Il trionfo di Proteo. Tecnica e metamorfosi dell’umano 8855292943, 9788855292948

Il presente studio propone un’interpretazione del pensiero della tecnica del Novecento (Spengler, Jünger, Heidegger, Geh

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Il trionfo di Proteo. Tecnica e metamorfosi dell’umano
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Sandro Gorgone Il trionfo di Proteo

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Tecnica e metamorfosi dell’umano

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Anthropos

Collana diretta da Carmine Di Martino

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Comitato scientifico: Étienne Bimbenet, Petar Bojanić, Eugenio Mazzarella, Dominique Pradelle, Caterina Resta, Giusi Strummiello, Davide Tarizzo.

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Anthropos | 4

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Sandro Gorgone

Il trionfo di Proteo Tecnica e metamorfosi dell’umano

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© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Anthropos ISSN: 2533-0985 n. 4 - dicembre 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-294-8 ISBN – Ebook: 978-88-5529-324-2 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Vasilij Kandinskij, Verso l’alto (Empor), 1929, olio su cartone, 70 × 49 cm. Venezia, Collezione Peggy Guggenheim.

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a Laura, Elisa e Miriam, nella loro luce

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L’idea della metamorfosi è un dono che viene dall’alto, molto solenne, ma al tempo stesso molto pericoloso. (J.W. Goethe, La metamorfosi delle piante) Per l’esistenza è meglio l’onda. Alle acque eterne ti porterà Proteo-Delfino. (J.W. Goethe, Faust, 8315-8317) Tutto muta, nulla perisce. Lo spirito è errabondo […] E dagli animali Passa al corpo umano E il nostro negli animali. E non si consuma nel tempo E come la duttile cera Si plasma in nuove figure. (Ovidio, Metamorfosi, XV, 165) Ciò che dispone il corpo umano così che possa essere affetto in più modi, o che lo rende atto a modificare in più modi i corpi esterni, è utile all’uomo […] e al contrario è nocivo ciò che rende il corpo meno atto a queste cose. (B. Spinoza, Etica, IV, 38) Non c’è nessuno tra tutti noi che non potrebbe anche essere un altro. A un cespuglio basta anzitutto essere un cespuglio. Ma un uomo può diventare per così dire tutto, incompleto com’è. Oscuro e indefinito come è in sé, nelle sue pieghe. (E. Bloch, Il principio speranza, V)

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Introduzione

Nella prefazione al secondo volume della sua opera fondamentale, L’uomo è antiquato, edito nel 19801, Günther Anders definisce la sua ricerca un’antropologia filosofica nell’era della tecnocrazia, intendendo per tecnocrazia non già il dominio dei tecnocrati, ma il fatto che il mondo in cui viviamo è, ormai, un mondo completamente tecnico. Che la tecnica sia «ormai diventata il soggetto della storia con la quale noi siamo soltanto “costorici”»2 ha conseguenze non soltanto sul futuro degli individui e dell’intera umanità, ma sullo stesso statuto ontologico ed etico dell’umano: come mostra in modo sempre più evidente e inquietante lo straordinario sviluppo delle biotecnologie e dell’ingegneria genetica, l’uomo è tecnicamente modificabile, anzi noi siamo già mutati e «questo esser mutati è così fondamentale, che chi parla oggi del suo “essere” […] è una figura dell’altroieri»3. La presente ricerca parte da questo 1.  G. Anders, L’uomo è antiquato. II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale (1980), tr. it. di M.A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 2.  Ivi, p. 3. Tale assunzione della tecnica a ruolo di unico soggetto storico viene, però, costantemente dissimulata. 3.  Ibidem.

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presupposto che già i teorici primonovecenteschi del carattere rivoluzionario della tecnica avevano intuito4, per estenderlo fino a delineare una sorta di ontologia metamorfica della tecnica, con lo scopo di rintracciare nel concetto di metamorfosi il nucleo fondamentale del fenomeno della tecnica e del mondo da essa improntato. La tecnica è, infatti, la forma più efficace mai sperimentata di dominio sul divenire e la più potente forza di mutazione antropologica: facendo eco alle celebri affermazioni dell’Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola, l’uomo è ora percepito come l’essere proteiforme per eccellenza, interiormente disposto alla metamorfosi: come afferma ancora Anders, «la capacità di cambiare il nostro mondo (anzi, non soltanto il nostro, ma il mondo in generale) e noi stessi, appartiene paradossalmente alla nostra “natura”»5. La variante introdotta da Anders del dislivello prometeico come squilibrio tra ciò che possiamo produrre e la nostra capacità di adattamento fisico, etico e morale al cambiamento si potrebbe riformulare nel senso di uno squilibrio tragico tra la capacità di trasformazione del reale e dell’uomo e l’assenza di ogni finalità che possa orientare tale trasformazione. La strabiliante parabola del progresso tecnico-scientifico sembrerebbe ricondurci alla definizione fondamentale del nichilismo formulata da Nietzsche: «Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al “perché?”»6. L’intera società dei consumi e dell’in4.  Mi riferisco qui soprattutto a Oswald Spengler e al suo Der Mensch und die Technik del 1931 (L’uomo e la tecnica. Contributo a una filosofia della vita, tr. it. di G. Gurisatti, Guanda, Parma 1992) e a Ernst Jünger che, nel suo profetico testo Der Arbeiter del 1932, sviluppa una vera e propria fenomenologia del mondo tecnicamente modificato a partire dall’intuizione della Gestalt del lavoro totale: cfr. E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma (1932), tr. it. di Q. Principe, Guanda, Parma 1991. 5.  G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 4. 6.  F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VIII/1, tr. it. di S. Giametta,

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formazione mass-mediatica potrebbe, forse, interpretarsi come una colossale rimozione di tale tragica affermazione di impotenza teorica, attanagliati come siamo, nelle nostre opulente società occidentali, nella morsa di una collettiva “mancanza di bisogno”. In modo sempre più ineluttabile, se pure per lo più inappariscente, le nostre esistenze vengono integrate nell’apparato tecnico-mediatico che sovrasta ogni volontà individuale e segue esclusivamente le proprie ferree leggi di autopotenziamento. Nel presente studio la figura mitica del dio Proteo e la sua ampia costellazione simbolica verranno utilizzate come riferimento per pensare non soltanto il radicale cambiamento antropologico e assiologico determinato dalla rivoluzione tecnica moderna, ma anche per indagare l’ambiguità insita nella tecnica stessa per cui essa è, secondo la celebre espressione di Oswald Spengler, tattica della vita escogitata dall’uomo per emanciparsi dai limiti biologici e migliorare le condizioni di vita e, al contempo, causa di una tragica opposizione con la natura che da decenni, ormai, si manifesta nelle forme drammatiche del degrado ambientale e dei connessi rischi per la stessa salute umana. Come già all’inizio degli anni Trenta del secolo scorso affermava Ernst Jünger, la tecnica è determinata dalla Gestalt dinamica e intrinsecamente aggressiva del lavoro; essa esercita la sua potenza metamorfica in quanto principio di sovrabbondanza e di perenne transizione morfologica, che soltanto il nuovo Tipo umano dell’Arbeiter descritto da Jünger riesce a gestire. Soltanto il lavoro come forma di vita integrale è, infatti, in grado di padroneggiare e legittimare il dominio sul divenire, così che la vulcanica produzione tecnica e il magmatico caleidoscopio di forme, di cui le nostre metropoli sono perenni scenari espositivi, si coniugano con Adelphi, Milano 1975, fr. 5 [71], Il nichilismo europeo (Lenzer Heide, 10 giugno 1887), p. 199.

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la più rigida e razionale «disciplina del cuore e dei nervi»7 del Lavoratore. La possibilità che la tecnica moderna si impadronisca del dominio sulla aristotelica metabolé in quanto causa del divenire come alterazione – la tecnica si rivela la massima forza di trasformazione ilemorfica del reale da cui resta assente ogni riferimento a cause finali – è data dalla comprensione tipicamente moderna del reale come cristallizzazione del divenire: il reale diviene il luogo dell’operare tecnico, del suo fare e disfare, in quanto, secondo la decisiva intuizione nietzscheana, la volontà di potenza che si manifesta nel divenire proteiforme aspira a stabilizzarsi come essenza dell’essere. La suprema volontà di potenza – «imprimere al divenire il carattere dell’essere»8 – si realizza, dunque, nell’imposizione tecnica – il Gestell heideggeriano9 – per cui il reale può venire mobilitato in quanto cela in sé una sotterranea fluidità ontologica e, al tempo stesso, può essere fissato nelle ferree forme della razionalizzazione e dell’efficienza produttiva. In questo contesto la macchina, icona della tecnica e della civiltà moderne, può essere interpretata come un’autonoma centrale di operatività metamorfica da cui si sprigiona una straordinaria potenza di trasformazione del reale poiché in essa avviene, come la macchina a vapore mostra in maniera paradigmatica, la produzione e trasformazione dell’energia, ossia di ciò che, come la fisica moderna ha chiaramente compreso, produce lavoro e cambiamento. Con l’avvento delle macchine

7. E. Jünger, L’operaio, cit., p. 101. 8.  «Imprimere al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema volontà di potenza» (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, cit., fr. 7 [54], p. 297). 9.  Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica (1953), in Id., Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27.

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moderne si impone anche una progressiva autocomprensione macchinica dell’uomo che genera, secondo le espressioni andersiane, il dislivello e la vergogna prometeiche, ossia lo squilibrio tra l’accelerazione del dominio tecnico del mondo e la stentata “formazione tecnica” dell’uomo: imprigionato nella sua precarietà e incompiutezza, egli patisce l’umiliazione di non poter raggiungere la perfezione e l’eternità metalliche della macchina e dei prodotti finiti della tecnica e tende ad autocomprendersi come mero componente funzionale, equivalente e sostituibile, della Megamacchina tecnica. L’ottocentesca fede nel progresso, dopo le catastrofi delle società occidentali della prima metà del Novecento e la crisi epistemologica delle scienze, riemerge nel secondo dopoguerra come logica inarrestabile dell’autopotenziamento del sistema tecnico, ma anche nel suo carattere subdolamente distruttivo: la pace e il benessere promessi dal progresso tecnico non sono, in realtà, altro che l’estensione alle società dominate dal principio della massima efficienza delle logiche della guerra. Nell’ontologia dei prodotti proposta da Anders, che potrebbe valere come matrice teorica delle descrizioni elluliane del sistema tecnico10, la guerra, infatti rappresenta «per parafrasare la celebre definizione di Clausewitz, soltanto un proseguimento della distruzione pacifica dei prodotti con altri mezzi»11. La nietzscheana volontà di potenza si afferma nel sistema tecnico come predominio assoluto della strumentalità dei mezzi rispetto a ogni prospettiva teleologica. Progresso diviene ora 10.  Un punto focale del presente studio è rappresentato dalla diagnosi filosofica della tecnica come sistema sviluppata da Ellul negli anni Settanta; in essa è possibile rinvenire una penetrante attualizzazione delle interpretazioni primonovecentesche della tecnica: J. Ellul, Il sistema tecnico. La gabbia delle società contemporanee (1977), tr. it. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2009 (d’ora in avanti ST). 11.  G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 264.

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il nome dell’incessante alternanza di produzione e distruzione degli enti che richiede, pertanto, una disponibilità costante alla trasformazione metamorfica. La tecnica e i suoi valori assurgono, peraltro, in modo sempre più irreversibile, se pure per lo più celato da ipocriti proclami morali e politici, a fonte suprema di legittimazione di ogni altra attività umana, dalla scienza alla politica, dall’etica alla religione, e sostituiscono integralmente l’universo valoriale della tradizione umanistica assumendo essi stessi caratteri sempre più umanistici: il sistema tecnico, infatti, si “umanizza” nella misura in cui assorbe in sé l’umano e lo utilizza come mezzo privilegiato per lo svolgimento dei suoi processi di autoaccrescimento e autoaffermazione. Alla virtualizzazione del mondo e dell’uomo, a cui assistiamo grazie allo straordinario sviluppo delle tecnologie informatiche, si accompagna un progressivo svanimento della struttura ontologica del reale fondata sulla contrapposizione tra soggetto e oggetto caratteristica della modernità. Alla diagnosi di Baudrillard12, secondo cui il nostro mondo si trasformerebbe sempre di più in un universo di oggetti semioticamente connotati, si sostituisce, così, la comprensione del reale in termini di equivalenza metamorfica e operatività tecnica. Diviene, dunque, un compito filosofico decisivo comprendere la modalità tipicamente tecnica della metamorfosi, che si contrappone nettamente al concetto di metamorfosi romantico, di ascendenza goethiano, per cui essa rappresenta la forma dinamica dei processi di continua rigenerazione morfologica della natura secondo la rigorosa tensione teleologica che governa la sua mirabile sovrabbondanza morfotipica riconducibile, tuttavia, ad archetipi fondamentali (la Urpflanze goethiana nell’ambito della morfologia botanica).

12.  J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti (1968), tr. it. di S. Esposito, Bompiani, Milano 2018.

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La metamorfosi tipica del sistema tecnico indica, invece, uno stato di perenne alterazione e ibridazione di quelle che, in linguaggio nietzscheano, potremmo definire “formazioni provvisorie del divenire”. Intesa a partire dalle dinamiche ibridative con l’alterità animale e macchinica, la metamorfosi postumana si rivela, dunque, non soltanto la legge del reale inteso come risultato di un incessante operare, ma anche la logica stessa della tecnica moderna responsabile dell’incessante mobilitazione ibridativa dell’umano. In questo contesto, il confronto con il pensiero del post-umano, espresso negli ultimi due decenni da una molteplicità di autori attraverso innumerevoli approcci teorici, consente di verificare l’ipotesi ermeneutica centrale della presente ricerca – che, nel lessico heideggeriano, potremmo così formulare: “la metamorfosi è l’essenza non tecnica della tecnica” – a partire dalla tematizzazione del decisivo concetto di ibridazione. Attraverso tale concetto, e il suo ampio spettro di applicazione, il postumanismo – che noi qui considereremo soprattutto nella declinazione datane in Italia da Roberto Marchesini – rivendica il superamento dall’antropocentrismo umanistico nella direzione di una correlazione proiettiva ed eteroriferita con l’alterità animale e macchinica: la tecnica che infiltra l’uomo determinerebbe nuovi stili evolutivi e al dominio umanistico su di essa si sostituirebbe il suo decentramento esposto agli agenti ibridativi. Alla luce delle analisi di Ellul e di Latouche del sistema tecnico e della Megamacchina, tuttavia, tali agenti ibridativi si rivelano essere non più degli autentici vettori di differenze, ma piuttosto “attrattori ibridativi” interni al sistema stesso e funzionali alle sue dinamiche di sviluppo endogeno. Il presunto sovvertimento delle categorie classiche della tradizione umanistica e della soggettività moderna da essa scaturita (autonomia, spontaneità, stabilità e univocità identitaria, capacità emanativa e fondativa rispetto al mondo) si rivela essere piuttosto una ripetizione e un potenziamento dei principi

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ontologici fondamentali dell’umanismo stesso, configurando, per utilizzare un’espressione di Peter Sloterdijk, una sorta di “tecno-umanismo”. Lo stato di “sovranità limitata” dell’uomo causato dall’accrescersi esponenziale della tecnicizzazione e virtualizzazione delle nostre esistenze non apre, tuttavia, a un incontro con l’alterità se non in senso del tutto funzionale alle logiche operative del sistema stesso. La tecnica, piuttosto, sembra immunizzare l’uomo dall’incontro con l’Altro e dalle sue conseguenze più destabilizzanti, organizzando l’intrinseca tragicità del divenire nei termini rassicuranti e narcotici di una “fantasmagoria metamorfica”. La metamorfosi ibridativa – nettamente distinta sia da quella “plastica” tipica dei sistemi biologici e delle loro relazioni osmotiche con l’esterno, sia da quella “liquida” caratteristica, come ha mostrato Zygmunt Bauman, dei processi di globalizzazione economica e finanziaria del nostro tempo13 – si rapporta con l’alterità seguendo il paradigma del contagio e dell’immunizzazione che potenzia la vita soltanto nella misura in cui la espone al rischio della sua negazione14. Il desiderio di proiettarsi nell’alterità e di introiettarla in sé costitui­ rebbe, secondo il postumanismo, il motore dei processi di evoluzione sia filogenetici che ontogenetici e, richiamandosi alla tradizione antispecista e vitalistica di matrice spinoziana e nietzscheana che nel Novecento culmina nella filosofia deleuziana della differenza, determinerebbe la modalità tipicamente metamorfico-­ibridativa del rapporto con l’alterità animale e tecnica. Si configura, così, una ontologia dell’umano nei termini di una “archeologia relazionale” in cui l’evoluzione umana si rivela come una serie infinita di correlazioni dialo13.  Z. Bauman, Vita liquida (2005), tr. it. di M. Cupellaro, Laterza, RomaBari 2011. 14.  Cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002.

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giche e connessioni ibridative; il dialogo assume, pertanto, la forma relazionale dell’ibridazione morfologica e del riconoscimento nel partner esterno. Conclusivamente si cercherà, pertanto, di sottrarre l’epifania dell’altro all’interpretazione postumanistica nei termini di un dialogo eteroriferito e ibridativo, e di ricondurla alla dimensione del colloquio (Gespräch) ermeneutico tra singolarità finite. In questa prospettiva – i cui riferimenti teorici sono soprattutto l’ermeneutica esistenziale heideggeriana e l’“umanesimo dell’altro uomo” di Emmanuel Levinas – l’alterità sfugge alla presa proiettiva dell’uomo perché è essa stessa che lo fa ek-­sistere e, al contempo, l’uomo sfugge alla presa ibridativa dell’alterità perché costitutivamente differente da essa. L’identità si rivela, attraverso l’analisi che Heidegger svolge di questa categoria su di un piano prettamente ontologico15, non già come connettività e istanza sistemica – e dunque potenzialmente totalitaria –, ma piuttosto come spazio di 15.  Al cuore teorico della presente ricerca risiede un serrato confronto con il pensiero di Heidegger. Non si è seguita, qui, tuttavia, alcuna intenzione di tipo interpretativo del pensiero del filosofo di Meßkirch, cui si è già rivolta in passato la mia attenzione (cfr. soprattutto, S. Gorgone, Nel deserto dell’uma­no. Potenza e Machenschaft nel pensiero di Martin Heidegger, Mimesis, MilanoUdine 2011). Nel costante riferimento all’opera heideggeriana, l’obiettivo è stato, piuttosto, quello di considerarne l’attualità e la fecondità per quanto riguarda i temi e gli autori affrontati. Ai fini della presente indagine, decisive si rivelano, infatti, se pure su di un piano squisitamente ontologico, le analisi heideggeriane della tecnica e del mondo moderno, della scienza e della volontà di potenza nietzscheana come carattere ontologico distintivo della totalità dell’ente nell’epoca del dominio tecnico. Ma è soprattutto la critica heideggeriana dell’umanismo filosofico – che egli inserisce nella più ampia critica della metafisica occidentale – a costituire, come si è mostrato nel terzo capitolo, la base teorica di molti approcci anti-umanistici contemporanei se pure, a mio avviso, l’esito dell’itinerario heideggeriano sfoci nell’individuazione di un primato della Differenza che non è in alcun modo assimilabile all’alterità da cui, secondo la maggior parte delle prospettive postumanistiche, emergono le “antropotecniche” e i processi di ibridazione dell’umano.

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liberazione da ogni processo di soggettivazione e di assoggettamento dell’umano, luogo di confronto e coappartenenza dei differenti per cui il corrispondersi reciproco delle singolarità si rivela come originaria responsabilità per l’altro. Il superamento dell’uomo – la foucaultiana “morte dell’uomo” – può, dunque, declinarsi come il suo essere destinato all’evento, ogni volta finito, della differenza, al colloquio delle esistenze e al loro corrispondersi etico. L’uomo a venire non è, dunque, il risultato dell’apposizione di un post- al giàstato dell’umano. Non si tratta, cioè, di superare la “morte dell’uomo” attraverso la potenza metamorfica ed eccedente della tecnica, da cui scaturirebbe il post-uomo come “essere transizionale eteroriferito”, il cui carattere fondamentale è la plasticità e la disponibilità all’ibridazione nell’ottica di un superamento dell’opposizione natura-cultura e natura-tecnica. Il futuro dell’uomo è, piuttosto, determinato dall’esito del corrispondere all’appello della differenza che, nel nostro tempo, si manifesta nell’ambiguità ontologica della tecnica e nelle sfide che essa continua a rivolgere all’umanità dell’uomo. Katowice (Podlesie), agosto 2021

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Capitolo I

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Ambiguità e potenza della tecnica

Tenterà [Proteo] di mutarsi in tutti gli animali che esistono in terra, in acqua e in fuoco prodigiosamente ardente. Voi tenetelo forte e stringetelo ancora di più. (Omero, Odissea, IV, 417-419)

1. Proteo e l’ambiguità della tecnica Figura mitica e ancestrale dotata di un’inquietante ambiguità, Proteo si presta in modo paradigmatico a caratterizzare l’ampiezza semantica e filosofica della tecnica che dalla conclusione della Grande Guerra occupa in modo sempre più ineluttabile e pervasivo le nostre esistenze configurandosi come forma di vita integrale e delineando, nel suo esplicarsi, il destino stesso della nostra umanità storica. Che l’età della tecnica abbia abolito definitivamente le illusioni “umanistiche” con cui l’uomo pre-tecnologico credeva di poter dispiegare il proprio orizzonte di senso e fondare le strutture epistemologiche e valoriali attraverso cui abitare il mondo, è una convinzione ormai diffusa. Con tale radicale trasformazione, a un tempo ontologica e antropologica, la nostra contemporaneità è abituata a confrontarsi sia in senso critico, ora delineando prospettive di recupero dei valori e delle idee della tradizione umanistica e dell’antropocentrismo filosofico da contrapporre alle derive più minacciose e inquietanti delle tecnoscienze, ora rivendicando un forte ancoraggio umanistico della ricerca scientifica e del progresso, sia

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in senso affermativo, promuovendo un sapere autonomo della tecnica e delle scienze in grado di pensare la soglia di mutazione antropologica che accompagna l’avvento del loro dominio planetario e onnipervasivo, sia in senso negativo, esigendo una revisione radicale, se non addirittura una rifondazione di tutte le categorie e i concetti tipici dell’età pre-tecnologica1. Proteo è non soltanto, nelle intenzioni del presente studio, la figura simbolica di questa soglia antropologica che mette radicalmente in crisi il paradigma umanistico e il pensiero che su di esso si è strutturato aprendolo a prospettive postumaniste2, ma anche della stessa ambiguità e ambivalenza della tecnica. Nella rappresentazione prevalente dalla cultura classica, egli è un «dio antico, declassato a pastore di esseri anfibi quali le foche, che appartiene ad un pantheon spodestato, un dio straniero e di confine, asociale e attempato (è detto álios ghéron, il Vecchio del Mare) relegato nella dimensione ctonia degli abissi marini e dunque distante dalla serenità olimpica dei suoi successori»3.

1.  «Resta da pensare se le categorie che abbiamo ereditato dall’età pretecnologica e che tuttora impieghiamo per descrivere l’uomo sono ancora idonee per questo evento assolutamente nuovo in cui l’umanità, come storicamente l’abbiamo conosciuta, fa esperienza del suo oltrepassamento» (U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2000, p. 34). Sulla mutazione antropologica contemporanea, cfr. F. Mora (a cura di), Metamorfosi dell’umano, Mimesis, Milano-Udine 2015. 2.  Si utilizzeranno di seguito sempre il termine “postumanismo” e i suoi derivati a indicare la tradizione filosofica e culturale che discende dalla rivoluzione scaturita dall’Umanesimo e dal Rinascimento dei secoli XV e XVI. Alcuni autori, però, come vedremo, utilizzano anche l’espressione “post­umanesimo” per indicare la galassia culturale che ruota attorno all’idea del postumano. 3.  A. Scuderi, Il paradosso di Proteo. Storia di una rappresentazione culturale da Omero al postumano, Carocci, Roma 2012, p. 15. Proteo condivide la sua vertiginosa capacità metamorfica con altre divinità ctonie preolimpiche come Métis e Nereo, fratello dello stesso Proteo e come lui dotato di capacità divinatorie. L’essere ancestrale di Proteo sarà, come vedremo, determinante per pensare il carattere “elementare” della tecnica e la sua potenza ibridativa

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La sua inquietante ambiguità consiste nella stupefacente capacità di metamorfosi che egli mette in atto con l’intento principale di sfuggire al contatto e alla presa umana. Esperto in inganni, arti magiche e sparizioni, Proteo può trasformarsi in qualunque animale, albero, pianta o elemento naturale, anche se la sua essenza resta fondamentalmente legata all’elemento marino4; egli è, inoltre, una divinità dotata di straordinarie e ricercate capacità divinatorie. In lui, dunque, si manifesta uno dei caratteri fondamentali della tecnica moderna su cui si fonda il mito occidentale del progresso: la propensione nei confronti del futuro. Proteo è, infatti, «insieme oracolo del mare e porta del futuro, principio primo e ancestrale nel quale si cela – paradossalmente – lo svolgersi del tempo a venire»5. in quanto la sua figura indica, in una prospettiva che il movimento postumanista farà propria, la labilità e permeabilità del confine tra uomo e animale, individuo ed elementi naturali, riconoscendo così come partner evolutivi dell’antroposfera sia il mondo animale che l’ambiente naturale. Fin dai suoi primordi, dunque, il mito rappresenterebbe l’ancoraggio dell’umano alla dimensione dinamica e dionisiaca dell’esplorazione metamorfica, «un’esplorazione che fa deflagrare la dimensione soggettiva, la percezione di un Sé come separato dall’Altro e che fa di Proteo […] il simbolo di una potenzialità empatica che ci costituisce, che ci nutre e che è ancora da valutare appieno nella sua azione culturale» (ivi, p. 16). Il carattere ctonio e ancestrale del dio Proteo si ritrova anche nel proteus anguinus, un anfibio troglobio (che cioè vive e si riproduce soltanto in grotte marine), endemico delle acque sotterranee dell’altopiano carsico. Significative nella nostra prospettiva sono alcune sue caratteristiche fisiologiche: il proteo è cieco in quanto anoftalmico (privo di occhi) e totalmente depigmentato; esso è, inoltre, un animale neotenico, cioè mantiene il suo carattere larvale anche nello stadio adulto; caratteristiche, queste, che, tuttavia, gli consentono di adattarsi anche nei più inospitali ambienti delle buie grotte marine. La cecità e l’algida neotenia del proteo varranno come simboli di alcune tra le più inquietanti tendenze del pensiero post- e transumanista e delle bio-tecnologie al loro servizio. 4.  Hegel ha per primo visto il rapporto essenziale tra progresso, sviluppo tecnico e prevalere dell’elemento marino: G.F.W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1820), tr. it. di F. Messineo, Laterza, Roma-Bari 1974, § 247. 5.  A. Scuderi, Il paradosso di Proteo, cit., p. 15.

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La proteiforme «porta del futuro» – immagine, questa, che potrebbe già valere a caratterizzare la tecnica moderna nel senso di una possente figura archetipale del desiderio –, resta, tuttavia, per lo più velata in nebbie primordiali e diviene accessibile soltanto a chi sa riconoscere la costitutiva virtualità di Proteo, a chi riesce a sostenere la sua permanente mutevolezza e a entrare in contatto con la sua straordinaria potenzialità empatica e mimetica; egli rivela il suo oracolo salvifico soltanto a chi riesce ad “afferrarlo”, superando la sua ordalia6; soltanto chi sa fronteggiare la sua radicale e inquietante estraneità, indice del perturbante venir meno di distinzioni e partizioni codificate, può accedere alle segrete profondità metamorfiche del Vecchio del mare, fuor di metafora, all’essenza ambigua della tecnica. Proteo è, infatti, figura dell’ambiguità, non soltanto in quanto dio della verità e dell’inganno, del disvelamento oracolare e dell’occultamento, della dissimulazione e del segreto, ma soprattutto in quanto divinità dotata di quella mirabile potenza metamorfica che lo ha reso, nella lunga tradizione letteraria e artistica di cui è protagonista, il simbolo dell’etica della 6.  Come vedremo nei prossimi paragrafi, la virtualità, l’empatia, il mimetismo e la promessa salvifica sono caratteri fondamentali del sistema tecnico per come viene teorizzato da Jacques Ellul e, più in generale, dall’antropologia filosofica moderna. Per quanto riguarda la virtualità della tecnica, basti qui citare un passaggio dalle ultime pagine dell’opera fondamentale di Ellul, Il sistema tecnico: «Il culmine dello sviluppo tecnico consiste nella scomparsa dell’apparecchio, brutto, ingombrante, che ricorda troppo la materialità» (ST, p. 384). Noi qui, tuttavia, intenderemo la virtualità della tecnica non soltanto nel senso, ormai scontato per le nostre società dominate dalle reti telematiche, di una sua dematerializzazione, ma nel suo senso propriamente etimologico e filosofico, come potenza e potenzialità contrapposte ad atto e attualità e, con particolare riferimento agli sviluppi della tecnica contemporanea, come ente o processo frutto di un’elaborazione informatica che, pur seguendo dei modelli realistici, non corrisponde a nessuna situazione reale. In questa prospettiva, particolarmente significativo risulta l’affermarsi nel lessico contemporaneo dell’espressione, apparentemente ossimorica, di “realtà virtuale”.

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doppiezza psicologica e l’emblema della personalità multipla, fino a farlo divenire icona plastica del contemporaneo «complesso di Zelig»7. La costitutiva ambiguità della tecnica, di cui Proteo è figura archetipica, è colta già dalla cultura classica che individua nel semidio Prometeo l’artefice della diffusione delle téchnai tra i mortali. Il destino tragico che gli è riservato allude infatti al pericolo insito nel suo dono ai mortali delle varie tecniche: «Menzognero è il nome con cui ti chiamano le divinità. Prometeo: hai bisogno di un preveggente che trovi il modo di liberarti da questa téchne»8. Accanto alle risorse (póroi) escogitate dalla sua mente preveggente (pro-methéos) e donate agli uomini, Prometeo ha anche generato le sue stesse catene (desmoí) che lo inchiodano eternamente alla rocca del Caucaso e che simboleggiano i condizionamenti con cui la tecnica avvince gli uomini. Tali catene consistono in quella che Eschilo chiama l’autonomia dalla «saggezza del retto consiglio» di Zeus: il pericolo della tecnica consisterebbe, dunque, nella sua capacità, solo illusoriamente liberatoria, di operare indipendentemente dal retto consiglio, ossia dalla phrónesis, prerogativa di Zeus e degli dei olimpici, affidandosi, invece, soltanto alla ragione calcolante e strumentale di cui Pro-meteo è simbolo9. 7.  Con tale espressione, derivata dal celebre film Zelig di Woody Allen del 1983, si indica una rara forma di dipendenza ambientale per cui il paziente, come una sorta di uomo-camaleonte, modifica di continuo la propria identità, adeguandola alle persone o alle situazioni con cui di volta in volta entra in contatto. Vedremo come il sistema tecnico tenda ad affermarsi ed espandersi nel proprio ambiente secondo una dinamica mimetica molto simile. 8. Eschilo, Prometeo incatenato, vv. 85-87. (Ove non è indicato il traduttore, le traduzioni si intendo a cura dell’autore). 9.  La métis, a cui fa riferimento il nome di Prometeo, significa, infatti, misura, métron. Essa indica l’essenza stessa della ragione strumentale e tecnica, ovvero l’efficacia nel senso della più funzionale commisurazione dei mezzi al raggiungimento del fine. Prometeo individua, dunque, sin dalle sue origini

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Che la tecnica si configuri come un sapere e, in quanto tale, si distacchi dalla mera esperienza sensibile tipica degli “empirici”, ci è confermato da Aristotele: in apertura del primo libro della Metafisica dedicato alla fondazione causalistica del sapere, egli afferma che, a differenza degli animali, l’uomo vive di «tecnica e ragionamenti [téchne kaì loghismoîs]»10. Pur derivando dall’esperienza, la tecnica, similmente alla scienza (epistéme), se ne distingue nettamente in quanto anch’essa è sapere delle cause e non soltanto del puro dato di fatto; tale sapere si configura, fin da principio, come calcolo e misura. È lo stesso Eschilo, nel Prometeo incatenato, a confermarlo allorché riconosce a Prometeo la scoperta della più eccellente tra le invenzioni, ossia il «numero»11. È grazie al calcolo, infatti, che egli può trasformare la natura “carente”12 dell’uomo, il suo essere á-poros, senza risorse, nella ricchezza di espedienti dell’uomo tecnico, il pán-to-poros, che può disporne soltanto nella misura in cui essi non sono fortuiti e legati alla mutevole esperienza, ma divengono, adesso, calcolabili e intenzionalmente riproducibili, così come lo è emmitiche, il carattere calcolante, causalistico e deterministico del “sapere” tecnico e il suo fondarsi sulla metodica razionalizzazione dei mezzi: «La mêtis commisura i mezzi ai fini, l’attività che essa avvia non è un generico affaccendarsi, ma un calcolo che sottende la conoscenza delle cause che, in circostanze simili, possono essere attivate per ottenere risultati simili. Il calcolo, la conoscenza delle cause e il processo di generalizzazione sono le caratteristiche che fanno della mêtis non un empirico esperire, ma un vero e proprio sapere: il sapere che presiede la tecnica che dunque è già da subito tecno-loghia» (U. Galimberti, Psiche e techne, cit., p. 254). 10. Aristotele, Metafisica, A 980b 28. 11. Eschilo, Prometeo incatenato, v. 459. 12.  Vedremo quanto tale connotazione antropologica, al centro di gran parte dell’antropologia filosofica novecentesca, venga ribaltata nella prospettiva postumanistica che, invece, in una rinnovata dimensione prometeica, afferma la pregnanza originaria della natura umana: cfr. R. Marchesini, Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Dedalo, Bari 2009, pp. 67-72.

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blematicamente il fuoco una volta sottratto da Prometeo alla sua dimensione naturale e consegnato all’artificio e all’arbitrio degli uomini. Tuttavia il dono di Prometeo, come ci racconta il suo mito, comporta necessariamente una punizione; è un arricchimento che, però, allo stesso tempo, implica una sottrazione e un pericolo per l’uomo. Il carattere costitutivamente ambivalente e doloso della tecnica, la cui origine il mito rinviene nel suo essere un dono sacrilego13, indica la tragica scissione dell’uma­no, la sua terribile hybris che lo destina a essere il più inquietante degli esseri. L’uomo è deinós, terribile, non soltanto perché, in quanto padrone di tutti gli espedienti tecnici, «trova la strada [póron] anche laddove sembra impossibile»14, ma perché in sé riproduce l’essenza ambigua della tecnica, la sua indecidibile duplicità che Heidegger, traducendo il celebre verso del primo coro dell’Antigone di Sofocle, esprime con il termine tedesco unheimlich: l’uomo è il «tó deinótaton: ciò che vi è di più inquietante [das Unheimlichste]»15 tra tutti gli enti. La conquista prometeica della tecnica rivela tale profonda inquietudine in cui si colloca, se pure in modo dissimulato, la specificità stessa dell’umano: L’esser-inquietante non è primariamente una conseguenza dell’umanità, ma è l’umanità a scaturire dall’esser-inquietante ed a restare in esso; l’umanità si spinge oltre a partire da esso e in esso si agita. L’inquietante stesso è, nell’essenza dell’uomo,

13.  Sull’ambivalenza della tecnica a partire dalle diverse formulazioni del mito di Prometeo, cfr. U. Curi, Endiadi. Figure della duplicità, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 130-157. 14. Eschilo, Prometeo incatenato, v. 59. 15.  M. Heidegger, Introduzione alla metafisica (1953), tr. it. di G. Masi, Mursia, Milano 1986, p. 157. Per l’interpretazione heideggeriana dell’Antigone di Sofocle, cfr. anche M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin (1984), tr. it. di C. Sandrin e U. Ugazio, Mursia, Milano 2003, pp. 50-112.

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il tratto prominente, ciò che si agita in tutti i suoi moti e in ogni sollecitazione: il tratto presente ed ugualmente assente.16

Secondo Heidegger il termine greco deinón è l’emblema di «quella inquietante ambiguità del dire dei Greci che pervade le contrastanti contrapposizioni dell’essere»; essa, infatti, da un lato designa il «terribile» nel senso dell’«imporsi predominante» (überwältigendes Walten)17 dell’essere come physis, della potenza incontenibile della natura naturans di ascendenza spinoziana, dall’altro il deinón indica la violenza (Gewalttätigkeit) intesa non soltanto come insieme di atti violenti, ma come il carattere fondamentale dell’agire e dell’essere dell’uomo prometeico. L’inquietante del deinón è ciò che «estromette dalla “tranquillità”, ovverosia dal nostro elemento, dall’abituale, dal familiare, dalla sicurezza»18. L’uomo è quanto vi è di più inquietante «perché sfugge da quei limiti che gli sono anzitutto e per lo più familiari, in quanto, come colui che esercita la violenza, trasgredisce i limiti del familiare»19. La tecnica è espressione di tale ambiguità ma al contempo illusione del suo scioglimento, in quanto dona agli uomini, insieme con le diverse téchnai, la «cieca speranza»20 di potersi sciogliere dalla potenza di quello che Heidegger nomina il predominante (Überwältigenden) dell’essere, e che il mito greco interpreta come i ferrei vincoli di Anánke, le catene della Necessità che governa l’ordine cosmico. La philanthropía del 16.  M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin, cit., p. 67. 17.  M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 157. 18.  Ivi, p. 159. 19.  Ibidem. Per una trattazione più ampia del tema del deinón all’interno della interpretazione ontologica della tecnica fornita da Heidegger e della connessa decostruzione della metafisica moderna in quanto compimento della volontà di potenza, mi permetto di rimandare a S. Gorgone, Nel deserto dell’umano, cit., pp. 52-68. 20. Eschilo, Prometeo incatenato, v. 250.

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dono della tecnica di Prometeo si realizza, dunque, condannando gli uomini all’angoscia della perenne ribellione contro l’ordine “divino” della natura, di cui pure l’uomo è parte integrante21.

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2. La tecnica: tattica di vita Che la tecnica, nella sua costitutiva e inquietante ambiguità, fosse il destino tragico e ineluttabile dell’uomo, di quell’essere che Sofocle nomina con la locuzione ossimorica pantopóros áporos22, di colui, cioè, che è capace di percorrere tutte le vie e, al contempo, è privo di una via, è “senza scampo” perché assediato dal nulla e dalla morte, lo aveva intuito per primo nel Novecento il grande teorico della morfologia comparata e del tramonto dell’Occidente: Oswald Spengler. Più che nelle pagi-

21.  Tale gesto fondante dell’umano e al contempo sacrilego ha come conseguenza la limitazione – che costituirà una caratteristica essenziale della tecnica – del sapere degli uomini al solo ambito delle cause e dei mezzi: «Con il divorzio degli uomini dagli dèi, da cui prende avvio la storia propriamente umana, gli uomini dispongono unicamente di quel sapere che è il sapere strumentale capace di commisurare i mezzi ai fini, ma non di eleggere i fini» (U. Galimberti, Psiche e techne, cit., p. 256). Privati della vigilanza degli dèi, gli uomini dovettero escogitare delle modalità di un’autonoma cura di sé che, tuttavia, non poteva essere garantita dalle tecniche meramente strumentali, incapaci di indicare i fini ultimi dell’esistenza umana. L’unica tecnica regia (basilikè téchne) in grado di surrogare la perduta vigilanza divina si rivela essere la tecnica politica che, nella visione classica, da Eschilo al Platone del Politico, è ancora in grado di porre rimedio alla principale colpa di Prometeo che non consiste nel ratto del fuoco da cui discendono tutte le tecniche, ma nell’illusione instillata negli uomini di un’autosufficienza di tali tecniche per il governo della vita umana. Vedremo come il sistema della tecnica moderna affermi la sua assoluta autonomia anche nei confronti di quest’ultima, compensatrice dipendenza dal politico. 22. Sofocle, Antigone, v. 360.

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ne finali della sua opera monumentale, in cui veniva analizzata l’origine religiosa e cultuale della tecnica e la valenza simbolica della macchina23, è nel testo del 1931, L’uomo e la tecnica – tra le prime testimonianze dell’irruzione della questione della tecnica nel dibattito filosofico europeo –, che Spengler individua l’ambiguità tragica della tecnica, tattica della vita creata dall’uomo per liberarsi dalle costrizioni della natura e oltrepassare i propri limiti biologici, ma, al contempo, fonte di tragica opposizione alla natura e alle sue leggi. La “maledizione” prometeica del pensiero tecnico consiste nell’insaziabile anelito di conquista e di dominio tipico dell’anima faustiana che, assoggettata al «destino della necessità»24, si afferma come inesorabile razionalizzazione e organizzazione artificiale e funzionale del reale. In questa prospettiva Spengler può formulare un’affermazione che caratterizzerà tutto un filone di pensiero della tecnica, da Ernst Jünger, che l’anno successivo in Der Arbeiter avrebbe individuato nella tecnica la modalità di mobilitazione del mondo tipica dell’età del lavoro totale, fino alla teorizzazione integrale del sistema tecnico da parte di Jacques Ellul degli anni Settanta, passando per l’interpretazione ontologica di Martin Heidegger degli anni Cinquanta: «Per comprendere l’essenza di ciò che è tecnico non si deve partire dalla tecnica meccanizzata, e tanto meno dall’idea seducente che la costruzione di macchine e di strumenti sia lo scopo della tecnica»25. Che ogni concezione strumentale-antropologica della tecnica non riesca a cogliere l’essenza non-tecnica del fenomeno tec-

23.  O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale (1918), tr. it. di J. Evola, Guanda, Parma 1991, pp. 1385-1398. 24.  Cfr. E. Severino, Il destino della necessità, Adelphi, Milano 1980. 25.  O. Spengler, L’uomo e la tecnica, cit., p. 31.

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nico26, discende, secondo Spengler, dal suo identificarsi con la stessa forma polemica della vita: la tecnica è «la forma interna del modo di procedere nella lotta, procedimento che si identifica con la vita stessa»27. La tecnica come tattica predatoria dell’animale uomo è, dunque, espressione della lotta «crudele, inesorabile, senza pietà»28 con cui la sua volontà di potenza si oppone eroicamente e tragicamente contro la potenza della natura. Il carattere di dominio che Jünger avrebbe riconosciuto come il tratto tipico della tecnica delle macchine, il cui indiscutibile trionfo è stato sancito dalla Grande Guerra, discende dal modo in cui i predatori superiori, e in particolare l’uomo, realizzano la propria tattica di vita nei confronti del mondo. Il predominio del senso della vista, che si contrappone a quello dell’olfatto tipico degli erbivori, fa sì che ai loro occhi il mondo si manifesti come immagine non solo di luce e colori, ma soprattutto di lontananza prospettica. È nella dimensione prospettica, accessibile soltanto allo sguardo dei grandi predatori, che lo spazio e il movimento acquistano per la prima volta un valore funzionale rispetto alla localizzazione e alla presa dei singoli oggetti. Allorché la tecnica strumentale diventa la specifica tattica di vita di un determinato ominide, l’immagine del mondo assume la forma di un ambiente di vita dominato dall’occhio secondo la posizione e la lontananza. In questa rivoluzione della prospettiva dell’uomo predatore si realizza per Spengler il processo stesso di ominazione e da esso scaturisce la civiltà umana: «Un infinito sentimento di potenza giace in questo sguardo ampio e tranquillo, un sentimento di libertà, che scaturisce dalla superiorità e riposa su un potere superiore 26.  Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p. 5. 27.  O. Spengler, L’uomo e la tecnica, cit., p. 32. Ogni prodotto tecnico, ogni macchina si limita soltanto a servire tale procedimento e «trae origine dal pensiero di questo procedimento» (ivi, p. 33). 28.  Cfr. ivi, p. 37.

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[…]. Il mondo è la preda. In ultima analisi, è da questo fatto che trae origine la civiltà umana»29. L’ineluttabile carattere predatorio della tecnica umana discende, dunque, dal suo distinguersi nettamente dalla «tecnica generica» appartenente ai diversi generi animali: a differenza della tecnica come tattica di vita del «magnifico predatore»30 umano, la tecnica generica non è né creativa, né apprendibile, né suscettibile di sviluppo; essa, dunque, non soltanto non è una forma di sapere, ma non ha ancora quel carattere proteiforme che – come vedremo – accompagna lo sviluppo della tecnica umana ed emerge quale tratto decisivo della tecnica moderna. Se «l’ape, da quando esiste, ha sempre costruito il proprio favo esattamente come fa oggi, e lo costruirà così fino a che non scomparirà»31, il successo straordinario della tecnica umana si deve esattamente alla sua creatività e alla sua capacità di modificare le proprie risposte al mutare delle situazioni ambientali; la sua inventiva duttilità e le sue attitudini mimetiche, che discendono dal suo carattere mutevole e individuale – soltanto la tecnica umana è indipendente dalla vita del genere umano32 –, le consentono di avere una presa sempre più efficace sul mondo.

29.  Ivi, p. 43. 30.  «La tattica di vita dell’uomo è quella di un magnifico predatore, valoroso, astuto, spietato. Egli vive attaccando, uccidendo e distruggendo. Ha voluto essere un dominatore fin dal momento della sua comparsa» (ivi, p. 45). Spengler distingue anche, sulla scia della nietzscheana contrapposizione tra morale dei signori e morale dei servi, un’etica da predatore e un’etica da erbivoro (cfr. ivi, p. 44). 31.  Ivi, pp. 45-46. 32.  Per Spengler l’evento più significativo del processo di ominazione consiste proprio nel sottrarsi dell’uomo, per mezzo della tecnica, alla costrizione del genere: la liberazione dalla costrizione del genere costituisce un «avvenimento del tutto eccezionale nella storia dell’intera vita su questo pianeta. Da ciò l’uomo trae la propria origine. […] L’istinto del genere si conserva in tutta la sua potenza, ma da esso si sono separati un pensiero e

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La potenza proteiforme della tecnica, grazie a cui l’uomo si eleva come superbo predatore del mondo al di sopra della vita di genere e acquisisce consapevolezza di sé e dei suoi obiettivi, è dunque il presupposto del carattere di dominio della tecnica e conseguentemente di ogni azione (Handlung) umana intesa come l’agire della “mano pensante”, ossia come integrazione del pensiero dell’occhio, tipico dell’uomo contemplativo che concepisce il reale secondo cause ed effetti, e del pensiero della mano che caratterizza l’uomo attivo che verifica l’efficacia dei mezzi per il raggiungimento degli scopi. È in questo connubio di sguardo prospettico e capacità manipolativa che risiede l’origine antropologica della tecnica attraverso cui Spengler può reinterpretare il mito fondativo di Prometeo: per comprendere la differenza tra azione dell’uomo (Handlung) e attività (Tätigkeit) dell’animale, niente è più significativo dell’atto di accendere il fuoco. Si è in grado di vedere – secondo causa ed effetto – come nasce il fuoco. Anche molti animali lo vedono. Ma soltanto l’uomo pensa – secondo mezzo e scopo – un procedimento per accendere il fuoco. Nessun’altra azione dà, come questa, l’impressione del pensiero creativo. È l’azione di Prometeo.33

La capacità di riprodurre questo fenomeno, tra i più inquietanti, poderosi e misteriosi della natura, restituisce in modo lampante la portata della hybris tecnica e della sfida lanciata contro i vincoli dell’ordinamento naturale34. un agire pensante appartenenti al singolo individuo, ormai libero dai ceppi imposti dal genere» (ivi, p. 51). Si potrebbe individuare in questo passaggio un’inedita genealogia del contemporaneo filone di pensiero transumanista che vede proprio nella tecnica lo strumento per la definitiva liberazione dai vincoli biologici del genere umano. 33.  Ivi, p. 53. 34.  Spengler conclude infatti: «Che effetto tremendo sull’anima umana deve aver avuto il primo sguardo gettato sulla fiamma accesa con le proprie mani!» (ivi, p. 54).

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In tale fiera potenza di assoggettamento del mondo si cela, tuttavia, ancora una volta, il destino drammatico e inquietante che abita il segreto di Proteo e della stessa civiltà umana:

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Nella vita dell’uomo la tecnica è cosciente, volontaria, mutevole, personale e creativa. Può essere appresa e migliorata. L’uomo è diventato il creatore della sua tattica di vita. Essa costituisce la sua grandezza e la sua sventura. Noi chiamiamo civiltà la forma interna di questa vita creativa, e dunque possediamo una civiltà, creiamo una civiltà e patiamo una civiltà.35

Attraverso la tecnica e l’arte, intesa come la molteplicità dei procedimenti tecnici contrapposti alla natura (dall’arte del tirare con l’arco all’arte della guerra), l’uomo strappa alla natura il “privilegio della creatività” e abbandona la sua primigenia unità con essa inoltrandosi nel mondo artificiale in cui può sperimentare un’infinita varietà di forme. La «storia mondiale» consiste, dunque, nel «distacco inesorabile, progressivo, fatale, fra mondo umano e universo dei mondi, la vicenda di un ribelle che, staccatosi dal grembo della propria madre, leva le mani contro di lei»36. Ma lo slancio prometeico dell’uomo si infrange tragicamente contro la predominante potenza della natura che, comunque, lo sovrasta: la lotta contro di essa è senza speranza, eppure «sarà condotta fino all’ultimo uomo»37. La grandezza e la sventura dell’uomo coesistono nella sua segreta e perturbante facies proteiforme a cui lo destina la tecnica nel mentre lo fa uomo e lo rende costitutivamente estraneo al mondo che pure egli conquista. Le forme fluide e cangianti del dio Proteo ritornano nella spaesatezza esistenziale dell’uomo, nel suo essere, in senso etimologico, una “catastrofe”, un rivolgimento 35.  Ivi, p. 47. 36.  Ivi, p. 56. 37.  Ibidem.

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radicale e una contestazione dell’ordine naturale. Riprendiamo ancora il commento heideggeriano all’Antigone di Sofocle:

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Nell’ente al quale perviene e nel mezzo del quale si sente di casa, l’uomo perviene al nulla. Nella misura in cui si sente di casa, l’uomo è spaesato. […] L’esser-inquietante di chi è spae­ sato consiste qui nel fatto che l’uomo sia nella sua essenza una katastrophé, un’inversione che lo stacca dalla sua essenza propria. All’interno dell’ente l’uomo è l’unica catastrofe.38

3. Der Arbeiter: la tecnica in Forma L’umano come catastrofe emerge in modo dirompente sui campi della Grande Guerra, sulla scena apocalittica in cui si afferma come unico vincitore il linguaggio universale della tecnica con cui si realizza la mobilitazione del mondo. L’apoteosi tecnica del nuovo Tipo umano che Jünger descrive nel suo testo profetico e visionario del 193239 delinea lucidamente i tratti più inquietanti e al contempo esaltanti dell’artificializzazione del mondo e della vita in cui sembra compiersi il destino tragico ed eroico dell’uomo faustiano. Il fatto che, com’è noto, Jünger riporti il nuovo Tipo umano, e la tecnica di cui egli si serve per gestire le forze elementari sprigionate dal processo 38.  M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin, cit., p. 71. Heidegger qui collega l’inquietante della spaesatezza umana all’«informe» (un-artig) e al «maligno» (bos-artig) al fine di sottrarlo alla considerazione metafisica del negativo: cfr. ivi, p. 72. Nell’interpretazione della tecnica qui presentata, la spaesatezza è piuttosto da mettere in connessione con la molteplicità di forme (Viel-artigkeit) e la mutevolezza rappresentata miticamente da Proteo. Decisiva, tuttavia, è la connessione di questo orizzonte semantico di non-stabilità della forma con il carattere di deformità in senso sia morale che estetico, quasi a dire che il volto di Proteo, ovvero il volto della tecnica, è un volto sfigurato e sfigurante. 39. E. Jünger, L’operaio, cit.

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di industrializzazione, all’affermazione della Gestalt metafisica del lavoro40 non comporta una smentita della metafora di Proteo. La forma del lavoro, infatti, per Jünger, a differenza delle forme metafisiche tradizionali, non costituisce alcuna istanza normativa e stabilizzatrice41, ma si configura, piuttosto, come garanzia e condizione del dinamismo e della contraddizione: non soltanto la Gestalt del lavoro totale, che progressivamente impone il suo sigillo sulla realtà post-bellica, diviene riconoscibile attraverso e al di là delle innumerevoli dispute e delle contrapposizioni che animano l’orizzonte politico, sociale e culturale dell’Europa tra le due guerre42; ma essa attraversa e porta a compimento le contraddizioni più radicali spezzandone il fronte dall’interno. Il vigere della forma è riconoscibile non perché essa, dall’elevato osservatorio di una fallace totalità, si culli nel sentimento della propria superiore potenza, ma perché essa si sforza di ricercare la totalità nel vivo del combattimento e perché risorge continuamente dalle divisio-

40.  La partecipazione alla Gestalt realizza per Jünger la destinazione imperitura e il senso più autentico della vita umana che trova il suo compimento in quanto metafora della forma: «L’energia, la ricchezza, il senso della sua vita dipendono dalla misura in cui egli partecipa all’ordine e allo scontro delle forme» (E. Jünger, L’operaio, cit., p. 35). In quanto custodiscono in sé ed esigono, dunque, la totalità, le forme richiedono una sorta di integrale devozione da parte dell’uomo che si spinge fino alla disponibilità al sacrificio: «L’uomo, con la forma, scopre in pari tempo la propria definizione e il proprio destino, e questa scoperta lo rende pronto al sacrificio» (ibidem). 41.  Per questo la critica mossa da Heidegger al presunto platonismo jüngeriano risulta fallace e superficiale, se pure egli colga una sostanziale continuità metafisica tra il “platonismo rovesciato” nietzscheano e la nozione jüngeriana di “elementare”: cfr. M. Heidegger, Ernst Jünger (2004), tr. it. di M. Barisan, Bompiani, Milano 2013, pp. 215-225. 42.  Significative sono, in questo senso, le analisi sociologiche svolte da Jünger attraverso il commento delle immagini contenute in E. Schultz - E. Jünger, Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo (1931), tr. it. di M. Guerri, Mimesis-MetisPresses, Milano-Genève 2007.

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ni e dagli scontri politici nei quali anche la minima capacità umana si consuma e perisce.43

La particolare Gestalt che, secondo Jünger, si impone sui campi di battaglia è in sé proteiforme, in quanto principio di sovrabbondanza dinamica e di perenne transizione. Il moltiplicarsi di mezzi e di metodi, in cui consiste l’esplicarsi del dominio tecnico del mondo, consente di riconoscerla come suprema forza del divenire e fonte di incessante trasformazione. L’imporsi della forma dell’Arbeiter indica in modo inequivocabile che «il mondo è in una fase di decisiva transizione, coinvolgente il suo stesso senso e la sua stessa legittimazione: […] l’operaio deve essere considerato il soggetto di questa transizione»44. La forma del lavoro è antidialettica perché più originaria delle differenziazioni e delle contrapposizioni che, da Platone fino a Hegel, hanno formato le articolazioni dell’essere45; essa scaturisce dall’unica esigenza ontologica della legittimazione e del dominio del divenire. In questo senso Jünger può richiamarsi al concetto nietzscheano di volontà di potenza e concepire il nuovo Tipo umano dell’Arbeiter come l’incarnazione più compita dello Übermensch. La capacità di controllo del dinamismo assoluto generato dalla sua affermazione storica costituisce l’unico metodo di selezione tra i diversi orientamenti della volontà di potenza: la conoscenza, la morale, l’arte. Soltanto il lavoro totale come forma integrale di vita è capace di tale dominio e può dunque legittimamente porsi come realizzazione della volontà di potenza. Nel 1932 Jünger è convinto che una

43. E. Jünger, L’operaio, cit., p. 74. 44.  Ivi, p. 82. 45.  «Tale forma si colloca al di là della dialettica, benché essa dalla propria sostanza tragga il nutrimento e i contenuti da fornire alla dialettica. Questa forma è un essere in tutta la pienezza dei significati che la parola possiede» (ivi, p. 73).

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simile rivoluzione ontologica e assiologica, prima ancora che politica, si sia già compiuta:

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Deve divenire chiaro quale delle molteplici manifestazioni della volontà di potenza, che si sentono chiamate al dominio, possieda una legittimazione. La prova di questa legittimazione consiste nel controllo delle realtà che sono divenute troppo potenti – nella capacità di regolare e dominare il movimento assoluto, che può nascere soltanto da un nuovo tipo di umanità.46

Il nuovo Tipo umano del Lavoratore, in quanto rappresentante storico di una tale forma di dinamismo è, peraltro, partecipe di una particolare libertà che non ha nulla a che fare con la rivendicazione di diritti sociali e la volontà di partecipare a beni e piaceri appartenenti a un mondo “romantico” ormai tramontato; la libertà si configura, piuttosto, come espressione della necessità del dominio proteiforme sul movimento. Per comprendere i tratti di questa libertà che Jünger con toni spengleriani nomina anche come «realismo eroico»47, bisogna superare da un lato la concezione, derivante da un «corrotto cristianesimo»48, che il lavoro sia in sé un male e in esso si traduca il senso della maledizione biblica nel rapporto materiale tra sfruttatori e sfruttati, e dall’altro la concezione filosofica della libertà intesa in senso puramente negativo come liberazione da un qualche male. La libertà dell’operaio, invece, è 46.  Ivi, p. 73. 47.  «Indichiamo come atteggiamento di una nuova stirpe d’uomini il realismo eroico, il quale ha del lavoro inteso come forza aggressiva e di assalto la stessa nozione che si può avere della postazione strenuamente difesa in una battaglia perduta, ma considera d’importanza del tutto secondaria sapere se si vada verso il bel tempo o il cattivo tempo» (ivi, p. 75). Heidegger identifica il realismo eroico jüngeriano con il nichilismo attivo nietzscheano: cfr. M. Heidegger, Ernst Jünger, cit., pp. 415-417. Su tale interpretazione cfr. S. Gorgone, Il deserto dell’umano, cit., pp. 98-100. 48. E. Jünger, L’operaio, cit., p. 61.

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da intendersi in senso positivo come espressione di dominio attraverso le forme mutevoli della sua attività lavorativa che, come una rete di vincoli funzionali e di prestazioni, avvolge e impregna ogni porzione del reale. Nell’era dell’Arbeiter, «non può esistere nulla che non sia concepito come lavoro. Lavoro è il ritmo della mano operosa, dei pensieri, del cuore, è la vita diurna e notturna, la scienza, l’amore, l’arte, la fede, il culto, la guerra; lavoro è l’orbitale atomico e la forza che muove i sistemi planetari»49. La grande intuizione profetica di Jünger consiste nella scoperta che il carattere di lavoro totale, che sempre più si diffonde nelle società post-belliche, si qualifichi come «carattere di combattimento totale»50 nonostante il lavoro acquisisca un ruolo centrale nelle dinamiche di emancipazione sociale e nell’idea di progresso indefinito della civiltà umana. Che il fronte della guerra e il fronte del lavoro tendano a identificarsi discende dalla caratterizzazione spengleriana già vista della tecnica come affermazione predatoria dell’uomo sul mondo, ma indica anche oltre il vitalismo spengleriano per cui la tecnica è tattica al servizio della vita. Nella mutazione che la tecnica, ora al servizio della forma del lavoro, subisce sui cambi di battaglia della Grande Guerra, avviene una sorta di sublimazione

49.  Ivi, p. 62. Similmente, nel testo del 1930 sulla mobilitazione totale attuata dalla tecnica a partire dalla Grande Guerra: «Non c’è un solo atomo che non sia al lavoro, e questo processo delirante è, in profondità, il nostro destino. La Mobilitazione Totale non è una misura da eseguire, ma qualcosa che si compie da sé, essa è, in guerra come in pace, l’espressione della legge misteriosa e inesorabile a cui ci consegna l’età delle masse e delle macchine. Succede allora che ogni singola vita tenda sempre più indiscutibilmente alla condizione del Lavoratore, e che alle guerre dei cavalieri, dei re e dei cittadini succedano le guerre dei Lavoratori» (E. Jünger, La Mobilitazione Totale [1930], in Id., Foglie e pietre, tr. it. di F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1997, pp. 113-135: p. 121). 50. E. Jünger, L’operaio, cit., p. 101.

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della violenza del predatore uomo a favore di una «suprema disciplina del cuore e dei nervi»51 di cui il Lavoratore, in sintonia con le più alte tradizioni ascetiche delle diverse civiltà, si serve per affrontare e mettere in forma le potenze elementari della vita e della natura. La fucina proteiforme di Vulcano si coniuga con la gelida indifferenza del volto dell’Arbeiter e dei suoi gesti meccanici52. Questa unità paradossale tra carattere esplosivo-rivoluzionario della tecnica e disciplina ferrea del Lavoratore viene più volte raffigurata simbolicamente da Jünger nella nostra condizione di abitanti di una «plaga di ghiaccio e di fuoco»53 su cui non è possibile mettere radici e in cui si può «stare» soltanto esercitando il «massimo grado di scetticismo pronto alla guerra»54. Abitare il dinamismo e la continua accelerazione della tecnica richiede, infatti, un’estrema capacità di distacco e di oggettivazione di sé che ha come ineluttabile conseguenza la perdita di ogni tratto individuale: il volto dell’Arbeiter perde la multiformità propria delle differenziazioni individuali, ma, al contempo, guadagna in incisività e nitidezza. La “galvanizzazione”55

51.  Ivi, p. 101. 52.  Il prevalere dell’uniformità che caratterizza la fase espansiva della tecnica industriale del primo dopoguerra è interpretato da Jünger nei termini di un crescente isomorfismo tra dotazione biologica e psicologica del nuovo Tipo umano e compiti lavorativi e produttivi che gli sono richiesti, tanto che egli può parlare, in questo senso, del formarsi di una nuova “razza”: «Qui comincia a prendere vita la volontà di formare una razza, di produrre un determinato tipo umano il cui corredo è più uniforme e commisurato ai compiti da svolgere all’interno di un ordine definito dal carattere di lavoro totale. Ciò si connette col fatto che in generale le possibilità di vita diminuiscono sempre più a vantaggio di un’unica possibilità, la quale distrugge e assorbe tutte le altre e corre velocemente verso una condizione di ordine ferreo» (ivi, p. 97). 53.  Ivi, p. 87. 54.  Ivi, p. 87. 55.  Ivi, p. 102.

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della superficie del suo volto sembra indicare l’irrigidirsi in una forma univoca che assume l’aspetto di una maschera metallica56. Anticipando di diversi decenni la fenomenologia dell’attuale spettatore mediatico, Jünger può notare che «lo sguardo è calmo e fisso, addestrato ad osservare oggetti che devono essere percepiti in condizioni di massima velocità. È il volto di una razza che comincia a svilupparsi secondo le particolari esigenze imposte da un nuovo territorio, e che il singolo rappresenta non come persona o come individuo, ma come tipo»57. Il superamento dell’individuo che avviene nell’imporsi della disciplina con cui si genera il Tipo umano del Lavoratore ha come prima conseguenza, abbondantemente sperimentata sui campi di battaglia, la strumentalizzazione del corpo grazie a cui è possibile richiedere e ottenere prove di metallica freddezza che oltrepassano i limiti dell’istinto di autoconservazione. Il lavoro “bellico” che così si afferma non è più al servizio

56.  Sul ruolo sempre più centrale della «maschera» nel processo di uniformazione tipico del mondo del lavoro totale, così si esprime Jünger: «Ciò che colpisce, anche soltanto nella mera fisionomia, è la rigidità del volto, simile a una maschera, che da un lato esiste come un carattere proprio, dall’altro è accentuata e accresciuta da elementi esteriori […]. Il fatto che questa rigidità da maschera […] si riveli un cambiamento radicale, è già dimostrato dal modo con cui essa comincia a levigare e smussare persino le forme con cui il carattere sessuale differenzia le fisionomie» (ivi, p. 110). Il volto dell’operaio non è più un volto individuale, personale, ma tipico e sempre meno espressivo; temprato dalle potenze telluriche destate dalla tecnica, esso diviene una maschera metallica, in grado di sostenere il ritmo incalzante dei mutamenti e le frenetiche dinamiche del mondo della tecnica. Il suo volto meccanico, come nota anche Friedrich Georg Jünger, dà un’impressione di morte in quanto nei suoi movimenti lascia intravedere lo stesso funzionalismo delle macchine: «La maschera, che si può osservare sul viso della gente, mostra che in essa la vita viene imitata, perché i movimenti sono imitazioni di una vivacità che non esiste» (F.G. Jünger, La perfezione della tecnica [1946], tr. it. di M. De Pasquale, Settimo Sigillo, Roma 2000, p. 154). 57. E. Jünger, L’operaio, cit., p. 102.

