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Italiano Pages 216 [191] Year 2020
Il plurilinguismo come risorsa: prospettive teoriche, politiche educative e pratiche didattiche
Edith Cognigni
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Apprendere una seconda lingua non equivale ad aggiungere delle stanze alla propria casa costruendo un’aggiunta sul retro: è la ricostruzione di tutte le pareti interne (Cook, 2002).
Alla mia famiglia, “risorsa” inesauribile.
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Indice Introduzione ......................................................................................... 5 Parte prima ........................................................................................... 9 Coordinate teoriche e politiche linguistiche educative ........................ 9 Introduzione ................................................................................ 10 Capitolo 1. Il bi/plurilinguismo: un’introduzione .............................. 12 1.1 Evoluzione del concetto di bi/plurilinguismo: una sintesi .... 12 1.2 Definire il bi/plurilinguismo: alcune prospettive disciplinari ...................................................................................................... 14 1.3 Bilinguismi e plurilinguismi: principali classificazioni ......... 19 1.3.1 Il fattore età ............................................................................... 19 1.3.2 Interdipendenza linguistica e ruolo del transfer ...................... 21 1.3.3 L’organizzazione cognitiva delle lingue .................................... 23 1.3.4 Uso funzionale delle abilità linguistiche................................... 25 1.3.5 Valore sociale e rappresentazioni delle lingue ......................... 26
1.4 Valorizzare il plurilinguismo: benefici e qualche falso mito . 31 Capitolo 2. Plurilinguismo e educazione linguistica .......................... 35 2.1 Il multilingual turn nelle scienze del linguaggio ................... 37 2.2 Il multi-/plurilinguismo nelle politiche linguistiche europee: competenze chiave ....................................................................... 40 2.3 La competenza plurilingue e pluriculturale: dal Quadro Comune al Companion Volume .................................................. 45 2.4 L’educazione plurilingue e interculturale nel contesto europeo: alcuni quadri di riferimento .........................................................51 2.4.1 Le lingue dell’educazione ......................................................... 54 2.4.2 Il curricolo plurilingue ............................................................. 57 2.4.3 Competenze e risorse dell’apprendente ................................... 61
2.5 Educazione linguistica e plurilinguismo: la prospettiva italiana ...................................................................................................... 66 2.5.1 L’educazione linguistica in Italia: un concetto precursore ....... 67 2.5.2 L’educazione plurilingue nelle politiche educative italiane ......71
Parte seconda ...................................................................................... 79 Verso una didattica plurilingue: ......................................................... 79
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approcci, esperienze, contesti ............................................................ 79 Introduzione .................................................................................... 80 Capitolo 3. L’éveil aux langues per educare ...................................... 83 alla diversità linguistico-culturale ...................................................... 83 3.1 Dalla Language Awareness all’éveil aux langues................. 83 3.2 Diffusione e contesti di applicazione dell’éveil aux langues 88 Capitolo 4. La didattica integrata delle lingue: .................................. 98 il transfer come potenziale di apprendimento .................................. 98 4.1 Sviluppo e caratteristiche della didattica integrata delle lingue ...................................................................................................... 98 4.2 Dalla DIL al curricolo plurilingue ....................................... 102 4.3 Didattica integrata e insegnamento bi/plurilingue ............ 106 4.4 Pratiche didattiche e contesti di applicazione della DIL ..... 108 Capitolo 5. L’intercomprensione tra lingue affini ............................. 115 come approccio didattico .................................................................. 115 5.1 L’intercomprensione tra lingue affini: una definizione ........ 115 5.2 Intercomprensione e abilità di ricezione .............................. 116 5.3 Dall’intercomprensione all’intercomunicazione ................. 126 5.4 Progetti, pratiche e contesti d’insegnamento dell’IC .......... 130 Capitolo 6. Il translanguaging ........................................................ 142 come pratica didattica inclusiva ....................................................... 142 6.1 Gli studi sul translanguaging: un’introduzione ................. 142 6.2 Dal plurilinguismo al translanguaging: una svolta epistemologica? ......................................................................... 144 6.3 Praticare il translanguaging: dalla progettazione didattica alle attività in classe.......................................................................... 148 6.4 Diffusione e contesti di applicazione del translanguaging: l’apporto italiano ......................................................................... 157 Conclusioni: premesse per una “via italiana” alla didattica plurilingue ..................................................................................... 163 Riferimenti bibliografici .................................................................167
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Introduzione Recentemente molti studi su comunicazione e educazione in contesto multilingue hanno portato all’adozione di un nuovo paradigma nell’insegnamento delle lingue, secondo cui i ricchi repertori linguistici presenti in classe non sono più intesi unicamente come una caratteristica– o perfino un problema da gestire – degli apprendenti, un aspetto di cui eventualmente tenere conto in una prospettiva contrastiva. Da una visione prevalentemente monolingue dell’insegnamento linguistico che privilegiava l’immersione totale nella lingua obiettivo e una prospettiva ‘verticale’ dell’apprendimento delle lingue, la glottodidattica del nuovo millennio si è progressivamente orientata verso una “svolta plurilingue” (Conteh e Meier, 2014), che vede nella capacità dell’apprendente di saper gestire più lingue e varietà linguistiche un plusvalore e una risorsa per l’apprendimento e per la comunicazione interculturale. Quali possono essere i benefici del plurilinguismo in senso ampio e, più specificamente, rispetto all’apprendimento di ulteriori lingue? Perché si dovrebbero valorizzare la diversità linguistica e le competenze plurilingui presenti in classe? Quali politiche linguistiche, europee e nazionali, ne costituiscono le premesse orientandone le direzioni? Quali approcci didattici, infine, possono facilitare la gestione di questo potenziale, spesso sottostimato, facendone una risorsa per l’apprendimento autonomo e guidato? Questi ed altri quesiti sono al centro del volume in cui il plurilinguismo è considerato innanzitutto un tratto endogeno dello spazio linguistico italiano, oltre che una conseguenza delle migrazioni attraverso cui numerose altre lingue e varietà di lingue si sono aggiunte al già ricco panorama sociolinguistico del Paese. Concepito in questo senso ampio, il plurilinguismo viene interpretato come una condizione che accomuna la gran parte degli alunni nei vari contesti educativi nazionali, siano essi ‘italiani’ o ‘di cittadinanza non italiana’, nelle varie declinazioni possibili che i due termini possono assumere (dialettofoni, stranieri neo-arrivati, seconde generazioni, figli di coppie miste…). A questa pluralità linguistica di cui sono testimoni alunni ‘stranieri’ e non, sempre più spesso si accompagna infatti una storia familiare di migrazione o di temporanea mobilità che accomuna
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ormai ‘italiani’ e ‘stranieri’. La pluralità dei riferimenti linguistici e culturali che questo processo implica costituisce dunque un fertile terreno di confronto negli odierni contesti educativo-formativi italiani, i quali sono chiamati non solo a prenderne atto, ma anche a valorizzarli e a farne una risorsa educativa intorno a cui articolare percorsi ed attività didattiche che mirino ad un’effettiva inclusione, evitando visioni esotizzanti o dicotomiche tra “noi” e “l’altro”. Per introdurre tale tematica, nella prima parte del volume si fornisce una sintesi delle principali prospettive disciplinari sul bi/plurilinguismo in quanto fenomeno individuale e delle sue classificazioni più diffuse in letteratura, proponendone una rilettura critica in chiave plurilingue, anche attraverso esempi tratti dal contesto italiano. La necessità di questo cambiamento di prospettiva è fortemente auspicato da anni anche dalle politiche linguistiche educative europee e nazionali, attraverso la diffusione di documenti, linee guida, e con la promozione di azioni di cui si fornisce un quadro critico nel secondo capitolo. Vi si sottolinea, in particolare, la portata innovatrice dell’educazione linguistica democratica quale concetto precursore dell’odierna nozione di educazione plurilingue e interculturale di matrice europea, e cornice concettuale per una possibile “via italiana” alla didattica plurilingue. La seconda parte del volume prende quindi in esame gli approcci 1 e le strategie didattiche ritenuti più appropriati alla messa in opera di una didattica plurilingue, focalizzando ciascuno dei quattro capitoli su un diverso approccio plurale (éveil aux langues, didattica integrata delle lingue, intercomprensione tra lingue affini) o sul translanguaging. A partire da un inquadramento storico, ciascun approccio viene presentato nelle sue caratteristiche distintive e potenzialità, fornendo spunti operativi ed esempi di attività sperimentate in diversi contesti educativo-formativi italiani e esteri. 1 Si adotta qui il termine ‘approccio’ in conformità con l’uso che se ne fa nella versione
originale del Carap e nelle sue varie traduzioni (approche, approach, approccio…), in linea con la nozione epistemologica di ‘approccio’ in glottodidattica. Gran parte degli approcci plurali, come il translanguaging, sono interpretabili come “filosofie di fondo” in grado di generare “metodi” per l’educazione linguistica e, attraverso questi ultimi, l’implementazione di metodologie e tecniche afferenti al “mondo dell’azione didattica” (Balboni, 2015: 9-10).
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Si tratta di approcci contigui che spesso si sovrappongono o si integrano tra loro, oggetto di ricerca ed applicazione in varie parti del mondo. Alcuni di questi sono presenti da tempo nei curricoli di diverse realtà scolastiche europee e nord-americane, dove sono proposti ai fini dell’implementazione di un’educazione plurilingue e interculturale. Sebbene anche nel nostro Paese siano presenti diverse sperimentazioni e pratiche didattiche ispirate a questi approcci, restano ancora poco noti o applicati. Ad eccezione di qualche recente volume sul tema (ad es. Calò, 2015 per gli approcci plurali), i numerosi contributi che se ne sono finora occupati si concentrano per lo più su uno di questi approcci singolarmente, oppure sono in lingua straniera e/o trattati in numerosi articoli e riferimenti, limitando così la possibilità di una loro effettiva diffusione nella scuola italiana. Il volume mira dunque a darne una panoramica integrata ed aggiornata, che chiarisca l’opportunità e il senso di ciascuno degli approcci summenzionati, mettendone in luce le possibili criticità e le condizioni di applicabilità in vari contesti educativi.
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Legenda delle sigle2 L1 = lingua della prima socializzazione, non sempre coincidente con la lingua di scolarizzazione. L2 = lingua seconda, ovvero una lingua appresa nel contesto in cui si parla; secondo un’ottica acquisizionale può riferirsi anche a qualsiasi lingua appresa dopo la L1. LS = lingua straniera, ovvero una lingua diversa da quella del contesto in cui si vive e generalmente appresa attraverso percorsi di istruzione formale. Ln = lingua aggiuntiva, ovvero una lingua successiva a L1 e L2/LS in apprendenti già bi/plurilingui (n > 2). LO = lingua di origine, ovvero una lingua familiare o della comunità di appartenenza in apprendenti con background migratorio. EPI = educazione plurilingue e interculturale (cfr. §2.4) EAP = éveil aux langues (cfr. cap. 3) DIL = didattica integrata delle lingue (cfr. cap. 4) IC = intercomprensione tra lingue affini (cfr. cap. 5)
Si esplicitano alcune sigle utilizzate nel volume, dando una breve spiegazione di quelle inerenti alla lingua (L1, L2, LS, ecc.). Si rimanda ai paragrafi o capitoli del volume indicati per una spiegazione delle altre nozioni. 2
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Parte prima
Coordinate teoriche e politiche linguistiche educative
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Introduzione È convinzione comune che il parlante bi/plurilingue sia colui che possiede una competenza elevata in almeno un’altra lingua oltre alla propria. In realtà, dare una definizione di che cosa sia il bi/plurilinguismo è abbastanza complesso, data la varietà di nozioni e parametri da considerare, nonché le numerose prospettive disciplinari tramite cui il fenomeno è stato studiato. Questa complessità di nozioni e parametri – tra cui, ad esempio il livello di competenza in entrambe le lingue, l’età in cui si è iniziato ad imparare la/e lingua/e in oggetto, la loro frequenza d’uso, ecc. − ha fatto sì che non esista un vero e proprio consenso su tale concetto, mentre coesistono in letteratura molteplici definizioni e classificazioni nate a partire dai parametri di volta in volta adottati come punto di osservazione. Sono infatti molte le discipline che si occupano di questo fenomeno, ognuna delle quali ha posto l’accento su alcuni aspetti specifici. La sociolinguistica, ad esempio, ha approfondito gli aspetti inerenti all’utilizzo e alla commistione di diversi codici in contesto sociale, la psicologia si è focalizzata soprattutto sui risvolti psicologici legati all’esperienza bilingue, la sociologia ha esaminato il fenomeno in relazione alla comunità in cui si sviluppa, le neuroscienze si sono soffermate sulle caratteristiche cerebrali del parlante bilingue, mentre la didattica delle lingue ha proposto metodologie di insegnamento appropriate in base a quanto emerge da questi ed altri ambiti di ricerca, secondo la prospettiva transdisciplinare che le è propria (Balboni, 2015). Dati gli scopi di questo volume, nel primo capitolo di questa sezione si forniscono alcune prospettive disciplinari sul bi/plurilinguismo, funzionali a definire i contorni del fenomeno e trarne opportune indicazioni per l’ambito educativo, di cui si tratterà più diffusamente nei capitoli successivi. Molti di questi concetti e prospettive sono infatti utili a comprendere gli sviluppi passati e futuri degli studi sul bi/plurilinguismo e come essi abbiano progressivamente condotto alla odierna nozione di plurilinguismo utilizzata in ambito educativo (cfr. cap. 2). Una prima distinzione terminologica va operata tra i termini ‘bilinguismo’, ‘plurilinguismo’ e ‘multilinguismo’ che, seppure a volte utilizzati in modo intercambiabile, fanno riferimento a fenomeni parzialmente differenti nel contesto della ricerca scientifica e, come illustrato nel capitolo 2, nell’ambito delle politiche linguistiche delle istituzioni europee. In particolare, bilinguismo e multilinguismo
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possono rappresentare processi sia individuali sia di gruppo. A tale riguardo, classica è la distinzione di Hamers e Blanc (2000) tra bilinguismo individuale (bilinguality o bilinguità) e bilinguismo sociale (bilingualism). Ad essa fa eco la distinzione tra multilinguismo e plurilinguismo operata nel contesto delle politiche linguistiche europee e in un’ampia parte della letteratura scientifica di ambito romanzo3, secondo cui il primo termine rimanda alla compresenza di più lingue all’interno di uno stesso contesto sociale, mentre il secondo è utilizzato per fare specifico riferimento alle competenze dell’individuo. A questa seconda interpretazione di plurilinguismo si ispirano le politiche linguistiche educative europee e nazionali, di cui si definiscono nozioni, risorse e principali fasi di sviluppo nel secondo capitolo. Sebbene le caratteristiche sociali e cognitive di chi conosce due lingue siano generalmente simili a quelle di chi ne conosce più di due, di recente alcuni studi hanno posto l’attenzione anche sulle specificità dell’apprendimento di una Ln, ovvero di una lingua successiva alla seconda (n>2), che qui definiamo “lingua aggiuntiva” (García, 2009). In questi studi, soprattutto se di ottica educativa (cfr. §1.2 e §2.1), il termine plurilinguismo (o multilinguismo) tende quindi a sostituire sempre più quello di bilinguismo in esso inglobato, a sottolineare la maggiore complessità dei repertori e degli usi linguistici nei parlanti plurilingui. I fenomeni del bilinguismo e del plurilinguismo verranno dunque spesso trattati congiuntamente e, quando appropriato, se ne metteranno in evidenza le rispettive specificità.
Per una discussione più approfondita della differenza tra multilinguismo e plurilinguismo si rinvia all’introduzione al capitolo 2. 3
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Capitolo 1. Il bi/plurilinguismo: un’introduzione Il significato e la definizione di ‘bilinguismo’ e di ‘plurilinguismo’ si sono evoluti nel tempo, fino ad arrivare all’accezione oggi alla base di buona parte della ricerca scientifica e dei documenti europei di ambito educativo. Dalla classica definizione di Bloomfield (1933), secondo cui il bilinguismo corrisponderebbe al controllo nativo di due o più lingue, il termine si è via via ampliato fino a divenire “un termine dalla semantica senza confini” (Baetens Beardsmore, 1982: 1 [trad. nostra]) all’interno del quale si possono riconoscere diverse situazioni e profili di competenza. Di seguito, si illustrerà brevemente l’evoluzione di tale concetto, ripercorrendone le tappe di sviluppo principali attraverso più prospettive disciplinari.
1.1 Evoluzione del concetto di bi/plurilinguismo: una sintesi Per molti decenni, il bi/plurilinguismo è stato visto con sospetto ed associato a fenomeni come schizofrenia, confusione mentale, crisi di identità, problemi emotivi, conflitti di identità, scarsa autostima ecc. Anche problematiche come la balbuzie e i disordini nello sviluppo mentale sono stati addirittura considerati come le probabili conseguenze del bilinguismo individuale (Baker e Prys Jones, 1998: 22). Si deve, tuttavia, in gran parte ai limiti metodologici di molte ricerche condotte nella prima metà del secolo scorso se il un fenomeno è stato a lungo considerato dannoso4. Queste ricerche non consideravano infatti tutti i fattori che possono influire sui risultati dei test impiegati per lo studio del fenomeno, come ad esempio l’età, la classe socioeconomica, il tipo di bilinguismo e, soprattutto, il livello di conoscenza della lingua impiegata nei test sperimentali, giungendo così spesso a fornire esiti poco affidabili. Una svolta in tal senso si ha negli anni ’60 grazie alla sperimentazione condotta da Peal e Lambert (1962), che ha avuto il merito di evidenziare l’importanza di una metodologia inclusiva ed appropriata allo studio del fenomeno. Grazie a questo studio il bilinguismo sarà Per approndimenti si rimanda a Abdelilah-Bauer (2008), Antoniou (2019), Baker e Prys Jones (1998). 4
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studiato con crescente accuratezza metodologica permettendo che non fosse più rappresentato solamente come uno svantaggio; al contrario, come nel caso specifico, da questo momento si inizierà a sottolinearne i molteplici benefici, in particolare quelli inerenti allo sviluppo delle abilità cognitive (cfr. §1.2). In reazione alla definizione di Bloomfield considerata troppo esclusiva, negli stessi anni Macnamara (1967) propone una definizione più flessibile del fenomeno affermando che può essere definito bilingue chiunque possieda un minimo di competenza in una lingua ulteriore a quella materna, anche se solo in una delle quattro abilità linguistiche primarie (parlare, ascoltare, leggere, scrivere). Simile è la posizione di Diebold (1972), secondo cui può considerarsi bilingue chi possiede una competenza anche solo ricettiva della L2, senza cioè essere necessariamente in grado di produrre o interagire nella suddetta lingua, anticipando così la nozione di “competenza parziale” alla base dell’odierno concetto di competenza plurilingue e pluriculturale (cfr. §2.3). Tra questi estremi, sono state elaborate molte altre definizioni, alcune più inclusive di altre, in cui cambia spesso il punto di osservazione, ovvero il parametro di riferimento in base al quale un soggetto può essere ritenuto bilingue o meno (cfr. §1.2). A partire dal grado di naturalezza con cui si passa da una lingua all’altra, ad esempio, Renzo Titone (1972) definisce bilingue chi raggiunge un livello di abilità tale da non dover più tradurre dalla L1 per poter produrre in L2. Nelle sue ricerche, Baetens Beardsmore (1982) sposta invece il focus dell’attenzione verso una prospettiva più olistica, giungendo a definire il bilinguismo come un continuum linguistico. Ad un’estremità di tale continuum si collocherebbe il monolingue, mentre all’altra estremità si troverebbe il bilingue che ha acquisito entrambe le lingue (L1 e L2) in modalità spontanea e possiede, almeno idealmente, pari competenze in entrambe. Lungo tale continuum sono quindi possibili molte varianti: ciò ha permesso di includere nella definizione di ‘bilingue’ parlanti con diversi profili di competenza in entrambe le lingue, che corrispondono effettivamente alla gran parte dei casi. Il concetto di continuum risulta dunque utile per sottolineare la natura dinamica e flessibile della nozione di bilinguismo come quella di plurilinguismo, anticipando in parte quello che negli attuali studi sul translanguaging è noto come “bilinguismo dinamico” (cfr. cap. 6).
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Come osservano Hamers e Blanc (2000), molte di queste definizioni si soffermano su un singolo aspetto del bilinguismo, che è generalmente il livello di padronanza e di competenza d’uso delle lingue di riferimento, ignorando altre importanti dimensioni extra-linguistiche. Il problema, come fa notare Grosjean (1989), è dovuto anche al fatto che un bilingue è stato spesso erroneamente considerato come la somma di due monolingui: nel parlante bilingue o plurilingue la presenza di due o più varietà linguistiche e, soprattutto, l’interazione tra queste producono in realtà un sistema linguistico diverso dalla semplice somma L1+L2, un sistema dinamico nel quale i bisogni comunicativi del parlante vengono soddisfatti ricorrendo all’una o all’altra lingua − o in alcuni casi ad entrambe – a seconda dei casi. Come sottolinea Li Wei (2000), è importante riconoscere che un parlante plurilingue utilizzi lingue diverse per scopi differenti in più contesti e, soprattutto, che non possieda gli stessi livelli e tipi di competenza nelle varie lingue note. Se ne desume quindi che il livello di proficiency nelle lingue considerate non possa costituire l’unico parametro utile ad una classificazione del bi/plurilinguismo. Sarà Paradis (1986) a suggerire che tale fenomeno debba essere definito piuttosto come un continuum multidimensionale in cui, oltre alla competenza linguistica minima e massima nelle lingue date, siano contemplati vari aspetti extra-linguistici, come quello culturale, psicologico, sociologico, comunicativo. È plausibile, infatti, che un parlante o un apprendente plurilingue possieda diversi gradi di competenza nei vari livelli linguistici ed extralinguistici connessi a ciascuna delle lingue note, rendendo il bi/plurilinguismo un concetto ampio e poliedrico, osservabile da più punti di vista disciplinari. Dunque, come sottolinea Mackey, “[i]l bilinguismo non può essere descritto nell’ambito della [sola] scienza linguistica; è necessario andare oltre” (Mackey, 2ooo: 63 [trad. nostra]).
1.2 Definire il bi/plurilinguismo: alcune prospettive disciplinari Diventare parlanti plurilingui è un percorso articolato che si fonda sull’integrazione di fattori biologici ed ambientali. Esiste cioè una predisposizione naturale all’acquisizione linguistica dovuta alla plasticità cerebrale, ma molto dipende anche dal contesto sociale e culturale in cui si apprendono le lingue e dagli stimoli che questo offre.
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Le neuroscienze, in particolare, si sono occupate del primo aspetto esaminando le caratteristiche neurobiologiche del cervello umano. Attraverso sistemi di neuroimaging sempre più sofisticati gli studi in questo settore mostrano che cosa succede nella mente umana quando viene analizzato uno stimolo linguistico (cfr. Del Maschio e Abutalebi, 2019 per un’introduzione). Senza entrare nel dettaglio di questi studi, su cui esiste oltretutto un’ampia letteratura in continuo aggiornamento, si forniscono qui alcune definizioni e apporti teorici che permettano di focalizzarne i punti di interesse principali rispetto agli scopi di questo volume. Tra i più noti esponenti italiani di questa prospettiva di ricerca, Franco Fabbro (1996: 116) formula la seguente definizione di bilinguismo: un soggetto è bilingue se conosce, comprende e parla a) due lingue, oppure b) due dialetti, oppure c) una lingua e un dialetto. Un’ulteriore caratteristica di un individuo bilingue è che, se lo desidera, egli è in grado di operare una netta separazione fra i due sistemi linguistici nella propria espressione verbale.
È stato infatti studiato che i sistemi linguistici delle varie lingue o varietà di lingue note ad un parlante sono sempre compresenti nel suo cervello, a prescindere dalla lingua in uso. Contrariamente a quanto si è pensato per lungo tempo, tuttavia, l’altra lingua non crea confusione, in quanto non interferisce con quella attivata. Questo è possibile grazie ad un processo di inibizione portato a termine nel lobo frontale del cervello, che permette di alzare momentaneamente le soglie della lingua che rimane inutilizzata. Questo meccanismo di inibizione, presente anche nei monolingui, è stato teorizzato in particolare da Green (1986) attraverso il modello del controllo inibitorio (inhibitory and control model), secondo cui quando un determinato elemento linguistico viene attivato, i suoi ‘competitori’ vengono inibiti. In sostanza, quando il cervello seleziona una parola, vengono contemporaneamente inibiti i suoi sinonimi e le parole con suono simile. La differenza nei bilingui sta nel fatto che le parole inibite appartengono sia alla L1 che alla L2 poiché entrambe sono attive durante la performance linguistica (Green, 1986). Ne consegue che l’individuo bi/plurilingue sia potenzialmente più capace di concentrare la propria attenzione su determinati elementi ‘inibendo’ eventuali distrazioni (cfr. §1.4).
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Al principio di inibizione si associa quello della soglia di attivazione: l’Activation Threshold Hypothesis (Paradis, 2004: 28) prevede che l’attivazione di un elemento (o di una lingua) sia tanto più spontanea quanto più frequente ne risulti l’attivazione. Secondo tale ipotesi, dunque, la soglia di attivazione delle parole e delle lingue note ad un parlante bi/plurilingue, dipende dalla frequenza d’uso e dall’intervallo di tempo trascorso dall’ultima attivazione, spiegando in termini più specifici perché se non si pratica una lingua l’abilità di produzione si irrigidisca. Attualmente, molti studiosi usano una definizione più ampia del fenomeno, capace di includere anche soggetti che abbiano vari gradi di abilità linguistiche in diversi domini in entrambe le lingue. Per Grosjean, ad esempio, “[i] bilingui sono coloro che usano due o più lingue (o dialetti) nella loro vita quotidiana” (Grosjean, 2015: 27, trad. it.). Ciò che conta, precisa Grosjean, è l’uso regolare di queste lingue/dialetti piuttosto che il loro grado di padronanza. Come nella definizione di Fabbro, vengono inoltre presi in considerazione anche i “dialetti” in quanto, sul piano cognitivo, possono avere vantaggi simili a quelli di una qualsiasi altra lingua5. Secondo tale prospettiva, dunque, un italiano che parli anche un dialetto è considerato un parlante bilingue al pari di un qualsiasi altro parlante che usi regolarmente lingue come, ad esempio, l’inglese e lo spagnolo. Questa posizione viene ribadita dai sociolinguisti ed in particolare da Berruto (2004), per il quale, oltretutto, il fenomeno del bi/plurilinguismo costituisce la norma più che l’eccezione: Il plurilinguismo (e/o bilinguismo, e/o multilinguismo) [...] è una situazione di fatto molto diffusa al mondo, a qualunque livello di comunità linguistica si faccia riferimento. Situazioni bi/plurilingui sono anzi da ritenere le più normali, essendo il caso marcato piuttosto quello del monolinguismo (Berruto, 2004: 133).
Un recente studio sul bilinguismo italiano-sardo condotto nella provincia di Nuoro (Garraffa et al., 2017), ad esempio, ha mostrato la maggiore memoria di lavoro dei parlanti adulti con bassa scolarità che fanno largo uso del sardo rispetto a parlanti della stessa area con scolarità più elevata e/o che fanno un uso più limitato del sardo. È stato quindi ipotizzato che questo tipo di bilinguismo possa offrire dei vantaggi rispetto alle abilità di memoria di lavoro, in quanto i dialetti non hanno spesso una controparte scritta e, conseguentemente, inducono il parlante ad un maggiore sforzo di memorizzazione. 5
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Tuttavia, secondo la prospettiva sociolinguistica, “pare ragionevole parlare di bilinguismo (o plurilinguismo) quando fra due (o più) varietà di lingua usate presso un gruppo o una comunità parlante esista una differenza strutturale piuttosto evidente, ed entrambe abbiano una loro storia autonoma” (Berruto, 2004: 50), com’è il caso di molti dialetti primari6 della nostra penisola − ovvero dialetti italiani e non dell’italiano − che si distinguono anche strutturalmente dall’italiano standard. Esso non va confuso con il concetto di “diglossia”7, che prevede invece la compresenza di più lingue o varietà diverse di lingua socio-funzionalmente differenziate. Nei contesti diglossici la varietà con prestigio più elevato [H = high] viene utilizzata in contesti comunicativi formali (ad es. a scuola, al lavoro, ecc.) e nella forma scritta, mentre l’altra lingua, di prestigio inferiore [L = Low], è impiegata nella conversazione quotidiana informale (ad es. famiglia, amici…)8. Il bilinguismo “lingua standard-dialetto” può essere piuttosto assimilato a quella che Berruto (1995) definisce “dilalìa”, nozione che meglio chiarisce il rapporto tra italiano standard e dialetto negli usi linguistici dell’area italo-romanza: La dilalìa si differenzia fondamentalmente dalla diglossia perché il codice A è usato, almeno da una parte della comunità, anche nel parlato conversazionale usuale, e perché, pur essendo chiara la distinzione funzionale di ambiti di spettanza di A e B rispettivamente, vi sono impieghi e domini in cui vengono usati di fatto, ed è normale usare, sia l’una che l’altra varietà, alternativamente o congiuntamente (Berruto, 1995: 246). Secondo la nota classificazione di Coseriu, che distingue i dialetti in primari, secondari e terziari, “[i] primi sono le varietà geografiche sorelle, coetanee, del dialetto da cui si è sviluppata la varietà standard di quella lingua, e che esistevano prima della promozione e costituzione di questa a standard (tali sono tipicamente i vari dialetti italo-romanzi, dotati di una storia parallela a quella del toscano su cui si è formato l’italiano standard: piemontese, lombardo, veneto, napoletano, siciliano, ecc; che sarebbero propriamente dialetti italiani ma non dialetti dell’italiano, data la distanza strutturale pur sempre relativamente rilevante e l’autonoma tradizione)” (Berruto, 1995: 188). 7 Con il termine “diglossia”, coniato da Ferguson nel 1959, vengono generalmente indicate situazioni in cui due lingue hanno funzioni comunicative distinte, per cui una varietà viene utilizzata in contesti comunicativi formali (es. a scuola, al lavoro, ecc.) e nella forma scritta, mentre l’altra lingua è impiegata nella conversazione quotidiana, come per esempio in contesto familiare. Cfr. Berruto (1995: 191). 8 È questo il caso di alcune lingue come l’arabo, lo svizzero-tedesco, il greco moderno o il creolo di Haiti (Ferguson 1959, in Santipolo, 2002: 43). 6
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Questa forma di bilinguismo è ancora piuttosto diffusa in molte aree del nostro Paese, soprattutto nei piccoli centri o in alcune regioni dove il dialetto è ancora ben radicato: sebbene il ruolo principale spetti alla lingua standard in quanto varietà più prestigiosa [H], entrambi i codici possono essere spesso utilizzati in più contesti senza un’effettiva differenza funzionale. Accade spesso, infatti, che molti migranti che apprendono l’italiano in modo spontaneo vengano a contatto prima con il dialetto che con la varietà standard, facendo quindi della varietà locale un oggetto di interesse ineludibile tanto sul piano della ricerca scientifica sull’acquisizione dell’italiano L2, quanto su quello della didattica linguistica in contesto plurilingue9. Come finora esposto, con il progredire degli studi sul bi/plurilinguismo si sono adottate definizioni sempre più inclusive del fenomeno, in cui la frequenza d’uso delle lingue ha progressivamente sostituito il grado di competenza in ciascuna di esse come parametro di riferimento. L’ottica di osservazione si è inoltre spostata maggiormente sul parlante/apprendente e sugli usi effettivi che questi ne fa nei vari contesti e domini, ponendo sullo stesso piano idiomi di diverso status quali le lingue ufficiali e quelle minoritarie, come ad esempio le lingue regionali e i dialetti. Si rileva inoltre come il termine ‘bilinguismo’ sia spesso usato per indicare situazioni in cui sono compresenti più di due lingue in uno stesso soggetto e, quindi, in modo intercambiabile rispetto a quello di ‘plurilinguismo’, a sottolineare che i processi cognitivi, psicologici e sociali ad essi sottesi sono complessivamente assimilabili (cfr. Luise, 2013). Recentemente, tuttavia, un numero crescente di studiosi ha sottolineato la necessità di operare una chiara distinzione tra apprendenti bilingui e plurilingui (cfr. ad es. Aronin e Hufeisen, 2009; De Angelis, 2007; Jessner, 2008) in ragione dell’esistenza di alcuni aspetti di differenziazione tra i due fenomeni, almeno da un punto di vista psicolinguistico. Tra le differenze, sono ad esempio riportate l’influenza dell’esperienza pregressa di acquisizione linguistica maturata attraverso l’acquisizione di più lingue (plurilingui) a fronte di una sola (bilingui), una maggiore flessibilità cognitiva, livelli più alti di consapevolezza metalinguistica e ulteriori strategie messe in gioco Per approfondire si rimanda al contributo Moretti (2014) sul dialetto come L2 e ad un nostro precedente contributo sul ruolo del dialetto nell’apprendimento dell’italiano L2 nelle donne migranti (Cognigni, 2017). 9
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dai plurilingui. Come sottolinea Butler (2012), dato il numero ancora limitato di studi sull’acquisizione plurilingue, specialmente in ambito psicolinguistico, l’entità o il significato di tali differenze è ancora in via di evoluzione. Alla luce di tali considerazioni, nel paragrafo successivo daremo conto delle principali classificazioni del bilinguismo, puntualizzando, ove opportuno, le specificità che il fenomeno può assumere negli apprendenti plurilingui10.
1.3 Bilinguismi e plurilinguismi: principali classificazioni A partire dalle diverse prospettive di analisi in parte sopra descritte, sono state proposte numerose classificazioni del bi/plurilinguismo. Queste non si escludono tra loro ma, più spesso, si sovrappongono o si completano a vicenda, a conferma dell’ampiezza e complessità del fenomeno. Come sottolinea Baker (2001), può risultare vago se non impossibile definire chi è bilingue e chi invece non lo è; molto più utile è individuare le distinzioni e le dimensioni con cui i termini bilinguismo e plurilinguismo sono stati caratterizzati nel tempo. Piuttosto che fornire un quadro esaustivo, si darà qui una breve panoramica che illustri le principali variabili o dimensioni che ne definiscono i contorni, quali ad esempio le relazioni intercorrenti tra le lingue considerate, l’età e l’ordine in cui vengono acquisite, l’organizzazione cognitiva o l’uso funzionale che ne viene fatto. 1.3.1 Il fattore età Luogo comune è che il bilinguismo sia tale solo in funzione dell’età in cui le lingue sono state apprese, periodo che dovrebbe coincidere con i primi anni di vita. Sulla base di tale fattore, nei primi studi sul fenomeno, si distingue tra bilinguismo precoce (o infantile), generalmente corrispondente alla prima infanzia, e bilinguismo tardivo, riferito a chi apprende invece una L2 dopo la pubertà. Più in dettaglio, viene definito bilinguismo precoce simultaneo di due lingue la situazione in cui le lingue siano acquisite parallelamente nei primi anni di vita. Se una delle lingue viene acquisita più tardi ma comunque
Si rimanda alla tabella 1 per una trattazione sintetica delle caratteristiche aggiuntive dell’apprendimento plurilingue in relazione alle classificazioni del bilinguismo più note. 10
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in età infantile, si parla piuttosto di bilinguismo precoce consecutivo (Genesee et al., 1978; McLaughlin, 1978). Il bilinguismo consecutivo è tipico di quei bambini che, inizialmente esposti ad una lingua in ambito familiare, iniziano ad acquisirne un’altra quando entrano nella comunità scolastica, generalmente tra i 3 e i 5 anni. Nel nostro paese, questo tipo di bilinguismo riguarda un ampio numero di bambini appartenenti a famiglie con background migratorio. Più o meno consapevolmente, molte famiglie immigrate mettono in atto esplicite politiche linguistiche familiari (family language policy) che rendono possibile lo sviluppo di questo tipo di bi/plurilinguismo nei propri figli al fine di mantenerne le origini linguistiche e culturali11. In realtà non vi è un reale consenso sull’età che dovrebbe fungere da punto di cutoff per distinguere i bilingui precoci da quelli tardivi, tenuto conto che la stessa ipotesi del periodo critico di Lenneberg (1967) è stata negli anni ridimensionata e precisata (cfr. De Groot, 2001 per una discussione)12. È chiaro che, data la particolare plasticità del cervello nel bambino, più precoce è l’esposizione alle due lingue, tanto più facile e completa ne sarà l’acquisizione. Va tuttavia precisato che il bilinguismo tardivo non è necessariamente di valore e portata inferiore. Diversi studi successivi hanno infatti messo in evidenza che non esiste sempre una correlazione diretta tra la variabile età e la capacità di apprendimento di una L2 (v. Celentin, 2019 per una rassegna). Più che di un unico periodo critico, si parla piuttosto di diversi periodi sensibili a seconda delle aree di competenza linguistica prese in esame (cfr. Cardona e Luise, 2018). Spesso adolescenti ed adulti ottengono infatti risultati migliori in relazione ad aspetti specifici, come per esempio la velocità di acquisizione, la capacità di riflessione metalinguistica, il controllo dell’attenzione, ecc. (cfr. Sanz, 2012). Non sono inoltre rari i casi di bilingui tardivi che, pur apprendendo la L2 in età adulta, riescono a raggiungere una competenza di livello nativo (Paradis, 2011). Questo permette dunque di sfatare il falso mito sul bi/plurilinguismo secondo cui solo chi ha appreso più lingue in età precoce può realmente trarne dei vantaggi.
Si rimanda ad un nostro precedente studio (Cognigni, 2019a) per un approfondimento delle politiche linguistiche delle famiglie immigrate in Italia. 12 Il termine “periodo critico” (Lenneberg, 1967) fa riferimento all’età oltre la quale non sarebbe più possibile apprendere a pieno una L2/LS. Prima di tale periodo critico, che viene identificato con la pubertà, l’acquisizione avverrebbe invece in modo ottimale, spontaneo ed automatico. 11
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Rispetto a questa distinzione va inoltre precisato che, negli attuali contesti plurilingui, la numerosità delle lingue compresenti comporta un’ulteriore complessificazione dei pattern di acquisizione di una lingua aggiuntiva o Ln. Si possono così avere diverse casistiche: un individuo trilingue può ad esempio acquisire tre lingue in modo consecutivo (L1 > L2 > L3); può acquisirne due contemporaneamente dopo aver ricevuto le basi in L1 (L1 > L21 + L22); può iniziare come bilingue simultaneo ed aggiungere un’ultiore lingua in un secondo momento (L11 + L12 > Ln); può infine averne acquisite tre contemporaneamente sin dalla nascita (L11 + L12 + L13). Il quadro sarà ancora più complesso se le lingue già note sono in numero superiore (cfr. Cenoz, 2000; Hufeisen, 2018), come avviene sempre più spesso negli attuali contesti multilingui.
1.3.2 Interdipendenza linguistica e ruolo del transfer In base alla relazione che si stabilisce tra le competenze linguistiche nelle due lingue, è possibile operare una distinzione tra bilinguismo bilanciato e bilinguismo dominante (Peal e Lambert, 1962), noto anche come bilinguismo simmetrico/asimmetrico. Con bilinguismo bilanciato si fa generalmente riferimento ad un parlante che ha una competenza elevata in entrambe le lingue, ovvero sia in grado di utilizzarle senza un’effettiva differenza qualitativa in diversi domini, sebbene non si specifichi quanto elevata debba essere questa competenza per poter definire tale un bilingue bilanciato. Raramente un soggetto bi/plurilingue possiede in realtà un bilinguismo di questo tipo; molto più spesso una delle due lingue domina sull’altra, almeno in un settore specifico e in un determinato momento della vita, in dipendenza degli usi funzionali e della frequenza d’uso che si fa di ciascuna di esse. Un bambino che, idealmente, cresce in un contesto bilingue e padroneggia le due lingue allo stesso modo, nel momento in cui inizia il percorso scolastico, molto probabilmente farà della lingua di scolarizzazione la sua lingua dominante, modificando le relazioni intercorrenti tra le lingue note. Essendo il bi/plurilinguismo un fenomeno dinamico, tale categorizzazione è tutt’altro che fissa: con il mutamento delle condizioni linguistiche ed ambientali − a motivo, ad esempio, di trasferimenti o migrazioni da un paese all’altro − si può
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verificare che la lingua più debole diventi o torni ad essere quella dominante, e viceversa (Wetter, 1996; Cognigni, 2007). Successivamente sarà Jim Cummins ad approfondire il rapporto tra le competenze linguistiche in L1/L2 e l’importante ruolo del transfer nell’acquisizione di L2. L’ipotesi dell’interdipendenza linguistica (linguistic interdependence hypothesis) viene chiarita attraverso la nota metafora dell’iceberg: mentre al di sopra della superficie le punte dell’iceberg, corrispondenti alle lingue note, sono riconoscibili e apparentemente separate, sotto la superficie – fuor di metafora, nella mente dell’apprendente − le due lingue operano attraverso il medesimo sistema centrale di processazione. Questa competenza di base sottesa e comune ad entrambe le lingue, nota come CUP (Common Underlying Proficiency), faciliterebbe i processi di transfer, ovvero il passaggio di nozioni e saperi linguistici da una lingua all’altra. L’ipotesi precisa che, negli stadi iniziali, le competenze di base acquisite attraverso la L1 possano essere trasferite in una L2 a condizione che sia presente un livello soglia adeguato nella L1 e un’esposizione significativa alla L2 − nell’ambiente scolastico o in quello sociale − nonché un’adeguata motivazione ad apprenderla (Cummins, 1981: 29). Questo potenziale vantaggio dell’apprendente plurilingue può quindi essere fortemente condizionato dalla qualità/quantità di esposizione all’input in L2, come pure dai fattori socioculturali e psicosociali (cfr. §1.3.5). Il raggiungimento della soglia in L1, tuttavia, non garantisce di per sé vantaggi cognitivi, i quali sono invece evidenti dopo aver raggiunto la soglia di attivazione anche nell’altra lingua (Threshold level hypothesis)13. Sebbene studi successivi (cfr. §1.2) abbiano poi confermato l’ipotesi della compresenza delle lingue nella mente del parlante plurilingue, il modello della CUP di Cummins è stato a lungo utilizzato come base teorica per l’insegnamento separato di due lingue nei programmi di educazione bilingue e, anche in ragione di ciò, messo in discussione dai più recenti studi sul translanguaging (cfr. cap. 6). Altre ricerche ne hanno invece ridimensionato la portata precisando che il tipo di scrittura delle lingue implicate può avere un’incidenza sui Secondo Cummins la teoria della doppia soglia di attivazione spiegherebbe quindi i risultati, a volte contrastanti degli studi sugli effetti cognitivi del bilinguismo, nonché il fenomeno noto come “semilinguismo”, alla base di livelli limitati di proficiency in entrambe le lingue (cfr. Moretti e Antonini, 2000: 27-34 per un approfondimento del concetto di semilinguismo). 13
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processi di transfer dall’una all’altra lingua, per cui il meccanismo è più evidente in presenza di lingue con un sistema di scrittura analogo (cfr. Bassetti, 2012)14. Laddove è presente anche una sovrapposizione dei sistemi grammaticali, come per esempio nel caso delle lingue appartenenti ad un medesimo gruppo linguistico, il transfer dall’una all’altra lingua è ancora più immediato ed il vantaggio metalinguistico più evidente. In conclusione, si tratta di un modello comunque valido non solo nel contesto delle lingue apparentate, ma anche per comprendere la stretta correlazione tra abilità cognitive e acquisizione di una Ln, la quale può beneficiare chiaramente della conoscenza pregressa di altre lingue al di là delle loro specifiche caratteristiche. 1.3.3 L’organizzazione cognitiva delle lingue Un ulteriore contributo utile alla comprensione del fenomeno è stato fornito da Weinreich (1953) che, in base all’organizzazione cognitiva delle lingue, stabilisce la distinzione tra bilinguismo coordinato e bilinguismo composito. Il primo tipo di bilinguismo si osserva in persone che imparano una delle due lingue in un determinato luogo (ad esempio in famiglia) e l’altra lingua in un contesto differente (ad esempio attraverso le relazioni sociali al di fuori della famiglia). In questo senso il fenomeno descritto da Weinreich è affine al concetto di bilinguismo consecutivo sopra descritto (cfr. §1.3.1), diffuso tra molte famiglie immigrate. Esso è riscontrabile anche in apprendenti che imparano una lingua con una determinata persona e l’altra lingua con una persona diversa, come succede spesso nelle famiglie miste (mixedlingual families) in cui ciascuno dei genitori utilizza la propria lingua con il bambino. Questa concettualizzazione di bilinguismo ha dato esito, in ambito educativo, al noto metodo OPOL (One Person One Language), a tutt’oggi largamente praticato da molte famiglie e nei contesti educativi per l’infanzia sin dai primissimi anni di vita15. Si veda in particolare lo studio di Durgunoğlu (1998), che ha osservato i processi di transfer in bambini ispanofoni che apprendono l’inglese L2, nei quali si rileva come il livello di consapevolezza fonologica acquisita attraverso la L1 abbia permesso, rispetto ai monolingui, una più rapida decodifica della parola scritta nella L2 nonostante l’assenza di un’alfabetizzazione pregressa in questa lingua. Lo studio di Bialystok et al. (2005) sull’apprendimento dell’inglese L2 da parte di apprendenti sinofoni non ha tuttavia rilevato gli stessi vantaggi nell’acquisizione della L2. 15 In realtà studi recenti hanno sottolineato che sarebbe più efficace puntare piuttosto sulla quantità e qualità dell’input e, possibilmente, sull’uso della lingua minoritaria 14
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Mentre il bilingue coordinato possiede due sistemi concettuali di riferimento per le lingue implicate, il bilingue composito fa riferimento ad un unico sistema concettuale, che deriva dalla combinazione dei significati delle parole corrispondenti nelle due lingue. In un sistema linguistico composito due segni linguistici (ad es. book in inglese e il corrispettivo russo kniga nell’esempio riportato da Weinrecih) si associano dunque al medesimo sistema di significanti, mentre in un sistema coordinato i due segni, rispettivamente in L1 e L2, rimandano a due sistemi di rappresentazione differenti (fig. 1). Un’ulteriore definizione dello stesso autore è quella di ‘bilinguismo subordinato’, che descrive il soggetto bilingue che accede alla L2 per mezzo del sistema linguistico della L1. Ciò vuol dire che il parlante possiede due segni linguistici, /buk/ per l’inglese e /kn’iga/ per il russo (Fig. 1), ma una sola unità di significato (‘book’) che, come in questo caso, generalmente appartiene alla lingua dominante. Secondo questa prospettiva, il bilingue subordinato, dunque, prima pensa ciò che vuole dire in una lingua per poi tradurlo nell’altra (Fabbro, 1996: 119).
