In persona Christi: La Messa unico tesoro e la sua concelebrazione (Italian Edition) 9789887529729

Ripresentiamo con questo libro un lavoro importante e significativo del padre Enrico Zoffoli sul tema della concelebrazi

126 30

Italian Pages 92 [94] Year 2021

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Table of contents :
Cover Page
Copertina
IN PERSONA CHRISTI
Indice dei contenuti
INTRODUZIONE
PREMESSA
I. PRECEDENTI STORICI
II. MAGISTERO DEL VATICANO II
III. RIFLESSIONE TEOLOGICA
RIEPILOGO E CONCLUSIONE
APPENDICE
PER UNA RIFORMA DELLA PRASSI ATTUALE DELLA CONCELEBRAZIONE
CONCELEBRAZIONE SACRAMENTALE O CERIMONIALE? IL DILEMMA PERMANE E SI AGGRAVA
Recommend Papers

In persona Christi: La Messa unico tesoro e la sua concelebrazione (Italian Edition)
 9789887529729

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Enrico Zoffoli

IN PERSONA CHRISTI

La Messa unico tesoro e la sua concelebrazione

Prima edizione 1991 con il titolo

" La Messa unico tesoro e la sua concelebrazione".

____________________

Copyright © 2021 Chorabooks, a division of Choralife Publisher Ltd.

All rights reserved.

14/F office A. Bangkok Bank Building

No.28 Des Voeux Road Central

Hong Kong

Visit our website at www.chorabooks.com

First eBook edition: June 2021

ISBN: 9789887529729

Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write https://writeapp.io

Indice dei contenuti

INTRODUZIONE

PREMESSA

I. PRECEDENTI STORICI

II. MAGISTERO DEL VATICANO II

III. RIFLESSIONE TEOLOGICA

RIEPILOGO E CONCLUSIONE

APPENDICE

PER UNA RIFORMA DELLA PRASSI ATTUALE DELLA CONCELEBRAZIONE

CONCELEBRAZIONE SACRAMENTALE O CERIMONIALE? IL

DILEMMA PERMANE E SI AGGRAVA

INTRODUZIONE

Aurelio Porfiri

La figura del padre passionista Enrico Zoffoli (1915-1996) è oggi quasi dimenticata, malgrado non siano trascorsi molti anni dalla sua morte. Non fa comodo per alcuni ricordare questo grande studioso che dedicò la sua vita ad approfondire le ragioni della sua fede, con animo di credente ma anche con il rigore del vero intellettuale cattolico. Ebbe molti problemi per questo, malgrado il suo carattere molto mite, e li affrontò sempre a testa alta, anche all'interno della sua stessa congregazione. Eppure sapeva che stava difendendo una verità più alta ed accettò tutte le prove con animo umile e spirito fermo. Era una persona di grande mitezza, quasi fanciullesca per i suoi atteggiamenti così privi di quel sussiego che spesso si trova in accademici del suo calibro. Io ho potuto seguirlo nell'ultimo periodo della sua vita, perché l'ho conosciuto che aveva già una età avanzata. Partecipavo tutti i giovedì ai suoi incontri di filosofia, in cui riuniva un gruppo di persone per parlare di san Tommaso d'Aquino e della vera radice del pensiero umano. A volte avevo l'impressione che molte delle persone presenti facevano molta fatica a seguirlo, si trattava anche di persone di una certa età e probabilmente con una formazione culturale non sempre adeguata a quel tipo di concetti. Comunque sicuramente del bene ne è venuto e qualcosa tutti abbiamo ritenuto dagli sforzi del padre Zoffoli. Sforzi che naturalmente erano soprattutto diretti alla sua attività di studio e di pubblicazione, che negli ultimi anni della sua vita subisce una decisa accelerazione. Ho potuto testimoniare la vorticosa produzione degli ultimi anni, una produzione che lo impegnava completamente e che lo mise anche al centro dell'attenzione, specialmente per i suoi libri concernenti il movimento neocatecumenale. Quell'attenzione distolse lo sguardo sul tanto di altro che padre Zoffoli poteva offrire a chi voleva investigare le ragioni della propria fede. Renato Marcello Vittorio Zoffoli nasceva a Marino nel 1915 (riprendo per queste note biografiche quanto scrissi nella mia introduzione ad un altro libro del padre Enrico Zoffoli, Abbà). In gioventù non fu particolarmente fervente nella sua

religiosità, ma verso i 16 anni, anche grazie alle preghiere e all'esempio della madre (imparentata al grande tenore Giacomo Lauri Volpi, che padre Zoffoli spesso menzionava con me sapendo che sono un musicista), ebbe una subitanea conversione in seguito ad un ritiro preso una casa Passionista, dove dimorava lo zio del nostro. Entrerà quindi nei Passionisti, compiendo studi teologici e filosofici (anche all'Università di Lovanio). Padre Enrico dell'Addolorata, questo il nome che prenderà da religioso, aveva la passione per la verità e a questa dedicherà i suoi lunghi e impervi studi, cercando di gettare uno sguardo su ciò che è, per definizione, absconditus. In effetti sul ricordino della sua prima Messa (30 aprile 1939), vi è scritto Santifico eos in veritate, che sarà un poco il motto di tutta la sua vita. Questa sua passione per la verità lo porterà anche a prendere posizioni molto forti all'interno della sua stessa congregazione, soprattutto quando gli fu dato di osservare una certa deriva della stessa e una perdita del carisma originario negli anni tormentati che seguirono il Concilio Vaticano II. Verrà accusato di intransigenza, un accusa che egli seppe respingere con la brillantezza intellettuale che gli era propria, come leggiamo in una sua lettera di risposta ai rimproveri di un superiore: " Restar "fermi" non significa essere "intransigenti", ma solo coerenti, leali, forti, come lo sono stati tutti gli eroi e i martiri d'ogni fede, religiosa o politica..." . Si dedicherà con grande ardore allo studio della storia, carisma e spiritualità della sua congregazione. Uno dei suoi primi lavori importanti fu I Passionisti, del 1955. In una recensione del benedettino Alfons Kemmer sulla rivista di lingua tedesca Maria (Einsiedeln, Febbraio 1956), leggiamo: "I pregi dell'opera sono: fondamentale analisi delle fonti, che sono spesso citate in testi scelti, conoscenza della odierna letteratura spirituale e del suo valore, comprensione psicologica dell'uomo moderno e delle sue caratteristiche. L'opera, scritta in italiano, può considerarsi come la classica esposizione della spiritualità dei Passionisti". Certo un bel complimento per l'autore. Furono anche fatte recensioni su altra riviste internazionali e in altre lingue, come quella spagnola per Editorial de Espiritualidad dei padri Carmelitani. Il gesuita padre Cirilo (non è riportato il cognome), in una recensione del 1968 per la rivista anche di lingua spagnola Monte Carmelo, diceva: " He aqui un linro que nos ha encantado por su concepción y el modo de llevarle a felix realización". Poi la recensione prosegue con altre parole elevate sul lavoro del padre passionista. Non dimentichiamo della grandezza dello Zoffoli storico, in quanto i suoi lavori per la storia del suo ordine sono a tutt'oggi considerati dei riferimenti imprescindibili. Diceva Giovanni Paolo II (28 Ottobre 1986) in un discorso per la plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze: " Ai nostri giorni la distinzione e la

complementarietà degli ordini del sapere, l’ordine della fede e l’ordine della ragione, sono stati espressi con una chiarezza decisiva nell’insegnamento del Concilio Vaticano II: “La Chiesa afferma la legittima autonomia della cultura e particolarmente quella delle scienze… È in virtù della creazione stessa che tutte le cose sono stabilite secondo la loro consistenza, la loro verità e la loro eccellenza proprie, con il loro ordine e le loro leggi specifiche” ( Gaudium et Spes, 59 § 3). Bisogna riconoscere i metodi particolari di ogni scienza. “È perché la ricerca metodica, in tutti i campi del sapere, se è condotta in modo veramente scientifico e se segue le norme della morale, non sarà mai veramente opposta alla fede: le realtà profane e quelle della fede trovano la loro origine in Dio stesso”. Ma sarebbe falso comprendere questa autonomia delle realtà terrestri come se esse non dipendessero da Dio e che l’uomo potesse disporne senza fare riferimento al Creatore. Se i principi sono chiari dovrebbero allontanare ogni atteggiamento di paura o di sfiducia, anche se ciò non significa che ogni difficoltà sia appianata; nuove ricerche e nuove scoperte scientifiche sollevano nuove questioni che costituiranno altrettante esigenze per i teologi, nel modo di presentare le verità di fede salvaguardandone sempre il senso e il significato (cf. Gaudium et Spes, 36 § 2 e 62 § 2). Ma gli scienziati stessi procedono, dal canto loro, ad una critica dei loro metodi e dei loro obiettivi". Quindi tutte le scienze, comprese quelle storiche, non allontanano da Dio ma, se ben comprese, a Lui riconducono. Questo il padre Zoffoli lo sapeva molto bene. Egli fu l'autore della definitiva biografia del santo fondatore dei Passionisti, San Paolo della Croce, una biografia che si estende in tre volumi e per migliaia e migliaia di pagine. Lavorando sul suo archivio, ho potuto constatare come negli anni '60 (periodo dell'estensione del lavoro), il padre Zoffoli lavorò senza fatica per rintracciare indizi, prove, elementi che permettessero di ricostruire le vicende umane e spirituali di un santo che forse non è molto popolare nella percezione della gente comune, ma che ha senz'altro molto da dire per coloro che vogliono vivere la vera spiritualità cattolica al suo meglio. Ho potuto constatare, come dicevo, il rigore scientifico di padre Zoffoli e le decine (centinaia?) di lettere di approvazione di alti prelati, sacerdoti, religiosi e religiose, studiosi che avevano ricevuto i volumi della storia già completati e ne lodavano l'eccellente fattura. Parlando dei Santi, in una omelia del 2001 Monsignor Alessandro Maggiolini diceva: " I Santi ci assicurano che ciascuno di noi è chiamato a diventare uno, dove l’io più profondo attinge allo Spirito e diviene membro del corpo di Cristo. Siamo segnati dal sigillo di Dio e siamo chiamati e siamo realmente figli di Dio. Lambiamo – talvolta sforiamo - la felicità che ci viene promessa. E siamo insieme in una misura sorprendente, eppure ciascuno è se stesso. L’unità tra diversi io, che rimangono tali e divengono sempre più delle identità non

copiabili: questa unità ci è regalata come il cuore del nostro vivere nel Signore Gesù: e i poveri di spirito si ritrovano nel Regno dei cieli, gli afflitti sono consolati, i miti erediteranno la terra e così via. Diversissimi fino a fare “uno solo” nella comunione molteplice e singolare del mistero di Dio. È il significato dell’esistenza, altro che noia od ostilità: possiamo passare attraverso la grande tribolazione e venire perseguitati a causa di Cristo, ma l’allegrezza e l’esultanza sono la ricompensa che ci viene anticipata già fin d’ora nella promessa e anche più. E siamo progenie di Dio, ma la gloria che si cela in noi sarà piena quando vedremo Dio così come egli è. I Santi ci aiutino a diventare persone dalla fisionomia precisa e universale, aperti a una fraternità smisurata e abissale, gioiosi e vivaci nel nostro esistere in Cristo dentro la comunione stupefacente di innumerevoli nostri fratelli la cui vita è già sepolta e rinata nel Signore Gesù oltre il tempo fugace, languido, talvolta perfino perverso. Ma gravida di speranza". Ecco lo spirito dell'impresa del padre Zoffoli, nel dedicarsi a san Paolo della Croce. Riscoprire il suo tempo gravido di quella speranza che non perisce mai. Fu per quel suo rigore scientifico stimato dai suoi colleghi teologi e filosofi, specialmente nell'ambito ecclesiastico, ma non solo. Posso testimoniare di persona, avendo incontrato queste persone prima che morissero, che di lui avevano una grande opinione padre Luigi Bogliolo, padre Dario Composta, Mons. Antonio Piolanti, Mons. Brunero Gherardini, padre Raimondo Spiazzi (ed il padre Cornelio Fabro, che non incontrai mai ma di cui conosco la stima per il nostro autore) ed altri. Insomma, i più insigni rappresentanti della scuola romana di teologia di cui Mons. Antonio Livi (anche lui grandissimo amico ed estimatore del padre Zoffoli) rimase probabilmente l'ultimo rappresentante significativo fino alla sua morte di pochissimi anni fa. Il padre Zoffoli svolgerà vari incarichi: esaminatore del clero, revisore di testi teologici per la Editrice Vaticana, insegnante universitario. Ma più di tutto, si dedicherà ad una vita di preghiera e alla ricerca intellettuale, che scaturirà in decine e decine di testi, trattati teologi, filosofici, storici, apologetici, spirituali. Volumi che purtroppo per la quasi totalità sono oramai fuori catalogo e di difficile reperibilità per chi volesse ancora attingere al bagaglio di esperienza e sapienza del figlio di San Paolo della Croce. Ma io, che conservo un ricordo tenerissimo di lui, una persona mite ed umile, quasi un bambino nel suo candore, ho pensato che non fosse giusto che di lui si perdesse memoria. Ecco allora il senso di questa impresa. Ricordo il padre Zoffoli negli ultimi mesi della sua vita. Un giorno che volevo

andare a trovarlo alla Scala Santa, una persona del Gruppo di Studio mi disse che il Padre Zoffoli si era sentito male e che era in ospedale. Quando seppi che aveva avuto un ictus potei rendermi conto della gravità della sua malattia. Lo andai a trovare spesso nella clinica dove era ricoverato, dove ancora era circondato dall'affetto di chi gli voleva bene e dove ancora pensava ai suoi libri che dovevano uscire. Certamente era molto provato, ma ancora c'era quella fiamma di intelligenza che aveva caratterizzato tutta la sua vita. Il 16 giugno del 1996 morì, lo seppi mentre mi trovavo a suonare nella Basilica di San Pietro in Vaticano. Due giorni dopo mi ritrovai alla Scala Santa a suonare per i suoi funerali, alla presenza di tante personalità del mondo teologico romano e di semplici fedeli. Alla fine, come da suo desiderio, cantammo una delle canzoncine mariane da lui preferite, "O Bella Mia Speranza", di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Se ne era andato un grande personaggio della scena ecclesiale e culturale del nostro paese. Ripresentiamo con questo libro un lavoro importante e significativo del padre Enrico Zoffoli sul tema della concelebrazione. Questo testo in origine si chiamava "La Messa unico tesoro e la sua concelebrazione", ma si è voluto mettere per questa nuova edizione questa frase come sottotitolo e "In persona Christi" come titolo, per significare il ruolo del sacerdote nella liturgia. Il testo fu pubblicato originariamente nel 1991, quindi 30 anni fa, ma non perde la sua freschezza e la sua attualità. Anzi si può senz'altro dire che oggi questo testo è ancora più importante ed urgente ed è per questo che viene riproposto a tutti coloro che non hanno potuto leggerlo tre decenni fa. Anche per coloro che lo hanno letto, questa nuova edizione è comunque molto importante, in quanto arricchita da due testi originali del vescovo Mons. Athanasius Schneider e del teologo Mons. Nicola Bux. Quindi è sicuramente un libro per tutti coloro che vogliono capire qualcosa sul tema della concelebrazione, sugli abusi di questa possibilità liturgica e sul significato della Messa e la sua importanza per la vita spirituale di ogni fedele.

PREMESSA

Dal Concilio in poi la concelebrazione, di fatto, è divenuta un fatto quotidiano, ordinario, ovunque più sacerdoti convengono. Pur autorizzandola in determinati casi, il Vaticano II lascia ciascuno libero di celebrare individualmente; ed è certo che deve aver avuto buone ragioni per consentire tale libertà di scelta. Io intendo ricercare queste ragioni a livello teologico, liturgico, pastorale, muovendo da quello storico - o della tradizione -, particolarmente degno d’interesse. Spero che l’esposizione, per quanto sobria ed essenziale, giovi a molti confratelli nel sacerdozio, anche per poter soddisfare le continue e pressanti richieste dei fedeli, desiderosi di ampliare la propria cultura in materia liturgica, specialmente trattandosi del Sacrificio Eucaristico, «culmine e fonte di tutto il culto» (CIC c. 897). Appunto l’assoluta centralità della Messa nella vita del Corpo Mistico mi ha stimolato a rileggere e meditare il notissimo testo paolino: «OGNI VOLTA infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore» (1Cor 11, 26). Evidentemente l’Apostolo ha sottolineato il valore immenso di OGNI MESSA che, celebrata nelle naturali condizioni dell’esistenza umana, è situata nello spazio e misurata dal tempo, richiamando la necessità della sua moltiplicazione numerica, che dovrebbe premere ad ogni sacerdote, se il Sacrificio Eucaristico è realmente «il centro e la radice di tutta la sua vita» (PO 14). Roma, 7 marzo 1991 L’Autore [1]

[1] Utilizzo largamente i preziosi dati storici – con la relativa bibliografia –

offerti dal P. Joseph de S. Marie, O.C.D. nell’opera L’Eucharistie salut du monde, sa concélébration éd. du Cèdre, Paris, 1981.

Spiegazione delle sigle: AAS = Acta Apostolicae Sedis. Bollettino ufficiale della S. Sede. CIC = Codex Iuris Canonici. Roma. 1983. DS = Enchiridion Symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum. cura H. Denzinger et A. Schönmetzer ed. XXXIII Herder, 1965. LG = Lumen Gentium. Costit. dogmatica sulla Chiesa, del Conc. Vatic. II. MD = Mediator Dei, encicl. di Pio XII. PG = Patrologia Greca, a cura di J.P. Migne. PL = Patrologia Latina, a cura di J.P. Migne. PO = Presbyterorum Ordinis, Decreto sul ministero e la vita dei sacerdoti, del Conc. Vatic. II. UR = Unitatis redintegratio. Decreto sull'ecumenismo, del Conc. Vatic. II.

I. PRECEDENTI STORICI

Certamente l'ultima Cena non fu una vera «concelebrazione», perché in essa soltanto Gesù «consacrò» pane e vino; mentre gli Apostoli si limitarono a ricevere la Comunione, come in seguito i fedeli l'hanno sempre ricevuta dal sacerdote celebrante. L'attuale «concelebrazione» non ha nulla a che vedere col rito che si svolse nel cenacolo, dove, con l'istituzione del sacerdozio, ebbe inizio l'amministrazione dei sacramenti da parte della gerarchia. Nell'età apostolica, il vescovo, assistito dai presbiteri e dai diaconi, era l'unico celebrante, essendo il solo a pronunziare le parole della «consacrazione». L'assistenza di presbiteri e diaconi aveva il significato di una «concelebrazione» soltanto cerimoniale, liturgica, non sacramentale. Così autorizzano a pensare Clemente Romano 1, Ignazio di Antiochia [1], Giustino [2], Ippolito [3]. Per sottolineare la struttura gerarchica della Chiesa, a Roma i sacerdoti (poi «cardinali») delle differenti parrocchie della città ricevevano una porzione o « fermentum» dell'Eucaristia dal Papa, come dall'unico sacerdote che soleva consacrare. È quanto risulta anche da una lettera di Innocenzo I a Decenzio, vescovo di Gubbio [4]. Secondo quanto narra S. Ireneo - stando allo storico Eusebio — papa S. Aniceto, nel ricevere a Roma S. Policarpo di Smirne, cedette al santo Martire l'onore di celebrare l'Eucaristia. [5] Neppure S. Gregorio Magno conobbe la concelebrazione [6], di cui non si parla affatto negli ultimi anni del VII secolo, al tempo del III Concilio di Costantinopoli (a. 680), specialmente a partire dalla testimonianza di Fortunio, vescovo di Cartagine. [7] Sempre a Roma, la Messa stazionale, qual è descritta dall'Ordo romanus I e si celebrava nella prima metà del secolo VIII, ricorda il Papa quale unico consacrante, sia pure assistito solennemente da vescovi, presbiteri, diaconi, suddiaconi, accoliti, cantori e fedeli d'ogni ceto, professione o funzione ecclesiastica [8]. Quanto poi alle altre Chiese d'Occidente e d'Oriente, «mentre tra i numerosissimi documenti (...) non se ne trova uno che dimostri con qualche certezza l'uso di una concelebrazione sacrificale, altri l'escludono chiaramente: nessun documento

riguardante la concelebrazione suddetta nelle Chiese dell'Africa, delle Gallie, dell'Italia, della Spagna o di un'altra regione di rito occidentale, né per il tempo nel quale queste Chiese si trovavano ancora in possesso dei loro riti nazionali, né per il tempo successivo, quando ad essi si era sostituito interamente o in parte il rito romano; totale silenzio sull'argomento anche presso tanti scrittori ecclesiastici, dommatici, canonisti, liturgisti, i quali dimostrano di non conoscere altre forme di concelebrazione eucaristica sacrificale fuori di quelle a carattere personale...» [9]. Essa è apertamente esclusa dai principali teologi della Chiesa orientale, stando ai loro libri liturgici e rispettivi commenti. Si citano Teodoro d'Amida, S. Germano di Costantinopoli, S. Massimo il Confessore, Simeone di Tessalonica [10], lo Pseudo-Dionigi [11], Narsete di Nisibi [12]. Secondo costoro, il vescovo celebra ad imitazione di Cristo visibilmente rappresentato; e, al centro dell'altare, egli è circondato dai presbiteri più degni che assistono alla celebrazione. Questo il nucleo della tradizione bizantina fino al secolo XV. * * * La concelebrazione «sacramentale» appare per la prima volta a Roma verso la fine dell'VIII secolo, quando acquistò un particolare risalto la dignità dei presbiteri, non più soltanto «assistenti, ma anche veri «concelebranti» perché «co-consacranti». Secondo l'Ordo Romanus III, l'onore era riservato ai preticardinali preposti alle principali parrocchie di Roma nelle quattro maggiori solennità dell'anno: Pasqua, Pentecoste, S. Pietro, Natale [13]. Ma nel XII secolo, tra il 1140 e il '43, un canonico di S. Pietro, Benedetto, nel suo Liber politicus, informa che la concelebrazione dei preti-cardinali col Papa aveva luogo soltanto a S. Maria Maggiore alla terza Messa di Natale [14]. Ma, alla fine del medesimo secolo, nel 1192, il card. Cencio Savelli - poi Onorio III – non ne fa più alcun cenno. [15] Soltanto più tardi S. Tommaso parlerà della concelebrazione di più sacerdoti neo-ordinati col vescovo, ma solo come di una consuetudine di alcune chiese di rito latino. [16] In conclusione, la concelebrazione sacramentale è conosciuta soltanto a Roma, dall'epoca carolingia alla metà del secolo XII. Mentre però a Roma la prassi viene meno, altrove in Occidente sopravvive fino al secolo XII nella