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della vita, ma la oltrepassa in nome del supremo principio di prestazione affermando una sorta di ascetismo tecnico che, come vedremo, depurato dai tratti espressionisti e futuristi a cui anche Jünger è incline, permarrà come decisivo elemento interpretativo del fenomeno tecnico fino ai nostri giorni. Rievocando le sue esperienze di guerra, Jünger scrive: «Nel vortice fiammeggiante di aeroplani abbattuti, nelle celle di aerazione di sommergibili sepolti dalle acque in fondo al mare, è ancora in opera un lavoro che propriamente si spinge al di là della sfera vitale»58. Come già era emerso nello scritto sulla Mobilitazione Totale, il lavoro non è una attività direttamente connessa alle esigenze vitali, ma ciò che imprime una nuova forma al reale e lo mobilita affinché possa soddisfare le sue esigenze. Analogamente la tecnica, in quanto linguaggio e modalità di tale mobilitazione, non ha un rapporto direttamente strumentale con l’uomo: la misura in cui egli non viene distrutto, ma potenziato, dalla tecnica dipende dal grado in cui egli rappresenta la forma dell’Arbeiter. In quanto «padronanza del linguaggio valido nell’ambito del lavoro», la tecnica non ha nemmeno un rapporto essenziale con la macchina che assume, così, un ruolo secondario, «poiché è soltanto uno degli organi che permettono di parlare quel linguaggio»59.

4. Tecnica e dominio del divenire Ma prima di rivolgerci alla cruciale questione della macchina e del suo rapporto decisivo con il formarsi del pensiero tec-

58.  Ivi, p. 101. 59.  Ivi, p. 140.

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nico, soffermiamoci sulla critica che Jünger, insieme a una vasta schiera di intellettuali europei negli anni Venti e Trenta, rivolge all’idea di progresso in nome del principio portante del dominio. Il senso dell’armamentario tecnico e la fonte della sua poderosa energia non risiedono, infatti, nel soddisfare le esigenze di miglioramento delle condizioni materiali di vita né nel perfezionamento morale o spirituale dell’uomo60. Il progresso tecnico trova, piuttosto, la sua legittimazione e la sua piena esplicazione nell’orizzonte del dominio sul mondo attuato mediante la Gestalt del Lavoratore61. La radicale negazione del senso antropologico e strumentale della tecnica significa, dunque, superare l’ingenua convinzione che la tecnica possa essere impiegata come una forza neutrale: essa «non è un serbatoio di mezzi efficaci o comodi dal quale una qualsiasi delle forze tradizionali possa attingere a sua discrezione»62. Man mano che l’ambito del lavoro acquista totalità, si fa sempre più evidente il carattere attivo della tecnica nei confronti degli spazi in cui si afferma: chiunque dica di sì alla tecnica, accettando di parlare il suo linguaggio – che è, poi, come abbiamo visto, il linguaggio del lavoro e della mobilitazione del mondo –, non può divenire “soggetto” dei processi tecnici senza essere, al tempo stesso, suo “oggetto”. L’uso degli strumenti tecnici implica non soltanto un accrescimento delle potenzialità fisiche e delle facoltà mentali dell’uomo, ma una vera e propria trasformazione dello stile di vita, tanto che appare fallace ogni tentativo di instaurare un rapporto ambiguo

60.  «Là dove affiorano i simboli della tecnica, lo spazio viene svuotato di tutte le forze di altra natura, di tutti i mondi spirituali grandi e piccoli rimasti in esso» (ivi, p. 144). 61.  Cfr. ivi, p. 147. 62.  Ivi, p. 148.

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con la tecnica, di poter dire contemporaneamente di sì e di no alla tecnica63. Se la sua “marcia vittoriosa” lascia una scia di simboli abbattuti, la tecnica non è, tuttavia, soltanto una potenza distruttrice: accanto alla sua forza corrosiva nei riguardi di ogni tradizione, essa cela anche un lato costruttivo, se pure, nel momento in cui Jünger guarda il processo tecnico, tale costruzione appare ancora avvolta in dense nubi magmatiche: i simboli propri della tecnica stentano a delinearsi in maniera chiara e manifestano, agli occhi del reduce Jünger, le tracce di un ancora indeciso combattimento tra forme. Per riprendere la nostra metafora-guida, la tecnica che vale come linguaggio universale dell’Arbeiter reca in sé in modo inequivocabile il marchio di Proteo. Ma ciò e reso possibile dal fatto che la tecnica stessa non è puro artificio, ma proprio in quanto capace di instaurare una relazione profonda, se pure ancora indefinita, con il mondo delle forme, essa è di origine metafisica e ha un carattere “rituale”64.

63.  «Possiamo […] far uso dei prodotti della tecnica e, nello stesso tempo, in qualsiasi utilizzo che ne facciamo, possiamo mantenercene liberi, così da potere in ogni momento farne a meno. Possiamo far uso dei prodotti della tecnica, conformarci al loro modo d’impiego, ma possiamo allo stesso tempo abbandonarli a loro stessi, considerarli qualcosa che non ci tocca intimamente e autenticamente. Possiamo dir di sì all’uso inevitabile dei prodotti della tecnica e nello stesso tempo possiamo dire loro di no, impedire che prendano il sopravvento su di noi, che deformino, confondano, devastino il nostro essere» (M. Heidegger, L’abbandono [1959], tr. it. di A. Fabris, il melangolo, Genova 1989, pp. 37-38). Riferendosi implicitamente a questo passaggio heideggeriano, nel secondo volume del suo L’uomo è antiquato, Anders afferma: «È difficile rispondere al quesito, dove debba cessare il sì alla tecnica e iniziare il no. […] Uno dei compiti principali della filosofia della tecnica sarà quello di scoprire il punto dialettico e determinare dove il nostro sì alla tecnica debba trasformarsi in scetticismo o in un no nudo e crudo» (G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 115). 64.  Cfr. ivi, p. 150.

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Il volto “nichilistico” della tecnica è soltanto superficiale: «La sua essenza pare di natura nichilistica, poiché essa aggredisce l’insieme di tutte le relazioni, e nessun valore può opporre resistenza. […] La tecnica, benché in se stessa non accolga valori e sia apparentemente neutrale, in realtà è al servizio di qualcosa»65. La sottomissione delle antiche forze e la facies distruttiva della tecnica celano un centro segreto, in stato ancora caotico e magmatico, che perverrà a una condizione di ordine «reale e visibile» soltanto quando il linguaggio tecnico non sarà più utilizzato come strumento di progresso, di utilità e comodità, ma come «linguaggio elementare»66. Ma di quale potenza è al servizio il linguaggio elementare della tecnica? Non certo di una potenza di ordine politico, morale o spirituale, bensì del divenire stesso inteso nel senso aristotelico della metabolé. È qui che incontriamo la questione teorica forse più decisiva di ogni interpretazione filosofico-ontologica del fenomeno tecnico: la tecnica non è semplicemente dominio operativo sul mondo, ma dominio sul movimento e in particolare sul movimento come mutamento, ovvero sulla meta­bolé67. Com’è noto, Aristotele supera la condanna eleatica del movimento intendendolo come passaggio dall’essere in potenza all’essere in atto ed eliminando, così, ogni riferimento al nonessere parmenideo. Se pure il nulla assoluto, come contrario dell’essere assoluto, venga superato dalla scoperta aristotelica della dynamis, dell’essere potenziale, in esso, tuttavia, permane il nulla relativo della contraddizione categoriale secondo cui Aristotele individua quattro forme di movimento-mutamento. Il carattere proteiforme della tecnica discende dal pro65.  Ibidem. 66.  Cfr. ivi, p. 151. 67.  Che le moderne biotecnologie si configurino sempre più esplicitamente come controllo, gestione o addirittura riproduzione artificiale delle funzioni metaboliche conferma tale caratterizzazione della tecnica.

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gressivo affermarsi del predominio della forma di mutamento secondo la qualità, sulle altre tre forme, quelle secondo la sostanza68, la quantità e il luogo: la metabolé come alterazione (alloiosis) costituisce, infatti, il fenomeno guida della tecnica in generale e della tecnica moderna in modo particolare, dal momento che essa segna il superamento della dimensione meccanico-­strumentale in cui il movimento-mutamento si esprime come mera traslazione spaziale e accrescimentodiminuzione quantitativa. Una volta accantonato come inaccettabile assunto metafisico-teologico il senso della metabolé secondo la sostanza come generazione e corruzione, le tecnoscienze della modernità assumeranno come loro assiomatico fondamento – almeno fino alla rivoluzione della fisica atomica e nucleare – la concezione della metabolé come alterazionetrasformazione della materia, intesa aristotelicamente come il luogo della dynamis. Tale convinzione fondamentale sarà formulata in modo emblematico e definitivo come principio di conservazione della massa nel XVIII secolo dal chimico e

68.  Secondo Severino, il progetto tecnologico agisce anche in questa forma di metabolé, in quanto esso esige dalla “cosa” un’assoluta disponibilità a essere prodotta e distrutta, su cui fa leva la tecnica come volontà di potenza. «Per la prima volta nella storia dell’uomo, è stata la metafisica greca a portare alla luce il senso di questa assoluta disponibilità della “cosa” all’essere e al niente. […] La “cosa” non è semplicemente disponibile a nuove forme, colori, stati, incontri, ma alle due vie che si allontanano l’una dall’altra sino a raggiungere quella infinita distanza che è la lontananza dell’essere e del niente. L’espressione originaria della volontà di potenza risale così al modo stesso in cui, all’inizio della storia dell’Occidente, la metafisica greca ha portato alla luce il senso della “cosa”. […] La storia dell’Occidente è il progressivo impadronirsi delle cose, cioè il progressivo approfittare della loro disponibilità assoluta e della loro infinita oscillazione tra l’essere e il niente. Il progetto tecnologico della produzione-distruzione illimitata di tutte le cose scioglie ogni riserva rispetto a quella disponibilità e in esso resta pertanto celebrato il trionfo della metafisica» (E. Severino, Téchne. Le radici della violenza, BUR, Milano 2018, pp. 222-223).

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naturalista Antoine-Laurent Lavoisier: nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma69. Il presupposto di questa forma di metabolé è l’esistenza di un sostrato materiale che ha la capacità di mutare forma, la hyle aristotelica. Non si tratta, dunque, nell’orizzonte tecnicoscientifico, di assumere integralmente una forma dall’esterno (generazione) o di perdere definitivamente la forma (corruzione), ma di essere coinvolti in un processo di trans-formazione. Perché questo processo possa avvenire non basta, però, che la dynamis inerisca alla realtà sensibile strutturata in modo “ilemorfico”, ovvero come composizione unitaria e indivisibile (synolon) di materia e forma; affinché si dia metabolé come trasformazione è necessaria, piuttosto, una causa esterna che Aristotele nomina come causa agente o efficiente. È quest’ultima causa, come ha mostrato Heidegger nella sua celebre conferenza sulla tecnica del 1953, che viene assunta come modello per definire ogni tipo di causalità e per pensare l’operare (bewirken) nel senso del produrre un effetto e un mutamento; ciò non soltanto ha una conseguenza decisiva sul modo in cui è stata pensata la causalità come strumentalità propria dell’operare tecnico, ma genera anche un progressivo venir meno dell’altra causa esterna posta da Aristotele, la causa finale, a cui il pensiero tecnico-scientifico ormai nega lo stesso statuto di “causa”: Da lunga data si usa rappresentarsi la causa come ciò che opera [das Bewirkende]. Operare [wirken] significa in tal caso produrre dei risultati, degli effetti. La causa efficiens, una delle quattro cause, diventa così il modello per definire ogni causalità. Si arriva addirittura al punto che la causa fi-

69.  Tale principio era, peraltro, già stato intuito dai filosofi naturalisti pre­ socratici, Empedocle, Anassagora e Democrito, che ritenevano che gli elementi fondamentali (l’Essere) non si creano e non si distruggono, ma soltanto si trasformano.

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nalis, la finalità, non è più in generale considerata come una causa.70

Travisando l’originario senso greco della causalità71, il pensiero tecnico avrebbe introdotto il primato della causa efficiente intesa come ciò che opera un effetto perché è proprio questa forma di efficienza operativa che giustifica e rende comprensibile il mutamento come incessante trasformazione ilemorfica del reale. L’assolutezza proteiforme della tecnica può imporsi, dunque, soltanto a discapito della causa finale intesa grecamente come ciò che, invece, circoscrive e de-finisce l’ambito dei possibili mutamenti formali della cosa, determinandone il télos; soltanto in esso la cosa si compie sottraendosi all’attivismo trans-figurante della tecnica: «Ciò che de-finisce e compie [das Vollendende] […] si chiama in greco télos, termine che troppo spesso si traduce con “fine” o “scopo” travisandone il senso. Il télos risponde di ciò che, come materia e come aspetto, è corresponsabile»72. Il divenire proteiforme a cui il pensiero tecnico riduce il reale nel suo incessante operare trasmutante si compie nell’affermazione nietzscheana della volontà di potenza come «intima essenza dell’essere»73. Essa, infatti, secondo la magistrale interpretazione heideggeriana74, non rappresenta la negazione o il superamento della metafisica tradizionale incentrata sulla 70.  M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p. 7. 71.  Secondo Heidegger, l’aition per i Greci indica le molteplici forme del­ l’essere responsabile di qualcos’altro e «non ha assolutamente nulla da fare con l’operare [Wirken] e l’effettuare [Bewirken]» (ibidem). 72.  Ibidem. 73.  F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere di Friedrich Nietzsche, cit., vol. VIII/3, fr. 14 [80], p. 50. 74.  I corsi tenuti da Heidegger su Nietzsche dal 1936 al 1940, insieme ad altri testi nietzscheani della prima metà degli anni Quaranta, sono raccolti in M. Heidegger, Nietzsche (1961), tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994.

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dottrina dell’essere a cui si contrapporrebbe una metafisica del divenire e del caos; in quanto istanza di dominio e comando sulla mobilità dell’ente – sulla vita –, la volontà di potenza si realizza, piuttosto, nella stabilizzazione del divenire nella presenza75; così facendo, essa compie il senso dell’essere come stabilità e presenza originariamente determinato dai Greci e, secondo Heidegger, vigente per tutto il corso del pensiero occidentale. Nel corso di lezioni del 1939 su La volontà di potenza come conoscenza, Heidegger afferma: Nel pensiero della volontà di potenza, ciò che in senso sommo e più autentico diviene ed è mosso – la vita stessa – deve essere pensato nella sua stabilità. Certo, Nietzsche vuole il divenire e ciò che diviene come il carattere fondamentale dell’ente nel suo insieme; ma egli vuole il divenire, proprio e prima di tutto, come ciò che permane – come l’«ente» in senso vero e proprio; cioè essente nel senso dei pensatori greci.76

La stabilizzazione del divenire, in cui si realizza la suprema volontà di potenza, costituisce per Heidegger il compimento della metafisica occidentale in quanto essa pensa insieme lo schiudersi e l’apparire, il divenire e l’essere senza scorgerne la “differenza”; pensa, cioè, la physis come ambito stabile e presente, come il “reale” in cui è possibile operare. Tale concezione della physis, in cui secondo Heidegger si compie il senso dell’essere nel primo inizio greco del pensiero, diviene poi, nel pensiero moderno, del tutto ovvia e non viene più 75.  «Imprimere al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema volontà di potenza» (F. Nietzsche,  Frammenti postumi 1885-1887, cit., fr. 7 [54], p. 297). Tale imperativo della volontà di potenza è formalmente identico a quello dell’Arbeiter jüngeriano che, attraverso la mobilitazione tecnica, imprime al reale la forma del lavoro. Per questo il nuovo Tipo umano descritto da Jünger può essere interpretato da Heidegger come la realizzazione tecnica dello Übermensch nietzscheano: cfr. M. Heidegger, Ernst Jünger, cit., p. 159. 76.  M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 538.

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messa in discussione77. L’operare si configura sempre più chiaramente come operare tecnico trans-mutante proprio perché il reale risulta dalla cristallizzazione e razionalizzazione78 del divenire e, dunque, reca in sé una sorta di sotterranea fluidità ontologica che lo espone e lo destina alla potenza proteiforme della tecnica. Il prevalere della volontà di potenza tecnica deriverebbe, dunque, da quello che ancora Heidegger intende come un “adombramento” dell’essere da parte del reale inteso come ambito della operatività: pensare Nietzsche come «limite interno» della metafisica significa esperire «quanto ampiamente e quanto decisamente l’essere sia già coperto dall’ombra dell’ente e della supremazia del cosiddetto reale»79. Il reale è interpretato, dunque, come ambito dell’operare nel senso della pro-duzione, del portare l’ente nella presenza80, ma non più, in senso originariamente greco e aristotelico, come energheia o entelecheia, ovvero come il mantenersi nella pienezza e nella compiutezza della presenza; il reale, piuttosto, si manifesta, in un senso che secondo Heidegger inizia a emergere nella romanità e poi si afferma nella scolastica e nella filosofia moderna, come il risultato di una operatio, l’effetto di

77.  «L’interpretazione iniziale dell’essere come stabilità dell’essere presente viene ora salvata nell’improblematicità» (ivi, p. 539). 78.  «Non “conoscere”, ma schematizzare, imporre al caos tanta regolarità e tante forme, quanto basta per soddisfare il nostro bisogno pratico» (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., fr. 14 [152], p. 122). Così commenta Heidegger: «Il conoscere è schematizzare, ciò che deve essere conosciuto e il conoscibile sono caos, e chi conosce è la prassi della vita» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 459). 79.  Ivi, p. 539. 80.  «“Realtà” significa quindi, pensata in modo sufficientemente ampio: lo star-dinanzi [Vorliegen] pro-dotto nella presenza, la presenza in se stessa compiuta di ciò che si produce» (M. Heidegger, Scienza e meditazione [1954], in Id., Saggi e discorsi, cit., pp. 28-44: p. 31).

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una causa che attraverso un “fare” – un “lavorare” – è in grado di produrre stabilizzazione e assicurazione dell’ente presente, che assume, ora, lo statuto di oggetto di contro a un soggetto che lo domina sia teoricamente, attraverso la rappresentazione scientifica81, che praticamente, attraverso la manipolazione trasmutante della tecnica. La stessa oggettità, a cui il rappresentare catturante della scienza riduce il reale, viene, anzi, ricompresa nella determinazione della cosa come «fondo» (Bestand) disponibile per l’impiego tecnico82, facendo, dunque, emergere il rapporto di dipendenza dell’approccio scientifico al reale nei confronti dell’operare tecnico. Lungi dall’essere “scienza applicata”, la tecnica è, infatti, il sapere originario che sta alla base di ogni possibile operare, anche di quel particolare operare apparentemente “contemplativo” che è il rappresentare della scienza moderna83. 81.  «La scienza “ferma” [stellt] il reale. Essa lo ferma e lo interpella in modo che il reale di volta in volta si presenti come effettuato, cioè nella concatenazione constatabile di cause date. Il reale diventa così perseguibile e calcolabile. Il reale viene assicurato nella sua oggettità. […] Il rappresentare catturante [das nachstellende Vorstellen], che si assicura tutto il reale nella sua perseguibile oggettità, è il tratto fondamentale del modo di rappresentazione mediante cui la scienza moderna corrisponde al reale» (ivi, p. 35). Anticipando queste riflessioni heideggeriane, Spengler affermava nel Tramonto dell’Occidente che «la teoria è già una ipotesi di lavoro» (O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., p. 1388). 82.  Il termine Bestand «caratterizza niente meno che il modo in cui è presente tutto che ha rapporto al disvelamento pro-vocante. Ciò che sta nel senso del “fondo”, non ci sta più di fronte come oggetto [Gegenstand]» (M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p. 12). 83.  Tale predominio della tecnica sulla scienza è, peraltro, dimostrato dalla decisiva funzione del metodo sperimentale per l’affermarsi della scienza moderna che già Nietzsche aveva intuito: «Non la vittoria della scienza è ciò che distingue il XIX secolo, ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza» (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., fr. 15 [51], p. 231). Così Heidegger commenta questo decisivo frammento: «La corsa folle che oggi trascina le scienze verso mete che esse stesse ignorano ha la

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5. La macchina Il carattere operativo del reale che, secondo Heidegger, si esprime dapprima nell’oggettità, e in seguito nella disponibilità per l’imposizione tecnica e nella generale fattibilità e calcolabilità dell’ente presente, si mostra, nella nostra prospettiva ermeneutica, come manifestazione emblematica del passaggio dalla tecnica antica a quella moderna. È, infatti, proprio della tecnica moderna il rivendicare il dominio sul divenire a partire dalla propria potenza operativa e dalla capacità di trasformazione non soltanto dell’ente dato, ma anche del principio del suo mutamento, ovvero della sua energia motrice: non soltanto la metabolé viene posta sotto il controllo tecnico-­scientifico in quanto procedura produttiva, ma il principio stesso della metabolé – la causa efficiens – viene ridotto a «energia produttiva» in grado di compiere un “lavoro”. In questo senso è decisivo l’impiego che, a partire dalla Rivoluzione industriale, la tecnica fa delle macchine che, sempre più, assumono la forma di autonome centrali di produzione meta­morfica. Con l’evolversi della tecnica, la macchina, infatti, si distingue sempre di più dal mero strumento artefatto e tende ad assumere i tratti di un meccanismo in grado di svolgere un “procedimento artificioso” che serve a produrre un effetto non riproducendo o incentivando le dinamiche naturali, ma, al

sua forza propulsiva nel potenziamento e nel progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle possibilità a questo intrinseche. Nel metodo è tutta la potenza del sapere» (M. Heidegger, L’essenza del linguaggio, in Id., In cammino verso il linguaggio [1959], tr. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1988, pp. 127-171: p. 141). Sul rapporto tra metodo e via (Weg), methodos e hodós nel pensiero di Heidegger, cfr. C. Resta, Il Luogo e le Vie. Geografie del pensiero in Martin Heidegger, FrancoAngeli, Milano 1996, pp. 28-37.

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contrario, contrapponendosi con ingegno e astuzia ad esse84. Per raggiungere il suo obiettivo la macchina non si serve, infatti, della logica che governa i fenomeni naturali, ma, fin dalle sue forme più rudimentali, mette in atto un procedimento indiretto e spesso molto articolato, perfino contorto e farraginoso, come ci mostra chiaramente la prima macchina della modernità: l’orologio meccanico85. In esso un complesso sistema di leve, pulegge e contrappesi genera il movimento circolare delle lancette che la fisica aristotelica considerava come la più semplice e fondamentale forma di movimento86. Ma l’essenza trasmutante della macchina moderna emerge in modo lampante dalla sua caratterizzazione termodinamica che si impone a partire dalla Rivoluzione industriale: la macchina diviene ora un trasformatore di energia, come emblematicamente dimostra la macchina a vapore che, trasformando il calore in movimento, in modo paradigmatico mostra di essere non soltanto causa di una metabolé come traslazione – come lo erano le macchine semplici –, ma fonte della trasformazio-

84.  Questo riferimento alla funzione artificiale e ingannevole della macchina si ritrova nel termine greco mechané, che significa artificio, espediente, inganno, intrico (significati, questi, che risuonano nella parola italiana “macchinazione”), ma anche capacità inventiva. L’emblema per eccellenza della macchina intesa in questo senso è il cavallo di Troia escogitato da Ulisse. Per una trattazione della valenza filosofica e antropologica della macchina, cfr. N. Russo (a cura di), L’uomo e le macchine. Per un’antropologia della tecnica, Guida, Napoli 2007. 85.  Jünger sottolinea l’importanza simbolica di questa invenzione gotica attraverso cui non solo viene assoggettata la forza di gravità – tramite la scoperta dello scappamento –, ma il tempo stesso viene imbrigliato in un ritmo artificiale che conferisce all’uomo uno straordinario potere: cfr. E. Jünger, Il libro dell’orologio a polvere (1954), tr. it. di A. La Rocca e G. Russo, Adelphi, Milano 1994, pp. 68-78. 86.  La ruota e il movimento circolare da essa generato sono alla base del funzionamento delle macchine antiche e moderne.

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ne della causa stessa del movimento e del conseguente lavoro, ovvero un erogatore di energia87. Come notava Spengler, la macchina è l’emblema della tecnica faustiana e del suo pathos di dominio sulla natura, in quanto realizza il sogno alchemico della trasmutazione della materia in spirito (di cui simbolo è l’oro), della sua “animazione” e sottomissione alla volontà umana. Mentre il pensatore antico “contempla” la natura, «quello arabo cerca quale alchimista la sostanza magica, la pietra filosofale grazie alla quale si possono possedere senza fatica i tesori della natura; quello occidentale vuol dirigere il mondo secondo il suo volere»88. Viene qui in luce l’origine religioso-cultuale della medievale scientia experimentalis da cui discende la tecnica moderna89: l’invenzione delle prime macchine da parte dei monaci del primo gotico ha un carattere alchemico e rivoluzionario in quanto tende a strappare a Dio i suoi segreti e in particolare il segreto del movimento e della mutazione; per questo il sogno di realizzare il perpetuum mobile – l’ideale della macchina come automa – costituisce la massima tentazione, in quanto tale scoperta tecnica sottrarrebbe a Dio l’esclusività della potenza cinetica e quindi la sua onnipotenza. La macchina, in quanto piccolo co-

87.  La tecnica moderna supera la concezione vitruviana della macchina in quanto sostituisce all’insieme di strumenti azionati dalla forza muscolare, in cui consisteva la tecnica antica, un complesso e raffinato conglomerato di strumenti – un dispositivo meccanico – che non produce più singole azioni, ma processi in grado di generare energia e non semplici prestazioni meccaniche. In modo esemplare muta la funzione di quella macchina altrettanto archetipica dell’orologio a ingranaggi che è il mulino: nel Medioevo «l’idea che con i mulini fosse possibile non solo macinare il grano e spremere l’olio, ma anche produrre energia e luce, era lontanissima» (ivi, p. 123). 88.  O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., pp. 1388-1389. 89.  «L’interrogazione violenta della natura, per mezzo di leve e di viti, ha dato inizio a ciò il cui risultato ci sta oggi dinanzi agli occhi: lo spettacolo di pianure cosparse di camini di fabbriche e di altiforni» (ivi, p. 1389).

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smo obbediente esclusivamente alla volontà dell’uomo90, diventa qualcosa di diabolico perché estromette Dio dal suo ferreo funzionamento: «La macchina è stata sentita come qualcosa di diabolico, e non a torto. Agli occhi del credente essa rappresenta la detronizzazione di Dio. Essa pone la causalità sacra nelle mani dell’uomo e questi la mette silenziosamente, irresistibilmente in moto con una specie di preveggente onnisapienza»91. Come avrebbe ampiamente mostrato Jünger negli anni Trenta, la macchina consegna l’uomo all’orizzonte onnipervasivo dell’attivismo lavorativo: «La macchina lavora e costringe l’uomo a lavorare insieme ad essa. Tutta la civiltà è giunta ad un tale grado di attivismo, che sotto di esso la terra trema»92. Nella considerazione jüngeriana delle macchine ritroviamo, infatti, l’inquietudine prometeica che promana già dalle pagine spengleriane. In Jünger accenti futuristici si mescolano

90.  La macchina caratterizza la tecnica come tattica predatoria della vita: «Creare da sé un mondo, essere in sé un Dio – questo era il sogno faustiano dell’inventore, da cui traggono origine tutti i progetti di macchina che si avvicinano enormemente alla meta irraggiungibile del perpetuum mobile. Il concetto di preda viene portato qui alle sue estreme conseguenze. […] Il mondo in quanto tale, con il segreto della sua forza, viene trascinato in catene fin dentro l’edificio della civiltà faustiana» (O. Spengler, L’uomo e la tecnica, cit., pp. 84-85). 91.  O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., p. 1392. 92.  Ivi, p. 1391. E ancora, anticipando di vari decenni la sensibilità ecologica: «La natura viene saccheggiata, tutta la terra viene offerta in olocausto al pensiero faustiano sotto specie di energia. La terra che lavora è l’essenza della visione faustiana» (ivi, p. 1395). Ne L’uomo e la tecnica Spengler anticipa, in questa prospettiva, la caratterizzazione heideggeriana della tecnica come potenza che provoca violentemente la natura a mettere a disposizione materie e soprattutto energie: «La natura non veniva più depredata dei suoi materiali, ma sfruttata e soggiogata per le sue stesse forze, obbligata a fornire prestazioni da schiava, al fine di accrescere la potenza dell’uomo. Questo mostruoso pensiero, estraneo a tutte le altre civiltà, nasce contemporaneamente alla civiltà faustiana» (O. Spengler, L’uomo e la tecnica, cit., p. 84).

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a una ripresa della figura nietzscheana dello Übermensch capace di incarnare in sé l’imperativo della volontà di potenza e padroneggiare i mezzi della sua realizzazione. Il «moto imponente di un’energia azionata e comandata con sicurezza»93 che si sprigiona dalle macchine volanti dei primi velivoli bellici e il «tremendo ruggito della forza che vuole sottrarsi alla terra»94 ritraggono, in una celebre pagina del Cuore avventuroso, lo slancio esaltante dell’anima faustiana, portando in scena il tipico sentimento che lega il nuovo Tipo umano dell’Arbeiter alla macchina, sia essa una macchina bellica oppure una macchina del pacifico mondo del progresso tecnico: «Un sentimento fiero e doloroso – il sentimento di chi si trova in uno stato d’emergenza [Ernstfall], e non fa differenza se stiamo viaggiando in una cabina di lusso come in un guscio di madreperla o se il nostro occhio inquadra il nemico nel reticolo di collimazione del mirino»95. L’emergenza (Ernstfall), il caso serio e grave del nostro essere assoggettati a una costrizione senza scampo, a un destino ferreo e incombente che dirige le nostre volontà e i nostri desideri, è il sentimento fondamentale dell’automatismo imperante della civiltà tecnica. La profonda inquietudine che la società del benessere tecnico tenta invano di rimuovere deriva non soltanto dal carattere potenzialmente distruttivo delle macchine96, ma soprattutto dalla loro facies automatica

93.  E. Jünger, Il canto delle macchine (1938), in Id., Il cuore avventuroso. Figurazioni e capricci, tr. it. di Q. Principe, Guanda, Parma 1994, pp. 5658: p. 56. 94.  Ibidem. 95.  Ivi, p. 57. 96.  «Le vittime richieste dallo sviluppo tecnico ci appaiono necessarie perché in conformità con il nostro Tipo: quello del Lavoratore» (E. Jünger, Sul dolore [1934], in Id., Foglie e pietre, cit., pp. 139-185: p. 174). Sul rapporto tra tecnica e dolore in Jünger mi sono soffermato in S. Gorgone, Cristallografie dell’invisibile. Dolore, eros e temporalità in Ernst Jünger, Mimesis, Milano 2002, pp. 29-69.

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rispetto a cui il faustiano orgoglio del vincitore, con cui si conclude il frammento jüngeriano97, si mostra sempre più impotente ed effimero. L’automatismo non è solo fonte di inquietudine perché, come voleva Freud, consegna la macchina a una sfera di indistinzione ontologica rispetto alla soglia vita/non-vita98, ma soprattutto perché induce nell’uomo un’autocomprensione di tipo meccanicistico e automatico. Come ha mostrato Carlo Sini99, sulla scorta del decisivo studio di Mario Losano sugli automi100, l’automa racchiude in sé una molteplicità di significati; esso non indica soltanto la macchina che ha in sé il principio del suo movimento, ma anche ciò che, avendo perso la sua propria volontà, si muove in modo cieco, passivo, “automatico”, seguendo la volontà di un altro, e, infine, secondo la principale definizione di Losano, ciò che nel movimento e nel suono cerca di riprodurre le sembianze degli esseri animali. Decisiva appare, in questo senso, la passione per gli automi antropomorfi, già definiti “androidi” da Diderot e D’Alembert nella loro Enciclopedia. Il fascino di queste “creature meccaniche” consiste nella capacità che esse hanno di richiamare alla mente le movenze di un essere vivente, ma soprattutto nella loro funzione lavorativa; dalla loro evoluzione si sviluppa in Europa il telaio meccanico che poi consente, insieme con la scoperta della 97.  «Esistono attimi in cui il canto delle macchine, il sottile ronzio della corrente elettrica, il tremito delle turbine mosse dalle cascate, la ritmica esplosione dei motori, ci afferrano empiendoci di un segreto orgoglio: l’orgoglio del vincitore» (E. Jünger, Il canto delle macchine, cit., pp. 57-58). 98.  Cfr. S. Freud, Il perturbante (1919), tr. it. di S. Daniele, in Opere di Sigmund Freud, a cura di C.L. Musatti, vol. IX, Boringhieri, Torino 1977, pp. 77-114. 99.  C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa. Lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto, Bollati Boringhieri, Torino 2009. 100.  M.G. Losano, Storie di automi. Dalla Grecia classica alla belle époque, Einaudi, Torino 1990.

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potenza motrice del vapore, l’esplodere della Rivoluzione industriale. Come sostiene Losano, è con gli automi che nasce in Occidente un certo modo, eminentemente tecnico, di conoscere101; nella capacità lavorativa e trasformatrice del reale che per la prima volta emerge in queste macchine semoventi, l’uomo riconosce la potenza rivoluzionaria del meccanismo. L’imporsi del sapere tecnico, emblematicamente rappresentato dai primi automi e dalla loro capacità di operare, implica che la natura – e l’uomo al centro di essa – venga sempre di più osservata attraverso gli occhi artificiali della macchina. A partire dal trattato di Cartesio sull’uomo, come sostiene Carlo Sini, «non è la macchina che imita artificiosamente l’uomo, è l’essere umano che è fatto come mostra la macchina, sebbene in modi assai più sottili e complessi; modi che sfuggono ai grossolani sensi umani»102. Il corpo umano, infatti, per Cartesio può essere considerato «come una macchina che, essendo opera delle mani di Dio, è incomparabilmente meglio regolata e porta in sé movimenti più degni di ammirazione di tutte quelle che gli uomini possono inventare»103. Apparentemente, sembrerebbe che Cartesio equipari gli automi unicamente agli animali; in essi, infatti, la natura agisce secondo la disposizione “meccanica” dei loro organi riuscendo a raggiungere prestazioni anche migliori di quelle umane, «come possiamo vedere in un orologio che, composto soltanto di ruote e di molle, può contare le ore e misurare il tempo più esattamente di noi, con tutta la nostra sapienza»104. E tuttavia, nonostante egli si sforzi di rimarcare la differenza tra

101.  Cfr. ivi, p. 16. 102.  C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa, cit., p. 15. 103.  R. Descartes, Discorso sul metodo (1637), tr. it. di M. Garin, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 75. 104.  Ivi, p. 79.

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uomo e animale, differenza culminante nel possesso esclusivo dell’uomo dell’anima razionale «che non si può in nessun modo ricavare dalla potenza della materia […] ma che deve essere creata espressamente»105, troppo estrinseca e caduca risulta l’unione tra tale anima e il corpo-macchina in grado di produrre e mantenere autonomamente tutti i processi metabolici che caratterizzano ogni essere vivente. Che la storia degli effetti di questa teoria cartesiana dell’uomo-­ macchina fosse all’origine del materialismo moderno non è, dunque, sorprendente. Quello che Cartesio non ha osato affermare, l’interpretazione integralmente meccanicistica dell’uomo, è al centro di uno dei più fortunati e controversi testi polemici dell’Illuminismo, L’uomo macchina, scritto nel 1747 dal filosofo e medico Julien Offray de La Mettrie. L’integrale isomorfismo materialistico di anima e corpo, che costituisce l’asse portante di questo rivoluzionario pamphlet, viene esemplificato dalla descrizione del modo in cui entrambi vengono avvolti dal sonno: L’anima e il corpo si addormentano insieme. Via via che il movimento del sangue si calma, una dolce sensazione di pace e di tranquillità si diffonde all’intera macchina, l’anima si sente mollemente appesantire con le palpebre e afflosciare con le fibre del cervello, tanto da diventare, poco a poco, come paralitica, insieme a tutti i muscoli del corpo.106

105.  Ibidem. 106.  J.O. de La Mettrie, L’uomo macchina, tr. it. di F. Polidori, Mimesis, Milano-Udine 2015, p. 33. Sintomatico è, nel nostro percorso, questo esempio di La Mettrie dell’abbraccio del corpo-macchina da parte di Morfeo: come la figura alata di Morfeo (il cui nome deriva direttamente da morphé, “forma”) è incaricata di assumere la forma di esseri umani e di mostrarsi agli uomini addormentati durante i loro sogni, similmente la funzione principale del corpo-macchina è quella di assumere e conservare la “forma” umana tramite raffinati meccanismi fisiologici che consentono l’esplicarsi delle diverse funzionalità biologiche e psichiche.

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Il corpo umano è, dunque, la macchina per eccellenza perché incarna in sé l’ideale a cui, come abbiamo visto, miravano le elucubrazioni dei monaci medievali, ovvero il perpetuum mobile: «Il corpo umano è una macchina che carica da sé le sue molle, immagine vivente del moto perpetuo»107. La riconduzione delle facoltà psichiche alle funzioni neurobiologiche interpretate meccanicisticamente comporta la radicale esclusione di ogni “ipotesi dell’anima” e rende, dunque, fallaci e grotteschi i tentativi di spiegazione delle sue interazioni con il corpo umano, ontologicamente differente da essa, che tanto avevano affaticato Cartesio. La Mettrie è, infatti, convinto che la struttura organica, ossia il complesso meccanismo fisiologico in cui consiste l’essere umano, è del tutto sufficiente a spiegare le mirabili prestazioni della mente umana, della ragione e della più “delicata coscienza”. Se è evidente che lo sviluppo del pensiero – argomenta La Mettrie – è legato a quello degli organi, perché mai la materia organica non dovrebbe possedere di per sé la facoltà di sentire e di pensare? Assistiamo qui a un decisivo superamento della concezione aristotelica del rapporto anima-corpo che ha poi dominato per i secoli successivi, fino a Cartesio e oltre, con molteplici variazioni se pure senza significativi cambiamenti. Pur confrontandosi con il corpo vivente in atto e, dunque, sottraendosi programmaticamente a ogni tentazione dualistica, Aristotele, infatti, interpreta l’anima come forma di un corpo capace di vita, ossia giunto a un determinato livello di maturazione della “materia organica”, e quindi dotato di organi necessari all’esplicazione delle funzioni vitali. Il corpo organico non sussiste

107.  Ivi, p. 34. Il cibo è considerato come un carburante che alimenta i meccanismi fisici e psichici: «Basta nutrire il corpo, versare nei suoi vasi succhi energetici o forti liquori ed ecco che l’anima […] si arma di un fiero coraggio e il soldato, che l’acqua avrebbe fatto fuggire, diventa feroce e corre allegramente a morire al rullo dei tamburi» (ibidem).

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quindi indipendentemente dall’anima, anche se rimane reale la distinzione tra l’anima, come principio formale, efficiente e finale, e il corpo organico, inteso come entità materiale108. Non soltanto, dunque, riprendendo l’articolazione aristotelica, la facoltà sensitiva e l’intelletto si ritrovano già all’interno della facoltà vegetativa dell’anima, ma viene meno la stessa necessità di nominare qualcosa come l’anima che si distingua dal composto organico: «L’anima dunque è solo un termine inutile di cui non si ha alcuna idea, e una persona assennata dovrebbe servirsene solo per nominare la parte che in noi pensa»109. Ma lo spiccato carattere meccanicistico della concezione dell’uomo di La Mettrie emerge soprattutto dal collegamento che egli stabilisce tra le prestazioni fisiche, psichiche e intellettuali del corpo umano e il «più elementare principio di movimento»: nella struttura organica è, dunque, insita quella causalità meccanica che produce con modalità del tutto analoghe sia il movimento di traslazione nello spazio che il movimento dei sentimenti e dei pensieri110. La fonte energetica di ogni metabolé umana, il principio motore dei corpi, risiede per La Mettrie in quel particolare tessuto che costituisce una sorta di “fondo metabolico” di ogni organo del nostro corpo e che già dall’antichità era stato nomina-

108.  È questo il senso della celebre affermazione aristotelica secondo cui «l’anima è sostanza, nel senso che è forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza. […] Essa è l’atto primo di un corpo naturale dotato di organi» (Aristotele, De anima, B1, 412a 20-21, 29-30). 109.  J.O. de La Mettrie, L’uomo macchina, cit., p. 55. 110.  «Posto il più elementare principio di movimento, i corpi animati avranno tutto ciò che gli occorre per muoversi, sentire, pensare, pentirsi, per condursi insomma nella dimensione fisica e in quella morale, che ne dipende» (ibidem). Il pensiero, più avanti, viene definito come una «proprietà» della materia organica, al pari dell’elettricità, della facoltà motoria, dell’impenetrabilità e dell’estensione: cfr. ivi, p. 65.

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to come “parenchima”. Se oggi la medicina indica con questo nome il tessuto che esplica le funzioni vitali specifiche di ogni organo, per La Mettrie in esso si concentrava quella forza motrice e propulsiva di ogni sua singola parte che egli esemplificava con la forza dinamica che si sprigiona da una molla, ossia da quel componente elementare di ogni macchina del tempo in grado di svolgere movimenti automatici, come mostra in modo emblematico l’orologio meccanico. Nel parenchima esplicano la loro azione le «molle della macchina umana, la cui azione produce tutti i movimenti vitali, animali, naturali e automatici»111. L’anima è, dunque, il supremo principio di movimento del corpo umano, la «molla principale di tutta la macchina»112 che aziona tutte le altre molle di un corpo, il quale, dunque, assume sempre di più la forma di un complesso sistema idraulico e meccanico; un perfetto orologio naturale in grado di resistere anche all’usura del tempo, il cui funzionamento, raffinato e mirabile, non sfugge, tuttavia, a quelle stesse leggi fisiche che governano i congegni meccanici113. Non vi è, tuttavia, nella prospettiva riduzionistica e materialistica di La Mettrie, alcun intento di svilire la dignità e il rango dell’uomo, in modo simile ad alcune tendenze postumanistiche della nostra attualità che rivendicano, piuttosto, una peculiare pregnanza naturale e biologica dell’umano contro il paradigma della carenza biologica dell’uomo tipico dell’an111.  Ivi, p. 57. Per La Mettrie la molla specifica del cervello è l’immaginazione, che, dunque, è l’origine del movimento del pensiero: cfr. ivi, p. 58. 112.  Ivi, p. 60. 113.  «Il corpo umano è un orologio, un orologio immenso e costruito con ingegno e abilità tali che se la sfera che serve a segnare i secondi si ferma, quella dei minuti continua a girare e ad andare avanti, come del resto la sfera dei quarti e anche le altre, quando le prime, arrugginite o rovinate da una causa qualsiasi, abbiano interrotto il loro moto» (ivi, p. 64).

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tropologia filosofica novecentesca. Non vi è, in altri termini, un declassamento dell’umano, semmai una forte affermazione dell’appartenenza della mirabile creatura umana alla potenza produttiva e metamorfica della natura: No, la materia non ha niente di vile, se non per il rozzo sguardo che disconosce le sue opere più brillanti; e la natura è un’ope­raia niente affatto ottusa, che produce milioni di uomini con più facilità e maggior piacere di quanto un orologiaio non fatichi a fabbricare il più complicato degli orologi. La sua potenza splende in uguale misura sia nella produzione del più vile insetto, sia in quella dell’uomo più superbo, il regno animale non le costa più del regno vegetale, né il genio meglio riuscito più di una spiga di grano.114

La potenza della natura è mirabile perché in essa si cela il mistero per cui la materia possiede la sorprendente proprietà di sentire, di giudicare, agire moralmente e di pensare115, che noi possiamo intuire soltanto attraverso lo studio degli automatismi propri delle macchine. Così come rimane inaccessibile il meccanismo per cui dalla materia organica si producano le facoltà che la tradizione attribuisce alla presenza dell’anima, altrettanto misteriosa rimane la potenza metamorfica della natura che presuppone una potenzialità proteiforme immanente alla materia stessa. La più strabiliante meraviglia della materia organica, infatti, non è quella di produrre la vita sensitiva e intellettuale, ma di spingere la sua potenza metamorfica financo oltre la morte116. 114.  Ivi, p. 68. 115.  «Essere una macchina, sentire, pensare, saper distinguere il bene dal male come il blu dal giallo, essere insomma nati non privi di intelligenza e di un sicuro istinto morale, pur senza essere altro che un animale, sono dunque cose niente affatto in contraddizione» (ivi, p. 65). 116.  Tale concetto di metamorfosi oltre la morte costituisce l’estrema declinazione della pretesa tecnica di dominio sulla metabolé e, non a caso, viene rievocata all’interno di alcune prospettive transumanistiche il cui dichiarato obiettivo è quello di un superamento tecnico della condizione biologica

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Portando come esempio la trasformazione del bruco in farfalla, centrale per ogni teoria della metamorfosi, La Mettrie afferma che negare la possibilità di una macchina immortale è assurdo quanto il timore di estinzione della propria specie che potrebbe cogliere il bruco alla vista delle spoglie dei suoi simili. Tali insetti non riescono a comprendere le «metamorfosi della natura» e «nemmeno il più smaliziato dei bruchi potrebbe mai immaginare di dover diventare farfalla. Lo stesso vale per noi: cosa sappiamo del nostro destino più di quanto non conosciamo della nostra origine? Non ci resta dunque che arrenderci a una invincibile ignoranza, da cui dipende la nostra felicità»117. La macchina diviene, dunque, un prototipo del corpo umano: essa non è imitazione artificiale delle funzioni organiche naturali, ma è l’esemplificazione, in modo molto più grossolano, del funzionamento “metabolico” e psichico molto più complesso e sottile dell’essere umano. È, pertanto, evidente che il meccanismo emblematico dell’orologio a ingranaggi divenga il modello a cui si ispira la nuova cosmologia scientifica e la medicina, ossia la scienza che già Cartesio nel Discorso sul metodo considera la disciplina fondamentale per promuovere il progresso materiale e morale dell’umanità.

6. Sub specie machinae La macchina, dunque, è il simbolo dell’isomorfismo tra mondo artificiale e natura; nel rigore quasi metafisico del funzio-

dell’umano e, dunque, della sua stessa mortalità. Per una caratterizzazione teorico-programmatica del transumanismo, cfr. N. Bostrom, A History of Transhumanist Thought, in «Journal of Evolution and Technology», n. 14, 2005, pp. 1-25. 117.  J.O. de La Mettrie, L’uomo macchina, cit., p. 69.

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namento dei suoi congegni, essa mostra l’inesorabile carattere meccanicistico delle dinamiche dei fenomeni naturali la cui causalità è compresa adesso integralmente sub specie machinae118. Ma i caratteri di ricorrenza, regolarità, quantificabilità e causalità efficiente, a partire da cui la modernità, posta al cospetto della macchina, inizia a comprendere la natura e l’uomo e a immaginare la loro manipolazione tecnica, non potrebbero garantire il dominio sul divenire della realtà, intesa – lo si è mostrato sopra – come risultato di un operare, se nella macchina non vi fosse già presente un decisivo riferimento al fare in senso produttivo: i termini greci mechanè, machanà indicano lo strumento per fare o compiere qualcosa nel senso del far crescere, far aumentare119. Non è, tuttavia, estranea anche la radice greca mêchos, che insieme a strumento significa anche leva, artificio, o, più in generale, un congegno atto a produrre e regolare il movimento e a sollecitare gli agenti naturali. La macchina diviene, dunque, forza motrice e, allo stesso tempo, evocatrice delle risorse e delle energie naturali120, luogo di produzione di un “lavoro” nel senso fisico dell’applicazione di un’energia, ma anche – lo abbiamo visto – costruzione artificiosa, luogo del sospetto e dell’inganno, del piano segreto che 118.  «Dalla fine del medioevo a oggi avviene un progressivo specificarsi dell’idea di adaequatio machinae ad rem in quella di adaequatio machinae et rei, nel senso di una concezione della macchina come perfettamente isomorfa alla natura, che trapassa velocemente nella pratica scientifica e più lentamente nella consapevolezza filosofica in una vera e propria adaequatio rei ad machinam» (N. Russo, Il contributo della teoria delle macchine alle scienze della natura e dell’uomo, in Id., Polymechanos Anthropos. La natura, l’uomo, le macchine, Guida, Napoli 2008, p. 108). 119.  A tale etimo sono collegati anche i termini tedeschi Macht, forza, potenza e machen, fare. 120.  Secondo Heidegger è questo il carattere essenziale della tecnica moderna interpretata come «disvelamento provocante» a differenza di quella antica che rappresenterebbe la modalità «producente» del disvelamento: cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p. 11.

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attenta alla nostra incolumità121 – in questo senso il cavallo di Troia è la “macchina” per eccellenza – e, da ultimo, della potenziale frustrazione del sé rispetto a un apparato tecnico che ci sovrasta. Dal carattere di mediazione ed esemplificazione della macchina si passa, dunque, con una torsione tanto impercettibile e sottile quanto ineluttabile e fatale, alla sua funzione oppressiva e totalitaria. Servendoci dell’efficace metafora di Günther Anders, la modernità passa dalla sovranità e dall’orgoglio prometeico dell’homo faber alla vergogna prometeica. Come, sulla soglia del Novecento, aveva già intuito Georg Simmel nella sua monumentale e profetica Filosofia del denaro122, la macchina assume, in una sorta di rivincita rispetto all’aspirazione di dominio faustiana, una preminenza “spirituale” sull’uomo. Il bagaglio di conoscenze, abilità e tecniche che si accumula come cultura oggettiva è talmente preponderante rispetto alla cultura soggettiva di chi impiega le macchine e usufruisce delle prestazioni e dei servizi tecnici che ne deriva un profondo senso di inadeguatezza e di frustrazione. La macchina è divenuta molto più “spirituale” del lavoratore. Quanti lavoratori, persino all’interno della grande industria, sono in grado oggi di capire la macchina con cui hanno a che fare, di capire cioè lo spirito investito nella macchina? Lo stesso vale per la cultura militare. Quello che deve fare il singolo soldato è rimasto sostanzialmente invariato da molto tempo; anzi, in alcuni casi, il livello della sua prestazione è stato svalutato dal modo moderno di condurre la guerra. Al

121.  Da qui il significato odierno di “macchinazione”. 122.  G. Simmel, Filosofia del denaro (1900), tr. it. di A. Cavalli, R. Liebhart, L. Perucchi, UTET, Torino 1984. L’equivalenza assoluta del denaro, descritta in quest’opera, e la sua indiscriminata impiegabilità come valore indefinitamente convertibile prefigurano il carattere proteiforme della tecnica che si sarebbe pienamente manifestato nei decenni successivi.

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contrario, non solo gli strumenti materiali, ma anche, prima di tutto, l’organizzazione dell’esercito, al di là degli individui che la compongono, sono divenuti incredibilmente raffinati e rappresentano un vero trionfo della cultura oggettiva. Sul piano puramente spirituale, anche gli uomini più colti e riflessivi operano con un numero sempre crescente di rappresentazioni, concetti e affermazioni il cui senso e il cui contenuto precisi conoscono solo in modo incompleto.123

Non si tratta, per Simmel, di denunciare la disparità, pure inquietante e foriera di squilibri sociali e morali, tra l’accelerazione sempre più forsennata del progresso tecnico-scientifico – il ritmo logorante della vita moderna – e le capacità di lenta assimilazione e maturazione interiore, quanto di mostrare il divario tra la complessità della cultura oggettivata incorporata nella tecnica e l’insufficienza della cultura soggettiva dell’individuo. Questi, infatti, dotato di limitate possibilità di trasformazione e di sviluppo, che richiedono un lungo e paziente esercizio124, misura quotidianamente tutta la sua impotenza rispetto alla potenza proteiforme della tecnica che, non soltanto trasforma la realtà in cui viviamo a ritmi sempre più accelerati, ma provoca un incessante cambiamento delle no-

123.  Ivi, p. 634. Anticipando di vari decenni le riflessioni sociologiche sull’alienazione tecnica dell’individuo e lo squilibrio tra vita interiore e progresso tecnico, tra spirito individuale e patrimonio della cultura oggettiva, Simmel prosegue: «Come la nostra vita esterna viene invasa da un numero sempre crescente di oggetti il cui spirito oggettivo, lo spirito impiegato nel loro processo di produzione, neppure lontanamente concepiamo, così la nostra vita interiore e di relazione […] è riempita da strutture che sono divenute simboliche, strutture nelle quali è cumulato un ampio contenuto intellettuale; ma lo spirito individuale di solito ne utilizza soltanto una minima parte» (ibidem). 124.  Si tratta dello stesso esercizio esistenziale di elevazione del sé che, secondo Pierre Hadot, i filosofi antichi hanno praticato nel loro quotidiano interrogare: cfr. P. Hadot, La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson (1981), tr. it. di A.C. Peduzzi e L. Cremonesi, Einaudi, Torino 2008.

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stre stesse condizioni sociali, lavorative, psicologiche e perfino biologiche125. Di fronte alla macchina, intesa ora in senso più ampio come apparato amministrativo, burocratico, industriale e sociale che aspira a diventare «macchina totale»126, l’individuo, che ne fa parte come sua singola componente meccanica, sperimenta non soltanto la sua inadeguatezza e incapacità di riconoscimento, ma anche il suo costitutivo fallimento e profondo senso di estraneità. E tuttavia, dal momento che si muove all’interno di un’autocomprensione di tipo macchinale, una volta avulso dall’apparato tecnico, l’individuo si scopre come componente inerte, privo di qualsiasi funzione, “inutilizzabile” rispetto alle dinamiche produttive della “macchina perduta”. 125.  Secondo Galimberti le radici profonde dell’odierna patologia dell’anima sono da ricercare nel divario tra la cultura delle cose e la cultura degli individui per cui «il sogno prometeico di dominare il mondo si è capovolto nell’incubo di un mondo tecnico che domina l’uomo» (U. Galimberti, Psiche e techne, cit., p. 678). A questo predominio della cultura oggettivata sembrano essersi arresi anche i sistemi di istruzione scolastica e di educazione, il cui unico obiettivo sembra essere quello dell’acquisizione di strumenti e competenze tecniche rinunciando a qualsiasi ideale di autentica formazione umana, come già notava Simmel all’inizio del Novecento: «mentre l’ideale educativo del XVII secolo mirava alla formazione dell’uomo, quindi ad un valore personale, interno, nel XIX secolo il concetto di “formazione” si è ristretto a una somma di conoscenze oggettive e di tipi di comportamento. Sembra che questa discrepanza si ampli di continuo» (G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 634). 126.  Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 103. Nell’ambito di una ontologia degli apparati tecnici, «soltanto ciò che rivela di potersi eventualmente qualificare come parte di apparato viene registrato e riconosciuto come “essente”» e il mondo diviene «il nome di un potenziale territorio di occupazione; energie, cose, uomini sono soltanto possibili materiali di requisizione. […] Non ha alcuna importanza se gli apparati usano la loro preda come materia prima, come pezzi di macchina nel senso più stretto, o come consumatori; infatti sia la materia prima che il consumatore fanno parte del processo macchinico. In senso stretto, anch’essi sono “pezzi di macchina”» (ivi, pp. 100-101). Anders sviluppa una vera e propria “ontologia macchinica” in senso espansionista che si fonda sul concetto nietzscheano di “volontà di potenza”: cfr. ivi, pp. 105-115.

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In questa condizione di smarrimento e di perdita, l’uomo sperimenta la sua vergogna prometeica in quanto l’io al cospetto della macchina si rivela nient’altro che come un «“modo deficiente” di essere macchina, nient’altro che una scandalosa non-macchina e un clamoroso Nessuno»127. Nel concetto andersiano di vergogna prometeica si esprime la scissione tra due tipi di metamorfosi che il predominio della tecnica porta a estrema evidenza: da un lato, la potenza proteiforme della tecnica, che, come già visto, grazie al suo fondamento ontologico del potere sul divenire, si applica alla produzione e organizzazione funzionale delle cose del mondo e dell’uomo stesso, aspirando a una totalizzazione del suo potere di assoggettamento; dall’altro, la metamorfosi interiore dell’uomo, il cammino tortuoso, rischioso e sempre manchevole della sua lenta “formazione tecnica”. La vergogna prometeica indica, innanzi tutto, il disagio derivante dal non poter identificarsi integralmente con i ritmi e le conquiste della potenza della tecnica, di essere “umiliati” di fronte alla mirabile «qualità degli oggetti fatti da noi stessi»128, dal doversi «presentare al cospetto di quei meccanismi perfetti nella [propria] goffaggine di essere di carne, nella [propria] imprecisione di creatura»129. Ma la «macchia fondamentale»

127.  G. Anders, L’uomo è antiquato. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale (1956), tr. it. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 94. Galimberti sottolinea in questa dinamica la centralità dell’Es tecnologico che la macchina impone all’individuo anche nel momento in cui lo rifiuta: «l’Io non esce dalla sua esistenza omologata, perché […] il riconoscimento della sua identità resta comunque affidato all’Es tecnologico. E ciò è tanto più inevitabile quanto più l’apparato tecnico realizza la sua intrinseca tendenza, che consiste nel risolvere ogni residuo del mondo nel suo mondo» (U. Galimberti, Psiche e techne, cit., p. 624). 128.  G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 31. 129.  Ivi, p. 32.

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da cui scaturisce la vergogna dell’uomo dinnanzi alla macchina è la sua origine: l’uomo si vergogna di «essere divenuto invece di essere stato fatto, di dovere la sua esistenza, a differenza dei prodotti perfetti e calcolati fino nell’ultimo particolare, al processo cieco e non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita»130. La sua più grande onta consiste, dunque, nel suo natum esse, nei suoi bassi natali contrapposti alla fierezza e all’orgoglio prometeico dell’essere i signori del proprio destino e di se stessi, che si riflette nell’ideale umano del self-made man tipico del XIX secolo. La vergogna dell’odierno homo technologicus non deriva, tuttavia, primariamente dal non potersi riconoscere come il padrone di se stesso, ma nel dover ammettere, di fronte alla macchina, la propria origine “antiquata”, il proprio essere qualcosa di non-fatto: «Non perché provi indignazione per essere fatto da altri (Dio, dèi, natura), ma perché non è fatto per nulla e, nella sua qualità di non-fatto, è inferiore a tutti i suoi prodotti fabbricati»131. 130.  Ibidem. 131.  Ivi, p. 33. Natascia Mattucci nella sua monografia su Anders si sofferma con acume e puntualità sulla portata filosofica e storica della vergogna prometeica relativamente alla colpa originaria dell’uomo di non essere un prodotto: «Dalla consapevolezza di non poter ovviare a questo peccato originale deriva la vergogna di non essere una cosa. Questo stato d’animo è manifestazione tanto della superiorità delle cose, quanto dell’accettazione umana di poter essere ridotti a oggetto. Se il fatto di non essere una cosa è considerato persino difetto, ciò significa che oramai l’umanità è entrata a pieno nel mondo degli apparecchi, anche con i suoi sentimenti. La vergogna prometeica è il sentiero che Anders segue per suffragare la sua visione della tecnica come nuovo soggetto storico, mostrando come l’essere umano sia immesso progressivamente nel mondo dei prodotti» (N. Mattucci, Tecnocrazia e analfabetismo emotivo. Sul pensiero di Günther Anders, Mimesis, MilanoUdine 2018, p. 137). Come vedremo, il concetto andersiano di vergogna prometeica anticipa alcune tendenze del post-umanesimo contemporaneo che considerano il corpo una zavorra e l’ostacolo principale per una radicale tecnicizzazione dell’umano. Lo stesso Anders definisce il corpo un «padre paralitico» (G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 42) che impedisce

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L’imporsi del paradigma ermeneutico del macchinico, per cui l’uomo di autointerpreta a partire dalla logica funzionale della macchina, si ritrova nell’affermazione andersiana della «diserzione» dell’uomo nel campo delle macchine: l’uomo può essere considerato una faulty construction, una “costruzione difettosa”, soltanto se pensato sub specie machinae. Ma il difetto della «costruzione organica»132 tipica dell’umano non consiste semplicemente nell’inferiorità delle sue prestazioni fisiche e cognitive rispetto alle macchine133, ma nella sua refrattarietà rispetto alla potenza metamorfica che in esse la tecnica ha depositato: Il nostro corpo di oggi è quello di ieri, ancora oggi il corpo dei nostri genitori, ancora oggi il corpo dei nostri antenati; il corpo del costruttore di razzi non è praticamente diverso da quello del troglodita. È morfologicamente costante; non-­ libero, refrattario e ottuso; dal punto di vista delle macchine: conservativo, non-progressivo, antiquato, non-­modificabile, un peso morto nell’ascesa delle macchine.134 la piena esplicazione della capacità creativa e proteiforme della tecnica. Mattucci parla del progetto di un’autometamorfosi dell’umano mirante a individuare e superare tecnicamente le soglie fisiche e temporali del corpo umano mediante l’ingegneria applicata all’umano (Human Engineering). Sul rapporto tra la filosofia di Anders e le prospettive biotecnologiche, cfr. anche K.P. Liessmann, Günther Anders. Philosophieren im Zeitalter der technologischen Revolutionen, Beck, München 2002; su Anders e l’antropologia filosofica, cfr. M. Müller, Von der Weltfremdheit zur Antiquiertheit. Philosophische Anthropologie bei Günther Anders, Tectum, Marburg 2012. 132.  Ne L’operaio, Jünger indica con questa espressione il sistema tecnicoeconomico che regge il mondo del lavoro (cfr. E. Jünger, L’operaio, cit., p. 109), ma anche il nuovo principio di organizzazione tecnica per cui viene meno la distinzione tra forze meccanico-elettroniche e forze organiche: cfr. E. Jünger, Lo stato mondiale. Organismo e organizzazione (1960), tr. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma 1998. 133.  Sull’obsolescenza dell’umano determinata dallo sviluppo delle scienze informatiche, cfr. M. Farisco, Ancora uomo. Natura umana e postumanesimo, Vita e Pensiero, Milano 2011, pp. 70-74. 134.  G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 41.

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Si arriva, dunque, al paradossale sovvertimento della radicata convinzione che la libertà sia prerogativa dell’organico e la mancanza di libertà sia, invece, il carattere precipuo del meccanico e dell’inorganico che seguono, invece, una ferrea necessità deterministica135: libere sono adesso le cose, gli artefatti meccanici, e mancante di libertà è invece l’uomo, la cui refrattarietà morfologica rappresenta un ostacolo al libero esplicarsi della tecnica. Come acutamente afferma Anders, noi siamo gli ostacoli principali e, addirittura, i sabotatori delle nostre stesse opere tecniche: Icaro cade non perché la cera non regga, ma perché lui stesso non regge: «se potesse buttar di sotto se stesso come una zavorra, le sue ali potrebbero conquistare il cielo»136. Che l’uomo sia refrattario al Proteo tecnico deriva, secondo Anders, dal fatto che, a differenza delle «cose morte», dinamiche e libere, egli, in quanto «creatura viva», è rigido e impac135.  Emblematico è in questo senso l’incipit della seconda parte del Tramonto dell’Occidente: «La foresta muta, le praterie silenziose, ogni cespuglio e ogni arbusto, in sé non si muovono. È solo il vento che giuoca con essi. Per contro, questo moscerino è libero: ancor nella luce del crepuscolo esso danza; si muove, va dove vuole. […] La pianta come individuo non è libera di attendere, di volere, di scegliersi qualcosa. Invece un animale può scegliere. Egli non è vincolato al resto del mondo. Questo sciame di moscerini che danza ancora sul sentiero, l’uccello solitario che vola nella notte, la volpe che si avvicina cauta al nido, sono dei piccoli mondi a sé, ricompresi in un più grande mondo» (O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., p. 654). Come significativa eccezione rispetto a tale consolidata prospettiva teoretica si può citare la posizione spinoziana – che non a caso sta a fondamento, nella sua ripresa deleuziana, di molte teorie postumaniste – per cui una cosa è libera in quanto ha in sé il principio della propria azione, dunque libertà, determinismo e automatismo convergono fino quasi a coincidere: «Si dice libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e che è determinata da sé sola ad agire» (B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico [1677], tr. it. di G. Durante, riv. da A. Sangiacomo, in B. Spinoza, Tutte le opere, a cura di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano 2011, pp. 1141-1623: parte I, p. 1147). 136.  G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 41.

