Introduzione alla fenomenologia francese. Temi e percorsi 9788864580326


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Table of contents :
Premessa
Capitolo primo
Alle radici della fenomenologia francese
Capitolo secondo
De-figurazioni spaziali del trascendentale
Capitolo terzo
Riempimento, adeguazione e idealità
Capitolo quarto
L’ego ferito: costituzione e genesi
Capitolo quinto
Genesi della temporalità
Capitolo sesto
Un trascendentale alter-ato
Capitolo settimo
Il dossier Husserl-Heidegger
Capitolo ottavo
Fenomenologia e ontologia
Capitolo nono
Percorsi francesi
Capitolo decimo
Fenomenologia al presente
Per concludere…
Prospettive future
Bibliografia
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Introduzione alla fenomenologia francese. Temi e percorsi
 9788864580326

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Claudio Tarditi

Introduzione alla fenomenologia francese Temi e percorsi

Collana “Orizzonti” 10

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Claudio Tarditi, Introduzione alla fenomenologia francese Copyright © 2011 Tangram Edizioni Scientifiche Gruppo Editoriale Tangram Srl – Via Verdi, 9/A – 38122 Trento www.edizioni-tangram.it – [email protected] Collana “Orizzonti” – NIC 10 Prima edizione: settembre 2011, Printed in Italy ISBN 978-88-6458-032-6

In copertina: Plan du métro de Paris (rielaborazione grafica)

Progetto grafico di copertina:

Stampa su carta ecologica proveniente da zone in silvicoltura, totalmente priva di cloro. Non contiene sbiancanti ottici, è acid free con riserva alcalina www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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“Ogni grande unilateralità, che provenga da pensatori realmente autonomi, apre la strada al nuovo. Speriamo dunque”. (E. Husserl)

“L’incompiutezza della fenomenologia e il suo modo di procedere incoativo non sono il segno di un fallimento, ma sono inevitabili perché la fenomenologia ha il compito di rivelare il mistero del mondo e il mistero della ragione. (M. Merleau-Ponty)

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Sommario 11 Premessa

Capitolo primo 15 Alle radici della fenomenologia francese Capitolo secondo 27 De-figurazioni spaziali del trascendentale Capitolo terzo

47 Riempimento, adeguazione e idealità

Capitolo quarto 55 L’ego ferito: costituzione e genesi Capitolo quinto 67 Genesi della temporalità Capitolo sesto

83 Un trascendentale alter-ato

Capitolo settimo 99 Il dossier Husserl-Heidegger Capitolo ottavo 115 Fenomenologia e ontologia Capitolo nono

127 Percorsi francesi

Capitolo decimo 139 Fenomenologia al presente Per concludere… 147 Prospettive future 155 Bibliografia

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Introduzione alla fenomenologia francese Temi e percorsi

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Premessa

Ogni testo può avere una genesi occasionale o un’origine ben più nascosta e profonda; questa può dar luogo ad una gestazione talora travagliata e complessa, guidata da riflessioni prudenti e quasi sempre di lunga durata, frutto del lavoro paziente di mesi o addirittura di anni, con buona pace dei sostenitori delle più recenti mode culturali, che prediligono testi di rapido consumo firmati dai sempre più numerosi brillanti autori dalla penna inarrestabile. Questi due tipi di genesi possono talvolta coesistere, ed è precisamente il caso di questo breve saggio. L’occasione, se così si può dire, della sua redazione è la crescente necessità – in primis di chi scrive, ma col proposito di poterla condividere con molti altri – di una riflessione complessiva su quel movimento filosofico e su quella particolare temperie culturale che si è soliti indicare con la locuzione “fenomenologia francese”. Nel dibattito filosofico europeo degli ultimi anni, è sorta da più parti la questione della legittimità di una tale categoria storiografica per indicare un certo numero di autori francesi che, traendo ispirazione dall’immenso corpus delle opere husserliane, ha in certo modo inteso proseguire alcuni dei percorsi teorici aperti dal padre della fenomenologia, pur pervenendo a risultati molto distanti dagli intenti originari del filosofo tedesco, perfino opposti. Insomma, perché includere ancora nel novero dei progetti autenticamente fenomenologici una molteplicità di percorsi filosofici che hanno modificato radicalmente – per non dire rovesciato – lo spirito e la lettera dei testi di Husserl? Non bisognerebbe piuttosto chiamarli “cattivi fenomenologi?” Ora, l’intento di questo breve lavoro è www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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12 Premessa

appunto difendere la legittimità di un simile uso terminologico e teorico, mostrando che è lo stesso progetto husserliano a plasmare, sebbene incoativamente, le “eresie” che da esso sono germinate1: non si tratta tanto di segnalare ambiguità od oscillazioni nel pensiero di Husserl – cosa già fatta da molte altre voci ben più autorevoli –, ma di far emergere quelle feconde tensioni interne che sono il segno evidente della più profonda vitalità e attualità sia del pensiero husserliano, sia della filosofia francese che continua a misurarsi con esso. Veniamo ora alla genesi nascosta, più teoreticamente impegnata. Da questo punto di vista, le analisi che seguono si pongono in continuità con un nostro testo precedente2, in cui si è tentato di ricostruire un particolare percorso all’interno del panorama filosofico francese, quello appunto che, a partire da alcuni testi di Husserl, conduce – attraverso l’ontologia heideggeriana – alla decostruzione derridiana e alla “fenomenologia della donazione” elaborata da Marion. Rispetto a quel testo, che in qualche modo dava per scontato l’uso dell’espressione “fenomenologia francese”, è sorta l’esigenza di un passo indietro, di una sosta per riflettere ancora sulle radici di tale categoria filosofica, al fine di chiarirne la genesi e le dinamiche interne. Beninteso, senza la minima aspirazione all’esaustività storiografica: percorreremo esclusivamente alcune delle vie – a nostro avviso, le più significative – che hanno favorito il sorgere nella cultura filosofica francese di posizioni teoriche sviluppatesi entro le aperture del pensiero husserliano (molto spesso attraverso la mediazione di Heidegger), da Lévinas a Henry e Marion, da Merleau-Ponty a Barbaras, da Janicaud a Sebbah. D’altra parte, com’è noto, è lo stesso Ricoeur, riprendendo un’affermazione di Ingarden, a osservare che la fenomenologia è “l’insieme dell’opera di Husserl e delle eresie che da essa sono nate”. 2 Con e oltre la fenomenologia. Le “eresie” fenomenologiche di J. Derrida e J. L. Marion, Genova, Il Melangolo, 2008. 1

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Premessa

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Dunque, non è qui in gioco né la ricostruzione minuziosa di un panorama culturale estremamente composito, dai margini spesso mobili e ancora tutti da tracciare, né l’analisi esaustiva del pensiero degli autori chiamati in causa, ma il tentativo di tirare dei fili rossi in grado di favorire l’orientamento all’interno di uno dei più complessi movimenti filosofici attuali. Conseguentemente, questa introduzione non persegue in alcun modo una qualche finalità manualistica, come un ipotetico capitolo di storia del pensiero francese, ma intende condurre trasversalmente il lettore all’interno di questa grande molteplicità di percorsi filosofici attraverso un particolare itinerario che conduce dal modello trascendentale husserliano alle principali metamorfosi e ai rovesciamenti che quest’ultimo subisce in Francia nel tentativo di superarne le tensioni costitutive. Infine, sullo sfondo, un progetto fenomenologico-ermeneutico ancora à venir: l’elaborazione e la messa alla prova di una figura concettuale e simbolica di estrema profondità, che qui inizia soltanto ad affiorare, la soglia. Tutta la fenomenologia, sin dalle sue origini husserliane, appare come un pensiero della e sulla soglia, ossia destinato a svilupparsi all’interno di uno spazio mobile costituito dalle proprie tensioni interne: e se non si trattasse, come afferma Janicaud, di una fenomenologia en pointillé, o, come osserva Sebbah, di una fenomenologia clignotante3, ma della sua più profonda e insondabile inesauribilità? In questa prospettiva, il presente testo si pone in posizione media – forse proprio su una soglia? – tra le indagini condotte in Con e oltre la fenomenologia e l’elaborazione approfondita della figura della soglia come condizione fenomenologica originaria della soggettività nel suo rapporto essenziale con ogni manifestazione in generale. 3

Entrambe le espressioni indicano una forma imperfetta di “fenomenologia a sprazzi”.

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14 Premessa

Desidero ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile questo lavoro, attraverso discussioni, critiche e osservazioni. In primo luogo, ringrazio i professori Jean-Luc Marion e Claude Romano per la loro grande disponibilità e per la benevolenza dimostratami durante le mie ricerche parigine, il professor Marco Ravera per il confronto dialogico ormai decennale e per la paterna fiducia che lo caratterizza, e i professori Ugo Perone e Claudio Ciancio, sempre prodighi di preziosi suggerimenti e osservazioni sui miei scritti. Un pensiero particolare a Chiara Pigozzo, attenta lettrice del primo manoscritto, a Francesca dell’Orto, amica e collega di sempre, e ad Annachiara Pizzuto, per la stima e l’incoraggiamento che non mi ha mai fatto mancare. Ringrazio anche tutti gli studenti torinesi con cui ho avuto modo di discutere in occasione di seminari e lezioni, in particolare Miryam Bergero, Andrea Bussone e Giulia Maccaferri. Infine, ma non in ordine d’importanza, un profondo grazie ad Anna, insostituibile compagna di viaggio. Torino, settembre 2011

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Capitolo primo

Alle radici della fenomenologia francese

“Plus d’une réduction, plus d’une langue, plus d’une voix”4. Così Jacques Derrida nomina la decostruzione in uno degli ultimi scritti, Et cetera5 – non cederemo alla tentazione di dire “definisce”, poiché la decostruzione esclude per sua stessa natura ogni definizione (ma forse Derrida protesterebbe anche per l’utilizzo del termine “natura” a proposito della decostruzione…). Decostruzione e riduzione? Sì, lo ha ricordato J.F. Courtine durante il convegno parigino in memoriam di Derrida nell’ottobre 20056: non si possono comprendere le ragioni della decostruzione senza pensarla fenomenologicamente, come de-moltiplicazione di ogni possibile riduzione, più in là – altrove e altrimenti – di ogni lingua e di ogni phoné. Rileggendo oggi, dopo quasi sei anni, il discorso di Courtine, si potrebbe Il presente capitolo riprende il nostro articolo, dal titolo Plus d’une voix. Alle radici della fenomenologia francese, apparso online in “Biblioteca husserliana. Rivista di fenomenologia”, aprile 2011, ISSN 1826-1604, www.biblioteca-husserliana.com. 5 Si tratta di un testo di Derrida la cui versione originale è comparsa in inglese come postfazione a Deconstructions, a User’s Guide, a cura di N. Royle, New York, Palgrave 2000 (in questo testo il curatore aveva chiesto a ognuno degli autori di occuparsi di “decostruzione e…”; ad esempio, Deconstruction and Cultural Studies, …and Drugs, … and Feminism, ecc.); trad. it. Et cetera (and so on, und so weiter, et ainsi de suite, etc.), Roma, Castelvecchi, 2006. 6 J. F. Courtine, L’abc de la déconstruction, relazione pronunciata nell’ottobre 2005 presso l’École Normale Supérieure di Parigi durante il convegno organizzato nel primo anniversario della morte di Derrida. 4

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Alle radici della fenomenologia francese

probabilmente affermare che le parole con cui Derrida sembra congedarsi dal pensiero che lo ha accompagnato per gran parte della sua vita ben si adattano alla situazione attuale della fenomenologia francese: “Plus d’une réduction, plus d’une langue, plus d’une voix”. Tuttavia, sebbene la via – per quanto angusta e impervia – che attraversa l’aporia e ne tenta un’uscita è senz’altro più ardua rispetto alle relative comodità che offre l’indugiare al suo interno, al riparo dal richiamo delle cose stesse, bisogna mettersi heideggerianamente “in cammino”, e tentare una mappatura dei percorsi più fecondi, capaci di condurre il più lontano possibile, in un luogo in cui sia possibile articolare fenomenologicamente quel “plus” che Derrida addita ritraendosene. Questo breve lavoro si pone dunque come compito quello di iniziare, anche solo in forma di abbozzo, un tale lavoro di mappatura e di ricognizione del territorio – un territorio composto di percorsi divergenti e tuttavia reciprocamente intrecciati – costituito dalla fenomenologia francese. Che cos’è, propriamente, la fenomenologia francese? Quale legittimità possiede la sua caratterizzazione “regionale”, quasi a indicare una sorta di produzione nazionale, in rapporto ad altri indirizzi fenomenologici? Quali sono le questioni fenomenologiche che la cultura francese ha ereditato e rielaborato sino a creare un indirizzo teorico particolare, moltiplicatosi ben presto in una pluralità di indirizzi fenomenologici autonomi e in dialogo con la fenomenologia “ortodossa” – posto che sia mai esistita un’ortodossia fenomenologica come tale – ossia quella tedesca? Vorremmo qui contribuire a una più completa posizione di questi interrogativi, pur nella coscienza della grande difficoltà – dovuta essenzialmente al loro carattere fortemente mediato – di fornire una risposta davvero ultimativa ad essi. Dal punto di vista storiografico, l’ingresso della fenomenologia nella cultura filosofica francese coincide quasi con la sua stessa nascita e, se per la lettura dei celeberrimi Pariser Vorträge di Husserl www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo primo

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e per la prima traduzione francese delle Cartesianische Meditationen bisogna aspettare il 1929-’307, tale incontro era stato anticipato da numerosi scambi avvenuti tra Husserl e la filosofia francese8. D’altra parte, il testo curato da B. Waldenfels, Phänomenologie in Frankreich9, conferma ampiamente quanto sia radicata la “passione fenomenologica” in Francia e testimonia la grande molteplicità di linee di ricerca – talvolta anche molto diverse tra loro – che definiscono il proprio spirito d’indagine all’insegna della fenomenologia. Tuttavia, ammesso che l’espressione “fenomenologia francese” non intenda indicare una sorta di “prodotto nazionale”, sorge la questione della legittimità di una ricerca teorica in questa particolare area culturale e non in altri luoghi che pure costituiscono snodi essenziali del dibattito fenomenologico10. La nostra scelta è E. Husserl, Méditations cartésiennes, Parigi, Vrin, 1930, tradotte da E. Lévinas e G. Peiffer (tit. orig. Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, L’Aia, Nijhoff, 1950; trad. it. Meditazioni cartesiane, Milano, Bompiani, 1997). 8 Com’è noto, nel febbraio 1929 Husserl pronuncia a Parigi, nell’“Amphithéâtre Descartes” della Sorbona, due conferenze intitolate Einleitung in die transzendentale Phänomenologie. Oltre ad aver tradotto queste lezioni, con aggiunte e rielaborazioni, col titolo di Méditations cartésiennes, nel 1930 Lévinas pubblica La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl, Milano, Jaca Book, 2002 (tit. orig. La théorie de l’intuition chez Husserl, Parigi, Vrin, 1930, ultima ed. 2001). Altri scambi erano intercorsi tra Husserl, J. Hering, autore di Phénoménologie et vie religieuse, Parigi, Alcan, 1925, e A. Koyré, che aveva frequentato alcuni seminari dello stesso Husserl. Per un quadro dettagliato degli scambi tra la filosofia francese e la fenomenologia husserliana prima del 1929, si veda J. Hering, La phénoménologie en France, in M. Farber (a cura di), L’activité philosophique contemporaine en France et aux Etats-Unis, Parigi, PUF, 1950, pp. 76‑95. 9 B. Waldenfels, Phänomenologie in Frankreich, Francoforte sul Meno, Surkamp, 1983. In quest’opera, l’autore non prende solo in considerazione i grandi nomi della prima generazione di fenomenologi francesi, quali Sartre, Merleau-Ponty, Dufrenne, Ricoeur, Lévinas, ma esamina la ricezione di Husserl e Heidegger in Francia, coinvolgendo anche autori che, seppur meno noti, hanno dato un contributo decisivo al cammino della fenomenologia post-husserliana. 10 Ad esempio, un indirizzo di ricerca particolarmente fecondo è lo studio dei manoscritti inediti di Husserl, che contribuiscono a ridefinire una fisionomia dell’autore per 7

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Alle radici della fenomenologia francese

stata determinata dalla condivisione di un principio di fondo – radicalizzato secondo direzioni teoriche anche del tutto divergenti – tipicamente assunto dall’ultima generazione di fenomenologi francesi, per i quali la fenomenologia ha conservato e custodito, anche nelle sue eresie e nei suoi rovesciamenti, la vocazione all’apertura delle cose o, in altri termini, l’idea che la conoscenza sia innanzitutto incontro delle e con le cose. Ciononostante, la pratica fenomenologica in Francia continua a destare perplessità da parte di molti critici: al di là dei consolidati giudizi storiografici, la tradizione spiritualista francese si è sviluppata a partire da un modello teorico di soggettività molto diverso da quello che ne ha caratterizzato l’evoluzione in senso cartesiano-trascendentale, e che ha contribuito in modo decisivo a tracciare una “via francese” più ricettiva di altre nei confronti dei nuovi stimoli che la fenomenologia husserliana proponeva. Nessuno stupore, allora, se Waldenfels – come ricorda C. Canullo in uno dei migliori saggi italiani dedicati alla fenomenologia francese11 – chiama Vorfeld und Umfeld della fenomenologia il razionalismo critico di Brunschvicg e Alain, il bergsonismo, il pensiero di Lavelle e Le Senne, il personalismo, l’esistenzialismo e tutta la tradizione che, ispirandosi a Maine de Biran, era conosciuta tradizionalmente come “filosofia riflessiva”. E tuttavia, giova rimarcarlo, la fenomenologia di Husserl si è sempre posta in totale contrasto col coscienzialismo che la maggior parte della filosofia francese condivideva: la sola figura concettuale dell’intenzionalità è il simbolo dello scacco che le correnti filosofiche tradizionali erano destinate a subire12. Lungo la prima metà del molti versi inedita e sconosciuta, rendendo meno efficaci molte critiche rivoltegli in tempi più o meno recenti. 11 C. Canullo, La fenomenologia rovesciata. Percorsi tentati in J. L. Marion, M. Henry e J. L. Chrétien, Torino, Rosemberg & Sellier, 2004. 12 Di tutto ciò abbiamo testimonianza da Merleau-Ponty che, nell’Avant propos della Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani, 2003, p. II (tit. orig. Phénoménolowww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo primo

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Novecento francese, un lento processo di cambiamento si mette in moto anche grazie a Husserl, cambiamento che non si riduce alla messa da parte dei modelli filosofici precedenti, ma che assomiglia piuttosto a una profonda compenetrazione dei motivi tradizionalmente riflessivi e delle nuove proposte husserliane: va da sé che una tale compenetrazione riguarda da vicino la questione della legittimità della stessa espressione fenomenologia francese13. Una simile considerazione è possibile esclusivamente se non si cede all’idea che quella francese sia l’unica strada ancora possibile per la fenomenologia, o che essa possa chiudersi entro i limiti del dibattito filosofico nazionale; infine, a patto che sia ancora possibile riconoscere in essa alcuni tratti fenomenologici strictu sensu, per quanto radicalizzati o rovesciati. Una passione eretica14, anche se in senso gie de la perception, Parigi, Gallimard, 1945), criticando l’idea di “riflessione”, si riferiva allo sfondo culturale francese, intriso di coscienzialismo e spiritualismo. Sempre da Merleau-Ponty scopriamo cosa stava accadendo in Francia, quando egli nota che la fenomenologia si lasciava “praticare e riconoscere come modo o stile”, che essa esisteva “come movimento, prima di essere giunta alla completezza della sua coscienza filosofica”. Questo modo di intendere la fenomenologia è criticato da Merleau-Ponty come un mancato incontro con la stessa, poiché la fenomenologia “è accessibile solo al metodo fenomenologico”. 13 A sostegno di quest’idea, osserviamo quanto segue: se tra la filosofia francese del XIX secolo e della prima metà del XX e la fenomenologia vi fosse un abisso incolmabile, non si comprenderebbe come un autore di spicco come Ricoeur si riferisca contemporaneamente a Husserl e a J. Nabert; quest’ultimo costituisce una fonte di ispirazione poi superata, ma lo stesso si potrebbe dire del suo superamento di Husserl in senso ermeneutico. 14 Com’è noto, la paternità della definizione della fenomenologia come eresia è di R. Ingarden; tuttavia, è stato Ricoeur a diffondere quest’espressione, soprattutto a proposito della fenomenologia francese più recente: “La fenomenologia, nel senso più ampio del termine, è la somma dell’opera husserliana e delle eresie nate da Husserl”. (P. Ricoeur, A l’école de la phénoménologie, Parigi, Vrin, 1986, p. 9, trad. nostra). L’espressione è stata poi recentemente utilizzata, sebbene in sensi diversi, da J. Greisch in Le cogito herméneutique. L’herméneutique philosophique et l’héritage cartésien, Parigi, Vrin, 2000, p. 19, e da I. Poma in Le eresie della fenomenologia, Napoli, Esi, 1996. Infine, ci permettiamo di rimandare anche al nostro saggio Con e oltre la fenomenologia. Le “eresie” fenowww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Alle radici della fenomenologia francese

soltanto analogico, in quanto ogni eresia implicherebbe l’esistenza di un’ortodossia, e un’ortodossia husserliana in senso stretto manca. Si tratterà allora di una fenomenologia eretica nei confronti dei testi fondatori e sviluppatasi a partire da una tradizione filosofica estremamente fertile, oggi troppo poco studiata ma che non cessa di far sentire la propria voce attraverso quelle che le sono seguite. In sintesi, l’“eresia” che i nouveaux phénoménologues mettono in atto consiste nel ripercorrere il metodo husserliano guidati dal principio dell’assoluta libertà d’iniziativa dei fenomeni nel loro incessante manifestarsi e nel loro costante interpellare la soggettività esponendola a nuove comprensioni. In altri termini, la fenomenologia, oltre a rappresentare il riferimento a un metodo e all’analisi dei propri testi fondatori, richiede anche e soprattutto uno spirito filosofico che scelga di impegnarsi a fondo affinché i fenomeni possano manifestarsi, darsi. De facto, al di là delle differenze interne a un movimento così ampio, le ultime due generazioni di studiosi francesi sono riuscite, probabilmente molto al di là delle proprie aspirazioni esplicite e nonostante le differenze d’impostazione, a consolidare sempre più quella che oggi è nota come “fenomenologia francese”. Tuttavia, come per ogni movimento culturale di una certa portata, sorge l’imbarazzo della sua definizione, dell’enumerazione dei suoi caratteri propri, dell’identificazione di quegli elementi fondamentali che – al di là delle differenze – ne individuano gli aspetti comuni e costanti. Ora, tale imbarazzo è particolarmente persistente nel caso della fenomenologia francese. Non tanto (o non solo) perché essa presenta al suo interno un’eterogeneità maggiore rispetto ad altri grandi orientamenti culturali contemporanei – l’esistenzialismo, menologiche di J. Derrida e J. L. Marion, cit. Complementare alla nozione di eresia è quella di rovesciamento, che costituisce il nucleo teorico del saggio di C. Canullo, La fenomenologia rovesciata. Percorsi tentati in J. L. Marion, M. Henry e J. L. Chrétien, cit. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo primo

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lo strutturalismo, l’ermeneutica, solo per citarne alcuni – tanto da mettere in dubbio la legittimità della stessa espressione “fenomenologia francese”, ma perché il suo punto d’avvio ha luogo su un terreno che è già di per sé accidentato, altamente problematico, per certi versi enigmatico. Questo punto d’avvio della fenomenologia francese, che ne è al tempo stesso quasi la battuta d’arresto, è ben rappresentato dalle vicende del dissidio – che, è bene sottolinearlo, i cosiddetti nouveaux phénoménologues considerano interno alla fenomenologia – tra Husserl e Heidegger. Da questo plesso di questioni, relative allo statuto della fenomenologia e al suo compito futuro, al suo metodo e alle sue possibilità di applicazione, si dipanano tutti i sentieri delle rielaborazioni francesi dei temi husserliani originari, al di là dei rovesciamenti e delle “eresie”: il dossier Husserl-Heidegger non cessa di nutrire le riflessioni critiche sull’identità della fenomenologia, a partire da quell’alternativa fondamentale rappresentata per l’appunto dai due filosofi tedeschi: scienza assoluta della coscienza o metodo teso al disvelamento dell’essere? Come sottolinea molto acutamente F. D. Sebbah15, è possibile rintracciare due linee-guida all’interno dell’eterogenea scuola fenomenologica francese: a) quella “massimalista” – Sebbah vi include soltanto E. Lévinas e M. Henry, ma riteniamo sia possibile associarvi anche il nome di J. L. Marion e di J. F. Courtine (e di molti altri che hanno preso attivamente parte ai dibattiti suscitati dalle riflessioni di questi) – tesa all’individuazione dell’originario, sia esso inteso come infinito, come vita o come donné, e che tende a pensare la fenomenologia come nuova filosofia prima; b) quella “minimalista” – qui è sufficiente un nome: Janicaud, a cui F. D. Sebbah, Une réduction excessive: òu en est la phénoménologie française?, in E. Escoubas – B. Waldenfels, Phénoménologie française et phénoménologie allemande, Parigi, L’Harmattan, 2000, pp. 155-173. 15

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Alle radici della fenomenologia francese

si può associare, sebbene in forma molto meno polemica, anche la posizione di Sebbah – che rigetta l’idea della fenomenologia come prima philosophia e ritiene che essa debba declinarsi in una pratica più modesta e conscia dei propri limiti costitutivi, pena la ricaduta nella mistificazione teologica, celata dietro la “passione per l’originario” di cui soffre il modello massimalista – passione che, secondo la celebre espressione di Janicaud, nasconde in realtà il “tournant théologique de la phénoménologie” e, in definitiva, un’uscita dal terreno stesso della fenomenologia. Ora, nonostante le profonde differenze teoriche tra gli esponenti di queste due lignées della fenomenologia francese, si può affermare con certezza che tutti si sono in qualche modo confrontati con le questioni suscitate dalla ricezione del pensiero husserliano in Francia attraverso la mediazione dei due tra i maggiori filosofi europei che abbiano inteso proseguire e condurre alle estreme conseguenze il pensiero di Husserl: M. Heidegger16 e M. Merleau-Ponty. Le due alternative fondamentali che Sebbah individua toccano un punto nevralgico Se, da un lato, Merleau-Ponty ha potuto agire direttamente all’interno della cultura francese attraverso la propria attività filosofica e accademica, la ricezione di Heidegger in Francia è principalmente legata alla figura di J. Beaufret. È sufficiente sfogliare un prezioso saggio del 2001, curato da Janicaud, intitolato Heidegger en France, Parigi, Albin Michel, 2001, per rendersi conto di quanto la ricezione di Heidegger in Francia sia pressoché inscindibile dal nome di Beaufret, fermamente convinto della necessità di una lettura di Heidegger in costante riferimento a Husserl. Nell’intervista di Janicaud, J. F. Courtine racconta: “[…] volendo preparare seriamente il concorso d’ammissione all’École [Normale Supérieure], era necessario andare al Liceo «Henry-IV», ma volendo «fare filosofia», avrei dovuto piuttosto frequentare l’insegnamento di Jean Beaufret a Condorcet: è a partire da là che sono stato posto sulle tracce di una lettura più approfondita di Heidegger attraverso la mediazione di Beaufret”. (ivi, p. 47) Analogo il caso di J. L. Marion, che afferma: “Non conoscevo Beaufret, e per me Heidegger era solo un nome nell’Introduction à l’existentialisme di Jean Wahl, che avevo sfogliato […]. Durante la «khâgne», fu la grande avventura, Beaufret. […] Ho capito che tutta la storia della filosofia che avevo imparato era già quella di Heidegger: senza saperlo, ero intriso della visione heideggeriana della storia della metafisica molto più profondamente di quanto non credessi, proprio attraverso i corsi di Beaufret” (ivi, p. 211). 16

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Capitolo primo

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per il futuro della fenomenologia francese: essa è destinata ad autosuperarsi in vista di qualcosa che non è più fenomenologia – secondo Janicaud, l’uscita rappresenta piuttosto una ricaduta nella teologia e nella metafisica – oppure può aspirare a spingere il proprio metodo sempre più a fondo, puntando a una sempre maggiore capacità ricettiva, dunque descrittiva, dei fenomeni? Scrive Sebbah: “Si tratterebbe di evitare di limitarsi al modo in cui Janicaud pone la questione rifiutando […] di nascondere il vero problema, e tentando di comprenderlo, questo problema, come facente parte integrante della fenomenologia stessa in ciò che essa ha d’irriducibilmente aporetico e fecondo allo stesso tempo – di fecondo nell’aporia e attraverso l’aporia”17. Considerazioni analoghe a proposito della “strana situazione” in cui si trova la fenomenologia post-husserliana si trovano nel bel saggio di R. Barbaras, Introduction à la phénoménologie de la vie18. A prescindere dalle profonde riflessioni sulla questione fenomenologica della vita, i cui echi henriens sono ben riconoscibili, Barbaras mette lucidamente a fuoco le tensioni fondamentali che caratterizzano attualmente la fenomenologia, e in particolar modo quella francese: da un lato, la tematizzazione dell’a priori della correlazione – vera colonna del pensiero husserliano – conduce alla scoperta della dimensione soggettiva trascendentale, irriducibilmente diversa rispetto alla coscienza naturale e alle cose; dall’altro lato, se anche la fenomenologia riconosce questa nuova sfera d’essere, essa persevera nel descriverla mediante le categorie che la correlazione mette fuori gioco, categorie dualiste (trascendentale/empirico, coscienza del pensiero/dell’oggetto, ecc.) derivate da una tradizione metafisica da cui ha sempre inteso affrancarsi. Non riuscendo a liberarsi delle determinazioni concetF. D. Sebbah, Une réduction excessive: òu en est la phénoménologie française?, cit., p. 157. 18 R. Barbaras, Introduction à la phénoménologie de la vie, Parigi, Vrin, 2008. 17

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tuali tipiche della tradizione occidentale, la fenomenologia non riesce a tematizzare la soggettività trascendentale se non in modo negativo: “c’è dunque, all’interno della fenomenologia, come una tensione costitutiva tra il campo di questioni che essa apre attraverso il suo gesto proprio e le categorie che utilizza per appropriarsene, tra la sua dimensione propriamente fenomenologica e quella metafisica […]”19. Ad esempio, l’epoché è intesa da Husserl come riduzione alla sfera della coscienza intenzionale, cioè in direzione opposta rispetto all’attività costituente che pure è il tratto costitutivo della soggettività trascendentale: tale duplicità si riproduce al livello della distinzione tra coscienza empirico-psicologica e coscienza trascendentale, dualità che finisce per scavare un solco sin nel più profondo dell’Io. Come si vedrà nei prossimi capitoli, la soggettività trascendentale si trova allora a percorrere costantemente il limite tra la propria dimensione genetico-passiva e quella costituente-attiva, con “conseguenze rovinose per l’unità del soggetto e per la sua consistenza fenomenologica. Si tratta sempre di ricucire ciò che è stato squarciato da una concettualità inadeguata, di un rattoppo in cui non si ricostituisce mai la solidità del tessuto di partenza. In realtà, questa tensione è al centro del movimento fenomenologico stesso e non sarebbe esagerato affermare che lo sviluppo della fenomenologia post-husserliana ha per motore la coscienza di questa difficoltà iniziale e dunque la volontà, sempre affermata ma mai del tutto compiuta, di rispettare la vera figura della fenomenalità e del soggetto che la comanda”20. Anche Barbaras sottolinea dunque il carattere profondamente accidentato del terreno su cui la fenomenologia si muove sin dalle origini; tuttavia, ecco affiorare l’interrogativo che ci accompagnerà lungo tutto il nostro percorso fenomenologico: è possibile risolvere questa tensione interna della 19 20

Ivi, p. 17. Ivi, p. 18.

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Capitolo primo

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fenomenologia, per così dire “correggendo” i passi falsi husserliani, oppure una tale zona d’ombra è costitutiva di ogni pratica fenomenologica? È lo stesso Barbaras a metterci su questa pista, allorché afferma che “non è affatto sicuro che le fenomenologie posthusserliane si liberino davvero dei punti in comune col pensiero del maestro. Questi punti in comune sono meno rintracciabili, la distanza nei confronti della fenomenalità è minore, ma persistono sotto altra forma: più che superati, sono spostati”21. Tentiamo allora di percorrere questa via indicata da Sebbah e da Barbaras, mettendo alla prova l’operatore fenomenologico per eccellenza, la riduzione fenomenologica, che non casualmente rappresenta la pietra d’inciampo del rapporto – filosofico e personale – tra Husserl e Heidegger. Nelle vicende teoretiche della riduzione, e dalle questioni che ne derivano, si condensano le stesse condizioni di possibilità della fenomenologia e del suo compito, presente e futuro. Utilizzeremo – secondo l’indicazione di Sebbah – una definizione per così dire “minima” di riduzione, secondo cui essa consiste nel “ricondurre ciò che appare al proprio apparire”, dunque una definizione meramente negativa, che non indichi alcun ambito raggiunto dalla riduzione stessa – che esso consista nella coscienza (Husserl) o nell’essere (Heidegger), nell’a priori del Mondo (Merleau-Ponty), nella Vita (Henry) o nella donation (Marion). Ciò perché essa possa fungere da denominatore comune per tutti i possibili indirizzi fenomenologici, in quanto la stessa fenomenologia potrebbe essere definita come rivendicazione dell’istanza della riduzione. Il che non significa che tutti i fenomenologi la pratichino sino in fondo: ad esempio, è noto come Merleau-Ponty affermi che “il più grande insegnamento della riduzione è l’impossibilità di una riduzione completa”22. Tuttavia, anche chi – come appunto 21 22

Ibidem. M. Merleau-Ponty, Introduzione a Fenomenologia della percezione, cit., p. 23.