Fig. 1 – Classificazione del bilinguismo secondo l’organizzazione cognitiva (Weinreich, 1953)16
In situazione di apprendimento plurilingue, l’organizzazione delle lingue nella memoria del soggetto sarà resa più complessa dal maggior
da parte di entrambi i genitori o, in alternativa, sull’uso esclusivo della lingua minoritaria da parte di un genitore e di entrambe da parte dell’altro (Garaffa et al., 2020).
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numero di lingue implicate come pure dai vari livelli di proficiency in ciascuna di esse e dalla loro distanza/vicinanza tipologica. Più le lingue sono tipologicamente vicine, maggiore sarà la possibilità per l’apprendente di trasferire risorse già a disposizione nel proprio repertorio linguistico ai fini dell’acquisizione di una Ln (Cenoz e Gorter, 2015).
1.3.4 Uso funzionale delle abilità linguistiche Ricorrente è la situazione in cui un soggetto sia in grado di comprendere una determinata lingua ma non di parlarla o scriverla. In tal caso si è soliti distinguere tra bilinguismo ricettivo (o passivo) e bilinguismo produttivo (o attivo)17. Tale fenomeno è particolarmente diffuso nelle famiglie bi/plurilingui in cui i bambini imparano a comprendere le lingue molto prima di iniziare a parlarle; può quindi succedere che essi inizino ad esprimersi in una sola delle due lingue, continuando tuttavia a sviluppare la comprensione in entrambe. È quindi molto frequente che i bilingui precoci attraversino in una delle due lingue una fase unicamente ricettiva – per cui l’aggettivo ‘passivo’ risulta fuorviante − cui segue spesso la rapida comparsa di una competenza produttiva della lingua fino ad allora ‘latente’ (cfr. Moretti e Antonini, 2000). Può avvenire però anche il contrario per cui, per ragioni di tipo biografico, una lingua non viene più utilizzata e le abilità produttive ne risentono, come illustrato a proposito del principio di attivazione (cfr. §1.2). In età adulta, anche in dipendenza di specifiche necessità e motivazioni, il bilingue ricettivo può avere una competenza limitata alla sola comprensione scritta o a specifichi settori della lingua in base agli usi che ne fa nella vita quotidiana. Il fatto che non si sia (più) in grado di farne un uso ‘attivo’, non significa tuttavia che questa lingua non rivesta importanti funzioni sul piano dell’acquisizione linguistica, in quanto, come vedremo, essa può comunque fungere da risorsa per l’apprendimento di ulteriori lingue. Nel caso di apprendenti plurilingui, sarà chiaramente amplificata la differenziazione funzionale, per cui alcune lingue o varietà potranno Si preferisce qui fare riferimento alle denominazioni ricettivo/produttivo riportate da Valdés e Figueroa (1994) in quanto maggiormente diffuse nella letteratura scientifica più recente e più aderenti alla prospettiva di questo lavoro, incentrato sulla valorizzazione di tutte le competenze linguistiche dell’apprendente. 17
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essere utilizzate solo per scopi specifici in vari contesti e domini. Un esempio è dato da chi, per motivi di studio o professionali, sviluppa una competenza prevalentemente ricettiva della microlingua inerente al proprio settore di specializzazione. Tale forma di bi/plurilinguismo è al centro dell’approccio plurale noto come intercomprensione tra lingue affini che sarà trattato nel capitolo 5.
1.3.5 Valore sociale e rappresentazioni delle lingue Si prendono ora in esame alcune classificazioni che si focalizzano maggiormente sui fattori socioculturali e psicosociali connessi al bi/plurilinguismo e, in particolare, lo status delle lingue coinvolte e i rapporti di potere tra queste intercorrenti. Nei soggetti in cui l’acquisizione di una seconda lingua avviene successivamente a quella della L1 (bilinguismo consecutivo), la L2 va necessariamente a modificare, oltre che l’organizzazione mentale delle conoscenze pregresse, anche lo status e il mantenimento della prima. In base a queste considerazioni, Lambert (1974) distingue fra bilinguismo additivo e bilinguismo sottrattivo, altrettanto importante in contesto plurilingue e migratorio. La prima tipologia fa riferimento a quelle situazioni in cui le due lingue vengono sviluppate e mantenute parallelamente, mentre con bilinguismo sottrattivo si intende la graduale perdita di una lingua dovuta all’uso crescente dell’altra. Mentre nel primo caso la L2, che è quella “socialmente rilevante” (Lambert, 1978: 217), costituisce generalmente un arricchimento linguistico, sociale e cognitivo per il parlante, nel secondo caso la L1 va incontro ad una progressiva erosione linguistica (language attrition)18, fino alla sua eventuale perdita. Questo fenomeno è abbastanza tipico di molti apprendenti di seconda generazione provenienti da famiglie migranti, per i quali la LO è spesso una lingua associata all’esperienza migratoria e ad una cultura minoritaria nel Con language attrition si fa generalmente riferimento alla progressiva erosione della lingua di origine, che può essere determinata da vari fattori come ad esempio l’atteggiamento e il background linguistico del parlante, la flessibilità della memoria, l’età, ecc. È un processo progressivo e facilmente riconoscibile nelle nuove generazioni di giovani e giovanissimi, in quanto la loro identità perde quasi tutti i legami con la lingua e la cultura dei loro familiari. Cfr. Vedovelli (2011) per l’italiano lingua di emigrazione; Chini e Andorno (2018) per le lingue di origine in Italia. 18
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contesto di arrivo. È evidente quindi che la perdita, anche graduale, di una lingua minoritaria (language loss) non dipende unicamente dal suo uso sporadico ma, come sottolineeranno più avanti altri studiosi (cfr. ad es. Schmid et al., 2004), ad incidere sulla sua erosione è piuttosto lo status sociale delle lingue coinvolte: se l’ambiente circostante (familiare, sociale, scolastico) attribuisce sufficiente valore ad entrambe le lingue, è possibile che il soggetto trarrà i massimi benefici dalla sua esperienza bilingue e che L1 fungerà da supporto all’acquisizione di L2 e viceversa. Al contrario, se il contesto socioculturale è tale da svalutare la L1 con cui il bambino cresce, il suo sviluppo cognitivo potrebbe risentirne ed esserne rallentato, come illustrato anche a proposito del modello CUP di Cummins (cfr. §1.3.2). In virtù dell’importante ruolo che la lingua svolge nella costruzione dell’identità, questa dimensione psicosociale del bilinguismo può avere un impatto notevole su giovani apprendenti che crescono con più lingue, soprattutto nel caso in cui la propria pluralità linguistica sia frutto di una migrazione indesiderata (cfr. Bialystok, 2001). Nel caso di soggetti plurilingui, la situazione di apprendimento sarà resa ancora più complessa non solo dalla presenza di un numero più elevato di (varietà) di lingue che possono fungere da supporto nello sviluppo della literacy nella lingua aggiuntiva (ad es. l’italiano come Ln), ma soprattutto dalla maggiore variabilità di status che ciascuna lingua del repertorio possiede in riferimento sia al contesto di arrivo sia a quello di provenienza. L’incidenza dello status delle lingue e, più in generale, il ruolo della dimensione socioculturale nello sviluppo del bilinguismo sono stati approfonditi in particolare dal sociolinguista Fishman (1977), la cui distinzione tra ‘bilinguismo popolare’ (folk bilingualsim) e ‘bilinguismo elitario’ (elite bilingualism), strettamente correlata a quella di Lambert, è ancora piuttosto attuale19. Il bilinguismo elitario è legato ad uno status di prestigio della lingua obiettivo, generalmente una lingua seconda o straniera ricercata soprattutto dai ceti medio-alti come valore aggiunto nella formazione linguistica dei propri figli, com’è spesso il caso dalla lingua inglese nei programmi di immersione in molti paesi del mondo non anglofono. Il bilinguismo popolare è tipico invece di quei membri appartenenti ad una comunità linguistica Si veda la distinzione simile tra bilinguismo circostanziale e bilinguismo elettivo ad opera di Valdés e Figueroa (1994). 19
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minoritaria che si trovano nella necessità di apprendere la L2, lingua dominante della comunità ospitante e, quindi, dotata di alto prestigio nel contesto dato. Mentre i bilingui elitari scelgono o sono indotti ad ampliare le proprie competenze in una o più lingue straniere prestigiose attraverso l’istruzione formale e non, per i bilingui popolari l’apprendimento della L2 non è frutto di una scelta ma è piuttosto forzato dalle circostanze. Sulla sua acquisizione grava inoltre una forte pressione, in quanto da questa dipende spesso il successo del proprio progetto migratorio (adulti), il successo scolastico (minori), se non la stessa sopravvivenza nella comunità ospitante. Più di altre, questa distinzione pone l’attenzione sul fatto che non tutte le forme di bi/plurilinguismo sono apprezzate e valorizzate allo stesso modo dalla società, con prevedibili ripercussioni anche in ambito educativo. Il grado di prestigio sociale di una lingua può infatti avere un impatto notevole sulle rappresentazioni individuali circa il valore del repertorio linguistico proprio ed altrui e, conseguentemente, sulla percezione dell’utilità che le lingue che le compongono possono potenzialmente assumere nell’apprendimento di una Ln (cfr. Cognigni, 2007; Moore, 2001). Questo aspetto riveste un’importanza di rilievo nel contesto dell’educazione formale italiana dove il bi/plurilinguismo a basso prestigio è generalmente quello più diffuso. A maggior ragione, è importante che questo possa essere riconosciuto e valorizzato sinergicamente in tutti gli ambienti in cui il bambino bi/plurilingue cresce (sociale, scolastico, familiare)20. In tale quadro, la famiglia ha certamente un ruolo chiave, non solo rispetto ad un uso linguistico frequente che consentirebbe il mantenimento della LO, ma – su un piano più qualitativo – nella costruzione di un atteggiamento positivo delle nuove generazioni verso la pluralità delle appartenenze linguistico-culturali e la loro possibile coesistenza21.
All’importanza di valorizzare i repertori plurilingui di tutti gli apprendenti e alle sue implicazioni sul piano dell’educazione linguistica è affrontata in maggior dettaglio nella seconda parte di questo volume, in cui vengono presentati approcci e strategie didattiche utili all’implementazione di una didattica plurilingue. 21 In relazione all’ambito di studi delle politiche linguistiche familiari (family language policies) in contesto migratorio e sull’importante ruolo della famiglia nel processo di mantenimento delle LO si vedano, tra altri lavori, Moretti e Anotonini (2000), Tannenbaum e Berkovitch (2005), Haque (2019). 20
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Come approfondito in questo capitolo, nel corso degli anni sono state elaborate numerose definizioni e classificazioni del bi/plurilinguismo. Ognuna di esse si è focalizzata su una determinata caratteristica del fenomeno, analizzandone diversi aspetti e specificità. Al fine di darne una sintesi funzionale agli scopi di questo lavoro, si riporta una tabella sinottica (tab. 1) delle varie distinzioni trattate, rielaborata a partire da quella proposta da Butler (2012: 113-114). Essa prende in esame anche alcuni importanti aspetti correlati al bi/plurilinguismo sul piano della ricerca scientifica e le implicazioni educative, che saranno approfondite nei paragrafi e capitoli successivi.
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Tab. 1: Classificazione delle tipologie di bilinguismo (adattato da Butler, 2012: 113-114) Focus Organizzazione dei codici linguistici e delle unità di significato Relazione tra le competenze in L1 e L2
Tipologia Composito / Coordinato / Subordinato (Weinreich, 1953) Bilanciato / Dominante (Peal, 1962)
Additivo / sottrattivo
Status della lingua e contesto di acquisizione; supporto della L1
Elitario / Popolare (Fishman, 1977) Elettivo/Circostanziale (Valdés, Figueroa, 1994) Precoce (simultaneo / consecutivo) / Tardivo
Uso funzionale delle abilità linguistiche
Differenze funzionali; legato al fattore età (?)
Lambert,
Effetto dell’apprendimento di L2 sulla conoscenza di L1
Età di acquisizione
Caratteristiche apprendimento di L2 Differenze funzionali nella memorizzazione e nella mappatura cerebrale della lingua
(Lambert, 1974)
(Genesee et al., 1978) Ricettivo / Produttivo (Valdés, Figueroa, 1994)
L2 come arricchimento, con o senza perdita di L1; statuto di una lingua in un dato contesto Differenze di status e valore delle lingue implicate Differenze legate all’età di acquisizione di L1/L2 e alla scolarizzazione Differenze funzionali e motivazionali
Aspetti correlati e implicazioni educative Difficoltà nel rendere operative le distinzioni e testare le differenze Concettualizzazione e valutazione della competenza linguistica; ipotesi dell’interdipendenza linguistica e del livello soglia di Cummins Forte influenza del valore sociale di L1 sul suo mantenimento; supporto nello sviluppo della literacy in L2
Caratteristiche aggiuntive in contesto plurilingue Maggiore complessità e diversità nell’organizzazione della memoria in base alle differenze tipologiche e ai livelli di proficiency delle lingue note Maggiore complessità nella concettualizzazione e misurazione delle competenze plurilingui
Supporto nello sviluppo della literacy in L2
Maggiore complessità dell’ apprendimento di una lingua aggiuntiva a partire da quelle già acquisite; maggiore diversità dello statuto delle lingue implicate Maggiore diversità dei valori sociali attribuiti a più lingue
Differenze neurolinguistiche; ipotesi del periodo critico
Maggiore diversità nell’ordine di acquisizione; può avere più L1 e/o L2
Uso della lingua a prescindere dai livelli di proficiency e dall’identità
Maggiore diversità delle differenze funzionali nelle varie lingue e domini d’uso implicati
1.4 Valorizzare il plurilinguismo: benefici e qualche falso mito Nel contesto della ricerca scientifica come in quello dell’educazione linguistica, il dibattito sui benefici del bi/plurilinguismo è alquanto ampio e in divenire (cfr. Antoniou, 2019 per un’introduzione), dati anche l’interesse che esso solleva e la mole di studi e ricerche già condotti sul tema. In questo paragrafo si prenderanno in esame alcuni tra i più noti vantaggi connessi al plurilinguismo, traendo evidenze dalla ricerca scientifica. Consapevoli del fatto che si tratta di un campo di studi in continua evoluzione, non si intende darne un quadro esaustivo ma piuttosto proporne una sintesi, funzionale a fornire una risposta − seppure provvisoria − alla domanda implicita nel titolo di questo paragrafo e che guida la riflessione nell’intero volume: perché valorizzare il plurilinguismo? E, in modo correlato, quali sono gli effettivi vantaggi connessi alla conoscenza e all’apprendimento di più lingue? Come anticipato nel paragrafo precedente, il mancato riconoscimento da parte della società e, in particolare, dell’istituzione scolastica dell’esistenza della/e lingua/e parlate in famiglia (LO, lingua regionale, dialetto locale, ecc.) può spesso tradursi in un senso di insicurezza linguistica ed una bassa autostima nei parlanti delle lingue minoritarie, soprattutto in coloro che provengono da ambienti svantaggiati o da contesti di immigrazione (cfr. Coste et al., 2009: 31, trad. it). Ad essa può inoltre correlarsi una maggiore difficoltà a riconoscere e trasferire delle strategie cognitive o dei saperi linguistici da una lingua all’altra, a causa del fatto che tale lingua non sia ritenuta ‘degna’ o ‘utile’ allo scopo (cfr. Cognigni, 2007). Riconoscere e valorizzare i vari codici presenti nei repertori linguistici degli apprendenti ha quindi, innanzitutto, il grande beneficio di modificare gli atteggiamenti linguistici e far emergere il valore intrinseco di ogni idioma, a prescindere da quello attribuitogli dalla società nel caso di lingue minoritarie, e facendo in modo che gli stessi individui plurilingui ne possano prendere consapevolezza. Un valore che chiaramente non è determinato solo dalla quantità di codici linguistici attraverso cui potersi esprimere, ma che si lega anche alla pluralità identitaria cui le lingue rinviano e, per quello che più interessa in questa sede, alla possibilità di farne una risorsa cognitiva per l’apprendimento di ulteriori lingue.
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Su un piano cognitivo, valorizzare il bi/plurilinguismo significa dare visibilità e potenziare la capacità dell’apprendente di saper riflettere sul funzionamento e sulla struttura della lingua, ovvero di fare leva sulla sua consapevolezza metalinguistica (language awareness; Hawkins, 1984). Come emerge da molte ricerche (cfr. ad es. Baker e Prys Jones, 1998; Bialystok e Herman, 1999; Bialystok, 2001; Herdina e Jessner, 2002; Paradis, 2004; Altarriba e Heradia, 2008), i soggetti plurilingui mostrano di possedere una maggiore consapevolezza circa la natura convenzionale del linguaggio e una maggiore flessibilità mentale dovuta alla conoscenza di più lingue. Il fatto che essi debbano precocemente focalizzarsi sulla forma della lingua per poter essere in grado di differenziare i due codici permetterebbe loro di concentrarsi maggiormente sulle caratteristiche astratte delle lingue e, pertanto, di sviluppare una maggiore capacità di trattarle come dei sistemi formali. La conoscenza e l’apprendimento di più lingue sviluppa dunque una maggiore capacità di distinguere tra la forma e il significato delle parole, consentendo di intuire come ad esempio il concetto di ‘libro’ (significato) possa essere associato a più parole in diverse lingue (significante). Questa maggiore disponibilità di significanti aumenta la capacità di riflessione sul linguaggio in generale e sui vari sistemi linguistici in particolare, stimolandone l’acquisizione. Va precisato che questo tipo di beneficio non è limitato all’infanzia, ma è riscontrabile anche in fasce di età successive, sebbene nei bambini la funzionalità di tali processi cognitivi sia più evidente per poi subire nel tempo un declino fisiologico (cfr. Bialystok et al., 2004). Alcuni studi hanno inoltre evidenziato come questa maggiore consapevolezza metalinguistica possa accelerare l’acquisizione della letto-scrittura nei bambini bilingui rispetto a quelli monolingui, in virtù di una maggiore capacità di astrazione che facilita il riconoscimento della corrispondenza tra i segni della lingua scritta e quella parlata (Bialystok e Herman, 1999, in Garraffa et al., 2020: 17). Ulteriori studi (ad es. Aronin e Hufeisen, 2009; Abu Rabia e Sanitsky, 2010; De Angelis, 2007) hanno posto l’accento sull’importanza che la language awareness riveste nell’apprendimento di una terza o quarta lingua (Ln) nel corso della vita, abilità su cui l’apprendimento linguistico fa particolare leva a partire dall’adolescenza in poi, dato lo sviluppo cognitivo dell’apprendente. Queste ed altre ricerche hanno portato allo sviluppo di un ambito di studi noto come Third Language Acquisition (TLA) che ha avuto un certo impatto in contesto didattico
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e, come vedremo, in modo particolare sulla didattica integrata delle lingue (cfr. cap. 4). Un altro potenziale beneficio del bi/plurilinguismo, ampiamente riportato in letteratura, è quello legato all’attenzione selettiva, ovvero alla maggiore capacità di concentrarsi su un determinato oggetto di interesse e di rielaborare le informazioni rilevanti senza farsi distrarre da informazioni accessorie o dati inutili (cfr. Bialystock, 2001). L’allenamento costante dei bilingui nella selezione della lingua da utilizzare e nella contemporanea inibizione dell’interferenza della L2 stimola un insieme di processi noti come ‘funzioni esecutive’, tra cui il controllo inibitorio, la memoria di lavoro e la flessibilità cognitiva22. I benefici derivanti dal potenziamento di questi processi non sono limitati alla dimensione linguistica in quanto, come abbiamo visto a proposito della CUP di Cummins, abilità cognitive e abilità linguistiche sono strettamente correlate. Tuttavia, l’attenzione selettiva che ne deriva assume particolare significatività nel contesto dell’educazione linguistica, dove questa viene associata ad una caratteristica interna o stile cognitivo generalmente desiderabile nell’apprendente di lingue, noto come “indipendenza dal campo”. Sebbene questa classificazione non sia condivisa da tutti gli studiosi (cfr. Celentin, 2019: 86), essa rimanda generalmente alla capacità dell’apprendente di isolare con facilità gli elementi di una determinata situazione, accompagnandosi ad uno stile cognitivo più analitico e ad una maggiore riflessività. Attenzione selettiva e indipendenza dal campo contribuiscono inoltre ad una spiccata capacità di problem-solving, abilità anch’essa correlata alle funzioni esecutive sopra descritte. Va tuttavia precisato che alcuni studiosi (ad es. Paap e Greenberg, 2013) hanno ridimensionato le proporzioni del vantaggio del bilinguismo in riferimento allo sviluppo delle funzioni esecutive, sottolineando che questo potrebbe risiedere nella tipologia di task proposti e nella combinazione di altri fattori. Contrariamente a quanto spesso enfatizzato da molti canali divulgativi, è possibile quindi affermare che l’essere plurilingue di per sé non rende ‘più intelligenti’ ma fornisce 22
Come introdotto nel §1.2, il controllo inibitorio rimanda all’abilità di inibire una risposta automatica o un’informazione irrilevante ai fini del compito da portare a termine. La memoria di lavoro costituisce l’abilità di ritenere informazioni nella mente e di saperle utilizzare per lo svolgimento di un ampio ventaglio di compiti, mentre la flessibilità cognitiva fa riferimento all’abilità di operare delle modifiche in base al cambiamento di una richiesta o all’abilità di passare da un obbiettivo all’altro (cfr. Diamond, 2014).
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potenzialmente uno strumento in più che può avvantaggiare in diverse situazioni della vita quotidiana. Come riporta inoltre Abdelilah-Bauer (2008: 25), “[g]li studi che si interessano allo stile di pensiero dei bilingui partono dall’ipotesi che il possesso di due sistemi di rappresentazione aumenti la flessibilità e l’originalità del pensiero”, un ‘pensiero divergente’ meno normato, più creativo e flessibile. Questa creatività che, secondo altri autori, caratterizzerebbe soprattutto i bilingui bilanciati, è presente anche in soggetti con forme più ‘deboli’ di bilinguismo ed aumenterebbe con il progredire dell’età (cfr. ad es. Baker e Prys Jones, 1998; Leikin, 2012). Il pensiero divergente ed altre caratteristiche ad esso correlabili, come la creatività, l’apertura mentale e l’originalità affiancano dunque la consapevolezza metalinguistica e le potenzialità delle funzioni esecutive nel permettere che l’esperienza di acquisizione pregressa di una o più lingue si trasformi in un’efficace risorsa nell’apprendimento di una lingua aggiuntiva. Per completare questo quadro sui possibili benefici del bi/plurilinguismo va infine presa in esame una caratteristica di ordine diverso, legata all’esperienza dell’interazione che caratterizza la comunicazione plurilingue. Le persone che vivono con due o più lingue sviluppano infatti una particolare sensibilità nei confronti dell’altro e dei suoi bisogni comunicativi, ai quali cerca di adattarsi sfruttando le risorse linguistiche a sua disposizione. Abituati a monitorare costantemente il contesto comunicativo e le caratteristiche degli interlocutori in esso presenti, i parlanti bi/plurilingui imparano più precocemente a cogliere le necessità comunicative dell’interlocutore, a cambiare lingua o registro per adattarsi ai suoi bisogni, sviluppando in sostanza una maggiore empatia comunicativa (cfr. Bialystok, 2001). In virtù di ciò, Piccardo e Aden (2014) pongono l’accento sulla necessità di assumere un atteggiamento olistico e flessibile verso le lingue e la loro compresenza, che espliciti maggiormente l’importante ruolo svolto dall’empatia e dalle emozioni, nella comunicazione come nella didattica in contesto plurilingue23.
Per approfondire il rapporto tra emozioni e plurilinguismo si vedano, inoltre, il contributo di Pavlenko (2005) e il paragrafo 2.1. 23
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Capitolo 2. Plurilinguismo e educazione linguistica Numerosi studi sulla comunicazione e sull’apprendimento in contesto multilingue hanno recentemente favorito, in ambito internazionale, l’adozione di un nuovo paradigma nel campo dell’educazione linguistica, fondato su una visione del repertorio plurilingue degli studenti come un vantaggio ed una risorsa di apprendimento. Questa ‘svolta plurilingue’ o multilingual turn (cfr. §2.1) è, in realtà, tutt’altro che nuova negli studi sull’educazione linguistica, come pure nel panorama delle politiche linguistiche educative europee e nazionali che ne sono conseguite. In tal senso, i documenti di politica linguistica dell’Unione Europea e, ancor più, quelli prodotti dal Consiglio d’Europa hanno largamente promosso l’adozione di una prospettiva plurilingue nell’insegnamento/apprendimento delle lingue, a partire dal Quadro comune europeo di riferimento24 (2001) in poi. Molteplici sono infatti i documenti delle varie istituzioni europee che sottolineano l’importanza di diffondere una cultura del multi/plurilinguismo e, per converso, di attuare un’educazione plurilingue e interculturale, nozione che si ritroverà, a partire dal 2007, anche nei documenti ministeriali della scuola italiana (cfr. §2.5.2). Alla luce di tali premesse, ci si chiede in questo capitolo quanto il multilingual turn rappresenti realmente una svolta tale nel nostro Paese o, per dirla con un gioco di parole, se non si possa considerare piuttosto un multilingual return. Come vedremo, infatti, questa ‘svolta’ plurilingue è in realtà iscritta nella storia linguistica stessa della penisola italiana, culla dell’educazione linguistica democratica degli anni Settanta cui si rifaranno anche parte dei documenti europei qui presi in esame. Le questioni linguistiche ed educative poste dalla migrazione nella scuola e nella società contemporanee rappresentano dunque un ‘banco di prova’ per le politiche linguistiche educative italiane, nelle quali il patrimonio sociolinguistico e educativo che caratterizza la penisola non è sempre evidente o messo a frutto. In questo capitolo si fornisce una ricostruzione critica di alcuni concetti cardine alla base dell’odierna educazione plurilingue in 24
D’ora in poi abbreviato come QCER o Quadro.
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contesto europeo, secondo un’ottica diacronica volta a (ri)definirne i contorni e le potenzialità. Si mette inoltre in evidenza l’intreccio delle istanze politico-linguistiche europee con l’educazione linguistica di matrice italiana e le pratiche didattiche che ne sono conseguite in relazione alla valorizzazione della diversità linguistica e culturale in ambito educativo, anche attraverso un esame critico dei documenti che l’hanno promossa. Prima di discutere in dettaglio la nozione di competenza plurilingue e pluriculturale e quella ad essa connessa di educazione plurilingue e interculturale, è opportuno operare una precisazione terminologica tra i concetti di plurilinguismo e multilinguismo, termini solo in parte sovrapponibili ed utilizzati in modo variabile nella letteratura scientifica e nei documenti di politica linguistica, a seconda della lingua in uso o dell’istituzione che se ne fa promotrice. Mentre il Consiglio d’Europa utilizza il termine ‘plurilinguismo’ per fare riferimento alla pluralità delle competenze linguistico-comunicative delle persone, i documenti ufficiali dell’Unione Europea impiegano più comunemente il termine onnicomprensivo di ‘multilinguismo’ per descrivere sia le competenze del singolo che delle comunità linguistiche. Tale polisemia è legata, in parte, alla difficoltà di distinguere i termini ‘plurilingue’ e ‘multilingue’ nelle lingue differenti dall’inglese e dal francese (Consiglio dell’Unione europea, 2018: 8)25. La necessità di tenere distinte le due nozioni attraverso specifici termini, più volte ricordata nei lavori del Consiglio d’Europa a partire dallo stesso QCER, è ben compendiata da Beacco et al. (2016: 27; trad. it.): Il termine plurilinguismo si riferisce alla capacità dei parlanti di usare più di una lingua; esso considera dunque le lingue dal punto di vista di coloro che le parlano e di coloro che le apprendono. Il termine multilinguismo, invece, rimanda alla presenza di più lingue in una determinata area geografica, indipendentemente da coloro che le parlano. Così, il fatto che due o più lingue siano presenti in un’area geografica non implica automaticamente che gli abitanti di quell’area siano in grado di usare più di una di queste lingue; alcuni non ne parlano che una sola. Mentre in inglese è infatti molto diffuso l’uso di multilingualism come termine “ombrello”, in lingua francese e più in generale in contesto europeo è largamente utilizzato il termine plurilinguisme, spesso tradotto come tale anche nei documenti del Consiglio d’Europa (plurilingualism, plurilinguismo, ecc.). In italiano il termine plurilinguismo sostituisce invece spesso entrambe le accezioni presenti nel QCER. 25
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Mentre con ‘multilinguismo’ si focalizza dunque l’attenzione sulle lingue e la loro coesistenza in un territorio o in una determinata istituzione educativa, con ‘plurilinguismo’ ci si concentra sul soggetto in quanto parlante ed apprendente. Tale prospettiva, propria di questo lavoro, permette dunque di osservare il fenomeno del multi/plurilinguismo secondo un’ottica più specifica ma comunque ampia, che privilegi la dimensione soggettiva senza dimenticare quella sociale di cui, come ricorda il QCER, l’apprendente di lingue deve poter essere “attore” consapevole. In questo capitolo e nel resto del volume, viene quindi privilegiato il termine ‘plurilinguismo’, alternandolo con il termine ‘multilinguismo’ per fare riferimento ad un approccio più comprendente che includa entrambe le prospettive sopra descritte.
2.1 Il multilingual turn nelle scienze del linguaggio Soprattutto nell’ultimo decennio, in molti studi che si occupano di comunicazione e di apprendimento in contesto educativo emerge una particolare curvatura verso il plurilinguismo individuale e le sue potenzialità didattiche. In due significativi volumi pubblicati nello stesso anno, Conteh e Meier (2014) e May (2014) questo cambio di prospettiva prende il nome di “svolta plurilingue” (multilingual turn). Essa si fonda sulla consapevolezza che apprendenti ed insegnanti portano in classe diversi saperi e risorse linguistiche che rappresentano una sfida, ma anche una grande opportunità nell’apprendimento linguistico ed oltre. La definizione di questo ‘nuovo’ paradigma si intreccia con la storia di altre ‘svolte’ plurilingui in ambiti di ricerca affini, come ad esempio la sociolinguistica e, soprattutto, il campo di studi noto come critical applied linguistics26. Tra i suoi fondatori, spicca la figura di Alastair Pennycook che, nei suoi lavori, mette in evidenza la reciproca influenza tra la dimensione educativa e quella sociale: secondo questa impostazione le classi scolastiche non riflettono semplicemente il Nella definizione di Pennycook (2008) il critical applied linguistics è concepito come un approccio agli usi linguistici e all’educazione che mette in relazione gli aspetti contestuali dell’insegnamento linguistico (ad es. classe, interazioni, manuali, test, ecc.) con la più ampia dimensione sociale (ad es. genere, classe, sessualità, razza, etnia, cultura, identità, ideologia ecc.). 26
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mondo esterno ma sono considerate sistemi sociali e culturali a pieno diritto che possono a loro volta influenzare l’ambiente sociale esterno (Pennycook, 2001: 115-116). Questa prospettiva trova riscontro in altri ambiti e contesti di ricerca, tra cui quello della sociodidattica delle lingue di matrice francese (cfr. Dabène e Rispail, 2008 per un’introduzione). Situandosi all’incrocio tra didattica delle lingue e sociolinguistica, tale orientamento affonda le sue radici in un approccio contestualizzato alle pratiche linguistiche dei migranti, al contatto tra lingue e all’insegnamento in contesti linguistici complessi, facendo della dimensione sociale un’importante chiave di lettura del fenomeno del plurilinguismo in contesto educativo. Occupandosi di plurilinguismo la didattica delle lingue prende così sempre più consapevolezza dell’inestricabile legame tra dimensione sociale e educazione linguistica, riconoscendo l’importante ruolo delle famiglie e delle comunità nella costruzione degli apprendimenti degli alunni. Questi ed altri studi permettono inoltre di rivisitare il concetto di repertorio linguistico, mettendone in evidenza la natura dinamica, ibrida e transnazionale nelle attuali società globalizzate e multilingui. Secondo questa prospettiva il plurilinguismo stesso viene concepito come una sorta di lingua franca (multilingua francas) in cui “le lingue sono strettamente interconnesse e tra loro fuse al punto che il livello di fluidità rende difficile stabilire dei confini che possano indicare la compresenza di diverse lingue” (Makoni e Pennycook, 2012: 447 [trad. nostra]). Nel contesto della ricerca internazionale, l’interesse per lo studio di questi ricchi repertori è testimoniato dalla vasta gamma di definizioni che tentano di catturarne la natura fluida e ibrida. Tra queste, May (2014: 1) riporta quelle di contemporary urban vernaculars (Rampton, 2011), codemeshing (Canagarajah, 2011), flexible bilingualism (Creese et al., 2011), metrolingualism (Pennycook, 2010), polylingual languaging (Jørgensen, 2008) e, infine, quello attualmente più noto di translanguaging (García, 2009). Si passa così progressivamente da una visione che vede nel bi/plurilinguismo un deficit ad una prospettiva di valorizzazione del fenomeno (cfr. ad es. Hélot e De Mejía, 2008; Jenkins, 2006), cui corrisponde la messa in discussione della nozione stessa di lingua standard a favore di una riscoperta dei dialetti e delle varietà linguistiche locali (es. i world Englishes).
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L’importante implicazione che ne deriva è che le lingue non sono realtà fisse e monolitiche, ma appartengono a tutti coloro che le usano e non solo a chi le ha apprese come prima lingua. Il focus dell’attenzione degli studi nell’ambito dell’insegnamento linguistico si sposta così dal modello ideale del native speaker alla nozione più complessa e fluida di “voce” (Makoni e Pennycook, 2012) e, parallelamente, all’idea di lingua come pratica sociale (Heller, 2007; Pennycook, 2010) che si ritroverà anche nel Quadro comune europeo attraverso la nozione di “agente sociale” (cfr. §2.3)27. Secondo questa prospettiva, al fine di gestire e comunicare le proprie appartenenze e identità, il locutore/attore plurilingue deve crearsi una sua ‘voce’ personale in ciascuna delle lingue note, attraverso le sue diverse lingue e in tutto il suo repertorio linguistico. Questa voce personale è l’espressione della sua stessa identità e una prospettiva sul mondo che gli permettono di agire come soggetto plurilingue e pluriculturale (Kern e Liddicoat, 2008: 31). Alla ‘svolta sociale’ si affianca dunque quella ‘soggettiva’ che pone l’accento sui tratti emotivo-affettivi e psicosociali legati alla conoscenza e all’apprendimento di più (varietà) di lingue. Come afferma Lévy nell’introduzione al capitolo “Soi et les langues” del Précis du plurilinguisme et du pluriculturalisme (Zarate et al., 2008), “l’espressione di sé nelle lingue, attraverso e sulle lingue, i discorsi, i metadiscorsi, confortata dalla psicanalisi e poi dalla psicolinguistica, tenta di fare il proprio ingresso nella didattica delle lingue” (Lévy, 2008: 69). La definizione di un apprendente capace di raccontare di sé e delle proprie lingue, o di raccontarsi attraverso ‘altre’ lingue, prelude così all’idea di un locutore/attore meno astratto ed universale, ricentrando l’attenzione dell’azione didattica sul soggetto e sui suoi atteggiamenti, rappresentazioni ed emozioni. Questo approccio centrato sulla soggettività linguistica avrà un’ampia ripercussione in più ambiti: nella didattica delle lingue, in cui prolifereranno studi sul ruolo delle rappresentazioni e degli atteggiamenti linguistici in contesto educativo-formativo (cfr. Moore e Castellotti, 2002 per un’introduzione); nel contesto delle politiche linguistiche educative e, per converso, nelle pratiche d’aula attraverso la definizione di strumenti e dispositivi formativi, come ad esempio il Sulla genesi dell’apprendente come agente sociale in didattica delle lingue si veda in particolare Kern e Liddicoat (2008). 27
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Portfolio delle lingue europee28 (PEL) e − al suo interno − l’autobiografia linguistica. Quest’ultima in particolare, che ha avuto una significativa diffusione nella scuola e nella didattica linguistica in ambito migratorio, viene utilizzata ancora oggi come strumento diagnostico e di (auto)formazione in più contesti educativi multilingui29.
2.2 Il multi-/plurilinguismo nelle politiche linguistiche europee: competenze chiave Numerose sono le iniziative, i progetti ed i programmi europei30 che, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, incoraggiano l’apprendimento di più lingue e la valorizzazione della diversità linguistica e culturale dell’Unione. È soprattutto dal 2000 che le istituzioni europee si impegnano costantemente per una sempre maggiore diffusione del multilinguismo (Cavagnoli, 2011). La diversità linguistica e culturale costituisce infatti un elemento costitutivo dell’Unione Europea e della sua identità fin dal Trattato di Roma (Commissione Europea, 2005), nel quale il principio della “unità nella diversità” viene assunto come suo valore fondante, in antitesi al modello del melting pot statunitense in cui le differenze, al contrario, si fondono. Anche dal punto di vista sociale e culturale la posizione dell’Europa a favore del multilinguismo è chiara, in quanto [l]e competenze linguistiche aumentano […] le possibilità di lavorare, studiare e viaggiare in tutta Europa e permettono la comunicazione interculturale (Eurobarometro 243, 2006). Come sottolinea Luise (2013), i vantaggi sociali e identitari del multilinguismo sono stati spesso assimilati all’importanza di un’economia multilingue, ma i vantaggi dell’essere competenti in più lingue straniere − oltre all’inglese lingua franca − non afferiscono alla Per una prospettiva critica sulla ricezione dei PEL, con esempi tratti dai contesti svizzero, francese e italiano, si rimanda ad Anquetil et al. (2017). 29 Della nozione di autobiografia linguistica e, più ampiamente, delle potenzialità di un approccio autonarrativo nella didattica della L2, ci siamo occupati in diversi lavori precedenti, cui si rimanda per un approfondimento. In riferimento all’italiano L2 a migranti adulti si vedano in particolare Cognigni 2007 e 2016; in riferimento all’inclusione e alla valorizzazione dei repertori plurilingui in contesto scolastico, si rimanda a Cognigni (2014a) e Cognigni e Santoni (2017). 30 Per un elenco dettagliato si rimanda a Cavagnoli (2011: 18-31). 28
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sola sfera strettamente economica: come qui discusso nel capitolo 1 ed esplicitato in un documento dalla Commissione Europea del 2009 (Study on the Contribution of Multilingualism to Creativity), la padronanza di una lingua diversa da quella materna e le competenze culturali e interculturali che la accompagnano stimolano la creatività e l’innovazione, il pensiero divergente per giungere a nuove soluzioni, la flessibilità ed altre importanti soft skills particolarmente ricercate sul piano professionale, in una società sempre più multiculturale e globalizzata. In virtù di queste premesse, le politiche linguistiche europee a favore dello sviluppo del multilinguismo hanno investito molto sulla formazione e sull’educazione linguistica, articolandosi attorno a due assi principali (Luise, 2013): - l’avvicinamento precoce alla diversità linguistica e culturale attraverso l’inserimento delle LS nei curricula fin dalla scuola dell’infanzia e, in modo correlato, la formazione e l’aggiornamento degli insegnanti, la ricerca e la diffusione di metodologie e tecnologie didattiche; - l’educazione permanente, che coinvolge l’intera persona facendo in modo che ogni sua esperienza possa fungere da possibile fonte di educazione, come ben compendiato nelle espressioni Lifelong Learning e Lifewide Learning31; formazione e istruzione lungo tutto l’arco della vita vi costituiscono un requisito fondamentale per esercitare una cittadinanza attiva e democratica che, in una società multilingue e multiculturale, richiede necessariamente competenze linguistiche e interculturali. Le istituzioni europee si sono ampiamente occupate anche della tutela delle lingue minoritarie e regionali, dei dialetti, delle comunità alloglotte all’interno dei paesi membri, nonché della promozione della diversità linguistica e dell’aumento delle competenze in lingue straniere europee e non, perseguiti attraverso una crescente diversificazione dell’offerta linguistica delle istituzioni formative, il sostegno alla mobilità internazionale di studenti e docenti, ecc. Negli anni, si delinea quindi un approccio sempre più comprendente verso L’educazione permanente proposta dagli organismi internazionali riguarda sia l’asse temporale, con una distribuzione dell'apprendimento lungo l'intero arco della vita (lifelong learning), sia la pluralità degli ambiti della vita in cui esso accade (lifewide learning), includendo l’apprendimento di tipo formale, informale e nonformale (cfr. Commissione Europea, 2001). 31
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il multi-/plurilinguismo e la diversità linguistico-culturale. Tuttavia, come ha fatto notare Luise (2013: 526), [i]n questa azione politica e culturale ormai radicata in Europa rimane in ombra un aspetto linguistico che diviene sempre più importante, presente e visibile nelle società dei paesi membri: la presenza delle lingue materne ed etniche dei milioni di immigrati ormai cittadini stabili nel vecchio continente. Lo stesso QCER, nella sua versione iniziale (2001), non fa espresso riferimento a questa importante componente del multilinguismo europeo, seppure siano molti i documenti ed i progetti delle istituzioni a favore della presa in carico di questa grande ricchezza anche in ambito educativo (cfr. §2.2). Tra altri documenti, ricordiamo ad esempio il Rapporto EUNEC32 del 2012 su migrazione e educazione, il quale evidenzia invece in modo efficace l’importante nesso tra valorizzazione del plurilinguismo ed inclusione dei migranti, sottolineando come i repertori plurilingui degli studenti debbano poter diventare dei veri e propri “capitali didattici” di apprendimento ai fini di una politica di integrazione efficace: Finché l’educazione dei migranti si concentrerà solo sulla conoscenza della lingua del Paese ospitante e trascurerà di considerare i repertori plurilingui dei migranti come una risorsa, le politiche di integrazione sono destinate a fallire. […] Al contrario, i repertori plurilingui di questi alunni possono essere sfruttati come capitale didattico per l'apprendimento. L’attenzione alla madrelingua e alla cultura rafforzerà l'identità degli alunni migranti e migliorerà la loro fiducia in se stessi (EUNEC, 2013: 112 [trad. nostra]).
Più recentemente il Consiglio dell’Unione europea ha emanato delle nuove Raccomandazioni relative alle competenze chiave all’apprendimento permanente (Consiglio dell’Unione europea, 2018) che mettono in luce un importante cambiamento di prospettiva in tal senso. Tra le 8 raccomandazioni proposte dal nuovo quadro delle competenze, che aggiorna e sostituisce la versione del 2006 (Consiglio dell’Unione europea, 2006), trovano infatti una definizione la “competenza alfabetica funzionale” e la “competenza multilinguistica”, che nel documento precedente erano denominate rispettivamente competenza di “comunicazione nella madrelingua” e competenza di 32
European Network of Education Councils (EUNEC, 2013).