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ciato perché, a causa della sua costituzione carnale, è troppo «determinato per poter partecipare ai cambiamenti del mondo dei suoi prodotti che varia ogni giorno ed è privo di qualsiasi autodeterminazione»137. La sovradeterminazione umana discende dalla stabilità genetica e dalla conseguente costrizione metabolica che, se da un lato ha consentito la permanenza della specie per milioni di anni – è noto che il nostro patrimonio genetico è praticamente identico a quello dei primi ominidi –, dall’altro preclude alla forma umana di partecipare pienamente al caleidoscopio metamorfico della metabolé tecnico-produttiva. La sempre più diffusa preminenza dell’elemento inorganico rispetto al sostrato organico è, peraltro, un carattere fondamentale dell’affermazione della tecnica, come già notava Arnold Gehlen nel suo testo del 1957 su L’uomo nell’era della tecnica: la concezione machantropica della tecnica138 è fortemente dipendente dal predominio dell’artificiale, per cui la tecnica si esplica come la «natura artificiale»139 dell’uomo grazie all’«impiego sempre crescente dell’elemento inorganico in sostituzione dell’organico»140. Tale processo si esplica secondo due direzioni: da un lato, la materia organica utilizzata per la costruzione di arnesi e artefatti viene progressivamente rimpiazzata da materiali artificiali – i metalli, ad esempio, sostituiscono fino a soppiantare completamente il legno nella costruzione della maggior parte degli utensili – e, dall’altro, la 137.  Ibidem. 138.  «Il mondo della tecnica è […], per così dire, il “grande uomo”, geniale e ricco d’astuzia, promotore e insieme distruttore della vita come l’uomo stesso, come lui in poliedrico rapporto con la natura vergine» (A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica [1957], tr. it. di M.T. Pansera, Armando, Roma 2003, p. 33). 139.  Ibidem. 140.  Ivi, p. 34.

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forza dell’organo umano viene sostituita, a partire dalla Rivoluzione industriale, con energie di origine inorganica. In entrambi i casi – a conferma del nostro paradigma di Proteo –, ciò che non è modificabile e riplasmabile, o che lo è in misura molto limitata, viene sostituito con qualcosa che possiede un elevato grado di duttilità morfologica – la plastica è senz’altro, in questo senso, il massimo esempio di materiale artificiale – e di potenza metamorfica. Lo testimoniano le energie sprigionate da carburanti inorganici che, in modo significativo, quanto più diventano indipendenti dalla disponibilità naturale, tanto più acquisiscono rendimento e raggiungono dirompenti potenzialità di trasformazione, anche catastrofica, dell’ambiente, come mostra chiaramente la scoperta dell’energia atomica. La sostituzione dell’elemento organico con quello inorganico, che rappresenta, dunque, la soglia tecnica decisiva per lo straordinario sviluppo della civiltà umana e che, ancora oggi, orienta le ricerche teoriche e il progresso delle tecnoscienze, in particolare delle biotecnologie, deriva, secondo Gehlen, dal fatto che la natura inorganica sia meglio conoscibile di quella organica: rispetto all’imperscrutabile mistero del vivente, che anche l’attuale biologia è ben lungi dal rivelare, la natura inorganica si presta a essere indagata con enorme sicurezza e padronanza dal nostro pensiero teorico e dagli schemi astratti di tipo matematico che esso sviluppa. Come già aveva intuito Henri Bergson, alla nostra intelligenza, essenzialmente rivolta alla costruzione, sfugge necessariamente quanto c’è di fluido nel reale e ancora di più quanto c’è di vitale nel vivente141. Essa 141.  Nel corso del 1929/30 in cui Heidegger delinea la netta demarcazione ontologica tra il vivente e l’esistente uomo (il Dasein) ritroviamo questa significativa ammissione di impotenza teorica rispetto alla comprensione della vita: «La vita è un ambito che nel suo esser-aperto ha una ricchezza che forse il mondo dell’uomo non conosce per nulla» (M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine [2004], tr. it. di P. Coriando, il melangolo, Genova 1999, p. 327). La difficoltà di

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ha, piuttosto, per suo oggetto precipuo il mondo consolidato dell’inorganico: rispetto alla conoscenza metodica, razionale e rigorosamente analitica, e alla corrispondente prassi sperimentale che si sviluppano nella modernità, la sfera biologica e quella psichica devono necessariamente apparire come irrazionali. La paradossale potenza della tecnica – che Gehlen, tuttavia, sembra non cogliere – consiste nella sua naturale tendenza a riprodurre artificialmente l’organico, ossia in quella sua vocazione prometeica che abbiamo fin qui articolato: la tecnica crea una natura artificiale a partire da materiali ed energie inorganiche che possieda, tuttavia, il maggior grado possibile di fluidità e duttilità con cui replicare in senso non soltanto funzionale i processi e le forme tipiche del mondo organico. È, peraltro, lo stesso Gehlen a indicare, se pure implicitamente, questa vocazione innata della tecnica, nella misura in cui egli ne individua la genealogia nelle pratiche magiche soprattutto attraverso la sua suggestiva ipotesi intorno all’origine del fascino dell’automatismo: l’attrazione verso la ripetitività automatica delle macchine costituirebbe quell’impulso «pre-­ razionale» e «meta­pratico» che per molti millenni «si esplicò nella magia – la tecnica del soprasensibile – fino a trovare solo in epoca molto recente la sua completa espressione in orologi, motori e meccanismi ruotanti di ogni genere»142. L’attrattiva esercitata dai congegni che alimentano da sé il funzionamento dei propri meccanismi – di cui emblema, come abbiamo visto, è l’orologio meccanico – ha la sua più profonda una comprensione del fenomeno vivente è espressa anche nella Lettera sull’«umanismo»: «l’essere-vivente è il più difficile da pensare, perché da un lato è quello che in un certo modo ci è più affine, e dall’altro è ad un tempo separato da un abisso dalla nostra essenza e-sistente» (M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo» [1947], in Id., Segnavia, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 267-315: p. 279). 142.  A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 40.

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radice in quello che Gehlen nomina il fenomeno della “risonanza”: l’uomo, angustiato dall’enigma e dalla precarietà della sua esistenza, ricerca un’interpretazione di sé a partire da un non io, attraverso un elemento non umano; per trovare una soddisfacente formula del sé, «egli si equipara a qualcosa di non umano, e nell’equiparazione se ne differenzia»143. Le religioni hanno offerto molteplici risposte alla domanda sull’essenza propria dell’uomo rapportandola a vicende naturali o al loro superamento trascendente; ciò che, tuttavia, ha agito sull’uomo con maggiore impressione sono stati gli eventi periodici esperiti nei cicli di rotazione degli astri o nella caparbia ripetitività del comportamento degli animali. Tale mirabile ripetitività viene messa in relazione con l’automatismo dei fenomeni biologici fondamentali del proprio corpo, come il battito cardiaco, la respirazione, il funzionamento del proprio apparato digestivo, il movimento del camminare. «Così i processi analoghi, che si attuano nel mondo esterno, lo affascinano in virtù di una “risonanza” che è, per così dire, una specie di senso interno dell’uomo per il proprio elemento costituzionale e risponde a ciò che nel mondo esterno presenta affinità con la propria costituzione»144. Il progresso della tecnica e delle macchine ha necessariamente prodotto la trasformazione di questa interiore risonanza tra il fondo costitutivo dell’uomo e l’elemento inorganico, in riverenza e devozione nei confronti dei sempre più complessi e rigorosi meccanismi automatici che costituiscono il nostro ambiente di vita. Tale processo arriva addirittura a provocare, come nota Anders, umiliazione e senso di colpa nell’uomo, «essere generato», nei confronti degli apparecchi prodotti dalle sue mani che egli ora ritiene «ontologicamente superiori a sé»145.

143.  Ibidem. 144.  Ivi, p. 41. 145.  G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 43.

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La reazione a questo sentimento di inferiorità ontologica è costituita dal tentativo, sempre più pervicacemente perseguito, di approssimarsi alla condizione delle macchine mediante le tecniche della Human Engineering che mirano a sottoporre a metamorfosi il corpo umano liberandolo dalla sua “fatalità” e sottraendolo, quindi, a ciò che esso ha di umiliante nei confronti delle macchine. Tali tecniche si applicano alla materia organica non soltanto con lo scopo di migliorarne le prestazioni, ma, paradossalmente, per coglierla in fallo, ossia per mettere a nudo i suoi “punti deboli”, cioè i «punti in cui è rimasta amorfa, indefinita, fluttuante e ambigua; punti che (perché ancora amorfi) si prestino tuttora ad essere modellati; e i quali (perché ancora modellabili) consentano appunto di essere adattati alle esigenze degli apparecchi»146. L’obiettivo dell’ingegnere umano è quello, cioè, di scoprire le soglie ancora mobili dell’umano, suscettibili di essere spostate affinché si rendano disponibili quelle prestazioni umane che il funzionamento della macchina richiede. Con spirito pionieristico, l’uomo affronta la propria vergogna prometeica spostando sempre più in là i propri confini e trapassando, così, progressivamente nell’ambito dell’ibridazione con l’artificiale. Tale alterazione-ibridazione umana – che, come vedremo, costituisce il nucleo teorico delle filosofie postumaniste – si compie, tuttavia, avendo come unità di misura le macchine e il loro funzionamento e non il perfezionamento delle prestazioni umane. Per tale motivo, come nota Anders, non può essere attribuito a tale progetto di ibridazione degli esseri fabbricanti con gli oggetti fabbricati il tradizionale peccato di hybris, la presunzione e l’arroganza con cui gli eroi classici sfidavano gli dèi e il destino. Adattarsi al funzionamento delle macchine non è più un atto di arroganza nei confronti dei limiti na-

146.  Ivi, p. 44.

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turali, ma, al contempo, anche un atto di autoumiliazione; il suo atteggiamento potrebbe, dunque, essere descritto come un’“arrogante autodegradazione” dello stesso tenore della disponibilità a essere ibridati teorizzata dal postumanismo che analogamente critica il concetto tradizionale di hybris. Tale atteggiamento emerge soprattutto nella tendenza, tipica dell’uomo tecnologico, di affrontare l’oggetto fondamentale della propria vergogna, le proprie “deteriorabilità” e mortalità naturali, attraverso un processo di approssimazione all’immortalità tipica delle macchine, cioè all’indefinita esistenza seriale dei prodotti. Ogni singolo pezzo di produzione ha una durata di funzionamento limitata147, ma se considerato come pezzo di una serie, esso può essere ritenuto in qualche modo “immortale” grazie a quel carattere tipico della tecnica industriale che è l’incondizionata sostituibilità di ogni prodotto148. L’anelito del superamento dell’angoscia di morte che solitamente, in una prospettiva di radicale immanenza, viene soddisfatto nella teo­rizzazione di una immortalità di specie149 viene, qui, invece, 147.  Anzi, quanto più aumenta la complessità tecnica dei prodotti, tanto più diminuisce la loro durata, la cui brevità è, peraltro, funzionale al sistema produttivo, come tendono a dimostrare le recenti teorie di una “obsolescenza programmata” dei prodotti industriali e informatici. Peraltro, nella produzione in serie industriale viene sempre di più in luce la necessaria coappartenenza di distruzione e produzione, liquidazione e consumo: cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., pp. 36-49. 148.  Tocchiamo qui uno dei punti fondamentali della nostra interpretazione della tecnica che sembra essere in contraddizione con il carattere proteiforme che abbiamo finora considerato come centrale. In effetti, l’indefinita sostituibilità dei prodotti tecnici, così come l’uniformità e la monotonia formale di tante strutture tecniche discendono direttamente dall’assoluta duttilità morfologica che consente loro di esplicare perfettamente ogni funzione richiesta dall’apparato tecnico, di adattarsi, cioè, senza alcun attrito, alle esigenze specifiche di ogni suo singolo meccanismo. 149.  È questa la forma di superamento dell’angoscia di morte prospettata da Schopenhauer: cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresen-

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ricondotto a una sorta di immortalità seriale che trova il suo modello nell’indefinita sostituibilità dei pezzi di ricambio degli apparati tecnici consentita dalla loro perfetta riproducibilità seriale. A differenza delle celebri analisi benjaminiane sullo svanimento dell’aura a causa della riproducibilità tecnica, Anders, invece, individua in tale riproduzione seriale il carattere platonico di affermazione di un’“idea-modello” che prospetta una sorta di eternizzazione tecnica: Ogni pezzo perduto o rotto non continua forse a vivere nel­ l’immagine della sua idea-modello? Non gli è forse di conforto la speranza di esserci di nuovo, non appena uno dei suoi pezzi fratelli avrà preso il suo posto? La sostituibilità, cioè la tecnica della riproduzione non lo hanno forse reso “eterno”? Morte, dov’è il tuo veleno?150

La sostituibilità dei prodotti tecnici deriva dal carattere ontologico del loro essere un «pezzo» (Stück). Come afferma Heidegger nella conferenza di Brema sul Gestell, «il pezzo [Stück] è qualcosa di diverso dalla parte [Teil]. La parte si spartisce con altre parti nell’intero, prende parte all’intero e gli appartiene. [Integra la sua interezza]. Invece il pezzo è separato, e lo è in quanto pezzo che è addirittura segregato dagli altri pezzi. Esso non si spartisce mai con questi in un intero»151. La preminenza ontologica del pezzo, e in particolar modo del «pezzo di riserva» (Bestand-Stück), ha un fondamentale significato in quanto sovverte la tradizionale priorità metafisica del­ l’intero (ólon) sulle sue parti che Aristotele dichiara nel libro Η

tazione (1818), tr. it. di S. Giametta, Bompiani, Milano 2019, Supplementi al quarto libro, pp. 1867-1953. 150.  G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 56. 151.  M. Heidegger, L’impianto (1957), in Id., Conferenze di Brema e Friburgo, tr. it. di G. Gurisatti, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2002, pp. 4570: p. 59.

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della Metafisica: «l’intero [ólon] è qualcosa di più delle parti»152. L’unità dell’intero, peraltro, è qualcosa che Aristotele collega direttamente all’esplicarsi della physis e che non attiene, invece, agli artefatti della tecnica153, la cui produzione si deve a una causa efficiente ad essi esterna: «Intero o un tutto si chiama ciò cui non manca nessuna delle parti delle quali si dice che l’intero è per natura [phýsei] costituito»154. E tuttavia, già in Aristotele è ravvisabile un’idea di un’unità delle parti che prelude a una certa concezione funzionale e non più “naturale” (phýsei) dell’intero, in cui, cioè, i singoli elementi costituenti sono interscambiabili tra loro e, dunque, completamente sostituibili. Si tratta di quella particolare accezione per cui l’ólon si predica rispetto alla contiguità di corpi “omeomerici”, ovvero di corpi naturali, come l’aria o l’acqua; per tali composti un cambiamento della posizione reciproca dei loro elementi componenti non determina un cambiamento del corpo stesso. La particolare unità di tali enti viene nominata da Aristotele con il termine pan; essa indica la mera sommatoria di elementi indifferentemente sostituibili e interscambiabili. Tale forma panica di aggregazione costituisce, dunque, il presupposto teorico remoto per l’unità tecnica che si realizza come assemblaggio di pezzi equivalenti e uniformi che vengono meccanicamente giustapposti per creare un’unità funzionale. L’uniformità dei pezzi di riserva di simili aggregazioni meccaniche è ciò che consente che un pezzo possa essere immediatamente rimpiazzato con l’altro senza ripercussioni sul funzio152.  Aristotele, Metafisica, Η, 1045a 9. 153.  Cfr. ivi, Δ, 1016a 4. 154.  Ivi, Δ, 1023b 26-28. Per Aristotele, l’intero ha un rango ontologico superiore a quello del mero ammasso di elementi aggregati, perché dell’uni­tà che esso garantisce è possibile rintracciare una causa efficiente che fa sì che l’unità in potenza degli elementi costituenti l’intero divenga unità in atto: cfr. ivi, H, 1045a 10.

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namento del tutto. Come nota ancora Heidegger, «in quanto pezzo, il pezzo è già posto in vista della sostituibilità»155, dal momento che esso è inserito in un ordine sistematico156 che deriva il suo senso dall’impiegare provocante della tecnica. Il pezzo è inserito nel meccanismo e articolato con la molteplicità delle sue strutture sempre in quanto elemento sostituibile; a differenza di un organo o di una parte di un corpo vivente che, invece, rappresenta un tipo di unità non panica ma olistica: «la mia mano non è un pezzo di me. Io stesso sono totalmente me stesso in ogni gesto della mia mano, sempre ogni singola volta»157. La totalità biologica è, dunque, di tutt’altro tipo rispetto alla totalità tecnica e funzionale tipica della macchina, anche se, nell’età della tecnica, l’uomo, sia egli alla guida della macchina o ne sia l’artefice come progettista o costruttore, corre permanentemente il rischio di essere trasformato anch’egli in un «pezzo di riserva» e assume sempre di più il carattere della sostituibilità158. Balena, dunque, la possibilità – che Heidegger considera inumana e che noi oggi possiamo collocare all’interno dell’orizzonte postumanista – di un estremo superamento del nostro destino di “antiquata unicità”, della nostra onta ontologica fondamentale che ci impedisce di sopravvivere a noi stessi nel-

155.  M. Heidegger, L’impianto, cit., p. 60. 156.  Sul particolare carattere sistematico della tecnica, si rimanda alla successiva trattazione del “sistema tecnico” secondo Jacques Ellul: cfr. infra, cap. II. 157.  M. Heidegger, L’impianto, cit., p. 60. 158.  Tuttavia, secondo Heidegger, l’uomo appartiene al Gestell, ovvero all’essenza molteplice della tecnica moderna, in modo del tutto diverso dalla macchina, in un modo che, però, può diventare inumano: «L’uomo non si trasformerà mai in macchina. Certo, questo inumano che mantiene ancora il carattere dell’umanità è più inquietante, poiché più malvagio e funesto di un uomo che fosse soltanto macchina» (ivi, p. 61).

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la forma di un nuovo esemplare, come vorrebbero, invece, il mito della clonazione dell’uomo e i progetti tecnici che ad esso si ispirano. La vergogna prometeica prende adesso la forma di un profondo rammarico nel constatare la nostra insostituibilità, in quanto deperibili “pezzi unici”, nei confronti della superiorità dei pezzi di riserva che compongono le macchine. Se l’unicità individuale e l’intangibilità della persona costituiscono le convinzioni fondamentali della visione umanistica e illuministica dell’uomo, il considerare tali caratteri dell’umano con un senso di malessere e di vergogna indica non soltanto una fuoriuscita epocale dai canoni umanistici, ma anche il tentativo di sottrarsi alla propria finitezza e mortalità cercando disperatamente di assimilarsi al modello macchinico: Se […] i prodotti in serie sono riusciti a “sottrarsi alla morte” mediante la loro sostituibilità, e se l’uomo rimane escluso dall’esistenza in serie e dalla sostituibilità, rimane anche esclusa per lui la possibilità di sottrarsi alla morte. Il rendersi conto di non essere una merce in serie ha dunque l’effetto di un memento mori.159

159.  G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 60. Secondo Anders il mezzo che l’uomo utilizza per smentire la sua insopportabile unicità, la principale contromisura tecnica che egli ha escogitato contro il suo “ci sono una volta sola”, è la riproduzione fotografica che gli consente una sorta di “esistenza multipla” e ubiquitaria, come dimostra emblematicamente il caso delle stelle del cinema: «L’omaggio che tributiamo loro si riferisce alla loro vittoriosa irruzione nella sfera dei prodotti in serie, da noi riconosciuta come “ontologicamente superiore”. Li idolatriamo perché hanno realizzato trionfalmente il nostro sogno di esserci come cose, di diventare i parvenus del mondo dei prodotti. In realtà tra l’attrice-diva divulgata in migliaia di copie e lo smalto per unghie diffuso in innumerevoli esemplari non esiste più una differenza ontologica» (ivi, p. 61). A differenza di quanto si ritiene comunemente, non viviamo nell’era del materialismo, ma in una “seconda era platonica” in cui a prevalere è il modello ideale, il progetto di realizzazione che supera la deperibilità e precarietà del singolo prodotto, come si evince dalla centralità dei brevetti nelle nostre società sia industriali che post-industriali: «Platone non si sarebbe nemmeno potuto sognare che si sarebbe giunti a una proprietà

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E tuttavia, anche se l’anelito a farsi cosa tra le cose e pezzo di riserva indefinitamente riparabile e sostituibile – anelito che sembra avere del tutto rimpiazzato quello faustiano alla libertà – è condannato a non poter mai essere completamente soddisfatto, anche se l’uomo resterà prigioniero della propria insostituibile unicità, se pure – come ha mostrato Benjamin – privata, a causa della riproducibilità tecnica del suo carattere auratico, l’uomo dell’età della tecnica riesce a compensare il malessere del suo solipsismo metafisico e la responsabilità della sua funzione di solitario artefice della storia nel momento in cui la sua esistenza tende a una sempre più integrale compenetrazione con l’apparato tecnico e la tecnica stessa si pone come il soggetto assoluto della storia: «Ci siamo detronizzati (o lasciati detronizzare) e al nostro posto abbiamo collocato altri soggetti della storia, anzi un solo altro soggetto: la tecnica»160. Immerso nel grande apparato tecnico, l’uomo assume in modo sempre più palese il ruolo di servitore di prodotti, apparecchi, logiche funzionali e prestazionali che lo sovrastano ontologicamente. Parafrasando la celebre formulazione kantiana dell’imperativo categorico, Anders può così esprimere l’imperativo tecnico fondamentale che nell’era del dominio totale della tecnica determina l’azione dell’uomo privandolo di ogni margine di autentica libertà: «Agisci in modo che la massima della tua azione possa coincidere con quella dell’apparato, di cui sei o sarai parte»161.

sulle “idee” e al tentativo di proteggere giuridicamente questa proprietà» (G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 30). 160.  Ivi, p. 258. 161.  Ivi, p. 268. La tecnica condanna gli uomini al ruolo co-storico di servitori e alimento dell’apparato tecnico: sia l’azione del fabbricare che quella dell’agire, nell’epoca tecnica, vengono assorbite nell’unica attività del servire l’apparato tecnico: cfr. ivi, p. 60. La tecnica, inoltre, si impone come nuovo e unico soggetto temporale; essa «sembra disporre della sola memoria proce-

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L’esistenza umana sembra essere completamente assorbita dalle strutture e dalle logiche del grande e onnipervasivo apparato tecnico, che tende sempre più a indentificarsi con le nostre società e a normare ogni ambito della nostra vita con l’intenzione dichiarata di condurre l’uomo sulla via di un illimitato progresso materiale e morale e di una sempre maggiore emancipazione dai bisogni. Secondo Anders, l’“ontologia economica” che così si afferma, per cui la massima fondamentale è quella di rendere tutto utilizzabile, ha anche un rilevante risvolto etico; un’etica che mira a trasformare non già l’essere nel dover-essere, ma nell’essere-prodotto, a redimere il mondo dal caos e dalla contingenza e generare un cosmo di prodotti finiti. Tale ontologia economica si rivela essere, peraltro, una dottrina della giustificazione: «ciò che prima esisteva quale mondo soltanto contingente, non finito, è ormai giustificato, perché il mondo si rivela essere il materiale indispensabile della produzione e dei prodotti finiti. E con ciò è giustificata anche l’esistenza dell’uomo produttore stesso»162. Il compito etico – quasi religioso – dell’uomo tecnico è, pertanto, quello di “riportare il mondo a se stesso” rendendolo disponibile all’azione plasmatrice della tecnica. Portare il mondo a se stesso significa, dunque, «portarlo con noi: negli altiforni, nelle fabbriche, nelle centrali elettriche, nelle pile atomiche nelle stazioni radio e televisive. Queste sono le “case dell’essere”, in cui l’uomo cerca di sottoporre alla trasformazione il mondo nella sua totalità»163. All’uomo posseduto da tale “febbre durale che condanna il passato all’insignificanza e guarda al futuro solo come perfezionamento delle sue stesse procedure. L’individuo, stretto in questa prospettiva, rischia di passare dalla co-storicità dei subordinati all’insignificanza dell’a-storicità, epoca quest’ultima in cui la consapevolezza storica si dissolve in una mera successione di istantanee presenti prive di un’ipotesi di senso» (N. Mattucci, Tecnocrazia e analfabetismo emotivo, cit., p. 142). 162.  G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 175. 163.  Ivi, p. 176.

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di trasformazione” non si attaglia più la definizione di homo faber, dal momento che quest’ultimo limitava la sua azione soltanto a determinate porzioni di mondo e ambiti di vita in cui ritrovava il suo mondo e la sua libertà. L’uomo che appartiene all’orizzonte totale della tecnica, invece, non vede nel mondo altro che materiale: egli assume, piuttosto, la figura del fabbro dell’essere164 che, seguendo un appello non meno radicale di quello delle religioni o delle filosofie, «impone nuovi bisogni a se stesso piuttosto che lasciare dell’essente intatto e inutilizzato; e vuole rielaborare, trasformare, “finire” il mondo nella sua totalità»165. Così l’homo technologicus viene pienamente integrato all’interno delle attività tecniche, ne assume l’atteggiamento operativo e, in ultima analisi, usurante, ponendosi, in modo sempre più evidente e “naturale”, quale funzione specifica e meccanismo determinante all’interno dell’apparato tecnico globale, alle cui caratteristiche funzionali e ontologiche dovremo rivolgere adesso la nostra analisi.

164.  Anders accosta, in modo probabilmente un po’ affrettato e superficiale, questa espressione a quella celebre heideggeriana dell’uomo come pastore dell’essere contenuta nella Lettera sull’«umanismo», notando come, se pure con le dovute differenze, entrambe condividano il presupposto fondamentale che «l’essere abbia bisogno del nostro aiuto, che, di per sé, abbia necessità di trovare una casa, che senza di noi non possa vivere nemmeno un istante, che non possa venire a capo di se stesso, che debba trovare albergo e rifugio presso di noi» (ibidem). 165.  Ibidem.

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Capitolo II

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Sistema tecnico e Megamacchina

1. Sistema e progresso tecnico 1.1. Sistema tecnico e sistema filosofico È Jacques Ellul che nella sua opera teoricamente più esaustiva, Il sistema tecnico del 1977, profondamente debitrice delle interpretazioni filosofiche e sociologiche del fenomeno tecnico della prima metà del Novecento che abbiamo fin qui analizzato, prova a delineare e comprendere unitariamente i tratti di quell’organizzazione tecnica che è ormai in maniera evidente e incontestabile il tratto decisivo di ogni ambito della nostra esistenza individuale e sociale1. Avendo preventivamente rifiutato un’interpretazione in chiave tecnocratica della società tecnica2, egli si sforza di comprendere la particolare compe1.  Per una introduzione all’opera di Ellul con particolare riferimento alla sua attualità, cfr. J.-L. Porquet, Jacques Ellul. L’uomo che aveva previsto (quasi) tutto (2003), tr. it. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2008. Sulla filosofia della tecnica di Ellul, cfr. D. Lovekin, Technique, Discourse and Consciousness. An Introduction to the Philosophy of Jacques Ellul, Lehigh University Press, Bethlehem (PA) 1991; H.M. Jerónimo - J.L. Garcia - C. Mitcham (a cura di), Jacques Ellul and the Technological Society in the 21st Century, Springer, Dordrecht 2013. 2.  La società tecnica non si caratterizza, infatti, per il dominio politico di una determinata classe di tecnocrati: «Nessun tecnico pretende di dirigere

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netrazione di tecnica e società; la struttura specifica della società nell’epoca della tecnica avanzata gli si rivela essere un “sistema”, cioè un “tutto organizzato”. Ma che cosa intende Ellul con questo termine così decisivo per la storia della filosofia moderna? Rievocando la celebre contrapposizione di D’Alembert tra esprit de système, per cui il sistema è qualcosa di astratto, metafisico e improduttivo, ed esprit systématique, sinonimo, invece, di concretezza, produttività e fecondità di conoscenze, potremmo certamente annoverare il sistema cui allude Ellul per indicare l’organizzazione tecnica nella seconda categoria. Rispetto alla concezione classica del sistema di conoscenze articolato secondo un metodo assiomatico e un procedimento di tipo deduttivo, esemplificato nell’antichità dagli Elementi di Euclide e in epoca moderna dall’Etica more geometrico demonstrata di Spinoza, il “sistema” cui fa riferimento Ellul si differenzia per lo spiccato carattere organicistico e antigerarchico che inizia a emergere già nel Trattato dei sistemi (1754) di Condillac. Qui l’organizzazione di un sistema non discende soltanto da principi primi ordinatori, ma i singoli componenti sono interrelati in modo da creare una rete di relazioni dinamiche non riducibile alla mera consequenzialità deduttiva che, invece, costituisce l’asse portante dei grandi sistemi filosofici dell’idealismo tedesco3. la società. Non vi è alcuna necessità di considerare i tecnici come tecnocrati né di credere alla nascita di una classe del genere» (ST, p. 30). 3.  Secondo Heidegger è, peraltro, lo stesso declino della filosofia moderna a condurre alla fine dell’ordine sistematico. Nel corso universitario tenuto a Friburgo nel semestre invernale 1936/37 incentrato sulla questione della verità e sulla logica, Heidegger afferma: «L’epoca dei “sistemi” della filosofia è definitivamente tramontata. Non perché il materiale del sapere sia a tal punto cresciuto da rendere impossibile un ordine che lo disponga in maniera controllabile, ma perché l’essenza del sapere si sta trasformando differenziandosi soprattutto dal sapere moderno e contrapponendosi ad esso,

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Riprendendo gli studi sui sistemi sociali di Parsons degli anni Cinquanta4, Ellul definisce il sistema attraverso quattro caratteri fondamentali: l’interdipendenza tra elementi componenti e insieme5; la priorità dell’aggregazione interna rispetto a quella con elementi esterni6; l’intrinseca dinamicità7; e l’inil solo che esiga in sé e per sé l’“ordine sistematico”. Nel grande inizio del pensiero occidentale non c’erano ancora “sistemi”, e non c’erano necessariamente, e dopo la fine di questo primo inizio non ci saranno più sistemi. Perché? Perché il pensare e il domandare seguono più profonde svolte necessarie e perché il loro ordine interno e il loro rigore saranno più segreti dell’organicità, apparentemente irraggiungibile in quanto trasparente, di un sistema» (M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia. Selezione di «problemi» della «logica» [1992], tr. it. di U.M. Ugazio, Mursia, Milano 1988, pp. 103-104). 4.  T. Parsons, Il sistema sociale (1951), tr. it. A. Cottino, Edizioni di Comunità, Milano 1965. 5.  «Il sistema è un insieme di elementi in relazione gli uni con gli altri di modo che ogni evoluzione di uno di essi provoca un’evoluzione dell’insieme e che ogni evoluzione dell’insieme si ripercuote sul singolo elemento» (ST, p. 102). Anders avrebbe, di lì a poco, descritto il fondamentale carattere di rete del sistema tecnico per cui non può esistere alcuna macchina “individuale” che non sia integrata e dipendente dalla “macchina totale” del sistema: cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 110. Il concrescere del sistema a macchina totale reca con sé anche il pericolo di sempre più disastrosi fallimenti, dal momento che il guasto di un singolo pezzo può contagiare l’intero apparato: cfr. ivi, pp. 111, 113. 6.  «Gli elementi che compongono il sistema presentano una sorta di attitudine preferenziale a combinarsi tra loro piuttosto che combinarsi con fattori esterni» (ST, p. 103). 7.  Con questo terzo carattere del sistema, Ellul coglie la frattura tra la tecnica meccanica, per cui gli ingranaggi di un meccanismo ripetono indefinitamente la stessa azione, e la tecnica informatica, in cui le azioni dei singoli componenti mutano in base a feed-back provenienti dall’interno e dall’esterno: «In un sistema i fattori in gioco modificano gli altri elementi e l’azione non è ripetitiva ma costantemente innovatrice. Le interrelazioni producono un’evoluzione. Il sistema non è mai fisso, pur rimanendo un sistema e potendo essere riconosciuto come sistema X anche dopo numerose evoluzioni» (ibidem).

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terrelazione tra sistemi diversi considerati come globalità autonome. Se, dunque, il sistema è caratterizzato dalle interrelazioni tra gli elementi interni, non meno fondamentale è la relazione con l’esterno. Ellul interpreta questo rapporto nei termini di una “relazione organica”8, riprendendo la metafora biologistica che la tradizione filosofica moderna ha ripetutamente impiegato per caratterizzare la forma di organizzazione del sistema filosofico, ma allo stesso tempo separandosene radicalmente. Una tra le più limpide definizioni dell’articolazione organica di un contenuto filosofico la ritroviamo nella prefazione che Schopenhauer appone alla prima edizione del 1818 del Mondo come volontà e rappresentazione. In esplicita polemica contro il sistema hegeliano, Schopenhauer afferma, infatti, che, mentre un «sistema di pensieri» si basa sempre su un ordinamento architettonico in cui una parte sorregge l’altra, senza che quest’ultima anche sorregga la prima, un «pensiero unico», per quanto comprensivo possa essere, deve mantenere la propria unità. Se si lascia tuttavia scomporre in parti, ai fini della sua comunicazione, la connessione di queste parti deve essere a sua volta organica, ossia tale che ogni parte sostenga il tutto allo stesso modo che è dal tutto sostenuta, che nessuna sia la prima e nessuna l’ultima […] e che neanche la parte più piccola possa essere pienamente capita senza che sia stato già capito prima il tutto.9

L’organicità olistica a cui fa riferimento Schopenhauer, se pure si contrappone alle architetture dei sistemi deduttivi e gerarchici tipici della tradizione idealistica, aprendo di fatto la via

8. Cfr. ST, p. 103. 9.  A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., Prefazione alla prima edizione, p. 5 (corsivo mio).

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all’emergere del frammento, non corrisponde, tuttavia, alla concezione ellulliana del sistema tecnico come sistema in continuo divenire che si modifica attraverso la dialettica di reazione e retroazione (feed-back) così come è stata introdotta dalla scienza cibernetica10. È a partire dal concetto di controllo – poi sostituito da quello di organizzazione e auto-organizzazione proprio della cosiddetta seconda cibernetica e degli studi sull’Intelligenza Artificiale – che Heidegger, nella celebre conferenza Filosofia e cibernetica del 1965, individuerà in questo nuovo approccio metodologico la pretesa di assumere il ruolo unitario e fondativo dei diversi ambiti scientifici che fino da allora era stata prerogativa esclusiva della filosofia come ontologia. Grazie alla comprensione uniforme dell’organismo e della macchina che questa nuova scienza persegue e alla particolare teoria dei sistemi che essa sviluppa attraverso il concetto di informazione, la cibernetica offre, infatti, un orizzonte sufficientemente ampio e generale in cui i diversi ambiti tematici delle scienze possono dialogare nella misura in cui scoprono – “alla fine della filosofia” – di essere espressione di un unico pensiero calcolante. L’imporsi della prospettiva cibernetica sulle differenti dimensioni del sapere scientifico in cui la filosofia si compie, dissolvendosi, ha come conseguenza decisiva la trasformazione del modo in cui si pensa l’unità del sapere, che non è più ga10.  Norbert Wiener nel suo Cybernetics, or Control and Communication in the Animal and the Machine del 1948 (La cibernetica. Controllo e Comunicazione nell’animale e nella macchina, tr. it. di G. Barosso, il Saggiatore, Milano 1982) introduce questo concetto poi divenuto centrale per la cibernetica, per l’informatica e per gli studi contemporanei sull’intelligenza artificiale in riferimento ai nuovi sistemi automatici retroazionati, il cui comportamento intenzionale viene spiegato attraverso il meccanismo della retroazione (o feedback) negativa; si tratterebbe, per Wiener, della stessa logica che presiede al funzionamento dei meccanismi fisiologici che stanno alla base del comportamento animale.

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rantita dalla filosofia come “unità del fondamento”. Si assiste, infatti, a una inquietante trasformazione dei concetti chiave – come principio e conseguenza, causa ed effetto – che avevano fino ad allora dominato nella scienza: «La cibernetica, pertanto, non si può definire una scienza fondamentale. L’unità delle sfere tematiche del sapere non è più l’unità del fondamento. Si tratta invece di un’unità rigorosamente tecnica»11.

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1.2. Unità e unicità del sistema È questa unità tecnica e funzionale che vige nel sistema teorizzato da Ellul: il sempre più evidente carattere tecnico delle singole scienze si mostra nel modo strumentale con cui esse concepiscono le categorie teoriche che di volta in volta definiscono il loro ambito tematico ponendosi, dunque, come “modelli operativi”12. La verità scientifica viene, di conseguenza, misurata «dall’effetto che produce il loro impiego all’interno del progresso della ricerca»13 e «posta come equivalente all’efficacia di questi effetti»14. Tali modelli concettuali, imperanti nelle scienze, assumono, dunque, una funzione “tecnico-­cibernetica” perdendo ogni valore ontologico. Se per Heidegger tale analisi conduce alla conclusione che la filosofia come “scienza del fondamento” è divenuta superflua e, al di là della sua fine, spetta a un nuovo tipo di pensiero il compito di ritrovare la radice originaria dell’interrogarsi sul

11.  M. Heidegger, Filosofia e cibernetica (1984), tr. it. di A. Fabris, ETS, Pisa 1989, p. 33. 12.  Secondo Heidegger l’operativismo è uno dei caratteri fondamentali della scienza moderna: cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo (1938), in Id., Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1993, pp. 80 ss. 13.  M. Heidegger, Filosofia e cibernetica, cit., p. 33. 14.  Ivi, pp. 33-34.

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mondo15, per Ellul l’autentica sfida filosofica consiste proprio nel pensare l’unità caratteristica e il funzionamento automatico del sistema tecnico, rapportandolo da un lato al funzionamento delle macchine, e dall’altro alle funzioni metaboliche dell’organismo. L’unità cibernetico-funzionale del sistema tecnico è, infatti, qualcosa di diverso sia dall’aggregazione panica16 degli ingranaggi meccanici intesi come pezzi di riserva sostituibili, che dall’organicismo tipico dell’articolazione moderna del sapere espressa da Schopenhauer. L’interrelazione non gerarchica tra le parti del sistema e il tutto si articola secondo un complesso rapporto dinamico di azione e retroazione che dirige la specifica ateleologica metabolé del sistema. Ritroviamo qui all’opera il nostro paradigma concettuale di riferimento: «la tecnica produce il proprio cambiamento»17 perché è in sé proteiforme e non perché su di essa agiscano dall’esterno forze storiche o metastoriche che ne determinano l’evoluzione18. Si tratta, dunque, di comprendere l’unità dinamica e funzionale del sistema che eccede il concetto ontologico, di matrice soprattutto platonica, secondo cui l’unità deriva dalla concilia15.  Per Heidegger questa fonte originaria è costituita dall’essere di ciò che è presente e dalle sue diverse manifestazioni (cfr. ivi, pp. 40 ss.). Nell’epoca del dominio della tecnica, invece, la presenza si manifesta esclusivamente come impiegabilità: cfr. ivi, pp. 38-40. 16.  Cfr. supra, p. 81. 17.  ST, p. 106. 18.  È da notare a questo proposito la differenza rispetto alla prospettiva jüngeriana secondo cui la tecnica è quel linguaggio universale che tende a realizzare integralmente la forma metafisica del lavoro e, dunque, la sua evoluzione è finalizzata alla progressiva mobilitazione del mondo che avrà termine quando la forma sarà pienamente realizzata. Per Ellul, invece, il sistema obbedisce alla legge dell’evoluzione infinita della tecnica, «include in sé la propria espansione. È un sistema in permanente espansione» e, soprattutto, «non ha alcuna intenzione né alcun obiettivo» (ST, p. 145).

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zione della molteplicità dei fenomeni e della loro apparente opposizione. In particolare, il concetto tecnico di unità si oppone al carattere “ideale” della concezione platonica dell’Uno, per cui l’idea è ciò che unifica la molteplicità sensoriale in una visione sinottica, ma, al contempo, è ciò che la trascende e la fonda. Tuttavia, alla luce delle “dottrine non scritte” platoniche dei principi primi e supremi dell’Uno e della Diade19, è possibile non solo ridimensionare la differenza tra unità tecnica e unità filosofica (quantomeno nella declinazione platonica)20, ma anche rintracciare un’inedita vicinanza tra le due prospettive. Secondo le dottrine non scritte, infatti, «la pluralità, la differenza e la gradazione degli enti nascono dall’azione dell’Uno che determina il Principio opposto della Diade, che è una molteplicità indeterminata»21. Dal momento che i due principi supremi sono ugualmente originari e reciprocamente dipendenti, alla luce di questa struttura ultima dell’essere22, il “sistema” platonico può essere definito come essenzialmente bipolare e non semplicemente dualistico. Questa concezione del nesso polare e polemico tra i due Principi supremi e la conseguente comprensione greca dell’essere a tutti i livelli come mescolanza

19.  Cfr. G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle “Dottrine non scritte”, Vita e Pensiero, Milano 1991. 20.  Differente è, infatti, la prospettiva aristotelica in cui si afferma la molteplicità analogica dei significati dell’Uno: non esiste un Uno-in-sé, ma tante forme e modi di unità quante sono le forme e i modi dell’essere. Viene, così, posto il principio ens et unum convertuntur che dominerà tutta la filosofia scolastica e si protrarrà anche nella filosofia moderna, almeno nel suo filone monista, da Spinoza a Hegel. 21.  G. Reale, Storia della filosofia antica. II. Platone e Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1991, p. 107. 22. «L’essere è prodotto da due principi originari, e quindi è una sintesi, un misto di unità e molteplicità, di determinante e indeterminato, di limitante e illimitato» (ivi, p. 108).

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di unità e molteplicità è confermata, peraltro, dalla concezione greca del divino che, come testimonia la Teogonia di Esiodo, attribuisce alle due sfere contrapposte di dèi e forze cosmiche, facenti capo a Caos e a Gaia, i caratteri opposti dell’amorfità e della forma. La polarità – e, in particolare, la polarità metamorfica – inerisce, peraltro, anche a quasi tutte le divinità olimpiche, non soltanto perché ogni divinità ne ha un’altra polarmente contrapposta (Apollo-­Dioniso; Artemide-­Afrodite), ma soprattutto perché ciascuno degli dèi risulta come mescolanza di potenze naturali e simboliche aventi carattere polarmente opposto. La “forma polare” si rivela essere, d’altronde, non soltanto la struttura di base della concezione greca del divino, ma del modo greco di pensare in generale23, come lo stesso Aristotele riconoscerà24. Di tale struttura bipolare dell’essere, che il pensiero greco si sforza di rintracciare e comprendere a tutti i livelli della realtà, è, però, possibile una sintesi dialettica, dal momento che le opposizioni polari rimandano a sfere unitarie e ben individuabili di natura protologica (i principi supremi) e logica (i numeri e le idee). Se pure l’unità di tipo tecnico del sistema di cui si occupa Ellul condivide con la concezione platonica il carattere polare, soprattutto nella sua declinazione dinamica e metamorfica, essa rigetta ogni possibile comprensione sintetica e dialettica di tale polarità. La polarità tecnica ha un carattere eminentemente funzionale e non può dare luogo ad alcuna risoluzione di tipo teorico-dialettico; nessuna coincidentia oppositorum è possibile per la tecnica, dal momento che è proprio la relazione polemica e l’opposizione polare a costituire la condizione di possibilità del funzionamento dell’apparato tecnico, come

23.  Cfr. P. Philippson, Origini e forme del mito greco (1949), tr. it. di A. Brelich, Bollati Boringhieri, Torino 1983. 24.  Cfr. Aristotele, Metafisica, Α, 1004b 27-1005a 2.

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prima lo era già dell’economia liberale. E tuttavia la polarità metamorfica della tecnica, in cui materie ed energie incessantemente trasmutano con l’unico intento di incrementare la produzione di prestazioni lavorative, non apre alcuna possibilità di incontro con l’altro dalla tecnica, se pure il sistema tecnico si collochi all’interno di un ambiente naturale e sociale che non è di per sé tecnico. Tale alterità non-tecnica, che per Ellul è ancora semplice individuare25, ma che nel nostro tempo diviene sempre più impercettibile, non è la controparte dialettica del sistema, non rappresenta, cioè, ambiti praticabili di resistenza sociale, politica o interiore26 rispetto all’avanzare della tecnica, dal momento che essa si riduce semplicemente al sostrato da cui il sistema trae sostentamento e in cui attua il suo progetto di espansione metamorfica. La tecnica, infatti, è la più grande potenza trasformatrice che la storia dell’uomo abbia mai conosciuto: «La tecnica modifica tutte le forme di vita. Ha creato nuovi comportamenti, credenze, ideologie, movimenti politici. Determina i fattori di vita, i livelli e i modi d’esistenza»27. E tuttavia questa potenza metamorfica non ha, secondo Ellul, i caratteri bellici e aggressivi che ancora nel 1932 le attribuiva Jünger quando scriveva: «Nella tecnica […] è implicito un atto di aggressione, palese o nascosta, contro i rapporti e i vincoli estranei all’ambito del lavoro»28. Essa, piuttosto, modifica il mondo non perché imprime in modo violento la forma delle dinamiche lavorative 25.  «Ci troviamo in realtà ovunque di fronte a tratti comuni del fenomeno tecnico, talmente netti da rendere estremamente semplice riconoscere cosa appartenga al fenomeno tecnico e cosa no» (ST, p. 191). 26.  In questo senso Jünger interpreta la «terra selvaggia» (Wildnis) che consente spazi di libertà interiore nei confronti del Leviatano tecnico: cfr. E. Jünger, Il trattato del ribelle (1951), tr. it. di F. Bovoli, Adelphi, Milano 1990. 27.  ST, pp. 194-195. 28. E. Jünger, L’operaio, cit., p. 140.

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a tutti gli ambiti dell’esistenza, ma perché diviene, in modo sottile e penetrante, lo stesso ambiente di vita in cui l’uomo viene progressivamente assorbito: Se tutti gli aspetti della vita umana e sociale sono cambiati, è fondamentalmente perché l’ambiente in cui l’uomo si trova, il suo sistema di riferimento e l’insieme delle modalità d’azione sono fondamentalmente e globalmente cambiati. La Tecnica non è più, come un tempo, un fattore tra gli altri di una società. La società, generando una civiltà, creava l’ambiente in cui una Tecnica poteva collocarsi. Al contrario, quest’ultima è diventata non solo il fattore determinante, ma addirittura l’«elemento avvolgente» all’interno del quale si sviluppa la nostra società. […] Addirittura le attività più indipendenti, le meno tecniche, si collocano, che lo si voglia o meno, all’interno del sistema tecnico. […] Da un lato tutto è interpretato, compreso, acquisito in termini di tecnica, dall’altro tutto è modificato dalla semplice presenza delle tecniche.29

1.3. La mediazione tecnica L’unità e la pretesa di unicità del sistema tecnico vanno intese, dunque, nei termini di una “neo-ambientalità” della tecnica30,

29.  ST, pp. 195-196. Già nel testo La tecnica. Rischio del secolo del 1954, Ellul, intuendo la profonda rivoluzione antropologica costituita dalla tecnica, affermava: «Occorre un certo sforzo per comprendere che la Tecnica è divenuta l’ambiente nel quale l’uomo vive, ossia che essa ha sostituito l’antico ambiente “naturale” […]. Immerso in un milieu che conosce male (e a favore del quale prende facilmente atteggiamenti mitici), egli si trova attualmente press’a poco nella stessa situazione in cui viveva l’uomo di trentamila anni fa, alle prese con un milieu naturale a lui del tutto ignoto» (J. Ellul, La tecnica. Rischio del secolo, tr. it. di C. Pesce, Giuffrè, Milano 1969, p. VI). 30.  La tecnica come sistema si pone quale “ambiente di vita” dell’uomo paragonabile a quello degli animali, in contrapposizione al mondo in cui si svolge la sua esistenza dal momento in cui essa elimina la lontananza esistenziale dell’uomo, l’autotrascendenza del proprio “poter-essere”. A tal

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nel senso di un mirabile adattamento proteiforme al sistema tecnico in cui ogni possibilità esistenziale viene ridotta a mera attitudine produttiva e funzionale all’articolazione del sistema. La tecnica costituisce, cioè, come già aveva compreso l’antropologia filosofica primonovecentesca, una “seconda natura” per l’uomo, perché produce una mediazione permanente e tendenzialmente esclusiva tra uomo e natura, costituendo una sorta di paradossale naturalizzazione della tecnica stessa: L’oggetto tecnico, pensato e costruito dall’uomo, non si limita solo a creare una mediazione tra uomo e natura: è un misto stabile di umano e naturale, contiene dell’umano e del naturale, conferisce al proprio contenuto umano una struttura simile a quella degli oggetti naturali, permette l’inserimento nel mondo delle cause e degli effetti naturali della realtà umana.31

L’unità del sistema tecnico deriva dal carattere esclusivo e totalizzante32 di questa mediazione che in sé ricomprende anche

proposito, Agostino Cera afferma: «Nella misura in cui erode il potenziale ek-­ statico dell’uomo (dell’Esserci), la tecnica diventa il suo ambiente» (A. Cera, Sulla questione di una filosofia della tecnica, in N. Russo [a cura di], L’uomo e le macchine, cit., pp. 41-115: p. 107). Non ci appare convincente, invece, l’affermazione di Cera che la tecnica sottragga l’uomo alla sua costitutiva mediatezza, dal momento che – come mostra Ellul – la tecnica offre all’uomo il più formidabile insieme di mediazioni. 31.  ST, p. 56. 32.  L’unità del sistema tecnico tende alla totalizzazione, nel senso che tutte le espressioni della vita umana diventano progressivamente tecniche e questo ha come conseguenza, da un lato, l’inveramento dell’ideale umanistico di emancipazione dell’uomo da ogni vincolo e da tutti i limiti, ma al contempo essa sancisce anche la “fine dell’uomo”, in quanto la sua libertà finisce per coincidere con la libertà nel senso dell’autodeterminazione del sistema. In questo senso Ellul può affermare che «la tecnica ha, nei confronti della società e dell’esistenza umana, un doppio effetto: da una parte disintegra e tende poco a poco a eliminare tutto ciò che non è tecnicizzabile […], dall’altra tende a ricostituire l’intera società, così come l’intera esistenza, a partire dalla totalizzazione tecnica» (ST, p. 246). L’ambiguità della tecnica

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la mediazione tradizionale del lavoro: «non c’è altro rapporto dell’uomo con la natura, tutto l’insieme di legami, complesso e fragile, che l’uomo aveva pazientemente tessuto, poetico, magico, mitico, simbolico scompare: rimane solo la mediazione tecnica che si impone e diventa totale»33. La mediazione che la tecnica offre, in quanto universo esclusivo e totale

consiste, dunque, anche in questo duplice processo, esemplificato dai metodi tayloristici di divisione del lavoro di fabbrica, per cui essa da un lato frammenta un fenomeno o un processo a unità semplici attraverso analisi riduzionistiche e specialistiche, e dall’altro ricomprende gli elementi così disgregati in una nuova unità funzionale da cui tuttavia si genera un senso di estraneità e di insoddisfazione: «Questo insieme tecnico non è più del tutto “gratificante” per l’uomo […]. Si ha sempre la sensazione di vivere in un universo scisso. Una società scissa […], una vita scissa, incoerente. Gli insiemi costituiti dalla tecnica non esprimono un sentimento di pienezza e soddisfazione, sono sempre vissuti come insiemi scissi. L’uomo riconosce qui e là frammenti del suo vecchio universo, integrati in un insieme funzionale ma estraneo, anonimo, nel quale però bisogna vivere» (ST, pp. 69-70). La totalità tecnica – che niente ha a che fare con l’unità metafisicamente intesa – produce, dunque, un’«integrazione di tipo nuovo di tutti i fattori umani, sociali, economici, politici, ecc.» (ibidem). Il processo irrefrenabile per cui tutti gli elementi della vita individuale e associata dell’uomo sono improntati dalla tecnica provoca un senso di malessere e frustrazione nell’uomo, perché egli non trova altre possibilità di compimento che non siano quelle garantite dalla tecnica, la quale, tuttavia, non offre alcuna dimensione di senso: pur non diventando mai «oggetti tecnici», la società e l’uomo «ricevono la propria unità dalla tecnica totalizzante. Ma questa non può conferire un senso: grande lacuna. La totalità ricostituita è priva di significato» (ibidem). A tale «nichilismo tecnico» che è molto affine alla nota interpretazione heideggeriana del compimento nichilistico della metafisica che avviene nella tecnica, si associa, secondo Ellul, il rischio di una «dittatura tecnica»; essa differisce, tuttavia, sia dalla tecnocrazia che da una dittatura politica nei termini dei totalitarismi novecenteschi e si configura invece come piena integrazione di società e sistema tecnico: cfr. ST, p. 245. 33.  ST, p. 56. Analogamente per Jünger, «là dove affiorano i simboli della tecnica, lo spazio viene svuotato di tutte le forze di altra natura, di tutti i mondi spirituali grandi e piccoli rimasti in esso» (E. Jünger, L’operaio, cit., p. 144).

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di mezzi, come ha mostrato Baudrillard, trasforma tutte le tipologie di comunione umana basate su un medium simbolico in comunicazione, cioè nella forma asettica e tipicamente tecnica di relazione interumana. Lo straordinario adattamento proteiforme della tecnica al contesto in cui essa si applica è reso possibile dal suo carattere razionalizzante e sterilizzante che contraddistingue la sua capacità di mediazione rispetto a tutti i sistemi tradizionali di mediazione, come il mito, la poe­ sia e l’arte, che invece erano equivoci, polivalenti e instabili, in quanto profondamente radicati nell’inconscio creativo. La tecnica è, invece, «univoca, superficiale ma stabile, implica una mediazione chiara e ordinata, ma senza gioco e senza evocazione»34. L’efficacia della sua mediazione deriva dalla sua capacità di rendere l’ambiente tecnico rigoroso e operativo, in quanto protetto da ogni turbamento esterno: «un universo sterile, senza microbo e senza germe»35. Il sistema tecnico diventa, dunque, mediatore universale e non ammette altra mediazione al di fuori della propria. La tecnica moderna, a differenza delle tecniche primitive36, media su tre livelli: tra l’uomo e l’ambiente naturale, tra l’uomo e l’ambiente tecnico – che progressivamente rimpiazza l’ambiente naturale – e, infine, tra gli uomini che entrano sempre più in contatto tra loro attraverso strumenti tecnici e informatici e attraverso tecniche psicologiche e sociali. Tale “mediatizzazione” dei rapporti, la cui forma più emblematica è rappresentata dalle odierne piattaforme sociali virtuali – i cosiddetti social media –, corrisponde all’intento di estrema oggettivazione del reale e dell’umano perseguito dalla tecnica, ma al contempo

34.  ST, p. 59. 35.  Ibidem. 36.  «Le tecniche primitive non hanno natura reale in se stesse, sono solamente intermediarie tra l’uomo e l’ambiente» (J. Ellul, La tecnica, cit., p. 66).

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spiega i numerosi processi di presentificazione proteiforme e fantasmatica tipici della civiltà della Rete in cui le relazioni sono dominate da quello che Heidegger in una profetica conferenza del 1949 nomina il «senza distanza [das Abstandlose]»37. Che l’uomo abbia perso il senso sia della vicinanza che della lontananza dipende dal fatto che egli si relaziona con gli elementi naturali e con i suoi simili sempre e solo attraverso un insieme di strumenti e di tecniche così pervasivo e completo che, in realtà, la relazione finisce per essere soltanto con questi strumenti e con queste tecniche. L’uomo non vive più nel mondo, ma nella sua rappresentazione tecnica, e la mediazione tecnica si configura come mediazione assoluta e unica. L’unità del sistema tecnico si esprime, dunque, grazie a tale mediazione assoluta che garantisce anche l’inscindibilità delle sue varie componenti e dei suoi innumerevoli sottosistemi. Che i vari settori della tecnica siano strettamente dipendenti l’un altro era evidente fin dalla Rivoluzione industriale, che deve il suo straordinario successo e la sua potenza di trasformazione della società proprio alla sinergia dello sviluppo di tecniche industriali, produttive, economiche e comunicative. Né è possibile, attraverso un’istanza morale esterna alla tecnica, dissociare il fenomeno tecnico in una tecnica positiva, alleata dei processi di emancipazione e crescita umana, e una tecnica negativa, apportatrice di oppressione e sofferenze. La tecnica è indivisibile38 in quanto segue soltanto le regole tecniche della produttività e dell’efficienza. Le diverse tecniche in cui si articola il sistema «si combinano in modo da formare un tutto dove cia-

37.  «Oggi tutto ciò che è presente è ugualmente vicino e ugualmente lontano. Domina il senza-distanza [das Abstandlose]. Nondimeno, ogni riduzione e ogni eliminazione delle distanze non apportano alcuna vicinanza» (M. Heidegger, La cosa [1954], in Id., Conferenze di Brema e Friburgo, cit., pp. 21-43: p. 34). 38.  Cfr. J. Ellul, La tecnica, cit., pp. 98-114.

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scuna parte sostiene e rinforza l’altra, costituendo un fenomeno coordinato che non può fare a meno di nessun elemento»39.

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Tale unità, che tuttavia non esclude, ma anzi implica necessariamente la sostituibilità dei suoi elementi – ogni tecnica quando si rivela improduttiva viene immediatamente rimpiazzata da un’altra più promettente –, è un’unità essenzialmente dinamica, nel senso che il sistema tecnico collasserebbe se non fosse orientato dall’imperativo di un costante e progressivo autopotenziamento che all’esterno assume la forma dell’idolatrato “progresso tecnico”.

1.4. Il progresso tecnico Per Ellul, infatti, le due componenti fondamentali del sistema tecnico sono il fenomeno tecnico, che caratterizza la civiltà occidentale a partire dalla Rivoluzione industriale del XVIII secolo40, e il progresso, che, però, non è da intendersi come una legge esterna a cui obbedisce il mutamento dell’oggetto tecnico; esso, al contrario, «fa parte dell’oggetto stesso: ne è costitutivo»41. Questa idea di un progresso intrinseco allo stesso fenomeno tecnico non è soltanto un effetto della più generale “fede nel progresso”, nelle leopardiane «magnifiche sorti e progressive» del genere umano. Mi sembra, piuttosto, che la fede nella tecnica, la quale, nel nostro tempo, ha quasi del tutto soppiantato ogni fede religiosa42, sia invece il risultato 39.  Ivi, p. 114. 40.  Ellul analizza il passaggio dall’operazione tecnica, sempre esistita nel corso della storia dell’uomo, al fenomeno tecnico specifico della modernità industriale: cfr. ivi, pp. 20-24. 41.  ST, p. 106. 42.  Già Spengler notava come «la “fede nella tecnica” diventa quasi una religione materialistica: la tecnica è eterna e immortale come Dio Padre; redime l’umanità come il Figlio; la illumina come lo Spirito Santo. Il suo

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della fondamentale convinzione della modernità illuministica che l’evoluzione dello spirito umano sia progressiva, indefinita e costantemente rivolta verso un sempre più ampio e duraturo benessere, sia individuale che collettivo. Tale convinzione è dichiarata da Condorcet nel suo celeberrimo Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, pubblicato postumo nel 1795 e il cui intento è dimostrare che «la natura non ha posto alcun limite al perfezionamento delle facoltà umane; che la perfettibilità dell’uomo è realmente indefinita; che i progressi di questa perfettibilità, ormai indipendenti da ogni potenza che volesse arrestarli, non hanno altro limite che la durata del globo sul quale la natura ci ha gettato»43. La spinta propulsiva del progresso umano è, come la legge di espansione del sistema tecnico, del tutto automatica e inarrestabile: non può essere né limitata né influenzata, sia in senso negativo che positivo, dall’esterno. L’uomo faustiano ha in sé il germe del suo mirabile sviluppo e della sua affermazione incontrastata sulla realtà; in tale gloriosa avanzata verso il futuro egli ammette come unici limiti, in un primo tempo, quelli imposti dalla sua costitutiva “gettatezza” sul globo terrestre. Nell’epoca dell’affermarsi delle biotecnologie e delle scienze neurocognitive, anche questo limite sembra potere essere messo in discussione, come vorrebbero alcune proiezioni del pensiero postumanista. Il progresso, dunque, è costitutivo tanto dell’uomo moderno quanto della tecnica, sua essenziale controfigura: «Non c’è tecnica se non c’è progresso. Il progresso tecnico non è la tecnica che evolve, non sono oggetti tecnici che cambiano perché per-

adoratore è il filisteo del progresso dell’epoca moderna, da Lamettrie fino a Lenin» (O. Spengler, L’uomo e la tecnica, cit., p. 86). 43.  N. de Condorcet, I progressi dello spirito umano (1795), tr. it. di G. Calvi, Editori Riuniti, Roma 2020, p. 50.

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fezionati, non è una somma di influenze sulle macchine o sulle organizzazioni che li spingono ad adattarsi. La tecnica comporta la propria trasformazione»44. Per Ellul, la fede nel progresso, divenuto ormai un’ideologia onnipresente che influenza ogni nostra opinione e ogni nostro atteggiamento etico-politico, è un «prodotto diretto della tecnica»45. L’assolutizzazione del progresso, che si compie nel sistema tecnico, corrisponde a quel processo per cui il mezzo tecnico acquisisce un valore sempre maggiore rispetto al fine cui è originariamente preposto; esso, infatti, se pur in sé non costituisca alcuna finalità intrinseca, tuttavia è il punto di passaggio obbligato per la realizzazione di qualsiasi progetto, così che l’unico fine ateleologico che il sistema tecnico si propone di raggiungere non sarà di certo il raggiungimento di un qualche “bene”, ma la sempre maggiore disponibilità di mezzi tecnici. La tecnica moderna, infatti, dispiegando una potenza indefinita, non può essere fissata ad alcuna finalità particolare, come invece accadeva alla tecnica antica46. Il ribaltamento del nesso logico tradizionale di prio-

44.  ST, p. 106. 45.  Ibidem. Walter Benjamin nelle sue Tesi sul concetto di storia aveva legato l’ideologia del progresso con la “catastrofe del moderno” e con il predomino della temporalità cronologica ed equivalente, tipica delle scienze naturali, sulla temporalità qualitativamente connotata dell’istante e della decisione storica. Riprendendo la raffigurazione di Paul Klee dell’angelo della storia, Benjamin rappresenta il progresso come una bufera che si impiglia sulle sue ali e che «lo spinge inarrestabilmente verso il futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera» (W. Benjamin, Sul concetto di storia [1950], tr. it. di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 37). 46.  La tecnica antica, infatti, «non era circondata dall’alone dell’infinita possibilità, perché già a priori era destinata a un fine ben determinato che, penetrandola, caratterizzandola e dirigendola, la conteneva nel ruolo di puro mezzo che riceveva il suo significato solo dal fine in vista del quale era stato ideato. Quindi erano proprio le scarse risorse di cui disponeva la tecnica

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rità dei fini rispetto ai mezzi dipende dall’accrescersi della potenza tecnica e dalla sempre maggiore disponibilità di mezzi che essa produce, per cui i fini non sono più determinati da una scelta discrezionale o da un precostituito ordine ontologico, ma piuttosto sono, come nota Galimberti, il «prodotto meccanicistico dell’estensione dei mezzi»47. È questa priorità dei mezzi sui fini48 che, superando le intenzioni dell’operare e del progettare umano, ha costituito il formidabile volano del progresso tecnico e scientifico. L’assolutezza del sistema tecnico consiste in un universo indefinito di mezzi che vengono impiegati non già per il raggiungimento di fini, ma unicamente per la produzione di effetti. I presunti fini, che pure vengono propagandati come obiettivi della prassi tecnica – il miglioramento delle condizioni materiali e psicologiche di vita, l’emancipazione dalle fatiche e dalle sofferenze, la più ampia condivisione dei beni, ecc. –, in realtà non rappresentano altro che ulteriori mezzi in vista di un sempre maggiore incremento dell’efficienza e della potenza del sistema. La fonte del progresso interna al fenomeno tecnico che genera le continue trasformazioni del sistema non è, dunque, l’avvicendarsi storicamente determinato delle finalità ideali, né il variare delle condizioni contingenti e naturali in cui pure – lo vedremo – il sistema è inserito e con cui interagisce, ma lo antica ciò che consentiva di mantenere quella prospettiva finalistica che la tecnica contemporanea invece abolisce» (U. Galimberti, Psiche e techne, cit., p. 341). 47.  Ibidem. 48.  Per Galimberti un esempio emblematico di questo capovolgimento del mezzo in fine è la ricerca pura, «la quale non ha in vista tanto dei fini da rea­ lizzare, quanto un ampliamento infinito dei mezzi da cui i fini scaturiscono in modo meccanicistico. Ciò significa che l’uomo non sceglie più il fine in vista del quale operare, ma questo fine gli viene offerto come risultato della tecnica, se la sua attenzione si sarà rivolta per intero e avrà scelto come fine la maggior costruzione possibile di mezzi» (ibidem).

