Il Pensiero, XLVIII, 1-2, 2009
 9788885716636, 8885716636

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Il Pensiero rivista di filosofia Anno 2009| Volume XLVIII | Fascicoli 1-2

Cusano

Luigi Capitano Gianluca Cuozzo Giulio d’Onofrio Walter Andreas Euler Adriano Fabris Davide Monaco Sandro Mancini Sergio Sánchez Francesco Tomatis Vincenzo Vitiello

Il Pensiero

rivista di filosofia Riedizione 2016 in occasione dei 60 anni della rivista. Comitati e direzioni attuali Rivista diretta da Vincenzo Vitiello e Massimo Adinolfi. Comitato scientifico internazionale: Massimo Cacciari, Félix Duque, Jean-François Kervégan, Thomas Rentsch, Volker Rühle, Carlo Sini, Hans Vorländer. Direzione scientifica: Piero Coda, Florinda Cambria, Giannino Di Tommaso, Massimo Donà, Enrica Lisciani-Petrini, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Luigi Vero Tarca. Redazione: Alessandro Apruzzese, Michele Capasso, Ernesto Forcellino, Giulio Goria, Davide Grossi, Lucilla Guidi, Chiara Maggese, Anna Parente, Giacomo Petrarca, Filippo Silva. Anno 2009 | Volume XLVIII | Fascicoli 1-2 Comitati e direzioni nel 2009 Direzione scientifica: Massimo Adinolfi, Massimo Cacciari, Piero Coda, Giannino Di Tommaso, Massimo Donà, Félix Duque, Enrica Lisciani-Petrini, Luigi Vero Tarca. Segreteria di redazione: Domenico Grimaldi. © 2009, Eredità Lugarini. Editore: Edizioni Scientifiche Italiane - Napoli. © 2017 - riedizione, Vincenzo Vitiello. Editore: Edizioni Inschibboleth - Roma. Il numero riportato sul margine esterno del testo corrisponde al numero di pagina dell’edizione originale. ISSN 1824-4971 ISBN ebook 978-88-85716-63-6 Registrazione: Tribunale di Rieti, n. 3/2015; precedente registrazione: Tribunale di Rieti, n. 2/1978. Deposito legale: febbraio 2017. Proprietario della testata: Vincenzo Vitiello. Editore: Inschibboleth società cooperativa - Roma. Direttore responsabile: Francesco Cundari. Curatore della riedizione in occasione dei 60 anni della rivista: Giuseppe Pintus. Impaginazione: Inschibboleth società cooperativa. Sede della pubblicazione: Rieti. Indirizzo per la corrispondenza: Inschibboleth società cooperativa, Via G. Macchi 94, 00133, Roma Italia, e-mail: [email protected], [email protected], web: www.inschibbolethedizioni.com. La riedizione è stata resa possibile grazie al contributo di:

Si ringraziano gli studenti del Liceo Classico Azuni e del Liceo Scientifico Marconi di Sassari per la collaborazione nella revisione dei testi.

Il Pensiero

rivista di filosofia Anno 2009 | Volume XLVIII

INDICE Anno 2009 | Volume XLVIII | Fascicoli 1-2 Cusano Al Lettore

p. 9

Saggi Giulio d’Onofrio, Nel cuore della «rivoluzione gnoseologica»: Cusano e la dottrina della contractio fra Medioevo e Rinascimento p. 11 Sandro Mancini, Vialità e individuazione: l’eriugenismo di Nicola Cusano » 27 Gianluca Cuozzo, Nicola Cusano e Albrecht Dürer: proporzione, armonia e Vergleichlicheit. La ratio melancholica al cospetto della «misura segreta» del mondo » 41 Walter Andreas Euler, Il De pace fidei di Nicolò Cusano e la parabola dell’anello di Lessing » 57 Francesco Tomatis, Cusano e l’ultimo Schelling

» 73

Davide Monaco, Pensare l’Uno con Cusano. L’interpretazione di Werner Beierwaltes »

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»

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Adriano Fabris, Se l’elenchos aristotelico è in grado di coinvolgere »

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Sergio Sánchez, Dal sogno del dio al sogno dell’animale da gregge: » le riflessioni di Nietzsche sul fenomeno onirico

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Luigi Capitano, «Il fiore della negazione». Michelstaedter, Rensi, » Emo

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Vincenzo Vitiello, De Possest Letture

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rivista di filosofia Anno 2009 | Volume XLVIII | Fascicoli 1-2