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Alle radici della fenomenologia francese

Merleau-Ponty – ritiene che la riduzione non possa essere compiuta sino in fondo, perciò stesso se ne occupa, dal momento che mostrarne la costitutiva incompiutezza significa ancora in qualche modo praticarla. Proprio sulla nozione di riduzione in quanto “ri(con)duzione” si consuma il dissidio tra Husserl e Heidegger: ri(con)duzione di ciò che appare all’evidenza assoluta del suo apparire come dato per una coscienza trascendentale, oppure riconduzione dell’ente al proprio essere, ossia di ciò che appare – ma ancora di più di ciò che non appare – alla propria origine donante? Questa frattura interna alla fenomenologia – interna perché inscritta nel cammino stesso della riduzione – fa sì che ognuna delle due alternative non riesca mai a escludere totalmente l’altra, ragion per cui la cultura francese insiste fortemente su una lettura congiunta dei due filosofi tedeschi. D’altra parte, sebbene per vie differenti, la questione del rapporto tra fenomenologia e ontologia si presenta anche nel pensiero di Merleau-Ponty, allorché il modello trascendentale proposto nella Fenomenologia della percezione viene approfondito mediante le figure del visibile e dell’invisibile. Eppure la stessa inscindibilità è alla base di una tensione acutissima tra chi concepisce la fenomenologia come chiarificazione dell’a priori del Mondo in quanto condizione ultima dell’apparire di ogni fenomeno (da Merleau-Ponty a Barbaras, Maldiney, Garelli e altri) e chi persegue il compito di pervenire per via riduttiva a un elemento originario, fenomenologicamente primo, oltre il quale non sia possibile risalire (Lévinas, Henry, Marion solo per citare i maggiori). Vale dunque la pena di “riaprire una ferita”, di volgersi indietro, di indugiare su una soglia la cui fecondità – non solo per il pensiero francese – è ancora, almeno per certi versi, insondata.

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Capitolo secondo

De-figurazioni spaziali del trascendentale

In una serie di lezioni pronunciate nel 1907 e raccolte sotto il titolo L’idea della fenomenologia, Husserl fa molte volte riferimento a due figure “spaziali” del tutto particolari, quella del “terreno” (Boden) e quella della “sfera” (Sphäre); nella seconda lezione afferma: “Ogni vissuto dell’intelletto e ogni vissuto in generale, in quanto sia attuato, può essere ridotto all’oggetto di un puro guardare e afferrare, e in questo guardare esso costituisce datità assoluta. Esso è dato come un essente, come un questo-qui, dubitare del cui essere non ha proprio nessun senso. […] In questo mi muovo sopra un terreno assoluto, cioè: questa percezione è, e rimane, finché dura, un assoluto, un questo-qui, qualcosa che è in sé quello che è, qualcosa con cui posso misurare, come con un metro inappellabile, che cosa l’essere e l’esser dato possono significare […]. Per ora prendiamo nota che una sfera di datità assoluta si lascia segnalare fin dall’inizio, e si tratta proprio della sfera che ci occorre, perché sia possibile mirare a una gnoseologia”23. Queste concettualità spaziali relative al dominio della datità fenomenologica trovano ampio spazio anche nella terza lezione, E. Husserl, L’idea della fenomenologia, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 58-59 [corsivo nostro]; tit. orig. Die Idee der Phänomenologie, in Husserliana, vol. II, L’Aia, Nijhoff, 1950. 23

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De-figurazioni spaziali del trascendentale

dove si legge: “[…] e così stiamo già calando le ancore presso la costa della fenomenologia, i cui oggetti sono posti come essenti, alla maniera in cui la scienza pone i suoi oggetti d’indagine, ma non sono affatto posti come esistenze in un io o in un mondo temporale, ma come datità assolute, afferrate nello sguardo puramente immanente: qui l’immanente puro è da caratterizzare in primo luogo per mezzo della riduzione fenomenologica: intendo appunto questo qui, non ciò che esso intenziona in direzione trascendente, ma ciò che esso è in se stesso, ciò come cui esso è dato. Discorsi siffatti sono naturalmente solo circonlocuzioni ed espedienti per guidare a vedere la prima cosa che qui c’è da vedere, la distinzione fra le quasi-datità dell’oggetto trascendente e l’assoluta datità del fenomeno stesso”24. In questo passo emerge l’immagine della “costa” come punto d’accesso a un nuovo sguardo, appunto quello fenomenologico: ma che cos’è la “costa” se non una linea di tangenza e di passaggio che separa il mare dalla terra, una traccia mobile che le maree ridisegnano continuamente, punto di transito obbligato verso la terraferma ma, allo stesso tempo, luogo pericoloso dove ci si potrebbe arenare tra le secche o essere scaraventato dal vento sugli scogli? Ed ecco comparire, infine, la “terra”: “Il nostro mirare a una critica della conoscenza ci porta a un inizio, a una terraferma di datità, della quale dobbiamo poter disporre e della quale sembra che abbiamo bisogno prima che di ogni altra cosa: per fondare l’essenza della conoscenza io devo naturalmente possedere come datità la conoscenza in tutte le sue forme questionabili, e in modo che questa datità non abbia in sé nulla della problematicità che la rimanente conoscenza, per quante datità essa sembri offrire, si porta con sé. Il campo della pura conoscenza ce lo siamo assicurato; ora possiamo

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Ivi, p. 76. [corsivo nostro].

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Capitolo secondo

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passare a studiarla e stabilire una scienza dei puri fenomeni, una fenomenologia”25. Campo, sfera, costa, terraferma: tutti termini che ci rimandano a un luogo, del tutto particolare, non circoscrivibile in modo determinato, un luogo altro rispetto al mondo naturale, una dimensione che si apre grazie a un altro sguardo rivolto alle cose, ricondotte alla propria fenomenalità essenziale. Pure coincidenze, si obietterà, mere immagini allegoriche, il cui valore è al massimo letterario, non certo filosofico. Eppure, queste nozioni ricorrono in numerosi altri luoghi testuali, disseminati lungo tutto l’arco di produzione filosofica husserliana; per esempio, in Ideen I, si legge: “Ora, nell’atteggiamento fenomenologico, noi […] «mettiamo tra parentesi» le [tesi cogitative] già compiute e «non ce ne serviamo» nelle nuove ricerche; invece di vivere in esse e di compierle, compiamo piuttosto gli atti della riflessione diretti sopra di esse e afferriamo queste tesi come quell’essere assoluto che esclusivamente sono. Ora noi viviamo completamente in questi atti di secondo grado, il cui dato è l’infinito campo degli assoluti vissuti – il campo fondamentale della fenomenologia”26. Affermazione a cui fa eco la seguente: “[…] questo campo, questa sfera d’essere delle origini assolute, è accessibile all’indagine intuitiva e racchiude un numero infinito di conoscenze evidenti della più alta dignità scientifica”27. Ivi, p. 77. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, vol. I, Torino, Einaudi, 1965, ultima ed. 2002, pp. 124-125 (tit. orig. Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, vol. I, in Husserliana, vol. III, L’Aia, Nijhoff, 1976). Le espressioni (per noi sinonime) “campo”, “sfera”, “suolo”, “piano”, “regno” e “territorio fenomenologico” ricorrono anche alle pp. 206, 210, 214, in Filosofia prima, Roma, Rubettino, 2007, pp. 97, 158, 165 (tit. orig. Erste Philosophie, in Husserliana, vol. VII, L’Aia, Nijhoff, 1959) e nelle Meditazioni cartesiane, Milano, Bompiani, 1997, pp. 10, 30, 54, 62, 66 (tit. orig. Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, in Husserliana, vol. I, L’Aia, Nijhoff, 1950). 27 Ivi, pp. 140-141. 25 26

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De-figurazioni spaziali del trascendentale

Sembra dunque emergere una duplicità di campi, territori, sfere: da un lato, l’ambito naturale già sempre disponibile allo sguardo comune o scientifico, dall’altro il campo d’indagine fenomenologica, accessibile mediante un passaggio arduo e impervio, che consiste nel rivolgimento dello sguardo dalla cosa al fenomeno nel suo darsi assoluto alla coscienza intenzionale: “Se il territorio fenomenologico si offrisse con la stessa immediata ovvietà dei territori dell’atteggiamento caratteristico dell’esperienza naturale o fosse accessibile mediante un semplice passaggio da questo atteggiamento a quello eidetico, come a partire dallo spazio empirico troviamo il territorio geometrico, in tal caso non ci sarebbe bisogno di riduzioni circostanziate né delle difficili meditazioni che esse richiedono”28. D’altra parte, il territorio fenomenologico delineato da Husserl possiede dei limiti (Grenzen) – o meglio sarebbe dire dei bordi dell’illimitatezza29, ossia dei segni di delimitazione o di passaggio sempre di nuovo da ritracciare rispetto allo sguardo “naturale”: “Coscienza offerente in senso pregnante e intuitiva, in contrapposizione alla non-intuitiva, e coscienza chiara, in contrapposizione a quella non-chiara, si identificano. Allo stesso modo coincidono i gradi della datità, della intuitività, della chiarezza. Il limite negativo è l’oscurità, il limite positivo è la piena chiarezza, la piena intuitività, la piena datità”30. Vi è dunque un’area compresa fra la “vaga lontananza” e la “piena chiarezza”31, tra la “non-chiarezza fluente” Ivi, p. 150. È Husserl stesso a suggerire questa figura dell’illimitatezza: “[…] l’intera connessione non è e non può mai esser data in un unico sguardo puro; tuttavia, in un certo modo, ma per principio ben diverso, è anche essa intuitivamente afferrabile, e precisamente nel modo della illimitatezza nel progresso delle intuizioni immanenti, cioè procedendo dal vissuto fissato a nuovi vissuti appartenenti al suo orizzontedi vissuti”. (Ivi, p. 207). 30 Ivi, p. 164. 31 Ivi, p. 163. 28 29

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Capitolo secondo

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e la “vicinanza normale”32, tra l’adombramento del fenomeno e la sua piena datità per la coscienza. La tematizzazione del “campo fenomenologico” è ancora più marcata in Ideen II, in cui Husserl pone l’accento sul carattere dinamico del territorio in cui agiscono forze intenzionali di segno opposto – l’una che si dirige dalla coscienza al fenomeno, l’altra che procede secondo il verso opposto, secondo quella che chiamerà doppia polarità di noesi e noema – e che ne impedisce l’oggettivazione in senso geometrico, ma rimanda piuttosto a un genere di spazio altro rispetto a quello naturale, accessibile a partire da quest’ultimo solo mediante un mutamento profondo del rapporto tra l’Io e le cose. “In un certo senso, molto generale, l’io si dirige sempre verso l’oggetto, ma in un senso particolare, dall’io puro procedono raggi egologici che tendono verso l’oggetto, e nello stesso tempo dall’oggetto emanano raggi in direzione contraria”33. E ancora: “L’io è il […] centro d’irradiazione, oppure il centro di convergenza di tutti i raggi della vita della coscienza. […] Spesso, se non sempre, l’irradiazione è anzi duplice, in avanti e indietro: da un lato, un’irradiazione che procede dal centro, attraverso gli atti, verso gli oggetti; dall’altro, in senso opposto, raggi che dagli oggetti tendono verso il centro”34. Così, “nella coscienza assoluta abbiamo sempre un campo d’intenzionalità, e lo sguardo spirituale dell’attenzione si dirige ora su questo ora su quello”35. A prescindere dalla priorità che Husserl attribuisce al raggio intenzionale che parte dall’Io e si dirige all’oggetto, priorità che introduce alla delicata questione dell’idealismo husserliano – troppo spesso ritenuto Ibidem. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, vol. II, Torino, Einaudi, 2002, p. 103 (tit. orig. Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, vol. II, in Husserliana, vol. III/2, L’Aia, Nijhoff, 1976). 34 Ivi, p. 110. 35 Ibidem. 32 33

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De-figurazioni spaziali del trascendentale

un’involuzione della fenomenologia, anche all’interno della cerchia dei primi lettori e interpreti di Husserl, come ad esempio Fink e lo stesso Heidegger –, quel che qui più ci interessa è il profilarsi sempre più evidente dello sguardo fenomenologico come accesso a un “campo” che non ha nulla a che fare con uno spazio fisico, ma che è “delimitato” dai raggi intenzionali intrecciati attorno alle polarità noetiche e noematiche (coscienza e fenomeno), in una dinamica di avvicinamento o di fluttuazione fino alla scomparsa sullo “sfondo” dell’oggetto intenzionato. Abbiamo a che fare, dunque, con uno spazio i cui “bordi” mobili si ridefiniscono costantemente per mezzo dei continui “passaggi” fenomenici dalla piena presenza evidente alla lontananza dell’assenza36, e viceversa. Anche la riflessione matura di Husserl sembra non poter fare a meno di quest’ordine di concettualità: nel corso del 1923-’24 intitolato Filosofia prima, egli riafferma la centralità della “critica” fenomenologica per il raggiungimento di una “sfera d’essere” del tutto autonoma rispetto al mondo naturale: “Infatti, è soltanto per mezzo di questa critica che è venuto alla luce l’io trascendentale come soggettività essente puramente in sé e per sé, come sfera d’essere che può essere considerata di per sé anche se l’universo non esiste o se ogni presa di posizione riguardo la sua esistenza rimane inibita”37. Affermazione a cui fanno eco diversi passi dei celebri Discorsi parigini tenuti da Husserl nell’Anfiteatro Descartes della Sorbonne a Parigi nel febbraio 1929 e delle Meditazioni cartesiane: “Volgiamo la nostra attenzione al fatto che a noi o a me che filoScrive Husserl a proposito della doppia dinamica di avvicinamento-allontanamento del fenomeno dalla coscienza: “L’essenza della coscienza comporta inevitabilmente che ogni atto ha un suo orizzonte oscuro e che quando l’io si rivolge a nuove linee della cogitatio l’atto precedentemente compiuto sprofonda nel buio. Quando lo sguardo dell’io se ne estrania, l’atto si trasforma e si dissolve in un orizzonte vago. […] Tutto diventa sfondo. Tutto diventa oscuro”. (Ivi, p. 112, corsivo nostro). 37 E. Husserl, Filosofia prima, cit., p. 96. 36

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Capitolo secondo

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sofo l’epoché fenomenologica ha presentato assieme all’io assolutamente apodittico una nuova sfera d’essere infinita, anzi una sfera di una nuova esperienza trascendentale”38, e ancora: “Il piano d’essere naturale è secondario nel suo valore d’essere; esso presuppone costantemente quello trascendentale. Il metodo fenomenologico fondamentale dell’epoché trascendentale, in quanto riconduce al piano trascendentale, si chiama dunque riduzione fenomenologico-trascendentale”39. Tutte queste indicazioni trovano un’adeguata sintesi in un passo decisivo delle Meditazioni: “[…] noi insistiamo nel proposito di fare emergere il campo infinito dell’esperienza trascendentale. L’evidenza cartesiana della proposizione ego cogito, ergo sum rimane infruttuosa, poiché questa proposizione non solo manca di spiegare il puro senso metodologico della epoché trascendentale, ma non induce nemmeno a porre l’attenzione sul fatto che l’ego si può esporre all’infinito e sistematicamente mediante l’esperienza trascendentale. L’ego costituisce infatti un possibile campo di lavoro, del tutto proprio e particolare, in quanto si rapporta a tutto il mondo e a tutte le scienze oggettive mentre tuttavia non presuppone che il mondo e le scienze oggettive abbiano un valore d’essere; è perciò che rimane separato da tutte queste scienze alle quali non è in alcun modo limitato”40. Va qui messo in luce il carattere “emersivo” del campo di lavoro trascendentale, che si apre alla visibilità attraverso il rivolgimento dello sguardo fenomenologico, ossia mediante la riduzione, campo che non risulta limitato dall’ambito delle scienze oggettive, cioè dalla sfera delle relazioni naturali tra l’io e il mondo: ci troviamo in un altro spazio, su un terreno senza confini, “esposto all’infinito”, ossia infinitamente – E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 10. Ivi, p. 54. 40 Ivi, p. 62. Poco oltre, Husserl ribadisce: “L’esperire trascendentale mira solo alla sfera d’essere egologica assoluta che rimane sempre intatta come sfera delle intenzioni ridotte a una pura mancanza di presupposti” (Ivi, p. 66). 38 39

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De-figurazioni spaziali del trascendentale

sempre di nuovo – aperto a un fuori mobile e originario, come tale contemporaneamente inoggettivabile e tuttavia fonte e luogo di ogni spazialità e di ogni fenomenalità. Ancora una volta, ci troviamo dinanzi a un luogo-non-luogo di passaggio che mette in comunicazione l’ambito esteriore del mondo – che viene costantemente sospeso per mezzo della riduzione – con un altrove (determinato da Husserl come Ego trascendentale, ma che vedremo ben presto misurarsi con ulteriori difficoltà) che è apertura originaria verso la manifestatività dei fenomeni. Si possono agevolmente trovare espressioni di tenore analogo nella prima sezione della Crisi delle scienze europee, capolavoro della maturità di Husserl: “Io sono necessariamente, perché sono colui che opera [l’epoché]. Proprio per questo trovo quel terreno apodittico che cercavo, e che esclude assolutamente qualsiasi dubbio. […] Mi rimane dunque tutta la vita dei miei atti, la vita dell’esperienza, del pensiero, della valutazione, ecc.; anzi questa vita continua a procedere, ma ciò che in essa mi stava davanti agli occhi come «il» mondo, il mondo che era e valeva per me, è diventato per me un mero fenomeno in tutte le determinazioni che gli ineriscono. […] Avremmo dunque qui una sfera d’essere assolutamente apodittica, inclusa nel titolo ego. […] Mediante l’epoché io mi sono spinto fino a quella sfera d’essere che precede di principio tutto ciò che può essere per me e le sue sfere d’essere, in quanto è la loro premessa assolutamente apodittica”41. Com’è noto, la Crisi delle scienze europee costituisce il culmine di quel processo che ha visto il pensiero husserliano declinarsi sempre più in un modello fenomenologico trascendentale – ben note sono le accuse, come vedremo non semE. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1961, pp. 105-106 (tit. orig. Die krisis der europäischen Wissenschaften, in Husserliana, vol. VI, L’Aja, Nijhoff, 1959). Poche pagine dopo, Husserl aggiunge: “Anche la scienza obiettiva pone i suoi problemi sul terreno di questo mondo che è sempre già prima, che è già a partire dalla vita pre-scientifica”. (Ivi, p. 140). 41

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Capitolo secondo

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pre pertinenti, di idealismo –, incentrato sull’assoluta indubitabilità dell’ego come polarità noetica dei vissuti intenzionali; come abbiamo mostrato, nei testi husserliani sin qui richiamati, le defigurazioni “spaziali” che Husserl utilizza per illustrare il proprio modello fenomenologico chiamano in causa un terreno, un campo, una sfera originari, un territorio mobile che ha il suo centro nella coscienza intenzionale e che configura i suoi bordi in relazione al “dirigersi-verso” mediante cui l’intenzionalità stessa si rapporta ai fenomeni. Soffermiamoci un istante su questo punto. In primo luogo, Husserl determina la Lebenswelt come dominio di evidenze originarie: “Il mondo-della-vita c’è sempre stato, prima di qualsiasi scienza, qualunque sia il modo d’essere che esso ha nell’epoca della scienza. Si può quindi porre il problema del modo d’essere del mondo-della-vita in sé e per sé; ci si può porre completamente sul terreno di questo mondo direttamente intuitivo, mettendo fuori gioco tutte le opinioni e le nozioni della scienza obiettiva”42. E ancora: “Il contrasto tra l’elemento soggettivo del mondo-dellavita e del mondo obiettivo e vero sta semplicemente in questo: che quest’ultimo è una sustruzione teoretico-logica, la sustruzione di qualche cosa che di principio non è percettibile, di principio non esperibile nel suo essere proprio, mentre l’elemento soggettivo del mondo-della-vita si distingue ovunque e in qualsiasi cosa proprio per la sua esperibilità. Il mondo-della-vita è un regno di evidenze originarie”43. Ritroviamo dunque costantemente il riferimento alla dimensione “spaziale” per indicare il livello originario della datità evidente e assoluta; ciò che Husserl indicava nei testi programmatici – ad esempio L’idea della fenomenologia e le Idee – con terreno, campo, sfera, si “allarga” qui sino a diventare un mondo: “[…] ci tro42 43

Ivi, p. 152. Ivi, p. 156.

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viamo di fronte a due elementi: il mondo-della-vita e il mondoobiettivo, due mondi che stanno tuttavia in una relazione. Il sapere scientifico-obiettivo si fonda sull’evidenza del mondo-della-vita. Per colui che è scientificamente attivo, e per la comunità scientifica di lavoro, il mondo-della-vita è già dato ed è insieme il terreno delle sue occupazioni, ma ciò che su di esso viene costruito è un che di nuovo e diverso. […] l’intera scienza rientra nel mondo-della-vita, nel mondo-della-vita meramente soggettivo-relativo. […] Il concreto mondo-della-vita è dunque il terreno su cui si fonda il mondo scientificamente vero, e che insieme lo include nella propria concrezione universale”44. Inoltre, il mondo-della-vita non può rimanere estraneo al problema dell’intersoggettività, anzi ne è una chiara risposta, con una marcata accentuazione della dimensione comunitaria dell’oggettività scientifica. Scrive Husserl: “Per chiarire la scienza obiettiva, e tutte le altre attività umane, dev’essere dapprima considerato il concreto mondo-della-vita, e dev’essere considerato nell’universalità realmente concreta in cui esso, in quanto attualità e in quanto orizzonte, include in sé tutti i complessi di validità raggiunti dagli uomini rispetto al mondo della loro vita in comune, e in cui, in definitiva, li riferisce nel loro complesso a un nucleo del mondo che dev’essere dipanato per via astrattiva: il mondo delle dirette esperienze intersoggettive”45. Husserl è ben consapevole dei problemi e delle difficoltà interpretative connesse al concetto di Lebenswelt come terreno di approdo – intersoggettivo e apodittico – della riduzione fenomenologica: come combinare l’esigenza di oggettività propriamente fenomenologica con le incancellabili e ineludibili “zone d’ombra” della datità, cioè con quelle datità fluttuanti e opache che non giungono a piena visibilità, che non si offrono alla com44 45

Ivi, pp. 159-160. Ivi, p. 162.

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pleta costituzione da parte dell’ego? A questo punto, in un passo della Crisi forse non ancora sufficientemente analizzato, queste due istanze, apparentemente opposte, vengono sapientemente bilanciate attraverso l’utilizzo della nozione di orizzonte vivente: “Tutto ciò che è attivamente presente alla coscienza e, correlativamente, l’attivo aver-coscienza, il dirigersi-su, l’occuparsi-di, è sempre circondato da un’atmosfera di validità mute e occultate ma implicitamente fungenti, da un orizzonte vivente, su cui l’io attuale può dirigersi volontariamente riattivando vecchi risultati, considerando coscientemente i rilievi appercettivi e trasformandoli in intuizioni. Quindi, in virtù di questa inerenza a un orizzonte (Horizonthaftigkeit) costantemente fluente, qualsiasi validità direttamente prodotta nella vita mondana naturale presuppone sempre altre validità; essa risale mediatamente o immediatamente a un sottofondo necessario di validità oscure ma occasionalmente riattivabili, le quali, tutte insieme e con gli atti veri e propri, costituiscono una connessione di vita inscindibile”46. Nella nostra prospettiva, si tratta di un passo di importanza decisiva, che sarebbe di per sé sufficiente a metter fuori gioco ogni superficiale accusa di iper-idealismo nei confronti di Husserl: se questa categoria può ben esser mantenuta a livello gnoseologico, lo sarà non nel senso secondo cui l’ego “crea” dal nulla ogni significazione possibile, ma nel senso che ogni datità è per-la-coscienza e non è pensabile al di fuori di questo rapporto. Insomma, la hylé fenomenologica, la materia fenomenica che si offre alla coscienza intenzionale lo fa a Ivi, p. 177. Ciò vale anche per la sfera della percezione: “La singolarità – per la coscienza – in sé non è nulla; la percezione di una cosa è percezione della cosa nel suo campo percettivo. E come la cosa singola della percezione ha un senso soltanto entro un orizzonte aperto di percezioni possibili, in quanto ciò che è propriamente percepito rimanda a rappresentazioni percettive che gli ineriscono concordemente, la cosa ha ancora una volta un orizzonte: di fronte all’orizzonte interno, c’è un orizzonte esterno, appunto perché la cosa è in un campo di cose; e ciò rimanda infine al mondo nel suo complesso, al mondo della percezione”. (Ivi, p. 189). 46

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partire da se stessa e secondo i propri modi di datità, del tutto indipendenti dall’ego: idealismo fenomenologico significa pertanto esclusivamente che, se i fenomeni si mostrano, si mostrano alla coscienza intenzionale, e fuori da quel rapporto ogni datità decade e si sfalda. Tant’è che, nel passo appena richiamato, l’ego pare tutt’altro che “padrone e giudice della datità”; al contrario, il suo “dirigersi-verso” è sempre circondato da “validità mute”, ossia da semi-datità fluttuanti nella forma dell’immaginazione, della rimemorazione o del tutto assenti, ma pur sempre implicitamente fungenti: pertanto, nel campo di forze che abbiamo visto costituirsi attorno all’ego come polarità intenzionale, egli persegue l’oggettività intersoggettiva come “compito comunitario”, ma è ben lungi da realizzarlo compiutamente, in quanto ogni orizzonte vivente lo rinvia ad altri sfondi, entro cui forze diverse e opposte si sommano e si oppongono, in quel gioco di vicinanza e lontanza, visibilità e invisibilità dei fenomeni che lo costringe sempre di nuovo a ritracciare i bordi del luogo fenomenologico che occupa “a titolo di affittuario”47. Tutto questo ampio dibattito sulla portata dell’idealismo husserliano ha al suo centro la discussione sul senso dell’intersoggettività, sul quale torneremo tematicamente più oltre: si tratta senz’altro sia di uno dei temi più complessi per la fenomenologia trascendentale, su cui Husserl è tornato innumerevoli volte precisandone progressivamente i caratteri particolari, sia di un punto essenziale per le nostre analisi. Scrive Husserl: “Possiamo parlare di una costituzione intersoggettiva del mondo, includendovi così il sistema complessivo dei modi di datità ancora celati, ma anche dei modi egologici di validità; attraverso questa sostituzione, se noi ci apL’espressione si trova in J. L. Marion, Dato che, Saggio per una fenomenologia della donazione, Torino, Sei, 2001, p. 393 (tit. orig. Etant donné. Essai pour une phénoménologie de la donation, Parigi, PUF, 1998).

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plichiamo a dispiegarla sistematicamente, il mondo che è per noi diventa comprensibile, diventa concepibile come una formazione di senso basata su intenzionalità elementari. […] Il titolo di intenzionalità definisce l’unica reale spiegazione, l’unica effettiva comprensione. […] Tutto quanto abbiamo trattato finora rappresenta naturalmente soltanto un inizio, addirittura soltanto l’inizio del chiarimento del mondo percettivo – e il mondo percettivo stesso non è altro, in definitiva, che uno strato”48. L’intersoggettività racchiude e ricapitola in sé tutti gli altri temi fenomenologici, segnando ogni attività intenzionale e dunque ogni rapporto dell’ego con la datità: “La sintesi dell’intersoggettività coinvolge tutto: il mondo-della-vita intersoggettivamente identico serve ovunque da indice intenzionale per le molteplicità delle apparizioni, le quali, connesse in una sintesi intersoggettiva, sono ciò attraverso cui tutti i soggetti egologici si dirigono verso il mondo comune e verso le cose che sono in esso, cioè verso il campo di tutte le attività connesse nel noi generale”49. Il campo fenomenologico raggiunto per riduzione deve dunque fare i conti con l’intersoggettività come sua dimensione costitutiva: rapportarsi intenzionalmente al mondo dei fenomeni implica muoversi in un orizzonte intersoggettivo, costantemente aperto all’alterità. Scrive Husserl: “È impensabile, e non è un mero fatto, che io sia un uomo nel mondo senza essere un uomo. Anche se nel mio campo percettivo non c’è nessuno, esistono altri uomini reali, che noi conosciamo, oppure che, in quanto costituiscono un orizzonte aperto, possiamo incontrare. Io sono di fatto in un presente co-umano e nell’orizzonte aperto dell’umanità, io mi so di fatto in un legame generativo, nel flusso unitario della storicità, in cui questo presente, il presente umano e il mondo di cui esso è cosciente, è il presente storico di un passato 48 49

E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., pp. 194-195. Ivi, p. 199.

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storico e di un futuro storico”50. E ancora: “Nell’intenzionalità vivente-fluente che costituisce la vita di un soggetto egologico sono già preliminarmente implicati, intenzionalmente, tutti gli altri io nel modo dell’entropatia e dell’orizzonte dell’entropatia. Un’epoché universale che comprenda realmente se stessa rivela che per le anime, nella loro essenza propria, non esiste una reale separazione, un rapporto di esteriorità. […] Così il mondo che semplicemente è, e quindi anche la natura, si trasforma nel fenomeno «mondo» a tutti comune, mondo per tutti i soggetti reali e possibili; nessun soggetto può sottrarsi all’implicazione intenzionale per cui rientra nell’orizzonte di tutti i soggetti”51. Senza alcun dubbio la pubblicazione dei manoscritti inediti sull’intersoggettività ha offerto molte occasioni di confronto con un’immensa fonte di riflessioni su questi temi, non in opposizione ma in costante “reazione” con i testi editi che abbiamo richiamato finora, una sorta di “laboratorio” in cui l’intersoggettività emerge e perviene alla propria autocomprensione fenomenologica. Lungo le diverse periodizzazioni dei manoscritti, ci si accorge facilmente di un costante intreccio tra la tematica dell’intersoggettività e quella della “sfera” o “terreno” originario; nel manoscritto n.  32 del 1927, Husserl scrive: “Nella mia sfera originaria […], faccio anche l’esperienza del corpo estraneo, che concepisco tuttavia come carne, e come carne che possiede delle proprietà corporee nello stesso istante in cui mi trovo, anche se io non le percepisco e non posso percepirle. Appresentazione”52. E ancora: “L’insieme di ciò che assume per me il prodigioso titolo di sfera originaria d’esperienza è indicato in una modificazione, a titolo di appresentazioIvi, p. 272. Ivi, pp. 274-275. 52 E. Husserl, Frammento n. 32 del 1927, in Zur Phänomenologie der Intersubjectivität, in Husserliana, vol. XIV, L’Aia, Nijhoff, 1973, trad. nostra sulla base dell’ed. franc. Sur l’intersubjectivité, Parigi, PUF, 2001, p. 121. 50 51

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ne, da parte del corpo che percepisco dinanzi a me nella mia sfera originaria, e così noi identifichiamo l’anima dell’altro con quella di quel corpo là fuori, attraverso l’esperienza originaria sottoposta all’interpretazione”53. In un altro testo datato febbraio 1927, Husserl mette in campo la questione del “movimento” delle cose nello spazio esterno, in riferimento allo “spazio prossimo” puramente soggettivo: “Il mio movimento soggettivo mi conduce in ogni spazio esterno, in modo tale che le cose là fuori diventano per me vicine e circondano così, nel suo spazio prossimo, la mia carne «assolutamente vicina», forniscono precisamente il campo prossimo, insieme visivo e tattile, come se facessero tutt’uno con essa. Ogni movimento di una cosa esterna che vedo possiede il suo corrispettivo in un movimento soggettivo possibile, in cui io «percorro» soggettivamente lo stesso spazio che dà luogo al movimento. Ogni movimento apparente, ogni mutamento dell’orientamento di altre cose possiede già il suo correlato in un movimento soggettivo che ne forma la compensazione”54. Ci avviciniamo progressivamente così alla tematizzazione husserliana dello spazio come “sistema intersoggettivo di luoghi”, ossia come campo d’interazione tra intenzionalità differenti che congiungono, intersecandosi tra loro, i vari ego costituenti con le “cose” disposte nello spazio. Tra esse, il livello-zero dell’oggettualità è costituito dal fenomeno della mia carne, fenomenologicamente intesa come coincidenza di percepito e percipiente, dunque sia come polarità noetica rivolta alle cose e agli altri ego, sia come polarità noematica termine dell’intenzionalità altrui e offrentesi a titolo di datità-per-gli-altri. Se così ci è permesso di esprimerci, un vero e proprio campo di forze, uno spazio mobile coincidente con ciò che Husserl chiama “sfera originaria di esperienza” costitutivamente intersoggettiva. Al suo interno – un 53 54

Ivi, p. 122. Ivi, p. 126.

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interno tuttavia senza confini, si potrebbe forse dire “entro la sua apertura” – ogni mutamento spaziale delle cose o degli altri ego possiede un correlato soggettivo, un “ripercorrimento” intenzionale dello spazio in cui ha luogo quel movimento e in cui esso viene soggettivamente costituito. Ma procediamo con l’argomentazione husserliana, isolandone i tratti salienti: “Lo spazio totale è dato come uno spazio di corpi dati. Nel loro modo d’apparizione cinestetica momentanea, essi fanno contemporaneamente apparire una presenza spaziale, e la quintessenza dei corpi di cui si fa esperienza nella coesistenza del loro presente ogni volta temporale – nella forma della loro presenza spaziale – forma il campo percettivo di questo presente. […] La relatività in cui tutti i luoghi dello spazio sono determinati e determinabili nell’esperienza in quanto sistema di luoghi ma a titolo di mera forma, si fonda sulla retro-referenza della costituzione globale dello spazio alla forma permanente della presenza spaziale, che è per così dire lo spaziale originario e rimane il modo d’apparizione dello spazio, il suo modo d’apparizione come spazio orientato. Allo stesso modo, il mondo spaziale è necessariamente dato sotto la forma sempre identica della presenza del mondo, del modo d’apparizione del mondo orientato nello spazio attorno alla mia carne, per ciò che, del mondo, non giunge alla presenza effettiva, è un orizzonte aperto. Se, nel toccare attuale, i corpi si sottraggono ai modi tattili di datità e […] sorge allora sempre un orizzonte, aperto e indeterminato, di corpi tangibili e sin da subito accessibili attraverso le cinestesi, allo stesso modo le cose viste si sottraggono alla visione, in parte perché il campo di sensazione è limitato, e in parte perché la messa in prospettiva rende confusi tutti i corpi e li fa sparire, finché essi si allontanano, nell’orizzonte lontano”55. Al di là delle sottili distinzioni fenomenologiche inerenti i diversi modi 55

Ivi, p. 143.