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scambio cibernetico delle informazioni. Secondo Ellul, il sistema nasce quando un oggetto o un metodo tecnico non esplica solo il compito per cui è stato predisposto, ma inizia a emettere e a registrare informazioni provenienti sia dall’interno del sistema tecnico che dall’ambiente esterno. Ma, soprattutto, è dal momento in cui gli elementi del sistema tecnico iniziano a tenere conto delle informazioni ricevute e a regolare il loro funzionamento in base ad esse che inizia la storia della mutazione automatica del sistema, ovvero inizia il progresso tecnico vero e proprio. Non è un caso che «più la tecnica si sviluppa e più, come condizione necessaria allo sviluppo, aumentano le attività di informazione»49. Il fenomeno per noi oggi lampante che la produzione materiale e lo spostamento fisico di persone e merci siano divenuti meno importanti del funzionamento delle reti informatiche è la testimonianza evidente che lo scambio di informazioni non sia soltanto una proprietà del sistema, ma una sua necessità50, perché è a partire dallo scambio e dalla gestione delle informazioni interne ed ester49.  ST, p. 119. 50.  Con toni preveggenti, Ellul afferma nel 1977 l’intrinseca dinamicità informatica del sistema: «Non siamo più una società dominata dall’imperativo di produzione, ma dall’emissione, dalla circolazione, dalla ricezione, dall’interpretazione di informazioni: esattamente ciò che permette la costituzione del sistema. […] il sistema regge grazie alla rete di informazioni incessantemente rinnovate. Il che ne causa la flessibilità e l’impossibilità di coglierlo in un momento dato: non è possibile procedere a una sorta di “stato del sistema” perché ciò significherebbe fissare le informazioni, e dunque negare il sistema stesso» (ST, p. 120). L’emblema di tale essenza informatica del sistema e lo strumento che ne potenzia al massimo le capacità e l’efficienza è il computer, il cui utilizzo su vasta scala si stava profilando in quegli anni e a cui Ellul dedica particolare attenzione: cfr. ST, pp. 123-133. Significativa è qui la caratterizzazione polare del computer che rafforza la nostra ipotesi di un’unità non dialettica del sistema tecnico: «Il computer è fondamentalmente non dialettico, è basato sul principio di non contraddizione. Col sistema binario, bisogna scegliere, è sempre sì o no. Non si può ingaggiare un pensiero evolutivo che inglobi gli opposti» (ST, p. 133).

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ne che si strutturano l’organizzazione e l’accrescimento del sistema stesso. Ellul pensa, infatti, il progresso tecnico, comunemente inteso come l’invenzione di nuovi strumenti o pratiche tecniche o il perfezionamento di quelli già esistenti, nel senso di un auto­ accrescimento, un processo, cioè, per cui il sistema cresce «grazie a una forza interna, intrinseca e senza un intervento decisivo dell’uomo»51. Tutte le attività umane, anche quelle non rivolte intenzionalmente ed esplicitamente all’universo tecnico, contribuiscono alla crescita tecnica: tutto ciò che l’uomo sente, vuole e sogna viene ineluttabilmente polarizzato all’interno dell’universo dei mezzi52 della tecnica. Il sistema fagocita i fattori umani più diversi e in apparenza anche più estranei ad esso; se pure inconsapevolmente, tutti gli uomini dell’era della tecnica, senza eccezione, qualunque posizione occupino nell’apparato lavorativo e produttivo, cooperano al progresso tecnico in quanto cercano di utilizzare al meglio gli strumenti a disposizione o di perfezionare un metodo; al contempo, la tecnica si evolve e progredisce grazie a una sorta di irrefrenabile impulso interno, senza alcun diretto intervento umano. Tale caratteristico processo di accrescimento del sistema ha come suo effetto la totale integrazione dell’individuo in una totalità tecnica, per cui, rievocando lo spirito di collettività religiosa del Medioevo, potremmo dire che non è l’azione del singolo produttore a contare, ma l’anonimo prodotto in cui si realizza la crescita tecnica: così come ci sono ignoti gli artefici delle grandi cattedrali medievali, allo stesso modo sarà sempre più difficile individuare i singoli responsabili delle grandi scoperte tecniche e scientifiche. La potenza propulsiva della tecnica, inoltre, consiste nella sua capacità di piegare le azioni dei singoli ai suoi metodi e alle 51.  ST, p. 251. 52. Cfr. ST, p. 57.

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sue procedure. In questa sorta di parassitismo della tecnica nei confronti dell’agire umano, possiamo ravvisare la sua straordinaria attitudine di adattamento proteiforme. In questa assimilazione dell’umano da parte della tecnica53 consiste il suo processo di autoaccrescimento: «C’è autoaccrescimento perché la tecnica induce ciascuno ad agire nella propria direzione, e il risultato è dato da una somma che nessuno ha coscientemente, chiaramente voluto. L’uomo tra le due cose appare il fattore necessario ma insieme strettamente necessitato»54. A partire da tale tesi fondamentale, è possibile ripensare anche il concetto tipicamente tecnico di mutazione come “innovazione tecnica”. Quest’ultima, infatti, non è semplicemente il risultato di un’invenzione scientifica: innovazione e invenzione vanno piuttosto pensate come aspetti concomitanti di un unico processo produttivo, in cui determinanti sono le azioni trasformative di pratiche ed elementi tecnici già esistenti. L’innovazione tecnica, poi, non si giustifica di per sé, ma risponde a un certo insieme di bisogni, sebbene sia sempre più evidente come spesso l’invenzione tecnica preceda e susciti nuovi bisogni; essa corrisponde e si inserisce in senso funzionale in un determinato ambiente socio-economico e, infine, si colloca in un particolare contesto tecnico globale che può favorire o ostacolare, fino a negare l’affermazione e la diffusione di una determinata innovazione tecnica. La necessità da cui dipende una certa innovazione non è, dunque, esterna al sistema tec-

53.  La tecnica si umanizza non in quanto si piega a scopi ultimi “umanistici”, ma esclusivamente nella misura in cui assorbe in sé il “fattore umano”: «Il sistema non ha alcuna intenzione né alcun obiettivo. Semplicemente si realizza così. E i suoi serventi sono convinti di agire per il bene dell’uomo. Sono animati dalle migliori intenzioni, il che fa sì che il sistema tecnico sia sempre più umanizzato, ma attraverso l’assorbimento dell’umano nella Tecnica» (ST, pp. 145-146). 54.  ST, p. 252.

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nico, ma è determinata dal livello stesso di sviluppo tecnico raggiunto: la grande organizzazione, intesa come sistema collettivo, costituisce, secondo Ellul, l’ambiente più favorevole per l’innovazione tecnologica. Più è ampia la partecipazione alla comunità degli scienziati e dei tecnici e più è efficace e veloce l’autoaccrescimento della tecnica, a conferma del carattere meramente quantitativo del progresso che, pertanto, tende a realizzarsi in modo privilegiato nei contesti – le grandi imprese capitaliste o socialiste al tempo in cui scrive Ellul, oggi le grandi società multinazionali – in cui è possibile realizzare rilevanti concentrazioni di ricercatori e tecnici specializzati55. Per delineare le condizioni in cui avviene la crescita tecnica, Ellul si serve del concetto di “mobilitazione”, che già Ernst Jünger all’inizio degli anni Trenta aveva riconosciuto come decisivo per la descrizione filosofica del dominio tecnico sul mondo56: «L’innovazione non è più questione di un uomo che liberamente scopre la novità che lo appassiona. È il risultato di

55.  Ellul sottolinea la necessità per l’innovazione e il progresso di una rigida specializzazione della ricerca e il moltiplicarsi del numero dei ricercatori, ma, al contempo, la totale irrilevanza di apporti geniali: «La tecnica avanza maggiormente grazie a migliaia di piccoli perfezionamenti che ciascuno può apportare, a condizione di conoscere bene il “proprio” settore tecnico, più che per grandi invenzioni spettacolari e geniali. […] Il progresso si verifica attraverso la ricerca di migliaia di ricercatori per ogni questione; ma la qualità dei ricercatori non conta molto. L’importante è che conducano infinite sperimentazioni a riguardo di un problema in modo da esaurire tutte le ipotesi e le combinazioni possibili» (ST, p. 271). Il perfetto ricercatore, così come il perfetto tecnico, è dunque uno specialista assolutamente competente nel suo settore, ma poco atto alla riflessione critica, così che Ellul può concludere che, per il sistema tecnico, «l’uomo è sempre necessario. Ma chiunque andrà bene purché sia addestrato al gioco» (ST, p. 271). 56.  «La Mobilitazione Totale non è una misura da eseguire, ma qualcosa che si compie da sé, essa è, in guerra come in pace, l’espressione della legge misteriosa e inesorabile a cui ci consegna l’età delle masse e delle macchine» (E. Jünger, La Mobilitazione Totale, cit., p. 121).

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un insieme di procedimenti e di manipolazioni e avviene per una sorta di mobilitazione collettiva (esperti e non esperti)»57. È in questo orizzonte meramente quantitativo che si colloca anche l’altro carattere fondamentale dell’innovazione tecnica che Ellul chiama “tentativismo” e che rappresenta una sorta di combinazione tecnica di relativismo ed empirismo: Se l’innovazione tecnica è raramente il risultato di un calcolo matematico, continua a funzionare a livello di «Trial and Error». Ciò mi sembra caratterizzare in modo specifico la mentalità tecnica: si tenta. Tutto e qualsiasi cosa, e si vede cosa succede. Non è una curiosità – è piuttosto un’assenza di radicamento e di certezze: «Perché no…». È un carattere generale della nostra società. Perché vi sia innovazione, devono scomparire le certezze religiose, morali, collettive. […] E tra migliaia di errori, si produce un’innovazione durevole.58

L’autonomia del processo di autoaccrescimento del sistema è, peraltro, confermata dal fatto che il progresso tecnico non è guidato dai reali bisogni o interessi dell’uomo, ma, il più delle volte, ha luogo soprattutto nel campo del superfluo, dell’inutile e del secondario. Ellul poteva facilmente constatare negli anni Settanta che si innovava più per andare sulla luna che per nutrire gli esseri umani59. Nonostante la pianificazione e la progettazione politica si sforzi di intervenire per orientare il progresso tecnico ed economico, le innovazioni tecniche fondamentali avvengono sempre là dove e nel momento in cui il sistema ha ragione di progredire seguendo gli imperativi intrinseci della sua crescita spontanea: «L’innovazione si trova […] inserita nel processo di autoaccrescimento»60. Non c’è alcun atto solitario di 57.  ST, p. 259. 58.  ST, p. 257. 59.  Cfr. ST, p. 258. 60.  Ibidem. Ellul attribuisce al sistema tecnico una sorta di «spontaneità nuova» che consente di individuare una «realtà della tecnica, con un proprio

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innovazione che non sia perfettamente assimilato, controllato e integrato nel processo cieco di autoaccrescimento del sistema61. Di tale processo Ellul individua due presupposti necessari: innanzi tutto, affinché possa darsi innovazione tecnica è necessaria una preliminare “adesione” e accettazione delle nuove tecniche. Già Ernst Jünger aveva individuato il presupposto di ogni tecnica nel livello più profondo della disponibilità interiore alla mobilitazione tecnica che aveva trovato il suo battesimo di fuoco sui campi della Grande Guerra62. Il secondo presupposto del processo di autoaccrescimento è la possibilità della libera sperimentazione che è praticabile soprattutto in condizioni di emergenza, in cui l’urgenza di raggiungere il fine giustifica l’utilizzo e, dunque, la sperimentazione di mezzi e procedure tecniche mai utilizzate e spesso azzardate. Anche per Ellul, pertanto, la guerra è il contesto in cui da sempre hanno avuto origine la maggior parte delle innovazioni tecniche63. Ma la dinamica più significativa a cui è possibile ricondurre il processo di autoaccrescimento tecnico è quella, tutta interna al sistema, per cui dallo sviluppo tecnico emerge un problema e la stessa tecnica cerca di porvi rimedio; i bisogni che il procorpo – la propria entità particolare, la propria vita, in qualche modo indipendente dalla nostra decisione. Perché le nostre decisioni sono politiche, quindi senza presa sul fatto tecnico, oppure sono microtecniche, e quindi si inseriscono nel generale movimento di crescita» (ST, p. 272). 61.  «Il progresso avviene senza che lo si voglia, lo si cerchi o lo si sappia» (ST, p. 264). La cecità del progresso, che, per riprendere la nostra figura guida, è la stessa cecità del proteo larvale in grado di adattarsi anche agli ambienti più inospitali, è tuttavia acuta chiaroveggenza, che supera ogni intelligenza umana in quanto assicura infallibilmente la coesione tra mezzi e azioni degli uomini: cfr. ST, p. 275. 62.  Cfr. E. Jünger, La Mobilitazione Totale, cit., p. 122. 63.  «La guerra è il banco di sperimentazione necessario che permette l’auto­ accrescimento, perché autorizza ogni audacia, ogni tecnica e l’insostituibile lavoro in vivo» (ST, p. 265).

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gresso tecnico si sforza di soddisfare sono creati dalla tecnica stessa, come dimostra la straordinaria fecondità della ricerca sui nuovi materiali, dal momento che ogni tecnica può svilupparsi solo disponendo di materiali che non esistono allo stato naturale64. Inoltre, come mostra lo sviluppo negli ultimi decenni delle tecnologie “verdi” applicate alla ricerca sulla sostenibilità ambientale ed energetica, la tecnica progredisce in quanto cerca di porre rimedio alle nocività che essa stessa produce: «La tecnica si alimenta […] attraverso i propri fallimenti»65. Questi ultimi, infatti, non costituiscono quasi mai una battuta di arresto del progresso – questo richiederebbe una collettiva presa di distanza da quella interiore disponibilità alla mobilitazione tecnica che abbiamo visto essere al fondo della tecnica stessa; per arrestare il processo «delirante»66 di crescita tecnica sarebbe necessaria una «indipendenza spirituale collettiva»67 che è difficilmente raggiungibile dal momento che l’esperienza dei fallimenti della tecnica ha anch’essa un carattere propriamente tecnico, nel senso che ci consegna a uno stato di emergenza e di urgenza68 per cui l’unica risposta possibile è ancora una risposta tecnica. L’impossibilità di dirigere dall’esterno o di arrestare il progresso tecnico dipende, poi, dal fatto che nessuno, nemmeno gli stessi tecnici, sempre più specializzati, hanno una visione d’insieme del sistema; esso, dunque, progredisce con andatura pachider64. Cfr. ST, p. 267. 65.  ST, p. 268. 66.  Riprendo questo aggettivo da Jünger che caratterizza come un «processo delirante» la trasformazione del lavoro in forma di vita totale ma ne riconosce, al contempo, la sua necessità destinale: cfr. E. Jünger, La Mobilitazione Totale, cit., p. 121. 67. Cfr. ST, p. 269. 68.  Caratteri questi che abbiamo già visto essere tipici dell’universo tecnico: cfr. supra, p. 56.

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mica ma inesorabile, seguendo le sue proprie leggi interne69. L’autoaccrescimento del sistema assume, quindi, il carattere di un avanzamento monotono e ripetitivo; esso si applica seguendo lo stesso metodo in tutti i suoi ambiti oggettuali senza subire alterazioni visibili. Esibisce una forma unica a cui necessariamente si modella tutto ciò che entra in contatto con esso. L’uni-formità della tecnica – che oggi si nasconde sotto il velo di una fantasmagorica e accattivante molteplicità di manifestazioni e procedure – non nega, tuttavia, il suo carattere intrinsecamente dinamico e proteiforme. Pur essendo «insensibile alla contaminazione»70, la tecnica si modella a partire dal suo processo di espansione che coincide con la sua stessa auto­generazione permanente. Ellul arriva a definire la tecnica “ibrida”, tuttavia non nel senso di una sua contaminazione con elementi non-tecnici, ma in quanto essa, come potenza proteiforme, è in grado di adattarsi ai contesti e alle circostanze più disparate con l’unico obiettivo di affermare la sua immagine e la sua potenza. La tecnica non si trasforma se non auto­ generandosi e «tutto ciò che essa assimila rinforza i suoi tratti»71. La capacità, quasi camaleontica, di prendere la forma dell’oggetto che intende assimilare a sé è, dunque, una strategia con cui la tecnica afferma la propria potenza; quest’ultima si esplica – abbiamo visto – come autoaccrescimento e come continuo superamento di sé. In questo senso, possiamo accostare la comprensione elluliana della potenza tecnica con l’interpretazione che offre Heidegger della volontà di potenza nietzschea­

69.  In riferimento al suo progredire, il sistema tecnico viene caratterizzato da Ellul come «notevolmente pesante e viscoso», in quanto «quando vengono constatati disordini e irrazionalità, vengono messi in azione solamente processi compensatori. Il sistema continua a evolvere lungo il proprio percorso» (ST, p. 146). 70.  ST, p. 276. 71.  Ibidem.

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na. Il senso metafisico della volontà di potenza consiste per Heidegger nell’incessante e indefinito potenziamento della potenza stessa: «La potenza è potente solo se diventa signora sul grado di potenza di volta in volta raggiunto. La potenza è potenza soltanto se, e fintanto che, rimane potenziamento della potenza e si comanda il più di potenza»72. Così come per la tecnica arrestare il proprio progresso significa già regredire – significativo in tal senso è l’imperativo oggi ormai universalmente accettato dell’indefinita crescita economica –, anche per la volontà di potenza stabilizzare il proprio corso significa declinare: «Già il mero sospendere il potenziamento della potenza, il fermarsi a un grado di potenza, segna l’inizio dell’impotenza. Dell’essenza della potenza fa parte il superpotenziamento [Übermächtigung] di se stessa»73. Nell’essenza della tecnica come volontà di potenza è insito questo carattere di autoaccrescimento della potenza stessa, per cui la formula metafisica del progresso tecnico sarebbe: “potenza di potenza”; essa non solo non ammette alcuna stasi nel suo processo di crescita, ma necessita costantemente di un oggetto a cui applicarsi, di una meta a cui tendere. Ciò che massimamente la minaccia non è, dunque, un ostacolo esterno che ne impedisca il dispiegamento, ma il venir meno dello stimolo interno a volere: «Nell’essenza della volontà di potenza domina l’orrore del vuoto. Quest’ultimo consiste nell’estinzione della volontà, nel non volere»74. A questo proposito Heidegger cita la significativa frase finale della nietzscheana Genealogia della morale, secondo cui la volontà «preferisce volere il nulla, piuttosto che non volere» e interpreta questo volere il nulla come «volere la sminuizione, la negazione, l’an-

72.  M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 752. 73.  Ivi, pp. 752-753. 74.  Ivi, p. 754.

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nientamento, la devastazione. In siffatto volere, la potenza si assicura ancor sempre la possibilità del comando»75. Analogamente, il massimo pericolo per il sistema tecnico è l’estinguersi della materia di cui il processo di autoaccrescimento si alimenta, ossia degli ambiti in cui può applicarsi la potenza appropriativa e proteiforme della tecnica; di fronte a questa possibilità – che di volta in volta si presenta alle frontiere della ricerca –, il sapere tecnico-scientifico reagisce ponendo al suo interno condizioni che assicurano la conservazione e l’accrescimento della sua potenza indipendentemente dagli esiti costruttivi o distruttivi a cui tale potenziamento conduce. Secondo Nietzsche le condizioni che la volontà di potenza pone al suo interno sono i “valori” intesi come punti di vista, visuali prospettiche sul divenire atte a fissarne una determinata configurazione e ad alimentarne la crescita. Il divenire in quanto «motilità della volontà di potenza» ha in sé un carattere prospettico-­oggettivo perché è ordinato dalla posizione dei valori che emergono dalla volontà di potenza stessa: lo stimare (werten) quale essenza di ogni volere è, secondo Heidegger, il modo in cui si alimenta il processo di autopotenziamento. I valori, lungi dall’essere il fine orientativo di tale processo, ne sono piuttosto la condizione indispensabile in quanto garantiscono l’organizzazione e l’accrescimento della potenza. Analogamente, i valori non possono essere intesi come i fini che orientano il progresso tecnico perché ciò avrebbe come esito un’interpretazione meramente strumentale e antropologica della tecnica che, invece, viene programmaticamente esclusa sia da Heidegger che da Ellul. I valori sono piuttosto quelle condizioni interne al progresso stesso che ne stimolano l’avanzamento e ne consentono la perpetuazione anche quando i risultati stentano ad arrivare e la fiducia nelle tecnoscienze vacilla.

75.  Ibidem.

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Che il progresso tecnico segua in modo inflessibile la sua logica interna significa esattamente che esso stesso è l’artefice delle condizioni del suo sviluppo; condizioni che vengono scambiate per valori esterni ad esso. Quando Ellul definisce il sistema tecnico un sistema chiuso e sottolinea che, a differenza dei fenomeni naturali, esso è incapace di autoregolazione, in quanto privo di feed-back esterni76, egli si muove all’interno di un’interpretazione della volontà di potenza nietzscheana77 non dissimile rispetto a quella heideggeriana, in cui la tecnica si pone come controllo del divenire metamorfico attraverso l’autopotenziamento della volontà. La possibilità di intervenire e riorientare l’avanzare del sistema tecnico – che ancora per Ellul costituisce il compito morale dell’umanità  – non consiste, pertanto, nell’impadronirsi della tecnica, ma nell’aprire il sistema a istanze esterne ad esso: Non si tratta di «divenire padroni» della Tecnica, che non significa nulla, né di avere un supplemento d’anima. Si tratta di essere in grado di reinserire nel sistema tecnico informazioni qualitative esterne suscettibili di modificare il processo all’origine – è là che si situa il conflitto, e non, secondo una

76.  «Il feed-back è reso possibile dal complesso informatico, ma la relazione deve essere mediatizzata da un elemento non tecnico, il che si scontra con l’autonomia ed è perfettamente inaccettabile» (ST, p. 149). E ancora: «Siamo passati a un grado di organizzazione tecnica in cui l’uomo non dovrebbe intervenire, ma non può fare a meno di intervenire a causa dell’assenza di relazioni interne, dovuta non a una mancanza del sistema tecnico, ma al fatto che esso funzioni solo per intro-informazione (informazioni su se stesso) e non per extro-informazione» (ST, p. 150). 77.  Un non riconosciuto debito nietzscheano è anche presente nella caratterizzazione “dionisiaca” della tecnica e del suo rapporto con il desiderio. La macchina non è una «macchina cieca e fredda ma [un’]esaltante danza dionisiaca. Tecnica e desiderio si uniscono alla perfezione. Nella nostra società, l’esaltazione del desiderio può farci avanzare solo lungo la via tecnica» (ST, p. 386).

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117 sciocca fantasia, nella concorrenza tra il computer robot e l’uomo privato di cervello!78

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Tale eventualità è, tuttavia, confutata dallo stesso Ellul, che in conclusione del suo libro sul Sistema tecnico ammette con piena disillusione e non celata amarezza che «l’uomo della nostra società non possiede alcun punto di riferimento intellettuale, morale, spirituale a partire dal quale possa giudicare e criticare la tecnica»79.

2. L’autonomia del sistema Abbiamo più volte fin qui sottolineato l’autonomia del sistema tecnico, soprattutto in riferimento al suo intrinseco processo di autoaccrescimento in cui consiste il progresso tecnico-scientifico. Dovremo adesso articolare meglio le forme di indipendenza della tecnica dagli ambiti ad essa esterni e chiarire in che modo il sistema domini il proprio ambiente e progressivamente lo fagociti assimilandolo alle proprie leggi, rivelandosi, dunque, un sistema solo apparentemente aperto. Lo stesso autoaccrescimento dipende dall’autonomia della tecnica in quanto “legge del proprio” di tipo organicistico. L’autonomia viene infatti intesa da Ellul come autodeterminazione secondo la tradizione della filosofia moderna che da Cartesio arriva fino a Kant, e in particolare come norma metabolica che presiede all’insieme delle funzioni del sistema tecnico e ne regola l’osmosi rispetto all’ambiente esterno: «Tecnica autonoma significa che dipende ormai solo da se stessa, traccia il proprio cammino, è un fattore primario e non secondario, deve essere considerata come “organismo” che tende a chiudersi, ad auto78.  ST, p. 150. 79.  ST, p. 387.

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determinarsi: rappresenta lo scopo di se stessa. L’autonomia è la condizione stessa dello sviluppo tecnico»80. L’eliminazione di fini esterni alla tecnica significa l’esaltazione della funzionalità intesa, in sintonia con la concezione di Baudrillard del sistema degli oggetti81, come ciò che si adatta a un ordine o a un sistema e non a un determinato scopo: la funzionalità di un oggetto tecnico si misura, infatti, a partire dalle esigenze del sistema e non in rapporto ai bisogni umani o sociali. Dall’autonomia della tecnica discende la sua refrattarietà a ogni giudizio di tipo morale e a ogni limitazione esterna: la tecnica «non tollera alcun giudizio proveniente dall’esterno, né alcun freno: si presenta come necessità intrinseca»82. Rievocando la concezione spinoziana della libertà, si potrebbe dire che il sistema tecnico è libero in quanto non è determinato da altro se non da sé, in quanto è costretto dalle sue leggi interne a seguire il proprio necessario sviluppo. In questo senso soltanto il sistema è libero, mentre tutti i suoi componenti, dalle materie inerti fino agli uomini, sono necessitati a seguirne le ferree leggi. Il funzionalismo diventa la legge fondamentale del sistema e di tutti i suoi “funzionari”. Gli uomini sono costretti a omologarsi alla razionalità del sistema che fa dell’individuo una semplice risposta funzionale più o meno efficace a soddisfare le proprie esigenze. Questo non vuol dire che il sistema appaia come negatore delle libertà individuali che, al contrario, vengono riconosciute ed esaltate dal sistema – in particolare la libertà di scelta, principio fondamentale della società consumista83. La 80.  ST, p. 154. E ancora: «Il sistema tecnico, incarnato dai tecnici, non ammette altra legge, altra regola che quelle tecniche considerate all’interno di se stesso e in rapporto a sé» (ST, p. 154). 81.  J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, cit. 82.  Ibidem. 83.  «Bisogna dissipare il mito che la tecnica aumenti le possibilità di scelta: ovviamente l’uomo moderno può scegliere tra cento marche di auto e mille

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libertà individuale, tuttavia, perde le sue forme tradizionali di potenza creativa (libertà per) e liberazione da vincoli in senso emancipativo (libertà da) per assumere la forma propriamente tecnica di competenza, ossia di efficacia prestazionale in riferimento alle esigenze funzionali del sistema84. L’autonomia della tecnica si impone, poi, anche nei confronti della scienza che sempre più perde il suo ruolo di preminenza. La definizione del loro rapporto nei termini filosofici di una dialettica tra sapere teorico e azione pratica, per cui la tecnica sarebbe “scienza applicata”, mostra ormai tutta la sua fallacia. A causa del loro rapidissimo e autonomo progresso, sono infatti le tecniche a esigere il progresso dalle scienze, provocando, così, una generale accelerazione dell’avanzamento del sapere. La scienza è ora al servizio della tecnica e assume il ruolo di suo mezzo85. Essa, cioè, non può rivendicare purezza e neutralità, perché «ogni scienza è coinvolta nelle conseguenze tecniche. […] È la necessaria implicazione di tutta la ricerca scientifica nella tecnica a essere determinante»86. Il dominio dell’aspetto tecnico su quello epistemico è, peraltro, la manifestazione del segreto carattere di dominio della scienza stessa che ha messo in luce Heidegger nella sua conferenza Scienza e meditazione del 1953, in cui la scienza vie-

tessuti… cioè prodotti. […] La scelta tra oggetti tecnici non è della stessa natura della scelta di un comportamento umano. Non c’è una categoria teorica della “scelta” che esprima la libertà. La parola “scelta” non ha alcun contenuto etico in sé, e non è attraverso la scelta di oggetti che si esprime la libertà» (ST, p. 391). 84.  La competenza «garantisce agli individui unicamente la capacità di muoversi nei circuiti funzionali dell’apparato, più interessato ai meccanismi di pianificazione, organizzazione e centralizzazione che alle sorti dell’individuo» (U. Galimberti, Psiche e techne, cit., p. 543). 85.  Cfr. J. Ellul, La tecnica, cit., p. 11. 86.  ST, p. 157.

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ne disvelata come presupposto dell’operare tecnico sul reale87. In quanto «teoria del reale», essa «ferma» (stellt) il reale e lo assicura nella sua oggettità a cui può applicarsi la contemplazione scientifica. Tale contemplazione, tuttavia, non ha nulla di disinteressato; essa, piuttosto, per Heidegger, ha la forma del «rappresentare catturante» (das nachstellende Vorstellen) che «si assicura tutto il reale nella sua perseguibile oggettità»88 e lo rende così funzionale all’operare calcolante89 della tecnica. L’oggettità, che per Heidegger costituisce la modalità di manifestazione della presenza degli enti nella modernità – ciò che altrove Heidegger nomina come il tipico «destino dell’essere» (Geschick des Seins) del mondo moderno –, si distacca, dunque, nettamente dalla concezione che il mondo greco e quello medievale avevano della presenza degli enti. Conseguenza di questa riduzione della totalità degli enti a oggettità e realtà è l’impossibilità di cogliere il senso originario della natura: dal momento che «la natura, nella sua oggettità per la scienza moderna, è solo uno dei modi in cui ciò che è 87.  L’epistéme stessa, peraltro, possiede fin dalla sua interpretazione platonico-aristotelica un carattere di dominio che verrà pienamente esplicitato nella modernità da Bacone con la celebre affermazione scientia est potentia. Anche nella prospettiva postumanistica, come vedremo, il conoscere è sinonimo di dominio, in quanto consente di aumentare il fronte di operatività dell’uomo sul mondo nel senso di una sempre maggiore coniugazione tecnica con esso. 88.  M. Heidegger, Scienza e meditazione, cit., p. 35. Con la traduzione italiana “oggettità” del termine Gegenständlichkeit si è voluto indicare che Heidegger non intende riferirsi all’oggettività nel senso logico-epistemologico di ciò che è obiettivo, ma nel senso del rapporto ontologico di contrapposizione tra soggetto rappresentante e cosa rappresentata da cui si origina la presa catturante e operativa della tecnica. 89.  «Ogni oggettivazione del reale è un calcolare, sia che insegua, attraverso la spiegazione causale, le conseguenze di determinate cause, sia che attraverso la morfologia essa si faccia un’idea delle cose, sia che si assicuri un certo contesto di connessioni ordinate nei suoi fondamenti» (ivi, p. 36).

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presente, e che da sempre viene chiamato physis, si manifesta e si offre all’elaborazione scientifica», e che «questa oggettità non può mai racchiudere l’essenza della natura, perché l’oggettità della natura è fin da principio solo uno dei modi in cui la natura si pro-spetta»90, la natura è destinata a rimanere per la scienza fisica l’«inaggirabile» (das Unumgängliche). Per Heidegger questo termine ha un duplice significato: da un lato, esso rinvia alla necessità che la scienza continui a rapportarsi alla physis come alla fonte della presenza; dall’altro, esso indica che il rappresentare catturante e assicurante della scienza non può mai abbracciare la pienezza dalla natura in quanto physis, che rimane, dunque, una sorta di presupposto non visto della scienza. Questo nucleo inaccessibile e inaggirabile domina per Heidegger al fondo di ogni scienza – e dunque della sua essenza tecnica – che tenta febbrilmente e invano di impossessarsi dell’essere delle cose, ma nel suo ridurlo a rea­le essa non fa altro che esercitare con crescente attivismo e accelerazione un mero dominio sulla forma del suo apparire – qui emerge di nuovo il carattere proteiforme del sistema tecnico-­ scientifico – e sulle sue possibilità applicative e funzionali. Il modo in cui si realizzano i tentativi di cogliere l’inaggirabile è il dispiegarsi della ricerca scientifica come operativismo. Con questo termine Heidegger intende il sistema dei procedimenti di controllo e comunicazione dei risultati delle singole scienze e, più in generale, «l’assicurazione del primato del procedimento rispetto all’ente (natura e storia) che, di volta in volta, è oggettivato nella ricerca»91. È questo primato metodologico che genera l’unità e l’omogeneità delle scienze moderne e che provoca l’affermarsi di una nuova figura di scienziato, il ricercatore che «assume necessariamente e da se stesso la fi-

90.  Ivi, p. 39. 91.  M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, cit., p. 81.

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gura del tecnico»92, nel senso del dinamismo e dell’attivismo della sua capacità produttiva.

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Non è dunque la politica93, né la scienza, a dirigere l’avanzare della tecnica, ma, al contrario, è l’istanza tecnica stessa a costituire il nucleo propulsore dell’apparato tecnico-scientifico. In linea con le affermazioni heideggeriane, anche per Ellul la scienza moderna, in quanto fondata sul metodo sperimentale, è dipendente, fin nelle sue basi teoriche, dalla tecnica: La tecnica è a monte e a valle, e addirittura nel cuore stesso della Scienza, che si proietta e assorbe nella Tecnica […]. La scienza, essendo diventata sperimentale, dipende dalla tecnica, la sola a permettere di riprodurre tecnicamente i fenomeni. La tecnica riproduce astrattamente la natura per permettere la sperimentazione scientifica: da qui nasce la tentazione di obbligare la Natura a conformarsi ai modelli teorici, di ridurla all’artificiale tecno-scientifico.94

La riproduzione artificiale della natura consentita dalla tecnica corrisponde a quel rappresentare catturante-assicurante 92.  Ivi, p. 82. 93.  «La politica è sempre più indotta dalla Tecnica ed è oggi incapace di dirigere la crescita tecnica in un senso o nell’altro» (ST, p. 158). Indipendentemente dalle ideologie cui si ispira, lo Stato, in quanto diretto dagli imperativi della tecnica, «non può fare altro che prendere unicamente decisioni di aumento di potenza, la propria e quella del corpo sociale» (ST, p. 159). Scrivendo ancora in tempi di guerra fredda, Ellul è pienamente consapevole dell’irrilevanza dello scontro ideologico: quello che conta ai fini della supremazia politica è la potenza che soltanto i mezzi tecnici possono conferire: «L’imperialismo ideologico è una sciocchezza, la vera superiorità è data dalla tecnica» (ST, p. 167). Analogamente Ellul, contraddicendo le classiche analisi di matrice marxista, afferma l’autonomia della tecnica anche nei confronti dell’economico: «Come per il potere politico, un sistema economico che rifiuta l’imperativo tecnico è condannato. Non è la legge economica a imporsi al fenomeno tecnico, è la legge del tecnico che ordina, subordina, orienta e modifica l’economia» (ST, p. 171). 94.  ST, p. 158.

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che costituirebbe, secondo Heidegger, l’essenza della scienza moderna. Lungi dall’essere applicazione pratica di leggi astratte, la tecnica provoca la natura a mostrarsi in termini fisicomatematici. La celebre dichiarazione galileiana sui caratteri matematici in cui è scritto il libro della natura potrebbe essere completata affermando che la semantica di questo alfabeto matematico è la tecnica. Riprendendo una convinzione diffusa nell’ambiente scientifico del suo tempo, Ellul afferma che «la Natura è ciò che creo in laboratorio». È in questo contesto che, riprendendo il concetto nietzscheano di potenza, Ellul arriva a caratterizzare la scienza come violenza e la tecnica, che esprime la violenza scientifica, come “potenza”: «La tecnica, attraverso i mezzi che mette a disposizione della scienza, induce quest’ultima al processo di violenza (verso l’ambiente naturale, ad esempio)»95. Da quanto visto discende necessariamente anche l’autonomia della tecnica nei confronti della morale: dal momento che l’uomo abita la tecnica come universo di mezzi e come potenza proteiforme, nessun giudizio di bene o di male può essere fatto valere dinnanzi alle invenzioni e alle operazioni tecniche, così che la morale stessa viene assorbita nel sistema tecnico96. Ma l’aspetto più interessante di queste riflessioni direttamente connesse con l’interpretazione generale della tecnica risiede in alcune notazioni sulla legittimità della tecnica, che, per Ellul, coincide con la stessa legittimità del moderno: la tecnica non è soltanto accettata come un fatto, un destino ineluttabile, ma ogni contenuto del sistema tecnico è legittimo in sé, dal momento che non esiste alcun punto di riferimento esterno ad esso. La tecnica diventa, dunque, la più potente forza di legittimazione; essa legittima addirittura la stessa ricerca scientifica. 95.  ST, p. 158. 96.  «Una proposizione morale verrà considerata valida solo se inseribile nel sistema tecnico, a condizione di accordarsi con esso» (ST, p. 179).

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Con straordinario acume sociologico, Ellul rintraccia, peraltro, l’istanza di legittimazione interna al sistema nella pubblicità: «la pubblicità è una tecnica, indispensabile alla crescita tecnica e destinata a fornire al sistema legittimità»97. È attraverso la pubblicità, ovvero l’ostensione dell’oggetto ridotto a merce e l’esaltazione benjaminiana della sua fantasmagoria98, che il sistema integra metamorficamente l’individuo nel processo tecnico e giustifica pienamente tale integrazione. Essendo auto­giustificata, la tecnica diventa autogiustificante e sostitui­ sce i vecchi valori trascendenti o le idee regolative trascendentali con i valori che – lo abbiamo visto – essa stessa pone come sue condizioni di accrescimento. Nietzscheanamente, Ellul è consapevole che la tecnica – prima ancora della ragione – offre all’uomo quella griglia valoriale senza della quale egli non potrebbe vivere, quella stabilizzazione proteiforme del divenire grazie a cui egli sospende il proprio “vivere nel travolgimento” e perviene a «strutture complesse, la cui vita ha una durata relativa entro il divenire»99. La tecnica, dunque, non soltanto attribuisce potenza all’uomo, ma anche conferisce giustizia alla sua azione tecnica: «se ciò che era fatto in nome della scienza era giusto, ora lo è anche ciò che viene fatto in nome della tecnica»100. L’uomo è chia97.  ST, p. 180. Sul ruolo decisivo della pubblicità ai fini di assicurare l’inserimento dell’uomo nel sistema tecnico e la sua permanenza in esso, così si esprime Jean-Luc Porquet: «Il ruolo della pubblicità è decisivo, quindi: serve ad acclimatare l’uomo all’universo tecnico e a persuaderlo che esso è legittimo, ogni suo elemento è buono per lui; e se si ribella, spingervelo a forza, o quasi» (J.-L. Porquet, Jacques Ellul, cit., p. 135). 98.  Cfr. W. Benjamin, Parigi, la capitale del XIX secolo (1935), tr. it. di R. Solmi, in W. Benjamin, Opere complete, vol. IX, I «passages» di Parigi, ed. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2000, pp. 5-18. 99. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere di Friedrich Nietzsche, cit., vol. VIII/2, 1971, fr. 11 [73], p. 247. 100.  ST, p. 181.

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mato, dunque, a creare progressivamente un’etica del tutto tecnica che si estende su ogni ambito del sistema, e quindi a ogni livello della sua esperienza esistenziale. Tale etica esige determinate virtù tecniche che già Jünger negli anni Trenta aveva individuato come caratterizzanti il rapporto dell’uomo con il mondo delle macchine e che ancora oggi valgono a descrivere il nostro stato immersivo nell’ambiente tecnico: precisione, serietà, realismo, modestia, dedizione e cooperazione, ma, soprattutto, la virtù del lavoro101. Tale etica tecnica può vantare rispetto a tutte le altre di essere un’etica vissuta e non derivata da principi teorici e, soprattutto, di possedere sanzioni e incentivi evidenti e ineluttabili che derivano direttamente dal funzionamento del sistema. L’etica tecnica, dunque, similmente a quella stoica, rifiuta ogni principio a priori e, allo stesso tempo, ogni fine ultimo; non è un’etica eudemonista né utilitaristica, così come non è, però, nemmeno un’eti­ ca ascetica o del sacrificio; si tratta di un’etica integralmente autonoma il cui fine coincide con la pratica stessa della virtù. In senso aristotelico potremmo considerarla come un habitus morale che caratterizza la forma di vita tecnica e del lavoro totale superando ogni divaricazione tra essere e dover-essere e dischiudendo l’orizzonte di una assoluta immanenza in cui la legge del sistema si identifica con la legge del sé, l’automatismo dell’apparato coincide con l’autonomia del singolo in una pervasiva introiezione della potenza proteiforme della tecnica.

3. Accelerazione e virtualizzazione Nel suo studio del 1959 sulle soglie storiche e sulla temporalità dell’epoca del lavoro totale e del dominio planetario della

101.  Ibidem.

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tecnica, Al muro del tempo, Ernst Jünger esprime il processo di inarrestabile e progressiva accelerazione cui il sistema tecnico sottopone ogni ambito dell’esistenza:

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Tale accelerazione è qualcosa di generale. Il desiderio di fermarla là dove gli svantaggi diventano manifesti è comprensibile, ma è destinato a rimanere un desiderio, poiché l’accelerazione regna non solo nei cerchi esterni e non solo negli effetti tecnici. Essa viene prodotta e mantenuta in virtù di una sostanziale adesione che riconosce il proprio compito non nelle profondità dell’etica bensì in quelle del destino.102

Jünger considera l’«ebbrezza demoniaca» di tale vorticoso processo che, a differenza dell’ebbrezza erotica, si esaurisce nella cupa immanenza del sistema tecnico senza attingere a nessuna prospettiva estatica, una delle cause del nichilismo a cui l’uomo può sottrarsi soltanto attraverso la pratica delle “scienze del cuore”103 capaci di traghettare l’uomo al di là dell’accelerazione crescente verso le regioni della quiete. Riflettendo su tale fenomeno anche Ellul si pone il problema dei limiti interni della crescita tecnica, gli unici che siano in grado di influire sulle sue dinamiche di autoaccrescimento. Gli anni Settanta, in cui prende forma il Sistema tecnico, sono segnati dall’emergere dalle prime forme di consapevolezza ecologica e ambientalistica, che Ellul considera con gran102. E. Jünger, Al muro del tempo (1959), tr. it. di A. La Rocca e A. Grieco, Adelphi, Milano 2000, p. 36. 103.  Tra di esse Jünger annovera la poesia, una rinata teologia e l’astrologia, intesa come quella prospettiva che, indicando la direzione simbolica delle “stelle fisse”, «ben si presta a far distogliere lo sguardo dalle figure di una monocultura dinamica […]. [Essa] si erge come un masso erratico giungendo fino a noi quale residuo di tempi antichi, quale testimonianza non solo di un diverso stile di pensiero, ma anche di una diversa spiritualità. A essa è legato un modo di vedere che è largamente estraneo alla nostra osservazione scientifica; per suo tramite vengono rianimate forze rimaste a lungo sopite» (ivi, p. 37).

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de attenzione e che lo inducono a sottolineare i limiti fisici ed energetici dell’espansione demografica e industriale, così per come essa si era prodotta nei decenni del dopoguerra. Egli, inoltre, prende in seria considerazione la proposta della “crescita zero”, diffusasi nella seconda metà degli anni Settanta e proveniente da autorevoli ambienti scientifici, cioè il passaggio da un regime dinamico di progressiva accelerazione a un possibile stato di equilibrio104. Se l’accelerazione intrinseca della tecnica è di per sé indefinita e il suo ritmo di crescita è tendenzialmente esponenziale, l’unico elemento di attrito nei confronti di questo processo è costituito dalle resistenze che oppongono gli ambienti che la tecnica progressivamente assimila: i tempi con cui le strutture sociali, giuridiche e politiche si modificano quando vengono inserite nel sistema tecnico sono incommensurabili con i ritmi di crescita propri della tecnica. Più che un fattore frenante, tuttavia, la resistenza offerta dall’ambiente sociale ed economico costituisce un filtro rispetto alle tendenze di sviluppo presenti all’interno del sistema: il fatto che la sua malleabilità e plasticità rispetto al potere proteiforme della tecnica non sia indefinita né indeterminata rappresenta un decisivo elemento

104.  Per Ellul la prospettiva più auspicabile che potrebbe condurre a tale stato di equilibrio è quella di una “progressiva decelerazione”; ai suoi occhi disincanti, essa, tuttavia, appare più improbabile degli altri due possibili scenari di un volontario arresto del progresso tecnico e di un suo blocco catastrofico che, tuttavia, condurrebbero verosimilmente a un disordine interno al sistema piuttosto che a una sua effettiva decelerazione come testimonia l’attuale catastrofe pandemica. È significativo, a tale proposito, come queste riflessioni di Ellul che influenzeranno profondamente Serge Latouche e saranno determinanti per la nascita della teoria della “decrescita”, siano quasi del tutto improponibili ai nostri giorni, in cui, semmai, il dibattito ecologista si concentra nel garantire una sempre maggiore sostenibilità ambientale all’attuale modello di sviluppo economico basato sul principio fondamentale e pressoché indiscutibile della crescita perenne.

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di selezione rispetto all’affermarsi delle nuove tecniche: non si potrà, dunque, fare tutto ciò che la tecnica propone, cosicché l’imperativo tecnico fondamentale – tutto ciò che è tecnicamente possibile fare deve essere fatto –, integrato con il principio dell’accumulo del potenziale tecnico – ogni innovazione latente può essere in ogni momento risvegliata e applicata –, si coniuga metamorficamente, all’interno dello stesso processo tecnico, con il fronte umano e sociale. Il ritmo e la direzione dello sviluppo sono, dunque, segnati dalle soglie mobili di adattamento dell’uomo all’universo tecnico; tali soglie, tuttavia, sono interne al sistema e ne costituiscono, per così dire, una sorta di scansione metabolica. È in questo meccanismo complesso e profondamente ambiguo di assimilazione dell’umano nell’universo tecnico che si annuncia un tratto decisivo del sistema tecnico, intimamente connesso con la sua essenza metamorfica: il suo potere di virtualizzazione. L’inclusione sempre più pervasiva dell’umano è resa possibile dal divenire sottile della tecnica che si manifesta compiutamente nell’attuale imporsi dei mezzi di comunicazione informatici e della rete internet. La centralità della smaterializzazione della tecnica è riconosciuta chiaramente da Ellul: «il culmine dello sviluppo tecnico consiste nella scomparsa dell’apparecchio, brutto, ingombrante, che ricorda troppo la materialità»105. La virtualizzazione della tecnica è la più efficace strategia di assimilazione dell’uomo all’interno del sistema, in quanto dissimula l’artificiosità e la complessità della mediazione tecnica offrendo l’apparenza di un’immediatezza e semplicità natu105.  ST, p. 384. Già Jünger aveva parlato di una “spiritualizzazione della tecnica” individuando nella Seconda Coscienza – l’occhio fotografico che prende distanza dalla realtà – il vettore di virtualizzazione in grado di operare quello “svanimento” della pesantezza del reale con cui l’Arbeiter si immunizza dal dolore: cfr. E. Jünger, Sul dolore, cit.

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rale. La tecnica assume, così, il volto di una seducente natura che ammalia e conquista l’uomo: Ogni meccanica scompare per farvi vivere in un universo meravigliosamente non faticoso, in cui ogni gesto dona soddisfazione senza che l’intermediario tecnico si riveli, sia percepibile. Il sistema tecnico ingloba così l’individuo senza che egli se ne renda conto. Riceve solo immense soddisfazioni. […] Il massimo di complessità tecnica produce l’immagine di un massimo di semplicità. L’intensa mobilitazione dell’uomo per via del lavoro produce in lui la convinzione della società dello svago. La demoltiplicazione dei mezzi porta a un’apparente immediatezza. L’universalità dell’ambiente tecnico produce l’immagine di una Natura.106

La tecnica manifesta la propria irresistibile immagine emancipatrice nella misura in cui fa entrare sempre più profondamente l’uomo nel sistema tecnico privandolo anche di ogni capacità oppositiva dal momento che ogni suo desiderio trova facilmente risposta nella tecnica. L’inclusione dell’uomo nel sistema, tuttavia, non avviene nella forma di una sua violenta cattura, ma, al contrario, nel modo più suadente e impercettibile dell’offerta mediatica del mondo ridotto a rappresentazione e immagine tecnica. In questo senso, mi sembra che le riflessioni andersiane sulla natura fantasmatica del mondo tecnico costituiscano la più interessante estensione delle intuizioni elluliane sulla virtualizzazione della tecnica: «Il mondo – afferma Anders – ci viene fornito in casa. Gli avvenimenti ci vengono imbanditi»107. Ma in quale forma ci vengono trasmessi gli avvenimenti? E in che modo questi avvenimenti trasmessi sono presso colui che li riceve? Con quale modalità di presenza o di assenza essi tocca106.  ST, p. 385. Per un’analisi postumanista della virtualizzazione tecnica del mondo e dell’uomo, cfr. soprattutto P. Levy, Il virtuale (1995), tr. it. di M. Colò e M. Di Sopra, Cortina, Milano 1997. 107.  G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 124.

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no le nostre esistenze? Son queste domande decisive per comprendere lo statuto attuale del sistema tecnico. Anders nota, innanzi tutto, che il rapporto tra l’uomo e i contenuti trasmessi che riceve attraverso l’apparato tecnico massmediatico è un rapporto unilaterale: l’ascoltatore-spettatore può percepire la rappresentazione del mondo senza che questo venga influenzato dalla sua presenza. Se noi oggi possiamo facilmente mettere in discussione questa convinzione andersiana appellandoci all’importanza sempre crescente all’interno dell’attuale sistema massmediatico dell’opinione degli utenti e allo sviluppo di meccanismi di interazione tra sorgente e destinatari della trasmissione dei contenuti, resta comunque indubitabile che l’utente della rete svolga una funzione per lo più passiva e la sua libertà si riduca sempre di più a quella di un selettivo consumatore di informazioni e di un testimone invulnerabile protetto dalla distanza con cui partecipa agli avvenimenti. La virtualità con cui il mondo entra nelle nostre case108 non ha, tuttavia, la forma classica della mera apparenza che si contrappone alla consistenza del reale; non può dunque essere descritta sufficientemente né nei termini di una mera assenza né in quelli di una particolare forma di presenza: «la singolarità della situazione creata dalla trasmissione sta nella sua ambiguità ontologica; perché gli avvenimenti trasmessi sono al tempo stesso presenti e assenti, al tempo stesso reali e apparenti, ci sono e al tempo stesso non ci sono: perché sono fantasmi»109. Il particolare statuto fantasmatico del contenuto tecnico-mediatico110 non va inteso nel senso di un’immagine falsa che 108.  Sulla colonizzazione del reale da parte del virtuale e dell’immaginario rivelata dall’attuale pandemia un testo profetico è S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario (1997), tr. it. di G. Illarietti, Meltemi, Milano 2004. 109.  G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 126. 110.  Le riflessioni sul carattere fantasmatico degli “oggetti” del sistema tecnico descritto da Anders verranno riprese in un orizzonte semiologico

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tende a dissimulare o alterare ingannevolmente una figura originale, ma piuttosto come una presenza spettrale che mette radicalmente in crisi le tradizionali partizioni ontologiche di materia-spirito, presenza-assenza, essere-apparire. Secondo Anders, la virtualizzazione tecnica ha come effetto quello di «coprire il reale» con l’aiuto del sedicente reale stesso, cioè «di fare scomparire il mondo dietro la sua immagine»111. È in questa sorta di svanimento112 ontologico che la tecnica si avvicina alle tradizionali forme idolatriche di rappresentazione del divino e ne condivide il potere di soggiogamento e di umiliazione dell’uomo: «Per millenni gli idoli avevano potuto suscitare, pretendere, quindi abusare di sentimenti genudalla critica della società dei consumi quali surrogati dell’immaginazione di Jean Baudrillard, soprattutto in La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture (1970), tr. it. di G. Gozzi e P. Stefani, il Mulino, Bologna 1976, e in Per una critica dell’economia politica del segno (1972), ed. it. a cura di P. Dalla Vigna, Mimesis, Milano-Udine 2010. Per un’analisi ante litteram della funzione del surrogato nella società moderna, si vedano le preveggenti riflessioni dell’artista e poeta inglese ottocentesco William Morris (18341896) e in particolare la sua raccolta di saggi L’Âge de l’ersatz et autres textes contre la civilisation moderne, tr. fr. di O. Barancy, Encyclopédie des Nuisances, Paris 1996. 111.  G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 146. 112.  Per Jünger lo svanimento, insieme alla riduzione, è uno dei caratteri fondamentali del nichilismo: «Il mondo nichilistico è per sua essenza un mondo ridotto e che sempre più si va riducendo; ciò corrisponde necessariamente a un movimento verso il punto zero. La sensazione dominante è quella del ridurre e dell’essere ridotto. […] Si esaurisce la sovrabbondanza. […] La riduzione può essere spaziale, spirituale, psichica; può riguardare il bello, il buono, il vero, l’economia, la salute, la politica – ma in definitiva sarà sempre avvertita come uno svanimento. Ciò non esclude che essa si accompagni in ampi settori a un crescente dispiegamento di potenza e forza di penetrazione […]. È inoltre caratteristica del pensiero nichilistico l’inclinazione a ridurre il mondo, con le sue intricate, molteplici tendenze, a un comune denominatore» (E. Jünger, Oltre la linea [1949], in E. Jünger - M. Heidegger, Oltre la linea, tr. it. di A. La Rocca e F. Volpi, Adelphi, Milano 1989, pp. 47-105: p. 74).

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ini: di rispetto e umiltà. Sembrava che ciò fosse cosa passata. Finché il posto degli idoli di divinità non fu occupato da finzioni di uomini»113. Più radicale, tuttavia, mi sembra, in questa prospettiva, la concezione heideggeriana del carattere idolatrico del pensiero metafisico occidentale che ha come estrema conseguenza la sua riduzione a Weltbild, immagine del mondo, e la conseguente riduzione dell’atteggiamento teorico fondamentale dell’uomo nei suoi confronti a Weltanschauung, visione del mondo114. Secondo l’interpretazione heideggeriana, l’intera metafisica moderna, Nietzsche compreso, si fonda sullo sguardo oggettivante del soggetto moderno, su cui, a partire da Cartesio, viene edificata la struttura gnoseologica ed etica della coscienza moderna. La metafisica occidentale possiede un carattere intrinsecamente idolatrico, dal momento che il divino viene com-preso nelle varie figure dell’onto-teo-logia, fino a culminare nell’idolo concettuale per eccellenza, per cui Dio diviene l’ente supremo causa sui, garanzia dei processi conoscitivi del soggetto e della sussistenza ontologica del mondo, ma, al contempo, oggettivazione estrema dello sguardo ontico del pensiero rappresentativo115. L’oggettivazione dell’ente prodotta, come abbiamo visto, dalla scienza moderna, si compie secondo Heidegger, «in un rappresentare, in un porre-­innanzi [vor-stellen] che mira a presentare ogni ente in modo tale che l’uomo calcolatore possa esser sicuro, cioè certo dell’ente. La scienza come ricerca si costituisce soltanto se la verità si è tra-

113.  G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 140. 114.  Su Heidegger e la Weltanschauung, cfr. A. Müller, Weltanschauung – eine Herausforderung für Martin Heideggers Philosophiebegriff, Kohlhammer, Stuttgart 2010. 115.  Cfr. M. Heidegger, La costituzione onto-teo-logica della metafisica (1957), in Id., Identità e differenza, a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2009.

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sformata in certezza del rappresentare»116. In concomitanza con tale processo gnoseologico si compie la trasformazione essenziale dell’uomo in soggetto del rappresentare; egli diviene ora il centro di riferimento della totalità dell’ente, cioè quell’ente privilegiato in cui ogni altro ente si fonda nella sua verità e nel suo stesso essere. Ma ciò è possibile solo se – come prosegue Heidegger nelle sue analisi – la concezione stessa dell’ente nel suo insieme si modifica divenendo “immagine del rappresentare”, dove immagine non significa più, alla maniera platonica, imitazione, ma, come ci suggerisce Heidegger, «ciò che è implicito nell’espressione: avere un’idea [Bild] fissa (fissarsi) di qualcosa. […] Avere un’idea [immagine] fissa di qualcosa significa: porre innanzi a sé l’ente stesso così come viene a costituirsi per noi e mantenerlo costantemente così come è stato posto»117. L’ente, cioè, viene ora rimirato in modo idolatrico e il suo essere, ridotto a esserrappresentato dallo sguardo dell’uomo, inizia un processo di lento ma ineluttabile svanimento ontologico che si compirà nella tecnicizzazione e virtualizzazione del mondo; tale svanimento viene solo precariamente surrogato dall’attribuzione, tipica della fase finale della modernità, dei valori; questi ultimi, divenuti i criteri di ogni validazione ontologica e i fini ultimi di ogni attività, dissimulano definitivamente la riduzione dell’ente a oggettità118. Prosegue ancora Heidegger:

116.  M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, cit., pp. 83-84. 117.  Ivi, p. 87. 118.  Viene qui in luce l’essenziale relazione tra l’idolo e il nulla, ovvero tra modernità e nichilismo: così come, da un punto si vista storico-­antropologico, l’affermazione dello splendore dell’idolo coincide non casualmente con periodi di declino e di decadenza, da un punto di vista filosofico la produzione rappresentativa dell’ente, con cui il soggetto si assicura del mondo ridotto a immagine, costituisce il presupposto remoto ma decisivo per il venir meno di ogni criterio valoriale e di attribuzione di senso. Per una più ampia indagine

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Quando il mondo diviene immagine, l’ente nel suo insieme è assunto come ciò in cui l’uomo si orienta, e quindi come ciò che […] vuol porre innanzi a sé [vor-stellen], rappresentarsi. […] L’ente nel suo insieme è perciò visto in modo tale che diviene ente soltanto in quanto è posto dall’uomo che rappresenta e produce.119

L’immagine massmediatica, che è al centro delle riflessioni dei più recenti teorici della tecnica, non ha, dunque, soltanto l’effetto di coprire il reale, ma di sostituirlo, come lo stesso Anders sembra riconoscere quando afferma che «il reale diventa la riproduzione delle proprie immagini»120. La riproduzione massme­diatica ha una sorta di preminenza ontologica sul modello originale, così come in ambito economico la merce prodotta in serie è più importante della matrice da cui deriva. Riprendendo il motivo benjaminiano della cancellazione dell’unicità da parte della riproducibilità tecnica, anche Anders può affermare che «la realtà viene prodotta dalla riproduzione; l’“essere” è soltanto nel plurale, soltanto in quanto serie. […] Una volta è come nessuna volta: l’esemplare unico non “è”; il singolare appartiene ancora al non essere»121. La “norma” della riproduzione seriale diviene, dunque, il prius ontologico che, a differenza delle analisi heideggeriane, eccede la stessa oggettità generata dal rappresentare catturante-­ assicurante del soggetto moderno122. La preminenza ontolosul rapporto tra nichilismo e metafisica in Heidegger, in relazione alle analisi fenomenologiche dell’idolo e dell’icona in Jean-Luc Marion, si rimanda a S. Gorgone, Idol und Ikone. Die Phänomenologie des Unsichtbaren von J.-L. Marion, in H.-B. Gerl-Falkovitz (a cura di), Jean-Luc Marion. Studien zum Werk, Text & Dialog, Dresden 2013, pp. 237-253. 119.  M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, cit., pp. 87-88. 120.  G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 170. 121.  Ibidem. 122.  Anche Heidegger, tuttavia, aveva intuito che il modo di presentarsi dell’ente nell’epoca del dispiegamento della tecnica moderna non è più

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gica della serie mette, peraltro, in discussione la tradizionale alternativa logica tra universale e singolare che anima, fin dal Medioevo, il dibattito tra realismo e nominalismo. La più lampante esemplificazione di questa consistenza virtuale e quasi onirica del reale in quanto riproduzione di immagine è la rappresentazione fotografica123 tipica della “fruizione” di massa delle opere d’arte e, in generale, della bellezza. Deli­ neando una sorta di fenomenologia del turismo contemporaneo, Anders si sofferma sulla caratteristica espressione “ripresa fotografica”. Riferendosi ai turisti come a dei novelli maghi che riescono a compiere il prodigio di includere tramite la riproduzione fotografica gli oggetti unici fotografati nell’universo dei prodotti in serie, Anders scrive: “Riprendere” significa […] anche “prendere presso di sé”. Perché, riproducendo, questi maghi ottengono al tempo stesso l’effetto di “avere” gli oggetti. […] “Hanno” gli oggetti soltanto perché li hanno in effigie. Dato che non conoscono ormai quello dell’oggettualità, ma del fondo (Bestand). La parola “fondo”, infatti, è strettamente collegata all’essenza della tecnica moderna intesa come disvelamento provocante; come leggiamo nella conferenza del ’53, il Bestand «caratterizza niente meno che il modo in cui è presente tutto ciò che ha rapporto al disvelamento pro-vocante. Ciò che sta [steht] nel senso del “fondo” [Bestand], non ci sta più di fronte come oggetto [Gegenstand]» (M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p. 12). Cfr. anche Id., Scienza e meditazione, cit., p. 38. 123.  Sul rapporto tra fotografia e tecnica si era concentrato già Ernst Jünger nel suo saggio sul dolore, individuando il potere anestetizzante della fotografia che, dunque, riduce l’attrito dell’uomo nei confronti dei procedimenti funzionali del sistema: «La registrazione fotografica è esterna alla zona della sensibilità. Essa possiede un carattere telescopico; ci si accorge, nel suo caso, che l’evento è osservato da un occhio insensibile e invulnerabile. […] È il nostro modo specifico di vedere. […] È un’arma al servizio del Tipo» (E. Jünger, Sul dolore, cit., p. 176). Sullo statuto dell’immagine fotografica nella contemporaneità imprescindibile è il riferimento agli studi di Susan Sontag, e in particolare al suo testo Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società (1977), tr. it. di E. Capriolo, Einaudi, Torino 2004.

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136 altro soggiorno che non sia quello tra effigi – le merci in serie del loro mondo, tra cui, con le quali e delle quali vivono, sono infatti tutte riproduzioni di modelli – le riproduzioni sono per loro appunto la realtà. […] “Reale” per loro non è la piazza San Marco che si trova a Venezia, ma quella che si trova nel loro album di fotografie a Wuppertal, a Sheffield o a Detroit.124

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L’apparente invasione degli oggetti che caratterizza le moderne società consumistiche cela la loro profonda evanescenza e subdola svalutazione, come nota anche Ellul: [gli oggetti] non esistono di per se stessi, vengono sostituiti a tutta velocità. Sono completamente svalutati, possiedono un lustro apparente al momento dell’acquisto per poi cessare di essere, né veramente utili, né piacevoli, né familiari, né compagni: fatti veramente, in pieno uso, per essere distrutti e gettati. L’invasione da parte degli oggetti è accompagnata dal disprezzo nei loro confronti.125

Ciò che viene esaltato e posto al centro nelle società consumistiche, al di là di ogni loro orientamento ideologico, non è dunque la presenza degli oggetti, dei prodotti tecnici, ma il loro essere mezzo per il perpetuarsi e l’accrescersi della potenza produttiva e proteiforme della tecnica, tanto che l’oggetto perde sempre di più di valore e, al limite, svanisce in una definitiva obsolescenza ontologica: «L’oggetto al limite non esiste più. Non più del soggetto. La chiara distinzione tradizionale scompare. A vantaggio di che cosa? Dei processi di intervento, delle strutture di funzionamento»126.