Cusano

Al Lettore

L’edizione critica dell’opera di Nicolò Cusano (1401-1464) – Nicolai de Cusa Opera omnia iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita – iniziata nel 1932 e comprendente gli scritti filosofici, teologici, ecclesiologico-politici, matematici, scientifici e i 293 sermoni trasmessici del Cardinale di Kues è terminata nel 2009. Essa è stata il punto di partenza e di riferimento imprescindibile, nonché l’ispiratrice di un rinnovato e ancora oggi crescente interesse filosofico per il pensiero di una delle figure storicamente e speculativamente più interessanti della storia del pensiero europeo tra la fine del Medioevo e la prima Modernità. Nell’ultimo secolo la Cusanus-Forschung, in particolare in area tedesca, ha moltiplicato i suoi sforzi nel tentativo di approfondire le strutture fondamentali del pensiero cusaniano, le sue fonti e la sua Wirkungsgeschichte. Con vero piacere dunque presento, su invito della Direzione, questo numero del «Pensiero», nel quale vengono ospitati i risultati scientifici della Giornata cusaniana, tenutasi il 12 e 13 novembre 2007, per iniziativa dei professori Maurizio Cambi e Francesco Piro del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Salerno. Le pagine che seguono testimoniano dell’attenzione oggi crescente in Italia per il pensiero del Cardinale; la partecipazione di studiosi provenienti da diversi atenei italiani, e non solo, ne è la miglior prova. Il volume si apre con il saggio di Giulio d’Onofrio che si snoda su due assi principali: da un lato l’accostamento di alcune dottrine fondamentali del pensiero cusaniano, in particolare quella della contractio, alle loro fonti medievali, e dall’altro l’accertamento che la cosiddetta «rivoluzione gnoseologica moderna» individuata da Cassirer, e ripetutamente invocata dai suoi epigoni, ha radici molto più antiche innestandosi sulla grande tradizione neoplatonica tardo-antica e medievale, pagana e cristiana. Il contributo di Sandro Mancini affronta il tema, centrale in Cusano, della singolarità. Rispetto al neoplatonismo antico segnato dal primato dell’universale sul particolare e dalla concezione di un’emanazione-processione discensiva per gradi, il pensiero cusaniano, attingendo alla teologia trinitaria e all’idea di creatio immediata e simultanea di tutto da parte di Dio, assegna all’uomo e alla singolarità, non senza alcune rilevanti oscillazioni e ambiguità, un ruolo privilegiato nell’or-

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dine della creazione. L’articolo di Gianluca Cuozzo dedicato al rapporto tra il pensiero di Cusano e l’opera teorica e artistica di Albrecht Dürer affronta uno dei temi più attuali nell’odierna Cusanus-Forschung: l’opera di uno dei maggiori pittori tedeschi del Rinascimento si rivela, suggestivamente e puntualmente, ispirata ad alcuni Leitgedanken della filosofia cusaniana quali: il principio critico-negativo della docta ignorantia, la ricerca di un’ars coniecturalis, la critica della ratio misurante chiusa su se stessa e vincolata al solo principio di non-contraddizione, il tentativo, infine, di aprirsi a una forma d’esperienza e di conoscenza diversa legata all’immagine e alla visione. Walter Andreas Euler, direttore del prestigioso Cusanus-Institut di Trier, ha approfondito la concezione interreligiosa cusaniana, esposta nel De pace fidei, confrontandola con quella di Gotthold Ephraim Lessing, rappresentata in Nathan der Weise, mostrandone, nonostante le differenze, l’essenziale concordanza. Ancora ad un confronto, questa volta tra il pensiero cusaniano e la filosofia dell’ultimo Schelling, è dedicato il saggio di Francesco Tomatis, che ricostruisce e approfondisce filologicamente e teoreticamente alcuni temi fondamentali dell’opera del Cardinale – in particolare: la docta ignorantia, il possest, il non aliud, la visione intellettuale – e della filosofia schellingiana – nello specifico quelli relativi al non-sapere sciente, a ciò che può-è (potest) l’essente (ossia l’Uno o l’Egli stesso), al mero «che» e all’intuizione intellettuale divenuta estasi e stupore della ragione. Il penultimo saggio, dello scrivente, offre una ricostruzione dell’interpretazione del massimo studioso contemporaneo di Cusano e di tutto il neoplatonismo in genere, Werner Beierwaltes, il quale nell’arco di mezzo secolo ha studiato il pensiero del Cardinale, le sue fonti e la Wirkungsgeschichte, con rara acribia filologica e profondità ermeneutica. Il volume si chiude con il contributo di Vincenzo Vitiello sul De Possest, ri-letto, secondo il metodo topologico, in relazione alle principali dottrine teologiche e filosofiche dell’Occidente. Davide Monaco

SAGGI

Nel cuore della ‘rivoluzione gnoseologica’: Cusano e la dottrina della contractio fra Medioevo e Rinascimento Giulio d’Onofrio

La centralità del problema gnoseologico nella costruzione del sistema di pensiero di Niccolò Cusano è stata più volte sottolineata in aperto riferimento alla ‘moderna rivoluzionarietà’ della sua considerazione dei rapporti tra soggetto e oggetto del conoscere. «Questo suo porsi di fronte al problema gnoseologico fa del Cusano il primo pensatore moderno»: sono queste le parole con cui Ernst Cassirer introduceva l’idea del ‘capovolgimento’ rinascimentale del modello epistemologico fino allora dominante, e quindi tipico, a suo parere, dell’intera concezione ‘medievale’ del conoscere1. Significativamente, egli partiva da un confronto con la divisio naturae di Giovanni Scoto Eriugena, presentata come un tentativo di descrivere l’ordine della realtà mediante il fedele resoconto di un «procedere intemporale delle cose dalle idee loro, come dai loro prototipi e modelli eterni», e dunque come un oggettivo concretizzarsi dell’essere in forme che la capacità recettiva del soggetto, con totale disponibilità passiva, non deve fare altro che raccogliere, registrare, e raccontare; quindi contrapponeva a tale tradizione di pensiero la radicale novità cusaniana del produttivo incontro gnoseologico tra la realtà esteriore e un soggetto inteso più come «spirito» produttivo di verità che quale passivo recettore di dati2. Proprio il confronto con la concezione del conoscere testimoniata nel ­Periphyseon di Giovanni Scoto è però indicativo dei limiti di informazione con cui Cassirer si accostava in generale alla storia dell’epistemologia medievale e, in particolare, alla tradizione del platonismo cristiano: che in modo 1 Cfr. E. Cassirer, Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, Teubner, Leipzig-Berlin 1927 (Studien der Bibliothek Warburg, 10), p. 10: «Diese Stellung zum Erkenntnisproblem charakterisiert Cusanus als den ersten modernen Denker» (tr. it. a cura di F. Federici, La Nuova Italia, Firenze 1935 [19742], p. 24); cfr. anche E. Vansteenberghe, Le Cardinal Nicolas de Cues (1401-1464). L’action – la pensée, Champion, Paris 1920, p. 279 (ricordato dallo stesso Cassirer, ibid., nota 1). 2 Ivi, pp. 43-44 (tr. it., pp. 70-72).