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della percezione – visiva o tattile –, ciò che più ci interessa di questo passo è la tematizzazione husserliana di una differenza essenziale tra il campo percettivo effettivo, necessariamente nella forma della presenza, come insieme dei corpi perfettamente presenti nello spazio circostante il mio corpo (livello-zero dell’oggettualità), e il campo intenzionale come “orizzonte aperto”, al quale sono rinviate tutte quelle significazioni che non pervengono alla presenza, che non sono come tali tangibili o visibili, e che sono consegnate a quel gioco di “avvicinamento-allontanamento” che ne farà dei fenomeni presenti oppure delle vaghe significazioni prossime alla sparizione. Dunque, se il “campo di sensazione” è limitato e delimita al suo interno il “regno della presenza”, esso non esaurisce certo l’infinito e indeterminato dominio della Gegebenheit nei suoi vari modi e gradi, ma rimanda appunto all’orizzonte infinito e lontano di ogni possibile e potenziale datità. Procede Husserl: “Sul piano visivo, l’insieme del campo percettivo visivo possiede la forma della presenza spaziale; ciò che esso attraversa venendo appreso è un orizzonte vuoto e aperto, un mondo non visto ma coappreso. L’intenzionalità anticipatrice vuota di questo orizzonte si riempie con il passaggio da un campo percettivo all’altro, mediante cui questa forma della presenza originaria, della datità dell’orientamento, potremmo dire così, continua ad essere ricevuta rigidamente, mentre le cinestesi cambiano e l’esperienza del mondo prosegue in differenti direzioni. Lo spazio percepito in generale […] si distingue dallo spazio prossimo o meglio «propriamente percepito.» La forma della presenza spaziale è comune a entrambe. Si potrebbe designare come spazio prossimo questa porzione orientata di spazio attorno al mio corpo, che posso realizzare da tutte le parti ma non in un colpo solo […]. La forma non ha alcun senso se non in rapporto ai contenuti possibili: sono le cose presenti nel cambiamento delle cinestesi e delle presenze visive (concretamente: la presenza www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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naturale, cioè lo spazio contenente le cose), a volte realizzate, di cui faccio esperienza, altre volte anticipate in un orizzonte aperto nel modo dell’indeterminazione aperta, anche se realizzata una volta, sempre di nuovo da realizzare”56. Husserl ribadisce qui l’idea della necessità di mantenere l’orizzonte della datità aperto e indeterminato, cioè senza limiti ben tracciati, affinché il campo degli oggetti intenzionabili non venga ristretto alla sola oggettività, nella forma della piena presenza. Sono passi, questi, che rimettono in causa completamente la portata e il senso del cosiddetto idealismo husserliano, e l’idea – come vedremo, affermata ben presto da Heidegger – secondo cui l’unico obiettivo perseguito dal modello fenomenologico husserliano sia l’oggettività scientifica nella forma della piena presenza. Questi testi inediti mostrano, al contrario, un Husserl più attento all’ambito – ben più ampio di quello dell’oggettività – di semi-datità non pienamente presenti, appunto a quell’orizzonte infinito e aperto sempre di nuovo da ritracciare. Prosegue Husserl: “Il movimento di un corpo in generale diventa significativo per me nella misura in cui posso, trasponendomi in esso, farne la mia trasformazione locale. Lo spazio come sistema di luoghi è per me il sistema di luoghi che posso percorrere coi miei propri movimenti, dappertutto, a partire da qualunque punto mi trasponga. Ogni cosa possiede il proprio luogo nello spazio, il suo luogo temporaneamente fisso o anche mobile. Ogni movimento del corpo esterno, di cui faccio esperienza esterna, ha una significato identico a un movimento soggettivo possibile che potrebbe essere mio”57. Troviamo in questo passo conferma dei punti già precedentemente evidenziati: a ogni movimento effettivo, naturale, corrisponde un movimento soggettivo derivante dalla trasposi56 57

Ivi, pp. 144-145. Ivi, p. 150.

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Capitolo secondo

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zione dell’ego costituente nella “cosa” in movimento. Emerge così lo spazio originario come “sistema di luoghi”, incrocio di posizioni differenti e reciproche, riconducibili a una “sfera originaria di esperienza intersoggettiva”. Essa, secondo la tipica impostazione husserliana, viene raggiunta tramite la riduzione alla primordialità, all’evidenza originaria, all’auto-datità assoluta: come si è visto, essa non esaurisce tutto il campo della datità, ma fornisce un modello di riferimento in vista della costruzione di un sistema graduale di evidenze, costruzione che passa necessariamente attraverso la questione del rapporto tra esperienza naturale e mondo di evidenze pre-dato, cioè tra sguardo ingenuo rivolto al mondo e mondodella-vita come sfera originaria di attività intenzionale. In un testo del 1935, Husserl scrive: “Se opero la riduzione della percezione del mondo a ciò che è percepito e può essere percepito per me in modo primordiale e, così facendo, se riduco il mondo a ciò che vi è di primordiale in esso, acquisisco uno strato di validità e, a dire il vero, uno strato di autodatità originaria […]. A titolo di campo di enti dati oggettivamente, possiedo abitualmente il mondo come un mondo di cose identificabili, riconoscibili, che restano immutabili nei cambiamenti, che siano assenti o presenti; il mondo è un mondo spazio-temporale, e la possibilità d’identificazione concerne tutti i modi temporali e le loro modalità, secondo cui io identifico il passato e il futuro riconoscendoli. Tutto ciò è ridotto a un regno della primordialità […]”58.

58

Ivi, p. 255.

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Capitolo terzo

Riempimento, adeguazione e idealità

Com’è noto, la scelta di Husserl per il modello fenomenologico trascendentale è stata motivo di rotture interne alla prima cerchia dei suoi allievi e molto spesso bollata come “svolta idealista” della fenomenologia, quasi si trattasse di una sua involuzione, di un passo falso che avrebbe definitivamente arrestato i progressi del metodo fenomenologico. Effettivamente, in alcuni punti Husserl sembra “chiudere” improvvisamente quel campo intenzionale che nelle opere precedenti aveva lasciato aperto, come orizzonte e sfondo di ogni sguardo rivolto verso le cose e i fenomeni: “[…] nessuna filosofia ha mai tematizzato questo regno del soggettivo, e perciò non l’ha mai realmente scoperto. […] Si tratta del regno di una soggettività completamente circoscritta in se stessa, essente nel suo modo, che funge in qualsiasi esperienza, in qualsiasi pensiero, in qualsiasi vita, e che quindi è ovunque inevitabilmente presente e che tuttavia non è mai stata considerata, non è mai stata afferrata né compresa”59. Ripercorriamo più lentamente questo “slittamento” husserliano, decisivo per la fenomenologia successiva. Se si confrontano le Ricerche Logiche del 1900-’01 con le Idee del 1913, ci si accorge facilmente della tensione che si viene a creare tra le due definizioni di “oggetto” che Husserl fornisce: nel primo caso, esso è ciò di 59

Ivi, p. 142.

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Riempimento, adeguazione e idealità

cui una datità assoluta e pienamente adeguata è esclusa – in quanto rappresenta un mero limite ideale –, mentre nel secondo caso, quando cioè Husserl assume il principio dell’illimitatezza della ragione obiettiva, esso diventa ciò che è per principio suscettibile di una determinazione esaustiva. Infatti, nell’Introduzione alla Sesta Ricerca, egli afferma: “Quanto alla gradualità dell’intenzione e del riempimento, verremo a conoscere differenze di maggiore o minore mediatezza nell’intenzione stessa, che esclude un riempimento semplice esigendo piuttosto una serie di riempimenti procedenti per gradi, e giungeremo così a intendere il senso più rilevante […] secondo cui si parla di rappresentazioni indirette. Qui seguiremo le differenze di maggiore o minore adeguatezza dell’intenzione al vissuto intuitivo che si fonde ad essa nella conoscenza come riempimento, determinando il caso dell’adeguazione oggettivamente completa. […] In questo caso, la sintesi del riempimento è l’evidenza o la conoscenza nel senso pregnante del termine. Qui si realizza l’essere nel senso della verità, della concordanza correttamente intesa, dell’adaequatio rei ac intellectus”60. Tuttavia, poco prima aveva sottolineato che “il riempimento ultimo rappresenta un ideale di compiutezza”61. Non si tratta certo di affermazioni di secondaria importanza, o di spunti privi di sviluppo nell’impianto argomentativo della Sesta Ricerca; infatti, nel secondo capitolo, si legge: “Nel caso limite ideale della percezione adeguata, questo contenuto dato sensorialmente o che si presenta in se stesso coincide con l’oggetto percepito. […] ad esso corrisponde fenomenologicamente il flusso continuo del riempimento o dell’identificazione, nella serie continua delle percezioni relative allo stesso oggetto. Ognuna di esse è qui una fusione di intenzioni riempite e non riempite. Alle prime E. Husserl, Ricerche Logiche, VI, vol. II, ultima ed. it. Milano, Il Saggiatore, 2005, p. 302 (tit. orig. Logische Untersuchungen, in Husserliana, vol. XX/I, Dordrecht, Kluwer, 2002). 61 Ibidem. 60

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Capitolo terzo

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corrisponde, dalla parte dell’oggetto, ciò che è dato di esso in questa singola percezione come adombramento più o meno compiuto, alle seconde ciò che non è ancora dato e che dovrebbe pervenire a una presenza attuale e riempiente in nuove percezioni”62. Poco oltre, Husserl precisa: “[…] il contenuto delle rappresentazioni – o più chiaramente, la materia – predelinea a priori un decorso graduale determinato del riempimento. Il riempimento che qui sussegue mediatamente non può mai al tempo stesso susseguire immediatamente. […] Parliamo di intenzioni e riempimenti mediati, e quindi anche di rappresentazioni mediate”63. Certo, si obietterà, in questo caso Husserl sta esaminando – come recita il titolo del § 18, I gradi di riempimento mediati. Rappresentazioni mediate – una classe particolare di significazioni, appunto quelle mediate. Eppure, il § 20 – Le traduzioni intuitive autentiche in ogni riempimento – sancisce che: “Non ogni volta che il riempimento di un’intenzione signitiva si compie sulla base di un’intuizione, le materie dei due atti si trovano in un rapporto di coincidenza, in modo tale che l’oggetto che si manifesta intuitivamente sussiste in se stesso in quanto oggetto inteso nel significato. Ma solo quando ciò accade, si può parlare veramente di traduzione intuitiva, solo allora il pensiero è realizzato nel modo della percezione oppure illustrato nel modo dell’immaginazione. Altrimenti stanno le cose se l’intuizione riempiente fa apparire un oggetto che ha il carattere di un rappresentante indiretto”64. Ancora più esplicito è il § 21, dedicato a La “pienezza” della rappresentazione: “Ad ogni intenzione intuitiva appartiene – nel senso di una possibilità ideale – un’intenzione signitiva esattamente adeguata ad essa in rapporto alla materia. Quest’unità di identificazione possiede necessariamente il carattere di un’unità di Ivi, pp. 356-357 (corsivo nostro). Ivi, pp. 370-371. 64 Ivi, p. 374. 62 63

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Riempimento, adeguazione e idealità

riempimento, in cui il membro intuitivo, e non quello signitivo, ha il carattere del membro che riempie, e quindi anche di quello che conferisce pienezza nel senso più proprio. […] L’ideale delle pienezza verrebbe quindi raggiunto in una rappresentazione che includa nel proprio contenuto fenomenologico il proprio oggetto nella sua totalità e completezza. Se consideriamo come appartenenti alla pienezza dell’oggetto anche le sue determinazioni individualizzanti, ciò non può essere conseguito da alcuna immaginazione, ma solo dalla percezione”65. Ben diversa sembra essere la situazione nel 1907 quando, con L’idea della fenomenologia, inizia quel processo di “soggettivizzazione” del campo fenomenologico che culminerà nelle Idee del 1913. Infatti, nella Terza Lezione, Husserl afferma chiaramente: “Le cogitationes rappresentano una sfera di datità assolute immanenti, in qualsiasi senso noi interpretiamo l’immanenza. Nel guardare il puro fenomeno, l’oggetto non è fuori della conoscenza, fuori della coscienza, e al tempo stesso è dato nel senso dell’assoluta datità diretta (Selbstgegebenheit) di un oggetto di puro sguardo”66. Com’è evidente, non vi è più alcun accenno all’ideale della pienezza più volte richiamato nel corso delle Ricerche Logiche: una volta intervenuta la riduzione – nella sue varie forme: gnoseologica, eidetica e trascendentale –, Husserl individua nella pura e assoluta datità diretta l’unico compito che la fenomenologia debba perseguire. “Ad ogni vissuto psichico, insomma, corrisponde, sulla strada della riduzione fenomenologica, un fenomeno puro, che esibisce la sua immanente natura come assoluta datità”67. Con la riduzione trascendentale, la fenomenologia parrebbe perdere gran parte di quella problematicità originaria della fenomenalità, problematicità che Ivi, pp. 376-377. E. Husserl, L’idea della fenomenologia, cit., p. 72. 67 Ivi, p. 75. 65 66

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Capitolo terzo

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non ne inficiava affatto la scientificità, preservando l’ampiezza di una datità mai perfettamente autoevidente, ma procedente per adombramenti e percezioni indirette. In effetti, ricondurre del tutto la fenomenalità alla coscienza – tale è la ben nota accusa a Husserl – significherebbe restringerla in nome di un ideale di scientificità che – come aveva già notato Heidegger nei Prolegomena alla storia del concetto di tempo68 – ricalca completamente quello tipico della metafisica moderna: “Noi non comprendiamo come la percezione possa cogliere qualcosa di trascendente; ma comprendiamo come la percezione possa cogliere qualcosa di immanente, in qualità di percezione riflessa e puramente immanente, o ridotta. […] Noi guardiamo e afferriamo direttamente quel che intenzioniamo guardando e afferrando”69. Com’è noto, questo processo di soggettivizzazione della fenomenalità culmina nel 1913, con il primo volume delle Idee. Un’ormai radicata tradizione critica ci ha abituati a considerare questo testo come il luogo della “svolta idealista” husserliana, consolidando quel cliché secondo cui la prima profonda frattura che ha segnato la storia della fenomenologia si consuma proprio sul terreno di questa pretesa “involuzione” in senso idealistico. Non intendiamo certo riaprire il dossier delle vicende teorico-biografiche interne alla prima diffusione della fenomenologia in Germania; tuttavia, può essere di una qualche utilità, nel contesto del nostro percorso, rimisurare la portata autentica della “scelta” husserliana per l’impostazione trascendentale. Più esplicitamente: a) in che senso Husserl – secondo l’accusa dei suoi primi critici – restringe la fenomenalità introducendo la soggettività trascendentale? Non v’è fenomenalità al di fuori dell’evidenza intenzionale? b) siamo così M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, trad. it. Genova, Il Melangolo, 1991 (tit. orig. Prolegomena zur Geshichte des Zeitbegriff, 1925, in Gesamtausgabe, vol. XX, Francoforte sul Meno, Klostermann, 1975 e segg.). 69 E. Husserl, L’idea della fenomenologia, cit., p. 84. 68

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Riempimento, adeguazione e idealità

sicuri che lo spostamento del baricentro fenomenologico sulla soggettività trascendentale costituisca una regressione a una qualche forma d’idealismo assoluto? O meglio: la soggettivizzazione della fenomenalità tipica della prospettiva fenomenologica trascendentale coincide tout court con il presunto idealismo husserliano? A nostro parere, dietro queste domande non si nasconde affatto una questione di lana caprina, meramente terminologica; semmai, è qui in gioco l’identificazione – spesso ritenuta ovvia – del presunto restringimento della fenomenalità (alla sfera dell’evidenza) con l’idealismo che caratterizzerebbe il percorso husserliano dal 1907 in poi: se si assume surrettiziamente questa equivalenza, va da sé che, dimostrata la parzialità delle accuse di idealismo – rimesso effettivamente in questione dalla pubblicazione degli inediti, soprattutto le Lezioni sulla sintesi passiva70 del 1918’19 –, anche il restringimento della fenomenalità alla sfera dell’evidenza risulterebbe svuotato. Ora, ciò che tentiamo qui di mostrare è precisamente che l’assunzione del modello trascendentale da parte di Husserl non coincide affatto con un’estromissione dal campo fenomenologico di ogni forma di datità mediata e non (ancora) evidente a favore di una particolare classe di vissuti – le cogitationes, per l’appunto – immediatamente evidenti, semplicemente perché, come vedremo fra breve, è lo stesso Husserl a smentirne chiaramente la possibilità: il dato puro è un mito, la datità porta con sé un alone di mediazione e opacità irriducibili. Ciò significa che tale processo non implica affatto la negazione della fenomenalità al di fuori della sfera di evidenza trascendentale, che rimane immutata in rapporto alle Ricerche Logiche: il punto fondamentale è che Husserl, a partire dal momento in cui imbocca il sentiero della fenomenoE. Husserl, Lezioni sulla sintesi passiva, Milano, Guerini, 1993 (tit. orig. Analysen zur passiven Synthesis, in Husserliana, vol. XI, L’Aia, Nijhoff, 1966). Siccome la traduzione italiana è ormai fuori commercio, per maggior praticità faremo riferimento alla traduzione francese De la synthèse passive, Grenoble, Millon, 1998.

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Capitolo terzo

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logia trascendentale – cioè ammettendo che ogni manifestazione avviene all’interno di un’esperienza possibile per l’Io – si trova dinanzi la duplice questione delle modalità di costituzione attiva degli oggetti intenzionali, costituzione tesa al raggiungimento progressivo dell’evidenza, e della genesi passiva degli atti noetici, ossia del processo sintetico non-intenzionale di emersione delle funzioni costituenti nello strato più profondo della coscienza. In sostanza, se nelle Idee Husserl descrive il modello fenomenologico trascendentale da una prospettiva statica, ossia rivolgendosi alle funzioni costituenti attive dell’Io, nelle Lezioni sulla sintesi passiva egli ripercorre i vari gradi di emersione della stessa intenzionalità a partire dalla passività originaria. Ripercorriamo, almeno per sommi capi, questi due versanti dell’analisi husserliana: vedremo delinearsi lo spazio più profondo ed enigmatico – abitato dallo stesso Io trascendentale, teso tra la propria dimensione passiva e attiva – a cui il pensiero del padre della fenomenologia abbia mai dato luogo.

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Capitolo quarto

L’ego ferito: costituzione e genesi

Se vogliamo rimettere a fuoco – per quanto sinteticamente – la portata dell’impresa husserliana senza metterci al riparo delle comode categorie critiche che troppo spesso ne hanno sottovalutato la complessità costitutiva, ancora una volta, affidiamoci ai testi. Scrive Husserl al § 34 di Ideen I: “Seguiamo il nostro principio generale, secondo cui ogni accadimento individuale ha la sua essenza, che è afferrabile nella sua purezza eidetica e che in questa purezza deve appartenere a un campo di possibile indagine eidetica. Di conseguenza, anche il generale fatto naturale dell’«io sono», dell’«io penso», dell’«io ho un mondo davanti a me», ecc., deve avere il suo statuto eidetico, e proprio di quest’ultimo noi ci vogliamo esclusivamente occupare. […] Effettuiamo dunque, esemplarmente, dei singoli vissuti di coscienza assunti come reali fatti umani, quali si danno nell’atteggiamento naturale […]. Sulla base di questi esempi, afferriamo e fissiamo in un’adeguata ideazione le essenze pure che ci interessano. I fatti singoli, la fatticità del mondo naturale in generale scompaiono dal nostro sguardo teoretico, come sempre, quando compiamo una ricerca puramente eidetica”71. Emerge qui chiaramente il progetto di Husserl, che contraddistingue il suo percorso E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, vol. I, cit., pp. 78-79 (corsivo nostro).

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L’ego ferito: costituzione e genesi

teorico a partire dalla cosiddetta “svolta trascendentale”: il compito della fenomenologia come “scienza rigorosa” è occuparsi dello statuto eidetico dei vissuti coscienziali, ossia cercare di raggiungere, attraverso la riduzione, la sfera dell’evidenza assoluta, sospendendo – beninteso, non annientando – tutto ciò che della datità rimanda alla mediazione e all’impurità costitutiva di quelle che, già nelle Ricerche Logiche, egli definiva come Abschattungen (adombramenti). Ancora più esplicito è il passo seguente: “Definiamo meglio il nostro tema. Il suo titolo suonava: coscienza, o meglio, vissuto di coscienza in generale, in un senso straordinariamente ampio, la cui esatta delimitazione per fortuna non ha importanza”72. Sembrerebbe una frase non essenziale, se non fosse per l’imperfetto “suonava”, che pare alludere a un progetto originario poi modificato, e per la singolare espressione “per fortuna non ha importanza”: nella copia personale che Husserl utilizzò per la seconda edizione del 1922 (abitualmente denominato “copia D”), la troviamo sostituita con “manca necessariamente ancora”, quasi a indicare il compito soltanto preparatorio delle Idee – in quanto incentrate su una fenomenalità “purificata”, focalizzata sul progetto del raggiungimento dell’evidenza oggettuale – rispetto al progetto generale di un’elaborazione della fenomenalità in senso più ampio, capace di ricomprendere in sé tutta la Gegebenheit. Ipotesi confermata poco dopo: “Per ora, quello che rimane [dopo la riduzione] ci basta per analizzare e cogliere l’essenza in questione. Ma subito ci vediamo rinviati a connessioni di vissuti così vaste che ci costringono ad allargare il concetto di vissuto di coscienza oltre il cerchio delle specifiche cogitationes”73. Dunque, si profilano due cerchi concentrici: il più ristretto, costituito dalle cogitationes pure e assolutamente evidenti, frutto del restringimento dell’ampissimo 72 73

Ivi, p. 79. Ivi, p. 80.

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Capitolo quarto

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spazio degli Erlebnisse, costitutivamente impuri e mediati, ossia procedenti per progressivi adombramenti. Prosegue Husserl: “Noi consideriamo i vissuti di coscienza in tutta la pienezza della concretezza con cui si presentano nel loro concreto contesto – il flusso dei vissuti – e alla quale si aggiungono in virtù della loro propria essenza. È quindi evidente che ogni vissuto del flusso che lo sguardo riflessivo riesce a cogliere ha una essenza propria, da afferrare intuitivamente, un «contenuto» che può essere separatamente considerato nella sua peculiarità. A noi appunto importa di afferrare e caratterizzare in generale questo particolare statuto della cogitatio nella sua pura peculiarità, escludendo quindi tutto ciò che non si trova nella cogitatio secondo ciò che essa è in se stessa”74. In questi passi husserliani, sempre più evidente è lo scarto che si profila tra l’Erlebnis, che pone la coscienza intenzionale dinanzi alla più ampia fenomenalità fluente nel suo concreto carattere di costitutiva mediazione – mediazione e impurità che costringono la coscienza a procedere per progressivi adombramenti, che solo idealmente possono raggiungere l’evidenza assoluta (secondo quanto stabilito ampiamente nella Sesta Ricerca Logica) –, e la cogitatio pura e assoluta, che va considerata “separatamente” dal vissuto intenzionale – o meglio, ne costituisce una sfera ben più ristretta. È lo stesso Husserl a segnalare la necessità di non confonderli: “Ci guardiamo bene dal confondere gli oggetti dati alla coscienza in questi modi di coscienza (per esempio, le naiadi immaginarie) con gli stessi vissuti di coscienza che sono coscienza di essi. Appartiene all’essenza di tutti questi vissuti anche quell’importante modificazione che trasforma la coscienza dal modo del prestare attenzione attuale al modo dell’inattualità, e viceversa”75. Ogni cogitatio si staglia su un alone opaco, emerge da uno sfondo non evidente, impuro, da una rete di 74 75

Ibidem. Ivi, p. 83.

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L’ego ferito: costituzione e genesi

sguardi/adombramenti non ancora in grado di costituire pienamente gli “oggetti” intenzionali, cioè di considerare separatamente la loro Gegenständlichkeit, ossia la loro “oggettità” evidente di noema correlato di una noesi determinata: “È manifestamente vero che quelli [i vissuti] attuali sono circondati da un alone di inattuali: il flusso di coscienza non può mai consistere di pure attualità. […] Per mantenere nettamente distinto nella sua stabilità questo concetto di atto, riserveremo esclusivamente ad esso i termini cartesiani cogito e cogitationes […]”76. E ancora, a chiarimento inequivocabile: “Va tenuto ben presente che qui non è in questione una relazione tra un accadimento psichico – detto vissuto – e un altro esistente reale della natura – detto oggetto –, o di un intreccio psicologico [nella copia D: un intreccio che è psicofisico e reale in altre maniere] che avrebbe luogo nella realtà oggettiva tra l’uno e l’altro. Ciò che è invece in questione sono dei vissuti considerati dal punto di vista della loro pura essenza, ossia di essenze pure e di ciò che in esse è a priori incluso in maniera incondizionatamente necessaria”77. Questi brevi richiami ad alcuni passi delle Ideen I sono sufficienti a mostrare la portata e il senso della svolta trascendentale husserliana, che non consiste affatto nel ridurre tutta la fenomenalità alla coscienza costituente, ma nell’isolare – entro il campo immenso e opaco della fenomenalità in generale – delle “sfere” di evidenza assoluta, le essenze, sulle quali poter fondare una nuova scienza assoluta, la fenomenologia trascendentale. Non tanto, dunque, restrizione della fenomenalità tout court, ma individuazione del compito proprio della fenomenologia, ossia pervenire alla sfera originaria di evidenza assoluta. Se ci è lecito esprimerci così, si potrebbe affermare che l’evidenza rappresenta il telos della fenomenologia trascendentale, laddove invece l’ampia sfera della mediazione e della 76 77

Ibidem. Ivi, pp. 84-85.

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Capitolo quarto

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datità impura verrà tematizzata nel contesto della genesi (passiva e attiva) della soggettività stessa. Pertanto, in questa prospettiva, appare alquanto parziale l’accusa di idealismo assoluto: la coscienza, ben lungi dal “creare” la realtà, non pone alcunché ma, all’interno del flusso mediato dei vissuti, separa da esso la sfera di evidenza che costituisce – laddove tale costituzione non va assolutamente confusa con una posizione, ma corrisponde alla piena adeguazione tra intenzione e intuizione, tra atto noetico (“soggettivo”) e noema (significato “oggettivo”). Dunque, ancora una volta, la svolta trascendentale husserliana corrisponde a una restrizione della sfera di evidenza – riservata all’Io costituente – ma non comporta alcuna ricaduta nell’idealismo classico: analogamente a quanto avveniva già in Kant, ammettere il carattere trascendentale – dunque soggettivo – della conoscenza non significa affatto attribuire all’Io la capacità di creare o porre la realtà. Come afferma acutamente V. Costa, “le manifestazioni non diventano dunque manifestazioni di qualcosa grazie a un intervento sovrano del soggetto che conferisce loro, dall’esterno, una forma. E infatti, a margine della sua copia d’uso di Idee I, laddove aveva parlato della noesi come di una “messa in forma” che introduce l’intenzionalità in quelle morte materie che sono i dati sensibili, Husserl annota che si tratta di un “modo discutibile di esprimersi” (Idee I, p. 215). […] i dati sensibili stessi non si presentano come materie “informi” soggette alle interpretazioni o alle apprensioni soggettive, ma esibiscono una capacità di autostrutturazione, poiché le sintesi passive alludono a una strutturazione interna a ciò che si manifesta, e dunque esprimono delle sintesi che si realizzano dalla parte dell’essere e non della soggettività. […] Per questo, il senso in cui l’oggetto deve essere inteso non è una costruzione soggettiva, ma qualcosa che si impone al soggetto”78.

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V. Costa, Husserl, Roma, Carocci, 2009, pp. 57-58.

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L’ego ferito: costituzione e genesi

Gettiamo ora almeno uno sguardo alla riflessione husserliana sulla questione della genesi della soggettività79: ci affacceremo così al problema – probabilmente il più complesso dell’intero pensiero di Husserl – del rapporto tra fenomenologia statica, con al suo centro l’Io nella sua funzione costituente attiva, e la fenomenologia genetica, riguardante le dinamiche di emersione della soggettività trascendentale attiva a partire dalla sua origine passiva non-intenzionale80. In effetti, i primi anni Venti costituiscono per Husserl un periodo di ridiscussione delle analisi intenzionali e costitutive dell’oggetto percepito nel suo decorso temporale così come erano state condotte nelle Lezioni sullo spazio81 del 1907 e nelle Lezioni sulla coscienza interna del tempo del 1904-’0582: se i tre volumi delle Idee rappresentano senz’altro il maggior sforzo di sistematizzazione dell’analisi costitutiva, i testi dedicati al problema delle sintesi tentano di chiarire il radicamento della sfera trascendentale nella coscienza passiva. Ciò comporta uno spostamento del baricentro delle analisi husserliane poiché, a partire dalla radicalizzazione del § 36 e seguenti delle Lezioni sulla coscienza interna del tempo, il tema portante è la coscienza come flusso di vissuti e la sua autoFaremo riferimento principalmente alle Analysen zur passiven Synthesis, in Husserliana, vol. XI, cit. Si tratta di una serie di testi redatti da Husserl tra il 1918 e il 1926, raccolti inizialmente sotto il titolo Genetische Logik o Transzendentale Logik; sono dunque testi contemporanei sia ai Bernauer Manuskripte del 1917-’18, dedicati alla temporalità, sia ai manoscritti di St. Märgen degli anni Venti sul concetto di monade e sull’individuazione, attualmente pubblicati nel volume Zur Intersubjektivität, in Husserliana, vol. XIV, cit. 80 Molto significativo, a tal proposito, è anche il breve testo del 1921 Statische und genetisce Phänomenologie, in Husserliana, vol. XI, Ergänzende Texte, cit., pp. 336-345 (trad. fr. Méthode phénoménologique statique et génétique, in De la synthèse passive, cit., pp. 323-331). 81 E. Husserl, Ding und Raum, in Husserliana, vol. XVI, L’Aia, Nijhoff, 1973. 82 E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Milano, Franco Angeli, 1985 (tit. orig. Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins (1893-1917), in Husserliana, vol. X, L’Aia, Nijhoff, 1966). 79

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Capitolo quarto

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costituzione passiva. Dunque, la costituzione dell’oggettità, spaziale o temporale, si trova conseguentemente ripensata alla luce della costituzione passiva della coscienza come auto-generazione trascendentale. Come affermano i curatori dell’edizione francese delle Lezioni sulla sintesi passiva, N. Depraz e B. Bégout, “attraverso questa trasformazione del metodo, cioè attraverso il passaggio da un’analisi statica descrittiva diretta dal filo conduttore della datità intuitiva dell’oggetto a un’analisi genetica facente capo alla coscienza soggettiva come tema della genesi trascendentale, non è tanto in gioco un cambiamento di tema (la coscienza e non più l’oggetto) quanto un diverso accento rivolto sul modo d’accesso all’esperienza. Non si tratta più di costruire degli atti gli uni sugli altri, secondo la legge di una fondazione dell’apparire rimemorante, immaginativo o empatico sull’apparire percettivo, ma di captare la dinamica di generazione dell’atto. Di conseguenza, il cambiamento di tema non è che una conseguenza della modificazione del metodo, cioè del modo d’accesso all’esperienza”83. In questo senso, la questione della sintesi passiva conduce Husserl a prendere nettamente le distanze dal progetto delle Ideen, poiché risulta chiaro – almeno a partire dal 1920 – che è necessario dividere in due il processo costitutivo, da un lato la costituzione attiva che analizza le forme eidetiche nella coscienza pura, orientata teleologicamente verso l’oggettività assoluta, dall’altro la genesi passiva delle appercezioni. Rispetto ai vissuti immanenti, ritenzionali o associativi, l’appercezione è un vissuto intenzionale che ha per caratteristica peculiare di contenere un modo di coscienza non auto-dato, cioè una struttura di trascendenza – Husserl la definisce un “vedere al di là di se stesso”: l’esame della formazione di questa B. Bégout-N. Depraz, Introduction a E. Husserl, Sur la synthèse passive, cit., p. 6. Tale distinzione è ripresa da Husserl in Statische und genetisce Phänomenologie, cit., affiancata dalla distinzione tra la logica statica descrittiva (beschreibende) e la logica genetica esplicativa (erklärende). 83

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L’ego ferito: costituzione e genesi

struttura e del possibile strutturarsi del flusso dei vissuti è perciò l’oggetto specifico della fenomenologia genetica. In ultima istanza, le leggi della genesi trascendentale mirano a descrivere l’emergere della coscienza, il divenire-cosciente dell’Io mostrando come la struttura associativa e ritenzionale dei vissuti si articoli progressivamente nella scoperta a priori (non-data) e l’apertura motivanteprotenzionale degli orizzonti. Da un punto di vista generale – statico e genetico – la fenomenologia husserliana assume dunque la forma di una teoria generale della coscienza nelle sue diverse modalità: 1) la genesi passiva, ritenzionale e proto-associativa; 2) la partecipazione dell’Io e l’implicazione dell’attività nella passività; 3) la genesi attiva come formazione dell’idealità; 4) la formazione dell’individualità monadica; 5) l’emergere della comunità intermonadica; 6) l’emergere del mondo come possibilità e apertura di orizzonti; 7) l’empatia inter-monadica sulla base del mondo comune. Sulla base di queste differenti stratificazioni dell’attività coscienzale a partire dal suo primo sorgere, la fenomenologia si strutturerà secondo tre “strati”: a) la fenomenologia universale delle strutture universali della coscienza; b) fenomenologia costitutiva; c) fenomenologia della genesi. Affinché sia possibile misurare correttamente la portata decisiva della questione delle sintesi passive nel quadro generale della fenomenologia trascendentale, bisogna ritornare alle conclusioni della Sesta ricerca logica, in particolare al paragrafo intitolato Sensibilità e intelletto, in cui Husserl tentava di articolare il rapporto tra l’intuizione sensibile e l’intuizione categoriale nella produzione di un giudizio vero. Com’è noto, egli aveva appena esposto l’ideaguida dell’intuizione categoriale autonoma, sottolineando tuttavia che si trattava di un atto fondato su un’intuizione semplice, il cui modello di riferimento rimaneva la percezione esterna. Ora, è proprio questo rapporto di fondazione (Fundierungsverhältnis) che è rimesso in causa nelle Lezioni sulla sintesi passiva, naturalmente www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo quarto