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“comunicazione nelle lingue straniere”. Si tratta con evidenza di una scelta terminologica che implica l’assunzione, da parte delle istituzioni europee, di una prospettiva più flessibile ed inclusiva verso le competenze linguistiche dell’individuo, in cui si tiene conto della pluralità linguistica e culturale che caratterizza molti dei cittadini dell’Unione, sempre più multilingue e multiculturale. In particolare, riconoscendo la necessità di sviluppare e potenziare le competenze di literacy lungo l’arco della vita si prende atto del fatto di almeno due evidenze importanti. In primo luogo, il fatto che non sempre la “lingua madre” corrisponde alla lingua di scolarizzazione del contesto di istruzione formale o alla lingua ufficiale del paese in cui si vive, anche se temporaneamente, aspetto di cui necessariamente le istituzioni formative sono chiamate a farsi carico (cfr. §2.4.1). In secondo luogo si sottolinea la presenza di cittadini che, nonostante non siano più in età scolare, hanno necessità di potenziare o sviluppare le competenze di letto-scrittura e più ampiamente comunicative, prendendo sostanzialmente atto della variabilità delle competenze linguisticocomunicative negli apprendenti a debole o nulla scolarizzazione e, più ampiamente, nei cosiddetti adulti low-skilled33. Tali competenze, base degli apprendimenti e dello sviluppo di interazioni linguistiche efficaci, sono considerate ‘funzionali’ alla piena partecipazione dell’individuo nella società e sono strettamente correlate alla capacità di saper interagire funzionalmente in più lingue, all’esigenza di sviluppare cioè competenze alfabetiche plurali e a vari livelli di padronanza. In questo senso la prima competenza chiave (“competenza alfabetica funzionale”) è strettamente correlata alla seconda (“competenza multilinguistica”): esse condividono infatti la necessità di sviluppare le principali abilità linguistiche (comprensione e produzione orale, comprensione e produzione scritta) in una varietà di contesti sociali e culturali. Seppure la “competenza multilinguistica” sia definita innanzitutto come “la capacità di utilizzare diverse lingue in modo L’indagine OCSE-PIAAC del 2013 mette in luce come il problema dei low skilled (o analfabeti funzionali) sia una realtà anche italiana: i cittadini di età compresa tra i 16 e 65 anni con livelli molto bassi di literacy sono quasi 11 milioni, ovvero il 27,9% della popolazione di riferimento, la percentuale più elevata tra i Paesi partecipanti all’indagine. Le ragioni di questo crescente tasso di analfabetismo funzionale, spesso associato a limitate competenze digitali, sono generalmente legate a percorsi scolastici brevi o interrotti prematuramente e/o da un precoce ingresso nel mondo del lavoro (cfr. Mineo e Amendola, 2018). 33
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appropriato ed efficace allo scopo di comunicare” (Consiglio dell’Unione europea, 2018: 8), non si tratta di mirare unicamente allo sviluppo della competenza di “comunicazione nelle lingue straniere” ma piuttosto di promuovere una competenza stratificata che riconosca l’esigenza di una literacy plurilingue e pluriculturale. Viene inoltre posto un forte accento sull’importanza delle competenze interculturali, sottolineando come, in un mondo sempre più globalizzato e caratterizzato dalla mobilità delle persone, sia fondamentale il possesso di competenze utili alla mediazione tra lingue e culture diverse, come pure tra mezzi di comunicazione differenti. A tale riguardo, le Raccomandazioni fanno espresso riferimento al QCER, o meglio al suo volume integrativo noto come Companion Volume (Consiglio d’Europa, 2018), di cui si tratterà nel paragrafo 2.3. Grazie ad esso il Quadro si è arricchito infatti di nuovi descrittori relativi alla mediazione, all’interazione online, come pure di un ulteriore livello linguistico (Pre-A1) che possa tener conto anche di competenze parziali precedenti all’A1. Nel sottolineare il valore di reciprocità della diversità linguistica e culturale, il documento sembra dunque esprime un atteggiamento di apertura ed inclusività nei confronti di cittadini appartenenti a minoranze o provenienti da contesti migratori, nei cui repertori linguistici possono essere presenti competenze in “lingue madri” ancora in fieri, da sostenere attraverso specifici interventi educativoformativi per il loro mantenimento e potenziamento (language maintenance), al pari dello sviluppo di competenze nella/e lingua/e ufficiali della comunità di arrivo: Secondo le circostanze, essa [la competenza multilinguistica] può comprendere il mantenimento e l’ulteriore sviluppo delle competenze relative alla lingua madre, nonché l’acquisizione della lingua ufficiale o delle lingue ufficiali di un Paese come quadro comune di interazione (Consiglio dell’Unione europea, 2018: 8)
In una nota del documento si accenna infine ad un aspetto essenziale rispetto alla prospettiva di questo lavoro, ovvero il valore cognitivo della conoscenza di lingue classiche come il greco e il latino che, in quanto all’origine di molte lingue moderne, possono fungere da utili risorse nell’apprendimento delle lingue in genere. La seconda competenza riprende dunque numerosi concetti già espressi a riguardo della competenza alfabetica funzionale rileggendoli
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nel più ampio quadro del plurilinguismo, in cui lingua e cultura di origine (LO), lingua e cultura straniera (LS), lingua e cultura del Paese di arrivo (L2) sono – o dovrebbero poter diventare − parti costitutive di pari dignità di una più ampia “competenza multilinguistica”. Tale nozione, avvicinandosi molto al concetto di competenza plurilingue e pluriculturale di cui si tratterà nel paragrafo successivo, si pone dunque in rapporto sinergico – anche se non sempre speculare34 − con le politiche linguistiche educative avanzate dal Consiglio d’Europa sin dalla metà degli anni Novanta.
2.3 La competenza plurilingue e pluriculturale: dal Quadro Comune al Companion Volume La nozione di competenza plurilingue e pluriculturale presente in molti documenti europei e, in particolare, in quelli del Consiglio d’Europa qui discussi, è nota soprattutto grazie alla prima versione del QCER (Consiglio d’Europa, 2002). Una sua prima elaborazione si trova già in un documento preparatorio del QCER (Coste et al., 1997), nel quale si evidenzia la necessità di ricorrere ad una definizione flessibile di plurilinguismo, in grado di rendere conto della diversità delle situazioni e dei profili individuali alla luce degli usi effettivi che ne fa il parlante nel contesto sociale. La nozione di competenza plurilingue e pluriculturale intende così proporre un ampliamento di quella di competenza comunicativa che, fino ad allora, si era fondata prevalentemente sul modello del parlante nativo. L’assunto di base del modello di competenza comunicativa e, per converso, della didattica linguistica che ne è conseguita è stato infatti a lungo – ed in parte lo è ancora – quello di una comunicazione endolinguistica tra parlanti ritenuti in possesso di una padronanza più o meno perfetta ed Come fanno notare Casi e Minuz nell’introduzione al Sillabo per la progettazione di percorsi sperimentali per l’apprendimento al livello Alfa, “il livello Pre-A1 introdotto dal succitato Companion descrive il percorso di persone che già sono scolarizzate e si concentra pertanto sull’apprendimento linguistico, mentre il livello Pre-A1 a cui fa riferimento anche il Sillabo predisposto dagli Enti certificatori riguarda il percorso di adulti funzionalmente analfabeti, che devono cioè rafforzare le loro competenze generali di lettura e di scrittura mentre apprendono a leggere e a scrivere in italiano” (Casi e Minuz, 2019: 3). Non si evince dunque un’effettiva specularità tra i principi enunciati nelle Raccomandazioni del 2018 del Consiglio dell’Unione europea in merito alla competenza alfabetica funzionale e i nuovi descrittori del livello Pre-A1 nel Companion Volume. 34
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omogenea delle risorse linguistiche del codice in uso, vale a dire la loro lingua materna. Dopo questo primo studio, sintesi a sua volta di una riflessione tutta europea sul valore della pluralità linguistica e culturale dal punto di vista del soggetto, il concetto trova diffusione grazie al Quadro in cui ne viene data la seguente definizione: La capacità che una persona, come soggetto sociale, ha di usare le lingue per comunicare e di prendere parte a interazioni interculturali, in quanto padroneggia, a livelli diversi, competenze in più lingue ed esperienze in più culture. Questa competenza non consiste nella sovrapposizione o nella giustapposizione di competenze distinte, ma è piuttosto una competenza complessa o addirittura composita su cui il parlante può basarsi (Consiglio d’Europa, 2002: 205, trad. it.). Si noti innanzitutto come la dimensione ‘plurilingue’ sia qui strettamente correlata a quella ‘pluriculturale’, a sottolineare come il connubio lingua-cultura sia bidirezionale e inscindibile. Dando inoltre dignità anche a “livelli diversi” di conoscenza delle lingue, la definizione mette l’accento sul valore delle ‘competenze parziali’, ovvero competenze di diverso livello e in differenti domini (personale, educativo, pubblico, professionale) in una o più lingue apprese lungo il proprio percorso biografico. Si includono dunque anche le lingue e le loro diverse varietà acquisite in contesti diversi da quello formale, come accade, per esempio, nel caso di apprendenti provenienti da famiglie o contesti multilingui, o, ancora, a coloro che per differenti motivi si trovano a vivere in contesti culturali e linguistici diversificati. Il QCER sottolinea inoltre la natura “complessa” o “composita” di questa competenza, poiché il repertorio linguistico di un soggetto plurilingue non corrisponde alla semplice somma delle (varietà di) lingue in esso presenti, ma costituisce piuttosto una nuova entità, flessibile e soggetta a ristrutturazioni qualitative continue, che intervengono man mano che le lingue sono apprese o perfezionate. Richiamando l’ipotesi dell’interdipendenza linguistica di Cummins (cfr. §1.3.2), la definizione di tale competenza sottolinea dunque come tutte le competenze linguistico-comunicative dell’apprendente cooperino alla definizione di una competenza più ampia ed articolata in cui le abilità cognitive sottese sono tra loro interconnesse. Questa interdipendenza tra le diverse competenze linguistiche del soggetto plurilingue rimanda inoltre alla teoria della multicompetenza di Vivian Cook (2002), secondo cui ciascuna lingua ulteriore che si
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acquisisce va a modificare l’assetto preesistente. La teoria della multicompetenza, utile a chiarire anche la natura stessa del concetto di plurilinguismo, viene spiegata da Cook con una metafora molto efficace: Apprendere una seconda lingua non equivale ad aggiungere delle stanze alla propria casa costruendo un’aggiunta sul retro: è la ricostruzione di tutte le pareti interne (Cook, 2002, in Mariani 2016: 15). Attraverso questa nozione, al tempo piuttosto innovativa, il Consiglio d’Europa propone dunque un cambio di prospettiva importante in contesto educativo rispetto alle pratiche di didattica linguistica fino ad allora in essere, per lo più focalizzate su un insegnamento separato delle lingue. Il parlante di riferimento dell’insegnamento linguistico non è più solo un ipotetico parlante nativo, ma l’apprendente stesso in quanto “agente sociale” che, a seconda del contesto e dell’interlocutore, seleziona dal proprio repertorio linguistico le risorse più idonee alla situazione data. Questa volontà è ribadita anche altrove nel Quadro dove si dichiara che “[l]a finalità [dell’educazione linguistica] dovrebbe consistere nello sviluppare un repertorio linguistico in cui tutte le capacità linguistiche trovino posto” (Consiglio d’Europa, 2002: 6, trad. it.), riconoscendo in pratica come ognuna di esse assuma specifiche funzioni e valenze per il soggetto plurilingue. In sintesi, il concetto di competenza plurilingue e pluriculturale ha implicato importanti cambiamenti paradigmatici, alcuni dei quali ancora in atto, come ad esempio: - lo sviluppo di una visione globale e multipla (in luogo di una segmentata) delle competenze linguistiche e delle nozioni di lingua, identità e cultura; - la presa in carico del naturale disequilibrio delle abilità e competenze linguistico-comunicative in una L2/LS e, per converso, la valorizzazione delle competenze parziali; - la focalizzazione sui potenziali collegamenti tra le diverse componenti del repertorio linguistico dell’apprendente; - lo sviluppo di una visione dinamica di competenza, situata e mutevole nel tempo e nelle circostanze, fortemente individualizzata e dipendente dai percorsi di vita personali e, come tale, soggetta ad evoluzione e cambiamento;
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l’esistenza di relazioni, mediazioni e passaggi tra le lingue e tra le culture.
La portata innovatrice di questa dimensione più ‘orizzontale’ e concettuale del Quadro, in realtà, è stata considerata per anni poco operativa in ambito educativo in quanto più astratta e, comunque, meno spendibile rispetto alla sua dimensione ‘verticale’, per la quale esso è più spesso conosciuto: come noto, si deve infatti al Quadro l’introduzione di modelli e procedure trasparenti che consentono oggi una valutazione omogenea, a livello europeo e spesso oltre, delle competenze linguistico-comunicative per tutte le lingue europee attraverso scale e livelli organizzati secondo un ordine gerarchico di tipo implicazionale. Come sottolineano Catarci e Fiorucci (2015), la mancanza di descrittori chiari per la competenza plurilingue e pluriculturale − che saranno poi forniti solo nella versione aggiornata del 2018 (cfr. infra) − ha certamente reso ancora più complessa la sua decodifica da parte delle istituzioni scolastiche e del corpo docente, presso i quali perdura in larga misura un insegnamento linguistico di tipo ‘verticale’ che ha spesso trascurato anche altre importanti dimensioni già presenti nella prima versione del Quadro, come ad esempio l’abilità di mediazione orale e scritta. Solo recentemente la competenza plurilingue e pluriculturale ha trovato una descrizione dettagliata nel CEFR. Companion Volume with new descriptors (Consiglio d’Europa, 2018), nel quale compaiono 52 nuovi descrittori ad essa afferenti, che ribadiscono l’importanza di fare leva sulle conoscenze pregresse dell’apprendente nello sviluppare ulteriori competenze linguistico-comunicative. Con alcune eccezioni per i livelli più alti (C1-C2) e più bassi (Pre-A1), tali descrittori di competenza sono forniti per tutti i livelli linguistici ed organizzati in 3 sottocompetenze (fig. 2).
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Fig. 2 – La competenza plurilingue e pluriculturale nel Companion Volume (Consiglio d’Europa, 2018: 157)
Ne sintetizziamo qui i tratti principali, rimandando al documento per una trattazione più specifica35: a) la capacità di fare ricorso al proprio repertorio pluriculturale (building on pluricultural repertoire)36, in cui sono inclusi descrittori e nozioni afferenti alla competenza interculturale, come, ad esempio, la sensibilità verso le differenze, la tolleranza verso l’ambiguità, la disponibilità ad offrire e chiedere chiarimenti per evitare fraintendimenti. I concetti chiave resi operativi nella scala dei descrittori includono, tra altri, la capacità di saper riconoscere ed agire sulla base di convenzioni ed elementi culturali, sociopragmatici e sociolinguistici; la capacità di saper riconoscere ed interpretare somiglianze e differenze nelle diverse prospettive, pratiche ed eventi; il saper valutare in modo neutro e critico; b) la comprensione plurilingue (plurilingual comprehension), che fa riferimento alla capacità di usare le proprie conoscenze e competenze (anche parziali) in una o più lingue come risorse per la comprensione di testi in ulteriori lingue e raggiungere così i propri scopi comunicativi. Nella scala dei descrittori figurano concetti chiave come, ad esempio, l’apertura e la flessibilità nel lavorare con diversi elementi di lingue differenti; la capacità di saper cogliere e sfruttare ai fini della Cfr. Consiglio d’Europa (2018), in particolare pgg. 28-29, 157-162. In attesa di una traduzione ufficiale del Companion Volume in lingua italiana, si preferisce riportare una perifrasi delle denominazioni inglesi delle sottocompetenze qui trattate, utili a meglio comprendere la natura della competenza plurilingue e pluriculturale. 35
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comprensione gli indizi contestuali, le affinità linguistiche, riconoscendo i “falsi amici”; la capacità di saper sfruttare fonti parallele in diverse lingue e raccogliere informazioni da più risorse in diverse lingue, rimandando dunque ai meccanismi propri dell’intercomprensione (cfr. cap. 5) e, in modo più ampio, all’attivazione dell’expectancy grammar37 in un contesto plurilingue; c) la capacità di fare ricorso al proprio repertorio plurilingue (building on plurilingual repertoire), in cui sono inclusi aspetti che caratterizzano entrambe le sottocompetenze precedenti: nel costruire la propria competenza a partire dal repertorio pluriculturale, l’agente sociale ricorre anche a tutte le risorse linguistiche a sua disposizione al fine di comunicare efficacemente in un contesto multilingue e/o in una situazione di mediazione in cui gli interlocutori non condividono la medesima lingua. I descrittori di questa sottocompetenza contemplano, tra altri concetti chiave, la capacità di adattarsi alla situazione e di saper prevedere quando e in che misura l’uso di più lingue è utile ed appropriato; la capacità di saper adeguare la propria produzione linguistica in base alle competenze linguistiche degli interlocutori; l’uso mistilingue (code-mixing) o alternato (code-switching) di più codici linguistici ove necessario; il saper(si) spiegare e chiarire in diverse lingue. È evidente, dunque, come i descrittori invitino ad implicare, già ai primi livelli di competenza, tutte le lingue conosciute dall’apprendente come possibili risorse utili per l’apprendimento di un’ulteriore lingua. Dopo il primo tentativo del QCER, con il Companion Volume la prospettiva delle politiche linguistiche educative europee è ancora più netta: da una visione ‘verticale’ o monoglossica del bi/plurilinguismo, che dava esclusiva importanza all’apprendimento separato di più lingue e al raggiungimento di performance linguistiche sul modello del native speaker, si passa ad una visione più ‘orizzontale’ e democratica Con il termine expectancy grammar o “grammatica dell’anticipazione” Oller fa riferimento ad un meccanismo alla base dei processi di comprensione, che permette di fare previsioni su ciò che verrà detto o scritto in una determinata situazione comunicativa. Tale capacità si fonda su più elementi, quali la conoscenza del mondo o “enciclopedia”, i processi cognitivi logici ed analogici, il livello linguisticocomunicativo (cfr. Balboni, 2015: 160-162). 37
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o eteroglossica, in cui viene valorizzata anche la capacità di saper mettere in relazione le diverse lingue-culture note o le loro varietà ai fini di una comunicazione e di un apprendimento efficaci38. In tal senso, il Companion Volume si fa portavoce e sintesi degli esiti di vari progetti e ricerche riguardanti la comunicazione e la didattica plurilingue, tra cui i quadri di riferimento sulle competenze dell’apprendente noti come CARAP e REFIC (cfr. §2.4.3).
2.4 L’educazione plurilingue e interculturale nel contesto europeo: alcuni quadri di riferimento In seguito alla diffusione del QCER, numerosi sono i documenti e le azioni del Consiglio d’Europa nei quali si richiama la necessità di approcci e curricoli scolastici rinnovati in cui le dimensioni dell’educazione plurilingue e di quella interculturale si compenetrino e diventino sempre più obiettivo esplicito dell’insegnamento linguistico e non solo39. È soprattutto nel primo decennio del nuovo millennio che si delineano in modo netto i contorni della nozione di educazione plurilingue e interculturale (d’ora in poi EPI), diffusasi in Europa attraverso la pubblicazione di alcuni importanti documenti, tuttora punti di riferimento per chi si occupa di plurilinguismo in contesto educativo e che qui richiamiamo brevemente nei loro aspetti di maggiore interesse rispetto ai fini di questo lavoro. Sebbene obiettivo del QCER (2001) fosse proporre un apprendimento/insegnamento delle lingue nella prospettiva del parlante plurilingue, implicando quindi un intervento non limitato a diversificare l’offerta linguistica in ambito scolastico, la nozione di plurilinguismo che ne è emersa è essenzialmente riferita alle lingue straniere (cfr. Coste e Beacco, 2017). Nel Quadro non viene cioè esplicitato in modo sufficientemente chiaro il ruolo della lingua di scolarizzazione con cui è impartita l’educazione a partire dai primi anni scolastici, ma che può non coincidere con la lingua ‘materna’, ulteriore elemento con cui confrontarsi. Questo aspetto rimarrà purtroppo poco esplorato anche nei vari PEL che, con alterna fortuna, Per un approfondimento sull’opposizione tra visione monoglossica ed eteroglossica del bi/plurilinguismo si rimanda al capitolo 6 in questo lavoro e al volume di Firpo e Sanfelici (2016). 39 Per una sintesi si vedano Calò (2015) e Mariani (2016). 38
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hanno cercato di rendere operativa la nozione di competenza plurilingue e pluriculturale nei contesti educativo-formativi successivamente alla pubblicazione del QCER40. Con la Guida per l’elaborazione delle politiche linguistiche educative in Europa (Beacco e Byram, 2007) e, successivamente, con la Guida per lo sviluppo e l’attuazione di curricoli per una educazione plurilingue e interculturale (Beacco e Byram, 2016)41, il Consiglio d’Europa mirerà ad una rimodulazione dell’insegnamento linguistico nell’ambito di un progetto educativo più globale ed inclusivo in cui l’accento non sia solo sulle lingue straniere a fini comunicativi, ma anche e soprattutto sulle altre lingue facenti parte del repertorio linguistico dell’agente sociale, riposizionando quest’ultimo al centro dell’atto educativo. Questi ed altri lavori si inseriscono nel più ampio progetto del Consiglio d’Europa noto come “Lingue nell’educazione, Lingue per l’educazione” (Languages in Education, Languages for Education), che si propone di dare unitarietà alle politiche linguistiche educative europee e, parallelamente a livello locale, di integrare tutti gli insegnamenti linguistici nell’ottica di un’economia curricolare e cognitiva (cfr. §2.4.2). I contributi di questo ampio progetto della Divisione Politiche Linguistiche del Consiglio d’Europa sono raccolti sulla Piattaforma delle risorse e dei riferimenti per l’educazione plurilingue e interculturale42, una risorsa aperta e dinamica che fornisce definizioni, punti di riferimento, descrittori, studi ed esempi di buone pratiche correlati all’EPI. Come viene enunciato in uno dei primi documenti elaborati nell’ambito di questo progetto: L’educazione plurilingue si riferisce a tutte le attività, curriculari o extracurriculari di qualsiasi tipo, che cercano di promuovere e sviluppare la competenza linguistica e i repertori linguistici individuali dei parlanti, dai primi giorni di scuola e per tutta la vita. L’educazione al plurilinguismo si riferisce all’educazione plurilingue (per esempio, all’insegnamento delle lingue nazionali, straniere, regionali), il cui scopo è di sviluppare il plurilinguismo come competenza. Si noti che l’educazione plurilingue può essere realizzata anche attraverso attività progettate principalmente per aumentare la consapevolezza della diversità linguistica, ma che non si propongono di insegnare tali lingue, e che pertanto non costituiscono un
Per una prospettiva critica sulla ricezione dei PEL, con esempi tratti dai contesti svizzero, francese e italiano, si veda Anquetil et al. (2017). 41 Di seguito denominata Guida per i curricoli. 42 Cfr. https://www.coe.int/en/web/language-policy/platform (versione inglese). 40
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insegnamento linguistico in senso stretto (Beacco e Byram, 2007: 18 [trad. nostra]).
Come già accennato a proposito delle dimensioni del QCER (cfr. §2.3), nelle politiche linguistiche educative europee, al paradigma della valutazione e certificazione dei livelli linguistici si affianca così quello più trasversale della diversità linguistico-culturale. L’EPI si propone difatti un duplice obiettivo: da un lato lo sviluppo delle competenze linguistico-comunicative in più lingue, dall’altro la promozione della consapevolezza della diversità linguistica (e culturale), che sarà in particolare al centro dell’approccio plurale noto come éveil aux langues (cfr. cap. 3). Queste pubblicazioni, come pure il Documento Europeo di Riferimento per le Lingue dell’Educazione (Coste et al., 2007) − noto con l’acronimo DERLE − riportano inoltre al centro del dibattito le linee di orientamento già delineate nel capitolo 8 del QCER a riguardo della relazione tra competenza plurilingue e costruzione curricolare: rimettendo in questione la separatezza dei curricoli linguistici in contesto educativo, viene avanzata la proposta di un curricolo plurilingue in cui tutte le lingue dell’educazione possano trovare una propria collocazione (cfr. §2.4.2). In questa visione globale dell’educazione al plurilinguismo assumono particolare importanza le competenze e le “risorse” dell’apprendente, ovvero un complesso di saperi, saper fare ed atteggiamenti necessari ad affrontare efficacemente la complessità dei processi comunicativi e di apprendimento in contesto plurilingue. La nozione di “risorsa” è stata esplorata in modo dettagliato nel CARAP, Un Quadro di Riferimento per gli Approcci Plurali alle Lingue e alle Culture. Competenze e risorse (Candelier et al., 2012)43, elaborato dal gruppo di progetto ALC (À travers les Langues et les Cultures) presso il Centro Europeo delle Lingue Moderne (CELV/ECML44) di Graz. Si tratta di uno strumento che si è rivelato di CARAP è l’acronimo del titolo in francese dell’opera originale (Un Cadre de Référence des Approches Plurielles des Langues et des Cultures). Il referenziale è noto anche con la sigla FREPA, acronimo del titolo dell’opera in lingua inglese (The Framework of Reference for Pluralistic Approaches to Languages and Cultures). 44 CELV è l’acronimo francese di Centre Européen pour les Langues Vivantes, cui corrisponde in inglese l’acronimo ECML (European Centre for Modern Languages). Si tratta di un organo del Consiglio d’Europa il cui obiettivo è la promozione dell’eccellenza e dell’innovazione nel campo dell’apprendimento e dell’insegnamento delle lingue. Cfr. https://www.ecml.at/ 43
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fondamentale importanza ai fini dello sviluppo delle competenze dell’apprendente sollecitate da questa prospettiva linguisticoeducativa, nonché nella definizione e diffusione degli approcci plurali in ambito europeo (cfr. §2.4.3), affrontati in maggior dettaglio nella seconda parte di questo volume. 2.4.1 Le lingue dell’educazione La pubblicazione nota come DERLE (Coste et al., 2007) è un ricco documento nel quale si esplora, tra altre importanti nozioni, il concetto di “lingue dell’educazione”. Esso si fonda su una visione integrata degli apprendimenti/insegnamenti linguistici, in cui tutte le lingue in qualche maniera presenti nel contesto scolastico (lingue nazionali/ufficiali, straniere, regionali, minoritarie, ecc.) compartecipano allo sviluppo delle competenze plurilingui e interculturali funzionali all’esercizio della cittadinanza. Come sottolineano Calò e Ferreri nell’introduzione alla traduzione italiana del volume, “[l]a dizione lingue dell’educazione comprende senza costringere; è rispettosa dei luoghi e delle diversità, delle contingenze storico-sociali che vedono il convivere di forme idiomatiche diverse in una stessa persona e nelle comunità” (Coste et al., 2009: xii, trad. it.). È esattamente questo il senso del costrutto reticolare sottostante alla nozione di “lingue dell’educazione”, formalizzato in modo chiaro nel grafico in fig. 3 tratto dalla succitata Piattaforma.
Fig. 3 – Rappresentazione grafica delle lingue dell’educazione45
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Cfr. http//:www.coe.int/lang-platform
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Esso permette una riflessione sulla natura complessa dello spazio linguistico presente nelle odierne classi plurilingui, di cui l’apprendente è cardine al pari delle lingue presenti a scuola: se il senso comune vuole che le lingue in essa presenti siano solo la lingua di scolarizzazione (es. l’italiano nel sistema scolastico italiano) e quelle straniere o classiche, un approccio globale all’educazione linguistica e alla sua dimensione plurale fa invece emergere la compresenza di diverse altre lingue e varietà, spesso meno evidenti, che svolgono tuttavia importanti e specifiche funzioni in contesto educativo. Oltre a queste lingue formalmente ‘riconosciute’ ed ‘insegnate’, ne potranno entrare in gioco altre, spesso non riconosciute e quasi mai insegnate, come ad esempio le lingue della migrazione e i dialetti locali, parlate in casa e/o in contesto amicale, e dunque importante veicolo della socializzazione tra pari. Potranno inoltre essere presenti lingue riconosciute dalle istituzioni, come le lingue regionali o di minoranza, che solo in alcuni casi trovano posto sui banchi di scuola. Ci saranno invece necessariamente altre “lingue”, o meglio linguaggi, riferite alle discipline, formalmente non riconosciuti o esplicitati, ma comunque insegnati attraverso il veicolo di varie discipline scolastiche. Al centro di questa visione olistica dell’apprendimento linguistico si colloca dunque la lingua di scolarizzazione (language.s of schooling), in genere la lingua ufficiale o ‘nazionale’ di un determinato Paese, che può declinarsi al plurale nei contesti bilingui. Essa viene intesa al contempo come materia scolastica e disciplina d’insegnamento al pari di altre (“lingua come materia”) e come lingua veicolare degli apprendimenti disciplinari nelle altre materie (“lingua/e delle altre materie”) e, pertanto, trasversale al curricolo. Il DERLE accenna inoltre ad una terza dimensione della lingua di scolarizzazione, legata alla sua funzione di “mezzo linguistico di trasmissione formale o implicita dei valori e delle norme della società / comunità (nazionale, regionale, minoritaria) considerata”, cui è associato l’importante ruolo di lingua principale della socializzazione e dell’educazione in contesto scolastico (Coste et al., 2009: 30, trad. it.). Questa rifocalizzazione del ruolo centrale della lingua di scolarizzazione, già anticipata negli anni ’70 dalla nozione di “educazione linguistica” di matrice italiana (cfr. §2.5) e dalla proposta educativa di Roulet in contesto francofono (cfr. §4.1), è il cuore stesso dell’EPI. Essa è infatti il veicolo dell’educazione
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scolastica intesa come formazione (sviluppo della persona) e come istruzione (acquisizione di conoscenze), che mobilita e costruisce saperi, saper fare, atteggiamenti e disposizioni, mirando al contempo allo sviluppo di un saper apprendere. La lingua di scolarizzazione viene inoltre definita “lingua-fulcro sulla quale si fondano, e intorno alla quale si innestano e si collegano sia le attività sia le competenze nelle altre lingue” (Coste et al., 2009: 125, trad. it.), individuando negli approcci plurali una via maestra per l’attuazione di questa visione globale e strategica dell’apprendimento linguistico. Le lingue dell’educazione scolastica comprendono infatti anche le lingue straniere o altre lingue aventi un differente statuto che, come le lingue regionali o minoritarie, possono essere oggetto o mezzo di insegnamento di altre discipline all’interno delle istituzioni scolastiche, azione educativa promossa da tempo anche dalle istituzioni europee46. È in particolare attraverso le LS che l’apprendente, chiamato a decentrarsi dal proprio sistema linguisticoculturale di riferimento, ha la possibilità di comprendere il nesso tra lingua e cultura e di sviluppare un atteggiamento di apertura e disponibilità verso la diversità linguistico-culturale (saper essere). Le LS sono inoltre un importante ‘termine di paragone’ per stabilire confronti tra queste ed altre lingue note, lingua di scolarizzazione in primis, e potenziare così la consapevolezza metalinguistica e la capacità di apprendere ad apprendere (saper apprendere). In questa visione olistica dell’apprendimento linguistico, sono fondamentali le relazioni reciproche e le possibili convergenze che si stabiliscono tra le sue parti, in continuità con ciò che avviene nella mente dell’apprendente plurilingue (cfr. cap. 1). A tale riguardo, nel DERLE vengono promossi due importanti concetti che saranno poi ripresi e approfonditi nella Guida per i curricoli: quello di continuità/progressione verticale e di correlazione/trasversalità orizzontale e, con esse, la nozione di curricolo integrato delle lingue o “curricolo plurilingue” (cfr. §2.4.2).
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Si veda a riguardo la Carta Europea delle lingue regionali o minoritarie del 1992 (Serie dei Trattati Europei n. 148) che contempla misure specifiche a favore dell’uso di tali lingue nell’insegnamento, sia come lingue insegnate sia come lingue utilizzate per l’insegnamento di altre materie, dal ciclo pre-scolastico a quello superiore e professionale. Cfr. https://www.coe.int/it/web/conventions/full-list//conventions/rms/090000168007c095
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Grazie a queste basi poste dal DERLE e ad altre azioni correlate, i lavori successivi degli esperti del Consiglio d’Europa si concentreranno su due dimensioni principali: da un lato sul curricolo plurilingue, che verrà approfondito soprattutto grazie al contributo della Guida per i curricoli (cfr. §2.4.2), dall’altro sulla dimensione linguistica delle discipline non linguistiche, cui saranno dedicate diverse pubblicazioni (cfr., ad es. Beacco, et al., 2015; Vollmer, 2009; Thürmann, 2013).
2.4.2 Il curricolo plurilingue Il concetto di curricolo plurilingue, già introdotto in lavori precedenti del Consiglio d’Europa (Beacco e Byram, 2007; Coste et al., 2007), viene rielaborato e sistematizzato soprattutto nella Guida per i curricoli (Beacco e Byram, 2016). Obiettivo del documento “è facilitare una migliore implementazione dei valori e dei princìpi dell’educazione plurilingue e interculturale nell’ambito degli insegnamenti delle lingue, siano esse straniere, regionali o minoritarie, lingue classiche o lingua(e) di scolarizzazione” (Beacco et al., 2016: 9; trad. it.). La Guida per i curricoli indica così gli orientamenti e le azioni concrete da mettere in atto ai fini dell’implementazione dell’EPI nei curricoli scolastici, facendosi sintesi, nella sua versione aggiornata del 2016, degli orientamenti metodologici e degli approcci utili diffusi, anche grazie ad altri documenti ed azioni europei, negli anni precedenti47. Nel rivolgersi alle istituzioni formative e ai loro docenti, essa si propone di dare coerenza all’insieme degli insegnamenti delle e nelle lingue, ponendo in particolare l’accento sulla dimensione linguistica delle discipline scolastiche insegnate attraverso la lingua di scolarizzazione. Per raggiungere tale obiettivo, la Guida per i curricoli propone due prospettive o possibilità di integrazione e, per ciascuna di esse, due ambiti di attuazione che facilitino la convergenza tra lingue: 1. l’evoluzione del curricolo verso una migliore sinergia degli apprendimenti, che presuppone a sua volta:
Si rimanda in particolare all’Allegato 5 della Guida in cui è disponibile un elenco sintetico dei principali metodi, approcci ed attività di apprendimento utili all’implementazione dell’EPI. 47
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un migliore coordinamento tra insegnamenti delle LS e classiche; - la ricerca sistematica di coerenza e di economia tra i diversi insegnamenti; 2. l’EPI come finalità esplicita del curricolo: - per le lingue straniere e classiche; - per la lingua di scolarizzazione, base stessa dell’EPI. -
La proposta curricolare della Guida per i curricoli si articola intorno a due dimensioni tra loro interrelate, caratterizzate dalla ricerca di coerenza o continuità48 nei curricoli di ogni ordine e grado scolastico: - una dimensione orizzontale, intesa come coerenza sincronica, per livello e per anno, ovvero come ricerca di trasversalità tra le lingue e le altre discipline in termini di obiettivi, contenuti, metodi, materiali e modalità di valutazione; - una dimensione verticale, intesa come continuità a livello diacronico e, quindi, come progressione nello sviluppo di competenze lungo il percorso scolastico ed oltre (lifelong learning). Ci soffermeremo in particolare sulla prima in quanto più vicina agli obiettivi di questo volume, rimandando a Calò (2015) per una discussione della dimensione verticale, anche in riferimento al contesto scolastico italiano. Premessa importante alla coerenza o trasversalità orizzontale, è la nozione di «economia curricolare» enunciata nel DERLE e ripresa nella Guida per i curricoli. Intesa come “l’organizzazione coerente delle parti che costituiscono l’intero curricolo relativo alle lingue” (Beacco et al., 2016: 34, trad. it.), tale nozione si rivela utile per realizzare una razionalizzazione complessiva delle varie lingue coinvolte nel curricolo scolastico: tra le lingue come discipline linguistiche (DL), tra le discipline cosiddette “non linguistiche” (DNL) ed infine tra queste due (DL e DNL). Nell’intento di sfruttare le diverse trasversalità e di stimolare il transfer di
I due termini di continuità e coerenza sono usati a volte in modo intercambiabile nella Guida per i curricoli in riferimento alle due dimensioni orizzontale e verticale del curricolo, sebbene si privilegi la nozione di coerenza per il livello sincronico e quella di continuità per il livello diacronico (cfr. Beacco et al., 2016: 15, 118, 131, trad. it.). Sull’argomento si veda anche Calò (2015: 72-79). 48
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competenze e conoscenze, si individuano nel DERLE 3 aree di razionalizzazione (cfr. fig. 4):
Fig. 4 – Aree di razionalizzazione nel curricolo linguistico (Coste et al., 2009: 109, trad. it.).
Questa visione strategica degli apprendimenti linguistici, su cui si fonda in larga parte l’impianto metodologico della didattica integrata delle lingue (cfr. cap. 4), comporta: - nell’area 1 (DL), l’elaborazione di un curricolo integrato, pensato come un unico coeso e coerente, al di là delle specificità disciplinari; - nell’area 2 (DNL), l’adozione di una prospettiva inter/transdisciplinare attraverso cui far emergere tutti gli ‘appoggi’ o ‘passerelle’ possibili tra le discipline affini49; - nell’area 3 (DL e DNL), l’assunzione della dimensione linguistico-cognitiva come dimensione trasversale alle due aree precedenti, ad esempio attraverso l’esplicitazione e la comparazione dei meccanismi che, in entrambe, consentono ad esempio di comprendere e riassumere un testo, prendere appunti, costruire un’argomentazione, ecc. La ricerca di questa trasversalità permette di creare coerenza tra gli apprendimenti e, al contempo, di facilitare il transfer di conoscenze e Si rimanda a Calò (2105: 49-52) per un approfondimento delle relazioni tra lingue relative alle aree di razionalizzazione 1 e 2, in riferimento al contesto italiano. 49
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di saper fare da una lingua all’altra e tra le lingue e le discipline. Come sottolinea Calò, tuttavia, [s]i tratta di forme di economia curricolare che si producono non spontaneamente, ma attraverso un’attenta pianificazione da parte degli insegnanti, che riflettono e fanno riflettere gli alunni sulle relazioni tra le lingue e tra i processi di apprendimento (Calò, 2105: 74).
Dare rilievo alla trasversalità disciplinare non significa snaturare la specificità delle discipline scolastiche, ma piuttosto proporre in un insieme coerente ed organizzato di attività, con la possibilità di introdurre, come si propone nella Guida, nuove materie e spazi curricolari dedicati, com’è il caso, ad esempio, dell’éveil aux langues nella scuola dell’infanzia e primaria di diverse realtà francofone (cfr. cap. 3). Si tratta dunque di ripensare i curricoli scolastici intorno a nuove progettualità ed attività plurilingui che promuovano gli scambi tra insegnanti e tra studenti, e che incoraggino questi ultimi alla familiarizzazione anche con altre lingue oltre a quelle generalmente insegnate a scuola, come nel caso del curricolo minimo50. Ciò premesso, è importante sottolineare che l’EPI va vista, non come una rivoluzione, ma piuttosto come un’evoluzione delle politiche linguistiche europee che, a loro volta, hanno nel tempo preso atto delle trasformazioni delle odierne società, sempre più multilingui e multiculturali. Nella stessa prospettiva ‘evolutiva’ vanno lette anche le proposte dei documenti qui esaminati e, in particolare, quelle della Guida per i curricoli: come suggerisce Cavalli (2012), esse non devono essere pensate in un’ottica di “tutto o niente”, ma piuttosto in una logica di “piccoli passi” che tenga conto delle specificità di ogni singolo contesto, dei suoi bisogni, vincoli ed opportunità.
Con curricolo minimo si fa riferimento ad una proposta formativa della durata di una settimana, riguardante una lingua ed una cultura non insegnate in contesto scolastico. Lo scopo di questi moduli brevi, generalmente incentrati su lingue meno insegnate (ma non necessariamente meno diffuse), è quello di permettere un primo contatto con una lingua-cultura, facendo leva sulle conoscenze pregresse degli apprendenti e in modo da sviluppare una competenza minima di comunicazione (Beacco et al., 2016: 230, trad. it.). 50
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2.4.3 Competenze e risorse dell’apprendente Nell’esigenza di dare concretezza progettuale ed operativa alle nozioni di competenza plurilingue e di EPI, il CARAP (Candelier et al., 2012) definisce una serie di competenze e di risorse interne all’apprendente utili alla progettazione e all’implementazione di percorsi didattici mirati alla consapevolezza della diversità linguistica e culturale. Nell’intenzione degli autori, il referenziale si propone come uno strumento flessibile, riferito a più situazioni inerenti alla pluralità linguistica e culturale, in cui competenze e risorse formano difatti un continuum che va dalle capacità più elementari a delle competenze più generali o globali. Le competenze globali individuate dal CARAP, riportate in dettaglio nel riquadro sottostante, si articolano al loro interno in diverse sottocompetenze, il cui sviluppo può essere particolarmente favorito dall’implementazione degli approcci plurali. Si tratta nello specifico dell’approccio interculturale, dell’éveil aux langues, della didattica integrata delle lingue e dell’intercomprensione tra lingue affini, che saranno approfonditi nella seconda parte di questo volume. Riquadro n. 1: Le competenze globali dell’apprendente nel CARAP Nella concezione del CARAP, le competenze globali dell’apprendente sono valide per ogni lingua e cultura e riguardano le relazioni tra lingua e cultura. Queste competenze più generali mobilitano diverse forme di sapere, saper fare, saper essere o “risorse interne” dell’apprendente, nella riflessione come nell’azione. Tali competenze sono organizzate intorno a sette “zone” principali, di cui si riporta un elenco sintetico, rimandando al documento per un ulteriore approfondimento (cfr. Candelier, 2012: 22-26, trad. it.). C1. Competenza nel gestire la comunicazione linguistica e culturale in un contesto di alterità - C1.1. Competenza di risoluzione dei conflitti/ostacoli/malintesi - C1.2. Competenza di negoziazione - C1.3. Competenza di mediazione - C1.4. Competenza di adattamento C2. Competenza di costruzione e di ampliamento di un repertorio linguistico e culturale plurale - C2.1. Competenza nel trarre profitto dalle proprie esperienze interculturali/interlinguistiche
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- C2.2. Competenza nell’attivare, in contesti di alterità, procedure di apprendimento più sistematiche, più controllate C3. Competenza di decentramento C4. Competenza nell’attribuire senso a elementi linguistici e/o culturali non familiari C5. Competenza di distanziamento C6. Competenza nell’analizzare in maniera critica la situazione e le attività (comunicative e/o di apprendimento) nelle quali si è impegnati. C7. Competenza nel riconoscimento dell’Altro, dell’alterità.
Nella prospettiva del CARAP, congiuntamente alle succitate competenze globali, per saper apprendere51 le lingue l’apprendente deve poter sviluppare tre livelli di “risorse interne”, ovvero: - knowledge [K]: conoscenze dichiarative (sapere) - attitudes [A]: atteggiamenti (saper essere) - skills [S]: abilità procedurali (saper fare) In questa struttura reticolare indipendente dai livelli linguistici, le risorse interne sono organizzate sotto forma di una lista strutturata e parzialmente gerarchizzata di descrittori per ciascuno dei tre domini suddetti, facilmente trasformabili in obiettivi didattici. In particolare, la lista dei saperi si compone di due sottogruppi tematici (Lingua e Cultura) che prevede a sua volta categorie quali Lingua come sistema semiologico; Lingua e società; Comunicazione verbale e non verbale; Evoluzione delle lingue; Pluralità, diversità, multilinguismo e plurilinguismo, Diversità culturale e diversità sociale; Relazioni interculturali; ecc. Come nell’esempio riportato in figura 5, riferito allo sviluppo del sapere “avere conoscenze sulla diversità delle lingue / sul multilinguismo / sul plurilinguismo” [K5], ogni descrittore viene accompagnato dal simbolo di una chiave, diversamente colorata a seconda della misura in cui l’apporto degli approcci plurali sia fondamentale alla mobilizzazione della risorsa considerata52.
Nel CARAP i descrittori relativi al “saper apprendere” si distribuiscono nelle tre categorie sopra indicate. Cfr. Sezione V, pp. 72-73. 52 Gli approcci plurali vengono segnalati come “necessari”, “importanti” e “utili” rispettivamente attraverso una chiave colorata per intero, una chiave colorata solo in parte e una chiave bianca. 51
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Fig. 5 – Esempio di descrittori delle risorse interne dell’apprendente (Candelier et al., 2012: 32, trad. it.)