consacrazione episcopale e nell'ordinazione dei presbiteri. Essa diventa obbligatoria non prima della pubblicazione del Pontificale Romano sotto Clemente VIII nel 1596, ossia dal periodo del movimento di unificazione liturgica seguito al Concilio di Trento. Il Codice di Diritto Canonico del 1917 proibirà ai sacerdoti di concelebrare, eccetto che nelle Messe di ordinazione dei sacerdoti e dei vescovi (c. 803). Gli storici spiegano il declino della concelebrazione in Occidente riflettendo – quanto a Roma - che il Papa, a causa di guerre e subbugli, spesso e a lungo era costretto a restare fuori sede; per cui i cardinali non potevano concelebrare con lui regolarmente. L'esempio di Roma sembra che abbia contribuito alla soppressione della consuetudine. Alla quale però si aggiunse l'opposizione di una nutrita corrente di teologi, tra cui S. Alberto Magno, secondo il quale più sacerdoti non possono consacrare la medesima materia: se soltanto uno di loro basta, gli altri sono superflui, per cui la loro consacrazione è inutile [17]. Ma l'Aquinate la pensava diversamente, perché tutti i sacerdoti non sono che «strumenti» dell'unico Sacerdote-principale ch'è Cristo, a cui si deve il prodigio della transustanziazione... È indifferente perciò che i concelebranti siano molti, dovendo tutti agire « in persona Christi» [18]. Un'altra ragione, che spiega la scomparsa della prassi in parola verso la fine del Medioevo, può essere stata la tendenza sempre più sentita a moltiplicare le Messe. Al riguardo, giova sapere che Teodulo [Teodolfo], vescovo di Orléans, provvide a soddisfare il desiderio dei sacerdoti e conciliarlo con la concelebrazione, autorizzandoli a celebrare in privato e di buon mattino, con l'obbligo di assistere poi alla Messa del vescovo con tutti i fedeli: appunto ad una «concelebrazione» solo cerimoniale, non «sacrificale»; e ciò secondo il principio tradizionale dell'unica Messa festiva celebrata intorno al vescovo, come sembra che si costumasse ad Orléans nel secolo IX [19]. Infine, alla moltiplicazione delle Messe certamente contribuì una più acuta coscienza della dignità sacerdotale, sia pure associata ad una certa riduzione del senso della «comunità», favorita dall'individualismo che caratterizza la cultura rinascimentale. Quanto alla Chiesa orientale, gli storici informano che la Messa concelebrata ma non sacramentale - è rimasta in vigore secondo il rito caldeo (cattolico),

copto (dissidente), etiopico, siriano, armeno, greco-ortodosso; ed è in senso a questa tradizione bizantina che si hanno i difensori più ferventi del principio e della pratica dell'unico celebrante. Al contrario, hanno subìto l'influenza della Chiesa latina nel secolo XVII quella russa ortodossa, la greca-cattolica, la melkita, la maronita, la copta. la concelebrazione è prevista nei giorni festivi per rendere più solenne la liturgia. Riepilogando: - alle origini, la concelebrazione è soltanto «cerimoniale»; e tale è rimasta nella maggior parte dei riti orientali, specialmente bizantini; - la concelebrazione sacramentale fa la sua prima comparsa, con certezza, non prima del secolo VIII; e, fino al secolo XII, fu un privilegio concesso dal Papa ai preti-cardinali; - essa, eccettuato questo caso, si propagò in Occidente in modo prima sporadico e poi generale, alla fine del secolo XVI per le Messe delle ordinazioni, specialmente presbiteriali; - in tutti gli altri casi verificatisi in Occidente – fatta eccezione per la chiesa di Lione nel giovedì santo - la concelebrazione, verosimilmente, è soltanto «rituale», riguardando le Messe pontificali celebrate dal vescovo assistito dal clero; - nelle Chiese orientali, dove è in vigore, invece di essere espressione di fedeltà alla tradizione delle origini, la concelebrazione sacramentale risulta come una novità dovuta all'influsso della liturgia latina; - ovunque, tuttavia, in Oriente e in Occidente, la concelebrazione è sempre limitata ai giorni festivi e non tende principalmente a rendere più solenne la liturgia eucaristica [20]. Certamente GIOVANNI VIII (872-882) non parlò di vera «concelebrazione» nella lettera scritta a Fozio di Costantinopoli (Ep. 248, PL 126, 871a).

[1] IGNAZIO DI ANT., Ep. ad Philad., 4, PG 5, 700: « Studeatis igitur una eucharistia uti: una enim est caro Domini nostri Iesu Christi, et unus calix in unitatem sanguinis ipsius, unum altare, sicut unus episcopus cum presbyterio et diaconis, conservis meis; ut quos faciatis, secundum Deum faciatis».

[2] Giustino parla sempre di colui « qui fratribus praeest...»; «ille (...) laudem et gloriam universorum Parenti per nomen Filii et Spiritus Sancti emituit, et gratiarum actionem pro his ab illo acceptis prolixe exsequitur. Postquam preces et gratiarum actionem absolvit..... «Postquam vero is qui praeest gratiarum actionem absolvit...» (Apol. I, 65, PG 6, 428).

[3] IPPOLITO, cf. Didascaliae apostolorum fragmenta Veronensia latina, ed. E. HALER, PP. 101-12.

[4] Cf. INNOCENZO I, PL 20, 556s: I presbiteri della chiesa di Roma ricevevano una porzione del pane consacrato dal Papa, unico celebrante; quelli invece delle chiese fuori della città potevano celebrare individualmente, per cui non avevano bisogno di ricevere la Comunione da nessuno: «De fermento vero, quod die dominica per titulos mittuntur, superflue nos consulere voluisti, cum omnes ecclesiae nostrae intra civitatem sint constitutae. Quarum presbyteri, quia die ipsa propter plebem sibi creditam nobiscum convenire non possunt, idcirco fermentum a nobis confectum per acolytos accipiunt, ut se a nostra communione, maxime illa die, non iudicent separatos. Quod per paroecias fieri debere non puto, quia nec longe portanda sunt sacramenta (nec nos per coemeteria diversa constitutis presbyteris de stinamus) et presbyteri eorum conficiendorum ius habeant atque licentiam (iv., c. 5).

[5] Cf. EUSEBIO, Hist. eccl., V. 24, PG 20, 507: «Anicetus in Ecclesia consecrandi munus Polycarpo honoris causa concessit; tandemque cum pace a se invicem discesserunt».

[6] S. GREGORIO M., Ep. 50, 8, 34, PL 77,892: «Missarum solemnia mecum celebrare feci». Lo scrive alludendo ai legati di Costantinopoli, coi quali non si stenta a capire che aveva celebrato come unico consacrante.

[7] Cf. P. JOSEPH DE S. MARIE, L'Eucharistie salut du monde, éd. du Cèdre, Paris, 1981, p. 156.

[8] Cf. Ordines Romani dell’Alto Medioevo, ed. M. ANDRIEU, t. II, pp. 67108.

[9] M. HANSSENS, La concelebrazione sacrificale della Messa, in Eucaristia a cura di mons. A. PIOLANTI, Desclée, Roma, 1957, p. 817.

[10] SIMEONE DI Tess., De sacra liturgia, c. 99, PG 155, 295: «Primus pontifex, propinquans et attingens et sacrificans mystica, ipsumque qui pro nobis immolatus est quo exprimens; hi vero, per ipsum mediatorem participantes et fruentes. Unde in sanctuario episcopos et sacerdotes, etsi cum ipso ministrent, non tamen appropinquant sicut primus.»

[11] Pseudo-DIONIGI, De ecclesiastica hierarchia, c. 3, PG 3, 423-446.

[12] Cf. ed. A. MINGANA, t. I, pp. 270-298.

[13] Cf. P. JOSEPH D.S.M., op. cit., p. 158, dove si cita il testo, nel quale leggiamo: «… Simul cum illo canonem dicunt (…), et simul consecrant

corpus et sanguinem Domini…»

[14] Cf. Liber censuum della Chiesa romana, ed. L. FABRE - L. DUCHESNE, t. II, p. 146.

[15] CF. PL 78, 1063-1102. DURANDO DI S. PORCIANO, vissuto molti anni nella corte pontificia di Avignone, attesta di non aver visto mai il Papa celebrare la Messa con la concelebrazione sacrificale di preti-cardinali (Comm. in IV Sent., d. 13, 9, 3, n. 14): «Si fiebat (la concelebrazione) tempore suo [Innocenzo III], nunc tamen non fit, quia visum est periculum posse facile contingere in tali celebratione, imo vix fieret quin periculum contingeret, et ideo illa consuetudo abolita est, sicut nobis constat, qui in Curia Romana longo tempore stetimus et adhuc ibidem sumus, et missis summorum Pontificum interfuimus, in quibus illa consuetudo nunquam fuit observata, et si observaretur, non esset necessarium credere quod bene fieret, quia secundum Hieronymum, non quod fit Romae, sed quod fieri debet, attendendum est... ».

[16] S. Tommaso: Sent. IV, d. 13, q. 1, a. 2. qla 2; Summa th., III, 9. 82, a. 2, c.: «Et ideo, secundum consuetudinem quarundam ecclesiarum... ».

[17] Cf. Periodica de re morali, 21 (1932), pp. 202-5; 17 (1928), p. 125. L'obiezione era questa: «... Quod potest fieri per unum, superflue fit per multos..». «Cum igitur unus sufficiat ad consecrandum, videtur quod plures non possunt unam hostiam consecrare» (S. TOMMASO, Summa th., III, q. 82. a. 2, 2 praet.).

[18] «Quia sacerdos non consecrat nisi in persona Christi, multi autem sunt unum in Christo, ideo non refert utrum per unum vel per multos hoc sacramentum consecraretur... » (Summa th., III, q. 82, a. 2, 2um).

[19] TEODULO D'ORLÉANS, Capitula ad presbyteros paroeciae suae, n. 46, PL 105, 208: «Ut Missae, quae per dies dominicos peculiares a sacerdotibus fiunt, non ita in publico fiant, ut per eas populus a publicis missarum solemnibus, quae hora tertia canonice fiunt, abstrahatur... ». Admonendus est populus ut ante publicum peractum officium ad cibum non accedat, et omnes ad sanctam matrem ecclesiam missarum solemnia et praedicationem audituri convenient, et sacerdotes per oratoria nequaquam missas nisi tam caute ante secundam horam celebrent ut populus a publicis solemnitatibus non abstrahatur».

[20] «Questo si fa – nota la IG . non per accrescere la solennità esteriore del rito, ma per esprimete con maggior chiarezza il mistero della Chiesa, sacramento di unità» ( iv. 59).

II. MAGISTERO DEL VATICANO II

Nelle fasi antipreparatoria (1959-'60) e preparatoria del Concilio (1960-'62) si trattò anche della «concelebrazione». Nella prima, furono una quarantina le richieste; le quali, comprese le due Facoltà teologiche dei Salesiani di Roma e di Treviri in Germania, raggiunsero circa l'1,9% sui 2.109 voti della consultazione. Tutto sommato, risultò che un terzo riguardava la concelebrazione solo a titolo occasionale. Gli altri voti, che volevano una concelebrazione più frequente ed anzi quotidiana, provenivano da alcuni centri nettamente identificabili: i Benedettini francesi e belgi, i gruppi liturgici della Germania e dell'Austria, specialmente dell'Università di Treviri e il vescovo di Linz. Notevole l'influsso di Solesmes. Secondo la tendenza dominante nel movimento liturgico del tempo, queste richieste davano particolare importanza all'aspetto comunitario della liturgia eucaristica; e, pur senza negarlo, lasciavano evidentemente in ombra quello sacrificale. La reazione della corrente contraria fu vivace, specialmente da parte di Domenicani e Gesuiti. Quando poi si procedette alla fase preparatoria, il testo che ne risultò rifletteva i contrasti verificatisi, sollevando critiche molto serie, mosse da più punti di vista, soprattutto da quello storico e dogmatico: si è osservato che, nelle spiegazioni date, non si accennava affatto alla Messa come sacrificio, né quindi alla sua finalità di adorazione, riparazione, propiziazione... * * * La costituzione Sacrosanctum Concilium fu approvata dal Vaticano II il 4 dicembre 1963. Il n. 57 riguarda la concelebrazione: «§ 1 La concelebrazione, che bene ( opportune) manifesta l'unità del sacerdozio, è rimasta in uso fino ad oggi nella Chiesa, tanto in Oriente che in Occidente. Perciò al Concilio è sembrato opportuno estendere la facoltà della concelebrazione ai casi seguenti:

1° a) al Giovedì santo, sia nella Messa crismale che nella Messa vespertina; b) alle Messe nei Concili, nelle riunioni di Vescovi e nei Sinodi; c) alla Messa della benedizione dell'Abate. 2º Inoltre, con il permesso dell'Ordinario, a cui spetta giudicare sulla opportunità della concelebrazione: a) alla Messa conventuale e alla Messa principale nelle diverse chiese, quando l'utilità dei fedeli non richieda che tutti i sacerdoti presenti celebrino singolarmente; b) alle Messe nelle riunioni di qualsiasi genere di sacerdoti tanto secolari che religiosi. § 2 - 1º spetta al Vescovo regolare la disciplina della concelebrazione nella propria diocesi. 2º Resti sempre però ad ogni sacerdote la facoltà di celebrare individualmente, non però nel medesimo tempo e nella medesima chiesa in cui si fa la concelebrazione, e neppure il Giovedì santo». La saggezza delle disposizioni del Vaticano II intorno alla concelebrazione non esclude alcuni limiti dovuti all'opera umana, soprattutto considerato il carattere prevalentemente pastorale del Concilio (cf. GIOVANNI XXIII, disc. di apert., 11.10.1962), che non ha inteso definire nulla di nuovo a livello dogmatico e morale, né preteso che le norme pastorali siano ritenute perfette, irreformabili. Positivamente deve giudicarsi l'estensione della facoltà di concelebrare, volta a richiamare più opportunamente l'unità del sacerdozio cristiano, esercitato da ministri dell'unico Mediatore presso il Padre, ossia dell'unico Sacerdote principale offerente... Merita di essere sottolineato l'eloquente richiamo dei vincoli di fraternità tra i concelebranti, derivati dalla partecipazione alla medesima dignità sacerdotale... Quindi l'invito alla reciproca stima, solidarietà e collaborazione tra i membri della Gerarchia nell'attività svolta a servizio dell'unica causa di Dio e delle anime.

Infine, la facoltà di concelebrare soltanto in determinate circostanze e la libertà lasciata a ciascun sacerdote di celebrare individualmente comprovano la prudenza del Concilio, come esamineremo distintamente fra poco. * * * Rappresenta un limite della costituzione SC l’inesattezza storica, che ha fatto supporre che la prassi della concelebrazione risalga alle origini: «… Usque adhuc in usu remansit tam in Oriente quam in Occidente». In modo del tutto esplicito lo conferma A. Bugnini quando nota che la medesima «in modo e forme diverse (…), fin dall’antichità fu ammessa dalla Chiesa». [1] Più serio, anche per le sue conseguenze, il difetto di una sufficiente precisazione dei principi dottrinali e delle norme pratiche della concelebrazione, che ha favorito certi abusi verificatisi nel post-Concilio. Si nota pure che nei documenti conciliari si insiste assai poco sulla novità liturgica: se ne legge appena un’allusione nel decreto sull’ecumenismo (UR 15) e altre due nell’altro sul ministero e la vita dei presbiteri (PO 7,8); mentre non se ne parla affatto in altri contesti, dove il richiamo sarebbe stato particolarmente opportuno. Ad esempio: nei decreti sulle Chiese orientali cattoliche, sull’ufficio pastorale dei vescovi, sul rinnovamento della vita religiosa, sulla formazione sacerdotale, sull’educazione cristiana, sull’apostolato dei laici, sull’attività missionaria della Chiesa. Il Vaticano II ha il merito di aver autorizzato (non comandato) la concelebrazione, estendendola ad alcuni casi a cui prima non si pensava affatto; ma, insieme, anche quello di averla limitata [nel decr. PO 7 usa l’avverbio « aliquando»], contro la pressione di quanti avrebbero voluto generalizzarla nella implicita e fatale soppressione della celebrazione individuale. Celebrazione individuale sempre rispettabilissima, avendo tutto il valore del Sacrificio Eucaristico di cui il Concilio sottolinea continuamente la dignità infinita, l’inesauribile efficacia, in perfetta sintonia con la dottrina di Trento (D-S 1738 ss). E ad essa si riferisce Pio XII quando cita la preghiera liturgica: « Ogni volta che viene offerto questo Sacrificio, si compie l’opera della nostra redenzione» (MD 65). Richiamo confermato esplicitamente da Paolo VI pochi mesi prima della chiusura del Concilio, contro l’insana proposta di generalizzare la concelebrazione.

«Inoltre, bisogna richiamare la conclusione che scaturisce da questa dottrina circa l’indole pubblica di ogni Messa - const. De sacra Liturgia , 1, n. 27 AAS 56, 1964, p. 107. – Giacché ogni Messa, anche se privatamente celebrata da un sacerdote, non è tuttavia cosa privata, ma azione di Cristo e della Chiesa, la quale nel sacrificio che offre ha imparato ad offrire se medesima come sacrificio universale, applicando per la salute del mondo intero l’unica e infinita virtù redentrice del Sacrificio della Croce. «Poiché ogni Messa celebrata viene offerta non solo per la salvezza di alcuni, ma per la salvezza di tutto il mondo. Ne consegue che se è sommamente conveniente che alla celebrazione della Messa partecipi attivamente gran numero di fedeli, tuttavia non è da riprovarsi, anzi da approvarsi, la Messa celebrata privatamente, secondo le prescrizioni e le tradizioni della santa Chiesa, da un sacerdote col solo ministro inserviente, perché da tale Messa deriva grande abbondanza di particolari grazie a vantaggio sia dello stesso sacerdote, sia del popolo fedele e di tutta la Chiesa, anzi di tutto il mondo, grazie che non si possono ottenere in uguale misura mediante la sola santa Comunione...» (MF 15). La raccomandazione fatta «con paterna insistenza» da Paolo VI di celebrare «ogni giorno» (iv., 16), è stata poi confermata dal Concilio (PO 13), e vigorosamente ripetuta dal nuovo Codice di Diritto Canonico (c. 904) in piena sintonia col contesto teologico del dogma eucaristico. Dunque, nella Chiesa del Concilio la novità della «concelebrazione» non soppianta la tradizionale «messa privata» che, al contrario, ad ogni sacerdote si raccomanda di celebrare ogni giorno, moltiplicando così il numero delle Messe. Con le disposizioni del Concilio non contrasta affatto il CIC, dove si conferma che dei sacerdoti possono concelebrare l'Eucaristia, rimanendo tuttavia intatta per i singoli la libertà di celebrarla in modo individuale» (902). Ciò è ripetuto nella istruzione Eucharisticum mysterium, della S. Congregazione dei Riti (25.5.1967), dove si aggiunge: « giova» che i sacerdoti concelebrino per le ragioni sopra spiegate. Inoltre: i superiori competenti (...) facilitino, anzi, favoriscano la concelebrazione...» (iv, 47). Tutto e ribadito nella Institutio generalis del Messale Romano: è bene...» (59); «è inoltre raccomandata... » (153, 157); «conviene pertanto che, per quanto sia possibile, tutti i sacerdoti non tenuti a celebrare individualmente per l'utilità pastorale dei fedeli, concelebrino... » (76).

Dunque, si tratta sempre di «possibilità», di «convenienza», mai di un «dovere»; insomma, la libertà lasciata al sacerdote di celebrare individualmente salva tutto, conciliandosi col dogma e con la chiara e ferma posizione di Pio XII (MD 7879) e di Paolo VI (MF 15-16) contro quanti biasimano la celebrazione privata, ovunque e sempre per se stessa validissima, indipendentemente dall'assistenza del popolo, la quale non aggiunge nulla all'efficacia espiatrice e redentrice della Messa individuale... È certo infatti che i sacerdoti giovano al popolo proprio moltiplicando, e non certo riducendo il numero delle Messe: è «anzi DA APPROVARSI LA MESSA CELEBRATA PRIVATAMENTE (...) DA UN SACERDOTE (...), perche – è opportuno ripetere la citazione del testo – da tale Messa deriva grande abbondanza di particolari grazie a vantaggio sia dello stesso sacerdote, SIA DEL POPOLO FEDELE E DI TUTTA LA CHIESA, ANZI DI TUTTO IL MONDO, grazie che non si possono ottenere in uguale misura mediante la sola santa Comunione...» (MF 15). Dunque, i benefici della «celebrazione», che moltiplica il numero delle Messe, superano quelli della «concelebrazione» che, pur avendo un suo significato, riducono quel numero. Quali rapporti devono correre tra l'una e l'altra? Ossia quali criteri possono regolare entrambe senza esclusioni, ed anzi col maggiore possibile beneficio del Corpo Mistico? Rimetto tutto al giudizio della Gerarchia, indubbiamente preoccupata di salvare innanzi tutto la verità del dogma eucaristico indissociabile da quello del Sacrificio della croce, suprema origine di tutte le grazie. È alla luce dei dati riferiti che intendono iniziare la ricerca teologica.

