 novembre, a seguito della morte di tre paracadutisti israeliani avvenuta lungo il confine della Cisgiordania (o West Bank), a Sud di Hebron, le Idf avevano lan­ ciato una rappresaglia contro il villaggio di As Samu nella medesima Cisgiordania: un’operazione azzardata, compiuta in pieno giorno con grande dispiegamento di mezzi, che costò altre vite agli israeliani, ma che diede soprattutto a re Hussein, già inviperito e impensierito dal trattato di mutua difesa siro-egiziano, lo spunto per accusare l’Egitto di non essere intervenuto a difendere i palestinesi cisgiordani e di «nascondersi sotto le gonne dell’Unef». 3.

Un’«escalation» di violenza e ambiguità

Il 1967 si aprì dunque in un clima estremamente teso a livello sia regionale che internazionale e la tensione di mese in mese non fece che crescere. Il confi­ ne più caldo rimaneva indubbiamente quello siro-israeliano che il 7 aprile vide accendersi una piccola guerra tra l’artiglieria siriana attestata sulle alture del Golan e l’aviazione israeliana che, affrontata in volo dai Mig nemici, non solo riuscì ad abbatterne sei, ma inseguì quelli in fuga fin nei cieli di Damasco. Anche in questo episodio, come già ad As Samu, l’Egitto non intervenne, attirando su Nasser le critiche dei «fratelli» arabi. Fu in questo clima incandescente che il 13 maggio, nel corso di una normale visita a Mosca di Anwar al-Sadat, presidente dell’Assemblea nazionale egiziana, i sovietici informarono l’Egitto che Israele stava ammassando truppe sul confine siriano al fine di invadere il paese e arrivare a rovesciare il regime del Ba’th a Damasco. L’attacco era previsto tra il 16 e il 17 maggio, dunque - come disse il presidente dell’Urss Podgornyj a Sadat - «Non lasciatevi cogliere di sorpresa». La notizia era totalmente infondata e ancor oggi si discute sul perché l’Unione Sovietica abbia voluto far precipitare la situazione. L’interpretazione più accreditata, in attesa di aver accesso agli archivi sovietici dell’epoca, è che Mosca abbia voluto «costringere» un riluttante Egitto a schie­ rarsi senza più remore al fianco della Siria. Fatto sta che già il 14 maggio l’Egitto decretò lo stato d’emergenza e truppe in assetto di guerra vennero fatte sfilare al Cairo davanti all’ambasciata americana, dirette nella penisola del Sinai, in un clima di totale improvvisazione, ma pur sempre alla luce del sole. Se Nasser avesse voluto cogliere Israele di sorpresa avrebbe scelto altre modalità, certamente più discrete: cosa che ha portato parte della storiografia egiziana a sostenere che in realtà lo scopo del rais fosse quello di «intimorire» l’avversario e far cessare le critiche che il mondo arabo gli stava rivolgendo, accusandolo di non voler reagire ai disegni israeliani. Ma resta che il 20 maggio l’Egitto chiese all’Onu di ritirare i propri caschi blu stanziati a Sharm el-Sheikh e a Rafah, e le Nazioni Unite, nella figura del segretario generale U Thant, non tentarono minimamente di dissuadere Nasser dal compiere un gesto che Israele avrebbe sicuramente interpretato come un «atto ostile». Cominciò così il dispiegamento delle truppe egiziane nel Sinai che portò il 23 maggio alla chiusura degli stretti di Tiran alle navi israeliane e - cosa ancor peggiore nell’ottica di Israele - al dislocamento dell’aviazione egiziana su basi avanzate della penisola da cui potevano raggiungere e minacciare il reattore nucleare di Dimona nel deserto del Negev (cosa che puntualmente avvenne il 26 maggio). Il dado ormai era tratto e, che Nasser lo volesse o meno, l’intero mondo arabo era convinto che Israele avesse i giorni contati. Le piazze del Cairo,

di Damasco, di Beirut e di Baghdad si riempirono di folle plaudenti a Nasser, che assediavano minacciose le ambasciate americane. In tanta concitazione, nel timore di restare isolato e alla mercé di Israele, anche re Hussein si affrettò il 31 maggio a raggiungere la capitale egiziana dove stipulò un trattato di mutua difesa che prevedeva non solo che le sue forze armate passassero sotto il comando di un generale egiziano, Abd al-Munim Riad, ma che la Giordania accettasse anche il dislocamento sul proprio territorio di truppe irachene e saudite. Israele, fino al dispiegamento delle forze armate egiziane nel Sinai, rimase profondamente diviso sul da farsi. Il suo primo ministro, Levi Eshkol, che fun­ geva anche da ministro della Difesa, era estremamente riluttante a ordinare la mobilitazione generale, sebbene molti dei generali lo supplicassero di lanciare un attacco preventivo contro l’Egitto per poter usufruire almeno dell’effetto sorpresa. Eshkol tuttavia esitava perché voleva essere sicuro che, in caso fosse scoppiata un’altra guerra, gli Stati Uniti si sarebbero schierati militarmente al suo fianco. Tra l’altro la Francia, dal ’56 amica di Israele e soprattutto il paese che gli aveva fornito gran parte delle tecnologie militari necessarie alla costruzione della sua industria bellica, nucleare compreso, con l’antiamericanismo varato dalla Quinta repubblica del generale de Gaulle decise di puntare maggiormente sulla cooperazione coi paesi arabi, rifiutandosi di vendere altre armi a Israele. Uguale diniego veniva da un altro ex alleato della guerra di Suez, la Gran Bretagna. La seconda quindicina di maggio vide pertanto una frenetica attività diplomatica tra Washington e Gerusalemme, ma gli Stati Uniti, nella figura del presidente Lyndon Johnson, erano a loro volta restii a impegnarsi apertamente a fianco degli israeliani, innanzi tutto per non dover aprire un altro fronte bellico con la guerra del Vietnam ancora in corso, e soprattutto nel timore di una reazione dell’Unione Sovietica. In teoria - e su questo confidava Eshkol - gli Usa avrebbero dovuto intervenire a garantire la libertà di navigazione negli stretti di Tiran, in base a un accordo siglato con Israele l’l l febbraio 1957, all’indomani della guerra di Suez, dall’allora segretario di stato americano John Foster Dulles che si era im­ pegnato anche a sostenere militarmente ogni tentativo israeliano di ristabilire la medesima libertà di navigazione. A dieci anni di distanza, il presidente Johnson non si mostrava ugualmente disponibile e aveva anche una preoccupazione in più: evitare che Israele attaccasse per primo, sempre per timore dell’Unione Sovietica. Ad Abba Eban, il ministro degli Esteri israeliano inviato in missione speciale a Washington, non fece che caldeggiare soluzioni diplomatiche e soprat­ tutto non si stancò di ripetere: «Israele non sarà solo a meno che non decida di fare da solo». In tanta incertezza nel frattempo in Israele crescevano le pressioni sul primo ministro e se ne dileggiava apertamente l’inazione. Eshkol aveva or­ mai contro di sé non solo i generali, ma parte del suo stesso partito, il Labour, l’agguerrita opposizione galvanizzata dal leader dell’Herut, Menachem Begin, e anche l’opinione pubblica snervata dalla ha-Hamtana, come veniva chiamata questa logorante attesa. Attesa che terminò il 1° giugno quando Eshkol diede vita a un governo di unità nazionale e soprattutto nominò al ministero della Difesa Moshe Dayan, l’eroe della guerra di Suez, che proprio col suo carisma contribuì a rasserenare il paese e tranquillizzare i vertici delle forze armate. E Dayan era favorevole all’attacco preventivo, subito. Soltanto assumendo l’iniziativa Israele, ormai solo, poteva costringere i nemici a combattere la «sua» guerra; aspettare avrebbe significato concedere agli arabi un vantaggio pericoloso.

4.

La guerra del miracolo

Lo svolgimento della guerra dei Sei giorni è entrato negli annali delle accade­ mie militari di tutto il pianeta, come esempio insigne di guerra lampo. Quello che viene spesso sotteso però è che, dando inizio alle ostilità il 5 giugno del ’67, Israele non aveva alcun piano di conquista territoriale (questo per lo meno è quanto dato sapere a oggi in base alla documentazione degli archivi): il suo scopo primo era vanificare un attacco del principale paese arabo, l’Egitto, e impedire che si aprissero contemporaneamente - oltre a quello egiziano - anche il fronte giordano e siriano. Sebbene fosse stata soprattutto la Siria a mettere in moto Yescalation che avrebbe portato alla guerra, Dayan e con lui il capo di stato maggiore, Yitzhak Rabin, e i generali israeliani erano del parere che la maggior minaccia provenisse dall’Egitto, e che sconfiggere l’Egitto nel Sinai, visto il suo ruolo di leadership nella regione, avrebbe significato rintuzzare e umiliare l’intero mondo arabo. Israele inoltre do­ veva evitare di «lasciare il lavoro a metà» e infliggere consistenti danni ai nemici prima che intervenissero l’Unione Sovietica o un cessate il fuoco dell’Onu che l’avrebbero costretto a sospendere i combattimenti. E in soli sei giorni ci riuscì. Decisiva per l’esito della guerra fu la distruzione a terra di gran parte dell’avia­ zione egiziana e di parte di quella siriana avvenuta la mattina del 5 giugno, cosa che assicurò all’esercito israeliano una costante copertura aerea senza temere la minaccia nemica dall’aria. Altrettanto decisivi furono il lavoro di intelligence che permise a Dayan di conoscere ogni minimo particolare della dislocazione degli aerei e delle truppe nemiche e - come era già avvenuto nel 1948 - l’incapacità dei comandi militari arabi di coordinarsi per passare al contrattacco. Non bastasse, già la sera del 6 giugno Nasser e il suo comandante in capo Amer, ancora all’oscuro dell’entità della tragedia, ma ormai al limite di un collasso nervoso, ordinarono alle truppe egiziane nel Sinai di cominciare la ritirata: un ordine che demoralizzò ulteriormente le truppe e trasformò la ritirata in una fuga disordinata. E 7 giugno le Idf avevano conquistato la striscia di Gaza e l’8 giugno, in una corsa ostacolata solo dalla confusione del ritiro egiziano, raggiunsero il canale di Suez badando bene a non attestarvisi per evitare quanto già successo nella guerra del ’56, cioè che l’intervento delle superpotenze portasse, come detto, a una sospensione dei combattimenti. Re Hussein di Giordania, nonostante Israele lo avesse consigliato a più riprese di non impegnarsi nel conflitto, diede ordine alla Legione araba di attaccare fin dal 5 giugno e soprattutto di bombardare Gerusalemme Ovest, in mano israeliana. Nasser gli aveva mentito sull’andamento dei combattimenti aerei e di terra nel Sinai e il sovrano hashemita riteneva onestamente di dar man forte alla grande vittoria araba. Anche per lui la sconfitta sarebbe stata bruciante. Già la sera del 5 giugno, di fronte al successo sull’aviazione egiziana e nel Sinai, il ga­ binetto israeliano aveva deciso di portare l’attacco anche contro la Cisgiordania e, la sera del 6, di cogliere «l’occasione storica» di conquistare Gerusalemme Est e il Monte del tempio (per gli arabi la Spianata delle moschee) col Muro del pianto, il simbolo più alto dell’ebraismo, nonostante lo stesso giorno le Nazioni Unite avessero già invocato un cessate il fuoco. Gerusalemme Est venne conquistata il 7 giugno e tra il 7 e l’8 giugno si arresero le più importanti città palestinesi della West Bank: Nablus, Betlemme, Hebron e Gerico. Il 9 giugno l’intera Cisgiordania cadde in mani israeliane. Lo stesso 9 giugno Dayan diede l’ordine di passare all’at­ tacco anche sulle alture del Golan e il 10, quando il cessate il fuoco dell’Onu entrò

effettivamente in vigore, l’avanzata delle Idf ufficialmente si fermò (in pratica però la conquista del Golan venne terminata il 12 giugno). Ad accelerare l’intervento dell’Onu era stata la stessa Siria, preoccupata che l’esercito israeliano arrivasse a Damasco a rovesciare il regime del Ba’th e, per farlo, aveva dato l’annuncio ufficiale della caduta di Quneitra, la capitale delle alture, quando ancora la città non si era arresa. Ma soprattutto se la Siria era arrivata a «imbrogliare» le Nazioni Unite era perché dall’inizio della guerra l’Unione Sovietica non era scesa in campo a fianco dei suoi migliori alleati arabi, il Cairo e Damasco. 5.

Vincitori e vinti

In effetti l’Urss gestì questa pericolosissima crisi in maniera a dir poco reticente e incerta, attirandosi le critiche non solo dei paesi arabi, ma dei suoi stessi alleati dell’Europa orientale. In pratica, dopo aver spinto Egitto e Siria a far precipitare la crisi con Israele, li aveva lasciati soli a fronteggiare il nemico e - a differenza del ’56 - non aveva nemmeno esercitato pressioni sugli Stati Uniti per interrompere i combattimenti se non quando le Idf stavano ormai conquistando le alture del Golan. Come misura di ritorsione per fermare l’offensiva israeliana contro la Siria, l’Urss ruppe le relazioni diplomatiche con Israele, cosa che fecero anche altri nove paesi del patto di Varsavia, Romania esclusa, ma ormai era troppo tardi. Come ebbe a dire Chruscév, il leader sovietico ai tempi di Suez: «Il nostro paese ha commesso errori fin dall’inizio permettendo che questa guerra scoppiasse e che Nasser pro­ vocasse Israele, rischiando su tutto». Le ragioni del comportamento dell’Urss, per essere svelate, ancora una volta attendono l’apertura degli archivi, ma gli storici sono del parere che proprio la crisi del 1966-67 abbia portato alla luce la lotta di potere all’interno del Cremlino tra i fautori di uno scontro con gli Usa anche in Medio Oriente (il premier Kosygin e i suoi tecnocrati) e quanti invece erano con­ trari (il segretario generale del Pcus Leonid Breznev e gli apparati di sicurezza). Sullo scacchiere internazionale, in tutti i casi, la paralisi che colpì Mosca durante la guerra dei Sei giorni si tradusse in un vantaggio oggettivo per gli Stati Uniti, senza contare che fornì alla Cina di Mao Zedong un’occasione in più per denigrare l’Urss. Dal canto loro gli Usa, nonostante la reticenza mostrata prima dello scoppio del conflitto, visti i risultati, cominciarono a considerare Israele una vera e propria potenza regionale su cui lo schieramento occidentale poteva far conto nel perenne scontro col blocco sovietico. Potenza regionale Israele lo era diventata davvero e soprattutto lo era diventata contando esclusivamente sulle proprie forze, nonostante la propaganda egiziana e araba in generale continuassero a sostenere che la vittoria era stata determinata dall’impegno militare americano a fianco dello «stato sionista». Alla fine della guerra, che in tutto era durata solo 132 ore, si ritrovò ad aver conquistato la striscia di Gaza (363 kmq) e la penisola del Sinai (61.000 kmq) strappate all’Egitto, Ge­ rusalemme Est e la Cisgiordania (5.700 kmq) strappate alla Giordania, e le alture del Golan strappate alla Siria: oltre 100.000 chilometri quadrati che ampliavano di 3 volte e mezzo la superficie del paese rispetto ai confini della guerra del 1948. Inoltre, come nella guerra del ’48, il conflitto provocò un’altra ondata di profughi palestinesi che presero in maggioranza la via della Giordania. Sul loro numero le cifre variano, a seconda che si prenda in considerazione la storiografia israeliana

o quella araba, da 200.000 a 300.000. Altri 80-90.000 civili abbandonarono il Golan. Rimanevano invece nei territori occupati da Israele ben 1.200.000 palestinesi. Di contro in tutti i paesi arabi le comunità ebraiche sopravvissute alla tempesta del ’48 furono di nuovo perseguitate e lasciate in balia degli umori di una folla inferocita dal Marocco allo Yemen, dall’Egitto al Libano: in totale dai paesi arabi furono espulsi circa 7.000 ebrei senza che l’Onu o la Croce Rossa potessero in qualche modo intervenire. Tutto questo significava che la guerra dei Sei giorni aveva totalmente sconvolto gli equilibri mediorientali e avrebbe modificato pro­ fondamente, da allora in poi, la stessa natura del conflitto arabo-israeliano. Per la prima volta dalla sua nascita il 14 maggio del ’48, infatti, Israele aveva in mano una valida carta di scambio per farsi accettare nella regione e vivere in pace: la restituzione dei territori conquistati che - nonostante le traversie del medesimo conflitto arabo-israeliano - a tutt’oggi rimane il principio sul quale costruire una pace durevole in Medio Oriente. Questo stesso principio venne infatti fatto proprio dalla risoluzione Onu n. 242 votata il 22 novembre del ’67, che, pur in­ timando a Israele di restituire ai paesi arabi i territori occupati con la forza delle armi, tuttavia ne riconosceva il diritto a vivere in pace, entro confini sicuri. La stessa risoluzione n. 242 è stata la pietra miliare su cui nel 1993 vennero siglati gli accordi di Oslo, il primo vero tentativo, purtroppo fallito, di negoziare una pace tra israeliani e palestinesi. 6.

Le conseguenze della guerra

Nel ’67, all’indomani della guerra, il governo israeliano era fermamente convin­ to che i paesi arabi avrebbero accettato lo scambio e per l’intero Medio Oriente si aprisse una nuova stagione. E emblematico di questo stato d’animo lo stesso nome che Rabin scelse per «battezzare» il conflitto: dovendo scegliere tra «guerra dell’au­ dacia», «guerra della salvezza», «guerra dei figli della luce», scelse tra le opzioni proposte proprio «guerra dei Sei giorni» solo apparentemente meno altisonante perché rimandava alla durata della creazione per mano divina. In effetti la guerra del ’67 creò il nuovo Medio Oriente, ma non nella direzione sperata da Israele. Già il 19 giugno il governo israeliano era arrivato alla conclusione di ritirarsi dal Sinai e dalle alture del Golan. Su Gerusalemme Est invece non si era disposti a transigere: gli ebrei avevano atteso quasi 2.000 anni per poter tornare a pregare presso il Muro del pianto e non avrebbero infranto il sogno di intere generazioni. Anzi, per con­ sentire ai fedeli di pregare presso lo stesso muro, venne immediatamente demolito l’antistante quartiere arabo e - più in generale - a Gerusalemme Est venne estesa l’amministrazione di Gerusalemme Ovest: in pratica un’annessione. Per volere di Dayan si consentì comunque piena libertà di culto in tutti i luoghi santi della città vecchia, cristiani o musulmani che fossero. Quanto al resto della Cisgiordania, si proponeva a re Hussein un piano di spartizione, noto come piano Allon dal nome del ministro del Lavoro Yigal Allon, che pur senza essere mai formalizzato rimase in vigore fino al 1977, quando per la prima volta nella storia di Israele le elezioni vennero vinte dalla coalizione di destra del Likud. Il piano prevedeva che Israele mantenesse il controllo su una fascia territoriale lungo la valle del Giordano e ivi creasse colonie ebraiche dette «di sicurezza» per monitorare il confine e badando bene a non fondare insediamenti in aree densamente popolate da palestinesi. Si

taceva sulle sorti della striscia di Gaza. In buona sostanza, all’indomani della guerra, Israele intendeva dare profondità strategica ai propri confini, ma senza consoli­ dare le conquiste sul terreno proprio per tenere aperto un canale di trattativa col mondo arabo. Profondamente umiliato, il mondo arabo invece accrebbe l’odio che già nutriva contro «l’entità sionista» e quest’odio si coagulò il 29 agosto del ’67 a Khartum, in Sudan, nel rifiuto totale che il vertice panarabo presieduto da Nasser espresse alle profferte di pace israeliane. Sul totale rifiuto verso Israele, ritrovava un’unità che troppo spesso era rimasta solo una chimera, ma da allora in poi il ’67 avrebbe minato dall’interno la credibilità dei suoi regimi. Nasser, che arrivò a dare le dimis­ sioni e venne riconfermato al potere dall’ennesima manifestazione di piazza, non riuscì più a riacquistare il carisma che aveva fatto delirare per lui le folle dell’intero Medio Oriente. Morirà nel 1970 di infarto. In Siria, le faide per «lavare l’onta» della perdita del Golan consumeranno dall’interno il regime Atassi e saranno alla base del golpe di palazzo con cui Hafez al-Assad si impadronirà del potere sempre nel 1970. Il redde rationem in Iraq arrivò ancor prima, col golpe militare del 1968, che portò al potere il partito Ba’th e - dietro il nuovo presidente, Ahmed Hassan al-Bakr - un suo lontano parente, Saddam Hussein. Soprattutto, quello che la guer­ ra del ’67 mise in evidenza fu la base fragilissima su cui si reggevano i cosiddetti regimi «nazionalisti arabi laici» che avevano gestito l’indipendenza. Da allora sarà l’islamismo a rappresentare l’unica speranza per masse arabe sempre più numerose, povere e disilluse. Per quelli che volgarmente vengono chiamati fondamentalisti islamici, la sconfitta del ’67 era una dura punizione divina per l’ardire dei «moderni faraoni», cioè dei capi di stato arabi che avevano osato mettere sé stessi al posto di Dio. Da quel momento in tutto il Medio Oriente si assisterà alla loro rinascita, a cominciare dall’Egitto. Nemmeno Israele rimase immune dal virus fondamentalista. Mentre nel paese si diffondeva una fiducia generalizzata che da alcuni storici viene definita come un vero e proprio «complesso di superiorità», cominciò a formarsi un articolato movimento trasversale che correva da destra a sinistra e che - come il Movimento per la terra di Israele, che vide la luce nel settembre del ’67 - non intendeva minima­ mente restituire agli arabi alcun territorio. Sentimento che si tinse di messianesimo nell’elaborazione del rabbino Yehuda Kook che, attorno alla sua teologia della terra, raccolse gli adepti del sionismo religioso rimasto dormiente fino a quel momento, in un Israele che poteva dirsi creatura di quel sionismo laico, pragmatico, che aveva letteralmente costruito lo stato. Di qui nascerà il fondamentalismo ebraico che avrebbe dato vita alla colonizzazione selvaggia dei territori i quali - nella sua ottica - non sono stati «occupati» dalle Idf, ma «liberati da Dio per la salvezza del suo popolo eletto».

Percorso di autoverifica

1. Qual è stata Vescalation di «atti ostili» che ha convinto Israele a dichiarare una guerra preventiva? 2. Che ruolo hanno giocato i singoli paesi arabi nello scoppio del conflitto e con quali finalità? 3. Come si è svolto il conflitto e quali sono state le sue conseguenze sull’assetto territoriale? 4. Qual è stato il ruolo degli Stati Uniti? 5. Qual è stato il ruolo dell’Unione Sovietica? 6. Quali sono state le principali conseguenze della guerra in Israele e nei singoli paesi arabi?

Per saperne di più

ss

. Campanini, Storia del Medio Oriente, Bologna, Il Mulino, 2010. . Emiliani, La terra di chi? Geografia del conflitto araho-israeliano-palestinese, Bologna, Il Ponte, 2008. M. Emiliani, Medio Oriente: una storia dal 1918 al 1991, Roma-Bari, Laterza, 2012. T.G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, III ed., Bologna, Il Mulino, 2009. B. Lewis, Le molte identità del Medio Oriente, Bologna, Il Mulino, 2011.

1968.1giovani al potere di Michele Marchi

È difficile parlare di un solo ’68. Il movimento di rivolta e protesta studentesca affonda le radici nel movimentismo giovanile americano degli anni Sessanta. In Europa i focolai di maggiore attivismo sono sicuramente, sul fronte occidentale, quello tedesco, quello francese e quello italiano, senza dimenticare natural­ mente quello oltre cortina della «primavera di Praga». Sollevamento senza una regia comune, il ’68 rappresenta l’ingresso sulla scena politico-sociale della prima generazione postbellica. Se i mutamenti politici innescati non sono stati particolarmente significativi, il ’68 deve essere ricordato soprattutto come rivoluzione delle mentalità, dei costumi e dei linguaggi.

È possibile parlare di un unico ’68 o è più opportuno distinguere la mobilita­ zione studentesca a seconda del contesto nazionale nel quale vide la luce? Senza dubbio il dato nazionale non può essere trascurato. Senza nulla togliere al carattere di sovranazionalità delle parole d’ordine del movimento studentesco, si deve dun­ que parlare di molti ’68. Bisogna fare attenzione a non eccedere in senso contrario e di conseguenza si possono individuare almeno due elementi costitutivi comuni a tutti i contesti di rivolta studentesca e giovanile. Il primo è di natura ideale e riguarda l’orizzonte politico-culturale all’interno del quale si dipanavano le riflessioni dei differenti movimenti studenteschi. E possibile affermare che il trait d’union fosse costituito dal pensiero della cosiddet­ ta «nuova sinistra». Alla base di questa elaborazione vi era una critica forte nei confronti di una società accusata di sostituire allo sfruttamento economico una nuova forma di dominio, attraverso pubblicità e mass media, una nuova tirannia tecnologica, una nuova forma di «assopimento» degli individui basata su un be­ nessere giudicato illusorio. Lo strumento classico per sostanziare questa critica fu la ripresa dell’ideologia rivoluzionaria di matrice marxista. Ma, a questa, si accostò anche la riscoperta della cosiddetta Scuola di Francoforte (attiva negli anni Venti nella Germania di Weimar) e in particolare delle opere di Herbert Marcuse, do­ minate dalla critica all’etica borghese del successo, alla cosiddetta società opulenta caratterizzata dal culto dei consumi.

D’altra parte è possibile riscontrare anche un elemento comune di natura più propriamente congiunturale, individuabile nella comune opposizione alla guerra del Vietnam. Dagli Stati Uniti alla Germania, passando per la Francia e l’Italia, il contrasto alla cosiddetta «sporca guerra» che, non bisogna dimenticare, negli Usa coinvolgeva in prima persona anche i giovani studenti universitari, si tramutò nel catalizzatore di una più ampia riflessione e protesta da rivolgere contro l’imperialismo americano e a sostegno dell’ampio movimento di lotta anticoloniale in atto su scala globale. 1.