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esemplare è testimoniata nell’Occidente latino proprio dal sistema ontologico eriugeniano, sul quale, come è stato ampiamente mostrato, Cusano ha a lungo e attentamente riflettuto3. Con la sua ardua analisi del percorso lungo il quale l’intelligenza umana ripercorre il discendere delle cose molteplici dall’unità attuale in cui la mente divina, contemplandole, le fa essere, quindi il loro ritorno dalla dispersione degli accidenti all’unitarietà della sostanza, l’Eriugena (sostenuto dal modello gnoseologico di Massimo il Confessore) è stato in effetti un esplicito testimone dell’idea secondo cui è il soggetto conoscente che interiormente produce, ordina e governa, adattandole alle regole numeriche e alle categorie della logica, le forme nelle quali l’essere dell’oggetto si attua per mezzo del suo stesso essere conosciuto. Sintomo di un accostamento alquanto immaturo alla storia del pensiero medievale, la rapida valutazione con cui Cassirer descrive l’oggettivismo che sarebbe tipico della mentalità degli scolastici è in realtà dipendente dalla convinzione che prima della vera e propria nascita, in epoca moderna, della gnoseologia come ‘teoria della conoscenza’ (o Erkenntnistheorie), la sola concezione possibile dei rapporti tra soggetto e oggetto fosse quella corrispondentista: secondo la quale oggetto del conoscere è la res in sé, considerata in quanto sussistente nello spazio esterno alla sfera di operatività del soggetto, che si sforza invece di acquisirne, senza corromperla con modificazioni illecite, una fedele immagine riflessa. Apprezzata da Tommaso d’Aquino, l’impostazione corrispondentista del conoscere viene spesso descritta compendiariamente con la definizione della «cognitio» vera quale «adaequatio intellectus rei»: formula che risolve la possibilità della scienza nella misurazione della disponibilità da parte dell’io ad assimilare la propria rappresentazione dell’oggetto alle modalità naturali secondo le quali esso si manifesta mentre si contrappone alla sua passiva recettività (come ob-iectum appunto, o Gegen-stand)4. A ben vedere, tuttavia, in Tommaso stesso, che è persuaso dell’impossibilità di considerare ‘vero’ o ‘falso’ un oggetto del conoscere prima che sia conosciuto, il fondamento speculativo che sostiene tale concezione della verità è collocato nel principio relazionale tra res e intellectus, secondo cui l’essere vero corrisponde in tutto e per tutto all’essere intelligibile, perché la verità di qualsiasi cosa è dipendente soltanto dal suo ‘entrare in relazione’ con le capacità conoscitive del soggetto. In questo senso l’adaequatio è un vero e proprio processo formativo del conoscere, nel cui prodursi il soggetto, attivamente e non passivamente, genera il vero misurando la commensurabilità tra le cose ester3 Cfr. W. Beierwaltes, Eriugena und Cusanus, in Eriugena redivivus, Zur Wirkungsgeschichte seines Denkens im Mittelalter und im Übergang zur Neuzeit, a cura di W. Beierwaltes, Winter, Heidelberg 1987 (Abhandl. der Heidelberger Akad. der Wissensch., Philosoph.-hist. Klasse, Jahrg. 1987, 1. Abh.), pp. 311-343. 4 Cfr. Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae de veritate, q. 1, a. 1, resp.: «Omnis autem cognitio perficitur per assimilationem cognoscentis ad rem cognitam, ita quod assimilatio dicta est causa cognitionis. (…) Quae quidem concordia ‘adaequatio intellectus et rei’ dicitur; et in hoc formaliter ratio veri perficitur».