Come si spiega nel documento (Candelier et al., 2012: 16, trad. it.), la lista dei “saper essere” prende in considerazione i fattori personali così come riportati nel QCER (2002: 130-131, trad. it.), riguardanti dimensioni quali gli atteggiamenti, le motivazioni, i valori e l’identità. In questo dominio, le espressioni utilizzate nei descrittori fanno infatti riferimento ad atteggiamenti e modi di essere del soggetto che si rivelano importanti in un contesto di pluralità linguistica e culturale, come ad esempio l’attenzione, la sensibilità, l’interesse, la disponibilità, la motivazione, sia in riferimento al mondo esterno (es. “curiosità per...”), sia a volte verso se stessi (es. “fiducia in...”). Le abilità procedurali o saper fare [S] corrispondono invece ad azioni come “sapere osservare/analizzare”, “saper identificare/situare”, “saper confrontare”, “saper parlare a proposito delle lingue e delle culture”, ecc. Si nota inoltre come l’elenco dei descrittori segua una progressione dal semplice al complesso, presentando inizialmente categorie legate alla capacità di osservazione e alla riflessione metalinguistica per terminare con categorie inerenti all’azione in specifiche situazioni comunicative (saper interagire). Grazie a questo ricco ed articolato complesso di descrittori, densi di utili spunti teorici e di ricadute didattiche, il CARAP ha permesso di dare forma concreta e declinare in modo coerente e dettagliato i
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principi dell’EPI in contesto scolastico, seppure l’uso che se ne fa in contesto italiano è ancora limitato. Successivamente alla diffusione del referenziale, sono stati numerosi i progetti e le attività del CELV per la formazione dei docenti per la sperimentazione del CARAP, azioni che sono state accompagnate dalla creazione di una ricca banca-dati di attività plurilingui realizzate da docenti di varie lingue in diverse parti d’Europa53. L’organizzazione generale del referenziale e i suoi descrittori hanno inoltre avuto largo impatto nella ricerca sull’educazione plurilingue e nelle politiche linguistiche europee ai fini della definizione delle competenze dell’apprendente, cui si sono in parte ispirati anche gli estensori di altri quadri di riferimento sulla competenza plurilingue. Tra questi, citiamo ad esempio il REFIC (Référentiel de compétences de communication plurilingue en intercompréhension)54, concepito nell’ambito del progetto europeo Miriadi (cfr. §5.4) ed utile ad una migliore comprensione delle competenze di comunicazione in un contesto di apprendimento/insegnamento attraverso l’intercomprensione55. Il quadro si propone di offrire una guida per la programmazione di percorsi formativi e una base per la valutazione delle competenze acquisite attraverso l’intercomprensione. Esso è accompagnato da un ulteriore referenziale, il REFDIC (Référentiel de compétences en didactique de l’intercompréhension)56 che, a sua volta, descrive le competenze didattiche del docente che intenda proporre un percorso formativo di questo tipo nelle proprie classi. Entrambi i quadri si rivolgono dunque agli insegnanti e ai loro formatori, seppure con diverse finalità: mentre il REFIC riguarda i saperi, i saper fare, gli atteggiamenti e le strategie più efficaci che un insegnante o un formatore di insegnanti può mettere in atto in classe e che deve egli stesso poter sviluppare, il REFDIC si focalizza sui saperi, i saper fare, gli atteggiamenti e le strategie necessarie CARAP/FREPA: database di attività plurilingui https://carap.ecml.at/Database/tabid/2313/language/en-GB/Default.aspx 54 La prima versione del REFIC del 2015 è stata rivista ed aggiornata e recentemente pubblicata in un numero monografico della rivista EL.LE (De Carlo e Anquetil, 2019). 55 Si tratta di un approccio didattico che mira a favorire e potenziare le capacità ricettive dell’apprendente al fine di comprendere ed interagire in una situazione in cui ciascun interlocutore parla o scrive nella propria lingua. Si rimanda al capitolo 5 per una trattazione articolata delle sue principali caratteristiche ed applicazioni. 56 Cfr. Andrade et al. (2019). 53
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all’insegnante/formatore per inserire la didattica dell’intercomprensione nella propria pratica professionale. Il REFIC in particolare, mantenendo la suddivisione concettuale in competenze e risorse interne dell’apprendente del CARAP, declina i descrittori in cinque dimensioni, di cui le prime due sono di tipo procedurale e metalinguistico e le altre tre di natura comunicativa: 1. il soggetto e l’apprendimento plurilingue; 2. le lingue e le culture; 3. la comprensione della lettura; 4. la comprensione orale; 5. l’interazione plurilingue. Diversamente dal CARAP, i descrittori di competenza sono organizzati su tre livelli di progressione che qui descriviamo brevemente, rimandando al documento per un approfondimento (De Carlo e Anquetil, 2019): 1. Sensibilizzazione; 2. Pratica; 3. Perfezionamento. Obiettivo principale del primo livello, è sensibilizzare gli studenti circa il proprio repertorio linguistico e culturale, o far loro scoprire attraverso casi pratici il potenziale offerto dalla prossimità linguistica per la comprensione di testi in lingue affini a quelle note, ma mai studiate prima. Mentre gli obiettivi specifici di questo primo livello possono essere proposti e raggiunti in una giornata di iniziazione all’intercomprensione, i livelli successivi richiedono più tempo e la messa in atto di pratiche didattiche più ampie e strutturate, secondo una progressione flessibile che permette, nello stadio più elevato, di ottenere un livello nell’abilità di ricezione corrispondente al B2 del QCER. Il REFIC si propone dunque, a fianco del CARAP, come utile strumento di riferimento per la progettazione e la messa in opera di percorsi di apprendimento/insegnamento attraverso l’intercomprensione, ma è adatto anche per la valutazione formativa e l’autovalutazione della competenza plurilingue in intercomprensione da parte degli stessi apprendenti57.
In riferimento alla valutazione delle competenze in intercomprensione si segnala inoltre il recente quadro di riferimento elaborato nell’ambito del progetto EVAL-IC (Évaluation des Compétences en Intercompréhension). Nel triennio 2016-2019 l’équipe del progetto, cui si è preso parte in qualità di membro dell’unità di ricerca locale dell’Università di Macerata, ha definito e descritto 6 livelli di competenza in intercomprensione, progettato un protocollo ed alcuni strumenti di valutazione che hanno come referente principale lo studente universitario. Tali strumenti sono stati elaborati nell’ottica di una possibile certificazione interuniversitaria sulle abilità di comunicazione plurilingue in intercomprensione. Cfr. http://evalic.eu/ 57
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2.5 Educazione linguistica e plurilinguismo: la prospettiva italiana Il ricco contesto sociolinguistico italiano è piuttosto diversificato essendo storicamente caratterizzato dalla coabitazione di varietà standard e neo-standard dell’italiano, varietà regionali e popolari, dialetti italo-romanzi e lingue minoritarie storiche (ad es., albanese, greco, croato, sloveno, ladino, francese…). A questa coesistenza, concettualizzata da De Mauro (1980) nel modello multidimensionale di spazio linguistico italiano, si è aggiunta progressivamente un’ampia varietà di lingue, frutto delle diverse ondate migratorie esterne che si sono stabilite nella penisola italiana soprattutto dalla metà degli anni Novanta. Rispetto ad altri contesti europei, l’immigrazione in Italia è infatti caratterizzata da una forte diversificazione dei Paesi di origine dei migranti: nonostante la concentrazione di alcune nazionalità dominanti (ad es., romena, albanese, marocchina), gli immigrati rappresentano oltre 195 diverse cittadinanze che portano con sé una grande varietà di lingue ufficiali e non ufficiali, presenti nei ricchi repertori plurilingui dei “nuovi” italiani (cfr. Vedovelli, 2017). Una distinzione importante, a tale riguardo, è quella operata da Vedovelli (2014) che, rifacendosi alla nozione di “spazio linguistico italiano” di Tullio De Mauro (1980), distingue il plurilinguismo come tratto endogeno italiano dal neoplurilingualismo, o plurilinguismo esogeno in quanto indotto dalle lingue immigrate che si sono progressivamente aggiunte al già ricco paesaggio multilingue della penisola. Questa distinzione non solo ci ricorda che il plurilinguismo fa parte della storia linguistica del nostro Paese ma, come si vedrà, risulta una categoria utile nell’interpretazione delle attuali politiche linguistiche educative italiane (cfr. §2.5.2) e nell’elaborazione di percorsi educativi volti alla valorizzazione dei repertori linguistici degli apprendenti. Alla luce di tali premesse, la prospettiva dell’EPI è tutt’altro che nuova rispetto alla storia stessa dell’educazione linguistica nel nostro Paese. In particolare, le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, elaborate dal gruppo GISCEL negli anni Settanta, hanno precorso in larga parte le vigenti politiche linguistiche educative del Consiglio d’Europa e risultano ancora di grande attualità (cfr. §2.5.1). Gli stessi documenti europei sopra descritti si sono ispirati a questa prospettiva di avanguardia, di cui alcune proposte appaiono ancora oggi
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innovative, seppure meriterebbero maggiore visibilità sul piano internazionale (per un approfondimento sul tema si vedano Cognigni e De Carlo, 2015; Costanzo, 2003; Lévy e David, 2014). Senza voler entrare nello specifico di un tema largamente trattato58, si ripercorreranno qui i principali momenti di sviluppo e le caratteristiche essenziali della nozione italiana di educazione linguistica alla luce dell’intreccio tra le attuali politiche linguistiche educative europee e quelle nazionali, per poi soffermarsi sul ruolo che l’EPI e la valorizzazione della diversità linguistica svolgono oggi nei documenti ministeriali della scuola italiana (cfr. §2.5.2)
2.5.1 L’educazione linguistica in Italia: un concetto precursore Le origini della storia dell’educazione linguistica nel nostro Paese si possono ricondurre alla seconda metà dell’Ottocento, quando il filologo D’Ovidio utilizza questa espressione nell’ambito dei dibattiti linguistici e pedagogici emersi in seguito alle mutate condizioni sociali, culturali e scolastiche dell’Italia unificata. Esso figura successivamente negli studi e nelle proposte di Lombardo Radice dei primi del Novecento, che anticipa molte delle ipotesi e dei concetti che verranno elaborati nel corso del Novecento, tra cui la valorizzazione del repertorio linguistico dell’apprendente (ivi compresi i dialetti), la concezione di errore come esito di una competenza in costruzione, la variabilità degli usi nella lingua scritta orale e, soprattutto, la necessità di prendersi cura degli svantaggiati (cfr. Gallina, 2019). In linea con queste proposte, tra gli anni Sessanta e Settanta, nel contesto pedagogico italiano si assiste ad una vera e propria “rivoluzione copernicana”, sia teorica sia operativa (Balboni, 2009a: 79). Essa culminerà nel 1979 con i nuovi programmi della scuola media unica, dove il concetto trova la sua prima menzione ufficiale ed applicazione (cfr. infra). Il termine assume così un significato specifico e definisce un preciso ambito di studi. Inizialmente l’espressione veniva utilizzata con due accezioni diverse, che rinviano ai due principali gruppi di studiosi che se ne sono occupati: da un lato l’educazione linguistica è concepita come insegnamento dell’italiano nella sua dimensione
Per una prospettiva storica approfondita sull’educazione linguistica in Italia si rimanda in particolare a Balboni (2009a), Coppola (2019, a cura di), Lo Duca (2003). 58
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scolastica e sociale e riconducibile all’impostazione di De Mauro e del gruppo GISCEL, dall’altro si riferisce alla proposta di Titone (1961) di “educazione linguistica integrata” che include l’apprendimentoinsegnamento delle lingue (materna, nazionale, seconde, straniere, classiche) e dei linguaggi non verbali, di cui sono esponenti gli studiosi di didattica delle lingue straniere (Balboni, 2009a). Se si considera che lo stesso De Mauro concepiva l’educazione linguistica come ‘plurilinguistica’ e ‘plurisemiotica’, le due posizioni non sono in realtà così distanti: con plurilinguismo intendiamo qui anzitutto la compresenza sia di tipi diversi di semiòsi, sia di idiomi diversi, sia di diverse realizzazioni d’un medesimo idioma. Essa pare una condizione permanente della specie umana e, quindi, di ogni società umana (De Mauro, 1977).
Ebbero luogo numerose iniziative, scatenate dalla incombente necessità di progredire in ambito pedagogico e di rifondare, in particolare, l’insegnamento linguistico. Tra le più importanti, citiamo la pubblicazione della nota Lettera a una professoressa nel 1967, opera collettiva della scuola di Barbiana animata da don Lorenzo Milani, un atto di accusa contro una scuola iperselettiva che respinge i più poveri ed è incapace di comprenderne le potenzialità (Bonaccorsi, 2019). È in questo contesto di rinnovamento che il Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica (GISCEL), fondato in seno alla Società di Linguistica Italiana, elabora le Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica (GISCEL, 1975). Le Dieci Tesi si propongono come manifesto fondativo di una nuova proposta educativa in contrapposizione con una “pedagogia linguistica tradizionale” prescrittiva ed esclusiva, basata su una visione monolitica e parziale della lingua e, pertanto, ritenuta causa di un insegnamento inefficace. Le prime 4 tesi auspicano la fondazione di un nuovo progetto di educazione linguistica efficace, che si fondi sulla centralità del linguaggio verbale e ponga al centro l’apprendente. Nelle tesi V-VII il documento si sofferma poi sui limiti della didattica linguistica tradizionale considerata oscura, anacronistica e poco efficace. A questa pars destruens del documento segue una pars costruens, più propositiva, in cui si individuano i principi dell’EL democratica (Tesi
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VIII), per porre poi l’attenzione sulla formazione dei docenti (Tesi IX) e sul necessario rinnovamento della scuola (Tesi X). Con quasi trent’anni di anticipo rispetto alle proposte europee, le Dieci Tesi richiamano l’attenzione sulla dimensione trasversale del linguaggio nel curricolo scolastico, sottolineando “la necessità di coinvolgere nei fini dello sviluppo delle capacità linguistiche non una, ma tutte le materie, non uno, ma tutti gli insegnanti” (GISCEL, 1975: Tesi VII). Per prime esse sottolineano inoltre il bisogno di dare visibilità e tenere conto delle “lingue” di tutti gli alunni, in quanto la scuola deve poter assumere “come traguardo il rispetto e la tutela di tutte le varietà linguistiche (siano esse idiomi diversi o usi diversi dello stesso idioma)” (GISCEL, 1975: Tesi IV). La tesi VIII, in particolare, è il cuore stesso della proposta per un’educazione linguistica effettivamente ‘democratica’, i cui principi fondamentali sono elencati in dieci punti. Tra altri importanti aspetti, vi si sottolinea (GISCEL, 1975: Tesi VIII): - la necessità di riconoscere i retroterra linguistico-culturali degli allievi, facendone un punto di partenza di ogni successiva azione didattica, in modo da “arricchire il patrimonio linguistico dell’allievo attraverso aggiunte e ampliamenti che, per essere efficaci, devono essere studiatamente graduali”; - l’opportunità di sviluppare le capacità linguistiche produttive e ricettive nelle loro dimensioni sia scritta sia orale, “creando situazioni in cui serva passare da formulazioni orali a formulazioni scritte di uno stesso argomento per uno stesso pubblico e viceversa”; - l’importanza di stimolare “la capacità di passaggio dalle formulazioni più accentuatamente locali, colloquiali, immediate, informali, a quelle più generalmente usate, più meditate, riflesse e formali”; - l’opportunità di praticare tutte le varietà linguistiche, addestrando alla “conoscenza e all’uso di modi istituzionalizzati d’uso della lingua comune (linguaggio giuridico, linguaggi letterari e poetici ecc.)” ma avviando anche, nei livelli postelementari, allo “studio della realtà linguistica circostante, dei meccanismi della lingua e dei dialetti, del funzionamento del linguaggio verbale, del divenire storico delle lingue, sempre con particolare riferimento agli idiomi più largamente noti in Italia e insegnati nella scuola italiana”.
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Si propone in sostanza un modello plurale di educazione linguistica o, come propone Bosisio (2005), di “educazione plurilinguistica”, non più centrata sulla grammatica, ma la cui “bussola è la funzionalità comunicativa di un testo parlato o scritto e delle sue parti a seconda degli interlocutori reali” (GISCEL, 1975: VIII). La ricchezza di questa proposta, che richiama i concetti di EPI e di molti principi alla base delle attuali politiche linguistiche educative europee, si ritroverà in parte nei nuovi programmi per la scuola media unica del 1979. Grazie anche al ruolo attivo di Tullio De Mauro nell’elaborazione e stesura del testo, in questi programmi si accolgono diverse sollecitazioni proposte dalle Dieci Tesi. I tratti di modernità e di innovazione proposti dal GISCEL nelle Dieci Tesi saranno poi ripresi anche per la lingua straniera (Costanzo, 2003), inducendo ad una sintesi delle due accezioni di educazione linguistica summenzionate, le quali si fonderanno nel più ampio concetto di “educazione linguistica integrata”. Come è evidente da quanto finora illustrato, le Dieci Tesi hanno molto in comune con le istanze educative promosse dal Consiglio d’Europa, dal riferimento al plurilinguismo come finalità educativa generale alla centralità della lingua come strumento di promozione sociale, passando per la trasversalità dell’educazione linguistica in quanto asse educativo di tutte le discipline. Non a caso, il DERLE dedica un intero paragrafo al modello italiano di educazione linguistica, del quale si sintetizzano alcuni importanti aspetti fatti propri anche dalla prospettiva del Consiglio d’Europa (Coste et al., 2009: 113-117)59; tratti caratterizzanti di un’educazione ‘democratica’, oltre che ‘plurilingue’, che si ritroveranno nei programmi educativi di diversi Paesi dell’Unione attraverso l’introduzione degli approcci plurali.
Tra questi, ad esempio, si citano la centralità del linguaggio verbale nello sviluppo dell’apprendente; il concetto di trasversalità della lingua nel curricolo; la presa in carico del repertorio linguistico dell’apprendente, come oggetto di riflessione e punto di partenza per la costruzione e l’evoluzione costante di competenze nella lingua di scolarizzazione; l’importanza di sensibilizzare gli apprendenti alla variabilità linguistica nelle sue diverse forme; l’importanza della riflessione (meta)linguistica come occasione di sviluppo cognitivo per l’apprendente, ecc. 59
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2.5.2 L’educazione plurilingue nelle politiche educative italiane Ricercando nei documenti ministeriali il segno di possibili ‘svolte’ appare obbligato riferirsi anzitutto a La via Italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri (MPI, 2007), un documento redatto dall’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura60, che segnò in quel momento un importante avanzamento concettuale e operativo nell’approccio alla diversità linguistico-culturale e al plurilinguismo nella scuola italiana. Volto a proporre un modello nazionale di integrazione degli alunni stranieri che facesse leva sulle specificità del Paese, il documento individuava i punti di forza da mettere a sistema, focalizzando le criticità e gli aspetti da migliorare attraverso l’uso di nuove pratiche e risorse. Oltre a sottolineare l’opportunità di percorsi di insegnamento per l’italiano L2 orientati agli specifici bisogni dell’alunno alloglotta61, il documento pone l’accento sulla necessità di valorizzare il plurilinguismo sia come tratto comune della scuola (plurilinguismo di sistema), sia come ricchezza della persona (plurilinguismo individuale), in modo che esso possa rappresentare un’opportunità per tutti gli alunni e non solo per quelli stranieri. Rispetto al primo aspetto si invita a non limitare l’offerta formativa della scuola alle consuete LS, ma ad implicare anche altre lingue (immigrate) parlate dalle collettività locali, prevedendo le opportune abilitazioni per il loro insegnamento. Si fa inoltre espresso riferimento alla possibilità per i docenti di “valorizzare il plurilinguismo dando visibilità alle altre lingue e ai vari alfabeti, scoprendo i ‘prestiti linguistici’ tra le lingue, ecc.” (MPI, 2007: 13), accogliendo così le istanze dell’EPI al momento ai suoi albori (cfr. §2.4). Riguardo al plurilinguismo individuale si sottolinea inoltre l’importanza del mantenimento delle LO, in quanto diritto della persona e risorsa cognitiva a vantaggio L’Osservatorio Nazionale per l’Integrazione degli alunni Stranieri e per l’Educazione Interculturale è un organo del MIUR costituito nel 2006 con decreto ministeriale del 6 dicembre 2006, “al fine di individuare soluzioni operative e organizzative per un effettivo adeguamento delle politiche di integrazione alle reali esigenze della scuola multiculturale e in continua trasformazione”. 61 In proposito, Firpo e Sanfelici (2016) fanno notare che in questo documento compare ufficialmente per la prima volta la distinzione tra l’italiano della comunicazione (Italbase) e l’italiano per lo studio (Italstudio), fondata sulla nota distinzione di Cummins tra tra BICS (Basic Interpersonal Communication Skills) e CALP (Cognitive Academic Language Proficiency) e diffusa negli studi di glottodidattica riguardanti l’italiano L2. 60
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dell’apprendimento dell’italiano L2 e delle LS. Si auspica quindi che la scuola possa occuparsi dell’insegnamento delle varietà standard delle LO in sinergia con gruppi e associazioni italiani o stranieri, come pure con le famiglie e le collettività locali che esporranno i figli alle varietà non-standard delle LO. In sintesi, si promuove un plurilinguismo ‘a tutto tond0’ fondato sulla valorizzazione della competenza plurilingue dell’apprendente e delle sue LO, ma soprattutto su un’apertura dell’educazione plurilingue verso le lingue minoritarie presenti nei contesti scolastici italiani. La via italiana presenta molti aspetti di interesse ancora di grande attualità: al suo approccio ampio e consapevole alla pluralità linguistica e culturale si ispireranno infatti molte pratiche didattiche e gran parte delle successive linee guida o circolari ministeriali relative all’integrazione degli alunni alloglotti. Tra i diversi provvedimenti ministeriali successivi, le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (MIUR, 2012a) costituiscono il documento in cui è possibile rintracciare i maggiori elementi di innovazione e di adeguamento alle politiche linguistiche raccomandate dal Consiglio d’Europa nei termini qui descritti. Sebbene ne sia stata diffusa successivamente una nuova versione (MIUR, 2018), le Indicazioni del 2012 restano a nostro avviso il riferimento più completo e chiaro circa il senso dell’EPI nel contesto educativo italiano. Nelle Indicazioni nazionali e nuovi scenari del 2018, che rivisitano ed aggiornano alcune delle istanze già presenti nella precedente versione, si invita alla realizzazione di una scuola al passo con la complessità delle società odierne, chiamata a formare un cittadino globale oltre che europeo. In entrambe le versioni sono ravvisabili diversi concetti chiave dell’EPI e dell’educazione linguistica democratica già delineati, come ad esempio: - la trasversalità della dimensione linguistica nel curricolo e la conseguente necessità che tutti i docenti siano insegnanti della lingua italiana in quanto lingua di scolarizzazione, acquisendo anche le competenze metodologiche per insegnarla come L2; - la necessità di dare priorità all’apprendimento della lingua di scolarizzazione in quanto strumento di comunicazione e di accesso ai saperi, valorizzando al contempo i repertori linguistici di ciascun alunno e la conoscenza di altre lingue europee.
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Nel capitolo “La scuola del primo ciclo” delle Indicazioni del 2012, in particolare nel punto relativo alla alfabetizzazione culturale di base (citato come tale anche nelle Indicazioni del 2018), si legge: (…) All’alfabetizzazione culturale e sociale concorre in via prioritaria l’educazione plurilingue e interculturale. La lingua materna, la lingua di scolarizzazione e le lingue europee, in quanto lingue dell’educazione, contribuiscono infatti a promuovere i diritti del soggetto al pieno sviluppo della propria identità nel contatto con l’alterità linguistica e culturale (MIUR, 2012a: 32).
In questo denso passaggio si esplicita l’importanza del ruolo delle discipline linguistiche e dell’EPI attraverso le quali si realizza l’alfabetizzazione di base. Richiamando la nozione di “lingue dell’educazione” (§2.4.1), non si include solo l’italiano (L1) e le LS europee, ma anche la lingua materna, riconoscendo in sostanza che essa può essere diversa dalla L1 e va ugualmente presa in carico. In tale quadro, l’EPI assume un ruolo chiave in quanto “risorsa funzionale alla valorizzazione delle diversità e al successo scolastico di tutti e di ognuno [e] presupposto per l’inclusione sociale e per la partecipazione democratica” (MPI, 2012: 32). La prospettiva di un’educazione linguistica fondata sulla partecipazione democratica che vi viene descritta rimanda quindi implicitamente ai principi alla base delle Dieci Tesi, qui rinnovati e coniugati con gli orientamenti europei. Più oltre nel documento (ibid.: 46), si sottolinea inoltre come tutte queste lingue permettano all’alunno di sviluppare una competenza plurilingue e pluriculturale, nonché di esercitare una cittadinanza attiva anche oltre i confini nazionali, abbracciando così in modo chiaro la prospettiva ‘orizzontale’ del QCER (cfr. §2.3). L’appropriazione di più lingue permette all’alunno di decentrarsi dal proprio sistema linguistico-culturale per divenire gradualmente consapevole dell’esistenza di diverse varietà di mezzi espressivi nelle varie lingue, concepite come strumenti di comunicazione, ma anche di espressione e di pensiero. Per facilitare questi processi le Indicazioni (MIUR, 2012a) auspicano inoltre la messa in atto della trasversalità in orizzontale e della continuità in verticale in riferimento agli insegnamenti linguistici (cfr. §2.4.2): la prima viene intesa come area comune di intervento per lo sviluppo linguistico-cognitivo dell’apprendente, che richiede ai docenti una progettazione
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concordata in relazione agli insegnamenti d’italiano, delle due lingue straniere e di altre discipline; la seconda si realizza tra i vari segmenti scolastici (dalla scuola primaria a quella secondaria di I grado) e tra i percorsi ad essa interni (ad es., da un anno all’altro) attraverso il raggiungimento di obiettivi progressivi in relazione allo sviluppo delle competenze e delle strategie per apprendere le lingue (MIUR, 2012a: 46). Vi sono diversi elementi che testimoniano con evidenza la specularità delle Indicazioni con le istanze politico-linguistiche europee: la promozione di “esperienze di sensibilizzazione a lingue presenti nei repertori linguistici di singoli alunni”; la promozione di attività nella seconda lingua comunitaria che tengano conto delle “esperienze linguistiche già maturate dall’alunno per ampliare l’insieme delle sue competenze”; l’accento posto sull’apprendimento di ogni ulteriore lingua “come una opportunità di ampliamento e/o di approfondimento del repertorio linguistico già acquisito dall’alunno e come occasione per riutilizzare sempre più consapevolmente le strategie di apprendimento delle lingue” (MIUR, 2012a: 46). Il riferimento agli approcci plurali è qui più che evidente ma rimane implicito, e rimarrà tale anche nelle Indicazioni nazionali del 2018, dove si afferma: “[l]a nuova realtà delle classi multilingui richiede che i docenti siano preparati sia ad insegnare l’italiano come L2 sia a praticare nuovi approcci integrati e multidisciplinari” (MIUR, 2018: 10). Nel richiamare subito dopo le indicazioni dell’art. 7 della Legge 107/2015 (nota come la “Buona Scuola”) si accenna tuttavia all’opportunità di un’introduzione graduale della metodologia CLIL in riferimento a tutti i gradi e ordini di scuola. Il CLIL/EMILE viene quindi individuato come possibile ‘approccio integrato e multidisciplinare’ utile a favorire produttivi scambi tra insegnanti di lingua e specialisti delle diverse discipline scolastiche e, come si richiama nel succitato art. 7, a valorizzare e potenziare le competenze linguistiche, “con particolare riferimento all’italiano nonché alla lingua inglese e ad altre lingue dell'Unione europea”. Si perde in sostanza la prospettiva inclusiva ed articolata delineata nelle Indicazioni precedenti per rimettere al centro le lingue europee. In tal senso le nuove Indicazioni sembrano mostrare un cambio di direzione rispetto all’innovazione della prima versione. Se si ammette inoltre che nel nostro Paese (ma non solo) il CLIL è prevalentemente associato
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all’insegnamento veicolare in lingua inglese, è evidente che questo cambio di direzione sia verso l’inglese. Si ripristinano così le consuete gerarchie tra le lingue, dando oltretutto una visione parziale dell’EPI, la quale viene qui enunciata nel solo passaggio sopra riportato relativo alla alfabetizzazione culturale di base, senza che vi siano ulteriori rimandi o spiegazioni che ne chiariscano il senso e l’opportunità. Le Indicazioni del 2018 andrebbero dunque lette non solo alla luce dei ‘nuovi scenari’, ma anche di una visione diacronica sui precedenti provvedimenti ed azioni di politica linguistico-educativa che, come abbiamo visto a proposito de La via italiana, che avevano aperto spazi di possibile avanzamento in parte colti nelle Indicazioni nazionali del 2012. Del resto, anche altri documenti ministeriali sembrano riflettere un’involuzione rispetto a questa prospettiva. Facendo riferimento ad una Direttiva ministeriale del 2012 sui Bisogni Educativi Speciali (BES)62, Firpo e Sanfelici (2016) fanno notare che definire come “svantaggio” una conoscenza parziale dell’italiano L2 negli apprendenti alloglotti comporti un’implicita svalutazione anche della diversità linguistico-culturale di cui essi sono portatori, allontanando così l’ipotesi di un’implementazione effettiva dell’EPI. Questa rappresentazione viene rafforzata dall’accostamento di 3 sottocategorie di BES nel medesimo documento (disabilità; disturbi evolutivi specifici; svantaggio socioeconomico, linguistico e culturale), che ha sollevato non poche perplessità tra docenti e studiosi. Un ulteriore documento ministeriale di riferimento, che orienta tuttora le pratiche relative all’inserimento e all’educazione degli alunni alloglotti, sono le Linee Guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri (MIUR, 2014), redatte dall’Osservatorio Nazionale per l’Integrazione degli alunni Stranieri e per l’Educazione Interculturale. Anche alla luce della mutata compagine sociale, il documento integra e aggiorna il documento del 2007 cui si ispira, confermandone sostanzialmente i principi e gli orientamenti generali. Anche qui si dedica uno specifico paragrafo al plurilinguismo come valore individuale e collettivo, richiamando le Indicazioni nazionali del 2012 e, soprattutto, la Guida per i curricoli, pubblicata nella sua prima versione nel 2010 (cfr. §2.4.2). Alcuni dei principi cardine della Si tratta della Direttiva ministeriale del 27/12/2012 Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l'inclusione scolastica (MIUR, 2012b). 62
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Guida vengono qui ripresi ed argomentati al fine di sottolineare l’importanza di prendere in carico i repertori plurilingui degli studenti, in quanto base della formazione delle identità individuali e collettive. Vi si citano inoltre stralci dalla Guida inerenti all’EPI, auspicandone l’inserimento nel curricolo scolastico secondo una logica di continuità rispetto al pregresso. Si demanda quindi ai documenti europei la legittimazione dell’educazione plurilingue nella scuola italiana, senza che vi sia un esplicito richiamo al plurilinguismo endogeno né tanto meno alle Dieci Tesi. Si prende invece atto che, negli anni precedenti alla pubblicazione del documento, “vi sono stati alcuni piccoli passi avanti a proposito del riconoscimento e della valorizzazione delle situazioni bilingui dei bambini e dei ragazzi immigrati” (MIUR, 2014: 19), dando così visibilità ad una serie di ‘buone pratiche’ da tempo diffuse nelle scuole. Oltre a citare la biografia linguistica come strumento conoscitivo delle diverse forme e modi dell’essere bilingue, si riporta un elenco delle possibili azioni utili ai fini dell’EPI, che approfondiscono i temi e le proposte avanzate nel documento La via italiana. Tra queste: l’insegnamento delle lingue non comunitarie, l’esplicitazione degli scambi tra le lingue nei vari temi del curricolo, la realizzazione di liste di termini chiave o glossari bi/plurilingui inerenti ai contenuti disciplinari, l’impiego di fiabe e narrazioni dal mondo in versione bi/plurilingue, l’uso di questionari e schede plurilingui per rilevare le competenze in ingresso e, ancora, l’utilizzo di cartelloni, opuscoli, libretti e segni plurilingui di accoglienza e di benvenuto (MIUR, 2014: 19). Per sottolineare l’importanza delle pratiche di inclusione degli alunni immigrati, incentivarne lo sviluppo e monitorarne l’efficacia, l’anno successivo l’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli studenti stranieri e per l’intercultura elabora il documento Diversi da chi? Raccomandazioni per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura (MIUR, 2015). Le Raccomandazioni, rielaborando in forma sintetica i punti principali delle Linee Guida del 2014, ripropongono all’attenzione delle istituzioni scolastiche dieci punti e proposte derivate dalle migliori pratiche scolastiche esistenti, utili a strutturare i percorsi formativi in considerazione dei contesti scolastici sempre più eterogenei, al fine di garantire il diritto allo studio e alla formazione degli alunni di origine straniera. I dieci punti mirano anche a tradurre in azioni concrete i contenuti della “Buona Scuola” in
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tema di integrazione degli alunni stranieri, ribadendo – tra altri aspetti − l’importanza di azioni come l’inserimento immediato degli alunni stranieri neo-arrivati, il sostegno dell’apprendimento dell’italiano L2, il coinvolgimento delle famiglie nel progetto educativo dei figli. In particolare, il punto 7 si sofferma sulla valorizzazione del repertorio linguistico degli alunni stranieri e, in senso più generale, della diversità linguistica, riproponendo gran parte delle proposte già presenti nei documenti precedenti a cura dell’Osservatorio. Vi si sottolinea inoltre l’imprescindibilità di superare le modalità compensative fino ad allora adottate dalle istituzioni scolastiche per l’inclusione degli alunni stranieri e la necessità di fare leva sulla diversità linguistica presente in classe come arricchimento collettivo: Valorizzare la diversità linguistica. L’integrazione scolastica dei bambini e dei ragazzi con origini migratorie ha seguito in questi anni modalità prevalentemente di tipo “compensativo”, sottolineando soprattutto le carenze e i vuoti e riconoscendo molto poco i saperi acquisiti e le competenze di ciascuno, ad esempio, nella lingua materna. La diversità linguistica rappresenta infatti un’opportunità di arricchimento per tutti, sia per i parlanti plurilingue, che per gli autoctoni, i quali possono precocemente sperimentare la varietà dei codici e crescere più aperti al mondo e alle sue lingue (MIUR, 2015).
Nonostante il titolo propizio e il contenuto condivisibile del documento, l’approccio sembra tradire una visione riduttiva del plurilinguismo rispetto ai documenti precedenti, purtroppo ancora diffusa nella scuola. Si nota infatti la presenza di una categorizzazione piuttosto fuorviante: al “parlante plurilingue” (straniero) viene contrapposto l’alunno “autoctono” (locale) come se quest’ultimo non fosse a sua volta portatore di altre lingue e varietà o, più probabilmente, come se queste non fossero degne di considerazione. Non troppo implicitamente emerge dunque come il (neo)plurilinguismo sia considerato prerogativa dell’alunno con background migratorio, mentre l’alunno non alloglotto – che non gode del privilegio di essere plurilingue − viene identificato con la propria appartenenza al territorio. Dopo la visione dell’alunno alloglotto come “svantaggiato”, sembrano dunque affermarsi nuove categorizzazioni ugualmente riduttive e pericolose, che vedono il plurilinguismo come appannaggio solo di alcuni e non di altri. Vi si potrebbe leggere l’intenzione di rovesciare,
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nelle politiche linguistiche educative come nelle rappresentazioni di diversi docenti63, la prospettiva del plurilinguismo come svantaggio e, con essa, un tentativo di superare la dicotomia bilinguismo elitario/popolare (cfr. §1.3.5). Tuttavia, è evidente che ciò non possa essere fatto a detrimento del patrimonio linguistico nazionale, di cui anche le varietà locali e regionali dell’italiano, come pure altre lingue di minoranza, sono parte integrante. La persistenza di una visione dicotomica, che divide in base alla conoscenza o meno della lingua nazionale o in base alla conoscenza di una o più lingue oltre a quella di scolarizzazione, va dunque superata a favore di una prospettiva più inclusiva e flessibile, come definito in più parti di questo lavoro.
Sulle rappresentazioni dei docenti riguardo al plurilinguismo nella scuola italiana si rimanda in particolare ai lavori di Cognigni e Vecchi (2013) e Sordella (2015). 63
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Parte seconda
Verso una didattica plurilingue: approcci, esperienze, contesti
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Introduzione In questa sezione vengono presentati alcuni approcci didattici tra i più diffusi, utili ad implementare una didattica plurilingue. Si approfondiscono dapprima gli “approcci plurali” all’insegnamento delle lingue e culture compendiati nel Carap già accennati nel capitolo 2, con particolare riferimento a quelli che mettono in gioco una pluralità di codici linguistici utili all’attuazione di un curricolo plurilingue (éveil aux langues, didattica integrata delle lingue, intercomprensione tra lingue affini)64. Con “approcci plurali” si fa riferimento a quegli approcci didattici in cui si mettono in atto attività di insegnamentoapprendimento che coinvolgono contemporaneamente più (= più di una) varietà linguistiche e culturali. Gli approcci plurali si oppongono agli approcci che possiamo definire “singolari” nei quali il solo oggetto di attenzione preso in considerazione nel percorso didattico è una lingua o una cultura specifica senza alcun riferimento ad altre lingue e/o culture (Candelier et al., 2012: 6, trad. it.).
Si tratta di approcci ‘plurali’ ma anche ‘parziali’: ‘plurali’ in quanto prevedono attività di insegnamento-apprendimento di più di una varietà di lingua o cultura contemporaneamente; ‘parziali’ poiché non si occupano, per ciascuna lingua, delle stesse (o di tutte le) competenze né, per queste ultime, si mira al raggiungimento dello stesso livello di padronanza (Coste et al., 2007). Sebbene esistano diversi punti di contatto tra gli approcci plurali e l’insegnamento bi/plurilingue, quest’ultimo sarà preso in esame solo per accenni e in modo funzionale alla definizione degli approcci plurali65. Esula invece dall’ambito di interesse di questo lavoro l’immersione linguistica in una L2/LS dal momento che in questo tipo di approccio la prospettiva è fondamentalmente endolinguistica ed eventuali momenti di riflessione metalinguistica sono demandati alla discrezionalità dell’apprendente (cfr. De Pietro, 2014). Gli stessi approcci plurali Non viene qui tematizzato il quarto degli approcci plurali riportato dal Carap, l’approccio interculturale, da un lato perché si ritiene possa costituire uno sfondo integratore rispetto agli approcci qui descritti, dall’altro perché non rientra in modo specifico negli scopi di questo lavoro, focalizzato principalmente sulla didattica plurilingue. 65 Cfr. §4.3. 64
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nascono in fondo dalla preoccupazione di superare quella “bipolarizzazione precoce bilingue” (Candelier, 1997) che caratterizza ancora oggi molti contesti educativi, in cui l’educazione plurilingue si riduce sostanzialmente all’inserimento precoce di una sola L2/LS, quasi sempre l’inglese. Secondo Gajo (2014: 121), gli approcci plurali, spesso associati alla nozione di “didattica del plurilinguismo”66, condividono tra caratteristiche principali: - l’intenzione di integrare il contatto linguistico nelle pratiche didattiche, in modo che il naturale contatto tra le lingue che caratterizza la comunicazione e i processi di apprendimento possa riflettersi anche nelle pratiche d’aula; - la valorizzazione del plurilinguismo come fine e come mezzo: se la didattica delle lingue mira generalmente alla padronanza di un repertorio plurale, una didattica del plurilinguismo opera nella consapevolezza che la competenza plurilingue sia una competenza in continua evoluzione, facendone dunque un mezzo oltre che un fine; - una visione ampia delle lingue come materie insegnate e come mezzo per insegnare altre materie, ponendo l’accento sulla natura trasversale del linguaggio verbale e sulle relazioni tra le varie lingue e discipline del curricolo. Queste finalità sono condivise da un altro approccio plurilingue, attualmente molto in voga, noto come translanguaging: implicando i repertori plurilingui degli alunni e il contatto linguistico come mezzo di apprendimento, condivide con gli approcci plurali l’intento di superare la rigida separazione tra le lingue dei modelli di educazione bilingue ad immersione largamente impiegati in contesto nordamericano. Sebbene si sviluppi in un contesto piuttosto diverso da quello degli approcci plurali, è possibile rilevare tra questi due ambiti di ricerca e di applicazione glottodidattica una certa comunità di intenti e numerosi punti di contatto, come discusso nel capitolo 6. Gajo propone un’ulteriore distinzione tra “didattica del plurilinguismo” (teaching pluralingualism) e “didattica plurilingue” (plurilingual teaching)67. Entrambe si fondano su una prospettiva Per una discussione, si rimanda in particolare a Candelier (2008) e a Candelier e Castellotti (2013). 67 La distinzione si rifà a quella inizialmente operata da Beacco nella prima versione della Guida per i curricoli tra “educazione al plurilinguismo” e “educazione plurilingue”, che tuttavia non è più presente nell’attuale versione del 2016. 66
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globale e sincretica delle lingue come parte del repertorio plurilingue soggettivo, ma con alcune specificità: mentre la prima mira principalmente a stimolare un atteggiamento positivo nei confronti della diversità linguistico-culturale (es. l’éveil aux langues), la seconda ha come finalità lo sviluppo di un repertorio plurale attraverso l’attivazione di specifiche risorse e la pratica del contatto tra lingue (es. intercomprensione), pratica che invece rimane implicita nella mente dell’apprendente nella didattica degli approcci ‘singoli’. Sebbene Gajo applichi questa distinzione ai soli approcci plurali, riteniamo che possa essere valida anche per il translanguaging, in cui la pratica del contatto tra lingue assume la sua forma più evidente ed esplicita. Si adotta qui la definizione di “didattica plurilingue” in quanto più comprendente, tenendo conto che i due tipi di didattica sono strettamente interconnessi: come discusso altrove in questo lavoro (cfr. in particolare §1.4 e §2.4) un atteggiamento positivo nei confronti del proprio repertorio linguistico può infatti facilitarne il suo investimento come risorsa e, quindi, come ‘capitale’ per l’apprendimento. Un capitale che, grazie agli approcci che qui presentiamo, l’insegnante ha l’opportunità di trasformare da ‘individuale’ a ‘collettivo’. Ciascun approccio viene discusso partendo da un inquadramento storico, presentandone gli aspetti salienti, le principali potenzialità e condizioni di applicabilità nella classe plurilingue, con particolare riferimento al contesto educativo italiano. Si forniscono inoltre alcuni esempi di attività tratti da diversi progetti e sperimentazioni con lo scopo di illustrare in modo più concreto le opportunità e le sfide dell’applicazione di questi approcci in ambito educativo. Nonostante si privilegi di regola il contesto scolastico, si accenna laddove utile anche ai possibili vantaggi e/o alle prospettive di applicazione ad altri ambiti formativi, come la formazione linguistica dei migranti adulti o l’insegnamento delle lingue in contesto accademico.
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Capitolo 3. L’éveil aux langues per educare alla diversità linguistico-culturale 3.1 Dalla Language Awareness all’éveil aux langues L’approccio dell’éveil aux langues (letteralmente “risveglio alle lingue”), variamente definito come Sensibilizzazione alle lingue e alle culture, Consapevolezza dei fenomeni linguistici o Awakening to Languages, è uno tra i primi approcci plurali a diffondersi in ambito scolastico, soprattutto nei contesti della scuola dell’infanzia e primaria di area francofona, in virtù degli obiettivi educativi che si prefigge di raggiungere. Secondo il Carap: [s]i ha éveil aux langues quando una parte delle attività riguarda lingue che la scuola non ha intenzione di insegnare. […] Include anche la lingua di scolarizzazione ed ogni altra lingua che l’allievo stia apprendendo. Ma non si limita solo a queste lingue “apprese”. Esso prevede attività che integrano ogni tipo di varietà linguistiche, della famiglia, dell’ambiente... e del mondo, senza escluderne nessuna (Candelier et al., 2012: 7, trad. it.).
In quanto approccio plurale, l’éveil aux langues (d’ora in poi EAL) mette in gioco più lingue e varietà di lingue presenti nei repertori linguistici degli alunni o nel contesto scolastico o sociale, con l’obiettivo di far scoprire la pluralità delle forme e dei significati esprimibili in una lingua o tra lingue diverse (Calò, 2015: 134). A partire dall'osservazione della diversità linguistica – indipendentemente dalla natura e dallo status delle lingue coinvolte – l’alunno viene incoraggiato a confrontare le lingue del proprio repertorio con quelle oggetto di analisi, con l’obiettivo di far riflettere su che cosa siano le lingue e il linguaggio. Tale processo può essere condotto a vari livelli di complessità tenendo conto del grado di sviluppo cognitivo degli alunni, ma sempre con l’obiettivo principale di facilitare la costruzione della consapevolezza metalinguistica e promuovere atteggiamenti di apertura verso la diversità linguistica e l’apprendimento di più lingue (cfr. Candelier, 2003a). L’EAL si sviluppa come applicazione ed estensione dei principi del movimento denominato Language Awareness, diffusosi in Gran
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Bretagna negli anni Ottanta grazie all’opera di Eric Hawkins (1984). Ponendo l’accento sul ruolo trasversale della lingua nel curricolo scolastico (“bridging subject”), il Language Awareness intendeva stimolare una riflessione sui fenomeni linguistici attraverso un approccio comparativo utile a mettere in relazione le varie lingue presenti in classe (lingua di scolarizzazione, lingue straniere e classiche, come pure le lingue di origine di alunni con background migratorio). Pur perdendo terreno in Gran Bretagna, negli anni Novanta questo concetto di educazione linguistica si diffonde in diversi altri paesi europei tra cui in particolare Francia, Germania, Austria e Svizzera (Candelier e Castellotti, 2013). Nella Svizzera francofona, in particolare, l’approccio si diffonde soprattutto grazie alle esperienze condotte secondo il metodo noto come EOLE (Éducation et Ouverture aux Langues)68 e alla conseguente diffusione di numerosi materiali operativi ad esso ispirati nella scuola dell’infanzia e primaria. L’approccio EAL è in seguito al centro di due progetti europei: - il progetto Evlang (1997-2001), acronimo di Éveil aux Langues à l’école primaire, che ha consentito di dimostrare gli effetti positivi di questo approccio sugli atteggiamenti degli alunni; - il progetto Jaling (2000-2004), acronomio di Janua Linguarum69, che ha permesso di verificare le condizioni necessarie per un efficace inserimento curricolare dell’approccio in contesto scolastico70. Si sviluppa parallelamente anche in Quebec, dove grazie al progetto ELODiL (éveil au Langage et Ouverture à la Diversité Linguistique)71 l’approccio viene implementato nelle scuole a partire dal 2003 (Armand et al., 2008). Si veda a tale riguardo il sito http://eole.irdp.ch/eole/ dove sono disponibili numerose schede di attività ispirate ai principi dell’éveil aux langues, rivolte ad alunni di diversi gradi scolastici, dai 4 ai 12 anni. 69 Cfr. Janua Linguarum: http://jaling.ecml.at/ 70 Per approfondire gli esiti dei progetti Evlang e Jaling si rimanda rispettivamente a Candelier (2003a) e Candelier (2003b). 71 Si veda il sito ELODiL, raggiungibile all’indirizzo https://www.elodil.umontreal.ca/, che a tutt’oggi offre agli insegnanti della scuola dell’infanzia e primaria una guida per sviluppare le abilità interculturali, l'educazione alla cittadinanza, le competenze cognitive, metodologiche, comunicative e sociali degli alunni attraverso attività di sensibilizzazione e apertura alla diversità linguistica. 68
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Poiché può coinvolgere un numero elevato di lingue, lo stesso Carap sottolinea come questo approccio plurale possa apparire “estremo” (Candelier et al., 2012), ma tale affermazione può essere accettata solo in astratto, prescindendo cioè dallo scopo principale che esso si pone: la pluralità dei codici linguistici messi in gioco mira innanzitutto ad una sensibilizzazione alla diversità linguistico-culturale, non richiedendo che questi codici siano oggetto di esplicito apprendimento. Ciò che conta è piuttosto “una «educazione» ai linguaggi e alle lingue, fatta attraverso i linguaggi e le lingue” (Coste et al. 2009: 127, trad. it.). Per raggiungere questa finalità esso privilegia un metodo comparativo, utile a sollecitare la capacità di decentramento e le abilità metalinguistiche, facendo prendere coscienza agli alunni dell’esistenza di innumerevoli sistemi linguistici, con regole e sistemi di scrittura differenti. Facendo leva sulle intuizioni spontanee e la naturale attività epilinguistica dei giovanissimi, le attività di EAL intendono sviluppare delle capacità analitiche e di osservazione riflessiva dei sistemi linguistici (consapevolezza metalinguistica), sollecitandoli a creare ipotesi sul loro funzionamento e mettendoli in relazione con la/e lingua/e già note, lingua di scolarizzazione in primis (cfr. infra per alcuni esempi). Oltre a questa importante dimensione metalinguistica che lo accomuna al Language Awareness, l’EAL permette di promuovere un atteggiamento positivo nei confronti delle diverse lingue-culture di cui ciascun membro della classe è portatore, a volte inconsapevole (si pensi, ad esempio, ai dialetti o ad altre lingue minoritarie che spesso gli stessi alunni faticano a riconoscere come “lingue”). Come si evidenzia nel DERLE, infatti mettendo al centro della riflessione − nella classe e all’interno dell’istituzione «scuola» − le (varietà di) lingue parlate dai bambini, esso le trasforma da «strumenti» d’uso quotidiano − quali sono per loro − in «oggetti (degni) di riflessione» e conferisce loro quindi quella visibilità e quella legittimazione scolastica che sono alla base di una reale valorizzazione (Coste et al. 2009: 126, trad. it.).