[1] A. Bugnini, La riforma liturgica 1948-1975, Edizioni liturgiche, Roma, 1983, p. 138

III. RIFLESSIONE TEOLOGICA

§1. Come molte Messe sono l'unico Sacrificio di Cristo, cosi la concelebrazione di molti sacerdoti è una sola Messa a) Parlo di «concelebrazione» riferendomi ovviamente alla «celebrazione del Sacrificio Eucaristico, possibile esclusivamente ai membri della Gerarchia in virtù dell'Ordine presbiterale. Il semplice fedele può dirsi che «concelebra» solo perché partecipa al Sacrificio di Cristo mediante il ministero del sacerdote che lo «impersona» in quanto rappresenta il «Capo»; mentre il laico non ha altra dignità e non svolge altra funzione se non quella di «membro del Corpo Mistico, nel quale vive e si eleva a Dio per il Cristo. Ciò che obbliga a distinguere essenzialmente il «sacerdozio gerarchico» o ministeriale da quello «cultuale», comune a tutti i battezzati. b) Ciò precisato, ricordo brevemente che la celebrazione della Messa è il supremo atto di culto col quale la Chiesa nei e per i suoi ministri - ripetendo l'ultima Cena - proclama l'Offerta cruenta della Croce evidenziandola attraverso segni sensibili di morte. Appunto per questo nella Messa abbiamo il « sacramento del Sacrificio»; nozione questa teologicamente comprensibile, se in essa si distingue il segno dal mistero che esso contiene ed esprime. «Segno» costituito dal pane e dal vino; elementi che, per le distinte formule della consacrazione, si trasformano interamente nella sostanza del Corpo e del Sangue di Cristo, significando sensibilmente la violenta effusione del Sangue dal Corpo trafitto dall'Agnello, Vittima dei peccati del mondo! [1] c) La distinzione del «mistero» dal suo «segno» richiama rispettivamente l'opera del Cristo e quella della Chiesa. La prima obbliga ad astrarre da tutte le condizioni empiriche dell'immolazione della croce (motivo di compassione dei suoi testimoni oculari, materia di cronaca), e raggiungere «l'in-sé» del Sacrificio, intuito nella sua dignità ed efficacia infinita, unica ed eterna, derivata all'umanità sofferente del Salvatore

dalla Persona del Verbo. Non consiste in altro il «mistero» contenuto e significato dalla liturgia eucaristica. Questa, appunto, l'opera della Chiesa gerarchica, a sua volta «sacramento» del Cristo. Opera esercitata dai ministri del culto, autorizzati a ripetere il rito dell'ultima Cena, ossia a «consacrare» nel modo anzidetto. Ministri che - come i fedeli - si moltiplicano nello spazio e si succedono nel tempo lungo l'intero arco della storia; per cui l'opera da essi compiuta si ripete indefinitamente ogni volta che celebrano la liturgia eucaristica ponendo il segno da cui traspare il mistero. «Segno» che, moltiplicandosi numericamente nello spazio e nel tempo, contiene ed esprime sempre l'identico Mistero che trascende tutte le condizioni esistenziali della vita umana. Dunque, le molte Messe non moltiplicano il Sacrificio del Calvario, che perciò resta il medesimo in tutte le innumerevoli celebrate sulla terra, perché Sacrificio unico, perfetto, efficacissimo, irripetibile, per cui la moltiplicazione numerica riguarda soltanto il «segno», non la «realtà»; la «forma liturgica», non il «mistero contenuto»; il « sacramento», non il «Sacrificio» [2]. * * * Siamo al problema. La Messa, se a livello sacramentale è numericamente moltiplicabile, deriva la propria unità numerica dalla celebrazione del rito, oppure dalla persona del celebrante?... Vale a dire: moltiplicandosi i celebranti, si moltiplicano le celebrazioni, sì da risultarne altrettante Messe; o al contrario, la concelebrazione si riferisce ad una sola Messa? La pluralità delle Messe, derivata dalla concelebrazione di molti sacerdoti, ad alcuni è sembrata pienamente sostenibile. Hanno osservato che ciascun sacerdote celebrante è causa efficiente (strumentale) adeguata dell'immolazione sacramentale; per cui ne è pienamente responsabile, come se all'altare fosse solo e non ci fossero altri a consacrare con lui. [3] Il discorso non persuade. Il concelebrante non è solo, e non lo è semplicemente perché intende non già «celebrare», bensì con-celebrare. Ciò vuol dire che ad una Messa «propria» (= individuale) preferisce una Messa «comune»: quella possibile per il fatto stesso che tra la sua azione e quella dei confratelli si realizza un rapporto di unità a livello liturgico. Infatti, è:

- l'unità dell'altare; - l'unità della materia o degli elementi fisici del rito (pane e vino, una o più pissidi colme di ostie, o uno o più calici colmi di vino, secondo le esigenze concrete della celebrazione), il tutto ordinato e raccolto sulla mensa; - l'unità della «consacrazione in virtù della formula pronunziata contemporaneamente da tutti; - l'unità dell'intenzione, da parte di tutti, di riferirsi alla medesima materia offerta per compiere il medesimo rito ed esprimere realmente il vincolo di fraternità che li collega tra loro nella dipendenza di ciascuno dalla Fonte del sacerdozio [4]. Ovviamente, tale unità è costituita dal rapporto di coordinazione a livello sacramentale tra più sacerdoti, ciascuno dei quali celebra come ministrostrumento dell'unico vero Celebrante, qual è appunto la Persona fisica del Verbo incarnato: «... multi autem sunt unum in Christo...» (iv., 2um). Dunque, nella concelebrazione si ha l'unità che sorge dalla coordinazioneliturgica-strumentale dei vari presbiteri, uniti tra loro soltanto in quanto ciascuno dei medesimi è subordinato al Cristo; per cui la Messa celebrata individualmente è tutta dell'unico sacerdote celebrante, essendo egli solo responsabile di tutta la causalità strumentale svolta come ministro del Cristo Totale. Il seguente schema può chiarire meglio quanto vado spiegando SACERDOTE E VITTIMA PRINCIPALE SACERDOTI CONCELEBRANTI UNITI TRA LORO SOLTANTO PERCHÉ CIASCUNO E UNITO CON CRISTO

Non può obiettarsi, d'altra parte, che a ciascun sacerdote concelebrante si concede di accettare l'offerta dei fedeli, e ciò perché: la Messa concelebrata, pur essendo una, può soddisfare infinite intenzioni..., mentre i fedeli sono sempre obbligati a provvedere alle spese del culto e alle personali necessità del Clero. In conclusione, i dubbi sollevati in un primo tempo furono presto risolti quando, il 7 marzo 1965, il decreto Ecclesiae semper dichiarò che una è la Messa concelebrata da più sacerdoti; i quali « unicum sacrificium unico actu sacramentali conficiunt et offerunt» (cf. AAS 57, 1965, p. 411). Alcuni anni dopo, il decreto « Declaratio de concelebratione» (7 ag. 1972) ribadi la dottrina dell'unicità dell'atto liturgico che caratterizza la concelebrazione: « Praecipua habetur manifestatio Ecclesiae in unitate sacrificii et sacerdotii in unica gratiarum actione circa unum altare». Riepilogando: è contraddittorio programmare una concelebrazione nella quale ciascun sacerdote avesse l'intenzione di celebrare una «sua Messa». La concelebrazione, nel caso, sarebbe un rito del tutto inutile, perché privo del significato che le si vuole attribuire come manifestazione dell'unicità del «sacerdozio» dei vari concelebranti. Accidentale e trascurabilissima – nell'ipotesi – sarebbe la differenza tra una «concelebrazione» di cento sacerdoti e la «celebrazione» dei medesimi che, in altrettanti altari contigui, offrissero il Sacrificio eucaristico senza alcun rapporto tra loro, tranne quello della contemporaneità delle rispettive Messe. La ricerca che resta da compiere consentirà di capire le disposizioni del Concilio e degli altri documenti che ne interpretano il senso. § 2 - La prassi di una concelebrazione illimitata e incontrollata porta alla noncuranza ed anzi al disprezzo della Messa celebrata da un solo sacerdote Essa può favorire la tendenza eretica ad attribuire alla Messa soltanto la dimensione orizzontale del «convito» e negarle quella verticale del «sacrificio». Tendenza dovuta a quella «svolta antropologica» carica delle implicazioni più gravi dal punto di vista dogmatico. La concelebrazione infatti più facilmente espone al pericolo di far dimenticare la dipendenza dei concelebranti dal Cristo Sommo Sacerdote e rilevare soltanto la parità di tutti fra loro... Ovviamente si allude a quell'arbitraria generalizzazione della prassi concelebrativa, del tutto estranea ed anzi contraria alle intenzioni del Concilio.

Al quale infatti s’ispira quanto la Institutio generalis del Messale Romano dice sull’«importanza e dignità della celebrazione eucaristica». «La celebrazione della Messa, in quanto azione di Cristo e del popolo di Dio gerarchicamente ordinato, costituisce il centro di tutta la vita cristiana per la chiesa universale, per quella locale e per i singoli fedeli (cf. Sacr. Conc., 41; Lumen Gent., 11; Presbyt. Ord., 2, 5, 6, Christus Dom., 30; Unit. redint., 15; S. Congr. Rit., istr. Eucharist. Mysterium, 3, 6). Nella Messa infatti si ha il culmine sia dell'azione con cui Dio santifica il mondo in Cristo, sia del culto che gli uomini rendono al Padre, adorandolo per mezzo di Cristo Figlio di Dio (cf. Sacr. Conc., 10). In essa inoltre la Chiesa commemora, nel corso dell'anno, i misteri della Redenzione, in modo da renderli in certo modo presenti (iv., 102). Tutte le altre azioni sacre e ogni attività della vita cristiana sono in stretta relazione con la Messa, da essa derivano e ad essa sono ordinate (cf. Presbyt. Ord., 5; Sacr. Conc., 10)». Ora, mentre la Institutio esalta la dignità della Messa al di sopra di tutti i riti sacri, l'attuale Codice di diritto canonico, voluto dal medesimo Concilio Vaticano II, trattando dell' offerta data dai fedeli e accettata dal sacerdote, insiste severamente sul numero delle Messe quali celebrazioni delle medesime compiute in circostanze spazio-temporali irriducibilmente distinte (cf. iv., cc. 945-958). Segno evidente che per la Chiesa – secondo una tradizione teologica e liturgica assolutamente unanime - celebrare una Messa non equivale a celebrarne dieci, data la differente somma dei vantaggi che ne derivano. Da qui la necessità della ripetizione numerica: successiva, da parte del medesimo sacerdote; o contemporanea, da parte di più sacerdoti. Ora, la concelebrazione, costituendo una sola Messa, se diventa un fatto quotidiano, ordinario, sistematico, non può non provocare una perdita enorme dei benefici spirituali derivanti dal Sacrificio Eucaristico, come spiegherò ancora. § 3 - La Messa, quale sacramento del Sacrificio della Croce, richiama in modo più eloquente il Cristo, unico vero Offerente principale, se celebrata da un solo sacerdote che se concelebrata da molti Il rilievo non ha bisogno di commenti, se si riflette che il sacerdote è immagine del Cristo, nella persona e per la virtù del quale pronuncia le parole della consacrazione [5]. Non altra la ragione per la quale la Chiesa primitiva fino al Medioevo, e la maggioranza dei riti orientali specialmente dei Greci ortodossi — fino ad oggi, non hanno conosciuto ed anzi hanno sempre respinto la concelebrazione.

Sotto questo riguardo, è necessario richiamare che la differenza tra «celebrazione» e «concelebrazione» consiste nel fatto che nell'una si rivela il rapporto di unità del sacerdote col Cristo, mentre nell'altra è messo in risalto il rapporto di parità tra i vari celebranti, fondato sulla partecipazione di tutti al medesimo sacerdozio di Cristo. Ovviamente, dei due rapporti, il primato spetta al primo, perché fondamentale rispetto al secondo. I sacerdoti infatti non somiglierebbero tra loro, se ciascuno non ritraesse in sé Cristo, come per analogia più individui non sarebbero tra loro «fratelli», se ciascuno non avesse il medesimo «padre». Eccedere nella concelebrazione fa temere che i sacerdoti finiscano con l'attribuire più importanza all'unione tra loro che all'altra, personale, di ciascuno col Cristo. Di fatto, accade che concelebranti e fedeli ritengono «riuscita» la concelebrazione principalmente per la soddisfazione che ad essi procura «lo stare insieme»: l'assemblea diventa quasi fine a se stessa, verificandosi il capovolgimento delle finalità della Messa, che da teocentrica diventa interamente antropocentrica [6].... Non è facile incontrarsi con sacerdoti e fedeli convinti che l'unione tra loro dipende da quella di ciascuno con Dio nel Cristo, esclusivo fondamento di unità tra i membri del Corpo Mistico. § 4 - La concelebrazione, riducendo il numero delle Messe, determina una diminuzione della partecipazione della Chiesa al Sacrificio di Cristo, quale supremo atto di culto Infatti, se il Sacrificio di Cristo è uno e perfetto, indivisibile e immoltiplicabile, la partecipazione al medesimo è necessariamente condizionata alla molteplicità numerica degli individui distribuiti e operanti nello spazio e nel tempo. Ne segue: a) la necessità dell'istituzione della Messa quale «sacramento», cioè «rito sensibile» dell'unico Sacrificio della Croce che si possa sempre ripetere; b) l'efficacia della partecipazione dei credenti all'atto di culto reso al Padre dal Cristo, Vittima di espiazione, è sempre necessariamente parziale perché finita...; c) conseguentemente, sono anche finiti (e quindi possono variare e aumentare) i benefici spirituali e materiali derivanti da quella partecipazione ai singoli fedeli dei diversi luoghi e tempi di questo mondo. La finitezza dei «frutti» della Messa, sulla quale insisto, è illustrata in modo suggestivo dalla preghiera sulle «offerte» per la II domenica «per annum»; «

ogni volta che è celebrata la commemorazione di questo sacrificio, si effettua l'opera della nostra redenzione»? [7] Essa commenta le parole di S. Paolo: « Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché Egli venga» (1Cor 11,26). La vita della Chiesa - e quindi quella delle anime – si svolge nel tempo, successivamente, pur nell'orbita del Mistero intemporale della morte espiatrice e redentrice del Cristo. Dunque, dal generalizzare la concelebrazione senza condizioni né limiti, ossia dalla diminuzione del numero delle Messe, deriva: 1° un notevole raffreddamento del clima spirituale che anima il Corpo Mistico unito al suo Capo in un «sacrificio di lode, di azione di grazie, di propiziazione e di espiazione» (IG proem. 2). Appunto le specifiche ed essenziali finalità del Sacrificio Eucaristico, secondo il Magistero (D-S 1743, 1753, 1866, 2535, 3339, MD 58-65; DC 9) l'unanime consenso dei Padri e le stesse formule della consacrazione: si parla di un “corpo dato», e di un sangue versato « in remissione dei peccati» (Mt 26, 26-8; Mc 14, 22-25; Lc 22, 19-20). Non altre le finalità di ogni celebrazione individuale, ogni volta carica dell'infinita efficacia del più sublime atto di culto. Venti sacerdoti che concelebrano riducono ad una le venti Messe che ciascuno potrebbe celebrare individualmente. Altra cosa è pregare una volta al giorno, e tornare a pregare più volte, come del resto sottende la liturgia delle ore». Inequivocabile il significato del salmo: « Septies in die laudem dixi tibi...» (Sal 118, 164). Essa scandisce il ritmo della preghiera quotidiana nelle comunità monastiche, come della vita liturgica di ogni parrocchia bene organizzata. Ovunque, perciò nella Chiesa ne risulta un impoverimento spirituale che contrasta col dovere-diritto di rendere sempre più intensi e frequenti gli sforzi di elevazione a Dio in unione con la vittima della Croce. «Questa diffusione della concelebrazione è una novità assoluta nella storia della Chiesa, avendo come risultato la diminuzione massiccia degli atti sacrificali eucaristici» [8]. 2° Altra conseguenza negativa di una concelebrazione incontrollata è il grave danno derivante alla vita dei fedeli chiamati ad una santità che è possibile soltanto nella ripetizione degli atti di virtù e particolarmente di quello della «religione» quale culto da prestarsi a Dio per la mediazione del Cristo, che appunto a tal effetto ha istituito il rito eucaristico [9]. Sono incalcolabili i beni dei quali, per la riduzione numerica delle Messe,

restano privi individui, famiglie, istituti religiosi, società assistenziali... Una sola Messa vale immensamente più di tutti gli esercizi di pietà, i pellegrinaggi, i congressi, le processioni, le adunanze, le coreografie immaginabili. È assurdo ed ingiusto privare i fedeli di una «Messa celebrata», per consentire a più sacerdoti una «concelebrazione» la cui solennità non aggiunge nulla al valore essenziale, all'insostituibile grandezza e ai meriti immensi della prima [10]. E non è meno ingiusto privare le anime del Purgatorio dei suffragi che potrebbero godere, se si moltiplicasse il numero delle Messe individualmente celebrate. La loro moltitudine è incalcolabile, e altrettanto grave è il dovere di celebrare e far celebrare delle Messe, sia pure nei limiti consentiti dalla legislazione canonica (c. 905/1) [11]. § 5 - Il primo a restare danneggiato da un'estensione abusiva della concelebrazione è il sacerdote stesso quanto alla sua vita interiore Il fatto stesso di «stare insieme», recitare le medesime formule, compiere gli stessi gesti contemporaneamente rende più difficile (non però impossibile!) la concentrazione interiore di ciascuno, e più facile (non inevitabile!) – per la distrazione – la riduzione dello sforzo di attenzione e intenzione... L'inconveniente può aggravarsi fino a ridurre il senso della «responsabilità» che abitualmente è più avvertito ed acuto nella celebrazione individuale, quando cioè il sacerdote è solo con Dio solo, nel Cristo... Egli allora non si attende neppure inconsciamente che altri in qualche modo compensino un suo possibile difetto, suppliscano ai suoi limiti... All'inconveniente accennato contribuisce persino il fatto di indossare paramenti che differiscono, sia pure per poco, da quelli del celebrante principale - come non si dovrebbe, secondo la rubrica (cf. IG 161) —. Molto più nuoce la distanza da questo, come la diminuita possibilità di vedere, toccare, udire quanto all'altare si svolge... Per l'alto numero dei concelebranti, il singolo può restare circondato e quasi sperduto tra i medesimi, spesso in una posizione scomoda, per cui gli risulta difficile non stancarsi, non distrarsi, non parlare con qualche vicino, come tante volte si verifica ed è stato osservato. Tutto concorre a de-responsabilizzare il sacerdote, specialmente se si abitua a concelebrare, come spesso accade in seno a comunità numerose. Egli arriva a sentirsi meno stimolato a raccogliersi, prepararsi , potendo persino illudersi di esserne dispensato, come se «gli altri» potessero farlo per lui... [12]

Veramente deplorevole il costume vigente in molte comunità monastiche, grandi e piccole; dove, contro la volontà del Concilio ( Sacr. Conc., 57/2) e la prescrizione del Codice di diritto canonico (c. 902), ai sacerdoti suole impedirsi — o render loro piuttosto difficile - di celebrare individualmente. Non si riflette che tale prassi, col tempo, può minacciare seriamente la vita interiore che ciascuno può e deve coltivare e incrementare, specialmente nel più immediato, diretto ed esclusivo rapporto con Dio nel Cristo, quale appunto è possibile nella celebrazione individuale». C'è pericolo di cadere in quel comunitarismo che finisce col vanificare l'autonomia dello spirito e quella gioia di un'intimità con Dio che mai deve essere disturbata... Purtroppo, oggi, molti non pregano se non si sentono materialmente insieme; ciò perché pregare personalmente è sempre pagare di persona, esigendo l'impegno di tutto l'uomo, il sacrificio, la rinuncia alla superficialità della vita, all'esteriorismo, agli assordanti richiami del mondo esterno. Non si può pregare seriamente senza render conto della nostra vita a Dio, senza un confronto tra le nostre interiori disposizioni e la sua volontà, senza sentire il pungolo umiliante delle nostre debolezze e l'invito dello Spirito a salire più in alto nell'amore di Dio. La preghiera personale, unendo col Cristo, per ciò stesso unisce con gli altri. Non può supporsi che la preghiera comunitaria - quale specialmente nella «concelebrazione» si eleva a Dio – abbia un valore per il solo fatto di trovarsi fisicamente riuniti, interpretando in modo materiale e restrittivo l'affermazione del Vangelo: « Dove vi saranno due o tre adunati nel mio nome, io sarò in mezzo a loro». L'accento dev'essere messo sull'inciso: « nel mio nome», cioè nel mio amore, per amore di me. Gesù è presente in mezzo ai cristiani che pregano quando si riuniscono con il cuore pieno di fede, di speranza e di carità, quando sono personalmente immedesimati in Lui e pregano per essere sempre più personalmente immedesimati in Lui. Allora la loro preghiera diventa irresistibile: ottengono sempre ciò che vogliono, una crescita sempre maggiore in Lui... Insomma, il valore della preghiera ecclesiale e comunitaria è direttamente proporzionale alla raggiunta unificazione interiore di sé con sé, derivante dall'unione con il Cristo, come dalla sua sorgente! [13] Se la «concelebrazione», per le finalità intese dalla Chiesa del Concilio, non può essere respinta, è anche certo che, divenuta abituale, ordinaria e quasi unica

forma di celebrazione del sacerdote, non può non essere per lui causa indiretta di grave danno spirituale. § 6 - La concelebrazione generalizzata fa risparmiare del tempo ai concelebranti, li lascia più liberi e disponibili per altre mansioni, esige un solo altare e comporta una notevole diminuzione dei paramenti e arredi sacri; ma, insieme, induce a ridurre facilmente il numero delle Messe con immenso danno dei fedeli Questi infatti, specialmente in una grande città, compongono un pubblico altamente differenziato per età, sesso, condizioni familiari, tipo di lavoro, abitudini, stato di salute, ecc.; per cui possono partecipare alla Messa solo in differenti momenti della giornata. Il Codice di diritto canonico l'ha previsto stabilendo che «la celebrazione e la distribuzione del l'Eucaristia può essere compiuta in qualsiasi giorno e ora... (CIC 931). Lo stesso Concilio autorizza la concelebrazione purché « l'utilità dei fedeli, non richieda che tutti i sacerdoti presenti celebrino singolarmente» (SC 57). Ma purtroppo anche in questo il Vaticano II è stato tradito [14]. «La ricerca della facilità pratica», è stato scritto, «molte volte nella vita dell'umanità ed anche della Chiesa, ha fatto sì che i valori essenziali e i principi fondamentali siano velati o alterati. Questo succede molte volte anche a proposito del santo Sacrificio della Messa. Questa ricerca della facilità nelle comunità, nelle parrocchie e nelle sacrestie si è trasformata molte volte in dottrina sacramentale. Questa diffusione della concelebrazione è una novità assoluta nella storia della Chiesa, avendo come risultato la diminuzione massiccia degli atti sacrificali eucaristici» [15]. Ma la tentazione di dedicarsi meno alla causa di Dio e delle anime, e darsi di più a tutto il resto, va prevalendo... Da tutte le parti si levano angosciose voci di protesta perché i sacerdoti, memori della propria identità, non si lascino travolgere dalla corrente di un «secolarismo» che va sfociando nel più insensato ateismo pratico. C'è da augurarsi che ciò non si verifichi. Ma il problema della concelebrazione resta non risolto in molte diocesi d'Italia, dove moltissimi lamentano le « troppe Messe soppresse», osservando che, per andare incontro ai fedeli, basterebbe evitare le concelebrazioni.