I primi passi del movimento tra Stati Uniti ed Europa

Il primo documento ufficiale del movimento studentesco americano può es­ sere considerato il manifesto di Port Huron, pubblicato al termine del convegno dell’organizzazione Students for a Democratic Society (Sds) svoltosi tra Pi 1 e il 15 maggio 1962 in Michigan. Si trattava di un vero e proprio manifesto programmatico centrato sulla lotta in favore dei diritti civili e delle libertà individuali. All’interno del testo, frutto di mesi di confronto e dialogo, convivevano il desiderio di rompere definitivamente con il passato, la lotta per imporre la centralità dell’individuo, la critica nei confronti della politica estera americana e l’impegno concreto per il trionfo dei diritti civili. Se il manifesto di Port Huron può essere ritenuto un passaggio fondamentale, non meno degno di nota è ciò che accadde nell’ateneo californiano di Berkeley alla riapertura dell’anno accademico 1964. L’attivismo studentesco degli ultimi anni aveva finito per intimorire le autorità universitarie. Per questo motivo nel settembre 1964 fu impedito agli studenti di tenere i loro banchetti di informazione e propaganda politica. La risposta studentesca fu compatta e a nemmeno un mese di distanza dal divieto vide la luce il Free Speech Movement, che agiva violando in maniera deliberata le disposizioni. Ben presto ci si rese conto che accanto alla libertà di parola, gli studenti rivendicavano la necessità di spazi politici e di una vera e propria assunzione di responsabilità nella gestione dell’ateneo. Questo richiamo all’autogestione e alla democrazia partecipativa si tramutò in un tratto distintivo di tutto il movimento studentesco statunitense. Anche se il clima generale delle università europee alla metà degli anni Sessanta sembrava migliore, qualcosa di analogo a ciò che stava accadendo a Berkeley si veri­ ficò a Berlino. Da un lato, gli studenti tedeschi, in particolare della Freie Universitàt di Berlino, si mobilitarono in risposta a una serie di limitazioni imposte alla loro libera espressione all’interno dello spazio universitario. Dall’altro, le agitazioni stu­ dentesche si inserivano in un più ampio dibattito emerso nella Repubblica federale tedesca a seguito della proposta governativa, di fine anni Cinquanta, di introdurre alcune limitazioni dei diritti civili e politici in caso fosse necessario dichiarare lo stato di emergenza. Un possibile punto di rottura si raggiunse nel mese di giugno del 1967. In occasione della visita ufficiale dello scià di Persia a Berlino Ovest, le principali associazioni studentesche organizzarono un’imponente manifestazione di protesta, che ben presto degenerò e si concluse con l’uccisione di uno studente da parte delle forze di polizia. Da questo momento, come risultò evidente nel con­ vegno di Hannover dal titolo «Università e Democrazia», a imporsi fu l’approccio antiautoritario ben rappresentato dal leader studentesco Rudi Dutschke. Gli assi

portanti di questo approccio antiautoritario erano la critica alle strutture autoritarie della società tedesca e il ricorso frequente all’azione diretta, cioè alla violazione consapevole delle principali regole che reggevano questa stessa società. Il biennio 1965-66 in Italia fu caratterizzato dalle prime agitazioni a seguito della proposta di riforma universitaria avanzata dal ministro democristiano Gui, dalla prima occupazione della facoltà di Sociologia a Trento, ma soprattutto dalle forti mobilitazioni all’Università La Sapienza di Roma successive alla morte dello studente socialista Paolo Rossi, aggredito da un gruppo neofascista. Anche nel con­ testo italiano il 1967 fu un anno determinante, in particolare per quanto riguarda l’elaborazione delle basi teoriche del futuro movimentismo studentesco. A seguito dell’occupazione del Palazzo della Sapienza a Pisa, sede dell’ateneo cittadino, varie organizzazioni studentesche produssero le cosiddette «tesi della Sapienza». Oltre a un attacco frontale all’organizzazione universitaria, il testo forniva gli elementi pro­ grammatici per orientare e implementare le proteste. Il dato certamente di maggiore interesse del manifesto era costituito dal collegamento che gli studenti facevano tra le lotte universitarie e quelle della classe operaia. In definitiva il movimento studentesco proponeva di unirsi a quello proletario per abbattere tutte le forze dominanti e strutturanti il sistema capitalistico. Ugualmente di notevole impatto fu il Manifesto per un’università negativa, proposto dagli studenti trentini nella pri­ mavera del 1967. In questo caso a essere evidente era la ricezione dei dibattiti della new left americana e della neue Linke tedesca, nonché della sociologia di Charles Wright Mills e della teoria della critica di Marcuse. La lotta studentesca diventava lo strumento complessivo di opposizione al trionfo della visione unidimensionale dell’uomo. Infine è in questo contesto che si inserì la Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana di Don Lorenzo Milani. Anche se si trattava di un testo apparentemente lontano dal mondo universitario, nella sua lettera il sacerdote denunciava le contraddizioni di un sistema educativo formalmente aperto a tutti, ma in realtà elitario e responsabile della perpetuazione di quella struttura classista su cui si reggeva l’Italia di fine anni Sessanta. Fu sullo sfondo dell’offensiva militare americana in Vietnam del gennaio 1968, la cosiddetta «offensiva del Tet», che le manifestazioni universitarie assunsero l’immagine di un movimento di protesta globale. Se anche zone del mondo molto di rado sulle prime pagine dei giornali, come il Giappone, riuscirono a farsi no­ tare per la violenza delle proteste studentesche anti-americane proprio riguardo alla guerra del Vietnam, nella primavera del 1968 furono però i «fratelli separati» dell’Est europeo a far sentire per primi e più forte la loro voce. A Varsavia gli studenti iniziarono una serie di manifestazioni che ben presto coinvolsero tutte le università del paese a seguito del divieto di rappresentare pub­ blicamente la pièce teatrale Gli Avi, dello scrittore Adam Mickiewicz. Ben presto le rivendicazioni studentesche, un misto di lotte per i diritti civili e di proteste nei confronti di un opprimente autoritarismo politico, furono represse in maniera violenta dalle forze di sicurezza e condannate pubblicamente dal leader comunista Gomulka. Tratti molto più specifici e molto più politici ebbe la cosiddetta «primavera di Praga». Nel contesto cecoslovacco, infatti, l’anno 1968 si era aperto con l’avvio di una discussione sul futuro del paese, culminato nell’abolizione della censura. La componente più riformista del Partito comunista trovò in Alexander Dubcek la figura in grado di proporre un progetto di graduale decostruzione della tradizione

stalinista e di progressiva introduzione dei diritti civili e politici. Anche se la cen­ tralità del sistema basato sul partito unico non era rimessa in discussione, l’idea di avviare un processo di democratizzazione in uno dei paesi del blocco sovietico fu osservata con grande simpatia da una parte consistente dei movimenti studenteschi che oramai operavano in numerosi contesti nazionali. Il 28 agosto 1968 l’intervento delle truppe sovietiche pose fine all’esperimento di Praga e nel giro di pochi mesi i dirigenti «liberali» furono esclusi dai loro incarichi. Ma forse più che dall’eco degli eventi di Praga, gli studenti al di qua e al di là dell’Atlantico furono mobilitati dagli eventi di sangue che aprirono il mese di aprile del 1968 negli Stati Uniti e in Germania. Il 5 aprile a Memphis veniva infatti ucciso Martin Luther King e con lui se ne andava il leader visionario dell’ala moderata e pacifista del movimento nero afroamericano. Nell’immediato il suo assassinio scatenò un’imponente rivolta dei maggiori quartieri neri in più di cento città statunitensi, oltre che il consolidarsi dell’anima violenta e oltran­ zista del movimento nero, rappresentata dalle Black Panthers. A pochi giorni di distanza dal tragico evento di Memphis, a Berlino Ovest, il leader della protesta studentesca Dutschke fu ferito, questa volta non mortalmente, da tre colpi di pistola. La mobilitazione per protestare contro quello che era considerato un vero e proprio simbolo del movimento studentesco debordò i confini nazionali tedeschi e coinvolse anche i colleghi degli atenei italiani e francesi. Intanto, però, era la protesta americana che tornava ad assumere caratteri di particolare inten­ sità. Il 23 aprile, infatti, gli studenti del Sds decisero di occupare la Columbia University di New York. L’intervento violento della polizia, una settimana dopo, ebbe come effetto principale, oltre ai circa cento feriti e settecento arresti, quello di radicalizzare la rivolta anche in molti altri atenei del paese. Il movimento stu­ dentesco interpretava oramai il caso della Columbia University come una lotta a un establishment accademico rappresentativo della corruzione e del malgoverno di un paese tragicamente invischiato ne\Yaffaire del Vietnam. L’esempio forse più evidente della radicalizzazione in atto stava però per concretizzarsi nelle strade del quartiere latino di Parigi. 2.

Il maggio francese

Gli eventi parigini del maggio ’68 furono centrali nell’evoluzione complessiva del movimento studentesco perlomeno per tre ragioni. Da un lato perché fu nel corso di questo mese che più nettamente la rivolta studentesca sembrò tramutarsi in evento rivoluzionario. In secondo luogo, più che in altri contesti, il maggio francese funse da anticipatore della crisi di quella società del benessere fondata sulle cosiddette «quattro P» (pace, prosperità, pieno impiego e progresso), che si concretizzerà a partire dalla crisi petrolifera del 1973. Infine, il caso francese è em­ blematico perché, nel tentativo di travolgere la politica, il movimento studentesco fu da questa travolto. Nato come rivolta studentesca e generazionale, poi tramutatasi in vera e propria rivoluzione sociale, il maggio ’68 si chiuderà nel giugno elettorale del «tutto politico». Se il maggio francese ebbe una sua anticipazione nell’occupazione del rettorato dell’Università parigina di Nanterre il 22 marzo, protagonista un giovane Daniel Cohn-Bendit, l’acuirsi della tensione culminò il 3 maggio, quando il rettore della

Sorbona decise di far intervenire la polizia per sgomberare l’università occupata dal movimento. Allo sgombero seguirono alcuni arresti e soprattutto la chiusura dell’ateneo, provvedimento che nei settecento anni di vita dell’università era stato deciso solo nella fase di occupazione nazista di Parigi. La manifestazione del 6 maggio successivo, indetta dalle organizzazioni studentesche per protestare contro gli arresti e la chiusura della Sorbona, degenerò in violenti scontri che culminarono con la costruzione da parte degli studenti di vere e proprie barricate nell’area del quartiere latino. La notte del 10 maggio sarà ricordata come quella della «battaglia del quartiere latino»: le forze di polizia guidate dal ministro degli Interni e dal prefetto di Parigi ebbero la meglio dopo ore di violenti scontri che causarono un numero impressionante di feriti. Era oramai evidente che lo scontro tra movimen­ to studentesco e istituzioni era degenerato, e con la grande manifestazione del 13 maggio indetta da tutti i sindacati la saldatura tra mondo giovanile e mondo del lavoro sembrava andare in porto. Complice anche una complicata fase politica al vertice della Quinta repubblica, con il presidente Charles de Gaulle in evidente contrasto con il suo primo ministro Georges Pompidou, alla nuova occupazione della Sorbona fecero seguito occupazioni in tutte le principali fabbriche del paese. Ben presto l’ondata di scioperi coinvolse anche i trasporti pubblici, i giornalisti e i centri nevralgici della burocrazia ministeriale. Il 22 maggio erano oramai nove milioni i francesi in sciopero, alternando le rivendicazioni salariali a un’opposizione netta nei confronti del potere gollista. Ma l’apice della protesta segnò anche l’avvio del suo declino. Se nell’intervento televisivo del 24 maggio, nel corso del quale il capo dello stato propose di ridare la parola al popolo con un referendum sulla partecipazione capitale-lavoro, de Gaulle non parve incisivo, nei giorni successivi la politica tornò padrona del campo. Riuniti i principali sindacati, Pompidou riuscì a ottenere l’accordo che pose fine alle lunghe giornate di sciopero (anche se la base operaia della Cgt rifiuterà in extremis di firmare gli accordi di rue de Grenelle). Dopo aver fatto perdere le tracce praticamente per tutta la giornata del 29 mag­ gio, de Gaulle ricomparve a Parigi annunciando lo scioglimento dell’Assemblea nazionale e le nuove elezioni legislative per la fine di giugno. Nel momento stesso in cui il 30 maggio il generale si rivolgeva al paese con un discorso radiofonico, una grande manifestazione della Francia «borghese e gollista», la cosiddetta «mag­ gioranza silenziosa» occupava gli Champs-Elysées, segnando anche da un punto di vista simbolico la sconfitta del tentativo rivoluzionario. L’Assemblea nazionale eletta il 30 giugno confermò questa impressione: il partito gollista ottenne infatti la maggioranza assoluta dei seggi. Il movimento studentesco, che era riuscito a innescare un’evoluzione sociale della protesta, risultava clamorosamente sconfitto da un punto di vista politico. 3.

Il ’68 italiano

Se si volge lo sguardo all’Italia si può notare che il tratto forse più distintivo del ’68 fu la sua durata. Come si è visto il suo inizio può essere ascritto al 1967, con l’opposizione alla legge 2314 di riforma del sistema educativo proposta dal ministro Luigi Gui. Una seconda fase di radicalizzazione occupò poi i mesi di no­ vembre e dicembre dello stesso anno. A questo esordio seguì poi un’espansione del movimento su tutto il territorio nazionale nel periodo febbraio-giugno 1968. Con la

ripresa dell’attività universitaria e scolastica si avviò la quarta e ultima fase, quella del riflusso del movimento studentesco e della formazione, questa volta al di fuori dell’ambito degli atenei, delle cosiddette «avanguardie» politicizzate. L’incontro tra queste e i «nuclei più avanzati dell’operaismo» furono alla base della nascita della cosiddetta sinistra extraparlamentare. Anche nel contesto italiano, come in quello francese, è impossibile com­ prendere il ’68 se non lo si colloca all’interno di quel processo di massificazione avvenuto nelle università a partire dalla metà degli anni Sessanta. La crescita del livello di scolarizzazione e di conseguenza del numero di nuove immatricolazioni colse impreparato un sistema di formazione universitaria ancora elitario e mino­ ritario. L’elemento comune che caratterizzò le prime proteste della primavera del 1967 a Milano, Pisa, Trento e Napoli era costituito dal tentativo studentesco di porsi per la prima volta come soggetto dell’università. Di conseguenza all’aspet­ to rivendicativo si univa un tentativo di influenzare processi formativi ritenuti arcaici e descritti alla stregua di veri e propri strumenti di perpetuazione della divisione capitalistica del lavoro. All’interno di questo quadro la proposta di legge di riforma Gui si tramutò nell’«idolo polemico» per quello che si andava strutturando come un movimento, di certo non omogeneo, ma pronto a dilagare in tutti gli atenei nazionali all’apertura dell’anno accademico 1967-68. Il periodo marzo-giugno 1968 fu quello della «nazionalizzazione» della protesta. Se negli ultimi mesi del 1967 era stata l’Università Cattolica del Sacro Cuore a costituire l’avanguardia della protesta, dove alla critica della modernizzazione capitalistica si aggiungeva l’accelerazione della crisi etico-culturale del cattolicesimo italiano post-conciliare, il periodo marzo-giugno 1968 vide dilagare la protesta nell’intera penisola. A partire dai violenti scontri di Valle Giulia a Roma del 1° marzo 1968, la protesta fece un balzo in avanti quantitativo, ma anche qualitativo. Anche in Italia, come in parte era accaduto soprattutto negli Stati Uniti, gli studenti rivol­ gevano la loro protesta non più soltanto nei confronti del sistema universitario. Il ’68 italiano si tramutava in protesta globale e l’università era soltanto il luogo nel quale tale rivolta si esprimeva. Il movimento, insomma, cercava di trasformarsi in «soggetto rivoluzionario globale» in chiave marcatamente politica. Anche nel con­ testo italiano, come per certi versi accadde in quello francese, fu proprio questo passaggio al «tutto politico» a segnare l’avvio del declino. Da un lato, infatti, gli obiettivi del movimento finirono per «sclerotizzarsi». La tendenza era quella di saltare ogni livello intermedio o comunque di breve-medio termine, per porsi alla ricerca di un «mitico», quanto improbabile, tentativo di «rivoluzione globale». Dall’altro, a questo sforzo politico totale, non corrispondeva alcun reale contatto con il mondo della politica concreta. Istituzioni e partiti politici aumentarono, proprio in questa fase, la loro distanza con il mondo giovanile (emblematica a questo proposito la decisione del movimento di «astenersi» in occasione del voto legislativo del maggio 1968). Dalle urne uscì certamente uno spostamento a sini­ stra del baricentro politico del paese, con la sconfitta in particolare del Partito socialista unitario e la grave crisi dell’esperienza riformista del centro-sinistra. Ma se si eccettua il successo del Partito socialista italiano di unità proletaria, che in parte sicuramente si giovò del clima della contestazione, l’incapacità del movi­ mento di farsi partito fu totale. Nel momento in cui agli obiettivi di «rivoluzione totale» non seguiva la creazione di un adeguato strumento operativo, il riflusso e il declino diventavano inevitabili.

4. Un bilancio?

E possibile abbozzare un bilancio di un movimento globale che si è incarnato in una serie di specificità nazionali così peculiari e differenti tra loro? E soprattutto, all’interno del decennio degli anni Sessanta, quello del trionfo e consolidamento della società del benessere, perlomeno nel contesto occidentale, il «momento ’68» deve essere ritenuto periodizzante? A seconda del punto di osservazione queste domande possono ottenere risposte piuttosto differenti. Il ’68 può divenire, allora, l’apice di un «ventennio lungo» che dalla fine della Seconda guerra mondiale segnò il culmine del successo della ricostruzione e del suo consolidamento nella società del benessere. La prima ge­ nerazione totalmente postbellica faceva il suo ingresso sulla scena politico-sociale contestando in maniera netta, anche se spesso confusa, le basi dell’intero edificio liberaldemocratico di matrice capitalistica. D’altra parte, il ’68 può essere visto come l’avvio di quel «decennio lungo» degli anni Settanta, che dal 1968 giunse sino a inizio anni Ottanta (o di quel ventennio, anch’esso «lungo», 1965-85), e segnò la crisi del modello capitalista e il suo tentativo di rinnovamento sull’onda delle rivoluzioni liberal-liberiste di matrice anglosassone. Se i mutamenti politici e istituzionali causati dal ’68 furono praticamente nulli, certamente l’«anno degli studenti» contribuì a una rivoluzione nella mentalità, nei costumi e nel linguaggio. Il ’68 liberò energie, ma allo stesso tempo evidenziò le contraddizioni e le difficoltà che, soprattutto la sinistra, si trovava ad affrontare nel momento in cui doveva confrontarsi con i delicati temi del riformismo. In questo senso, il ’68 si può considerare un primo momento di disvelamento di una serie di criticità che il modello di democrazia liberale rappresentativa di matrice occidentale non tarderà a mostrare negli anni immediatamente successivi. Percorso di autoverifica

1. Quali sono le principali caratteristiche del ’68 francese? 2. Esistono delle caratteristiche comuni ai movimenti studenteschi del ’68? 3. Cosa avvenne a Berkeley nel settembre del 1964? 4. Per quale motivo fu importante la figura di R. Dutschke nel ’68 tedesco? 5. Per quale motivo H. Marcuse può essere considerato un pensatore chiave nell’universo ideologico del movimento studentesco?

Per saperne di più

R. Aron, La rivoluzione introvabile, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008. C. Fink, P. Gassert e D. Juncker, 1968: The World Transformed, Cambridge, Cambridge University Press, 1998. M. Flores e A. De Bernardi, Il Sessantotto, Bologna, Il Mulino, 1998. M. Kurlansky, 1968, Hanno che ha fatto saltare il mondo, Milano, Mondadori, 2004. N. Matteucci, Sul Sessantotto, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008. J.-F. Sirinelli, Mai 68. Uévénement ]anus, Paris, Fayard, 2008. M. Tolomelli, Il Sessantotto. Una breve storia, Roma, Carocci, 2008. M. Zancarini-Fournel, Le moment 68, Paris, Seuil, 2008.

1973. La crisi petrolifera e la fine dell’età del benessere di Riccardo Brizzi

Il 1973 rappresenta un anno di cesura storica per molteplici aspetti. Sul fronte delle relazioni internazionali la fase di distensione tra le due superpotenze pro­ seguì nonostante la fine traumatica del conflitto vietnamita e l’esplodere della guerra del Kippur. Ma il fattore che ha caratterizzato in misura maggiore il 1973 è probabilmente da ricondurre all’ambito economico con la traumatica presa di coscienza dell’esaurimento della fase di crescita postbellica, cui si sostituirono anni di incertezza, dovuta sia a motivi strutturali (la delicata transizione verso un’economia postindustriale) sia a ragioni di ordine congiunturale (la crisi pe­ trolifera e l’impennata dei costi delle materie prime).

Il 1973 ha rappresentato un importante momento di svolta nella storia del No­ vecento, che ha investito molteplici dimensioni, dalle relazioni internazionali all’e­ conomia, costituendo uno spartiacque anche sul versante dell’immaginario colletti­ vo. L’idea di sviluppo progressivo e di estensione generalizzata del benessere che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, aveva orientato le politiche economiche dell’intero pianeta (tanto le economie di mercato quanto quelle pianificate, pur con differenti risultati), conobbe una brusca battuta d’arresto. L’elemento di maggiore criticità che ha caratterizzato il 1973 è probabilmente da ricondurre alla traumatica presa di coscienza dell’esaurimento della fase dei «miracoli economici» postbellici, cui si sostituirono anni di incertezza se non di vera e propria crisi, dovuta tanto a motivi strutturali (la delicata transizione verso un’economia postindustriale) quanto a ragioni congiunturali di grande impatto (la crisi petrolifera e l’impennata dei costi delle materie prime). Dopo la crisi energetica nulla sarebbe stato più come prima e fu progressivamente chiaro che si stava entrando in un’epoca nuova. 1.

La crisi della leadership americana

Nella delicata transizione tra anni Sessanta e Settanta una delle principali spie dell’evoluzione in corso nel sistema delle relazioni internazionali era rappresentata dalle crescenti difficoltà incontrate dagli Stati biniti nell’esercizio della leadership.

Sul terreno economico questi problemi si erano già evidenziati in maniera eclatan­ te nel 1971, quando il presidente Nixon, messo alle strette dall’approfondirsi del deficit della bilancia dei pagamenti e del bilancio federale (ormai fuori controllo sull’onda delle ingenti spese assorbite dal conflitto in Vietnam e dalla Great society), aveva preso la decisione unilaterale di porre fine al regime monetario internazionale di Bretton Woods, sganciando il valore del dollaro da quello dell’oro e consen­ tendo alla moneta statunitense di fluttuare liberamente sui mercati. Nonostante il dollaro mantenesse il ruolo di moneta di riferimento negli scambi internazionali, la decisione deH’amministrazione repubblicana - seguita da una svalutazione del dollaro e da un innalzamento delle tariffe doganali (nel tentativo di riequilibrare il saldo negativo tra importazioni ed esportazioni) - aveva sancito una cesura im­ portante rispetto agli equilibri postbellici. Le criticità incontrate dagli Stati Uniti nell’adattarsi a uno scenario mutato, in cui la superpotenza americana doveva fare i conti con l’elevato dinamismo economico dei paesi europei e del Giappone, usciti brillantemente dalla fase della ricostruzione, contribuirono a depotenziare il livello delle tensioni internazionali. L’esigenza di Washington di ridurre gli oneri del «contenimento» favorì l’avvio di un confronto più disteso con Mosca, che trovò il proprio canale privilegiato nel dialogo sulla riduzione degli armamenti e degli arsenali nucleari (i negoziati furono ribattezzati Salt, acronimo di Strategie Armaments Limitation Talks). Il primo accordo rilevante in materia fu il trattato Salt I, siglato il 26 maggio 1972 a Mosca da Breznev e Nixon, in occasione della prima visita di un capo di stato americano nella capitale sovietica. Esso si componeva di due parti: la prima limitava sensibilmente i sistemi antibalistici Abm; la seconda fissava una soglia prov­ visoria - peraltro piuttosto alta (1.054 vettori per gli americani e 1.618 per i sovie­ tici) - alle testate missilistiche intercontinentali delle due superpotenze. L’accordo era poi integrato da una serie di protocolli di carattere meno tecnico ma dall’alto valore simbolico, tra i quali spiccavano la dichiarazione riguardante i «Principi fondamentali delle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Urss» e l’intesa «sulla prevenzione della guerra nucleare». La firma del trattato, il cui impatto mediatico fu amplificato dalla storica visita di un presidente americano a Mosca - che peraltro seguiva di un anno quella dello stesso Nixon a Pechino - consacrò definitivamente il disgelo delle relazioni bipolari. Al di là del dialogo ritrovato (Nixon e Breznev si incontrarono altre tre volte nel giro di pochi mesi) e della gestione consensuale del confronto planetario, restava tuttavia sul tavolo una serie di nodi problematici, a partire dalla questione vietnamita. La strategia elaborata da Nixon e Kissinger, fondata sulla cosiddetta «vietnamizzazione del conflitto» - ossia il progressivo disimpegno delle forze armate statunitensi volto a garantire il raggiungimento dell’autosufficienza militare del Vietnam del Sud - associata a un’intensificazione dei bombardamenti sul Vietnam del Nord, parve in questo frangente essere coronata da successo. Il governo americano, spingendo il governo di Hanoi ad accettare un compromes­ so per il cessate il fuoco, ratificato a Parigi nel gennaio 1973, confidava di avere raggiunto l’auspicata «peace with honor». L’accordo, che oltre alla cessazione dei combattimenti e alla restituzione dei prigionieri di guerra prevedeva il ripristino del 17° parallelo come linea di demarcazione tra i due stati, sanciva la decisione ame­ ricana di abbandonare definitivamente l’impegno militare diretto, mentre la com­ posizione del futuro governo del Vietnam del Sud sarebbe stata definita attraverso accordi tra i due governi vietnamiti. Ma il conflitto, nonostante il premio Nobel

per la pace attribuito il 10 dicembre dello stesso anno congiuntamente a Kissinger e al nordvietnamita Le Due Tho (ma non ritirato dai vincitori), era tutt’altro che risolto. L’unica reale novità era costituita dall’abbandono del teatro di battaglia da parte delle truppe statunitensi: ciò consentì alla guerriglia comunista di ampliare il raggio della propria azione acquisendo progressivamente il controllo di Cambogia e Laos, mentre nordvietnamiti e vietcong, violando deliberatamente gli accordi di Parigi, proseguirono l’offensiva contro il regime sudvietnamita di Van Thieu. Le garanzie di aiuti economici e militari avanzate da Washington nei confronti del governo di Saigon, complice l’indebolimento dell’amministrazione Nixon in seguito all’esplodere dello scandalo Watergate, si rivelarono lettera morta. In tali condizio­ ni i destini del conflitto erano segnati, dimostrando peraltro il carattere illusorio della strategia di «vietnamizzazione». Il disfacimento del regime sudvietnamita fu svelato drammaticamente al mondo il 30 aprile 1975 quando le truppe comuniste entrarono trionfalmente a Saigon, mentre i funzionari dell’ambasciata americana abbandonavano trafelati in elicottero la città. La «lezione vietnamita», associata all’esigenza di maggior rigore verso i vincoli di bilancio e alla presa di distanza di settori crescenti dell’opinione pubblica americana rispetto all’impegno militare in contesti ritenuti marginali per la sicurezza nazionale, convinse Washington della necessità di maggiore prudenza nella competizione globale, evitando per quanto possibile un coinvolgimento diretto negli scenari strategicamente più delicati. 2.