124.  G. Anders, L’uomo è antiquato. I, cit., p. 171. Questo processo secondo cui il reale si trasforma nella sua riproduzione ha come conseguenza un mutamento di paradigma ontologico: “essere” significa ora «essere stati ed essere riprodotto ed essere immagine ed essere proprietà» (ivi, p. 172). 125.  ST, pp. 66-67. 126.  ST, p. 67. A partire da questo venir meno della contrapposizione di soggetto e oggetto, Ellul interpreta anche lo strutturalismo: «Dovremo mostrare

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Secondo Ellul, pertanto, noi non viviamo in un universo di oggetti, ma in un universo di mezzi, ossia in un sistema tecnico il cui più potente imperativo è quello della funzionalità automatica. Il destino dell’uomo è quello di vivere all’interno del sistema tecnico, se pure non sarà mai perfettamente integrato e adattato. Come abbiamo visto, egli può orientare il sistema nella misura in cui rappresenta un elemento di attrito e di resistenza del sistema stesso, ma le sue scelte restano comunque sempre dipendenti dal “dato tecnico” e i diversi sistemi intellettuali e culturali non possono che essere espressioni e giustificazioni implicite del sistema tecnico. L’uomo, dunque, come scrive Ellul a conclusione del suo libro sul sistema tecnico, «non si colloca come soggetto indipendente in rapporto a una tecnica oggetto, ma è all’interno del sistema tecnico, è modificato dal fattore tecnico. L’uomo che oggi si serve della tecnica è quindi quello che la serve»127.

4. La Megamacchina Nel ridursi a sistema tecnico, il mondo e le cose si rattrappiscono e dispiegano la loro esistenza esclusivamente nella vibrazione funzionale dell’attivismo incessante e dell’operativismo senza limiti. Siamo sempre di più circondati da cose vuote e indifferenti, oggetti senz’anima, pseudo-cose, «aggeggi per vivere»128. Secondo Heidegger non è l’insieme dei congegni che lo strutturalismo non è un pensiero creatore, ma il semplice prodotto del primato dei mezzi, e come ciò funzioni. Ma ciò è esclusivamente la Tecnica. È l’universo dominato dal tecnicismo» (ibidem). 127.  ST, p. 396. 128.  Si tratta di un’espressione di Rilke presente in una lettera a Muzot del 13 novembre 1925, che M. Heidegger cita e commenta in Perché i poeti? (1946), in Id., Sentieri interrotti, cit., pp. 247-297: p. 268.

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tecnici e delle macchine a minacciare l’uomo, ma l’essenza non tecnica e ancora incompresa della tecnica stessa: «Infatti l’uso di macchinari e la costruzione di macchine non sono affatto la tecnica stessa, ma soltanto uno strumento ad essa conforme per la realizzazione della sua essenza nell’oggettività delle sue materie prime»129. Non è, dunque, la macchina che minaccia l’uomo, ma – come abbiamo già visto – il nuovo senso che essa acquista quando si impone il dominio destinale della tecnica moderna130; la presenza di ogni congegno automatico tende, infatti, a identificarsi con il suo funzionamento: [la macchina] non è affatto soltanto una specie più complicata di strumento e di attrezzo, solo un ingranaggio che – a differenza dell’arcolaio della contadina o della noria nelle risaie cinesi – fa funzionare se stesso. La macchina non si limita affatto a sostituire gli attrezzi e gli strumenti, e tantomeno è un oggetto che sta lì dinanzi. Essa sta solo in quanto va, e va in quanto funziona.131

L’autorappresentazione dell’uomo assume – come abbiamo visto – la forma del funzionamento macchinale e del principio di efficacia e di prestazione produttiva. La “cosità delle cose” 129.  Ivi, pp. 267-268. 130.  Il pericolo per l’uomo, dunque, non è la tecnica di per sé, ma l’incapacità di confrontarsi con la sua autentica essenza. Nella celebre conferenza sulla Gelassenheit del 1955 leggiamo: «Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca» (M. Heidegger, L’abbandono, cit., p. 36). 131.  M. Heidegger, L’impianto, cit., p. 58. Per ulteriori riflessioni sulla macchina e sui connessi concetti di «macchinazione» (Machenschaft) ed «esperienza vissuta» (Erlebnis) come caratteristiche fondamentali dell’epoca della tecnica, cfr. Id., Besinnung, in Gesamtausgabe, vol. 66, a cura di F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. 1997, pp. 16-25.

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e la stessa umanità dell’uomo si dissolvono, per lo Heidegger che legge Rilke, «nel corso di una produzione che si impone incondizionatamente – nel valore di scambio di un mercato, che, non soltanto trasforma la Terra in mercato mondiale, ma che, in quanto volontà di volere, tien mercato nella stessa essenza dell’essere, risolvendo così ogni ente in un affare di calcolo»132. In quanto rappresentante e producente, l’uomo si contrappone a quell’ambito inoggettivabile che la tradizione ha pensato come physis e che la poesia di Rilke nomina das Offene, l’Aperto. Egli, dunque, è esposto al pericolo133 non tanto di essere soggiogato dalla macchina, ma di mutarsi in funzioni e in materiale d’uso all’interno del sistema tecnico. Con un’espressione rilkiana, Heidegger individua questo essere in pericolo dell’uomo nell’età della tecnica come un essenziale essere-­senza-protezione. Tale costitutiva mancanza di protezione domina in maniera subdola e strisciante la società della tecnica e si configura come ansia diffusa e senso di un’incombente sventura. Tali sentimenti, tuttavia, diventano paradossalmente funzionali ai meccanismi economici e sociali delle moderne democrazie liberali, come le analisi della «società del rischio» hanno ampiamente mostrato134. Lo voglia e lo sappia o no, l’uomo si pone come il supremo “funzionario della tecnica” e quest’ultima si configura come l’organizzazione della sua separazione dall’Aperto e, quindi, dalla sua stessa essenza:

132.  M. Heidegger, Perché i poeti?, cit., pp. 269-270. 133.  Sul pericolo, cfr. M. Heidegger, Il pericolo (1949), in Id., Conferenze di Brema e di Friburgo, cit., pp. 71-95. 134.  Sul rapporto tra tecnica e rischio, cfr. S. Natoli, Tecnica e rischio, in P. D’Alessandro - A. Potestio (a cura di), Filosofia della tecnica, LED, Milano 2006, pp. 69-80. Per le analisi sociologiche sulla società del rischio, il riferimento principale è U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità (1986), tr. it. di W. Privitera e C. Sandrelli, Carocci, Roma 2000.

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140 Ciò che minaccia l’uomo nella sua essenza è l’ingannevole convinzione che, attraverso la produzione, la trasformazione, l’accumulazione e il governo delle energie naturali, l’uomo possa rendere agevole a tutti e in genere felice la situazione umana. Ma la pace di questa pacificità è null’altro che l’agitazione ininterrotta della più sfrenata autoimposizione, orientata ormai su se stessa. […] Ciò che minaccia l’uomo nella sua essenza è la convinzione che la produzione tecnica metterà in ordine il mondo; mentre, al contrario, questo genere di ordine livella ogni ordo, cioè ogni rango, nella uniformità della produzione, dissolvendo così, sin dall’inizio, la possibile provenienza di ogni rango e di ogni riconoscimento dal fondamento dell’essere.135

La volontà rivolta su se stessa che alimenta l’autoaccrescimento tecnico ha come conseguenza il livellamento tipico del sistema, dove non vale alcuna autentica distinzione ontologica; non è più possibile individuare autentici ranghi qualitativi e lo stesso concetto di “dignità” umana perde ogni significato a favore di un pensiero tecnico globale e di un’etica della potenza che sembra ormai non avere alcuna alternativa teorica136. Nella notte del mondo del sistema globale, mistificata in imperituro giorno tecnico, ciò che continua infaticabilmente a funzionare è la Megamacchina del sistema tecnico137. È questo il titolo del celebre libro di Serge Latouche, apparso nel 1995 e significativamente dedicato alla memoria di Jacques

135.  M. Heidegger, Perché i poeti?, cit., pp. 271-272. 136.  Daniel Cérézuelle propone un’etica della non-potenza in contrapposizione all’etica dominante del sistema tecnico: cfr. D. Cérézuelle, La Technique et la chair. Essais de philosophie de la technique, Parangon/Vs, Lyon 2011. 137.  Già Gunther Anders, nel secondo volume del suo L’uomo è antiquato del 1980, aveva definito con tale espressione il comporsi sempre più inscindibile dei sistemi tecnico, sociale ed economico: cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., pp. 105-115.

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Ellul138. Per Latouche, la tecnica si annuncia in tutta la sua ambigua potenza nel secondo dopoguerra attraverso il concomitante affermarsi di tre grandi megamacchine tecniche: la fabbrica fordista generata dallo sviluppo della catena di montaggio, la macchina bellica culminante nell’invenzione della bomba atomica e nello sterminio di massa nazista, e la macchina del socialismo burocratico che coniugava, secondo la celebre espressione di Lenin, i soviet con l’elettrificazione. In queste tre megamacchine, l’individuo non è più una persona e nemmeno un cittadino, ma, secondo l’efficace espressione heideggeriana, un funzionario, se pure di ruolo direttivo, della Megamacchina139. Una volta che questi tre apparati sono crollati come colossi dai piedi di argilla, il loro posto è stato occupato dall’unica Megamacchina propriamente tecnica di dimensioni planetarie, le cui componenti fondamentali sono l’economia di mercato e le differenti tecniche sociali, politiche e produttive; essa domina ormai la nostra attualità a ogni livello decisionale. Mai, prima d’ora, si era affermato il dominio di una simile megamacchina140: «L’impero e il dominio della ra-

138.  S. Latouche, La Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso (1995), tr. it. di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 139.  È lo stesso Latouche a riprendere l’espressione di Heidegger, ivi, p. 38. 140.  Secondo Lewis Mumford è possibile parlare di “megamacchina” anche in riferimento alle grandi organizzazioni gerarchiche generate dal coordinarsi dei sistemi politico, militare e burocratico nelle monarchie di diritto divino. La costruzione di colossali opere, come le piramidi egiziane o le cattedrali medievali, fu possibile grazie all’azione di megamacchine organizzative in grado di far lavorare decine di migliaia di uomini per diverse generazioni come parti di una macchina invisibile orientata a un ben preciso scopo: «Soltanto i re, aiutati dalla disciplina della scienza astronomica e sorretti dall’appoggio della religione, erano in grado di montarla e dirigerla. Era una struttura invisibile, composta di parti umane, vive ma rigide, ognuna delle quali aveva un compito, una funzione, un lavoro specifico da svolgere, per attuare le immense potenzialità produttive e i giganteschi progetti di una gran-

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zionalità tecnoscientifica ed economica danno alla Megamacchina contemporanea un’ampiezza inedita e inusitata nella storia degli uomini»141.

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Se pure la concezione dell’apparato tecnico di Latouche sembrerebbe molto simile a quella che emerge dalle analisi elluliane del sistema tecnico, egli riconosce programmaticamente una differenza di fondo tra la sua prospettiva e quella del mae­ stro: per Latouche è possibile e auspicabile – come vedremo – una critica al sistema tecnico e al suo totalitarismo142, de organizzazione collettiva. […] Questa invenzione fu il massimo risultato della civiltà primitiva: un capolavoro tecnologico che servì da modello a tutte le forme successive di organizzazione meccanica» (L. Mumford, Il mito della macchina [1967], tr. it. di E. Capriolo, il Saggiatore, Milano 2011, p. 264). L’analogia tra il sistema tecnico moderno e la megamacchina dell’antichità si evince anche da quest’altro passaggio: «La megamacchina si componeva di una moltitudine di elementi uniformi, specialistici e interscambiabili ma con funzioni differenziate, rigorosamente radunati e coordinati in un processo organizzato e diretto dall’alto: ogni elemento si comportava cioè come un ingranaggio di una totalità meccanizzata» (ivi, p. 273). Mumford nota come sin dal suo inizio i grandi vantaggi della razionalizzazione del lavoro e della produzione meccanizzata fossero accompagnati da coercizione violenta e dalla “distruzione massiccia” di tradizioni ed ecosistemi generata dalla megamacchina: cfr. ivi, pp. 265 ss. Mentre le megamacchine antiche e medievali, però, erano straordinari congegni per sfruttare a fini politici e sociali la manodopera ridotta in schiavitù, quelle moderne hanno l’obiettivo principale di risparmiare mano d’opera: cfr. ivi, p. 270. 141.  S. Latouche, La Megamacchina, cit., p. 10. 142.  Su questo tema, cfr. anche S. Latouche (a cura di), Ellul. Contro il totalitarismo tecnico, tr. it. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2014. Sul tecnototalitarismo nella prospettiva dell’interpretazione nietzscheana della tecnica, cfr. C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, in Ead., Nichilismo Tecnica Mondializzazione. Saggi su Schmitt, Jünger, Heidegger e Derrida, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 81-123. Già Anders aveva intuito il carattere totalitario della tecnica: cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 62. Egli tuttavia manifesta notevoli riserve nell’utilizzare tale espressione, che ritiene abusata e strumentalizzata a livello politico in senso antagonista rispetto agli stati definiti totalitari. Il totalitarismo è, piuttosto, primariamente

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che invece Ellul considerava come un ineluttabile destino nei cui riguardi era, al massimo, possibile un atteggiamento di distacco interiore143. Anche per Latouche la legge fondamentale della Megamacchina tecnica è l’efficienza, concetto chiave della razionalità moderna che si sintetizza nel principio del maximin: «ottenere in tutti i campi il miglior risultato con il minimo dispendio di energia»144. Questo principio si attua sempre attraverso la messa a punto e la sistematica applicazione di una tecnica in senso lato: «La modernità si riassume nella ricerca dei procedimenti più “efficienti”»145. La Megamacchina tecnica funziona in modo sempre più autonomo, come centrale di assimilaun “principio tecnico” e solo di conseguenza diviene una caratterizzazione di regimi politici; in quanto tale, esso non può essere combattuto dagli “antitotalitari”. In una significativa nota al decisivo capitolo dedicato alle macchine del secondo volume del suo L’uomo è antiquato, Anders scrive: «Qui si sostiene la tesi che la tendenza al totalitario fa parte dell’essenza della macchina e originariamente nasce dal regno della tecnica; che la tendenza, insita in ogni macchina in quanto tale, di sopraffare il mondo, di sfruttare in modo parassitario i pezzi di mondo che non ha sopraffatti, di concrescere con altre macchine e di funzionare insieme a esse come pezzi all’interno di un’unica macchina totale; che tale tendenza rappresenta il fatto fondamentale; e che il totalitarismo politico, pur sempre abominevole, rappresenta soltanto un effetto e una variante di questo fondamentale fatto tecnologico» (ivi, p. 409, nota 2). 143.  Per Ellul l’unica forma di opposizione al sistema è quella interiore della testimonianza individuale di un ambito al di fuori della portata della tecnica. Ciò, dunque, che si contrappone al sistema è la possibilità della decisione – e qui “decisione” va intesa in senso kierkegaardiano – e della conseguente testimonianza: «Chi dice sistema esclude la testimonianza: perché l’individualizzazione attraverso la testimonianza implica una messa in discussione di tutta una struttura e di tutto un sistema» (J. Ellul, Sistema, testimonianza, immagine. Saggi sulla tecnica, a cura di C. Coccimiglio, Mimesis, MilanoUdine 2017, pp. 63-64). 144.  S. Latouche, La Megamacchina, cit., p. 25. 145.  Ibidem. «Governare gli uomini nel migliore dei modi con il minimo di costrizione, produrre il più possibile con la minima spesa, fabbricare la

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zione proteiforme della realtà, proprio nella misura in cui il principio dell’efficienza si assolutizza e la ragione strumentale diventa fine in sé in quel rinchiudersi su se stesso del volere che, come abbiamo visto, Heidegger ha pensato come volontà di autoimposizione sulla scia della nietzscheana volontà di potenza. A partire da tale base teorica, Latouche può facilmente evidenziare le nefaste conseguenze della tecnica sulle relazioni sociali, sulla cultura e sulla politica146 e definire “infernale” la macchina sociale planetaria che funziona secondo uniformazione ed esclusione e si rivela, pertanto, come profondamente ingiusta147. Ma ciò che, all’interno del percorso che stiamo seguendo, ci sembra più interessante nelle analisi di Latouche, e che integra la prospettiva di Ellul, è la descrizione dell’ineluttabile fallimento della Megamacchina e della conseguente crisi del modello di sviluppo occidentale. Latouche non pensa tale fallimento come il risultato di una qualche catastrofe generata dalla tecnica o come un’implosione del sistema, ma come una sorta di rivincita della società e della natura sulla tecnica stessa. A differenza di Ellul, infatti, egli è convinto che non sia osservabile né prevedibile una tecnicizzazione integrale del mondo e che permanga sempre un considerevole iato tra sistema tecnico e società, a partire da cui diventerebbe possibile un addomesticamento sociale della tecnica e dell’economia148.

maggiore quantità di oggetti con il minimo di materia prima, di energia, di lavoro» (ibidem). 146.  «La Megamacchina uniforma, sradica e in definitiva distrugge il politico» (ivi, p. 38). 147.  «Programmata per realizzare la più grande felicità per il maggior numero, essa sta realizzando l’infelicità della maggioranza, se non di tutti, dopo aver scandalosamente favorito pochi abbienti» (ivi, p. 38). 148.  Tale eccedenza del sociale rispetto al sistema tecnico può essere «l’occasione di una ripresa di controllo della tecnica da parte degli uomini per

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La critica alla modernità di avere reciso, in nome del dominio tecnico, ogni forma di legame dell’uomo con la natura si coniuga in Latouche con la denuncia sociale e politica dei processi di esclusione sociale messi in atto dalla Megamacchina tecnico-­economica, che nel suo implacabile funzionamento genera “resti umani”149 ed enormi disuguaglianze sociali. Se, soprattutto alla luce delle penetranti analisi filosofiche di Heidegger sul carattere ontologico e destinale della tecnica, tali affermazioni possono sembrare inadeguate a pensare la portata epocale del fenomeno tecnico, illuminante appare una considerazione sulla crisi di senso generata dalla Megamacchina tecnica e in generale dalla modernità; esse, afferma Latouche, eliminano il rapporto di reciprocità tra l’uomo e la natura, da cui in epoca premoderna provenivano le principali coordinate dell’esistenza, in quanto negano la «capacità di rigenerazione della natura, riducendo le risorse naturali a una materia prima costruire un’autentica postmodernità, cioè una società che reincorporerebbe l’economia e la tecnica nel sociale, che incatenerebbe di nuovo Prometeo, che rimetterebbe l’economia e la tecnica al posto subalterno che deve essere il loro piuttosto che affidare la soluzione di tutti i problemi umani a un dominio illimitato della natura e a una concorrenza generalizzata e cieca» (ivi, p. 132). 149.  Sull’ineluttabile processo per cui il funzionamento della Megamacchina produce, come suo necessario effetto collaterale, degli “scarti umani”, ovvero esistenze ridotte alla mera sussistenza dell’essere animale, “indegne” di essere vissute e relegate fuori dai confini dell’umano, cfr. Z. Bauman, Vite di scarto (2003), tr. it. di M. Astrologo, Laterza, Roma-Bari 2007. Sulle dinamiche di esclusione e di segregazione dell’uomo rispetto alla costruzione dello statuto dell’umano, cfr. C. Resta, Umano/non-umano: le vite nude, in C. Di Martino - R. Redaelli - M. Russo (a cura di), Trasformazioni del concetto di umanità, Inschibboleth, Roma 2020, pp. 61-91. Per Latouche sono proprio tali scarti del processo di tecnicizzazione e di violenta occidentalizzazione del mondo a essere meglio attrezzati per recuperare il rapporto di reciprocità tra uomo e natura che la modernità avrebbe reciso, «per stipulare con la natura una nuova alleanza che, al di là della violenza perpetrata dall’Occidente, riporti all’armonia cosmica» (S. Latouche, La Megamacchina, cit., p. 120).

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da sfruttare»150. Quello che la Megamacchina tecnica nega è la forma di metamorfosi rigenerante nuova vita che è tipica della natura e a cui l’uomo premoderno partecipava spontaneamente, come testimoniano le osservazioni antropologiche riportate dallo stesso Latouche: gli uomini erano pronti «a darsi a Gaia come Gaia si dà a loro»151 perché pienamente coinvolti e partecipi del processo metamorfico naturale; a tale prospettiva di rigenerazione naturale, che comprende anche il superamento della mortalità umana nella più ampia vita del cosmo, l’artificio tecnico contrappone una nuova metamorfosi di tipo energetico-meccanico, prima, e virtuale-bioingegneristico, poi152, in cui tuttavia – come vedremo – la posta in gioco non è più la rigenerazione della vita, ma la sua conservazione e il suo autopotenziamento. Mentre la metamorfosi naturale, nel senso autentico della trasformazione metabolica, genera nuove forme e nuova vita attraverso il decadimento e la morte, l’alterazione e ibridazione153 tecnica si limita a garantire le condizioni di sviluppo e di auto­accrescimento del sistema tecnico. A differenza della convinzione prevalente nell’Occidente moderno, il progresso tecnoscientifico non è un processo naturale. Già sin dalla prima modernità154 si diffonde, tuttavia, l’idea che il cambiamento sociale, in generale, e quello determinato

150.  Ivi, p. 119. 151.  Ibidem. 152.  «Meccanica in un primo tempo, la macchina diventa sempre più organica con la cibernetica, poi con le biotecnologie senza che ciò modifichi gran che la fondatezza della metafora della Megamacchina» (ivi, p. 174). 153.  Come vedremo nel capitolo successivo, nella prospettiva postumanistica, indicheremo preferibilmente con questa espressione la particolare forma tecnica di metamorfosi: cfr. infra, pp. 175 ss. 154.  Gli autori decisivi per il costituirsi di una sistematica teoria del progresso sono per Latouche Francis Bacon e Descartes: cfr. S. Latouche, La Megamacchina, cit., pp. 158-163.

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dall’evolversi della scienza e della tecnica, in particolare, rappresentino un processo endogeno che può essere compreso attraverso la metafora organica dello sviluppo degli esseri viventi, privato, però, del suo momento di declino. Lo sviluppo dell’umanità assume, dunque, la forma di un cambiamento continuo, necessario e obbediente a cause uniformi da cui si genera in modo pressoché invariabile il processo storico. Tale comprensione tipicamente moderna e occidentale del progresso, secondo Latouche, «maschera la realtà e impedisce di cogliere gli avvenimenti come successione discontinua di casi polimorfi»155. La Megamacchina tecnica costituisce la più ardita forma di realizzazione di questo mito moderno del progresso, coniugando continuità, necessità, uniformità, infinitezza, cumulatività dei processi; come il progresso, essa, peraltro, presuppone un’etica che spinge l’uomo all’azione, all’invenzione e all’incessante trasformazione156. La fede nel progresso, che sembra avere rimpiazzato a partire dal XIX secolo ogni fede in idealità trascendenti e in salvezze ultraterrene, non si pone più come una consapevole scelta della coscienza, ma, nella sua versione utilitaristica e materialistica, assume – come ha mostrato anche Ellul – la forma di un’adesione immediata e intima che precede e si impone prima di ogni distinzione tra bene e male e di ogni considerazione di tipo esistenziale157. Rivendicando la sua valenza trans-storica

155.  Ivi, p. 147. 156.  L’etica protestante è certamente decisiva per lo sviluppo in senso progressista della civiltà occidentale moderna: cfr. ivi, p. 160. 157.  Per Latouche il progresso è addirittura una «droga alla quale si è tutti abituati e alla quale è impossibile rinunciare spontaneamente. […] Soltanto un fallimento storico della civiltà fondata sull’utilità e sul progresso può far riscoprire che la felicità dell’uomo forse non consiste nel vivere molto ma nel vivere bene» (ivi, p. 166). Latouche, come Ellul, è convinto che la tecnica rappresenti ormai il nostro “ambiente di vita” come la foresta lo era

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in quanto “naturale”, il progresso apre un campo illimitato di possibilità che può imporsi in ogni ambito politico e culturale; proprio in quanto indefinita apertura di possibilità, esso non ha un oggetto determinato né uno specifico campo di applicazione. Ma è proprio la sua costitutiva indeterminatezza che ne garantisce lo straordinario successo e la pervicace presenza nell’immaginario collettivo. In quanto «matrice infinita di possibilità», il progresso è proteiforme158, assume, cioè, la forma della materia a cui si applica. Tutti i tipi di progresso, inoltre, sono interdipendenti in quanto rafforzano le possibilità reciproche e rimandano a uno schema comune, a una verità del progresso che si identifica con l’auto­dinamismo e l’autoaccrescimento del sistema tecnico: solo nella misura in cui esso è fonte incessante di cambiamenti e adattamenti, può essere efficace nei processi di produzione e di trasformazione con cui la tecnica assoggetta il mondo ridotto a materiale e fondo159. L’importanza cen-

per l’uomo primitivo; in quanto tale, essa non è sostituibile con una tecnica più umana, così come non si può sostituire all’idea occidentale di progresso fondato sulla cieca volontà di potenza e dominio sulla natura un’idea alternativa, sostenibile o eticamente connotata di progresso, se non a costo di indulgere in nostalgiche ideologie reazionarie e atteggiamenti retrivi. L’unica possibilità «perché la questione del bene possa essere di nuovo posta nel seno delle società umane in luogo del quanto che le è stata sostituita a partire dai tempi moderni», è il «fallimento storico dell’Occidente e dunque dei suoi valori portatori del progresso»; fallimento che, agli occhi di Latouche, sembra inevitabile, dal momento che «la civiltà del progresso porta in se stessa i germi della propria distruzione» (ivi, p. 181). Un fondamentale antecedente filosofico di tale riflessione sul progresso è costituito dalla IX tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin, che mette in relazione catastrofe e progresso: cfr. supra, p. 104, nota 45. 158.  Cfr. S. Latouche, La Megamacchina, cit., p. 167. 159.  Per Latouche il progresso è intimamente connesso con lo sviluppo economico: «La verità del progresso consiste nella invenzione e nello sconvolgimento continuo delle tecniche che sono il fattore privilegiato di quella

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trale delle tecno­scienze all’interno del progresso deriva dalla loro capacità di risolvere i problemi derivanti da uno sviluppo disarmonico in ambito sociale ed economico. L’utopia tradizionale di un avvenire radioso e di una illimitata continuità benefica160 assume, quindi, la forma del funzionamento stesso della Megamacchina tecnica; mentre l’ideale rinascimentale e illuministico della perfettibilità dello spirito umano era credibile in quanto fonte del progresso materiale, il progresso materiale del XX secolo che si attua nella tecnica moderna si concepisce come condizione della perfettibilità dello spirito umano: «Dietro la massa polimorfa del progresso sta attualmente la macchina tecnica creata dalla rivoluzione industriale o più esattamente dalla “rivoluzione scientifica e tecnica” o dalla “mutazione tecno­economica del mondo moderno”»161. Accanto a tale mutazione tecnoeconomica, Latouche intravede una più decisiva mutazione antropologica a cui conduce

crescita delle forze di produzione che è lo sviluppo» (ivi, p. 168). A tale modello di sviluppo, ormai quasi universalmente accettato e sacralizzato, Latouche ha recentemente contrapposto il paradigma della “decrescita conviviale” (o “felice”) attraverso cui decolonizzare l’immaginario occidentale dall’economicismo e della crescita a tutti i costi, criticando, così, anche l’idea ambientalista di “sviluppo sostenibile”: cfr. S. Latouche, La scommessa della decrescita (2007), tr. it. di M. Schianchi, Feltrinelli, Milano 2016; Id., Breve trattato sulla decrescita serena (2007), tr. it. di F. Grillenzoni, Bollati Boringhieri, Torino 2008; Id., Come reincantare il mondo. La decrescita e il sacro (2019), tr. it. di F. Grillenzoni, Bollati Boringhieri, Torino 2020. 160.  Cfr. S. Latouche, La Megamacchina, cit., p. 167. 161.  Ivi, p. 169. La Megamacchina tecnica si realizza, inoltre, secondo Latouche come macchina anticulturale (ivi, p. 170), in quanto, imponendo l’economicismo come visione fondamentale del mondo, essa si serve del progresso tecnico scientifico come dello strumento più efficace per la completa occidentalizzazione del mondo e la radicale cancellazione di ogni diversità culturale. Su tali temi, cfr. soprattutto S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sui significati, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria (1989), tr. it. di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Milano 2002.

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l’adat­tamento dell’uomo alla Megamacchina e ai danni che essa genera nell’ambiente naturale. Il progresso tecnico tende ormai ineluttabilmente alla costruzione di un nuovo Tipo umano, un umanoide frutto di innesti macchinici e potenziamenti biotecnologici in grado di sopravvivere nella completa chiusura immanentistica del sistema tecnico. Si tratta del superamento di una soglia evolutiva; un’integrale artificializzazione dell’umano che delinea un vero e proprio “salto evolutivo” e prelude alla costituzione di “cybernantropi”162: «Un uomo nuovo dovrebbe essere prodotto in massa a tal scopo, mediante manipolazione genetica, un uomo capace di adattarsi e forse anche di prosperare nel mondo inquinato ed ecologicamente degradato che l’uomo moderno ha sostituito a quello al quale è stato adattato dalla sua evoluzione»163. Mentre si annuncia il “grande esodo nel cosmo” alla ricerca di un pianeta da terrestrizzare e in cui dare libero sfogo all’irrefrenabile crescita demografica ed economica, ritorniamo al cospetto del dio Proteo e del suo volto cangiante: la sua inquietante e inafferrabile presenza, che ci ha finora accompagnati nel nostro percorso ex machina, ci induce ora a interrogare ex homine il sistema tecnico e indagare la portata della mutazione radicale dell’umano e della sua relazione con la natura che fa della nostra epoca l’era dell’antropocene.

162.  Cfr. G. Hottois, Il simbolo e la tecnica. Una filosofia per l’età della tecnoscienza (1984), tr. it. di A. Cariolato, Gallo, Ferrara 1999. 163.  S. Latouche, La Megamacchina, cit., p. 194.

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Capitolo III

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Antropocene e postumano

1. Fine dell’uomo Nel suo libro Kant e il problema della metafisica del 1929, criticando la pretesa dell’antropologia filosofica di raggiungere la “verità” dell’uomo, scrive Heidegger: Nessuna epoca ha avuto come l’attuale nozioni così numerose e così diverse sull’uomo. Nessuna epoca è riuscita, come la nostra, a presentare il suo sapere intorno all’uomo in modo così efficace e affascinante, né a comunicarlo in modo tanto rapido e facile. È anche vero, però, che nessuna epoca ha saputo meno della nostra che cosa sia l’uomo. Mai l’uomo ha assunto un aspetto così problematico come ai nostri giorni.1

1.  M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica (1929), tr. it. di M.E. Reina, riv. da V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 181. Martin Buber così commenta questa affermazione heideggeriana, riferendosi all’analitica esistenziale di Essere e tempo, colpevole, a suo avviso, di ridurre l’umano alla finitezza trascurando l’aspetto relazionale: «Per questa via non si può giungere a sapere che cosa sia l’uomo, bensì soltanto quale sia il suo limite. Si potrebbe anche dire: a sapere cosa sia l’uomo al limite – l’uomo giunto al limite dell’essere» (M. Buber, Il problema dell’uomo [1948], tr. it. di F.S. Pignagnoli, Marietti, Genova-Milano 2004, p. 88).

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Tale affermazione mantiene ancora nel nostro tempo tutta la sua inquietante attualità: immersi in società apparentemente “iperumanistiche” in cui ogni azione, processo, valorizzazione e conferimento di senso sono inscindibilmente legati alla promozione quasi ossessiva dell’interesse umano – salvo poi presupporre ogni volta una determinata specificazione culturale, sociale o economica dell’uomo, il più delle volte discriminatoria ed escludente –, la fondamentale domanda filosofica sullo statuto ontologico dell’uomo sembra essere stata derubricata a mera questione storiografica o addirittura essere del tutto caduta nell’oblio insieme con l’esaurirsi dei paradigmi “forti” del pensiero novecentesco e l’imporsi di pratiche ermeneutiche destrutturanti e decostruttive. Nell’epoca che da più parti viene definita come l’antropocene2 – la prima in cui l’antropocentrismo umanistico ha assunto una portata geologica e alla pervasiva antropizzazione dell’ambiente naturale si è affiancata la capacità della tecnica di creare una “natura artificiale”, e, allo stesso tempo, si intensifica lo sforzo per raggiungere un universale consenso sulla fondazione e la definizione dei diritti dell’uomo –, la determinazione dell’umanità dell’umano, priva dei suoi tradizionali termini di confronto (la natura e la trascendenza), sembra non costituire più un problema filosofico. Il trionfo tecnico e proteiforme dell’uomo sembra coincidere con la fine della determinazione della sua essenza, con la “fine 2.  Cfr. S.L. Lewis - M. Maslin, Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene (2018), Le Scienze, Roma 2020; P.J. Crutzen, Benvenuti nell’antropocene! L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era (2005), a cura di A. Parlangeli, Mondadori, Milano 2005. Il primo a individuare la portata geologica della civiltà tecnico-industriale è stato Ernst Jünger, che nel saggio Al muro del tempo del 1959 delinea una “storia della terra” che registra nell’affermarsi della tecnica una soglia di frattura di portata geologica: «Possiamo considerare l’uomo come fossile-guida, come tipo cui corrisponde un preciso strato, che forse solo ora va formandosi» (E. Jünger, Al muro del tempo, cit., p. 189).

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dell’uomo”3, cioè dell’uomo così come la tradizione filosofica lo ha pensato, fin da Aristotele, attraverso la posizione di una differenza specifica del suo sostrato naturale-biologico: l’uomo come animale razionale, animale dotato di linguaggio, animale sociale, ecc. La crisi dell’umanismo in quanto affermarsi dell’antropocene4 sembra delineare lo stesso orizzonte semantico in cui si manifesta l’intrinseca ambiguità dell’espressione “fine dell’uomo”; essa è paradossalmente al centro dell’universo ideale umanistico e attraversa per intero la tradizione filosofica moderna, da Kant fino a Husserl, dal momento che l’uomo è inteso come il luogo in cui si dispiega la ragione teleologica. In una conferenza del 1968 dal titolo Fini dell’uomo, nell’ambito di un convegno internazionale su filosofia e antropologia, Jacques Derrida così commenta questa decisiva espressione: «La fine dell’uomo (come limite antropologico fattuale) si annuncia al pensiero a partire dal fine dell’uomo (come apertura determinata o infinità di un telos). L’uomo è ciò che ha rapporto, come a qualcosa di suo, a fine, nel senso fondamental3.  È stato Foucault, sulla scorta di Nietzsche, a sancire la fine dell’humanum come lo aveva inteso la tradizione metafisica a favore di un nuovo pensiero antropologico: «Oggi possiamo pensare soltanto entro il vuoto dell’uomo scomparso. Questo vuoto, infatti, non costituisce una mancanza; non prescrive una lacuna da colmare. Non è né più né meno che l’apertura di uno spazio in cui finalmente è di nuovo possibile pensare» (M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane [1966], tr. it. di E. Panaitescu, BUR, Milano 1978, p. 368). 4.  In questa prospettiva, Rosi Braidotti afferma la valenza critica ed ermeneutica della teoria postumanistica in quanto «strumento produttivo capace di sostenere quel processo di ripensamento dell’unità fondamentale, riferimento comune dell’umano, in quest’età biogenetica nota come antropocene, momento storico in cui l’umano è diventato una forza geologica in grado di influenzare la vita su tutto il pianeta. Per estensione, esso può anche aiutarci a ripensare i principi fondamentali della nostra interazione con altri agenti umani e non umani su scala planetaria» (R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte [2013], tr. it. di A. Balzano, DeriveApprodi, Roma 2014, p. 11).

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mente equivoco di questa parola. Da sempre»5. L’idealità del fine, dei fini dell’uomo – il fine trascendentale kantiano su cui riposa l’intangibile dignità della persona umana –, presuppone la finitezza e la mortalità umana. La determinazione metafisica dell’umano si è sempre mossa nella polarità di questi due “fini”, così come la determinazione del senso dell’uomo: «Il nome dell’uomo si è sempre inscritto nella metafisica tra tali due fini. Non si dà senso che in questa situazione escato-teleologica»6. La crisi dell’umanismo – e la connessa elaborazione di un pensiero postumanistica nelle sue differenti articolazioni – si inscrive nel venir meno di questa duplice dimensione escatoteleologica che corrisponde – come abbiamo visto – all’imporsi della concezione operativa del reale in cui ogni finitezza e ogni finalità viene abolita a favore dell’indefinito operari della potenza tecnica. Colui che ha visto con incomparabile nitidezza teorica il convergere della crisi dell’umanismo intesa come crisi della metafisica e del fallimento filosofico della coppia concettuale fondamento-fine è stato senza dubbio lo Heidegger della Lettera sull’«umanismo»7. Prima di addentrarci nella critica post-umana dell’umanismo è dunque necessario attraversare questo scritto, con cui, com’è noto, all’indomani della catastrofe del secondo conflitto mondiale, Heidegger tenta 5.  J. Derrida, Fini dell’uomo, in Id., Margini della filosofia (1972), tr. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, pp. 169-170. 6.  Ivi, p. 170. 7.  Per un ampio commento della Lettera e un suo inquadramento nella più generale critica heideggeriana alla tradizione metafisica e al concetto di “essenza dell’uomo”, cfr. F. Mora, Martin Heidegger. La provincia del­ l’uomo. Critica della civiltà e crisi dell’umanismo (1927-1946), Mimesis, Milano-­Udine 2011, pp. 357-457. Sul rapporto di Heidegger con la tradizione umanistica, cfr. R. Schürmann, Dai principî all’anarchia. Essere e agire in Heidegger (1982), tr. it. di G. Carchia, il Mulino, Bologna 1995, pp. 97-125; A. Denker - H. Zaborowski (a cura di), Heidegger und der Humanismus, Alber, Freiburg-München 2007.

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di corrispondere alla domanda cruciale sul possibile “nuovo” senso da attribuire alla parola “umanismo”. La critica che Heidegger rivolge alla tradizione umanistica, in quanto indissolubilmente connessa con il pensiero metafisico8, viene svolta, ad avviso di Derrida, in nome di una sorta di “magnetismo” che lega il “proprio dell’uomo” con la questione o la verità dell’essere, attirandoli in una paradossale forma di vicinanza che in sé include anche necessariamente la lontananza: È nel gioco di una certa vicinanza, vicinanza a sé e vicinanza all’essere che vedremo costituirsi, contro l’umanismo e contro l’antropologia metafisici, un’altra insistenza dell’uomo, che sostituisce, rileva, supplisce ciò che essa distrugge attraverso delle vie che sono quelle in cui noi siamo, da cui appena – forse – usciamo e che devono ancora essere interrogate.9

Questa paradossale vicinanza-lontananza dell’essere, in cui si inscrive la critica heideggeriana a ogni umanismo, è già presente nella caratterizzazione del Dasein contenuta nell’analitica esistenziale di Essere e tempo. Qui il Dasein, l’ente che «noi siamo»10, costituisce l’ente privilegiato per l’ermeneuti8.  «Ogni umanismo rimane metafisico. Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’umanismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma impedisce persino che si ponga una simile questione, perché, a causa della sua provenienza metafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprende» (M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit., p. 275). 9.  J. Derrida, Fini dell’uomo, cit., p. 171. Già nel 1949 Heidegger aveva introdotto il concetto di «insistenza» («lo stare dentro nell’apertura dell’essere», Inständigkeit) considerandolo come alternativo rispetto a quello proprio della prospettiva antropologico-metafisica di “esistenza”: «Ciò che va pensato col termine “esistenza”, se la parola è impiegata all’interno del pensiero che pensa in direzione della verità dell’essere e a partire dalla verità dell’essere, potrebbe essere indicato nel modo più bello col termine “in-sistenza”» (M. Heidegger, Introduzione a: «Che cos’è metafisica?» [1929], in Id., Segnavia, cit., pp. 317-334: p. 326). 10.  M. Heidegger, Essere e tempo (1927), tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 32.

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ca del senso dell’essere in ragione della sua vicinanza ontica a sé; esso tuttavia è «ontologicamente lontanissimo, ma preontologicamente […] non estraneo»11. Come lo stesso Derrida riconosce, sia l’analitica esistenziale che il pensiero successivo alla Kehre si mantengono nello spazio “oltre-umanisitico” che separa e mette in rapporto l’una con l’altra tale vicinanza e tale distanza12. La vicinanza dell’essere, il Bezug tra essere e uomo, in cui per Heidegger consiste l’essenza stessa dell’uomo pensata oltre l’umanismo e la metafisica, è sempre da intendersi a partire dalla radicale distanza e dalla differenza ontologica il cui riflesso preontologico, proprio delle tonalità emotive fondamentali (Grundstimmungen) dischiudenti (l’angoscia in primis), è l’estraneità (Fremdheit). In questo senso – e solo in questo senso – deve essere intesa la sospensione operata da Heidegger del paradigma escato-teleologico della metafisica e la de-limitazione ontologica dell’umanismo per cui il «pensiero della verità dell’essere […] resta un pensiero dell’uomo»13. Se, dunque, l’intento della decostruzione heideggeriana della tradizione metafisico-umanistica è una “rivalutazione” o “rivalorizzazione”14 dell’essenza e della dignità dell’uomo minacciata da un uso sempre più tecnico del linguaggio15 – il luogo privilegiato del Bezug tra uomo ed essere –, si apre qui la radicale diversità tra tale posizione antiumanistica in quanto iper-umanistica e le posizioni proprie del postumanismo antispecista e, più ancora, del transumanismo che, pur rivendicando la stessa decostruzione dell’impo-

11.  Ivi, p. 33. 12.  Cfr. J. Derrida, Fini dell’uomo, cit., p. 175. 13.  Ivi, p. 176. 14. Cfr. ibidem. 15.  Sul linguaggio come proprietà ontologica dell’uomo, che lo mette in rapporto, a differenza di tutti gli altri esseri viventi, con l’apertura dell’essere, cfr. M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit., p. 279.

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stazione escato-teleologica del rapporto tra uomo ed essere, tuttavia, propugnano una profonda ristrutturazione, se non addirittura un accantonamento della nozione umanistica di dignità umana a favore di una nuova concezione di una «dignità postumana»16. Per Heidegger il significato proprio e originario, pre-metafisico, dell’umanismo è «meditare e curarsi che l’uomo sia umano e non non-umano, “inumano”, cioè al di fuori della sua essenza»17; qui “essenza” consiste nell’essere il «vicino dell’essere»18. Tale soggiorno nella vicinanza dell’essere indica il superamento di ogni rapporto con l’ente reale attraverso, praticamente, il nostro agire e calcolare e, gnoseo­ logicamente, attraverso spiegazioni e fondazioni. La sfida è, invece, quella di imparare a dimorare nel linguaggio, ossia a «esistere nell’assenza di nomi»19, in quella Geläut der Stille in cui «prima di parlare, l’uomo deve anzitutto lasciarsi reclamare [ansprechen] dall’essere, col pericolo che, sotto questo reclamo [Anspruch], abbia poco o raramente qualcosa da dire»20. La dignità in quanto vicinanza estraniante alla verità dell’essere trova la sua corrispondenza nella stessa dignità dell’essere (Würde des Seins) che consente di affermare l’umanità dell’umano prima ancora e più autenticamente di ogni “umanismo” e di ogni sforzo culturale e di “addomesti-

16.  Cfr. N. Bostrom, In Defense of Posthuman Dignity, in «Bioethics», XIX, n. 3, 2005, pp. 202-214. Sul rapporto tra incompletezza dell’umano e dignità postumana, cfr. M. Riva, Dignità ed enigmi del post-umano, in Humanism, Posthumanism and Neohumanism, «Annali di Italianistica», XXVI, 2008, pp. 333-352. 17.  M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit., p. 273. 18.  Cfr. ivi, p. 295. 19.  Ivi, p. 273. 20.  Ibidem.

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cazione civile”21. Si delinea una sorta di intima corrispondenza tra la dignità dell’uomo e la dignità dell’essere; quest’ultima è il luogo – che Heidegger identifica con la Lichtung – in cui l’uomo può «sopportare» (ausstehen) il Dasein esistendo. In questa sibillina espressione, a cui non è estraneo anche il senso di una certa ex-posizione (Aus-setzung) dell’uomo alla Differenza in quanto differimento (Aus-trag)22, si concentra la sfida heideggeriana di pensare un umanismo non antropocentrico e non identitario nel senso della tradizione filosofica della soggettività moderna: non soltanto il Dasein non è un possesso né un predicato, ma piuttosto un compito (Aufgabe) dell’uomo23, della sua esistenza, esso è anche la misura di una vicinanza-lontananza da custodire e abitare24. Quell’esistenza estatica che Essere e tempo aveva pensato come “cura” si dischiude ora come essenza e dignità dell’uomo in quanto soggiorno nella vicinanza-lontananza dell’essere: «L’essere è essenzialmente più lontano di ogni ente e nondimeno è più

21.  Il riferimento è qui alle tesi di Peter Sloterdijk che, riprendendo la decostruzione nietzscheana dell’umanismo, afferma: «Il tema latente dell’umanismo è dunque l’addomesticamento dell’uomo […]. L’etichetta “umanismo” ricorda, con falsa ingenuità, la continua battaglia per l’uomo, che si compie nella lotta fra le tendenze all’abbruttimento e quelle all’addomesticamento» (P. Sloterdijk, Regole per il parco umano [1999], in Id., Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, tr. it. di A. Calligaris, Bompiani, Milano 2004, pp. 239-266: pp. 244-245). 22.  Per la questione della differenza, cfr. infra, cap. IV. 23.  Cfr. S. Gorgone, Das Ereignis des Menschen und die Aufgabe des Daseins: Inständigkeit, Sterblichkeit, Weite, in «Heidegger Studies», n. 33, 2017, pp. 111-128. 24.  Per una interpretazione del ruolo centrale del concetto di vicinanza (Nähe) nel pensiero heideggeriano, cfr. E. Kettering, Nähe. Das Denken Martin Heideggers, Neske, Pfullingen 1987; H. Pfeiffer, Nähe und Entzug Gottes in der Lichtung des Seyns: JHWHs Vorübergang (Ex 32-34) und der Gott des unendlichen Verhältnisses in Heideggers Wort vom Geviert, Königshausen & Neumann, Würzburg 2019.

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vicino all’uomo di qualunque ente, sia questo una roccia, un animale, un’opera d’arte, una macchina, un angelo o Dio. L’essere è ciò che è più vicino. Eppure questa vicinanza resta per l’uomo ciò che è più lontano»25. Esistere significa, dunque, sopportare la misteriosa vicinanza di un «dominare non invadente»26 che dispiega la sua essenza nel linguaggio e come linguaggio. Che l’uomo sia il vicino dell’essere significa, peraltro, anche che l’uomo è il “proprio” dell’essere come linguaggio che lo reclama e interpella, così come l’essere è il “proprio” dell’uomo perché la sua verità può manifestarsi unicamente nell’esistenza umana come Dasein. Questa convergenza tra la costellazione del vicino (prope), del proprio (proprius) e dell’autentico (eigentlich) è ciò che Heidegger intende esprimere attraverso il concetto di Ereignis come figura oltremetafisica del destinarsi dell’essere stesso. Come Derrida sottolinea, tale proprietà non va intesa in senso metafisico alla stregua di un attributo essenziale dell’uomo: La proprietà, la co-proprietà dell’essere e dell’uomo, è la vicinanza come inseparabilità. Ma è proprio come inseparabilità che in seguito, nella metafisica, sono stati pensati i rapporti dell’ente (sostanza, o res) e del suo predicato essenziale. […] Il proprio dell’uomo, la sua Eigenheit, la sua «autenticità» è di rapportarsi al senso dell’essere, di intenderlo e di interrogarlo nell’e-sistenza, di star eretto nella vicinanza della sua luce.27

E tuttavia, secondo Derrida, tale co-proprietà e co-appartenenza (Zusammengehörigkeit) di uomo ed essere è il pericolo, il rischio stesso dell’essere; la sicurezza di tale «vicinanza» 25.  M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit., p. 284. La lontananza dell’essere va intesa in senso ontologico come la lontananza della radura in sé nascondentesi del manifestarsi degli enti: «L’essere è essenzialmente più lontano di ogni ente, perché è la radura stessa» (ivi, pp. 289-290). 26.  Ivi, p. 286. 27.  J. Derrida, Fini dell’uomo, cit., p. 182.

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vacilla nel momento storico in cui ogni proprietà diventa possesso e terreno di conquista della volontà di potenza tecnica, e tuttavia il vacillare di tale vicinanza – la crisi delle certezze umanistiche – non proviene da una causa esterna, così come la dignità dell’uomo non è minacciata da qualcosa di esterno: nella vicinanza stessa di essere e uomo abita da sempre l’inquietante ombra dell’estraneità e si annuncia in modo spettrale la “morte dell’uomo”: Nel pensiero e nella lingua dell’essere, da sempre c’è stata una prescrizione di fine dell’uomo e questa prescrizione non ha fatto mai altro che modulare l’equivoco di fine, nel gioco del telos e della morte. […] L’uomo è da sempre su(a)(o) propri(a)(o) fine, cioè fine del suo proprio. L’essere è da sempre su(a)(o) propri(a)(o) fine, cioè fine del suo proprio.28

Nel pensiero dell’essere29, nel pensiero, cioè, che appartenendo all’essere ne è sempre all’ascolto, si dà la possibilità non tanto di un superamento nel senso della Überwindung, ma di un compimento nel senso della Verwindung dell’umanismo: la fine dell’uomo si compie in quanto fine della sua proprietà e svelamento della sua costitutiva finitezza, della sua mancanza di fondamento e di fine ultimo (eschaton) – la gettatezza (Geworfenheit). Allo stesso tempo, il fine dell’uomo si rivela come insistenza ateleologica nella radura dell’Essere e nel suo differirsi: crisi dell’umanismo e nichilismo convergono, dunque, da ultimo, nel dissolversi dell’istanza metafisica fonda-

28.  Ivi, pp. 182-183. 29.  Heidegger ribadisce la duplicità di questo genitivo: «Il pensiero, detto semplicemente, è il pensiero dell’essere. Il genitivo vuol dire due cose. Il pensiero è dell’essere in quanto, fatto avvenire (ereignet) dall’essere, all’essere appartiene. Il pensiero è nello stesso tempo pensiero dell’essere in quanto, appartenendo all’essere, è all’ascolto dell’essere. Appartenendo all’essere in quanto ne è all’ascolto, il pensiero è ciò che è in base alla sua provenienza essenziale» (M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit., p. 270).

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mentale del proprio e dell’identico a favore di una prossimità vicinale30 di uomo ed essere, che Heidegger, sulla scorta del linguaggio poetico di Hölderlin, ha tentato di nominare con la figura del Geviert31. In quanto e-sistente, l’uomo abita tale vicinanza nella radura (Lichtung) dell’essere, ma, in quanto coinvolto nel destino della Seinsverlassenheit, dell’abbandono dell’essere e del conseguente oblio dell’essere (Seinsvergessenheit), l’uomo non esperisce tale sua essenziale dimora nella vicinanza dell’essere; egli, cioè, non fa esperienza della propria Heimat che, lungi dall’essere intesa in senso patriottico o nazionalistico, è il luogo della prossimità vicinante dell’essere32, ossia del suo costitutivo reclamare l’uomo nell’assenza e nella lontananza. È tale rapporto di corrispondenza – analogo a quello degli elementi del Geviert – che l’uomo moderno ha del tutto smarrito, con la conseguenza che la sua essenza vaga nella totale spaesatezza (Heimatlosigkeit). Tale spaesatezza, che riposa nell’abbandono dell’essere proprio dell’ente e nel rimanere impensata del30.  «Nel dominio dell’esser l’uno di fronte all’altro ogni cosa è aperta all’altra, aperta nel suo occultarsi; così l’una cosa si protende verso l’altra, si affida all’altra, e ciascuna resta in tal modo se stessa; l’una cosa sovrasta l’altra come vegliandola, custodendola, avvolgendola d’un velo. Per poter esperire in tal modo l’esser l’una di fronte all’altra delle cose, è certamente necessario essersi prima staccati dal pensiero calcolante. Ciò che costituisce, infondendole l’interno moto, la vicinanza delle quattro regioni del mondo, ciò che permette che s’attingano e le fa prossime nella loro lontananza, è la prossimità stessa. Per questa sua potenza motrice chiameremo la prossimità la prossimità vicinante [Nähnis]» (M. Heidegger, L’essenza del linguaggio, cit., p. 166). 31.  L’opposizione Gestell-Geviert costituisce forse, da questo punto di vista, la coppia concettuale decisiva per tutta la “critica” heideggeriana della tecnica. 32.  Con riferimento agli elementi del Geviert, Heidegger scrive: «La patria di questo abitare storico è la vicinanza dell’essere» (M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit., p. 291).

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la verità dell’essere, per cui «l’uomo considera e si dà da fare sempre e solo intorno all’ente»33, costituisce, per Heidegger, il fondamento destinale della crisi dell’umanismo che nessun mero rovesciamento delle tradizionali gerarchie metafisiche – è questo, com’è noto, per Heidegger, il senso del gesto filosofico nietzscheano – può scongiurare. La spaesatezza, come “destino mondiale” nel suo essenziale riferimento alla storia dell’essere, viene alla luce, dunque, soltanto quando essa non è compresa come alienazione dell’uomo in contrapposizione alle categorie e agli ideali umanistici – se pure di un umanismo materialistico (Marx) o esistenzialistico (Sartre) –, ma situata nel cuore stesso dell’umanismo e cioè nella struttura nichilistica della metafisica. Tutte le prospettive filosofiche umanistiche, in cui Heidegger inserisce anche la fenomenologia, non accedono alla dimensione storico-destinale della spaesatezza, e dunque non riescono a pensare la crisi essenziale dell’uomo, in quanto condividono la precomprensione dell’ente nella sua totalità come “materiale da lavoro”. Confermando l’interpretazione jüngeriana del lavoro come forma privilegiata della mobilitazione tecnica del mondo, Heidegger afferma qui, in un passaggio decisivo per il nostro percorso, che «l’essenza del lavoro secondo la metafisica moderna è anticipata nella Phänomenologie des Geistes […] di Hegel come il processo autoorganizzantesi della produzione incondizionata, cioè come oggettivazione del reale ad opera dell’uomo esperito come soggettività»34. L’interpretazione materialistica del reale cela in sé, dunque, una più originaria interpretazione tecnica in cui il processo produttivo riposa esclusivamente su se stesso come autopotenziamento della volontà di potenza che tende – come abbiamo 33.  Ivi, p. 292. 34.  M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit., p. 293.

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visto – all’assimilazione proteiforme della totalità dell’ente. A tale processo corrisponde l’“autoaffermazione incondizionata della soggettività” che, secondo l’interpretazione forzosa di Heidegger, culminerebbe nella teoria nietzscheana dello Übermensch. Irretito nell’esaltazione solipsistica della soggettività incondizionata che si esplica nell’indefinito funzionamento della macchina tecnica, l’uomo «gira intorno a se stesso come animal rationale»35: in verità, l’uomo è più che animal rationale proprio in quanto egli è essenzialmente meno rispetto alla soggettività incondizionata e al ruolo di funzionario principale del sistema tecnico: «L’uomo non è il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere. In questo “meno” l’uomo non perde nulla, anzi ci guadagna, in quanto perviene alla verità dell’essere. Guadagna l’essenziale povertà del pastore, la cui dignità consiste nell’esser chiamato dall’essere stesso a custodia della sua verità»36. L’essenziale povertà del pastore non rimanda a visioni nostalgiche e reazionarie che vagheggerebbero una mitica età dell’oro pre-tecnica; essa, piuttosto, indica l’abitare estatico nella vicinanza dell’essere, ovvero la spoliazione delle categorie forti della tradizione umanistica in nome di una sorta di iper-umanismo in cui, tuttavia, al centro non c’è più l’uomo, ma la sua radicale esposizione all’alterità; tale modalità paradossale di umanismo «pensa l’umanità dell’uomo a partire dalla vicinanza all’essere, ma nello stesso tempo è l’umanismo in cui in gioco non è l’uomo, ma l’essenza storica dell’uomo nella sua provenienza dalla verità dell’essere»37. È nel modo 35.  Ivi, p. 294. 36.  Ivi, p. 295. Queste celebri espressioni vanno intese, alla luce del percorso che abbiamo fin qui delineato, nel senso della soggettività dell’uomo e del suo essere parte integrante del sistema tecnico e non possono essere riferite al singolo individuo. 37.  Ivi, p. 295.

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di intendere questa radicale esposizione all’alterità, denominata qui da Heidegger «verità dell’essere», che si misura la vicinanza e, al contempo, l’abissale distanza rispetto alle concezioni postumanistiche. Se, infatti, Heidegger intende tale esposizione come «guardia» (Wächterschaft) e «cura» (Sorge), riattivando da un lato il gesto poetico hölderliniano e dall’altro la struttura fondamentale del Dasein già indagata in Essere e tempo, i post-umanisti intendono tale esposizione come processo antropogenetico di ibridazione e coniugazione con l’alterità animale e tecnica. Che al centro di questo «strano umanismo»38 non ci sia più l’uomo, ma la verità dell’essere che l’uomo è chiamato a custodire, porta a considerare l’utilizzo dell’espressione “umanismo” come un lucus a non lucendo, non soltanto nel senso che il suo significato deve ricercarsi non più primariamente a partire dall’uomo ma in riferimento all’essere stesso e al suo oblio, ma anche nel senso che l’esposizione all’alterità, in cui consisterebbe il cuore di questo strano umanismo, è – a differenza che per il postumanismo – esposizione a un ritrarsi, a una nonmanifestazione, a un venir meno della luce (non lucendo), a un misterioso restare nell’assenza da cui, pure, è mossa e provocata l’umanità dell’uomo e su cui si fonda abissalmente la stessa “dignità dell’uomo”, da Pico in poi, refrattaria a ogni stabile e certa determinazione. L’affermazione di tale iper-umanismo implica, tuttavia, la pericolosa negazione della tradizione umanistica in quanto assume su di sé il rischio di rappresentare un “irresponsabile nichilismo” e un pensiero contro l’uomo. Alla base di tale rischio sta il fatto che un pensiero che pone l’essenza dell’uomo al di là della sua soggettività necessariamente deve pronunciarsi contro i valori umanistici tradizionali e in genere contro ogni tipo di valore. Riprendendo la critica dei

38.  Cfr. ivi, p. 298.

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valori svolta in riferimento alla filosofia di Nietzsche e, soprattutto, alla volontà di potenza come luogo di posizione di nuovi valori39, Heidegger qui pone una netta alternativa tra valore e dignità: «proprio quando si caratterizza qualcosa come “valore”, ciò che è così valutato viene privato della sua dignità. Ciò significa che con la stima di qualcosa come valore, ciò che così è valutato lo è solo come oggetto della stima umana»40. Ogni valutazione, dunque, riduce la cosa valutata a un oggetto della stima della soggettività e, in tal modo, la priva della sua dignità, ovvero del suo originario rapporto con la verità dell’essere, della sua costitutiva esposizione all’alterità. La critica all’umanismo tradizionale si configura, pertanto, come critica a ogni pensare per valori che sarebbe più o meno esplicitamente all’opera nel pensiero occidentale da Platone a Nietzsche. Pensare contro i valori non significa, tuttavia, indulgere in atteggiamenti nichilistici o relativistici, ma rivendicare una determinazione non soggettivistica dell’uomo e non operativo-­oggettivistica del mondo; pensare contro i valori significa «portare la radura della verità dell’essere davanti al pensiero, contro la soggettivazione dell’ente ridotto a mero oggetto»41. Che Heidegger, tuttavia, pur criticando ogni valorizzazione dell’uomo e dell’ente, non voglia privare il suo strano umanismo di ogni riferimento all’etica è testimoniato, nelle ultime pagine del Brief, dalle riflessioni sul rapporto tra ontologia ed etica e dalla citazione del frammento 119 di Eraclito (ethos anthropo daimon) che egli così interpreta: «Il soggiorno dell’uomo contiene e custodisce l’avvento di ciò che appartiene all’uomo nella sua essenza. Secondo la parola di Eraclito,

39.  Si potrebbe riscontrare l’adeguatezza di tale critica anche nei confronti dei valori tipici del sistema tecnico. 40.  Ivi, p. 301. 41.  Ibidem.

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questo è daimon, il dio. Il detto, allora, significa: l’uomo, in quanto è uomo, abita nella vicinanza di Dio»42. La vicinanza dell’essere, in cui, abbiamo visto, Heidegger faceva consistere l’esistenza dell’uomo come abitare estatico, si specifica adesso, come abbiamo già anticipato, nella “vicinanza del Dio”, ossia nella vicinanza di ciò che è massimamente distante e altro rispetto all’uomo e che, tuttavia, lo interpella nella sua essenza. Se l’etica indica il soggiorno essenziale dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere come luogo dell’esposizione dell’esistenza umana si configura come «etica originaria»43. Tale etica, tuttavia, non appartiene ad alcuna filosofia pratica perché è più originaria di ogni distinzione di teoria e prassi. Il pensiero che pensa l’etica originaria è piuttosto caratterizzato da Heidegger con l’espressione hölderliniana di Andenken, a indicare un pensiero che rammemora l’essere. Con tale caratterizzazione Heidegger intende delineare una forma di pensiero non produttiva ed effettuale che contesti radicalmente ogni operativismo e attivismo tipici del sistema tecnico: «Appartenendo all’essere, perché gettato dall’essere nella custodia della sua verità e per essa reclamato, esso pensa l’essere. Questo pensiero non approda ad alcun risultato e non ha alcun effetto. Esso soddisfa la sua essenza in quanto è»44. Questo non significa che il pensiero dell’essere e dell’etica originaria si limiti a una distaccata meditazione; esso è un

42.  Ivi, p. 306. 43.  Ivi, p. 308. Sull’etica originaria, cfr. J.-L. Nancy, L’«etica originaria» di Heidegger (1996), tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1996; C. Resta, Etica del linguaggio, in Ead., La terra del Mattino. Ethos, Logos e Physis nel pensiero di Martin Heidegger, FrancoAngeli, Milano 1998, pp. 7-56; sulla questione dell’etica nell’intero percorso filosofico heideggeriano, cfr. D. Aurenque, Ethosdenken. Auf der Spur einer ethischen Fragestellung in der Philosophie Martin Heideggers, Alber, Freiburg-München 2011. 44.  M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit., p. 309.

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“fare” che, però, supera ogni prassi. Heidegger rivendica al pensiero dell’essere – e dunque al suo strano umanismo – una potenza del fare che è superiore a quella di ogni mero produrre e conseguire risultati, in quanto esso è capace di quel “poco” (das Geringe) che porta a espressione il ritrarsi stesso dell’essere in quanto fonte dell’alterità. La stranezza e, al contempo, la difficoltà di tale pensiero consiste nella sua inaudita semplicità, che per i funzionari della tecnica, abituati alle complesse procedure e agli elaborati meccanismi del sistema, risulta ciò che di più difficile e astruso possa darsi: «Per la semplicità della sua essenza, il pensiero dell’essere si fa per noi inconoscibile»45. Familiarizzarsi con il tratto insolito di questa semplicità significa esperire tutta la distanza e l’estraneità rispetto alla macchina onnivora del sistema proteiforme della tecnica e ritrovare la capacità di uno sguardo limpido sulla semplicità dell’umano.

2. Contro l’umanismo? Le variegate prospettive di pensiero che in modo generico vengono accomunate sotto l’etichetta del postumanismo condividono tutte la convinzione – propria anche, come abbiamo visto, della prospettiva heideggeriana – che quella particolare parabola culturale che ha avuto inizio con l’Umanesimo e il Rinascimento sia giunta al proprio tramonto per un processo di interna consunzione generato in primo luogo dal fallimento storico del suo principale fondamento teorico: l’antropo­ centrismo46.

45.  Ivi, p. 313. 46.  Il postumanismo si pone come superamento non soltanto del primato umano ma di ogni gerarchia ontologica. Come ha recentemente affermato

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Ma prima di indagare in che direzione si delinea la critica postumanista della tradizione antropocentrica, anche rispetto alla critica heideggeriana sopra riportata della centralità dell’uomo, è necessario enucleare, se pure schematicamente, le matrici teoriche del variegato e cangiante paesaggio filosofico-culturale del post-umano47.