« Se la fede aumenta», si scrive, « diminuiscono le Messe». «Mentre i dati di fatto con il 96 per cento di richieste dell'ora di religione a scuola dimostrano una notevole sensibilità popolare verso i valori della fede cattolica, dall'altra sembra di assistere ad un impoverimento della voglia di darli: si chiudono chiese, si interpretano restrittivamente disposizioni liturgiche (...). In cambio ci alluvionano con dibattiti e conferenze per i quali si trova pur tempo e disponibilità». Non basta: «Per sapere se c'è Messa, ci vuole un medium...». «C'è troppa incertezza sulle Messe domenicali». «È grave il malessere abbastanza diffuso tra i fedeli per la facilità con cui sono sospese consuete Messe festive serali...», «Siamo preoccupati per il ripetersi di atteggiamenti (...) che sembrano volere vuotare d'importanza, nella religiosità dei fedeli, quella che è la base della liturgia cattolica...». «Messe soppresse a Natale! … Poi parlano di poca fede!», «Non si generi in seguito, col riprodursi di tali situazioni – come sempre più spesso sta succedendo - una diseducazione verso l'importanza della celebrazione eucaristica...». A Roma, dove le comunità religiose maschili sono particolarmente numerose, l'inconveniente di concelebrazioni di venti, trenta e più sacerdoti, a cui risponde la soppressione di altrettante Messe individuali, che potrebbero celebrarsi, nelle rispettive chiese e altrove, è vivamente avvertito e biasimato dal popolo. Talvolta si ha l'impressione – purtroppo che sia appunto il popolo a doversi adattare agli orari delle comunità, e non queste alle esigenze del popolo. Il quale sente molto più il bisogno di Messe e di Confessori che di certi raduni, dibattiti, pubblicazioni, corsi di aggiornamento... Ovunque si verifica che alla riduzione delle Messe-Sacramento risponde una moltiplicazione delle Messe nere. § 7 - L'errore di credere che le Messe si moltiplicano secondo il numero dei celebranti ha indotto molti sacerdoti a commettere la grave scorrettezza di soddisfare molte intenzioni di Messe celebrandone soltanto una Ciò accade quando un fedele chiede che si celebrino nel medesimo giorno per es. venti Messe per un certo motivo, e il superiore della chiesa (chiunque egli sia) dispone che a tal fine venti sacerdoti concelebrino. Allora infatti si verifica che non già venti, ma soltanto una è la Messa celebrata, contro la volontà del committente, che resta defraudato, con grave discredito del Clero. Il fedele infatti – dopo la promessa del sacerdote – ha diritto a venti Messe celebrate distintamente, esigendo cioè che per venti volte, all'altare, egli preghi secondo le

sue intenzioni. § 8 - La concelebrazione sistematicamente generalizzata rappresenta una grave involuzione nella storia del culto eucaristico, contro la lettera e lo spirito del Vaticano II Per comprendere tutta la portata dell'affermazione, è necessario fare un passo indietro e ricostruire la storia del culto in questione. Stando agli storici della liturgia, non stupisce che la consapevolezza del valore e della necessità del Sacrificio Eucaristico si sia venuta facendo sempre più viva nel corso dei secoli, come risulta dal bisogno di ripeterne sempre più frequentemente la celebrazione. Vi contribuì il culto dei Martiri, la santificazione di certi giorni festivi, le Messe celebrate a Roma nelle diverse «stazioni», il desiderio di suffragare i defunti, al quale alcuni (senza però dimostrarlo) fanno risalire l'origine delle «messe private». La frequenza della celebrazione eucaristica varia secondo le chiese. In Africa sembra che molto presto si sia conosciuta la Messa quotidiana, come informano S. Cipriano, S. Agostino [16], S. Ambrogio [17]; mentre a Costantinopoli e altrove in generale, nel V secolo, si celebrava ancora soltanto il sabato e la domenica [18]. Alla tradizione dell'unica Messa succedette il costume di celebrarne due, e anche più se necessario, nei casi in cui la chiesa non poteva contenere tutto il popolo, specialmente nei giorni di festa. Al riguardo, Dioscoro, vescovo di Alessandria, si consultò con S. Leone Magno, che l'incoraggiò a seguire la nuova prassi [19]. Questa poi si andò sempre più affermando col propagarsi del monachesimo. Nel secolo VI-VII, infatti, fa la prima comparsa la « Messa privata» celebrata dai religiosi senza l'assistenza dei fedeli; ciò che si verificò soprattutto quando i monaci, divenuti missionari, dovettero ricevere gli ordini sacri. Decisivo al riguardo il pontificato di S. Gregorio Magno. Perciò, aumentando il numero dei monaci-presbiteri, si moltiplicò anche quello delle Messe celebrate nei monasteri, per cui si arrivò a distinguere la « Messa privata» da quella « conventuale». Altre cause, in seguito, contribuirono alla moltiplicazione delle Messe, avvertendosi sempre più vivamente che il Sacrificio Eucaristico è la suprema fonte della grazia, l'unico essenziale mezzo di salvezza. Si istituirono così le

Messe votive, si ebbe la «fondazione» di Messe con Confraternite di sacerdoti; si giunse a celebrare anche più volte al giorno. Gregorio di Tours, in un villaggio presso Soissons, un giorno celebrò tre Messe su tre differenti altari per purgarsi dall'accusa di aver offeso gravemente Tredegonda, moglie di Childeberto I. Papa Leone III celebrava fino a sette e anche nove Messe... Quando poi ciò non accadeva, non era raro il caso che si «binasse» e «trinasse», come talvolta ordinavano vescovi e sinodi particolari... Ora, contro quanto qualcuno ha scritto o vorrebbe insinuare, la ragione profonda di tale prassi non era tanto la «devozione privata», quanto la ferma convinzione dell'intrinseco valore salvifico della Messa e dei benefici derivanti dalla sua celebrazione alle anime e alla Chiesa: la santificazione personale si conciliava perfettamente con la finalità pastorale ed ecclesiale. Non potevano mancare gli abusi; ma la Gerarchia intervenne per correggerli, anche se non sempre con successo. Col passare del tempo tuttavia i risultati positivi premiarono gli sforzi dei più zelanti, finché, nel periodo aureo della Scolastica, si raggiunse l'equilibrio per merito della riflessione teologica condotta sull'essenza e il valore del Sacrificio Eucaristico. Dopo Pietro Lombardo, si distinse soprattutto S. Tommaso. Purtroppo dal secolo XIV-V in poi, con la decadenza della Scolastica, succedette una crescente rarefazione delle Messe, che riflette le tremende crisi subite dalla Chiesa in tutto il periodo rinascimentale. Enorme – anche se lenta e inavvertita – la nefasta influenza della riforma protestante persino nel mondo cattolico a proposito della Messa, ritenuta non soltanto superflua, ma addirittura «abominevole»: essa offende la dignità e nega l'efficacia salvifica del Sacrificio della Croce. Sulla scia delle sette gnostico-manichee e panteistiche del Medioevo, G. Wyclif (1320-1384) aveva già respinto la Messa come non istituita da Cristo, secondo il Vangelo: l'errore era stato condannato il 4 maggio 1415 dal Concilio di Costanza (D-S 1155). Lutero arrivo a supporre che eliminata la Messa, il Papato (e quindi la Chiesa gerarchica sarebbe crollata [20]. All'inizio del Seicento molti preti celebravano solo raramente in quasi tutti i paesi d'Europa. Ma, alla fine del secolo, ci fu una ripresa, favorita dal Concilio di Trento, la quale però restò limitata per l'influenza del giansenismo: soddisfatti i doveri d'ordine pastorale, si giunse a sconsigliare la celebrazione quotidiana, e la medesima sorte toccò alla comunione eucaristica».

Alla fine, attraverso le tempeste dei secoli XVII-XIX la logica della Riforma di Trento – sostenuta dall'opera di grandi Santi e dei rispettivi Ordini religiosi antichi, nuovi e riformati – portò al rinnovamento eucaristico: il quale, tra l'Ottocento e il Novecento, ebbe le sue prime esplosioni nel Congresso eucaristico del 1881 e nei documenti di S. Pio X sulla Comunione dei bambini e la celebrazione frequente ed anzi quotidiana della Messa. A proposito della Messa, la spinta decisiva del grande Concilio contro l'eresia luterana era stata preceduta, fin dall'alto Medioevo, dalla celebrazione delle tre Messe di Natale; e seguita dal privilegio di quelle del 2 novembre concesso nel 1740 da Benedetto XIV alla Spagna e al Portogallo; poi, nel 1897, esteso dal Leone XIII ai paesi dell'America Latina; e infine, da Benedetto XV a tutta la Chiesa nel 1915. Dall'inizio del '900 al Vaticano II la Chiesa non ha cessato di esaltare il valore della Messa individuale e promuoverne la ripetizione più numerosa possibile. La documentazione che al riguardo si potrebbe offrire eccede i limiti di un rapido ragguaglio. Basteranno alcuni accenni. Quando nel 1933 si celebrò il Giubileo della Redenzione, in una lettera del 10 gennaio Pio XI scrisse al vescovo di Lourdes, mons. Gerlier, rallegrandosi che per tre giorni e tre notti sarebbero state celebrate nella Grotta delle Apparizioni delle Messe « continuamente e senza interruzioni». I festeggiamenti centenari non avrebbero potuto avere un coronamento più degno. Il vescovo, a sua volta, commentando il documento pontificio, osserva: «L'ininterrotta celebrazione di queste 140 Messe, che da giovedì 25 aprile alle ore 16 alla domenica 28 aprile alla medesima ora saranno offerte sull'altare della Grotta da vescovi e sacerdoti che rappresentano tutte le nazioni del mondo — serie luminosa nella quale, ogni giorno, alle tre del pomeriggio, una Messa pontificale richiamerà in modo particolare l'ora della morte del Salvatore Gesù sulla croce - (...) Lourdes in un momento solenne diventerà, come non si è mai visto, il centro della preghiera del mondo» [21]. A questo «triduo di Messe» partecipò anche il card. Schuster che ottenne dal Papa l'autorizzazione di celebrare senza interruzione il Sacrificio eucaristico in 72 dei principali santuari mariani della sua diocesi. I vescovi cileni ne seguirono l’esempio celebrando un eguale numero di Messe in un santuario dedicato a Maria presso Santiago.

Nell'enciclica Fidei donum del 21 aprile 1957, Pio XII chiese, tra l'altro, che per le necessità delle missioni si moltiplicassero le Messe: «Ma la forza più eccellente di preghiera non è forse quella che Cristo, Sommo Sacerdote, rivolge Egli stesso al Padre sugli altari su cui rinnova il suo sacrificio redentore? In questi anni, che sono forse decisivi per l'avvenire del cattolicesimo in molti paesi, moltiplichiamo le Messe celebrate secondo l'intenzione delle Missioni (...). Queste prospettive più alte saranno d'altronde meglio comprese se si tien presente allo spirito, secondo l'insegnamento della Nostra Enciclica Mediator Dei, che OGNI MESSA CELEBRATA è essenzialmente un'azione della Chiesa». Il card. Journet, commentando la lettera pontificia, giustamente scriveva: « Se in ogni Messa Cristo compie l'opera della Redenzione, si vede bene la necessità di moltiplicare le Messe in questa epoca cruciale in cui interi continenti come l'Africa si destano alle condizioni della vita moderna e sono poste nell'alternativa di scegliere pro o contro Cristo» [22]. In occasione del 40° anniversario delle apparizioni di Fatima e della consacrazione episcopale di Pio XII, il 13 maggio del '57, nel santuario mariano fu celebrato « un rosario di Messe» (= 150) secondo le intenzioni del Papa. Il medesimo Pontefice, col Motu proprio Norunt profecto del 27 ottobre 1940, aveva richiamato il valore della Messa e raccomandato di celebrare per la pace del mondo; e, dopo la guerra nel ‘52 per il medesimo fine, si continuò a celebrare ogni giorno a Roma, in S. Pietro. In Francia, nel 1953, succedeva che, in occasione di raduni, alcuni sacerdoti omettevano di celebrare la loro Messa per assistere a quella di un confratello e ricevere da lui la Comunione. Ma, un’assemblea di cardinali e vescovi francesi, pur apprezzando la loro buona intenzione di compiere un gesto volto a dimostrare ai fedeli la loro unione nel partecipare alla medesima Messa comunitaria, non mancò di rilevarne gl'inconvenienti, tra cui quello di diminuire la giusta stima del valore delle Messe private. Infatti, era necessario confermare nel popolo la fede nel valore infinito del Sacrificio Eucaristico e piuttosto moltiplicare il numero delle Messe che ridurlo volontariamente. Pratica del tutto riprovevole se fondata sulla falsa idea che l'omissione di una Messa ha poca importanza, e che un gesto collettivo di unità è meglio della celebrazione di più Messe private [23].

* * * In conclusione: riflettendo che il rinnovamento eucaristico inaugurato verso la fine dell'800 e sostenuto poi con crescente zelo a tutti i livelli della Chiesa e soprattutto dalle direttive della S. Sede; tenuto conto della Mediator Dei di Pio XII a cui seguirono il decreto del Concilio sul ministero e la vita dei sacerdoti e la solenne enciclica Mysterium fidei di Paolo VI, che raccomandava a tutti i sacerdoti la celebrazione quotidiana della Messa privata..., bisogna concludere che la sistematica generalizzazione della «Messa concelebrata» con la conseguente macroscopica riduzione delle «Messe private» è contraria al Magistero della Chiesa e rappresenta un intollerabile regresso nel moto di rinascita e promozione della pietà eucaristica, avente la sua massima espressione in ogni Messa, che il nuovo Codice di diritto canonico definisce « culmine e fonte di tutto il culto e della vita cristiana (c. 897). Se il valore di ogni Messa celebrata» non fosse reale, tutte le «concelebrazioni non sarebbero che altrettante insulse e noiose commedie [24].

[1] La divina sapienza ha trovato il modo mirabile di rendere manifesto il Sacrificio del nostro Redentore con segni esteriori che sono simboli e del vino in sangue di Cristo, come si ha realmente presente il suo corpo, così si ha il suo sangue; le specie eucaristiche poi, sotto le quali è presente, simboleggiando la cruenta separazione del corpo e del sangue. Cosi il memoriale della sua morte reale il Calvario si ripete in ogni sacrificio dell’altare, perché per mezzo di simboli distinti si significa e dimostra che Gesù Cristo è in stato di vittima » (Pio XII, Mediator Dei, n. 57, D-S 3848)

[2] «Moltiplicando i segni, non si moltiplica la realtà significata; così, con mille tricolori si indica sempre l’unica identica Italia, come in mille copie della Divina Commedia è contenuto lo stesso poema di Dante, come collocando mille specchi intorno ad un candelabro, la luce, pur rifrangendosi, rimane la stessa. - Sull'altare avviene qualcosa di simile: si moltiplicano le immolazioni mistiche; ma poiché queste hanno un carattere essenzialmente rappresentativo dell'immolazione del Calvario, non moltiplicano la realtà cui si riferiscono: la morte cruenta della croce rimane sempre lo stesso identico avvenimento, che nell'Eucaristia è reso presente,

ma non moltiplicato...» (A. PIOLANTI, Il Sacrificio della Messa, in Eucaristia, Desclée & C., 1957, pp. 356s. - Cf. M. Schmaus, Dogmatica Cattolica, I Sacramenti, Marietti, 1966, p. 350; K. RAHNER e A. HAUSSLING, Le molte Messe e l'unico Sacrificio, Morcelliana, 1971, p. 41; C. MASSABKI, Cristo, incontro di due amori, Elle Di Ci, Torino-Leumann, 1967, pp. 1844-1923; S. MARSILI, Aspetti teologici della preghiera eucaristica romana, in Il Canone, Liturgica, 1968, p. 92).

[3] «Si deve invece affermare che il rito attualizza tante Messe quanti sono i concelebranti, come cioè se essi le dicessero contemporaneamente su tanti altari diversi» (G.C. LANDUCCI, Miti e Realtà, Ed. La Roccia, 1968, p. 354). Le Messe «sono appunto individuate dagli atti efficienti, strumentali consacratori dei Presbiteri, o celebrino su diversi altari o concelebrino sul medesimo... » (iv., p. 355s).

[4] «Omnium intentio debet ferri ad idem instans consecrationis (S. TOMMASO, Summa th. III, q. 82, a.2, c., da Innocenzo III, De sacro altaris Mysterio, lib. IV, c. 25, PL 217, 873).

[5] «Sacerdos gerit imaginem Christi, in cuius persona et virtute verba pronuntiat ad consecrandum…» (Summa th., III q. 83, a, 1 3um – Cf. iv., q. 82, aa. 1, 3).

[6] Cf. P. Joseph d. S.M., op. cit., p. 188.

[7] «Quoties huius hostiae commemoratio celebratur, opus nostrae redemptionis exercetur» ( Oraz. sulle offerte, Domenica II per annum).

[8] La Regola d'oro della dottrina della Chiesa, Fraternità della SS.ma Verg. Maria, Roma, 1985, p. 86.

[9] Cf. Tommaso, Summa th., I-II. q. 52, a. 3; II-II. q. 24, a. 6; De Virtutibus in communi, q. un., a. 9.

[10] Il principio teologico è questo: «In pluribus (...) missis multiplicatur sacrificii oblatio. Ed ideo multiplicatur effectus sacrificii et sacramenti» ( Summa th., III, p. 79, a. 7, 3um).

[11] Può consacrare non solo il vescovo, ma anche il sacerdote, e, tra le ragioni addotte, S. Tommaso ne richiama un'altra: «ut sit frequentior memoria dominicae passionis, et magis subveniatur vivis et mortuis ex maiori frequentia sacramenti» (Sent. IV, d. 13, 9. 1, a. I, sol. II).

[12] Cf. P. JOSEPH D.S.M., op. cit., pp. 76ss. – All'autore un sacerdote ha confidato «l'impression de devenir un prêtre dévalué..... «Il me semble évident, poursuit-il, que la prière personnelle du prêtre subit une rude secousse et que le prêtre qui se trouve à son aise dans cette multitude ne peut guère vivre en profondeur. Pour cela, à chacun son accent, son rythme, sa respiration, son impact», «Il y a aussi une tentation du moindre effort» (iv. p. 76).

[13] Cf. L. Bogliolo, Preghiera e persona, in Nuova Rivista di Ascetica e Mistica, 1977 n. 1 pp. 4-14 a cui ho attinto.

[14] Cf. P. Joseph D.S.M., op. cit., pp. 78s, 195, 221.

[15] La Regola d'oro..., ed. cit., p. 86.

[16] «Sacerdos ipse Christus offerens, ipse et oblatio; cuius rei sacramentum quotidianum esse voluit Ecclesiae sacrificium» (De Civitate Dei, X, 20, PL 41, 298).

[17] «In Christo semel oblata est hostia ad salutem sempiternam potens. Quid ergo nos? Nonne per singulos dies offerimus ad recordationem mortis eius?» ( In ad Hebr. X, PL 17, 47).

[18] Cf. P. JOSEPH D.S.M., op. cit., p. 251.

[19] S. Leone M. Ep. 9,2, PL 54, 626s.

[20] «Triumphata vero Missa, puto nos totum Papam triumphare. Nam super Missam, ceu rupem, nititur totus papatus cum suis monasteriis Episcopalibus, collegiis, altaribus, ministeriis et doctrinis, atque adeo cum ventre suo. Quae omnia ruere necesse est ruente Missa eorum sacrilege abominanda. (LUTERO, Contra Henricum Regem Angle, 1522), Omere Weimar Xb. 220). – Secondo Zwingli, una volta compiuta la Redenzione non resta da far altro che credere nella sua efficacia espiatrice, e perciò proclamarla, lodandone e ringraziandone Dio: «Est ergo sive eucharistia, sive sinaxis, sive caena dominica nihil aliud quam: commemoratio qua ii, qui se Christi morte et sanguine firmiter credunt Patri reconciliatos esse, hanc vitalem mortem annunciant, hoc est: laudant, gratulantur et praedicant. ( De vere et falsa religione commentarius. 1525. Opere, III, 807, 10). Gli anabattisti, come B. Hubmaier, erano pienamente d'accordo. Contro tale errore il Concilio di Trento, puntualmente, ribattè: «Si quis

dixerit Missae sacrificium tantum esse laudis et gratiarum actionis, aut nudam commemorationem sacrificii in cruce peracti, non autem propitiatorium..... anathema sit» (DS 1753), - Le infiltrazioni della teologia protestante possono spiegare - se non erro - come persino autori chiarissimi cume J. LECLERCQ, siano arrivati a non capire più il significato e la necessità della molteplice azione numerica delle Messe individualmente celebrate: «Non si vede... ciò che la Chiesa guadagni dal fatto che aumenti il numero delle Messe ( Le prêtre devant Dieu et devant les hommes, Louvain, 1965. pp. 33ss. cit. da GC LANDUCCI, op. cit., p. 356).

[21] Bulletin religieux de Tarbes et Lourdes, 25.1.1935.

[22] Cit. da p. Joseph D. S.M.., op. cir., p. 258.

[23] Cf. La Documentation catholique, n° 1147, 17.5.1953, col. 586

[24] «…En effet l’union des prêtres d’un même diocese avec leur évêque, ou de ceux d'un même couvent avec leur supérieur prêtre, n'est que la con séquence de l'union de chacun d'entre eux avec le Christe Prêtre lui-même, dont il tient la place dans la messe (...). Or l'action du Christ s'offrant el d'une manière beaucoup plus expressive dans la messe celébrée par un seul se sacrifiant lui-même au moyen de l'action sacramentelle est manifestée prêtre que dans la messe concélébrée, et cela non seulement pour le célébrant lui-même, mais aussi pour les fidèles, qui voient dans cet unique prêtre "l'image du Christ" Prétre...). On retrouve ici la raison théologique fondamentale pour laquelle l'Eglise primitive, jusqu'au VIIIe siècle, et la majo ne connurent pas et refusent toujours la concélébration sacramentelle» (P. rité des rits orientaux, notamment les grecs orthodoxes, jusqu'à aujourd'hui JOSEPH D.S.M., op. cit., p. 187).

RIEPILOGO E CONCLUSIONE

1° Il rito della «concelebrazione», qual è stata concessa dal Vaticano II, rappresenta una novità assoluta rispetto alla tradizione che risale alle origini della Chiesa. 2° La Messa «concelebrata» è una sola Messa, non tante quanti sono i sacerdoti concelebranti. 3° Il Concilio non comanda a nessuno la «concelebrazione», ma semplicemente la concede in determinati casi; per cui nessun sacerdote è tenuto a parteciparvi, contro quanto suole verificarsi in certi ambienti e circostanze, dove la pressione morale esercitata su soggetti timidi e passivi contrasta con la libertà consentita dal Vaticano II, sempre rispettoso dell'autonomia e spontaneità di tutti. 4° La «Messa celebrata», essendo la rinnovazione sacramentale del Sacrificio della Croce, ha l'identica dignità ed efficacia di quella «concelebrata», nella quale il numero dei sacerdoti non aggiunge nulla al valore della prima. 5° La «concelebrazione» aggiunge alla «celebrazione la dimensione orizzontale costituita dal rapporto di eguale partecipazione dei «molti» all'unico sacerdozio di Cristo. Dimensione tuttavia che la «concelebrazione» si limita ad esprimere, perché contenuta anche nella «celebrazione» in quanto l'unico ministro, rappresentando il Cristo, virtualmente rivela tutti i suoi confratelli nel sacerdozio. 6° La celebrazione prevale sulla concelebrazione perché, nell'unico ministro celebrante, essa esprime direttamente il vero Sacerdote principale qual è il Cristo; mentre la concelebrazione, per se stessa, non rivela il Cristo, ma coloro che partecipano del suo sacerdozio, per cui risulta solo come simbolo di fraternità sacerdotale. 7º Orientare la liturgia verso una concelebrazione generalizzata tendente a soppiantare la celebrazione significa favorire l'indirizzo collettivistico implicito nella concezione immanentista, negatrice della realtà e trascendenza dell'Ordine

sacro; e quindi della stessa struttura gerarchica della Chiesa quale Corpo Mistico del Cristo Mediatore, Sacerdote e Vittima. 8° La concelebrazione - anche se opportuna in casi straordinari e pastoralmente efficaci, secondo il magistero del Concilio - per se stessa obbliga a ridurre il numero delle Messe e, quindi, gli atti del supremo culto dovuto a Dio per il Cristo, venendo a privare la Chiesa e i fedeli – vivi e defunti - dei grandi benefici derivati da altrettante Messe individualmente celebrate. 9° La concelebrazione - soprattutto se vi partecipano molti sacerdoti - oltre a ridurre il raccoglimento, l'impegno personale e i relativi frutti spirituali possibili a ciascuno - con l'esteriorità che comporta tende ad accentuare la componente spettacolare del rito fino alla distrazione e alla dissipazione che offendono la maestà del culto. 10° Se dunque, uno è il Sacerdote-Vittima che s'immola, è necessario che normalmente sia uno il ministro che all'altare Lo rappresenti; mentre normale può essere l'assistenza di due o più sacerdoti i quali, invece di « conconsacrare», ricevano da lui la Comunione eucaristica, rinnovando il rito dell' ultima Cena, ripetuto per secoli in tutta la Chiesa d'Oriente e Occidente [1] . Concludo Augurandomi di aver saputo conciliare - coi documenti del Magistero - tutta la verità del dogma eucaristico con le imprescindibili esigenze del culto, la vita del Corpo Mistico, la santificazione del Clero, la pietà dei fedeli, i suffragi dovuti alle anime purganti, la solidarietà della Chiesa con tutti gl'infelici del mondo, per i quali la Messa è stata e resterà sempre l’unico e supremo tesoro.

[1] Cf. N. SARALE, S. TOMMASO D'AQUINO oggi, Ed. Civiltà, Brescia, pp. 131s.