La guerra del Kippur

Il 1973, peraltro, fu caratterizzato dal deflagrare di un’altra importante crisi regionale, legata all’evoluzione dello scenario mediorientale, che stava affermandosi come uno dei maggiori focolai di tensione internazionale. La schiacciante vittoria israeliana nella guerra dei Sei giorni contro l’alleanza araba costituita da Egitto, Siria e Giordania aveva determinato una profonda ridefinizione dei confini, esasperando una conflittualità regionale che non pareva in grado di essere disciplinata dalle due superpotenze: l’Egitto aveva perso la striscia di Gaza e la penisola del Sinai, la Giordania tutte le conquiste del territorio palestinese ottenute nel 1948 inclusa la parte orientale di Gerusalemme, la Siria le alture del Golan. Sul fronte politico la guerra lampo del 1967 aveva sancito un colpo irreversibile alla leadership di Nasser e, più in generale, all’oltranzismo panarabo, da cui presero progressivamente le distanze la Giordania e gli altri stati moderati della zona, sancendo il distacco dei movimenti di resistenza palestinese (riuniti nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, Olp) dalla tutela di questi regimi. Alla morte di Nasser, nel 1970, il suo successore, Anwar al-Sadat, spinto dalla necessità di legittimarsi in un contesto di gravi tensioni economiche e sociali, individuò nel revanchismo anti-israeliano un potente serbatoio di consensi e iniziò a preparare il confronto militare. Alla ritrosia della maggior parte degli stati arabi faceva eccezione il regime siriano, guidato dal 1970 da Hafez al-Assad, che condivideva con l’omologo egiziano l’obiettivo di vendicare l’onta subita sei anni prima e di mutare gli equilibri regionali che si andavano consolidando in senso progressivamente favorevole a Israele. Nel primo pomeriggio del 6 ottobre 1973, giorno dello Yom Kippur (festa reli­ giosa più importante del calendario ebraico), dopo avere informato il governo sovie­ tico - che forniva loro assistenza e rifornimenti militari - delle proprie intenzioni,

gli egiziani, contando sull’effetto sorpresa e sull’impreparazione degli israeliani, attaccarono la sponda orientale del canale di Suez, mentre le truppe di Damasco avanzarono sulle alture del Golan, occupando posizioni chiave sul monte Hermon e minacciando direttamente importanti città come Netanya, Haifa e Tel Aviv. Il 9 ottobre, mentre il fronte si stava stabilizzando, gli israeliani - che avevano già perso 500 carri armati e una cinquantina di aerei - sollecitarono urgentemente l’intervento di Washington. Nixon e Kissinger garantirono sostegno attraverso un ponte aereo, ma lo fecero con notevole ritardo: i primi Galaxy americani arrivarono soltanto il 14 ottobre, quando ormai gli israeliani avevano riorganizzato le proprie forze e lan­ ciato un contrattacco a vasto raggio che aveva permesso di riprendere le posizioni perdute nel Golan e di respingere l’avanzata egiziana nel Sinai. La situazione era a un punto di svolta: Egitto e Siria erano riusciti a intaccare il mito dell’invincibilità militare di Israele, ma rischiavano ora una nuova sconfitta dall’esito drammatico. Il conflitto aveva peraltro oltrepassato la dimensione regionale e coinvolgeva la diplomazia internazionale al più alto livello: i sovietici - nonostante l’espulsione dei consiglieri militari dall’Egitto decisa da Sadat nel 1972 come ritorsione per il rifiuto di Mosca di aumentare le forniture d’armi - si erano schierati nettamente in favore dei paesi arabi, mentre gli Stati Uniti avevano preso posizione in favore di Israele. Ma nessuna delle due superpotenze intendeva forzare la situazione: l’Urss, che nonostante il supporto a Siria ed Egitto non considerava più Sadat un partner affidabile, era decisa a evitare strappi con gli Stati Uniti. Washington, dal canto suo, non voleva chiudere anzitempo la fase di distensione con Mosca che, oltre a sostenere militarmente i paesi arabi, li incoraggiava a utilizzare l’arma del petrolio come mezzo di condizionamento contro l’Occidente. Sin dalla conferenza di Baghdad del settembre 1960 i paesi produttori di petro­ lio si erano riuniti nel cartello economico dell’Opec (Organization of thè Petroleum Exporting Countries), che aveva come obiettivo principale quello di arginare lo strapotere delle aziende petrolifere straniere, in gran parte angloamericane (le «sette sorelle», secondo la definizione di Enrico Mattei), che sin dagli anni Venti avevano monopolizzato l’intera filiera produttiva (estrazione, raffinazione, distribuzione). Il cartello, composto perlopiù da paesi arabi o islamici, non solo aveva visto aumen­ tare il numero dei membri (ai cinque paesi fondatori: Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela, si erano aggiunti nel corso degli anni Qatar, Libia, Algeria, Emirati Arabi Uniti, Nigeria) incrementando la propria quota produttiva sul totale mondiale (passando dal 15% del dopoguerra al 40%) ma aveva progressivamente rafforzato la propria posizione grazie all’ascesa del petrolio quale principale fonte energetica del mondo industrializzato. Come reazione al ponte aereo americano a sostegno di Israele, il 17 ottobre gli stati arabi membri dell’Opec annunciarono la riduzione di forniture di greggio ai paesi che avevano sostenuto lo stato ebraico nel conflitto. L’annuncio fu seguito da un embargo petrolifero totale, benché di breve durata, verso gli Stati Uniti e l’Olanda, che attraverso il porto di Rotterdam riforniva gran parte dell’Europa occidentale. Nel giro di poche settimane il prezzo di un barile di petrolio passò da quattro dollari per barile a dodici. La mediazio­ ne diplomatica frenò l’escalation militare. Il 22 ottobre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu adottò la risoluzione 338, negoziata da Stati Uniti e Unione Sovietica, che ordinava ai belligeranti la fine immediata dei combattimenti e apriva all’avvio di negoziati con l’obiettivo «di instaurare una pace giusta e duratura in Medio Orien­ te». La situazione restava tuttavia estremamente tesa. Il primo ministro sovietico

Aleksej Kosygin si recò da Sadat per convincerlo deH’impossibilità di proseguire un conflitto nel momento in cui l’esercito israeliano si era riorganizzato e stava preparando lo sfondamento totale del canale, arrivando a minacciare il Cairo. Sul fronte americano, l’approfondirsi dello scandalo Watergate aveva contribuito a rafforzare ulteriormente la posizione di Kissinger, impegnato in una frenetica maratona diplomatica. Dopo una visita-lampo a Mosca, il segretario di stato ame­ ricano si recò a Tel Aviv per convincere Golda Meir ad accettare la sua proposta di cessate il fuoco. L’incontro fu estremamente teso perché gli israeliani erano ancora irritati per il ritardo con cui Washington aveva inviato gli aiuti e contestavano il fatto che la risoluzione Onu fosse intervenuta proprio nel momento in cui le sorti del conflitto si erano rovesciate in loro favore. Dopo un primo rinvio della tregua, che permise alle truppe israeliane di sfondare le linee nemiche arrivando ad accer­ chiare la terza armata egiziana, la minaccia di Kissinger di sospendere la fornitura di aiuti militari e quella sovietica di un massiccio intervento militare, convinsero Tel Aviv a desistere. Il 27 ottobre 1973, a tre settimane dallo scoppio delle ostilità, i combattimenti cessarono. 3.

L’arma del petrolio

Le conseguenze della guerra del Kippur furono molteplici. Gli israeliani ave­ vano concluso il conflitto con una spettacolare controffensiva che aveva permesso di riprendere il controllo della riva occidentale del canale di Suez e di dimostrare la propria superiorità strategica e militare. Nonostante questo la guerra del 1973 era destinata a lasciare ferite profonde nella memoria dello stato ebraico. Innanzi tutto il numero delle vittime israeliane (2.700) era molto superiore rispetto alle due precedenti guerre, nel corso delle quali Tel Aviv aveva contato appena qualche centinaio di morti. Ma ancora più bruciante e carica di angoscia era la fine del mito deir invincibilità militare di Tsahal (le forze di difesa israeliane): in Israele ebbe avvio un lungo e doloroso esame collettivo sull’impreparazione palesata di fronte all’attacco arabo. A meno di un mese dalla fine delle ostilità venne istituita la Com­ missione Agranat (dal nome del presidente della Corte Suprema, Shimon Agranat, che fu incaricato di guidarla), che aveva il compito di far luce sulle responsabilità dei vertici politici e militari nel disastro iniziale. L’inchiesta avrebbe profondamente destabilizzato il sistema politico israeliano: nell’aprile 1974 la pubblicazione del rapporto finale della Commissione portò alle dimissioni di Golda Meir e, nonostan­ te il talento del suo successore, Yitzhak Rabin, il partito laburista al potere (diviso al proprio interno dallo scontro di personalità tra Rabin e Shimon Peres) andò incontro a un rapido declino a vantaggio del Likud guidato da Menachem Begin. Ad andare in frantumi, in realtà, fu la convinzione israeliana ma, più in ge­ nerale, occidentale di poter regolare il rapporto con i paesi arabi esclusivamente attraverso il ricorso alla soluzione militare. L’embargo rappresentò per questi ul­ timi una sorta di riscatto e di presa di coscienza. Negli ultimi decenni la sostenuta crescita economica conosciuta dalle principali potenze del pianeta - Stati Uniti, Europa occidentale e Giappone - aveva determinato un incremento vertiginoso del fabbisogno energetico globale. Il loro sviluppo era stato favorito in buona misura dalla sostituzione del carbone con il petrolio come fonte energetica principale: la fine del monopolio delle «sette sorelle» e l’embargo decretato dall’Opec (concluso

nell’aprile 1974) instillarono improvvisamente un senso di vulnerabilità in paesi abituati a consumare molta energia e a pagarla poco (il prezzo al barile sarebbe continuato ad aumentare negli anni successivi, fino ad arrivare a trenta dollari nel 1979). Dal punto di vista diplomatico tutti i paesi industrializzati - eccezion fatta per Usa e Urss, che disponevano di risorse energetiche proprie - si trovarono improvvisamente vincolati dall’esigenza di mantenere buoni rapporti con i paesi arabi in virtù della loro dipendenza energetica. Tra il 1974 e il 1976 le economie dei paesi avanzati conobbero una brusca frenata. Riemersero spettri che parevano appartenere a un passato lontano: recessione industriale, disoccupazione elevata, inflazione fuori controllo. La crisi petrolifera non comportò soltanto gravi conse­ guenze economiche, ma rappresentò una cesura anche dal punto di vista simbolico per il mondo occidentale, ponendo fine in maniera traumatica alla fase di fiducia fideistica nell’estensione del benessere che aveva caratterizzato la vita quotidiana dei suoi cittadini nella stagione dell’espansione postbellica. Anziché l’«abbondanza» fu la «scarsità» (anzitutto di risorse energetiche) l’orizzonte di riferimento con cui si trovarono improvvisamente a fare i conti i paesi sviluppati. Questo cambiamento di prospettive produsse due conseguenze principali. La prima interessò sul, piano interno gran parte dei paesi occidentali. L’esaurirsi della lunga fase di stabilità e crescita economica che dalla fine del secondo conflitto mondiale si era fondata sul ruolo regolatore dello stato non fu caratterizzata sol­ tanto dal ritorno in auge di tesi liberiste ma soprattutto dal deflagrare di tensioni sociali che si sovrapposero in questo frangente a una crisi generalizzata di rappre­ sentatività politica. A esserne investiti furono gli Stati Uniti, con le dimissioni di Nixon seguite allo scandalo Watergate, ma soprattutto l’Europa con la crisi del gollismo in Francia, la fine dell’egemonia politica della comunità francofona nel governo del Belgio, una fase di inedita fragilità dei governi in Regno Unito, per non parlare dei paesi Germania e Italia in particolare - in cui l’incerto superamento degli equilibri politici postbellici si accompagnava a una drammatica emergenza terroristica. La seconda conseguenza è da ricondurre all’ambito delle relazioni interna­ zionali e, in particolare, alla consapevolezza acquisita dai paesi più avanzati della necessità di istituire nuovi meccanismi intergovernativi per fronteggiare più effica­ cemente il nuovo contesto economico globale e le eventuali crisi che lo avrebbero caratterizzato. Fu questa esigenza che spinse il presidente francese Valéry Giscard d’Estaing e il cancelliere tedesco Helmut Schmidt a organizzare il primo vertice eco­ nomico informale dei sei paesi più industrializzati - Stati Uniti, Francia, Germania federale, Regno Unito, Giappone e (nonostante le resistenze francesi) Italia - che si tenne presso il castello di Rambouillet, dal 15 al 17 novembre 1975. Obiettivo dichiarato dell’incontro era quello di favorire «una cooperazione internazionale e un dialogo costruttivo tra tutti i paesi» attraverso un incremento della diplomazia multilaterale. A partire da questo primo vertice i summit tra le principali potenze economiche mondiali - cui si aggiunse il Canada, dando vita al cosiddetto gruppo dei 7 (G7) - sarebbero divenuti un appuntamento fisso, a cadenza annuale. Si trattava della dimostrazione più evidente dell’elevato livello di interdipendenza raggiunto dai sistemi produttivi dei vari paesi e della necessità che le politiche economiche e monetarie si fondassero su una cooperazione a livello internazionale capace di promuovere un’espansione coordinata delle economie.

Percorso di autoverifica

1.

Quali furono i maggiori segnali di indebolimento della leadership americana a livello mondiale? 2. Cosa si intende con l’espressione «vietnamizzazione del conflitto»? 3. Quali furono le principali conseguenze della guerra del Kippur per Israele? 4. Perché l’embargo petrolifero decretato dall’Opec rappresentò una sorta di riscatto per i paesi arabi? 5. Per quale ragione la crisi petrolifera produsse una cesura nell’immaginario collettivo dei paesi sviluppati? 6. Quali furono le principali conseguenze della crisi petrolifera per i paesi sviluppati?

Per saperne di più

G. Formigoni, Storia della politica internazionale nell’età contemporanea, II ed., Bologna, Il Mulino, 2006. T.G. Fraser, Il conflitto arabo-israeliano, III ed., Bologna, Il Mulino, 2009. G. Garavini, Dopo gli imperi. L’integration e europea nello scontro Nord-Sud, Firenze, Le Monnier, 2009. F. Parra, OH Politics. A Modem History o f Petroleum, London, I.B. Tauris, 2004.

1973. Prima e dopo il settembre cileno di Loris Zanatta

Ì

I

Osservando il golpe attuato dal generale Pinochet e dai suoi fedeli militari sullo sfondo degli esperimenti politico-istituzionali iatinoamericani del secondo dopoguerra, vediamo come il settembre cileno segni la fine di un’epoca. Uno spartiacque che sancisce il passaggio, per molti versi traumatico e violento, da un’epoca dominata dalla politica a una contrassegnata dall’antipolitica; la transi­ zione dal dominio dell’ideologia a quello della tecnocrazia, dalla partecipazione di massa alla vita pubblica al ritiro nell’ambito privato, dalla contestazione al conformismo, dalla disobbedienza alla disciplina.

L’11 settembre 1973 il presidente socialista Salvador Allende si suicidò nella Moneda, il palazzo presidenziale di Santiago del Cile assediato dai carri armati dell’esercito e bombardato dai caccia dell’aviazione. Con lui morì il primo e unico tentativo nelle Americhe di creare il socialismo per via democratica. Un tenta­ tivo infelice e già ferito a morte ancor prima che il generale Pinochet vi ponesse brutalmente fine: dal boicottaggio degli Stati Uniti, dalla larvata rivolta sociale e politica, dalle sue inguaribili velleità e viscerali lotte interne. Il caos creativo e in­ concludente di quell’esperimento fu allora scalzato dall’ordine militare e dalla pace dei cimiteri. I militari, raccolti dietro la cupa immagine del loro capo dai perenni occhiali da sole a coprirgli lo sguardo, arrivarono per restare e ribaltare il paese da cima a fondo. E lo fecero. Ma la «via cilena» aveva superato le frontiere. Amata o temuta, emulata o denigrata, era divenuta un modello o un’ossessione in tutto l’Oc­ cidente. Da replicare o scongiurare, a seconda. Per questo la sua drammatica fine segnò un’epoca, sancì una svolta. Non tutti, allora, ne furono consapevoli. Molti, anzi, colsero nel sacrificio di Allende un eroico messaggio che i posteri avrebbero raccolto già l’indomani, portando a compimento i sogni socialisti ch’egli aveva evocato fino all’ultimo istante della sua vita. Altri, invece, lo compresero al punto da ricavarne un duro insegnamento; perfino in Italia, dove Enrico Berlinguer trasse dai fatti cileni una lezione destinata a portare il Partito comunista alla ricerca del «compromesso storico» con la Democrazia cristiana.

1.

Il contesto latinoamericano

Ma in che senso il golpe cileno segnò una cesura storica? Cosa si lasciò alle spalle e cosa gli si parò dinnanzi? E fu un evento isolato, oppure l’anello più eclatante di una catena di fatti accomunati da un vago senso comune? E quale fu questo senso? Se vi si guarda da presso, ma con la prospettiva consentita dall’ac­ qua da allora passata abbondante sotto i ponti, il settembre cileno pare proprio la fine di un’epoca e la cuspide di una successione di eventi che pur in quella fase così convulsa si direbbero procedere in una medesima direzione. Eventi a monte e a valle, che per certi aspetti chiusero la stagione di risveglio sociale e idealismo politico aperta dalla Rivoluzione cubana del 1959, e per altri un’epoca comincia­ ta molto prima, quando all’ombra della Grande depressione del 1929 l’America Latina aveva imboccato il cammino del dirigismo economico e del populismo. Ma andiamo con ordine. Si diceva di taluni eventi a monte del 1973 cileno: per esempio, nel 1967, il mesto declino sulla sierra boliviana della balzana teoria del fuoco guerrigliero, coronato dalla patetica morte di Ernesto Che Guevara; e l’an­ no successivo il massacro di studenti nella Plaza de las Tres Culturas a Città del Messico e la celebrazione castrista, all’Avana, dei carri armati sovietici intervenuti a soffocare la primavera praghese; per non parlare della furia omicida scatenata dalla dittatura brasiliana a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Proprio il 1973, d’altra parte, sancì il crollo di una delle più antiche e solide democrazie del Cono Sud, quella uruguayana, travolta da tanti, troppi conflitti e troppe sventure tutte insieme: il declino economico, il ricambio generazionale, il radicalismo politico, la guerriglia tupamara, la camicia di forza della guerra fredda. Ne nacque così una feroce dittatura, le cui atrocità sono oggi dimenticate soltanto perché oscurate da quelle degli ancor più terribili vicini. E poi ci furono gli eventi a valle del golpe di Pinochet. Il più noto fu senz’altro il colpo di stato argentino del marzo 1976, divenuto poi tristemente celebre per il ricorso massiccio alla più insana tra le più feroci tecniche repressive, quella della «scomparsa» di persone, nella fattispecie degli oppositori in senso lato; un regime a sua volta sorto dalle ceneri ancora fumanti della violenta deflagrazione interna del «peronismo», lacerato dalle que­ relles intestine tra la destra sindacale e la sinistra giovanile montonera, fautrice del «socialismo nazionale» in punta di fucile. Intanto era crollata, nel 1975, rovesciata da un contro-golpe militare, anche la dittatura «progressista» del generale Velasco Alvarado in Perù, quel peculiare impasto di retorica socialista e indigenista, non allineamento internazionale, populismo militare e corporativismo del più antico conio. Finché nel 1979, proprio mentre la Rivoluzione sandinista in Nicaragua parve per un attimo riattizzare, per lo meno agli occhi degli illusi o dei volon­ terosi, la fiamma di cui tutti quegli eventi testimoniavano l’imminente morte, fu un evento religioso a sancire la chiusura della parabola. Avvenne a Puebla, dove si celebrò la terza riunione plenaria dell’episcopato latinoamericano e dietro la rituale fraseologia progressista non fu difficile cogliere un vento nuovo, lontano anni luce dal focoso appello alla ribellione contro le «ingiustizie strutturali» delle società latinoamericane lanciato undici anni prima dallo stesso consesso a Medellin. Era il vento portato dal nuovo pontefice, Giovanni Paolo II, e prima di lui dai nuovi vertici della Conferenza episcopale latinoamericana, preoccupati per la disciplina istituzionale e l’ortodossia teologica molto più che per la «liberazione» degli oppressi dal capitalismo.

Ma cosa hanno dunque di familiare, di comune, tale da dar loro un senso di svolta epocale, tutti questi eventi nel mezzo dei quali la morte di Allende e la lun­ ga dittatura militare che ne seguì si stagliano con la forza del simbolo che tutti li riassume e li condensa? Diverse cose. Sancirono, per dirla in una formula, il pas­ saggio per lo più traumatico e violento da un’epoca dominata dalla politica a una contrassegnata dall’antipolitica; il viaggio dal dominio dell’ideologia a quello della tecnocrazia, dalla partecipazione di massa alla vita pubblica al ritiro o all’espulsione nell’ambito privato, dalla contestazione al conformismo, dalla disobbedienza alla disciplina. E non solo, perché nel frattempo cambiò il modello economico seguito per decenni dai paesi della regione, dal cui orizzonte svanirono a poco a poco le ubbie di indipendenza nel mondo bipolare della guerra fredda. Questo, dunque, è il primo punto: il passaggio dalla politica all’antipolitica. Se gli anni Sessanta erano stati un po’ ovunque in America Latina una stagione carat­ terizzata dall’ingresso disordinato delle masse nella vita politica e sociale, l’ondata militare che gli succedette si premurò di chiudere le porte della partecipazione. Tanto fermento era comprensibile: dopo la Seconda guerra mondiale l’America Latina aveva imboccato con decisione la via della modernità: industria, inurbamen­ to, differenziazione sociale, crescita dei consumi, secolarizzazione, e così via. Su quelle trasformazioni era però presto calato un pesante coperchio fatto di governi autoritari e conservatori sorretti dalla logica inesorabile della guerra fredda, che coglieva minacce comuniste ovunque si agitasse lo spettro del disordine sociale. Così, quando la Rivoluzione cubana per un verso, la distensione internazionale per un altro e i movimenti populisti sorti in diversi paesi per un altro ancora sollevarono quel coperchio, le energie e le speranze così a lungo compresse fuoriuscirono di colpo, trasformando un panorama apparentemente placido qual era quello dell’A­ merica Latina negli anni Cinquanta nella zona più pericolosa al mondo degli anni Sessanta. Ma non solo crebbero allora la domanda di partecipazione politica, gli iscritti ai sindacati, gli scioperi, le mobilitazioni studentesche e così via. Il fatto è che il contrasto tra le società per lo più elitiste dell’America Latina e l’ingresso delle masse nell’arena pubblica, tra i pochi ricchi e bianchi e i moltissimi poveri e meticci o mulatti, rendeva la regione più fertile che mai all’attecchimento di ideologie che ne propugnassero o promettessero la trasformazione radicale e definitiva: cioè all’i­ dea di redenzione sociale che si fece allora sempre più strada nel seno della chiesa cattolica; a quella di emancipazione degli oppressi perorata dalle diverse anime del marxismo latinoamericano; a quella, infine, di riscatto della sovranità morale e materiale dell’America Latina al cospetto degli Stati Uniti, la grande potenza alla cui ombra essa viveva. Fu così che dallo stato ai ruoli nella famiglia, dai rapporti di lavoro nelle officine ai canoni estetici dominanti, dalla morale sessuale alla gerarchia ecclesiastica, ogni autorità e consuetudine fu sottoposta a severe critiche o veri e propri assalti nel nome di un imminente e necessario processo di liberazione individuale e sociale. Studenti e operai, marxisti e nazionalisti, tesero allora a incontrarsi nel nome delle vie nazionali alla costruzione del socialismo; i teorici della dipendenza e i sociologi dello sviluppo osservarono che a meno di una svolta socialista le società periferiche dell’America Latina erano destinate dalla struttura stessa del sistema economico internazionale a restare subordinate e sottosviluppate; i teologi della liberazione proclamarono l’opzione preferenziale per i poveri e divennero protagonisti dell’or­ ganizzazione e delle lotte delle masse diseredate. Fu, insomma, un’intensa stagione

di mobilitazione e radicalismo ideologico, che nella foga della creazione di una società e un uomo «nuovi» si concentrò sull’emancipazione sociale snobbando la democrazia politica, già molto fragile se non del tutto assente, giudicandola poco più che un artificio formale attraverso il quale i potenti derubavano le masse del loro diritto ad autodeterminarsi. Come tutti i processi analoghi in altre parti del globo e in altre epoche della storia fu un’ondata di innovazione invertebrata e caotica, segnata da eccessi e irrazionalità. Un processo che da un lato svecchiò i rapporti politici, sociali e generazionali in seno a società fin troppo legate a canoni padronali e notabiliari, e dunque le democratizzò; ma dall’altro sviluppò, assai più che nuovi e originali canali di partecipazione democratica dei settori sociali che per la prima volta si affacciavano sull’arena politica, il mito palingenetico della «rivoluzione». Termine che molti fecero proprio in senso metaforico, come sinonimo di «profonda trasformazione», ma che altri adottarono alla lettera, seguendolo fino a teorizzare e praticare la via armata come unico modo per conseguirla, talvolta contro feroci dittature che non consentivano altri modi di opporsi, ma sempre più spesso anche contro regimi più liberali, come un fine in sé. Non a caso fu anche l’epoca delle guerriglie, della crescente militarizzazione della militanza politica rivoluzionaria e del precipitare di un numero crescente di paesi verso il baratro della guerra civile. A tutto ciò pose fine la catena di eventi di cui si diceva. Nel modo più brutale immaginabile nei casi di Cile, Argentina e Uruguay. Per i militari che presero il potere, quasi sempre col sostegno implicito di buona parte della popolazione stan­ ca del disordine sociale, assediata dal caos economico e spaventata dalla violenza crescente, la diagnosi non lasciava scampo: i paesi dell’America Latina avrebbero potuto imboccare il cammino del progresso economico e ritornare alla demo­ crazia politica solo dopo avere restaurato l’ordine e la disciplina in ogni ganglio della società. Ad ogni costo e con ogni mezzo. Una società che essi concepivano alla stregua di un organismo omogeneo e armonico attaccato da un male che ne minacciava l’unità, e dunque la sopravvivenza: l’eccesso di politica, la cronica conflittualità. Il segreto, dunque, era eliminare la politica per il tempo che fosse stato necessario, smobilitare la società, costasse quel che costasse, colpendo tutto ciò che c’era da colpire, purificare le fabbriche, le scuole, i giornali e gli altri mezzi di comunicazione dal virus dell’ideologia e della politica. E poiché il mondo era diviso e la contestazione aveva abbracciato la causa del socialismo, i regimi militari che nacquero dalle macerie di quella stagione di sogni finiti in frantumi si ersero ad avanguardia dell’Occidente cristiano nella «terza guerra mondiale» contro il comuniSmo. E in tal nome chiusero i parlamenti, sospesero o misero fuori legge i partiti, presero il controllo dei sindacati, censurarono la stampa, purgarono scuole e università e fecero calare la mannaia sull’opposizione: quella armata, quando c’era, ma altrettanto spesso quella politica, culturale o ideologica, sottoposta a giudizi sommari, arresti di massa, torture sistematiche, fucilazioni legali o atroci omicidi. Ne furono vittime dirigenti politici e sindacali, soprattutto di sinistra, intellettuali, artisti, docenti, giornalisti, militanti sociali di vario genere, molti di essi cattolici, e anche preti e suore. E quel che accadde anche in Cile dopo ITI settembre 1973. Quei regimi non avevano scadenze, ma obiettivi, come non si stancarono di proclamare. E non erano conservatori, bensì «rifondatori», poiché lungi dall’illudersi di tornare ai «bei tempi» andati si proposero di cambiare così a fondo le più profonde trame della società, dell’economia e della cultura da pensare di sciogliersi solo quando fosse stato scongiurato il pericolo che il ritorno dei militari

nelle caserme sfociasse nuovamente nella «demagogia», nel populismo, nell’ec­ cesso di politicizzazione. Una fase più o meno lunga di medicina autoritaria parve loro necessaria per guarire quelle società malate di disordine e disobbedienza e per guidarle nel delicato processo di modernizzazione economica. In tal senso si può dire che i militari si proposero di sospendere la politica in modo da creare le asettiche condizioni di laboratorio nelle quali i tecnocrati civili avrebbero potuto sperimentare le ricette economiche destinate a garantire lo sviluppo nazionale e insieme la trasformazione sociale necessaria per debellare una volta per sempre il virus socialista e populista. 2.