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attraverso il metodo genetico che trasforma la fondazione stessa dell’evidenza eidetica categoriale in una costituzione graduale già presente, in nuce, nella passività originaria della coscienza. Dunque, non si tratta più, almeno per lo Husserl degli anni Venti, di identificare il fondamento dell’evidenza del giudizio in un’intuizione semplice – ricalcata sul modello di quella sensibile – ma di chiarire la costituzione dell’esperienza sensibile stessa nel suo carattere anti-predicativo, ossia descrivere quel mondo della pre-datità passiva che permetterà di pensare la produzione e il sorgere originario dell’evidenza come “vissuto intenzionale della verità”. Solo se tale evidenza si mostrerà operante già nella sfera pre-intenzionale passiva, Husserl potrà ammettere che la “datità originaria dell’oggetto”, cioè “qualche cosa d’identico e identificabile per l’Io”84, costituisce davvero il filo conduttore dell’intero progetto fenomenologico85. Queste lezioni rappresentano dunque l’indagine approfondita e minuziosa della vita nascosta86 della coscienza logica, ossia del radicamento passivo e pre-intenzionale di ogni operazione attiva riferita a una qualche oggettità. Così, la conoscenza evidente che l’Io ha degli oggetti dati intuitivamente non è solo possibile grazie all’evidenza ante-predicativa fornita dall’esperienza passiva, ma soprattutto grazie alle operazioni passive che, attraverso sintesi estremamente complesse – associative, riproduttive, sintesi di riE. Husserl, De la synthèse passive, cit., p. 260. È utile sottolineare che, anche in questa “seconda navigazione” husserliana, il progetto fenomenologico di fondo riguarda la costruzione di una “scienza filosofica”, il cui ideale-guida resta quello della conoscenza vera e assoluta; dunque non vi è un cambio di direzione del pensiero di Husserl ma, al contrario, l’esigenza di mettere in questione l’origine dell’evidenza logica: pertanto, la logica trascendentale si presenterà come “scienza auto-chiarificantesi”, ossia coincidenza assoluta di contenuto evidente della scienza e metodo per l’accesso a tale contenuto. 86 Tuttavia, a differenza di Esperienza e giudizio, ma soprattutto della Crisi delle scienze europee, le Lezioni sulla sintesi passiva si attestano sul terreno, per così dire, della psicologia fenomenologica, senza cioè sviluppare la tematica della pre-datità nel senso che sarà tipico dell’ontologia della Lebenswelt. 84 85

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L’ego ferito: costituzione e genesi

coprimento, d’identificazione passiva nella ritenzione –, costituiscono la possibilità stessa della permanenza di una data oggettità: è il mantenimento di un’identità durevole del senso attraverso le operazioni passive – dossiche, di credenza presuntiva, dubbiosa, ecc. – e tutte le modificazioni intuitive della datità – percezione, ritenzione, ecc. – il leitmotiv di tutte le Lezioni sulla sintesi passiva. Tuttavia va precisato che, sebbene queste analisi si assumano il compito di chiarire tale processo di pre-obiettivazione passiva, che troverà il proprio compimento nelle prese di posizione attive dell’Io, la costituzione passiva delle proto-evidenze può anche incontrare degli ostacoli o incappare in equivoci pericolosi, dando così luogo agli errori. Ecco un punto che molto spesso è stato trascurato o fortemente marginalizzato, soprattutto dai primi critici di Husserl: talvolta la sintesi passiva può anche condurre a delle apparenze illusorie, a delle indecisioni e a degli errori. Siccome la rimemorazione passiva è il fondamento sul quale può edificarsi l’identificazione iterativa di un oggetto come oggettità una e sola, come il suo Selbst identico e accessibile all’Io, si comprende facilmente come quest’unica possibilità della rimemorazione falsa – confusa e incompleta – assuma per Husserl un’importanza decisiva e non possa restare indiscussa. Tale possibilità va considerata necessariamente, poiché senza di essa non si potrebbe neppure immaginare il rapporto tra l’Io e il proprio passato di coscienza immanente nella forma di una datità completa e assoluta: “Il flusso di coscienza che scorre fino all’ora è un essere vero […]. Ogni vissuto è passato: in sé. Ma è passato per l’io, cioè è un vissuto disponibile per l’io, un vissuto davvero essente, un vissuto riconoscibile. Se non fosse così, non si potrebbe assolutamente parlare di un flusso di coscienza”87. Ciò significa che la passività originaria permette all’Io, a ogni stadio della propria emersione progressiva, di conservare un 87

E. Husserl, De la synthèse passive, cit., p. 264.

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Capitolo quarto

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senso oggettuale costante attraverso le infinite modificazioni temporali e modali cui è soggetto: tutto ciò grazie alla costituzione del campo impressionale unitario, che Husserl chiama il “presente vivente”. Conseguentemente, lungo il corso delle Lezioni, Husserl si preoccupa costantemente della durata o durabilità dell’unità del senso oggettuale, preso nel vortice delle variazioni temporali, ma che non può mai venir meno, anche qualora si riduca a una mera “forma morta” – cioè una rappresentazione vuota incosciente ma riempibile in qualunque momento – per un tempo indeterminato: la grande importanza di questo testo, a torto troppe volte trascurato dagli interpreti di Husserl, consiste proprio nella descrizione dell’infinita molteplicità delle inattese riattivazioni di significati, d’immagini, di conversazioni, di sentimenti, brandelli di senso fragili e sparpagliati, “facce visibili e afferrabili di un iceberg che si chiama sedimentazione del senso o implicazione intenzionale”88. Se si prescinde da questa capacità essenziale di costituire e conservare un’unità di senso, preparando così l’incontro intenzionale attivo con un’entità trascendente e identificabile che a sua volta si manifesterà staccandosi dall’orizzonte impressionale originario e poi nelle sintesi temporali, la passività non costituirebbe alcun sostegno per la costruzione della scienza logica e non svolgerebbe alcun ruolo nelle costituzioni graduali delle formazioni di senso che sono proprie di ogni soggettività trascendentale. Così Husserl conclude la prima sezione delle Lezioni sulla sintesi passiva: “L’idea direttrice è che niente può diventare cosciente in un flusso ci coscienza, o piuttosto nel proprio io, senza che questa coscienza, secondo delle leggi essenziali, dunque secondo delle leggi semplicemente insopprimibili, e a partire dal proprio materiale di componenti hyletiche, abbia compiuto la propria genesi intenzionale corrispondente, genesi la cui coscienza d’oggetto corrispondente è un’emanazione e il cui si88

B. Bégout-N. Depraz, Introduction a E. Husserl, Sur la synthèse passive, cit., p. 15.

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L’ego ferito: costituzione e genesi

stema ritenzionale corrispondente […] è una sedimentazione. […] La coscienza è un divenire senza fine come la costituzione incessante delle oggettività in un progresso senza fine della successione graduale. È una storia che non s’interrompe mai”89.

89

E. Husserl, De la synthèse passive, cit., p. 274.

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Capitolo quinto

Genesi della temporalità

Dalla rapida sintesi del percorso husserliano che abbiamo tracciato finora, per quanto irrimediabilmente parziale, si può facilmente comprendere come lo stesso Husserl, a un certo punto del proprio percorso filosofico, abbia sentito la necessità di sottoporre a una disamina più approfondita il principio fenomenologico dell’evidenza intuitiva come terreno assoluto e originario della conoscenza che si viene delineando nei testi programmatici, come L’idea della fenomenologia, o nelle grandi opere sistematiche, come i tre volumi delle Idee: tra le varie questioni in gioco in questa “fase critica” della fenomenologia – che abbiamo visto corrispondere all’incirca all’introduzione della distinzione tra metodo statico e metodo genetico all’inizio degli anni Venti – la costituzione della temporalità e lo statuto dell’intersoggettività trascendentale rappresentano senz’altro due banchi di prova formidabili, coi quali Husserl non ha mai smesso di misurarsi. Per quanto riguarda la prima tematica, il tempo, i testi decisivi cui faremo riferimento sono le lezioni Per la coscienza interna del tempo e le già citate Lezioni sulla sintesi passiva, ai quali si aggiungono i Bernauer manuskripte del 1917’1890. Scrive infatti Husserl nelle Lezioni sulla sintesi passiva: “Se il E. Husserl, Die Bernauer Manuskripte über das Zeitbewußtsein (1917-18), in Husserliana, vol. XXXIII, Dordrecht, Kluwer Academic, 2001. 90

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Genesi della temporalità

tempo vale oggettivamente come forma universale di tutti gli oggetti individuali, reali (real), allora a questo corrisponde il fatto che esso è per la coscienza una forma universale di tutti i sensi d’oggetti individuali possibili. Inoltre, è una forma universale in cui tutti gli oggetti in generale sono in certo modo necessariamente inseriti”91. Tuttavia, già nei testi “classici” in cui Husserl elabora la fenomenologia trascendentale e la soggettività costituente, il problema del tempo e dei suoi modi di manifestazione affiora come un nodo teorico alquanto delicato. Ad esempio, all’inizio della quinta lezione de L’idea della fenomenologia, dedicata per l’appunto al decorso temporale dei vissuti di coscienza, Husserl afferma chiaramente che la ritenzione (o ricordo primario) “si intreccia necessariamente a ogni percezione”92. Celeberrimo è l’esempio musicale: lo stesso suono che arretra nel passato continua a costituire lo stesso momento temporale oggettivo: e se il suono dura nel tempo identico a se stesso, non è forse possibile cogliere il suo perdurare con evidenza? “E in ciò non è di nuovo implicito che il guardare va oltre il puro adesso e può conservare intenzionalmente, nel nuovo adesso di volta in volta in atto, ciò che adesso non è più, e divenir certo di un tratto del passato nel modo di una datità evidente?”93. Riflettiamo ancora un istante sul modus operandi della ritenzione: ogni prensione d’essenza assolutamente evidente contiene il rinvio alla singola intuizione originaria attraverso cui il fenomeno è stato costituito intenzionalmente, ma non necessariamente contiene il rinvio alla percezione singola, che ha per carattere essenziale la presenza dell’ora. L’essenza è data allo stesso modo sia che si tratti di E. Husserl, De la synthèse passive, cit., p. 65. E. Husserl, L’idea della fenomenologia, cit., p.  106. Anche se il termine ritenzione compare saltuariamente in testi del 1904, non assumerà il suo senso tecnico prima del 1907 e non sarà utilizzato largamente prima del 1908-’09. Va notato inoltre che esso non compare per nulla nelle Lezioni del 1905. 93 Ibidem. 91 92

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Capitolo quinto

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un’astrazione ideante a partire dalla percezione, sia che si tratti di una presentificazione immaginativa, poiché la posizione d’esistenza è assolutamente irrilevante. Paradossalmente, ciò significa che, di fatto, ogni presentificazione immaginativa è ricondotta al suo carattere percettivo originario, ossia che ogni atto intenzionale rimemorante è pensato sul modello della percezione: anche se quest’ultima, a ben vedere, manca del tutto, ogni forma di rimemorazione ricalcherà il modello percettivo, “come se” l’oggetto intuito fosse pienamente presente dinanzi alla coscienza. Quali conseguenze ha per la costituzione della temporalità originaria questa scelta husserliana per il modello percettivo-intuitivo del tempo coscienziale? Più esplicitamente: qual è l’origine del tempo, l’origine della successione temporale e delle relazioni temporali? Non si tratta certo della dimensione psicologica di tale problema, ossia della genesi causale della rappresentazione del tempo (ad esempio: quest’ultima deriva da una tendenza innata della coscienza oppure si genera a partire da fattori esterni?): il problema dell’origine del tempo, così come Husserl lo affronta nelle lezioni del 1905, alle quali L’idea della fenomenologia potrebbe fungere da introduzione, riguarda la questione dei data e dei caratteri d’apprensione intenzionali sulla base dei quali la successione e altre relazioni oggettivamente temporali ci appaiono. Sebbene non compaia ancora esplicitamente il termine “costituzione”, la soluzione che Husserl propone è chiara: i momenti reali del vissuto, i data non-intenzionali e i caratteri d’apprensione intenzionali rappresentano gli elementi costitutivi del fenomeno temporale. Dal punto di vista oggettivo, nel processo temporale si hanno degli oggetti che durano o che cambiano in varia misura, caratterizzati temporalmente da “modi di passaggio”, come il presente o il passato; dal punto di vista soggettivo, invece, si ha un “fenomeno di passaggio” o di scorrimento costituito da una molteplicità di mutamenti incessanti formanti un’unità indivisibile in intervalli o in fasi che powww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Genesi della temporalità

trebbero essere ripetute identiche a se stesse: le “parti” del flusso di scorrimento possono essere considerate unicamente come momenti astratti di un tutto indivisibile. Per spiegare la particolare costituzione del flusso coscienziale, nelle lezioni del 1905 Husserl introduce la tematica dell’“impressione originaria” (Urimpression) come origine e sorgente in continuo cambiamento, un perpetuo ora in “carne e ossa” che cambia costantemente, scivolando nel passato che la coscienza trattiene a titolo di attimo ritenuto, lasciando spazio a una nuova Urimpression: così, la ritenzione attuale non è la percezione attuale, ma la coscienza attuale del suo passato. Ogni ora attuale è soggetto alla legge della modificazione in passato ritenzionale e dà luogo così a una catena infinita di ritenzioni, poiché ogni ritenzione diventa ritenzione di ritenzione, e così via. Seguendo la serie di impressioni che si succedono vicendevolmente, si ha così una serie di ritenzioni appartenenti allo stesso puntosorgente; tuttavia, siccome ciascuno di questi punti ritenzionali fa esso stesso parte dell’attualità, subisce a sua volta una modificazione ritenzionale: ogni ritenzione ulteriore porta così in sé allo stesso tempo l’eredità del proprio punto di partenza – a sua volta ritenzionale – e il segno dell’impressione originaria da cui è stata generata. Come ha osservato acutamente J. Patočka, “vi sono dunque due continuum – il continuum dell’oggetto, le cui fasi (o punti) singoli si escludono gli uni gli altri, e il continuum del fenomeno di scorrimento che fa parte di una stessa attualità e in fondo ha una forma sempre identica – un’impressione originaria con una “coda” di cometa di ritenzioni”94. Il rapporto tra temporalità e Io trascendentale nella sua attività di sintesi e di unificazione del senso della fenomenalità è già presente nella nozione stessa di ritenzione, atJ. Patočka, Introduction à la phénoménologie de Husserl, trad. fr. Grenoble, Millon, 1992, p. 150. 94

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Capitolo quinto

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traverso cui – come sottolinea K. Held95 – Husserl indica il passaggio dalla presenza impressionale originaria al passato. Il presente non si dissolve tout court, ma è all’Io che sfugge: egli cerca di trattenerlo appunto con la funzione ritenzionale, lo mantiene in vita attribuendogli parzialmente la forza della sua continuità propria, della sua “egoità” identica costitutiva. Ora, questa prospettiva si rivela ben presto incoerente e non priva di contraddizioni. È lo stesso Husserl a metterla in discussione, se confrontiamo i due passi seguenti: “Se ora mettiamo a confronto i fenomeni costituenti, noi troviamo un flusso, e ogni fase di questo flusso è una continuità-di-adombramento (Abschattungskontinuität). Ma per principio nessuna fase di questo flusso va intesa come una successione continua, dunque il flusso non va concepito come trasformato in modo che ogni fase si estenda identica a se stessa. Al contrario, troviamo necessariamente per principio un flusso di cambiamento continuo, e tale cambiamento ha questo d’assurdo, va esattamente come va, e non può andare né più velocemente né più lentamente. Inoltre manca del tutto qualunque oggetto che cambia; e se in ogni processo vi è qualcosa che cambia, non si tratta qui di un processo. Non vi è nulla qui che cambia, e non ha più senso parlare in questo caso di qualcosa che dura. Non vi è dunque alcun senso nel voler trovare qui qualcosa che perdura in una durata”96. Questo passo risale probabilmente alla fine del 191197; ma in un manoscritto che si può collocare con sicurezza tra l’ottobre 1908 e l’estate 1909, Husserl afferma: “Non è forse un’assurdità il considerare il flusso temporale un movimento oggetCfr. K. Held, Lebendige Gegenwart: die Frage nach Seinsweise des transzendentalen Ich bei Edmund Husserl, entwickelt am Leitfaden der Zeitproblematik, L’Aia, Nijhoff, 1966. 96 E. Husserl, Per la coscienza interna del tempo, cit., p. 74. 97 E. Husserl, Die Bernauer Manuskripte über das Zeitbewußtsein (1917-18), n. 54, cit., p. 368-382. 95

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Genesi della temporalità

tivo? Sì! D’altro canto, il ricordo è purtuttavia qualche cosa che ha il suo proprio ora, per esempio lo stesso ora di un suono. No. Ecco l’errore fondamentale. Il flusso dei modi di coscienza non è un processo, la coscienza dell’ora non è a sua volta un ora. L’essere “insieme” alla coscienza dell’ora, alla ritenzione, non è un’ora, non è simultaneo all’ora, poiché questo non ha senso: […] si tratta di cose della massima importanza, forse le più importanti di tutta la fenomenologia”98. Soffermiamoci ancora un istante su questo punto decisivo per la riflessione husserliana successiva. Come si è appena visto, la temporalità della coscienza costituente è pensata dallo Husserl delle Lezioni del 1905 sul modello della percezione (ad esempio la percezione di un suono): anche laddove questa non si verifichi attualmente, la rimemorazione o la fantasia “presentificano” intuitivamente la percezione “come se” si trattasse realmente del dato hyletico originario. Tuttavia – obiezione classica a questo argomento – tale percezione, in quanto dura nel tempo, dà luogo a un processo la cui unità temporale dev’essere a sua volta costituita con un atto intenzionale successivo, e così via all’infinito. Infatti, afferma Husserl, “già l’ora è diventato un non-più-ora e il nuovo ora ha un contenuto in parte simile, in parte qualitativamente diverso, e tutto ciò incessantemente. L’ora diventa l’all’istante”99. Ora, qualunque sia l’ambito a cui una percezione riflessiva possa appartenere, essa resta coscienza assoluta fintantoché non è percepita: dunque, “non-percepito” significherà “non-cosciente” e, pertanto, la coscienza assoluta si troverebbe paradossalmente ad essere un’“immanenza incosciente” di coscienza. Ciò significa che, fino a quando i contenuti della coscienza assoluta sono penE. Husserl, Die Bernauer Manuskripte über das Zeitbewußtsein (1917-18), n. 50, cit., p. 333. 99 E. Husserl, De la synthèse passive, cit., p. 66. 98

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sati come “apprensione” o “contenuto di apprensione”, non vi è alcuna differenza tra la coscienza assoluta e gli oggetti temporali immanenti: in ultima analisi, dalle Lezioni del 1905 emerge chiaramente che una teoria convincente della coscienza assoluta non è possibile se non si rinuncia a utilizzare lo schema “apprensionecontenuto d’apprensione” e se la coscienza assoluta non si libera definitivamente dal modello fenomenologico percettivo. In altri termini, siccome la coscienza assoluta è intenzionalità pura, sorge la domanda su quale genere d’intenzionalità bisogna ammettere a proposito del trattamento dell’intenzionalità ritenzionale della coscienza assoluta. Se tale coscienza ritenzionale non può essere intesa come un’apprensione intenzionale di un contenuto di sensazione modificato ma presente, non vi è più alcuna ragione per considerare come percezione tale coscienza del passato. Del resto, anche Husserl ne prende coscienza e, nel testo n. 54 delle Lezioni del 1905, considera la ritenzione come una sorta di “presentificazione” o di “riproduzione” totalmente sui generis rispetto allo statuto della percezione. Fermamente convinto della differenza tra ritenzione e rimemorazione, pur nella presa di distanza dalla forma percettiva, la ritenzione diventa una sorta di “coscienza attuale del passato”100, appartenente alla coscienza assoluta, nella quale sia un oggetto temporale immanente passato sia il momento già defluito dalla coscienza assoluta che l’ha costituito sono dati intuitivamente. Diversamente dalla rimemorazione, la presentificazione ritenzionale – non più pensata sul modello percettivo – non defluisce nuovamente, non è una ripetizione del deflusso ma una coscienza in costante modificazione, dallo sfuggire del presente sino all’affondare progressivo nel passato. Così Husserl esce dall’impasse creatosi con l’indebito accostamento tra ritenzione R. Bernet, Introduction a Sur la phénoménologie de la conscience intime du temps: 1893-1917, Grenoble, Millon, 2003, p. 49.

100

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Genesi della temporalità

e rimemorazione, laddove al contrario essi mostrano una costituzione alquanto differente: in quanto carattere a-temporale della coscienza assoluta, la ritenzione non possiede alcuna durata reale, non è – come la rimemorazione – un oggetto temporale immanente, ma una proto-rimemorazione o rimemorazione originaria (Ur-Erinnerung), che non solo rende possibile la rimemorazione in quanto trattiene ciò che va ricordato dal deflusso verso il passato più lontano, ma partecipa e determina in modo decisivo la costituzione intenzionale della rimemorazione come oggetto temporale immanente. La doppia direzione dell’intenzionalità, che mantiene in sé la presentificazione ritenzionale del passato, non raggiunge dunque la piena validità se non ci si sposta dalla concezione della ritenzione come rimemorazione attuale di un’impressione primaria a un modello differente, per cui la coscienza intenzionale si costituisce come un incessante flusso ritenzionale. Afferma R. Bernet: “Non è che nel flusso della coscienza ritenzionale che all’occorrenza si costituiscono tanto l’unità dell’oggetto temporale che affonda nel passato quanto l’apparizione dell’unità della coscienza in se stessa come un flusso”101. Come pensare dunque un tale flusso intenzionale? Poiché ogni nuova ritenzione non si rapporta soltanto con quella precedente, ma tramite quest’ultima si pone in relazione con molte altre ritenzioni precedenti, ogni ritenzione presentifica tutto il corso defluito della coscienza assoluta, ottenendo così una sorta di “imbottigliamento”102 ritenzionale: e se ogni ritenzione abbraccia tutto il flusso, è evidente che l’immagine più adatta per descrivere una tale “stratificazione di implicazioni temporali” è una spirale priva di estremità iniziale, da percorrere interamente procedendo in avanti pur nel mantenimento di tutto il passato da cui proviene. 101 102

Ibidem. Ivi, p. 50.

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Capitolo quinto

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Torneremo su questo punto più avanti: per ora, ci è sufficiente rilevare come quello che – a partire da una lunghissima tradizione che affonda le sue radici nella Fisica di Aristotele e che arriva fino allo Husserl delle Lezioni del 1905 – si intendeva con “presente” originario non corrisponda in realtà a un ora attuale e isolabile, ma a un campo in cui l’Ur-impression fluisce insieme alle proprie ritenzioni in sempre nuove impressioni e dunque in nuove ritenzioni reciprocamente intrecciate. Scrive Husserl: “Ogni vissuto della percezione si espone a un impressionante intreccio e tuttavia in una necessità comprensibile come un incessante divenire fluente, in cui un continuum successivo di continua della presentificazione ritenzionale si genera in modo vivo, così come in modo vivo un ora momentaneo entra in scena originaliter in ogni presente pieno e così come, nel flusso, esso è staccato da un nuovo ora, benché generi con lui, come la coda di una cometa, la sua serie di ritenzioni”103. Il tempo unidimensionale pensato come omogeneo susseguirsi di oggettività differenti e autonome si mostra così, dal punto di vista fenomenologico, come un’istanza derivata rispetto alla temporalità originaria della coscienza intenzionale-ritenzionale: il presente originario non è in sé puntuale, poiché si costituisce come un campo temporale i cui bordi sono tracciati dalla “fase-limite del presente attuale”, dalla sua ritenzione, o meglio dalla serie infinita di implicazioni intenzionali generate da un solo oggetto, e dal passato come orizzonte ultimo del defluire ritenzionale. Ecco tornare l’immagine del “campo di forze intenzionali” già evocata, e sulla quale torneremo diffusamente. Nei Bernauer manuskripte e nelle Lezioni sulla sintesi passiva, Husserl descrive anche un altro tipo di presentificazione, la protenzione, più direttamente connessa con la sfera della passività pre-intenzionale. Si tratta delle “pre-attese suscitate costantemente 103

E. Husserl, De la synthèse passive, cit., p. 69.

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Genesi della temporalità

dallo scorrere delle ritenzioni e continuamente modificantesi”104. Così, di volta in volta lungo il defluire del flusso coscienziale, sorge un orizzonte di “futuro in arrivo”, anche se relativamente indeterminato, soggetto a costanti mutamenti man mano che i fenomeni si manifestano, confermando o infirmando quello stesso orizzonte di attesa pre-intenzionale. Per vuota e libera che sia questa continuità di pre-attese, non può essere mai del tutto indeterminata: la funzione passiva della coscienza – ben prima che l’Io prenda attivamente parte al flusso temporale – tende a porre originariamente in relazione le implicazioni ritenzionali con una sorta di prefigurazione del senso ancora “a venire”. Naturalmente, la connessione tra l’attesa e la conferma oggettuale viene vissuta intenzionalmente e dunque dà luogo a ritenzione, andando così ad accrescere l’attesa protenzionale successiva. Scrive Husserl: “Se ogni passato recente è un continuum di adombramenti dei presenti costantemente trascorsi, allora ogni futuro prossimo è un adombramento di secondo grado, un’ombra gettata in avanti da questo primo continuum di adombramenti”105. Beninteso, questa dinamica di reciproca implicazione tra flusso ritenzionale e adombramenti protenzionali va collocata all’interno delle sintesi passive, cioè ben prima che l’Io prenda attivamente parte al decorso temporale: in seguito, le intenzionalità d’attesa potranno essere riempite intuitivamente oppure no, ma in ogni caso la ritenzione di tale rapporto di riempimento (effettuato o mancato) fungerà da linea-guida per la serie successiva di attese protenzionali. Tentiamo, a conclusione di queste analisi sulla temporalità, di misurarne la portata per la soggettività trascendentale. Molto significativamente, il § 4 del primo capitolo delle Lezioni sulla sintesi passiva si intitola Pluralità degli strati dell’io: in un contesto 104 105

Ivi, p. 74. Ibidem.

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che pare essere piuttosto lontano dalle grandi opere sistematiche del decennio precedente, Husserl descrive la soggettività trascendentale come la sintesi vivente di un’infinità di strati coscienziali, generantesi costantemente lungo il corso del flusso temporale ritenzionale-protenzionale. Vivendo nel presente, l’io si rapporta continuamente a un passato; ma il passato è a sua volta un presente defluito in passato: dunque, io che sono il protagonista di un flusso di vissuti che in ogni ora sono dei vissuti originari e di cui io sono cosciente, percepisco qualunque cosa mi si manifesti proprio all’interno di questa dinamica intenzionale. In questo flusso di vissuti, fanno la loro comparsa dei vissuti di rimemorazione presentificante: così, per quanto essi costituiscano i miei vissuti originari presenti, per loro tramite io trovo presentificato un presente che non è propriamente presente, e insieme vedo presentificato anche un io e un flusso di vissuti che non sono propriamente presenti, così come delle percezioni non presenti e, in generale, un mondo esteriore percepito sebbene non presente. Husserl afferma allora che “non mi accontento di essere e di vivere, ma un secondo io e una seconda vita diventano coscienti, si riflettono per così dire nella mia vita, in altri termini si presentificano nei miei ricordi presenti. E questo non basta ancora, non soltanto una seconda vita, ma un’infinità di vite simili, per quanto il passato sia una continuità e che a ogni punto del passato conforme al ricordo appartiene un altro presente presentificato con l’io e con la vita dell’io non presentificata”106. Tuttavia, ciò non comporta una dispersione o una frammentazione della soggettività, poiché “ognuno degli io corrispondenti rimane continuamente identico attraverso tutte queste riproduzioni, così come rimane identico il mio io e come l’io nella sua effettività passata resta cosciente e in una certezza assoluta all’interno del ricordo

106

Ivi, p. 60.

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Genesi della temporalità

presente”107. Questa multiforme stratificazione della soggettività costituisce il pendant della multiformità costitutiva di ogni manifestazione: ogni apparizione implica infatti un intero sistema di apparizioni, sotto forma di orizzonti esterni e interni all’io. Pertanto, afferma sorprendentemente Husserl, “nessun modo d’apparizione immaginabile non dà in modo completo l’oggetto che appare, in nessun caso quest’ultimo è corporeità ultima in carne e ossa (Leibhaftigkeit) che offre il sé dell’oggetto esaurendolo completamente. Qualunque apparizione include con sé nell’orizzonte vuoto un plus ultra. E tuttavia, come con ogni apparizione, la percezione pretende di dare l’oggetto in persona (leibhaft), di fatto pretende continuamente di fare più di quel che può per sua essenza. Specificamente, ogni dato di percezione è una mescolanza costante di conosciuto e inconosciuto rinviante a nuove percezioni possibili che condurrebbero all’essere conosciuto”108. Passi come questo segnano senz’altro una notevole distanza rispetto al progetto perseguito, ad esempio, nelle Ideen; eppure, non si tratta di una vera e propria svolta husserliana o una disconfessione dell’ideale dell’evidenza perseguito sin dall’assunzione del modello fenomenologico trascendentale, ma un profondo ripensamento di quello stesso progetto in vista di una sua riformulazione più matura e compiuta. Come sappiamo, ogni datità implica una certa trascendenza; sappiamo anche che Husserl utilizza lo strumento della riduzione proprio per “trattare” la trascendenza e ri(con)durla all’immanenza della coscienza intenzionale. Tuttavia, le indagini sulla temporalità hanno mostrato come, a ben vedere, è la stessa coscienza nel suo fluire che possiede un carattere di trascendenza: l’Io è trascendente a se stesso: “la corrente di coscienza vive con il fluire e diviene al 107 108

Ibidem. Ivi, p. 102 (corsivo nostro).

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tempo stesso oggettuale, oggettiva per il suo io proprio; lo diviene in quanto sé trascendentale che perviene a una datità incompleta e approssimativa nelle rimemorazioni e nelle sintesi di rimemorazioni di un presente qualunque”109. In sintesi, è proprio tale datità approssimativa e incompleta che indica all’io l’idea di una datità assoluta e completa, l’idea del vero passato di coscienza in quanto principio della Absolute Gegebenheit. In ultima analisi, la “seconda navigazione” husserliana degli anni Venti a proposito della temporalità e, in generale, della passività dell’io trascendentale, ha mostrato chiaramente che, come afferma ancora Patočka, “l’ego puro, senza alcuna specie di ritenzione, è dunque impensabile”110, poiché il presupposto di ogni riflessione è la ritenzione che stabilisce passivamente – dunque pre-intenzionalmente – una distanza tra l’ego riflettente e l’ego tematizzato fenomenologicamente: non si tratta certo di scavare un solco tra i due ego o di contrapporli ma, paradossalmente, di pensarli insieme nella loro distanza, poiché, senza una tale messa a distanza nell’unità, la riflessione trascendentale non sarebbe in nessun modo possibile. Soffermiamoci su questo punto nodale, che ci permetterà di delineare gradualmente quel territorio fenomenologico che cerchiamo di tracciare sin dall’inizio delle nostre riflessioni. Si è visto come, dal punto di vista della fenomenologia genetica, la coscienza intenzionale sia essenzialmente coscienza ritenzionale, poiché ogni Erlebnis è immerso nella fitta trama di connessioni temporali, dalle quali non può essere separato; si è visto anche che tale ritenzione non va pensata nella forma della rimemorazione intenzionale – pena la ricaduta nel modello percettivo, generatore dei numerosi fraintendimenti e difficoltà che Husserl descrive magistralmente nelle Lezioni del 1905 e nelle Lezioni sulla sintesi passiva – ma 109 110

Ivi, p. 263. J. Patočka, Introduction à la phénoménologie de Husserl, cit., p. 166 (trad. nostra).

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Genesi della temporalità

come struttura essenziale e pre-riflessiva del deflusso coscienziale: ora, se dal punto di vista del metodo genetico ogni vissuto è originariamente intessuto nella trama temporale e può essere colto riflessivamente solo in quel “ritardo costitutivo” che è la ritenzione, il metodo statico-costitutivo ci permette di isolarlo nella sua purezza ideale, ma si tratta appunto di una “messa a distanza”, della costituzione di un “altro” ego, per così dire “depurato” da quelle impurità che ne caratterizzano la vita trascendentale in modo essenziale. Non abbiamo dunque due ego distinti, ma una stessa soggettività costantemente identica a se stessa nei propri mutamenti derivanti dalla propria temporalità costitutiva e, purtuttavia, in grado di riflettere sulla propria costituzione fino a pensarne – pensarne, giova ripeterlo, non percepirne intuitivamente – la datità nella purezza assoluta. In altri termini, la soggettività assoluta può compiere le proprie operazioni attive solo a partire dalla soggettività passiva, il che significa che ogni atto intenzionale è reso possibile soltanto dalla ritenzione pre-intenzionale; reciprocamente, la soggettività passiva può essere pensata solo attraverso la sua oggettivazione, che tenta di spiegarne il funzionamento per mezzo dell’analisi della coscienza ritenzionale: per così dire, l’io passivo costituisce la ratio essendi di quello attivo, mentre quest’ultimo costituisce la ratio cognoscendi del primo. A conferma di ciò, si potrebbe ancora affermare, con Held, che la ritenzione costituisce una sorta di “ontificazione”, per cui l’ego (inteso geneticamente) resta identico a se stesso soltanto nella distanza da se stesso (inteso staticamente). Scrive ancora Patočka a tal proposito: “[…] possiamo comprendere questo ego fondamentale come idea di un fondamento costante, che agisce e funge costantemente in modo identico per tutta la vita, ma che non si mostra alla riflessione oggettiva se non nel proprio divenire temporale. Questo fondamento non è un semplice sostrato, un semplice portatore, ma un realizzatore […] Ma proprio il suo funzionawww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo quinto

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mento, a prescindere dall’auto-alienazione da cui è inseparabile, ci è inaccessibile come tale, senza oggettivazione. […] L’ego, che non si coglie se non attraverso un’oggettivazione retrospettiva, vive allo stesso tempo sotto il segno dell’idea del fondamento che lo precede o, secondo l’espressione di Held, “vive nella propria protenzione”. In ultima analisi, l’ego è sempre a venire”111.