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L’enorme fortuna di questo termine-etichetta, introdotto per la prima volta già negli anni Settanta da Ihab Hassan in riferimento alla figura di Prometeo48 e poi divenuto un paradigma teorico di riferimento soprattutto grazie ai lavori di Robert Pepperell49,

Francesca Ferrando, esso «può essere visto sia come un post-centrismo, che come un post-esclusivismo; non essendo basato sull’opposizione, esso può essere designato come una filosofia empirica della mediazione, che offre una riconciliazione dell’esistenza nei suoi più ampi significati» (F. Ferrando, Il Postumanesimo Filosofico e le sue Alterità, ETS, Pisa 2016, p. 51). Sul superamento dell’antropocentrismo nell’epoca del post-umano, cfr. B. Accarino (a cura di), Antropocentrismo e post-umano. Una gerarchia in bilico, Mimesis, Milano-Udine 2015. 47.  Per una individuazione delle coordinate fondamentali del postumanismo si vedano: F. Fukujama, Our Posthuman Future. Consequences of the Biotechnology Revolution, Profile Books, London 2003; I. Sanna (a cura di), La sfida del post-umano. Verso nuovi modelli di esistenza?, Studium, Roma 2005; G. Tintino, Tra umano e postumano. Disintegrazione e riscatto della persona. Dalla questione della tecnica alla tecnica della questione, FrancoAngeli, Milano 2005; A. Pieretti (a cura di), Il tramonto dell’umano? La sfida delle nuove tecnologie, Morlacchi, Perugia 2016. Cfr. anche il numero monografico Limiti e confini del post-umano di «Lo Sguardo», n. 24, 2017. Un’analisi delle conseguenze sociali e in genere culturali dell’avvento del postumano si trova in P. Barcellona, L’epo­ca del postumano. Lezione magistrale per il compleanno di Pietro Ingrao, Città Aperta, Troina 2007, e P. Barcellona - F. Ciaramelli - R. Fai (a cura di), Apocalisse e post-umano. Il crepuscolo della modernità, Dedalo, Bari 2007. 48.  I. Hassan, Prometheus as Performer: Toward a Posthumanist Culture?, in «The Georgia Review», vol. 31, n. 4, 1977, pp. 830-850. 49.  R. Pepperell, The Posthuman Condition. Consciousness Beyond the Brain, Intellect, Bristol-Portland 1997.

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Katherine Hayles50, Cary Wolfe51 e Donna Haraway52, consiste nell’offrire una sorta di nuova koiné filosofico-culturale a partire da cui interpretare i rivoluzionari cambiamenti che la tecnica, e in particolare l’informatica e le biotecnologie, apportano con accelerazione e pervasività sempre crescenti nelle nostre società e nella nostra stessa autorappresentazione53.

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50.  N.K. Hayles, How We Became Posthuman. Virtual Bodies in Cybernetics, Literature, and Informatics, The University of Chicago Press, ChicagoLondon 1999. 51.  C. Wolfe, What is Posthumanism?, University of Minnesota Press, Minneapolis 2010. 52.  La metafora del cyborg proposta dalla Haraway è divenuta centrale per pensare le ibridazioni dell’uomo con l’universo tecnico e il suo statuto ontologico eccentrico, dinamico e in costante metamorfosi: cfr. D.J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (1985), tr. it. di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 1995. L’essere cyborg è, secondo Haraway, un destino della nostra umanità storica: «Alla fine del Ventesimo secolo, in questo nostro tempo mitico, siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo: in breve, siamo tutti dei cyborg. Il cyborg è la nostra ontologia, ci dà la nostra politica. Il cyborg è un’immagine condensata di fantasia e realtà materiale, i due centri congiunti che insieme strutturano qualsiasi possibilità di trasformazione storica» (ivi, pp. 40-41). Secondo Carlo Negri, il cyborg rompe «con la dialettica uomo-macchina in nome della contaminazione ibridativa, ovvero non della semplice giustapposizione protesica, ma di una vera e propria coevoluzione, nella prospettiva di un’interazione simbiotica tra uomo e artificialità […]. Il Cyborg indica la sfida rappresentata dall’esigenza di pensare un’ontologia altra rispetto a quella del modello sostanzialista, definendo così lo sviluppo di una diversa epistemologia, cioè di un diverso approccio con la realtà, fondato non più su un rapporto con l’altro di tipo agonistico/antagonistico, ma di collaborazione reciproca, simbiosi e metamorfosi. Il Cyborg rappresenta quindi la possibilità, nell’incontro con l’altro (umano, animale, meccanico) di esperire un decentramento prospettico e un eccentramento ontologico» (C. Negri, Deleuze e il postumano. Corpo e soggetto nella postmodernità, Orthotes, Napoli-Salerno 2020, pp. 125-126). 53.  Come vedremo, tuttavia, è proprio il concetto di tecnica che viene reinterpretato dal postumanismo in direzione del paradigma di Proteo e posto al centro dell’orizzonte epistemico e filosofico in senso lato.

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Secondo Roberto Marchesini, il cui volume Post-human54 del 2002 costituisce un prezioso vademecum di questa molteplice galassia di pensiero, l’unico motivo comune di questi disparati filoni di pensiero è la decostruzione dei concetti fondamentali dell’umanismo: L’impostazione postumanistica non ha un vero e proprio manifesto, sembra più sorgere dal basso attraverso una miriade di frammenti di pensiero che, nel corso del Novecento, hanno declassato l’uomo da quella posizione di centralità, unicità, specialità, purezza e autosufficienza che erano in fondo le basi su cui si reggeva l’Umanismo.55

In senso positivo, Marchesini individua alcuni fattori di contesto che hanno favorito l’emergere di una certa fisionomia unitaria del postumanismo: «la caduta dell’esclusività dell’intelligenza umana, l’infiltrazione della tecnologia, l’autopoiesi delle macchine, la frantumazione dell’identità, la ridefinizione del corpo, lo slittamento ermeneutico dei concetti di “procreazione” e “morte”»56. Tali rivoluzionari cambiamenti hanno scosso alle radici quella creazione apparentemente perfetta dell’essere umano, capolavoro della cultura umanistica magistralmente raffigurato dalla grande arte rinascimentale57, in quanto hanno modificato quella che Marchesini, utilizzando in modo significativo il lessico della tecnica informatica, nomina “interfaccia” uomo-mondo; in particolare, le entità non-umane (natura, animali, prodotti e procedure tecniche) da meri oggetti di studio sono diventati “soggetti dialogici”. 54.  R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2009. 55.  R. Marchesini, Il tramonto dell’uomo, cit., p. 6. 56.  Ibidem. 57.  Icona per eccellenza di questa perfezione umanistica è l’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci che, non caso, compare come esempio ricorrente in molti studi postumanistici.

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Ripetendo ciò che decenni prima Heidegger e poi Ellul avevano chiaramente compreso, il postumanismo decreta la fine dell’umanismo e la “morte dell’uomo”58 in quanto egli non può più considerarsi un essere autocentrato, separato e puro la cui funzione fondamentale è quella di essere misura59 e sussunzione del mondo. Il superamento della relazione oppositiva soggetto-oggetto, che è già insito – come abbiamo visto – nell’esplicarsi della tecnica moderna, sancisce, dunque, la fine dell’umanismo dal suo stesso interno: come già Heideg58.  Riferendosi alla genealogia illuministica del concetto di umanità, Foucault afferma: «Prima della fine del XVIII secolo, l’uomo non esisteva, come non esistevano la potenza della vita, la fecondità del lavoro, o lo spessore storico del linguaggio. È una creatura recentissima quella che la demiurgica del sapere fabbricò con le sue mani, meno di duecento anni or sono» (M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 333). E ancora: «L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima» (ivi, p. 414). Su tale questione, cfr. R. Ariano, Morte dell’uomo e fine del soggetto. Indagine sulla filosofia di Michel Foucault, Rubettino, Soveria Mannelli 2014. Sulla genealogia foucaultiana del post-umano, cfr. R. Torrosi, La filosofia del postumano, Costa & Nolan, Genova 1997. A partire delle analisi antiumaniste foucaultiane, Rosi Braidotti propone una concezione affermativa della morte dell’uomo in senso postumanista: «La prospettiva postumana si basa sull’assunzione storica del declino dell’umanesimo, ma si spinge anche oltre per esplorare nuove alternative, senza per questo ricadere nella retorica antiumanista della crisi dell’Uomo. Essa si impegna, invece, a elaborare modi alternativi per la concettualizzazione della soggettività postumana» (R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 45). Al di là delle derive poststrutturaliste, da cui pure, secondo Braidotti, emerge il postumanismo, è possibile individuare nelle prospettive filosofiche degli ultimi decenni un soggetto postumano che non sia semplicemente anti-umanistico: «I punti di vista alternativi sull’umano e le nuove formazioni della soggettività che caratterizzavano le epistemologie radicali della filosofia continentale degli ultimi trent’anni non sono meramente contrari all’umanesimo, dal momento che creano essi stessi altre visioni del sé» (ibidem). 59.  Il celebre detto di Protagora assume, come ha mostrato Heidegger, la sua funzione antropocentrica e sussuntiva soltanto nella modernità: cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, cit., pp. 90-92, nota 8.

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ger aveva intuito, la storia del pensiero moderno-umanistico si compie e, al contempo, giunge al suo irreversibile tramonto nell’epoca del totale dominio della tecnica. «Se l’Umanismo ha posto l’uomo come fulcro dell’Universo – scrive ancora Marchesini –, segnando quel cammino di progresso che ha connotato l’età moderna, sono state le stesse trasformazioni filosofiche e tecnoscientifiche figlie dell’Umanismo a decretarne la fine»60. Per ognuno dei caratteri specifici che l’Umanesimo attribuiva all’uomo giustificandone lo straordinario statuto epistemico e ontologico – la disgiuntività, l’essere centro gravitazionale, l’autopoiesi, la sussuntività, la virtualità – sarebbe possibile, infatti, individuare un corrispettivo carattere della tecnica e del sistema tecnico. Particolarmente significativo all’interno del nostro percorso ci sembra analizzare l’ultimo di questi caratteri, la virtualità, che discende direttamente dal manifesto filosofico-antropologico dell’Umanesimo, ovvero dall’Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola. La virtualità dell’uomo, così come la interpreta il postumanismo, indicherebbe le indefinite possibilità metamorfiche dell’umano, il suo essere declinabile in qualunque direzione; l’uomo è virtuale in quanto è indefinito e illimitato, è ápeiron. Pico delinea in modo programmatico il paradigma dell’incompletezza prometeica dell’umano e della cultura come strumento pedagogico ed etico atto a colmare la sua costitutiva mancanza. Con grande acume filosofico, è stato Eugenio Garin a individuare nel testo di Pico non soltanto il manifesto dell’Umanesimo, ma di tutta la cultura moderna successiva, dello spirito faustiano e della soggettività moderna autocentrata e autofondata: L’uomo si fa agendo; l’uomo è padre a se stesso. L’uomo non ha che una condizione: l’assenza di condizioni, la libertà. La

60.  R. Marchesini, Il tramonto dell’uomo, cit., p. 7.

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sua costrizione è la costrizione a essere libero, a scegliere la propria sorte, a costruirsi con le sue mani l’altare di gloria o le catene della condanna. […] L’uomo è tutto, perché può essere tutto, animale, pianta, pietra; ma anche angelo e «figlio di Dio». E la immagine e somiglianza di Dio è qui: nell’essere causa, libertà, azione; nell’essere resultato del proprio atto.61

In questo commento alla celebre orazione pichiana si evince come molte direzioni del postumanismo siano soltanto superficialmente in opposizione alla tradizione umanistica autenticamente interpretata: l’ibridazione con il mondo naturale e animale, interpretata come il vettore principale dell’antropo­ poiesi, non è affatto estranea all’umanismo classico che, al contrario, la considera una possibilità dell’uomo e una dimensione, se pure in senso deiettivo, della sua libertà umana62. I germi del postumanismo, si ritrovano, dunque, già nella tradizione umanistica. Tale nesso di coimplicazione è evidente in modo particolare riguardo alla questione dell’antropocentrismo e della sua crisi, che è divenuta sempre più evidente a partire dalla metà del XX secolo. A causa degli eventi rivoluzionari sopra accennati e dell’imporsi in tutti gli ambiti dell’esperienza umana della dimensione tecnosferica, nel secondo dopoguerra sono venute progressivamente meno due visioni dell’umano fondamenta-

61.  E. Garin, L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 123-124. 62.  In questo senso andrebbe ridimensionata l’attribuzione del mito della purezza alla tradizione umanistica tipica del postumanismo (cfr. R. Marchesini, Post-human, cit., pp. 178-206). Che l’Umanesimo non sia l’espressione di un mondo compiuto e armonioso, ma al contrario di un’epoca di profonda crisi di autorappresentazione dell’uomo e del suo ruolo nel mondo e nella storia, è testimoniato dalla centralità degli studi storico-filologici e dell’intensità della vita civile e politica di molti rappresentanti della cultura umanistica. A tal proposito, oltre al classico testo di Garin, cfr. anche M. Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Einaudi, Torino 2019.

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li, invece, nella tradizione umanistica: quella proiettiva – l’uomo come misura del mondo – e quella autofondativa – l’uomo come ente che si autodetermina e ritrova in sé i propri fondamenti ontologici ed etici. E, tuttavia, questo processo di irreversibile «eccentramento» dell’uomo63, la cui consapevolezza filosofica è preparata da Darwin64, Nietzsche e Freud, non conduce alla negazione della concezione umanistica dell’umano, la rimodula invece nel senso di una sua apertura dialogica alle alterità con riferimento non soltanto all’antropopoiesi, 63.  Per Marchesini l’eccentramento è conseguenza dell’incontro ibridativo con le alterità non umane: «con il termine eccentramento indico l’atto di decentrarsi rispetto alle proprie caratteristiche innate grazie all’incontro con un’alterità non umana che rende desiderabile una dimensione esistenziale differente» (R. Marchesini, Tecnosfera. Proiezioni per un futuro postumano, Castelvecchi, Roma 2018, p. 95). Tale dinamica eccentrica si richiama esplicitamente al concetto di “posizionalità eccentrica” sviluppata da H. Plessner, Die Frage nach der Conditio humana (1961), in Id., Gesammelte Schriften, a cura di G. Dux et al., vol. 8, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1983, pp. 136-217. L’eccentramento dell’umano teorizzato dal postumanismo si differenzia, inoltre, dalla concezione estatica dell’esistenza per come viene delineata all’interno del pensiero heideggeriano o di altre prospettive della filosofia novecentesca dell’esistenza e della singolarità – penso in primo luogo al pensiero di Levinas –, perché presuppone, comunque, un centro originario e una dimensione identitaria dati per natura (le “caratteristiche innate”) da cui il processo ibridativo filogenetico produce uno scarto de-centrando progressivamente l’uomo dalla propria essenza. Non mi sembra, dunque, che la prospettiva postumanistica riesca a decostruire in maniera significativa i presupposti teorici dell’umanismo, dal momento che – come vedremo nel capitolo successivo – non mette radicalmente in discussione il concetto di identità tipico della soggettività moderna, ma si limita a declinarlo secondo processi di coniugazione e contaminazione con le differenze eterospecifiche. 64.  Secondo Marchesini, in particolare, la tecnopoiesi è responsabile di una particolare declinazione della teoria evolutiva darwiniana in quanto determina uno “slittamento” della pressione selettiva che iscrive la tecnologia nel patrimonio genetico della specie: «La tecnologia diventa perciò una sorta di esternalizzazione performativa che estende il dominio operativo dell’uomo sulla realtà esterna non impoverendo la specie ma arricchendola proprio attraverso i bisogni» (R. Marchesini, Post-human, cit., p. 32).

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ma anche alla tecno-poiesi e al modo di interpretare le conseguenze della rivoluzione tecnologica. L’antropocentrismo, infatti, impedisce la comprensione della portata ontologica e sistemica della tecnica «misconoscendo il carattere ibridativo della tecno­poiesi e mantenendo un’interpretazione autarchica nella definizione dei predicati umani»65. È, dunque, soprattutto a partire dal concetto centrale di ibridazione che va delineato il rapporto tra postumanismo e umanismo. Decisiva è l’etimologia di questa espressione così centrale per tutte le prospettive postumaniste: la relazione con il termine greco hybris la lega indissolubilmente con i significati di audacia, eccesso, tracotanza, temerarietà, sfrenatezza, trasgressione di ogni limite66, ma anche dissolutezza, protervia, violenza. L’ibridazione si riferisce, dunque, a processi di trasformazione e 65.  Marchesini, Il tramonto dell’uomo, cit., p. 100. Lo stesso Marchesini riconosce che la prospettiva postumanista dell’antropodecentrismo non rifiuta del tutto la tradizione umanista, ma la contestualizza all’interno delle nuove dimensioni dell’umano determinate dall’affermarsi delle tecnoscienze attuali, assegnandole un preciso dominio di validità: «Antropodecentrare non significa affatto negare l’uomo ma assegnare alle coordinate di retaggio un dominio di validità e ammettere un processo evolutivo di tali coordinate attraverso l’integrazione delle alterità. L’Umanismo impone non solo il modello antropocentrato ma altresì le coordinate interpretative attraverso cui dichiarare l’incoerenza o l’infondatezza di qualunque critica alla chiusura antropocentrica» (ivi, p. 101). Nella stessa prospettiva non di opposizione ma di prosecuzione critica dell’umanismo, ritroviamo le seguenti affermazioni: «Siamo figli dell’umanismo, non ci sono dubbi su questo […]. Ritengo, in tutta onestà, che l’umanismo, soprattutto nelle sue prime espressioni, abbia ancora molto da dirci e indubbiamente numerosi sono gli aspetti che meritano di essere salvaguardati» (ivi, p. 171). Sottolineando la “continuità” con la rivoluzione umanistica, Marchesini, pertanto, definisce il postumanismo come un «umanismo critico, inclusivo e dialogico» (ibidem). 66.  Secondo Paolo Heritier il «crimine post-umano» consisterebbe proprio nella negazione dell’idea normativa di limite, e conseguentemente di ogni diritto e legge, in nome di quella stessa hybris dell’umanismo che il postumanismo assume come suo dichiarato bersaglio polemico: cfr. P. He-

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adulterazione67 che, in modo temerario e a volte violento, modificano il naturale corso dei fenomeni naturali68, ponendo in modo artificiale e guidato da intenti culturali rapporti coniugativi e di interazione con le alterità non-umane. La relazione di ibridazione con queste ultime si configura, pertanto, come un atto di reciproca assimilazione e contaminazione, che – lo abbiamo visto – costituiscono le modalità fondamentali con cui il sistema tecnico si sviluppa accrescendosi a spese del suo altro. Nonostante Marchesini si sforzi di prendere distanza dalla tradizione umanistica e dal suo tipico atteggiamento dicotomico e disgiuntivo (l’umano si definisce a partire dalla negazione del non-umano), le dinamiche di ibridazione e contaminazione che egli descrive come fondanti i rapporti di integrazione e referenza tra uomo e alterità condividono con la determinazione umanistica dell’uomo una comune concezione identitaria fondata sulla contrapposizione interno-esterno e sulla soglia liminare individuo-mondo che, se per l’umanismo vale come discrimine ontologico, epistemico ed etico fondamentale, per il postuma­nismo costituisce il luogo stesso dell’ibridazione e, dunque, dell’antropopoiesi69. A differenza delle derive transumaniritier, Il crimine post-umano, in F. Monceri (a cura di), Sull’orlo del futuro. Ripensare il post-umano, ETS, Milano 2009, pp. 107-126. 67.  Significativa è l’evoluzione semantica di questo termine che dall’originario latino adulterare (alterare, contraffare, falsificare) ha finito per significare corrompere – in senso soprattutto morale –, sofisticare e tradire, a indicare che i processi di ibridazione tra uomo e tecnica sono sempre esposti al rischio della corruzione dell’umano. 68.  In questo senso si definiscono animali ibridi quelli nati da procreanti appartenenti a specie diverse, perché si reputa che tali atti riproduttivi oltrepassino i limiti imposti dalla natura. 69.  Secondo Marchesini l’uomo è spinto a ibridarsi non primariamente dalla tecnica o dalla cultura, ma dalla sua peculiare struttura neurobiologica e dalla dimensione epimeletica tipica della specie umana, cioè dalla tendenza a prendersi cura di forme neoteniche infantili anche appartenenti a specie diverse: cfr. R. Marchesini, Post-human, cit., pp. 56-66. Tuttavia mi sembra di poter

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stiche, il prefisso “post-” non indica il risultato di un superamento della condizione umana in una sfera tecnologica disincarnata; esso esprime, piuttosto, lo stesso statuto liminare dell’umano, la soglia di trasformazione ibridativa in cui si compie il definitivo tramonto dell’antropocentrismo ontologico ed epistemologico, e l’umano si rivela come «posizione continuamente negoziabile, destinata a superarsi nell’atto stesso di esserci»70. Tale determinazione liminare e innata71 dell’umano non significa, però, che esso si dissolva in un’amorfa liquidità anodina priva di ogni riferimento e orientamento, a cui è possibile assegnare arbitrariamente qualunque predicazione72. Al contrario, i processi ibridativi, per poter realizzarsi, richiedono una certa consistenza ontologica e morfologica e uno specifico retaggio filogenetico. È lo stesso Marchesini ad ammettere che l’atto ibridativo non nega la concezione umanistica dell’iden-

individuare una differenza rilevante tra la plasticità evolutiva che caratterizza a livello biologico e filogenetico la specie umana e l’ibridazione tecnica che è dominata dalle logiche funzionali e prestazionali del sistema tecnico. 70.  R. Marchesini, Alterità. L’identità come relazione, STEM, Modena 2016, p. 174. Sul concetto di soglia, cfr. Id., Il concetto di soglia. Una critica all’antropocentrismo, Theoria, Roma-Napoli 1996. In Tecnosfera Marchesini afferma che la sua prospettiva non si identifica con un totale rifiuto dell’uma­ nismo e che il postumanismo si colloca in una sostanziale continuità con la rivoluzione umanistica, pur rafforzandone alcuni aspetti e mettendone in discussione altri: cfr. Id., Tecnosfera, cit., p. 171. 71.  «È la pregnanza filogenetica di Homo Sapiens che lo porta a sconfinare in spazi ontogenetici oltre-umani: nel superare il proprio canone di specie l’essere umano dà compimento ai propri talenti di specie» (L. Caffo R. Marchesini, Così parlò il postumano, a cura di E. Adorni, Novalogos, Anzio-Lavinio 2014, p. 77). 72.  Dello stesso avviso è Rosi Braidotti quando afferma che «un minimo di soggettività è indispensabile: non necessariamente univoca o esclusivamente antropocentrica, ma presente come terreno di fondo per garantire la responsabilità etica e politica, oltre che gli immaginari collettivi e le aspirazioni comuni» (R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 110).

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tità individuale, ma la mette in gioco nei suoi contorni esterni e nelle sue soglie interne:

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L’ibridazione – egli scrive – non è affatto un atto di svincolamento o di liberazione a meno che non si interpreti in maniera umanistica l’appartenenza come la negazione e la divergenza dell’ente dalle alterità. Nell’impostazione postuma­nistica l’ibridazione non nega l’identità ma le da forma, la dimensiona, l’arricchisce.73

Lungi dall’essere pura negazione delle alterità, tuttavia, a partire dal concetto umanistico di appartenenza – come la grande tradizione filosofica idealistica ha mostrato – esse vengono considerate come gli ambiti di costruzione e lo specchio di riconoscimento dialettico delle soggettività sia individuali che collettive. Quella che Marchesini rivendica come una conquista postumanistica, ossia la considerazione dei predicati umani come processi «coniugativi con l’alterità» e non come «frutto autarchico e divergente, emanazione dell’essenza dell’uomo»74, rappresenta, piuttosto, il compimento ultimo dell’umanismo nella tecnica dispiegata che si impone come autoaccrescimento proteiforme attraverso ogni forma di alterità. Se ripensiamo alla determinazione aperta e metamorfica dell’umano emblematicamente delineata nell’Oratio di Pico, appare evidente come l’uomo non sia mai stato pensato nella tradizione umanistica come un’«entità definita e provvista di un proprio retaggio»75

73.  Ivi, p. 103. È con il concetto di ibridazione che, secondo Marchesini, si compie il declino dell’ontologia umanistico-moderna fondata sul cogito cartesiano a favore di una ontologia “ecologica” relazionale e dialogica: «L’idea generale che ci proviene dall’ibrido […] è quella di un’entità che ha preso coscienza di una “ecologia ontologica”, vale a dire del passaggio da una concezione riflessiva dell’ontologia (cogito ergo sum) a una relazionale (dialogo ergo sum)» (R. Marchesini, Alterità, cit., p. 189). 74.  R. Marchesini, Tecnosfera, cit., p. 104. 75.  Ibidem.

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per cui l’apporto dell’alterità abbia un ruolo puramente collaterale76. Che i processi ibridativi abbiano come effetto non soltanto quello di delineare differenti mutazioni dell’umano, ma anche di modificare le modalità di partnership con le alterità e dunque la stessa funzionalità dell’interfaccia uomo-mondo, significa sancire la totale integrazione dell’uomo nella Megamacchina tecnica che si evolve e autopotenzia seguendo esigenze interne e imperativi automatici; essi rimodulano e orientano il rapporto con ciò che dell’ambiente tecnico, ogni volta, si presenta come esterno e oggettivato. Il decentramento dell’uomo che lo rende un sistema aperto e instabile, costantemente debitore rispetto alle referenze dell’alterità, confuta l’autoreferenzialità tipica della visione umanistica soltanto nella misura in cui la eleva a autoreferenzialità del sistema tecnico, di cui l’umano è parte integrante senza possibilità di distinguere l’utilizzatore dall’utilizzato, il soggetto fruitore dalla funzione, la mano dallo strumento. La pregnanza tipica del retaggio umano, che Marchesini programmaticamente oppone alla tesi gehleniana della carenza costitutiva dell’uomo, in quanto sovrabbondante disponibilità ai processi coniugativi con l’alterità, sembra riproporre l’intui­ zione jüngeriana di una “disponibilità interiore” alla mobilitazione tecnica del mondo che adesso assume la dimensione sistemica e integrale, pervasiva e infiltrante della Megamacchina. Quanto più aumenta l’intensità del processo ibridativo, tanto più si sposta in avanti la soglia operativa dell’interfaccia uomo-mondo in modo da continuare ad alimentare il processo di assimilazione proteiforme del sistema.

76.  Affermare, come fa Marchesini, che «ogni predicato è l’esito di una lunga storia di ibridazioni inclusive che hanno via via spostato in avanti la soglia di interfaccia uomo-mondo» (ibidem), non significa altro che ripercorrere la parabola della costituzione della soggettività umanistica che, da ultimo, culmina nel e come sistema tecnico e Megamacchina.

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L’insistenza sulla modalità dialogica del rapporto tra retaggio umano e referenze dell’alterità – di cui diremo nel capitolo successivo – non fa altro, dunque, che delineare le varie modalità di funzionamento della Megamacchina ed esclude ogni tipo di relazione che non sia assimilabile a tale funzionamento, che non coinvolga, cioè, in modo ibridativo le alterità nei processi antropopoietici. L’uomo come fulcro gravitazionale e centro sussuntivo del mondo viene destituito e inglobato nel sistema che egli stesso, in quanto supremo funzionario della tecnica, ha contribuito a produrre. L’alterità che entra nell’officina dell’umano è sempre funzionale al lavoro che in essa si svolge o si pianifica, anche se è a partire dal suo ingresso, imprevedibile e contingente, che i meccanismi e le funzioni della Megamacchina di volta in volta si determinano e si progettano. Ciò che è indifferente a tale funzionamento non ha accesso nel laboratorio dell’uomo post-moderno77: nessuna forma di alterità in grado di mettere radicalmente in questione e in-

77.  Tale controversa categoria possiede molti parallelismi con quella di postumanismo, come nota Flavia Monceri nell’introduzione al volume collettaneo Sull’orlo del futuro. Ripensare il post-umano, rilevando anch’ella la segreta complicità tra tradizione umanistica e post-umano: «Mentre la critica all’umanesimo inteso nel senso di una progressiva antropomorfizzazione del mondo e di una sua altrettanto progressiva riconduzione e riduzione a una presunta ‘razionalità’ umana sia del tutto condivisibile, non altrettanto possa dirsi della scelta di caratterizzare questo ‘nuovo’ atteggiamento attraverso il ricorso al termine ‘post-umano’, che continua ad accettare ciò che vorrebbe superare. In questo senso, il post-umano rinvia a quel post-moderno che non si riesce a superare perché il ‘moderno’ rimane un’acquisizione imprescindibile, uno stadio di sviluppo ormai raggiunto dal ‘genere umano’» (F. Monceri, Introduzione, in Ead. [a cura di], Sull’orlo del futuro, cit., pp. 9-20: 14-15). Di parere contrario è, invece, Rosi Braidotti: «Il soggetto postumano non coincide con quello postmoderno, perché non poggia su alcuna premessa antifondazionista. Non coincide neppure con quello poststrutturalista, poiché non si spiega con la svolta linguistica o con altri metodi decostruttivi. […] Il soggetto postumano nomade è materialista, incarnato e interrelato – […] è polimorfo e relazionale» (R. Braidotti, Il postumano, cit., pp. 196-197).

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crinare l’ordine metamorfico del sistema può entrare in scena nell’immanenza totale della tecnosfera. In questo senso mi sembra che siano le riflessioni di Peter Sloterdijk sulla tecnica e, in particolare, sulle “antropotecniche”78, a mostrare i profondi legami della prospettiva postumanistica con la tradizione umanistica. Come egli nota in un saggio che fin dal titolo si richiama alla andersiana vergogna prometeica79, l’“umiliazione anatomica” a cui la tecnica moderna e in particolare le contemporanee tecniche di bioingegneria sottopongono il corpo umano si radica in un profondo senso di equivalenza tra uomo e macchina, in modo che i processi biologici sono compresi e manipolati a partire dalle logiche funzionali della macchina. E tuttavia, nella prospettiva del postumanismo che serpeggia tra le righe di Sloterdijk, tale ferita del narcisismo umanisitico perde sempre di più la sua ragion d’essere, dal momento che la complessità delle più evolute macchine cibernetiche e le nuove frontiere della cybertecnologia conducono al superamento della classica opposizione tra organico e inorganico, naturale e artificiale e a una progressiva convergenza tra l’umano e il macchinico: «Nella misura in cui questa convergenza va confermandosi, la denuncia per oltraggio che l’umanismo rivolge contro la macchina dovrebbe concludersi un giorno con un proscioglimento, motivato dall’assenza provata di ogni intenzione di umiliare l’uomo»80. 78.  Cfr. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica (2009), ed. it. a cura di P. Perticari, Cortina, Milano 2010. 79.  P. Sloterdijk, L’offesa delle macchine. Sul significato epocale della più recente tecnologia mediatica (2004), in Id., Non siamo ancora stati salvati, cit., pp. 267-291. 80.  Ivi, p. 281. Come sostiene Braidotti, «la condizione postumana è tale da costringere allo slittamento delle linee di demarcazione tra le differenze strutturali, o tra le categorie ontologiche, ad esempio tra l’organico e l’inorganico, l’originale e il manufatto, la carne e il metallo, i circuiti elettronici e i sistemi nervosi organici» (R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 97).

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In questo senso Sloterdijk rivendica una chiara ascendenza illuministica della tecnica moderna – e, si potrebbe aggiungere, dello stesso postumanismo –, nella misura in cui illuminismo significa possesso di un sapere operazionale che, secondo la celebre formula baconiana, si traduce in potere sulla realtà: illuminismo significa in primis avere competenza nella costruzione e gestione delle macchine. Da quell’epoca, infatti, il sapere macchinico domina tutti gli ambiti dell’esperienza umana ed è all’origine delle grandi scoperte teoriche della modernità: dalla costruzione macchinica dello Stato in Hobbes, degli eserciti dell’assolutismo, della salute negli ospedali moderni e del sapere nelle accademie del tardo barocco. Si impone, dunque, un modello di potere tecnico basato sulla costruzione e sull’utilizzo delle macchine e il regno delle macchine – il sistema tecnico – si pone come il terzo regno dopo quello naturale e quello della grazia che avevano dominato nel Medioevo e la cui posizione dominante, insieme al loro endemico conflitto, sarebbe stata progressivamente scalzata dall’affermarsi del mondo tecnico-macchinico: il potere supremo è, ora, quello di realizzare ciò che non deriva dalla mera natura e non è nemmeno dispensato per grazia. La tecnica, la strategia, la macchina costituiscono, da allora, il campo d’azione in cui si gioca la dignità, prima ancora che la salvezza, dell’uomo moderno; non ciò che è dato naturalmente o per grazia, ma ciò che si può è l’elemento dell’uomo moderno: la sua epoca è determinata da un unico evento, da un’inaudita emigrazione sul posto, un inaudito espatrio nel tempo degli artifici. A partire da tale epoca le intelligenze europee dell’arte, degli ingegneri e dei medici compiono l’entrata nello spazio di gioco di libertà delle macchine e dei mezzi, delle opere e delle operazioni.81

81.  P. Sloterdijk, L’offesa delle macchine, cit., p. 283.

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La medicina moderna, caratterizzata ab origine dall’aggressione con cui gli scienziati rinascimentali sezionavano i cadaveri alla ricerca dell’ordine anatomico e funzionale del corpo umano, manifesta in modo emblematico la volontà di coniugazione tra biologico e artificiale che segna la modernità e che, da ultimo, si compie nelle ibridazioni post-umane. Il romantico ritorno alla natura o il ritorno neo-religioso alla grazia e al sacro non smentiscono l’irreversibilità di questa emigrazione nel terzo regno tecnico-macchinico, ma testimoniano, piuttosto, di un diffuso stato d’animo di estraneità e inquietudine per cui, come suggerisce Sloterdijk, possiamo dire di abitare in un «parco protesi globale», in una «grande clinica» e in una «comune telematica»82. Se la nobile e antica arte umanistica dell’allevare gli uomini attraverso l’esercizio pedagogico e la filosofica cura dell’anima è ormai impossibile, l’unico modo per raggiungere e curare l’uomo è la tecnica, come Sloterdijk lucidamente intuisce chiudendo esemplarmente il cerchio – che in questo studio abbiamo cercato più volte di evidenziare – che dall’umanismo conduce al postumanismo e di nuovo alla suprema esaltazione dell’uma­no nelle sue molteplici potenzialità ibridative: «Bisogna diventare dei cibernetici per poter restare degli umanisti»83. È lo stesso Sloterdijk, peraltro, a sottolinea­ re il carattere in nuce ibridativo e transizionale della nuova umanità tecnologica, dal momento che il “tecno-umanismo” genera necessariamente incessanti “traduzioni culturali”: «I matematici devono diventare poeti, i cibernetici devono diventare filosofi della religione, i medici compositori, gli infor-

82.  Cfr. ivi, p. 286. L’auspicio di Sloterdijk di creare un’“ontologia delle realtà protetiche”, dell’essere e dell’apparire tecnici, è stato raccolto e realizzato dalla teorizzazione postumanistica della tecnosfera. 83.  Ivi, p. 290.

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matici sciamani. L’umanità è stata forse qualcos’altro se non l’arte di creare transizioni?»84.

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3. Per una tecnica post-umana L’affermazione della plasticità e della mutabilità dell’umano, la sua perenne e costitutiva condizione di disequilibrio e di esposizione, l’impossibilità di definire l’uomo a partire da un saldo sistema di riferimenti teorici ed etici, è l’eredità dell’epoca moderna da cui il postumanismo, in tutte le sue svariate componenti, prende le mosse. Sulle soglie del Novecento è stato Friedrich Nietzsche a sancire la fine di ogni ordinamento metafisico in cui poter stabilmente collocare l’uomo e il venir meno di univoche determinazioni dei suoi predicati. In un decisivo aforisma di Al di là del bene e del male, egli pone l’uomo come l’«animale non ancora stabilmente determinato [das noch nicht festgestellte Tier]»85. Lungi dal voler attribuire a Nietzsche un’ascendenza determinante nella genealogia del postumanismo86, è necessario,

84.  Ibidem. Sul rapporto di Sloterdijk con il postumanismo alla luce della sua interpretazione della Lettera sull’«umanismo» heideggeriana, cfr. M. Bastianelli, Postumanismo e società della cooperazione in Sloterdijk, in A. Pieretti (a cura di), Il tramonto dell’umano? La sfida delle nuove tecnologie, Morlacchi, Perugia 2016, pp. 199-222. 85. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI/2, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1972, pp. 1-209: p. 68. 86.  Per un’analisi del rapporto tra Nietzsche e le varie declinazioni del postumanismo si rimanda a F. Ferrando, Il Postumanesimo Filosofico e le sue Alterità, cit., pp. 44-48. L’ascendenza nietzscheana è certamente più forte in riferimento al transumanismo: cfr. S.L. Sorgner, Nietzsche, the Over­human and Tanshumanism, in «Journal of Evolution and Technology», vol. 20, n. 1,

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tuttavia, considerare quanto la falla aperta dal suo dirompente pensiero sia divenuta nei decenni successivi la matrice ineludibile di ogni tentativo di pensare l’uomo e la sua relazione con il mondo. Sebbene anche per Nietzsche valga l’affermazione postumanistica per eccellenza che l’umano è sempre oltre l’uomo87 e che, anzi, la sua unica “essenza” consista nell’essere costantemente in declino, transizione e metamorfosi88, lo Übermensch nietzscheano non è affatto il frutto di ibridazioni o contaminazioni come il soggetto teorizzato dal postumanismo, che si realizza nella propria eteroreferenzialità rispetto al mondo animale e alla tecnica. È soprattutto quest’ultima, divenuta ambiente onniavvolgente e sistema totale, che, a differenza delle analisi nietzscheane, determina l’instabilità e la duttilità ontologica dell’uomo: l’oltrepassamento dell’uomo non va più nella direzione che dall’animale porta allo Übermensch, capace di sostenere la tragicità del divenire, nell’attimo immane del suo panico disvelamento89, ma conduce all’ibrido

2009, pp. 29-42; M. More, The Overhuman in the Transhuman, ivi, vol. 21, n. 1, 2010, pp. 1-4. 87.  «Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato» (F. Nietzsche, Così parlo Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI/1, tr. it. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1968, p. 6). 88.  «La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto» (ivi, p. 8). 89.  Cfr. G. Pasqualotto, Attimo immenso e con-sentire, Tilgher, Genova 1981; K. Schlechta, Nietzsche e il grande meriggio (1981), a cura di U.M. Ugazio, Guida, Napoli 1998; K. Löwith, Nietzsche e l’eterno ritorno (1956), tr. it. di S. Venuti, Laterza, Roma-Bari 1996. Si potrebbe, piuttosto, accostare il concetto di post-umano alla figura dell’uomo superiore che viene introdotto nello Zarathustra nel momento decisivo dell’estrema selezione dell’umanità, alla vigilia del grande Meriggio, quando l’oltreuomo si distacca da tutte le altre figure dell’umano e anche, se pure con estrema fatica, proprio dagli uomini superiori. Come suggerisce Derrida, l’uomo superiore si distingue dall’oltreuomo perché non è in grado, come quest’ultimo, di esercitare quella

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umano-­macchinico reso possibile dallo strabiliante sviluppo delle biotecnologie. Tuttavia è necessario comprendere che tale grado di contaminazione tra uomo e tecnica è possibile soltanto a partire da una determinata evoluzione della tecnica come sistema e ambiente tecnico, ovvero il suo configurarsi come tecnosfera e il suo decisivo acquistare – come abbiamo visto analizzando la teorizzazione di Ellul del sistema tecnico – un carattere di autonomia e alterità. Finché si continua a concepire la tecnica in senso antropologico e strumentale, non solo non si coglie la sua essenza non tecnica – come aveva già intuito Heidegger negli anni Cinquanta –, ma non si comprende nemmeno la sua potenza ibridativa e coreferenziale nei processi di produzione dei predicati umani90. La definizione heideggeriana dell’essenza della tec-

aktive Vergeßlichkeit, quell’oblio attivo che, dalla Seconda Inattuale fino alla Genealogia della morale, costituisce il tratto antiumanistico e anti­metafisico – che Heidegger non riesce a riconoscere – della filosofia di Nietzsche e su cui si fonda la sua facoltà metamorfica; è attraverso tale metamorfosi dell’uomo nello Übermensch che si compie quella che Derrida chiama l’«economia della vigilia» (J. Derrida, Fini dell’uomo, cit., p. 185). Si tratta, qui, però, a differenza che nella prospettiva post-umanisitica, della vigilia di un nuovo uomo al di là della fine dell’umanismo, in grado di danzare lievemente nel flusso del divenire pur senza dissolversi in esso. 90.  Ai fini di delineare il rapporto di correlazione e ibridazione tra uomo e tecnica, importanti sono anche i lavori di Giuseppe Longo che si collocano nell’orizzonte postumanistico accentuando il carattere ontologico e non soltanto ontogenetico di tale rapporto. Longo afferma l’essenzialità della tecnica rispetto alla formazione dell’identità umana: «Lo sviluppo della tecnologia ha accompagnato lo sviluppo di homo sapiens, l’ha causato e ne è stata causata, grazie a un processo dinamico coevolutivo in cui di volta in volta una componente ha guidato e trascinato l’altra» (G.O. Longo, Il simbionte. Prove di umanità futura, Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 57). Il concetto di simbiosi viene utilizzato per indicare una correlazione intensa e radicale tra biologia e tecnologia che si estende anche a livello interindividuale dando luogo a una rete bio-tecnologica e informatica: cfr. Id., Homo technologicus,

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nica moderna come “disvelamento provocante” assume, dunque, una nuova valenza se come soggetto della provocazione pensiamo la tecnica stessa, o meglio, il sistema tecnico. Il Gestell – termine con cui Heidegger nomina sinteticamente l’essenza della tecnica moderna – indica ciò che provoca l’uomo a disvelare il reale nella modalità dell’impiego (Bestell) come fondo (Bestand) e pezzo di riserva (Bestandstück)91. L’appello provocante della tecnica, tuttavia, non provoca soltanto l’uomo a svolgere la sua funzione direttiva e attiva di funzionario delle tecnoscienze, ma, soprattutto nelle sue propaggini biotecnologiche e neurocognitive, provoca lo stesso statuto dell’umano. Il “pericolo supremo” di cui parla Heidegger non è pertanto relativo al fatto che il disvelato si presenti all’uomo esclusivamente come fondo da impiegare, ma che lo stesso uomo possa «essere preso solo più come “fondo”»92. L’uomo si autorappresenta, così, non soltanto come il “signore della terra” ma anche di se stesso, e si diffonde la convinzione che anch’egli sia – o, come vorrebbe Anders, possa aspirare a diventare – un artefatto tecnico. L’illusione post-umana per eccellenza è, nonostante l’accento posto sull’ibridazione con l’alterità, la stessa che già Heidegger denunciava: l’illusione «che l’uomo, dovunque, non incontri più altri che se stesso»93. Nella prospettiva postumanistica, infatti, l’uomo, inteso non già come singolo individuo, ma come Macantropo, come “funzione” umana, incontra ogni volta le proprie attitudini ibridative, ossia ciò a cui, di volta in volta, lo pro-voca la volontà di

Ledizioni, Milano 2012. Per la genealogia del concetto di simbionte in chiave relazionale, cfr. J. de Rosnay, L’homme symbiotique. Regards sur le troisième millénaire, Éditions du Seuil, Paris 1995. 91.  Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., pp. 15 ss. 92.  Ivi, p. 21. 93.  Ibidem.

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potenza tecnica e metamorfica del sistema. Di fronte a tale provocazione tecnica, l’uomo perde la sua essenza estatica, la sua costitutiva esposizione non-ibridativa all’alterità. Così Heidegger: In realtà […] proprio se stesso l’uomo di oggi non incontra più in alcun luogo; non incontra più, cioè, la propria essenza. L’uomo si conforma in modo così decisivo alla pro-vocazione che non la percepisce come un appello, non si accorge di essere lui stesso l’appellato e quindi si lascia sfuggire tutti i modi secondo i quali egli ek-siste nell’ambito di un appellare, per cui non può mai incontrare soltanto se stesso.94

L’uomo, cioè, non riesce a prendere distanza dalla tecnica95 e si disperde nel suo ambiente divenuto ormai sistema totale; nell’illusione di incontrare sempre e soltanto se stesso, egli, in effetti, non incontra altro che i propri simulacri tecnici, le estensioni artificiali delle proprie facoltà e le proiezioni dei propri desideri. L’ambiente tecnico è a tal punto necessario per l’uomo che egli non ne può più fare a meno. Appropriata appare, dunque, la caratterizzazione del rapporto uomotecnica come di un rapporto “simbiotico”96 in cui l’habitat tecnologico e l’uomo che in esso vive sono integralmente legati da una relazione di reciproca dipendenza, assimilazione e appagamento. Il costituirsi della tecnosfera come ambiente di vita simbiotico dell’uomo, da cui egli non riesce più a distanziarsi e in cui si esauriscono tutte le sue possibilità esistenziali, costituisce forse la più evidente testimonianza del superamento

94.  M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p. 21. 95.  È questo “prendere distanza” dalla tecnica che intende Heidegger con l’invito, espresso nella conferenza sulla Gelassenheit, a dire contemporanea­ mente di sì e di no alla tecnica: cfr. M. Heidegger, L’abbandono, cit. 96. Cfr. G.O. Longo, Il simbionte, cit.

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della concezione umanistica e antropocentrica della tecnica. Il carattere coniugativo e di eteroreferenza della tecnica, ampiamente rivendicato e comprovato dalle analisi postumanistiche, la sottrae definitivamente a ogni concezione strumentale, attribuendo, piuttosto, agli strumenti un carattere di alterità che genera sostanziali modifiche dei predicati umani e non soltanto effetti intenzionati dall’utilizzatore. In tale contesto, lo strumento agisce piuttosto come un virus che, inserendosi all’interno del metabolismo umano, lo modifica in modo permanente e lo mette a rischio, ma, al contempo, dischiude nuove possibilità evolutive97. Il postumanismo supera in particolare l’interpretazione antropocentrica della tecnica che si è andata delineando nella tradizione umanistica e postcartesiana secondo due direzioni concomitanti: una tendenza proiettiva dell’uomo sulla tecnica per distanziamento, secondo cui essa appare uno strumento neutrale e docile asservito alla progettualità umana e ai suoi fini; e una proiezione per analogia che vede la tecnica come istanza competitiva, tirannica e minacciosa, dotata di una sua propria progettualità e di suoi propri fini a cui tenterebbe di asservire l’uomo98. Entrambe queste interpretazioni antropocentriche sono frutto del pregiudizio disgiuntivo tipico dell’uma­nismo che si esplica nell’opposizione fondamentale di soggetto e og97.  In Tecnosfera Marchesini afferma che la «statura virale» della tecnica consiste «nell’infettare il corpo umano e portarlo a metamorfosi non sempre predittibili, anzi, il più delle volte capaci di dettare ex novo l’agenda dei passi successivi» (R. Marchesini, Tecnosfera, cit., p. 121). L’affermarsi di tale valenza infiltrativa della tecnica segna il definitivo distacco dalla sua concezione umanistica e risulta ancora più inquietante della minaccia di un utilizzo malvagio della tecnologica: «Ammettere un’intenzionalità implicita della techne, vale a dire l’apertura a nuovi contenuti, il suo essere congiunzione a nuovi piani di realtà, il proporsi attivamente nelle metamorfosi epistemologiche, è assai più disarmante» (ivi, p. 122). 98.  Cfr. R. Marchesini, Post-human, cit., p. 247.

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getto. In questa prospettiva, come fa notare Marchesini, l’uti­ lizzo della tecnica moderna si ricollega all’uso degli animali domestici che ha consentito uno dei più importanti salti evolutivi nella storia dell’umanità. La macchina a vapore è, in questo senso, lo strumento simbolo dell’assimilazione di teriosfera e tecnosfera. Il terrore che, a partire dalla Rivoluzione industriale, accompagna il diffondersi delle macchine a vapore e poi di quelle elettriche, e che arriva fino alle più inquietanti rappresentazioni artistiche del Moloch macchinico99, deriverebbe, infatti, dalle paure ancestrali che hanno accompagnato da sempre il rapporto tra uomo e animale: «Sono i fantasmi teriosferici, non completamente sopiti nell’uomo del Neolitico e ampiamente presenti nella tradizione culturale, che di colpo prendono forma sotto le spoglie macchiniche e spaventano a morte l’uomo»100. Il postumanismo, inoltre, svincolando la tecnogenesi dalla hybris prometeica dell’homo faber, ha anche contribuito a problematizzare lo stretto legame che buona parte della filosofia della tecnica del Novecento ha posto tra tecnica e modernità, privilegiando nella sua analisi i concetti di oggettività, dominio, sfruttamento, progresso e utopia101. Ciò che lega la tecnica alla tradizione moderna è, per il postumanismo, soprattutto l’interpretazione antropocentrica dei processi di tecno­genesi che, favorendo la personificazione e la reificazione della tecnica, hanno impedito di scorgere la coniugatività di uomo e tecnica intesa non come polarità dialettica, ma come ibrida99.  Emblematico è, in questo senso, il film espressionista di Fritz Lang, Metropolis, in cui il mostro macchinico della fabbrica sotterranea inghiotte letteralmente i malcapitati operai che tentano di arginare la carica distruttiva della sua potenza fuori controllo. 100.  R. Marchesini, Post-human, cit., p. 248. 101.  Cfr. M. Nacci, Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni, Laterza, Roma-Bari 2000.

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zione. L’autonomizzarsi degli strumenti e delle macchine, le cui conseguenze antropologiche Anders ha chiaramente intuito, afferma ancora una volta la preminenza del paradigma ermeneutico che ci ha fin qui guidato: la proteiforme capacità mimetica della tecnica penetra nell’antroposfera non come un’aggiunta o una semplice protesi migliorativa di una qualche facoltà cognitiva o funzione corporea dell’uomo, ma come apertura di nuove declinazioni bio-culturali a partire da cui l’intera architettura umana, nelle sue molteplici dimensioni, deve essere ridefinita. È grazie a tale proteiforme attitudine mimetica che gli strumenti e le macchine colonizzano e infiltrano l’umano e in tale processo determinano nuovi stili evolutivi e nuovi modelli ibridativi. Ancora Marchesini: L’uomo […] nel sentirsi il dominus dello strumento, il suo architetto, il suo padrone non sarebbe in grado di comprendere come lo strumento, entrando nell’antroposfera e acquisendo una sua filogenesi di significato e di operatività, tenderebbe a svincolarsi dal suo rigido dominio progettuale e predittivo, per dar vita a un processo evolutivo posto solo parzialmente sotto il controllo dell’uomo.102

Lungi dall’essere un potenziamento della sovranità del soggetto umano sul mondo e delle sue capacità di controllo pratico e cognitivo, la tecnica costituisce, nella prospettiva postuma­ nistica, la più potente forza di «eccentramento»103 e di spode-

102.  R. Marchesini, Post-human, cit., p. 250. 103.  Opponendosi alla concezione compensativa ed esonerativa della tecnica tipica della tradizione umanistica, secondo cui l’originaria posizione dell’uomo di eccentramento rispetto al mondo viene colmata dalla tecnica e dalla cultura, Marchesini afferma: «È la tecnica che produce eccentramento, non la condizione ab-origine che produce la tecnica. Ogni tecnopoiesi allontana l’essere umano dal suo centro gravitazionale, rendendolo sempre più instabile e sempre più eccentrato» (R. Marchesini, Alterità, cit., p. 184).

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stamento dell’uomo rispetto alla centralità operativa e metrica plasticamente rappresentata dall’uomo vitruviano di Leonardo104. Il carattere di dominio della tecnica – laddove quest’ultimo genitivo va inteso sia in senso soggettivo che oggettivo –, che abbiamo visto essere una costante interpretativa della filosofia classica della tecnica, da Spengler a Heidegger, viene qui radicalmente superato nel momento in cui vengono contestati i principi fondamentali della comprensione umanistico-­ moderna della tecnica e, in particolare, del suo rapporto con il corpo, fulcro di ogni processo di tecnopoiesi105: l’impermeabilità a cui si contrappone la capacità infiltrativa della tecnopoiesi che si esplica come metamorfosi somatica; l’emanazione, ossia l’essere la tecnica frutto di un’ideazione diretta e spontanea dei predicati umani, a cui si oppone una visione della tecno­ poiesi come processo dialogico immersivo in cui, invece, i predicati umani vengono destrutturati e rideclinati106; l’autarchia che indica che il processo tecnopoietico è frutto di un atteg104.  «Quell’immagine iconica è il simbolo della dottrina dell’Umanesimo, che interpreta il potenziamento delle capacità umane biologiche, razionali e morali alla luce del concetto di progresso razionale, orientato teleologicamente. La fede nei poteri unici, autoregolatori e intrinsecamente morali della ragione umana rappresenta parte integrante di questa dottrina ultraumanista, diffusasi soprattutto nel XVIII e XIX secolo tramite le reinterpretazioni dell’antichità classica e degli ideali del Rinascimento italiano» (R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 21). 105.  Cfr. R. Marchesini, Tecnosfera, cit., pp. 99 ss. 106.  «La tecno-poiesi non è l’espressione dei predicati umani ma la metamorfosi di questi» (ivi, p. 102). Ogni prodotto tecnico – come già aveva intuito Ellul – ha la capacità di retroagire sul sistema da cui viene generato e di influenzare le modalità dei successivi processi tecno-poietici. Rispetto al paradigma moderno-umanistico della tecnica come dominio del soggetto, Marchesini sembra operare una sorta di ribaltamento per cui all’attività dell’homo faber si contrappone la passività del soggetto decentrato dell’apparato tecno-poietico: «Più che un’emanazione, la tecno-poiesi ricorda una possessione oppure un superamento della propria dimensione, è subita più che espressa» (ivi, p. 101). Ma il mero ribaltamento speculare-dialettico

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giamento di ripiegamento solipsistico dell’uomo progettante prometeicamente a partire da un interio­re intento ideativo, viene sostituita dall’emergere di una diversa modalità di relazionarsi con il mondo esterno che ora reclama un ruolo attivo nel processo stesso107; la prevedibilità della progettazione tecnica, che viene messa in crisi soprattutto dallo sviluppo delle tecnologie informatiche e delle biotecnologie in cui è sempre più frequente una discrepanza tra l’atto ideativo e il risultato della tecno-­poiesi108; la disponibilità, secondo cui è sempre l’uomo che decide se e come utilizzare una certa tecnologia,

non supera i presupposti teorici che legano in un unico orizzonte di senso l’azione, la reazione e la retroazione. 107.  Con linguaggio preso a prestito dalla prassi informatica, Marchesini parla di modificazione dell’“interfaccia” dell’essere umano con la realtà esterna: «Il vero significato della techne […] non si esplicita nell’accrescere il controllo dell’essere umano, ma nell’allargare l’interfaccia dell’esistere» (ivi, p. 107). 108.  La prestazione funzionale viene a essere definita soltanto a posteriori e non corrisponde necessariamente con l’intento ideativo. Il concetto darwi­niano di adattamento viene sostituito, pertanto, dal nuovo concetto di ex-aptation, secondo cui è lo strumento tecnico, così come l’organo generatosi secondo il processo evolutivo, a rendersi disponibile in modo contingente ed esercitare una determinata funzione in modo del tutto imprevedibile all’ini­zio del processo tecno-poietico: cfr. S.J. Gould - E.S. Vrba, Exaptation. Il bricolage dell’evoluzione (1982), tr. it. di C. Ceci, a cura di T. Pievani, Bollati Boringhieri, Torino 2008. Risulta dunque determinante, nella prospettiva postumanistica, la dimensione dell’alea, del caso e della contingenza che viene, in effetti, utilizzata in senso anti-umanistico come deterrente rispetto a qualsiasi rivendicazione di dominio della o sulla tecnica. Non ci soffermiamo qui sulle devastanti conseguenze di tipo etico che derivano dall’esaltazione di tale dimensione, in considerazione anche del fatto che alla tramontata etica umanistica del soggetto moderno e illuministico di matrice kantiana, il postumanismo non si cura di sostituire alcuna nuova proposta etica. Su tale decisivo tema che, tuttavia, non può qui essere sviluppato, cfr. M. Fimiani - V. Gessa Kurotschka, - E. Pulcini (a cura di), Umano, post-umano. Potere, sapere, etica nell’età globale, Editori Riuniti, Roma 2004.

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costituisce forse la più grande illusione umanistica nei confronti della tecnica. È, infatti, proprio la constatazione della “sovranità limitata”109 nei confronti dell’utilizzo delle tecnologie che spodesta l’uomo in modo ineluttabile dalla sua posizione di padrone della tecnica, inaugurando una prassi operativa in cui la facoltà decisionale e il controllo dell’uomo sono coinvolti e trasformati nello stesso processo tecno-poietico e nell’utilizzo degli strumenti110. Tale concezione postumanistica della tecnica non soltanto, dunque, confuta la pretesa del soggetto moderno di una piena titolarità sull’universo tecnico, ma consegna l’umano alla più indefinita virtualità, dispiegando il campo pressoché illimitato delle sue possibili declinazioni identitarie e funzionali. Ciò che ne risulta è un essere in continua metamorfosi, plasmato attraverso molteplici processi di interferenza e ibridazione111. Nell’affermarsi delle tecnologie contemporanee, che mettono radicalmente in questione i predicati umani tradizionali, si compie un vero e proprio disvelamento della tecnica. Essa abbandona i caratteri strumentali, ergonomici, compensativi e disgiuntivi112, per rivelarsi nella sua essenza di dominio sulla metabolé: se, infatti, viene meno la sua capacità predittiva 109.  «Perdere sovranità significa allontanarsi dal centro di gravitazione filogenetico e sentirsi in un certo senso stranieri all’interno della propria patria somatica, sempre dissociati e vulnerabili, compresi in equilibri precari che hanno poco da spartire con quelle coordinate affettive che tuttora caratterizzano l’umano» (R. Marchesini, Tecnosfera, cit., p. 107). 110.  Ogni tecno-poiesi inaugura «tempistiche di utilizzo, sancendo nuove dimensioni temporali, nuove ritmiche, differenti concezioni dell’età della vita e della concezione stessa di passato, presente e futuro» (ivi, p. 103). 111.  La tecnica trasforma la funzionalità dei predicati umani e al contempo pone nuove finalità a tali funzioni: «La techne interviene su tutta l’ontologia umana metamorfizzando non solo i predicati ma altresì introducendo nuovi fini» (R. Marchesini, Alterità, cit., p. 185). 112.  Cfr. R. Marchesini, Tecnosfera, cit., pp. 181-209.

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e regolatrice in senso progettuale, emerge in modo sempre più evidente – come abbiamo già mostrato113 –, la sua potenza come principio regolatore della metabolé e in particolare della metabolé che inerisce al vivente umano: la techne si fa «regolatrice del metabolismo umano»114. Caratteristica precipua di tale regolazione tecnica è, tuttavia, la sua costitutiva tendenza a frammentare e dissociare le funzioni metaboliche; la disarticolazione somatica generata dalla tecnica115, nella sua potenza infiltrativa116, solo apparentemente può essere accostata al concetto classico di riduzionismo scientifico, la cui incapacità di comprensione dei fenomeni della vita già Schopenhauer aveva criticato117. Essa piuttosto indica, come le più recenti tecnologie della realtà aumentata e virtuale dimostrano, nella direzione di una complessa ricombinazione tra predicati umani e funzionalità tecniche che prelude a «inusitati assemblaggi»118 bio-tecnologici.

4. Carenza o esuberanza? A differenza della convinzione tradizionale per cui l’affermarsi sempre più pervasivo delle tecnologie nella nostra esisten-

113. Cfr. supra, cap. I, § 5. 114.  R. Marchesini, Tecnosfera, cit., p. 105. 115.  Ritorna qui il carattere dionisiaco della tecnica che abbiamo già sottolineato: cfr. supra, p. 116, nota 77. 116.  Il «panico smembrarsi sotto i colpi del macellatore macchinico» (ivi, p. 106) che Marchesini collega a una nuova estetica del sublime tecnologico: cfr. R. Marchesini, Estetica postumanista, Meltemi, Milano 2019, pp. 215-258. 117.  A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 265 ss. 118.  R. Marchesini, Tecnosfera, cit., p. 107.

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za produce il predominio dell’elemento artificiale su quello biologico-­naturale – da qui il diffuso desiderio di recuperare una dimensione biologica pura119 –, nella prospettiva postuma­ nistica delineata da Marchesini prevale l’idea di una sorta di crescente indistinzione tra l’organico del bios e l’inorganico della tecnica che tendono a sempre più stretti rapporti di coniugazione reciproca. La tecnica, in particolare, non è più vissuta come elevazione ed emancipazione dalla dimensione limitata e limitante del soma che, da Platone in poi, ha costituito l’ancoraggio corporeo a ciò che è materialmente definito e vincola ogni forma di vita (ogni bios) all’imperativo elementare della mera zoé120. La tecnica, al contrario, nella sua estensione postumanistica colonizza il soma instaurando progressivamente ordini funzionali e strutture operative che non sono più né del tutto naturali né del tutto artificiali, in quanto infiltrano come “parassiti creativi” il tessuto vivente, eccedendo, quindi, la mera funzionalità protesica. La visione umanistica e platonizzante di matrice pichiana della tecnica come mezzo di progressiva elevazione dell’uomo alla purezza incorporea delle creature angeliche non viene – come crede Marchesini – del tutto confutata, in quanto permane anche nella prospettiva postuma­nistica il carattere mimetico-metamorfico della tecnica, anche se adesso la metamorfosi avviene attraverso e dentro il corpo stesso, e non al suo esterno come processo di elevazione morale o sentimentale.

119.  Questo nostalgico appellarsi alla naturalità come a un paradiso perduto, tipico della sottile propaganda del sistema tecnico, costituisce il bersaglio polemico delle riflessioni di Gernot Böhme sulla natura: cfr. soprattutto G. Böhme, Natürlich Natur. Über Natur im Zeitalter ihrer technischen Reproduzierbarkeit, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1992. 120.  Sul rapporto tra nuda vita (zoé) e forme di vita (bios) nella prospettiva di una decostruzione del paradigma politico occidentale, cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995.

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Se, dunque, nell’orizzonte postumanistico non esiste una tecnologia disincarnata – «ogni tecnologia si nutre di carne»121 –, il carattere principale della coniugazione bio-tecnologica non è più quello della compensazione di carenze biologiche o della sostituzione e dell’esonero somatico122, come aveva teorizzato Gehlen123, ma quello di una singolare proliferazione di inaudite possibilità metamorfiche, fino a delineare una vera e propria “esuberanza ontologica” della tecno-poiesi che sta a fondamento della fascinazione e al tempo stesso del timore che la tecnica da sempre suscita124. Etimologicamente l’esuberanza rimanda all’idea di una vitalità traboccante e, nel nostro caso, di una sovrabbondanza di possibilità di declinazioni

121.  R. Marchesini, Tecnosfera, cit., p. 109. 122.  La tecnica non è esonerativa in quanto, nella prospettiva postumanistica, rende l’uomo carente di mondo, ossia di eteroreferenze ibridative e non lo compensa di carenze a priori: declinando l’uomo sull’altro non-umano gli sottrae l’illusione di disgiunzione e autarchia. 123.  Cfr. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1950), tr. it. di C. Mainoldi, Feltrinelli, Milano 1983. Così si esprime Marchesini nei confronti della visione gehleniana neoumanistica della tecnica che egli definisce compensativa, esonerativa e distanziativa: «Il neoumanismo gehleniano ripropone, con palese incongruenza rispetto alla ricerca biologica postdarwiniana, quell’idea di essere umano incompleto e parziale, privo di rango, che era stata posta come base del divenire autopoietico dagli umanisti. L’operazione di Gehlen è tesa a organizzare, intorno a una dissertazione antropologica profondamente umanistica, una lettura della techne conseguente e coerente, portando alle estreme conseguenze paradigmatiche la lettura compensativa ed esonerativa dello strumento. Il suo lavoro rappresenta ancor oggi uno degli esempi più completi e profondi di applicazione dell’umanismo alla tecnica» (R. Marchesini, Tecnosfera, cit., pp. 165-166). 124.  Marchesini collega l’esuberanza ontologica al sentimento del sublime: «L’esuberanza, nota comune che accompagna l’emergenza tecno-poietica, ricorda quello stato di vertigine e di eccitazione riconducibile alla sensazione del sublime, che puntualmente s’impossessa dell’essere umano allorché si trovi alle soglie della magnificenza, del non pienamente controllabile, di ciò che sfugge alle categorie consolidate (ivi, p. 110).