APPENDICE

I IL VALORE DELLA MESSA NEL CONTESTO DELLA VITA DEL CORPO MISTICO

Secondo il Magistero Il mistero della santissima Eucaristia, istituita dal sommo Sacerdote Gesù Cristo e rinnovata in perpetuo per una volontà dai suoi ministri, è come la somma e il centro della religione cristiana...» (Pio XII, MD 53). «La liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia...» (SC 10). «... Dalla liturgia dunque e particolarmente dall'Eucaristia deriva a noi come da sorgente la grazia e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio alla quale tendono come a loro fine tutte le altre attività della Chiesa» ( iv.). «Il nostro Salvatore nell'ultima cena, la notte in cui fu tradito, istituì il Sacrificio eucaristico del suo corpo e del suo sangue, onde perpetuare nei secoli fino al suo ritorno il sacrificio della croce, e per affidare così alla sua diletta sposa, la Chiesa, il memoriale della sua morte e della sua risurrezione: sacramento di amore, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l'anima viene ricolma di grazia e ci è dato il pegno della gloria futura» (iv., 47). I sacerdoti «esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico o sinassi, dove, agendo in persona di Cristo e proclamando il suo mistero, uniscono le preghiere dei fedeli al Sacrificio del loro Capo e nel sacrificio della Messa rendono presente e applicano, fino alla venuta del Signore, l'unico

Sacrificio del Nuovo Testamento, quello cioè di Cristo, il quale una volta per tutte offrì se stesso al Padre quale vittima immacolata... » (LG 28). « Tutti i sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere d'apostolato, sono strettamente uniti alla sacra Eucaristia e ad essa sono ordinati. Infatti nella santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e Pane vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita agli uomini, i quali sono in tal modo invitati e indotti a offrire insieme a Lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create. Per questo l'Eucaristia si presenta come fonte e culmine di tutta l' evangelizzazione (...). L'assemblea Eucaristica è dunque il centro della comunità dei cristiani presieduta dal presbitero...» (PO 5). «Augustissimo sacramento è la santissima Eucaristia, nella quale lo stesso Cristo Signore è presente, viene offerto ed è assunto, e mediante la quale continuamente vive e cresce la Chiesa. Il Sacrificio Eucaristico, memoriale della morte e della risurrezione del Signore, nel quale si perpetua nei secoli il Sacrificio della Croce, è culmine e fonte di tutto il culto e della vita cristiana, mediante il quale è significata e prodotta l'unità del popolo di Dio e si compie l'edificazione del Corpo di Cristo. Gli altri sacramenti infatti e tutte le opere ecclesiastiche di apostolato sono strettamente uniti alla santissima Eucaristia e ad essa sono ordinati» (CIC 897). «La celebrazione della Messa, in quanto azione di Cristo e del popolo di Dio gerarchicamente ordinato, costituisce il centro di tutta la vita cristiana per la Chiesa universale, per quella locale e per i singoli fedeli. Nella Messa infatti si ha il culmine sia dell'azione con cui Dio santifica il mondo in Cristo, sia del culto che gli uomini rendono al Padre, adorandolo per mezzo di Cristo Figlio di Dio. In essa inoltre la Chiesa commemora, nel corso dell'anno, i misteri della Redenzione, in modo da renderli in certo modo presenti. Tutte le altre azioni sacre e ogni attività della vita cristiana sono in stretta relazione con la Messa, da essa derivano e ad essa sono ordinate» (IG 1). II LA MESSA È INDEFINITAMENTE RIPETIBILE IN QUANTO SACRAMENTO DELL'UNICO E PERFETTO SACRIFICIO DEL CALVARIO A) La teologia

«La Messa realizza tutte le condizioni che si esigono per essere un sacrificio e il sacrificio del Calvario; grazie alla transustanziazione, ci procura, sotto un segno rappresentativo, il Sacrificio della Croce, vale a dire la Vittima stessa del Calvario, con il mistero e con tutti i frutti spirituali che porta in sé per comunicarceli. «Così, non è più necessario cercare un'immolazione nuova e nemmeno una nuova oblazione distinte dall'immolazione o dall'oblazione della Croce. Ma sono proprio quest'ultime, perennemente le stesse, e, come al Calvario, comprese l'una nell'altra che ci sono comunicate, grazie all'istituzione di quel sacramento o segno sensibile efficace, che concilia l'unità e la molteplicità, la perennità con la ripetizione, nel caso presente la sufficienza, la trascendenza, la unicità del Calvario, con la rinnovazione quotidiana e indefinita del rito che mette il Calvario sul nostro altare (...). Non c'è un'immolazione nuova, e tuttavia vi è una immolazione: quella stessa del Calvario. «Il segno mantiene le sue promesse: ci fa partecipare a un mistero, senza del quale esso non sarebbe niente, e di cui ogni giorno sottolinea la trascendenza, la sufficienza, l'unicità. «La meraviglia della transustanziazione è che la Chiesa vi fa qualche cosa, un gesto, il gesto stesso del Cristo ch'essa rinnova accordandosi attivamente all'azione del suo Capo; e tuttavia essa non cambia niente nel corpo di Cristo, non agisce su di esso; ma soltanto sul pane e sul vino. Così non fa ingiuria né al Cristo, né al sacrificio del Calvario» (E. Masure, Il Sacrificio del Corpo Mistico, Morcelliana, Brescia, 1952, pp. 81s). Ne consegue che questo Sacrificio (eucaristico), poiché è simbolico, non aggiunge nulla alla Redenzione: attinge da essa per tutti gli uomini pellegrini quaggiù, non si aggiunge alla Redenzione, ma la esprime per ogni generazione umana. E inoltre la modalità naturale, sanguinosa, localizzata, del Sacrificio della Croce è esclusa dal Sacrificio eucaristico. Il Cristo, che ha compiuto ogni cosa e che è glorificato, è misteriosamente presente nell'Eucaristia: rimane dell'altro mondo, pur in mezzo al nostro mondo: non è localizzato né racchiuso nel tempo. «Non è nell'Eucaristia come in un punto dello spazio e neppure in un istante del tempo: non è disperso nello spazio e nel tempo, nell'umanità intera, perché non è presente nella maniera in cui lo è un corpo, ma è presente come il principio di un

mistero di salvezza...» (J. MOUROUX, Fate questo in memoria di me, Morcelliana, Brescia, 1971, p. 37). Quando il sacerdote, nel momento centrale della celebrazione e della preghiera, ricorda l'atto e le parole di Gesù Cristo, il Cristo in persona realizza il mistero che rende presente il suo atto di offerta, il sacrificio della Croce (...). Egli agisce in tal modo servendosi dell'uomo consacrato, e non esistono due sacrifici, ma uno solo; l'atto libero del sacerdote e l'atto trascendente di Gesù Cristo a rigore fanno una cosa sola, perché il trascendente non si assomma all'umano, ma lo abita e lo trasfigura.... «Ne consegue che il sacrificio del Cristo e il sacrificio della Chiesa sono rigorosamente indissociabili, perché sono RIGOROSAMENTE UN SOLO SACRIFICIO, ma di quella unità molteplice che è la regola quando si tratta del mondo creato, del Cristo e della Chiesa. Solo che qui l'atto redentore di Gesù Cristo non si moltiplica, e la molteplicità non esiste. Esiste UN UNICO ATTO PERMANENTE DI OFFERTA CHE IL CRISTO, UOMO-DIO, RENDE PRESENTE ATTRAVERSO GLI ATTI SACRIFICALI DELLA CHIESA MEDIANTE I SUOI SACERDOTI, ATTI CHE SI RINNOVANO INDEFINITAMENTE NELL'ORDINE SACRAMENTALE. TUTTA LA NOVITÀ E LA MOLTEPLICITÀ SONO DALLA PARTE DELLA CHIESA; TUTTA L'UNITÀ E LA PERMANENZA DALLA PARTE DEL CRISTO. Anche in questo caso, l'eternità fonda il tempo; e l'eternità del Cristo mediatore fonda il tempo sacramentale, attraverso tutti gli atti sacramentali compiuti dalla Chiesa, in Gesù Cristo...» (iv., pp. 52s). Dunque: nelle «molte» Messe, unico resta «il» Sacrificio della Croce; mentre la Chiesa, nel celebrarle, moltiplica soltanto le presentazioni-sensibili-simboliche (=sacramentali) della medesima e immoltiplicabile Offerta cruenta del Calvario. B) I Padri della Chiesa, per questo, riferendosi alla Messa come rito liturgico, usano indifferentemente le voci: «figura», «immagine», «segno», «sacramento», «memoria» dell'unico Sacrificio di Cristo: S. GIUSTINO, Dial. cum Tryphone, 45, PG 6, 564. S. CIPRIANO, Epist. 63, PL 4, 385 e 386 s. S. GIOVANNI CRISOSTOMO, Hom. in epist. ad Hebr. 17, 3, PG 63, 131.

S. GIROLAMO, in Matth. comm., IV, c. 26, PL 26, 195. S. AGOSTINO, Epist. 98, 9, PL 33,363; Contra Faustum, XX, 21, PL 42, 385; De Civit. Dei, X, 20, PL 41, 298, e iv., 5, PL 41, 282: «Sacrificium ergo visibile invisibilis sacrificii sacramentum, id est sacrum signum, est». S. GREGORIO M., Dial., IV, 58, PL 77, 425. S. AMBROGIO, De Officiis, I, 48, PL 16, 94. S. GREGORIO NAZ.., Epist. 171, PG 37, 279. S. CIRILLO AL., De Adoratione in spiritu..., 10, PG 68, 707. EUSEBIO DI CES., Demonstr. evang., V, 3, PG 22, 365. SERAPIONE DI THMUIS, Anaphora eucharistica, 4, cf. C. KIRCH, Enchir. hist. eccl., Friburgo-Br., 1941, n. 479. C) Gli Scolastici Hanno avuto il merito di elaborare i preziosi dati della Rivelazione trasmessi dai Padri, insistendo sul carattere sacramentale del Sacrificio eucaristico: GRAZIANO, Decretum, dist. II, cons., c. 51, PL 187, 1755. P. LOMBARDO, Sent. IV, d. 12, c. 5. S. TOMMASO, in questa opera di elucidazione primeggia tra tutti: - «per hoc sacramentum repraesentatur (...) Passio Christi» ( Summa th., III, q. 79, a. 1, c.); - «celebratio huius sacramenti est imago repraesentativa Passionis Christi» (iv., q. 83, a. 1, 2um). - «hoc autem sacrificium exemplum est illius...» (iv., lum); « figura quaedam et exemplum Dominicae Passionis» (iv., a. 2, 2 um); - «Eucharistia est sacramentum Passionis Christi» (iv., 9. 73, a. 3, 3um. Cf. iv. q. 76, a. 2, lum; q. 79, a. 2, c.; q. 80, a. 10, 2um; q. 83, a. 1, c.; in 1Cor, 11, lect. 5,

n. 671). La Messa, ri-presentazione sensibile della Passione redentrice, per noi, vissuti dopo il Cristo, ne è pure la memoria, se si tien conto dell'evento storico, prescindendo dal suo eterno contenuto di «mistero»: - «est memoriale dominicae Passionis (Summa th., III, q. 74, a. 1, c.) - nella Messa «recolitur memoria illius, quam in sua Passione Christus monstravit excellentissimae caritatis » (Off. Corp. Christi, lect. IV. Cf. Sent. IV, d. 8, q. 2, a. 2, sol. 1, 2um). - «in hoc sacramento Passionis Dominicae memoria et repraesentatio habetur» (Summa c. Gent., IV, c. 61. Cf. Summa th., III, q. 76, a. 2 e 2um). «... oportuit omni tempore apud homines esse aliquod repraesentativum Dominicae Passionis. Cuius in Veteri Testamento praecipuum sacramentum erat agnus pascalis (...). Successit autem ei in Novo Testamento Eucharistiae sacramentum, quod est rememorativum praeteritae passionis, sicut et illud fuit praefigurativum futurae» (Summa th., III, 9.73, a. 5, c.). La «sacramentalità» (=ratio «signi») fa della Messa un vero «Sacrificio», ossia evidenzia l'unica e intramontabile immolazione della Croce: - «hoc sacramentum dicitur sacrificium in quantum repraesentat ipsam Passionem Christi» (Summa th., III, q. 73, a. 4, 3um. Cf. iv., q. 79, a. 7, c.; q. 83, a. 1, c.; q. 73, a. 4, Zum e c.). Si tratta però di una «rappresentazione» non vuota, ma piena, perché contiene la Vittima immolata, riferendosi ad un'immolazione non passata, ma presente, sempre in atto a livello del «mistero»: - «Eucharistia est sacramentum perfectum Dominicae Passionis tamquam continens ipsum Christum passum...» (Summa th., III, q. 73, a. 5, 2um). Ecco perché il «sacrificio eucaristico» si distingue da quelli dell'A.T. (iv., q. 75, a. 1, c.; q. 73, a. 1, 3um; q. 79, a. 2, c.; I-II, q. 101, a. 4, 2um). Proprio perché «sacramento perfetto», la Messa non costituisce un altro

sacrificio da quello della Croce: - «Una est Hostia, quam scilicet Christus obtulit et nos offerimus, et non multae, quia semel oblatus est Christus; hoc autem sacrificium exemplum est illius. Sicut enim quod ubique offertur unum est Corpus et non multa corpora, ita et unum Sacrificium» (iv., q. 83, a. 1, lum). - «... et ideo non oportet ipsum amplius iterari. Unde Christus una oblatione mundavit in aeternum sanctificatos...» (in Hebr, X, lect. 1, n. 482). - «Non offerimus aliam quam illam (hostiam] quam Christus obtulit pro nobis, scilicet sanguinem suum. Unde non est alia oblatio, sed est commemoratio illius Hostiae quam Christus obtulit...» (iv. Cf. iv., q. 22, a. 3, c.). La distinta consacrazione del pane e del vino compone «il segno» dell'offerta cruenta della Croce (cf. Summa th., III, 9. 80, a. 12, 3um; q. 82 a. 10, c.; a. 4, lum; q. 83, a. 2, 2um). Ciò avviene particolarmente nel momento in cui si pronunzia la formula che trasforma il vino nel sangue di Cristo, riproducendo l'effusione di questo dal corpo della Vittima (Sent. IV, d. 8, q. 2, a. 2, q.la 3, 2um; iv., a. 2, q.la 3, 2um; a. 4, q.la 3, lum; Summa th., III, . 74, a. 1, c., q. 76, a. 2, lum; q. 78, a. 3,7um e lum, 2um; in 1Cor 11, lect. 5, n. 653; iv., lect. 6, n. 681). Esattamente la dottrina di Trento (D-S 1740, 1743) spiegata da Pio XII (Mediator Dei: iv., 3848, 3852), da Paolo VI (Mysterium fidei, 11, 17 e Profess. di fede), dal Vaticano II (SC 47; LG 28), da GIOVANNI PAOLO II (Dominicae Cenae, 9). III LA RIPETIZIONE DELLA MESSA, MOLTIPLICANDO NUMERI CAMENTE IL «SACRAMENTO», COMPORTA LA MOLTIPLICAZIO NE DEI SACERDOTI CELEBRANTI E DEI FEDELI, PER CUI FAVORISCE UN GRADUALE AUMENTO DELLA PARTECIPAZIONE DI TUTTI AL SACRIFICIO DELLA CROCE E AI BENEFICI

CHE NE DERIVANO Con ciò intendo richiamare e sottolineare che la moltiplicazione delle Messe – e quindi il loro numero - è necessariamente associato all'elemento sacramentale del Sacrificio Eucaristico. Elemento sensibile che inserisce il «Mistero-delSacrificio-in-sé» nelle condizioni esistenziali della vita umana vissuta dagl'innumerevoli individui dispersi nello spazio e succedentisi nel tempo. Ora, appunto essi compongono la Chiesa come «società visibile», e solo per essi il Cristo ha istituito il Sacrificio Eucaristico. Se dunque il « sacramento» è indispensabile per partecipare al «sacrificio»; e se unicamente il «sacramento» è ripetibile, venendo così a moltiplicarsi secondo i punti dello spazio e i momenti del tempo, è certo che il NUMERO delle Messe non è qualcosa di accessorio e indifferente per la vita del Corpo Mistico; per cui UNA Messa, quanto ai benefici che procura e per i quali essa è stata istituita da Cristo, NON EQUIVALE A dieci messe. Chi lo pensasse, dovrebbe anche supporre che per la Chiesa - e quindi per il mondo – UNA SOLA MESSA CELEBRATA DA UN SOLO SACERDOTE potrebbe bastare per gli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Ciò che è assurdo perché incompatibile con i bisogni di un'umanità distribuita nei luoghi e nei tempi più diversi... Qui si verifica che il «lucrum cessans » s'identifica con un «damnum emergens», data la necessità di espiare per creature umane che non cessano di peccare... ; e quella di redimersi per creature umane infelici, sempre bisogno se di riconciliarsi con Dio per attuare i suoi piani di misericordia. Segue che la riduzione del numero delle Messe – per sé connessa con la «concelebrazione» produce inevitabilmente la riduzione dei loro frutti; mentre la moltiplicazione delle Messe li moltiplica, secondo il principio: «In pluribus (...) Missis multiplicatur Sacrificii oblatio. Et ideo multiplicatur effectus sacrificii et sacramenti» (S. TOMMASO, Summa th., III, q. 79, a. 7, 3um). Riepilogando: se ogni Messa particolare celebrata individualmente È TUTTO QUEL CHE I DOCUMENTI DEL MAGISTERO RIPETONO DA SEMPRE de « LA» Messa in generale, colta quanto alla sua natura, dignità ed efficacia, come ho voluto sottolineare nel primo paragrafo -, bisogna concludere che la celebrazione di molte Messe onora Dio e giova alle anime più della

concelebrazione di una Messa. In molti uomini c'è più ricchezza di umanità che in un solo individuo. Soltanto Gesù, Persona divina, è l'Uomo-Ideale, Sintesi comprensiva di tutti i valori creati e creabili.

PER UNA RIFORMA DELLA PRASSI ATTUALE DELLA CONCELEBRAZIONE

Vescovo Athanasius Schneider (Vescovo Ausiliare dell'Arcidiocesi di Santa Maria in Astana, Kazakistan)

I. L'aspetto storico e teologico 1. La prima Santa Messa è stata celebrata da Nostro Signore nel cenacolo. Questa Messa non ha avuto la forma di una concelebrazione sacramentale, perché gli apostoli non hanno pronunciato le parole di consacrazione, ma solo il Signore le ha pronunciate. Gli apostoli hanno partecipato all'Eucaristia, celebrata dal Signore, ricevendo sacramentalmente il Suo Corpo e il Suo Sangue. Potremmo dire che hanno “concelebrato” nella prima Messa sotto forma di concelebrazione non sacramentale. 2. Fin dai tempi più remoti, la Chiesa universale (sia in Oriente che in Occidente) ha conservato fedelmente questa forma originale di concelebrazione eucaristica con queste due caratteristiche: (1) Solo il celebrante principale pronuncia le parole di consacrazione. (2) Il celebrante principale è sempre ed esclusivamente il “sommo sacerdote”, cioè il vescovo (e a Roma il Papa). 3. All'inizio del Medioevo, nella liturgia papale a Roma ci fu uno sviluppo della forma originaria per il fatto che i concelebranti pronunciarono le parole di consacrazione insieme al Papa (cfr. Ordo Romanus III, VIII secolo). 4. Tuttavia, fino ad oggi, le più antiche chiese orientali - i greco bizantini non cattolici, i copti non cattolici e i nestoriani non cattolici - hanno conservato la norma secondo cui solo il celebrante principale pronuncia le parole di consacrazione.

5. Fino ai tempi recenti nella Chiesa universale, un prete non ha mai presieduto come celebrante principale di una concelebrazione Eucaristica sacramentale. 6. Dal XVII secolo in poi, le chiese cattoliche bizantine introdussero una novità, cioè la forma di concelebrazione tra sacerdoti senza un vescovo come celebrante principale. Così la concelebrazione tra i sacerdoti divenne consueta (cfr. L'articolo “ Le rituel de la concélébration eucharistique” di Aimé Georges Martimort in Ephemerides Liturgicae 77 [1963] 147–168). 7. Una tale forma di concelebrazione eucaristica solo tra i sacerdoti era estranea alla tradizione universale e costante della Chiesa. Pertanto la Chiesa romana proibì tale concelebrazione tra sacerdoti (cfr. can. 803 del Codice di Diritto Canonico 1917). 8. Solo le chiese orientali cattoliche adottarono l'usanza che tutti i concelebranti pronunciassero le parole di consacrazione. 9. Fino al Concilio Vaticano II, nella Chiesa latina una concelebrazione eucaristica sacramentale, dove tutti i concelebranti pronunciano le parole di consacrazione, era praticata solo in tre occasioni: (1) Consacrazione episcopale: concelebravano solo il consacratore principale e i vescovi appena consacrati. (2) Ordinazione sacerdotale: concelebravano solo il vescovo e i sacerdoti appena ordinati. (3) Messa Crismale il Giovedì Santo nella Cattedrale di Lione (Francia): il vescovo concelebrava con sei sacerdoti. 10. Per la Messa Crismale, la Chiesa Romana ha conservato fino al Concilio Vaticano II però la forma più antica, cioè le parole di consacrazione pronunciate solo dal Vescovo, sebbene dodici sacerdoti lo assistessero rivestito di tutti i paramenti necessari per la Messa. Con questa forma, forse la Chiesa Romana ha voluto raccontare la prima Santa Messa il Giovedì Santo, dove solo il celebrante principale, Gesù Sommo Sacerdote, ha pronunciato le parole di consacrazione mentre i dodici apostoli hanno concelebrato non sacramentalmente, poiché non hanno pronunciato insieme al Signore le parole della consacrazione sacramentale.

11. Nella millenaria tradizione della Chiesa romana, la concelebrazione eucaristica sacramentale costituiva sempre un atto solenne straordinario, che avveniva in: (1) circostanze ecclesiasticamente importanti, che riflettevano la costituzione gerarchicamente ordinata della Chiesa, come nelle suddette consacrazioni episcopali e nelle ordinazioni sacerdotali; (2) Quando il vescovo celebrava la Messa in una forma più solenne e gerarchicamente strutturata, come nel caso della Messa Crismale di Lione, o quando il Papa (nel primo millennio) celebrava solennemente nelle quattro feste più importanti dell'anno: Natale, Pasqua, Pentecoste, SS. Pietro e Paolo (un'usanza che cessò a Roma nell'alto Medioevo). 12. In tutti i riti di tutti i tempi, una solenne Messa episcopale richiedeva sempre l'assistenza liturgica dei rappresentanti di tutti i gradi del clero. Nel rito romano tale Messa era così strutturata: sacerdoti che indossavano paramenti della Messa (così, ad esempio, i concelebranti cerimoniali nel caso dei canonici della cattedrale “ canonici parati”, prescritti nell'antico Caeremoniale Episcoporum), sacerdote assistente, due diaconi assistenti, diaconi e suddiaconi della Messa, accoliti, lettori. 13. La solenne Messa papale in San Pietro prima del Concilio Vaticano II aveva la stessa struttura: cardinali vescovi e cardinali sacerdoti, con indosso i paramenti della messa e cardinali diaconi che assistono il Papa. I cardinali hanno concelebrato cerimonialmente, cioè non sacramentalmente. 14. L'uso della concelebrazione eucaristica sacramentale per risolvere problemi pratici in una riunione di un gran numero di sacerdoti o vescovi è quindi del tutto estraneo alla tradizione originale e costante di tutta la Chiesa. Un tale uso contraddice la forma e la natura originaria della concelebrazione eucaristica e costituisce una “degradazione” della concelebrazione, come ha già notato Martimort (cfr. op. cit.). 15. L'argomento per estendere i casi di concelebrazione in occasione di raduni sacerdotali al fine di risolvere problemi pratici di celebrazione figura nello “Schema II” della Costituzione Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II. Questo argomento, però, fu respinto dalla maggioranza dei Padri conciliari, tanto da scomparire nel testo definitivo del n. 57.