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ne e la propria recettività, o disponibilità a conoscerle. Il che è l’inevitabile conseguenza del presupposto teologico, dominante nella concezione cristiana medievale da Agostino e Anselmo fino alla maturità del pensiero scolastico, secondo cui la prima realtà di ciascuna creatura risiede nell’originario e perfetto atto intellettivo con cui Dio ‘conosce’ nel Verbo le sostanze universali ed eterne delle cose, mentre la mente umana, limitata dall’accidentalità corporale, non coglie mai pienamente tale realtà originaria e può solo aspirare ad una imperfetta rappresentazione interiore dei modi secondo cui l’essere le si manifesta5. In ragione di questo diffuso connotato platonico-cristiano nella concezione medievale della verità, lo stesso Tommaso – per esempio quando riflette sulla visione dell’essenza divina da parte dei beati – si mostra incline a correggere la convenzionalità di un corrispondentismo troppo rigido e meccanico, osservando che quando la cosa conosciuta è presente al soggetto è sempre prima passata attraverso il filtro, che inevitabilmente ne modifica la rappresentazione, della varia capacità recettiva delle potenze conoscitive di volta in volta messe in campo per riprodurne, a propria misura, l’apparire6. Se dunque di effettiva ‘modernità’ è corretto parlare a proposito della concezione che ha Cusano dei rapporti tra soggetto ed oggetto del conoscere, è per il suo avere metodicamente rimarcato le conseguenze di una disciplina gnoseologica che è stato suo merito tornare a esplicitare e valorizzare con forza, ma che penetra con le proprie radici filosofiche nel cuore di una tradizione neoplatonizzante antica e diffusa, perpetuatasi nel corso dell’intero Medioevo, in molteplici contesti speculativi e attraverso variabili contaminazioni con altri modelli epistemologici (in particolare, da un certo momento in poi, con quelli di origine peripatetico-araba). All’interno di tale tradizione, le molteplici facoltà dell’anima – che non coincidono necessariamente con le diverse operazioni che Aristotele attribuisce all’unica forma intellettiva del soggetto conoscente – scandiscono i gradi successivi di un unico processo 5 Cfr. ibid., a. 2, resp.: «Res autem non dicitur vera nisi secundum quod est intellectui adaequata; unde per posterius invenitur verum in rebus, per prius autem in intellectu. (…) Res naturales, a quibus intellectus noster scientiam accipit, mensurant intellectum nostrum (…): sed sunt mensuratae ab intellectu divino, in quo sunt omnia sicut omnia artificiata in intellectu artificis. (…) Res ergo naturalis inter duos intellectus constituta, secundum adaequationem ad utrumque vera dicitur; secundum enim adaequationem ad intellectum divinum dicitur vera, in quantum implet hoc ad quod est ordinata per intellectum divinum, ut patet per Anselmum in libro De veritate et per Augustinum in libro De vera religione (…); secundum autem adaequationem ad intellectum humanum dicitur res vera, in quantum est nata de se facere veram aestimationem. (…) Prima autem ratio veritatis per prius inest rei quam secunda, quia prius est eius comparatio ad intellectum divinum quam humanum; unde, etiam si intellectus humanus non esset, adhuc res verae dicerentur in ordine ad intellectum divinum». Cfr. C. Giacon – C. Di Martino, s.v. Adaequatio rei et intellectus, in Enciclopedia Filosofica, 12 voll., Bompiani, Milano 2006, vol. I, p. 77 (con agg. bibliogr.). 6 Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, Ia, q. 12, a. 4, resp.: «Cognitio enim contingit secundum quod cognitum est in cognoscente. Cognitum autem est in cognoscente secundum modum cognoscentis. Unde cuiuslibet cognoscentis cognitio est secundum modum suae naturae».

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conoscitivo nel corso del quale il medesimo oggetto viene sottoposto a diverse rappresentazioni, di vario ordine e grado. Poiché, infatti, la sola rappresentazione adeguata dell’oggetto è quella della sostanza o «essentia» colta in modo assoluto dalla conoscenza divina, tutte le conoscenze creaturali sono soltanto i momenti inferiori, disposti in successione crescente ma sempre imperfetti, di una progressiva ascesa verso l’irraggiungibile, suprema perfezione conoscitiva delle cose in sé. Tale dottrina del conoscere come fondativo dell’essere, edificata su un così stretto vincolo tra gnoseologia e ontologia, è stata introdotta dalle riflessioni sulla psicologia platonica e plotiniana dei tardi interpreti del Neoplatonismo greco, e in particolare di Proclo: quindi è stata consegnata all’Occidente filosofico da Boezio, che del differenziarsi fenomenico delle rappresentazioni conoscitive ha fatto il principio giustificativo per la sua ‘consolazione’ dell’umanità dalla dolorosa e particolaristica soggettività dell’esistere. Giovanni Scoto Eriugena l’ha posta a fondamento del proprio sistema costruito sulla specularità tra la descensio e il reditus universali: la compatibilità tra l’eternità immutabile delle essenze universali e il procedere della loro temporalità, dalla discesa verso il molteplice e l’accidentale alla riunificazione salvifica degli effetti e delle cause assicurata dalla redenzione, si spiega infatti assumendole non quali condizioni ontologiche contrapposte, ma come esiti del diverso manifestarsi della vera conoscenza dell’universo all’Intelletto creatore e a ciascuno dei singoli e condizionati soggetti creaturali. Il tema dello scandirsi di successivi livelli del conoscere è stato quindi utilizzato da numerosi autori monastici del secolo xii, e poi da alcuni autori francescani, fino a Bonaventura, per fissare il tracciato dell’itinerarium teologico della mente verso Dio; per essere ancora apertamente riproposto, in controtendenza rispetto al diffondersi dell’epistemologia aristotelica e della sua rivendicazione di oggettività del sapere, presso i maestri della scuola di Colonia nel secolo xiv: in particolare da Teodorico di Vriberg, il quale ha difeso nel De origine rerum praedicamentalium una teoria della formazione della conoscenza (secondo cui l’intelletto è il principio operante della determinazione dei modi di essere e di essere conosciute delle singole cose), che ha certamente sostenuto Meister Eckhart nel suo approccio alla massima tensione identificativa di soggetto e oggetto nell’estasi mistica7. *** 11

In questa lunga tradizione, da Proclo a Cusano, l’aspetto dominante, e a un tempo il primo nodo speculativo da risolvere, è la distinzione tra da una parte i procedimenti mediati e discorsivo-argomentativi consueti alla raziona7 Cfr. G. d’Onofrio, Vera philosophia. Studies in Late Antique, Early Medieval and Renaissance Christian Thought, Brepols, Turnhout 2008 (Nutrix, 1), pp. 96-130 per Boezio, 168-194 per Giovanni Scoto, e 279-308 per la tradizione platonica medievale fino a Cusano.