Dando pari dignità alle varietà linguistiche messe in gioco, da un lato si promuove un atteggiamento di apertura e curiosità verso la diversità linguistica che caratterizza l’ambiente scolastico, familiare o sociale, dall’altro si valorizzano le lingue di tutti gli alunni. Riconoscere la legittimità e il valore di ciascuna (varietà di) lingua presente in classe implica potenzialmente anche l’accettazione di chi le parla,
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facilitandone l’inclusione. Ne traggono quindi particolare vantaggio gli alunni allofoni che, gratificati di potersi fare “esperti” della propria lingua-cultura − non sempre adeguatamente valorizzata dal contesto sociale o scolastico − si sentono maggiormente accettati e parte attiva del gruppo classe; ne traggono vantaggio gli apprendenti dialettofoni, i quali percepiscono il valore delle proprie conoscenze linguistiche come risorsa per l’apprendimento oltre che come simbolo identitario; ne trae infine vantaggio tutta la classe, la quale può confrontarsi con codici linguistici, varietà di lingua/e, accenti e scritture diverse dalla propria, arricchendo le proprie conoscenze linguistiche ed aprendosi all’accoglienza della diversità linguistica e culturale. Un altro importante risvolto educativo di questo approccio si ha inoltre sul piano motivazionale: la creazione ed il rinforzo di un atteggiamento positivo verso le lingue straniere aumenta la motivazione verso l’apprendimento linguistico in generale e verso l’apprendimento di alcune lingue in particolare, diverse da quelle generalmente proposte dal curricolo scolastico: sollecitato a dare pari dignità a tutti i codici linguistici, l’alunno potrà quindi essere maggiormente motivato ad apprendere una lingua diversa o ulteriore rispetto alle consuete opzioni offerte dal sistema scolastico. Nell’EAL la valorizzazione del plurilinguismo non riguarda, tuttavia, le sole discipline linguistiche, ma può fruttuosamente essere coniugato al raggiungimento di obiettivi inerenti alle altre discipline. Il centro di interesse di questo approccio transdisciplinare sta proprio nella sua capacità di fornire agli insegnanti strumenti didattici atti a “risvegliare gli studenti alle lingue e alle culture”, mentre si sviluppano altre competenze che generalmente si acquisiscono attraverso le discipline scolastiche (Mattar e Blondin, 2003). Un esempio virtuoso del possibile connubio tra EAL e didattica disciplinare è costituito dal progetto europeo ConBaT+ (Content Based Teaching + Plurilingual/cultural Awareness)72: promosso tra il 2008 e il 2011 dal CELV di Graz, il progetto ha permesso di realizzare materiali interdisciplinari in lingua inglese, francese e spagnola come L2, ad uso degli alunni delle scuole primarie e secondarie. Il kit di formazione esito del progetto, rivolto ad insegnanti e formatori di insegnanti, fornisce un chiaro esempio di attività plurilingui basate su contenuti disciplinari che intrecciano diverse discipline del curricolo scolastico. 72
Cfr. http://conbat.ecml.at
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L’obiettivo principale delle attività proposte è quello di fare in modo che la prospettiva plurilingue ed interculturale non costituisca un momento separato e/o sporadico rispetto alle consuete attività curricolari, ma entri a far parte della programmazione disciplinare inserendosi in modo armonico nelle attività scolastiche quotidiane. In sintesi, l’EAL può essere considerato un approccio a carattere interdisciplinare, che riunisce al suo interno più dimensioni cui corrispondono altrettanti obiettivi: - una dimensione linguistica e cognitiva, in quanto si mira alla comprensione dei fenomeni linguistici, al funzionamento delle lingue e dei linguaggi e alla loro trasversalità rispetto alle discipline “non linguistiche”; - una dimensione sociolinguistica, per l’accento posto sulla diversità linguistica e sulle relazioni gerarchiche esistenti tra le lingue e le loro varietà nei contesti plurilingui; - una dimensione psicologica, mirante a favorire il decentramento dell’alunno rispetto alla propria lingua o alla lingua di scolarizzazione, quando diversa dalla prima; - una dimensione emotiva, per l’attenzione dedicata allo sviluppo di un atteggiamento positivo nei confronti della diversità linguistico-culturale (cfr. De Pietro e Matthey, 2001). Emergono dunque in modo evidente le forti potenzialità educative di questo approccio plurale per la classe plurilingue e le sue diverse affinità con il concetto di educazione linguistica democratica della tradizione italiana, come ad esempio la valorizzazione di tutte le lingue presenti nei repertori degli apprendenti, l’attenzione alla variazione linguistica, la trasversalità della lingua nel curricolo scolastico, la sinergia tra dimensione linguistica e non linguistica degli apprendimenti. Queste sue caratteristiche intrinseche ne fanno un approccio particolarmente adatto a facilitare l’inclusione nel contesto della scuola dell’infanzia e del 1° ciclo italiana, come discusso in maggior dettaglio nel paragrafo successivo.
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3.2 Diffusione e contesti di applicazione dell’éveil aux langues Concepito come approccio a forte valenza educativa, l’EAL ha trovato la sua principale applicazione nella scuola dell’infanzia e primaria, sebbene possa essere utilmente promosso anche in contesti educativi diversi per accompagnare gli apprendimenti linguistici in momenti successivi del percorso scolastico (cfr. Candelier, 2003b)73. Il Risveglio alle lingue ha incontrato un riconoscimento istituzionale a dimensione variabile a seconda dei contesti e dei paesi in cui è stato implementato: in alcuni paesi ha trovato una promozione limitata a livello locale o regionale, con una forte influenza su programmi ed istruzioni, in altri una totale integrazione nel curriculum, come ad esempio in Catalogna, Svizzera romanda e Grecia (Candelier e Castellotti, 2013). In Svizzera romanda, in particolare, dove l’approccio prende il nome di EOLE (Éducation et Ouverture aux Langues a l’École), la sua introduzione nelle scuole di base viene da tempo incentivata dall’Istituto di Ricerca e di Documentazione Pedagogica (IRDP) con il concorso della Conferenza intercantonale della Pubblica Istruzione (CIIP), grazie ai quali sono stati promossi numerosi corsi di aggiornamento e la diffusione di materiali utili alla formazione ed autoformazione dei docenti della scuola (Elmiger, De Pietro, 2012)74. In Francia, la diffusione della pubblicazione Les langues du monde au quotidien75 (Kervran, 2006) ha permesso di mettere a disposizione di un ampio pubblico di insegnanti le azioni e i risultati concreti maturati grazie ai succitati progetti europei Evlang e Jaling. Il Risveglio alle lingue è, tuttavia, ancora poco noto e diffuso nel sistema scolastico italiano, sebbene già da qualche anno siano presenti diverse pratiche didattiche e ricerche sperimentali che ne applicano i principi fondamentali (cfr. infra). Un caso particolare è quello della Val d’Aosta, sia per la presenza di curricula scolastici bilingui, sia per l’adozione di una versione adattata alle esigenze locali
Si veda §4.4 per un approfondimento. Si rimanda al sito dell’IRDP dedicato all’EOLE, in cui sono disponibili alcuni volumi con moduli e attività per la scuola primaria e secondaria: http://eole.irdp.ch/eole/index.html 75 La pubblicazione, disponibile al sito https://www.reseau-canope.fr/notice/leslangues-du-monde-au-quotidien-cycle-2.html, consiste di diversi moduli utili a familiarizzare gli alunni della scuola dell’infanzia (“modules non-lecteurs”) e della scuola primaria (“modules lecteurs”) con suoni e segni di varie lingue del mondo. 73
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delle Indicazioni nazionali76, nella quale l’EAL è espressamente citato e suggerito come approccio per riconoscere e consolidare la competenza plurilingue degli alunni valdostani. Nelle scuole dell’infanzia valdostane il Risveglio alle lingue viene proposto attraverso percorsi ludici che possono coinvolgere, oltre ad italiano e francese, l’inglese, il tedesco, e, in particolare, il francoprovenzale (Grosso, 2017) che, in alcuni contesti, è la lingua di famiglia maggiormente parlata dagli allievi77. Tra le sperimentazioni italiane ispirate all’EAL, si segnalano in particolare il progetto “Insieme per un futuro più equo” (Carpani e Maltoni, 2014; Carpani, 2014), condotto in una scuola primaria della provincia di Genova; il progetto “Noi e le nostre lingue” (Andorno, Sordella, 2017; 2018), realizzato nelle scuole primarie di Torino; il progetto “Lingue e culture in movimento” (Cognigni e Vitrone, 2016; 2017), condotto in un Istituto Comprensivo del Maceratese. I tre progetti condividono molte finalità, tra cui l’intento di ovviare alla mancanza di comunicazione tra scuola e famiglia − spesso più accentuata nei contesti migratori − coinvolgendo le famiglie nelle attività della scuola e/o nel mantenimento delle lingue di origine; la volontà di stimolare ed approfondire l’interesse verso la diversità linguistica e culturale, creando atteggiamenti positivi verso le lingue presenti nel proprio ed altrui repertorio linguistico; l’intenzione di sviluppare la consapevolezza che la lingua è un sistema complesso ed arbitrario attraverso l’impiego di attività di riflessione e di manipolazione di più codici linguistici. Il progetto “Noi e le nostre lingue”, il più ampio e noto dei tre, pone un particolare focus sulla dimensione grammaticale delle lingue coinvolte. Svolto a partire dall’a.s. 2015/16 in varie classi quarte e quinte delle scuole primarie torinesi, il progetto propone un percorso di dieci incontri laboratoriali con approccio ludico, in cui gli alunni vengono coinvolti in percorsi induttivi di familiarizzazione e scoperta Si fa qui riferimento al documento Adattamenti alle necessità locali della Valle d’Aosta delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione e delle Indicazioni nazionali – piani di studio – delle scuole del secondo ciclo di istruzione (D.G.R. 19 agosto 2016, n.1103) consultabile all’indirizzo http://www.scuole.vda.it/images/adattamenti/inf-primo.pdf. 77 Si veda ad esempio il progetto Lo ninno é lo tsaret (Il mulo e il carretto), promosso dall’Assessorato all’istruzione e alla cultura della Val d’Aosta, che propone materiali didattici per introdurre i bambini da 3 a 11 anni alle diverse varietà del francoprovenzale: http://www.patoisvda.org/gna/index.cfm/mulet-chariot.html. 76
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di diverse lingue e del loro funzionamento. Grazie al supporto di “testimoni” della lingua, parlanti nativi di una delle lingue prese di volta in volta in esame, e di un “linguista” o studente universitario di lingue che guida il laboratorio, gli alunni vengono avvicinati ai suoni e alla struttura di diverse lingue presenti nei diversi repertori linguistici presenti in classe78. Oltre a sensibilizzare alla diversità dei suoni e delle scritture, le varie attività proposte mirano a potenziare le abilità metalinguistiche dei giovani alunni ruotando intorno alla proprietà combinatoria del linguaggio, principio presente nella morfologia concatenativa, ad esempio della lingua farsi e di quella rumena, nell’ordine delle parole della frase araba, nella costruzione di parole composte in cinese (v. Attività n. 1). Attività n. 1: “Parole puzzle” e “parole mattoncino” L’obiettivo dell’attività, tratta dal progetto “Noi e le nostre lingue” (Andorno, Sordella, 2017), è permettere anche agli alunni più giovani una riflessione giocosa ma significativa sui meccanismi di flessione e derivazione relativi alla morfologia delle lingue flessive (es. lingue indoeuropee) e sui meccanismi di composizione tipici delle lingue isolanti (es. il cinese). Si propone un breve testo in lingua farsi in cui ricorrono diverse forme derivate dalla parola dokhtar (ragazza) sulle quali viene attirata l’attenzione della classe. Gli alunni sono sollecitati a notare somiglianze e diversità tra le parole e a fare ipotesi sulle funzioni dei suffissi in esse presenti rapportandoli con la lingua italiana (dokhtar-an = ragazz-e; dokhtar-ak = ragazz-ine). Dopo una ricostruzione dei significati guidata in plenum, si propone un gioco basato su una metafora fisica della morfologia delle lingue flessive, realizzato con l’ausilio di tessere di puzzle, su ognuna delle quali sarà riportato un morfema della lingua oggetto di riflessione. Come in un vero gioco del puzzle, gli alunni sono invitati quindi a formare delle “parole puzzle” attraverso gli incastri possibili e a risolvere piccole sfide linguistiche, come ad esempio comporre la parola “ragazzine” in lingua farsi (v. fig. 6).
Tra le lingue oggetto delle attività vi sono l’arabo, il cinese, il farsi, il medumba, il rumeno e il turco. 78
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Fig. 6 – Esempio di “parole puzzle” in lingua farsi (Andorno, Sordella, 2017: 59) La stessa attività può essere utilmente adattata ad altre lingue flessive, come ad esempio il turco, l’arabo, il rumeno, e chiaramente all’italiano, con il quale verrà stimolato un confronto per elicitare similarità e differenze dei diversi meccanismi di costruzione della parola nelle lingue flessive. Per introdurre il concetto di lingue isolanti, si possono proporre esempi dal cinese o altra lingua logogrammatica, utilizzando la metafora delle “parole mattoncino”, ovvero parole che non si compongono tra loro ma che, appunto, ‘isolano’ il significato di un messaggio in singole parole. Dopo aver mostrato l’ideogramma di base 电 [diàn] che indica il concetto di “elettricità”, si propone agli alunni di fare ipotesi sul significato delle parole composte create dall’unione con altri ideogrammi come ad esempio “ombra”, “scala”, “veicolo” (fig. 7) o, viceversa, proponendo di coniare altre parole composte dando delle flashcard di ideogrammi combinabili con “elettricità”.
Fig. 7 – Le “parole mattoncino” del cinese mandarino (adattato da Andorno, Sordella, 2017) Sarà auspicabile a questo punto un confronto con la lingua italiana per sottolineare che, oltre alle parole-puzzle (es. bambin-o, bambin-a), esistono
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anche parole-mattoncino, necessarie ad esempio quando si vuole esprimere il genere maschile di molti nomi di animali terminanti in -a (es. giraffa, zebra…) o il genere reale di nomi terminanti in -e (es. cane, elefante…), per i quali si deve ricorrere a formazioni perifrastiche del tipo zebra maschio o cane femmina. Una possibile estensione dell’attività può prevedere una riflessione interlinguistica che coinvolga anche l’inglese, lingua dell’educazione che presenta molti aspetti di una lingua isolante, ma anche diversi fenomeni di flessione interna, come l’italiano (es. I sing – I sang / faccio - feci).
Caratteristica specifica degli altri progetti è un lavoro parallelo sulla nozione di plurilinguismo in quanto “differenza tra linguaggi e fra lingue” (Giscel, 1975), con particolare attenzione al rapporto esistente tra italiano e dialetti, i quali vengono coinvolti nelle attività di valorizzazione del patrimonio linguistico-culturale al pari di tutte le altre lingue presenti o studiate a scuola. Nel progetto “Lingue e culture in movimento”, in particolare, si mira a rendere gli alunni consapevoli non solo della differenza tra dialetto e italiano standard, della quale molti non hanno una percezione chiara, ma anche di farne scoprire le sue diverse caratteristiche e funzioni, in quanto codice e simbolo identitario, lingua di casa e della socialità a seconda del contesto di riferimento, ma anche in quanto “lingua” dotata di una propria grammaticalità e di affinità con altre lingue dell’educazione. Nell’intento di attualizzare le indicazioni delle Dieci Tesi, il progetto “Lingue e culture in movimento”, focalizza inoltre la sua attenzione sulla dimensione trasversale della lingua nel curricolo e sull’importanza che essa riveste nell’acquisizione dei contenuti disciplinari e nel raggiungimento del successo scolastico. La sperimentazione ha evidenziato che l’intima connessione auspicata dal progetto tra lingue-culture e apprendimento disciplinare ha un potenziale effettivo laddove preveda un contributo attivo da parte degli alunni, coniugando la tutela delle singole identità e una visione unificante ma non uniformante della diversità linguistico-culturale (Cognigni e Vitrone, 2016). Ciò che dà una sorta di plusvalenza al progetto è inoltre il collegamento con il patrimonio artistico e culturale, visto attraverso gli occhi degli alunni che lo raccontano: tutti i percorsi didattici realizzati nell’ambito del progetto, pur nelle loro specificità, hanno teso infatti a prendere in carico il vissuto degli alunni e delle loro famiglie di origine e cercato di far emergere le loro percezioni ed emozioni, partendo dal vissuto quotidiano per giungere
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ad una rielaborazione dell’immaginario ad esso connesso. Ne è un esempio l’attività riportata di seguito, tratta dal percorso interdisciplinare “Il mondo in gioco”, rivolto alle classi quarte della scuola primaria e realizzato con la collaborazione delle insegnanti di italiano, lingua straniera ed arte e immagine (Cognigni e Vitrone, 2016). Attività 2: “Il tangram plurilingue” L’attività si propone di dare visibilità a tutte le lingue e varietà di lingue presenti in classe, comprese quelle in cui i bambini possiedono competenze anche molto parziali (varietà locali, lingue di casa, lingue apprese grazie alla mobilità o a contatti interpersonali, ecc.), valorizzando al contempo il patrimonio culturale di ciascun apprendente. Attraverso la tecnica del noto gioco cinese del tangram, gli alunni sono invitati a rappresentare, con delle forme in cartoncino, un elemento del proprio patrimonio culturale – materiale o immateriale − che sia in qualche modo rappresentativo del proprio contesto di origine o vissuto, come ad esempio un monumento, un oggetto caro, un elemento del paesaggio ecc. Gli alunni sono poi invitati ad inserire una didascalia in più lingue del proprio repertorio plurilingue, spiegando poi ai propri compagni e all’insegnante che cosa rappresenta il proprio tangram e perché hanno scelto di raffigurarlo. Per motivare ulteriormente gli alunni, l’attività può concludersi con la realizzazione di un cartellone (fig. 8) e/o di un prodotto audiovisivo da condividere con la comunità scolastica e/o locale, in cui i piccoli artisti mostrano i propri tangram e leggono le didascalie plurilingui. Non solo l’attività permette di dare visibilità e pari dignità alla pluralità dei codici, degli accenti e delle appartenenze culturali che caratterizzano la classe, ma anche di ri-scoprire il valore dei vissuti e dei contatti che li hanno resi possibili, nonché di far percepire il valore unificante della diversità linguistica e culturale di cui ciascun alunno è (inconsapevole) testimone.
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Fig. 8 – Cartellone con tangram plurilingui, tratto dal progetto “Lingue e culture in movimento” (Cognigni e Vitrone, 2016)
Come discusso nel paragrafo precedente, obiettivo principale di questo approccio è sensibilizzare gli alunni alla diversità linguistica e culturale mirando al contempo all’inclusione delle lingue minoritarie presenti nei repertori linguistici degli alunni, anche nei primissimi anni di scolarizzazione. Vanno interpretate in questo senso le attività di EAL proposte di seguito (cfr. attività n. 3), realizzate e sperimentate nell’ambito di un progetto di ricerca-azione in una scuola dell’infanzia con presenza di alunni arabofoni (Perlini, 2019), adatte anche ad un contesto di scuola primaria. Attività n. 3: “La scatola delle lettere magiche” e “Il memory dell’arabo” Riportiamo qui due attività utili ad una prima familiarizzazione con suoni e segni della lingua araba. Per incuriosire i bambini, viene portata in classe una “scatola delle lettere magiche”, la quale contiene delle tesserine plastificate riportanti le lettere dell’arabo (figg. 9 e 10). Si invita quindi ciascun bambino a turno ad estrarre una lettera dalla scatola e a provare a pronunciarla, con l’ausilio di un esperto esterno o di un genitore arabofono. Poiché la corretta pronuncia dell’arabo può risultare particolarmente complicata per i bambini, per la riproduzione orale dei suoni possono essere sfruttate le assonanze di alcune lettere con i versi degli animali, come ad es. della lettera [ خx] con il verso della tigre o della lettera [ قq] con il verso della gallina e così via. Attraverso un’attività giocosa e motivante, i bambini scoprono l’esistenza di suoni e segni molto diversi da quelli dell’italiano ma vicini a quelli parlati da alcuni compagni, cimentandosi nella loro pronuncia. I bambini arabofoni presenti, che
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riconosceranno suoni a loro familiari, saranno motivati ad aiutare l’esperto facendosi a loro volta testimoni privilegiati della propria lingua di casa.
Fig. 9 – La scatola delle lettere magiche
Fig. 10 – Il memory dell’arabo79
Una volta introdotte le lettere dell’alfabeto arabo sul piano foneticoarticolatorio, si potrà procedere con un’attività di associazione basata sul classico gioco del memory, utile a conoscere e memorizzare la rappresentazione grafica delle lettere arabe: si forniscono due mazzi di tessere identiche dai quali i bambini devono estrarre a turno, singolarmente o a squadre, delle coppie di lettere uguali. Una volta formata la coppia i bambini chiedono conferma all’esperto che la coppia sia corretta e pronunciano insieme la lettera estratta. Come evidenziato dalla ricerca-azione, i bambini hanno gradito molto le attività proposte e sono stati particolarmente incuriositi dagli “strani disegni” della scatola magica. Molti di loro, avendo notato che le lettere del gioco del memory erano le stesse del gioco precedente, ne hanno riprodotto il suono in modo spontaneo, dimostrando che anche in un contesto di scuola materna è possibile educare al plurilinguismo.
Seppure l’EAL nasca come approccio per i giovanissimi, esso viene applicato anche con apprendenti di fasce di età successive nella consapevolezza che i vantaggi dell’educazione alla pluralità delle lingue e delle culture non si esauriscono certamente nella prima infanzia. Risponde a questa esigenza la proposta didattica riportata di seguito, che propone un percorso di EAL incentrato sull’insegnamento Cfr. Arabook.it - Giocare con l’arabo attraverso l’éveil aux langues https://www.arabook.it/2020/04/29/giocare-con-l-arabo-attraverso-l%C3%A9veil-aux-langues/ 79
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dell’epica in un’ottica interculturale. Sebbene sia pensata per il curricolo di italiano della scuola secondaria di I grado, può essere inserita anche nel curricolo scolastico di altri gradi scolastici, come per esempio il secondo ciclo della scuola primaria80. Attività n. 4: “Gli alfabeti dell’epica” A partire da testi adattati dall’epopea di Gilgamesh e dal poema di Aqhat dell’epica ugaritica, il percorso propone una riflessione plurilingue di tipo diacronico che mette a confronto i primi sistemi di scrittura (cuneiforme accadico ed ugaritico) con le moderne lingue semitiche (arabo ed ebraico), facendone scoprire le affinità e le relazioni di parentela. Poiché arabo ed ebraico presentano suoni e forme analoghe a quelli dell’ugaritico (fig. 11), quest’ultimo si presta a stimolare una riflessione sul rapporto tra significato e significante nelle lingue semitiche, sull’evoluzione dei sistemi linguistici attraverso i secoli, nonché sul concetto di famiglia linguistica. Diversi raffronti possono quindi essere stabiliti con la lingua di scolarizzazione – in questo caso l’italiano − e, più ampiamente, con le lingue dell’educazione (es. spagnolo, francese…), facendo scoprire come le lingue del gruppo semitico possiedono dei “progenitori” con un ruolo simile a quello svolto dal latino per il gruppo romanzo.
Fig. 11 – Confronto tra alfabeti ugaritico, arabo ed ebraico81
L’attività è tratta da un Project Work realizzato nell’ambito del Master di I livello in “Didattica dell’italiano L2/LS in prospettiva interculturale”, svolto nell’a.a. 2016/2017 presso l’Università di Macerata (Carletti, 2017). 81 Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Ugaritic-alphabet-chartArabic.svg; https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Ugaritic-alphabet-chartHebrew.png 80
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L’attività risulta utile a far acquisire dei saperi specifici, riconducibili ad alcune risorse del Carap come, ad esempio, sapere che nel mondo esiste un’ampia varietà di sistemi di scrittura tra loro differenti (K5.3/K6.9), comprendere che le lingue sono in costante evoluzione (K4) e che possono essere collegate tra di loro da rapporti di “parentela” (K4.1), conoscere alcune famiglie linguistiche ed alcune lingue che ne fanno parte (K4.1.1), conoscere alcuni elementi della storia delle lingue (K4.3), ad esempio in riferimento alla loro origine ed evoluzione. Dati i suoi obiettivi educativi, l’attività si adatta anche ad una classe priva di alunni di origine straniera, ma diventa particolarmente fruttuosa nel caso in cui siano presenti, ad esempio, alunni arabofoni, i quali potranno supportare l’insegnante nella guida alla scoperta induttiva dei segni e dei suoni che caratterizzano la loro lingua di origine.
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Capitolo 4. La didattica integrata delle lingue: il transfer come potenziale di apprendimento
4.1 Sviluppo e caratteristiche della didattica integrata delle lingue La didattica integrata delle lingue (d’ora in poi DIL) si sviluppa agli inizi del 2000 con l’obiettivo principale di stimolare l’alunno a stabilire dei collegamenti tra un numero definito di lingue, corrispondenti a quelle apprese in contesto scolastico. Nella definizione degli autori del DERLE (Coste et al., 2009: 119, trad. it.), [e]ssa si fonda su un giusto equilibrio tra un’attenta considerazione delle differenze esistenti tra i processi di acquisizione di una L1, di una L2 o di una LS e la coscienza delle grandi affinità che questi processi presentano dal punto di vista psicolinguistico.
La metodologia parte da una riflessione sulla lingua di scolarizzazione per favorire l’accesso ad una prima lingua straniera e successivamente, attraverso queste due lingue, intende agevolare anche l’accesso ad un’ulteriore lingua straniera (Candelier et al., 2012). Questo tipo di approccio plurale intende in tal modo sviluppare un’educazione linguistica globale e trasversale in cui le varie lingue del curricolo scolastico e i processi di acquisizione/insegnamento che esse mettono in atto possano relazionarsi e darsi reciproco rinforzo (cfr. Calò, 2015). Soprattutto nei primi gradi scolastici, introdurre un discorso sulle lingue mettendole a confronto con la propria, permette di rendere le altre lingue oggetto di studio meno “straniere” e più vicine alla propria esperienza del mondo, nonché di comprendere i meccanismi di funzionamento specifici di ciascuna lingua e dell’apprendimento linguistico in generale (cfr. Neuner, 2004). Configurandosi come un approccio induttivo e comparativo, centrato sull’apprendente, la DIL invita l’alunno a mettere sistematicamente in relazione parole, frasi e testi della L1 con quelli della prima lingua straniera, sulla base di stimoli guidati da parte dell’insegnante: che cosa accomuna le due lingue? Che cosa è in parte diverso? Che cosa è totalmente differente? che cosa può rappresentare un “trabocchetto” (es. i falsi amici)?
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Una prima concettualizzazione di questa metodologia si deve a Eddy Roulet che, grazie alle sue riflessioni e proposte, ha reso operativa quella che definisce “una pedagogia integrata delle lingue materna e seconde” (Roulet, 1980, in Candellier e Castellotti, 2013: 203). Dopo aver dimostrato le derive degli approcci strutturalisti e comunicativi riguardo l’eliminazione di ogni riferimento alla L1, Roulet fonda la sua proposta proprio sul ruolo centrale della lingua di scolarizzazione come “luogo privilegiato della scoperta dei principi che regolano il sistema e il funzionamento di ogni lingua e all’acquisizione degli strumenti adatti a favorire questa scoperta” (Roulet, 1980: 117 [trad. nostra]), gettando così le basi dell’approccio. Saranno poi Danièle Bailly e Christiane Luc (1992) a proporre in Francia una versione più pratica dell’approccio, utile a sottolineare la trasferibilità delle competenze apprese in L1 nell’apprendimento di una lingua straniera82. Tra gli orientamenti metodologici di questo approccio rientra la didattica delle lingue terziarie (Tertiärsprachendidaktik), sviluppatasi a partire dagli anni ’90 con lo scopo di promuovere l’apprendimento/insegnamento di una L3 (ad es. il tedesco) sfruttando le opportunità del transfer offerte dalla conoscenza di una L2 ad essa affine (ad es. l’inglese)83. Il transfer viene qui inteso a più livelli: - sul piano delle abilità e competenze linguistiche la L2 funge da lingua-ponte, costituisce cioè un transfer bridge (Meissner, 2000) utile all’accesso alla nuova lingua straniera, in modo da ottimizzare tempi e modalità di acquisizione della L3; - sul piano delle abilità cognitive comuni, mira a valorizzare e trasferire le esperienze e competenze già maturate dagli apprendenti attraverso l’apprendimento della L2 (ad es. in ciò che concerne i fenomeni linguistici e le strategie di apprendimento e d’ uso) nell’apprendimento della lingua obiettivo, ricorrendo sistematicamente alla riflessione
L’approccio si fonda su un processo di destrutturazione (con riferimento alla L1) e di successiva ristrutturazione (in funzione della lingua obiettivo), focalizzandosi su elementi linguistici specifici, ritenuti più complessi da apprendere (cfr. Bailly e Luc, 1992). 83 Per approfondire si rimanda a Neunen e Hufeisen (2004), Berger (2006). 82
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comparativa/contrastiva sui fenomeni linguistici uguali o simili presenti nella L2 e nella L3 (cfr. Berger, 2006)84. Nella costruzione di questi “ponti” tra le lingue, un ruolo fondamentale è svolto dalle somiglianze linguistiche tra L1, L2 e L3 e, più specificamente per quanto riguarda il lessico, dall’intensità del contatto linguistico tra le lingue in questione (presenza di internazionalismi e prestiti). In presenza di una vicinanza linguistica forte e di un contatto linguistico intenso, come nel caso dell'inglese e del tedesco, forme linguistiche identiche o simili permettono di effettuare transfer relativamente ampi tra le lingue, che gli studenti stessi possono facilmente identificare (ad esempio struttura delle frasi, formazione delle parole, ecc.). Uno dei principali scopi della didattica delle lingue terziarie è proprio quello di portare in superficie questo processo silente, generalmente svolto in modo individuale da parte dell’apprendente, il quale viene qui sistematicamente stimolato a formulare ipotesi su somiglianze linguistiche riconoscibili ed incoraggiato a parlare delle proprie osservazioni sulla nuova lingua in apprendimento. A partire dal modello del German-after-English (cfr. §4.4), Neunen (2004) concettualizza in cinque principi le caratteristiche principali della didattica delle lingue terziarie: 1) Apprendimento cognitivo: implica la comparazione sistematica tra L1-L2-L3, la presa in carico e la discussione delle strategie e delle tecniche di apprendimento utilizzate dagli apprendenti e di come queste possano essere estese e potenziate. Si attualizza attraverso la crescente acquisizione di: - conoscenze dichiarative, riguardanti la consapevolezza e conoscenza delle/sulle lingue oggetto di studio (language awareness); - conoscenze procedurali, inerenti alla conoscenza e consapevolezza dei propri processi di apprendimento delle lingue straniere (language learning awareness). 2) Comprensione come base e punto di partenza dell’apprendimento: ha lo scopo di rendere espliciti i meccanismi della comprensione permettendo all’apprendente di “mettere in parole” i processi cognitivi 84
Per un approfondimento e alcuni esempi di questo tipo di didattica, si veda §4.4.
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ad essa sottesi. Questo dialogo sulle lingue può anche avvenire nella L1 nelle prime fasi dell’apprendimento. Sviluppare la comprensione, secondo questo principio, significa offrire agli alunni testi paralleli, autentici o meno, in L2 e L3 in grado di attivare i cosiddetti “ponti della comprensione”, ad esempio a partire dal lessico e dalle strutture grammaticali in essi presenti. 3) Significatività del contenuto: per sua vocazione, la didattica delle lingue terziarie si rivolge ad apprendenti adolescenti, i quali abbiano già esperienza dell’apprendimento di una lingua straniera. È importante dunque che le attività didattiche e i materiali proposti si basino su contenuti significativi e motivanti per questa fascia di età, legati al loro mondo esperienziale e capaci di stimolarne l’iniziativa o la ricerca personale (es. attraverso un approccio induttivo, l’uso di Internet, ecc.). Questo principio va di pari passo con l’assegnazione di compiti linguistici non banali, che siano cioè sufficientemente sfidanti per gli adolescenti (ad es. l’analisi di un determinato fenomeno linguistico, la formulazione e la verifica di ipotesi, ecc.). 4) Significatività dei testi: in modo coerente con quanto espresso dai principi precedenti, presuppone l’impiego di vari tipi di testi significativi proposti attraverso l’uso di specifiche strategie, come per esempio: - l’esplorazione induttiva della lingua obiettivo (rispetto a lessico, grammatica, pronuncia ed ortografia) attraverso l’analisi di testi paralleli ad hoc in L1, L2 e L3 o parte di esse, contenenti specifici fenomeni linguistici corrispondenti agli obiettivi glottodidattici; - la comprensione globale di testi autentici inerenti ad aree tematiche che presentino un lessico “condiviso” nella lingua-ponte e nella lingua obiettivo, come per esempio internazionalismi ed anglicismi nel caso del German-after-English. 5) Economia del processo di apprendimento: stante il minor tempo dedicato alle lingue terziarie nei curricoli scolastici, il quinto principio invoca la necessità di un’«economia didattica» che, nella DIL, si concretizza nel ricorso alla comparazione sistematica tra le lingue, soprattutto a livello grammaticale e lessicale, ad esempio attraverso la discussione delle differenze e delle aree sensibili all’interferenza, l’impiego di glossari per immagini bi/plurilingui, ecc. utili a capitalizzare al meglio il tempo a disposizione dell’insegnante e a rendere l'apprendimento degli alunni più efficace.
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4.2 Dalla DIL al curricolo plurilingue Gran parte della riflessione successiva sulla DIL si sviluppa in contesto svizzero, dove l’approccio assume una maggiore ampiezza coinvolgendo l’intero curriculum scolastico: su questo tema viene pubblicato nel 2008 un numero monografico nella rivista multilingue Babylonia (Brohy e Rezgui, 2008), nel quale si dà conto dello sviluppo epistemologico dell’approccio e di alcune sue applicazioni nelle scuole svizzere. Prendendo in esame le numerose definizioni assunte dalla DIL in ambito francofono e germanofono, Brohy (2008) descrive questa nozione come “polisemica”, “plurale ed evolutiva”, offrendone diverse denominazioni. In francese si diffonde per lo più come pédagogie intégrée, pédagogie inter-langues o gestion coordonnée des langues; in tedesco tale orientamento assume più denominazioni (ad esempio integrierte Sprachendidaktik, integrative Fremdsprachendidaktik, integrale Sprachendidaktik), a cui non sempre corrisponde una differenza epistemologica, pur focalizzandosi tutte sull’integrazione tra più lingue nel curricolo85. Secondo la proposta di Wokusch (2008a: 12-14), la DIL può essere intesa come un approccio olistico che ingloba in parte gli altri approcci plurali, caratterizzandosi intorno a sei principi di base: 1. Curriculum diversificato e coordinato (coerenza verticale): riguarda l’elaborazione e la condivisione di competenze specifiche per ciascuna lingua insegnata, attese al termine di ciascun grado scolastico; il coordinamento dei piani di studio e l’armonizzazione dei mezzi di insegnamento in funzione dei profili di competenza attesi; lo sviluppo coordinato delle competenze produttive e ricettive nelle lingue insegnate (es. competenze produttive in L2 e competenze ricettive sulla L3, invertendo successivamente la precedenza data). 2. Sviluppo di competenze funzionali efficaci in ciascuna delle lingue insegnate: introduce forme di insegnamento che privilegiano l’utilizzo della lingua in contesti significativi e reali, come ad esempio la didattica per compiti, la didattica basata su specifici contenuti o l’insegnamento di discipline non linguistiche attraverso la lingua straniera (CLIL/EMILE);
Sugli aspetti terminologici inerenti alla DIL si veda inoltre Candelier e SchröderSura (2016). 85
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facilita il contatto diretto con altre lingue-culture, secondo un orientamento che viene definito “pedagogia dei contatti”86. Coerenza e continuità delle modalità didattiche proposte agli studenti: fa riferimento all’adozione di modalità didattiche tra loro coerenti per l’insegnamento di specifici aspetti della lingua (es. lessico, grammatica, ecc.), come ad esempio l’analisi induttiva di un fenomeno grammaticale per inferire delle regole, le tecniche di apprendimento e la struttura del lessico (es. famiglie di parole, principi di derivazione, ecc.); implica, nella misura del possibile, l’impiego di una terminologia comune tra gli insegnanti di lingue, l’adozione di tecniche di verifica e griglie di valutazione comuni, di modalità di autovalutazione condivise; Risveglio alle lingue; diversità linguistica e culturale; dimensione (inter)culturale: prevede la promozione della diversità linguistica e culturale attraverso l’EAL alla scuola primaria e secondaria, lo sviluppo di un atteggiamento di curiosità verso le lingue-culture da parte dell’alunno al fine di potenziarne la competenza socioculturale e pragmatica, il confronto esplicito e non giudicante tra le lingue della scuola, le lingue-culture di origine degli alunni e le lingue-culture straniere insegnate. Valorizzazione del potenziale di transfer: prende in considerazione le strategie di comunicazione e di apprendimento sollecitate attraverso l’azione di tutte le lingue insegnate; riguarda la sensibilizzazione ai meccanismi di funzionamento generale delle lingue, in modo da rendere gli apprendenti consapevoli che alcuni di questi meccanismi e le abilità cognitive sviluppate attraverso lo studio della L1 o di altre lingue straniere (es. l’abilità di lettura, la capacità di pianificazione di un testo scritto ecc.) possono essere fruttuosamente trasferite nello studio di altre lingue. Sviluppo di strategie di comunicazione e di apprendimento efficaci: promuove l’autonomia di apprendimento e il ricorso a
Una “pedagogia dei contatti” con altre lingue-culture si può realizzare attraverso scambi ‘fisici’ tra classi di paesi diversi, ma anche attraverso l’impiego di materiale autentico come audiovisivi e realia, attraverso progetti di scambio svolti con il supporto di piattaforme online dedicate, l’uso dei social networks, ecc. (cfr. Wokusch, 2008b). 86
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materiali autentici nelle lingue affini a quella/e insegnata/e al fine di favorire lo sviluppo di capacità di intercomprensione e, più in generale, di strategie di comprensione; impiega modalità didattiche di tipo intercomprensivo, fondate cioè sul riconoscimento di somiglianze lessicali e morfologiche tra le lingue di una stessa famiglia linguistica. Nella sua versione più recente, la DIL fonde le finalità degli orientamenti sopra descritti sollecitando l’attuazione di una didattica integrata tra le principali lingue del curricolo scolastico, in genere la L1 e una o due lingue straniere87. Nell’intento di attuare ciò che abbiamo definito curricolo plurilingue (cfr. §2.4.2), la DIL opera in base a due principi fondamentali che agiscono sul piano sia cognitivo sia didattico (cfr. Coste et al., 2009): -
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il principio dell’anticipazione, che riguarda da un lato l’ordine di acquisizione delle lingue (L1, L2, L3…) e il loro statuto dal punto di vista dell’apprendente, dall’altro la presa di coscienza da parte del docente di una determinata lingua della necessità di potenziare la competenza glottomatetica degli alunni, sviluppando ad esempio conoscenze, competenze e strategie che potranno essere capitalizzate per l’apprendimento/insegnamento parallelo o successivo di altre lingue; il principio di retroazione che, viceversa, fa riferimento a come, sul piano cognitivo, l’apprendimento di un’ulteriore lingua ristrutturi le conoscenze già acquisite e, sul piano didattico, alla presa di coscienza da parte degli insegnanti dell’influenza che queste nuove acquisizioni possono avere sulle lingue già note.
Come sottolinea il DERLE, la DIL dovrebbe in questo modo permettere all’alunno di sviluppare un “metodo euristico” − non solo delle strategie contrastive L1-LS − utile all’apprendente ad osservare e selezionare che cosa è possibile trasferire da una lingua all’altra e che cosa invece è strettamente specifico a ciascuna di esse. Si preferisce qui definire le lingue straniere come L2 e L3 da un lato per evidenziarne la progressione acquisizionale, dall’altro per evitare che si crei confusione tra i concetti di “lingua straniera” (LS) e “lingua seconda” (L2) come generalmente sono intesi nella glottodidattica italiana (cfr. Balboni, 2015). 87
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Compito degli insegnanti di lingue sarebbe, per converso, quello di sviluppare negli apprendenti una “competenza strategica trasversale” in modo tale che il transfer di conoscenze, competenze e strategie da una lingua all’altra diventi sempre più automatico e spontaneo. Ne consegue la necessità di una continua e progressiva collaborazione e concertazione tra gli insegnanti di lingue per fare in modo che i vari insegnamenti linguistici del curricolo scolastico possano articolarsi in modo armonico e richiamarsi l’un l’altro, sfruttando i meccanismi di anticipazione e retroazione a vantaggio di tutte le lingue insegnate e, soprattutto, di tutti gli apprendenti. L’implementazione della DIL nel curricolo scolastico va dunque preparata con gradualità e sostenuta dalla collaborazione di più docenti. Per perseguire tale scopo sono percorribili tre diverse modalità o livelli progressivi, che richiamano i principi di Wokusch sopra enunciati: 1) un livello minimo o preliminare mirerà alla creazione di una “cultura” comune tra i docenti di area linguistica, prevedendo ad esempio lo scambio reciproco di informazioni sui contenuti affrontati, la ricerca e l’adozione di un linguaggio comune (ad es. in riferimento alla terminologia grammaticale adottata), la condivisione e la negoziazione di strategie di intervento didattico e di gestione della classe (v. ad es. correzione degli errori, tecniche di cooperazione/collaborazione in aula ecc.); 2) un livello intermedio potrà prevedere un lavoro di programmazione congiunto su delimitate aree specifiche del curricolo, di cui verranno definiti obiettivi, contenuti, metodi di insegnamento e procedure di valutazione almeno parzialmente comuni; 3) un livello avanzato di DIL si prefiggerà di attuare un vero e proprio curricolo integrato delle lingue, nell’ambito del quale gli insegnanti sono chiamati a: - integrare gli obiettivi in sequenze didattiche comuni; - sfruttare e potenziare la trasferibilità delle strategie e delle acquisizioni linguistiche e pragmatiche; - raccordare le modalità di valutazione in modo ancora più preciso; - promuovere l’uso di più lingue in classe, valorizzando l’alternanza linguistica; - creare occasioni di confronto interlinguistico, sulla base delle somiglianze/diversità tra le lingue dell’educazione.