111

Ivi, p. 167.

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Capitolo sesto

Un trascendentale alter-ato

Pur senza voler ridurre l’importanza fondamentale delle opere che Husserl ha voluto dedicare alla fenomenologia cosiddetta “statica”, tesa alla descrizione minuziosa della coscienza assoluta e dei modi di datità attraverso cui i fenomeni si offrono nella loro Leibhaftigkeit, non si può non ammettere che le indagini husserliane sulle questioni della temporalità e della sintesi passiva rappresentino una sorta di “irruzione” della mediazione, del ritardo e dell’impurità sin nella radice più profonda della soggettività trascendentale. Esaminando sommariamente lo sviluppo di questi temi, ci siamo trovati dinanzi a un’“alterazione”, a un’apertura localizzabile tra l’ego trascendentale assoluto, polarità noetica di ogni manifestazione, soggetto di ogni riflessione, e l’ego fungente temporalizzato nella sua pura passività pre-intenzionale, geneticamente ben più originario ma tematizzabile riflessivamente solo a partire dal primo, dunque in costante “ritardo ritenzionale” e abitato da un residuo incancellabile d’impurità fenomenologica: per riprendere un’espressione di J. Greisch, un cogito blessé112. Ora, in quello stesso “spazio alterato” – in quello “scarto nell’identico” – va pensata la

Cfr. J. Greisch, Le cogito herméneutique. L’herméneutique philosophique et l’héritage cartésien, Parigi, Vrin, 2000.

112

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Un trascendentale alter-ato

questione dell’intersoggettività113 e, dunque, del rapporto tra l’ego trascendentale e l’altro. Non c’è dubbio che la questione dell’alterità, delle sue forme di manifestazione e del rapporto che l’io incessantemente instaura con l’altro, costituisca uno degli aspetti al tempo stesso più problematici e più dibattuti del pensiero dello stesso Husserl: basti pensare all’enorme quantità di manoscritti sull’intersoggettività, contenuti nei volumi XIII, XIV e XV dell’Husserliana, per rendersi conto di quanto lo stesso padre della fenomenologia ritenesse centrale questo problema, e non lo considerasse – come spesso si è affermato114 – una questione fenomenologica secondaria e collaterale. In breve, nel quadro del modello fenomenologico trascendentale, che Husserl sviluppa a partire dal 1907 e che diventa l’unico suo orizzonte di riferimento con la pubblicazione delle Ideen I nel 1913, sorge la domanda sulla relazione fondamentale tra l’ego costituente, polarità di irraggiamento dell’intenzionalità, e l’altro, costituito dall’ego in prima istanza come corpo-cosale ma a sua volta caratterizzato come attività intenzionale e costituente analoga a quella dell’ego stesso. In altri termini, e secondo l’interrogativo che Husserl stesso pone all’inizio della Quinta Meditazione CarGià nella conferenza parigina del 1929, l’orizzonte veniva allargato alla questione dell’intersoggetività proprio laddove se ne rivendicava il carattere trascendentale e oggettivo: “La soggettività trascendentale si estende in intersoggettività, in socialità trascendentale-intersoggettiva, che è il suolo trascendentale per natura e mondo intersoggettivi […]”. (E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 30). 114 Si veda, ad esempio, il giudizio di G. Marcel che viene ripreso da F. Riva: “L’obiezione che viene mossa a Husserl è dunque di un’interna autosmentita tra l’esigenza di tornare all’esperienza per un verso e la tensione idealizzante a catturare l’essenza dei fenomeni (riduzione eidetica) per un altro, che svela appunto un atteggiamento solipsistico dell’io (idealismo trascendentale). Marcel avverte dietro a Husserl lo stesso pericolo di Cartesio: la solitudine dell’io, la separazione mentale dal mondo, la difficoltà di raggiungere l’alterità da se stessi.” (F. Riva, Una possibilità per l’altro. Lévinas, Marcel e Ricoeur, in E. Lévinas-G. Marcel-P. Ricoeur, Il pensiero dell’altro, Roma, Ed. Lavoro, 2008, p. XXVII). 113

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Capitolo sesto

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tesiana: la fenomenologia trascendentale non si risolve come tale in una forma di solipsismo? Se la costituzione del mondo avviene sempre a partire dall’attività intenzionale dell’ego, come intendere la molteplicità degli ego nel mondo? E soprattutto, che rapporto intercorre fra loro? L’altro Io può essere colto come tale o solo nella sua dimensione oggettuale, come corpo-cosale che mi sta di fronte? Vi è cioè la possibilità di un accesso immediato ai vissuti di coscienza altrui? Essi possono offrirsi allo sguardo fenomenologico nel modo dell’evidenza? Come è stato acutamente osservato da I. Kern e da N. Depraz, curatori rispettivamente dell’edizione tedesca e francese dei volumi dell’Husserliana dedicati all’intersoggettività, tutte queste questioni sono state sviluppate da Husserl secondo tre itinerari, corrispondenti a vere e proprie “figure dell’intersoggettività”: a) l’empatia, secondo un movimento argomentativo di stampo cartesiano, lo stesso seguito a partire dall’Idee der Phänomenologie, b) la riduzione intersoggettiva, secondo il percorso teorico che Husserl sviluppa a proposito della psicologia e c) il mondo comunitario dello spirito, secondo la via della riduzione alla Lebenswelt, tipica dell’ultimo Husserl. Naturalmente, queste tre figure s’intrecciano reciprocamente, talvolta come se l’una costituisse lo sviluppo dell’altra: per esempio, se la figura dell’empatia emerge sin dagli anni 1905-’10 – a riprova dell’interesse affatto tardivo di Husserl per l’intersoggettività –, la figura della riduzione intersoggettiva e del mondo comunitario dello spirito saranno tematizzate a partire dagli anni 1910-’11. Inoltre, se l’empatia costituisce un approfondimento del percorso che Husserl delinea nelle Meditazioni Cartesiane, la riduzione intersoggettiva dev’essere constestualizzata nelle due ultime sezioni della Erste Philosophie e nel volume IX dell’Husserliana, mentre il mondo comunitario dello spirito dev’essere compreso in rapporto con le Ideen II e la Krisis. Tra queste tre figure dell’intersoggettività, quella che ha maggiormente segnato il www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Un trascendentale alter-ato

dibattito fenomenologico in Francia è senz’altro la prima, l’empatia (Einfühlung), alla quale è strettamente legata la nozione di analogia, attraverso cui Husserl delinea la propria “via cartesiana”115. Ripercorriamone brevemente i tratti fondamentali. Com’è possibile che, all’interno del mio flusso di coscienza, si annunci un altro flusso di coscienza e dunque un altro soggetto egologico, o meglio, molti altri soggetti egologici che contribuiscono alla costituzione di una natura comune, oggettiva, cioè di una “teoria trascendentale del mondo obiettivo”116? Si tratta certamente di un problema molto arduo per Husserl poiché, in primo luogo, tutta la realtà si costituisce nella mia coscienza: ogni oggetto è soltanto in quanto si costituisce in me attraverso un processo correlazionale il cui polo intenzionale è sempre l’ego trascendentale. Ora, la stessa cosa vale anche per l’altro soggetto, che tuttavia è per me soltanto in quanto costituito intenzionalmente dalla mia coscienza, dunque in quanto mio vissuto di coscienza. In questo caso è evidente che la fenomenologia non potrebbe evitare la minaccia del solipsismo, un solipsismo trascendentale incapace di oltrepassare il flusso di coscienza e l’immanenza della coscienza raggiunta tramite la riduzione fenomenologica: Husserl ne è ben consapevole e, proprio per salvare il proprio progetto filosofico da questo rischio così profondo e radicale, torna continuamente sul tema dell’intersoggettività, dedicandovi sforzi teorici di portata sempre più vasta117. Tuttavia, la scelta per il modello fenomenologico trascendentale impone a tutte le analisi husserliane sull’intersoggettività una forma particoCiò non significa che le altre due figure dell’intersoggettività non siano state oggetto di analisi da parte degli interpreti di Husserl: semplicemente, il modello cartesiano è il primo ad essere penetrato in Francia, a partire dai Pariser Vorträge del 1929 e dalla successiva traduzione, nel 1930, delle Meditazioni Cartesiane ad opera di Lévinas. 116 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 152. 117 Basti pensare a un semplice dato numerico: dei tre volumi dell’Husserliana dedicati all’intersoggettività, il volume XIII copre quindici anni in 487 pagine, il XIV otto anni in 565 pagine e il XV sette anni in 673 pagine. 115

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Capitolo sesto

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lare e irrinunciabile: l’altro è sempre pensato come alter-ego. Ciò fa sì che Husserl si trovi sempre dinanzi alla difficoltà di descrivere fenomenologicamente la nostra esperienza dell’alterità e il suo contenuto noetico-noematico, cioè da un lato il modo d’essere e la Gegebenheit di quest’oggetto particolare che è l’alter-ego, e dall’altro lato gli atti intenzionali attraverso cui lo costituiamo in quanto coscienza altra. Ora, ci si accorge facilmente che, in primo luogo, noi facciamo esperienza degli altri in quanto oggetti psico-fisici nel mondo, cioè come dei corpi-cosali; tuttavia, li esperiamo anche come soggetti che, a loro volta, fanno esperienza del nostro stesso mondo: in altri termini, noi esperiamo gli altri sia nella loro oggettità, nel loro “star dinanzi a noi” (Gegenständlichkeit), sia nel loro essere soggetti d’esperienza a cui il mondo si mostra nello stesso modo in cui si mostra a noi. Ciò significa che il senso dell’oggettità del mondo implica la presenza-per-ciascuno, dunque che l’idea del mondo obiettivo rinvia agli altri soggetti: il fenomeno non è solo ciò che Io vedo, ma anche ciò che l’altro vede allo stesso tempo – forse il lato del fenomeno che a me resta nascosto –, ed entrambi vediamo la stessa cosa, anche se da due differenti visuali prospettiche. Attraverso un’ulteriore epoché astrattiva che riduce l’ego alla sfera della pura proprietà (Eigentlichkeit), cioè a quelle unità sintetiche che non implicano in alcun modo altri soggetti, “vediamo che gli appartiene immediatamente la divisione del suo intero campo trascendentale di esperienza, nella sfera della sua proprietà da un canto – insieme allo strato coerente dell’esperienza del mondo, in cui ogni estraneità è messa in ombra – e nella sfera dell’estraneo dall’altro”118. Questa esperienza primordiale raggiunge il livello più profondo e originario dell’ego, senza il quale non sarebbe possibile esperire né l’alter ego né il mondo obiettivo. Attraverso questo 118

E. Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 122.

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Un trascendentale alter-ato

processo riduttivo-astrattivo, si perviene a un livello inferiore della coscienza – Husserl utilizza l’espressione eigentliche Natur –, cioè un livello d’esperienza che implica unicamente una costituzione soggettiva solipsistica e che deve restare ben distinta dalla natura, prodotto intersoggettivo per eccellenza. In ultima analisi, si tratta di un livello così originario da non essere minimamente colpito neppure dall’eventuale scoperta della non-esistenza degli altri. Ecco emergere, in questa sfera di pura proprietà dell’ego, il mio “corpo organico” (Leib), cioè il solo corpo che non è soltanto “corpo fisico” (Körper)119: mentre gli altri corpi sono puri oggetti che vedo dall’esterno, il mio corpo organico o vivente si muove insieme a me, rappresenta l’hic et nunc a partire dal quale guardo il mondo. In secondo luogo, questo corpo ha delle sensazioni interne: mentre degli altri corpi posso soltanto accorgermi del movimento, del mio corpo ho delle sensazioni cinestetiche che lo accompagnano in qualunque movimento o mutamento di stato. Infine, se io posso soltanto toccare gli altri oggetti, ogni volta che tocco il mio corpo produco una doppia serie di sensazioni, per così dire autoaffettive: tocco e mi sento toccato. In altri termini, ogni ego esperisce se stesso come unità psicofisica, ossia come sintesi indissolubile di corporeità fisica e capacità di sentire: una volta sospeso ogni rapporto con un possibile “noi”, l’ego resta il solo polo di tutti i miei Erlebnisse, l’io a cui tutte le rappresentazioni si riferiscono e la forza sintetica attraverso cui l’esperienza dell’alterità si costituisce. Tuttavia, se riflettiamo sulla nostra esperienza dell’alterità, ci accorgiamo che l’altro è dinanzi a noi in persona, in carne e ossa, offrendosi a noi in modo profondamente diverso rispetto a una semplice cosa. Più precisamente, l’altro ci si dà in primo luogo come corpo fisico, sottoponendosi al processo costitutivo da parte dell’ego trascendentale che lo intenziona, ma tale processo sintetico – che mi119

Ivi, p. 119.

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Capitolo sesto

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rerebbe alla riduzione dell’altro all’evidenza per l’ego, come accade per ogni fenomeno che si offra nella forma dell’oggettità – trova la propria pietra d’inciampo in un dato fenomenologico essenziale: l’altro non si riduce a un corpo fisico, ma è innanzitutto una coscienza intenzionale i cui vissuti sono inaccessibili alle nostre sintesi costitutive. All’esperienza dell’altro deve dunque appartenere “una certa intenzionalità indiretta […]; è questa mediazione che rende rappresentabile il momento della presenza secondaria, la quale non è ancora la presenza stessa né può mai diventare presenza primaria. Si tratta qui dunque di una specie d’atto di rendere-come-presente, d’una specie di appresentazione”120. Ecco la condizione di possibilità appercettiva dell’analogia tra il mio corpo e quello dell’altro. Dunque, la somiglianza tra il mio corpo e quello altrui agisce in modo tale che il corpo fisico che mi si manifesta è percepito come un corpo vivente simile al mio, ma non una cosa sola con esso: il corpo altrui si mostra come corpo vivente solo attraverso una “trasposizione appercettiva proveniente dal mio corpo. […] È chiaro innanzitutto che solo una somiglianza, interna alla mia sfera di primordinalità, tra quel corpo e il mio può fare del primo un altro corpo”121. Ora, questo accesso indiretto e mediato alla vita della coscienza dell’altro è denominato da Husserl “empatia” (Einfühlung), una forma particolare di esperienza attraverso cui l’ego si rapporta alla coscienza d’altri: naturalmente, questa esperienza della coscienza dell’altro è completamente diversa rispetto alla percezione interna tramite cui l’ego fa esperienza della sua propria coscienza, si potrebbe dire che l’ego – in quanto originariamente empatico – è direttamente presso l’altro, è presso l’altro senza coincidervi. Non può coincidervi, perché ciò comporterebbe l’assunzione immediata da parte dell’ego degli stessi vissuti dell’altro – come se, ve120 121

Ivi, p. 129. Ivi, p. 130.

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Un trascendentale alter-ato

dendo un uomo in collera, fossi immediatamente colto da collera anch’io, cosa evidentemente assurda. Si tratta piuttosto di un atto di presentificazione, un’esperienza di una coscienza empatizzata, cioè una coscienza non interamente inscrivibile nel flusso intenzionale dell’ego, in modo tale da presentarsi come un altro punto di vista sullo stesso mondo di cui entrambi facciamo esperienza: per l’appunto, il punto di vista di un’altra coscienza. In ultima analisi, l’empatia si definisce come una relazione in cui l’altro è “dentro di me” nella forma di uno sguardo “in sovrappiù” rispetto a ciò che io vedo e, reciprocamente, io sono “nell’altro” nella forma di un “sovrappiù” rispetto a ciò che egli vede: in ciò consiste il superamento del solipsismo fenomenologico secondo Husserl. Come già accennato, la pubblicazione dei manoscritti inediti sull’intersoggettività ha offerto molte occasioni di confronto con un’immensa fonte di riflessioni su questi temi, non in opposizione ma in costante “reazione” con i testi editi che abbiamo richiamato finora, una sorta di “laboratorio” in cui l’intersoggettività emerge e perviene alla propria autocomprensione fenomenologica. Lungo le diverse periodizzazioni dei manoscritti, ci si accorge facilmente di un costante intreccio tra la tematica dell’intersoggettività e quella della “sfera” o “terreno” originario; nel manoscritto n.  32 del 1927, Husserl scrive: “Nella mia sfera originaria […], faccio anche l’esperienza del corpo estraneo, che concepisco tuttavia come carne, e come carne che possiede delle proprietà corporee nello stesso istante in cui mi trovo, anche se io non le percepisco e non posso percepirle. Appresentazione”122. E ancora: “L’insieme di ciò che assume per me il prodigioso titolo di sfera originaria d’esperienza è indicato in una modificazione, a titolo di appresentazione, da parte del corpo che percepisco dinanzi a me nella mia sfera originaria, e così noi identifichiamo l’anima dell’altro con quella 122

E. Husserl, Sur l’intersubjectivité, cit., p. 121 (trad. nostra).

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di quel corpo là fuori, attraverso l’esperienza originaria sottoposta all’interpretazione”123. In un altro testo datato febbraio 1927, Husserl mette in campo la questione del “movimento” delle cose nello spazio esterno, in riferimento allo “spazio prossimo” puramente soggettivo: “Il mio movimento soggettivo mi conduce in ogni spazio esterno, in modo tale che le cose là fuori diventano per me vicine e circondano così, nel suo spazio prossimo, la mia carne «assolutamente vicina», forniscono precisamente il campo prossimo, insieme visivo e tattile, come se facessero tutt’uno con essa. Ogni movimento di una cosa esterna che vedo possiede il suo corrispettivo in un movimento soggettivo possibile, in cui io «percorro» soggettivamente lo stesso spazio che dà luogo al movimento. Ogni movimento apparente, ogni mutamento dell’orientamento di altre cose possiede già il suo correlato in un movimento soggettivo che ne forma la compensazione”124. Come già brevemente accennato, si tratta qui della tematizzazione husserliana dello spazio come “sistema intersoggettivo di luoghi”, ossia come campo d’interazione tra intenzionalità differenti che congiungono, intersecandosi tra loro, i vari ego costituenti con le “cose” disposte nello spazio. Tra esse, il livello-zero dell’oggettualità è costituito dal fenomeno della mia carne, fenomenologicamente intesa come coincidenza di percepito e percipiente, dunque sia come polarità noetica rivolta alle cose e agli altri ego, sia come polarità noematica termine dell’intenzionalità altrui e offrentesi a titolo di datità-per-gli-altri. Giova ripetere che siamo dinanzi a un vero e proprio campo di forze, uno spazio mobile coincidente con ciò che Husserl chiama “sfera originaria di esperienza” costitutivamente intersoggettiva. Al suo interno – un interno tuttavia senza confini, si potrebbe forse dire “entro la sua apertura” – ogni mutamento spaziale delle cose o degli altri ego 123 124

Ivi, p. 122. Ivi, p. 126.

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Un trascendentale alter-ato

possiede un correlato soggettivo, un “ripercorrimento” intenzionale dello spazio in cui ha luogo quel movimento e in cui esso viene soggettivamente costituito. Ma procediamo con l’argomentazione husserliana contenuta nell’inedito n. 32, isolandone i tratti salienti. “Lo spazio totale è dato come uno spazio di corpi dati. Nel loro modo d’apparizione cinestetica momentanea, essi fanno contemporaneamente apparire una presenza spaziale, e la quintessenza dei corpi di cui si fa esperienza nella coesistenza del loro presente ogni volta temporale – nella forma della loro presenza spaziale – forma il campo percettivo di questo presente. […] La relatività in cui tutti i luoghi dello spazio sono determinati e determinabili nell’esperienza in quanto sistema di luoghi ma a titolo di mera forma, si fonda sulla retro-referenza della costituzione globale dello spazio alla forma permanente della presenza spaziale, che è per così dire lo spaziale originario e rimane il modo d’apparizione dello spazio, il suo modo d’apparizione come spazio orientato. Allo stesso modo, il mondo spaziale è necessariamente dato sotto la forma sempre identica della presenza del mondo, del modo d’apparizione del mondo orientato nello spazio attorno alla mia carne, per ciò che, del mondo, non giunge alla presenza effettiva, è un orizzonte aperto. Se, nel toccare attuale, i corpi si sottraggono ai modi tattili di datità e […] sorge allora sempre un orizzonte, aperto e indeterminato, di corpi tangibili e sin da subito accessibili attraverso le cinestesi, allo stesso modo le cose viste si sottraggono alla visione, in parte perché il campo di sensazione è limitato, e in parte perché la messa in prospettiva rende confusi tutti i corpi e li fa sparire, finché essi si allontanano, nell’orizzonte lontano”125. Al di là delle sottili distinzioni fenomenologiche inerenti i diversi modi della percezione – visiva o tattile –, ciò che più ci interessa di questo passo 125

Ivi, p. 143.

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è la tematizzazione husserliana di una differenza essenziale tra il campo percettivo effettivo, necessariamente nella forma della presenza, come insieme dei corpi perfettamente presenti nello spazio circostante il mio corpo (livello-zero dell’oggettualità), e il campo intenzionale come “orizzonte aperto”, al quale sono rinviate tutte quelle significazioni che non pervengono alla presenza, che non sono come tali tangibili o visibili, e che sono consegnate a quel gioco di “avvicinamento-allontanamento” che ne farà dei fenomeni presenti oppure delle vaghe significazioni prossime alla sparizione. Dunque, se il “campo di sensazione” è limitato e delimita al suo interno il “regno della presenza”, esso non esaurisce certo l’infinito e indeterminato dominio della Gegebenheit nei suoi vari modi e gradi, ma rimanda appunto all’orizzonte infinito e lontano di ogni possibile e potenziale datità. Procede Husserl: “Sul piano visivo, l’insieme del campo percettivo visivo possiede la forma della presenza spaziale; ciò che esso attraversa venendo appreso è un orizzonte vuoto e aperto, un mondo non visto ma coappreso. L’intenzionalità anticipatrice vuota di questo orizzonte si riempie con il passaggio da un campo percettivo all’altro, mediante cui questa forma della presenza originaria, della datità dell’orientamento, potremmo dire così, continua ad essere ricevuta rigidamente, mentre le cinestesi cambiano e l’esperienza del mondo prosegue in differenti direzioni. Lo spazio percepito in generale […] si distingue dallo spazio prossimo o meglio «propriamente percepito.» La forma della presenza spaziale è comune a entrambe. Si potrebbe designare come spazio prossimo questa porzione orientata di spazio attorno al mio corpo, che posso realizzare da tutte le parti ma non in un colpo solo […]. La forma non ha alcun senso se non in rapporto ai contenuti possibili: sono le cose presenti nel cambiamento delle cinestesi e delle presenze visive (concretamente: la presenza naturale, cioè lo spazio contenente le cose), a volte realizzate, di cui faccio esperienza, altre volte anticiwww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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pate in un orizzonte aperto nel modo dell’indeterminazione aperta, anche se realizzata una volta, sempre di nuovo da realizzare”126. Husserl ribadisce qui l’idea della necessità di mantenere l’orizzonte della datità aperto e indeterminato, cioè senza limiti ben tracciati, affinché il campo degli oggetti intenzionabili non venga ristretto alla sola oggettività, nella forma della piena presenza. Sono passi, questi, che – parallelamente alle analisi sulla temporalità – rimettono in causa completamente la portata e il senso del cosiddetto idealismo husserliano, e l’idea – affermata apertis verbis da Heidegger127 – secondo cui l’unico obiettivo perseguito dal modello fenomenologico husserliano sia l’oggettività scientifica nella forma della piena presenza. Questi testi inediti mostrano, al contrario, un Husserl più attento all’ambito – ben più ampio di quello dell’oggettività – di semi-datità non pienamente presenti, appunto a quell’orizzonte infinito e aperto sempre di nuovo da ritracciare, al territorio e che non può essere pensato se non come costitutivamente intersoggettivo. Prosegue Husserl: “Il movimento di un corpo in generale diventa significativo per me nella misura in cui posso, trasponendomi in esso, farne la mia trasformazione locale. Lo spazio come sistema di luoghi è per me il sistema di luoghi che posso percorrere coi miei propri movimenti, dappertutto, a partire da qualunque punto mi trasponga. Ogni cosa possiede il proprio luogo nello spazio, il suo luogo temporaneamente fisso o anche mobile. Ogni movimento del corpo esterno, di cui faccio esperienza esterna, ha una significato identico a un movimento soggettivo possibile che potrebbe essere mio”128. Troviamo in questo passo conferma dei punti già precedentemente evidenziati: a ogni movimento effettivo, naturaIvi, pp. 144-145. Cf. M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit. 128 E. Husserl, Sur l’intersubjectivité, cit., p. 150. 126 127

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le, corrisponde un movimento soggettivo derivante dalla trasposizione dell’ego costituente nella “cosa” in movimento. Emerge così lo spazio originario come “sistema di luoghi”, incrocio di posizioni differenti e reciproche, riconducibili a una “sfera originaria di esperienza intersoggettiva”. Essa, secondo la tipica impostazione husserliana, viene raggiunta tramite la riduzione alla primordialità, all’evidenza originaria, all’auto-datità assoluta: tuttavia, come si è visto, essa non esaurisce tutto il campo della datità, ma fornisce un modello di riferimento in vista della costruzione di un sistema graduale di evidenze intersoggettive, costruzione che passa necessariamente attraverso la questione del rapporto tra esperienza naturale e mondo di evidenze pre-dato, cioè tra sguardo ingenuo rivolto al mondo e mondo-della-vita come sfera originaria e comunitaria di attività intenzionale. In ultima analisi, se ci si limita a una lettura superficiale della sola Quinta Meditazione Cartesiana, non si può non sottolineare l’esito enigmatico della figura husserliana dell’alter ego, ben rappresentata da questo paradosso: se da un lato ciò che l’alter ego vede è strettamente connesso a ciò che vedo io stesso, dall’altra lato io non posso mai avere una visione diretta dei suoi vissuti, in modo tale che la mia esperienza e la sua rimangono sempre separate. La relazione tra l’empatia e il dato empatico è sempre mediata: il mio sguardo si fissa sulle cogitationes altrui, tuttavia non le incontra in se stesse, ma sotto la forma di un’analogizzazione. Finché la relazione intersoggettiva si porrà l’obiettivo – puramente gnoseologico – di accedere al contenuto dei vissuti altrui, essa è destinata a cadere sotto i colpi della mediazione e dell’analogizzazione, la cui ineliminabilità è ormai evidente. Tuttavia, sebbene in forma non del tutto esplicitata, già nella Quinta Meditazione Cartesiana, e come si è visto soprattutto nei manoscritti sull’intersoggettività, Husserl segna una nuova apertura proprio attraverso la stessa figura dell’empatia, che come tale non resta confinata in ambito www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Un trascendentale alter-ato

meramente gnoseologico ma tenta l’accesso all’altro a un livello trascendentale più profondo. In questo senso, l’altro è un altro hic et nunc, un altro centro egologico, proprio come me: tuttavia, siccome non può coincidere con quel hic et nunc che io sono, è un altro hic et nunc, dunque un alter ego, un altro punto di vista, un’altra prospettiva sul mondo, quel che Husserl chiama – riprendendo una figura fondamentale della metafisica leibniziana – monade. Così, la comparsa dell’altro decentra completamente l’ego trascendentale, che si scopre allora come uno sguardo particolare, per l’appunto monadico, sul mondo: pertanto, posto che non vi siano infiniti mondi costituiti solipsisticamente da ogni ego, bisogna pensare che ogni ego esperisca l’unico mondo a partire dal proprio sguardo, che ne costituisce una via d’accesso privilegiata129. In definitiva, la forma del mondo non è che il “sistema dei luoghi – cioè degli spazi orientati secondo gli sguardi intenzionali altrui – verso i quali io potrei dirigermi”130. In questa prospettiva, meno imperniata sull’assoluta centralità dell’ego e sulla sua priorità fenomenologica rispetto agli altri – lettura ormai non più sostenibile in quanto non tiene conto dei manoscritti husserliani postumi –, sembra profilarsi un’acuta tensione tra il mantenimento della dimensione trascendentale dell’Io, polarità noetica della manifestazione del mondo, e l’apertura di Husserl – bisogna ammetterlo, talvolta debole e timida – nei confronti di una riflessione che parrebbe condurre a una decentralizzazione dell’ego e a una tematizzazione più profonda dell’empatia, non solo come processo trascendentale a fondamento della relazione con l’altro, ma anche come chiave per entrare in comunione con lui, in ragione del loro comune essere corpi viventi. Tale tensione Questo primato del mio ego rispetto a quello dell’altro è rivendicato da Husserl anche in Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, in Husserliana, XV, cit., p. 43. 130 Ivi, vol. XIV, p. 507. 129

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Capitolo sesto

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è stata spesso letta come il segno dell’esito aporetico della teoria husserliana dell’intersoggettività; tuttavia, se proviamo a procedere oltre quest’apparente oscillazione, superando così quella che sembra l’indecisione di fondo di Husserl, dibattuto tra l’aspirazione costituente e assoluta della fenomenologia trascendentale – che tenta instancabilmente di accedere al contenuto degli Erlebnisse altrui senza mai riuscirvi – e l’ancora incoativa intuizione del compito più proprio della fenomenologia, ossia la comprensione profonda del mondo e dell’alterità in generale, allora l’aporia assume lentamente una nuovo aspetto; in altri termini, la relazione tra l’Io e ogni forma di alterità in generale delinea uno spazio mobile i cui bordi sono tracciati dall’incrocio delle diverse intenzionalità che entrano in gioco: se, per un verso, esse cercano di accedere reciprocamente al contenuto dei propri vissuti – tentativo che si rivela costantemente vano – per l’altro verso esse possono accedere a un livello fenomenologico più profondo rispetto a quello meramente gnoseologico e scoprirsi così empaticamente in quella sfera del con nella quale si trovano ab origine e dalla quale, a rigore, a nessun Sé è dato di uscire. Va sottolineato tuttavia che questo spazio originario costitutivo dell’intersoggettività non è una prigione angusta, ma quello strano luogo del perpetuo passaggio in cui accade continuamente l’incontro con l’alter ego: beninteso, non più un ego assoluto e solipsistico di cui ogni alterità è mera funzione logico-percettiva – cosa che Husserl, a ben vedere, non ha mai affermato –, ma una soggettività che si lascia di volta in volta de-centrare dall’intenzionalità altrui e che cerca costantemente di cogliervi quel rapporto originario con l’altro senza il quale non sarebbe propriamente tale. In questo luogo fenomenologico originario, la tensione tra l’Io e l’altro non trova sintesi alcuna, ma può forse essere pensata all’interno di un’unica dinamica fenomenologica, laddove la fenomenologia più autentica non tenta di appianare le differenze, ma cerca un terreno www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Un trascendentale alter-ato

più originario in cui le “cose stesse” possano lasciarsi comprendere nel loro manifestarsi più complesso ma più genuino. In conclusione di questa prima ricognizione fenomenologica – che non poteva non partire proprio da Husserl –, ci troviamo dinanzi a uno scenario piuttosto complesso. A partire da alcune prime de-figurazioni del campo fenomenologico trascendentale come sfera dell’evidenza, come terreno della datità assoluta, attraverso cui Husserl richiama la dimensione “spaziale” del procedimento fenomenologico – spazialità non intesa, naturalmente, in termini fisici, ma come “aree intenzionali”, cioè aree all’interno delle quali è operante la soggettività come polarità noetica di ogni manifestazione di senso – siamo stati condotti a un approfondimento critico del progetto fenomenologico husserliano, reso necessario dall’introduzione della differenza tra fenomenologia statica-costituente e fenomenologia genetica. Come si è visto, da questo momento in poi, cioè a partire all’incirca dagli anni Venti, la fenomenologia di Husserl si trova a procedere su un sottile crinale, sul limitare di due terreni, quello costituente e quello passivo, in cui la soggettività si fa coscienza intenzionale di sé e del mondo. Attraverso il filtro delle ricerche sulla costituzione della temporalità e dell’intersoggettività, abbiamo visto emergere questo territorio sottile e misterioso, da cui l’io non può mai uscire: è la sua dimora, il suo “eterno passaggio”, il costante attraversamento di quell’alterazione originaria che si manifesta appunto nella sua temporalità irrinunciabile e nel suo essere costantemente esposto a ogni forma di alterità senza poterla ridurre a pura trasparenza. Sempre a un passo da quel terreno puro e assoluto cui tende costantemente e al quale si rapporta nella forma dell’idealità, l’Io non può che cogliersi sempre in ritardo, in quello scarto temporale e in quell’alter-azione che fanno dell’evidenza sempre un progetto, mai un possesso, e della soggettività una sintesi sempre à venir. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo settimo

Il dossier Husserl-Heidegger

Se si sfoglia il carteggio tra Husserl e Ingarden131, si comprende facilmente che è soltanto nel corso dell’estate del 1929 che Husserl ha studiato attentamente Essere e tempo, pubblicato due anni prima nell’VIII volume del Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung132. Tuttavia le divergenze tra i due filosofi, soprattutto a riguardo del modo in cui il metodo fenomenologico doveva essere inteso, risalgono già al periodo precedente la pubblicazione di Essere e tempo. Da questo momento in poi appare ciò che diverrà in seguito un leit-motiv nel giudizio di Husserl nei confronti di Heidegger: quest’ultimo, agli occhi di Husserl, non ha compreso il senso autentico del metodo fenomenologico, ossia la natura e la portata essenziale della riduzione fenomenologica trascendentale. Sempre indirizzandosi a Ingarden nell’autunno del 1927, ossia nel momento di più stretta collaborazione con Heidegger in occasione della redazione della voce Fenomenologia per l’Enciclopedia Britannica, Husserl nota: “Il nuovo articolo per l’Enciclopedia Britannica mi è costato moltissimo, in particolare perché ho dovuto E. Husserl, Briefe an Ingarden, L’Aia, Nijhoff, 1968. E. Husserl (a cura di), Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, Halle, M. Niemeyer, 1930 e segg.