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lità scientifica (ratio, in greco diánoia, o anche lógos, a seconda della terminologia preferita dai vari autori) e, dall’altra, l’intuitività non mediata, atta a cogliere in ogni oggetto le caratteristiche universali dell’essere e l’imprescindibilità dei principi primi del vero, che è indispensabile attribuire alle forme più alte di intelligenza (l’intellectus in senso proprio o intelligentia, in greco il noûs). Anche Cusano, riprendendo tale terminologia platonizzante, si impegna dunque nel tracciare, per quanto possibile, una diagnosi compiuta delle operatività conoscitive proprie della sfera superiore, per riuscire a formalizzare, anche sotto l’aspetto metodologico, i rapporti tra mediazione razionale e intuizione totalizzante dell’intellectus, aggirando la difficoltà costituita dal fatto che l’unica via per descriverne le operazioni e narrarne gli esiti è quella di utilizzare ancora e sempre la strumentazione dianoetico-discorsiva della ratio. Una rilettura analitica di alcuni testi significativi è utile per apprezzare il ruolo determinante che spetta, per la costruzione del sistema cusaniano, alla differenziazione tra le forme di potere conoscitivo che competono ai distinti strumenti dell’anima. Prendiamo le mosse dal ricorso, nella Apologia doctae ignorantiae, alla metafora – recuperata nel titolo del De venatione sapientiae e destinata a suggestive riproposte in età moderna (a partire da Bruno) – che assimila la ricerca umana della verità ad una corsa di affannati cani da caccia che inseguono una inafferrabile preda: Hinc, uti venaticus canis utitur in vestigiis per sensibile experimentum discursu sibi indito, ut demum ea via ad quaesitum attingat, sic (…) homo logica. (…) Ratiocinatio quaerit et discurrit. Discursus est necessario terminatus inter terminos a quo et ad quem, et illa adversa sibi dicimus contradictoria. Unde rationi discurrenti termini oppositi et disiuncti sunt. Quare in regione rationis extrema sunt disiuncta, ut in ratione circuli, quae est, quod lineae a centro ad circumferentiam sint aequales, centrum non potest coincidere cum circumferentia. Sed in regione intellectus, qui vidit in unitate numerum complicari et in puncto lineam et in centro circulum, coincidentia unitatis et pluralitatis, puncti et lineae, centri et circuli attingitur visu mentis sine discursu8.

Come il cane, in obbedienza alla sua stessa natura, si slancia in una corsa in più direzioni («dis-cursus sibi inditus») per orientarsi fra le tracce offerte dall’esperienza sensibile in cerca della via percorsa dalla preda («quaesitum»), allo stesso modo l’uomo si serve della logica, ossia della ratiocinatio discorsiva, con la quale cerca («quaerit») l’oggetto percorrendo da una parte all’altra il campo di indagine («dis-currit»). Il discursus razionale è necessariamente

8 Niccolò Cusano, Apologia doctae ignorantiae, in Nicolai de Cusa Opera omnia, iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita, vol. II, a cura di R. Klibansky, Meiner, Leipzig/Hamburg 1932, 20072, pp. 14-15. In tutti i testi citati i corsivi sono miei e sono finalizzati ad evidenziare i termini successivamente evocati nel mio commento.

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chiuso tra i limiti che lo avviano e lo fermano («termini a quo et ad quem»), che, in quanto contrapposti («adversa»), sono detti contradictoria. Nell’ambito di conoscenza proprio della ratio («in regione rationis») si procede mediando tra termini opposti («extrema disiuncta»), così come, quando essa descrive le proprietà geometriche del cerchio («ratio circuli»), le appare che il centro non può e non potrà mai coincidere con la circonferenza. Nell’ambito proprio dell’intellectus («in regione intellectus»), invece, le realtà effettuali e determinate sono ricomprese nella conoscenza dell’efficacia della loro causa produttiva: qui si coglie dunque («vidit») la complicatio, ossia la ricollezione complessiva delle proprietà degli effetti nella produttività della causa, colta con lo sguardo diretto dell’anima nella sua più pura semplicità («visu mentis») e senza più alcun passaggio tra termini opposti («sine dis-cursu»), come singolarità e pluralità, punto e linea, centro e circonferenza. È evidente che la modalità intellettuale di rappresentazione dell’oggetto non è portatrice di una verità diversa rispetto a quella razionale: la verità della cosa conosciuta è una sola, ma si mostra in modi e secondo parametri diversi. Compito del sapiente è avviare la ratio lungo il progresso scalare che le consente di trascendersi e inverarsi nei gradi superiori del conoscere: fine di tale progresso sarà infatti, nella misura delle sue possibilità, la massima assimilazione possibile non all’essenza della cosa, ma allo sguardo assoluto e superiore con cui Dio ne contempla la verità. Obbiettivo del conoscere umano è dunque sempre il «quaerere Deum», orientandosi verso la contemplazione della verità di ogni cosa quale è eternamente in Dio «complicata» e riassunta. Cusano offre una diretta conferma di questa dottrina approfondendo la propria descrizione della distribuzione gerarchica del conoscere nel seguente passaggio dal De quaerendo Deum, il cui esordio, esplicitamente, sembra richiamarsi – come ad un illustre precedente medievale di tale concezione dell’ascendere conoscitivo – al procedimento mentale che nel Proslogion di Anselmo d’Aosta conduce, attraverso il «conflictus cogitationum», fino all’intuizione intellettuale più immediata e diretta del manifestarsi del vero, che ha come oggetto il «quo magis cogitari nequit»9: 13

Dum igitur Deum concipis esse melius quam concipi possit, omnia abicis, quae terminantur et contracta sunt. Abicis corpus dicens Deum non esse corpus, scilicet terminatum quantitate, loco, figura, situ. Abicis sensus, qui terminati sunt, non vides per montem, non in terra abscondita, non in solarem claritatem, et ita de auditu et ceteris sensibus. Omnes enim illi terminati sunt in potentia et virtute. Non sunt igitur Deus. Abicis sensum communem, phantasiam et imaginationem, nam non excedunt naturam corporalem. Non enim imaginatio attingit

9 Cfr. G. d’Onofrio, «In cubiculum mentis». L’«intellectus» anselmiano e la gnoseologia platonica altomedievale, in Rationality from Saint Augustine to Saint Anselm, ed. by C. Viola and J. Kormos, Pázmany Péter Catholic University, The Editor of the Philosophical Institute, Piliscsaba 2005, pp. 61-88; e Id., Vera philosophia, cit., pp. 237-264.