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4.3 Didattica integrata e insegnamento bi/plurilingue La DIL viene talvolta assimilata con una più generica didattica integrata. Lo stesso Carap precisa che “alcuni approcci dell’insegnamento bilingue – dunque di un insegnamento in cui le materie (cosiddette) non linguistiche sono insegnate in due lingue – possono rientrare nel campo della didattica integrata” (Candelier et al., 2012: 8, trad. it.). L’insegnamento bi/plurilingue rimanda a quelle metodologie didattiche che prevedono due o tre lingue insegnate ed utilizzate nel processo di insegnamento e apprendimento di una o più discipline scolastiche (cfr. Beacco, 2016). Tra queste rientrano ad esempio il Dual Language Education, il Language Across the Curriculum Approach, il CLIL (Content and Language Integrated Learning) o EMILE (Enseignement de Matières par l’Intégration d’une Langue Étrangère). Tutti questi approcci mirano all’acquisizione parallela ed integrata delle lingue e delle discipline coinvolte, ma varia in genere l’equilibrio tra acquisizione delle competenze linguistiche ed acquisizione del contenuto disciplinare. Seppure questi approcci varino sensibilmente in riferimento al numero delle discipline del curricolo coinvolte (una, molte o tutte) ed al tipo di esposizione alla lingua da insegnare ed al suo impiego88, essi sono accomunati dal ruolo che la lingua svolge al loro interno che, da semplice “lingua come materia”, assume la natura di “lingua delle altre materie” (cfr. §2.4.1), caratterizzata da specifici tratti (Vollmer, 2010: 276, trad. it.): - formalità: ricorre ad uno stile più formale, soprattutto nel testo scritto;
Come si precisa nella Guida per i curricoli (Beacco, 2016), si può ad esempio prevedere, a seconda del tipo di metodologia impiegata: - un’esclusione quasi totale della prima lingua degli studenti (immersione); - l’uso di una lingua seconda o straniera in attività, progetti o moduli riguardanti le discipline non linguistiche (CLIL/EMILE); - l’uso alternato delle lingue nell’insegnamento di una materia o nell’insieme del curricolo; - il sostituirsi delle lingue nell’insegnamento delle materie nel corso del tempo. 88
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specificità: fa riferimento a precisi campi semantici e utilizza termini specifici per designare i concetti; astrattezza: seleziona termini più astratti in riferimento alla collocazione di verbi ed avverbi (ad esempio, “subisce un incremento esponenziale” in luogo di “cresce più velocemente”); esplicitezza: utilizza una lingua più esplicita e dettagliata, a seconda della forma del discorso; coesione: idee, frasi e parti di frasi sono strettamente legate tra loro attraverso l’uso di pronomi, la subordinazione, la ripresa di termini, ecc.; coerenza: è più coerente e orientata allo scopo in riferimento alla struttura del testo e del discorso.
Si tratta dunque di una competenza linguistica di livello più elevato (CALP) che non riguarda i soli ambiti di applicazione della metodologia CLIL/EMILE, ma una pluralità di contesti educativoformativi dove sia implicato l’insegnamento delle discipline scolastiche, nei contesti bi/plurilingui come in quelli monolingui. Si comprendono dunque le potenzialità dell’applicazione di una DIL all’insegnamento delle discipline, quando volta a reperire e a far riflettere su aspetti di similarità e di differenziazione tra i linguaggi specifici delle discipline affrontate attraverso la lingua di scolarizzazione e di quelli appresi attraverso una o più LS veicolari. Nel Carap si precisa inoltre che “alcune modalità di educazione bilingue (o plurilingue) che si prefiggono di ottimizzare le relazioni tra le lingue utilizzate (ed il loro apprendimento) per costruire una vera competenza plurilingue” possono effettivamente ritenersi affini alla DIL (Candelier et al., 2012: 7, trad. it.). La stessa metodologia CLIL/EMILE attuale si è in parte affrancata da una concezione forte o monolingue che privilegiava l’immersione totale nella lingua veicolare, avvicinandosi di fatto ad una didattica integrata L1-LS che valorizza il transfer e l’alternanza linguistica piuttosto che proibirla (cfr. David, 2011). Ne è testimonianza, ad esempio, lo studio di Nikula e Moore (2019) sull’interazione in varie classi CLIL europee (Austria, Finlandia, Spagna), in cui emerge la presenza di pratiche plurilingui o di translanguaging (cfr. cap. 6), spesso inconsapevoli o non pianificate in precedenza da parte del docente. A partire dalle strategie emerse, gli autori suggeriscono che il ricorso alla L1 degli apprendenti
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possa costituire un valido strumento e una risorsa di apprendimento anche nel contesto dell’insegnamento bilingue89. In sintesi, affinché un insegnamento bi/plurilingue possa considerarsi anche “plurale”, le lingue coinvolte dovrebbero essere in qualche modo compresenti − se non addirittura “alla pari”, come suggerisce De Pietro (2014) − in modo che ciascuna possa fungere da specchio all’altra e collaborare insieme al potenziamento delle abilità metalinguistiche dell’apprendente. L’implementazione di strategie di code-switching pianificate che prevedano il ricorso alla L1 per specifici scopi didattici implica infatti un’«economia cognitiva» da parte dell’apprendente (cfr. Coste et al., 2007 e §2.4.2), il quale viene invitato a mettere in relazione nozioni ed espressioni specialistiche affrontate in due o più lingue veicolo di apprendimento, ma soprattutto un’«economia didattica», capace di dare unitarietà ai saperi disciplinari e all’operato del docente che se ne fa mediatore. Come sottolinea De Pietro (2014), porre l’accento sulla relazione tra le lingue-culture nell’insegnamento bi/plurilingue induce a riflettere sulla nozione stessa di pluralità che, in questo tipo di approcci, può assumere la forma della pluralità intrinseca, più specificamente riferibile alla dimensione linguistica, o della pluralità estrinseca, riferibile alle dimensioni pluridisciplinare e multimodale. Coniugando spesso i due tipi di pluralità, gli approcci plurali − DIL in particolare − sono in fondo un invito ad implementare ‘approcci olistici’ che prendano in carico l’apprendente nella sua globalità e i contesti di apprendimento nella loro complessità.
4.4 Pratiche didattiche e contesti di applicazione della DIL
In riferimento alla definizione di percorsi CLIL, si prefigurano dunque due diverse modalità di pianificazione possibili (cfr. Nikula e Moore 2019): 1) una modalità forte in cui le lingue sono sempre separate nel curricolo scolastico e nelle singole attività di classe; 2) una modalità debole, che legittima l’alternanza linguistica tra L1-LS includendola come strategia didattica nella fase di pianificazione delle attività. 89
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Rispetto alle pratiche didattiche improntate alla DIL stricto sensu, citiamo innanzitutto il progetto europeo Tertiary language learning German after English (2000-2003), promosso dal CELV di Graz, dal quale hanno avuto origine numerose sperimentazioni in diversi paesi europei, tra cui in particolare Germania e Francia. In Italia, paese non iscritto al Centro di Graz, la DIL ha trovato applicazione soprattutto nel campo dell’insegnamento del tedesco come L3 nella scuola secondaria di II grado grazie ad alcune azioni formative promosse dal Goethe-Institut. Frutto di tale orientamento è il modulo formativo Good + gut= ottimo, ideato e sperimentato dalle docenti e formatrici di lingua tedesca Maria Cristina Berger, Anna Maria Curci e Antonia Gasparro (Berger et al., 2003)90. Le attività proposte fanno leva sulle conoscenze pregresse in lingua inglese per far apprendere il tedesco come lingua terziaria, facendo in modo che risulti per l’apprendente più ‘raggiungibile’ sul piano cognitivo e psico-affettivo. Poter fare affidamento sull’inglese come lingua-ponte aiuta infatti a creare connessioni interlinguistiche, a fare ipotesi sul funzionamento della L3 e, conseguentemente, ad acquisire con maggiore sicurezza e velocità la lingua obiettivo. Si riducono così anche le inibizioni verso il tedesco, notoriamente ritenuto “lingua difficile” dagli apprendenti di lingua romanza. Per comprendere le potenzialità didattiche di questa metodologia nell’insegnamento del tedesco L3 ad alunni che possono contare su un buon livello di conoscenza della lingua inglese è utile ricorrere a qualche esempio: un primo utile “ponte” è ovviamente dato dal lessico, in quanto le due lingue germaniche condividono un’ampia gamma di termini che si basano su internazionalismi derivanti dal latino (ad es. Universität, informieren; university, inform), che condividono radici germaniche comuni (ad es. Haus, Apfel; house, apple) o che sono dei veri e propri anglicismi (cool, City). Utili termini di paragone per evidenziare le similarità tra le due lingue saranno inoltre la dimensione strutturale, per esempio in riferimento all’ordine dei costituenti nella frase (v. ad es. le frasi interrogative a risposta sì/no con i verbi essere ed avere, le frasi imperative, l’aggettivo in posizione attributiva ecc.), o altri elementi grammaticali simili come la forma comparativa (es. schnell, schneller/fast, faster; mehr, am meisten/ Si veda il paragrafo successivo per un esempio di attività tratto dal modulo in oggetto. 90
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more, most) e l’alternanza vocalica nei paradigmi verbali (es. singen sang - gesungen; sing - sang - sung) solo per citare gli aspetti più evidenti91. Riportiamo di seguito un esempio di attività tratta da Berger e Colucci (2003) utile a capire come le competenze lessicali e fonetiche acquisite attraverso l’inglese possano essere sfruttate nelle prime fasi di apprendimento del tedesco come L3. Attività n. 5: “The Speech-bike – Das Sprachrad” L’attività proposta mira a rendere gli studenti consapevoli delle affinità lessicali esistenti tra numerose parole del tedesco e dell’inglese, facendo notare le corrispondenze tra le consonanti delle due lingue, riportate nelle ruote della bicicletta (fig. 12). Data una lista di parole in inglese, gli studenti devono reperire quelle che hanno lo stesso significato delle parole tedesche inserite in alcuni dei fumetti, collocandole poi nei corrispondenti spazi vuoti.
Fig. 12 – “The Speech-bike–Das Sprachrad” (Berger, Colucci, 2003, in Berger, 2006: 146)
Per approfondire si veda in particolare Berger (2006), da cui sono ripresi alcuni degli esempi. 91
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L’attività permette l’acquisizione di nuovo lessico ma sollecita al contempo una riflessione sulle specificità fonetiche e grafemiche delle due lingue, richiamando l’attenzione sugli aspetti che le differenziano. Esistono infatti a questo livello più differenze che somiglianze tra inglese e tedesco, che potrebbero aumentare le occasioni di transfer negativo a livello fonologico.
Alcuni studi (v. ad es. Lay e Merkelbach, 2011) hanno sottolineato come una DIL che sfrutti l’inglese come lingua-ponte possa essere di notevole aiuto soprattutto con apprendenti la cui L1 è tipologicamente lontana dalla L3, come è il caso di molti studenti di origine orientale ed asiatica che apprendono una lingua europea. Più la lingua obiettivo è affine all’inglese, più questa lingua può svolgere la sua funzione di lingua-ponte92. Sulla scia di questi studi, tra il 2003 e il 2013 vengono realizzati una serie di materiali didattici (manuali, grammatiche, moduli online… ) in diverse lingue europee, fondati sull’impianto teorico della DIL e volti a sfruttare le lingue già note dagli apprendenti come risorse didattiche93. Oltre al già citato Gut+good = ottimo, si segnalano il manuale Deutsch ist easy! (Kursiša e Neuner, 2006), rivolto ad adolescenti ed adulti principianti di lingua tedesca con conoscenza dell’inglese L1 o L2; i manuali per apprendenti germanofoni Découvrons le français (Rückl et al., 2013a) e Scopriamo l’italiano (Rückl et al., 2013b) che, ispirandosi ai principi della didattica integrata, propongono un metodo “interlinguale” con frequenti confronti tra la lingua obiettivo ed altre lingue romanze. Sebbene la DIL trovi la sua applicazione più naturale nell’educazione di adolescenti ed adulti che possono fare riferimento sulla conoscenza di almeno una LS, questa metodologia può adattarsi anche ad altri pubblici e contesti educativi in dipendenza del tipo di lingue coinvolte, del livello di conoscenza di ciascuna di esse e, naturalmente, del grado di complessità delle attività proposte. A tal proposito è utile esaminare l’esperienza svizzera, nei cui tre grandi piani di studio regionali (il Plan d’Etudes Romand, il Lehrplan Rimandiamo al capitolo successivo sulla didattica dell’intercomprensione per un approfondimento sul ruolo della lingua-ponte quando questa fa parte di un gruppo linguistico diverso da quello della lingua bersaglio (per es. l’inglese per apprendenti di italiano L2/LS). 93 Per ulteriori fonti si rimanda alla bibliografia sul tema a cura di Candelier et al. (2014). 92
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21 e il recente Piano di studio per la scuola dell’obbligo ticinese94), la DIL è citata come metodologia principale ai fini dello sviluppo di una competenza plurilingue ed interculturale, attuabile già a partire dal 2° ciclo della scuola ticinese (corrispondente al 2° ciclo della scuola primaria italiana)95. Per mezzo della DIL le strategie di osservazione e di confronto acquisite nel 1° ciclo grazie all’EAL, permettono nel 2° ciclo di sviluppare e potenziare strategie di apprendimento comuni a tutte le lingue, incluso il francese. Queste vengono poi precisate ed ampliate nel 3° ciclo, in cui inizia lo studio di ulteriori lingue straniere (tedesco e inglese).
Fig. 13 – Ruolo della DIL nei piani di studio svizzeri (DECS, 2015: 114)
Come si evince dalla metafora dell’albero riportata in figura 13, l’italiano rappresenta in tutto il percorso scolastico la lingua principale e centrale del processo di sviluppo della competenza plurilingue e pluriculturale, seppure con il progredire dei cicli scolastici sia dato sempre più peso alle LS. Allo stesso modo la DIL, come d’altronde l’EAL, potrebbe trovare spazio nel contesto scolastico italiano, con lo scopo di attualizzare concretamente quanto promosso dalle Indicazioni nazionali a riguardo del ruolo della L1 e delle altre lingue nel curricolo plurilingue, come discusso nel capitolo 2. Puntando
Cfr. Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport (DECS, 2015). Il modello scolastico cantonale prevede la frequenza di due anni obbligatori di scuola dell’infanzia o 1° ciclo (più un eventuale anno facoltativo a partire dai tre anni), cinque anni di scuola primaria (2° ciclo) e quattro di scuola media (3° ciclo). 94 95
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soprattutto sul principio dell’anticipazione, sarà possibile attuare una DIL che si adatti anche alle competenze cognitive degli apprendenti del 2° ciclo della primaria, sfruttando in particolare la L1 (e le sue varietà) come termine di paragone interlinguistico e veicolo della riflessione (meta)linguistica. Facendo invece leva sul principio di retroazione e, quindi, sulle conoscenze e competenze pregresse in almeno una LS, essa risulterà particolarmente adatta per gli apprendenti della scuola secondaria o di altri contesti di educazione degli adulti e giovani adulti. Rispetto infine ai già citati livelli di DIL indicati nel DERLE, dopo una prima fase preliminare, in ambito scolastico potranno essere implementate attività plurilingui attraverso cui stimolare una riflessione interlinguistica ed interculturale su determinati aspetti linguistici (es. lessico, morfologia…), sociolinguistici (es. come ci si rivolge ad estranei…) o pragmatici (es. formule e modi per salutare) che coinvolga 2 o 3 lingue del curricolo scolastico. In seguito, “[a]d un livello più avanzato, si possono individuare acquisizioni linguistiche in italiano (connettivi testuali, variazioni di registro, ecc.) da riproporre in lingua straniera per favorire il transfer da una lingua all’altra” (Calò, 2015: 225). Va tuttavia precisato che il livello più avanzato della DIL può risultare una sfida notevole nella scuola secondaria italiana, dove la progettazione comune di attività e percorsi tra docenti di diversa disciplina non sempre è facilmente attuabile. Ciò nondimeno una DIL è in questo contesto più che desiderabile, in quanto aiuterebbe a sostenere lo sviluppo delle abilità metalinguistiche e a valorizzare le strategie di transfer tra le lingue del curricolo, attuate spesso in modo spontaneo ed autonomo dagli alunni adolescenti. In mancanza di una formazione iniziale specifica dei docenti della scuola su questi temi, corsi di aggiornamento e progetti ministeriali possono incentivare la collaborazione e la produzione di materiali cooperativi ed interdisciplinari da parte dei docenti di area linguistica, sull’esempio del Piano nazionale di formazione Educazione linguistica e letteraria in un’ottica plurilingue – Poseidon (PON 2007-2013)96.
Cfr. Educazione linguistica e letteraria in un’ottica plurilingue – Poseidon, corsi brevi. Guida all’attuazione: http://pon.agenziascuola.it/iscrizioni/5.pdf. 96
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Al di là dell’insegnamento del tedesco L3, nel nostro Paese la DIL non ha avuto grande diffusione. Essa può tuttavia rivelarsi un approccio di particolare utilità, ad esempio nei contesti di educazione degli adulti, come gli studenti di italiano L2 in mobilità internazionale e, laddove sia garantito un livello adeguato di conoscenza della lingua-ponte, gli apprendenti di italiano L2 in contesto migratorio97.
Sul ruolo dell’inglese e del francese come lingue-ponte per l’apprendimento dell’italiano L2 in contesto migratorio rimandiamo inoltre a Cognigni (2019b). 97
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Capitolo 5. L’intercomprensione tra lingue affini come approccio didattico
5.1 L’intercomprensione tra lingue affini: una definizione L’intercomprensione tra lingue affini (d’ora in poi IC), prima di essere un approccio plurale, è una pratica comunicativa sociale, una forma di comunicazione plurilingue spontanea in cui ciascun interlocutore si esprime nella propria lingua, impegnandosi a farsi comprendere e sforzandosi al contempo di comprendere la lingua degli altri (cfr. De Carlo e Anquetil, 2011; Degache, 2009). La prima comparsa del termine intercomprensione si attesta già all’inizio dello scorso secolo in un lavoro del dialettologo francese Ronjat che utilizza il termine in riferimento al rapporto tra provenzale e franco-pronvenzale (Escudé, 2016). Il termine resta poi a lungo nell’ambito dell’etnolinguistica e della dialettologia prima di apparire come denominazione specifica nei progetti europei sulla didattica dell’IC nella seconda metà degli anni ’90, con i progetti pionieri a cura di Claire Blanche-Benveniste (EuRom4) e di Louise Dabène (Galatea). Mentre in ambito anglofono troviamo numerose denominazioni tra cui ad esempio mutal/inherent intelligebility, semicommunication, receptive multilingualism, solo per citare le più diffuse98, in ambito romanzo prevale invece la denominazione di intercomprensione (intercompréhension, intercomprençao, intercomprención….), in cui il prefisso inter- sottolinea il rapporto di reciprocità tra le lingue implicate. È proprio nell’intento di valorizzare le lingue europee che, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, l’UE sostiene ideologicamente ed economicamente la ricerca applicata in questo ambito, facendo dell’IC un baluardo a salvaguardia della diversità linguistica e culturale dell’Unione al fine di limitare l’egemonia totalizzante della lingua inglese99. Tale orientamento ha portato allo sviluppo di numerose ricerche ed azioni formative, tra cui ricordiamo in particolare i progetti della Per una rassegna delle numerose denominazioni con cui l’IC si è diffusa in diverse lingue, si vedano Cortés Velásquez (2015), Bonvino e Cortés Velásquez (2016a). 99 Sulla politica linguistica europea in rapporto al plurilinguismo si veda in particolare il cap. I di Jamet e Caddéo (2013), cui si rimanda. 98
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cosiddetta saga “Gala” (Galatea, Galanet e Galapro)100, EuRom4 ed Eurom5, Ariadna/Minerva che, insieme ad altri101, hanno permesso la teorizzazione dei principi didattici dell’approccio plurale noto come “intercomprensione tra lingue affini”: L’intercomprensione tra lingue affini prevede un lavoro parallelo su due o più lingue che appartengono ad una stessa famiglia (lingue romanze, germaniche, slave, ecc.) sia che si tratti della famiglia alla quale appartiene la lingua madre dell’apprendente (o la lingua di scolarizzazione) sia che si tratti della famiglia di una lingua che egli ha appreso come lingua straniera (Candelier et al., 2012: 7, trad. it.)
Da questa definizione che ne dà il Carap, si possono evincere alcuni assunti di base che caratterizzano l’intercomprensione tra lingue affini, tra cui i concetti di famiglia linguistica e di comparazione interlinguistica, ma soprattutto i principi di prossimità, simultaneità ed immersione (Jamet e Caddéo, 2013: 50-58), discussi nel paragrafo successivo. Sebbene il focus della didattica dell’IC siano principalmente le abilità di ricezione (cfr. §5.2), vedremo come, nel corso degli anni e delle sperimentazioni che si sono susseguite, il campo di studi dell’IC si sia via via arricchito fino a comprendere l’abilità di interazione (cfr. §5.3). Verranno infine discussi i principali contesti di applicazione di questo approccio, con particolare riferimento alla classe plurilingue.
5.2 Intercomprensione e abilità di ricezione Nella sua accezione più nota, l’IC mira a facilitare la comprensione di lingue mai studiate prima sulla base delle affinità intercorrenti tra le lingue già note e la/e lingua/e obiettivo. I primi studi e sperimentazioni didattiche si sono occupati prevalentemente di lingue appartenenti alla stessa famiglia linguistica o “imparentate”, tra le È presente una diversificazione progressiva nei vari programmi “Gala”: Galatea offre un approccio consecutivo e per coppie di lingue alla comprensione dello scritto, Galanet permette scambi scritti sincroni o asincroni in più lingue, mentre Galapro è pensato per la formazione degli insegnanti all’IC (cfr. Carrasco Perea et al., 2010). 101 Per un’analisi più approfondita dei vari progetti sull’IC e delle relative risorse didattiche si rimanda a De Carlo e Anquetil (2011), Benucci (2015), Escudé e Janin (2010), Jamet e Caddéo (2013). Si veda inoltre il paragrafo 5.4 per una presentazione sintetica di alcune risorse online rivolte a diverse tipologie di apprendenti. 100
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quali il grado di intercomprensibilità è chiaramente maggiore. Oltre ai succitati progetti sulle lingue romanze, il progetto IGLO (Intercomprehension in Germanic Languages Online, 1999-2002) è stato uno dei primi a sfruttare tale principio e a trasformare l’IC da pratica comunicativa consolidata nei paesi scandinavi ad applicazione didattica. Esito del progetto è un programma web-based che promuove l’IC ricettiva scritta di 7 lingue germaniche (inglese, tedesco, olandese, norvegese, svedese, danese e islandese), il cui target è il parlante nativo di una di queste lingue (Mondahl, 2002, cit. in Doyé, 2005). Quando la famiglia o gruppo linguistico è lo stesso della L1 dell’apprendente (ad es. il gruppo delle lingue romanze per gli italofoni), il processo di IC sarà particolarmente efficace in quanto si fa leva su ciò che si conosce già bene, la propria L1. Poiché la comprensione è un processo globale che si fonda anche su conoscenze e competenze extra-linguistiche, va precisato che questo principio di prossimità può essere efficacemente applicato anche ad altri gruppi linguistici, di cui l’apprendente conosca almeno una lingua. Tale L2/LS assume così la funzione di lingua-ponte o “passerella” verso le altre lingue “sorelle” della medesima famiglia (Meissner et al., 2004), facilitandone la comprensione. Ne deriva che, ad esempio, un germanofono che conosce il francese o un anglofono con una buona competenza dello spagnolo possano sfruttare queste risorse per accedere alla comprensione di altre lingue romanze. Il processo di comprensione sarà meno immediato che nel primo caso ma comunque efficace se il docente stimolerà adeguatamente i processi di transfer102. Dopo i primi progetti gli studi sull’IC hanno ampliato i propri orizzonti di ricerca occupandosi anche dell’intercomprensione tra “lingue vicine”, ovvero quelle lingue che, non necessariamente appartenenti allo stesso gruppo linguistico, condividono affinità linguistiche per ragioni di tipo geografico o storico. È questo il caso del francese e dell’inglese che, per motivi storici, hanno in comune un ampio lessico a base latina (cfr. Grzega, 2005), o dell’olandese che, per alcuni aspetti, sembra essere più vicino al francese che non all’inglese (Willems, In virtù di tale diversità, alcuni autori stabiliscono una differenza tra i concetti di lingua-deposito (langue dépôt: Klein, 2004), una lingua di appoggio imparentata con quella obiettivo (ad es. il francese come base verso l’italiano), e di linguapasserella, intesa come lingua non ufficialmente imparentata, ma comunque utile come base di passaggio, come per esempio l’inglese per accedere alla comprensione del francese (cfr. Klein e Reissner, 2006). 102
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2002, in Jamet e Caddéo, 2013: 52). L’inglese, in quanto lingua germanica più affine al gruppo romanzo ed in particolare al francese, può quindi diventare una “risorsa” in un contesto d’IC, il cui potenziale è stato studiato e dimostrato in vari ambiti formativi103. A certe condizioni è tuttavia possibile comprendere anche una “lingua lontana”, ovvero né imparentata né vicina, facendo leva sugli indizi extralinguistici, la propria conoscenza del mondo e tutto ciò che permette di attivare l’expenctancy grammar104. Tra i vari progetti che hanno basato le proprie proposte didattiche su questa consapevolezza, ricordiamo InterCom (2006-2009), che ha come obiettivo principale lo sviluppo di strategie generali di comprensione scritta di livello A2 in lingua tedesca, bulgara, greca e portoghese (Capucho e Lungu, 2009), o il progetto EU&I (European Awareness and Intercomprehension, 2002-2005), che mette in gioco ben 11 diverse lingue attraverso attività di IC ricettiva scritta ed orale (Capucho e Oliveira, 2005). Attraverso delle attività interattive e dei suggerimenti strategici di guida alla comprensione, gli utenti vengono messi in condizione di comprendere materiali per lo più autentici, contribuendo a rendere più familiari lingue come il bulgaro o il turco, generalmente percepite come “lontane” da parlanti romanofoni. A tale riguardo Escudé e Janin (2010) mettono in rilievo l’importanza di un atteggiamento positivo verso il contatto tra lingue, definendolo come intenzionalità del parlante: più le lingue sono percepite come vicine e, quindi, tra loro intercomprensibili, più l’IC sarà favorita e praticata. Paradigmatico è in tal senso l’esempio del “policentrismo linguistico” che caratterizza i paesi scandinavi, in cui l’intelligibilità tra gran parte delle varietà linguistiche presenti è supportata da un comune senso di appartenenza, il quale permette che l’IC si faccia pratica comunicativa corrente (cfr. Escudé e Janin, 2010: 38). Come altri approcci plurali, la didattica dell’IC si caratterizza quindi per un lavoro parallelo su più lingue. Questo principio della simultaneità distingue l’IC da approcci più diffusi o singoli, in cui si affronta separatamente l’apprendimento/insegnamento di una lingua; Oltre al già citato Grzega (2005) si vedano i contributi di Klein e Reissner (2006), Klein (2008), Robert (2011), Hemming et al. (2011), Melo-Pfeiffer (2014), Cognigni (2019b). 104 Si tratta chiaramente di competenze e conoscenze attivate anche nel processo di comprensione in generale o nell’intercomprensione di lingue imparentate e vicine, ma che in attività di IC tra lingue lontane diventano prioritarie perché le trasparenze interlinguistiche sono meno evidenti. 103
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al contempo, esso accomuna l’IC alla DIL, con la quale condivide l’intento di approfondire l’acquisizione di più lingue in modo integrato105. L’obiettivo centrale dell’IC è però la comprensione, realizzata appunto attraverso l’accostamento contemporaneo a più lingue; ciò − contrariamente a quanto si possa pensare − non comporta confusione o sovraccarico cognitivo ma, al contrario, facilita l’apprendimento e promuove lo sviluppo delle strategie di comprensione (cfr. infra), che potranno poi essere messe a frutto per lo studio di altre lingue. Oltre a potenziare le abilità di comprensione scritta, attraverso la lettura e l’analisi comparata di più lingue la didattica dell’IC permette di attivare il processo di memorizzazione delle ‘nuove’ lingue implicate, mantenendo al contempo attive le conoscenze nelle lingue di cui si ha una competenza almeno parziale. In questo contesto di simultaneità assume particolare importanza la comparazione interlinguistica, un procedimento tipico della linguistica comparativa che conduce a mettere in relazione più sistemi linguistici evidenziandone differenze e somiglianze. È in particolare Louise Dabène (1996) a porre l’accento sulla necessità di una “contrastività rivisitata”, che non sia cioè focalizzata sulle zone di divergenza al fine di prevenire l’errore, ma si fondi sul ruolo facilitante della competenza in L1 nella costruzione del senso, la quale svolge una funzione di guida nei processi di inferenza. Varie ricerche e pratiche didattiche sull’impiego simultaneo di più lingue nelle attività di riflessione meta/interlinguistica hanno dimostrato come tale processo possa essere condotto proficuamente a più livelli linguistici. È da queste premesse che prende le mosse il metodo EuroCom, fondato sulla metafora dei sette “setacci”, ovvero dei filtri che permettono di focalizzare l’attenzione sulle numerose affinità esistenti tra le lingue, che si tratti di lingue imparentate o vicine. In modo specifico al gruppo romanzo (cfr. Klein e Stegmann, 2001; McCann et al., 2002), i setacci o livelli su cui fondare la comparazione interlinguistica sono stati così definiti: 1. il lessico internazionale presente in molte lingue di famiglie differenti (come ad es. metro, taxi, ecc.); 2. il lessico “panromanzo”, che permette di operare transfer immediati tra lingue appartenenti alla stessa famiglia Rispetto alla DIL, nell’IC è generalmente diverso il numero delle lingue coinvolte che possono essere anche 4 o 5, come nei noti progetti Eurom4 e Eurom5, o anche in numero superiore, come nei succitati progetti IGLO e Eu&I. 105
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(es. costituzione, constitution, costituiçao…); 3. le corrispondenze fonetiche; 4. le convenzioni grafiche e la pronuncia; 5. le strutture sintattiche panromanze; 6. gli elementi morfosintattici; 7. i prefissi e i suffissi di origine greca o latina, definiti “eurofissi” (per es. i suffissi – ione, –ion, -ión, ecc. nella formazione di alcuni sostantivi). La diffusione del metodo EuroCom ha permesso la pubblicazione di alcuni manuali riguardanti i tre grandi gruppi linguistici europei (EuroComRom per le lingue romanze, EuroComGerm per le lingue germaniche e EuroComSlav per le lingue slave), più un volume sull’inglese come lingua-ponte verso le lingue romanze (Hemming et al., 2011)106. A titolo di esempio, si riporta di seguito una tabella utile a comprendere i parallelismi che si possono stabilire a livello grafofonetico tra la lingua inglese e le principali lingue romanze, chiarendo come la prima possa diventare un ‘ponte’ per accedere alle seconde. Inglese august cavalry faculty (folio) juvenile message nation night
Francese août cheval faculté feuille jeune message nation nuit
Italiano agosto cavallo facultate foglia giovane messaggio nazione notte
Catalano agost cavall facultat fulla jove missatge nació nit
Portoghese agosto cabalho faculdade folha jovem mensagem nação noite
Spagnolo august caballo faculdad hoja joven mensaje nación noche
Tab. 2 – Corrispondenze grafo-fonetiche tra inglese e lingue romanze (adattato da Klein e Reissner, 2006: 57)
Un altro importante principio che caratterizza la didattica dell’IC è il principio di immersione (Jamet e Caddéo, 2013: 57-58): l’apprendente viene ‘immerso’ nelle lingue implicate senza che ci sia stato precedentemente un apprendimento esplicito, almeno di buona parte di esse. La comprensione è possibile non solo grazie alle affinità tra le lingue messe in gioco e quelle del repertorio linguistico dell’apprendente, ma anche alle strategie e competenze maturate attraverso la propria esperienza di lettore e di apprendente di LS.
Sul ruolo dell’inglese come lingua-ponte verso le lingue romanze si vedano anche Grzega (2005) e Klein (2008); sul ruolo dell’inglese come lingua-ponte verso altre lingue germaniche si rimanda inoltre a Berger (2006), Marx (2012) e Pietzonka (2013). 106
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Il principio di immersione sfrutta tali strategie e competenze, attivando l’interscambio tra diversi processi afferenti ai due emisferi cerebrali: - un processo dall’alto o top-down (emisfero destro), attraverso il quale l’apprendente è invitato a considerare il senso globale del testo, facendo leva sull’inferenza, sulle abilità di lettura già acquisite nella L1 o in altre lingue e sulla propria conoscenza del mondo, fino ad arrivare alla formulazione di ipotesi, di verifica e di interpretazione del senso globale del testo; - un processo dal basso o bottom-up (emisfero sinistro) che permette la decodifica del testo (il riconoscimento delle lettere, la combinazione di lettere in parole, il riconoscimento di gruppi logici di significato ecc.), individuando le corrispondenze linguistiche intercorrenti tra la lingua obiettivo e le lingue già note107. Le conoscenze e competenze linguistiche pregresse sono dunque fondamentali, ma la capacità di creare transfer va promossa ed allenata attraverso specifiche strategie (cfr. riquadro n. 2). Al principio di immersione fa da sfondo l’assunto dell’autenticità: i testi utilizzati non sono graduati o semplificati come è consuetudine negli approcci ‘singoli’, ma sono tratti dalla vita reale senza che vi sia stato un precedente adattamento o semplificazione del testo. Nella didattica dell’IC la calibrazione dell’apprendimento è ugualmente presente ma avviene in modo differente: sono presi in considerazione elementi come la lunghezza e le caratteristiche generali del testo108, il grado di trasparenza/opacità del lessico e delle strutture morfosintattiche presenti rispetto a quelle note agli apprendenti, ma soprattutto l’impiego di specifiche tecniche di facilitazione che guidino la comprensione e permettano un lavoro induttivo e trasversale sulle lingue considerate. A tale proposito è utile approfondire le modalità di guidare alla comprensione scritta utilizzate dal noto metodo Eurom5 (Bonvino et al., 2011), che mira all’apprendimento ricettivo simultaneo di cinque lingue romanze (portoghese, spagnolo, catalano, italiano e francese).
Per approfondire i processi e le fasi di lettura tipici dell’IC si rimanda a Bonvino e Cortés Velásquez (2016b) e al riquadro di approfondimento n. 2. 108 Ad esempio, la riconoscibilità dei tipi e generi testuali e delle strutture discorsive in essi presenti, la presenza di immagini e di altri elementi paratestuali, ecc. 107
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Riquadro n. 2: Fasi di una sessione IC con il metodo Eurom5 Una sessione di lavoro con EuRom5 è strutturata generalmente in 4 fasi, in cui si passa dall’ascolto alla lettura del testo, ricorrendo gli ausili alla comprensione forniti nel manuale cartaceo o nella sua versione digitale solo nei casi di effettiva difficoltà di comprensione. Riportiamo qui di seguito le fasi principali del metodo mettendo in evidenza le strategie di IC sollecitate (cfr. Bonvino e Fiorenza, 2011; Bonvino e Cortés Velásquez, 2016b). Fase 1 (ascolto del testo oralizzato): in una prima fase di approccio al testo si propone la lettura in classe del brano, integrandola all’ascolto del testo oralizzato. Questo duplice accostamento al brano non solo permette un primo approccio globale al testo utile a coglierne le informazioni principali, ma può aiutare a capire qual è la costruzione della frase (ad es. attraverso l’intonazione o la segmentazione della frase in gruppi di parole) o a disambiguare alcune parole dalla grafia opaca. Fase 2 (lettura globale del testo): un aiuto importante alla comprensione globale del testo è dato dalla traduzione plurilingue del titolo, utile a fornire un primo contesto e a chiarire eventuali parole chiavi importanti per l’accesso al senso. Segue quindi una prima lettura silenziosa dell’intero testo in una delle lingue obiettivo, che permetterà di sollecitare negli apprendenti ipotesi ed inferenze sul contenuto dell’articolo e sul significato degli elementi linguistici in esso presenti. Fase 3 (trasposizione del testo in L1): a questo punto si procederà con un approccio più analitico o bottom-up al testo in cui gli apprendenti sono invitati a fare una sorta di “traduzione all’impronta” del testo, paragrafo per paragrafo, dando voce ai propri processi cognitivi, ovvero alle ipotesi e alle strategie messe in atto per comprendere il testo. Questa procedura, che richiama la tecnica del think-aloud protocol109, permette di verificare l’effettiva comprensione del brano e, al contempo, di condividere in classe le strategie utilizzate durante la lettura. In tal modo il significato del testo viene co-costruito dal gruppo classe con la guida dell’insegnante che potrà proporre eventuali attività di problem solving da condurre in modo individuale, per piccoli gruppi o in plenum.
Per approfondire il ruolo del think-aloud, ovvero della verbalizzazione orale dei processi di comprensione del lettore nella metodologia EuRom5, si rimanda a Bonvino e Cortés Velásquez (2016b). 109
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Fase 4 (consultazione dei sussidi alla comprensione): se la comprensione dettagliata risulterà difficoltosa si potrà ricorrere ad uno o più aiuti forniti a seconda delle specifiche necessità: -
-
-
Aiuti strategici: questa funzione attiva strategie per comprendere le cosiddette “parole fantasma”, parole oscure che possono bloccare la comprensione. L’apprendente è stimolato ad interpretare il significato della parola mancante desumendolo dal contesto. Aiuti strutturali: sono aiuti che permettono al lettore di orientarsi sin da subito nel testo, ad esempio facendogli individuare in modo intuitivo la posizione di soggetto, verbo e complemento in alcuni periodi sintatticamente più complessi, ed avere così un rapido accesso alla comprensione. Altri aiuti strutturali forniscono tabelle di comparazione plurilingui di aspetti grammaticali o fraseologici specifici, inducendone la decodifica a partire dalla/e lingua/e nota/e. Nel caso in cui gli aiuti strutturali precedenti non abbiano permesso una completa decodifica del messaggio, è possibile inoltre ricorrere a traduzioni plurilingui, utilizzate in particolare in presenza di parole ‘opache’ o di espressioni idiomatiche che possono bloccare la comprensione. Rinvii grammaticali: questa funzione permette di rinviare a delle tavole comparative con spiegazioni delle regole grammaticali nelle diverse lingue romanze. In tal modo si consente al lettore di ricostruire le regolarità e le corrispondenze delle lingue implicate. Se richiesto dagli apprendenti, è possibile fornire spiegazioni linguistiche ma sempre in un’ottica comparativa ed induttiva in cui quanto già noto in altre lingue aiuta una più rapida fissazione delle regole nella lingua oggetto di comprensione. L’obiettivo non è infatti di “insegnare” la grammatica delle 5 lingue ma di introdurre il lettore ad una “grammatica della lettura” utile ad orientarsi in presenza di specifiche criticità.
Si noti che il metodo Eurom5 si fonda sul concetto di ‘trasposizione’ e non semplicemente di traduzione nella L1. Come sottolinea BlancheBenveniste (2005), l’approssimazione nella comprensione, strategia tipica del lettore competente in L1 ma mal tollerata nella didattica delle LS – e tanto meno nella didattica della traduzione –, è invece un tratto caratterizzante della didattica dell’IC, che la distingue da altri approcci e metodi più tradizionali esigente una comprensione e traduzione
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dettagliata e precisa del testo fin dai primissimi livelli110. Promuovendo l’approssimazione come pratica naturale di acquisizione linguistica, l’IC allena la tolleranza verso la diversità linguistica e culturale e il superamento di quel disagio linguistico tipico di chi si avvicina ad una lingua “straniera” per la prima volta111. L’IC promuove piuttosto la curiosità e l’apertura verso le altre lingueculture (comprese quelle non ufficiali cui viene data pari dignità) e un atteggiamento esplorativo nei confronti dell’apprendimento linguistico. Si comprendono pertanto le potenzialità dell’IC come approccio introduttivo e/o in affiancamento a quelli più consueti o ‘singoli’ nei più svariati contesti educativi (v. §5.4). Coerentemente con quanto sopra esposto, la didattica dell’IC si caratterizza per una diversa progressione delle abilità linguistiche. Nell’insegnamento delle lingue, almeno sul piano teorico, si promuove generalmente uno sviluppo progressivo più o meno parallelo delle diverse abilità linguistiche a partire dai livelli più bassi definiti dal QCER. In un’ottica intercomprensiva le abilità linguistiche sono invece in evidente dissimmetria in quanto si privilegiano le strategie di ricezione scritta e orale dell’apprendente. Il modello di progressione delle abilità fondato sull’IC richiamato nella tabella 3112 chiarisce come la ricezione scritta e quella orale si collocano sin dall’inizio ad un livello intermedio in un contesto d’IC. Poiché si basa sull’uso di materiali autentici e sullo sfruttamento delle conoscenze pregresse, l’IC permette infatti di partire sin da subito da un livello relativamente alto, soprattutto per l’abilità di lettura (A2-B1), facendo in modo che l’apprendente possa raggiungere in breve tempo (20-30 ore) un livello B1-B2 del QCER nell’abilità di ricezione scritta.
Si pensi ad esempio al metodo grammatico-traduttivo o al Reading Method (cfr. Balboni, 2015), ancora oggi presenti in alcuni corsi accademici di lingue straniere. 111 La nozione di disagio linguistico, meglio nota come insicurezza linguistica, è stata prevalentemente studiata nell’ambito della psicologia sociale e, successivamente, della sociolinguistica quale esito del contatto tra le varietà di una medesima lingua e, in misura minore, come risultato dei rapporti di forza tra lingue differenti. Per una discussione più dettagliata si vedano i contributi di Bulot (2011) e Cognigni (2014b). 112 Il modello è ripreso da Cortés Velásquez (2015) che rielabora a sua volta una precedente versione a cura di Meissner. 110
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Tab. 3 - Progressione delle abilità basata sull’IC (Cortés Velásquez, 2015: 111)
Come mostra la freccia in entrambe le direzioni per lettura ed ascolto nella tabella 3, gli apprendenti dovranno tuttavia acquisire anche gli elementi previsti nei livelli più bassi. Questo perché, in virtù della comune radice latina o greca di molto lessico panromanzo, in un contesto IC sarà più facile comprendere un linguaggio specialistico e meno diffuso piuttosto che uno ad alta frequenza, tipico della varietà standard e dei sillabi dei primi livelli linguistici. Gli apprendenti romanofoni di italiano L2/LS potranno dunque più facilmente (inter)comprendere gli aggettivi “oculare” (dal latino oculus) o “oftalmico” (dal greco ophtalmikos), simili ai rispettivi aggettivi nelle lingue romanze, mentre risulterà loro più opaco il termine “occhio” che, nelle loro lingue, assume grafie e/o pronunce abbastanza diverse (fr. oeil, es. ojo, pt. olho…). Alcuni studi (cfr. ad es. Jamet, 2005; 2009; Cortés Velásquez, 2015) hanno mostrato che, con maggiore variabilità a seconda dell’apprendente e del suo repertorio linguistico, lo stesso processo dell’IC ricettiva scritta possa valere anche per l’IC ricettiva orale. Le sperimentazioni condotte da Cortés Velásquez (2015), ad esempio, hanno confermato non solo che l’affiancamento dell’IC orale a quella scritta agevoli la decodifica della scrittura, ma anche che sia possibile comprendere testi orali in altre lingue affini mai studiate prima fino ad un livello B1. Particolarmente favoriti risultano gli apprendenti con L1 romanza o in situazione di bilinguismo, condizione che permette loro di fare affidamento su strategie di comprensione e di transfer consolidate (cfr. §1.3.2). Sebbene la dimensione orale sia presente anche in diversi progetti incentrati sull’IC scritta o interattiva, l’IC orale in sé ha costituito raramente l’obiettivo principale di specifici
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materiali didattici113 e rappresenta tuttora un campo di studio e di applicazione in evoluzione. Non mancano tuttavia in ambito italiano sperimentazioni e pratiche didattiche sull’IC orale, che ne hanno mostrato le diverse potenzialità sia in contesto scolastico che universitario114. I vantaggi della pratica dell’IC non si limitano però alle sole abilità di ricezione: come evidenziano le sottili linee che collegano le frecce nella tab. 3, intercorre infatti uno stretto rapporto tra le diverse abilità linguistiche. L’abilità di lettura condiziona e promuove chiaramente quella dell’ascolto, ed entrambe possono a loro volta influire positivamente sullo sviluppo di altre abilità linguistiche. Coerentemente con gli studi sull’acquisizione della L2 in cui si sottolinea che l’abilità di produzione può emergere in modo naturale a partire da quelle ricettive dopo una fase di silenzio (Krashen, 1982), è possibile quindi supporre che un’esposizione ripetuta ad un input ricco ma intercomprensibile possa avere risvolti positivi anche sul piano delle abilità di produzione e, come vedremo, su quelle di interazione (cfr. §5.3). Il fatto che si sia in grado di comprendere una lingua con cui non si ha familiarità ha inoltre importanti conseguenze anche sul senso di auto-efficacia dell’apprendente e, con esso, sulla motivazione ad apprendere. “In altri termini, imparo a capire più lingue e nasce così anche il desiderio di saperle parlare” (Bonvino e Jamet, 2016: 20).