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ontologiche e antropiche; tuttavia, nel termine “esuberanza” è insito anche un decisivo riferimento all’eccedere e all’oltrepassare una certa soglia contenitiva attraverso una proiezione in un ambito esistenziale del tutto sconosciuto perché frutto di ibridazioni e contaminazioni imprevedibili. L’eccedere dell’esuberanza tecnologica, reso possibile, come vedremo, dal contingente convergere di proiezione umana ed epifania non-umana, costituisce la forma tipicamente transumanistica dell’estasi esistenziale, ovvero dell’esistenza come estasi125. Una sottile soglia semantica separa questi due concetti: se l’estasi dell’ek-sistere è intesa – almeno negli autori che seguono la genealogia heideggeriana del concetto di esistenza – come radicale improprietà ed esposizione all’alterità che abita, attraversa e inquieta il singolo esistente, l’esuberanza collegata all’emergenza tecnologica si realizza in primo luogo come invenzione di nuovi spazi di sperimentazione somatica, di finzione e di gioco metamorfico. L’esuberanza è intesa soprattutto come sospensione di assetti funzionali e strutturazioni filo- e ontogenetiche e come non-equilibrio che innesca inedite dinamiche di ibridazione. L’ambito delle metamorfosi tecniche è sempre primariamente quello somatico e il sintomo principale del loro aver luogo è la disseminazione e la disarticolazione organica: più che un trionfo dell’inorganico, come voleva Gehlen, si può affermare, a tal proposito, che è il “dis-­organico” ad avere il predominio, per cui vengono spazzati via i tabù somatici di ogni tipo e gli organi si «sciolgono per consentire ai tessuti articolazioni virtuali»126.

125.  Sull’esuberanza e sul suo rapporto con il teriomorfismo e con l’epifania animale, cfr. ivi, pp. 135-138. 126.  Ivi, p. 111. Tale destrutturazione del corpo era già stata teorizzata dalla teoria deleuziana del “corpo senza organi” che costituisce il presupposto fondamentale per la concezione postumanista della vita. Sul rapporto tra il postumanismo e Deleuze, cfr. soprattutto C. Negri, Deleuze e il postumano,

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La disintegrazione dell’organicità del corpo e dell’intero sistema tecnico determina una scompaginazione e fluidificazione delle funzioni e delle strutture precedentemente stabilizzatesi. Tale processo di fluidificazione al contempo somatica e ontologico-epistemologica costituisce una sorta di improvvisa iniezione di energia potenziale che rende il corpo – così come il sistema – malleabile e disponibile a nuovi processi morfopoietici e ibridativi. Ancora una volta, dunque, la tecnica non si rivela essere potenza prometeica di progettazione e guida del cambiamento, né di potenziamento di predicati e attitudini già esistenti127, ma condizione di virtualità metamorfica, potencit. Negri, tuttavia, rivendica all’ontologia deleuziana della Differenza un ruolo di resistenza e di critica nei confronti del post-umano. Egli sostiene, infatti, che «lungi dal rappresentare una filiazione diretta della riflessione deleuziana, il postumanesimo se ne discosta radicalmente (pur utilizzando filosofemi di chiara matrice deleuziana e attingendo al bacino del suo antiumanismo) a causa dell’incapacità di render conto proprio di ciò a cui Deleuze dedica il suo filosofare, ovvero l’affermazione della Differenza. […] Se il nostro presente (come presente-futuro) è il postumano, riteniamo che il pensare deleuziano possa fornire degli utili strumenti di resistenza (ovvero di critica e clinica) a questo presente, per aprirci ad un a-venire imprevisto» (ivi, p. 147). Per un’analisi della nuova antropologia dell’artificiale e del ruolo centrale della categoria di metamorfosi nell’epoca del post-umano, cfr. U. Fadini, Principio metamorfosi. Verso un’antropologia dell’artificiale, Mimesis, Milano 1999. 127.  Con l’etichetta di Human Enhancement (potenziamento umano) si tende a indicare un versante di ricerca particolarmente fecondo e controverso della galassia del post-umano che rientra nel filone del transumanismo; esso caratterizza tutte le applicazioni non propriamente terapeutiche di specifiche tecnologie – neurotecnologie, tecniche geniche, nanotecnologie, ecc. – rivolte a superare i limiti corporei e cognitivi dell’uomo e a selezionare o modificare attitudini umane e altre caratteristiche fenotipiche al fine di potenziare le prestazioni biologiche, psicologiche e cognitive della specie umana. In quanto profondamente antropocentrico, il transumanismo può essere considerato una forma di iperumanismo, nel senso di una intensificazione tecnologica dell’umanismo classico: cfr. C. Wolfe, What is Posthumanism?, cit. Per una ricognizione in ambito italiano del dibattito filosofico e bioetico

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za elementare e proteiforme, innesco di derive decostruttive e nomadiche in cui le componenti antropiche vengono dissociate e riassemblate in modo sperimentale. Il ruolo esonerativo della tecnologia non è più, dunque, quello principale: la tecnica non dispensa l’organo, ma ne modifica e amplia l’assetto funzionale ricollocandolo in strutture e sistemi organizzativi determinati dai risultati contingenti dei processi tecno-poietici. La tecnica, pertanto, dischiude una molteplicità inusitata di declinazioni funzionali in cui l’unità di tipo organico viene sostituita dall’organizzazione magmatica del sistema tecnico. In questo carattere emancipatorio consiste la vera libertà della tecnica da cui deriva la sua stessa esuberanza: L’esuberanza è […] un vero e proprio svincolo che consente a ogni elemento di seguire una molteplicità di strade funzionali. Se il processo filogenetico impone precise congiunzioni adattative ai singoli organi somatici, la tecno-poiesi li svincola, inaugurando nuove correlazioni tecno-mediate. La techne perciò disseziona il corpo, libera le sue componenti. L’esuberanza è pertanto il risultato di questo effetto svincolativo.128

su tale filone di ricerca cfr. F. Giglio, Human Enhancement. Status quaestionis, implicazioni etiche e dignità della persona, Meudon, Portogruaro (VE) 2014; S. Kampowski - D. Moltisanti (a cura di), Migliorare l’uomo? La sfida dell’enhancement, Cantagalli, Siena 2011; L. Palazzani, Verso la salute perfetta. Enhancement tra bioetica e biodiritto, Studium, Brescia 2014; M. Sandel, Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica, Vita e Pensiero, Milano 2008. Per il transumanismo la tecnica assume, peraltro, uno spiccato valore soteriologico: essa ha il compito di «salvare l’essere umano da una dannazione e cattività individuabile nella sua finitudine e nella declinazione filogenetica ossia all’interno di un preciso range di potenzialità performative» (R. Marchesini, Alterità, cit., p. 166). 128.  Ivi, p. 115. Discende da qui una visione “mutante” e “liquida” della corporeità che apre alle più svariate declinazioni tecniche e ibridazioni e mette radicalmente in discussione ogni tradizionale concetto di identità: «La techne […], proprio nella sua continua e implicita metamorfosi, apre al corpo sezionato un universo magmatico declinativo. Parliamo di un’apertura

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In quanto attività di libera ricombinazione di elementi precedentemente dissociati e di creativa sperimentazione di funzioni e proprietà, il gioco è il tratto esistenziale che più di ogni altro si lega all’esuberanza tecno-poietica. Caratteristica precipua delle cure parentali dei mammiferi, il gioco, infatti, trova nella techne un terreno di coltura particolarmente fertile in quanto ambito di indefinita mutazione metamorfica che, tuttavia, produce esiti funzionali relativamente stabili e regolati. Dal pais paizon eracliteo, fino al fanciullo nietzscheano delle Tre metamorfosi dello Zarathustra, il gioco diviene l’emblema non soltanto della trasformazione antropologica che si compie nel sistema tecnico e della connessa riduzione dell’esistenza a un’eterna condizione prepuberale, ma di un più generale affermarsi di stili sperimentali di vita e della concezione della vita stessa come perenne atto metamorfico aperto a infiniti processi di contaminazione e meticciamento129.

di spazi declinativi che consentono al corpo di sperimentarsi, rendendosi non solo mutato ma costituzionalmente mutante. La tecno-poiesi proietta il corpo in una dimensione liquida che rende possibili continue sperimentazioni, liberandone il potenziale di animalità e non riducendolo, come ordinariamente si crede» (ivi, p. 115). L’animalizzazione che Marchesini qui associa al processo tecno-poietico è da intendersi come liquefazione dei predicati filogenetici e disponibilità metamorfica. La tecno-poiesi, in altre parole, animalizza l’uomo, in quanto scioglie i vincoli predicativi, morfologici ed espressivi che lo legano a una particolare specie filogeneticamente determinata, e lo rende libero di assumere nuove forme attraverso processi di contaminazione con le altre specie animali e con la tecnosfera. 129.  «La techne libera il gioco e quest’ultimo mescola le carte onto-­poietiche costruendo nuove emergenze e nuovi accostamenti, ma all’insegna della transitorietà e della magmaticità» (R. Marchesini, Tecnosfera, cit., p. 120). Il gioco come luogo della sperimentazione e della contaminazione metamorfica si differenzia, pertanto, nettamente dalla concezione del gioco come categoria fondamentale dell’umano nella sua dimensione simbolica e cosmica per come è stata descritta da Eugen Fink. Cfr. soprattutto E. Fink, Il gioco come simbolo del mondo (1960), tr. it. di N. Antuono, Hopefulmonster, Firenze

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5. Desiderio ed epifania Se, pertanto, il fascino della tecnica nella prospettiva postuma­ nistica consiste nella sublime ambivalenza di esuberanza e precarietà, espansione ludica e angoscia di eradicamento, proiezione eteromorfa e senso di precarietà e dispersione, il suo senso metafisico più radicale va ricercato, a mio avviso, in una certa genealogia del desiderio che si origina in Spinoza, attraversa Schopenhauer e trova la sua più ampia teorizzazione nella filosofia deleuziana e post-deleuziana130. La tecnicizzazione del desiderio, lungi dal determinarne l’estinzione schiacciandolo sul consumo compulsivo e perennemente insoddisfatto, rivela, piuttosto, uno dei caratteri fondamentali dell’essenza metamorfica della tecnica così come viene pensata dal postuma­nismo. La tecnica postumana mira a realizzare l’eccellenza del desiderio, nel senso che tende a depurarlo delle scorie della malinconia e della noia che secondo la classica interpretazione romantica, e in particolare di Schopenhauer, gli sono connaturate. Così come l’ungeheuere Augenblick nietzscheano ferma il divenire in quanto ne ritrae l’eccellenza, allo stesso modo la tecnica vorrebbe fermare il flusso caotico e incessante del desiderare, consegnandolo alla dimensione assoluta del godimento. Essa, infatti, afferma

1991, e Id., Per gioco. Saggi di antropologia filosofica, tr. it. di G.J. Giubilato e A. Fiamma, riv. da V. Cesarone, Morcelliana, Brescia 2016. 130.  Per un’ampia ricognizione filosofica del tema del desiderio, cfr. C. Ciancio (a cura di), Metafisica del desiderio, Vita e Pensiero, Milano 2003, e G. D’Abbiero, Desiderio e filosofia, Guerini, Milano 2003; su Spinoza, cfr. S. Sportelli, Potenza e desiderio nella filosofia di Spinoza, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995; su Schopenhauer, cfr. G. Riconda, Il tema del desiderio in Schopenhauer, in C. Ciancio (a cura di), Metafisica del desiderio, cit., pp. 225-242. Sulla filosofia del desiderio in ambito psicoanalitico con particolare riferimento a Gilles Deleuze, cfr. F. Vandoni - E. Redaelli - P. Pitasi (a cura di), Legge, desiderio, capitalismo. L’Anti-Edipo tra Lacan e Deleuze, Bruno Mondadori, Milano 2014.

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l’immediatezza del desiderio131 e tende ad abolire lo spazio e il tempo che si interpongono tra il desiderare e il suo soddisfacimento con l’intento di purificare il desiderio dal suo lato oscuro, cioè dal tormento dell’attesa, dalla vertigine della nausea e della noia che subentrano alla sua soddisfazione. Le tecnologie del desiderio – e nel nostro tempo non c’è tecnica che non sia in qualche modo legata ad esso – riconducono, da un punto di vista psicoanalitico, il principio di realtà al principio di piacere, ripristinando, come osserva Galimberti, sia a livello mitico che biologico una sorta di infanzia dell’uomo132. La tendenza a superare le distanze spazio-temporali è, peraltro, insita in ogni processo tecnico e corrisponde all’anelito ancestrale dell’uomo alla compresenza e alla contemporaneità che l’universo delle fiabe e delle saghe mitologiche mette in scena in ogni tradizione culturale. Tuttavia, l’assolutizzazione dei mezzi e il dissolversi di ogni prospettiva teleologica, che abbiamo visto caratterizzare l’oriz­

131.  Secondo Anders la tecnica tende a sopprimere la durata in quanto ostacolo dell’immediata soddisfazione del desiderio; il suo imperativo sarebbe «lasciarsi il più rapidamente possibile qualcosa alle spalle perché tutto, in quanto dura, dura troppo e per questo motivo è qualcosa che ruba tempo, dunque qualcosa di negativo» (G. Anders, L’uomo è antiquato. II, cit., p. 324). L’homo technologicus tenta di ridurre il tempo a un minimum per inseguire il sogno infantile dell’immediato godimento; «farà ogni cosa come nel paese della Cuccagna, cioè senza mediazione, cioè senza più aver bisogno di gettare un ponte di tempo tra desiderio e appagamento e senza che la somma delle sue attività abbia ancora una qualche durata» (ibidem). Ma la soppressione tecnica della durata e il conseguente abbreviarsi delle nostre azioni spalanca l’horror vacui di un tempo risparmiato che va colmato con attività il più possibile attraenti e coinvolgenti (le attività del tempo libero, i “passatempi”), che, a loro volta, vanno effettuate il più rapidamente possibile, in modo che si afferma un pointillisme del vivere, «una esistenza cui viene a mancare ogni continuità, perché è composta di manifestazioni che rinascono a ogni momento e non durano più di un attimo» (ibidem). 132.  Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne, cit., p. 665.

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zonte tecnico, rendono impossibile la realizzazione di tale sogno ancestrale e consegnano l’uomo alla vaghezza di quella dimensione limbica che Heidegger ha caratterizzato attraverso il concetto di abstandlos, il senza-distanza e senza-distacco133, in cui non è più possibile fare esperienza né della vicinanza né della lontananza. Nell’essenza della tecnica, dunque, è insita la negazione di ogni “prossimità”: essa può solo accorciare le distanze ma non conduce alla prossimità, poiché l’essenza della tecnica per principio non concede prossimità e lontananza. La declinazione specificamente tecnica del desiderio deve, dunque, essere compresa a partire dalla dimensione confusiva e indefinita della Abstandlosigkeit, in cui non emerge alcuna prossimità intesa come rapporto con l’altro: tutto è appiattito in un’indistinta omogeneità e contiguità metamorfica, per cui il desiderio diviene espressione di una disponibilità proteiforme all’ibridazione più che di un’autentica mancanza. L’incontro con la presunta alterità, nella dimensione tipica del sistema tecnico del senza-distanza e del senza-distacco, assume, dunque, la forma di una proiezione metamorfica: Nel momento in cui incontra un’alterità, l’umano si proietta in lei attraverso il desiderio, cosicché l’incontro non è mai un evento estraneo e distaccato, ma diventa una sorta di rivelazione. La natura epifanica dell’incontro porta il sistema umano ad aprirsi al contributo esterno, da qui il senso di carenza che tuttavia non è a priori e non riguarda il bisogno effettivo, ma è l’esito di una proiezione desiderante.134

133.  Cfr. M. Heidegger, La cosa, cit. 134.  R. Marchesini, Tecnosfera, cit., p. 96. Secondo Marchesini – che così interpreta una tendenza comune a tutto il postumanismo – è tale proiezione desiderante che rende il “sistema uomo” eccentrico, instabile e cositutivamente bisognoso di apporti esterni. La “carenza” umana dipende, dunque, da questo proiettarsi desiderante verso l’altro che, tuttavia, avviene sempre nell’orizzonte della totale immanenza della Abstandlosigkeit e nei confini delle ricombinazioni metamorfiche della tecnosfera e della teriosfera: «Non

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L’uomo, dunque, si fa carente a partire dal desiderio mimetico e metamorfico che lo proietta nell’indistinta alterità dell’Abstandlosigkeit; il bisogno di alterità non è insito nell’umano, ma è un effetto dell’esuberanza desiderante inaugurata dal processo tecno-poietico. Il desiderio, in altri termini, desta nell’uomo la sua disponibilità alla metamorfosi e all’ibridazione, consegnandolo all’alea dell’incontro epifanico. Il concetto di epifania utilizzato da Marchesini per indicare il manifestarsi dell’alterità sia tecnica che animale135 va, dunque, compreso nel senso di una improvvisa “virtualizzazione” del presente che lo svincola dal passato proiettandolo in modo inatteso e incontrollato nel futuro. In questo utilizzo risuona il termine greco epiphaneia; esso indicava l’apparizione improvvisa e l’intervento imprevisto della divinità nelle vicende umane che aveva come effetto la meraviglia e il timore (il thauma), ma anche l’apertura di possibilità inaudite, come accade nell’esperienza panica del meriggio. L’apparizione epifanica rende l’uomo più potente, perché dinamicamente proiettato in una molteplicità di possibilità metamorfiche fino ad allora inaccessibili, ma al contempo anche più fragile, in quanto attraverso l’esposizione epifanica egli si scopre decentrato, dipendente e “infiltrato” dall’alterità. A differenza delle annunciazioni religiose, le epifanie della tecnomorfe e teriomorfe non hanno alcun contenuto etico, si tratta perciò di una carenza imputabile allo scarso equipaggiamento somatico dell’uomo, ma l’esito di una sorta di colpo-di-fulmine che nell’incontro con l’alterità apre la strada al desiderio di raggiungere nuove dimensioni esistenziali» (ivi, p. 96). 135.  Cfr. R. Marchesini, L’oltreuomo come rivelazione, Mimesis, MilanoUdine 2014. Nell’eterospecifico, secondo Marchesini, l’essere umano si rivede e si proietta, ma così facendo accede a una dimensione esistenziale che non gli appartiene e lo decentra. Il farsi animale dismette la veste di regressione nell’ancestrale per farsi volano di antropopoiesi, ossia di predicati che, non presenti nel retaggio biologico di Homo sapiens, lo trasformano in un sistema in divenire aperto a qualunque contaminazione.

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non sono appelli rivolti alla coscienza, né ingiunzioni sulla necessità di mutare radicalmente la conduzione della propria esistenza136; esse non indicano nemmeno varchi trascendenti, quand’anche di una trascendenza immanente che si rivolga ad ambiti interiori di resistenza e di elusione. Le epifanie tecniche e animali sospendono le coordinate ontologiche, epistemologiche, etiche ed estetiche vigenti dell’umano senza prospettarne di nuove, ma limitandosi ad aprire lo spazio anodino del naufragio, della perdita del controllo e di un indefinito nomadismo esistenziale. Tale concetto di epifania, peraltro, può essere inteso come la negazione del concetto di “fenomeno” così per come viene espresso da Heidegger nel celebre settimo paragrafo di Essere e tempo in cui egli delinea la propria interpretazione del metodo fenomenologico. Heidegger scrive: «Bisogna […] tener ben fermo il seguente significato dell’espressione “fenomeno”: ciò che si mostra in se stesso, il manifesto. I phainomena, i “fenomeni”, costituiscono dunque l’insieme di ciò che è alla luce del giorno o può essere portato in luce, ciò che i Greci a volte identificano senz’altro con ta onta (l’ente)»137. Più avanti, inoltre, Heidegger attribuisce a tale modalità originariamente greca di concepire l’entità degli enti come “fenomenalità” un particolare ed «eccellente» (aus-gezeichnet) carattere di incontro (Begegnisart), che si differenzia da quello tipico della mera apparenza, cioè di ciò che si limita a rimandare al fenomeno: «Il fenomeno, ciò che si mostra in se stesso, sta a significare un modo particolare di incontrare qualcosa. Invece apparenza significa un rapporto di riferimento nell’ente stesso, tale che il riferente (l’annunciante) è in grado di assolvere la sua funzio136.  Questo è, invece, secondo Pierre Hadot, l’appello fondamentale che proviene dall’esperienza antica della filosofia: cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica (1981), tr. it. di A.M. Marietti e A. Taglia, Einaudi, Torino 2005. 137.  M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 47-48 (tr. mod.).

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ne possibile solo se si mostra in se stesso, se è “fenomeno”»138. Soltanto il fenomeno, ossia l’ente che si mostra da sé e che non rimanda ad altro che al processo aletheiologico del suo venire a manifestazione, può davvero incontrare l’uomo. La potenza metamorfica della tecnica costituisce la negazione di tale possibilità fenomenologica di incontro con le “cose stesse” in quanto ogni manifestazione, ogni “epifania”, è il risultato di una proiezione ibridativa: «La techne è perciò la capacità di trasformare un fenomeno in un’epifania, di lasciarsi possedere dal fenomeno e parimenti di esplodere in esso»139. Non si tratta qui di sostenere una posizione essenzialista o dicotomica, che lo stesso Heidegger decostruisce radicalmente, ma di sottolineare la potenza dissolvente della tecnica di ogni possibilità di incontro con l’alterità e di accesso all’orizzonte fenomenico: il postumanismo, in altri termini, rivelerebbe il carattere essenzialmente anti-fenomenologico della tecnica. Potremmo anche dire che le dinamiche tecno-­poietiche si limitano alla dimensione epifenomenica, senza accedere all’orizzonte propriamente fenomenico, in quanto determinano le condizioni di possibilità dell’esperienza, a partire dalla riduzione della differenza ontologica a mera mutabilità epistemica e metamorfosi ontica: l’abissalità del senza-fondamento, che Heidegger e buona parte della filosofia novecentesca dell’esistenza hanno pensato come gettatezza (Geworfenheit), prende la forma di un’indefinita transitività morfologica in cui la perdita dell’origine viene compensata dai processi tecno-­poietici di incessante e irreversibile alterazione140. L’epi­fania, dunque, non riguarda il fenomeno in sé, ma l’attitudine ibridativa che 138.  Ivi, p. 50 (tr. mod.). 139.  R. Marchesini, Tecnosfera, cit., pp. 127-128. 140.  «L’epifania è una vera e propria tempesta capace di introdurre il nuovo come non-procrastinabile e irreversibile» (R. Marchesini, Tecnosfera, cit., p. 128). L’infrazione epifanica, tuttavia, non conduce all’acquietarsi della

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esso possiede nei confronti dell’uomo che si rapporta ad esso. In particolare, l’epifania postumana implica sempre un’azione emancipativa e trasgressiva141 rispetto ai canoni e alle coor­ dinate che essa stessa introduce, secondo quel paradigma di autosuperamento che abbiamo visto essere tipico delle dinamiche interne del sistema tecnico: L’epifania è […] capacità di trascendere il suo-proprio, il suo essere mero fenomeno ben circoscrivibile all’interno di una dimensione performativa, ma al contrario: di inaugurare una cascata di effetti sul sistema, di evolversi a sua volta in differenti scansioni funzionali, di aprire spazi onto-poietici non impliciti a priori. […] L’epifania infrange l’orizzonte spaziale e la sequenza temporale, crea un clima di attesa e d’incanto, nel suo essere aurorale, nel prospettare cioè un mondo nuovo in divenire, nel creare una situazione di fluidità nelle diverse predicazioni onto-poietiche.142

dinamicità metamorfica, ma, al contrario, produce uno stato permanente di disorientamento e turbamento: cfr. ivi, pp. 130-132. 141.  L’atto tecno-poietico è sempre associato a un senso di colpa, in quanto assume i caratteri di un peccato di hybris a cui minaccia di seguire una punizione: «la tecno-poiesi ricorda sempre l’atto di eludere una legge e di offendere un legislatore che prima o poi si vendicherà. Non c’è tecno-poiesi senza un correlato senso di colpa che angoscia l’essere umano o produce stigmatizzazione» (ivi, pp. 131-132). Sul rapporto tra tecnica e hybris, cfr. anche R. Marchesini, Post-human, cit., pp. 198-206. 142.  R. Marchesini, Tecnosfera, cit., p. 129. Conseguentemente a tale caratterizzazione delle epifanie tecno-poietiche, Marchesini afferma che l’ine­ vitabile atteggiamento di tutte le filosofie di derivazione umanistica – tra cui egli annovera anche il pensiero heideggeriano – è quello di un rifiuto della rilevanza esistenziale e ontologica della tecnica, ovvero del fatto che la techne non sia un’entità esterna rispetto alle strutture esistenziali dell’uomo, ma una modalità del suo «essere-nel-mondo». Tale rifiuto deriverebbe dalla convinzione umanistica della purezza dell’essenza umana refrattaria a ogni contaminazione con il mondo, mentre l’infiltrazione somatica della tecnica, al contrario, indicherebbe una scandalosa dispersione del Dasein nel mondo. Il grido «disperatamente umanistico» (ivi, p. 134) della rimozio-

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L’epifania, con i suoi correlati di esuberanza e turbamento, costituisce, pertanto, la condizione stessa dell’esplicarsi della potenza metamorfica e proteiforme della tecnica, del dialogo coniugativo che essa instaura tra l’uomo e le alterità nonumane che adesso possiamo meglio definire come attrattori ibridativi interni al sistema tecnico; la loro celata funzione è, anzi, proprio quella di immunizzare l’umano dall’incontro con il suo altro, consegnandolo al regime totalitario dell’organizzazione del divenire come fantasmagoria tecnica. A differenza di quanto crede la tradizione umanistica, la tecnica rende certamente la realtà onto-poietica dell’uomo sempre meno antropocentrica e sempre più disponibile all’ibridazione143. Tuttavia interpretare l’umanismo come programma celebrativo dell’uomo, della sua autarchia, della sua potenza auto­ poietica ed emanativa e della purezza essenziale, non soltanto non corrisponde a quel fenomeno molteplice e radicato nelle ne heideggeriana affermerebbe una sostanziale estraneità della tecnica nei confronti del Dasein e della sua corporeità che, peraltro, deriverebbe da una concezione strumentale della tecnica come “officina” e non come Umwelt. Secondo Marchesini la critica heideggeriana della tecnica è guidata da un antropocentrismo ontologico che le impedisce, suo malgrado, di superare la concezione umanistica della tecnica. Anche per Heidegger, pertanto, la techne «non è altro che lo strumento operativo che consente all’essere umano di agire sul reale senza contaminarsi in una qualsivoglia declinazione performativa» (ivi, pp. 167-168). Come abbiamo visto, la caratterizzazione ontologica e non meramente strumentale della tecnica di Heidegger e la sua interpretazione come «destino dell’essere» nell’epoca del compimento della metafisica, e dunque come modo d’essere dell’ente e dell’uomo come Bestand e Bestandstück, mostrano come non si possa accusare il pensiero della tecnica di Heidegger di cripto-umanismo o di «neoumanismo superlativo» (ivi, p. 168), seppure sia indubitabile una carente elaborazione della rilevanza della corporeità nelle sue analisi esistenziali. 143.  «La tecnologia non fa altro che favorire gli eventi epifanico-referenziali, da una parte aumentando il portato referenziale del non umano […] dall’altro rendendo la dimensione onto-poietica più fluida e sempre più etero-riferita» (ivi, p. 144).

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contraddizioni del mondano che sono stati l’umanesimo rinascimentale e la tradizione da esso scaturita, ma impedisce di comprendere il portato epocale e antropopoietico della tecnica che il postumanismo mostra con innegabile e meritoria lucidità. Il carattere coniugativo di umano e non-umano e la potenza retroattiva sull’uomo della tecnica erano, peraltro, già impliciti – come abbiamo visto – nelle analisi elluliane del sistema tecnico e, prima ancora, nell’interpretazione metafisico-­ontologica dei grandi teorici primo-novecenteschi della tecnica, le cui riflessioni avevano già radicalmente messo in discussione il pregiudizio – che il post-umano attribuisce frettolosamente alla tradizione umanistica – di una estraneità ontologica tra uomo e tecnica da cui discende l’interpretazione meramente strumentale ed emanativa di quest’ultima144. 144.  Paradossalmente le derive iperumanistiche, proprio in quanto mantengono larvatamente una visione strumentale della tecnica, tendono ad amplificare ed estremizzarne il carattere emanativo della tecnica, concependo l’uomo come costruttore di una tecnosfera pienamente strutturata in senso antropocentrico: «Continuare a mantenere una visione esclusivamente strumentale della techne dà un’illusione d’illimitata potenza non retroattiva sull’uomo: questo è il grande pericolo dell’iperumanismo» (ivi, p. 148). Connessa a tale illusione è quella tipica del transumanismo che mira a traghettare l’uomo oltre i vincoli della corporeità al fine di liberarlo definitivamente dalla caducità e dalla morte in una prospettiva di eternizzazione tecnica. Entrambe queste prospettive, tuttavia, condividendo il carattere strumentale-­ emanativo della tecnica e la visione essenzialistica dell’umano, secondo Marchesini, rifiutano di affrontare il mare aperto della contaminazione con le alterità non-umane in cui a dominare non è l’intenzionalità umana, ma, come abbiamo visto, il portato ibridativo delle epifanie tecno-poietiche. (Sul rapporto tra iperumanismo e postumanismo, cfr. ivi, pp. 173-179). Come esito ultimo di tale analisi, Marchesini propone una «nuova alleanza con l’intera biosfera» (ibidem) che sfugga al pericolo dell’interpretazione umanistica della tecnica e propugni una sempre maggiore integrazione tra antroposfera, tecnosfera e biosfera. In un’analoga dimensione ecologica sfocia, peraltro, anche il postumanismo critico di Rosi Braidotti che, tuttavia, rivendica una forte valenza etico-politica: «Un nuovo postumanesimo ambientalista solleva così questioni sul potere e sui diritti nell’età della globalizzazione e fa

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Ma, proprio al fine di focalizzare le modalità ibridative e metamorfiche dell’umano nell’epoca dell’incondizionato dominio della tecnica, è necessario, a questo punto, tematizzare il senso filosofico del rapporto tra umano e non umano per come esso è più o meno esplicitamente presupposto nella prospettiva postumanistica, da un lato, e per come viene delineato nel concetto heideggeriano e post-heideggeriano di differenza, dall’altro, mostrando in che misura entrambe queste divergenti linee di pensiero costituiscano un’alternativa rispetto alla tradizione umanistico-metafisica. Si tratterà, dunque, nell’ultima tappa del nostro percorso, di interrogarci sul problematico rapporto tra metamorfosi, ibridazione e differenza.

appello all’autoriflessività del soggetto che occupa l’ex centro umanista, ma anche di coloro che dimorano in uno dei disseminati centri di potere della postmodernità avanzata» (R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 56). Il nuovo soggetto critico e responsabile proposto da Braidotti viene definito a partire da una «eco-filosofia delle appartenenze multiple, come soggetto relazionale determinato nella e dalla molteplicità, che vuol dire un soggetto in grado di operare sulle differenze ma anche internamente differenziato, eppure ancora radicato e responsabile. La soggettività postumana esprime quindi una forma parziale di responsabilità incarnata e integrata, basata su un forte sentimento della collettività, articolata grazie alla relazione e alla comunità. […] L’etica postumana per un soggetto non unitario propone un profondo sentimento di interconnessione tra il sé e gli altri, inclusi i non umani e gli “altri della terra”, attraverso la rimozione dell’ostacolo rappresentato dall’individualismo autocentrato» (ivi, pp. 56-57). Sull’etica postumana fondata sulla “trascendenza della negatività” e alternativa sia all’universalismo morale di matrice kantiana che all’etica della vulnerabilità e della paura, cfr. anche ivi, pp. 199-201.

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Capitolo IV

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Metamorfosi e differenza

1. Il postumano tra metamorfosi e differenza 1.1. La metamorfosi goethiana Per comprendere filosoficamente il concetto di metamorfosi con cui il postumanismo, nelle sue varie declinazioni, si sforza di pensare l’ibridazione tecno- e teriomorfica dell’umano, imprescindibile è il riferimento alla Naturphilosophie goethiana, in cui la tradizione di matrice romantica riconosce un approccio alternativo rispetto al sapere meccanicista e calcolante tipico della moderna scienza della natura e, al contempo, divergente anche dalla visione creazionista della tradizione cristiana. Rispetto alla rigida classificazione linneana degli esseri viventi secondo schemi tassonomici gerarchicamente ordinati che ammetteva soltanto uno sviluppo degli organismi interno a leggi predeterminate – siano esse di natura divina o puramente naturale1 –, Goethe ribadisce la dinamicità e il mutamento 1.  Per Goethe, tuttavia, che in questo si rivela essere un fedele discepolo del deus sive natura spinoziano, non è possibile distinguere tra queste due opzioni. Sul rapporto tra Goethe e Spinoza, cfr. C. Sini, Goethe e Spinoza, Olschki, Firenze 1998. Sulla filosofia della natura goethiana, con particolare riferimento alla metamorfosi, cfr. G. Monastra, Goethe: un’idea della natura, Arianna Editrice, Bologna 2005; S. Zecchi, Il tempo e la metamorfosi, intr. a

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delle forme, rivendicando, soprattutto, che ogni forma vivente possiede in sé una specifica forza interna di metamorfosi. Le forme del regno vegetale – la botanica, sappiamo, è l’ambito naturale in cui Goethe, come Linneo, esercita maggiormente il proprio sguardo fenomenologico ante lietteram – non sono, peraltro, realtà divise e separate, ma partecipano di un tutto unitario. Si manifesta, così, quel sentimento di “elementare connessione con il tutto” che, associato a una non meno profonda passione per il “divenire della forma”, caratterizza l’intera opera di Goethe. La morfologia goethiana, tuttavia, a differenza dell’approccio meccanicistico e deterministico della nuova scienza della natura, non postula come suo motore la cieca forza della necessità naturale di matrice spinoziana, ma presuppone una potenza propulsiva e metamorfica interna alla forma stessa, così che lo studio della Gestalt non può prescindere dalla comprensione di una spontanea Gestaltwandel2 la cui dinamica genealogica induce Goethe a formulare l’ipotesi della Urpflanze3. La J.W. Goethe, La metamorfosi delle piante (1790), tr. it. di B. Groff, B. Maffi e S. Zecchi, Guanda, Parma 2020, pp. 9-28; A. Allegra, Goethe e la metamorfosi, in Id., Metamorfosi. Enigmi filosofici del cambiamento, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 127-133. 2.  Sull’eredità goethiana nella morfologia jüngeriana, cfr. G. Figal, Gestalt und Gestaltwandel – Ernst Jünger und Goethe, in G. Figal - G. Knapp (a cura di), Natur, «Jünger-Studien», n. 5, 2011, pp. 8-20. 3.  Durante il primo viaggio in Italia, nel 1786, grazie alla visita del giardino botanico di Padova il 27 settembre, Goethe intuisce che l’amplissima molteplicità delle forme vegetali si può ricondurre a un’unica pianta originaria e che soltanto a partire dall’analisi del processo di morfogenesi si può individuare una tassonomia del regno vegetale: «Qui, tra tanta varietà di piante che vedo per la prima volta, mi si fa sempre più chiara e più viva l’ipotesi che in conclusione tutte le forme delle piante si possano far derivare da una pianta sola. Soltanto con l’ammettere questo sarebbe possibile di stabilire veracemente i generi e le specie, cosa che a me pare sia stata fatta finora in modo molto arbitrario» (J.W. Goethe, Viaggio in Italia (1786-1788), tr. it. di

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pianta originaria non è un’idea di tipo platonico a cui le piante reali si potrebbero ricondurre in senso mimetico, ma una forma concretamente individuabile in cui sono inscritte geneticamente le forme molteplici e che rappresenta anche un modello evolutivo per le fasi di sviluppo di tutti i generi e le specie di piante. La Urpflanze rappresenterebbe, dunque, la ricchezza metamorfica potenziale del regno vegetale, cosicché più forme di sviluppo possibili contiene una pianta e più essa si approssima alla Urpflanze. L’emblema di questo fenomeno originario in grado di coniugare la rappresentazione dell’ideale e l’esperienza del sensibile e di costituire un perfetto modello metamorfico è, secondo Goethe, la foglia, il “vero Proteo” che sa celare e manifestare in sé tutte le forme. La foglia è la forma che possiede al massimo grado la potenza metamorfica e che rappresenta, dunque, la figura simbolica per eccellenza del divenire della natura; essa garantisce a un tempo molteplicità morfologica e unità dinamico-frattalica4. Nello sviluppo metamorfico delle piante, Goethe, poi, individua due caratteri: la polarità, il ritmico alternarsi di dilatazione e contrazione, e l’ascesa graduale (SteiE. Zamboni, BUR, Milano 1994, pp. 57-58). Lo stesso Goethe è consapevole dell’importanza di questa scoperta che si impossessa del segreto creativo stesso della natura e sembra preludere a un suo possibile utilizzo artificiale. In una notazione del 17 maggio, a Napoli, Goethe scrive: «La pianta primitiva diventa la cosa più sorprendente del mondo, per la quale la natura stessa mi invidierà. Con questo modello e con la sua chiave si potranno inventare piante all’infinito, che saranno conseguenti, vale a dire che, anche senza esistere nella realtà, potrebbero tuttavia esistere; che non saranno ombre o parvenze pittoriche, ma avranno una verità e una necessità interiore. La stessa legge si potrà applicare a tutti gli altri esseri viventi» (ivi, p. 331). 4.  «La foglia […] si trasforma in tutti i gradi di sviluppo della pianta: l’intero è presente in tutte le sue parti. La pianta è l’intero, ma l’intero è anche le sue foglie. A ogni stadio di sviluppo della pianta sono presenti le foglie trasformate in un modo o nell’altro, perciò tutte le parti hanno una similarità di base e tutte rassomigliano all’intero» (S. Zecchi, Il tempo e la metamorfosi, cit., p. 21).

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gerung) indicante un movimento ascendente che, tuttavia, non culmina in uno stadio finale superiore; essa, invece, si ricongiunge con la fase iniziale secondo una dinamica che conduce dal seme iniziale al seme presente nel frutto. Il movimento circolare dell’eterno nascere e morire degli organismi naturali rimanda a una visione non storica del tempo e tale concezione consente a Goethe, pur senza rinunciare ai fenomeni sensibili, di rintracciare, attraverso il divenire metamorfico delle forme naturali – ma anche delle metafore e dei simboli –, ciò che si oppone al destino della caducità, ciò che resta stabile nel flusso caotico del contingente. La Gestalt goe­thiana si manifesta, dunque, come forma di “vita” in quanto struttura metamorfica, come identità nella trasformazione e processualità del divenire. La metamorfosi si impone, pertanto, come potenza tragica – è la stessa tragedia per cui Faust vorrebbe sottrarsi alla necessità storica e naturale divenendo anch’egli “foglia” e annegando nella totalità metamorfica della vita – in quanto «riconduce la forma nella pulsione della vita sensibile»5 e nella sua corporeità. È, infatti, nella metamorfosi alchemica con cui nel laboratorio di Wagner, l’allievo di Faust, viene fabbricato l’homunculus, e nella sua successiva incorporazione a opera del dio Proteo, che la forma astratta generata dalla pura scienza incontra la vita. Viene, così, in luce la concezione metamorfica della vita che è certamente la chiave di interpretazione decisiva per tutta la produzione sia scientifica che artistica goethiana, ma che, tuttavia, non può essere considerata come precorritrice dell’idea postumanista di metamorfosi come ibridazione, dal momento che in Goethe il divenire morfologico è sempre estrinsecazione dinamica di “tipi”6, ossia di essenze e strutture ontologi5.  Ivi, p. 26. 6.  Per una riattualizzazione del rapporto forma-tipo di matrice goethiana cfr. E. Jünger, Tipo Nome Forma (1963), tr. it. di A. Iadicicco, Herrenhaus, Seregno 2002.

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camente stabili da cui emerge il divenire metamorfico7. La metamorfosi è, cioè, sempre manifestazione di potenzialità morfologiche già inscritte nel “morfotipo” e non è mai il frutto di ibridazioni contingenti o di casuali alterazioni. Il tipo possiede la potenza e la flessibilità di esprimersi nella molteplicità delle varietà metamorfiche, ma non perde la propria persistenza ontologica, in modo analogo alla molteplicità modale degli attributi della sostanza spinoziana. Questo permanere di identità e mutazione nella metamorfosi8 – che verrà meno, invece, nella prospettiva postumanista – viene mirabilmente espresso dallo stesso Goethe in una pagina de La metamorfosi delle piante: L’idea della metamorfosi […] è simile alla vis centrifuga e si perderebbe nell’infinito se non avesse un contrappeso: voglio dire l’istinto di specificazione, la tenace capacità di persistere di ciò che una volta è divenuto realtà. È come una vis centripeta che nessuna esteriorità può danneggiare nel suo fondamento più profondo.9

La vis centripeta della Gestalt indica la consistenza ontologica e teleologica che permane proprio attraverso la sua evoluzione metamorfica e garantisce l’identificazione di ogni individuo sia a livello ontogenetico che filogenetico. Il concetto ibridativo di metamorfosi tipico del postumanismo, invece, dissolve tale consistenza mettendo radicalmente in crisi il paradigma morfologico goethiano e postulando un divenire a-morfo che 7.  Secondo Cassirer, il concetto di tipo possiede un’importanza fondamentale e senza di esso Goethe non avrebbe potuto formulare la sua teoria della metamorfosi: cfr. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, tr. it. di L. Tosti, vol. IV, Einaudi, Torino 1958, p. 221. 8.  Secondo Antonio Allegra è questa la matrice polare fondamentale a partire da cui comprendere la storia del concetto di metamorfosi: cfr. A. Allegra, Metamorfosi, cit., pp. 11-25. 9.  J.W. Goethe, La metamorfosi delle piante, cit., p. 144.

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non riconosce alcuna determinazione specifica o di genere. Nel «continuum con il mondo animale, minerale, vegetale, extra-terrestre e tecnologico»10, l’individuo si riduce a una contingente ed effimera concrezione della metamorfica potenza vitale in cui non è più possibile rintracciare alcuna forma di connessione unitaria, né di tipo genealogico – la Urpflanze goe­thiana – né di tipo teleologico11.

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1.2. La metamorfosi post-umana L’assenza strutturale di tale vis centripeta, estrema conseguenza del processo di antropodecentrismo programmaticamente teorizzato e praticato dal postumanismo, consente di praticare, nella duplice eredità darwiniana e nietzscheana, l’infinita e indefinita plasmabilità dell’umano. La metamorfosi non è più, dunque, espressione della sovrabbondante ricchezza fenomenica del morfotipo, ma, secondo una sua possibile etimologia12, oltrepassamento della forma e in particolare della metafisica goethiana della Gestalt. Al di là di ogni determinazione morfologica, la natura umana va alterata, ibridata, potenziata e, 10.  R. Braidotti, Madri mostri e macchine (1996), tr. it. di A.M. Crispino, Manifestolibri, Roma 2005, p. 35. 11.  Secondo Allegra la visione propriamente postumanista della metamorfosi è espressa in modo emblematico nel film Avatar, in cui, peraltro, egli ravvisa anche un fondamentale motivo soteriologico-religioso che starebbe a fondamento sia del postumanismo che del transumanismo: cfr. A. Allegra, Visioni transumane. Tecnica, salvezza, ideologia, Orthotes, Napoli-Salerno 2017, p. 131. Sulla rivoluzione postumana dell’immaginario rappresentata da questo film si veda anche A. Caronia - A. Tursi (a cura di), Le filosofie di Avatar. Immaginari, soggettività, politiche, Mimesis, Milano-Udine 2010. 12.  Secondo questa etimologia derivante dal significato di oltrepassamento del prefisso meta-, si sviluppa anche la declinazione del postumanismo che si autodefinisce come “meta-umanismo”: cfr. F. Ferrando, Postumanesimo, transumanesimo, antiumanesimo, metaumanesimo e nuovo materialismo. Relazioni e differenze, in «Lo Sguardo. Rivista di filosofia», n. 24, 2017, pp. 51-61.

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nella prospettiva transumanistica, addirittura negata e superata. Ogni ordinamento morfologico, se dotato di una intrinseca potenzialità metamorfica, costituisce, infatti, un ostacolo alla libertà progettuale e produttiva del sistema tecnico che – come abbiamo visto – non ammette che limiti e condizioni interne e autodefinite. Emblema di tale plasticità dell’umano – solo apparentemente libera e incondizionata, dal momento che, invece, obbedisce alle ferree leggi del sistema tecnico – è la manipolazione del corpo che va dagli interventi di chirurgia plastica, sempre più invasivi e trasformativi anziché riparativi, alle molteplici pratiche di body building, fino ad arrivare alle forme di modellamento artistico del corpo13. Tale ridefinizione metamorfico-plastica del corpo, al centro di molte riflessioni del postumanismo, ha conseguenze decisive sulla stessa concezione dell’identità umana: non si tratta, tuttavia, dell’ideologia, per molti versi confutata dagli stessi sviluppi contemporanei delle tecnologie del sé14, del self-made man, del desiderio, cioè, già analizzato da Anders, di volersi fare artefici di se stessi e del proprio destino, quanto del bisogno di garantire una perenne proteiformità alla propria identità corporea, psicologica e spirituale, quasi nel timore di una sua fissazione sostanziale. La proteiformità dell’identità post-umana, che non è assimilabile alla concezione della liquidità postmoderna proposta da Bauman15, assume, piuttosto, come ha suggerito Michele Farisco, i caratteri della magmaticità: l’identità 13.  Sull’ibridazione della corporeità a opera delle biotecnologie e in generale sulla concezione postumanistica del corpo, cfr. L. Capucci, Corpo tecnologico, Baskerville, Bologna 1994; M. Perniola, Il sex appeal dell’inor­ ganico, Einaudi, Torino 1994; T. Macrì, Il corpo postorganico, Costa & Nolan, Milano 1996; E. Palese, Da Icaro a Iron man. Il corpo nell’era del post-umano, Mimesis, Milano-Udine 2011. 14.  Cfr. M. Foucault, La cura di sé. Storia della sessualità 3 (1984), tr. it. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 1993. 15.  Cfr. Z. Bauman, Vita liquida, cit.

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sarebbe, dunque, piuttosto «un processo instabile di continua costruzione e transizione, non semplicemente liquida, bensì magmatica, in quanto in continua mutazione per miscelazione, seppur con alcune zone franche di solidificazione»16. A differenza del paradigma “liquido” che, come ha mostrato Zygmunt Bauman, negando ogni configurazione morfologica ben si presta a descrivere l’omogeneità amorfa dei processi di globalizzazione che caratterizzano il nostro tempo, la magmaticità indica la dynamis ibridativa tipica dei processi metamorfici del post-umano che risultano da dinamiche di “miscelazione” di elementi e pratiche interni al sistema tecnico – quelli che abbiamo sopra chiamato “attrattori ibridativi” –; da essi si generano, di volta in volta, equilibri morfologici dinamici in cui la volontà di potenza tecnica (la forza di auto­ accrescimento del sistema) trova una sua configurazione provvisoriamente stabile e, per così dire, si scarica fino a che non intervengono nuove miscelazioni metamorfiche che rompono l’equilibrio e mettono in moto processi di scomposizione e ricomposizione morfologica. In questo senso magmatico e metamorfico possono essere comprese le crisi e i riassestamenti del sistema, come risulta in modo evidente dall’analisi effettuata da Thomas Kuhn sulla crisi e la ricomposizione dei paradigmi scientifici17, nonché dalle fasi di crescita e decrescita dello sviluppo del capitalismo e dell’economia liberale di mercato, essendo queste – come aveva già visto Ellul – due dimensioni fondamentali e interne al sistema tecnico18. Un’altra caratteristica della metamorfosi magmatica, che secondo il postumanismo determina da sempre l’evoluzione degli

16.  M. Farisco, Ancora uomo, cit., p. 63. 17.  Th.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), tr. it. di A. Carugo, Einaudi, Torino 1984. 18.  Cfr. J. Ellul, La tecnica, cit., cap. III: Tecnica ed economia, pp. 151-228.

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esseri viventi e che si manifesta in modo emblematico nell’epoca tecnica, è il suo svolgersi per contagio, ossia attraverso l’incontro del vivente con un elemento estraneo potenzialmente in grado di danneggiarlo; l’altro sarebbe, dunque, in primo luogo un patogeno19. L’antecedente filosofico più influente per le riflessioni del postumanismo è, in questo senso, la filosofia della differenza di Deleuze che, collocandosi all’interno dell’eredità spinoziana, pensa una vita metamorfica al di là di ogni distinzione di specie e di genere. L’emblema di tale potenzialità metamorfica è quel processo che Deleuze chiama il divenire animale20, ossia quella liberazione di forze metamorfiche che restituisce il corpo alla sua amorfa complessità e lo sottrae al meccanicismo naturale: la propagazione della zoé avviene, secondo Deleuze, per ibridazioni contro natura. In questo modo agisce la differenza: La differenza consiste nel fatto che il contagio, l’epidemia mettono in gioco termini completamente eterogenei: per esempio, un uomo, un animale e un batterio, un virus, una molecola, un microrganismo. […] Combinazioni che non sono né genetiche né strutturali, interregni, partecipazioni contro natura, ma le partecipazioni sono contro natura, ma la Natura procede solo così, contro se stessa.21 19.  Per le conseguenze in ambito socio-politico di questa concezione dell’al­terità come elemento patogeno contro cui “immunizzarsi”, che da Hobbes fino a Schmitt domina la rappresentazione occidentale del Politico, cfr. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 2006. 20.  Cfr. G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza (1998), tr. it. di A. Pardi, Ombre Corte, Verona 2010. 21.  G. Deleuze - F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (1980), tr. it. di G. Passerone, Cooper & Castelvecchi, Roma 2003, p. 346. Secondo Negri, tuttavia, il paradigma postumanistico dell’ibridazione non riuscirebbe a elevarsi al rango ontologico della Differenza deleuziana: «Ibridazione […], nonostante le intenzioni postumaniste, non significa affermazione della differenza. Piuttosto ogni processo di ibridazione è quel processo che produce

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Nell’uomo, dunque, così come in ogni altro essere vivente, non è rintracciabile alcuna essenza predeterminata, alcuna forma primigenia, dal momento che, come afferma Deleuze interpretando quello che ai suoi occhi appare il principio generale del pensiero foucaultiano, ogni forma non è altro che un «composto di rapporti di forze»22 che non presuppongono alcuna forma pregressa, ma soltanto degli ambiti di applicazione della loro potenzialità ibridativa23. La fine dell’uomo sopra richiamata, nella prospettiva deleuziana va interpretata come una scomposizione ibridativa generata soprattutto dall’irrompere delle forze esterne di natura tecnica che producono un progressivo superamento dell’umano. Alla luce di tali premesse teoriche, diviene comprensibile la concezione postumanista dell’uomo e della sua individualità in divenire. Secondo una pregnante affermazione di Braidotti:

una nuova identità (sintetica) secondo una processualità di carattere addizionale che, presentandosi come potenzialmente in-definita (nell’aggiungere continuamente nuove ibridazioni), afferma l’Indifferenziato in quanto tale e non la differenza nel suo differenziarsi (individuante)» (C. Negri, Deleuze e il postumano, cit., p. 236). 22.  G. Deuleuze, Foucault (1987), tr. it. di P.A. Rovatti e F. Sassi, Feltrinelli, Milano 1987, p. 124. 23.  Per un’analisi del rapporto tra Foucault, Deleuze e il post-umano, cfr. C. Negri, Deleuze e il postumano, cit., pp. 69-147; M. Farisco, Ancora uomo, cit., pp. 49-61. L’interazione ibridativa delle forze esterne – di origine animale e tecnica – con quelle interne dell’uomo sancisce il superamento della forma uomo tradizionale. In questo senso metamorfico-ibridativo, infatti, Deleuze interpreta lo Übermensch nietzscheano: «Cos’è il superuomo? È il composto formale tra le forze dell’uomo e queste nuove forze. È la forma che discende da un nuovo rapporto di forze. L’uomo tende a liberare in se stesso la vita, il lavoro, il linguaggio. Secondo la formulazione di Rimbaud, il superuomo è l’uomo che si è fatto carico degli animali stessi (un codice che può catturare frammenti di altri codici, come nei nuovi schemi di evoluzione laterale e retrogada). È l’uomo che si è fatto carico delle rocce stesse o dell’inorganico (là dove regna il silicio)» (G. Deleuze, Foucault, cit., p. 133).

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«“Io” è soltanto un timbro di gomma e “io” in realtà è solo di passaggio. Zoe, comunque, è al posto di guida»24. Il destino di replicante che tanta letteratura fantascientifica degli ultimi decenni ha prospettato come un rischio incombente sull’umanità, in realtà inerisce alla stessa costituzione ontologica del post-umano che si dissolve in repliche di una differenza intesa deleuzianamente come caotica molteplicità del divenire25. La

24.  R. Braidotti, In metamorfosi. Verso una teoria materialistica del divenire (2002), tr. it. di M. Nadotti, Feltrinelli, Milano 2003, p. 205. Come nota Allegra, tuttavia, tale determinazione dell’io è una tacita negazione della sua stessa singolarità individuale: «Ogni individuo umano diviene meramente una effimera configurazione della potenza di vita impegnata in continue metamorfosi e riaffermazioni. Zoé, ribadiamolo, non privilegia l’uomo, tantomeno il singolo individuo: essa presiede alla vita come tale, ad una metamorfosi che non ha una Forma quale sostrato, bensì un mero nudo vivere» (A. Allegra, Metamorfosi, cit., p. 149). 25.  Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione (1968), tr. it. di G. Guglielmi, Cortina, Milano 1997. In Mille piani, Deleuze e Guattari interpretano questo primato ontologico del divenire e della differenza ad esso connessa attraverso la nozione di rizoma che mette in discussione ogni ordine gerarchico e, soprattutto, la tradizionale opposizione metafisica tra Uno e molteplice: cfr. G. Deleuze - F. Guattari, Mille piani, cit., pp. 35-65. Deleuze interpreta la volontà di potenza nietzscheana come l’esplicarsi di questa differenza rizomatica; la volontà di potenza sarebbe, dunque, il potere stesso di differenziare, il differire della differenza. Sull’ontologia deleuziana della differenza, cfr. F. Botturi, Pensiero della differenza. Il nichilismo ontologico di Gilles Deleuze, in V. Melchiorre (a cura di), La differenza e l’origine, Vita e Pensiero, Milano 1987, pp. 383-419: p. 383. Alla luce della logica rizomatica è possibile, poi, interpretare in senso postumanistico le celebri affermazioni nietzscheane sulla molteplicità del soggetto: «Forse non è necessario assumere un soggetto unico; forse è altrettanto permesso assumere una pluralità di soggetti, la cui fusione e lotta siano alla base del nostro pensiero e in genere della nostra coscienza. […] Le mie ipotesi: il soggetto come pluralità» (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, in Opere di Friedrich Nietzsche, cit., vol. VII/3, pp. 336-337). In questa prospettiva va, infine, collocata anche la proposta di Braidotti di una soggettività basata sul principio ontologico ed etico del Non-uno: «L’etica post-umana ci spinge ad adottare il principio del Non-uno come struttura profonda della nostra

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differenza, cioè, si riproduce indefinitamente – e serialmente – nella misura in cui genera configurazioni metamorfiche in grado, nietzscheanamente, di “schematizzare” il divenire e offrire soglie di sostenibilità alla soggettività nomadica26.

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soggettività, tramite il riconoscimento dei legami che ci uniscono ai molteplici altri in una trama vitale di interrelazioni complesse. […] Il soggetto Non-uno non è all’origine di se stesso, ma l’effetto del perenne flusso di incontri, interazioni, affettività e desideri che provengono dagli altri e da altrove» (R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 108). 26.  Alla concezione della differenza deleuziana si ricollega Rosi Braidotti nella sua formulazione di un pensiero nomade e, in particolare, di un soggetto nomade, interpretandolo soprattutto in senso femminista in contrapposizione alla tradizione del «sedentario monologismo fallologocentrico del pensiero filosofico» (R. Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità [1994], tr. it. di A.M. Crispino e T. D’Agostini Donzelli, Roma 1995, p. 36). A differenza dell’esule e dell’immigrato, il nomade non fugge né rimpiange patrie perdute, in quanto «intrattiene un rapporto di attaccamento transitorio e di frequentazione ciclica con la terra» (ivi, p. 31). Il soggetto nomade non nega, tuttavia, ogni concetto di identità, ma soltanto quello che privilegia la stabilità rispetto alla contingenza metamorfica; esso si pone, piuttosto, come un soggetto decentrato e in continua “transizione”: «La coscienza nomade […] intende ripensare l’unità del soggetto senza ricorrere a convinzioni umanistiche, senza opposizioni dualistiche, legando invece corpo e mente, in una nuova serie di transizioni intensive e spesso intransitive. […] Essere nomadi, vivere in transizione, non significa non poter o non voler creare quelle basi, necessariamente stabili e rassicuranti, dell’identità che consentono di stare a proprio agio all’interno di una comunità. La coscienza nomade, piuttosto, consiste nel non considerare alcuna identità come permanente. Il nomade è solo di passaggio; lei/lui costruisce quelle connessioni necessariamente situate che le/gli consentono la sopravvivenza ma non si fa carico mai pienamente dei limiti di un’unica e fissa identità nazionale» (ivi, pp. 37-38, 40). La possibilità stessa della relazione interumana – nominata da Braidotti con linguaggio informatico come “connessione” – e della conseguente ibridazione è resa possibile, dunque, dalla programmatica rinuncia a ogni identità stabile: «Il nomade è un’entità trasgressiva, la cui natura transitoria è il vero motivo per il quale può fare delle connessioni. La politica nomade è una questione di legami, di coalizioni, di interconnessioni» (ivi, p. 42). L’«appassionata forma di post-umanesimo, basata sull’etica nomade femminista» (ivi, p. 35), che Braidotti, basandosi sul concetto deleuziano di “deterritorializzazione”,

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Tale processo metamorfico di ibridazione del vivente – e, in particolare, del vivente uomo – rappresenta, come abbiamo fin qui visto, un concetto decisivo per tutte le versioni del postumanismo. Esso, tuttavia, va nettamente distinto, da un lato, dal concetto tipicamente goethiano di metamorfosi come manifestazione molteplice di un unico morfotipo che, potremmo dire, ha la differenza in potenza, e, dall’altro, dalla concezione propriamente vitalistica della metamorfosi delineata dalla biologia moderna, secondo cui il processo metabolico è il mantenimento di una forma caratteristica grazie al continuo ricambio dei componenti di tale forma. Tale concezione si basa sulla constatazione scientifica che le strutture biologiche sono intrinsecamente instabili e precarie e che possono raggiungere una organizzazione relativamente stabile soltanto grazie a un principio osmotico e dinamico in grado di garantire un ordine formale, allo stesso modo in cui una fontana può mantenere la sua persistente configurazione formale soltanto grazie al continuo flusso dell’acqua27. Come afferma Allegra, «le variazioni sono dunque lo strumento attraverso cui sopravvive la coerenza»28. Un organismo vivente può mantenere la sua stabilità morfologica – e dunque mantenersi in vita – soltanto attraverso l’impiego metamorfico di materia esterna, ossia attraverso l’assimilazione di elementi esterni. La dipendenza dall’ambiente esterno si coniuga, quindi, con l’indipendenza dell’organismo che possiede in sé il principio formale con cui la materia assimilata deve essere riorganizzata al suo interno. L’affermazione

delinea già dalla metà degli anni Novanta, si pone dunque come un precorrimento delle teorie del post-umano che postulano – come abbiamo visto – un superamento di ogni identità monolitica e stabile a favore di una magmatica soggettività metamorfica. 27.  Su tale concezione “metabolica” della metamorfosi, cfr. A. Allegra, Metamorfosi, cit., pp. 154 ss. 28.  Ivi, p. 155.

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dell’ente vivente nella sua identità e sussistenza avviene grazie all’incessante scambio metamorfico con l’esterno, ma tale equilibrio omeodinamico è reso possibile da un principio di organizzazione formale interno, da quella che Nietzsche, nella Seconda Inattuale, chiama la «forza plastica» e che riconosce come il fondamento della vita stessa, cioè dalla capacità di accogliere selettivamente l’altro da sé e integrarlo nelle proprie strutture biologiche ed esistenziali. Questo tipo di “metamorfosi plastica”, su cui si basa ogni equilibrio biologico29, è caratteristica dei sistemi metabolici che sono, per definizione, sistemi aperti, ossia non solo in continua connessione metamorfica con l’esterno, ma anche non separati da esso se non da soglie dinamiche di natura osmotica. A tale paradigma plastico e osmotico della metamorfosi tipico dei sistemi aperti, il postumanismo contrappone un paradigma ibridativo di alterazione dell’organismo vivente che – come abbiamo visto – non si fonda sull’idea dell’assimilazione, ma 29.  Tale equilibrio è reso possibile dai processi omeostatici di regolazione interna con cui ogni organismo si rapporta al mutevole ambiente esterno; l’ordine che così si viene a creare non è né di natura deterministica né teleo­ logica, ma costituisce l’espressione dell’organismo stesso e della sua forza plastica in un senso propriamente ricorsivo: «L’organismo, in questa luce, è sia il soggetto che l’oggetto dell’ordine: esso lo produce, ossia produce se stesso» (ivi, p. 155). Tale ordine è strettamente connesso con il concetto di autopoiesi definito da Maturana e Varela: cfr. H.R. Maturana - F.J. Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente (1980), tr. it. di A. Stragapede, Marsilio, Venezia 2012; cfr. anche Iid., Macchine ed esseri viventi. L’autopoiesi e l’organizzazione biologica (1992), tr. it. di A. Orellana, Astrolabio, Roma 1992. Sul rapporto tra post-umano e autopoiesi, cfr. F. Ferrando, Il Postumanesimo Filosofico e le sue Alterità, cit., pp. 95-101; F. Gambardella, L’animale autopoietico. Antropologia e biologia alla luce del postumano, Mimesis, Milano-Udine 2010. Nella prospettiva di Rosi Braidotti l’autopoiesi delle macchine diviene il modello di una nuova ontologia postantropocentrica: «L’autopoiesi macchinica indica che la tecnologia è un luogo del divenire postantropocentrico, una soglia per altri possibili mondi» (R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 102).

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su quella del contagio. Secondo questo secondo paradigma, la vita si propagherebbe attraverso una contaminazione potenzialmente pericolosa e addirittura letale che esporrebbe costantemente l’organismo al rischio dell’estinzione. Il contagio, di cui il nostro tempo sta facendo esperienza in modo pervasivo in tutti gli ambiti della nostra esistenza, sarebbe, dunque, il luogo in cui la vita può potenziarsi entrando in contatto con ciò che potenzialmente la nega30. Mentre il soggetto che assimila materia ed energia dal mondo esterno la trasforma in funzione delle esigenze dei propri processi metabolico-esistenziali, il soggetto che viene contagiato subisce una trasformazione, spesso irreversibile, a opera di un patogeno esterno. Se la morfogenesi plastica è tipica dello sviluppo embrionale dei sistemi biologici, i processi immunitari costituiscono, invece, la logica interna del sistema tecnico che, come abbiamo visto, si determina in modo sempre più evidente come un sistema chiuso in cui vigono soprattutto dinamiche di auto­ riconoscimento e autoaccrescimento. Il sistema immunitario è, infatti, un sistema di riconoscimento: attraverso l’incontro con gli antigeni esterni e ciò che esso produce all’interno del nostro corpo, si mettono in moto processi di riconoscimento31 dell’individualità dell’organismo atti a garantirne la sopravvi-

30.  Sulla logica immunitaria insita in tale concezione della vita, cfr. R. Esposito, Immunitas, cit. 31.  Qui non si tratta soltanto delle classiche dinamiche di riconoscimento del sé a partire dal rispecchiamento nell’altro di matrice hegeliana, ma – come è stato proposto da Ferrando – in un senso propriamente etico-­esistenziale, di un’ontologia della riconoscenza con un evidente riferimento alla nozione levinasiana del volto dell’altro: cfr. F. Ferrando, Il Postumanesimo Filosofico e le sue Alterità, cit., p. 70. La prospettiva immunitaria delineata da Esposito può essere accostata alla concezione postumanistica dell’alterità come “campo” di riconoscimento e formazione del sé: «L’altro è la forma stessa che assume il sé laddove l’interno s’incrocia con l’esterno, il proprio con l’estraneo» (R. Esposito, Immunitas, cit., p. 207).