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non-corporeum. Abicis rationem, nam ipsa saepe deficit, non omnia attingit. (…) Abicis intellectum, nam et ipse intellectus terminatus est in virtute, licet omnia ambiat. Quiditatem tamen in sua puritate rei cuiuscumque non potest perfecte attingere et, quidquid attingit, videt perfectiori modo attingibile. Non est igitur Deus intellectus. Sed dum quaeris ultra, non reperis in te quidquam Deo simile, sed affirmas Deum supra haec omnia ut causam, principium atque lumen vitae animae tuae intellectivae10.

Quando, obbedendo all’invito anselmiano, si concepisce Dio come il quo maius, si ascende al più alto livello del conoscere, attuando pienamente il passaggio dalle rappresentazioni inferiori a quelle più pure del vero. Secondo la terminologia che così diventa consueta nel linguaggio di Cusano, ogni conoscenza inferiore implica rispetto a quella superiore una contractio: una riduzione della capacità, propria delle facoltà più alte e dirette, di implicare in unità la limitazione individualizzante che si dispiega negli ordini di conoscenza più bassi e mediati. Così sono indicati come forme «contractae» di conoscenza i vari gradi delle facoltà più basse («omnia… quae terminatur et contracta sunt»), mano a mano che vengono superati («non sunt igitur Deus»), perché via via risolti nella migliore rappresentazione del vero propria delle facoltà superiori; dal basso verso l’alto: la condizione di preconoscenza della corporeità spazio-temporale («abicis corpus», perché Dio non è qualcosa di «terminatum quantitate, loco, figura, situ»); i sensi esterni, che implicano distinzione e contrapposizione tra le cose che ciascuno di essi riproduce sotto diverse visuali («abicis sensus», perché Dio non è visibile negli oggetti sensibili «qui terminati sunt… in potentia et virtute»); il senso interiore e l’immaginazione («abicis sensum communem, phantasiam et imaginationem»), che non riescono a raffigurarsi l’incorporeità del vero («non excedunt naturam corporalem»); quindi la razionalità («abicis rationem»), incapace di cogliere la totalità dei veri («non omnia attingit»); fino allo stesso intelletto («abicis intellectum»), ancora sottoposto alla limitata capacità informativa creaturale: pur essendo capace di cogliere il tutto, lo determina infatti pur sempre come un oggetto limitato («terminatus est in virtute, licet omnia ambiat») e non coglie la verità dell’essenza, rinviando sempre a qualcosa di primordiale e di inattingibile («quiditatem in sua puritate rei cuiuscumque non potest perfecte attingere»). Al di là di tutti questi gradi, e ricomprendendoli tutti, si staglia il potere della teologia negativa, che sola tocca l’incomprensibile, al di là di ogni contractio («sed dum quaeris ultra… affirmas Deum supra haec omnia»). Come Cusano ribadisce nel De filiatione Dei, vera conoscenza è dunque soltanto quella teologica, che si attua procedendo al di là di ogni contractio; e

10 Niccolò Cusano, De quaerendo Deum, in Nicolai de Cusa Opera omnia, iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita, vol. IV, a cura di P. Wilpert, Meiner, Hamburg 1959, c. 5, p. 34.

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che per la creatura è realizzabile solo nella suprema condizione della théosis, dove giunge a «perfectio» la massima «vis intellectualis»: Theosim vero tu ipse nosti ultimitatem perfectionis exsistere, quae et notitia Dei et Verbi seu visio intuitiva vocitatur. Hanc enim ego theologi Iohannis sententiam esse arbitror quomodo logos seu ratio aeterna quae fuit ‘in principio’ Deus ‘apud Deum’, lumen homini dedit rationale, cum ei spiritum tradidit ad sui similitudinem. (…) Haec est superadmiranda divinae virtutis participatio, ut rationalis noster spiritus in sua vi intellectuali hanc habeat potestatem, quasi semen divinum sit intellectus ipse, cuius virtus in credente in tantum ascendere possit, ut pertingat ad theosim ipsam, ad ultimam scilicet intellectus perfectionem, hoc est ad ipsam apprehensionem veritatis, non uti ipsa veritas est obumbrata in figura et in aenigmate et varia alteritate in hoc sensibili mundo, sed ut in se ipsa intellectualiter visibilis11.