5.3 Dall’intercomprensione all’intercomunicazione A cavallo tra i due secoli, i contorni epistemologici dell’IC cominciano a ridefinirsi aprendosi alla multimodalità e all’interculturalità. Con i progetti Ariadna I e II (1994-1999) e, successivamente, con il progetto Minerva (1999-2003) coordinati da Manuel Tost (cfr. Benucci, 2015), la pratica dell’IC viene integrata dall’uso di strumenti audio-visivi in quanto utili ausili per la comprensione delle interazioni orali, permettendo così di porre l’attenzione degli studi sull’IC anche sugli aspetti socioculturali e pragmalinguistici coinvolti nei processi di Tra questi si segnala il progetto CINCO (2011-2013) per la formazione professionale degli operatori della cooperazione europea, che ha previsto tra altri materiali anche attività specifiche per l’IC orale. 114 Per una rassegna si veda Bonvino e Jamet (2016). 113
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comprensione del parlato spontaneo e, più ampiamente, sulla dimensione interattiva. Parallelamente, con l’avvento del Web 2.0, si delinea un proficuo filone di studi e ricerca applicata orientata all’interazione in IC a distanza scritta e allo sviluppo dei processi di apprendimento cooperativo online. Facendo propri gli assunti del socio-costruttivismo, le sessioni formative promosse per oltre un decennio attraverso la piattaforma Galanet115 hanno indotto un ulteriore ampliamento di prospettiva negli studi sull’IC: “la focalizzazione non è più l’apprendimento delle lingue quanto la comunicazione tra locutori europei per scambiare opinioni su tematiche di interesse proprio, sviluppando il contatto con i vicini in Europa e superando stereotipi ed etnocentrismi” (De Carlo e Anquetil, 2011: 59). L’osservazione delle situazioni di interazione plurilingue a distanza, effettuata grazie all’ampio corpus fornito dai forum e dalle chat delle sessioni Galanet, ha così portato ad includere nel campo di indagine dell’IC lo sviluppo delle competenze interculturali e la dimensione interattiva, in particolare quando la comunicazione avviene attraverso il canale scritto. È stato osservato che nelle interazioni in IC a distanza sono presenti molte tracce dell’oralità che, come in altri contesti di comunicazione mediata dal computer (CMC), rendono la scrittura in forum una dimensione sospesa tra la varietà orale e quella scritta. Pur avvenendo attraverso il canale scritto, l’IC in interazione a distanza non rappresenta quindi un’attività utile allo sviluppo della sola ricezione scritta, ma può rappresentare un utile ponte verso l’oralità (cfr. Tudini, 2003; Álvarez e Degache, 2009). Nell’interazione sincrona delle chat, in particolare, l’uso linguistico diventa ancora meno controllato avvicinandosi piuttosto a quello che Berruto (2005) definisce “parlato grafico”. Nelle chat, infatti, si ricorre spesso a mezzi grafici per compensare gli elementi paraverbali e non verbali tipici dell’orale, come l’uso delle emoticons – e più recentemente delle emoji − per La piattaforma collaborativa Galanet, attiva fino a pochi anni fa, è l’esito di un progetto europeo (2001-2004) per la formazione all’IC interattiva scritta di adulti e giovani adulti. Ciascuna sessione, della durata di circa 4 mesi, prevedeva la partecipazione di diverse équipe dislocate in differenti paesi di lingua romanza che, attraverso le quattro fasi di lavoro previste, dovevano portare a termine un progetto comune, consistente in una rassegna stampa plurilingue e multimediale su un tema scelto collettivamente. Lo scenario formativo Galanet è stato in parte riassorbito dalla piattaforma Miriadi. Per una descrizione dettagliata del progetto si veda Degache (2004). 115
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trasmettere emozioni ed espressività, l’uso del maiuscolo per dare enfasi, il prolungamento e la ripetizione dei caratteri per simulare degli effetti di pronuncia, ecc. (cfr. Araújo e Sá e Melo, 2007). I partecipanti attivi possono quindi praticare la lingua parlata traendo profitto dalle caratteristiche del canale scritto, come ad esempio il maggior tempo a disposizione per la decodifica del messaggio, e quelli dell’interazione orale, come la riformulazione, la possibilità di negoziare il senso, ecc. Attraverso i canali della scrittura mediata dal computer (chat, social networks, ecc.), si possono acquisire inoltre atti di parola tipici della conversazione orale e informazioni culturali sulle lingue mezzo di interazione, più difficilmente reperibili nei consueti materiali didattici e che potranno rivelarsi utili in un contesto di interazione orale in presenza. Inoltre, anche gli apprendenti più insicuri o più timidi possono prendere la parola, esprimendosi in L1 o in una lingua di loro preferenza, grazie al carattere informale della conversazione e alla dimensione collaborativa del contesto di apprendimento. La pratica dell’IC interattiva online, in particolare attraverso le attività di comunicazione sincrona, può dunque costituire un primo passo verso la comunicazione orale e le sue peculiarità: essa si rivela utile non solo ai fini dello sviluppo della competenza plurilingue e pluriculturale in sé, ma ha risvolti positivi anche nello sviluppo delle competenze di produzione e di interazione nelle lingue oggetto di IC, da affinare poi con interventi più mirati. Come discusso altrove (cfr. Cognigni, 2015), l’IC interattiva online è particolarmente efficace quando ciascun interlocutore applica una serie di strategie di semplificazione e facilitazione orientate allo specifico repertorio linguistico dell’interlocutore, che rendono la propria produzione linguistica più accessibile all’altro. Tale processo, definito da Balboni (2009b) “interproduzione”, in quanto preludio all’ “intercomunicazione” si rivelerà un concetto particolarmente fecondo nella ricerca e nella pratica dell’IC (Cognigni e De Carlo, 2018). Alla luce del suo valore etico e funzionale ai fini della comunicazione plurilingue, nell’ultimo decennio la ricerca sull’IC di ambito romanzo ha riservato una crescente attenzione alla nozione di interproduzione, intesa come la capacità di saper adattare la propria produzione orale o scritta in un contesto di IC al fine di agevolare all’interlocutore la
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comprensione del messaggio, sul piano sia linguistico sia culturale116. I lavori che si sono finora occupati di definire tale concetto e le sue implicazioni (v. per es. Amoruso, 2005; Hédiard, 2009; Capucho, 2017; Cognigni, 2015; Ollivier, 2017), cui si rimanda per una discussione più ampia, prendono in rassegna delle strategie che riguardano principalmente le scelte lessicali e morfosintattiche, la gestione dei linguaggi non verbali, la gestione della dimensione grafica o degli elementi prosodici, fino a comprendere le strategie di selezione linguistica e di riparazione interazionale, particolarmente utili in un contesto di interazione plurilingue in presenza o a distanza. Già nelle raccomandazioni presenti nel progetto Galanet, nella sezione “Esprimersi nella propria lingua in modo adeguato” si invitava i ‘galanauti’ a fare uso di un linguaggio semplice e trasparente nell’interazione scritta a distanza, evitando al contempo di abbassare la qualità del messaggio o di diminuirne eccessivamente il grado di spontaneità ed autenticità. Un passo successivo si deve al già citato progetto EU&I che, tra altre attività, propone alcuni video per riflettere sulle strategie di interproduzione da mettere in atto per un’efficace interazione orale. L’uso delle tecnologie informatiche permette oggi attività interattive più sofisticate e di riprodurre a distanza uno scambio plurilingue in praesentia nella sua globalità, rendendo così possibile praticare l’intercomunicazione anche in un contesto di CMC. È questo il caso del progetto IOTT (Intercomprensione Orale e Teletandem), condotto dall’Università del Salento e dall’Università Lumière Lyon 2 che, dal 2017, promuovono la sperimentazione di sessioni di IC orale in interazione a distanza attraverso la piattaforma Miriadi (cfr. §5.4). Le coppie di studenti che partecipano al Teletandem sono formate in modo tale che studenti di lingue romanze diverse comunichino oralmente online con studenti di altra lingua romanza di cui abbiano un’esperienza d’uso limitata o nulla. Rispetto al teletandem o tandem tradizionale, nei quali si alterna l’uso delle lingue dei due partner (monolinguismo alternato), nel teletandem in IC cambia la modalità in quanto ciascun interlocutore si esprime nella propria L1 che l’altro L’interproduzione è citata al punto 5.2.2 del REFIC (cfr. §2.4.3) quale sottocompetenza fondamentale per saper partecipare ad un’interazione plurilingue, dove viene definita come la capacità di “saper modulare la propria espressione in una lingua di propria scelta al fine di facilitare l’interazione plurilingue” (De Carlo e Anquetil, 2019: 227-231). 116
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è in grado, anche se parzialmente, di comprendere (Leone, 2015). Gli studenti sono inoltre invitati a riflettere sulle strategie di comunicazione e negoziazione messe in atto nell’interazione orale, esplicitandole in un diario riflessivo che accompagna i partecipanti durante le sessioni a distanza (cfr. Garbarino e Leone, cds). Da quanto finora discusso emerge come, nel corso degli anni, il contesto di ricerca e di applicazione dell’IC si sia ampliato fino a comprendere gran parte delle attività linguistiche (comprensione orale/scritta, produzione orale/scritta, interazione orale/scritta) tipiche della comunicazione plurilingue. Ne emerge un concetto più ampio e rinnovato di IC in quanto approccio policentrico e multifunzione che può rispondere, a seconda della diversa calibrazione delle attività, a differenti obiettivi (linguistici, pragmatici, culturali ed interculturali, educativi…), ma con una importante finalità trasversale, ovvero lo sviluppo della competenza plurilingue e pluriculturale.
5.4 Progetti, pratiche e contesti d’insegnamento dell’IC Per molti anni l’IC è rimasta limitata alle ricerche e alle sperimentazioni condotte per lo più in seno ai progetti che ne hanno permesso lo sviluppo epistemologico. A tutt’oggi gran parte delle pratiche didattiche esistenti sono infatti l’esito di progetti sostenuti a livello sovranazionale da finanziamenti europei, che continuano a permettere la diffusione di materiali didattici e quadri di riferimento come quelli descritti nel capitolo 2. Diverse sono inoltre le reti e le associazioni che sostengono la diffusione di ‘buone pratiche’ e la crescita di questo settore di studi attraverso azioni comuni che raggruppano un numero sempre più ampio di ricercatori ed insegnanti da varie parti del mondo117.
Tra queste ricordiamo in particolare la rete REDINTER (Rete Europeia de Intercomprensão), che tra il 2007 e il 2011 ha organizzato numerosi convegni e riunito al suo interno ricercatori, formatori, insegnanti ed associazioni di molti Paesi europei e non (cfr. Benucci 2015 per una sintesi delle azioni principali) e l’associazione APICAD (Association internationale pour la promotion de l'intercompréhension à distance), fondata a Lione nel 2014 con lo scopo di gestire la rete formatasi a seguito del progetto Miriadi (v. infra) e di organizzare sessioni formative sull’IC a distanza. 117
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Un ruolo di spicco nella diffusione della didattica dell’IC e nella promozione della formazione a distanza su questo tema è svolto dal portarle Web MIRIADI (Mutualisation et innovation pour un réseau de l’intercompréhension à distance)118, esito dell’omonimo progetto europeo coordinato da Sandra Garbarino (2012-2015), che ha permesso la continuazione e la stabilizzazione dei corsi di IC online già promossi dalle piattaforme Galanet (per studenti) e Galapro (per formatori). L’ampia partnership internazionale del progetto ha creato uno spazio virtuale flessibile su cui si svolgono a tutt’oggi diverse sessioni di formazione IC per gli studenti di vari ambiti educativi e per gli insegnanti. La piattaforma contiene numerose risorse educative, inclusa una ricca Base di Attività in Intercomprensione (BAI) che riunisce tutte le attività di insegnamento e valutazione create negli anni durante i corsi di formazione, i progetti di ricerca e le sperimentazioni didattiche119. Sebbene non sia ancora possibile parlare di un inserimento curricolare ampio dell’IC, gli esempi di esperienze didattiche efficaci sono numerose e cominciano a proliferare anche in contesto italiano. Ne daremo di seguito una breve panoramica che, seppure parziale, possa essere di orientamento per un possibile inserimento dell’IC nei curricoli scolastici e accademici, sottolineandone le potenzialità per la classe plurilingue. Come discusso nel paragrafo precedente, i numerosi progetti e sperimentazioni sull’IC realizzati in oltre un ventennio dimostrano come questo approccio plurale sia applicabile ad una varietà di contesti e destinatari (bambini, ragazzi, giovani, adulti o professionisti di uno specifico settore), soprattutto in virtù della sua flessibilità e dell’ampiezza delle sue finalità che lo rendono un approccio complementare a quelli già in essere: un approccio intercomprensivo non pretende di rappresentare un’alternativa all’insegnamento linguistico e sostituirsi ad altri approcci, esso può costituire piuttosto una modalità trasversale a tutti gli insegnamenti per contribuire alla formazione della persona; alla scoperta delle capacità individuali di trasferimento di saperi e saper fare; ad un ripensamento sul valore di tutte le Cfr. http://www.miriadi.net. Si veda il sito https://www.miriadi.net/activity dove è possibile fare una ricerca delle attività per parole chiave. Di ciascuna attività vengono descritti gli obiettivi primari e secondari, le modalità di lavoro, le abilità e/o competenze obiettivo di potenziamento, il livello e il pubblico di riferimento. 118 119
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varietà linguistiche, indipendentemente dal loro status sociale; allo sviluppo di abilità riflessive sul funzionamento delle lingue e della comunicazione (De Carlo, 2015: 90).
Sebbene finalità e modalità didattiche restino prevalentemente le stesse nei vari contesti di applicazione, l’IC può assumere delle specificità a seconda dei destinatari e degli specifici obiettivi ad essi mirati. Nella scuola del I ciclo l’inserimento curricolare dell’IC deve poter fare leva soprattutto sulla motivazione che, in particolare con apprendenti adolescenti, va continuamente costruita e sollecitata (cfr. Balboni, 2015: 92-94). A tale scopo l’utilizzo delle tecnologie e della multimedialità, tipica di molti percorsi in IC per giovani apprendenti, sarà di particolare ausilio (cfr. riquadro 3). Nella scuola del I ciclo un modulo di IC può costituire la fase iniziale di un percorso globale di educazione linguistica per un primo accostamento alle lingue di una specifica famiglia, prima di iniziare lo studio effettivo di una di esse (es. francese o spagnolo nella scuola secondaria di I grado): da un lato permette di sensibilizzare gli alunni alla diversità linguistica e culturale, dall’altro consente di potenziare la consapevolezza metalinguistica e le strategie di (inter)comprensione che potranno poi essere utilmente capitalizzate nello studio delle lingue seconde e straniere. L’inserimento curricolare dell’IC nella scuola del I ciclo si rivela inoltre particolarmente utile per potenziare l’offerta formativa delle lingue straniere che, come noto, in gran parte del nostro Paese si polarizza sull’inglese e su una seconda LS europea a partire dalla secondaria di I grado. La possibilità di lavorare trasversalmente su più lingue, a partire dalla L1 e/o da una LS, dà accesso ad una pluralità di codici linguistici e culturali che gli alunni non avrebbero occasione di approfondire se non attraverso specifici moduli o percorsi extracurricolari ad hoc o attraverso canali extra-scolastici. Sebbene l’IC orale sia generalmente ritenuta più complessa di quella scritta, alcune sperimentazioni condotte nella scuola primaria (cfr. ad es. Canù, 2016) suggeriscono di iniziare dall’oralità in quanto con i giovanissimi questa progressione potrebbe facilitare la comprensione nel caso di lingue meno “trasparenti”, come ad esempio il francese, in cui la dimensione fonica si discosta da quella grafica in modo più evidente rispetto ad altre lingue romanze. Lavorare a partire dalla dimensione orale dell’IC permette inoltre di proporre percorsi di
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sensibilizzazione alla diversità linguistica anche nei primissimi anni di scolarità quando i bambini non sono ancora familiari con la lettoscrittura, con il vantaggio di esporre i piccoli apprendenti ad un più ampio spettro di suoni nell’età più proficua per l’acquisizione della competenza fonetico-fonologica. In tal senso, l’IC orale può costituire una valida attività ponte per educare all’ascolto ed allenare i processi di comprensione orale, già a partire dall’età infantile. Utile a questo riguardo può essere il corpus di racconti del progetto europeo Lectŭrĭo+ (2017-2019), un insieme di risorse educative libere mirate al pubblico della scuola dell’infanzia e primaria. I racconti, tradotti in diverse lingue e presentati in differenti formati (testi, audiovideo, ecc.), permettono di coniugare i benefici del plurilinguismo e dell’ascolto di storie da varie parti del mondo al fine di sensibilizzare alla diversità linguistica e culturale anche i bambini che non hanno ancora acquisito le abilità di letto-scrittura120. Altre sperimentazioni condotte in contesto italiano hanno confermato come anche l’IC ricettiva scritta possa costituire una proposta didattica valida per i giovani apprendenti della scuola primaria. De Santis e Faone (2011), sperimentando un percorso di apprendimento simultaneo in 4 lingue romanze (portoghese, spagnolo, francese, italiano) fondato sulla metodologia Eurom, hanno dimostrato come l’IC possa arricchire la sensibilità metalinguistica e la capacità di analisi della propria lingua e di quelle affini. Lo studio mostra infatti come il processo di comprensione plurilingue sia facilitato in presenza di bilinguismo o di dilalìa (cfr. §1.2), quando i bambini sono messi in condizione di poter fare ricorso alle altre lingue note − ivi compresi i dialetti − per comprendere le lingue obiettivo. A tale proposito, la sperimentazione condotta nella scuola siciliana ha fatto emergere transfer positivi dal siciliano che hanno facilitato la decodifica di parole contenuto opache in lingua italiana, come trabajo e sartén in spagnolo, o di parole funzione generalmente soggette a transfer negativo in L1, come il portoghese No (tab. 4). 120 Trattandosi di racconti
royalty-free essi possono essere modificati e riadattati alle esigenze didattiche della classe o diventare l’oggetto di attività collaborative attraverso cui valorizzare la conoscenza di altre lingue presenti nei repertori degli allievi (es. romeno, francese, spagnolo…) che prevedano, a diversi gradi di complessità, l’illustrazione di un racconto ascoltato o letto, la sua traduzione o riscrittura ecc., con l’obiettivo finale di condividere nel sito del progetto l’esito del lavoro realizzato.
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SP SP SP SP SP SP PT FR FR
Parola incognita cuchara hoy entonces sartén semana trabajo no cerise ton/ta
Dialetto siciliano cucchiára òi ‘ntonzi sartania simana travagghiu nu/no cirasa
Italiano cucchiaio oggi allora padella settimana lavoro nel ciliegia
tó
tuo/a
Tab. 4 – Transfer lessicali dal dialetto siciliano (De Santis e Faone, 2011: 203)
Come altri approcci plurali, l’IC può trovare collocazione non solo nell’ambito delle ore di “lingua come disciplina”, ma anche durante l’insegnamento delle discipline cosiddette ‘non linguistiche’, integrandosi utilmente ad una metodologia di tipo CLIL/EMILE. Diverse sono infatti le possibili interazioni e zone di sovrapposizione tra IC e CLIL/EMILE (cfr. David, 2011; De Carlo, 2015). Entrambe le metodologie promuovono un abbandono del concetto di “interferenza” a favore di quello di “inferenza”, intesa come la capacità interpretativa dell’apprendente nel mettere a confronto le diverse lingue implicate e, per converso, del code-switching come strategia di apprendimento. Entrambi propongono inoltre testi autentici o semi-autentici, non semplificati ma facilitati attraverso attività induttive che guidano e potenziano le capacità di (inter)comprensione del testo. Non da ultimo entrambe le metodologie privilegiano una didattica per compiti orientata all’azione, incentivando la collaborazione tra pari e la motivazione degli alunni121. L’IC può inoltre trarre particolare vantaggio da un’integrazione con la metodologia CLIL/EMILE: la comune base latina di molti termini specialistici delle discipline scolastiche, nelle lingue romanze e non solo, farà in modo che la comparazione interlinguistica risulti ancora più evidente e naturale. D’altro canto l’integrazione dell’IC al CLIL/EMILE induce l’insegnante a concentrarsi maggiormente sulla dimensione linguistica dei saperi disciplinari, evitando da un lato uno Molti dei progetti realizzati su piattaforme online, da Galanet in poi, come pure le risorse didattiche per gli apprendenti più giovani qui richiamate (riquadro n. 3), privilegiano modalità didattiche di questo tipo. Sullo stretto legame tra didattica task-based e CLIL si veda inoltre Meyer (2010). 121
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sbilanciamento sul solo contenuto122 e promuovendo, dall’altro, una didattica veicolare “plurale”. Un proficuo esempio di applicazione di tali principi in ambito didattico è rappresentato dai materiali esito del progetto europeo Euro-mania (2005-2008), approfondito nel riquadro seguente123. Riquadro n. 3: Risorse IC per bambini e adolescenti
Euro-mania: rivolto ad alunni dagli 8 agli 11 anni (ma utilizzabile anche con alunni della secondaria di I grado), Euro-mania è un manuale cartaceo costituito da 20 moduli tematici per l’apprendimento disciplinare (storia e geografia, matematica, scienze e tecnologia) in cui vengono proposti brevi testi in più lingue romanze (spagnolo, francese, italiano, occitano, portoghese, romeno). Ciascun modulo presenta un concetto disciplinare ed alcuni aspetti linguistici del gruppo romanzo (lessicali, morfologici, sintattici) su cui gli alunni sono invitati a riflettere attraverso attività di comparazione interlinguistica a carattere ludico e induttivo. Nel sito online attraverso cui è possibile ordinare il volume cartaceo - è possibile visionare il primo modulo (“Le mystère du Mormoloc”). Sito web:
Chainstories: pensato per apprendenti di 8-12 anni, Chainstories permette di realizzare progetti di scrittura creativa e collaborativa tra allievi di 5 scuole di diversa lingua romanza. Gli studenti che vi partecipano devono scrivere, nella loro L1, un capitolo della storia. Per poter continuare la storia i bambini devono prima leggere e comprendere il senso globale dei capitoli precedenti scritti in un’altra lingua romanza. Per favorire la comprensione globale del testo, i bambini illustrano poi la storia. Il percorso permette di migliorare la motivazione ad apprendere nuove lingue, incentivare la conoscenza delle culture di altri paesi europei, ma anche di favorire la produzione in L1. Sito web:
Come mette in guardia Balboni (2015: 214) “non tutte le attività di lingue relative a una disciplina e non tutto l’insegnamento di una disciplina in lingua straniera è CLIL”, ma esiste piuttosto un continuum nell’organizzazione di esperienze di uso veicolare della lingua, i cui estremi sono in realtà dei “non-CLIL” in quanto focalizzati esclusivamente sulla dimensione linguistica o sulla dimensione del contenuto della disciplina. 123 Per un esempio di applicazione del connubio tra CLIL e IC nella scuola primaria italiana si rimanda alla succitata sperimentazione di Canù (2016). 122
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Itinéraires Romans: il percorso didattico, rivolto a bambini di 9-13 anni, si struttura in 6 moduli fruibili autonomamente. Sfruttando i principi dell’IC orale e scritta, si propongono attività ludiche in sei diverse lingue romanze (catalano, spagnolo, francese, italiano, portoghese e romeno) a partire dalla narrazione di alcune storie, con lo scopo di far scoprire i numerosi legami linguistici e culturali tra loro esistenti. Le attività sono finalizzate all’identificazione di affinità lessicali, grammaticali, culturali e pragmatiche (ad es. salutare, presentarsi, dire la propria età, dire la propria origine...)124 Sito web:
Limbo: pensato per apprendenti isponofoni o lusofoni dai 6 ai 10 anni, questo gioco interattivo può essere utilmente impiegato per introdurre all’IC scritta ed orale nella scuola primaria e, per motivare allo studio dello spagnolo, nella scuola secondaria di I grado. Si tratta di un gioco di ruolo che propone una serie di avventure all’interno di un labirinto linguistico: per trovare l’uscita si deve decifrare un mistero interagendo con una serie di personaggi, le cui risposte sono diversificate in base alle scelte effettuate dal giocatore. Per poter procedere nel gioco gli alunni devono saper discriminare il significato di frasi sia scritte che orali, interiorizzare la pronuncia dei vari personaggi e, man mano che il gioco va avanti, comunicare attraverso la scelta di alcune frasi proposte dal sistema. Gli alunni possono così sperimentare l’IC divertendosi e, al contempo, affinare la loro competenza linguistica dello spagnolo avendo occasione di scoprire le sue affinità con il portoghese. Sito web:
Nella scuola secondaria di II grado l’IC fra lingue romanze può essere un approccio particolarmente utile per rafforzare le competenze in una o più LS romanze oggetto di studio, facendone al contempo scoprire di nuove. A questo proposito è interessante citare la sperimentazione condotta presso il Liceo linguistico “G. Falcone” di Bergamo nell’ambito del progetto europeo Miriadi. Il modulo “Poliglotta? No, plurilingue” aveva lo scopo di introdurre gli studenti del triennio per un numero complessivo di 20 ore in presenza e 15 a distanza sulla piattaforma Galanet. L’obiettivo principale del progetto era quello di sensibilizzare gli studenti ad affrontare uno studio integrato di più lingue appartenenti alla stessa famiglia linguistica per renderli 124
Per approfondire si veda Álvarez e Tost (2008).
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consapevoli che il plurilinguismo è una competenza praticabile ed acquisibile senza passare necessariamente per tutte le tappe generalmente previste in un percorso completo di apprendimento linguistico. Ulteriore obiettivo era infatti la comprensione di testi autentici scritti in portoghese, una lingua mai studiata prima, in cui al termine del modulo buona parte degli alunni ha potuto acquisire un livello B1. Il progetto ha coinvolto i docenti di italiano, latino, francese e spagnolo i quali, nelle proprie ore curricolari, dedicavano 1 ora a settimana in alternanza ad attività fondate sull’IC125. Progetti di questo tipo nella scuola secondaria di II grado permettono non solo di fare educazione plurilingue e potenziare la riflessività metalinguistica degli alunni, ma anche di (ri)motivare gli alunni allo studio del latino, solitamente percepito come una lingua poco funzionale e avulsa dalla quotidianità. Facendo notare le numerose somiglianze tra latino (volgare in particolare) e le lingue del gruppo romanzo e non solo, se ne fa scoprire in tal modo la valenza di lingua-ponte e risorsa cognitiva nello studio di altre lingue. Riquadro n. 4: Risorse IC per apprendenti adulti e giovani adulti
Romanica InterCom: basandosi sul metodo EuroRom4, il sito di Romanica InterCom mira ad aiutare gli studenti ad imparare a leggere contemporaneamente in quattro nuove lingue romanze oltre alla propria (portoghese, spagnolo, catalano, italiano o francese), facendo leva sulle somiglianze con la L1. Obiettivo principale della risorsa è sviluppare l'indipendenza nella lettura di testi generali in queste lingue fino al raggiungimento di un livello B1-B2 del QCER nell’arco di 30 e le 40 ore, promuovendo strategie di lettura che sfruttini i “ponti” linguistici tra le diverse lingue romanze. Il sito offre una guida didattica, una grammatica contrastiva di consultazione e una raccolta di testi interattivi in ciascuna lingua. Si rivolge sia ad insegnanti interessati ad impiegare la risorsa in classe, sia a studenti che intendano farne uso per l’apprendimento autonomo. Sito web:
EU&I: il sito del progetto raggruppa una serie di attività a carattere ludico e pragmatico che prevedono dei compiti di comprensione scritta ed orale in diverse lingue europee, anche non romanze. Tra queste, la
Per maggiori dettagli sul progetto si rimanda a Fanara (2015). Si veda inoltre Nielfi (2010) su precedenti esperienze di IC presso il medesimo contesto scolastico. 125
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prenotazione di una stanza d’albergo in Portogallo, la decodifica di un bollettino meteorologico in olandese, la comprensione di un racconto in svedese ecc. Le attività mirano globalmente a rendere l’utente consapevole delle strategie da attivare per poter comprendere – almeno in parte – anche lingue sconosciute. Sito web:
Babelweb: il sito propone dei compiti da portare a termine in una lingua romanza a scelta dell’utente. Si presenta sotto forma di blog plurilingue in sei lingue romanze (francese, spagnolo, portoghese, italiano, catalano, rumeno) in cui è possibile intervenire in vari forum tematici di discussione. Questo strumento mira all’apprendimento incidentale delle lingue romanze attraverso la pratica reale e socializzata dell’IC, ma mette anche a disposizione linee guida e schede didattiche ai docenti che intendano praticare l’IC in classe con i propri studenti attraverso Babelweb e le sue risorse (v. sezione “Babelweb per insegnanti”). Sito web:
Nella classe plurilingue, come altri approcci plurali l’IC può consentire la valorizzazione degli apprendimenti non formali e delle competenze parziali presenti nei repertori degli alunni, riferibili ai dialetti italoromanzi e alle lingue della migrazione. Un percorso didattico improntato ai principi dell’IC in ambito scolastico potrà dunque contemplare, oltre alle lingue presenti a scuola, anche il romeno e i dialetti locali eventualmente noti agli alunni, legittimando ciascun codice linguistico presente in classe e, con esso, i suoi parlanti. Si potrà in tal modo far scoprire agli alunni che non solo le ‘lingue di casa’ possono entrare a far parte anche del quotidiano scolastico, ma che possono costituire anche valide risorse cognitive per l’accesso ad altre lingue affini. Si veda a questo riguardo l’attività riportata in figura 14 in cui sono messe a confronto alcuni elementi lessicali fortemente affini presenti nel dialetto fermano-maceratese e in lingua romena.
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Fig. 14 – Attività tratta dal percorso didattico “L’IC attraverso tempi e luoghi” (Cognigni e Vitrone, 2015)126
Nelle classi odierne non tutti gli alunni condividono lo stesso dialetto ma, a seconda del contesto scolastico, l’insegnante di lettere e/o di latino potrà valorizzare le diverse competenze parziali presenti in classe proponendo attività induttive di tipo cooperativo, che facilitino – come nel caso citato – la comparazione interlinguistica, la riflessione metalinguistica e l’interazione tra pari attraverso la lingua di scolarizzazione. I principi dell’IC possono chiaramente essere sfruttati anche nell’apprendimento/insegnamento dell’italiano L2 con alunni stranieri di lingua romanza per ottenere in tempi più rapidi un livello B1-B2 nella ricezione scritta e/o orale127. Nell’ipotesi di poter lavorare con piccoli gruppi, ad esempio nel contesto del laboratorio di italiano L2, sarà possibile realizzare percorsi mirati fondati sull’IC e sulla comparazione interlinguistica tra italiano e L1/L2 degli apprendenti128. L’impiego di attività di IC orale o scritta nella classe
L’attività fa parte del percorso didattico “L’IC attraverso tempi e luoghi”, realizzato ai fini di una sperimentazione condotta presso l’Università di Macerata nell’a.a. 2013-2014 nell’ambito del progetto Miriadi. Il percorso didattico, pensato come introduzione all’IC per studenti universitari, può essere adatto anche per alunni della scuola secondaria di II grado. Si veda Cognigni e Vitrone (2015) per accedere all’intero percorso didattico, disponibile online. 127 Si veda a tal proposito Benucci 2005 in cui si riferiscono i risultati positivi della sperimentazione di un modulo del progetto Minerva con un’alunna di lingua spagnola inserita in una scuola secondaria di I grado senese. 128 Si pensi, ad esempio, al ruolo svolto dal francese nei repertori plurilingui di bambini e ragazzi provenienti dall’Africa Subsahariana o dal Nord Africa. Per una 126
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plurilingue attraverso una o più risorse tra quelle qui descritte, insieme alla pratica dell’IC interattiva in classe − almeno in una fase iniziale − può inoltre facilitare l’inserimento degli alunni allofoni nel contesto scolastico italiano. I benefici potranno aversi sul piano dello sviluppo delle abilità di (inter)comprensione in italiano L2, ma anche su quello psico-affettivo in quanto l’apprendente si sentirà maggiormente accolto nel nuovo contesto scolastico. Un ultimo accenno va all’applicazione dell’IC all’educazione degli adulti, sia in riferimento al contesto accademico che a quello migratorio, contesti nei quali l’ampiezza degli studi e delle applicazioni didattiche è diametralmente opposta. Come dimostrano i numerosi progetti europei qui citati, l’IC ha trovato maggiore applicazione in ambito accademico, in seno al quale sono nate le prime sperimentazioni ed in cui la diffusione di questo approccio plurale rimane la più ampia. Le diverse sperimentazioni condotte suggeriscono che la formazione blended, con incontri in presenza e la partecipazione parallela a sessioni di IC interattiva a distanza, sia tra le modalità formative più efficaci, ma esistono sicuramente molte e diverse possibilità per un inserimento curricolare dell’IC in ambito accademico (cfr. Araújo e Sá, 2015). Nell’università italiana, in particolare, l’IC ha trovato spazio non solo nell’ambito dell’insegnamento di specifiche LS romanze o all’interno di corsi di Filologia romanza (Negri e Jamet, 2019), ma anche in specifici moduli integrativi all’interno dei corsi di laurea o moduli offerti dai Centri linguistici di Ateneo129. Come avviene già in varie università italiane, qui come in altri contesti l’IC potrebbe costituire dunque una possibile opzione che non vada a sostituire altri percorsi di formazione linguistica nelle lingue romanze, ma ne stimoli piuttosto un approfondimento in ulteriori percorsi formativi130.
discussione del francese e dell’inglese lingua-ponte nell’apprendimento dell’italiano L2 da parte di migranti adulti si veda inoltre Cognigni (2019b). 129 Sull’inserimento curricolare dell’IC in ambito accademico in contesto italiano, rimandiamo tra gli altri contributi a Anquetil (2011), Benucci (2015), Bonvino e Jamet (2016), Celentin e Benavente Ferrara (2019), Cognigni e Vitrone (2015). 130 A nostra conoscenza, al momento della stesura di questo lavoro sono, o sono stati erogati in anni recenti, diversi corsi di formazione sull’IC nei CLA e/o negli atenei italiani: CLA dell’Università di Roma 3: corso base di 20 ore in presenza + online (EuroRom5: IT-CAT-FR-SP-PT);
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La riflessione scientifica e le applicazioni didattiche dell’IC nel contesto della formazione linguistica dei migranti adulti è invece ad uno stato ancora embrionale, seppure ci siano buone premesse per poter implementare l’IC anche in questo contesto. A proposito dell’IC in alcune regioni del Maghreb coinvolte nei flussi migratori verso l’Italia, Benucci fa notare ad esempio che la presenza di lingue romanze (ri)costituisce una sorta di lingua franca in cui almeno l’italiano e lo spagnolo si intrecciano e convergono: è un ambiente linguistico che dovrebbe essere tenuto in considerazione e sfruttato sia nelle fasi emergenziali della prima accoglienza che in quelle della immissione nella società (Benucci, 2015: 4-5).
Come messo in luce in una nostra recente indagine (cfr. Cognigni e Santoni 2018) inglese e francese in particolare costituiscono inoltre parte integrante del repertorio linguistico e identitario di molti migranti che possono svolgere una funzione facilitante nel processo di acquisizione dell’italiano L2, sul piano sia cognitivo sia psicologico. La riflessione, avviata in ambito francese (Bretegnier, 2013) e italiano (Lévy, 2001; Cognigni 2007; 2019b), meriterebbe maggiore attenzione attraverso ulteriori studi e sperimentazioni che ne sondino potenzialità e condizioni di applicabilità.
-
Centro competenza lingue dell’Università di Bergamo: corso base + specialistico (EuroRom5: IT-CAT-FR-SP-PT); CLA dell’Università di Verona: corso base + avanzato con 10 ore in presenza + 16 online (IT-CAT-FR-SP-PT con accenni di romeno, latino e dialetti); Università Ca’ Foscari di Venezia: DICRom (Laboratorio di Didattica dell'InterComprensione romanza); CLA dell’Università di Torino: corso “Intercomprensione: un ponte tra le lingue romanze” di 12 ore in presenza (IT-CAT-FR-SP-PT).
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Capitolo 6. Il translanguaging come pratica didattica inclusiva
6.1 Gli studi sul translanguaging: un’introduzione Negli ultimi anni il concetto di translanguaging si è imposto all’attenzione di sociolinguisti e glottodidatti grazie alla diffusione di un’ampia letteratura sul tema di matrice prevalentemente anglosassone131. Quando si parla di translanguaging si fa generalmente riferimento a due prospettive di ricerca tra loro interrelate (Flores e Schissel, 2014): nella sua accezione sociolinguistica il concetto si riferisce allo studio delle pratiche discorsive delle comunità bilingui, mentre secondo una prospettiva educativa fa riferimento ad un approccio didattico in cui gli insegnanti mettono in relazione queste pratiche con quelle attuate nei contesti dell’educazione formale. Il concetto odierno di translanguaging come pratica didattica si fonda quindi sulla consapevolezza che le lingue sono tra loro interconnesse e compresenti, tanto nella mente quanto negli usi dei parlanti bi/plurilingui. Il termine deriva dalla traduzione dell’espressione gallese trawsieithu, introdotta negli anni Ottanta da Cen Williams (1994). Nel suo significato originario, il termine si riferiva ad una pratica didattica basata sull’alternanza tra gallese ed inglese nelle attività scolastiche, ad esempio nel passaggio dalla ricezione alla produzione scritta. In Galles il translanguaging assume presto legittimità politica ed educativa grazie ad una specifica promozione da parte del governo che lo diffonde nelle scuole associandolo al concetto di dual literacy, ovvero la capacità di saper parlare, leggere e scrivere agilmente in entrambe le lingue e di sapersi muovere in modo sicuro e fluido tra queste per scopi specifici (cfr. Estyn, 2002, in Lewis et al., 2012). Fu poi Colin Baker (2001) a tradurre il termine in inglese e a diffonderlo in ambito anglosassone, in cui molti studiosi di linguistica educativa lo approfondiscono ampliando la proposta di Williams132. 131 132
Per una rassegna rimandiamo a Lewis et al. (2012). Si veda García e Kleyn (2016) per una rassegna.
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I principi fondamentali della teoria del translanguaging, che fa propri gli assunti della sociolinguistica post-strutturalista133, possono essere così sintetizzati (Vogel e García, 2017: 4): a. ai fini della comunicazione gli individui selezionano e utilizzano elementi da un repertorio linguistico unitario; b. si accoglie una prospettiva sul bi/plurilinguismo che privilegia le pratiche linguistiche e semiotiche dinamiche proprie dei parlanti rispetto alle grandi lingue degli stati e delle nazioni; c. riconosce gli effetti materiali delle ideologie strutturaliste della lingua e delle named languages − ovvero lingue di potere come inglese, francese, spagnolo ecc. – in quanto categorie socialmente costruite, specialmente sui parlanti delle lingue minoritarie. Riprendendo il concetto bachtiniano di eteroglossia134, García (2009) e poi Creese e Blackledge (2010) introducono nella prospettiva del translanguaging il concetto di “bilinguismo dinamico” che mira al superamento della nozione di bilinguismo additivo (cfr. §1.3.5). Secondo questo orientamento, il repertorio linguistico del parlante plurilingue non costituisce la somma di una o più lingue distinte e giustapposte, ma un unico sistema linguistico individuale da cui il parlante attinge liberamente quando non sottoposto a vincoli sociali. Il translanguaging viene infatti definito come “un approccio al bilinguismo che non è centrato sulle lingue, come è stato spesso il caso, ma sulle pratiche dei bilingui che sono immediatamente osservabili” (García, 2009: 44 [trad. nostra]). Il focus si sposta quindi dalle lingue tradizionalmente oggetto di apprendimento/insegnamento (named languages), viste come sistemi a sé stanti delimitati da confini sociali e politici, al soggetto plurilingue che le vive e le pratica quotidianamente. García espande dunque la nozione educativa originaria del translanguaging includendovi i processi cognitivi e le pratiche comunicative quotidiane dei bilingui nei diversi contesti sociali, definendolo come “un potente meccanismo per costruire saperi, includere gli altri e mediare intese tra i gruppi linguistici” (García, 2009: 307-308 [trad. nostra]). Come sottolineano García et al. (2016), il repertorio linguistico degli alunni plurilingui è sempre presente in classe, anche quando non è Cfr. ad es. Blommaert (2010), Pennycook (2010). Nell’opera di Bachtin il termine “eteroglossia” sta ad indicare l’impiego contemporaneo di diversi tipi di discorso o di altri segni e la relazione che si instaura tra di essi all’interno di un testo (Bachtin, 1975). 133
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praticato o reso esplicito attraverso specifiche strategie. L’insegnante può scegliere di dar voce a questo translanguaging latente, che García et al. (2016) denominano la corriente, attraverso specifiche strategie didattiche che consentano agli alunni plurilingui di dare visibilità alle proprie pratiche linguistiche, rendendole parte attiva del processo di insegnamento. Mossi ad impiegare tutte le risorse linguistiche a propria disposizione, gli studenti vengono in tal modo messi in condizione di sfruttare appieno tutte le proprie potenzialità di apprendimento. Inoltre, secondo le autrici, la pratica del translanguaging in classe faciliterebbe l’adozione di un approccio creativo e critico alla comunicazione, permettendo di comprendere quando, dove, con chi e, soprattutto, perché alcuni usi linguistici sono accettati in determinate situazioni e non in altre (García e Kleyn, 2016).
6.2 Dal plurilinguismo epistemologica?
al
translanguaging:
una
svolta
Dato questo focus prioritario sulle pratiche linguistiche quotidiane del parlante plurilingue e sul contatto tra le lingue e varietà linguistiche che compongono il suo repertorio, il translanguaging può essere considerato affine al concetto europeo di plurilinguismo e, sul fronte educativo, alla nozione di educazione plurilingue e interculturale. La stessa Ofelia García, in un primo momento, abbraccia questa prospettiva sostenendo che “il concetto di plurilinguismo è utile in quanto ci consente di abbandonare i concetti di bilinguismo equilibrato [e] perché estende la padronanza di due o più lingue standard per includere le pratiche linguistiche ibride” (García, 2009: 55 [trad. nostra]). Tuttavia, più recentemente, la nozione di plurilinguismo proposta dal Consiglio d’Europa è stata criticata ed abbandonata da García e dal suo gruppo di studio (García, 2018; García e Otheguy, 2020) in quanto ritenuta il prodotto di un’economia neoliberista in cui il plurilinguismo è associato alla competitività sul mercato del lavoro ed esaltato come strumento per ottenere profitto economico e successo personale. Inoltre, fondandosi sul concetto di named languages, la nozione europea di plurilinguismo lascerebbe sostanzialmente invariate le gerarchie linguistiche in contesto sociale e socioeducativo, rivelandosi infine una nozione poco funzionale rispetto ai propri scopi.
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Un aspetto di forte contatto tra il translanguaging e l’educazione plurilingue è dato invece, a nostro avviso, dalla prospettiva soggettiva sulle competenze dell’apprendente plurilingue, corrispondente cioè a quella del parlante stesso e non da quello dell’istituzione scolastica o della società in cui è inserito, che le vuole separate nell’uso come nell’insegnamento. Lo stesso concetto di competenza plurilingue e pluriculturale, a partire dalla sua prima formulazione negli studi preparatori al Quadro Comune in poi (Coste et al., 1997), afferma che le lingue non sono giustapposte o sommate l’una all’altra nella mente dell’apprendente, ma che vanno a costituire un’unica metacompetenza, intesa come la capacità di usare progressivamente diverse competenze in diverse lingue. Si tratta dunque di una competenza composita e multifunzionale che il parlante plurilingue può mettere in gioco sia per apprendere (con) le lingue, trasferendo ad esempio i “saper fare” appresi attraverso altre lingue in quella obiettivo, sia per comunicare in contesto plurilingue, sfruttando i meccanismi dell’intercomprensione e sollecitando le lingue comuni presenti nei repertori linguistici degli interlocutori. Anche tutta la tradizione europea sulla valorizzazione della diversità linguistica e, in modo specifico, sull’uso delle autobiografie linguistiche in contesto plurilingue muove da questa consapevolezza. La soggettività dell’apprendente di lingue, da sempre al centro dell’attenzione di chi si occupa di didattica del plurilinguismo, è infatti da tempo oggetto di indagine e punto di riferimento per la didattica delle lingue, di cui il Précis du plurilinguisme et du pluriculturalisme (Zarate et al., 2008) costituisce una testimonianza ed un’efficace sintesi135. Tutto ciò premesso, appare lecito porsi una domanda dalla risposta non troppo scontata: se cioè, in contesto europeo, il translanguaging rappresenti effettivamente una svolta epistemologica in campo educativo o possa essere piuttosto interpretata come un arricchimento di prospettiva. Proponendosi come svolta, il translanguaging mira infatti a scardinare l’“ideologia monoglossica”136 sottostante a molte pratiche di insegnamento linguistico, che vedono le lingue come entità Si veda in particolare il capitolo 2 (“Soi et les langues”) a cura di D. Lévy e A. Hu (in Zarate et al., 2008: 69-125) che presenta, attraverso vari contributi e ricerche, una prospettiva pluridisciplinare sul ruolo dell’apprendimento delle lingue e del racconto di sé nella costruzione identitaria del parlante plurilingue. 136 L’espressione, utilizzata da García (2009), è ripresa da Del Valle (2000) dove se ne tratta in riferimento alle politiche linguistiche galiziane. 135
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isolate. Tra queste si possono includere anche i programmi di immersione bilingue che, polarizzandosi su due lingue in modo separato, perpetuano piuttosto che superare la monoglossia. Sulla base di questa premessa, García e Kleyn (2016: 12-14) pongono il translanguaging in contrapposizione non solo con i modelli più tradizionali di bilinguismo, ma anche con altri concetti consolidati nell’ambito degli studi sul bi/plurilinguismo, come ad esempio il bilinguismo additivo, l’ipotesi di interdipendenza linguistica di Cummins, la nozione di code-switching (cfr. infra). Tutte queste nozioni condividerebbero infatti una medesima prospettiva esterna sul bi/plurilinguismo che vede le lingue come sistemi separati ed autonomi, non corrispondente al punto di vista soggettivo del parlante plurilingue che le percepisce invece come un continuum. Secondo le autrici, la differenza fondamentale tra code-switching e translanguaging sta nel fatto che il primo si focalizza essenzialmente sull’alternanza tra le named languages, mentre il secondo fa riferimento agli effettivi usi dei parlanti plurilingui che attingono dal proprio repertorio adattando di volta in volta i propri usi linguistici alla specifica situazione. Il concetto di code-switching viene però qui identificato unicamente con la commutazione di codice, ovvero il passaggio da una lingua all’altra all’interno di un medesimo discorso, non prendendo in esame altri fenomeni correlati come l’alternanza di codice, ovvero la scelta che il parlante plurilingue opera dell’una o dell’altra lingua a seconda della situazione o dell’ambito comunicativo in cui si trova. Né si accenna al fenomeno dell’enunciazione mistilingue o code-mixing, che prevede il passaggio intrafrasale da una lingua all’altra, ampiamente trattato negli studi sul bi/plurilinguismo e sulla comunicazione plurilingue. García e Wei (2014) respingono inoltre l’ipotesi della Common Underlinying Proficiency (CUP) di Cummins (1981), sulla base della considerazione che essa si fonda sulla separatezza tra le lingue implicate (L1, L2, ecc.): il translanguaging viene contrapposto a tale ipotesi in quanto più idoneo a testimoniare come “le pratiche linguistiche degli studenti translingui non sono separate in una L1 e una L2, o nella lingua di casa e quella della scuola, ma le trascende entrambe” (García, Wei, 2014: 69 [trad. nostra]). Le osservazioni delle studiose sono senza meno condivisibili se ci si pone dal punto di vista del parlante, per il quale la distinzione tra LM, L1, L2, ecc. è − come abbiamo sottolineato anche in altri contributi (cfr. Cognigni, 2007;
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Cognigni e Vitrone, 2011) − spesso una categorizzazione stringente o priva di significatività rispetto alla percezione che questi possiede del proprio repertorio o della pratica comunicativa quotidiana. Va tuttavia puntualizzato che, in parte della letteratura sul translanguaging, emerge spesso una critica a concetti consolidati della ricerca sul bi/plurilinguismo come quelli qui citati, senza che si adotti una prospettiva approfondita nel decostruirli, e orientandosi piuttosto verso un’ipersemplificazione (MacSwan, 2017). La decostruzione epistemologica cui spesso si mira sembra inoltre isolare tratti specifici di studi precedenti, decontestualizzandoli, dei quali si sottolinea la natura controversa su un piano preminentemente ideologico. Oltretutto, basandosi per lo più su categorizzazioni di tipo binario (es. modello monoglossico vs. eteroglossico, bilinguismo additivo vs. dinamico, etc.), la validità dei propri costrutti viene semplicemente asserita senza che siano forniti dati empirici a supporto (cfr. Cummins, 2017a). Alcuni studiosi di translanguaging hanno messo in dubbio l’esistenza stessa delle lingue, concludendo ulteriormente che il multilinguismo individuale o plurilinguismo non esiste137. La negazione dell’esistenza delle lingue (named languages) e il conseguente abbandono di concetti ad essa correlabili (bilinguismo additivo, plurilinguismo, ipotesi dell’interdipendenza linguistica, linguaggio accademico, codeswitching, ecc.) può rappresentare un ambito di dibattito – seppure controverso – per gli studiosi, ma resta poco operativo sul fronte delle politiche linguistiche educative e nella formazione degli insegnanti. Concordiamo con la prospettiva di MacSwan (2017), il quale sostiene che l’uso politico dei nomi delle lingue possa e debba essere distinto dalle idealizzazioni sociali e strutturali utilizzate negli studi sulla diversità linguistica. Nel suo modello multilingue integrato di bilinguismo individuale in cui distingue le grammatiche dai repertori linguistici, MacSwan sostiene che i bilingui, come i monolingui, hanno un unico repertorio linguistico ma non un’unica grammatica mentale unitaria e indifferenziata. Questa considerazione permetterebbe di riconoscere l’unicità degli usi linguistici dei bi/plurilingui senza necessariamente negare l’esistenza delle lingue e del multilinguismo individuale.