16. Una concelebrazione eucaristica solo tra i sacerdoti oscura un elemento essenziale di questa forma di celebrazione, cioè la forma gerarchica visibilmente riconoscibile. Ogni celebrazione della Santa Messa possiede la sua forma gerarchica innata. La prima Santa Messa nel cenacolo ha rivelato questa caratteristica: Gesù Sommo Sacerdote era il celebrante principale e Lui solo pronunciò le parole di consacrazione, essendo circondato dai dodici primi sacerdoti (vescovi) della Nuova Alleanza, che Lo assistevano cerimonialmente. Gesù era gerarchicamente più alto e gli apostoli che concelebravano cerimonialmente erano più bassi. Da allora, ogni autentica concelebrazione della Santa Messa ha posseduto questa struttura. 17. Quando un sacerdote celebra da solo e senza la concelebrazione sacramentale di altri sacerdoti, egli solo rappresenta Gesù Sommo Sacerdote nel momento della consacrazione, e tutti gli altri sacerdoti che sono presenti e non pronunciano le parole di consacrazione (ad esempio, coloro che possono svolgere il ministero come diacono o suddiacono, o chiunque assista al coro) sono, in questo momento, gerarchicamente inferiori dal punto di vista dell'azione sacramentale, in quanto solo il sacerdote celebrante agisce in questo momento sacramentalmente in persona Christi capitis mentre gli altri no. 18. Ogni celebrazione eucaristica o concelebrazione deve dimostrare visibilmente l'aspetto di Cristo Capo, cioè che nella struttura della Chiesa c'è un solo Capo, Cristo Sommo Sacerdote. Tutti gli altri sacerdoti (presbiteri, vescovi) che agiscono nella consacrazione eucaristica in persona Christi capitis sono solo i suoi vicari visibili a diversi livelli. 19. Pertanto, il momento di realizzare la consacrazione eucaristica in persona Christi capitis - sia che la consacrazione sia fatta da un solo consacratore o contemporaneamente da più consacratori - deve mostrare visibilmente l'unicità del Capo; nel caso di un gruppo di consacratori ci deve essere visibilmente uno che è gerarchicamente più alto, per mostrare l'unicità di Cristo il Capo. 20. Dal punto di vista del segno - e con la celebrazione sacramentale, una sola persona concreta, in questo caso il celebrante principale, rappresenta visibilmente Cristo Capo - sarebbe contro la legge della rappresentazione-segno e del simbolismo sacramentale, quando nel momento della consacrazione eucaristica un gruppo di persone gerarchicamente uguali rappresenta simultaneamente Cristo, l'unico Capo. “Infatti una pura moltiplicazione dei concelebranti rende difficile l'espressione liturgica della loro unità in Cristo.

Come in questo caso la Messa è l'atto dell'unico Sacerdote?" (P. Tihon, “ De la concélébration eucharistique”, Nouvelle Revue Théologique 86 [1964] 600, n. 97). 21. Dall'altro lato, la totalità dei fedeli rappresenta il Corpo mistico di Cristo ( Christus totus), perché ci sono molti membri gerarchicamente differenti. C'è però un solo Capo nel Corpo, e quindi il Capo è rappresentato concretamente da una sola persona negli atti visibili della vita della Chiesa: sia a livello canonico (giurisdizione) che a livello eucaristico (celebrazione del sacrificio eucaristico). 22. La celebrazione eucaristica è il sacramento che più perfettamente realizza e riflette visibilmente il mistero del Corpo Mistico con un solo Capo e un Sommo Sacerdote e con molti membri gerarchicamente subordinati. A livello canonico, il Papa rappresenta Cristo Capo per la Chiesa universale e il vescovo rappresenta Cristo per la Chiesa particolare (diocesi). A livello eucaristico sacramentale, il celebrante o celebrante principale (nel caso di una concelebrazione) rappresenta Cristo Capo. Colui che rappresenta Cristo Capo al momento della consacrazione eucaristica deve essere anche “capo” gerarchicamente o sacramentalmente in riferimento agli altri concelebranti: questo caso si vede quando il vescovo concelebra con i sacerdoti, o un delegato pontificio (o il Metropolita o consacratore principale in una consacrazione episcopale) concelebrano con altri vescovi, o quando un sacerdote celebra da solo. 23. Quando più sacerdoti realizzano insieme e sullo stesso piano la consacrazione eucaristica, il simbolismo della rappresentazione dell'Unico Capo viene oscurato, perché non c'è differenza gerarchica dei co-consacratori eucaristici, perché nessuno di loro è un vero “capo” rispetto agli altri a livello gerarchico. Una differenza gerarchica tra i co-consacratori eucaristici garantisce in modo convincente il vero simbolismo di rappresentare l'unico Capo. 24. Inoltre, avere un celebrante principale gerarchicamente più elevato e chiaramente distinto come tale mostra anche la verità che alla fine c'è un solo celebrante principale in ogni Messa, che è Cristo Sommo Sacerdote, il " minister principalis" di ogni sacramento, mentre tutti i celebranti, anche il celebrante principale, occupano il grado di " minister secundarius". 25. La struttura essenzialmente gerarchica della Chiesa visibile ha un solo capo visibile come vicario di Cristo, l'unico capo ( Vicarius Christi): San Pietro e i suoi successori, i vescovi di Roma. Le chiese ortodosse hanno rifiutato questa

verità di fede e hanno creato in sostituzione di essa un'ecclesiologia chiamata "sinodalità" ( sobornost in russo). Secondo tale visione, l'unicità di Cristo il Capo non è rappresentata da una persona concreta, vale a dire, Pietro e i suoi successori, ma dal corpo o dal collegio dei vescovi simultaneamente, specialmente quando sono riuniti in un concilio o sinodo e sacramentalmente quando concelebrano l'Eucaristia. In una tale teoria, non esiste un vero capo visibile, ma sono tutte uguali (" pares"). Di conseguenza, il presidente di un tale sinodo o di una tale concelebrazione eucaristica è solo “ primus inter pares”. 26. Una celebrazione eucaristica rispecchia e realizza nel modo più perfetto il mistero della Chiesa se e solo se esiste un vero “ primus” giurisdizionale e gerarchico. Pertanto, dal punto di vista del segno e del simbolo, deve esserci tra i concelebranti uno che nel momento della consacrazione eucaristica è realmente “ primus”: (1) Solo sacramentalmente: quando un solo sacerdote (comunque molti siano presenti) consacra sacramentalmente, o (2) Sacramentalmente e gerarchicamente: quando il vescovo concelebrerà con i sacerdoti, (3) Sacramentalmente e gerarchicamente: quando un vescovo con delegazione pontificia ordinaria o straordinaria concelebra con altri vescovi (il metropolita che usa il pallio, il principale consacratore nell'ordinazione episcopale, un legato pontificio). 27. Oscura anche la natura gerarchica della concelebrazione eucaristica e rivela una forma egualitaria, poiché in quello scenario vescovi e sacerdote insieme costituiscono una sorta di gruppo egualitario di concelebranti in riferimento a un celebrante principale episcopale, che non ha una reale posizione gerarchica superiore, come sarebbe il caso di un metropolita che usa il pallio papale, il principale consacratore in un'ordinazione episcopale che agisce sulla base di un mandatum papale, o un delegato papale appositamente nominato. 28. Il Papa è il segno visibile dell'unità dell'ordine episcopale. Il vescovo, unito al Papa, è il segno visibile dell'unità del presbiterio. Questo deve essere visibile anche nella concelebrazione eucaristica. Una concelebrazione eucaristica tra vescovi dove il celebrante principale non ha deleghe papali, nemmeno lontane, ha una forte caratteristica “egualitaria”. Allo stesso modo, una concelebrazione

eucaristica tra sacerdoti senza il vescovo, ha una forte caratteristica “egualitaria”, poiché manca anche la presenza del capo visibile del presbyterium, cioè il vescovo. 29. Inoltre, la concezione egualitaria va oltre, dicendo che ciò che è essenziale non è la rappresentazione di Cristo da parte di uno o più sacerdoti, ma la sua rappresentazione da parte dell'intera comunità che celebra l'Eucaristia (cfr. P. Tihon, op. cit., 593). 30. Quando un sacerdote realizza da solo la consacrazione eucaristica (anche se potrebbero essere presenti altri sacerdoti non concelebranti), rende sacramentalmente visibile Cristo l'unico Capo, agendo in persona Christi capitis. A distanza, la sua singolarità si riferisce anche al vescovo, l'unico capo della Chiesa particolare, che a sua volta è unito al Papa, l'unico capo della Chiesa universale. Pertanto, una celebrazione eucaristica lecita deve menzionare espressamente il Vescovo, capo della Chiesa locale e il Papa, capo della Chiesa universale. 31. Nella prospettiva della verità che non c'è " primus inter pares" nella costituzione gerarchica della Chiesa, ma lì vi è "un capo" universalmente (Papa), localmente (vescovo) e sacramentalmente (il sacerdote consacrante in persona Christi capitis), il segno più alto dell'unità del sacerdozio non è la concelebrazione eucaristica tra sacerdoti senza il vescovo come celebrante principale, ma la concelebrazione eucaristica dei sacerdoti con il vescovo, come avviene nella Messa di ordinazione sacerdotale. Nel rito dell'ordinazione sacerdotale si dice che l'unità del Corpo di Cristo è costituita da membri che sono molti e diversi per dignità: “ ex multis et alternae dignitatis membris unum Corpus Christi efficitur” ( Allocutio episcopi). 32. La forma della concelebrazione sacramentale (come avvenne nella Messa del Papa con i cardinali solo quattro volte nell'anno dal VII all'VIII secolo) apparve gradualmente nei secoli successivi anche nella Messa di consacrazione episcopale e di ordinazione sacerdotale (in questo caso divenne obbligatorio solo nel 1596). Allo stesso tempo, la concelebrazione eucaristica del Papa con i cardinali è gradualmente scomparsa, ed è rimasta una concelebrazione cerimoniale del Papa con i cardinali. 33. Secondo l'originale e perenne sensus ecclesiae, la concelebrazione eucaristica è la forma più solenne della Messa e non una forma semplice e

quotidiana di celebrazione. Ne hanno parlato ad esempio sant'Ignazio di Antiochia (I - II secolo) e la Traditio Apostolica (III secolo): durante la messa il vescovo è circondato da tutto il suo presbyterium, dai diaconi e dagli altri servitori e da tutta l'assemblea dei fedeli. La Traditio Apostolica dice che solo il vescovo pronuncia la preghiera eucaristica. 34. La maggior parte dei monasteri greco-ortodossi del Monte Athos, ad esempio, non praticano una concelebrazione eucaristica quotidiana. Hanno conservato la tradizione originale di una concelebrazione eucaristica - sempre in forma cerimoniale e mai in forma sacramentale - solo in alcune feste principali durante l'anno (cfr. Hagioreitokon Typikon tes Ekklesiastikes Akoloutheias, Athena 1997, I part, cap. 1, nota 28). 35. L'usanza di alcune chiese cattoliche orientali con una concelebrazione eucaristica regolare di sacerdoti senza il vescovo, che è davvero in ultima analisi una forma "egualitaria" e non strettamente gerarchica, è stata erroneamente considerata dai rappresentanti del movimento liturgico nel XX secolo come il modello autentico e originale della concelebrazione eucaristica, di cui hanno fortemente chiesto un “restauro” nella Chiesa latina. 36. Fino al Concilio Vaticano II, la Chiesa romana ha conservato questa forma originale di concelebrazione eucaristica a norma dei Padri (" pristina norma Patrum") nella Messa Crismale, dove dodici sacerdoti, vestiti di paramenti, hanno concelebrato cerimonialmente con il vescovo, circondato da sette diaconi e sette suddiaconi. I numeri dodici e sette sono numeri rappresentativi e simbolici per la totalità dei rispettivi gradi del clero. 37. La forma originale e più antica, la concelebrazione eucaristica non sacramentale o cerimoniale, come era nella Messa Crismale, coesisteva nella Chiesa romana con la forma successiva della concelebrazione eucaristica sacramentale nel caso della Messa della consacrazione episcopale e ordinazione sacerdotale. 38. Alla vigilia del Concilio Vaticano II, furono molte le richieste di armonizzare queste due forme di concelebrazioni eucaristiche nella Chiesa romana, ovvero di estendere la concelebrazione eucaristica sacramentale anche alla Messa crismale, come avveniva nel rito di Lione fino a il Concilio Vaticano II e in diverse diocesi francesi fino al XIX secolo (cfr. Martimort, op. cit.).

39. La richiesta di estendere la possibilità della concelebrazione eucaristica alla vigilia di questo Concilio è stata molto forte. I Padri conciliari sono stati circondati da un clima di euforia, di approvazione acritica della nuova “teoria della concelebrazione”, di mancanza di una riflessione più approfondita sugli aspetti sacramentologici ed ecclesiologici legati alla concelebrazione eucaristica. 40. Il Concilio Vaticano II ha infatti esteso formalmente la possibilità della concelebrazione eucaristica a sei casi ( Sacrosanctum Concilium, n. 57). Le norme erano però così “elastiche” che di fatto oggi c'è una totale libertà di concelebrazione, una libertà addirittura favorita dai documenti postconciliari. 41. Il Concilio Vaticano II non aveva intenzione di decidere sui problemi teologici e tanto meno sui problemi storici della concelebrazione. “Il Concilio non ha dato nessuna definizione, nessuna descrizione della concelebrazione, essendovi tendenze teologiche differenti e opposte” al riguardo (P. Tihon, op. cit., 579). 42. L'attuale pratica della concelebrazione eucaristica nella Chiesa latina costituisce una grande rottura con la tradizione costante della Chiesa romana e della maggior parte delle Chiese orientali, poiché oscura il senso e la forma originari di questa concelebrazione come Cristo l'ha affidata alla Chiesa e come è stato fedelmente trasmesso dalla Chiesa Romana negli ultimi due millenni. 43. L'attuale pratica della concelebrazione eucaristica nella Chiesa latina ha oltrepassato oggigiorno spesso i limiti della dignità liturgica e del significato teologico, soprattutto nei casi frequenti di “concelebrazioni di massa” o “oceaniche” con diverse centinaia e persino migliaia di concelebranti. 44. Le frequenti concelebrazioni quotidiane tra sacerdoti (o tra vescovi) sfigurano il senso originario della concelebrazione eucaristica, secondo la quale tale celebrazione deve essere chiaramente gerarchica (e non in forma egualitaria) e deve anche essere la forma più solenne della celebrazione Eucaristica. 45. Una concelebrazione eucaristica sacramentale quotidiana diminuisce nel tempo un rapporto più profondo, stretto e personale del sacerdote con Cristo Sommo Sacerdote durante l'offerta della Santa Messa, che è il centro stesso della vita sacerdotale. 46. La celebrazione Eucaristica ha sempre avuto nella sua forma diversi gradi di solennità. La forma più alta e solenne della Messa era la Solenne Messa

Pontificale, e tali Messe Pontificali hanno sempre conservato nel Rito Romano gli elementi essenziali della concelebrazione eucaristica originale, cioè della concelebrazione non sacramentale o cerimoniale. Prima della riforma liturgica postconciliare, tali messe pontificie con concelebrazione cerimoniale avevano tre forme: (1) La solenne Messa Pontificale ad thronum in Cattedrale: il vescovo era circondato da alcuni Canonici, con indosso i paramenti della Messa (“canonici parati”), con sacerdote assistente, diaconi assistenti, diacono e suddiacono, accoliti. (2) La Messa Crismale con dodici sacerdoti che indossano paramenti sacri, sette diaconi e sette suddiaconi. Questa è stata davvero la Messa più solenne in una diocesi. (3) La solenne messa papale nella Basilica di San Pietro, dove cardinali-diaconi, cardinali-sacerdoti e cardinali-vescovi, vestiti di paramenti, hanno circondato il Papa e hanno servito o concelebrato cerimonialmente. Questa era la forma più solenne di Messa nella Chiesa universale. Tali Messe solenni venivano celebrate raramente, come avvenne anche nel primo millennio, dove il Papa concelebrava sacramentalmente con i cardinali solo quattro volte l'anno (Natale, Pasqua, Pentecoste, San Pietro e Paolo). 47. Il celebre liturgista A. Martimort ha riconosciuto il carattere della particolarità e della solennità di una concelebrazione eucaristica sacramentale, dicendo: “Più delicato è il problema delle condizioni alle quali la concelebrazione dovrebbe essere sottoposta, riguardo alla data, al numero e alla qualità dei concelebranti. I liturgisti osservano che la concelebrazione in sé è una cosa rara e alquanto eccezionale, come è sempre stata in Occidente e come è in Oriente, se non in pratica, ma in linea di principio” (op. cit.). 48. Alla vigilia del Concilio Vaticano II, Martimort fece questa proposta teologicamente corretta e praticamente equilibrata per una pratica estesa della concelebrazione eucaristica: “Si dovrebbe immaginare la concelebrazione nella Chiesa latina solo intorno al vescovo diocesano, con lui che presiede la celebrazione: ciò trova un posto normale nella Messa dove il vescovo è circondato dal suo clero, vestito di paramenti per la Messa ( clergé paré)” (op. cit.).

49. Martimort formula i seguenti suggerimenti concreti sull'estensione dei casi di concelebrazione: “Ci sono tre casi, in cui è richiesta la concelebrazione: nel caso dei co-consacratori della consacrazione episcopale, nel caso dei sacerdoti nella Messa Crismale del Giovedì Santo, [e] nel caso di una grande manifestazione della Chiesa, dove alcuni sacerdoti attorno al celebrante esprimono l'universalità della catholica” (op. cit.). 50. Se la pratica della concelebrazione eucaristica fosse stata estesa, avrebbe dovuto essere fatta secondo il significato teologico ed ecclesiologico autentico e perenne, cioè deve soddisfare simultaneamente le seguenti caratteristiche essenziali: (1) Deve esserci il segno dell'unità gerarchica e dell'universalità (cattolicità): quindi, nessuna forma egualitaria; quindi nessuna concelebrazione tra sacerdoti soli o tra vescovi senza delegato pontificio o senza metropolita, usando il pallio. (2) Deve esserci il segno di una solennità particolare: quindi, niente concelebrazioni quotidiane, ma solo negli eventi particolarmente importanti della Chiesa universale (Concili ecumenici) e nelle Chiese particolari: consacrazione episcopale, ordinazione sacerdotale, messa crismale, sinodo diocesano, concilio provinciale (le diverse chiese particolari della stessa provincia ecclesiastica), concilio plenario (tutte le chiese particolari della stessa conferenza episcopale). (3) Deve esserci il segno di una particolare dignità e bellezza rituale: quindi, nessuna “concelebrazione da stadio” e - ad eccezione delle ordinazioni sacerdotali - necessariamente una limitazione concreta del numero dei concelebranti (es. un minimo di due e un massimo di dodici concelebranti), come è stato esemplificato dalla quasi millenaria esperienza ben provata della Chiesa romana, del Rito di Lione e di alcune diocesi francesi dopo il Concilio di Trento. 51. Considerando i suddetti aspetti ecclesiologici, sacramentologici e liturgici, si può proporre che la concelebrazione eucaristica sacramentale in rito romano comprenda i seguenti sette casi: (1) Consacrazione episcopale; (2) Ordinazione sacerdotale;

(3) Concili ecumenici; (4) Concili provinciali; (5) Concili plenari; (6) Sinodo diocesano; (7) Messa Crismale. 52. La forma più alta dell'esercizio del Magistero (concili a livello universale, regionale e locale) potrebbe essere opportunamente collegata anche con la forma più alta dell'esercizio della celebrazione eucaristica, cioè con la concelebrazione eucaristica sacramentale, che mostra il legame indissolubile della lex credendi con la lex orandi. 53. La natura del culto divino richiede che nella vita liturgica della Chiesa ci debba essere una forma particolarmente solenne e non quotidiana della celebrazione eucaristica, e dovremmo vederlo in una concelebrazione eucaristica strutturata gerarchicamente. Martimort avvertì profeticamente nel 1960 alla vigilia del Concilio Vaticano II: “È l'occasione per ammonire che la concelebrazione sarà una cosa molto impegnativa dal punto di vista della qualità delle cose e dell'organizzazione materiale” (op. cit. ). P. Tihon disse nel 1964: “La concelebrazione non dovrebbe essere fatta in modo banale. Inoltre, una celebrazione dignitosa, eseguita secondo le norme, impone un numero limitato di sacerdoti partecipanti, e sarebbe quasi impossibile durante i grandi raduni di sacerdoti, come ad esempio durante i Congressi eucaristici” (op. cit., 606). 54. Secondo l'esempio delle Chiese non cattoliche orientali (dove non c'è affatto concelebrazione sacramentale) e l'antica norma dei Padri ( pristina norma Patrum), la concelebrazione eucaristica strettamente sacramentale dovrebbe essere ridotta ai casi sopra menzionati e la concelebrazione non sacramentale, che è la forma originaria, dovrebbe essere più estesa, come è la solenne Messa pontificale secondo il rito romano tradizionale, l' usus antiquior del rito romano. 55. Una concelebrazione eucaristica non sacramentale dimostra molto bene anche l'ordine gerarchico della Chiesa e della celebrazione stessa. Ciò è testimoniato quando un solo sacerdote o vescovo esegue la consacrazione eucaristica, mentre altri sacerdoti o vescovi assistono alla Messa nel presbiterio, indossando il segno distintivo del loro sacerdozio o del loro ufficio ecclesiastico.