Il modello economico dei regimi latinoamericani

Inoltre, il 1973 cileno è emblematico di un altro, fondamentale punto di rot­ tura nella storia latinoamericana del XX secolo. Economico, questa volta. Tanto che il regime militare che ne nacque, come d’altra parte quelli coevi, annoverò tra i suoi tratti salienti quello di riservare i ministeri economici a qualche prestigioso tecnocrate civile col pedigree che ne certificava l’appartenenza alla corte dell’eco­ nomista americano Milton Friedman. Erano i famosi Chicago boys, che all’ombra delle dittature di quegli anni impressero una profonda e definitiva svolta al modello economico seguito dall’America Latina fin dagli anni Trenta. Una svolta motivata da considerazioni economiche, e cioè dalla convinzione che il vecchio modello avesse fatto il suo tempo e fosse intrinsecamente inefficiente, ma non meno da una diagnosi politica, cioè dalla conclusione che fosse stato proprio il modello di sviluppo che ora si buttava alle ortiche a favorire il dilagare e a creare le basi sociali e il clima ideologico della rivoluzione e della demagogia. Ma qual era, in sintesi, il modello ora accantonato con sprezzo, ed entro i cui parametri si era mosso Allende, e quale quello abbracciato con zelo iconoclasta da Pinochet e dai suoi emuli? A essere schematici, ma neppure troppo, si passò allora, per mezzo di una terapia che i governi militari e i loro ideologi si proposero di somministrare senza alcuna anestesia, dallo stato al mercato, o per essere più precisi, dal dirigismo protezionista teorizzato da Raul Prebisch e dalla Commissio­ ne economica dell’Onu per l’America Latina fin dagli anni Cinquanta al liberismo economico e al monetarismo ortodosso caro ai guru del pensiero liberale alla von Hayek, di casa nel Cile di Pinochet. L’idea, si diceva, era che proprio il capitalismo di stato perseguito dalle nazioni latinoamericane per almeno un trentennio avesse dato i natali e poi perpetuato nel tempo un blocco sociale inguaribilmente legato alla protezione dello stato, dei partiti e dei sindacati; un blocco populista imper­ meabile ai valori dell’iniziativa privata e della competizione senza i quali, si diceva, sarebbero stati irraggiungibili sia il progresso economico che una democrazia sana, animata da individui responsabili e indipendenti, da una società forte e autonoma dallo stato. Cominciarono allora, dunque, sotto la spinta politica e ideologica dei militari e dei loro alleati civili l’abbattimento dello stato corporativo e industrialista e l’adozione del modello economico che, seppur con risultati spesso diversi dalle premesse ideologiche dei suoi fautori, fu poi adottato un po’ ovunque nella regione nei due decenni successivi. Un modello fondato sull’apertura dei mercati, sulla valorizzazione dei vantaggi comparativi e il rilancio delle esportazioni come volano della crescita, sulla deregolamentazione delle attività produttive e l’incentivazione

fiscale e legislativa degli investimenti stranieri, sulle massicce privatizzazioni di imprese e servizi pubblici, sulla liberalizzazione del mercato del lavoro e, all’inizio, sulla distruzione del potere sindacale e la redistribuzione della ricchezza a favore delle imprese e dei ceti sociali più elevati. 3.

L’atteggiamento degli Stati Uniti

Per finire, c’è un ultimo ambito sul cui sfondo il golpe cileno del 1973 si staglia come un simbolo di svolta, come l’emblema del passaggio da un’epoca a un’altra. E quello internazionale, segnato dalla guerra fredda e dalla trasformazione dell’Ame­ rica Latina in una delle sue più calde frontiere a partire dalla Rivoluzione cubana. In tal senso si può dire che la vittoria elettorale di Allende e della coalizione di Unidad Popular in Cile nel 1970 rappresentasse per gli Stati Uniti e la loro egemo­ nia politica e morale nella regione una sfida ancor più grave di quella già portata da Castro. Non foss’altro perché le teste d’uovo di Washington erano sempre state certe, comprensibilmente, che una nazione civile e democratica nell’emisfero americano avrebbe senz’altro scelto l’Occidente se messa in condizioni di farlo liberamente. Ora, la vittoria di un presidente marxista, per quanto risicata, in uno dei pochi paesi della regione che potevano vantare una solida tradizione civica e democratica rappresentava un bel dilemma per gli Stati Uniti. L’effetto emulativo, o l’effetto domino se si vuol chiamarlo così, non fu certo estraneo alle loro preoc­ cupazioni in quel clima, già descritto, di endemica irrequietezza in tutte le società dell’America Latina. Ebbene, l’atteggiamento dell’amministrazione Nixon verso la crisi cilena, e più in generale degli Stati Uniti verso le altre che si manifestarono negli anni successivi, rappresentò un significativo cambiamento rispetto allo spirito impresso alla politica di Washington verso la regione dall’Alleanza per il progresso lanciata da Kennedy nel 1961. Tanto che dal 1976 la presidenza Carter si trovò ad affrontare l’imbarazzante alleanza con dei regimi non solo dittatoriali, ma anche efferatamente sanguinari. In un certo senso, si può dire che il sostegno della Casa Bianca al golpe cileno fu un momento emblematico, forse il momento chiave, dello sforzo attraverso il quale gli Stati Uniti tirarono le fila dell’unità emisferica per ricondurla con le buone o le cattive sotto la loro guida indiscussa. E ciò non solo schiacciando gli aspiranti pionieri del socialismo, ma anche prosciugando lo stagno di coloro che ambivano a non allinearsi, diventati sempre più numerosi nel clima di distensione tra le superpotenze di quegli anni. Percorso di autoverifica

1. Perché il settembre cileno può essere considerato un tornante nella storia contempo­ ranea? 2. Quali sono gli altri principali regimi militari e dittatoriali dell’America Latina? 3. Perché i regimi latinoamericani possono essere definiti «rifondatori»? 4. Qual è il modello economico prediletto dai regimi latinoamericani? 5. Illustrate l’influenza del contesto internazionale sulle dinamiche politiche latinoameri­ cane.

Per saperne di più

M. Carmagnani, L’altro occidente: l’America Latina dall’invasione europea al nuovo millennio, Torino, Einaudi, 2004. G. Chiaramonti (a cura di), Tra innovazioni e continuità: l’America Latina nel nuovo mil­ lennio, Padova, Cleup, 2009. R. Nocera, Stati Uniti e America Latina dal 1823 a oggi, Roma, Carocci, 2009. L. Zanatta, Storia dell’America Latina contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2010.

1976. Dal franchismo alla democrazia: la transizione spagnola di Alfonso Botti

La morte di Franco costituì la premessa per l’avvio di un processo politico che condusse la Spagna a smantellare il precedente regime dittatoriale e ad approdare alla piena democrazia. La transizione si svolse in meno di tre anni, fu sostanzialmente incruenta e avvenne «dalla legge alla legge», cioè senza traumatiche rotture, combinando una riforma politica pensata e realizzata dall’al­ to (da re Juan Carlos e da Adolfo Suàrez) con la pressione proveniente dalla società civile e dai partiti dell’opposizione antifranchista. Se si considerano le resistenze alla trasformazione del sistema politico da parte dei settori beneficiati dal franchismo, occorre riconoscere che il suo esito, pur voluto dalla stragrande maggioranza degli spagnoli, fu tutt’altro che scontato.

Dopo la pacifica Rivoluzione portoghese dei garofani (25 aprile 1974), fu la morte del dittatore spagnolo Francisco Franco (20 novembre 1975) a costituire la premessa del ricongiungimento politico, dopo decenni di isolamento, della penisola iberica al continente. Poco dopo la Spagna iniziava lo smantellamento del regime di cui Franco era stato l’eroe eponimo. Un regime che aveva retto alla cesura rap­ presentata dalla fine del secondo conflitto mondiale, riuscendo a galleggiare sulle trasformazioni economiche, sociali, politiche e culturali che l’Europa aveva cono­ sciuto nel secondo dopoguerra. E sul franchismo, dunque, che occorre dapprima soffermare l’attenzione. 1.

Il franchismo

Già nel corso della guerra civile, nella parte del paese in cui i militari ribelli avevano avuto la meglio e poi in quello progressivamente conquistato, aveva preso corpo un regime che il contesto internazionale, l’ingente apporto in uomini e mezzi forniti da Mussolini e Hitler e la presenza di una forza politica come la Falange, dalla spiccata caratterizzazione fascista, avevano qualificato come fascista. Se a ciò si aggiungono la presenza di un dittatore dai poteri assoluti (dal 1° ottobre del 1936 capo dell’esercito, del governo, dello stato e, dalla primavera

del 1937, anche del partito unico), la prospettiva di un ordinamento economi­ co modellato su quello della Carta del lavoro fascista, l’istituzione di tribunali speciali finalizzati alla repressione del dissenso politico e, per quanto riguarda le ritualità esteriori, l’adozione del saluto romano, si hanno ragioni sufficien­ ti - pur con qualche differenza di vedute tra gli storici - per inserire il regime spagnolo nel novero dei fascismi di cui costituì per un tratto la variante iberica. Né mancò di aspirazioni totalitarie, riscontrabili nell’impeto nazionalizzatore in chiave spagnolista con cui cercò di omologare la popolazione cancellando le differenze linguistiche e culturali di catalani e baschi. A temperare tali spinte fu la Santa Sede che dopo aver legittimato la sollevazione militare e la guerra civile, ormai pienamente consapevole della natura anticristiana del nazionalsocialismo e allarmata dall’influenza germanica nel paese iberico, esercitò forti pressioni sull’episcopato spagnolo affinché scongiurasse l’approdo del regime verso esiti ancor più totalitari. Dei tre principali pilastri del costituendo regime - l’esercito, la Falange e la chiesa - fu quest’ultima a risultare determinante e ad avere la me­ glio. Ciò avvenne in concomitanza del profilarsi dell’esito della Seconda guerra mondiale, allorché Franco, avendo compreso che le possibilità di sopravvivenza del suo regime sarebbero naufragate con la sconfitta dell’Asse, iniziò la manovra di sganciamento da quest’ultimo. Fino a quel momento la Spagna aveva conces­ so basi e assistenza militare all’Asse, rifornito la Germania di preziose materie prime per l’industria bellica, inviato un corpo di truppe volontarie inquadrate nella Division Azul a combattere in Russia accanto alla Wehrmacht, dichiarato inizialmente la non belligeranza, in attesa di ottenere i compensi richiesti per scendere sul piano delle ostilità al fianco dell’Italia e della Germania, e solo in un secondo momento la neutralità. Ma tra il 1942 e il 1943 Franco rimosse dal posto di comando Serrano Suner, l’uomo che più aveva incarnato fino ad allora il progetto di fascistizzazione del regime, avviò una diplomazia parallela avvicinandosi agli Alleati e varò una politica umanitaria nei riguardi degli ebrei che richiedevano permessi di transito. Tale manovra fu portata a compimento al termine della guerra, quando il regime cercò di accreditarsi come del tutto diverso dai regimi totalitari sconfitti, avviando un’operazione «cosmetica», di cui l’autorappresentazione come «democrazia organica» (nella quale non vigeva cioè il principio delle democrazie liberali di «una testa un voto», ma quello della rappresentanza dei padri di famiglia, dei municipi e delle corporazioni sindacali) e il Fuero de los espanoles furono i caposaldi. L’operazione stentò ad avere successo. Anzi, se ci fu un momento in cui il franchismo in tutta la sua durata rischiò di essere travolto fu nel 1943, quando gli antifascisti spagnoli ed europei pensarono che gli Alleati non si sarebbero fermati alle pendici dei Pirenei e avrebbero completato l’opera di liberare l’Europa dal nazifascismo e dai suoi sodali. Ma le speranze andarono deluse. Proprio per le pre­ cedenti alleanze, tuttavia, la Spagna fu, nei primi anni del secondo dopoguerra, un paese isolato e al bando, stentando a essere riammesso negli organismi internaziona­ li. Escluso dagli aiuti statunitensi all’Europa per la ricostruzione (piano Marshall), il paese iberico fu costretto ad adottare una politica autarchica e visse nella penuria per tutti gli anni Quaranta, contraddistinti sul piano interno dalla repressione nei confronti degli ex combattenti repubblicani e delle sinistre, dalle esecuzioni che si contarono a decine di migliaia. In relazione alla consistenza dell’universo concentrazionario, non a caso la Spagna di quegli anni è stata definita un’«immensa

prigione». La sopravvivenza del regime fu garantita dalla guerra fredda, nel cui clima maturarono gli accordi economici e militari con gli Stati Uniti (1953), lo stesso anno in cui un nuovo Concordato con la Santa Sede confermava la Spagna franchista come stato cattolico additato come modello alla cristianità. L’esilio di tanti intellettuali legati all’esperienza e alle sorti della Seconda repubblica aveva fortemente depauperato il paese sul piano culturale. Sarebbe tuttavia un errore (come lo è stato nel caso del fascismo italiano) negare l’esistenza di cultura nella Spagna di Franco e la dimensione ideologica del franchismo. Certo, né Franco né gli intellettuali a lui vicini elaborarono un’originale teoria o dottrina politica. Posto il carattere confessionale e nazionalista del regime, essi si inserirono nel solco di una tradizione di pensiero, poi definita nazionalcattolicesimo, che postulava l’esistenza della piena identità tra cattolicesimo e Spagna e che può essere considerata come la vera ideologia del regime. La sancita confessionalità dello stato trovava riscontro nella clericalizzazione della società e di un regime nel quale l’istituzione ecclesiastica tornava ad avere un ruolo centrale nella vita pubblica senza termini di paragone in Occidente: i vescovi sedevano nelle Cortes, sovraintendevano e orientavano l’istruzione e la moralità pubblica, giudicavano la conformità delle leggi con il dogma cattolico. In cambio Franco ottenne voce in capitolo nella nomina dei vescovi, facoltà di cui si servì per promuovere gli ecclesiastici più allineati con il regime. Che proprio negli anni Cinquanta raggiunse la massima solidità, turbata appena dalla rapsodica attività clandestina di comunisti e socialisti, dall’affacciarsi a partire dal 1956 di una nuova opposizione interna, prevalentemente studentesca e giovanile, e dai primi segni di ripresa del movimento operaio, che riuscì a realizzare alcuni scioperi. Il regime, che storici e politologi a partire da Juan José Linz definiscono come «autoritario» in riferimento agli anni Cinquanta e successivi, rimase comunque sostanzialmente invariato e scarsamente definito negli assetti giuridici e istituzio­ nali, fino al definitivo smantellamento. Così come non mutarono, anche se Franco seppe agire da arbitro e alternarle a seconda delle necessità e delle circostanze, le «famiglie politiche» del franchismo (militari, falangisti, cattolici, monarchici, integralisti e tecnocrati le principali). Una cauta liberalizzazione economica, senza contropartite sul piano politi­ co, si ebbe alla fine degli anni Cinquanta, quando Franco fu convinto a inserire nella compagine governativa alcuni tecnocrati legati all’Opus Dei. Fu questa la premessa dello straordinario boom che l’economia spagnola conobbe negli anni Sessanta, con una crescita media del prodotto interno lordo di circa sei punti e ampie trasformazioni sociali, anche a seguito di imponenti flussi migratori interni verso le città e le zone industriali. In questo quadro ebbero a maturare la progres­ siva presa di distanza dalla dittatura di settori crescenti dell’associazionismo, del clero di base e dell’intellettualità cattolica specie in seguito al Concilio Vaticano II, la tumultuosa crescita delle organizzazioni sindacali operaie (Ugt e Cc.Oo) e venne ad affacciarsi, all’interno stesso del regime, una generazione di funzionari statali convinti che occorresse cambiare quanto prima il sistema politico, apren­ do alla democrazia e al pluralismo. Tali spinte trovarono quali interpreti alcuni politici franchisti che, o perché sinceramente convertiti alla democrazia o per opportunismo, cominciarono a premere sull’ormai anziano dittatore affinché, sciogliendo finalmente le riserve, ripristinasse con la scelta di un sovrano quella monarchia che era rimasta sulla carta dal 1947 e introducesse un cauto pluralismo

attraverso una legge sulle associazioni che surrogasse l’assenza di partiti politici. Franco nel 1969 scelse Juan Carlos di Borbone quale successore ai vertici dello stato, non tenendo conto dell’asse ereditario, secondo il quale sarebbe toccato al padre di questi, Don Juan di Borbone, ascendere al trono. Restò invece del tutto insensibile alle richieste di liberalizzazione del sistema politico e, specie dopo l’attentato dell’organizzazione terrorista basca Età in cui rimase ucciso l’ammiraglio Carrero Bianco (20 dicembre 1973), il regime tornò a mostrare il suo volto più brutale con l’esecuzione di cinque condanne a morte il 27 settembre 1975. Solo poche settimane dopo Franco moriva, convinto di aver lasciato tutto predisposto per garantire la continuità del regime di cui si era autoproclamato capo indiscusso «per grazia di Dio». 2.

La transizione

Anche se l’effettivo cambiamento tardò vari mesi a mettersi in moto, la situa­ zione non evolse come Franco aveva auspicato. Dopo essere stato incoronato, Juan Carlos confermò alla guida del governo Arias Navarro, che fu così l’ultimo presidente del governo della dittatura e il primo della monarchia, con il compito di sondare le possibilità di avviare la trasformazione del sistema politico. Non era certo Arias Navarro l’uomo che poteva farsi carico di questo compito, ma il sovrano aveva bisogno di qualche tempo per capire su quali forze potesse contare e quali resistenze al cambiamento frapponessero i settori più legati al franchismo. Fu solo dopo aver constatato l’immobilismo di Arias Navarro e averlo costretto a rassegnare le dimissioni che, nell’estate del 1976, il re scelse per realizzare il difficile compito un giovane e ambizioso politico di seconda fila, Adolfo Suàrez. Fin qui profonda era stata la delusione degli ambienti democratici spagnoli e internazionali, che nelle scelte del sovrano non avevano trovato nulla che potesse indicare l’avvio di un nuovo corso. Invece fu proprio Suàrez, sostenuto dal re, a mettere finalmente in moto la situazione, portando le Cortes franchiste, il 18 novembre 1976, ad ap­ provare la Ley de Reforma politica, poi ratificata dal referendum del 15 dicembre successivo, con cui prese avvio, in senso proprio, la transizione alla democrazia. Un successo, specie se si considera la difficile situazione economica per i concomitanti effetti della seconda crisi petrolifera e l’intensificazione dell’attività terroristica da parte dell’Età, che resta il capolavoro politico di Suàrez, il quale, mostratosi assai abile nello smantellamento del precedente regime, dei cui gangli era profondo conoscitore, non altrettanto saprà fare nel destreggiarsi in quella democrazia di cui fu assieme al re uno dei principali artefici. La Ley de Reforma politica riconosceva la sovranità popolare, attribuiva potere legislativo alle Cortes, che prevedeva composte di un congresso dei deputati e di un senato, introduceva il suffragio universale, fissava in quattro anni la durata del mandato parlamentare, stabiliva che la riforma costituzionale spettava al governo e al Congresso e che doveva essere sottoposta dal re a referendum. Per blinda­ re l’esito della riforma, attribuiva al sovrano la facoltà di sottoporre al popolo, mediante referendum, una scelta politica d’interesse generale, precisando che se l’oggetto della consultazione si riferiva a materia di competenza delle Cortes, queste sarebbero state sciolte nel caso non avessero preso una decisione consona al risultato del referendum.

In conformità con detta legge, una volta superato lo scoglio della legalizzazione del Partito comunista spagnolo (Pce), che incontrò forti resistenze in settori dell’e­ sercito e dell’opinione franchista, il 15 giugno 1977 si svolsero elezioni politiche generali (le prime dal febbraio 1936), che videro la vittoria del partito frettolosa­ mente costruito da Suàrez, la Union de centro democràtico (Ucd) con il 34,5% dei voti, davanti ai socialisti che ottennero il 29,2%, mentre il Pce otteneva un deludente 9% dei voti, di poco superiore alla percentuale della destra di Alianza popular di Fraga Iribarne (8%). Dopo le elezioni del giugno 1977 fu l’elaborazione della costituzione al centro della vita politica. Il Congresso dei deputati approvò il 26 luglio 1977 l’istituzione di una Commissione di 9 componenti in rappresentanza delle principali correnti politiche, incaricata di redigerne il progetto, che dopo ventinove sessioni di lavoro fu reso noto il 5 gennaio 1978. Raccolte le proposte di emendamento, iniziò il di­ battito nei due rami delle Cortes, che approvarono il testo definitivo il 31 ottobre 1978. Il previsto referendum di ratifica popolare della costituzione ebbe luogo il 6 dicembre. Aveva così formalmente termine, almeno sul piano istituzionale, quella tran­ sizione che aveva dovuto sciogliere contestualmente due importanti nodi: quello del passaggio da una dittatura quasi quarantennale a un sistema democratico e quello del superamento di un sistema statale centralizzato con, se si escludono le due brevi parentesi repubblicane, due secoli di storia alle spalle. Per segnare subito una discontinuità rispetto al precedente regime per quanto concerne l’autogoverno delle regioni nelle quali esistevano movimenti e forze politiche d’orientamento nazionalista (Paesi Baschi, Catalogna e Galizia), Suàrez si era nel frattempo mosso ristabilendo per decreto legge l’autonomia catalana (29 settembre 1977), seppur in forma provvisoria, e tentato, con meno successo, analoga operazione per i Paesi Baschi, per poi giungere a sottoscrivere patti pre-autonomistici con le assemblee di deputati di varie regioni: una soluzione che, di fatto, prefigurava quel sistema delle autonomie che, trovato albergo nel titolo V ili della costituzione, avrebbe poi plasmato il paese dagli anni Ottanta. Tra gli storici esiste unanimità nell’individuare negli anni precedenti le premes­ se della transizione spagnola alla democrazia e del suo felice esito. In particolare nell’impetuosa crescita economica degli anni Sessanta e nella maturazione della società civile, che esercitò una forte pressione sul sistema politico, mettendo a nudo il carattere obsoleto della dittatura e sollecitando poi, con il concorso di altri fattori e protagonisti individuali e collettivi, il suo superamento. Tra questi ultimi un ruolo rilevante ebbero l’attività clandestina dei partiti antifranchisti, gli orientamenti dell’opposizione moderata (democristiani, liberali e monarchici) semi-tollerata negli ultimi anni della dittatura e l’approdo a posizioni tendenzialmente democratiche («aperturiste») di gruppi ed esponenti della classe politica franchista. Determinan­ te fu poi il senso di responsabilità che comunisti e socialisti mostrarono dopo la morte di Franco, rinunciando a punti qualificanti dei propri programmi (come la pregiudiziale repubblicana) e accettando di sostituire la richiesta di «rottura» nella continuità dello stato con un passaggio pactado, cioè negoziato. La transizione avvenne, dunque, per mezzo di una riforma «dall’alto» e della pressione «dal basso». Dall’alto, seguendo un percorso diverso da quello auspicato dall’opposizione antifranchista, che vi si adattò, suo malgrado, solo quando capì che la strada imboccata da Adolfo Suàrez (passaggio dall’illegalità legalizzata del fran­

chismo alla legalità democraticamente ratificata, per linee interne e senza rotture), non aveva alternative. Dal basso, perché fu la presenza e costante mobilitazione dell’opposizione che riuscì a orientare il processo verso l’approdo democratico a cui effettivamente pervenne e che era tutt’altro che scontato, per via delle resistenze al cambiamento dei settori sociali, politici, militari ed ecclesiastici più beneficiati dalla dittatura (denominati Bunker). A riprova delle quali, anche se si trattò del loro ultimo colpo di coda, sta il tentativo di colpo di stato del colonnello Tejero del 23 febbraio 1981 con la sua spettacolare irruzione nell’emiciclo del Congresso dei deputati. Per quanto concerne il più generale contesto, a partire da S.P. Huntington è entrato in uso considerare la transizione spagnola (assieme a quelle portoghese e greca) come «terza ondata» democratizzatrice sul piano internazionale, dopo quelle delle rivoluzioni americana e francese e quelle che ebbero a prodursi alla fine della Seconda guerra mondiale. Per quanto riguarda gli estremi cronologici, è importante ribadire che la morte di Franco costituì la premessa che rese possibile l’avvio del processo, ma non ne segnò il concreto avvio, dal momento che fino all’approvazione della Ley de Reforma politica il sistema funzionò come quando era in vita il dittatore. Quanto al punto finale del processo, alcuni storici lo fanno coincidere con la vittoria elettorale del Partido socialista obrero espanol (Psoe) nell’ottobre del 1982 che, realizzando l’alternanza, segnò la definitiva legittima­ zione democratica del nuovo sistema, altri con l’effettiva nascita dello stato delle autonomie, con l’entrata in vigore degli ultimi statuti e le seguenti elezioni nelle comunità autonome approdate per ultime all’autogoverno, nel 1983. Vista da lontano la transizione spagnola appare come un processo più contrad­ dittorio e complesso di quanto non sia stato descritto a ridosso della sua conclu­ sione o celebrato in occasione dei vari anniversari, ma sostanzialmente positivo. Il tempo trascorso consente, infatti, di scorgere anche alcuni problemi e limiti, che al momento non poterono essere non solo affrontati e risolti, ma in alcuni casi neppure percepiti o posti. Preoccupata di garantire la continuità dello stato (per non perdere il consenso dei settori che erano stati franchisti) e per lasciare spazio ai nazionalismi basco e catalano in precedenza repressi, la transizione mise come tra parentesi la nazione spagnola, lasciando un vuoto che avrebbe poi creato problemi nella successiva nazionalizzazione democratica degli spagnoli. L’oblio o, secondo i più, la scelta del silenzio sul passato, favorì il clima di consenso in cui si realizzò il trapasso al nuovo sistema politico. Si trattò di un orientamento dettato dalla volontà della stragrande maggioranza degli spagnoli per non ripetere le tragiche vicende degli anni Trenta e per ricostruire un tessuto comune, quasi a conferma di quanto, quasi un secolo prima, Renan aveva scritto a proposito delle virtù dell’oblio nella costruzione delle nazioni. Non che mancasse, allora, una memoria collettiva condivisa. La sostanziarono il disgusto per le esasperate divisioni della Seconda repubblica, l’orrore per la tragedia della guerra fratricida e la volontà di non ripetere mai più l’esperienza vissuta. Ma se a tutti gli spagnoli fu restituita la sovranità, gli sconfitti del 1939 non riebbero né la dignità calpestata, né il riconoscimento delle loro ragioni. Nei trentanove anni precedenti erano stati solo i caduti franchisti a ricevere tributi, onori e gloria. Di qui l’emergere attorno al 2000 di un forte mo­ vimento civico orientato a ottenere il varo di una legge capace di risolvere questo problema lasciato aperto dalla transizione.

Percorso di autoverifica

1. 2. 3. 4. 5.

Che cos’è il nazionalcattolicesimo? Che cos’è la «democrazia organica»? Quali sono le premesse economiche e sociali della transizione spagnola alla democrazia? Che cosa prevedeva la Ley de Reforma politica? Che cosa s’intende per «terza ondata» democratizzatrice?

Per saperne di più

C. Adagio e A. Botti, Storia della Spagna democratica. Da Franco a Zapatero, Milano, Bruno Mondadori, 2006. A. Botti, Nazionalcattolicesimo e Spagna nuova, Milano, Angeli, 1992. R. Carr e J.P. Fusi, La Spagna da Franco a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1981. B. de Riquer, La dictadura de Franco, Barcelona-Madrid, Critica/Marcial Pons, 2010.

1989. Il crollo del muro di Berlino e la fine della divisione tedesca di Giovanni Bernardini

I

La partizione della Germania in due stati ha rappresentato in Europa l’ulti­ ma eredità della Seconda guerra mondiale e al contempo il primo terreno di scontro tra Est e Ovest nell’ambito della guerra fredda. Il muro che divise per decenni l’ex capitale Berlino divenne ben presto agli occhi del mondo il simbolo tangibile della divisione del vecchio continente e delle gravi conseguenze in termini umani e morali che questa provocava. Pare naturale, dunque, che la sua rimozione nel 1989 abbia assunto un carattere epocale non soltanto per la Germania, ma per l’Europa nel suo complesso.

La sera del 9 novembre del 1989 la leadership della Repubblica democratica tedesca (Rdt) annunciò improvvisamente l’apertura delle proprie frontiere, con­ cedendo ai cittadini la piena libertà di attraversarle. Entro poche ore, immagini confuse testimoniarono all’opinione pubblica mondiale l’inizio dello smantella­ mento del muro di Berlino, emblema della guerra fredda che separò per decenni il continente europeo in due blocchi ideologicamente e militarmente contrapposti. Proprio a causa del legame storico tra la divisione della città e il conflitto Est-Ovest, l’evento assumeva una portata epocale che travalicava i confini geografici tedeschi. Dunque, una disamina delle vicissitudini di Berlino e della Germania nel secondo dopoguerra sembrano necessarie per cogliere il vero significato della «rivoluzione dell’89» per l’intera Europa. 1.