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Il dossier Husserl-Heidegger

ancora una volta ripensare a fondo il mio percorso e il suo principio, accorgendomi del fatto che Heidegger – devo ora ammetterlo – non ha compreso questo percorso e conseguentemente ha frainteso tutto il senso del metodo della riduzione fenomenologica”133. Fraintendere il significato autentico della riduzione, agli occhi di Husserl, significa pervertire radicalmente il senso dell’apertura fenomenologica, mancare cioè la sua natura essenzialmente metodologica e scientifica; ma soprattutto, significa ostacolare l’accesso alla possibilità di tracciare una netta separazione tra scienza rigorosa e speculazione, ossia tra filosofia e Weltanshauung, cioè ancora tra filosofia e antropologia134. Dissipare questi malintesi è dunque per Husserl un’occasione per difendersi dalle molteplici critiche mossegli da varie correnti teoriche e di rifiutare, scrive lo stesso Husserl, “le obiezioni che, in ultima analisi, si fondano tutte sul E. Husserl, Briefe an Ingarden, cit., p. 43 [trad. nostra]. D’altra parte, poco prima Husserl dichiara duramente: “Il minuzioso saggio di Heidegger? Sono arrivato alla conclusione che non saprei in nessun modo includere quest’opera nel quadro della mia fenomenologia e che sono pertanto obbligato a rinnegarlo interamente e assolutamente, tanto per ciò che concerne il metodo quanto per ciò che riguarda essenzialmente la cosa stessa”. (ivi, p. 56). Proprio nel tentativo di favorire questa collaborazione Heidegger si sforza, nella celebre lettera a Husserl del 22 ottobre 1927, di ridefinire l’impresa di Essere e tempo in stile husserliano, cioè nei termini della concettualità della fenomenologia trascendentale: “Nelle pagine seguenti, scrive Heidegger, cercherò ancora una volta di fissare i punti essenziali. Ciò mi offre anche l’opportunità di caratterizzare la tendenza fondamentale di Essere e tempo all’interno del problema trascendentale” (la trad. it. di questa lettera si trova in R. Cristin, Fenomenologia, storia di un dissidio, Milano, Unicopoli, 1986). 134 Com’è noto, Phänomenologie und Anthropologie è il titolo della conferenza che Husserl presenta a Berlino nel giugno 1931, e nella quale Heidegger vede un segno della rottura definitiva col maestro. Tuttavia, a ben vedere la conferenza del 1931 richiama essenzialmente la tematica del Nachwort zu meinen Ideen (pubblicato nel volume IX del Jahrbuch, cit.): “Il mio disegno, annuncia Husserl, è di chiarire i malintesi che hanno generalmente offuscato il senso vero della mia fenomenologia trascendentale”. (E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, vol. III, Torino, Einaudi, 2002, p. 138; tit. orig. Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, in Husserliana, vol. V, L’Aia, Nijhoff, 1952). 133

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Capitolo settimo

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fatto che la mia fenomenologia viene ricondotta a un livello il cui superamento costituisce interamente il proprio significato; in altri termini, sul fatto che non si è compreso ciò che c’è di radicalmente nuovo nella riduzione fenomenologica e che allo stesso modo non si è compreso che ci si eleva dalla soggettività mondana (ad esempio l’uomo) alla soggettività trascendentale; si resta dunque prigionieri di un’antropologia, sia essa empirica o a priori, antropologia che, secondo la mia teoria, permane ancora al di qua del terreno specificamente filosofico, e considerarla come filosofia significa ricadere nell’antropologismo trascendentale o piuttosto nello psicologismo trascendentale”135. Al di là delle implicazioni biografiche del dissidio fra i due filosofi tedeschi, non c’è dubbio che attraverso le obiezioni di Husserl a Heidegger si profili un’autentica questione metodologica, degna di essere affrontata come tale: infatti, l’obiezione di Husserl è formulata innanzitutto sul piano del metodo, e come tale va considerata in quanto Essere e tempo si riallaccia espressamente al carattere metodologico della fenomenologia, o meglio alla sua natura di pre-concetto (Vorbegriff)136. Ferma restando la ripetuta ammissione di fedeltà all’atteggiamento fondamentale della fenomenologia da parte di Heidegger, il peso dell’obiezione husserliana deriva in primo luogo dal fatto che, per quanto la fenomenologia si definisca di principio come metodo, la riduzione le appartiene essenzialmente. Dunque, al di là delle valutazioni che si potrebbero fare sulle reciproche incomprensioni tra Husserl e Heidegger, da un punto di vista strettamente teorico il problema fondamentale è Ivi, p. 140. D’altra parte Heidegger nota: “In realtà, senza l’atteggiamento fondamentale della fenomenologia, la questione dell’essere non sarebbe stata possibile” (M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976, p. 59; tit. orig. Sein und Zeit, Tubinga, M. Niemeyer, 1927; solitamente si fa riferimento alla decima ed., uscita per lo stesso editore nel 1963). 135 136

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Il dossier Husserl-Heidegger

il seguente: perché il § 7 di Essere e tempo, che riconosce nella fenomenologia il metodo della ricerca e determina il pre-concetto della fenomenologia come metodo, passa interamente sotto silenzio la problematica husserliana della riduzione? Senza dunque dover prendere posizione a riguardo della pertinenza del rimprovero di incomprensione che Husserl muove a Heidegger, la questione da affrontare riguarda la reale situazione della riduzione fenomenologica all’interno di un’impresa che, per esplicita ammissione dello stesso Heidegger, si definisce come fenomenologica e, ancora più radicalmente, si presenta come appropriazione e inveramento della fenomenologia. Che cosa diventano l’epoché, la riduzione, la costituzione nella versione heideggeriana della fenomenologia? La domanda acquista tutto il suo peso se si tiene presente che Heidegger non ha mai rinunciato a includere la propria ricerca nel quadro generale della fenomenologia: insomma, la riduzione e la costituzione rappresentano delle colonne portanti della fenomenologia o non fanno che tradurre la posizione filosofica di Husserl, strettamente dipendente – così come la sua idea di scientificità – dalla tradizione cartesiana? In altri termini, che cosa ne è della fenomenologia in Essere e tempo? È possibile e legittimo cercare di rintracciare delle figure della riduzione nell’opera del 1927? O forse la teoria della riduzione caratterizza soltanto una prima tappa della fenomenologia, cioè quella husserliana? E in questo caso, cosa diventerebbe una fenomenologia senza riduzione? In sintesi, la questione si pone in questi termini: o si tende – senza dubbio legittimamente – a rimarcare il tratto fenomenologico fondamentale alla base del pensiero di Heidegger, assumendone tuttavia la critica alla dipendenza metafisica di Husserl dalla tradizione cartesiana, oppure si accentua lo scarto del pensiero heideggeriano rispetto alla fenomenologia husserliana, non riuscendo però a chiarire la ragione per cui Heidegger si richiami ostinatawww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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mente, fino agli ultimi testi137, all’impostazione fenomenologica. Tenendo presente questo duplice aspetto della questione, ritorniamo alla nostra domanda iniziale: cosa ne è della riduzione e della costituzione nella versione heideggeriana della fenomenologia? E ancora: cosa diverrebbe una fenomenologia senza riduzione, dato che questo sembra essere proprio, almeno a un primo sguardo, il caso di Heidegger? A queste due domande sono state fornite molte risposte o tentativi di soluzione, suddivisibili in due tipologie principali: se alcuni critici sostengono semplicemente che non vi è alcuna forma di riduzione fenomenologica in Essere e tempo, altri – tra cui ad esempio Merleau-Ponty – ritengono che tutta l’opera del ’27 costituisca un approfondimento della tematica husserliana della Lebenswelt, e dunque non tematizzi la riduzione in quanto la sottende138. Ma gettiamo un primo sguardo al corso marburghese del 1925 intitolato Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, il cui interesse – nella nostra prospettiva – riguarda in primo luogo il fatto che in questo testo Heidegger intende includere la Seinsfrage nel quadro della fenomenologia husserliana. Nell’ampia parte introduttiva, Heidegger si sofferma sulla questione del “senso e del compito della ricerca fenomenologica”, proponendone una critica immanente e al tempo stesso una radicalizzazione. Egli riafferma decisamente che le tre scoperte fondamentali della fenomenologia sono l’intenzionalità, l’intuizione categoriale e l’elucidazione del senso originario dell’a priori. La problematica dell’epoché e della riduzione è ricollegata da Heidegger all’analisi della determinazione Cfr. soprattutto Il mio cammino di pensiero e la fenomenologia, in Tempo ed essere, Milano, Longanesi, 2007 (ultima ed.) (tit. orig. Zur Sache des Denkens, Tubinga, M. Niemeyer, 1969) e l’ultimo Seminario di Zähringen, in Seminari, Milano, Adelphi, 2003 (ultima ed.) (tit. orig. Vier Seminare, Francoforte sul Meno, Klostermann, 1977). 138 Questa schematizzazione è stata ben illustrata da J. L. Marion in Riduzione e donazione, Roma, Marcianum Press, 2010 (tit. orig. Réduction et donation, Parigi, PUF, 1989). Ne abbiamo svolto un bilancio approfondito in Con e oltre la fenomenologia. Le “eresie” fenomenologiche di J. Derrida e J. L. Marion, cit., cap. I. 137

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Il dossier Husserl-Heidegger

husserliana del campo (Feld) proprio della ricerca fenomenologica, ossia la regione della soggettività pura e dei suoi correlati, insomma la regione dell’Io puro. Come liberare – si domanda Heidegger – la regione della coscienza come sfera dell’immanenza pura? C’è bisogno di una modificazione dell’atteggiamento naturale, di una messa tra parentesi della tesi del mondo naturale, materiale o, in generale, trascendente la coscienza stessa. L’epoché viene così presentata da Heidegger: “Questa messa fra parentesi dell’ente non apporta nulla all’ente stesso, non significa accettare che l’ente non sia, ma il senso di questo rovesciamento dello sguardo è di rendere presente proprio il carattere d’essere dell’ente. Questa esclusione fenomenologica della tesi trascendente ha unicamente la funzione di rendere presente l’ente quanto al proprio essere. L’espressione esclusione è perciò sempre ambigua, nella misura in cui si pensa che escludendo la tesi dell’esserci e proprio tramite questa esclusione la considerazione fenomenologica non abbia più niente a che fare con l’ente. È vero il contrario: proprio in modo estremo e unico si tratta ora di determinare l’essere dell’ente”139. Muovendo da questa determinazione generale dell’épochè come ciò che si apre alla fenomenalità dei fenomeni, Heidegger assume la riduzione trascendentale come riconduzione agli atti di coscienza, al “flusso del vissuto” come a una sfera di “assoluta posizione”. La riduzione è dunque riconduzione e universalizzazione, ma non solo: essa assume anche – e qui l’interpretazione di Heidegger diviene sempre più critica nei confronti di Husserl – la portata dell’astrazione. “Ciò da cui nella riduzione si prescinde è la realtà della coscienza data nell’atteggiamento naturale, quella inerente all’uomo-di-fatto. […] Quindi la riduzione, dato il suo senso metodico, in quanto «prescindere da», è fondamentalmente incapace di determinare positivamente l’essere della coscienza. In base alla riduzione, viene 139

Ivi, p. 124.

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liquidato proprio il terreno sul quale soltanto potrebbe essere posto il problema dell’essere dell’intenzionale […]”140. In altri termini, secondo Heidegger la determinazione husserliana della riduzione non è in grado di adempiere al proprio compito di comprensione specifica della coscienza. I tratti caratteristici della coscienza pura come regione fenomenologicamente differenziata – cioè l’essere immanente, l’essere assoluto nel senso di assolutamente dato e di essere costituente – non sono secondo Heidegger “determinazioni ontologiche originarie” e pertanto non permettono di conoscere davvero l’essere della coscienza. Scrive ancora Heidegger: “La questione primaria per Husserl non riguarda affatto il carattere d’essere della coscienza, ma lo guida la seguente riflessione: come può in generale la coscienza diventare oggetto possibile di una scienza assoluta?”141. Ma a ben vedere, obietta Heidegger, questa idea che la coscienza debba essere la regione specifica di una scienza assoluta non è certamente concepita da Husserl come un novum, ma costituisce l’idea guida che la filosofia moderna ha seguito dopo Descartes. Dunque, in ultima analisi, l’elaborazione e la messa in evidenza della coscienza pura in quanto campo tematico della fenomenologia non sono conquistati fenomenologicamente nel ritorno alle cose stesse, ma riallacciandosi all’idea tradizionale della filosofia moderna. Se si riflette attentamente su questa parte introduttiva del corso di Heidegger del 1925, la critica della riduzione diviene il principale punto di applicazione di una riflessione più ampia e fondamentale, rivolta al “fallimento” (Versäumnis) della questione decisiva dell’essere e del modo d’essere dell’intenzionale. “Se l’intenzionale – nota Heidegger – dev’essere interrogato circa il suo modo d’essere, bisogna che l’ente che è intenzionale sia dato originariamente, ossia sia esperito 140 141

Ivi, p. 136. Ivi, p. 134.

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Il dossier Husserl-Heidegger

nel suo modo d’essere”142. Ora, la riduzione non è in grado di conquistare questo Seinsverhältnis, questo rapporto ontologico con l’ente intenzionale, e conseguentemente non può condurre da sola la Seinsfrage. Ma quali sono precisamente le ragioni determinanti alla base di questa rovinosa mancanza, intrinsecamente connessa alla riduzione fenomenologica? Secondo Heidegger la riduzione, come si è visto, fa astrazione dalla realtà della coscienza nel suo atteggiamento naturale; tuttavia, questa formulazione si rivela tanto insufficiente quanto il senso e la portata di questa “realtà” non sono stati sottoposti a una critica rigorosa. In definitiva, dire della riduzione che è un’astrazione, significa per Heidegger indicare che essa mette necessariamente da parte ciò che fa di ogni vissuto un vissuto singolo e individuale: la riduzione fa astrazione dalla jeweilige Vereinzelung dei vissuti, non considerando gli atti come questo o quell’atto, ma assumendoli soltanto nella loro essenza, nel loro Was143. In altri termini, nella riduzione viene liberato e messo in evidenza è il tenore essenziale (Wasgehalt) degli atti soggiacenti ai vissuti, senza alcuna indagine sulla possibilità o la pertinenza dell’opposizione tra Was e Dass. Ciò che Heidegger ha di mira in questo caso è senza dubbio la concezione husserliana dell’ideazione in quanto possibilità di “prescindere dalla singolarizzazione reale”, che “vive nella credenza che il che-cosa di ogni ente vada determinato a prescindere dalla sua esistenza”144. L’obiezione di Heidegger suona così: “Supponendo che vi sia un ente il cui quid sia precisamente di essere e nient’altro che essere, una tale considerazione ideativa non costituirebbe, trattandosi di Ivi, p. 138. Scrive Heidegger a tale proposito: “Essa [la riduzione] prescinde dal fatto che gli atti siano i miei o quelli di un altro uomo individuale e li considera solo secondo il loro checosa. Il che-cosa, cioè la struttura degli atti, essa lo prende bensì in considerazione, ma non per questo viene tematizzato il modo d’essere, l’essere-atto come tale”. (Ivi, p. 137). 144 Ivi, p. 138. 142 143

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un ente del genere, il più fondamentale fraintendimento?” Proprio per questa ragione, Heidegger oppone alla riduzione un modo di indagine che sia capace di considerare l’intenzionale nel suo essere, nel suo modo determinato di essere, nella sua individualizzazione e singolarizzazione, cioè nella sua fatticità. Ciò implica innanzitutto la possibilità di comprendere l’essere della coscienza nella sua determinatezza ogni volta singolare, al di fuori della correlazione classica tra essentia ed existentia, e secondariamente la messa in causa della naturalità dell’atteggiamento naturale: ecco pronto il terreno per l’analitica del Dasein. La critica che Heidegger muove alla riduzione nei Prolegomeni sembra dunque radicale e definitiva; in Essere e tempo essa viene considerata come acquisita, ed ecco perché Heidegger non vi ritorna tematicamente: l’analitica del Dasein rende immediatamente inutile e caduca la riduzione, anzi percorre un sentiero opposto. Tuttavia, per quanto radicale sia la critica alla riduzione come astrazione dalla singolarità dell’esistenza, ciò non significa che essa – nel suo significato più ampio, cioè come possibilità d’accesso alla fenomenalità del mondo – rimanga totalmente estranea al percorso di Essere e tempo. Ma non procediamo troppo velocemente. Prima di affrontare direttamente la questione dell’eventuale presenza e forma della riduzione nella Seinsfrage, potrebbe risultare utile analizzare il corso tenuto da Heidegger nel semestre estivo del 1927, dunque subito dopo l’uscita della prima parte di Essere e tempo. Questo corso, intitolato I problemi fondamentali della fenomenologia145, occupa un posto di tutto rilievo nella struttura stessa dell’opera del 1927, in quanto destinato a svolgere la funzione della terza sezione di Essere e tempo, mai pubblicata – “trattenuta”, dice enigmaticamente M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, Genova, Il Melangolo, 1988 (tit. orig. Die Grundprobleme der Phänomenologie, Francoforte sul Meno, Klosterman, 1975). 145

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Il dossier Husserl-Heidegger

Heidegger nella Lettera sull’umanismo146 a Jean Beaufret. Conformemente al piano annunciato, il corso doveva articolarsi in tre parti, l’ultima delle quali avente per oggetto “il modo di trattamento scientifico di questi problemi [per l’appunto, i problemi fondamentali della fenomenologia] e l’idea di fenomenologia”147. Questa terza e ultima parte manca completamente, così come mancano gli ultimi tre capitoli della seconda parte; tuttavia, alla fine del primo capitolo della seconda parte, dunque alla fine delle lezioni così come sono state redatte e pronunciate, Heidegger torna sul problema della “differenza ontologica” e sul “metodo fenomenologico dell’ontologia”148. Com’è noto, in questo corso del 1927 viene per la prima volta nominata esplicitamente la differenza ontologica, anche se molti critici – in primo luogo Jean Beaufret, principale fautore della ripresa degli studi heideggeriani francesi nel secondo dopoguerra – sostengono che quest’ultima sia sotterraneamente presente in tutto il percorso seguito in Essere e tempo. Ora, è proprio a proposito della differenza ontologica che Heidegger mette in gioco la riduzione in modo totalmente indipendente da Husserl, cioè come riconduzione dell’ente all’essere. Scrive Heidegger: “L’essere deve venire afferrato e posto a tema. Essere è sempre essere di un ente e perciò diviene accessibile solo prendendo le mosse da un ente. Certo, lo sguardo fenomenologico nel suo afferrare deve rivolgersi anche all’ente, ma in modo che, così facendo, l’essere di questo ente venga a risaltare e possa esseM. Heidegger, Lettera sull’umanismo, in Segnavia, Milano, Adelphi, 1994 (terza ed.), pp. 267-315 (tit. orig. Briefe über den humanismus, in Wegmarken, Francoforte sul Meno, Klosterman, 1976). 147 Questa terza parte risulta ancora suddivisa in quattro capitoli: 1) Il fondamento ontico dell’ontologia e l’analitica del Dasein in quanto ontologia fondamentale; 2) L’apriorità dell’essere: possibilità e struttura della conoscenza a priori; 3) Gli elementi fondamentali del metodo fenomenologico: riduzione, costruzione, distruzione; 4) L’ontologia fenomenologica e il concetto di filosofia. 148 Cfr. M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., § 22, sezione C. 146

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re tematizzato. Il coglimento dell’essere, vale a dire l’indagine ontologica, si dirige certo dapprima e necessariamente sempre verso un ente, ma da questo ente essa viene poi distolta e ricondotta in modo determinato al suo essere. Quella componente fondamentale del metodo fenomenologico che consiste nel ricondurre lo sguardo indagante dall’ente, colto in maniera ingenua, all’essere noi la chiamiamo riduzione fenomenologica”149. La riduzione, nel senso di re-ducere (Zurückführen), è sempre intesa da Heidegger come ciò che riconduce lo sguardo, lo rinvia a qualcos’altro, ma allo stesso tempo è determinata come ciò che apre e inaugura la questione della differenza tra l’ente e l’essere in generale (non soltanto l’essere dell’ente). In questo senso, ogni metafisica è sempre fondata sulla riduzione, così com’è fondata – sebbene a sua insaputa – sulla differenza ontologica. Heidegger rinviene l’espressione differenza ontologica già in Husserl, connotandola tuttavia in modo radicalmente diverso. Senza dubbio la riduzione husserliana è anch’essa, per così dire, “differenziante”, in quanto separa, ad esempio, realtà e coscienza, trascendenza e immanenza, essere relativo e assoluto. Può addirittura scavare un vero e proprio abisso tra i termini che separa, eppure, nota Heidegger, non si interroga mai sull’essere come tale, rimanendo cioè al di qua della differenza ontologica tra ente ed essere. Nella conferenza del 1927 intitolata Fenomenologia e teologia150, Heidegger oppone allo stesso modo, e ratificando il sottile ma inesorabile distacco da Husserl, le “scienze ontiche” che sono sempre positive in quanto presuppongono un positum, un ente che è già sempre svelato prima dello svelamento della scienza, e la “scienza ontologica” o filosofia, che “ha bisogno fondamentalM. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 19. M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, in Segnavia, cit., pp. 3-34 (tit. orig. Phänomenologie und Theologie, in Wegmarken, cit.). 149 150

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Il dossier Husserl-Heidegger

mente di un capovolgimento dello sguardo rivolto all’ente, e precisamente dall’ente all’essere, in modo tale che lo sguardo è rivolto ancora all’ente, ma con un atteggiamento modificato”151. Questa svolta, questo spostamento comporta una differenza assoluta tra la scienza ontologica e le scienze positive, quali che siano le loro differenze relative. Ma è ancora una volta nel corso dell’autunno 1927 che Heidegger sottolinea esplicitamente l’opposizione tra la propria determinazione della riduzione e quella di Husserl: “Per Husserl, la riduzione fenomenologica, elaborata esplicitamente per la prima volta nelle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica del 1913, è quel metodo che permette di ricondurre lo sguardo fenomenologico dell’atteggiamento naturale, proprio dell’uomo che vive nel mondo delle cose e delle persone, alla vita trascendentale della coscienza e ai suoi vissuti noeticonoematici, nei quali gli oggetti si costituiscono come correlati della coscienza”152. In aperto contrasto con questa determinazione della regionecoscienza che forma, a titolo di residuo della riduzione, il campo proprio della fenomenologia, Heidegger definisce in questi termini la propria concezione della riduzione in quanto direttamente implicata nella Seinsfrage: “Per noi, la riduzione fenomenologica consiste nel ricondurre lo sguardo fenomenologico dal coglimento Ivi, p. 6. M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., p. 19. Il filo conduttore della caratterizzazione heideggeriana della riduzione è senza dubbio l’analisi della riduzione trascendentale che Husserl espone al § 53 delle Ideen I: “L’essere da noi ricercato non è altro se non ciò che per motivi essenziali può venir indicato come «puri Erlebnisse», pura coscienza con i suoi puri correlati e d’altra parte il suo puro io […]. La coscienza in se stessa ha un suo essere proprio, che non viene toccato nella sua assoluta essenza dalla neutralizzazione fenomenologica. Essa rimane quindi come residuo fenomenologico, come una caratteristica regione dell’essere, che può effettivamente diventare il campo di una nuova scienza, della fenomenologia”. (E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura, vol. I, cit., pp. 117-118).

151 152

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Capitolo settimo

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dell’ente, quale che sia la sua determinazione, alla comprensione dell’essere di questo ente”153. La riduzione opera ancora, come per Husserl, dall’ente come si dà nell’atteggiamento naturale all’essere nel senso della coscienza costituente nella sua sfera di posizione assoluta, ma l’essere non è più compreso da Heidegger come essere-assoluto della coscienza. La riduzione conduce direttamente dall’ente, quale che sia la sua determinazione, all’essere schlechthin: o meglio, la riduzione non riconduce dall’ente all’essere come da un punto all’altro, da una regione all’altra, ma libera l’ente e l’essere nei loro rimandi reciproci, secondo la dinamica – costantemente duplice – di svelamento-velamento costitutiva dell’essere. In ogni caso, la riduzione è ciò attraverso cui c’è (es Gibt) il fenomeno, nella versione husserliana riportando all’unità del vissuto tutto ciò che appare, in quella heideggeriana rinviano l’ente non alla vita anonima della coscienza e dei suoi atti, ma all’essere e alla sua verità. Tuttavia, in realtà la situazione è più complessa. Infatti, Heidegger non contrappone semplicemente alla riduzione trascendentale husserliana, incentrata sulla riconduzione riflessiva alla sfera immanente della coscienza pura, la riduzione ontologica, che rinvia dall’ente all’essere in generale. Heidegger non parla soltanto di riduzione dell’ente all’essere, ma alla comprensione dell’essere: in altri termini, la riduzione – almeno nel corso sui Problemi fondamentali della fenomenologia e in Essere e tempo – mantiene un carattere trascendentale. La radicalizzazione heideggeriana della riduzione, lungi dal nascondere la problematica trascendentale, l’accentua nella misura in cui tende ad articolare il più strettamente possibile l’essere, la comprensione dell’essere e il Dasein. Ciò significa che, nel 1927, la riduzione è ancora espressamente destinata a ricondurre all’Io puro, alla coscienza trascendentale. Bisogna tuttavia aggiungere una considerazione fondamentale di Heidegger: “La 153

Ibidem.

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Il dossier Husserl-Heidegger

riduzione fenomenologica, il ricondurre lo sguardo dall’ente all’essere, non è però l’unica e neppure la più importante componente fondamentale del metodo fenomenologico. Infatti, il riportare lo sguardo dall’ente all’essere necessita nel contempo che ci si porti positivamente sull’essere stesso. Distogliere semplicemente lo sguardo significa assumere un atteggiamento metodico meramente negativo, che non soltanto richiede di essere completato in maniera positiva, ma ha bisogno di venir esplicitamente condotto, cioè guidato, all’essere”154. In questo modo la riduzione, che sembrava inizialmente fare negativamente astrazione dall’ente determinato, svelandolo, è in realtà completamente subordinata a un’in-duzione che coinvolge e indirizza lo sguardo fenomenologico verso l’essere. Tuttavia questo direzionamento non definisce soltanto una relazione di subordinazione, non assegna un ruolo meramente ancillare alla tappa negativa che deve principalmente aprire la via verso l’essere, poiché la Seinsfrage è in primo luogo e necessariamente questione dell’accesso all’essere. “L’essere non è accessibile come l’ente, non lo troviamo lì, facilmente, ma […] esso dev’essere sempre portato allo sguardo in un libero progetto. Il progetto dell’ente dato, un progetto alla luce del suo essere e delle sue strutture ontologiche noi lo chiamiamo costruzione fenomenologica”155. Ma c’è di più. Ne i Problemi fondamentali della fenomenologia, la costruIvi, p. 20. Ibidem. Il concetto di costruzione viene in questo caso a sostituire quello husserliano di costituzione; senza dubbio, sia per Husserl sia per lo Heidegger di Essere e tempo, il termine costruzione si intende sempre in un’accezione spregiativa, in quanto la fenomenologia, conformemente alla propria massima di ritorno alle cose stesse, combatte contro ogni costruzione o «rivestimento di idee» che mascherano l’originarietà del dato. Heidegger abbandonerà quest’espressione subito dopo il libro su Kant e il problema della metafisica, (M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Milano, Silva, 1962; tit. orig. Kant und das Problem der Metaphysik, prima ed. Francoforte sul Meno, Klosterman, 1951, poi ripubblicato in Gesamtausgabe, XVIII, Francoforte sul Meno, Klosterman, 1991) che ne dà ancora una determinazione positiva legata al carattere progettuale della comprensione. Ciò che ricollega direttamente la costruzione così in154 155

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Capitolo settimo

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zione dev’essere intesa anche in relazione al terzo elemento fondamentale del metodo fenomenologico, la distruzione. In quanto destrutturazione della tradizione, la distruzione va senz’altro intesa a sua volta come una ripresa trasformatrice della Voraussetzungslosigkeit husserliana: essa appartiene in ogni caso al progetto unitario di riduzione e costruzione. Scrive Heidegger: “All’interpretazione concettuale dell’essere e delle sue strutture, vale a dire alla costruzione riducente dell’essere, appartiene necessariamente una distruzione, cioè una de-costruzione critica di quei concetti che ci sono stati tramandati e che debbono anzitutto essere necessariamente impiegati, allo scopo di risalire alle fonti da cui sono scaturiti”156. Si comprende così facilmente che, attraverso l’opposizione sottolineata da Heidegger tra riduzione egologica e riduzione ontologica, il motivo trascendentale non smette mai di fungere da filo conduttore nel corso del 1927. La riduzione non è che un primo passo in un percorso d’insieme che si muove in direzione dell’essere, ma quest’ultimo non si scopre a sua volta che nel movimento metafisico fondamentale del “ritorno al soggetto”157. Ecco la ragione per cui I problemi fondamentali della fenomenologia situano positivamente l’analitica del Dasein nella tradizione del “ritorno al soggetto”; riferendosi a Kant, Heidegger afferma risolutamente: “La direzione del cammino che egli prende, attraverso il suo ritorno al soggetto, è la sola possibile e legittima”158. Certo, questo percorso orientato sul soggetto in senso lato non deve essere inteso restrittivamente sul modello della fondazione cartesiana incentrata sull’ego cogito, cioè non va assunto in modo meramente soggettivistico: “Ripetiamo – scrive Heidegtesa alla riduzione è il motivo della «conduzione» (Führung) che gode dei vantaggi dello slancio e della direzione provenienti dalla riduzione. 156 Ivi, p. 21. 157 Ivi, pp. 103-104. 158 Ivi, p. 103. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il dossier Husserl-Heidegger

ger – che il fatto di mettere l’accento sul soggetto, com’è usuale in filosofia a partire da Descartes, implica un autentico slancio del domandare filosofico che non fa altro che rinforzare ciò che già l’antichità cercava”, anche se – prosegue – “non è sufficiente partire dal soggetto”, serve innanzitutto interrogarsi su “come l’essere del soggetto possa essere determinato come punto di partenza della problematica filosofica”159. Chiarire nel suo principio la necessità del ritorno alla coscienza, determinando in modo radicale ed esplicito il cammino e le procedure di questo ritorno: ecco come Heidegger definisce il compito della fenomenologia nel suo abbozzo della voce fenomenologia per l’Enciclopedia Britannica. Ciò significa concretamente articolare strettamente riduzione fenomenologica e riduzione ontologica, radicalizzare il concetto di soggetto in quello di Dasein e manifestare correlativamente che la riduzione all’essere, attraverso la riduzione alla comprensione dell’essere, è anche riduzione al Dasein. Da ciò deriva un doppio compito per la fenomenologia: “il compito di distinguere ontologicamente un ente avente un modo d’essere specifico rispetto a tutti gli altri […] e allo stesso tempo il compito di evidenziare l’essere dell’ente, al cui essere appartiene la comprensione dell’essere, e alla cui interpretazione si ricollega tutta la problematica ontologica in generale”160.

159 160

Ivi, p. 220. Ivi, pp. 219-220.

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Capitolo ottavo

Fenomenologia e ontologia

Il percorso finora seguito permette di assumere, almeno operativamente, la tesi – peraltro avvallata da molti autorevoli critici heideggeriani, fra cui J. Beaufret e il già citato J. -F. Courtine, ma anche da Marion – secondo cui il pensiero di Heidegger, benché muova delle precise critiche ai fondamenti del metodo fenomenologico husserliano e se ne distacchi significativamente, sia legittimamente leggibile entro il quadro teorico della fenomenologia. Come si è avuto modo di sottolineare, la pubblicazione dei corsi svolti a ridosso dell’uscita di Essere e tempo – e cioè dei Prolegomeni alla storia del concetto di tempo e de I problemi fondamentali della fenomenologia – forniscono tutti i termini necessari per sostenere che, lungo tutto il corso della sua riflessione, Heidegger ha sempre inteso porsi come un fenomenologo e ha sempre considerato la fenomenologia come il presupposto irrinunciabile della Seinsfrage. Ciò ovviamente non fa che complicare le cose, e impone di approfondire il rapporto Husserl-Heidegger a proposito del metodo e dei fondamenti della fenomenologia. In sostanziale accordo, Husserl e Heidegger caratterizzano il fenomeno come ciò che si mostra da sé. In altri termini, non vi è nulla dietro i fenomeni, non è necessario oltrepassarli per coglierli in se stessi, ma essi si offrono www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Fenomenologia e ontologia

da se stessi e in se stessi161. Tuttavia, anche se il fenomeno si dà e dà la cosa in se stessa, può succedere che non si mostri affatto, cioè può accadere che ciò che dovrebbe svelarsi rimanga celato, nascosto. Scrive Heidegger: “Si tratterà, evidentemente di qualcosa che innanzitutto e per lo più non si manifesta, di qualcosa che resta nascosto (Verdeckt) rispetto a ciò che si manifesta innanzitutto e per lo più, e nel contempo di qualcosa che appartiene, in liena essenziale, a ciò che si manifesta innanzitutto e per lo più, in modo da esprimerne il senso e il fondamento”162. Ciò che di diritto dà, bisogna tuttavia che si dia: occorre che i fenomeni si diano, cioè che ciò che dà si dia. Ma perché è necessario che ciò che dà si dia? Precisamente perché innanzitutto e perlopiù ciò che dovrebbe darsi non si dà, il fenomeno rimane nascosto, occultato. Si domanderà quale sia – sul piano della fenomenalità – il fondamento di un tale occultamento originario del fenomeno; tuttavia, su questo punto Essere e tempo non è del tutto esauriente, in quanto la tendenza al ricoprimento del fenomeno è attribuita da Heidegger interamente al Dasein e alla sua costituzione ontologica, di cui la Verfallenheit è tratto essenziale. È dunque il modo d’essere del Dasein che rende ragione del fatto che ciò che si dà è in realtà già sempre ricoperto, in modo tale che il “mostrare”, il “far vedere”, assumeranno sempre la forma della distruzione, o meglio, della decostruzione. Dobbiamo pertanto completare la prima deHeidegger trae senza dubbio da Husserl la distinzione tra fenomeno (Phänomen) e apparizione (Erscheinung): il primo caratterizza il modo principale di presentazione o incontro di qualcosa che si mostra in quanto tale, nella sua verità, mentre la seconda rinvia sempre a qualcos’altro, a una realtà secondaria che, pur annunciandosi, non si mostra mai in se stessa. Una tale distinzione – Heidegger lo sottolinea apertamente nel § 7 di Essere e tempo – si svela in modo puramente formale, e tende a liberare il concetto puro di fenomeno lasciando ancora completamente indeterminata la questione riguardante ciò che può esser definito propriamente come fenomeno. Si tratterà di un ente o di un modo d’essere? 162 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 55-56. 161

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Capitolo ottavo

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terminazione formale del fenomeno e della sua fenomenalità – secondo cui, come si è visto, il fenomeno è ciò che si manifesta da se stesso e in se stesso – con quest’altra tesi decisiva: l’essere-coperto, la dissimulazione non costituisce semplicemente il contrario del fenomeno, il suo termine contraddittorio, ma piuttosto il controconcetto del fenomeno (Gegenbegriff zu Phänomen), e in questo senso il suo termine complementare, ciò che vi combacia specularmente. Ma se ciò che può essere fenomeno è innanzitutto e perlopiù nascosto e ricoperto, tale ricoprimento (Verdeckung) può assumere forme differenti, dalla dissimulazione all’oblio: se la possibilità del ricoprimento appartiene essenzialmente alla struttura stessa della fenomenalità, è perché “i fenomeni perdono il contatto col loro terreno originario” e, così espropriati, i concetti fenomenologici “finiscono per divenire tesi nebulose”163. Il fenomeno è dunque naturalmente esposto all’occultamento costitutivo della trasmissione e della tradizione; la minaccia pende sempre su tutti i fenomeni in quanto tali: “Il coprimento, sia esso nascondimento, ricoprimento o travestimento, ha una duplice possibilità. Ci sono coprimenti casuali e coprimenti necessari; questi ultimi si radicano nel modo di essere di ciò che è scoperto. Ogni concetto fenomenologico e ogni principio originariamente scoperti, per il fatto di essere comunicati sotto forma di enunciati, sono esposti alla possibilità della degenerazione (Entartung)”164. Tuttavia, se è possibile e legittimo distinguere tra ricoprimento fortuito e ricoprimento necessario, bisogna ammettere senza esitazioni che il ricoprimento che minaccia costantemente il fenomeno nell’originarietà del suo mostrarsi è necessario, in quanto nessun fenomeno può mostrarsi una volta per tutte. Esso deve dunque mo163 164

M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 57. Ibidem.