La verità, considerata in quanto verità in sé e non più come verità di qualcosa, si rende «intellectualiter visibilis»: e non appare più, a questo livello supremo, «obumbrata in figura» e/o «in aenigmate», ossia mediante rappresentazioni fenomeniche, prodotte attraverso successive forme di contractio, che la fanno percepire come qualcosa di diverso da sé. Un passaggio decisivo del terzo libro del De docta ignorantia chiarisce però definitivamente il modo in cui Cusano concepisce la contractio all’interno del processo conoscitivo umano come un atto di individuazione delle condizioni ontologiche delle cose conosciute, per il cui tramite la mente ne rappresenta a se medesima l’esistere come qualcosa di finito e particolare. E poiché l’operare della ratio scientifico-discorsiva prende invece consistenza nel prodursi di un inverso processo di riconduzione dei modi di essere delle medesime realtà a caratteri universali e condivisi, la contractio risulta essere, in prima istanza, l’atto di conoscenza che è proprio, in modo specifico, della facoltà sensibile: 15

Sensualis cognitio est quaedam contracta cognitio, propter quod sensus non attingit nisi particularia. Intellectualis cognitio est universalis, propter quod respectu sensualis absoluta existit atque abstracta a contractione particulari. Contrahitur autem sensatio varie ad varios gradus, per quas quidem contractiones variae animalium species exoriuntur secundum gradus nobilitatis et perfectionis. Et quamvis ad maximum gradum simpliciter non ascendat, ut superius ostendimus, in specie tamen illa, quae actu suprema est in genere animalitatis, puta humana, ibi sensus tale animal efficit, quod ita est animal, ut et sit intellectus12. 11 Id., De filiatione Dei, in Nicolai de Cusa Opera omnia, iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita, vol. IV, a cura di P. Wilpert, Meiner, Hamburg 1959, c. 1, pp. 39-40. 12 Id., De docta ignorantia, in Nicolai de Cusa Opera omnia, iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita, vol. I, a cura di E. Hoffmann e R. Klibansky, Meiner, Leipzig 1932, III, c. 4, p. 131.

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La «sensualis cognitio», ossia il livello di apprezzamento della realtà proprio della facoltà sensibile (quindi la conoscenza, non la cosa), è ‘una forma’ («quaedam») di «contracta cognitio». Il che significa che essa, in quanto contractio, è l’operazione conoscitiva che produce – nel conoscere, e quindi nel manifestarsi della realtà delle cose – il passaggio dall’universale al particolare: in quanto tale, procede in direzione simmetricamente inversa all’operazione conoscitiva che la tradizione filosofica occidentale chiama invece abstractio. L’oggetto contractus sul piano della conoscenza sensibile è però il medesimo che ad un altro livello è abstractus, ossia è colto sotto le forme dell’universalità: la conoscenza sensibile «con-trahit», concentrandole nel determinarsi di singoli aspetti particolari, le medesime proprietà dell’essere che invece la razionalità «abs-trahit», procedendo in senso inverso ed evidenziandone le connotazioni più comuni e incondizionate, ossia universali, esenti da alterazioni accidentali. La contrapposizione di sensi e intelletto (qui senza l’introduzione della terza facoltà, intermedia, la ratio, che viene però esplicitata in numerose altre pagine cusaniane) è dunque apertamente risolta in quella tra contractio e abstractio: la conoscenza intellettuale («intellectualis cognitio») è universale in quanto sussiste (e fa sussistere i suoi oggetti) in una condizione separata («absoluta», nel senso del greco choristós, e dunque «abstracta») rispetto («respectu») alla «contractio» sensuale, che insinua la determinazione del particolare. Ed esplicitamente la sintetica formula «abstrahi a contractione» implica per Cusano la reciprocità dinamica tra lo spingere sul versante della contractio, proprio della conoscenza particolare, e l’ascendere verso l’abstractio, che è invece proprio di quella intellettuale. Nel corso di questa scansione si determinano diversi e successivi gradi del conoscere contratto-astratto («contrahitur varie ad varios gradus»), nel corso dei quali, quanto maggiore è la contractio, tanto minore sarà l’abstractio, e viceversa: per questo Cusano dice che la «sensualis cognitio» è una «quaedam» conoscenza contratta, ‘una’ tra le possibili forme di conoscenza contratta, perché le modalità della contractio sono molte e diversamente operanti ‘in relazione’ a numerosi e successivi livelli del conoscere13. La facoltà che noi chiamiamo «sensus» presiede a uno di questi livelli, quello della conoscenza delle singolarità corporee, che proprio tale atto conoscitivo rende particolari («particularia»), cogliendole e rappresentandole come tali. Dal distinguersi dei gradi successivi scaturiscono («exoriuntur») le varie specie di esseri, e poi – ascendendo lungo la scala (porfiriana) dei livelli di ‘perfezione’ o ­‘attuazione’

13 È utile osservare che l’uso della proposizione «ad» con l’accusativo è introdotto per indicare un rapporto di relazione (ad aliquid) tra i diversi gradi del conoscere (le diverse forme di contractio si definiscono ‘in relazione’ ai diversi livelli di operatività conoscitiva dell’anima umana); simmetricamente inverso appare dunque, nello stesso brano, l’uso della locuzione «respectu» seguita dal genitivo, per esprimerne la distinzione.

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delle condizioni ontologiche («secundum gradus nobilitatis et perfectionis») –, di viventi, e quindi di animali14. Il processo di risalita dalla limitazione in potenza della contractio alla perfezione in atto dell’abstractio comporta insomma un progressivo avvicinamento alla rappresentazione dell’essere in sé più compiuta possibile («ad ­maximum gradum»), alla quale, tuttavia, la mente umana, pur sempre costretta a procedere per contrapposizione di contractiones e abstractiones, non potrà mai pervenire: tale «maximum gradum» è infatti quello della abstractio superiore, piena e assoluta, propria esclusivamente della perfetta mente di Dio. La conoscenza creaturale potrà solo – liberandosi per quanto le è possibile dai condizionamenti della contractio (cioè procedendo sempre più «simpliciter») – pervenire a raffigurarsi come universale puro la «species» creaturale più alta, ossia la specie ‘uomo’, che realizza in sé, in atto, la perfezione massima dell’astrazione («quae actu suprema est in genere»): fino a dare esistenza, all’interno del genere ‘animale’, ad una specie non più condizionata dalla particolarità contrattiva del corporeo, ma connotata da una libera capacità astrattiva: e che è quindi pura attività di ‘intellezione’ («ut et sit intellectus»). Giunto a questa idea centrale, Cusano la chiarisce in modo ancora più esplicito nelle righe seguenti, affermando senz’altro che l’uomo è realmente ciò che conosce di se stesso. Conoscendosi con i sensi, è natura corporea e sensibile. Procedendo dalla contractio all’abstractio, e conoscendosi con l’intelletto, è natura intellettuale: che è qualcosa di più vero e perfetto rispetto a quella corporea, perché ogni natura superiore comprende ed in vera in sé le perfezioni di quella inferiore. L’uomo è dunque, veramente, il suo intelletto («homo est suus intellectus»): 17