La Germania dalla sconfitta alla divisione

La resa incondizionata del regime nazista nel maggio 1945 segnò anche la fine della Germania in quanto entità statale e territoriale. Al suo posto la coalizione degli Alleati, composta da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica, delimitò quattro zone di occupazione, ognuna affidata al controllo di uno dei quattro vincitori. Pur trovandosi interamente nel territorio affidato ai sovietici, Berlino (ex capitale del Reich) subì un destino analogo di divisione in quattro settori. L’urgenza di impedire la rinascita di una Germania aggressiva spinse gli

Alleati a conservare una formale unità di intenti su provvedimenti quali un’efficace denazificazione, la smilitarizzazione, la decentralizzazione della struttura politica ed economica. Meno chiare, al contrario, erano le prospettive di una soluzione condi­ visa per il più lungo termine, a causa del progressivo deterioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica. A fronte della rapida e brutale «sovietizzazione» dei paesi dell’Europa orientale occupati dall’Armata rossa e degli enormi problemi economici e sociali in cui versava la popolazione tedesca, la nuova amministrazione statunitense del presidente Truman maturò la convinzione che l’unico obiettivo funzionale ai propri interessi fosse la riunificazione della Germania sotto stretto controllo alleato e la sua democratizzazione attraverso libere elezioni. I piani so­ vietici erano profondamente diversi: fino alla sua morte nel 1953, Stalin auspicò la riunificazione della Germania ma anche la sua permanente «neutralizzazione» e smilitarizzazione sotto una forte influenza sovietica, che le impedisse di tornare a costituire una minaccia. Il disegno di Stalin, quindi, non contemplava in alcun modo l’autodeterminazione del popolo tedesco. Questa divergenza insanabile di­ venne il casus belli per la fine della coalizione di guerra, oltre che per l’inizio della guerra fredda. Presto la partizione della Germania iniziò ad assumere un carattere permanente, mentre regimi economici, politici e sociali radicalmente diversi si instauravano a Ovest e a Est. Anche la situazione di Berlino era destinata a subire ripercussioni immediate. Nel tentativo di arrestare il rapido processo di «occidentalizzazione» in corso nei settori americano, francese e britannico, la leadership sovietica tentò di sfruttare la propria posizione strategica e per quasi un anno (dal giugno 1948) impose il blocco delle vie di comunicazione terrestri tra l’Occidente e Berlino. La mossa si rivelò un grave insuccesso: gli occidentali infatti organizzarono un imponente ponte aereo per rifornire la parte occidentale della città dei beni di sostentamento necessari alla sua sopravvivenza. L’operazione ottenne anche l’effetto indesiderato di acce­ lerare la creazione di una nuova entità statale tedesca: pochi giorni dopo la fine del blocco, nei settori occidentali della Germania nasceva la Repubblica federale tedesca (Rft), con capitale Bonn e con istituzioni assimilabili a quelle tipiche della democrazia parlamentare di stampo occidentale. In risposta, Mosca ripiegò sulla creazione di uno «stato satellite» nella parte orientale: la Repubblica democratica tedesca (Rdt). Quanto a Berlino, per il momento proseguiva il regime formale di amministrazione quadripartita, sia pure tra crescenti tensioni. Le prime libere elezioni nella Rft (1949) diedero la vittoria al blocco con­ servatore del cancelliere Konrad Adenauer. Al netto del sostegno delle autorità di occupazione, furono soprattutto le proposte del partito di Adenauer (Cdu/ Csu) per il futuro della Germania a convincere la maggioranza dell’elettorato: un legame speciale con gli Stati Uniti e la piena integrazione politica, economica e militare della Rft nel blocco occidentale. Per quanto riguardava l’obiettivo della riunificazione, inscritto nella nuova «legge fondamentale» del paese, Adenauer riteneva che soltanto la dimostrazione della superiorità del sistema occidentale avrebbe persuaso finalmente Mosca ad allentare la presa sulla Germania orientale e a concedere l’autodeterminazione al popolo tedesco. Tale programma aveva una corrispondenza pressoché perfetta con la dottrina del «contenimento» dell’Unione Sovietica perseguita dalle presidenze statunitensi per tutti gli anni Cinquanta. Per contro, il principale partito di opposizione (Spd) subì ripetute sconfitte fino agli anni Sessanta a causa della scarsa persuasività del suo programma, fondato sulla

possibilità (non comprovata dai fatti) di una riunificazione della Germania a costo della sua neutralizzazione e smilitarizzazione. 2.

Le due Germanie nella guerra fredda e la costruzione del muro

L’integrazione della Rft nelle istituzioni occidentali fu completata dal suo in­ gresso nella struttura militare della Nato (1935). Le dure reazioni sovietiche al riarmo, soltanto dieci anni dopo la fine della guerra, si rivelarono inutili: Mosca dunque ripiegò sulla creazione del patto di Varsavia, struttura militare speculare alla Nato e comprendente anche la Rdt. La questione tedesca fu anche la ragione della militarizzazione della guerra fredda e del consolidamento formale di due alleanze contrapposte. Contemporaneamente, il governo di Adenauer elaborò un proprio codice di condotta nelle relazioni internazionali. La cosiddetta «dottrina Hallstein» definiva la Rft come la sola entità statale tedesca legittima, poiché fondata su libere elezioni. L’esistenza stessa della Rdt era negata, in quanto mera espressione del dominio sovietico. Di conseguenza, il governo di Bonn avrebbe interrotto i rapporti ufficiali con qualunque governo che riconoscesse la legittimità del regime tedesco orientale. La «dottrina Hallstein», pure denigrata da Mosca, fu seguita pedissequamente da tutti gli alleati della Rft e da molti paesi di nuova indipendenza, che nel rapporto con la rinascente potenza economica della Germania occidentale intravedevano proficue opportunità di arricchimento. A fronte della stabilizzazione della que­ stione tedesca fu nuovamente la situazione di Berlino a imporsi all’attenzione internazionale. Sin dal 1958 il nuovo «uomo forte» del regime sovietico, Nikita Chruscév, aveva minacciato l’Occidente di cedere alla Rdt il controllo definitivo sulle vie di comunicazione da e per la città. Questo avrebbe obbligato i governi occidentali a intrattenere rapporti ufficiali con la Rdt, vanificando di fatto la «dottrina Hallstein». Alla questione del riconoscimento internazionale della Rdt, si univa un pro­ blema concreto che ne minacciava la sopravvivenza simbolica e materiale. In virtù del suo statuto particolare il confine che attraversava Berlino rimaneva il più permeabile della guerra fredda. Un flusso ininterrotto di profughi tedeschi dell’Est non cessava di attraversarlo per cercare rifugio nei settori occidentali della città, e da lì verso la Rft. Secondo stime attendibili, circa il 20% della popo­ lazione originaria della Rdt intraprese questo percorso tra il 1949 e il 1961, con l’aggravante che le defezioni degli ultimi anni riguardarono soprattutto giovani con elevato grado di scolarizzazione, grazie ai quali il regime intendeva promuovere il progresso del paese. Le pressioni della leadership tedesca per una soluzione drastica ebbero ragione infine delle resistenze sovietiche, quando all’alba del 13 agosto 1961 la popolazione di Berlino assistette all’erezione di un vero e proprio muro, controllato a vista da polizia ed esercito. Al suo interno venivano rinchiusi i settori occidentali; in realtà, a rimanere imprigionata era la popolazione orientale, a cui ormai era negata qualunque possibilità di transito verso Ovest. Il tracciato del muro divideva ormai la città in due, senza riguardo per i drammi umani che ne derivavano: le ricadute in termini di prestigio internazionale per la Rdt furono disastrose, aggravate dal fallimentare tentativo di presentare il muro come stru­ mento di «difesa del socialismo». Ciononostante, veniva raggiunto l’obiettivo di

mostrare al popolo tedesco e al mondo intero che la divisione della Germania era ormai una realtà destinata a durare. 3.

La crisi della «dottrina Hallstein» e la «Ostpolitik»

Questa politica era tesa a vanificare l’obiettivo della Rft di una riunificazione in tempi rapidi, e con essa ad accrescere gli enormi disagi per la popolazione tedesca. Ma i governanti di Bonn traevano ulteriori, preoccupanti ragioni di riflessione dalla debole reazione dei loro alleati occidentali. In particolare, il nuovo presidente sta­ tunitense Kennedy non predispose alcuna contromisura alla costruzione del muro, eccetto un sobrio messaggio di condanna e una visita riparatrice a Berlino Ovest a distanza di mesi. Se pure una folla impressionante acclamò Kennedy e la sua con­ ferma della protezione statunitense, i leader della Rft erano ormai consci che, per gli Stati Uniti, la pur drastica chiusura del problema berlinese rappresentava un ele­ mento di stabilizzazione dell’ultimo «punto caldo» della guerra fredda europea. Di fronte all’evidente consolidamento della sfera di influenza sovietica, la Casa Bianca iniziava ormai a considerare la riunificazione tedesca come un’eventualità remota. Nel frattempo Washington stava avviando un percorso di distensione con l’Unione Sovietica, al fine di limitare i rischi di un conflitto atomico e i costi economici della corsa agli armamenti. A loro volta, anche alcuni attori politici europei cercarono con alterne fortune di intraprendere una loro distensione con l’Unione Sovietica e l’Est europeo, dopo anni di rapporti «congelati». Era innanzi tutto il caso della Francia del generale de Gaulle, ma anche altri paesi (non ultima l’Italia) compresero quali opportunità economiche e politiche offrisse una simile strategia. Al confronto, la «dottrina Hallstein» pareva sempre più il relitto di un’epoca precedente, destinata a tramontare insieme alla prospettiva di una riunificazione in tempi brevi. La fine della cancelleria di Adenauer (1963) lasciò spazio a un periodo di maggiore incertezza, in cui i tentativi di esperire nuovi approcci al problema tedesco si scontrarono con la riluttanza della Cdu/Csu ad abbandonare il suo programma tradizionale. Il mutamento fu prodotto dall’avvento al potere della Spd, prima in posizione di minoranza nella «grande coalizione» con le forze conservatrici, e successivamente (1969) alla guida del governo assieme al piccolo Partito liberale (Fdp). Negli anni dell’opposizione, il Partito socialdemocratico aveva intrapreso una profonda revisione interna, sfociata nell’abbandono della tradizionale ispirazione marxista e nell’accettazione del sistema capitalista. In politica internazionale, la Spd faceva propria la strategia di ancoraggio a Occi­ dente perseguita dalla Cdu/Csu e ne riconosceva i benefici goduti dalla Rft. Al contempo, essa non rinunciava alla possibilità di superare la «dottrina Hallstein» e di migliorare le relazioni con i paesi socialisti, al fine di mitigare gli effetti della divisione per l’intero popolo tedesco. A guidare il partito e poi il governo su questa linea era Willy Brandt, leader carismatico tra i più noti del dopoguerra: da borgomastro (sindaco) di Berlino Ovest durante la costruzione del muro, Brandt aveva potuto constatare personalmente la durezza delle condizioni in cui versa­ vano le popolazioni coinvolte nella guerra fredda di frontiera e ne aveva ricavato la convinzione che la fedeltà del governo di Bonn alle istituzioni occidentali non dovesse impedirgli di perseguire una politica orientale («Ostpolitik») improntata a una maggiore autonomia.

Nello stesso anno in cui Brandt giungeva alla cancelleria, l’elezione di Richard Nixon alla presidenza degli Stati Uniti imprimeva un rinnovato impulso al processo di distensione, che si sarebbe concretizzato nella firma del trattato per la limitazio­ ne degli armamenti atomici (Salt). Il mutato clima internazionale agevolava così il programma del governo Brandt, che in soli tre anni rimuoveva ogni eredità della «dottrina Hallstein» e normalizzava i rapporti della Rft con l’Unione Sovietica e tutti i paesi dell’Est. Una strategia particolarmente delicata e rischiosa poiché im­ plicava anche il riconoscimento e l’accettazione in via definitiva delle responsabilità tedesche nell’occupazione degli stessi paesi durante la Seconda guerra mondiale. Non a caso, il simbolo più noto e suggestivo della Ostpolitik è ancora la genuflessio­ ne di Brandt di fronte al monumento che commemorava a Varsavia l’insurrezione del ghetto contro l’occupazione nazista. La Ostpolitik raggiunse il suo apice con l’avvio di rapporti diplomatici tra i due stati tedeschi, che consentiva anche la loro ammissione alle Nazioni Unite (1973). Al di là degli aspetti diplomatici, il recipro­ co riconoscimento produsse almeno in parte quel miglioramento sostanziale dei rapporti umani, sociali ed economici tra la popolazione dei due stati che costituiva la ragione ultima della Ostpolitik e la sua eredità più significativa: la riunificazione usciva dall’agenda di breve periodo del governo di Bonn, ma tutto veniva fatto per lasciare aperta la speranza che essa potesse avvenire in futuro e, nel frattempo, per alleviare gli effetti nefasti della divisione sul popolo tedesco. In questo senso la Ostpolitik rappresentò un passaggio fondamentale verso la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa di Helsinki (conclusa nel 1975), durante la quale, per la prima volta dopo la guerra, rappresentanti di tutti i paesi europei raggiunsero accordi sulla sicurezza collettiva e sul rispetto di diritti e libertà ancora negati nei paesi del socialismo reale. 4.

Dalla «seconda guerra fredda» al crollo del muro

Il processo di distensione tra le due superpotenze non sopravvisse al rinnovato clima di guerra fredda che caratterizzò la seconda parte degli anni Settanta e la prima metà del decennio successivo, principalmente a causa di eventi extraeuro­ pei. Tuttavia, i canali di dialogo aperti dal cancelliere Brandt e proseguiti dal suo successore Helmut Schmidt non conobbero alcuna interruzione, neanche duran­ te la crisi dei cosiddetti «euromissili», quando l’Europa sembrò sprofondare di nuovo nell’incubo del conflitto armato. Al contrario, i migliori rapporti tra le due Germanie contribuirono a evitare che tali crisi raggiungessero un punto di non ritorno. Seppure la Cdu/Csu non lesinò critiche e aspre battaglie parlamentari contro la politica di Brandt, il suo ritorno al potere con il cancelliere Helmut Kohl (1982) non comportò la ripresa dell’impostazione adenaueriana, quanto piuttosto l’assunzione dei risultati della Ostpolitik come patrimonio comune e la sua prose­ cuzione come un imperativo bipartisan. D’altro canto, la Ostpolitik (con destino analogo all’Atto finale della conferenza di Helsinki) subì ripetutamente accuse di contribuire alla sopravvivenza del regime della Rdt grazie all’intensificazione delle relazioni economiche, che portavano nel paese dell’Est capitali, merci e tecnologia altrimenti inaccessibili, oltre che di sacrificare sull’altare della diplomazia tradi­ zionale il diritto all’autodeterminazione dei tedeschi orientali contro un governo che essi non avevano eletto. I timori si rivelarono sostanzialmente infondati: al

contrario, l’autorità del regime della Rdt era scossa in modo crescente dall’impie­ toso confronto, consentito daH’incremento di scambi e contatti, tra i magri risultati economici raggiunti dal paese e quelli dell’altro stato tedesco; inoltre, durante la Ostpolitik il governo della Rdt aveva sottoscritto accordi che riconoscevano diritti (come la libera circolazione delle persone) che essa ancora non garantiva, ma a cui i cittadini potevano appellarsi pubblicamente sulla base di un fondamento giuridico. Dalla metà degli anni Ottanta il processo di crisi della Rdt conobbe un’acce­ lerazione a causa dell’ascesa di Michail Gorbacév alla guida dell’Urss. Sin dalla nascita, il regime tedesco dell’Est si era caratterizzato per il suo allineamento alla posizione di Mosca, che rifletteva largamente la sua dipendenza dalla superpo­ tenza sovietica in termini sia di prestigio e riconoscimento internazionale, sia di sopravvivenza economica e militare. Il corso riformatore di Gorbacév, e la sua decisione del 1988 di lasciare libertà di autodeterminazione e di collocazione in­ ternazionale ai paesi satelliti dell’Urss, ebbero dunque un effetto particolarmente destabilizzante sulla Rdt. L’aumento dei fenomeni di dissidenza nel paese culminò nel 1989 in manifestazioni pubbliche di proporzioni sconosciute fino ad allora, che il regime non riusciva a contenere con metodi repressivi tradizionali anche a causa dell’enorme attenzione internazionale. A questo si aggiungevano le ricadute delle rivoluzioni pacifiche che stavano destabilizzando rapidamente i regimi comunisti dei paesi confinanti. In particolare, la decisione del governo ungherese di aprire la frontiera con l’Austria nel settembre del 1989 incoraggiò migliaia di cittadini della Rdt ad attraversare i due paesi per poi trovare rifugio nella Rft. Il muro di Berlino, e l’intera cortina di ferro tra le due Germanie, si rivelavano semplicemente inutili a contenere il flusso migratorio, e ogni provvedimento preso per limitare la «fuga di massa» era causa di ulteriori e più ampi fenomeni di protesta e disobbedienza. Le manifestazioni trassero nuova linfa dalla decisione della leadership della Rdt di dare grande risalto in ottobre alle celebrazioni per i quarantanni del paese: il gesto non poteva che assumere il carattere di una provocazione alla luce degli eventi che lo circondavano, oltre che di un’ulteriore dimostrazione dell’impossibilità di riforma di un regime sempre più autoreferenziale e alieno alla popolazione. A fronte di manifestazioni che, nei primi giorni di novembre, raggiunsero il milione di partecipanti nella sola Berlino Est, il regime fu infine costretto a riconoscere il fallimento della propria politica di isolamento e ad aprire le proprie frontiere con l’Occidente. Le fonti rese accessibili negli ultimi anni consentono di affermare che il corso incruento degli eventi fu anche frutto della continuità e tempestività delle comunicazioni tra i due governi tedeschi, proprio attraverso quei canali creati a partire dagli anni Settanta. 5.

Epilogo: verso la riunificazione

La rimozione delle barriere materiali e simboliche non comportava automati­ camente la riunificazione della Germania. Al contrario, resistenze e dubbi furono espressi in quei mesi tumultuosi non soltanto da parte sovietica, ma anche da chi in Occidente temeva la rinascita di una Germania più potente e nuovamente libera al centro dell’Europa. Se, invece, un anno dopo il processo poteva dirsi ufficialmente concluso, questo fu soprattutto in ragione di tre fattori strettamente connessi. Da un lato, la popolazione tedesca orientale sfruttò le prime consultazioni elettorali

libere per decretare la vittoria delle forze politiche marcatamente favorevoli alla riunificazione in tempi brevi; dopo decenni in cui l’Occidente aveva stigmatizza­ to l’assenza di democrazia dei regimi dell’Est, sembrava impossibile che non si tenesse conto dell’espressione di una volontà popolare talmente diffusa. D’altro canto, il paese che più chiaramente espresse il proprio favore per la riunificazione fu il principale alleato della Rft, ovvero gli Stati Uniti. La presidenza di George Bush ebbe un ruolo imprescindibile nel persuadere gli alleati più riluttanti e la leadership sovietica della necessità di portare a compimento il processo, sia pure con le dovute garanzie per tutti i paesi coinvolti. Tale determinazione statuniten­ se, unita all’abilità e all’equilibrio con cui Kohl promosse il proprio piano per la riunificazione in tempi brevi sia all’interno che nel contesto internazionale, portarono infine al negoziato tra i due stati tedeschi, e tra questi e le quattro po­ tenze «occupanti», per decretare la fine dei diritti quadripartiti sulla Germania e su Berlino. Il trattato conclusivo firmato a Mosca il 12 settembre 1990 metteva fine con decenni di ritardo a un dopoguerra che nel volgere di pochi mesi si era mutato nella guerra fredda. Quanto a quest’ultima, fu chiaro a tutti che la sua conclusione definitiva era prossima quando, due mesi più tardi, la riunificazione tedesca diveniva ufficiale, aprendo possibilità nuove e fino a poco prima inattese per una nuova Europa. Percorso di autoverifica

1. Quali eventi hanno contribuito alla divisione della Germania? 2. Con quali politiche il cancelliere Adenauer affrontò la divisione della Germania? 3. Perché la leadership della Rdt decise la costruzione del muro? 4. Quali reazioni provocò la costruzione del muro in Occidente? 5. Quali sono i caratteri salienti della Ostpolitik del cancelliere Brandt? 6. Quali fattori interni e internazionali influenzarono il crollo del muro e la fine della divisione tedesca? 7. Nel complesso, qual è stato il rapporto tra gli eventi tedeschi e il corso della guerra fredda?

Per saperne di più

T. Garton Ash, In nome dell’Europa, Milano, Mondadori, 1994. R.K. Hermann e R.N. Lebow, Ending The Colà War: Interpretations, Causation, and thè Study o f International Relations, New York, Paigrave Macmillan, 2004. C. Maier, Il crollo. La crisi del comuniSmo e la fine della Germania Est, Bologna, Il Mulino, 1999. F. Taylor, The Berlin Wall: A World Divided, 1961-1989, New York, Harper Perennial, 2008. J.K.A. Thomaneck e B. Niven, La Germania dalla divisione all’unificazione, Bologna, Il Mulino, 2005.

1992. L’Europa di Maastricht di Gabriele D’Ottavio

I 1.

L’Europa di Maastricht è il frutto di un lungo processo storico che si interse­ ca continuamente con le dinamiche della guerra fredda. La caduta del muro di Berlino e l’implosione del blocco sovietico determinarono una forte spinta all’integrazione europea che culminò, il 7 febbraio 1992, nella firma del trattato istitutivo dell’Unione europea. Essa nasceva sulla base delle precedenti espe­ rienze comunitarie e istituiva due nuove forme di collaborazione nel settore della politica estera e della sicurezza e in materia di giustizia e affari interni. Di particolare rilievo fu l’Unione economica e monetaria, base per l’adozione nel 2002 della moneta comune, l’euro. Il successivo allargamento a Est dell’Unione ha reso necessarie ulteriori riforme al suo impianto originario.

Le origini

Per i tempi e i modi in cui maturarono, le prime comunità europee - la Comu­ nità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) e la poi fallita Comunità europea di difesa (Ced) - dimostrarono come la spinta alla coesione europea avesse tratto alimento da momenti di grande tensione internazionale. Nei momenti di distensio­ ne, però, erano emerse nuove divisioni tra i paesi europei, che avevano contribuito a minare la logica integrazionista. Con il progressivo venir meno del timore che la guerra fredda potesse diventare «calda», il progetto d’integrazione si modificò. Da questo punto di vista, i trattati di Roma sancirono il passaggio verso un’integrazione europea con una forte impronta economica e un assetto istituzionale meno invasivo della sovranità nazionale rispetto a quelli della Ceca e della Ced. Fu questa una delle ragioni principali che spinsero il generale de Gaulle - da sempre contrario a un’evoluzione sovranazionale della costruzione europea -, a rinnovare, una volta ritornato al potere nel giugno 1958, le obbligazioni europee contratte dai precedenti governi della Quarta repubblica francese. Nel primo decennio di attuazione dei trattati di Roma alcuni progetti di riforma e alcune iniziative per l’allargamento della Comunità economica europea (Cee) fallirono, scontando almeno in parte le conseguenze di un nuovo e, dopo la crisi dei missili di Cuba, più duraturo rilassamento delle tensioni tra Est e Ovest. La domanda

di adesione della Gran Bretagna alla Cee venne respinta per ben due volte dalla Francia gollista (1963 e 1967). A sua volta, l’aspirazione del generale de Gaulle a realizzare, tramite il piano Fouchet (1961-62), un’Europa confederale, più franco­ centrica e indipendente dagli Stati Uniti s’infranse dinanzi all’opposizione degli altri paesi membri. La stessa sorte toccò al progetto alternativo di creare attor­ no all’asse Parigi-Bonn un nucleo di potere decisionale europeo-continentale in contrapposizione alle potenze anglosassoni. Infine, nel contesto della cosiddetta «crisi della sedia vuota» (1965) non sortirono gli effetti sperati né il tentativo della Commissione europea di rafforzare le prerogative delle istituzioni sovranazionali, né la controffensiva di de Gaulle volta a ridimensionarle. Le crisi degli anni Sessanta e il loro superamento, se da un lato dimostrarono l’inconciliabilità tra diversi modi di pensare il processo di costruzione europea rispetto a questioni quali il rapporto con l’Alleanza atlantica, le relazioni tra paesi grandi e paesi piccoli e la prospettiva di un’evoluzione sovranazionale dell’integra­ zione, dall’altro resero evidente quanto fosse difficile per i paesi membri rinunciare a quell’insieme di interessi comuni che si era sviluppato a partire dalla fine degli anni Quaranta. Nonostante i tanti dissidi interni, la Cee, dimostratasi assai più rilevante della Comunità europea per l’energia atomica (Euratom), era diventata in pochi anni un importante fattore di modernizzazione, di crescita e di stabilità politico-economica, nonché una potente attrattiva per gli stati terzi e un punto di riferimento per i paesi alle prese con il fenomeno della decolonizzazione. Si ricordano al riguardo la nascita della politica agricola comune (1962), la firma dei primi accordi di associazione con Grecia (1962) e Turchia (1963), il progressivo sviluppo di una politica commerciale e di una politica europea di cooperazione allo sviluppo. Nel 1967 entrò in vigore il trattato sulla «fusione degli esecutivi» delle tre Comunità, che comportò una razionalizzazione dell’assetto istituzionale. Da qui in avanti le Comunità europee ebbero un’unica Commissione e un unico Consiglio dei ministri, così come un unico parlamento. In un periodo caratterizzato da grande dinamismo sulla scena internazionale ed europea, il processo d’integrazione subì negli anni Settanta importanti tra­ sformazioni. La Cee si allargò a Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca (1973); al contempo i paesi membri, guidati da una nuova generazione di politici, cercarono di impostare un ampio ventaglio di nuove politiche per rispondere ai problemi e/o cogliere le opportunità connesse alla distensione, alla crisi economica interna­ zionale, all’appannamento della leadership degli Stati Uniti, alla competizione di nuovi poli economici emergenti in Asia, alla nuova ondata di democratizzazioni. In questo contesto vennero approntati alcuni strumenti innovativi per rafforzare la cooperazione politica, economica e monetaria tra i paesi membri, migliorare l’efficienza dei processi decisionali e ovviare al problema del deficit democratico. In particolare, al di fuori del quadro comunitario vennero creati, con la Cpe, un dispositivo di coordinamento in materia di politica estera (1972) e, con il serpente monetario prima (1972) e con il Sistema monetario europeo (Sme) poi (1978), nuove regole per la fluttuazione delle valute dei paesi membri, accompagnate da innovativi meccanismi di intervento e di credito monetario. Inoltre, venne istituita la pratica degli incontri al vertice tra i capi di stato e di governo (1974) e introdotta l’elezione diretta del Parlamento europeo, che si tenne per la prima volta nel 1979. Tali iniziative e i loro limiti costituirono anche le premesse su cui nei primi anni Ottanta, in una fase segnata da una ripresa delle tensioni internazionali, furono

gettate le basi per la prima grande riforma dei trattati di Roma, l’Atto unico eu­ ropeo (1987), che rispose anche alle esigenze derivanti dal nuovo allargamento della Cee a Grecia (1981), Spagna e Portogallo (1986). Oltre a riformulare le va­ rie attività comunitarie all’interno di un quadro operativo più coerente di quello esistente, questo nuovo trattato designava la realizzazione di uno «spazio senza frontiere interne» attraverso il completamento del mercato comune entro il 31 dicembre 1992. Per favorire il conseguimento di tale obiettivo, vennero apportate alcune importanti modifiche all’assetto istituzionale dei trattati di Roma, tra cui: l’estensione del voto a maggioranza qualificata in seno al Consiglio dei ministri, il rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo nel processo decisionale, la semi-istituzionalizzazione del Consiglio europeo, un consesso composto dai capi di stato e di governo dei paesi membri che si riuniva con cadenza regolare e nel quale venivano definite le direttive strategiche della politica di integrazione. Anche la cooperazione europea in materia di politica estera, pur rimanendo al di fuori del quadro comunitario, ottenne nell’Atto unico un riconoscimento formale tramite l’istituzione di un Segretariato permanente con sede a Bruxelles. Venivano infine estese le competenze della Cee ad altri settori: ricerca e tecnologia, sviluppo regionale, politica sociale e politica ambientale. 2.