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Fenomenologia e ontologia

strarsi ogni volta a partire dalla sorgente donante, la Sache selbst che si mostra: il ricoprimento diviene ineluttabile, come una fragilità essenziale del fenomeno legata al suo inesorabile occultarsi. Ciò significa che l’originarietà del fenomeno è già sempre un qualche cosa da riconquistare e da salvare dalla degenerazione quasi necessaria in quanto connessa al Verfallen, tratto ontologico costitutivo del Dasein. Da un punto di vista strettamente fenomenologico, poiché il fenomeno non è mai dato e assicurato nella sua fenomenalità, quest’ultima deve sempre essere conquistata lottando contro le varie forme di ricoprimento: ciò fa luce sul carattere metodico proprio della fenomenologia, implicito nel fatto che le cose non sono innanzitutto e per lo più date in se stesse a una semplice intuizione, a un “puro vedere”, ma devono essere liberate al termine di un percorso che mira precisamente a dis-fare le dissimulazioni e gli occultamenti. Alla luce di queste considerazioni, il motto fenomenologico Zu den Sachen selbst esplica tutta la sua portata programmatica e di consapevole impegno nel mettersi “in cammino verso i fenomeni”. Come spesso accade, tuttavia, la situazione è più complessa. Infatti, assumendo tale definizione heideggeriana del fenomeno, ci si deve interrogare sulla ragione per cui, in Essere e tempo, Heidegger introduca un pre-concetto, o un concetto provvisorio della fenomenologia intesa come ontologia universale. Ma allora, in cosa consisterebbe un concetto definitivo di fenomenologia? Va notato innanzitutto che né nei Prolegomeni, la cui parte introduttiva costituisce la discussione più ampia che Heidegger abbia mai compiuto con la fenomenologia husserliana, né nei Problemi fondamentali della fenomenologia si trova la distinzione tra preconcetto e idea della fenomenologia. Perché questa distinzione compare soltanto in Essere e tempo? Una prima risposta si trova al § 69: l’esposizione completa dell’idea di fenomenologia non potrà aver luogo se non dopo aver chiarito il problema generale dell’essere e della verità, www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo ottavo

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e aver infine elaborato il concetto esistenziale di scienza – non va dimenticato che la fenomenologia è definita da Heidegger come metodo dell’ontologia, cioè della filosofia scientifica165. Si chiarisce così la ragione per cui la determinazione compiuta della fenomenologia non può essere esposta che alla fine, sotto la forma di “idea”, cioè solo quando il senso dell’essere e la verità saranno stati esposti compiutamente. Se è vero che la fenomenologia è l’unico metodo in grado di soddisfare le esigenze della Seinsfrage, allora il suo concetto provvisorio non può e non deve cedere il posto all’idea compiuta fino a quando la fenomenalità del fenomeno non sia stata liberata e resa fenomenologicamente visibile. Si può altresì spiegare, in maniera molto – forse troppo – generale, l’annuncio della necessità della ripresa del concetto provvisorio da parte dell’idea compiuta, sottolineando tutto ciò che in Essere e tempo è propedeutico, preparatorio o precursore. Per esempio, al § 5 (L’analisi ontologica dell’Esserci come liberazione dell’orizzonte per un’interpretazione del senso dell’essere in generale), Heidegger indica che, posto che un’analitica del Dasein costituisca il primo requisito nella questione dell’essere, e se dunque l’analitica così concepita è “interamente orientata sul compito principale dell’elaborazione della questione dell’essere”, questa analitica è a sua volta “non solo incompleta, ma innanzitutto provvisoria (vorläufig). Essa inizia soltanto a liberare l’essere di un dato ente, senza interpretarne il senso. È la liberazione dell’orizzonte per un’interpretazione più originaria dell’essere che Giova precisare che quest’idea della fenomenologia come filosofia “scientifica” non deve far perdere di vista l’opposizione principale tra la fenomenologia e le scienze positive, cioè di tutte le ricerche che si occupano sempre di enti o di regioni particolari dell’essere. Nella conferenza su Fenomenologia e teologia pronunciata a Tubinga nel 1929, Heidegger evidenza, utilizzando una terminologia vicina a quella di Husserl, questa radicale differenza tra scienze ontiche e ricerca fenomenologica – cioè, nella sua prospettiva, ontologica – il cui oggetto è la fenomenalità del fenomeno. 165

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Fenomenologia e ontologia

essa è volta a preparare”166. Una volta compiuta una tale interpretazione o, in altri termini, una volta liberato un tale orizzonte, allora “l’analitica preparatoria dell’Esserci esigerà di essere ripetuta su una base ontologica più elevata e autentica”167. Tuttavia, si tratta di una prospettiva ancora troppo generale e insufficiente. Se tentiamo di riesporre, a titolo di idea direttrice, il concetto provvisorio della fenomenologia come concetto di metodo, non è perché la fenomenologia caratterizzi innanzitutto il primo gesto, il punto d’avvio che, passando attraverso l’analitica del Dasein, mira a conquistare un accesso all’essere in generale. Al contrario, vorremmo rischiare l’ipotesi seguente: il metodo fenomenologico è richiesto dalla questione dell’essere proprio in quanto consiste innanzitutto nel mettere in luce la comprensione dell’essere come carattere costitutivo, ancorché pre-ontologico, dell’Esserci. In altri termini, proprio perché la Seinsfrage non può essere concretamente costruita se non a partire e attraverso l’analitica del Dasein – a titolo di ontologia fondamentale –, il metodo fenomenologico s’impone da sé come unico in grado di sottrarre all’oblio la questione dell’essere. Questa ipotesi poggia sul passaggio dei Prolegomeni in cui Heidegger non esita a determinare l’analisi di quel particolare ente privilegiato in ogni domanda ontologica – anzi, che costituisce esso stesso il domandare – come “fenomenologia del Dasein”. Se il primato ontologico del Dasein si svela allo sguardo fenomenologico e se il metodo fenomenologico si impone come l’unico possibile per la costruzione della domanda sul senso dell’essere, è in primo luogo perché esso corrisponde all’esigenza di accedere all’essere dell’Esserci e perché realizza il modo di manifestazione richiesto da quest’ultimo. Come si dà questo particolare ente – il più pros166 167

M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit., § 17b. Ibidem.

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Capitolo ottavo

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simo ma allo stesso tempo il più lontano – che è il Dasein? Come dev’essere messo in luce in vista della fenomenalità dell’essere? Si tratta di difficoltà specifiche contro cui si scontra ogni tentativo di chiarificazione dell’essere dell’Esserci, e in particolare della sua tendenza fondamentale alla deiezione. Si potrebbe giungere a sostenere che l’ontologia non è fenomenologica se non in quanto fenomenologia o “metafisica dell’Esserci”168: è perciò il primato ontico-ontologico del Dasein, la necessità del passaggio attraverso l’analitica esistenziale, a imporre l’adozione del metodo fenomenologico nella costruzione della domanda sul senso dell’essere. Quest’ipotesi solleva immediatamente una serie di obiezioni che vanno tenute presenti, tutte imperniate sul seguente nucleo tematico. Nei paragrafi “metodologici” di Essere e tempo, Heidegger determina il fenomeno proprio della fenomenologia come fenomeno d’essere, definendo il proprio progetto ontologico fondamentale “ontologia universale e fenomenologica”169 e concependo quindi la fenomenologia come scienza dell’essere; soprattutto, egli non introduce formalmente il metodo fenomenologico se non per chiarire quale debba essere la Sache dell’ontologia stessa, cioè l’interpretazione del senso dell’essere: l’essere è dunque, in un certo senso, la “cosa stessa” della fenomenologia, ma precisamente nella misura in cui esso è – ancora più originariamente – Sache des Denkens, “cosa del pensiero”. Tuttavia, pur riconoscendo il valore di queste obiezioni, riteniamo che l’ipotesi sulla predeterminazione della fenomenologia in Essere e tempo come fenomenologia del Dasein possieda un notevole valore euristico: infatti, essa mette in evidenza – il punto è molto noto, ma di importanza capitale – il legame inestricabile e la coappartenenza intima tra la questione del senso dell’essere e quella dell’essere del 168 169

Quest’espressione è utilizzata da Heidegger in Kant e il problema della metafisica, cit. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 59.

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Fenomenologia e ontologia

Dasein, rimarcando solidamente l’unità tra essere e comprensione dell’essere. Ammesso che l’essere si dia, si dà come comprensione dell’essere: indipendentemente da tale comprensione, esso non è nulla170. Certo, ciò che è caduto nell’oblio è la questione dell’essere, ed è quest’ultima a dover essere elaborata attraverso un complesso dispositivo teorico. Cionondimeno, nella prospettiva di Essere e tempo – se non del suo progetto, almeno della sua parte compiuta –, lo svelamento fenomenologico che emerge ha innanzitutto per oggetto il Dasein, la sua precomprensione e il suo modo d’essere quotidiano: proprio perché innanzitutto e perlopiù il Dasein non è dato, è necessario aprire un accesso al suo essere e al senso di questo essere. Uno dei tratti fondamentali dell’Esserci è la sua contemporanea vicinanza e lontananza da se stesso: come scrive Heidegger, “onticamente vicinissimo a se stesso”, il Dasein è “ontologicamente lontanissimo”171. In altri termini, la datità del Dasein, lungi dall’essere immediatamente evidente, deve essere conquistata metodicamente attraverso un percorso il più cauto possibile: l’analitica esistenziale assume perciò un carattere metodico sia in riferimento alla struttura formale della Seinsfrage, sia al modo di presentazione di questo ente particolare. Parafrasando lo stesso Heidegger, il modo d’essere del Dasein richiede un’interpretazione ontologica volta a pervenire all’originarietà della mostrazione fenomenale, facendo emergere con forza – è lo stesso Heidegger ad ammettere che l’analitica esistenziale possegga un carattere di violenza – l’essere di questo ente contro la sua costitutiva tendenza al nascondimento. Va sottolineato che anche nell’ultima fase del suo pensiero, orientato sulla necessità di pensare l’essere senza l’ente, cioè di chiarire l’Es dell’Es gibt, Heidegger non rinnega in nessun modo il nodo fondamentale tra essere e comprensione dell’essere (Sein-Seinverständnis). 171 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 33. 170

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Capitolo ottavo

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Le questioni sinora toccate s’intersecano senza dubbio a un’altra, che qui possiamo soltanto sfiorare, ossia il problema del rapporto tra fenomenologia e ontologia, essenziale per mettere a fuoco la portata della “rottura nella continuità” tra Husserl e Heidegger172. Scrive Heidegger nei Problemi fondamentali della fenomenologia: “La fenomenologia costituisce il modo d’accesso a ciò che deve divenire il tema dell’ontologia”173. In altri termini, e secondo una formula ben nota, Heidegger considera la fenomenologia come “metodo dell’ontologia”. Ma che cos’è l’ontologia – intesa come domanda sul senso dell’essere – indipendentemente dal problema dell’accesso, della tematizzazione e del cammino verso il suo tema costitutivo? O ancora: è legittimo chiedersi cosa sia l’ontologia indipendentemente dal proprio ancoraggio a una fenomenologia del Dasein? La fenomenologia, come si è detto, è il metodo dell’ontologia. Tuttavia, questo non significa che la fenomenologia permanga in una posizione di subordinazione, quasi strumentale, nei confronti dell’ontologia come disciplina costituita; al contrario, significa che “la ricerca fenomenologica è il progetto che cerca il metodo che è l’ontologia”174: l’ontologia fenomenologica è essenzialmente metodo, messa in cammino, cioè esperienza di pensiero. Mein Weg in die Phänomenologie – queste parole non rinviano soltanto al titolo dell’omaggio che Heidegger rende nel 1963 all’editore Niemeyer: esse offrono la formula di ciò che muove sin dalle origini tutto il percorso teorico heideggeriano, costituendone la cosa stessa. Perciò, il saggio così intitolato – ripreso poi nel 1969 in Zur Sache des Denkens – non mira semplicemente a descrivere una tappa di ciò che a posteriori risulta essere il cammino di pensiero di HeiSi è tentato di mettere a fuoco in modo più analitico questo problema in Con e oltre la fenomenologia. Le “eresie” fenomenologiche di J. Derrida e J. L. Marion, cit., cap. I-II. 173 M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, cit, p. 21. 174 Ivi, p. 25. 172

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Fenomenologia e ontologia

degger; in altri termini, quest’ultimo non si limita a ricordarci di “esser passato attraverso la fenomenologia” e di avervi soggiornato per cercarvi ciò che avrebbe dovuto divenire il nucleo del proprio pensiero. Al contrario, il cammino nella fenomenologia non solo non si limita a segnare una tappa da superare in seguito, destinata a togliersi per cedere il passo a un’altra dimensione del pensiero, ma indica piuttosto la possibilità principale di una tale dimensione, cioè l’essere in cammino entro quel luogo. Il Weg nella fenomenologia – il cammino che affonda in essa, anche col rischio di perdersi, come in una foresta, il cammino che cerca costantemente una via d’accesso al cuore della fenomenologia, là dove essa assume la nuova luce come autentica esperienza del pensiero – caratterizza propriamente tutto il percorso di Heidegger, posto che esso venga inteso – nella lotta costante per la fenomenologia, per le sue capacità e le sue possibilità di confronto – nella sua portata di ridefinizione dell’esperienza del pensiero come Be-wegung, Er-fahrung, cioè come metodo. Fare esperienza della fenomenologia, sperimentarla a fondo fino a ciò che ne costituisce il punto d’avvio ultimo, ecco l’intendimento di fondo del pensiero heideggeriano: come Heidegger stesso precisa in una lettera a Beaufret, il titolo del saggio del 1963 indica “il modo in cui il mio cammino si è aperto aprendo la fenomenologia”175. E infatti un tale percorso non può che procedere entro l’apertura della fenomenologia, posto tuttavia che questa sia aperta a se stessa, cioè libera per ciò che le è proprio: in questo senso, si può dire che Heidegger si appropri della fenomenologia in un pensiero che diventa sempre più necessario considerare nella sua dimensione specificamente fenomenologica. La trad. it. di questa lettera a J. Beaufret si trova in M. Heidegger, Seminari di Zollikon: protocolli seminariali-colloqui-lettere, Napoli, Guida, 2000. 175

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Capitolo ottavo

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Dopo queste considerazioni, è legittimo affermare che, in qualunque modo si declini il rapporto tra Husserl e Heidegger, non si può concepire l’impresa filosofica inaugurata da Essere e tempo come un abbandono del terreno176 della fenomenologia o come un tentativo esplicito di “secessione” o di ri-orientamento radicale. L’ontologia fenomenologica di Essere e tempo, non più della fenomenologia ermeneutica volta a prepararla in quanto analitica del Dasein, non costituisce una nuova tendenza della fenomenologia: il suo compito, piuttosto, è di “pensare più originariamente che cosa sia la fenomenologia”177, ossia misurare la sua importanza e il suo significato, anche se – al limite estremo – fosse necessario rinunciare al titolo stesso di “fenomenologia” ed esporre tutto il progetto al rischio dell’anonimato. “La fenomenologia – scrive Heidegger a conclusione del suo omaggio a Niemeyer – non è affatto una corrente filosofica. Essa è la possibilità del pensiero – possibilità che si trasforma nei tempi, perché solo così può rimanere una possibilità – di corrispondere all’appello di ciò che è da-pensare”178. La fenomenologia è la possibilità del pensiero proprio in quanto essa chiarisce il suo carattere originario di “essere in cammino”, riconducendolo così alla propria Sache, ciò che dà da pensare e che chiama al pensiero. Il cammino non è mai pre-tracciato, e tantomeno anticipabile, ma si annuncia al pensiero solo strada facendo (unterwegs), poiché – come recita l’esergo di Wegmarken – “il cammino si mostra e si ritira”. Il cammino, l’essere in cammino, il mettersi in cammino: ecco la cosa stessa della fenomenologia. Solo in questo Nell’ambito del dibattito francese sui rapporti tra Heidegger e la fenomenologia, è di particolare interesse la distinzione, operata da G. Granel in Le sens du temps et de la perception chez E. Husserl, Parigi, Gallimard, 1968, tra terrain e sol: il primo indica genericamente il contesto, la base su cui sorge un progetto, mentre il secondo indica la radice, il punto di partenza imprescindibile sul quale costruire un percorso teorico. 177 Cfr. anche il Colloquio con un Giapponese contenuto in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 1973 (tit. orig. Unterwegs zur Sprache, Pfullingen, Neske, 1959). 178 M. Heidegger, Tempo ed essere, cit., p. 105. 176

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Fenomenologia e ontologia

senso la fenomenologia è metodo, e non certo nella sua determinazione metafisica di procedura. Come ritrovare la via verso l’“essenza del cammino?” – domandava Heidegger in una delle ultime riflessioni. Di certo non confondendo il cammino e il metodo inteso nella sua accezione metafisica; ma, forse, anche seguendo il percorso della fenomenologia, cioè il sottile ma decisivo spostamento grazie a cui il metodo fenomenologico husserliano s’incammina179 e può sperimentare il Wegcharakter des Denkens, il cammino del pensiero.

D’altra parte, è Husserl stesso a ricordare come la riduzione fenomenologica assuma la forma di un cammino della riduzione. 179

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Capitolo nono

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Capitolo nono

Percorsi francesi

In questo lavoro di “archeologia fenomenologica”, sembrano sempre più emergere due autentici modelli fenomenologici – quello trascendentale (ispirato più direttamente a Husserl attraverso la mediazione di Merleau-Ponty) e quello ontologico (ispirato principalmente a Heidegger) – che travagliano la fenomenologia ab origine, e che a loro volta sono stati reinterpretati in modalità diverse, sino a creare quella complessa rete di orientamenti teorici la cui mappatura costituisce impresa piuttosto ardua. Analizziamo brevemente questi due modelli. a) Sin dall’Introduzione della sua Fenomenologia della percezione, Merleau-Ponty chiarisce la portata e il compito che, nella sua prospettiva, la fenomenologia deve assumere con e oltre Husserl; riprendendo spunti presenti già nella Krisis, Merleau-Ponty afferma: “Ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza parla sempre, e nei confronti del quale ogni determinazione scientifica è astratta, segnitiva e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio in cui originariamente abbiamo imparato che cos’è una foresta, un prato o un fiume. Questo movimento è assolutamente distinto dal ritorno idealistico alla coscienza, e l’esigenza di una descrizione pura esclude sia il procedimento dell’analisi riflessiva che quello www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Percorsi francesi

della spiegazione scientifica”180. Merleau-Ponty è estremamente esplicito nel determinare il campo proprio della fenomenologia, che non va più ridotto – come accade nello Husserl maturo – alla coscienza costituente, ma dev’essere esteso a tutto il dominio della mediazione, ossia della percezione; in un chiaro movimento di risalita dall’ego costituente alle istanze husserliane originarie (quali si ritrovano, ad esempio, nelle Ricerche Logiche), Merleau-Ponty scrive: “In ogni momento il mio campo percettivo è riempito di riflessi, di scricchiolii, di fugaci impressioni tattili che io non sono in grado di connettere in modo preciso al contesto percepito, e che tuttavia pongo immediatamente nel mondo, senza mai confonderle con le mie fantasticherie. […] Il reale è un tessuto solido, non attende i nostri giudizi per annettersi i fenomeni più sorprendenti e per respingere le nostre immaginazioni più verosimili. La percezione non è una scienza del mondo, non è nemmeno un atto, una presa di posizione deliberata, ma è lo sfondo sul quale si staccano tutti gli atti ed è da questi presupposta. […] La verità non abita soltanto l’uomo interiore o meglio non v’è uomo interiore: l’uomo è nel mondo, e non mondo egli si conosce. Quando ritorno in me a partire dal dogmatismo del senso comune o dal dogmatismo della scienza, io trovo non un nucleo di verità intrinseca, ma un soggetto votato al mondo”181. Da questi pochi passi è già ben evidente la direzione intrapresa da Merleau-Ponty: restituire la fenomenologia – intesa come atteggiamento filosofico che si lascia praticare solo “dall’interno”, cioè che, come già affermava E. Fink, richiede quello “stupore” dinanzi al mondo e alle cose senza cui lo sguardo fenomenologico non sarebbe neppure pensabile – a quello “sfondo” opaco caratterizzato da percezioni indirette e da un’infinita gradualità di evidenze differenti: proprio in quanto siamo già sempre immersi 180 181

M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 17. Ivi, p. 19.

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Capitolo nono

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nell’orizzonte del mondo, il solo modo per tematizzare tale appartenenza originaria è sospendere – con l’epoché – questo movimento di coinvolgimento, negargli la nostra “complicità”, disattivarlo provvisoriamente. Dunque, la fenomenologia autentica non deve rifugiarsi nel rassicurante dominio dell’evidenza oggettuale, ottenuta tuttavia restringendo il campo della fenomenalità, ma deve porsi dinanzi allo “scaturire delle trascendenze” deve distendere “i fili intenzionali che ci collegano al mondo per farli apparire”182. Così, “il più grande insegnamento della riduzione è l’impossibilità della riduzione completa”, possibilità riservata a un ipotetico spirito assoluto; per quanto ci concerne, invece, la coappartenenza allo sfondo impuro del mondo e la temporalità costitutiva dei nostri vissuti che cercano di captarlo impediscono il raggiungimento di qualunque evidenza assoluta e ultimativa: “lungi dall’essere, come si è creduto, la formula di una filosofia idealistica, la riduzione fenomenologica è quella di una filosofia esistenziale […]”183. Questo indirizzo teorico è stato proseguito, seppur lungo percorsi differenti, dai fenomenologi francesi d’impostazione merleaupontiana, in special modo da R. Barbaras che, in Vie et intentionnalité184, riprende e radicalizza quell’allargamento della fenomenalità e quello “slittamento” di significato dell’epoché che ben emergeva già nella Fenomenologia della percezione. Infatti, secondo Barbaras l’epoché non ha più di mira una particolare tesi positiva da sospendere, ma riconduce direttamente a una nuova forma di positività, permettendo l’accesso al nuovo ambito dell’a priori della fenomenalità e che non coincide in alcun modo con la soggettività trascendentale e costituente come residuo della neutralizzazione del mondo. Secondo Barbaras, occorre “far emergere una struttura Ivi, p. 22. Ivi, p. 23. 184 R. Barbaras, Vie et intentionnalité, Parigi, Vrin, 2003. 182 183

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Percorsi francesi

necessaria di inclusione: ciò che c’è [si dà] è incluso in un campo che è già sempre là, che non può essere chiuso […]. Apparire significa essere inscritto in una totalità inclusiva, significa sorgere non dal nulla, ma da qualche cosa. Ciò implica che l’epoché così riformulata apre l’accesso all’appartenenza come struttura a priori della fenomenalità: apparire significa «emergere da uno sfondo», «appartenere a.» […] ciò non vuol dire soltanto che, di fatto, ogni apparire ha luogo a partire dallo sfondo di realtà presupposte, ma anche che un fenomeno sorto dal nulla costituirebbe una contraddizione pura e semplice, insomma che l’essenza dell’apparire implica il riferimento a un campo d’appartenenza. Ora, che cos’è questo elemento inclusivo ultimo che abbraccia se stesso, che non può mai essere totalizzato, cioè delimitato dal nulla, se non il mondo stesso?”185. Far emergere l’appartenenza come struttura costitutiva dell’apparire significa concepire il mondo stesso come a priori della fenomenalità: il mondo si costituisce come orizzonte di pura inclusione e, proprio per questo, è allo stesso tempo la “forma” di tutto ciò che può essere186. Pertanto, non è in quanto il fenomeno emerge a partire dallo sfondo del mondo che è caratterizzato dalla struttura dell’appartenenza ma, al contrario, in quanto è caratterizzato da questa struttura, il fenomeno rimanda necessariamente alla co-apparizione di un mondo. Inoltre, il mondo non appare mai in se stesso – poiché bisognerebbe così porre un altro mondo in cui esso si trova incluso – ma è incluso nella fenomenalità come l’“elemento inclusivo” assoluto, cioè come ciò che non appare come tale: in piena sintonia

Ivi, pp. 121-122 (trad. nostra). A tale proposito, Barbaras specifica che l’appartenenza non va intesa come una relazione d’inclusione di due realtà separate e già date: ciò significherebbe disconoscere il carattere di a priori dell’appartenenza e, conseguentemente, pensare il mondo come accessibile in se stesso, ossia degradarlo al rango di un oggetto intramondano. 185 186

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Capitolo nono

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con Merleau-Ponty, Barbaras afferma che esso “non si presenta che come impresentabile, è l’invisibile”187. In questa prospettiva, cosa ne è dell’Io, privato di quel ruolo centrale che Husserl gli aveva assegnato e che l’allargamento della fenomenalità all’a priori del mondo, perseguito dalla scuola merleau-pontiana, gli nega? Secondo la pratica dell’epoché appena delineata, il mondo non è più costituito dalla e nella soggettività, ma è principio di costituzione di tutto ciò che può apparire in generale, ivi compresa la manifestazione della soggettività a se stessa: l’io si appropria di se stesso sullo sfondo del mondo a cui appartiene e nel cui orizzonte si scopre incluso. Precisa Barbaras: “Tuttavia – ed è qui che le difficoltà, cioè la questione delle frontiere della fenomenologia, sorgono – non si può ignorare ancora a lungo il fatto che se l’apparire è anche co-apparire di un mondo, esso non ha d’altronde senso se non come apparizione per un soggetto. Un’apparizione che non fosse ricondotta a un polo di riferimento, che non fosse cioè apparizione per qualcuno, non sarebbe affatto un’apparizione”188. Pertanto, la manifestazione dell’orizzonte del mondo rende necessaria la correlazione a un soggetto – in questo principio di fondo è ravvisabile la maggior eredità husserliana della fenomenologia di stampo merleau-pontyano: tale riferimento a un polo soggettivo è costitutivo della struttura dell’apparire. Così, il modello trascendentale “ristretto” di Husserl viene superato in nome di una fenomenalità “allargata” e di una pratica riduttiva più modesta e conscia del proprio carattere di mediazione; tuttavia, essendo il riferimento a un soggetto ritenuto necessario, questo modello fenomenologico rimane pur sempre un modello trascendentale: in altri termini, l’apparire non procede da un soggetto costituente ma costituisce “l’evento originario che implica, come suoi 187 188

R. Barbaras, Vie et intentionnalité, cit., pp. 122-123 (trad. nostra). Ivi, p. 123.

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Percorsi francesi

momenti costitutivi, la presentazione di un mondo impresentabile e la concentrazione su una soggettività”189. E ancora: “Il soggetto rinvia certo all’apparire ma, d’altro canto, non vi è apparire se non per un soggetto; il soggetto è necessariamente inscritto in un mondo di cui è la condizione d’apparizione. Siamo dunque condotti alla situazione inedita di un trascendentale situato dalla parte di ciò che costituisce, trascendentale che è in qualche modo più vecchio o più giovane di se stesso, in ogni caso in ritardo su di sé”190. Come elaborare, su queste basi, il senso d’essere del soggetto capace di “cristallizzare” ciò che appare, capace cioè di rapportarsi alla totalità non totalizzabile del mondo attraverso delle apparizioni che la presentano e la negano? In altri termini, come concepire un modello di soggettività che mantenga il proprio carattere trascendentale, pur perdendo la propria funzione costituente, trovandosi cioè costituita da un orizzonte trascendente? È questa l’aporia di fondo – costitutiva di ogni fenomenologia che conservi il proprio carattere trascendentale, seppur “allargato”, che ha indotto quelli che Sebbah chiama “fenomenologi dell’originario” a mettere in campo un modello teorico che, procedendo per via riduttiva, faccia emergere una dinamica di datità più originaria rispetto all’a priori del mondo, destituendo progressivamente l’io di ogni residuo trascendentale e ontologico. In questo ambizioso progetto, l’istanza merleau-pontiana di restituzione della fenomenalità al suo ambito più originario doveva tuttavia passare attraverso la mediazione di un altro progetto fenomenologico, ossia quello heideggeriano. b) Il processo di allargamento della fenomenalità assume in Heidegger tratti progressivamente anti-trascendentali, benché Essere e 189 190

Ivi, p. 124. Ibidem.