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venza e il potenziamento; la risposta immunitaria determina, cioè, la costruzione dell’identità che si pone, però, come costitutivamente ibrida e ibridata.

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1.3. La macchina antropologica Che i processi di riconoscimento a partire dall’altro, se pure non a livello immunologico, fossero alla base dell’identità metamorfica dell’umano era già implicito nelle tassonomie di Linneo secondo cui l’essere umano non è determinabile secondo nessuna caratteristica specifica, ma soltanto attraverso la sua capacità filosofica di conoscere se stesso e riconoscersi come distinto dagli animali. L’uomo sarebbe, dunque, quell’animale che «deve riconoscersi umano per esserlo»32. E tuttavia, il funzionamento della macchina antropologica con cui l’uomo si definisce in modo differenziale rispetto all’animale è notevolmente complesso perché implica una zona liminare di

32.  G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 33. È con Linneo, secondo Agamben, che viene escogitata quella macchina antropologica che la tradizione umanistico-moderna utilizzerà per definire l’umano attraverso l’esclusione del non-umano nell’uomo. In questa prospettiva antiessenzialista, Agamben definisce l’uomo un animale costitutivamente “antropomorfo” che, per essere umano, deve riconoscersi in un non-uomo: «Homo sapiens non è dunque né una sostanza né una specie chiaramente definita: è, piuttosto, una macchina o un artificio per produrre il riconoscimento dell’umano» (ivi, p. 34). Francesca Ferrando critica la nozione di macchina antropologica in quanto essa rischia di «essere fuorviante, da un lato, perché annulla le sue specificità incarnate, dall’altro, perché de-umanizza l’intero processo, neutralizzandolo nella nozione di macchina. In sintesi, anche se la nozione di macchina antropologica si rivela utile per mettere in rilievo l’umano come processo, essa rischia di riaffermare intrinsecamente i presupposti antropocentrici che vuole destabilizzare, cancellando gli specifici aspetti incarnati di tale processo; tale nozione lascia anche intatti i suoi presupposti umanistici» (F. Ferrando, Il Postumanesimo Filosofico e le sue Alterità, cit., p. 61).

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indistinzione metamorfica che, secondo Agamben, si rivela emblematicamente nella Stimmung della noia profonda analizzata da Heidegger nel corso universitario friburghese del 1929/3033. L’insospettata e inquietante prossimità tra uomo e animale – di un tipo del tutto diverso, come vedremo, rispetto alla prossimità ibridativa teorizzata dal post-umano – si rivela, infatti, nella misura in cui «Il “Dasein” annoiandosi, è consegnato (ausgeliefert) a qualcosa che gli si rifiuta, esattamente come l’animale, nel suo stordimento, è esposto (hinausgesetzt) in un non rivelato»34. Nella noia profonda risuonerebbe, cioè, qualcosa di simile a quello «scuotimento essenziale» (wesenhafte Erschütterung) che, secondo le analisi fenomenologiche heideggeriane, caratterizza lo stordimento (Benommenheit) animale, ossia il suo essere esposto e assorbito nel disinibente della sua Umwelt, che però gli resta del tutto velata a livello ontologico. La comprensione del mondo umano sarebbe possibile, tuttavia, solo a partire dalla «vicinanza estrema», dall’affinità ontologica della posizione dell’uomo nei confronti dell’essere – del suo rapporto nei confronti della verità come aletheia – e dell’esposizione senza svelamento al proprio mondo-ambiente tipica della «povertà di mondo» dell’animale35. Il passaggio dal mondo-­ ambiente (Umwelt), in cui l’animale è immerso e tramortito ma in cui non avviene alcuno svelamento, al mondo umano,

33.  M. Heidegger, Concetti fondamentali, cit., pp. 171-220. 34.  G. Agamben, L’aperto, cit., p. 68. 35. «Nell’esser lasciati vuoti dalla noia profonda vibra così qualcosa come un’eco di quello “scuotimento essenziale” che proviene all’animale dal suo essere esposto e assorbito in un “altro” che non gli si rivela, però, mai come tale. Per questo l’uomo che si annoia viene a trovarsi in una “vicinanza estrema” – anche se apparente – allo stordimento animale. Entrambi sono, nel loro gesto più proprio, aperti a una chiusura, integralmente consegnati a qualcosa che ostinatamente si rifiuta» (ivi, p. 68).

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in cui si apre la Lichtung del disvelamento ontologico, il diventare Da-sein del vivente umano avviene come superamento della soglia dell’animalità non attraverso l’affermazione di una differenza specifica, come vuole la tradizione metafisicoumanistica, ma grazie a una sospensione e disattivazione del rapporto dell’animale uomo con il suo disinibitore: il processo di antropo­genesi coinciderebbe, cioè, per Heidegger, con il destarsi dell’animale uomo alla sua radicale esposizione a una non-rivelazione, a quell’illatenza che abita il cuore dell’aletheia. La Lichtung, nella cui «insistenza» consisterebbe la costituzione oltre-metafisica dell’uomo36, sarebbe, allora, secondo Agamben, «un lucus a non lucendo: l’apertura che in essa è in gioco è essenzialmente l’apertura a una chiusura e colui che guarda nell’aperto vede solo un chiudersi, solo un non-vedere»37. Agamben connette, quindi, la Stimmung della noia profonda all’emergere dell’umano dall’animalità: La noia profonda appare allora come l’operatore metafisico in cui si attua il passaggio dalla povertà di mondo al mondo, dall’ambiente animale al mondo umano […]. Ma questo passaggio, questo diventare-Dasein del vivente uomo […], non apre su uno spazio ulteriore, più ampio e luminoso, conquistato al di là dei limiti dell’ambiente animale e senza relazione ad esso: al contrario, esso è aperto solo attraverso una sospensione e una disattivazione del rapporto animale col disinibitore.38

In questa sospensione del rapporto metabolico dell’animale con la sua Umwelt, l’animale homo sapiens può afferrare lo stordimento animale in quanto tale39, il suo essere esposto a

36.  Sulla Inständigkeit, cfr. supra, p. 155, nota 9. 37.  G. Agamben, L’aperto, cit., p. 71. 38.  Ibidem. 39.  Su questo decisivo operatore ontologico differenziale, su cui Heidegger fonda la netta separazione tra uomo e animale, cfr. J. Derrida, L’animale che

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ciò che si rifiuta e, in tal modo, il suo accedere alla dimensione propriamente umana, in quanto l’esposizione al non-­rivelato dell’ambiente si muta in esposizione al mistero dell’essere e del venire alla presenza degli enti. Agamben può, dunque, concludere: «Il gioiello incastonato al centro del mondo umano e della sua Lichtung non è che lo stordimento animale; la meraviglia “che l’essente sia” non è che l’afferramento dello “scuotimento essenziale” che proviene al vivente dal suo essere esposto in una non-rivelazione»40. E ancora, in riferimento alla Stimmung della noia: «Il Dasein è semplicemente un animale che ha imparato a annoiarsi, si è destato dal proprio stordimento e al proprio stordimento. Questo destarsi del vivente al proprio essere stordito, questo aprirsi, angoscioso e deciso, a un non-aperto, è l’umano»41. Ora, è proprio nell’epoca del dominio totale della tecnica e del diventare globale del sistema tecnico che il funzionamento della macchina antropologica, analizzato da Agamben sulla scorta della critica anti-umanistica e anti-metafisica heideggeriana, si inceppa irreversibilmente: la neo-ambientalità tecnica – come abbiamo visto – mette radicalmente in discussione la stessa possibilità dell’essere-nel-mondo heideggeriano, tanto

dunque sono (2002), tr. it. di M. Zannini, a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 2006. Sulla lettura derridiana della distinzione ontologica di uomo e animale in Heidegger, cfr. M. Calarco, Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida, a cura di M. Filippi e F. Trasatti, Mimesis, MilanoUdine 2012; C. Di Martino, L’uomo, l’animale, il mondo. Derrida versus Heidegger, in Id., Figure dell’evento. A partire da Jacques Derrida, Guerini e Associati, Milano 2009, pp. 133-202; J. Grondin, Derrida et la question de l’animal, in «Cités», XXX, n. 2, 2007, pp. 31-39; L. Lawlor, This Is Not Sufficient. An Essay on Animality and Human Nature in Derrida, Columbia University Press, New York 2007; M. Naas, Derrida’s Flair (For the Animals to Follow…), in «Research in Phenomenology», XV, n. 2, 2010, pp. 219-242. 40.  G. Agamben, L’aperto, cit., p. 71. 41.  Ivi, p. 73.

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che, estendendo le analisi di Agamben, si potrebbe dire che la tecnica, nel nostro tempo, costituisce il disinibitore specifico dell’uomo. La tecnica, dunque, soprattutto nelle sue declinazioni messe in luce dal postumanismo, impedisce ogni forma di sospensione o disattivazione del rapporto immersivo dell’uomo con essa. Una volta che le potenze storiche tradizionali – l’arte, la religione, la filosofia – hanno perso la loro efficacia nel determinare il destino degli individui e dei popoli, la tecnica prende su di sé anche il compito che era proprio della macchina antropologica, assumendosi la gestione integrale della vita biologica42 e determinando l’umanità dell’uomo come differenziazione morfologica di quest’ultima a partire dalle esigenze interne del sistema tecnico. La tecnica, cioè, in-forma la vita come zoé in senso meramente tecnico in modo tale che i bioi in apparenza così differenziati che ne risultano possano sod42.  Già Ellul aveva intuito che il compito fondamentale della tecnica fosse quello di applicare la sua potenza riparativa e trasformativa alla vita e non di limitarsi a proteggerla o potenziarla: «La tecnica si appresta a rifare integralmente la vita nel suo insieme perché era fatta male» (J. Ellul, La tecnica, cit., p. 145). Molti autori transumanisti credono che la specie umana sia in procinto di compiere, per la prima volta nella sua storia, in modo deliberato e programmato, una svolta radicale della propria evoluzione grazie alla tecnica, sottovalutando, in tal modo, il carattere automatico e inerziale con cui il sistema tecnico – come ci ha mostrato Ellul – determina le trasformazioni dell’umano. La possibilità di tale svolta, determinata soprattutto dalle nuove tecniche di manipolazione del codice genetico, è paventata come un rischio per l’umanità dell’umano da Jürgen Habermas nel suo Futuro della natura umana del 2001, in cui afferma: «Non è perciò irrealistico che la specie umana possa, a breve termine, prendere nelle sue mani la propria evoluzione biologica. Metafore quali “cogestire l’evoluzione” o addirittura “recitare la parte di Dio” servono appunto a sottolineare la portata difficilmente sottovalutabile di questa auto-trasformazione del genere» (J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale [2001], a cura di L. Ceppa, Einaudi, Torino 2002, p. 24). Egli auspica come rimedio a questo incombente pericolo una tutela giuridica che possa garantire l’integrità biologica dell’identità personale attraverso l’affermazione di un «diritto ad un patrimonio genetico non compromesso da interventi artificiali» (ivi, p. 29).

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disfare al meglio la voracità proteiforme del sistema stesso43; esso non ammette alcuna chiusura e alcuna in-­disvelatezza e richiede – come già Jünger aveva intuito all’inizio degli anni Trenta – una totale adesione interiore alle sue logiche e ai suoi processi. La tecnica come disinibitore specifico del nostro tempo non soltanto avvolge in modo onnipervasivo l’esperienza esistenziale dell’uomo, ma infiltra e contamina anche il suo corpo producendo un singolare cortocircuito filogenetico per cui la Benommenheit animale, intesa come integrazione automatica e integrale nel proprio ambiente, diviene il carattere proprio del più evoluto homo technologicus. Come già aveva intuito Nietzsche – e ribadito Heidegger nei suoi commenti nietzscheani44 –, il compimento della tradizione umanisticometafisica nella tecnica genera paradossalmente la più estrema animalizzazione dell’uomo.

2. Il dialogo con l’alterità Un’altra caratterizzazione ricorrente da parte degli autori postumanisti del rapporto dell’uomo con le alterità non-umane 43.  Nella prospettiva di Agamben, ciò segna la fine del Politico e dell’umanità per come essa veniva determinata dalla gerarchia ontologica heideggeriana, inaugurando l’era del post-storico e del post-umano: «Genoma, economia globale, ideologia umanitaria sono le tre facce solidali di questo processo in cui l’umanità poststorica sembra assumere la sua stessa fisiologia come ultimo e impolitico mandato. […] Nella prospettiva di Heidegger, una tale umanità non ha più la forma del mantenersi aperti all’indisvelato dell’animale, ma cerca piuttosto in ogni ambito di aprire e assicurare il non-aperto e, con ciò, si chiude alla sua stessa apertura, dimentica la sua humanitas» (G. Agamben, L’aperto, cit., p. 80). 44.  «L’essenza incondizionata della soggettività si dispiega necessariamente come la brutalitas della bestialitas. Alla fine della metafisica sta la tesi: homo est brutum bestiale» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 699).

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– animali e tecniche – è quella del dialogo, per cui la soggettività nomade, ibridata, metamorfica, in transizione è considerata anche come soggettività dialogante. Utilizzando questa parola classica della filosofia, il postumanismo riprende, se pure per lo più in modo inconsapevole, la lunga tradizione filosofica della dialettica socratica e della sua critica alla modalità monologica tipica della propaganda sofistica. La maieutica socratica, l’arte spirituale di far partorire l’anima gravida di verità, può avere successo – com’è noto – soltanto se preventivamente quest’ultima è stata emendata delle false opinioni e si è incamminata lungo il sentiero della conoscenza del vero; ma tale purificazione dell’anima è possibile soltanto grazie al dia-leghein, al processo di domande e risposte con cui si fuoriesce dall’originario solipsismo e, in costante relazione dialettica con l’interlocutore, si intraprende il cammino che conduce al Vero e al Bene. Se pure sono del tutto assenti i presupposti ontologici e assiologici tipici della dialettica socratico-platonica, nel postuma­nismo è presente la stessa convinzione che non soltanto il sapere abbia un carattere spiccatamente dialogico45, ma che la stessa costituzione dell’identità soggettiva possieda un tale carattere dialogico46, che cioè nel confronto con l’alterità si determini una

45.  «Conoscere è dialogare col mondo, in infiniti modi: l’arte, la tecnologia, la catalogazione, l’esplorazione, altro non sono, in definitiva, che forme di dialogo» (R. Marchesini, Alterità, cit., p. 47). Ma se l’episteme è un dialogo, Marchesini, interpretando una diffusa convinzione del postumanismo, può concludere affermando una sorta di relativismo dialogico: «Se la realtà è uno spazio del possibile, infiniti sono i modi per descriverla e spiegarla, tanti quanti sono i dialoghi potenziali con lei. E allora ogni piano di realtà sarebbe concordemente vero. […] La realtà si manifesterebbe solo nel dialogo. Modificando il dialogo, ecco apparirci un diverso piano di realtà» (ivi, p. 48). 46.  Per Marchesini la soggettività umana non è l’esito dell’emancipazione dalla condizione umana, ma l’espressione di una specifica condizione dialogica del vivente e, in quanto tale, essa non è privilegio soltanto dell’umano: «La soggettività è una titolarità del vivente che emerge dalla sistemica della

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vera e propria “introiezione” dell’altro nel sé, e ciò varrebbe non soltanto per l’ontogenesi umana, ma per tutti i processi filogenetici:

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Ogni dialogo determina un’introiezione, vale a dire un’organizzazione del dialogante sugli assi dell’interlocutore, non un controlaterale. La velocità del ghepardo è il frutto del confronto dialogico con la gazzella, la forma di un’orchidea riprende la furia bottinatrice del bombo, le zampe palmate degli anatidi parlano di un lungo dialogo con l’acqua.47

Marchesini interpreta, dunque, i processi di adattamento già descritti da Darwin in senso dialogico come correlazione biunivoca con l’ambiente e come rispecchiamento nel partner dialogico. Nella genealogia dell’umano sarebbero, pertanto, presenti reperti fossili di infiniti dialoghi con l’ambiente naturale, gli altri animali e, da qualche secolo, con gli strumenti e le pratiche tecniche, in modo che l’ontologia dell’umano assume integralmente la forma di una «archeologia relazionale»48. Il dialogo, in quanto apertura all’introiezione di contenuti nonumani, costituisce, peraltro, la dimostrazione della posizione decentrata dell’uomo per cui risulta impossibile comprendere i suoi predicati a partire esclusivamente dal patrimonio filogenetico umano. L’apporto dialogico degli animali e delle tecnologie è determinante per spiegare l’umano e la sua evoluzione; il dialogo è, cioè, inteso come la confutazione del presupposto umanistico che crede di poter comprendere l’umano iuxta propria principia. Ma va qui sottolineata la connessione

sua presenza dialogica, dal suo fare riferimento a qualcosa di estraneo ma già presupposto, come una serratura che impliciti una certa chiave, e parimenti in divenire, come una rappresentazione che sempre ridefinisca lo script. La soggettività indica lo sfuggire dell’individuo dal già-dato, l’eccedenza del suo essere» (ivi, p. 111). 47.  Ivi, p. 45. 48.  Ivi, p. 46.

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tra il dialogo e l’ibridazione intesa – lo abbiamo visto – come carattere fondamentale dell’esperienza umana prima ancora dell’avvento delle tecnologie infiltrative: non c’è dialogo che non generi un’alterazione e una transizione morfologica. Il dialogo è considerato come la forma relazionale dell’ibridazione morfologica e, in quanto tale, dell’accrescimento di ogni organismo vivente: «la vita è soprattutto espansione, accesso a nuovi orizzonti di relazione»49, per cui ciascun essere umano è il frutto di una catena dialogica con le altre specie e con l’ambiente naturale che non si è mai interrotta e che adesso si prolunga anche all’interno del sistema tecnico con nuove ibridazioni e dialoghi creativi. Il bergsoniano soffio vitale sarebbe, dunque, il frutto di continue e imprevedibili coniugazioni dialogiche; nella sottile soglia relazionale si apre il respiro della vita. Tale respiro metamorfico della vita è interpretato da Marchesini, con implicito riferimento alla filosofia deleuziana, come “desiderio”. Sarebbe il desiderio, pertanto, all’origine dell’impulso dialogico e delle metamorfosi della vita animale. Desiderare sarebbe un’esposizione priva di orientamento teleologico all’ibridazione che giunge dal di fuori: «Come puntini di sospensione, i desideri aspettano (si aspettano) che il mondo vada a specificarli»50. Le soglie vitali in cui attecchisce ogni metamorfosi rappresentano una sorta di filtro attraverso cui vengono selezionate le poetiche creative della vita. La soglia è, pertanto, il luogo dell’esperienza dell’altro in quanto esperienza della sua «visi-

49.  Ivi, p. 56. «La vita non è fatta di compartimenti stagni, ma di soglie di coniugazione. La vita è un continuo seminario di relazioni, un flusso che come una fiamma affamata di ossigeno, si alza verso l’alto producendo figurazioni che sempre si rinnovano, incapaci di ripetersi, guizzano nella loro singolarità, prendendosi campo attraverso l’ibridazione con il mondo» (ivi, p. 62). 50.  Ivi, p. 59.

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tazione» ed «epifania»51. Con questi due concetti, Marchesini è consapevole di intersecare le sue riflessioni con un ambito propriamente religioso e di confrontarsi, se pure in maniera indiretta, con le decisive riflessioni sull’alterità del filosofo lituano-­francese Emmanuel Levinas, la cui sfida fondamentale è, com’è noto, quella di superare la filosofia classica della totalità e del Medesimo e di delineare un pensiero della trascendenza di Altri (Autrui) – con questa espressione Levinas intende sempre l’altro uomo e non un’alterità neutra52 – il cui comandamento etico incondizionato trasfigura la libertà del soggetto egoistico nella libertà di un soggetto responsabile per Altri e chiamato a rispondere delle sue esigenze e sofferenze. L’epifania del volto di Autrui è, dunque, come lo stesso Levinas afferma, di per sé «etica»53 e instaura una relazione che non è simmetrica e di reciprocità, come quella tipica delle filosofie dialogiche e del rispecchiamento: l’io non si rispecchia nell’altro che ne ibrida i predicati e impone le sue dinamiche metamorfiche. Si tratta, piuttosto, di una relazione profondamente asimmetrica in cui l’appello muto di Altri mi interpella

51.  Come hanno mostrato l’etnografia e la paleoantropologia, la costituzione della dimensione culturale dell’uomo (l’antropopoiesi) è fortemente dipendente dal confronto con gli animali non umani: cfr. R. Marchesini, Epifania animale. L’oltreuomo come rivelazione, Mimesis, Milano-Udine 2014. 52.  Se per Levinas l’emblema dell’alterità è altri, inteso come altro uomo, la forma esemplare di alterità per il postumanismo è l’animale, come afferma Marchesini: «L’alterità animale rappresenta l’archetipo di ogni forma di alterità» (R. Marchesini, Alterità, cit., p. 67). Sarebbe stata la tradizione umanistica a negare all’animalità ogni dignità dialogica, e di conseguenza a renderla la sponda ancestrale da cui allontanarsi per fare emergere l’uma­no: cfr. ivi, pp. 67 ss. Per Marchesini, invece, è necessario sostituire la tradizionale emancipazione dall’animalità con una emancipazione dell’ani­ malità, compiendo una sorta di inversione della logica filogenetica: cfr. ivi, pp. 174-180. 53.  E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità (1961), tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1996, p. 71.

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ed esige la mia responsabilità assoluta nei suoi confronti determinando quasi una “curvatura dello spazio intersoggettivo” che imprime una direzionalità univoca allo spazio della responsabilità: da me verso Altri. Tale assoggettamento etico dell’io non è pertanto in nessun modo assimilabile ai processi ibridativi di costituzione della soggettività umana tipici del post-umano in cui le alterità sono concepite come piani di rifrazione e di compensazione, eticamente neutri, del desiderio metamorfico tipico della vita animale. Ancora più evidente è la distanza tra queste due concezioni dell’alterità se analizziamo il diverso utilizzo che, nelle due prospettive, viene fatto dei concetti di “ispirazione” e “ospitalità”. Per Marchesini, l’ispirazione sorge […] attraverso una sospensione del sé narcisistico per rimettere in moto il sé sensibile dell’esperienza soggettiva. La vita è un allargarsi nel mondo, non per sottometterlo ma per includerlo. L’ispirazione pertanto è un riconoscersi nelle alterità, un rispecchiarsi che chiede la sospensione, l’esercizio dell’epoché.54

L’ispirazione, ciò che infonde lo spirito vivificatore (il pneuma), per Levinas è, invece, il risultato del “trauma” etico esercitato dall’Altro sul Medesimo, l’origine abissale della mia responsabilità verso Altri che non mi è dato motivare razionalmente e che sfugge a qualsiasi tentativo di ricostruzione genealogica. A proposito del concetto di ospitalità, Marchesini sottolinea la sua intrinseca ambiguità semantica risalente già al latino 54.  R. Marchesini, Alterità, cit., p. 63. Così Marchesini collega l’ibridazione al rispecchiamento: «L’ispirazione in definitiva è sempre l’esito di un estro coniugativo verso il mondo, che al più produce carenze, non le mitiga. L’immagine prometeica che si oppone al pluralismo epimeteico, che traccia un argine invalicabile, che chiude l’umano nell’autosufficienza, nega quell’idea relazionale della creatività che sta dentro al concetto di rispecchiamento» (ivi, p. 66).

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hospes, che coniuga l’accogliere con l’essere accolto; egli, tuttavia, lega tale concetto soprattutto all’attitudine desiderante e ibridativa del corpo, inteso come luogo liminare di interferenza dialogica con l’alterità55. Attraverso l’esperienza corporea, l’uomo non sottomette narcisisticamente il mondo a sé, né si sottomette eticamente all’altro nel senso di assumerlo dentro di sé come istanza etica fondamentale56, ma lo ingloba, lo assimila e lo include in sé nella misura in cui le metamorfosi che esso subisce nell’ospitarlo attivano meccanismi di trasformazione e di crescita che sono già impliciti nel desiderio in quanto atto ibridativo. Il carattere ancora soggettivante in senso attivo di questo concetto di ospitalità, del tutto differente, dunque, dalla carica destituente dell’ospitalità levinasiana, viene, peraltro, affermato dallo stesso Marchesini: «Si tratta […] di un’azione intenzionale, anche quando sembra esaurirsi in un’entità esterna, un’azione che nel riferirsi attribuisce un significato»57. Ospitare le epifanie, in primo luogo quelle animali, ma anche quelle della tecnica, significa, dunque, fare posto all’altro fino 55.  «La liminarietà del corpo va […] intesa non come confine disgiuntivocontenitivo, ma come “soglia relazionale” che fa emergere il suo esserci, la sua presenza, in quel “far posto” attraverso il dialogo-connessione con le alterità» (ivi, p. 177). 56.  In Altrimenti che essere Levinas utilizzerà l’emblematica espressione «l’altro nel Medesimo» per indicare questa forma traumatica di ospitalità dell’altro: cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974), tr. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Jaca Book, Milano 1998, p. 141. Marchesini sembra solo avvicinarsi a tale estrema concezione della relazione con l’alterità – da lui però intesa come alterità animale e macchinica – quando afferma che «l’epifania va intesa come momento in cui l’essere umano, in relazione con l’alterità, va oltre il fenomeno (l’animale come altro-da-sé) per accedere a un evento epifanico ovvero annunciativo (l’animale come altrocon-sé) capace di indicargli una nuova dimensione esistenziale» (R. Marchesini, Alterità, cit., p. 74). 57.  Ivi, p. 64.

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ad assumere le sembianze esistenziali dell’eterospecifico attraverso un radicale processo di antropo-decentramento. Si tratta di quel “divenire-animale” di matrice deleuziana che è stato ampiamente ripreso dal postumanismo critico di Braidotti58. Non è qui in questione un ritorno regressivo a un’animalità ancestrale, quanto una proiezione fantasmatica nell’alterità animale che è contemporaneamente una sua introiezione simbolica; il risultato di tale ibridazione uomo-animale non è una mera traduzione in termini simbolici dei predicati animali, ma una nuova creazione culturale e dialogica.

3. Differenza e ibridazione Al di là della concezione autarchica, autopoietica e riflessiva dell’umano che, se pure con diversi accenti, è stata tipica del pensiero moderno fin da Cartesio, il postumanismo intende pensare l’umano come il risultato di una relazione “introiettivareferenziale” con le alterità per cui i predicati umani emergono sulle soglie di connessione con i referenti esterni, siano essi gli animali eterospecifici, l’ambiente naturale o – nel nostro tempo in modo prevalente – gli strumenti e le pratiche tecniche. L’umano è il frutto di un processo dialogico-ibridativo con le alterità e non di un’operazione disgiuntiva-epurativa rispetto ai retaggi ancestrali dell’animalità, alla natura e ai prodotti tecnici. Il mito della purezza che Marchesini attribuisce alla tra-

58.  Cfr. R. Braidotti, Il postumano, cit., pp. 75-84. Ma il farsi animale per Marchesini significa soprattutto ritrovare la disponibilità a essere ibridati dall’alterità e riconoscere quella esuberanza attitudinale e pregnanza di predicati che lo dispongono permanentemente a una riorganizzazione metamorfica ed eteronomica e lo aprono alle molteplici forme di coniugazione dialogica con il mondo.

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dizione umanistica come suo portato fondamentale59, per cui l’essenza dell’umano andrebbe raggiunta attraverso una progressiva liberazione dell’uomo dalle scorie del suo processo evolutivo, dalle contingenze e dai cascami della sua dispersione e contaminazione con il mondo e con gli altri esseri viventi, è peraltro palesemente smentito da due fenomeni concomitanti che appartengono alla nostra attualità: da un lato, il carattere costitutivamente immersivo della relazione con la tecnica, divenuta ambiente di vita e potenza cognitiva e operativa sempre più infiltrante la stessa struttura psico-fisica dell’uomo; dall’altro, il processo di naturalizzazione dell’uomo indotto dalla sempre più diffusa sensibilità ecologica per cui i predicati umani sono percepiti come profondamente dipendenti dal contesto geo-fisico in cui si sono formati. Se non vi è, dunque, la possibilità di giungere a un’identità del soggetto nella sua purezza incontaminata dall’ambiente esterno, non sarà più possibile nemmeno pensare la relazione con l’alterità in termini dialettici, come ha fatto buona parte della tradizione umanistica di matrice idealistica. Il carattere dialogico-­referenziale del rapporto con l’alterità si contrappone, pertanto, alle tre forme dialettiche fondamentali di relazione con l’altro: 1) il polemos, ossia il confronto polemico per opposizione, secondo cui i processi di soggettivazione si originano da forti contrapposizioni con l’altro; 2) la mimesis, secondo cui la relazione con l’altro avviene tramite imitazione e assimilazione dei caratteri dell’alterità; 3) il taxon, ovvero il rapporto classificatorio, gerarchico e morfologico con l’alterità. È, dunque, necessario assumere un’altra prospettiva nei confronti dell’alterità a partire dalla costitutiva “contaminazione”

59.  Cfr. R. Marchesini, Post-human, cit., cap. 6.

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del soggetto60 teorizzata in molteplici modalità ibridative dal postumanismo. Nonostante le serrate critiche all’essenzialismo, tuttavia, la concezione dell’alterità del postumano resta a mio avviso legata a un pregiudizio teorico di tipo essenzialistico, nel senso che l’interazione – o, per usare termini tipici del lessico postumanista, la connessione, l’interfaccia, la coniugazione – con l’alterità presuppone la sussistenza ontologica dell’altro, sia esso un ente – animale, naturale o tecnico –, sia un contesto – filogenetico o sistemico – in grado di retro-agire sul soggetto trasformandolo o destrutturandolo in vari modi. La metafora del rispecchiamento, che abbiamo sopra richiamato, insita nel concetto di epifania per come viene delineato da Marchesini, è un chiaro sintomo di tale ipostatizzazione dell’alterità che, pur imprimendo una forte svolta antropodecentrista alla tradizione filosofica moderna, costituisce una sostanziale riconferma dei suoi presupposti ontologici61.

60.  Il concetto di contaminazione è al centro anche del pensiero della decostruzione di Jacques Derrida, se pure egli non lo intenda mai come ibridazione con l’alterità tecnica o animale. Come ha efficacemente notato Silvano Petrosino, «il pensiero di Derrida si trova […] attraversato e strutturato dal concetto di purezza o forse meglio dal suo opposto, quello di contaminazione, termini questi che si implicano secondo un rapporto che può essere formulato nel modo seguente: la purezza è impossibile perché la contaminazione è necessaria» (S. Petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile, Guida, Napoli 1983, p. 100). 61.  Nemmeno il concetto di alterazione/ibridazione può essere considerato un autentico superamento della concezione moderna dell’alterità come luogo del riconoscimento, ma una sua riconferma sul piano di una nuova soggettività metamorfica che ha introiettato i processi di alienazione descritti da Marx rendendoli funzionali al processo di costituzione di un’identità transizionale, in permanente disequilibrio e costitutivamente in divenire. In questo senso, l’affermazione heideggeriana dell’alienazione come Heimatlosigkeit e destino mondiale dell’umanità contemporanea (cfr. M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit., p. 292) può valere come un’affermazione ante litteram della soggettività post-umana.

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Mi sembra, cioè, che l’approccio postumanistico all’alterità non giunga a quel livello di radicalità in cui viene pensata la differenza tra uomo e mondo – o, per utilizzare il lessico heideggeriano, la differenza tra uomo ed essere che si radica nella differenza ontologica –, essa soltanto consente di porre su un piano filosofico la sfida che la tecnica, il destino dell’umanità moderna, pone al pensiero. Potremmo caratterizzare tale differenza in senso esistenziale-ermeneutico62 e intenderla come ciò che, lasciandoci ek-sistere e donandoci il contesto di significatività del nostro essere-nel-mondo e delle nostre esperienze (quello che la fenomenologia ha definito come “orizzonte”), si sottrae radicalmente a ogni nostro tentativo di comprensione e di dominio. A partire da tale idea di differenza – in cui, a mio avviso, è rinvenibile il senso principale della Seinsfrage heideggeriana – è possibile ripensare la finitezza dell’esistenza come luogo di apertura e di confronto ermeneutico con l’alterità. Il limite esistenziale della finitezza sarebbe, cioè, la soglia in cui l’uomo fa esperienza del suo non-poter disporre di se stesso – e dell’impossibilità di accedere alla sua origine così come al(la) suo(a) fine – ma, al contempo, della necessità di rispondere alla chiamata che lo fa esistere (l’appello del mondo, del linguaggio, dell’essere) e gli ingiunge di prendersi cura delle cose e degli altri a cui è costitutivamente consegnato. 62.  Intendo qui l’aggettivo “ermeneutico” nel suo significato etimologico di “parlare” e “interpretare”, e non mi riferisco alla filosofia ermeneutica sviluppata da Gadamer, che pure prende le mosse dall’ontologia ermeneutica di Essere e tempo. Un’ermeneutica esistenziale il cui compito fondamentale è, come ha affermato Mario Ruggenini, «la fondazione dell’esistere finito dell’uomo, non nella forma dell’evasione o dell’elusione, che si produce in virtù delle molteplici forme di giustificazione teologico-metafisica, ma del riconoscimento di ciò che siamo. Noi non siamo imprigionati dalla nostra finitezza, bensì siamo aperti grazie ad essa al mistero dell’alterità che ci rende finiti […], e per questo capaci di incontrare gli altri e le cose nel mondo in cui esistiamo» (M. Ruggenini, I fenomeni e le parole. La verità finita dell’ermeneutica, Marietti, Genova 1992, p. 248).

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La differenza ermeneutica esige, pertanto, che l’uomo ek-­sista nel colloquio (Gespräch) con l’alterità, laddove va sottolineato che tale termine tedesco non è sovrapponibile al greco dialeghein, dal momento che in esso, a partire dall’utilizzo che Hölderlin ne fa63 e che Heidegger riprende64, è fondamentale il carattere comunitario insito nel prefisso Ge-. L’uomo è chiamato dalla differenza a stare nel colloquio con gli altri e a essere responsabile del mantenimento di tale confronto ermeneutico mai completamente esauribile in una determinazione definitiva. L’appello all’esistenza che proviene dalla differenza lo chiama a parlare con gli altri, a stare in colloquio, ovvero a stare in ascolto della differenza. L’appello della differenza, che ricorre in vari passaggi degli scritti heideggeriani sul linguaggio65, richiede innanzi tutto il silenzio adeguato all’ascolto, il venir meno della parola che si infrange di fronte al mistero dell’altro. Lungi dal poter essere considerata un esito mistico, tale concezione del rapportarsi all’alterità è, come ha ben mostrato Mario Ruggenini66, intrinsecamente etica ed ermeneutica, nella misura in cui si caratterizza come responsabi-

63.  I versi più significativi di Hölderlin sul rapporto tra esistenza umana e Gespräch sono: «Molto ha esperito l’uomo. / Molti celesti ha nominato / da quando siamo un colloquio / e possiamo ascoltarci l’un l’altro» (Conciliatore, tu che non mai creduto, abbozzo di un poema incompiuto); «Molto, fin dal mattino / da quando siamo un colloquio e ascoltiamo l’uno dall’altro / l’uomo ha esperito; ma presto saremo canto» (Festa della pace). 64.  Per un’analisi dell’interpretazione del Gespräch hölderliniano che sta al cuore della concezione heideggeriana del linguaggio, cfr. C. Resta, Etica del linguaggio, cit., pp. 45-53. 65.  È, infatti, il linguaggio il luogo privilegiato di manifestazione della differenza, in modo che il suo appello è emblematicamente espresso dal risuonare della quiete silenziosa che proviene dall’essenza del linguaggio (Wesen der Sprache): cfr. M. Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio (1954), in Id., In cammino verso il linguaggio, cit., pp. 83-125. 66.  M. Ruggenini, I fenomeni e le parole, cit.

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lità e colloquio infinito tra le esistenze finite ed esposte l’una all’altra.

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È la parola poetica, in quanto parola intrisa di silenzio, che, dunque, esprime al meglio tale esposizione ermeneutica all’alterità. Il poeta suscita il Gespräch tra gli uomini senza produrre alcuna intesa definitiva, senza generare un illimitato orizzonte comunicativo, ma, semmai, generando stupore e continua interrogazione. Come nota Ruggenini, il Ge-spräch non appare allora come il luogo della conciliazione, in cui la comunicazione reciproca solleva ciascuno al di sopra del limite del suo esistere finito e consente a tutti, in quanto collegati, di disporre di quella realtà che al singolo sfugge. […] Il Ge-spräch è piuttosto la dimensione in cui ogni volta si dischiude e si consuma l’esperienza di una verità finita, che si fa in parole, e cioè in enigmi, attraverso i quali è concesso agli uomini di errare tra le cose, incontrandole senza mai possederle, perdendole e tuttavia restando sulle loro tracce, che nessuna conversazione, nessuna ricerca in comune, finisce mai di ricostruire.67

Il colloquio trascrive, dunque, la parola silenziosa al cuore della Sprache nell’intimo dell’umano e lo apre all’esperienza della finitezza, di una “verità finita” che è colloquio infinito con gli altri da cui proveniamo e che ci de-finiscono; esso, di volta in volta, dà la parola a ciascuno chiamandolo a diventare se stesso nel colloquio con l’altro68. Tale esposizione all’alterità non ha

67.  Ivi, p. 244. 68.  Il sé è «un destino che nasce da un appello e attende una risposta, quella di cui ciascuno è richiesto dagli altri nel colloquio. […] L’alterità di quell’altro che per ciascuno è l’essere umano con cui parla, si rivela nell’incalcolabilità dell’invito o della sfida con cui talora ci sorprende, di gran lunga al di là della sua intenzione» (ivi, p. 247). Nell’esperienza del colloquio con l’altro parlante si fa anche esperienza dell’alterità stessa che ci rende ek-sistenti e ci consegna al mistero della nostra differenza reciproca: «Ognuno si sa con gli altri, ma

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alcun carattere ibridativo: la verità finita del colloquio non dispone l’umano alla metamorfosi o all’infiltrazione dell’alterità, dal momento che non è dato di comprendere69 l’altro in alcun modo, né di lasciarsi comprendere da esso. L’alterità sfugge alla presa dell’umano nella misura in cui lo fa ek-sistere e, al contempo, l’umano sfugge alla presa dell’alterità in quanto costitutivamente differente da essa. Mentre il sistema tecnico, come abbiamo visto, tende a inglobare metamorficamente l’umano e assimilarlo alle sue logiche negando ogni autentico darsi dell’alterità, la differenza ermeneutica libera l’umano da ogni sistematica e lo apre alla verità della sua finitezza, alla rivelazione della precarietà e della mortalità che caratterizzano il suo abitare terrestre. In questa prospettiva la tecnica diviene, come aveva intuito Heidegger già nella sua conferenza del ’53, il luogo privilegiato della rivelazione della finitezza e, al contempo, il supremo pericolo del suo occultamento, in quanto pone l’uomo in rapporto con una potenza che, nella sua ambiguità70, allo stesso tempo manifesta e cela la differenza del mondo: la manifesta in quanto rivela un invio destinale (Geschick) dell’essere, un darsi di un orizzonte storico-epocale che eccede ogni volontà e progetto umani; e la cela in quanto fa sì che l’uomo creda di potersi rispecchiare in ogni alterità, incontrando ovunque nient’altro che se stesso e le proprie metamorfosi tecniche. Il postumanismo resta, a mio avviso, prigioniero di questo occultamento della verità intesa come disvelamento e ri-­velazione si avverte solo davanti all’alterità, che trattenendoci a parlare insieme ci fa essere differenti» (ivi, p. 248). 69.  Utilizzo questo verbo nel suo significato etimologico latino di comprehendere, come “catturare”, “includere”, “afferrare”. 70.  «L’essenza della tecnica è in alto grado ambigua. Tale ambiguità richiama all’arcano (Geheimnis) di ogni disvelamento, cioè della verità» (M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p. 25).

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dell’umano e del suo rapporto con l’essere, in quanto non coglie nella tecnica la possibilità di un appello che libera da ogni processo di soggettivazione e che, allo stesso tempo, assoggetta l’umano, ma si limita a delineare prospettive di soggettivazione – la soggettività ibrida, nomade, metamorfica, ecc. – che solo apparentemente si contrappongono allo statuto umanistico e moderno della soggettività e che finiscono, piuttosto, per rinchiudere l’uomo nell’immanenza claustrofobica del fare e trasformare senza fine, nella notte illuminata a giorno della metropoli globale del Proteo tecnico. Al cospetto dell’alterità, quand’anche essa acceda a manifestazione senza tradirsi come ente o evento del mondo, il post-umano non è in grado di tacere e di rispettarla nella sua intangibile estraneità e separazione; non è, cioè, in grado di rispondere al mistero della differenza a cui l’uomo appartiene in quanto ek-siste e che è chiamato, nell’infinto colloquio, a custodire nel suo irriducibile ritrarsi. All’ontologia umanistica e antropocentrica, il postumanismo sostituisce una xeno-ontologia che, tuttavia, scaturisce da una continua negoziazione tra il sé e l’altro e non perviene mai al riconoscimento di una radicale e irriducibile alterità.

4. Alterità come Differenza Nella considerazione critica del rapporto con l’alterità emerge, dunque, il portato ontologico del postumanismo che è insito nelle sue analisi antropologiche. La centralità del concetto di metamorfosi, peraltro, conduce di per sé a una tematizzazione propriamente ontologica delle categorie di identità e differenza71. Se la tradizione metafisica occidentale ha pensa-

71.  «La metamorfosi tiene insieme l’altro e lo stesso: per questo è l’immagine affascinante del nucleo più estremo dell’ontologia, che sempre ha preso atto

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to l’identità nei termini di stabilità, omogeneità, separazione, autonomia e purezza, individuando – come abbiamo visto – nell’altro una fonte di riconoscimento e costruzione dialettica dell’identico, la sfida di numerosi autori del Novecento, di cui le analisi postumanistiche sono debitrici, è stata, invece, quella di ripensare tale concetto integrandolo con quello di differenza. La massima espressione del primato ontologico dell’identità che ha segnato l’intero corso del pensiero occidentale si ritrova già nella concezione parmenidea dell’essere. Nel celebre frammento che sancisce l’identità tra pensiero ed essere, tuttavia, Heidegger rintraccia una forma originaria di quello che poi diventerà il principio logico e ontologico di identità72. Nel frammento parmenideo è espressa la coappartenenza di pensiero ed essere «nello Stesso e in base allo Stesso»73. Più originaria dell’identità metafisicamente intesa come uguaglianza, unità ed equivalenza – sono questi caratteri identitari che caratterizzano, come abbiamo visto, il sistema tecnico moderno – risiede la concezione pre-metafisica (pre-tecnica) dell’iden­tità come coappartenenza (Zusammengehörigkeit): mentre la metafisica pensa l’identità come un tratto dell’essere, secondo Parmenide l’essere appartiene, insieme al pen-

di tali condizioni fondamentali entro le quali il mondo ha per noi senso, provando a pensarle» (A. Allegra, Metamorfosi, cit., p. 166). 72.  Nella traduzione di Heidegger, il frammento parmenideo è così espresso: «Lo Stesso infatti è sia percepire (pensiero) che essere» (M. Heidegger, Il principio di identità, in Id., Identità e differenza, cit., pp. 27-51: p. 32). Heidegger poi commenta: «Qui qualcosa di differente, “pensiero ed essere”, è pensato come lo Stesso. Che cosa significa questo? Significa qualcosa di completamente diverso rispetto a ciò che conosciamo come la dottrina della metafisica, cioè che l’identità appartiene all’essere. Parmenide dice: l’essere appartiene a una identità» (ibidem). 73.  Ivi, p. 33.

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siero, allo Stesso (to autó), è esso stesso, cioè, un tratto dell’identità. Il co-appartenere che vige in questa determinazione dell’identità è ambiguo: se si accentua il prefisso “co-”, il senso dell’appartenere (gehören) viene determinato in base all’insieme (Zusammen), all’unità, generando una modalità “connettiva” dell’identità che si presta a descrivere a livello ontologico le dinamiche di appartenenza e connessione degli elementi del sistema tecnico. Lo stesso Heidegger sottolinea il carattere di sistema di tale declinazione dell’appartenere allo Stesso: In tal caso «appartenere» significa essere inserito e correlato nell’ordinamento di un «insieme», sistemato nell’unità di un molteplice, composto nell’unità del sistema, mediato tramite il centro unificante di una sintesi che dà la misura. La filosofia rappresenta questo coappartenere come nexus e connexio, ossia come la necessaria connessione dell’uno con l’altro.74

Tuttavia il coappartenere può anche essere declinato in maniera diversa come coappartenere, per cui il “co-”, l’insieme, viene determinato a partire dall’appartenere e quest’ultimo viene pensato come un’appartenenza reciproca (ein Zu-einanderGehören). Si profila dunque una chiara distinzione tra l’identità intesa come connessione in un ordine sistematico – tipica di tutte le cose e dell’uomo, inseriti nel sistema tecnico e nelle sue continue metamorfosi – e l’identità intesa come luogo della coappartenenza reciproca dei differenti, che Heidegger ha altrove cercato di pensare con la figura del Geviert75. In questa prospettiva, l’uomo non “appartiene” all’essere in quanto è inserito (eingeordnet) nell’essere, ma in quanto è «aperto all’essere, è posto di fronte all’essere, resta riferito a esso e

74.  Ivi, pp. 34-35. 75.  M. Heidegger, La cosa, cit.

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gli corrisponde. L’uomo è in senso proprio questo rapporto di corrispondenza ed è soltanto questo»76. L’appartenere all’essere tipico dell’uomo è, dunque, uno stare al suo cospetto e un corrispondere pur restandone separato e differente. In questa «eccedenza»77 dell’umano emerge la differenza non antropocentrica che distingue l’uomo da tutti gli altri enti: l’uomo non è integrato in un sistema e non è nemmeno un particolare soggetto ibridativo/ibridato operante all’interno dell’ordine filogenetico e, da ultimo, nei ruoli direttivi del sistema tecnico. L’uomo è colui che appartiene (gehört) all’essere, alla differenza che lo fa esistere; a tale differenza l’uomo è chiamato a prestare ascolto (hört) in quanto è ad essa affidato. Analogamente l’essere – la differenza –, in quanto lasciar essere i differenti, è affidato all’uomo che, nelle aperture storico-linguistiche, lo lascia avvenire nella presenza e nella storia. Uomo ed essere, uomo e differenza, sono affidati l’uno all’altro e si appartengono reciprocamente, se pure tale reciproca appartenenza venga per lo più misconosciuta nella misura in cui essi vengono rappresentati all’interno di ordinamenti sistematici e mediazioni dialettiche. Non è a partire dalla loro connessione – o, nella prospettiva postumanista, dalla loro ibridazione reciproca – che si giunge a determinare la loro “identità”, ma soltanto in base alla loro reciproca coappartenenza e, in particolare, al loro essere affidati l’un l’altro, in cui emerge – e questo è l’elemento decisivo – un carattere propriamente etico dell’identità pensata a partire dalla differenza: l’uomo appartiene all’essere in quanto ne è responsabile, in quanto è chiamato a rispondere all’appello della differenza. Viene qui in luce una caratterizzazione paradossale della differenza come divergenza/convergenza dei differenti che Heideg76.  M. Heidegger, Il principio di identità, cit., p. 37. 77. Cfr. ibidem.

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ger, nel saggio La struttura onto-teo-logica della metafisica78, in riferimento al concetto greco di diaphorá, nomina Austrag. Egli impiega tale espressione per indicare il “frammezzo” tra essere ed ente che li mantiene «l’uno di fronte all’altro» e, allo stesso tempo, li porta a «divergere l’uno dall’altro e a volgersi l’uno all’altro [auseinander-zueinander getragen sind]»79. Poco oltre ritroviamo la caratterizzazione dell’Austrag come un movimento circolare, un ruotare l’uno intorno all’altro (umeinanderkreisen) di essere ed ente80. Con il concetto di Austrag Heidegger intende superare il concetto metafisico di differenza come contrapposizione polemica, insito ancora nel greco diaphorá, e la concezione logico-tassonomica della differenza che, da Aristotele in poi, vale come operatore fondamentale per la formulazione delle definizioni in quanto composizione di genere prossimo e differenza specifica. Al di là della differenza come distinzione (Unterscheidung), la differenza come Austrag indica una divergenza che, tuttavia, non si limita al differire ma, nel rispetto della lontananza e della differenza, conduce i differenti a una convergenza, volgendoli l’uno verso l’altro. La «vicinanza» che così viene pensata81 è del tutto distinta dalla compresenza metamorfica dell’universo tecnico moderno, dal momento che il differire dei differenti non consente alcuna omogeneità ontologica funzionale al “lavoro” metamorfico della tecnica, ma inaugura una soglia di prossimità e di reciproco rispetto82.

78.  M. Heidegger, La struttura onto-teo-logica della metafisica (1957), in Id., Identità e differenza, cit., pp. 53-98. 79.  Ivi, p. 84. 80.  Cfr. ivi, p. 92. 81.  Tale vicinanza è quella stessa prossimità vicinale che abbiamo sopra richiamato: cfr. supra, p. 161. 82.  Quest’ultimo termine va inteso non in senso propriamente etico ma come un reciproco ri-guardarsi e rispecchiarsi nelle proprie irriducibili differenze,

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In questo senso la differenza non è – come nella prospettiva postumanistica – produttiva di connessioni, ibridazioni e coniugazioni reciproche, ma fonte di interrogazioni e confronti inesauribili che, nel porre in relazione i differenti, nel transpro­ priarli (übereignen)83 l’un l’altro, illuminano e approfondiscono la loro radicale divergenza. La differenza, peraltro, si rivela anche come manifestazione di quell’appello dell’essere che parla dall’essenza stessa della tecnica moderna, dal Gestell, e che prelude a un possibile superamento della modalità puramente tecnica di relazione tra uomo ed essere nella misura in cui nel dominio della tecnica moderna, nella sua ambiguità, si apre lo spazio per quell’Ereignis che rivela la relazione uomo/essere come coappartenenza e cura reciproca.

5. L’uomo futuro È nello spazio genuinamente “polemico” di quella che abbiamo chiamato la differenza ermeneutica, in cui i differenti pos-

analogamente al rapporto che intercorre tra gli elementi del Geviert: «Nessuno dei Quattro si irrigidisce nella sua separata particolarità. Nella loro traspropriazione, ciascuno dei Quattro è espropriato (enteignet) trasformandosi in qualcosa di proprio. Questo traspropriare che espropria (enteignendes Vereignen) è il “gioco di specchi” (Spiegel-Spiel) dell’insieme dei Quattro» (M. Heidegger, La cosa, cit., p. 37). 83.  Attraverso il concetto ricorrente di Übereignung, Heidegger vuole indicare non tanto un mero trasferimento di proprietà, ma, inserendo questo termine nella più ampia costellazione semantica dell’Ereignis, il processo di espropriazione di sé che avviene a partire dall’incontro con la differenza e che rivela l’impossibilità di pensare l’identità come chiusura monolitica e autoreferenziale o come costruzione dialettica: cfr. M. Heidegger, L’evento (2009), ed. it. a cura di G. Strummiello, Mimesis, Milano-Udine 2017, in part. pp. 233-263.

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sono incontrarsi e concedersi reciprocamente ospitalità84 pur restando distinti e differenti, che si gioca, a mio avviso, la sfida di un pensiero dell’umano alternativo sia alle rivendicazioni nostalgiche e spesso reazionarie di chi, in nome della gloriosa tradizione umanistica, vorrebbe difendere l’uomo dai pericoli della tecnica, sia alle più o meno entusiastiche visioni di una ineluttabile e crescente ibridazione uomo-tecnica in grado di potenziare le facoltà umane o, addirittura, di disincarnare la mente in un universo informatico pseudo-spirituale sottratto ai vincoli della corporeità e della caducità. E tuttavia, l’appello dello Zarathustra nietzscheano – «l’uomo è qualcosa che deve essere superato»85 –, a cui tali visioni più o meno esplicitamente e consapevolmente si ispirano, sembra non poter essere eradicato dal nostro orizzonte esistenziale e richiede un pensiero all’altezza della sua sfida epocale e della risposta, altrettanto epocale, che la tecnica continua a fornire attraverso incessanti sconfinamenti e invasive infiltrazioni. Il concetto di ibridazione con cui il postumanismo pensa il superamento dell’uomo, peraltro, non è una novità introdotta da questo movimento filosofico e culturale86, dal momento che era già presente nello stesso Zarathustra nietzscheano: con vaghe reminiscenze pichiane, Nietzsche lo utilizza per caratterizzare l’uomo più saggio, il rappresentante di quella stirpe di precursori dell’oltreuomo che alla fine del libro vengono

84.  Sull’ospitalità come modalità di relazionarsi in maniera non assimilativa o oppositiva alla differenza, decisiva è la riflessione dell’ultimo Derrida, in particolare: J. Derrida, Sull’ospitalità (1997), tr. it. di I. Landolfi, Baldini & Castoldi, Milano 2000. 85. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 6. 86.  Secondo Marchesini l’ibridazione costituisce l’espressione più chiara, esemplare e compiuta di quel superamento dell’antropocentrismo ontologico che la filosofia postumanista si pone come obiettivo: cfr. R. Marchesini, Alterità, cit., p. 188.

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definiti uomini superiori. Zarathustra dichiara che anche il più saggio degli uomini non è che «un’ibrida disarmonia tra pianta e spettro»87. L’uomo più saggio è un ibrido tra la terra e la sua idealizzazione, ovvero, nella prospettiva postumanistica, una sconnessa virtualizzazione tecnica della natura; in quanto tale, egli resta solo un ponte, un gradino su cui qualcun altro, il degno erede di Zarathustra, potrà salire e passare «al di là»88, laddove non vale nessuna rappresentazione fantasmatica della terra e non ha più presa la potenza metamorfica della tecnica. Zarathustra, infatti, così ammonisce coloro che vorrebbero ricercare l’essenza dell’umano nella mera natura (la pianta) o – come i transumanisti del nostro tempo – nel puro artificio disincarnato (il fantasma): «Sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra»89. Al di là dell’evidente confutazione di ogni fuga in mondi dietro il mondo (Hinterwelten) ascetici o ideali, il richiamo al radicamento, lungi dall’indicare forme di appartenenza a una particolare terra, rimanda, piuttosto, a una possibile interpretazione non tecnica del “superamento dell’uomo”: superare l’uomo, cioè, in direzione della propria finitezza e non dell’infinità dei mezzi tecnici e delle metamorfosi post-umane; superare l’uomo nella molteplicità delle sue relazioni con gli altri e nell’esposizione al loro appello eticamente significativo. L’oltreuomo, in questa prospettiva, è il senso della terra in quanto radicamento nel fondo abissale da cui sorge ogni alterità che ci coinvolge in un rapporto di senso e che, espropriandoci, ci rivela l’ampiezza della nostra capacità di accoglierci e ascoltarci reciprocamente, di restare nel colloquio che noi stessi siamo e che forse, soltanto, ci fa umani. L’oltreuomo nietzscheano, infatti, è anche colui che è

87. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 6. 88.  Ivi, p. 343. 89.  Ivi, p. 6.

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in grado di accogliere in sé la potenza metamorfica post-­umana, il «fiume immondo»90 dell’umano, e di superarne l’impurità. L’immagine oceanica che qui utilizza Nietzsche – l’oltreuomo è il mare che può ricevere questo torbido fiume senza diventare impuro – e che, peraltro, richiama la metafora del mare aperto impiegata altrove per caratterizzare gli argonauti dello spirito e i filosofi dell’avvenire91, non esprime una purezza ritrovata, né una qualche conciliazione dialettica delle contraddizioni dell’umano, ma indica, piuttosto, l’inappariscente potenza dell’ospitare in sé la differenza senza né assimilarla, né ibridarsi con essa. Il superamento dell’uomo si caratterizza, dunque, non più come mero oltrepassamento (Überwindung) ibridizzante dei suoi limiti, ma come quel processo di approfondimento (Verwindung) e perlustrazione incessante della dimensione multiforme dell’umano, rivendicazione continua della sua frontiera mobile che non può mai essere raggiunta e definita ma che si rivela ogni volta nella sua radicale esposizione all’altro, nel suo essere schermo invisibile su cui si proiettano le forme molteplici della differenza e in cui il suo appello etico può risuonare e prendere forma. Non è l’eccesso dionisiaco della hybris che determina il carattere metamorfico del post-umano a dischiudere l’avvenire, ma l’eracliteo errare senza fine alla

90.  Ivi, p. 7. 91.  «Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti alle nostre spalle – e non è tutto: abbiamo tagliato la terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guardati innanzi! Ai tuoi fianchi c’è l’ocea­ no: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno momenti in cui saprai che è infinito e che non c’è niente di più spaventevole dell’infinito. Oh, quel misero uccello che si è sentito libero e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà – e non esiste più “terra” alcuna!» (F. Nietzsche, La gaia scienza, tr. it. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. V/2, tr. it. di F. Masini e M. Montinari, Adelphi, Milano 1965, pp. 11-276: p. 129).

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ricerca dei confini dell’anima lungo le molteplici soglie della differenza. Analogamente, non è nella dinamica antagonista o dialettizzante del “post-” o in quella tacitamente complice del “trans-” che l’umanesimo tradizionale può essere sottratto alle sue derive antropocentriche, autoreferenziali, identitarie e anti-ecologiche, ma nello spazio eticamente connotato di un nuovo «umanesimo dell’altro uomo»92. In alcune decisive pagine dei Beiträge zur Philosophie, l’opera segreta in cui Heidegger fa i conti con il fallimento del suo pensiero e, forse, soprattutto del suo tentativo di oltrepassare l’antropologia umanistica rinnovando l’eredità nietzschea­na dello Übermensch, si rinviene nella concezione dell’esistenza come Dasein il «fondamento della possibilità dell’uomo a venire»93. Il Dasein non sarebbe, dunque, una proprietà del­ l’uomo, quella “differenza ontologica specifica” che lo distinguerebbe da tutti gli altri esseri viventi, ma il compito fondamentale dell’uomo, il segno del suo essere “futuro”: «l’uomo è a venire, in quanto assume di avere da essere il suo ci [Da]»94. L’uomo, cioè – direbbe Pascal –, supera infinitamente se stesso in quanto è apertura alla differenza, esposizione all’alterità che, pur provenendo dall’esterno, risuona come la voce silenziosa della coscienza, dentro di sé e sopra (über) di sé95, commisurando l’umano con la misura smisurata del cielo96, sim-

92.  Cfr. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo (1972), tr. it. di A. Moscato, il melangolo, Genova 1998. 93.  M. Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’evento) (1989), tr. it. di A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, p. 297 (tr. mod.). 94.  Ibidem (tr. mod.). 95.  «La chiamata viene da me e tuttavia da sopra di me» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 334). 96.  «La misura consiste nel modo in cui il Dio che rimane nascosto proprio come tale è manifesto mediante il cielo» (M. Heidegger, «… poeticamente abita l’uomo…» [1954], in Id., Saggi e discorsi, cit., pp. 125-138: p. 132).

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bolo per eccellenza dell’alterità. L’uomo è a venire perché, come i primi cristiani a cui si rivolge la predicazione di Paolo, insegue se stesso fino al termine della notte attendendo la sua impossibile trasfigurazione messianica. Il suo essere-futuro, dunque, si compie incessantemente nella veglia97 con cui egli, corrispondendo all’appello del darsi ogni volta unico e irripetibile del senso, si apre all’evento finito della differenza e assume la sfida e il rischio della responsabilità di sé e del mondo.

97.  «La vigilanza dell’uomo [Wächterschaft] dell’uomo è però il fondamento di un’altra storia» (M. Heidegger, Contributi alla filosofia, cit., p. 245; tr. mod.).

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Indice

Introduzione

p. 11

Capitolo I Ambiguità e potenza della tecnica 1.  Proteo e l’ambiguità della tecnica 2.  La tecnica: tattica di vita 3.  Der Arbeiter: la tecnica in Forma 4.  Tecnica e dominio del divenire 5.  La macchina 6.  Sub specie machinae

p. 21 p. 29 p. 35 p. 42 p. 52 p. 64

Capitolo II Sistema tecnico e Megamacchina 1.  Sistema e progresso tecnico 1.1.  Sistema tecnico e sistema filosofico 1.2.  Unità e unicità del sistema 1.3.  La mediazione tecnica 1.4.  Il progresso tecnico 2.  L’autonomia del sistema 3.  Accelerazione e virtualizzazione 4.  La Megamacchina

p. 87 p. 87 p. 92 p. 97 p. 102 p. 117 p. 125 p. 137

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Capitolo III Antropocene e postumano 1.  Fine dell’uomo 2.  Contro l’umanismo? 3.  Per una tecnica post-umana 4.  Carenza o esuberanza? 5.  Desiderio ed epifania

p. 151 p. 167 p. 184 p. 195 p. 202

Capitolo IV Metamorfosi e differenza 1.  Il postumano tra metamorfosi e differenza 1.1.  La metamorfosi goethiana 1.2.  La metamorfosi post-umana 1.3.  La macchina antropologica 2.  Il dialogo con l’alterità 3.  Differenza e ibridazione 4.  Alterità come Differenza 5.  L’uomo futuro

p. 213 p. 213 p. 218 p. 228 p. 233 p. 240 p. 247 p. 253

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Anthropos

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Collana diretta da Carmine Di Martino

1. Carmine Di Martino (a cura di), I diritti umani e il “proprio” dell’uomo nell’età globale. Diritto Etica Politica. 2. Paul Alsberg, L’enigma dell’umano. Per una soluzione bio­logica. 3. C. Di Martino - R. Redaelli - M. Russo (a cura di), Trasformazioni del concetto di umanità. 4. Sandro Gorgone, Il trionfo di Proteo. Tecnica e metamorfosi dell’umano.

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Anthropos | 4 Collana diretta da Carmine Di Martino

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L’idea della metamorfosi è un dono che viene dall’alto, molto solenne, ma al tempo stesso molto pericoloso. J.W. Goethe, La metamorfosi delle piante Il presente studio propone un’interpretazione del pensiero della tecnica del Novecento (Spengler, Jünger, Heidegger, Gehlen, Anders) alla luce della mutazione fondamentale del nostro tempo per cui il reale diviene il luogo dell’operare tecnico e l’uomo si autocomprende sempre di più come mero componente di un Sistema tecnico (Ellul), che segue esclusivamente le proprie ferree leggi di autopotenziamento, o come ingranaggio di una Megamacchina tecnico-economica (Latouche). Le dinamiche ibridative uomo-tecnica, al centro della riflessione del postumanismo, delineano inedite figure dell’umano, ma sembrano immunizzarlo da ogni autentico incontro con l’alterità, traducendo la tragicità del divenire nei termini rassicuranti e narcotici di una fantasmagoria metamorfica. Sandro Gorgone è professore associato di Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Messina. Tra le sue pubblicazioni: Il tempo che viene. Martin Heidegger: dal kairós all’Ereignis (Napoli 2005); Nel deserto dell’umano. Potenza e Machenschaft nel pensiero di Martin Heidegger (Milano-Udine 2011); Strahlungen und Annäherungen: die stereoskopische Phänomenologie Ernst Jüngers (Tübingen 2016); The Pertinence of the Exodus (Wilmington – Delaware USA 2019, ed. con L. Mackowitz).

ISBN ebook 9788855293242

€ 11,00

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