Unificazione tedesca e unione monetaria

Sin dai suoi esordi la vicenda della costruzione europea risulta strettamente intrecciata con il tentativo delle principali potenze occidentali di cooptare la Ger­ mania Ovest all’interno di un sistema di sicurezza collettivo che consentisse, in una prospettiva di duplice contenimento, la valorizzazione delle sue risorse nella lotta contro il comuniSmo internazionale e la prevenzione di una possibile risorgente minaccia tedesca. All’indomani della caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989, si pose nuovamente il problema di trovare una soluzione alla cosiddetta «questione tedesca», questa volta consistente nel timore che una Germania non più divisa ma unita e potente sul continente potesse perdere interesse per l’integra­ zione europea o addirittura costituire una minaccia per i suoi vicini. Al riguardo vi è un’analisi che si è molto diffusa negli ultimi anni, fino al punto di trasformarsi in vulgata: l’adesione al progetto di un’Unione economica e monetaria (Uem) e la successiva «europeizzazione del marco», con la nascita della moneta comune, sarebbero state la contropartita fornita dai tedeschi in cambio del sostegno poli­ tico degli altri paesi membri alla riunificazione, poi raggiunta il 3 ottobre 1990. I documenti diplomatici oggi accessibili dimostrano come il governo tedesco sia stato oggetto di forti pressioni all’indomani della caduta del muro, soprattutto da parte della Francia e della Gran Bretagna, come in talune circostanze esso si sia trovato anche nella situazione di dover cedere alle richieste degli altri paesi mem­ bri e, infine, che gli eventi legati all’unificazione tedesca abbiano nel complesso determinato un’importante accelerazione del processo d’integrazione europea. Tuttavia, nella tesi del cosiddetto «scambio geopolitico» tra unificazione tedesca e unione monetaria si rileva anche un evidente elemento di forzatura. In primo luogo, va osservato che la realizzazione di un’unione monetaria era un progetto di antica data che risaliva ai primi anni Settanta e, di fatto, era stato definito, con l’avallo dei tedeschi, prima della caduta del muro di Berlino, che fu repentina e

soprattutto inattesa. Più precisamente, già al Consiglio europeo di Madrid nel giu­ gno 1989 i capi di stato e di governo dei paesi membri avevano adottato un piano di lavoro elaborato dall’allora presidente della Commissione Delors, che stabiliva le tre condizioni irrinunciabili (la totale convertibilità delle monete europee, la completa liberalizzazione dei movimenti di capitali, l’eliminazione dei margini di fluttuazione tra le varie valute e l’instaurazione di tassi di cambio rigorosamente fissi) e indicava un percorso in tre tappe per il completamento dell’Uem. La Ger­ mania, all’epoca guidata dal cancelliere Kohl, si era dunque mostrata disponibile a rinunciare alla sua sovranità in materia di politica monetaria già prima di subire le pressioni degli altri paesi europei conseguenti alla caduta del muro e connesse al tentativo di imbrigliare i tedeschi prima della riunificazione. In secondo luogo, una coerente applicazione della logica dello «scambio» avrebbe dovuto implicare da parte dei tedeschi un’ampia disponibilità al compromesso per quanto riguarda la definizione delle strutture istituzionali e dei singoli passaggi che avrebbero successivamente condotto alla realizzazione completa dell’Uem, che tuttavia non si riscontra nel corso dei negoziati. I tedeschi riuscirono infatti sia a esportare le due caratteristiche principali del loro modello di banca centrale - l’indipendenza politica e il suo orientamento anti-inflazionista - sia a imporre criteri di conver­ genza economica e finanziaria sufficientemente rigorosi per ridurre i differenziali d’inflazione tra i paesi membri e costringere i meno virtuosi a una rigida disciplina di bilancio in vista della fase finale dell’unione monetaria. Inoltre, ci furono paesi, come in particolare la Gran Bretagna, che rigettarono esplicitamente la logica dello scambio, ritenendo che l’Uem, invece di ostacolare, avrebbe finito per agevolare le presunte potenzialità egemoniche della nuova Germania. Infine, va rilevato che nel periodo 1989-91 altri importanti avvenimenti di rilevanza internazionale indussero i paesi membri a realizzare con il trattato di Maastricht un’unione economica e monetaria e, sul versante politico, un’entità che, a lungo termine e quanto meno nelle intenzioni, potesse tendere verso un soggetto più coeso, autorevole e inci­ sivo sulla scena mondiale. Tra gli sviluppi più importanti si ricordano lo scoppio della prima guerra del Golfo, il crollo dei regimi comunisti nell’Europa Orientale, l’imminente fenomeno di disintegrazione dei due stati multietnici (Jugoslavia e Unione Sovietica) e le conseguenti pressioni dei nuovi stati ai confini dell’Europa Occidentale. 3.

La nascita dell’Unione europea

Il trattato istitutivo dell’Unione europea (Ue) venne firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ed entrò in vigore il 1° novembre 1993. Esso riuniva in un unico testo i risultati di una conferenza intergovernativa sull’unione politica e di quella, tenutasi parallelamente, sull’unione economica e monetaria. L’Ue non era concepita come un’organizzazione internazionale aggiuntiva rispetto alle Comunità europee esistenti, né le sostituiva. Più precisamente, l’Ue veniva fondata sulla Comunità europea (Ce), a sua volta risultante dalle tre precedenti Comunità economiche eu­ ropee (Ceca, Cee, Euratom), e sulla creazione di due nuove forme di cooperazione, basate principalmente sulla concertazione intergovernativa tra i paesi membri, nel settore della politica estera e di sicurezza (Pese) e in materia di giustizia e affari interni (Cgai). Per questa ragione l’Europa di Maastricht viene spesso raffigurata

con l’immagine di un tempio con tre pilastri (Ce, Pese, Cgai), tenuti insieme da un frontone («le disposizioni comuni») e da una base (il «quadro istituzionale» e le «disposizioni finali»). La trasformazione delle «Comunità economiche europee» originarie in «Comunità europea» non voleva essere solo un cambiamento nomi­ nale. Tale modifica si inseriva all’interno di un più ampio tentativo - poi ribadito, dopo l’adesione di Austria, Finlandia e Svezia (1995), nei successivi trattati di Am­ sterdam (1997) e di Nizza (2001) - di realizzare «una nuova tappa del processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini». Sempre a questo proposito veniva data particolare importanza all’istituzione di una «cittadinanza dell’Unione» e del «principio di sussidiarietà». La cittadinanza veniva riconosciuta a tutti i cittadini degli stati membri e prevedeva, limitatamente alle elezioni comunali e a quelle del Parlamento europeo, la possibilità per i cittadini residenti in uno stato membro diverso dal proprio di votare e di essere eletti alle stesse condizioni dei cittadini dello stato ospite. Il principio di sussidiarietà, peraltro molto controverso sul piano sia politico che giuridico, autorizzava la Comunità europea ad agire in luogo dei paesi membri e nei settori che non erano di sua esclusiva competenza soltanto se il suo intervento si fosse rivelato indispensabile e più efficace di quello degli stati membri ai fini del conseguimento dell’azione prevista. A battersi per questo principio, inteso come uno strumento per salvaguardare la sovranità nazionale degli stati, fu soprattutto la Gran Bretagna, la quale, diversamente da Germania, Francia e Italia, si schierò contro tutte le principali iniziative di rafforzamento delle istituzioni comunitarie, riservandosi inoltre un’uscita di sicurezza, attraverso la negoziazione di una clausola di opting out, che le avrebbe consentito di non partecipare alle fasi finali dell’Uem. La determinazione di un percorso in tre tappe finalizzato all’adozione di una moneta comune costituì senza dubbio la principale novità del trattato. In particolare, venne stabilito che per accedere alla «terza» e ultima fase ciascuno stato membro avrebbe dovuto assicurare il rispetto di una serie di condizioni. I cosiddetti «cinque parametri di Maastricht» prevedevano: 1) il rispetto dei limiti di fluttuazione delle valute previsti dallo Sme per almeno due anni, senza che intervenisse alcuna svalutazione della moneta nazionale; 2) un tasso d’inflazione che non superasse più dell’1,5% la media dei tre stati con l’inflazione più bassa; 3) un deficit di bilancio inferiore al 3% del prodotto interno lordo (Pii); 4) un de­ bito pubblico inferiore al 60% del Pii; 5) un tasso d’interesse a lungo termine che non superasse più del 2% la media dei tre paesi dell’Unione con il più alto tasso d’inflazione. Alla fine del percorso, il 1° gennaio 2002, l’euro entrò in circolazione in dodici paesi membri: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna. Il complesso di questi paesi, detto informalmente eurozona e il cui numero è nel frattempo salito a 17, conta oltre 320 milioni di abitanti. L’introduzione dell’euro ha rappresen­ tato un’indubbia cesura nella storia europea e internazionale. Al di là del grande valore politico e simbolico assunto nel contesto della costruzione europea, l’euro ha trasformato profondamente i mercati finanziari mondiali, conferendo maggiore impulso alla tendenza degli ultimi vent’anni verso una maggiore integrazione dei mercati dei capitali.

4.

Un processo aperto

Le principali crisi internazionali dell’ultimo ventennio, dalla prima guerra del Golfo alla dissoluzione della Jugoslavia, dalla guerra contro il terrorismo interna­ zionale dopo l’i l settembre 2001 alla più recente crisi economica e finanziaria, hanno messo a dura prova la capacità degli stati membri di svolgere attraverso l’Ue un ruolo autorevole e incisivo sulla scena internazionale. In ognuno di questi scenari i principali stati membri si sono mossi infatti prevalentemente secondo logiche nazionali, contribuendo a evidenziare i molti limiti dell’unione politica e dell’unione economica e monetaria prefigurate dal trattato istitutivo dell’Unione europea. Da questo punto di vista, non hanno apportato sostanziali miglioramenti nemmeno i già ricordati trattati di Amsterdam e Nizza, i quali hanno rinnovato, senza tuttavia trasformarli, i propositi e l’impianto istituzionale originari del trat­ tato di Maastricht. A stravolgere completamente la fisionomia dell’Ue e a spingere i paesi membri verso nuove importanti riforme ha contribuito invece l’ultimo grande allargamento ai paesi dell’Europa Orientale (2004-07). Per rendere governabile un’unione di 27 paesi, una Convenzione europea - un organo temporaneo e straordinario, per lo più composto da rappresentanti dei parlamenti nazionali, dei governi dei paesi membri e dei paesi candidati all’adesione, della Commissione europea e del Par­ lamento europeo - è stata incaricata di redigere un progetto per un nuovo trattato istituzionale. Il testo definitivo è stato sottoscritto dai capi di stato e di governo a Roma, il 29 ottobre 2004, come «trattato che adotta una costituzione per l’Europa». A dispetto del nome, questo trattato non partoriva una vera costituzione, bensì consolidava, sia pure apportando alcune significative novità, in un unico testo tutti i trattati precedenti, che conseguentemente sarebbero stati abrogati. In seguito alla bocciatura dei referendum di ratifica tenutisi in Francia e Olanda (2003) si è aperta una «fase di riflessione», ovvero una fase di stallo decisionale dalla quale si è usciti con un accordo su un nuovo trattato, il trattato di Lisbona, firmato nel 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Esso si presenta come uno strumento essenzialmente tecnico e con un basso profilo politico: fatta eccezione per il rinvio vincolante alla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, col riconoscimento del suo valore giuridico equiparato a quello dei trattati, nel testo sono stati espunti tutti i riferimenti alla costituzione e ai suoi simboli (nome, bandiera, inno, ecc.). Sono state invece recuperate alcune innovazioni istituzionali già contenute nel trattato costituzionale: il superamento dei tre pilastri e il riconoscimento della personalità giuridica unica dell’Unione; la previsione di un presidente del Consiglio europeo a tempo pieno e di un Alto Rappresentante per gli Affari esteri e la sicurezza, che è anche il vicepresidente della Commissione; il rafforzamento del Parlamento eu­ ropeo, in particolare attraverso l’estensione della sua competenza a nuove materie e l’ampliamento dei suoi poteri decisionali. Al momento non è ancora chiaro se e fino a che punto quest’ultimo «trattato riformatore» risponda ai problemi che avevano reso necessario rinnovare l’Europa di Maastricht. Come in passato, la costruzione europea resta un processo aperto a soluzioni e sviluppi diversi, che sono per lo più imprevedibili.

Percorso di autoverifica

1. Illustrate il legame esistente tra integrazione europea e guerra fredda. 2. Quali sono i progetti di riforma della Cee non andati in porto negli anni Sessanta? 3. Quali sono stati gli allargamenti della Cee/Ue dal 1957 al 2007? 4. Sulla base di quali premesse e con quali obiettivi venne realizzata la prima grande riforma dei trattati di Roma? 5. Discutete la tesi dello «scambio geopolitico» tra unificazione tedesca e unione mone­ taria. 6. Quali sono le novità introdotte dal trattato di Maastricht? 7. Come e attraverso quali passaggi è cambiata l’Unione europea dalla sua nascita ai giorni nostri?

Per saperne di più

K. Dyson e K. Featherstone, The Road to Maastricht, Oxford, Oxford University Press, 1999. W. Kaiser e A. Varsori (a cura di), European Union History. Themes andDebates, New York, Paigrave Macmillan, 2010. G. Mammarella e P. Cacace, Storia e politica dell’Unione europea (1926-2005), Roma-Bari, Laterza, 2005. B. Olivi e R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda alla Costituzione dell’Unione, II ed., Bologna, Il Mulino, 2010. G.E. Rusconi, Germania, Italia, Europa. Dallo stato di potenza alla «potenza civile», Torino, Einaudi, 2003.

2001.11 settembre: un tornante della storia? di Matteo Battistini

Nell'Immaginario comune, l’11 settembre occupa un posto di primo piano perché è stato percepito come una cesura che ha segnato in profondità la comprensione della nazione americana e la sua posizione nello scenario globale. Gli storici hanno invece collocato il tragico evento in una prospettiva di più lungo periodo nel tentativo di non identificare gli attentati con l’inizio di uno «scontro di civiltà»: poiché simili interpretazioni esacerbavano le tensioni interne e internazionali, senza svalutare i cambiamenti occorsi, gli interpreti hanno considerato le continuità fra un «prima» e un «dopo» riguardo sia alla politica interna statunitense sia a quella estera, con particolare riferimento al rapporto transatlantico.

La mattina dell’11 settembre 2001 l’organizzazione terroristica al-Qaida, guida­ ta da Osama Bin Laden, lanciò una serie di attacchi contro gli Stati Uniti. Quattro aerei di linea pilotati da terroristi suicidi furono dirottati contro i simboli del potere economico e militare americano: le Torri gemelle sede del World Trade Center a New York e il Pentagono a Washington. Quasi 3.000 persone morirono nel più grave attentato mai perpetrato sul suolo statunitense. Alcuni studiosi hanno fatto riferimento al 1941, quando aerei giapponesi bombardarono la flotta americana ancorata a Pearl Harbor, altri hanno invece ricordato l’invasione di Washington da parte dell’esercito britannico nel 1812 nella cosiddetta Seconda guerra d’indipen­ denza. Al di là dei precedenti, neH’immaginario collettivo, non soltanto americano, la data dell’11 settembre - o meglio l’espressione ormai comune 9/11 - occupa un posto di primo piano: il tragico evento è stato percepito, anche in Europa, come una cesura che ha segnato in profondità la comprensione della nazione americana e della sua posizione nello scenario globale. Subito dopo gli attentati, storici e bibliotecari promossero diversi progetti - mu­ sei, archivi digitali e studi di storia orale - per coinvolgere la società civile americana colpita da un avvenimento impensabile. Veniva così avviata una riflessione collettiva volta a elaborare pubblicamente il trauma derivato dalla fine dell’invulnerabilità, trauma rilevante per una nazione con una storia, come quella statunitense, segnata dalla consapevolezza di essere una potenza mondiale e un modello politico ed eco­

nomico. Soprattutto per gli storici era importante collocare il tragico evento in una prospettiva di più lungo periodo che consentisse di non cadere nella tentazione di identificare gli attentati con l’inizio di uno «scontro di civiltà» o di nuove guerre culturali contro differenze etniche, razziali e religiose. Poiché simili interpretazioni riducevano ITI settembre a strumento di battaglia politica, esacerbando le ten­ sioni interne e internazionali, gli storici hanno discusso il carattere trasformativo dell’evento. Considerare le linee di continuità fra un «prima» e un «dopo» 9/11 non impedisce, però, di sottolineare i cambiamenti di ordine politico e sociale che seguirono agli attentanti, non soltanto negli Stati Uniti. 1.

La sicurezza degli Stati Uniti

L’attacco terrorista alimentò una fiammata di patriottismo che strinse i cittadini americani intorno alle istituzioni del paese. Il boom di vendite di emblemi nazionali che si registrò nei giorni seguenti gli attentati mostrava che la bandiera era diventata simbolo del dolore e del lutto anche di tutti coloro che fino ad allora non avevano avuto sentimenti patriottici o che, sulla sponda europea dell’oceano, non si erano identificati con i valori americani. Un simile sentimento sembrava offrire terreno fertile al radicamento popolare di interpretazioni che prefiguravano uno scontro tra Occidente e Islam. Basti pensare che il saggio di Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations, pubblicato su «Foreign Affairs» nel 1993 e come libro nel 1996, divenne un bestseller soltanto dopo la tragedia. Eppure, quando si passò dal lutto alle reazioni politiche e alle opzioni militari, il consenso si incrinò aprendo la scena pubblica a voci dissidenti e movimenti pacifisti che criticarono le decisioni dell’amministrazione repubblicana di George W. Bush. Tanto che l’uccisione di Bin Laden la domenica del 1° maggio 2011 non è stata salutata da un grande sciorinare di bandiere. Insieme al nuovo presidente eletto nel 2000 entrarono alla Casa Bianca anche le posizioni più estreme del conservatorismo americano, quelle evangeliche e neocon, che riaffermarono un aggressivo linguaggio nazionalista. Nel suo discorso d’insediamento, prima degli attentati, Bush aveva anticipato che gli Stati Uniti si sarebbero «impegnati nel mondo [...] per determinare un equilibrio di potere in favore della libertà». All’inizio del secondo mandato, i toni furono ancora più espliciti: «La migliore speranza per la pace nel nostro mondo è l’espansione della libertà in tutto il mondo». Non si trattava di un linguaggio del tutto nuovo, perché riproponeva in un contesto diverso il mito degli Stati Uniti come terra della libertà, mito che aveva profonde radici storiche: la guerra del 1846-48 contro il Messico e la sua popolazione «incivile» era stata combattuta per conquistare il territorio che andava dall’attuale Texas alla California in nome del «destino manifesto»; la concezione di un disegno divino che chiamava l’America a difendere la libertà nel mondo aveva alimentato in modo diverso altri momenti storici, dalla guerra ispanico-americana del 1898 alle guerre mondiali fino alla guerra fredda, e ora riecheggiava nei discorsi del presidente e dei suoi sostenitori evangelici. Anche un documento ufficiale come il NationalSecurity Strategy, diffuso il 17 settembre 2002, spiegò che, sebbene il Novecento fosse terminato con una vittoria della democrazia e del libero mercato contro interpretazioni del mondo basate su classe, nazione e razza, la minaccia del terrorismo islamico imponeva agli Stati Uniti di tornare a

combattere per la libertà ovunque nel mondo. Queste furono le fondamenta ideolo­ giche della «guerra al terrore». L’ascesa di un simile nazionalismo che coniugava spinte modernizzatrici e cul­ tura religiosa ebbe nette ricadute interne. Il 26 ottobre 2001 l’approvazione del Patriot Act limitava le libertà civili e il diritto alla privacy dei cittadini, riducendo la supervisione giudiziaria sulle intercettazioni telefoniche e le comunicazioni via internet. Tuttavia, sebbene un sesto delle vittime del World Trade Center fossero straniere, furono soprattutto gli immigrati a pagarne il prezzo maggiore. Il Patriot Act stabiliva, infatti, che gli immigrati non naturalizzati potevano essere trattenuti in stato di fermo per una settimana senza avere un avvocato. Inoltre, formulata l’imputazione, la detenzione poteva protrarsi a tempo indeterminato e spettava al procuratore generale e al segretario di stato decidere la loro deportazione qualora fossero sospettati di terrorismo o anche solo di costituire un rischio per la sicurezza nazionale. Alcune norme furono modificate nel 2006, ma non quelle sugli immigrati. Come dimostra anche il riordino delle strutture amministrative sull’immigrazione, queste misure non furono quindi estemporanee. Nel marzo 2003, in sostituzione del precedente Immigration and Naturalization Service, fu istituito il Department o f tìomeland Security che integrava funzioni di sicurezza interna e amministrazione del fenomeno migratorio, favorendo un maggior coordinamento federale delle politiche statali. Anche Fbi e Cia operarono in modo meno indipendente dal governo nazionale. In questo quadro, va collocata pure la legge del 2006, Border Secure Fence Act, che diede il via libera alla costruzione di un muro lungo le 700 miglia del confine con il Messico. D’altra parte, queste leggi percorsero una strada intrapresa già il decennio precedente sotto la spinta delle «guerre culturali» che avevano risvegliato ansie e paure per l’ingresso di milioni di immigrati provenienti dal Sud e Centro America e dall’Asia. Risalgono a quegli anni provvedimenti che, mentre stanziavano fondi per il reclutamento di guardie aggiuntive di frontiera, escludevano gli immigrati non naturalizzati dai programmi di assistenza alimentare. Bisogna però sottolineare che, se il dibattito degli anni Novanta era stato legato soprattutto alle questioni dello stato sociale, dopo gli attentati la discussione virò su temi di sicurezza nazionale. In questo senso, alcuni studiosi hanno notato che, in modo non molto diverso da quanto era successo durante la guerra fredda, la guerra al terrore implicò un nuovo processo di state-building caratterizzato dall’ulteriore accentramento di funzioni politiche e amministrative funzionali anche alla costru­ zione di un consenso basato sulla forte appartenenza nazionale. Il discorso conservatore influenzò anche le questioni legate al genere. Nelle parole di George e Laura Bush, come pure di altri esponenti repubblicani, il lin­ guaggio della libertà contribuiva ad affermare un senso di identità basato sulle virtù maschili della forza e del coraggio, producendo una rimozione delle donne dalla scena pubblica o la loro rappresentazione come soggette alla protezione maschile. Anche in questo caso, il fenomeno aveva avuto inizio nei decenni precedenti con i tagli al bilancio federale che avevano aumentato la povertà specie per le donne afroamericane e latine, e con l’indebolimento degli istituti giuridici introdotti a tutela delle vittime di violenza domestica o in difesa dei diritti riproduttivi. Inoltre, il riferimento alle libertà delle donne afgane e irachene definiva una linea di confine tra civiltà e barbarie, tra democrazia e Islam fondamentalista. Questi cambiamenti non furono poi estranei a un contesto politico che già lasciava intravedere alcuni aspetti della crisi economica esplosa con la bolla

speculativa del 2008. Sebbene la guerra al terrore non vada ridotta a guerra per il petrolio, è indubbio che senza la variante del greggio mediorientale non sareb­ be stata combattuta. Oltre le nuove risorse petrolifere, anche le spese militari contribuirono al buon tasso di crescita economica fino al 2007, dando nuovo smalto al complesso militare industriale del paese. Già nel 2001 erano quindi presenti i segni di strutturali debolezze economiche, visibili anche nell’aumen­ to delle disuguaglianze e nel ridimensionamento dello stato sociale. Su questo terreno, l’attentato alle Torri gemelle, portando in primo piano il tema della sicurezza, dava man forte al tentativo dei conservatori di restringere gli spazi per una riformulazione della tradizione liberal risalente al New Deal. Per dirla con parole rooseveltiane, la libertà dalla paura soppiantava la libertà dal bisogno. L’11 settembre si inserì dunque in fratture culturali, politiche ed economiche già esistenti. Questo, però, non significa svalutarne il decisivo impatto, specie nella politica estera statunitense. 2.

La sicurezza internazionale

Gli attentati favorirono l’affermazione di posizioni nazionaliste, di destra reli­ giosa e neocon (come quelle del vicepresidente Richard Cheney, del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, del ministro della Giustizia John Ashcroft, del sottosegre­ tario alla Difesa Paul Wolfowitz) su quelle più moderate, ad esempio del segretario di stato Colin Powell. Ciò contribuì senz’altro ad acuire la frattura tra un prima e un dopo 9/11. Al termine del biennio 1989-91 gli Stati Uniti erano diventati il referente principale delle relazioni internazionali in un mondo unipolare privo di conflitti radicali. Nel 1989, nel saggio The End of History ripubblicato nel 1992, Francis Fukuyama aveva celebrato il compimento della modernità occidentale e americana: il nemico sovietico era scomparso e con esso la sua ideologia, per cui la democrazia e il capitalismo non avevano rivali. Questa interpretazione aveva trovato continue conferme: la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti che aveva tenuto insieme molti paesi arabi sotto l’egida dell’Onu nella prima guerra del Golfo, le guerre umanitarie in ex Jugoslavia e l’allargamento della Nato ad alcuni paesi dell’ex blocco sovietico, la fase di crescita economica con i nuovi settori produttivi informatici, la fondazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), responsabile dell’ulteriore liberalizzazione degli scambi internazionali incardinati sul dollaro. Sebbene non mancassero voci critiche, come mostrarono i movimenti no global da Seattle a Genova, tutto questo avvalorava l’idea che gli Stati Uniti fos­ sero l’incontrastata potenza mondiale, un modello politico ed economico sul quale facevano perno la sicurezza internazionale e le forze positive della globalizzazione. Le elezioni del 2000 offuscarono questa visione ottimistica di un ordine glo­ bale basato sulla collaborazione multilaterale a guida statunitense. Anche prima del 9/11, c’erano state avvisaglie di un sentimento scettico e unilaterale, quando il Senato aveva impedito al presidente Bill Clinton di aderire alla nascente corte penale internazionale e agli accordi di Kyoto in materia ambientale. Queste posi­ zioni, però, divennero egemoni solo dopo gli attentati, quando il conservatorismo nazionalista ed evangelico assunse la guida del paese con l’intenzione di marcarne l’unicità e la supremazia. Questo non vuol dire che negli anni Novanta l’eccezionalismo fosse assente. Tuttavia, mentre l’internazionalismo interventista dell’am­

ministrazione democratica lo aveva declinato in modo coerente alle forze positive della globalizzazione, ora nel discorso conservatore significava ritenere gli Stati Uniti una potenza così soverchiarne da poter porre fine alle pratiche di dialogo del precedente decennio. Diversamente da Clinton, che aveva ritenuto la globaliz­ zazione un fenomeno governabile pacificamente, i conservatori ne scorgevano gli aspetti disgregatori e denunciavano la possibilità che alimentasse dinamiche non democratiche e antiamericane. All’inizio del mandato, Colin Powell esplicito la volontà di sottrarre il paese dai vincoli del diritto internazionale: Bush ritirò dal Senato il trattato sulla corte penale internazionale e il protocollo di Kyoto, rigettò la convenzione per le armi biolo­ giche in vigore dal 1975 e abbandonò il trattato Abm (trattato antimissili balistici stipulato con l’Unione Sovietica nel 1972), decidendo di finanziare la ricerca sul sistema di difesa missilistica. Powell precisò anche che l’apparato militare doveva essere impiegato con cautela, non per perseguire fini umanitari, bensì solo per scopi militari, in difesa della sicurezza e dell’interesse nazionale. La cautela scomparve subito dopo l’attacco terroristico. Nell’ottobre del 2001 prese avvio l’operazione militare in Afghanistan, all’inizio del 2003 quella in Iraq. Se il primo intervento avvenne con il consenso di gran parte della comunità internazionale che aveva appoggiato la prima guerra del Golfo, quello successivo andò nella direzione opposta espressa dalla National Security Strategy. Il documento del settembre 2002 esplicito sfiducia nel multilateralismo e nelle organizzazioni internazionali, denunciando la natura politica della sfida islamica e rivendicando possibili azioni militari preventive contro soggetti statuali e non. Nel discorso sullo stato dell’Unione nel gennaio 2002, Bush parlò di «asse del male» composto da Iran, Iraq e Corea del Nord, aprendo la campagna contro il dittatore iracheno Saddam Hussein, accusato di possedere armi di distruzione di massa e di violare le risoluzioni Onu che ne imponevano lo smantellamento. Venne così annunciato l’impegno etico per abbattere un regime brutale e istituire al suo posto una democrazia che doveva costituire un primo tassello per riordinare gli assetti mediorientali. Il presidente vinse la partita interna ottenendo dal Senato una risoluzione che di fatto permise l’operazione militare, ma perse quella dell’Onu dove gli Stati Uniti non conquistarono la maggioranza qualificata al Consiglio di sicurezza necessaria per far autorizzare l’operazione. Bush non ebbe neanche l’appoggio dell’opinione pubblica internazionale, schierata in larga parte contro l’operazione. La guerra in Iraq fu dunque un intervento unilaterale statunitense insieme alla «coalizione di volenterosi» con Gran Bretagna e Italia, ma fuori dalla cornice dell’Onu e con il dissenso di membri importanti della Nato come Francia e Germania. Sebbene le truppe statunitensi entrassero vittoriosamente a Baghdad in poche settimane, l’esercito non disponeva di un numero sufficiente di uomini sul campo per gestire un territorio vasto, ben presto investito da una spirale di guerriglia e violenza ter­ rorista. Il crescente costo umano della guerra e le notizie delle torture perpetrate nelle prigioni di Abu Ghraib e Guantanamo scalfivano ulteriormente il già debole consenso internazionale. Nelle elezioni del 2004, Bush venne rieletto, ma la nuova amministrazione segnò un ritorno a pratiche diplomatiche moderate volte a pro­ muovere iniziative multilaterali. Tuttavia, fu soltanto con l’elezione del democratico Barack Obama nel 2008 che l’immagine degli Stati Uniti riacquistò smalto sulla scena internazionale, sebbene,

come alcuni studiosi hanno sottolineato, la sua decisione di ritirare le truppe dall’I­ raq e di abbandonare scelte unilaterali non abbia determinato un netto mutamento: l’intervento in Afghanistan è proseguito e si sono moltiplicate le «guerre ombra», ovvero operazioni militari contro terroristi in diversi paesi, tra i quali la Somalia, lo Yemen e il Pakistan. 3.