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Per una rassegna si rimanda a MacSwan (2017).
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Pur condividendo le finalità del translanguaging, anche Jaspers (2018) invita ad una prospettiva critica verso questo approccio affinché non si diano per scontati i diversi effetti benefici che promette, tra cui in particolare la sua capacità di scardinare l’ideologia monolingue, di decolonizzare il pensiero intellettuale dominante, di modificare le strutture sociali e cognitive o, per quanto attiene più specificamente all’ambito educativo, di implementare una reale “didattica trasformativa” (García e Wei, 2014). Nonostante i limiti qui discussi, la prolifica produzione scientifica sul translanguaging degli ultimi 15 anni ha senza meno avuto il merito di (ri)svegliare il dibattito europeo circa l’opportunità di valorizzare i repertori degli alunni bi/plurilingui e di renderli una possibile risorsa in contesto educativo, legittimando ulteriormente l’osservazione delle dinamiche di comunicazione plurilingue e l’applicazione in classe di strategie e tecniche plurilingui.
6.3 Praticare il translanguaging: dalla progettazione didattica alle attività in classe García, Johnson e Seltzer (2017) sottolineano l’importanza di tre dimensioni utili all’implementazione in aula di una didattica del translaguanging: 1. la postura dell’insegnante (stance); 2. la progettazione e pianificazione delle attività didattiche (design); 3. la promozione del cambiamento (shifts). In merito al primo punto si sottolinea l’importanza per il docente di assumere una “postura filosofica”, a volte controcorrente rispetto al pensiero comune, che non si accontenti di obiettivi minimi e modalità dispensative in caso di difficoltà a raggiungere gli standard nazionali ma che, per dirla in una formula, “miri ad amplificare invece che semplificare” (Walqui, 2006, in García e Kleyn, 2016). Le modalità per ‘amplificare’ la didattica di cui le autrici danno conto, sono molteplici e sono in parte sintetizzate più avanti in questo paragrafo. È possibile, innanzitutto, definire una visione progressiva della didattica del translanguaging, cui sottostanno diverse convinzioni e, quindi, differenti modi di porsi del docente. A seconda dei casi, il docente può assumere due “posture” sostanzialmente differenti: può cioè ‘limitarsi’ ad una postura facilitante (scaffolding stance), fondata cioè sulla convinzione che la presa in carico del repertorio linguistico
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dell’apprendente debba fungere da impalcatura temporanea per l’acquisizione della lingua di scolarizzazione e all’autonomia di apprendimento, oppure può decidere di adottare una postura trasformativa (transformative stance), capace cioè di implicare a più livelli lingue diverse dalla L1, con l’obiettivo di scardinare le gerarchie linguistiche consolidate dal potere dello stato politico e, per il suo tramite, dall’istituzione scolastica (García e Kleyn, 2016). A questo riguardo, García e Wei sottolineano come il translanguaging costituisca una “pedagogia trasformativa capace di sollecitare le soggettività dei bilingui” (2014: 92 [trad. nostra]), in quanto vengono messe continuamente in gioco le loro lingue e le loro identità. Acquisita una certa consapevolezza riguardo la necessità di coinvolgere l’intero repertorio linguistico degli apprendenti nella prassi didattica e adottata una postura adeguata (stance), l’insegnante potrà quindi progettare percorsi didattici e pianificare attività (design), promuovendo nell’istituzione scolastica dei cambiamenti (shifts), che sono tanto ideologici quanto operativi. Ai fini del design, il modello definito da Ofelia García e dal gruppo di ricerca del Cuny-Nysieb138 propone una procedura didattica articolata in due componenti principali (cfr. García et al., 2017: 106-112), ovvero il Translanguaging Unit Design, che consiste in una serie di elementi preliminari utili alla successiva pianificazione dettagliata delle attività ovvero il Translanguaging Instructional Design Cycle approfondito nel riquadro n. 5. In modo più specifico, il Translanguaging Unit Design si compone di: - una sezione con alcune domande stimolo (essential questions), collegate alle tematiche e agli scopi del percorso didattico da attuare; - una sezione con gli obiettivi e le competenze definiti dall’amministrazione a livello statale e federale (content standards); - una sezione con gli obiettivi disciplinari e linguistici (content and language objectives), dove questi ultimi riguardano abilità e
L’acronimo Cuny-Nysieb sta per “City University of New York-New York State Initiative on Emergent Bilinguals”. Si tratta di un progetto collaborativo dell'Istituto di ricerca per lo studio della lingua nella società urbana (Research Institute for the Study of Language in Urban Society - RISLUS) e della Scuola di dottorato in Educazione urbana, finanziato dal Dipartimento dell'educazione dello Stato di New York a partire dal 2011. Per maggiori dettagli si rimanda al sito del progetto, dove sono disponibili anche testimonianze e risorse sulla didattica del translanguaging: https://www.cuny-nysieb.org/ 138
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conoscenze linguistiche generali e specifiche al contenuto disciplinare oggetto di studio; - una sezione con gli obiettivi specifici al translanguaging (translanguaging objectives); - una sezione relativa alle forme di valutazione (assessments), con riferimento alla valutazione da parte del docente, degli alunni e delle loro famiglie (cfr. infra); - una sezione con indicazione dei testi e dei materiali audiovisivi che verranno usati durante le attività in classe (texts), sia nella lingua di scolarizzazione che nelle altre lingue coinvolte. Riquadro n. 5: fasi del Translanguaging Instructional Design Cycle Il Translanguaging Instructional Design Cycle riguarda la pianificazione delle attività da svolgere in classe e si struttura secondo cinque fasi successive (cfr. García et al., 2017: 106-112): 1) Explorar: questa fase preliminare mira a far esplorare il nuovo tema o argomento della lezione, sollecitando domande da parte degli alunni ed elicitando le loro preconoscenze a riguardo. In più rispetto ad una tradizionale fase di motivazione, i testi input qui forniti sono generalmente in più lingue (es. L1 e LO) e di diverso formato (es. film, testi cartacei, risorse Internet…). 2) Evaluar: gli studenti analizzano criticamente i vari testi input forniti, discutendone in gruppo. L’analisi può riguardare sia aspetti del contenuto sia aspetti linguistici sui quali l’insegnante focalizzerà l’attenzione degli studenti attraverso domande stimolo ed altri strumenti plurilingui che sviluppino il pensiero critico e la consapevolezza metalinguistica. 3) Imaginar: in questa fase gli studenti sono incoraggiati a riproporre in modo creativo quanto appreso nelle due fasi precedenti. Suddivisi in gruppi, gli studenti assumono diversi ruoli e lavorano insieme al fine di elaborare un prodotto finale (ad es. un cartellone, una presentazione, un testo ecc.) cui possono contribuire ciascuno secondo le proprie competenze ed abilità linguistiche in una o più lingue. 4) Presentar: nella quarta fase, gli studenti sono coinvolti in attività di revisione tra pari e riscrittura collaborativa di testi, di presentazione orale del lavoro realizzato nei gruppi, con un’attenzione specifica alle scelte linguistiche operate. Si suggerisce inizialmente di consentire una presentazione collettiva in modo da limitare possibili ansie e da favorire lo scambio di competenze e il supporto reciproco. Gli alunni meno competenti nella L1, a seconda del loro livello linguistico,
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potranno esprimersi prima in LO ed usufruire del supporto dell’insegnante o dei compagni per brevi sintesi orali nella L1; esporre la propria parte del lavoro a partire da riassunti e schemi in L1 sotto forma di testi da completare; leggere dei brevi resoconti in L1 per poi ampliare e commentare oralmente in LO. La possibilità di esprimersi oralmente in più di una lingua non solo permette di dare maggiore profondità al proprio discorso, ma migliora anche le capacità degli studenti di parlare in pubblico, li allena a comunicare in contesti plurilingui adattando gli usi linguistici ai bisogni di ascoltatori monolingui e plurilingui. 5) Implementar: nell’ultima fase i lavori di gruppo realizzati vengono presentati davanti ad una comunità più ampia, come ad esempio la comunità locale o le altre classi della scuola, dando così maggiore autenticità al percorso svolto e ai prodotti realizzati. Questi ultimi potranno essere resi visibili in specifici spazi dell’ambiente scolastico, significativi ai fini della presentazione o degli obiettivi dell’attività svolta139.
L’implementazione di una didattica del translanguaging si fonda su tre elementi o azioni fondamentali: a) favorire una gestione collaborativa/cooperativa della classe; b) utilizzare una varietà di risorse educative plurilingui e multimodali; c) introdurre strategie didattiche di translanguaging. a) Favorire una gestione collaborativa/cooperativa della classe: una didattica del translanguaging prevede necessariamente una diversa organizzazione della classe rispetto a quella tradizionale. Al fine di massimizzare le opportunità di apprendimento implicite nel bilinguismo dinamico, García et al. (2017) elencano una serie di modalità organizzative della classe, in parte tipiche del cooperative learning, capaci di facilitare l’interazione sociale, tra pari in particolare, come per esempio la creazione di gruppi strategici con apprendenti che possiedono diversi livelli di competenza nella lingua di scolarizzazione (L1) ma condividono una medesima lingua di origine (LO). In caso di singoli studenti che abbiano una LO diversa da tutti gli altri, si suggerisce di fare ricorso a dizionari Citiamo, a titolo di esempio, l’attività riportata in García et al. (2017) incentrata sugli annunci della pubblicità sociale. Nella sua fase finale (implementar) l’attività ha previsto la collocazione di un annuncio plurilingue sui pesticidi in agricoltura e i relativi pericoli ambientali nella caffetteria della scuola, di un annuncio plurilingue sul riciclo nell’entrata dell’edificio sopra ai bidoni per la raccolta differenziata, ecc. 139
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bilingui e traduttori online (Kleyn, 2016). Questo tipo di raggruppamento può risultare fondamentale in alcune occasioni in cui è necessaria una mediazione in LO per chiarire consegne, termini e concetti di un determinato testo o attività da svolgere in gruppo, secondo le modalità tipiche del child language brokering (CLB, cfr. infra). Mentre gli studenti interagiscono tra loro attingendo liberamente dal proprio repertorio linguistico, da un lato i “bilingui emergenti”140 hanno la possibilità di acquisire aspetti specifici della L1 e/o del contenuto da questa veicolato, dall’altro gli studenti mediatori hanno occasione di praticare ed ampliare la propria competenza nella LO, anche in relazione a domini di ambito specialistico (CALP). Secondo le autrici, questa modalità può inoltre risultare vantaggiosa per costruire o consolidare il senso di appartenenza alla comunità scolastica e a non stigmatizzare gli apprendenti con limitate capacità linguistiche in L1, i quali, come noto, rimangono più facilmente isolati o al margine delle attività di classe. Su questo aspetto è tuttavia importante fare particolare attenzione, poiché in presenza di un piccolo gruppo di alunni con la stessa LO e poco integrato nella classe, si potrebbe ottenere il risultato contrario. È utile inoltre essere consapevoli dei possibili risvolti di questa pratica, assumendo la prospettiva degli alunni che fungono da mediatori (language brokers), generalmente alunni di seconda generazione che mettono a servizio dei compagni meno esperti nella L1 le proprie conoscenze e competenze. A questo proposito, nel suo studio sul CLB nelle classi italiane, Cirillo (2017) riporta un atteggiamento globalmente positivo e di disponibilità da parte dei language brokers che fanno da intermediari tra i loro compagni e l’insegnante, ma non mancano tuttavia sentimenti contrastanti141. Negli studi sul translanguaging del gruppo statunitense in particolare (cfr. ad es. García e Kleyn, 2016; García et al., 2017), vengono definiti “bilingui emergenti” (emergent bilinguals) tutti quegli apprendenti allofoni che parlano una o più lingue diverse rispetto a quella di scolarizzazione. 141 Dall’analisi dei questionari somministrati a 277 giovani brokers delle scuole dell’Emilia Romagna, emerge che il 43% degli intervistati è felice di mediare, il 30% è contento di poter aiutare i compagni di scuola che non sanno parlare molto bene l'italiano, al 18% di loro piace farlo, ma al 15% non piace, il 6% in tali occasioni si sente diverso dai propri compagni di scuola e il 5% preferirebbe non farlo (Cirillo, 2017: 302). 140
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b) Utilizzare una varietà di risorse educative plurilingui e multimodali: gli insegnanti che intendano progettare una didattica fondata sulla teoria del translanguaging sono chiamati a dotarsi di una varietà di risorse multilingui come testi in più lingue, traduzioni, dizionari e glossari bi/plurilingui, ma anche ad usare in modo diffuso la multimodalità ricorrendo ad immagini, audiovisivi, film ed altre risorse reperibili online. La compresenza di una pluralità di codici, verbali e non, non solo facilita l’accesso ai contenuti della lezione agli studenti plurilingui, ma dà a tutta la classe la possibilità di avere una prospettiva ampia e critica sull’argomento affrontato. Lo spazio linguistico della classe può essere inoltre organizzato secondo quella che García et al. (2017) definiscono “ecologia plurilingue”, facendo cioè in modo che le diverse pratiche plurilingui degli alunni siano sempre compresenti e visibili. Tra le strategie suggerite a questo scopo si cita ad esempio: - l’impiego di poster e cartelli in più lingue, che riportino ad esempio il lessico o le espressioni utili alla comunicazione in classe; - la realizzazione di tabelloni con parole chiave o mappe concettuali plurilingui, relative a specifici argomenti trattati; - la creazione di schemi che mettano a confronto le eventuali affinità linguistiche tra le lingue presenti in aula; - il ricorso a video con sottotitoli nella lingua di scolarizzazione o nelle LO degli alunni, ecc. L’intera istituzione scolastica può diventare un ambiente “ecologico”, dotando i vari locali con scritte e cartelloni plurilingui, ma soprattutto garantendo la possibilità di accedere ad una biblioteca attrezzata con libri, riviste e giornali nelle principali lingue presenti a scuola o ad un laboratorio informatico con risorse multimediali bi/plurilingui. Questa ecologia plurilingue permetterà non solo di valorizzare a tutto tondo le lingue presenti nei repertori linguistici degli alunni, ma consentirà il mantenimento e l’ampliamento della competenza nella LO, grazie all’esposizione a varietà diverse da quella parlata in casa. Realizzare una didattica del translanguaging vuol dire infine mettere in gioco un’altra preziosissima ‘risorsa’, aprendo il contesto scolastico alla collaborazione delle famiglie e delle comunità di riferimento degli alunni. Genitori ed altre figure di riferimento degli
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studenti vengono spesso coinvolti nelle attività scolastiche dei propri figli affinché possano arricchirle con le loro storie, esperienze, letture e conoscenze. c) Introdurre strategie didattiche di translanguaging: rifacendosi ad alcuni studi di caso condotti in classi bilingui e plurilingui nordamericane, Kleyn (2016: 205-210) elenca una serie di strategie di translanguaging utili nei programmi di educazione bilingue, nell’insegnamento di una L2 (nel caso specifico l’inglese come seconda lingua o ESL) e nell’insegnamento di specifiche aree disciplinari nella lingua di scolarizzazione. Alcune delle strategie indicate per i contesti bilingui possono essere utili, riadattandole, anche nelle classi plurilingui con presenza prioritaria di una specifica provenienza linguistica, com’è ad esempio il caso di alcune realtà italiane142. In questi contesti si sottolinea l’importanza di definire esplicitamente una politica d’uso delle due lingue implicate in modo che gli studenti abbiano pari opportunità di sviluppare una conoscenza adeguata di entrambe. Anche nel caso dei programmi bilingui si raccomanda di creare occasioni di translanguaging, utili a non compartimentalizzare gli apprendimenti nelle due lingue obiettivo e all’esercizio di quel bilinguismo dinamico tipico degli apprendenti bi/plurilingui. In questo tipo di contesti si suggerisce, quando possibile, di utilizzare testi tradotti o con traduzione a fronte in modo da garantire la comprensione di parole, frasi e concetti complessi anche ai bilingui emergenti. Questo tipo di strategia non solo permette l’accesso al senso, ma dà agli studenti la possibilità di prendere visione contemporaneamente delle due lingue oggetto e/o veicolo di studio, stimolandoli a notarne similarità e differenze. In riferimento alle strategie indicate per l’insegnamento della L2, si riporta di seguito una selezione di strategie ed attività che possono essere valide in modo più ampio anche ai fini di un’educazione plurilingue in vari contesti educativi143: Si fa qui riferimento non solo alle realtà bilingui delle regioni a statuto speciale come il Trentino Alto Adige o la Val d’Aosta, ma anche a specifiche aree geografiche con una particolare concentrazione di una determinata provenienza migratoria, come per esempio i sinofoni a Prato, gli ispanofoni a Genova, ecc. (si veda il paragrafo successivo per un approfondimento). 143 Le strategie qui riportate (Kleyn, 2016) sono desunte dai casi di studio presenti nel volume a cura di García e Kleyn (2016). Le denominazioni delle strategie e delle attività sono nostre. 142
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scaffolding plurilingue: fornire una traduzione degli obiettivi della lezione, delle parole chiave, delle consegne e dei concetti principali della lezione, in modo da dare a tutti gli studenti un’idea generale dei temi che verranno trattati; presentazioni e letture plurilingui: permettere agli studenti di fare delle presentazioni o di leggere all’intera classe brevi testi o indicazioni nella propria lingua o in modalità bilingue, anche quando la comprensione da parte dei compagni non è garantita. In tal caso l’obiettivo è soprattutto di tipo educativo, poiché questa pratica – come nel caso dell’EAL −dà legittimità a tutte le lingue presenti in classe, mettendo in evidenza la loro funzione di risorse di apprendimento; scrittura creativa: realizzare dei lavori di scrittura creativa basati sul translanguaging, come per esempio poesie o altri testi, eventualmente a partire dall’analisi di testi letterari plurilingui con fenomeni di code-switching e code-mixing (cfr. Ebe 2016); revisione di traduzioni: dare la possibilità di mettere in discussione e correggere dei testi tradotti attraverso i traduttori online che, come noto, possono dare esiti piuttosto imprecisi. Gli studenti, cui è affidato il compito di correggere la traduzione nella loro LO, ad esempio proiettandola sulla LIM, assumono così il ruolo di esperti linguistici, con il risvolto positivo che l’intera classe viene esposta a diverse lingue e sistemi di scrittura; coinvolgimento delle famiglie: prevedere attività che mettano in relazione le pratiche scolastiche con quelle domestiche, in modo che la famiglia diventi risorsa linguistica e di conoscenza per gli alunni bi/plurilingui. Questa pratica intende valorizzare le appartenenze linguistico-culturali di tutti gli alunni rafforzando al contempo le relazioni scuola-famiglia.
In riferimento allo studio delle discipline del curricolo scolastico, Kleyn (2016) cita inoltre alcune strategie didattiche diffuse, cui si aggiunge spesso una curvatura plurilingue: - la selezione di testi in più lingue che riflettano l’esperienza degli alunni e/o il loro background culturale;
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- l’impiego di strategie di comparazione interculturale sui temi oggetti di studio, soprattutto in presenza di alunni che sono stati scolarizzati in sistemi culturali differenti; - l’impiego di strategie di comparazione interlinguistica, in particolare in riferimento a parole chiave e termini specialistici affini nelle lingue presenti in classe (nel caso specifico spagnolo e inglese); - la promozione dell’apprendimento esperienziale attraverso attività di tipo pratico o laboratoriale, soprattutto per discipline con parti applicative come le scienze; - il ricorso a fonti primarie e testi autentici in cui le strategie di translanguaging sopra descritte per la L2 possano fungere da utile supporto per l’accesso al senso. Si tratta di strategie e modalità didattiche che ritroviamo anche in alcuni degli approcci plurali (approccio interculturale e didattica integrata in particolare), qui inserite in un contesto più ampio ed articolato. Volendo invece circoscrivere le specificità del translanguaging rispetto agli approcci plurali, notiamo nel primo l’intento di andare oltre l’impiego delle LO degli alunni in funzione della lingua obiettivo (scaffolding stance) per accentuarne il ruolo di veicolo di apprendimento dei contenuti disciplinari e, al contempo, di espressione di sé e di costruzione di relazioni (transformative stance). Un’ultima importante attenzione va riservata alla fase della valutazione: soprattutto quando l’obiettivo è quello di valutare l’apprendimento del contenuto, si suggerisce di accettare risposte anche in altre lingue comprensibili al docente. In tal modo si assicura allo studente la possibilità di essere valutato a partire dal suo repertorio linguistico effettivo e al docente di rendersi conto che gli obiettivi disciplinari siano stati raggiunti, al di là di eventuali difficoltà linguistiche nella lingua di scolarizzazione. In ogni caso, nel translanguaging la valutazione è un processo plurale e partecipato (assessments) che, oltre alla prospettiva del docente, include quella degli alunni attraverso l’autovalutazione e la valutazione tra pari; quella delle loro famiglie (connexión), che valutano quanto appreso dai propri figli a scuola, quanto essi stessi hanno appreso tramite loro o quanto del proprio sapere potrebbero ancora condividere con la classe (García et al., 2017). Questa “connessione”, fondamentale anche per
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l’attuazione dell’EAL nelle fasce scolastiche iniziali, è qui intesa in senso più ampio e resa parte integrante delle attività scolastiche.
6.4 Diffusione e contesti di applicazione del translanguaging: l’apporto italiano L’applicazione più nota ed estesa del translanguaging in ambito didattico si deve a García ed al suo gruppo di ricerca del Cuny-Nysieb (Celic e Seltzer, 2011), il cui intenso lavoro di ricerca, formazione e sperimentazione nelle scuole pubbliche di New York ha fatto sì che esso sia oggi parte integrante del curricolo scolastico. Diverse esperienze sono presenti anche in ambito europeo, per lo più in contesti bi/plurilingui nord europei: tra queste si segnalano le sperimentazioni riportate da Paulsrud et al. (2017), con focus prevalente sui Paesi scandinavi, quella condotta da Duarte e GuntherVan der Meij (2018) in Frisia, nel nord dei Paesi Bassi, quella di Cenoz e Gorter (2017) nei Paesi Baschi. Nel nostro Paese il translanguaging è ancora poco diffuso e conosciuto, sebbene inizi a trovare applicazione in diverse realtà scolastiche nell’ambito di progetti sperimentali (cfr. infra). Questo, probabilmente, in dipendenza anche di alcune criticità legate all’applicabilità stessa del translanguaging, che hanno portato ad una parziale rimodulazione del modello di matrice statunitense. Una prima possibile criticità riguarda, a nostro parere, il diverso background migratorio di riferimento e, con esso, le lingue di origine degli alunni plurilingui. In gran parte delle sperimentazioni condotte in contesto nord-americano i repertori linguistici degli alunni comprendono in prevalenza lo spagnolo (ad es., García et al., 2016; García e Klein, 2016), configurando spesso un contesto di tipo bilingue o, comunque, con un numero limitato di altre LO. Come noto, nel nostro Paese le provenienze migratorie sono invece molteplici e spesso distribuite in modo disomogeneo lungo la penisola, dando luogo alla presenza di un’ampia koinè di idiomi che possono rendere complesso implicare le varie LO presenti in classe, utilizzandole come mezzo di apprendimento e di insegnamento disciplinare. Negli esempi di translanguaging presenti in letteratura, inoltre, viene spesso data per implicita la capacità di bambini e ragazzi bilingui di saper leggere e scrivere nella LO, competenza tutt’altro che scontata
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negli alunni di origine straniera nelle classi italiane, soprattutto per quelli di seconda generazione, la cui LO è spesso oggetto di erosione linguistica, quando questa non viene del tutto abbandonata (cfr. Chini e Andorno, 2018; Cognigni e Vitrone, 2017). Più frequentemente la loro competenza in LO è di tipo orale, non è cioè sempre supportata dalla presenza di un’adeguata abilità di letto-scrittura e, tanto meno, utile allo studio delle discipline scolastiche. Anche in presenza di un’effettiva alfabetizzazione bilingue (biliteracy), tale competenza resta pur sempre limitata a specifici domini, come ad esempio quello personale o familiare. Se una didattica del translanguaging è possibile anche nel nostro Paese, essa va dunque riadattata e calibrata sulle specifiche caratteristiche del contesto sociolinguistico e migratorio italiano nel suo complesso e nelle sue specificità locali, come dimostrano in parte anche le esperienze didattiche finora condotte in Italia144. Uno dei primi progetti italiani a sperimentare il translanguaging nel nostro Paese, è il progetto LI.LO (Lingua Italiana. Lingua d’Origine) a cura di Firpo e Sanfelici (2016) dell’Università di Genova. Basandosi sul modello statunitense del Cuny-Nysieb, a partire dall’a.a. 2013/2014 le studiose hanno condotto un progetto di ricerca-azione in una scuola secondaria di I grado di Genova, il quale è stato poi esteso anche alla città di Milano. Data l’ampia presenza di alunni di origine ispanofona nell’area genovese, il progetto si prefigge di mettere a frutto la loro conoscenza dello spagnolo per migliorare la propria performance scolastica in italiano e, parallelamente, di fare in modo che l’intera classe possa affinare le competenze in lingua spagnola. Il progetto dedica particolare attenzione al mantenimento dello spagnolo come LO, ma anche allo sviluppo dei linguaggi accademici, delle competenze metalinguistiche e di quelle interculturali. Nonostante gli alunni ispanofoni fossero nati e scolarizzati in Italia, gli esiti dei test iniziali in lingua italiana erano infatti inferiori a quelli dei compagni italofoni. Sono stati quindi avviati dei laboratori extracurricolari in cui gli alunni di origine ispanofona potessero I progetti più ampi sono stati infatti realizzati per lo più in aree con una certa omogeneità di provenienze degli alunni stranieri. È questo il caso, ad esempio, del progetto Li.LO (Firpo e Sanfelici, 2016; 2018) focalizzato sullo spagnolo LO nelle scuole di Genova, o del progetto l’AltRoparlante (Carbonara e Scibetta, 2018; 2019), svolto in vari contesti con elevata presenza di alunni sinofoni. 144
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ripercorrere ed approfondire i contenuti disciplinari di geografia e storia utilizzando sia l’italiano sia lo spagnolo, con il sostegno delle nuove tecnologie. L’intervento didattico del progetto, fondato su un approccio lessicale alla disciplina e su una metodologia di tipo bilingue italiano-spagnolo, ha permesso di ottenere un miglioramento in entrambe le lingue sia nella comprensione che nella produzione. Il più noto progetto italiano improntato al translanguaging è l’AltRoparlante, promosso da Carbonara e Scibetta (2018; 2019) dell’Università per Stranieri di Siena, che dal 2016 sperimentano l’introduzione di attività di translanguaging in vari Istituti Comprensivi del centro e del nord d’Italia. Tra altre proposte didattiche, il progetto si caratterizza per la realizzazione di: - attività volte alla valorizzazione dei repertori linguistici sul piano visivo (es. ritratti di lingue), la creazione di bacheche, cartelloni e dizionari plurilingui, anche in relazione ai contenuti disciplinari; -
attività di storytelling bilingue o nelle diverse LO presenti in classe, con il coinvolgimento di genitori e con il supporto di mediatori;
-
attività cooperative, in piccoli gruppi linguisticamente omogenei o eterogenei, mirate alla gestione, sia in fase ricettiva sia in fase produttiva, di testi plurilingui contenenti elementi linguistici nelle lingue e dialetti presenti in classe.
Proponendosi in continuità con gli orientamenti europei e nazionali sull’educazione plurilingue, il progetto ha adattato la proposta metodologica nord-americana ricorrendo all’Unità di Lavoro/Apprendimento (UdLA) (Pona et al., 2018) come procedura didattica per portare in classe il translanguaging. Essa si concretizza in una struttura di pianificazione a due elementi, denominata Quadro generale dell’Unità e Fasi di Sviluppo, dove il Quadro generale dell’Unità si rifà prevalentemente agli orientamenti europei e nazionali (Nuove Competenze Chiave Europee, obiettivi di apprendimento delle Indicazioni Nazionali, competenze e risorse del FREPA/CARAP) e le Fasi di Sviluppo sono in continuità con il Translanguaging Instructional Design Cycle (Carbonara e Martini, 2019). Fra i diversi risvolti positivi del progetto, si riporta in particolare come la promozione dei repertori plurilingui degli alunni
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abbia indotto i bambini italiani a seguire l’esempio dei compagni “stranieri”, inducendo una maggiore consapevolezza sulla diversità linguistica e ad un uso più libero del dialetto anche in contesto scolastico. Le attività proposte hanno inoltre migliorato il rapporto tra gli alunni in classe, e tra questi e il docente, il quale grazie ai propri alunni ha occasione di scoprire nuove lingue, condividendo con essi l’esperienza dell’apprendimento linguistico. Un altro progetto italiano ispirato alla didattica del translanguaging è lo studio di caso condotto da Coppola e Moretti (2018) che, a partire dall’a.s. 2015/16, hanno svolto una sperimentazione nella scuola del I ciclo con lo scopo di verificare le potenzialità di alcune tecniche dialogiche e supporti tecnologici nelle classi ad abilità differenziate. Anche questo progetto ha previsto un adattamento ed ampliamento della prospettiva del translanguaging al contesto italiano, prevendendo in particolare l’adozione dell’approccio dialogico come sfondo teorico-metodologico (cfr. Coppola, 2011; 2019)145. Nella prospettiva delle stesse autrici, l’approccio dialogico può essere considerato “un approccio plurale, in quanto fa propri i principi del plurilinguismo e della comunicazione interculturale e tiene conto, globalmente, dei molteplici fattori che compongono la competenza linguistico-comunicativa, senza trascurare le componenti soggettive e le dinamiche intersoggettive che entrano in gioco nell’inter-azione didattica” (Coppola e Moretti, 2018: 404, enfasi cancellata). La prospettiva dialogica permette dunque di adottare una didattica centrata sull’apprendente e di accogliere le raccomandazioni metodologico-didattiche presenti nella normativa scolastica italiana relativa all’educazione linguistica degli alunni con Bisogni Educativi Speciali e all’inclusione scolastica (MIUR, 2012b), cui il progetto presta particolare attenzione. Lo studio di caso condotto si è avvalso di “La base teorica dell’approccio dialogico è ampia e interdisciplinare. Per fare solo qualche esempio, essa tiene conto: dei principi euristici ed etici del dialogo (ad es., Lévinas, 1984); della teoria dell’agire comunicativo orientato alla reciproca comprensione (Habermas, 1997); della nozione di intersoggettività, intesa quale struttura emergente del processo comunicativo, nel quale l’interlocutore trascende le proprie categorie mentali per accogliere quelle dell’altro e costruire un senso condiviso (Rommetveit, 1990); di alcuni aspetti della concezione polifonica e dialogica del linguaggio di Bachtin (ad es., 2001); della prospettiva ecologica e socioculturale dell’apprendimento linguistico (ad es., Van Lier, 2004). A partire da questi e altri riferimenti teorici, l’approccio dialogico sviluppa una concezione di insegnamento linguistico complessa, relazionale e plurale […].” (Coppola, 2019: 121). 145
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un campione di 300 alunni compresi nella fascia di età 11-13 frequentanti un Istituto Comprensivo di un piccolo centro del Fiorentino, caratterizzato da un’elevata presenza di alunni sinofoni. Nel contesto della sperimentazione il multilinguismo è particolarmente valorizzato essendo previsto l’insegnamento di 4 lingue146. Obiettivo principale dello studio è “verificare se e in quale misura l’uso contemporaneo dell’intero repertorio linguistico della classe (L1, L2, LS) in attività cooperative, svolte spesso con l’ausilio di supporti tecnologici, potesse incidere positivamente sull’apprendimento linguistico, assecondando i confronti interlinguistici e la riflessione sulle L1 e L2, e, nel contempo, potesse anche favorire atteggiamenti positivi nei confronti delle differenti lingue e culture” (Coppola e Moretti, 2018: 398). A tale scopo la sperimentazione ha previsto l’elaborazione di un modulo plurilingue dal titolo “In quante lingue mangi?”, composto da due Unità di lavoro (UdL) di 32 ore ciascuna, in cui la prima si focalizza sullo sviluppo della competenza lessicale e di quella metalinguistica, mentre la seconda mira allo sviluppo delle abilità di comunicazione e testuale. Il tema del cibo è stato sviluppato tenendo conto di strategie e tecniche tipiche degli approcci plurali e del translanguaging come ad esempio: - lo svolgimento di task che prevedono l’uso contemporaneo delle 4 lingue insegnate in classe e frequenti ricorsi anche alle L1 degli alunni; - l’adozione della comparazione intra- ed interlinguistica e della riflessione metalinguistica come strategie ricorrenti (ad es. l’osservazione di fenomeni linguistici e la formulazione di ipotesi sul loro funzionamento, la riflessione sulla variabilità linguistica in relazione all’uso ecc.), a partire dal translanguaging spontaneo degli alunni; - l’uso della tecnologia come supporto al docente e al singolo alunno (es. tramite l’impiego di interfacce web e dizionari elettronici) e, in funzione cooperativa, nei gruppi di lavoro attraverso la metodologia di matrice dialogica nota come Cooperative BYOD147;
Oltre all’italiano (L1 e L2), il contesto della sperimentazione prevede l’insegnamento dell’inglese, dello spagnolo e, tenuto conto dell’alta percentuale di alunni sinofoni, del cinese, svolto da insegnanti madrelingua in orario extrascolastico. 147 Il Cooperative BYOD coniuga le tecniche del cooperative learning con l’impiego di dispositivi mobili, come accade nella modalità BYOD (Bring Your Own Device), una pratica di origine aziendale che si è rapidamente diffusa anche in contesto educativo e formativo (cfr. Coppola, 2015). 146
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- l’impiego di attività a carattere interculturale come interviste, narrazioni, testimonianze, ecc. che prevedano il coinvolgimento dei familiari degli alunni e delle comunità linguistiche del territorio. Oltre alla dimensione cooperativa e tecnologica, il progetto si caratterizza per un’attenzione particolare alla dimensione della valutazione della competenza plurilingue, elaborando proposte di testing plurilingue: i test realizzati, composti da un numero variabile di prove, sono stati somministrati online agli alunni nelle 4 lingue curricolari del progetto attraverso l’uso di un’interfaccia dedicata (Coppola e Moretti, 2018). Come si evince dagli 800 testi raccolti nei due anni di sperimentazione, la metodologia utilizzata si è rivelata efficace nel favorire l’uso attivo di tutte le lingue presenti in aula e la riflessione metalinguistica, nel migliorare la capacità degli alunni di gestire il proprio repertorio linguistico in modo funzionale ai diversi contesti d’uso, nel facilitare inoltre lo scambio interculturale in classe (Coppola, 2019).
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Conclusioni: premesse per una “via italiana” alla didattica plurilingue I progetti e le esperienze esaminati in questo lavoro testimoniano che una didattica plurilingue è, non solo possibile, ma anche auspicabile nell’odierna scuola multiculturale, dati i suoi numerosi vantaggi e le dinamiche positive che ingenera nella classe plurilingue. Una didattica plurilingue costituisce purtuttavia un’opportunità perseguibile solo a partire da una prospettiva bottom-up, contestualizzata (cfr. Gajo, 2014), che tenga in considerazione le specifiche caratteristiche sociolinguistiche e socioculturali del contesto di apprendimento e della sensibilità e disponibilità dei suoi attori e co-attori (docenti, alunni, famiglie, comunità locale) a mettersi in gioco. La contestualizzazione, essendo un processo, procede però per gradi o passi successivi. Sulla base delle esperienze prese in esame, è possibile individuare una progressione d’insieme negli approcci qui descritti e ai fini dell’implementazione di un curricolo plurilingue verticale che sia fondato sulla centralità dell’alunno, delle sue capacità e dei suoi bisogni. Alle funzioni fortemente educative dell’EAL, che come visto risulta un approccio particolarmente adatto agli apprendenti più giovani a partire dalla scuola dell’infanzia in poi, nei livelli scolastici successivi seguiranno approcci in cui assumono maggiore rilevanza come risorse di apprendimento la riflessione metalinguistica e il transfer intra/interlinguistico: elementi, questi, presenti in diversa misura nell’intercomprensione tra lingue affini e nella didattica integrata delle lingue a seconda delle abilità cognitive degli apprendenti. Il translanguaging, in quanto approccio plurilingue flessibile a dimensione variabile, può essere impiegato già a partire dalla scuola dell’infanzia al pari dell’EAL, per poi modellarsi sugli specifici obiettivi educativi e disciplinari di ciascun ordine e grado scolastico (cfr. fig. 15).
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EAL / translanguaging IC tra lingue affini DIL Scuola dell'Infanzia
Scuola Primaria
Scuola Secondaria
Fig. 15 – Contesti educativi di applicazione degli approcci plurilingui
Le attività e i progetti didattici qui descritti lasciano intravvedere linee di intervento praticabili e risvolti educativi promettenti, sebbene l’implementazione di un’effettiva educazione plurilingue e interculturale nel contesto scolastico italiano sia ancora un processo in divenire non privo di criticità. Una delle principali risiede nella difficoltà di oltrepassare una diffusa “logica del progetto”, per cui molte esperienze positive rimangono spesso confinate nell’ambito di uno specifico progetto scolastico o di una singola sperimentazione di ricerca – che spesso coincidono − con la profusione di molte energie da parte di tutti gli attori coinvolti (docenti, alunni, famiglie, ricercatori…), senza che queste riescano a trovare una loro legittimità o continuità nella programmazione scolastica quotidiana. Inoltre, l’ampia diversità linguistica presente nelle classi plurilingui italiane e il disequilibrio di abilità e competenze nelle LO degli alunni, tipica di molti bilingui emergenti, costituisce spesso una notevole sfida per i docenti della scuola italiana; sia in via generale, sia anche perché non sempre possono contare su una conoscenza delle LS e/o delle LO dei loro apprendenti, né tanto meno dei suoi linguaggi accademici, utili ad adottare una reale postura trasformativa (transformative stance). Privilegiare modalità compensative è, dunque, condizione necessaria ma non sufficiente affinché l’ampia diversità linguistica e culturale presente nelle odierne classi plurilingui possa essere ‘valorizzata’ oltre che ‘inclusa’, rendendola parte attiva dei processi cognitivi e relazionali che l’insegnante è chiamato a sollecitare: “la domanda chiave è dunque se sia possibile passare dall’uso di pratiche inclusive occasionali ad un quadro più strutturato e ordinario della didattica
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basata sul translanguaging nel contesto scolastico italiano” (Carbonara e Scibetta, 2019: 116 [trad. nostra]). Per implementare una didattica plurilingue efficace e superare tale occasionalità, ci sembra fondamentale che i docenti possano adottare una “lente plurilingue” (Cummins, 2017b) attraverso cui rileggere ed amplificare il proprio operato quotidiano. Questa rilettura in prospettiva plurilingue dovrebbe poter coinvolgere il più ampio numero di discipline in modo da creare degli “spazi translinguistici” complementari agli obiettivi ed alle competenze da perseguire (cfr. Carbonara e Martini, 2019), e, con essa, il più ampio numero di docenti che collaborano all’educazione dei medesimi studenti. Come dimostra la gran parte dei progetti italiani qui esaminati, una “via italiana” alla didattica plurilingue dovrebbe inoltre tenere in considerazione le specificità sociolinguistiche del nostro Paese per poter valorizzare tanto gli idiomi stranieri quanto quelli locali, dando pari dignità a ciascuno di essi indipendentemente dal loro status sociale e politico. Essa dovrebbe fondarsi cioè su una ‘visione plurale del plurilinguismo’, ovvero dei plurilinguismi (Moore, 2006), capace di prendere in carico sia il plurilinguismo endogeno della penisola italiana sia del plurilinguismo esogeno o “neoplurilinguismo” (cfr. §2.4.1), che vede oggi la presenza di una moltitudine di nuove lingue dovuta alle immigrazioni verso il nostro Paese. Ne consegue l’opportunità di implementare una didattica riflessiva, basata sul confronto intralinguistico oltre che su quello interlinguistico, in primis nella e attraverso la lingua di scolarizzazione, con l’obiettivo di sviluppare negli apprendenti una graduale consapevolezza della variazione sociolinguistica che caratterizza l’italiano (differenza tra italiano standard e dialetti, tra varietà standard e substandard, ecc.). In questa prospettiva, i concetti di “spazio linguistico italiano” (De Mauro, 1980) e di “educazione linguistica democratica” (GISCEL, 1975) continuano certamente a costituire uno strumento interpretativo di grande attualità, utile a prendere in carico l’ampia diversità dei profili degli allievi italiani e di origine straniera, ed a superare rigide categorie binarie come L1 o L2 ormai poco adeguate a descrivere la complessa realtà dei profili linguistici della classe plurilingue. La nozione di “educazione linguistica democratica”, in particolare, rappresenta ancora un punto di riferimento fondamentale nel contesto educativo italiano per i suoi principi di apertura verso i repertori linguistici di tutti gli alunni, la
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variazione linguistica come punto di partenza della didattica, la trasversalità del linguaggio verbale nella costruzione del pensiero e dell’identità sociale, in continuità con i principi dell’educazione plurilingue e interculturale promosso dal Consiglio d’Europa (cfr. §2.4). Per beneficiare di questo ricco patrimonio, tuttavia, è necessario che la formazione iniziale ed in itinere degli insegnanti possa farsi veicolo e propulsore del cambiamento. Una possibile via sarebbe quella di includere moduli formativi sull’educazione plurilingue e interculturale nei curricula accademici per la formazione dei futuri insegnanti, a partire da chi opererà nella scuola dell’infanzia e del I ciclo, come pure dei futuri docenti di area linguistica nei diversi ordini e gradi scolastici. Si auspica inoltre, alla luce di quanto sopra accennato rispetto alla formazione linguistica dei docenti della scuola italiana, che essa possa trovare collocazione anche nei Percorsi Formativi 24 CFU (D.M. 616/2017) attivati dalle Università ai fini dell’acquisizione delle competenze previste quali requisiti di accesso al concorso nazionale per l’insegnamento nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, includendo nell’ambito delle metodologie e tecnologie didattiche specifici percorsi formativi.
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