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Capitolo nono

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tempo ne resti in qualche modo debitore nella tematica del privilegio ontico-ontologico del Dasein nella posizione della Seinsfrage191. Almeno a un primo sguardo in conformità alla tesi husserliana, nel celebre § 7 di Essere e tempo Heidegger definisce il fenomeno come “ciò-che-si-mostra-in-se-stesso”. Questa definizione segna il distacco da Husserl in quanto, per Heidegger, non si tratta qui di presenza, ma del fenomeno che si mostra a partire da se stesso e dalla propria iniziativa: il fenomeno si mostra a partire dalla propria visibilità, lungi dal lasciarsi ridurre alla presenza per una coscienza. Le devianze possibili della fenomenalità attestano infatti che dipende dall’iniziativa del fenomeno la sua entrata nella visibilità o la ricaduta in eventuali dissimulazioni. Tant’è che Heidegger non nomina mai la coscienza; anche se non è richiesto nulla per vedere ciò che si rende visibile, in un certo senso questa stessa visibilità decide di se stessa prima e a monte di ogni evidenza e quindi di ogni coscienza: la visibilità non si rap-presenta, si presenta. Ed è precisamente perché si presenta da se stessa che si può talvolta assentare o nascondere. Dalle accezioni deviate di ciò che è definito come mostrantesida-se-stesso, dunque dai casi di non-mostrazione del fenomeno, Heidegger non deduce – come fa Husserl – la necessità di una riduzione drastica alla presenza per la coscienza di tutto ciò che può essere considerato come fenomeno, ma conclude che il controconcetto di fenomeno è “ciò che è coperto”192. Gegenbegriff non significa infatti il “contrario” o il “contraddittorio”, ma il contraltare, l’altra faccia, il lato nascosto, come se il fenomeno, pervenendo alla propria manifestazione, non facesse altro che riprendere in modo manifesto ciò che restava coperto. Il fenomeno non manifesta alPer un inquadramento del rapporto fenomenologia-ontologia in Essere e tempo, mi permetto di rimandare nuovamente al mio Con e oltre la fenomenologia. Le “eresie” fenomenologiche di J. Derrida e J. L. Marion, cit., cap. II. 192 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 57. 191

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Percorsi francesi

cunché se non manifestando ciò che fino a quel momento restava non manifesto. Conseguentemente, per Heidegger la fenomenologia oltrepassa l’accezione “volgare” del fenomeno non rendendo manifesto ciò che, banalmente, è già manifesto, ma manifestando il non-manifesto. “Cos’è che la fenomenologia fa quindi vedere? […] Qual è in questo caso il tema necessario di una mostrazione esplicita? Evidentemente è ciò che di primo acchito non di mostra, ciò che resta nascosto rispetto a ciò che si mostra a un primo sguardo, ma che ciononostante appartiene essenzialmente a ciò che si mostra al primo sguardo, in modo da costituirne il senso e il fondamento”193. Evidentemente, ciò che secondo Heidegger dev’essere condotto fenomenologicamente alla visibilità, è l’essere; questo è il senso della riduzione fenomenologica, che si snoda secondo due passaggi fondamentali: ri (con) durre l’ente al proprio essere, e infine l’essere dell’ente al senso dell’essere in generale. Il fenomeno non si manifesterebbe dunque se non in quanto non appare immediatamente: dunque il fenomeno si caratterizza innanzitutto per il fatto che non appare. Conseguentemente, “è proprio perché i fenomeni, di primo acchito e per la maggior parte del tempo, non sono dati che c’è bisogno di una fenomenologia”194. Come lo stesso Heidegger affermerà nel suo ultimo seminario del 1973, “questa fenomenologia è una fenomenologia dell’inapparente”195. Tuttavia, com’è noto, l’approccio fenomenologico tentato in Essere e tempo conduce a un esito fortemente problematico, tale da determinare l’interruzione stessa dell’opera del ’27: infatti, il motore e punto d’avvio della Seinsfrage, l’origine del movimento di Destruktion dell’ontologia e della metafisica tradizionali come operazione preparatoria e preliminare per la posizione del probleIvi, p. 58. Ivi, p. 59. 195 M. Heidegger, Questions IV, Parigi, Gallimard, 1976, p. 339 (trad. nostra). 193 194

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Capitolo nono

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ma del senso dell’essere hüberhaupt, ossia il Dasein, ne risulta allo stesso tempo la pietra d’inciampo, l’ostacolo inaggirabile, l’elemento a un tempo imprescindibile eppure lo skandalon da eliminare. Come porre la domanda sul senso dell’essere in generale senza che il Dasein – unico ente capace di costruire tale domanda – finisca sempre per farla ricadere nella questione dell’essere dell’ente? Proprio per risolvere un tale impasse, lo sviluppo del pensiero heideggeriano successivo ad essere e tempo tende, almeno a partire da Che cos’è metafisica? e da Dell’essenza del fondamento, a riproporre la domanda sull’essere in generale in una forma più diretta, conservando dell’analitica esistenziale di Essere e tempo quasi soltanto l’analisi dell’angoscia come sentimento fondamentale di apertura all’essere196. Dopo Essere e tempo, Heidegger ha rielaborato questo insieme di problemi introducendo la “categoria” dell’eventualità dell’essere – compimento della tematica, già presente in Essere e tempo, dell’Es gibt – e del suo conseguente manifestarsi e occultarsi: secondo questa nuova concettualità, l’essere, eventualizzandosi, si manifesta nell’ente, ma dall’ente deve anche necessariamente assentarsi affinché quest’ultimo possa essere ente, cioè possa essere ciò che è aperto al suo possibile non essere. L’ente in questo modo fa appello all’essere, ma in questo appello non si esaurisce in quanto dall’essere si distingue: l’essere manifestandosi nell’ente necessariamente si occulta affinché l’ente possa essere ciò che è, “l’essere si sottrae Tuttavia, ciò non significa che Heidegger, dopo Essere e tempo, trascuri l’importanza del Dasein. Come scrive acutamente U. Ugazio, “lo sviluppo del pensiero heideggeriano non consiste in uno spostamento dell’attenzione dall’Esserci all’essere, ma piuttosto nel pensare il limite in modo sempre più unitario, ossia nella sua ontologicità. […] In questo senso, la morte, l’assenza di fondamento (Abgrund), il silenzio, nel loro alludere ad alcunché di negativo, significano il costituirsi, nel rispetto della differenza ontologica, di una totalità che è essa stessa l’Esserci, nel senso che l’essere ci è solo nell’esserci”. (Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Milano, Mursia, 1976, pp. 84-85). 196

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Percorsi francesi

mentre si scopre nell’ente”197. Ora, pensare la differenza ontologica significa – per l’Heidegger successivo ad essere e tempo – pensare l’essere come Ereignis e quindi come il gioco della contemporaneità e coappartenenza del suo manifestarsi/occultarsi, cioè pensare l’eventualità dell’essere come il manifestarsi occultarsi dell’essere stesso198. Al di là del complesso rapporto tra fenomenologia e ontologia – a cui si è già accennato – la nozione di evento mette in moto una forma di concettualità che avrà larga fortuna in Francia presso quelli che abbiamo chiamato, con Sebbah, fenomenologi dell’originario. A partire da Heidegger, inizia quel processo di “rovesciamento” dell’Io che lo destituirà progressivamente di ogni funzione costituente, assegnandogli così una posizione di “affittuario della soggettività”199 in quanto termine di una “rivendicazione” (Anspruch) originaria, di un appello che, giungendo inaspettatamente a titolo, appunto, di evento, lo interpella e lo sollecita a una risposta. In quest’orizzonte, anche se secondo percorsi differenti200, possono essere pensati i movimenti dell’Infinito (Lévinas), M. Heidegger, Sentieri interrotti, Milano, Bompiani, 2002, p. 314 (tit. orig. Holzwege, Francoforte sul Meno, Klostermann, 1963). 198 Con notevole lucidità, U. Regina interviene a proposito dell’enigmatica tesi heideggeriana secondo cui “l’essere non può essere”: “Il fatto che l’essere non possa essere, perché altrimenti non sarebbe più essere ma ente, può lasciare veramente perplessi. Invero tale esprimersi non è che la ripetizione di quanto già detto. L’essere è sempre essere dell’ente. Dato tuttavia che l’ente accade nell’essere, ecco che l’essere propriamente non può essere identificato con l’ente: se così fosse infatti, l’ente non potrebbe nemmeno accadere nell’essere essendo di già lo stesso essere. Dunque è vero dire che non vi è altro essere che quello che si manifesta nel darsi dell’ente; ma è al tempo stesso essenziale affermare che l’ente è costantemente diverso dall’essere”. (Heidegger. Dal nichilismo alla dignità dell’uomo, Milano, Vita e Pensiero, 1970, p. 103). 199 L’espressione si trova in J. L. Marion, Dato che, cit., p. 393. 200 Differenze in larga parte relative alla diversa funzione e portata fenomenologica assegnata all’ontologia dai fenomenologi dell’originario: ad esempio, se per Marion (in questo aspetto erede di Lévinas) la donazione può essere liberata – come “pura forma dell’appello” (cfr. Riduzione e donazione, cit.) – solo dopo la completa destituzione 197

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Capitolo nono

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della Vita (Henry) e della donazione (Marion), di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo del nostro itinerario fenomenologico francese.

dell’ontologia, per Henry l’essenza della manifestazione va ancora pensata in un quadro ontologico (Cfr. L’essenza della manifestazione, Napoli, Filema, 2009; tit. orig. L’essence de la manifestation, Parigi, PUF, 1963, ultima ed. 2003). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo decimo

Fenomenologia al presente

Solo se si tiene conto che queste tre istanze fenomenologiche originarie – husserliana, merleau-pontiana e heideggeriana – si sono diffuse in Francia in un arco di tempo che copre più di tre decenni, dal ’29 al ’61, periodo compreso tra i Pariser Vorträge di Husserl, pronunciati nel solenne Anfiteatro “Descartes” della Sorbona, i corsi “heideggeriani” all’École Normale Supérieure di Jean Beaufret nel secondo dopoguerra e l’attività accademica alla Sorbona e al Collège de France di Merleau-Ponty, ci si può rendere conto dell’enorme impatto della fenomenologia in terra francese e della portata delle questioni teoriche apertesi in seguito all’interazione tra questi stessi modelli. Tre punti di riferimento simbolici, che certo non bastano a esaurire il complesso panorama della fenomenologia in Francia, ma che ne rappresentano i tre orientamenti fondamentali e tutt’ora oggetto di dibattito filosofico internazionale. Riallacciandoci al tentativo, dal quale avevamo preso le mosse, di tracciare – per lo meno schematicamente – una mappatura della situazione in cui la fenomenologia francese si trova attualmente, ci riferiamo nuovamente al testo di Sebbah, che abbiamo utilizzato come “segnavia” in questo arduo percorso: se, a partire dall’esigenza comune di un allargamento della fenomenalità rispetto alla tematizzazione husserliana dell’evidenza dell’Io, si assume la riduzione www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Fenomenologia al presente

in senso merleau-pontiano, si eserciterà un tipo di fenomenologia tesa a chiarire il senso dell’a priori del mondo come condizione essenziale di ogni manifestazione; se si assume, al contrario, la riduzione in senso heideggeriano, cioè come riconduzione dell’ente al proprio essere – detto altrimenti: da ciò che di esso appare a ciò che invece non appare, la fenomenalità – si eserciterà un tipo di fenomenologia in costante ricerca di quel sol originario che rende possibile ogni manifestatività. Lungo questo percorso, come si è visto, si consuma la vicenda filosofica del “rovesciamento” dell’Io husserliano, in favore di un modello di manifestatività completamente libero da ogni residuo di costituzione intuitiva-soggettiva: l’evenemenzialità, ossia la struttura dell’altrove (non necessariamente trascendente, dunque libero da schemi causali di stampo metafisico) fa strada a una fenomenalità che si impone da sé e a partire unicamente da sé, interpellando l’io e coinvolgendolo nella manifestazione stessa. Lungo questo percorso, che in Heidegger va pensato ancora nel contesto della Seinsfrage, cioè di un’ontologia, si apre la possibilità di una radicalizzazione dell’Es gibt heideggeriano, che tenti cioè di isolare la dinamica originaria della datità, ossia la struttura dell’appello: seppur in modi parzialmente differenti che, come già accennato, riguardano il diverso trattamento riservato all’ontologia201, è ciò che hanno tentato sia Lévinas attraverso la figura del volto e il concetto di Infinito, sia Henry con la nozione di Vita come orizzonte ultimo della manifestazione, sia infine Marion con il principio della saturazione dell’orizzonte della fenomenalità. Il saggio di Sebbah, ancora una volta, ha il grande pregio di mettere perfettamente a fuoco la divergenza tra l’indirizzo trascenPer quanto riguarda questo punto, mi permetto di rimandare al mio intervento, dal titolo Phénoménologie et/est ontologie. En dialogue avec J. L. Marion et M. Henry, al Congrès International “Relire Michel Henry”, Università di Lovanio, 15-17 dicembre 2010, di prossima pubblicazione sulla “Révue Michel Henry”, 3/2011. 201

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dentale e quello dell’originario, mossi da un intento comune e poi incamminatisi su sentieri radicalmente divergenti. È invece nella valutazione di fondo della fenomenologia dell’originario che crediamo di non poter seguire Sebbah, quando afferma: “É del tutto consequenziale che la volontà di rinvenire un punto di partenza (di incontrare un assoluto da cui dipende ogni manifestazione, e che non dipende a sua volta da nulla nella propria automanifestazione) si dia invece una soggettività, un ego trascendentale, poiché in realtà una soggettività trascendentale non è null’altro che questo: un assoluto che pone se stesso e pone tutto ciò che gli si dà (in linguaggio fenomenologico, si parlerà del potere di automanifestazione che fa apparire tutto ciò che appare)”202. In effetti, non crediamo vi sia un legame consequenziale tra l’esercizio della fenomenologia come ricerca di un’origine ultima della manifestatività e la costituzione di un ego trascendentale: basta pensare al percorso teorico di Marion per rendersi conto dell’esatto contrario. La donation si libera in misura sempre più radicale man mano che il soggetto viene destituito del suo carattere trascendentale, ma anche ontologico-esistenziale, approdando a un moi-hors-d’être il cui unico carattere proprio è di ricevere se stesso dalla donazione: emerge così la figura dell’a-donato, ossia di un io ultra-soggettivo unicamente pensabile in relazione a un altrove senza nome da cui proviene gratuitamente la donazione stessa. Sebbah obietta: “La preoccupazione di rispettare il carattere sempre «in sovrappiù» dell’originario esige da questi autori che essi non lo identifichino, o meglio che lo identifichino come il non-identificabile, come ciò che eccede irriducibilmente l’atto attraverso cui io me lo do”203. A nostro avviso le obiezioni di Sebbah, in definitiva molto vicine a quelle di Janicaud, tese a mostrare la ricaduta nella 202 203

Ibidem. Ivi, p. 165.

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Fenomenologia al presente

metafisica di questa famiglia fenomenologica, e in particolare di Lévinas e Henry, non ne colgono lo spirito autentico; scrive infatti Lévinas in Totalità e infinito: “La presenza di un essere che non entra nella sfera del Medesimo, presenza che la oltrepassa, fissa il suo statuto di infinito. Questo superamento si distingue dall’immagine del liquido che trabocca da un vaso perché questa presenza traboccante si attua come un porsi di fronte al Medesimo. […] L’idea dell’infinito supera il mio potere – non quantitativamente, ma mettendolo in questione. Non viene dal nostro fondo a priori e, perciò, è l’esperienza per eccellenza”204. Più articolata la posizione di Henry su questo punto: se vi è auto-donazione da parte dell’io, essa non riguarda i fenomeni, ma il fatto che l’io si auto-affetti nel riferimento ai fenomeni, “senta di vederli”, laddove la pura auto-affezione, il puro guardare – ciò che Henry chiama Vita, cioè l’immanenza assoluta – non è visibile. “Riferirsi-a, fenomenologicamente, significa guardare. Che il riferirsi-a non sia in quanto tale la sua propria possibilità fenomenologica, in modo rigoroso, significa questo: il vedere non si vede. Questo vuol dire: il vedere non è un fenomeno in sé e per sé. […] Sempre agisce in esso una potenza altra dalla sua, potenza nella quale esso si auto-affetta in modo tale che si senta vedere, si senta vedente. […] Questa auto-affezione è la fenomenalità originale, la donazione originale in quanto auto-donazione, per esempio l’auto-donazione a se stesso del vedere. […] É solo in quanto nonvedere, non riferentesi a se stesso in un vedere, non rivelandosi grazie ad esso, e così in quanto non-visto, in quanto invisibile, che il vedere s’effettua. Ora, questo non-vedere e questo non-visto, questo invisibile, non è l’inconscio, la negazione della fenomenalità, ma la sua fenomenalizzazione primaria, non un presupposto ma la nostra E. Lévinas, Totalità e infinito, Milano, Jaca Book, ultima ed. 2006, p. 201, corsivo nostro (tit. orig. Totalité et infini, L’Aia, Nijhoff, 1961). 204

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vita stessa nel suo pathos inestatico e pertanto incontestabile”205. Quel surcroît all’origine che Lévinas chiama Infinito, Henry lo pensa come Vita, cioè come auto-affezione del vedere nei confronti di se stesso, ma ciò non significa che l’io ponga idealisticamente l’Infinito o la Vita come concetti metafisici da cui far discendere l’intero edificio fenomenologico. L’io – o quel che ne resta – trova, perviene per via riduttiva a quel di più e tenta un nome per quell’innominabile, declinandolo come Infinito o come Vita, ma mantenendo sempre questi ultimi come ciò che arriva d’altrove e che mi investe, che mi espone e che mi fa essere a titolo di fenomenalità interpellata, chiamata a rispondere agli appelli della trascendenza. In ultima analisi, Sebbah critica i fenomenologi dell’originario cercando di estendere alle determinazioni fenomenologiche che essi mettono in campo l’ideale husserliano di evidenza, mostrando così facilmente che l’Infinito, la Vita o la donazione non possono raggiungere un tale grado di assolutezza, se non grazie a un Io che lo attribuirebbe loro surrettiziamente. Al contrario, nel contesto della de-trascendentalizzazione che Levinas, Henry e Marion operano, ogni sfera di evidenza soggettiva è esclusa, l’io non è più il baricentro della fenomenalità, ma esclusivamente il termine del movimento originario che mette in scena la manifestazione dei fenomeni: per loro, la riduzione – si badi bene, essa non è una funzione soggettiva ma, per così dire, pertiene alla donazione: “riducendosi”, i fenomeni si mostrano – non si arresta a un certo punto oltre cui non si potrebbe più risalire, e che viene determinato dall’esterno come originario, ma è l’originarietà stessa di ciò che si può appena nominare, l’Infinito, la Vita, la donazione, nel loro carattere di movimento e dinamica fenomenologica, e non M. Henry, Fenomenologia materiale, Milano, Guerini e Associati, 2001, p. 149, corsivo nostro (tit. orig. Phénoménologie matérielle, Parigi, PUF, 1990).

205

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Fenomenologia al presente

di fondamento dell’apparire, che farebbero “girare a vuoto” una riduzione che tentasse di procedere oltre di essi. In definitiva, secondo Sebbah “questi autori descrivono l’epoché come esigenza di neutralizzare ogni posizione d’essere nel cuore stesso della riduzione come riconduzione verso l’originario, e ciò produce una sorta di «esaltazione» originaria, un rilancio originario. Da quel momento, si potrà rimproverare loro di oltrepassare il limite del dato per preoccupazione di cogliere la radice dell’apparire come tale, in un movimento vertiginoso e senza fine in quanto ogni identificazione dell’originario, sospetta d’essere un’ipostasi, dovrà ineluttabilmente essere decostruita per liberare il movimento stesso dell’apparire che non può essere fissato in un essere”206. Ciò significa, per Sebbah, che la riduzione perviene a un risultato contraddittorio: ipostatizza un elemento originario (l’Infinito, la Vita, la donazione), da cui dipende la manifestatività in generale, laddove l’epoché richiederebbe la sospensione di ogni posizione fissa d’esistenza. “L’eccesso dell’eccesso che consiste nel pretendere che lo sforzo di riduzione sia coronato da un successo e che raggiunga l’evidenza apodittica della fonte di ogni donazione – senza poter evitare il dubbio che questa evidenza fenomenologica non sia che una pseudo-evidenza fenomenologica, una costruzione speculativa, una tesi ingenua, la posizione ingenua dell’esistenza di un essere assoluto al di là dell’apparire”207. Secondo Sebbah, dei due casi l’uno: o rispettare l’epoché e non pervenire ad alcuna origine della manifestatività – progetto che, purtuttavia, la fenomenologia si prefigge come compito – o pervenire all’origine ma rinunciare alla radicalità dell’epoché. In realtà, Sebbah critica l’ipostatizzazione dell’originario come una costruzione speculativa, utilizzando implicitamente lo schema tradizionale della causalità, per cui 206 207

F. D. Sebbah, Une réduction excéssive, cit., pp. 165-166. Ivi, p. 167.

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l’originario – l’Infinito, la Vita e la donazione – costituirebbero il fondamento della manifestazione dei fenomeni, come una causa agente nascosta dietro l’apparire stesso, dunque esterna ad esso. Ora, come già affermato, questo schema è del tutto assente in questi autori, per i quali non vi è alcun rapporto di fondazione, in termini classici, tra l’originario e l’apparire, ma il tentativo di pensare la nozione stessa di relazione al di fuori e oltre l’oggettività – metafisica o trascendentale. Se in Lévinas e Henry tutto ciò traspare senza mai essere tematizzato esplicitamente, è Marion a esprimerlo a chiare lettere: “La donazione non proviene né da una causa esterna né da una ragione auto-procurata (come una sorta di causa sui), poiché in quanto dono, essa precede ogni ragione da rendere nella stretta misura in cui esso rende, ri-dona e dona prima di ogni ragione. In questo senso esso rende possibile che ci sia una ragione da rendere, lungi da dovere ad essa la sua legittimità. La ratio reddenda non fonda più il dono, non cessa di mancarlo. Al contrario, in quanto essa stessa da rendere, la ratio reddenda riceve piuttosto la propria possibilità dal dono stesso. Ciò accade perché la ragion sufficiente non basta – occorre infatti ancora renderla – e precisamente questo «rendere» (reddere) essa non potrà mai compierlo fino a quando si mantiene talmente estranea al dono da non cessare di volerlo annullare. La ragione diventa realmente sufficiente solo quando la donazione la dona (e la rende) a se stessa, dunque la precede. La ragione non basta a se stessa più di quanto non basti a pensare la donazione. Solo la donazione rende la ragione a se stessa (come insufficiente), perché essa sola è sufficiente a donarla. […] Oramai si pone la questione: la donazione non fornisce la sola figura non metafisica della possibilità? La possibilità, «più alta dell’effettività», può accaderci altrimenti che attraverso la donazione e in quanto donazione? Ovvero: se il fenomeno, nella sua stretta accezione fenomenologica, si mostra in sé e a partire da sé, sorgendo da una possibilità www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Fenomenologia al presente

assolutamente propria, imprevedibile e nuova, allora la donazione non si offre come il fenomeno per eccellenza – più esattamente come la figura originaria di ogni fenomenalità?”208.

J. L. Marion, L’incoscienza del dono e la ragion sufficiente, in Il codice del dono. Verità e gratuità nelle ontologie del Novecento, a cura di G. Ferretti, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2003, pp. 37-64. 208

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Per concludere…

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Per concludere…

Prospettive future

Si è cercato, nei due capitoli precedenti, di illustrare le ragioni dei fenomenologi d’impostazione merleau-pontiana e le istanze dei fenomenologi dell’originario, utilizzando come spunto critico il saggio di Sebbah, che conclude: “[…] questa fenomenologia non può stabilizzarsi in una figura definitiva di se stessa et priva d’inquietudine, essa costituisce così una «phénoménologie clignotante»”209. È possibile uscire da quest’alternativa, oppure la fenomenologia è destinata a oscillare tra la “nostalgia per l’evidenza dell’Io” e il desiderio di pervenire a una sfera originaria oltre cui non sia più possibile risalire per via riduttiva? Riflettiamo ancora sulla critica che Sebbah muove ai fenomenologi dell’originario: nella sua prospettiva, il punto debole del loro procedimento risiede nello stesso tentativo di nominare la “fonte ultima” della fenomenalità, cioè nell’individuazione di un terreno ultimo oltre il quale la riduzione non troverebbe più alcun punto di applicazione. A nostro parere, l’equivoco consiste nell’attribuire ai “nomi dell’originario”, per così dire “tentati” da Lévinas, Henry e Marion, una qualche funzione fondativa, erede cioè dell’Io come polarità costituente e donatrice di senso. Al contrario, una volta superato, destituito o F. D. Sebbah, Une réduction excéssive, cit., p. 167. L’espressione significa “fenomenologia a sprazzi”. 209

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Prospettive future

rovesciato l’orizzonte husserliano, va abbandonata ogni funzione fondazionale, proprio perché, come afferma Marion, il movimento della donazione è anteriore a ogni ragion sufficiente, dunque a ogni fondazione: per l’appunto, l’orizzonte della donazione (Marion), della manifestazione (Henry) o dell’Infinito (Lévinas) costituiscono le anamorfosi, i processi di emersione alla visibilità dei fenomeni, e non la loro “causa efficiente” o il principio che rende ragione della loro provenienza. In ultima analisi, essi non nominano il “fondo” da cui proviene la fenomenalità, ma il movimento che essa compie per mostrarsi. Ecco perché – come si accennava sopra – l’eredità heideggeriana dell’Ereignis, ma ancor più dell’Es gibt, più o meno spogliati delle loro vesti ontologiche, esercita una profonda influenza sulla questione fenomenologica dell’originario: non è qui in gioco l’altrove che “spinge” i fenomeni a manifestarsi, ma il “come” del loro mostrarsi, secondo il più originario dei progetti fenomenologici, anche se si tratta qui di una fenomenologia “alla rovescia”, in cui la coscienza si trova costituita da una fenomenalità che le si impone prima e a prescindere da ogni attesa e intenzionalità. Se già questa dinamica della fenomenalità come anamorfosi e non come causa o principio della manifestatività dei fenomeni emergeva pienamente in Dato che, essa viene ripresa e radicalizzata nell’ultimo saggio di Marion, Certitudes négatives210, al cui termine egli introduce la differenza tra oggetti ed eventi: “Il dato risale verso di noi, in un flusso continuo, molteplice e incontrollabile, puro (o piuttosto impuro?) e vario dell’intuizione. Al suo interno […] noi distinguiamo certe oasi di stabilità, che costituiamo o che crediamo almeno di costituire (in quanto possono anche costituirsi da se stesse) in altrettanti fenomeni. Questi fenomeni non corrispondono certamente che a una piccola parte del dato che ci perviene; la 210

J. L. Marion, Certitudes négatives, Parigi, Grasset, 2010.

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parte più grande, certamente, la lasciamo passare senza trattenere né conservare nulla come dei fenomeni […]. E tuttavia, tra quelli che la nostra attenzione può guardare direttamente, noi non arriviamo mai a guardarli tutti, né tutti nello stesso modo. Più precisamente, noi non ne guardiamo altri da quelli a cui riconosciamo il rango di oggetti. La vista vi diventa lo sguardo guardiano, che conserva sorvegliando ogni volta che istituisce dinanzi a sé qualche cosa che può permanere stabile, determinato, quindi invariabile, tale da offrire almeno una volta le condizioni di una conoscenza certa, almeno provvisoriamente”211. Se proviamo ad accostare questo passo, scritto pochi mesi fa, con lo Husserl delle Ricerche Logiche – in cui, anteriormente al “restringimento” fenomenologico caratteristico della svolta trascendentale, egli prospetta uno scenario fenomenale caratterizzato da una datità quasi sempre indiretta e procedente per Abschattungen, quello “sfondo opaco” a partire dal quale solo talvolta può dirigersi intenzionalmente su particolari fenomeni fissandone intuitivamente l’oggettità, cioè l’evidenza della piena presenza per la coscienza – ci accorgiamo del percorso duplice che la fenomenologia ha compiuto dalle origini alla “fenomenologia dell’originario” sviluppatasi in Francia: dal restringimento della fenomenalità alla sfera di evidenza oggettiva e immediata per la coscienza al suo ri-allargamento e alla sua riconsegna all’immenso campo della donazione – mediata, impura – irriducibile alla presenza e del tutto indipendente dall’attività sintetica e costituente dell’io. Ora, tale ampliamento estremo della fenomenalità, che va di pari passo con la destituzione (trascendentale e ontologica) dell’io come termine privilegiato di ogni manifestatività, de-forma la Gegebenheit husserliana sino a rovesciarla nella figura dell’evento: l’evenemenzialità non è più, dunque, il carattere tipico di alcuni fenomeni, ma costituisce il 211

J. L. Marion, Certitudes négatives, pp. 243-244 (trad. nostra).

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Prospettive future

modello più ricco e profondo di fenomenalità in generale. Benché – come già ricordato – la mediazione heideggeriana sia forte, non si tratta qui di pensare l’evento come l’“accadere dell’essere”212, ma come la dinamica secondo cui i fenomeni, innanzitutto (cioè prima ancora di manifestarsi, di rendersi visibili, cosa che in linea di principio potrebbero anche non fare), si danno. Scrive Marion: “L’interpretazione oggettiva del fenomeno ne maschera e non ne riconosce l’evenemenzialità. […] [L’evento] avviene senza alcun sostrato, non perché difetti di permanenza, ma perché non ne ha alcun bisogno; o piuttosto perché il concetto di permanenza non è adeguato alla sua descrizione in quanto effetto di una causa; esso accade senza causa, non perché ne sia privo […], e neppure perché ne sia dispensato per mezzo di una sorta di grazia, ma perché non può mai essere compreso come un effetto (né come una causa), in quanto la propria unicità atomica e folgorante non richiede alcun luogo, né forse alcun tempo […]”213. E ancora: “[…] l’evento puro non intrattiene alcuna analogia con altri oggetti dell’esperienza – e proprio perché accade come evento che, nell’istante del proprio accadere, accade da solo, senza condividere la scena fenomenale con nient’altro, dunque senza solidificarsi in un oggetto interconnesso con altri oggetti, con cui si trova in un rapporto analogico. […] l’evento coincide perfettamente col proprio irrompere e non consiste in altro dal proprio passaggio. Esso accade, senza dover neppure liberarsi dall’oggetto che non è mai stato – se non nella confusione della sua interpretazione metafisica”214. Lo stesso Heidegger, nei Beiträge, scrive: “È questo il presentarsi essenziale dell’Essere stesso: noi lo chiamiamo l’evento”. (M. Heidegger, Contributi alla filosofia (dall’evento), trad. it. Milano, Adelphi, 2007, p. 37; tit. orig. Beiträge zur Philosophie: vom Ereignis, Francoforte sul Meno, Klostermann, 1989). 213 J. L. Marion, Certitudes négatives, cit., p. 275 (trad. nostra). 214 Ivi, p. 276 (trad. nostra). 212

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Queste poche righe, a nostro parere, sono sufficienti per disattivare la critica di Sebbah – così come, prima di lui, di Janicaud – nei confronti di una presunta ipostatizzazione dell’“originario” come principio fenomenologico di ogni manifestazione in generale: ben lungi dal nominare un principio “causale” o comunque in grado di “rendere ragione” della fonte di ogni fenomenalità, la dinamica evenemenziale – estremo approdo della fenomenologia della donazione come processo di “rovesciamento” della fenomenologia trascendentale e di restituzione del campo fenomenale a tutti i possibili ambiti del reale, ivi compresi quelli che sfuggono costitutivamente alla “presa” dell’Io – cerca di pensare il percorso dei fenomeni verso la visibilità, il loro irrompere senza causa, a partire unicamente da se stessi, secondo il progetto fenomenologico più autentico. L’evento, dunque, non si lascia costringere entro le maglie dell’oggettività: anzi, nella libertà del proprio sorgere, esso rende evidente – distaccandosene – la “diminuzione” fenomenale dell’oggetto, ossia la propria subordinazione allo sguardo coscienziale che lo delimita, costituendone il carattere di evidenza. Come ripete Marion, “l’evento non limita la fenomenalità – la apre e la salvaguarda”215. Si tratta dunque di pensare l’oggetto a partire dall’evenemenzialità del fenomeno, e non più viceversa: l’oggetto e l’evento si oppongono come due figure della fenomenalità, la prima come modello di ciò che posso costituire attivamente, la seconda come de-misura di ciò che posso esclusivamente ricevere. Schiacciare l’evenemenzialità sull’oggettività significa pervertire il senso della fenomenalità, restringerlo – come fa, più o meno consapevolmente, Husserl – al rango dell’evidenza soggettiva, cioè a un ambito infinitamente più angusto rispetto all’infinita molteplicità di ciò che, innanzitutto, si dà a titolo di evento, secondo la propria venuta, senza causa. An215

Ibidem (trad. nostra).

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Prospettive future

cora una volta, la critica secondo cui la donazione costituirebbe la “fonte”, dunque l’origine della fenomenalità, oltre cui è impossibile risalire per via riduttiva216, non coglie nel segno, in quanto questo modello fenomenologico “dell’originario”, incentrato sull’evenemenzialità del fenomeno, non mira a rintracciare un “terreno ultimo” da cui i fenomeni proverrebbero, ma a comprendere il loro accadere senza costringerlo ad adeguarsi al modello soggettivistico della presenza e dell’evidenza, ossia senza individuarne artificiosamente una causa217. Scrive ancora Marion: “Ciò che è e com’è, il suo modo di apparire (il suo come fenomenale), questo rimane inaccessibile alla luce del mondo. Per questa ragione, è necessario molto di più di questa luce per definire il modo di apparire di ciò che appare: occorre l’ermeneutica e la fenomenologia dell’inapparente, le uniche atte ad affrontare quei fenomeni che, innanzitutto e perlopiù, non si mostrano. In particolare, la distinzione tra ciò che è vivo e ciò che è morto, il vivente e il cadavere, richiede molto di più della luce del mondo per apparire: essa richiede anche ciò che non si vede, la parola, la libertà, il riconoscimento reciproco, ecc.”218. Qui si chiude il nostro percorso tra le molteplici voix della fenomenologia che, come si è visto, si intrecciano lungo percorsi di straordinaria complessità: essi ci hanno condotto, a partire dalle Tuttavia, sorge legittimamente la domanda: una fenomenologia incentrata sul carattere originariamente evenemenziale dei fenomeni, ossia su una fenomenalità più ampia possibile, non esclude per principio la riduzione, che procede secondo una direzione opposta? 217 Scrive Marion a tale proposito: “Il rifiuto di pensare la passività dell’evento, a favore del progetto dell’oggetto, provoca la nascita della causa. Riconoscere l’evento implica l’ammetterne la spontaneità irriducibilmente originaria, cioè la sovranità”. (Certitudes négatives, cit., p. 281, trad. nostra). 218 Ivi, p. 296 (trad. nostra). È qui evidente il richiamo alla dimensione della vita – che Marion condivide pienamente con Henry – come orizzonte originario che, pur non rendendosi visibile come tale, rende possibile ogni manifestazione. 216

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istanze husserliane originarie, sino al loro radicale rovesciamento nella fenomenologia dell’originario pensata secondo il modello dell’evenemenzialità dei fenomeni. Qui, dinanzi alla figura dell’evento, si apre un nuovo percorso, che possiamo soltanto indicare, all’incrocio tra fenomenologia ed ermeneutica: quale destino per entrambe? La fenomenologia troverà il proprio compimento nell’ermeneutica, cessando dunque di essere ciò che è, oppure è pensabile un rapporto paritario e dialogico volto alla comprensione di ciò che, innanzitutto e perlopiù, non si mostra?219 In altri termini, se l’evenemenzialità dei fenomeni richiede un approccio interpretativo, che ne sarà della fenomenologia, ossia del richiamo alle “cose stesse?” Non è l’idea stessa di interpretazione a confliggere col progetto fenomenologico di fondo, ossia l’esplicitazione del senso della fenomenalità? Un altro paradosso sembra infine emergere: eppure, ricorda ancora Marion, “il paradosso non impedisce la conoscenza dei fenomeni, ma al contrario definisce la figura che essi devono assumere per manifestarsi, quando contraddicono le condizioni che la finitezza non può imporre loro. Un pensiero si misura esattamente dai paradossi che sopporta e richiama”220. Queste parole di Marion sembrano far eco a una considerazione di Merleau-Ponty di sessantacinque anni prima, a dimostrazione che la fenomenologia francese, al di là dei diversi indirizzi che ha assunto nel corso del XX secolo e fino ai nostri giorni, continua a trarre la propria vitalità da quello “stupore” originario dinanzi È questo l’interrogativo che ha mosso buona parte della riflessione ermeneutica di P. Ricoeur in Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Milano, Jaca Book, 1989 (tit. orig. Du texte à l’action. Essais d’herméneutique, Parigi, Ed. du Seuil, 1986), di J. Grondin in L’horizon hérméneutique de la pensée contemporaine, Parigi, Vrin, 1993, di J. Greisch in Le cogito herméneutique. L’herméneutique philosophique et l’héritage cartésien, cit. e, più recentemente, di C. Romano in Au cœur de la raison, la phénoménologie, Parigi, Gallimard, 2010. 220 J. L. Marion, Certitudes négatives, cit. pp. 317-318 (trad. nostra). 219

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Prospettive future

al “mistero della manifestatività”: “Se la fenomenologia è stata un movimento ancor prima di essere una dottrina o un sistema, ciò non è un caso né un’impostura. Essa è laboriosa come l’opera di Balzac, quella di Proust, quella di Valéry o quella di Cézanne – per lo stesso genere d’attenzione e di stupore, per la stessa esigenza di coscienza, per la stessa volontà di cogliere il senso del mondo o della storia allo stato nascente. Sotto questo profilo essa si confonde con lo sforzo del pensiero moderno”221. À continuer…

221

M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 31.

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