La comunità atlantica divisa

L’organizzazione della risposta agli attentati non determinò solo cambiamenti diplomatici. Le posizioni di Germania e Francia divisero la comunità atlantica, indebolendo quello che era stato un pilastro dell’ordine multilaterale degli anni Novanta. Questa rottura fu radicalizzata da una crescente distanza etico-morale fra America ed Europa. Su entrambe le sponde dell’oceano nuove voci anti-europee e anti-americane alimentarono l’opinione pubblica con rappresentazioni contra­ stanti. Ad esempio, negli Stati Uniti erano popolari le tesi, alimentate dallo storico conservatore Robert Kagan, che contrapponevano un’Europa femminea e post­ moderna, incapace di confrontarsi con la sfida terrorista, e un’America marziale e virile, unica potenza in grado di garantire la sicurezza internazionale; in Europa i sondaggi certificavano invece l’idea di una positiva differenza europea, per il rispetto di valori quali il rifiuto della pena di morte e l’attenzione alle tematiche della cittadinanza sociale. Anche in questo caso, però, è bene sottolineare gli aspetti di più lungo periodo. Durante la guerra fredda, la differenza di potere tra Stati Uniti ed Europa era stata giustificata o almeno compresa in termini storici e strategici. Gli europei dovevano sollevarsi dai disastri delle guerre mondiali e per questo avevano bisogno della protezione americana; europei e americani condividevano inoltre valori e istituzioni che discendevano da comuni rappresentazioni culturali dell’Occidente; soprattut­ to, questa condivisione derivava da dinamiche storiche che oggi non possono più essere date per scontate. Dal 1950 al 1980 c’era stata una convergenza tra i due continenti nei livelli di reddito e di consumo e nell’avanzamento sociale, culturale e tecnologico. L’esistenza di un solo Occidente era quasi ovvia. Non che mancassero sentimenti anti-americani, ma era egemone il sostegno alle spinte modernizzatrici statunitensi. Tutto questo iniziava a incrinarsi negli anni Novanta, quando le nuove generazioni del mondo globale, ormai estranee alla cultura politica della guerra fredda, non sembravano più vedere nell’America un fine simbolico. L’adeguamento culturale a imperativi globali di flessibilità, innovazione e migrazione acquisiva significati diversi, con la nazione americana che risultava scomposta lungo fratture imposte dalle guerre culturali e da una più incisiva presenza pubblica della reli­ gione. Contemporaneamente, si palesavano nuove divaricazioni tecnologiche ed economiche. Queste differenze rimasero in uno stato per così dire «latente», finché non si manifestarono con le tensioni rilasciate dalle risposte della sfida terroristica. Questo almeno sembrarono registrare i sondaggi seguenti alla guerra contro l’Iraq, con il 75% degli europei che ritenevano che gli Stati Uniti esercitassero troppa influenza sul processo di globalizzazione e il 60% che auspicava invece un ruolo maggiore su scala globale dell’Europa. Con la dovuta cautela, è quindi possibile affermare che la guerra al terrore abbia eroso uno dei pilastri della fiducia atlantica, ovvero la percezione che la politica

estera statunitense fosse di sostegno alla democrazia e al benessere europeo. Questo non significa che il rapporto transatlantico non sia più «speciale», ma, soprattutto da un punto di vista economico, non sembra più costituire l’arteria principale delle relazioni internazionali, o quanto meno non sembra essere l’unica in un mondo globale non solo più complesso rispetto all’epoca della guerra fredda, ma anche più eterogeneo e conflittuale di quanto le rappresentazioni trionfalistiche seguenti il 1989 avevano lasciato immaginare. In conclusione, l’11 settembre non rappresenta forse un tornante della storia, ma consente di vedere un insieme di cambiamenti che hanno lavorato sul lungo periodo e che segnano il mondo in cui viviamo. Percorso di autoverifica

1. 2. 3. 4. 5. 6.

Che cosa qualifica il linguaggio nazionalista - evangelico e neocon - del conservatorismo americano e quali sono le sue radici storiche? Che cosa stabiliva il Patriot Act? Quali ripercussioni interne, politiche, sociali ed economiche ebbe la guerra al terrore? Che cosa sosteneva il documento National Security Strategy? Come le amministrazioni di Clinton e Bush jr. interpretavano la globalizzazione e quali erano le loro diverse visioni strategiche? Che conseguenze ebbe l’i l settembre nella comunità atlantica?

*ssa» Per saperne di più

E. Alden, The Closing of thè American Border. Terrorism, Immigration, and Security since 9/11, New York, Oxford University Press, 2006. R. Baritono ed E. Vezzosi (a cura di), Oltre il Secolo americano? Gli Stati Uniti prima e dopo l’i l settembre, Roma, Carocci, 2011. M. Del Pero, Libertà e Impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2011, Roma-Bari, Laterza, 2011 .

S. Faludi, Il sesso del terrore. Il nuovo maschilismo americano, Milano, Isbn Edizioni, 2007. D. Farber (a cura di), What They Think ofUs. International Perceptions of thè United States since 9/11, Princeton, N.J., Princeton University Press, 2007. J. Meyerowitz (a cura di), Hislory and September II'*, Philadelphia, Tempie University Press, 2003. F. Romero e R. Guolo, America/lslam. E adesso?, Roma, Donzelli, 2003. A. Stephanson, Destino manifesto: l’espansionismo americano e l’impero del bene, Milano, Feltrinelli, 2004.

2008. La crisi finanziaria di un’economia in trasformazione di Patrizia Battilani

La crisi del 2008 è indiscutibilmente una crisi finanziaria, ma un po’ come era avvenuto nel 1929, essa si colloca in una fase di profondo cambiamento strut­ turale dell’economia, definita da Richard Baldwin «globotica» (globotics ), che può sintetizzarsi come l’insieme di automazione e globalizzazione applicate al mondo dei servizi. Pochi dubbi ci sono sul fatto che il massiccio ingresso delle tecnologie digitali nel mondo della finanza sia stato uno dei fattori che hanno contribuito allo scoppio della crisi e alla sua diffusione nel mondo. Più rara­ mente si è riflettuto su quanto tale innovazione stia contribuendo a dare forma all’economia del post-crisi e stia influenzando la coesione sociale e il livello di soddisfazione dei cittadini nei paesi occidentali. Forse non tutto quello che carat­ terizza l’economia di oggi è la conseguenza della crisi del 2008, ma è parte di un mutamento più profondo all’interno del quale si può collocare la crisi stessa.

1.

Le trasformazioni dei settore finanziario

Il mondo in cui la crisi prende forma è quello forgiato dall’abbandono del sistema a cambi fissi e dalle cosiddette rivoluzioni reaganiana (dal nome del 40° presidente degli Stati Uniti, 1981-89) e thatcheriana (dal nome del primo ministro britannico, 1979-90) che individuarono nella liberalizzazione dei mercati e nella circolazione internazionale dei capitali gli strumenti per riattivare la crescita economica. Il settore finanziario uscì profondamente trasformato dal nuovo corso della politica economica internazionale. In primo luogo il ritorno ai cambi flessibili generò una forte domanda di contratti che permettessero alle imprese di proteggersi dal rischio di cambio. Questi contratti divennero poi dei prodotti finanziari scambiati sul mercato con il nome di «derivati». Va ricordato che i derivati su merci (ad esempio quelli costruiti sull’anda­ mento dei prezzi del carbone o del cotone) avevano accompagnato la storia econo­ mica degli ultimi due secoli. La novità degli anni Ottanta e Novanta fu rappresentata dallo sviluppo di derivati finanziari, il cui rendimento dipendeva dall’andamento dei tassi di cambio delle monete o di alcuni indici di borsa. Parallelamente si svilupparono anche i fondi di investimento non convenzionali, gli hedge funds, che includevano nel loro portafoglio titoli molto rischiosi che in quanto tali permettevano rendimenti

maggiori anche se molto incerti, tra i quali gli stessi derivati finanziari. Fra quelli di maggiore successo possiamo ricordare il Quantum Fund, creato nel 1973 da George Soros. In secondo luogo, la deregolamentazione dei mercati borsistici, che prese il nome di Mayday (1975) negli Stati Uniti e di Big Ben (1986) nel Regno Unito, creò le condizioni per la nascita di una nuova generazione di imprese che offrivano servizi di gestione del risparmio low cost e facilitò l’accesso diretto dei risparmiatori alle borse valori. Negli anni Ottanta, iniziò anche il processo di computerizzazione delle operazioni di borsa, che rese più rapidi gli scambi nonché il loro impatto sui prezzi. In questo modo i centri finanziari fecero i primi passi nel mondo della globotica. La maggiore dinamicità del mercato borsistico sottrasse risparmiatori alle banche, il cui funzionamento era in molti paesi, e in primo luogo negli Stati Uniti, irreggimentato dalle leggi emanate a tutela del risparmio dopo la crisi del 1929. In questo contesto, il mondo bancario americano iniziò a chiedere una maggiore deregolamentazione, cosa che effettivamente ottenne. Così tra il 1981 e il 1986 furono aboliti i massimali sui tassi di interesse applicati ai depositi bancari, nel 1994 il Riegle-Neal Interstate Ranking andBranching Efficiency Act eliminò i vincoli sull’apertura di filiali bancarie in più di uno stato e nel 1999 il Gramm-Leach-Bliley Act rese possibile alle banche lo svolgimento di ogni tipo di operazione finanziaria, da quelle tipiche delle assicurazioni a quelle bancarie di lungo periodo. Un processo analogo avvenne anche in Europa, dove le borse vennero deregolamentate e gli scambi computerizzati a partire dalla metà degli anni Ottanta, mentre il modello della banca universale fu reintrodotto con la direttiva 646 del 1989. In terzo luogo negli stessi decenni prese avvio anche il processo di liberalizzazione della circolazione dei capitali da un paese all’altro. Dopo il passaggio ad un sistema internazionale basato sui cambi flessibili, gli stati iniziarono a cancellare i vincoli amministrativi (autorizzazioni) e fiscali (aliquote differenziate) all’arrivo di capitali dall’estero, perché in questo modo acquisivano più libertà nel definire una propria politica monetaria e propri obiettivi di sviluppo. L’esito fu una crescita complessiva del settore finanziario, un maggiore ricorso all’indebitamento da parte delle famiglie e delle imprese e una maggiore circolazione internazionale dei prodotti finanziari emessi nei diversi paesi e in particolar modo negli Stati Uniti. Queste condizioni nelle intenzioni dei legislatori e anche secondo le previsioni di molti economisti avrebbero facilitato la crescita economica così come la mobilità sociale nei paesi ricchi, nonché creato maggiori opportunità per i paesi in via di svi­ luppo. Lasciato libero di circolare, il capitale si sarebbe diretto verso i paesi in cui era più scarso (e quindi dove poteva sperare in un maggiore rendimento) e anche più necessario (Ball). 2.

Il manifestarsi della crisi negli Stati Uniti e la sua diffusione nel mondo

La crisi del 2008 arrivò al termine di un ventennio abbastanza turbolento dal punto di vista finanziario, caratterizzato dal periodico verificarsi di crisi locali: la caduta del mercato di borsa degli Stati Uniti nel 1987, la crisi del sistema monetario europeo nel 1992, la crisi messicana del 1994-95, la crisi asiatica del 1997, la crisi russa del 1998, la crisi brasiliana del 1999, la crisi argentina del 2001-02. A queste andrebbe poi aggiunta la breve crisi americana del 2001, probabilmente generata da uno shock esogeno, un forte aumento della domanda di nuovi computer e applica­ tivi dovuta al timore che quelli vecchi impazzissero nel passaggio dal 1999 al 2000.

Questo picco della domanda si trasformò in una caduta nel 2001, caduta dalla quale il paese si riprese lentamente a causa dell’instabilità nella politica intemazionale pro­ dotta dall’attentato alle Torri gemelle. Così nel 2002, la nuova amministrazione Bush cercò di stimolare l’economia attraverso un taglio delle tasse, mentre il governatore della Federai Reserve, Alan Greenspan, iniziò a ridurre il tasso di sconto, cioè il tasso applicato dalla banca centrale nei confronti del sistema bancario. Esso scese dal 6,5 % del maggio 2000 all’1% del giugno 2003, producendo un effetto espansivo sulla domanda di credito e spingendo le famiglie, anche le cosiddette Ninja (No Income, No Job and No Asset), a richiedere mutui per l’acquisto della casa, come raccontato nel saggio di Taviani (cap. III). L’evoluzione del sistema finanziario che abbiamo appena ricordato creò le condizioni perché le banche accordassero tali mutui e perché a loro volta si coprissero dai rischi vendendoli a società finanziarie che li cartolarizzavano, cioè li scomponevano e inserivano in nuovi prodotti finan­ ziari. In altre parole i mutui originari divennero una componente di titoli finanziari derivati, venduti ad altri risparmiatori o a imprese. Infine, le compagnie di assicura­ zione iniziarono a vendere polizze a copertura del rischio di insolvenza. L’American Dream del ceto medio sembrava alla portata di tutti, stimolato anche dalle molte trasmissioni televisive (poi arrivate anche nelle piccole reti italiane) dedicate all’ac­ quisto e alla ristrutturazione di case. Anche il sogno di eliminare il rischio insito nelle attività economiche sembrava prossimo a realizzarsi, visto che distribuendolo in tanti prodotti finanziari diversi e dividendolo tra tanti investitori il rischio scompariva. Entrambi i sogni si dissolsero negli anni successivi. La fase espansiva dell’eco­ nomia americana si concluse quando la Federai Reserve, preoccupata per un rialzo dell’inflazione, aumentò il tasso di sconto sino a riportarlo nel 2006 al 5,25%, causando l’innalzamento a catena di tutti gli altri tassi di interesse, compresi quelli dei mutui sulle case. L’effetto fu duplice: da un lato le famiglie non riuscirono più a pagare i mutui (che erano a tassi variabili), dall’altro la domanda delle case e di conseguenza i loro prezzi cominciarono a scendere. La cartolarizzazione dei mutui, a cui abbiamo fatto riferimento prima, trasmise il loro andamento negativo a tutti i titoli finanziari ad essi collegati e alle società che li avevano emessi. I primi segnali si ebbero nel 2007, con il fallimento di 25 società finanziarie, mentre nel 2008 anche diverse grandi banche di investimento che avevano cartolarizzato i mutui ipotecari, come la Bear Stearn e la Merrill Lynch, resero palesi le loro difficoltà. Poi venne il turno di Fannie Mae e Freddie Mac, le due società create rispettivamente nel 1938 e nel 1970 su istanza del governo per aiutare le famiglie dei quartieri poveri ad acquistare la casa. Infine, furono colpite le compagnie di assicurazione, come la Aig, quando si palesò che non potevano pagare gli indennizzi delle polizze contro l’insolvenza dei mutui. Tutte vennero salvate con il sostegno e i prestiti del governo o della Federai Reserve. Inoltre, con un accordo bipartisan, il 7 ottobre 2008, il Congresso americano approvò il Troubled Asset Relief Program (Tarp) con l’obiettivo di acquistare o assicurare titoli in difficoltà per un ammontare pari a 700 miliardi di dollari. II governo americano, tuttavia, non salvò tutte le grandi società, ma ne lasciò fallire una, la Lehman Brothers, un colosso con 25.000 dipendenti. E davvero diffi­ cile capire cosa originò una scelta tanto diversa. Forse il governo voleva mandare il segnale che gli aiuti di stato non potevano darsi per scontati oppure semplicemente cercava di mantenere il consenso di quella parte di elettorato che imputava proprio alle società finanziarie le proprie difficoltà economiche e che quindi era poco prò-

pensa ad usare i soldi dei contribuenti in salvataggi. Sta di fatto che il 15 settembre 2008, i volti dei dirigenti della Lehman Brothers apparvero nei telegiornali di tutto il mondo e con essi la consapevolezza che il peggio doveva ancora arrivare. Attraverso la circolazione dei capitali, i derivati americani erano entrati nei bilanci delle banche, delle imprese e delle famiglie di tutto mondo. La crisi aveva azzerato il valore di molti di essi. La crisi americana era diventata internazionale: ora il problema era come togliere i titoli spazzatura dai bilanci senza provocare il dissesto di imprese e famiglie. In questa fase i paesi Ocse riuscirono a muoversi in modo coordinato, contri­ buendo a contenere la durata della crisi. A seguito degli incontri del G20 (Londra e Pittsburgh nel 2009, Toronto e Seul nel 2010) essi assunsero molte misure con­ temporaneamente, come l’introduzione di un maggiore controllo sugli hedge funds e sulle operazioni con derivati e l’adozione di nuove regole sui bilanci bancari. Inoltre nel 2009 decisero di ridurre simultaneamente il tasso di sconto di 0,5 punti. Quasi tutti i paesi poi ricorsero all’intervento pubblico, come il Regno Unito, che il 7 ottobre 2008 lanciò il bank rescue package, rendendo disponibili circa 500 miliardi di sterline per mettere al sicuro il sistema bancario britannico. Secondo il governatore della Banca d’Italia, alla fine del 2011 l’impatto di tali interventi am­ montava a 48 punti percentuali del prodotto in Irlanda, a 11 in Germania, a 7 nei Paesi Bassi e in Belgio; in Italia era pari ad appena 0,2 punti, mentre la Spagna tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013 fece ricorso a un prestito europeo per oltre 40 miliardi, circa il 4% del Pii. Degli Stati Uniti abbiamo già detto. Nel complesso, i paesi mostrarono una notevole capacità reattiva e, nella seconda metà del 2009, la ripresa globale poteva dirsi riavviata. 3.

La fase due della crisi e gii attacchi speculativi contro il debito sovrano dei paesi dell’area euro

Nelle dichiarazioni ufficiali, i commissari dell’Unione europea non avevano mai mancato di sottolineare l’origine statunitense della crisi e l’elevato prezzo pagato dalle banche europee per i derivati americani. Nella seconda metà del 2010, tuttavia, proprio l’Unione europea divenne l’epicentro di una nuova crisi finanziaria, questa volta generata dai titoli di stato. La miccia fu l’emergere, a fine 2009, del grave disavanzo del bilancio dello stato della Grecia, a lungo tenuto nascosto anche con artifici contabili. La crisi aveva, infatti, esacerbato le differenze fra i paesi dell’euro in termini di disavanzo dello stato, ammontare del debito pubblico e tasso di crescita del Pii. In particolare era emerso un gruppo di paesi, i cosiddetti Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), che forse non a caso si collocavano nella periferia del continente europeo, per i quali rispettare gli accordi di Maastricht e quindi i vincoli per utilizzare l’euro era diventato particolarmente difficile. Le agenzie di rating non mancarono di segnarlo, abbassando la valutazione dei loro titoli di stato. L’Italia era fra questi. Si crearono così le condizioni per una serie di attacchi speculativi contro i titoli di stato di tali paesi, nonché in modo indiretto contro l’euro stesso. La nuova crisi finanziaria mise in evidenza la fragilità dell’architettura europea. Il dibattito degli anni Novanta si era sviluppato attorno al trade off ha allargamento ad Est verso i paesi un tempo sotto l’influenza russa e il rafforzamento delle istituzioni

comunitarie sul ristretto numero di paesi che erano già parte dell’Unione. Come è noto, durante la presidenza di Romano Prodi, la Commissione scelse la prima strada. Inoltre la crisi del 1992-93 del sistema monetario europeo aveva spinto nella direzione di un’integrazione monetaria non accompagnata dal rafforzamento di istituzioni sovranazionali, fatta eccezione per la banca centrale europea. Tale archi­ tettura manifestò tutti i suoi limiti, proprio con la crisi del 2008, durante la quale si palesò quanto fosse difficile contrastare una crisi internazionale senza disporre di un pilastro politico e di politiche fiscali comunitarie. In assenza di interventi sistemici e strutturali, i paesi economicamente più fragili, primo fra tutti la Grecia, pagarono un prezzo altissimo, in termini di caduta del Pii, di riduzione dello stato sociale e di peggioramento della qualità della vita. Per sopperire a tali limiti, nel 2010 l’Unione europea creò due nuovi strumenti di intervento: lo European Financial Stability Facility (Efsf), il quale emetteva ob­ bligazioni che avevano come garanzia il bilancio europeo, e lo European Financial Stabilization Mechanism (Efsm), per fornire assistenza finanziaria ai paesi membri. L’Unione europea mandava così un chiaro segnale ai mercati finanziari sulla sua volontà di difendere l’euro. Tuttavia, la grande protagonista del superamento della crisi fu la banca cen­ trale. Il nuovo governatore, Mario Draghi, insediatosi nel novembre 2011, scelse da subito un profilo istituzionale molto forte e interpretò in chiave sovranazionale il suo mandato. Il 26 luglio 2012, in occasione di un incontro pubblico a Londra con gli investitori, rese evidente la sua intenzione di far svolgere alla Bce il ruolo di prestatore di ultima istanza (vale a dire di creatore di liquidità per evitare fallimenti e contrastare la recessione) facendone il vero, forse l’unico, baluardo a difesa dell’eu­ ro: «Nel rispetto del nostro mandato, la Bce è pronta a fare quanto necessario per proteggere l’euro. E credetemi, sarà sufficiente». Una settimana dopo la banca centrale lanciava l’Outright Monetary Transactions (Omt), un fondo con il quale si impegnava a intervenire sul mercato aperto dei titoli per mantenere bassi i tassi di interesse dei paesi sotto attacco speculativo. Anche se nessuno stato chiese mai di far intervenire l’Omt, la sua esistenza contribuì comun­ que a stabilizzare i mercati, perché fu un segnale forte dell’intenzione dell’Unione europea di contrastare eventuali attacchi di quel genere. La Bce perseguì anche una politica monetaria espansiva, sia riducendo il tasso di sconto sia con iniezioni di liquidità nel sistema attraverso il quantitative easing (cioè l’utilizzo di strumenti diversi dal tasso di interesse) per aiutare la crescita e il superamento della crisi. Queste operazioni non si sono mai interrotte, anche se hanno avuto intensità diversa in base alla situazione economica generale. Un altro cambiamento importante riguardò l’avvio dell’Unione bancaria, cioè un sistema europeo di vigilanza e di risoluzione delle crisi nel settore bancario. Ad oggi essa si compone di tre pilastri: il codice unico europeo (stesse regole per tutti i paesi); il sistema di vigilanza unico (le banche sistemiche, cioè molto grandi e importanti, saranno sorvegliate da un organismo europeo); il sistema di risoluzione unico - Bank Recovery and Resolution - per limitare l’impatto sui bilanci pubblici dei salvataggi bancari. Nel 2013, Efsf e Efsm vennero unificati per creare un’istituzione permanente, lo European Stability Mechanism (detto anche «Fondo salva stati»), finalizzato a concedere prestiti agli stati disposti ad avviare le riforme e del cui consiglio fanno parte i ministri delle Finanze dei paesi euro.

In conclusione, la crisi del 2008 e il suo corollario di attacchi speculativi alla zona euro stimolarono la messa a punto di nuovi strumenti e il rafforzamento dell’Unione europea stessa. Ma ad oggi si tratta di un’opera incompiuta. Lo stesso Mario Draghi, nel suo discorso di addio del 28 ottobre 2019, dopo otto anni alla guida della Bce, ha voluto richiamare l’attenzione sul fatto che «le politiche nazionali non possono garantire sempre la giusta direzione fiscale per l’area euro intesa nel suo complesso» e che serve «una capacità fiscale di dimensione e portata adeguate, sufficientemente grande per stabilizzare l’Unione monetaria». In altre parole il governatore uscente ha ricordato che la banca centrale non va lasciata sola e che le politiche monetarie non sono sufficienti. 4.