Pur non consacrando sacramentalmente, concelebrano tuttavia con l'unico sacerdote o vescovo nella forma originale della concelebrazione, cioè nella forma in cui Cristo Sommo Sacerdote ha celebrato la prima Santa Messa su questa terra il Giovedì Santo. 56. Una pratica della concelebrazione eucaristica sacramentale, presieduta dal vescovo e limitata a occasioni particolarissime e solenni, sarebbe la forma più appropriata, come ha affermato Martimort: “Questa concelebrazione ci sembra una via più sicura, più immediatamente praticabile e più conforme all'evoluzione della pietà sacerdotale” (op. cit.). II. L'aspetto liturgico

1. Una concelebrazione eucaristica sacramentale ritualmente dignitosa e teologicamente sicura richiede necessariamente un numerus clausus [numero chiuso] di concelebranti. È una legge costante della tradizione universale della Chiesa che il consacratore eucaristico deve essere in contatto corporale con il luogo del sacrificio e della consacrazione per poter toccare l'altare. Il ministro del sacramento deve essere fisicamente vicino alla materia. Le parole " Hoc est corpus ...", " Hic est sanguis ..." richiedono che la materia sia realmente presente al consacratore. Nella Tradizione latina (ad eccezione dei sacerdoti neo-ordinati nell' usus antiquior) i co-consacratori sacramentali dovevano stare immediatamente all'altare, come ad esempio nella Messa di consacrazione episcopale e nella Messa crismale nel Rito di Lione. La stessa regola si osserva nei riti orientali ancora oggi. In vista di una dignitosa concelebrazione eucaristica, Martimort ha suggerito di stabilire un numerus clausus di concelebranti (cfr. op. cit.). 2. La Chiesa latina ha un modello ben collaudato per una concelebrazione eucaristica sacramentale ritualmente dignitosa e teologicamente sicura nella forma secolare della concelebrazione nella Messa di consacrazione episcopale e nella Messa crismale del Rito di Lione. Riguardo all'aspetto rituale, Martimort ha suggerito: "La Messa Crismale del Giovedì Santo sarebbe l'occasione più sicura e confortevole per una tale evoluzione della disciplina: basterebbe estendere alla Chiesa universale l'usanza di Lione" (op. cit.). Più concretamente, Martimort ha avanzato questa proposta: “Adotterò volentieri le rubriche della consacrazione episcopale o dell’uso vivente di Lione, che prescrivono per i

concelebranti la recitazione in tono di mezzo di tutte le preghiere dette dal celebrante principale dall'Offertorio alla Comunione; per le parti cantate, il vescovo canta da solo, mentre gli altri concelebranti recitano a bassa voce” (op. cit.). 3. Nel rito romano la concelebrazione eucaristica sacramentale non deve regolarmente superare il numero dodici per i concelebranti, tranne nella messa delle ordinazioni sacerdotali. Questa usanza ha una tradizione secolare nella Messa Crismale. Il numero dodici racconta il numero di dodici Apostoli durante la prima Santa Messa nel cenacolo del Giovedì Santo. Inoltre, questo numero simboleggia la pienezza. Il numero minimo di concelebranti sarebbe due, a causa del requisito minimo di bellezza e solennità, che due concelebranti posti simmetricamente esprimono. 4. Durante la parte catecumenale della Messa, i concelebranti sono posti simmetricamente sui sedili ai lati del santuario o ai lati destro e sinistro del trono episcopale. 5. Dall'Offertorio in poi, i concelebranti stanno simmetricamente ai lati dell'altare. Nella parte anteriore dell'altare, il celebrante principale rimane solo con il sacerdote, il diacono e il suddiacono assistenti. Questa posizione manifesta visibilmente che c'è davvero un celebrante principale, che in questo momento rappresenta Cristo l'unico Capo. Gli altri concelebranti, suoi co-consacratori aiutanti, vengono quindi posti ai lati dell'altare. Questa posizione ha anche un vantaggio pratico: è garantito un ministero senza ostacoli del sacerdote assistente, diacono e suddiacono, nonché l'incensazione dell'altare. A causa della presenza di concelebranti ai due lati dell'altare, l'altare durante l'Offertorio viene incensato nella parte anteriore e non in un cerchio intorno. Quando i lati dell'altare non sono sufficientemente lunghi, i restanti concelebranti stanno in due file una dietro l'altra. 6. Tutte le preghiere dall'Offertorio alla Comunione (tranne il verso dell'Offertorio, la Secreta o Oratio super oblata e il Prefazio) i concelebranti pregano a bassa voce insieme al celebrante principale, che le prega ad alta voce. 7. Durante il Canon Missae, i concelebranti eseguono insieme al celebrante principale i seguenti gesti: (1) Durante Hanc igitur tenere le mani distese in modo che il pollice destro sia

sopra il sinistro e unisca le mani alla conclusione Per Christum Dominum nostrum. (2) Durante la pronuncia delle parole della consacrazione, i concelebranti si inchinano. (3) Tutti si genuflettono immediatamente dopo ogni consacrazione. (4) Durante l'elevazione dell'ostia sacra e del calice, i concelebranti li guardano. (5) Tutti si genuflettono dopo ogni elevazione. (6) Fanno un profondo inchino, baciano l'altare e si fanno il segno della croce durante il Supplices te rogamus. (7) Colpiscono il petto all'inizio di Nobis quoque peccatoribus; 8. Il rito della Pax è secondo il rito della consacrazione episcopale. 9. Durante il Domine, non sum dignus, i concelebranti percuotono tre volte il petto, insieme al celebrante principale. 10. Il rito della Comunione dei concelebranti episcopali è simile a quello della Messa di consacrazione episcopale. Ciascun concelebrante si avvicina al celebrante principale, che si trova al suo posto al centro. Il concelebrante genuflette verso il Santissimo Sacramento, e il celebrante principale depone l'ostia sacra direttamente sulla lingua del concelebrante, che sta in piedi e leggermente inchinato, quindi il celebrante principale consegna il calice al concelebrante e il concelebrante, tenendo il calice con le sue mani, beve dal calice. Il celebrante principale non dice alcuna parola mentre dà la Santa Comunione ai concelebranti né fa il segno di croce con l'ostia sacra. I concelebranti si purificano bevendo da un calice di vino non consacrato alla credenza. 11. Il rito della Comunione dei sacerdoti concelebranti: i concelebranti si inginocchiano in fila sul gradino più alto dell'altare; il vescovo depone l'ostia sacra direttamente sulla loro lingua, mentre assistono il diacono e il suddiacono, il diacono che regge la patena. I concelebranti restano ancora inginocchiati, in attesa che il vescovo ritorni con il calice; il vescovo tiene alle labbra di ogni concelebrante il calice, dal quale beve un sorso, mentre il diacono tiene un

purificatore sotto il mento di ciascuno. Il vescovo non dice alcuna parola mentre dà la santa Comunione ai concelebranti né fa il segno della croce con l'ostia sacra. I concelebranti si purificano bevendo da un calice di vino non consacrato alla credenza. 12. Il fatto che i concelebranti e anche i vescovi concelebranti ricevano il Corpo e il Sangue di Cristo dal concelebrante principale dimostra in modo molto impressionante l'aspetto gerarchico della concelebrazione eucaristica, sottolineando che c'è un solo Capo e un Cristo Sommo Sacerdote, che è visibilmente rappresentato dall'unico celebrante principale che in quel momento è il suo vero vicario (vicarius Christi). 13. Il rito della concelebrazione nella Messa dell'ordinazione sacerdotale deve rimanere invariato, ad eccezione del rito della Comunione, che potrebbe essere svolto come sopra descritto. Ci sono le seguenti ragioni per mantenere il tradizionale rito della concelebrazione per l'ordinazione sacerdotale: (1) L'eminente carattere pedagogico. Per il sacerdote appena ordinato viene data questa introduzione graduale psicologicamente molto appropriata al momento tremendo e sacro di offrire per la prima volta il Sacrificio della Croce incruento. Così i neopresbiteri restano dietro al vescovo e non direttamente all'altare, e in posizione inginocchiata. Tutto ciò esprime l'atteggiamento spirituale necessario in un tale momento: che ci si può avvicinare al Santissimo solo con profonda umiltà, con santa e delicata riservatezza. Come “apprendisti” docili e stupiti, i neo-ordinati sacerdoti sono introdotti a realizzare il più grande potere spirituale che è dato agli uomini, cioè offrire il Sacrificio della Croce e transustanziare in persona Christi pane e vino nel Corpo vivo ed immolato e nel Sangue di Cristo. Infatti, nell'allocuzione prima dell'ordinazione, il vescovo dice: “ cum magno timore ad tantum gradum accendendum est” (bisogna ascendere a così grande grado con tanto timore). Nell'ultima ammonizione al termine della messa, il vescovo dice al neo ordinato sacerdote che la celebrazione della santa Messa è una “cosa alquanto pericolosa” (“ res, quam tractaturi estis, satis periculosa est”). Pertanto, dice il vescovo, prima di iniziare a celebrare la Messa, devono imparare a celebrarla diligentemente da sacerdoti esperti (“ ab aliis iam doctis sacerdotibus discatis”). (2) Il rito dell'ordinazione sacerdotale dispiega gradualmente, attraverso segni e azioni impressionanti, i vari poteri spirituali del sacerdozio: prima il potere di offrire il sacrificio della Messa e poi il potere di assolvere i peccatori nel

sacramento della penitenza. Pertanto, alla fine della Messa, il vescovo dispiega ritualmente la casula, alla quale era stata fissata la parte posteriore, pronunciando le parole: "Ricevi lo Spirito Santo: a chi rimetti i peccati, sono rimessi", ecc. (3) Il posto e la posizione subordinati occupati dai neo-presbiteri rispetto al vescovo celebrante è una dimostrazione molto eloquente della verità teologica che i sacerdoti possiedono il " munus secundi meriti" (cfr. Preghiera dell'ordinazione), cioè essi avere il secondo grado subordinato del sacerdozio. Sono chiamati nel rito dell'ordinazione “ sacerdotes minoris ordinis” (cfr. Allocutio episcopi). (4) Dimostra il fatto che un sacerdote non può celebrare lecitamente la Santa Messa senza l'autorizzazione effettiva o abituale del Vescovo della diocesi. Nel celebrare la Santa Messa, il sacerdote è in qualche modo sempre dipendente e subordinato al vescovo del luogo. 14. Nelle concelebrazioni eucaristiche non sacramentali, quando sacerdoti o vescovi assistono nel santuario senza paramenti della Messa e vogliono ricevere la Santa Comunione, la devono ricevere dalle mani del celebrante principale. Indossano la stola e, inginocchiati sul gradino più alto dell'altare, ricevono il Corpo di Cristo direttamente sulla lingua. Allora potevano ricevere anche il calice del Sangue di Cristo. La loro partecipazione alla Messa e alla Santa Comunione dovrebbe essere in qualche modo distinta da coloro che non sono ordinati sacramentalmente o non sacerdoti. Conclusione

In conclusione, vale la pena citare la seguente appropriata osservazione di un grande teologo cattolico anglicano, il dottor Eric Mascall, come riportato da p. John Hunwicke: “Se, scriveva Mascall, vuoi far capire a qualcuno in che cosa consiste realmente l'organizzazione della Messa, la cosa migliore che puoi fare è portarlo in una chiesa con molte messe private simultanee in corso e dirgli che i diversi sacerdoti che dicono le loro diverse messe ai loro diversi altari non stanno facendo cose diverse ma la stessa cosa, che stanno tutti prendendo parte all'unica eterna Liturgia il cui celebrante è Cristo e che il loro sacerdozio è solo una partecipazione al suo ... La moltiplicazione delle messe sottolinea la reale unità

della Messa e la vera natura del carattere corporativo della Chiesa come nient'altro può ... ciò che rende la Messa unica e collettiva non è il fatto che molte persone sono insieme allo stesso servizio, ma il fatto che è l'atto di Cristo nel suo corpo ( corpus) la Chiesa ... Guarda quegli uomini ai loro vari altari tutt'intorno alla chiesa, ognuno di loro apparentemente borbotta da solo e non ha niente a che fare con gli altri. In realtà, stanno facendo tutti la stessa cosa - la stessa essenzialmente, la stessa numericamente - non solo molte cose diverse dello stesso tipo, ma la stessa identica cosa; ciascuno di loro prende la sua parte di sacerdote nell'unico atto redentore che Cristo, morto per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione, perpetua nella Chiesa che è il suo Corpo per mezzo del sacramento del suo corpo e del suo sangue” (liturgicalnotes.blogspot.com, 13 marzo 2021). Padre Hunwicke conclude dicendo: "Sarebbe meraviglioso se la scena che descrive tornasse nella vita delle nostre chiese ... immagina la basilica di Lourdes ogni mattina con un continuo via vai di sacerdoti agli altari dei quindici misteri". La celebrazione eucaristica è il segno più perfetto ed efficace della Chiesa, Corpo mistico di Cristo, nella sua mirabile unità, che è edificata dalla diversità gerarchica. Pertanto, la pratica della concelebrazione eucaristica deve essere tale da manifestare visibilmente più chiaramente questa verità. C'è un solo Cristo, un solo capo e un solo sommo sacerdote, che è il celebrante principale della Messa. La pratica originale, universale e costante della concelebrazione eucaristica secondo la norma originaria dei Padri ( pristina norma Patrum) è la forma particolarmente solenne, presieduta da un celebrante principale, che gerarchicamente deve essere distinto dagli altri concelebranti, uno che non è solo " primus inter pares", ma anche visibilmente un "capo", che rappresenta come " vicarius Christi" a diversi livelli - Papa , Legato pontificio, metropolita, vescovo diocesano, vescovo ordinante con mandato papale - l'unico capo divino di tutto il corpo. A una tale forma di concelebrazione eucaristica si potrebbero applicare queste parole di san Paolo sul Corpo mistico di Cristo: "Da cui tutto il corpo è opportunamente unito e compattato da ciò che ogni parte fornisce, secondo l'effettivo lavoro nella misura di ogni parte, accresce il corpo all'edificazione di se stesso nell'amore” (Ef 4:16). Il Corpo mistico di Cristo è una gerarchia organica e vivente di ordine e amore. E così dovrebbe essere la forma della celebrazione più solenne dell'Eucaristia, il sacramentum Corporis Christi, che è il sacramentum caritatis, poiché il senso più

profondo del Corpus Christi Mysticum si rivela nel Corpus Christi Eucharisticum. Possa la pratica della concelebrazione eucaristica sacramentale essere ancora una volta " bene ordinata ... ad pristinam normam Patrum", ben ordinata a norma dei Padri, che doveva essere un principio guida del rinnovamento della sacra liturgia da parte del Concilio Vaticano II (cfr. Sacrosanctum Concilium, 50) e della riforma tridentina di Papa Pio V. (cfr. la bolla “ Quo primum”). Traduzione di Aurelio Porfiri

CONCELEBRAZIONE SACRAMENTALE O CERIMONIALE? IL DILEMMA PERMANE E SI AGGRAVA

Mons. Nicola Bux (teologo e liturgista)

1. La Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium (= SC) 57, afferma: § 1. La concelebrazione, che manifesta in modo appropriato l’unità del sacerdozio, è rimasta in uso fino ad oggi nella Chiesa, tanto in Oriente che in Occidente. Perciò al concilio è sembrato opportuno estenderne la facoltà ai casi seguenti:

1. a) al Giovedì santo, sia nella Messa crismale che nella Messa vespertina;

b) alle Messe celebrate nei concili, nelle riunioni di vescovi e nei sinodi; c) alla Messa di benedizione di un abate. 2. Inoltre, con il permesso dell’ordinario, a cui spetta giudicare sulla opportunità della concelebrazione: a) alla Messa conventuale e alla messa principale nelle diverse chiese, quando l’utilità dei fedeli non richieda che tutti i sacerdoti presenti celebrino singolarmente; b) alle Messe nelle riunioni di qualsiasi genere di sacerdoti tanto secolari che religiosi. §2. 1. Spetta al vescovo regolare la disciplina della concelebrazione nella propria diocesi;

2. Resti sempre però ad ogni sacerdote la facoltà di celebrare la Messa individualmente, purché non celebri nel medesimo tempo e nella medesima chiesa in cui si fa la concelebrazione, e neppure il giovedì santo. SC 58: Venga redatto un nuovo rito della concelebrazione da inserirsi nel pontificale e nel messale romano [1] . La Costituzione liturgica, quindi, ha stabilito l’ampliamento del ricorso alla concelebrazione della santa Messa da parte di più sacerdoti, dando mandato per la formulazione di un nuovo rito della concelebrazione; non chiarisce però di quale concelebrazione si tratti: sacramentale o cerimoniale. Afferma tuttavia che la concelebrazione di più sacerdoti intende favorire la percezione dell’unicità del sacerdozio nella Chiesa intorno al vescovo. La prescrive nel rito delle ordinazioni e nella Messa crismale – come già aveva disposto Pio XII – e la raccomanda per altre circostanze comunque limitate (cfr. Institutio Generalis Missalis Romani=IGMR ( editio typica tertia) n. 199) nelle quali quindi non è imposta ai sacerdoti, che hanno sempre la facoltà di celebrare la santa Messa individualmente (cfr SC 57.58) [2]. Nel Consilium ad exequendam Constitutionem de sacra liturgia, fu istituito un gruppo di studio sulla concelebrazione ( C oetus VI) che lavorò dal 2 aprile 1964 al 20 gennaio 1965. Il rito ha conosciuto per dir così una evoluzione, dal messale del 1970 all’ editio typica tertia del 2002 [3]. L’ IGMR fa diversi riferimenti normativi alla concelebrazione: n.199: è prescritta in tre occasioni ed è invece raccomandata in altre quattro, se l’utilità dei fedeli non richiede diversamente. Però non si dice che tutti i sacerdoti presenti a quelle occasioni devono concelebrare: si dice solo che in alcune occasioni è obbligatorio e in altre è raccomandabile. Persino per il Giovedì Santo alla Messa crismale, in cui la concelebrazione è obbligatoria, non è prescritto che tutti i sacerdoti concelebrino sacramentalmente. n. 201: «Quando vi è un numero considerevole di sacerdoti, se la necessità o l’utilità pastorale lo suggerisce, si possono svolgere anche più concelebrazioni nello stesso giorno; si devono tuttavia tenere in tempi successivi o in luoghi sacri diversi». Così, il principio per il quale il numero di sacerdoti deve essere limitato, viene indirettamente affermato, al punto che è possibile tenere più

concelebrazioni. n. 203: «Particolare importanza si deve dare a quella concelebrazione, in cui i presbiteri di una diocesi concelebrano con il proprio Vescovo»; e più avanti: «Si raccomanda la concelebrazione tutte le volte che i sacerdoti si radunano insieme con il proprio Vescovo». Non si dice però che tutti i sacerdoti devono concelebrare con il vescovo. n. 242: descrive il modo di comunicare dei concelebranti: «Terminata la preghiera prima della Comunione, il celebrante principale genuflette e si scosta un poco dall’altare. I concelebranti, uno dopo l’altro, si accostano al centro dell’altare, genuflettono, prendono con devozione il Corpo di Cristo e, tenendo la mano sinistra sotto la destra, ritornano al loro posto. I concelebranti possono anche rimanere al loro posto e prendere il Corpo di Cristo dalla patena presentata ai singoli dal celebrante principale o da uno o più concelebranti; possono anche passarsi l’un l’altro la patena». Si deduce con chiarezza che il titolo di «concelebrante» si può qui applicare solo a chi sta attorno all’altare. Sarebbe impossibile, infatti, comunicarsi in questo modo, se alla concelebrazione vi fossero molte decine se non centinaia di concelebranti. n. 294: si stabilisce che le sedi dei concelebranti devono essere disposte in presbiterio (cfr. anche il n. 310), se non fosse possibile, devono comunque stare vicino all’altare. Viene così confermato il principio per cui il concelebrante è un sacerdote che sta celebrando l’Eucaristia: dunque, per la verità del segno, deve stare all’altare. Quando invece inizia il prefazio, i concelebranti devono lasciare le loro sedi e andare attorno all’altare (cfr. ancora n. 215); ciò non sarebbe possibile nelle grandi concelebrazioni in cui alcuni sacerdoti possono sedere fino a cento o più metri dall’altare. Come mai l’ Institutio non prevede che le sedi dei concelebranti possano trovarsi anche a grande distanza dal presbiterio e dall’altare, come ormai difatti succede? Né dice che tutti i sacerdoti presenti ad una certa celebrazione devono concelebrare, ma solo che in alcune circostanze si deve o è opportuno che ci sia una concelebrazione? Perciò i principi di cui sopra, sembrano indirettamente affermati, anzi sono piuttosto indiscutibili nonostante la prassi attuale non sempre vi si attenga. In realtà, da più parti si osserva che la concelebrazione viene fatta anche quando non è previsto, contribuendo così a non far cogliere la funzione mediatrice del sacerdote, che non è solo presidente di assemblea, oltre che a privare i fedeli della partecipazione alla Messa in tempi e luoghi diversi.

Il rito della concelebrazione ( Ritus Servandus in Concelebratione Missae = RSCM) promulgato da Paolo VI nel 1965, prescrive non più di 50 concelebranti, affinché possano «stare attorno all’altare», anche se tutti non possono toccare immediatamente la mensa, e pronunziare le parole consacratorie sul pane e sul vino. Queste l’intenzione e l’azione esterna richieste perché si abbiano veramente concelebrazione e consacrazione simultanea; in caso contrario, dire “ questo è il mio corpo… questo è il calice…” non corrisponde - direbbero i liturgisti - alla verità del segno, e bisognerebbe dire “ quello è il mio corpo… ”. Sono le condizioni di validità della Messa concelebrata, perché sia sacramentale e non una pura cerimonia, come appunto aveva affermato Pio XII. Si badi che nei riti orientali, la concelebrazione è sconsigliata «in particolare quando il numero dei concelebranti sia sproporzionato rispetto a quello dei fedeli laici presenti» [4]. Questo dovrebbe far riflettere anche i latini. Senonché, il limite posto da Paolo VI è scomparso nel messale attuale, così sorge il dubbio di validità della celebrazione quando il numero di concelebranti deborda l’area presbiteriale o quando si svolgono all’aperto in spazi enormi. Soluzioni? Nei casi prescritti può esservi un numero rappresentativo dell’intero presbiterio diocesano: già accade di fatto, in quanto i concelebranti più importanti vestono e siedono in modi e posti distinti. Nei casi raccomandati dall’IGMR del messale, non essendovi obbligo, è bene conservare la celebrazione individuale. E poi, anche per i sacerdoti si può sempre riscoprire il valore dell’assistenza alla Messa. 2. A questo punto, sarebbe necessario ripercorrere la storia della concelebrazione dell’Eucaristia, quale rito che vede vescovi e presbiteri, esercitare in unità la mediazione sacrificale con Gesù Cristo unico e vero sommo sacerdote; così, sarebbe possibile comprendere lo sviluppo liturgico e dottrinale del rito, giungendo fino a Pio XII, che ha definito i principi dottrinali e disciplinari che hanno permesso il ripristino della concelebrazione eucaristica; alla Pontificia Commissione per la Riforma liturgica e, dopo il concilio Vaticano II, al Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia. Ma non è possibile trattarne in questo breve articolo. Prima del dicembre 1963, allorché si sarebbe concluso il II periodo del concilio, fu inviato a Paolo VI un testo in cui gli si chiedeva di concluderlo con una concelebrazione eucaristica. [5] Quella concelebrazione non avvenne, ma il testo è interessante, perché, oltre a contenere la richiesta, abbozzava una proposta di rituale di concelebrazione. Tra le varie annotazioni, interessa soprattutto la terza:

Numerus concelebrantium ita limitetur ut actio suam dignitatem obtineat et omnes concelebrantes possint faciliter decenterque verba dicere et ritus peragere [...]. Immo numquam accipiantur plures concelebrantes quam quinquaginta, donec aliter a Commissione de Liturgia postconciliari provideatur [6] . Il Consilium, nel concedere la facoltà della concelebrazione, fissava delle norme, tra le quali figurava che i concelebranti non fossero più di venti e che stessero intorno all’altare. Il 4 marzo 1965, ben presto quindi, Paolo VI approvò il decreto di promulgazione del rito della concelebrazione ( RSCM); tre giorni dopo, il 7 marzo, seguì il decreto della Sacra Congregazione dei Riti, Ecclesiae semper, in base al quale, spetta all’Ordinario o al Superiore maggiore giudicare dell’opportunità della concelebrazione, concederne il permesso, ma anche determinare « attentis adiunctis» il numero dei concelebranti « ad ritus dignitatem». Il numero dei concelebranti va determinato tenendo conto della capienza del presbiterio e della forma dell’altare, in modo che i concelebranti possano stare circum altare. Annibale Bugnini illustrò le nuove disposizioni, con le condizioni stabilite dal Consilium per concedere la facoltà di concelebrazione e tra queste la terza, ossia: «Che i concelebranti non fossero più di venti e stessero intorno all’altare» [7] . Una foto accompagna l’articolo: Paolo VI che concelebra in San Pietro sotto la Confessione del Bernini - l’altare è quadrato, ottenuto aggiungendo a quello in marmo delle ‘protesi’ mobili - insieme ai neoeletti cardinali, il 25 febbraio 1965. Al centro dell’altare è il crocifisso, cui tutti i concelebranti possono guardare mentre concelebrano, in quanto stanno attorno ai quattro lati, fisicamente accostati all’altare. I concelebranti risultano ventitré (tre in più del limite fissato di venti, limite ufficialmente notificato nel decreto del 7 marzo). Da quanto detto, si deducono tre condizioni per i concelebranti: 1) devono stare intorno all’altare; 2) perciò il numero deve essere limitato; 3) non si deve progettare l’altare o il presbiterio in base al numero dei concelebranti, ma viceversa fissare il numero di questi in base ai primi. La disposizione dei concelebranti attorno all’altare, si deduce da alcuni libri liturgici: per esempio, l’ Ordo III (fine del sec. VIII), secondo supplemento dell’ Ordo romanus I della Messa papale [8] ; esso riferisce che i concelebranti si mettono all’altare a destra e a sinistra del primo celebrante: In diebus autem

festis [...] presbyteri cardinales [...], accedente pontifice ad altare, dextra levaque circumdant altare et simul cum illo canonem dicunt [...] et simul consecrant corpus et sanguinem Domini. Così pure per la concelebrazione dei neopresbiteri: « A dextra et leva altaris cum missalibus suis et dicunt totum submissa voce, sicut si celebrarent» [9] . Gli studiosi che commentarono la Costituzione liturgica, asseriscono: a) le fonti della tradizione mostrano che la concelebrazione è un fatto straordinario, pubblico e solenne; b) i concelebranti devono stare attorno all’altare; c) perciò i concelebranti devono essere in numero limitato. Adalberto Franquesa, membro del Coetus VI, è stato tra i primi a commentare gli articoli della Costituzione liturgica sulla concelebrazione [10] . Egli nota che il concilio non ha voluto determinare il numero dei concelebranti, ma che è meglio se tale numero sia basso: ciò facilita la preservazione della maestà e dignità del rito liturgico ed evita una serie di problemi che si presentano quando il numero dei concelebranti è alto. Inoltre, la SC dice che i concelebranti devono stare attorno e davanti all’altare ( circa et in conspectu altaris). Ferdinando Dell’Oro [11] , affrontando la questione se sia possibile concelebrare anche solo in modo cerimoniale e non sacramentale, sostiene che «ora non è più possibile» ammettere simile pratica. Dice “ora” riferendosi agli insegnamenti di Pio XII e del S. Uffizio, che si era così espresso: «[Nella concelebrazione] non è sufficiente avere e manifestare la volontà di fare proprie le parole e le azioni del celebrante.I concelebranti devono essi stessi pronunziare sul pane e sul vino: “Questo è il mio Corpo”, “Questo è il mio Sangue”; se no, la loro concelebrazione è puramente cerimoniale» [12] . Si noti che Pio XII usa l’espressione concelebrazione di “cerimonia”, quindi non sembra escludere in linea di principio questa possibilità [13] , ma anche insegna che la concelebrazione sacramentale è solo quella nella quale il concelebrante pronuncia le parole consacratorie. Perciò il Sant’Uffizio, nel 1957, rispondendo ad un quesito che chiede se la Messa sia validamente celebrata nel caso in cui non vengano pronunciate le parole consacratorie e tuttavia si avesse l’intenzione di fare propri i gesti e le parole del celebrante principale, risponde: « Negative, nam ex institutione Christi, ille solus valide celebrat qui verba consecratoria pronuntiat» [14] . Dell’Oro poi afferma che non conosciamo come avveniva la celebrazione nella Chiesa antica; se così fosse, non bisognerebbe parlare di concelebrazione

sacramentale nella Chiesa antica, perché, come nota un autore del IX secolo, non esiste una concelebrazione sacramentale silenziosa. La concelebrazione sacramentale è quella in cui i concelebranti dicono le parole e compiono i gesti del celebrante principale: « Mos est romanae ecclesiae ut in confectione immolationis Christi assint presbiteri, et simul cum pontifice verbis et manibus conficiant» [15] . Burkhard Neunheuser osserva che il Canone della Messa è espressamente testimoniato intorno alla metà del II secolo (2 Apologia di Giustino) e riportato dalla Traditio apostolica di Ippolito. E aggiunge: «Per la nostra ricerca è importante tener fermo che si tratta sempre di preghiera detta liberamente, che per sua natura può essere eseguita solo da un singolo [...]. Questo è importante perché ne segue immediatamente che fino a quando il Canone – cioè la preghiera eucaristica – fu detta “liberamente” risultò per ciò stesso esclusa una sua esecuzione collegiale. Questa esecuzione cominciò a diventare possibile solo con la fissazione di quella preghiera» [16] . A questo punto vi sarebbero due deduzioni: che prima del IV secolo (epoca in cui si fissò il Canone della Messa) si usasse concelebrare sacramentalmente anche senza dire le parole con il celebrante principale – non era infatti possibile dirle, perché il celebrante principale pregava “a braccio” – oppure, che fino al IV secolo non ci sia stata concelebrazione sacramentale, ma solo cerimoniale, proprio perché i “concelebranti” non dicevano le parole del Canone. Questi usi sono stati entrambi praticati. Certo, il dato è che fino al IV secolo non esisteva la forma di concelebrazione che c’è oggi e quindi non si può comparare sic et simpliciter la “concelebrazione antica” con quella attuale. Inoltre, se vale ancora l’insegnamento di Pio XII – ossia che si ha concelebrazione sacramentale solo quando il concelebrante dice le parole consacratorie – si deve dedurre che in antico esisteva un ampio uso della concelebrazione, ma non si trattava di una concelebrazione sacramentale bensì solo cerimoniale, quindi essenzialmente diversa da quella attuale. Negli studi liturgici sulla concelebrazione, c’è stato un capovolgimento rispetto alle posizioni iniziali, che ha portato ad interpretare le stesse testimonianze in modo opposto rispetto al passato. Ciò si spiega in base a diversi fattori, a cominciare dal fatto che, già prima del Vaticano II, gli specialisti si stavano interrogando sul tema della concelebrazione, si pensi alla scuola di Treviri e a quella parigina; ma qui non possiamo soffermarci. Invece, dal Responsum del Sant’Uffizio anzidetto, ne consegue che, non solo da

Pio XII in poi bisogna ritenere come valida concelebrazione sacramentale quella in cui sono pronunciate le parole del Canone, come se si trattasse di una disposizione di diritto positivo dell’autorità ecclesiastica (questa è la tesi attuale dei liturgisti), ma che Cristo stesso ha stabilito il collegamento tra atto sacramentale e dizione delle parole consacratorie: quindi, qui siamo nel diritto divino. L’errore metodologico parte dall’idea di dover giustificare la concelebrazione sacramentale basandola sull’uso antico della Chiesa e, per far ciò, rifiuta un Responso del S. Uffizio, preferendo ad esso l’opinione di un liturgista. Va aggiunto che questo sviluppo nella posizione dei liturgisti, più che dal testo di Sacrosanctum Concilium, dipende dal concreto svolgersi degli eventi e delle decisioni a riguardo della concelebrazione. Se, dunque, si cerca il fondamento teologico della concelebrazione sacramentale, bisogna rifarsi al RSCM ed alla istruzione Ecclesiae semper: nulla di quanto prodotto in seguito aggiunge qualcosa di qualificante rispetto a questo. Da notare poi, che la fondazione teologica dell’attuale concelebrazione non si trova nella Sacrosanctum Concilium, che fornisce solo affermazioni molto generali e insufficienti ad una chiarificazione definitiva, ma nella riforma postconciliare che ha pure determinato la prassi celebrativa. Con l’ampliamento di fatto, poi, della concelebrazione, che è diventata un fatto normale e frequentissimo, anzi quotidiano, lentamente si è modificata anche la teologia liturgica della concelebrazione, fino alla revisione, o al capovolgimento dell’esegesi operata sulle testimonianze della tradizione. Il rito promulgato da Paolo VI conferma – anzi persino restringe – le indicazioni date dai primi commentatori della Costituzione liturgica: la proposta di rito di concelebrazione fatta durante il concilio a Paolo VI proponeva un numero massimo di cinquanta; Paolo VI, nell’approvare il nuovo rito, lo ha abbassato a venti. Inoltre, il rito approvato dice che i concelebranti devono stare attorno all’altare. Da rilevare anche il principio per cui l’opportunità della concelebrazione va valutata dall’Ordinario, al quale compete anche fissare il numero dei concelebranti (comunque, mai più di venti) in base alla logistica: presbiterio ed altare. Al di là del numero (venti) che può cambiare (aumentando, ma anche diminuendo) con la promulgazione di nuove disposizioni rubricali, resta fisso il principio: il numero si stabilisce in base all’altare e non l’altare in base al numero. Non bisogna costruire altari smisurati o presbitéri sproporzionati lì dove si prevede grande afflusso di concelebranti, bensì limitare il numero dei concelebranti in virtù dello spazio a disposizione.

Dunque, la prassi attuale non si può giustificare univocamente con il richiamo alla Chiesa antica: lo studio storico – pur lasciando qui in sospeso il tema dell’esistenza o meno di una concelebrazione puramente cerimoniale nei primi quattro secoli – dimostra che quanto si fa oggi avviene in forma diversa dalla concelebrazione antica [17] . Quindi l’attuale prassi non è una semplice ripresa dell’ usus antiquior. 3. L’elemento centrale del sacrificio eucaristico è quello dove Cristo interviene “offrendo se stesso”, [18] di qui l’importanza della consacrazione del pane e del vino: è il punto centrale dell’ “ azione di Cristo la cui Persona è agita dal sacerdote celebrante, o anche dai sacerdoti concelebranti” in caso di vera concelebrazione, ossia sacramentale. Ora, la questione decisiva per la Messa concelebrata come per la Messa di un solo sacerdote, è di conoscere questa natura dell’atto: se il sacerdote, come ministro di Cristo, compie o no “l’azione di Cristo che si sacrifica e offre se stesso”. Questo non avviene nelle concelebrazioni dove il prete non può pronunciare sul pane e sul vino le parole del Signore: questo è il mio Corpo…questo è il mio Sangue…, cioè quando i sacerdoti non sono attorno all’altare. Infatti, la potestà propria del sacerdote del N.T. è di offrire il santo sacrificio della Messa. Egli, agendo in persona Christi, sacrifica, e solo lui, non il popolo, non i chierici, nemmeno altri sacerdoti presenti, sebbene tutti possono e hanno qualche parte attiva [19]. Però è ancora diffuso l’errore da cui metteva in guardia Pio XII: che la celebrazione di una sola Messa a cui assistono per quanto devotamente cento sacerdoti, sia la stessa cosa di cento Messe celebrate da cento sacerdoti. Invece, l’offerta del sacrificio eucaristico vuole che, tante sono le actiones di Cristo sacerdote, quanti sono i sacerdoti celebranti; non quelli assistenti, che sono paragonabili ai fedeli, il cui “sacerdozio comune” è differente non solo di grado ma di essenza. Queste affermazioni di Pio XII [20] saranno riprese tal quali dalla Costituzione Lumen gentium n. 10 del Vaticano II. Quindi, il punto centrale dottrinale della concelebrazione è che “Cristo agisce non per mezzo dei vari concelebranti, ma per mezzo di uno soltanto”: è ciò per cui la consacrazione sia validamente compiuta. Per capire quale sia la natura dell’atto perché sia sacramentale, in special modo le parole consacratorie vanno pronunziate sul pane e sul vino [21]; come sta a dimostrare anche l’aggettivo dimostrativo questo è il mio Corpo…. È ciò che rende la concelebrazione, sacramentale o consacratoria, nel senso vero e proprio della parola: Cristo, invece di agire per il tramite di un solo ministro, agisce per mezzo di più ministri; altrimenti sarebbe una concelebrazione cerimoniale, quale potrebbe

esser fatta anche da un laico, dove non si ha affatto una consacrazione simultanea. Si comprende a questo punto, anche il valore dottrinale del RSCM di Paolo VI, mai abolito, sebbene inserito con successive inspiegabili modifiche e trasformazioni nel Pontificale e nel Messale – tipico caso in cui la riforma postconciliare ha “bypassato” l’intenzione del concilio e del Papa –: “il rito della concelebrazione manifesta visibilmente l’unione tra il sacrificio di Cristo e il sacerdozio, nonché l’azione unitaria di tutto il popolo santo di Dio gerarchicamente ordinato ed operante assieme al proprio vescovo”. Dei nove titoli di cui è composto, il rito, oltre al primo, tratto da SC n. 57, rileveremo solo il n. 4 circa il fatto che i concelebranti debbano stare intorno all’altare, sebbene non tutti debbano essere contigui alla mensa, e il numero debba essere non più di cinquanta. Lo stare intorno all’altare « circum altare stare possint, etsi omnes mensam altaris immediate non tangunt», sembra una delle condizioni perché vi sia la concelebrazione sacramentale e non appena cerimoniale, ossia è una condizione di validità. Se i sacerdoti sono distanti dall’altare, le parole consacratorie non vengono pronunziate sul pane e sul vino: « hoc est enim Corpus…hic est enim Calix…» e bisognerebbe mutarle in “ illud….ille”… La non ottemperanza di tale principio, secondo il grande studioso della liturgia Klaus Gamber, dopo la riforma liturgica avrebbe fatto aumentare considerevolmente il numero delle messe invalide [22] . Quindi andrebbe ripristinato il numero limitato dei concelebranti, perché lo stare attorno all’altare è condizione di validità della Messa concelebrata. Questa, tra l’altro, è la vera ragione di evitare “grandi concelebrazioni”. In casi straordinari, come la Messa crismale, la concelebrazione potrebbe essere fatta da un numero rappresentativo di sacerdoti contenuto dall’area presbiterale, mentre gli altri assistono con cotta e stola e fanno la Comunione. Del resto già ora si rispettano distinzioni e precedenze in tal senso: sul presbiterio, intorno al vescovo, vanno i capitolari, i vicari, i parroci, magari con le casule, mentre tutti gli altri si dispongono nella navata come i fedeli: per questi si tratta di fatto di assistenza, anche perché sono rivolti ad Dominum (sic). S’impone un ridimensionamento della frequenza della concelebrazione. Un esempio da seguire può essere quello dei Certosini: quotidianamente la Messa conventuale è celebrata dall’ebdomadario, mentre i monaci, anche se sacerdoti, vi assistono e si accostano alla Comunione, poi ciascuno celebra la Messa

individualmente. Nelle domeniche e feste invece c’è solo la Messa conventuale concelebrata da tutti i monaci. 4. La concelebrazione eucaristica si è diffusa a dismisura, giustificata dall’attenzione al popolo di Dio, sganciato però dall’attenzione al fatto che l’eucaristia è un atto a cui possono partecipare solo quanti hanno fatto l’iniziazione cristiana; per interessare gli estranei c’è la processione eucaristica. Cosi siamo giunti a ritenere che le grandi basiliche non sono sufficienti, e si è introdotto l’uso di concelebrare negli stadi, nelle piazze e anche in ampie radure. Presso la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti si trova ampia documentazione dei problemi che sorgono in occasione di queste concelebrazioni affollate di sacerdoti e laici. Questo, non solo non ha precedenti nella tradizione della Chiesa, ma non trova fondamento nei documenti della riforma liturgica postconciliare. Benedetto XVI, ha risposto così ad una domanda di un sacerdote romano, riguardo alle difficoltà incontrate durante una concelebrazione presieduta dal Papa stesso a Loreto nel 2007: «Considerando le migliaia di persone che c’erano, era impossibile, credo, far sì che tutti potessero essere vicini [al palco] allo stesso modo. [...] Un grande problema è quello invece delle liturgie alle quali partecipano masse di persone. Mi ricordo nel 1960, durante il grande congresso eucaristico internazionale di Monaco, si cercava di dare una nuova fisionomia ai congressi eucaristici, che sino ad allora erano soltanto atti di adorazione. Si voleva mettere al centro la celebrazione dell’Eucaristia come atto della presenza del mistero celebrato. Ma subito è nata la domanda sul come fosse possibile. Per adorare, si diceva, lo si può fare anche a distanza; ma per celebrare è necessaria una comunità limitata che possa interagire con il mistero, dunque una comunità che doveva essere assemblea attorno alla celebrazione del mistero. Molti erano quelli contrari alla celebrazione dell’Eucaristia in pubblico con centomila persone. Dicevano che non era possibile proprio per la struttura stessa dell’Eucaristia, che esige la comunità per la comunione. Erano anche grandi personalità, molto rispettabili, quelle contrarie a questa soluzione. Poi il professor Jungmann, grande liturgista, uno dei grandi architetti della riforma liturgica, ha creato il concetto di statio orbis, cioè è tornato alla statio Romae dove proprio nel tempo della Quaresima i fedeli si raccolgono in un punto, la statio: quindi sono in statio come i soldati per Cristo, poi vanno insieme all’Eucaristia. Se questa, ha detto, era la statio della città di Roma, dove la città di Roma si riunisce, allora questa è la statio orbis. E dal quel momento abbiamo le celebrazioni eucaristiche con la partecipazione delle masse. Per me, devo dire,

rimane un problema, perché la comunione concreta nella celebrazione è fondamentale e quindi non trovo che la risposta definitiva sia stata realmente trovata. Anche nel Sinodo scorso ho fatto emergere questa domanda, che però non ha trovato risposta. Anche un’altra domanda ho fatto fare, sulla concelebrazione in massa: perché se concelebrano, per esempio, mille sacerdoti, non si sa se c’è ancora la struttura voluta dal Signore. [...] Si deve riflettere bene dunque sul cosa fare in queste situazioni, come rispondere alle sfide di questa situazione» [23] . Il sinodo a cui Benedetto si riferisce, è quello del 2005 sull’Eucaristia. Jungmann, circa la statio orbis, potrebbe aver attinto da Leon Duchesne [24], secondo il quale la concelebrazione a Roma avveniva nelle Messe stazionali soltanto; ma Dell’Oro obietta che la descrizione della Messa stazionale presieduta dal pontefice nei primi secoli, non presenta una concelebrazione [25]. Dunque, si dovrebbe, di norma, celebrare nelle chiese e non negli stadi o in altri luoghi all’aperto, onde rendere possibile l’identificazione della comunità cristiana rispetto ai passanti estranei. La questione resta aperta, ma col tempo si sta appannando la natura del sacramento eucaristico, che è per gli iniziati e i riconciliati, non per oves et boves, ovvero, per dirla con Gesù Cristo, perla da collocare davanti ai porci. Su tutto, però, prevarrà la drastica diminuzione dei sacerdoti e dei fedeli, e il sacerdote tornerà a celebrare per pochi cristiani, e la concelebrazione tornerà nell’oblio.

[1] CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Sessione III, Costituzione « Sacrosanctum concilium» sulla sacra liturgia, n 57. 58, Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Bologna 1991 (= COD), pp. 831-832.

[2] Cfr. Codice di Diritto Canonico, can 903.

[3] Cfr. N. GIAMPIETRO, La concelebrazione eucaristica e la comunione sotto le due specie nella storia della Liturgia, Fede & Cultura, Verona 2011, p 330. Segnalo in particolare l’Appendice a p 184 e s. L’autore, nonostante il

divieto d’accesso agli studiosi, afferma di aver potuto attingere ai documenti originali contenuti nei fascicoli d’archivio; quindi può presentare gli schemi di lavoro del gruppo 16 incaricato dal Consilium, così composto: relatore Cipriano Vagaggini, segretario Adalberto Franquesa, membri Johannes Wagner, Aimé-George Martimort, Balthasar Fisher, Bernard Botte, Burkhard Neunheuser, Ansgar Dirks, Rinaldo Falsini.

[4] CONGREGAZIONE PER LE CHIESE ORIENTALI, Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1996, n. 57.

[5] Secondo Bugnini, l’autore del testo sarebbe stato Cipriano Vagaggini, in quanto rispecchiava ciò che andava scrivendo in quegli anni sulla concelebrazione: cfr. ad esempio «Il valore teologico e spirituale della Messa concelebrata», Rivista liturgica 52 (1965), pp. 189-219.Il testo è stato pubblicato da C. BRAGA, «Una concelebrazione mai realizzata», Ephemerides liturgicae 118 (2004), pp. 3-10.

[6] Cit. in C. BRAGA, «Una concelebrazione mai realizzata», pp. 6-7. Per un commento, cfr. A.G. MARTIMORT, «Le rituel de la concélébration eucharistique», Ephemerides liturgicae 77 (1963), pp. 147-168.

[7] A. BUGNINI, «Il rito della Concelebrazione», Osservatore Romano, 25.03.1965, p. 5.

[8] Cf. M. ANDRIEU, Les Ordines Romani du haut moyen-âge, Spicilegium Sacrum Lovaniense, Louvain 1956-1965 (5 voll.).

[9] IDEM, Le Pontifical romain au moyen-âge, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1938, II, p. 349. In questo secondo caso resta il dubbio se si tratti di una celebrazione sacramentale visto che si dice «sicut si celebrarent» (come se celebrassero da soli).

[10] Cfr. A. FRANQUESA, «De concelebratione», Ephemerides Liturgicae 78 (1964), pp. 296-308.

[11] Cfr. F. DELL’ORO, «La concelebrazione eucaristica: dalla storia alla pastorale», Rivista liturgica 52 (1965), pp. 220-251.

[12] PIO XII, Allocutio «Vous nous avez demandé», 22.09.1956: AAS 48 (1956), p. 717; Traduzione italiana: Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale di liturgia pastorale, Roma, 22 settembre 1956 in: La Civiltà Cattolica 107 IV (1956) pp. 211-212.

[13] Cfr. dello stesso Pontefice, l’ Allocutio «Magnificate Dominum mecum», 02.11.1954.

[14] Decretum Sancti Officii, 8 Mart. (23 Maii) 1957: DS 3928.

[15] AMALARIO, Liber officialis, I, 12.

[16] B. NEUNHEUSER, «Il Canone nella concelebrazione», Rivista liturgica 53 (1966), pp. 581-592 (585).

[17] Anche la Ecclesiae semper riconosce che «la concelebrazione del mistero eucaristico viene riconosciuta nella Chiesa fin dall’antichità, ed evolutasi in vario modo [ diversimode evoluta], sia in Oriente che in Occidente, è rimasta in uso fino ad oggi» (EV 2, n. 387).

[18] CONCILIO DI TRENTO, sessione XXII, cap.2.

[19] Pio XII, Allocutio «Magnificate Dominum mecum», 02.11.1954: AAS, 1 c p. 668. Questo intervento, sarà ripreso nell’altro più noto: Allocutio « Vous nous avez demandé», cit. n.13.

[20] Cfr.PIO XII , Allocutio «Magnificate Dominum mecum», cit. p.669.

[21] Cfr. PIO XII, Allocutio« Vous nous avez demandé»,ibidem.

[22] K. GAMBER, La réforme liturgique en question, Éditions SainteMadeleine, Le Barroux 1992, p. 43.

[23] BENEDETTO XVI, Incontro con i Parroci e il Clero della Diocesi di Roma, 07.02. 2008.

[24] L. DUCHESNE in Origines du culte chrétien. Étude sur la liturgie latine avant Charlemagne, Fontemoing, Paris 1909 ⁵, p. 178 nota 2.

[25] F. DELL’ORO, «La concelebrazione eucaristica: dalla storia alla

pastorale», p. 227.