L’Italia di fronte alla crisi

L’Italia fu uno dei paesi più colpiti dalla crisi: nella prima fase, tra il 2008 e il 2010, registrò una caduta del Pii prò capite dell’8%, nella seconda, tra il 2011 e il 2013, del 5%. Negli stessi anni, la produzione industriale si ridusse di quasi un quarto e si perse oltre un milione di posti di lavoro. I recuperi furono, invece, sempre molto lenti. L’esito fu che il Pii italiano, che sino al 2007 si era sempre col­ locato al di sopra della media europea, pian piano scivolò ad un livello inferiore. Inoltre ancora nel 2018 non era ritornato al livello del 2007. La crisi arrivò in Italia attraverso la contrazione deH’interscambio internazio­ nale più che per effetto delle difficoltà delle banche. Infatti, il paese misurò una riduzione fortissima delle esportazioni, che poi ripresero già nel 2009. Tuttavia, complessivamente la quota italiana sulle esportazioni mondiali scese dal 3,4 del 2007 al 2,9% del 2018. Le banche italiane, tradizionalmente poco dinamiche, vennero colpite dalla crisi dei derivati in modo marginale. Tuttavia, il perdurare della recessione rese molti crediti inesigibili, tanto che tra il 2011 e il 2015 vennero poste in amministrazione straordinaria 36 banche, senza particolari ripercussioni sui clienti, grazie all’inter­ vento della Banca d’Italia e del governo. Successivamente, nel gennaio del 2016, entrò pienamente in vigore la direttiva europea sul risanamento delle banche (Bank Recovery and Resolution Directive, Brrd) che vietava l’aiuto diretto dello stato. In questo contesto non fu possibile evitare la liquidazione della Veneto Banca e della Banca Popolare di Vicenza, nel 2017. Su questo passaggio si innescò anche un contenzioso fra l’Italia e l’Unione europea. Infatti, la Banca d’Italia aveva cercato di costruire un percorso alternativo che prevedeva di utilizzare per i salvataggi un fondo appositamente creato dalle altre banche con versamenti obbligatori. Purtroppo la Commissione europea bocciò tale soluzione ritenendola una forma mascherata di aiuto di stato. Su questo contenzioso si è espressa la Corte europea in data 17 marzo 2019, dando ragione allTtalia. Ormai però le banche erano fallite. L’esito di tutte queste vicende è stata una lunga contrazione del credito. Tuttavia, la vera debolezza del paese era l’ammontare del debito pubblico, che non solo rendeva molto complessa l’adozione di politiche espansive finalizzate a contrastare la crisi, ma esponeva agli attacchi speculativi. Nel 2011 si produssero anche le prime conseguenze politiche. Di fronte alla crescente difficoltà nel collocamento dei titoli di stato e alle pressioni dell’Unio­ ne europea, il 12 novembre 2011 il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi fu

costretto a dimettersi per essere di lì a poco (il 16 novembre) sostituito da Mario Monti, professore di economia all’Università Bocconi, chiamato a guidare un governo tecnico. Dopo appena tre settimane, il nuovo governo varò il decreto salva-Italia, contenente una serie di misure di lungo periodo per la riduzione della spesa pubblica e la liberalizzazione del mercato del lavoro, funzionali ad ottenere sia la fiducia dell’Unione europea e del Fondo monetario sia dei mercati finanziari (Bull). Nel 2012, poi, l’impegno della Bce allentò per tutti la pressione esercitata dai mercati finanziari, Italia compresa. I problemi italiani, tuttavia, avevano radici più lontane della crisi, tanto che anche prima del 2008 era emersa una divergenza in termini di tassi di crescita con gli altri paesi europei. La crisi allontanò la loro soluzione e consegnò un paese più povero e con una minore coesione sociale. Altrettanto forte fu l’impatto nei confronti del processo europeo. L’Italia, che aveva sempre avuto una popolazione europeista, vide pian piano emergere sentimenti anti-europei. L’Europa smise di essere percepita come uno strumento per affrontare problemi complessi e divenne nell’immaginario dei paesi del Mediterraneo una sorta di gendarme che impediva politiche espansive a chi era più duramente colpito dalla crisi, come la Grecia e l’Italia stessa, mentre in quello dei paesi nordici una sorta di controllore incapace di far fare i compiti ai membri meno responsabili. L’esito fu l’emergere di posizioni sovraniste in molti partiti europei, nonché l’avvio di un percorso di uscita dall’U­ nione da parte del Regno Unito, dove, nel referendum popolare del 23 giugno 2016, inaspettatamente vinsero i fautori della Brexit. Tuttavia, sia per l’Italia sia per il resto d’Europa, la crisi del 2008 non è stata l’unica forza al lavoro per cambiare i vecchi equilibri e il mondo. Quel processo che Baldwin ha chiamato «globotica» non è stato interrotto dalla crisi e continua a produrre mutamento e squilibri: l’obsolescenza di vecchie professionalità e il ridursi della classe media con il conseguente aumento delle diseguaglianze, l’emergere di nuovi settori e imprese nei paesi dove si sono accumulate le competenze adatte al nuovo corso tecnologico e il declino degli altri, il consolidarsi della crescita nelle aree di nuova industrializzazione con il conseguente ridisegno delle relazioni in­ ternazionali. Fra i tanti lasciti negativi della crisi del 2008, c’è anche quello di aver distolto l’attenzione da tutto questo. Percorso di autoverifica

1. Quali cambiamenti nel mondo della finanza caratterizzarono il periodo precedente la crisi del 2008? 2. Quali furono le cause della crisi finanziaria americana? 3. Quali furono le cause della crisi europea del debito sovrano? 4. Come cambiarono le istituzioni dell’Unione europea a seguito della crisi? 5. Quale fu l’effetto della crisi sull’Italia?

. Per saperne di più

R. Baldwin, Rivoluzione globotica. Globalizzazione, robotica e il futuro del lavoro, Bologna, Il Mulino, 2020. L. M. Ball, The Fed and Lehman Brothers: Setting thè Record Straight on thè Financial Disaster, Cambridge, Cambridge University Press, 2018. M. J. Bull, In thè Eye of thè Storm: The Italian Economy and thè Eurozone Crisis, in «South European Society and Politics», 23,2018, pp. 13-28.

Indice dei nomi

Indice dei nomi

‘A bduh, M., 127 Abe Shinzo, 226 Acheson, D., 341, 358 Adams, A., 161 A d a m sJ., 161,235 A ddam s.J., 165 Adenauer, K„ 357, 359, 375, 422-424 Adorno, T.W., 48 Agranat, S., 401 Akihito, im peratore del G iappone, 225 Albright, M., 229 Alcalà-Zamora, N., 316, 318 Aleramo, S., 167 Alessandro I Romanov, zar di Russia, 134 Alfonso X II di Borbone, re di Spagna, 261 Alfonso X III di Borbone, re di Spagna, 316 Allende, S .,4 0 5 ,4 0 7 ,4 0 9 , 410 Allon, Y., 386 Alvarado, V., 406 Amer, A .H .,381,384 Andreessen, M., 195 Andropov, J., 349 Anthony, S., 166 Arias N avarro, C., 416 Aristotele, 159 Armiero, M., 201 Asburgo, dinastia, 125, 138, 246 Ashcroft, J.D ., 440 al-Assad, B., 17 al-Assad, H „ 17,379, 380, 387, 399 al-Atassi, N., 380 Atatiirk (M. Kemal), 144, 290 Attlee, C.R., 192 Azana, M., 317, 318 Aznar, J.B., 316 Baboeuf, G ., 238 Babson, R., 307 Bacon, F., 120

Baden Powell, R.S.S., 49 Badoglio, P., 327 Bagehot, W., 51, 98, 264 Bahro, R., 208 Baker, K.M., 239 al-Bakr, H ., 387 Baldovino di Sassonia-C oburgo-G otha, re del Belgio, 368 Baldwin, R., 445, 451 Baldwin, S., 187 Ball, L .M .,446 Balzac, H. de, 180 Barca, S., 201 Bass, E., 212 Batista y Zaldlvar, F., 152 Batthyàny, L., 246 Battisti, C., 287 Bava Beccaris, F., 275 Beauvoir, S. de, 171, 173 Bebel, A., 43, 164 Begin, M., 383, 401 Bell, A.G., 185 Benjamin, W., 48 Berenguer, D., 316 Berlinguer, E., 405 Berlusconi, S., 450 Bernstein, E., 43, 92 Beveridge, W .H., 88 Bevilacqua, P , 200 Bierut, B., 348 Bin Laden, O., 437,438 Bismarck, O. von, 39, 81, 83, 102, 103,138, 139, 141, 182, 260, 261, 265, 279, 280 Blackstone, W., 167 Blanc, L., 42, 43, 244, 245 Blanqui, A., 244 Blum, L., 318 Bolivar, S., 240 Boorstin, D., 193

Borbone, dinastia, 97, 134, 245 Boucicaut, A., 45 Boulanger, G.-E.-J.-M., 103 Bourdieu, P., 48 Brandt, W., 375, 424, 425 Braudel, E , 178, 241 Brecht, B., 190 Bresci, G., 275 Breznev, L.I., 155, 385, 398 Briand, A., 145 Broglie J.-V .-A . de, 101 Brunswick, K.W. Ferdinand, duca di, 238 Buber, M., 125 Bucharin, N., 299 Bull, M.J., 451 Biilow, B. von, 280, 283 Bultmann, R., 120 Burke, E., 77, 80, 82, 132 Bush, G.H.W ., 427 Bush, G .W .,229, 438, 439, 441 Bush, L.L.W., 439 Butler, J., 164 Caballero, L., 319, 320 Cabrai, A., 366 Cadorna, L., 287 Cady Stanton, E., 162, 166 Caetano, M., 106 Cairoli, B., 100 Calvino, G., 119 Cànovas del Castillo, 278 Caprivi, L. von, 280 Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, 247,248 Carnot, M.-F.-S., 274 Carrero Bianco, L., 416 Carson, R., 199 Carter, J.E.C ., 155,228,410 Casado, S., 320 Castlereagh, R. Stewart, 134 Castro, F., 152, 372, 410 Cattaneo, C., 248 Cavaignac, L.E., 246 Cavour, C. Benso di, 100, 138 Chaban-Delmas, J., 375 Chamberlain, J., 99, 278 Chaplin, C., 45 Chartier, R„ 239 Cheney, R.B.D., 440 Chiang Kai-shek, vedi Jiang Jieshi Chòn Tuhwan, 224 Chruscév, N.S., 152 Churchill, R„ 278 Churchill, W., 147, 187, 191, 192, 325, 339, 356 Ciacotin, S., 190 Clemenceau, G., 143 Clinton, B. (W.J. Blythe III), 228, 440, 441 Clinton, H ., 195 Cohen, J.E., 206

Cohn-Bendit, D., 392 Colom bo, C., 24 Commoner, B., 199 C ondorcet, J.-A.-N. de Caritat de, 237 C onrad von H òtzendorf, F., 288 Coolidge, C., 306 Coudenhove-Kalergi, R.N., 356 Creech-Jones, A., 367 Crispi, F , 274 Cristiano IX di Schleswig-Holstein-SonderburgGlucksburg, re di Danimarca, 260 Croce, B., 71 Cromwell, O., 96 D anton, G.-J., 237, 238 Dawes, C.G., 145 Dayan, M., 383, 384, 386 D ebord, G ., 48, 193 De Gasperi, A., 358, 359 de Gaulle, C., 98, 112, 191, 327, 366, 367, 371, 374, 375, 383, 393, 424, 429, 430 Deng Xiaoping, 156, 221, 226, 227 Déroulède, P., 276 D estutt de Tracy, A.-L.-C., 69 Dimitrov, G., 318 al-Din al-Afghani, J., 127 Dollfuss, E., 189, 317 D onitz, K., 329 Draghi, M., 449, 450 Dreyfus, A., 276 D ubcek, A., 153, 391 Dulles, J.F., 341, 351, 383 Dumas, A., 180 D utschke, R., 390, 392 Dzerzinskij, F., 299 E bert, F., 289 Eden, A., 359 Edison, T.A., 185 Ehrlich, P., 199 Eisenhower, D.D., 337, 343 Engels, F„ 41, 90-92, 164, 244 Erenburg, I.G., 347 E rhard, L., 375 Eshkol, L., 383 Fabius, L., 195 Fanfani, A., 376 Fanon, F., 365 Federico G uglielm o II di H ohenzollern, re di Prussia, 237 Federico G uglielm o IV di H ohenzollern, re di Prussia, 247, 249, 260 F e rd in an d o I d ’A sburgo-L orena, im peratore d ’Austria, 246 F erdinando II di Borbone, re delle D ue Sicilie, 247,248 Fessenden, R.A., 185

Filippo II d ’Asburgo, re di Spagna. 175 Firestone, S., 173 Fisher, I., 307 Ford, H ., 45 Forrester, J.W., 206 Fourier, C., 42, 90, 244 Francesco I d ’Asburgo-Lorena. im peratore d’Au­ stria, vedi Francesco II d ’Asburgo-Lorena Francesco II d ’Asburgo-Lorena, im peratore del Sacro Romano Im pero, 240 Francesco Ferdinando d ’Asburgo-Este. 255 Franco y Bahamonde, F., 1 0 6 ,1 4 6 .3 1 9 .32C. 413418 Franklin, B., 235 Freeden, M., 72 Friedan, B., 171 Friedman, M., 409 Fukuyama, Y.F., 26, 440 Furet, F„ 239 G albraith, J.K., 371 Galilei, G,, 121 G andhi, M.K., 127 G aribaldi, G., 248 G ero, E., 349, 350 Gesù di Nazareth. 120, 121 Gil-Robles, J.M ., 317 Giolitti, G., 104, 275, 287 Giovanni X X III (A.G. Roncalli), 376 Giovanni Paolo II (K. Wojtyla), 406 Giovanni Senzaterra, re d ’Inghilterra, 85 G irai ,J „ 319 Giscard d ’Estaing, V., 402 G iuseppe Bonaparte, re di Napoli e di Spagna, 241 G ladstone, W.E., 51, 277 G oebbels.J., 187 Goegg-Pouchoulin, M., 166 G oethe, J.W. von, 26 Gomulka, W„ 348, 349, 351, 391 Gorbacèv, M., 155, 156, 227 Gouges, O. de (M. Gouze), 50, 161 Oraziani, R., 325 G reenspan, A., 447 Greer, G., 173 G ropius, W., 45 Guckov, A., 296 Guevara, E., detto Che, 406 Guglielmo I di Hohenzollern, im peratore di G er­ mania, 260, 261 G uglielm o II di H ohenzollern, im peratore di G ermania, 103, 279, 280, 284, 285 Gui, L„ 391, 393 Guizot, F.-P.-G., 101 G utenberg, J., 178 Haeckel, E., 200 Halévy, E., 106

Hammarskjòld, D., 368 H am ack, A. von, 120 Hartwell, R.M., 42 Havas, C., 181 H ay ,J„2 6 8 , 271 Hayek, F.A. von, 71, 409 H earst, W.R., 180, 182 Hegel, G.W.F., 74, 86 Henry, H.-J., 276 H indenburg, P. von, 108, 146, 286, 289 H irohito, im peratore del G iappone, 216, 225, 329,339 Hider, A„ 106,108,109, 111, 145-147,177, 188, 301, 315, 317, 319, 323-326, 329, 413 H ò Chi Minh, 221, 222, 365 H obbes, T., 37 H obhouse, L.T., 71 H obsbawm , E.J.E., 26, 41, 42 H odge, J.R., 340 Hohenlohe-Schillingsfiirst, C., 280 Hohenzollern, dinastia, 260 Hoover, H „ 1 8 7,306,309,311 Horkheim er, M., 48 H u Jintao, 227 H u Yaobang, 227 Hughes, C., 195 H untington, S.P., 418, 438 H ussein, re di G iordania, 381-384, 386 H ussein, Saddam, 379, 387, 441 Illich, I., 208 Isabella II di Borbone, regina di Spagna, 261 Jaurès, J., 276 Jefferson, T., 235 Jiang Jieshi (Chiang Kai-shek), 224,331-334,339, 341,342 Jiang Zemin, 227 Johnson, L., 373, 383 Jonas, H ., 125 Juan Carlos di Borbone, re di Spagna, 415, 418 Juan di Borbone, 416 K à d à rJ., 350-352 Kagan, R., 442 Kemal, M., vedi A tatùrk Kennan, G., 218 Kennedy, J.F., 152, 193, 371-373, 376, 410, 424 Kenyatta, J., 365 Kerenskij, A„ 288, 296, 297 Keynes, J.M., 59, 88,312,313 Khan, A., 127 Kim Chong-il, 228-230 Kim Chòng-un, 230 Kim Il-song, 228 Kim Tae-jung, 229 King, M.L., 128, 392 Kipling, J.R., 270, 365

Kissinger, H ., 398-401 Kohl, H ., 156, 425,4 2 7 ,4 3 2 Koizumi Junichirò, 225, 226 Kook, Y., 387 Kornilov, L,, 297 Koryo, dinastia, 343 Kossuth, L., 246 Kosygin, A.N., 385, 401 Kramer, M „ 352 Lafargue, P., 46 La Fayette, M.-J. du M otier de, 236 Lang, F.C.A., 35 Lassalle, F.J.G., 43 Lasswell, H ., 190 L athrop,J., 168 Latouche, S., 208 Le Bon, G., 36 Ledru-Rollin, A.-A., 246 Le Due Tho, 399 Lee, R.E., 256 Leeuwenhoek, A. van, 206 Lenin, V.I. (Uljanov), 74, 91-93, 143, 144, 188, 288, 296-299 Leone X III (V.G. Pecci), 122 Leopoldo II d ’Asburgo-Lorena, granduca di To­ scana, 247 ' Leopoldo II d ’Asburgo-Lorena, im peratore del Sacro Romano Im pero, 237 Leopoldo II di Sassonia-Coburgo-Gotha, re del Belgio, 368 Leopoldo di Hohenzollern-Sigmaringen, 261 Lerroux, A., 317, 318 Lincoln, A., 252, 255, 256 Linz, J.J., 415 Lippm ann, W., 190 Livingston, R., 235 Lloyd George, D., 143 Locke, J., 37 Lonzi, C., 173 Loubet, É,, 276 Luce, H.R., 267 Ludendorff, E., 286, 289 Luigi XVI di Borbone, re di Francia, 236 Luigi X V III di Borbone, re di Francia, 241 Luigi Filippo d ’Orléans, re di Francia, 97, 245 Luigi Napoleone Bonaparte, vedi N apoleone III Bonaparte Lumum ba, P., 368 Lutero, M. (M. Luther), 119 L’vov, G .E., 293, 296, 297 Ma Ying-jeou, 224 Mably, G, Bonnet de, 239 MacArthur, D., 216, 217, 336, 342, 343 Macaulay, T., 183 McCain, J., 195 McKinley, W„ 268-270

M cLuhan, M., 178 Mac-Mahon, P. de, 101, 182, 263 Macmillan, H ., 375 Maffei, C., 163 Mahan, A., 269 Maier, C., 139 Maistre, J. de, 76 Malesherbes, G.-C. de Lamoignon de, 239 Maléter, P., 350 Malthus, T.R., 199, 205 Mameli, G ., 248 Manin, D., 247 Mankiw, G ., 305 Manzoni, A., 26 Mao Zedong, 93, 151, 219-221, 224, 332-334, 3 3 6 ,3 3 7 ,3 4 1 ,3 4 2 ,3 8 5 Maometto, 126 Marat, j.-P., 236 Marconi, G., 47, 185 Marcuse, H ., 389, 391 Maria Luisa d ’Asburgo-Lorena, im peratrice dei Francesi, 241 Marshall, T.H., 167 M artini Currica, E., 163 M arx, K„ 41, 69, 70, 74, 90-93, 105, 244 Mattei, E., 400 Mazzini, G., 90, 244, 248, 255 Meadows, D., 206 Medick, H ., 36 Meir, G., 401 Merz, C., 190 M etternich, K.W.L. von, 134, 241, 246 Michele Romanov, 296 Michels, R., 102 Mickiewicz, A., 391 Mies van der Rohe, L., 45 Mikojan, A., 350 Milani, L., 391 Miljukov, P., 296 M illJ.S ., 164 Miller, G., 191 Mindszenty, J., 352 M irabeau, H .-G . Riqueti, conte di, 236 M iranda, F. de, 240 Molotov, V.M. (Skrjabin), 147, 149 M oltke, H . von, 285 M onnet, J., 357-359 Montanelli, G., 248 M onti, M., 451 M ore, T., 90 Moreno, D., 200 M oro, A., 376 M orris, W., 44 Morse, S., 178 M ott, L., 162 Mozzoni, A M ., 164 M un Chaein, 231 al-Munim Riad, A., 383

Mussolini, B., 106, 109, 145-145. 1 7 ,. 188, 287, 310-312,318, 319, 325, 327. 329.413 Nagy, I., 349-352 Napoleone I Bonaparte, im peratore dei Francesi, 26, 69, 127,133,239-241 Napoleone III Bonaparte, im peratore dei F ran ­ cesi, 39, 98, 102, 137, 138, 246. 245.26 1 ,2 6 2 Nasser, G.A., 152, 347, 350, 351. 364. 380-385, 387,399 Necker, J., 237 Negrìn, J., 320 N ehru, S.J., 152,347 Nenni, P., 376 Neri Serneri, S., 201 Neustadt, R., 196 Newton, I., 57 Ngò D ình Dièm, 222 Nicola II Romanov, zar di Russia. 288, 296 Nipperdey, T., 240 Nivelle, R.G., 288 Nixon, R„ 153,154,193,218,220,222,373,398400, 402, 425 Nkrum ah, K., 365 N o T ’ae-u, 228 N orthcliffe, A.C.W. H arm sw orth, visconte di, 180, 184 O bam a, B„ 156, 195, 441 O chab, E., 348 Ollivier, E., 262 O rlando, V.E., 143 Orléans, dinastia, 245 O tto, L., 163 Overmans, R., 328 Owen, R., 41, 90 Pak Chong-hui, 223, 230 Pak Kun-hye, 230, 231 Palm erston, H.J.T., 136 Paolini, F., 202 Parks, R., 172 Paulus, F., 326 Peel, R., 82 Pelletan, E., 182 Pelloux, L., 275 Peres, S., 401 Pétain, H.-P.-O., 288 Pinochet, A., 405, 406, 409 Pio VI (G.A. Braschi), 237 Pio VII (B. Chiaramonti), 240 Pio IX (G.M. M astai-Ferretti), 76, 247, 248 Pio X II (E. Pacelli), 77 Platone, 90 Podgornyj, N.V., 382 Polanyi, K., 89 Pom pidou, G., 375, 393 Powell, C.L., 440, 441

Prebisch, R., 409 Primo de Rivera, M., 315, 316 Princip, G., 285 Prodi, R., 449 Proudhon, P.-J., 90 Pulitzer,J., 180 Putin, V.V., 156, 229 Qing, dinastia, 332 Rabin, Y„ 384, 386,401 Radetzky, ]., 248 Rajk, L., 349 Ràkosi, M., 349, 350 Ram M ohan Roy, 127 Ramakrishna, 127 Randall, T.D., arcivescovo di Canterbury, 187 Rasputin, G., 295 Rathenau, W., 286 Reagan, R„ 81, 89, 155,193 R eith,J., 187 Remington, F., 182 Renan, E., 418 Reuter, ]., 181 Rhee, S., 223, 340-342 Ridgway, M., 343 Robespierre, M.-F.-I. de, 37, 69, 237,238 Rokosovskij, K., 348 Romanov, dinastia, 296 Romer, C.D., 308 Rommel, E.J., 325 Roosevelt, F.D., 52, 61, 62, 148, 186, 187, 311, 312,326, 339, 372,374 Roosevelt, T., 269, 270 Rosanvallon, P., 37 Rosselli, C., 319 Rossi, Paolo, 391 Rossi, Pellegrino, 248 Rousseau, J.-J., 37, 90, 239 Rousseau, W., 277 Royal, S., 195 Rudinì, A. Starabba di, 100, 274, 275 Ruggie, J.G ., 89 Rumsfeld, D .H ., 440 Ruskin, J., 44 Sacco, N., 190 al-Sadat, A., 382, 399-401 Saffi, A., 248 Saint-Just, L.A. de, 238 Saint-Simon, C.-H. de Rouvroy de, 90, 244 Salandra, A., 287 Salazar, A. de Oliveira, 106 Salisbury, R.A., 140, 178 Sanger, M., 169 Saracco, G., 275 Sauvy, A., 364 Savoia, dinastia, 248

Schiff, P., 168 Schmidt, E., 195 Schmidt, H ., 402, 425 Scholem, G., 125 Schròder, G ., 209 Schumacher, E.F., 202 Schuman, R., 64, 357, 358 Schwartzenberg, R.-G., 193 Schwarzenberg, E , 138 Schweitzer, A,, 120 Sella, Q „ 100 Sieyès, E.-J., 236 ' Silvela, F., 279 Simon, J., 101 Smith, A., 241 Smith, R.A., 203 Sonnino, S., 83, 103, 104, 274, 287 Sorge, M., 328 Soros, G., 446 Spaak, P.-H., 358,359 Spinelli, A., 358 Stalin, J. (J-V. Dzugasvili), 63, 111, 145-149, 191, 221, 298, 319, 327, 336, 337, 339-341, 347, 348, 422 Stevenson, A.E., 343 Strauss-Kahn, D., 195 Stresemann, G., 145 Strong, B., 308 Strowger, A.B., 185 Suàrez Gonzàlez, A., 416, 417 Sue, E., 180 Sun Yatsen, 331 Suner, S., 414 Suslov, M., 350 Taine, H ., 36 Talleyrand-Périgord, C.-M. de, 134 Taviani, C., 447 Taylor, F.W., 45 Tejero, A., 418 Thant, Sithu U, 382 Thatcher, M., 81, 89, 155 Thiers, A., 263 Thom pson, E.P., 42

Thoreau, H .D ., 200 Thurow, L., 207 Tito g . Broz), 151, 152, 337, 347-349, 351 Tocqueville, A. de, 77 Townsend, W., 42 Toynbee, A.J., 40 Trivulzio di Beigioioso, C., 163 Trockij, L., 297 Truman, H.S., 63, 342, 343, 366, 422 Trump, D.J., 156, 195, 196, 208 Turgot, A.-R.-J., 239 Turner, F.J., 200 ul H aq, M., 204 U m berto I di Savoia, re d ’Italia, 275 Van Thieu, N., 399 Vanzetti, B., 190 Veblen, T.B., 46 Vittorio Emanuele II di Savoia, re d ’Italia, 248, 262 Vittorio Emanuele III di Savoia, re d ’Italia, 275 Vivekananda, 127 W ashington, G., 236 Welles, O ., 180, 189, 190 Wilson, H., 375, 376 Wilson, W,, 142-145, 290, 372 Wolff, B., 181 Wolfowitz, P.D., 440 Wollstonecraft, M., 161 Woolf, V., 167 W right Mills, C., 391 Wyszyriski, S., 348, 349 X ijin p in g , 2 2 4 ,2 2 7 ,2 2 8 Yoshida, S„ 217,218, 225 Zanardelli, G ., 100, 275 Zhou Enlai, 342 Zola, É., 276 Zwingli, U., 119

Gli autori

R affaella B a rito n o , d o c e n te di Storia americana presso l’Università di Bologna. P atrizia B attilani , docente d i Storia economica presso l’Università di Bologna. M atteo B attistini , assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna. G iovanni B ernardini , ricercatore dell’Istituto Storico Italo-Germanico - Fonda­

zione Bruno Kessler di Trento. T izia n o B o n a zzi , professore e m e rito p re sso l’Università di Bologna. S alvatore B otta , assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna. A lfo n so B o t t i , docente di Storia contemporanea presso l’Università di Modena. S tefano B o t t o n i , docente a contratto di Storia e istituzioni dei paesi dell’Europa

orientale presso l’Università di Bologna. ricercatore di Storia contemporanea presso l’Università di Bo­ logna. F ulvio C ammarano , docente di Storia contemporanea presso l’Università di Bo­ logna. M aurizio C a u , ricercatore dell’Istituto Storico Italo-Germanico - Fondazione Bruno Kessler di Trento. Stefano C avazza, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna. G iovanna C ig l ia n o , docente di Storia dell’Europa orientale presso l’Università di Napoli. E m ilie D elivré , ricercatrice dell’Istituto Storico Italo-Germanico - Fondazione Bruno Kessler di Trento. M ario D el P ero , docente di Storia americana presso l’Università di Bologna. G abriele D ’O ttavio , ricercatore dell’Istituto Storico Italo-Germanico - Fonda­ zione Bruno Kessler di Trento. M arcella E m ilia n i , già docente di Storia e istituzioni del Medio Oriente presso l’Università di Bologna-Forlì. C ristiana F a c c h in i , docente di Storia del cristianesimo presso l’Università di Bologna. A n to n io F io r i , docente a contratto di Politiche e istituzioni della Corea e dell’Asia orientale presso l’Università di Bologna. G uid o F o r m ig o n i , docente di Storia contemporanea presso l’Università Iulm di Milano. Riccardo B rizzi ,

M ich ele M archi , assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna. M arco M o n d in i , ricercatore dell’Istituto Storico Italo-Germanico - Fondazione

Bruno Kessler di Trento. docente di Storia del pensiero economico e Microeconomia presso l’Università del Salento. G iov a n ni O rsina , docente di Storia contemporanea presso l’Università Luiss Guido Carli. M aria S erena P ir etti , già docente di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna. P a olo P o m b en i , docente di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna. G aetano Q u a g liar iello , docente di Storia contemporanea presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma. C arlo T aviani, ricercatore del Deutsches Historisches Institut Roma . M ario Z a m po n i , docente di Democrazia e sviluppo in Africa sub-sahariana presso l’Università di Bologna. L oris Z anatta , docente di Storia e istituzioni dell’America Latina presso l’Uni­ versità di Bologna. M anuela M o sc a ,

Finito di stampare nel mese di febbraio 2020 presso la Tipografia Casma, Bologna