Homo enim est suus intellectus, ubi contractio sensualis quodammodo in intellectuali natura suppositatur, intellectuali natura existente quoddam divinum ­separatum abstractum esse, sensuali vero remanente temporali et corruptibili ­secundum suam naturam. (…) Intellectus enim in omnibus hominibus possibiliter est omnia, crescens gradatim de possibilitate in actum, ut quanto sit maior, minor sit in potentia. Maximus autem, cum sit terminus potentiae omnis intellectualis naturae in actu existens pleniter, nequaquam existere potest, quin ita sit intellectus, quod et sit Deus, qui est omnia in omnibus15.

La «contractio sensualis» è riassunta, recuperata, ovvero è data per ‘presupposta’ («suppositatur»), entro la «natura intellettualis»: è cioè compresa in 14 Il termine «perfectio» ricorre spesso nella terminologia del platonismo medievale per indicare il passaggio della sostanza da uno stato di imperfezione potenziale, cioè di dýnamis, a quello di un atto naturale compiuto, ossia ad una enérgeia: cfr. su questa tematica gli studi raccolti nel volume Sostanza, potenza, atto. L’ontologia neoplatonica fra tarda Antichità e Medioevo, a cura di E. Mainoldi, I.L. Martone, C. Militello e R. Schiavolin, di prossima pubblicazione nella collana Collationes, edizioni Città Nuova. 15 Niccolò Cusano, ivi, III, c. 4, pp. 131-132.

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essa, proprio come nella teoria logica della suppositio si colloca il termine, determinandolo con l’uso che se ne fa, all’interno di una sfera di funzioni significanti. La conoscenza sensibile è collocata all’interno dell’intelletto come una delle modalità della natura reale dell’essere ‘uomo’: cosicché, evidentemente, essa stessa è la causa dell’apparire fenomenico della corporeità dell’uomo (e dunque del suo essere modificato come corpo). La conoscenza intellettuale è invece la (ancor più reale) sussistenza ontologica della realtà intelligente-intelligibile dell’uomo, modalità che lo rende ancora più vicino all’essere divino, separato e astratto («quoddam divinum separatum abstractum esse»). Ma allora, proprio in quanto l’uomo è l’intelletto, se è vero che l’intelletto gli consente di conoscere tutte le cose, si deve anche dire che, secondo la potenza, l’uomo è tutte le cose conoscibili mediante l’intelletto («in omnibus hominibus possibiliter est omnia»). L’intelletto nell’uomo è infatti «crescens», si sviluppa gradualmente dalla potenza («de possibilitate», moto da luogo) verso l’atto («in actum», moto a luogo); e quanto più aumentano l’abstractio, e con essa l’intelletto, ossia quanto più e meglio l’uomo conosce, tanto minori sono la contractio e la potenzialità non attuata («ut, quanto sit maior, minor sit in potentia»). Tutta la realtà, dunque, è nell’uomo e per l’uomo, ossia grazie all’uomo, in quanto è potenzialmente conoscibile nell’uomo. E ancora, assai più veramente e più realmente, tutta la realtà è in Dio e per Dio, ossia grazie a Dio, in quanto è in atto conosciuta dalla mente (ovvero dalla abstractio suprema) di Dio. Anche l’intelletto umano infatti, facoltà creaturale, non può mai essere totalizzante, non può giungere alla massima astrazione possibile («maximus… nequaquam existere potest»), poiché ogni natura intellettuale in atto è sempre il punto di arrivo, cioè il limite, di una potenzialità («terminus potentiae»). L’intelletto non può essere mai pieno, o pienamente attuato, perché ha sempre una potenzialità da sviluppare: a meno che («quin») non sia a tal punto intelletto (cioè intelligente-intelligibile) da essere anche Dio («ita sit intellectus, quod et sit Deus»), che è tutte le cose in tutte le cose («qui est omnia in omnibus»). Con quest’ultima espressione si esplicita l’inevitabile inclinare del linguaggio filosofico cusaniano verso la teologia. L’identità di intellectus e Deus implica nell’universo speculativo cristiano-medievale la disponibilità ad adeguarsi a quello che, come si ricordava in apertura, è in tale contesto culturale il fondamento teologico di tutte le dottrine filosofiche: la dottrina del Verbo, seconda persona della Trinità, intelletto di Dio, fondamento dell’esemplarismo universalistico, cui rinvia apertamente, per ogni teologo latino, la formula «omnia in omnibus», tratta dal discorso di Paolo all’Areopago (1 Cor 15, 28): il Dio che è tutto, tutte le cose in tutte le cose16. Proprio su questa base

16 Vale la pena di leggere a questo proposito il seguito della frase di Cassirer ricordata supra, alla nota 1 (Individuum und Kosmos cit., p. 10; tr. it., p. 24): «Sein erster Schritt besteht darin, dass er nicht sowohl nach Gott, als nach der Möglichkeit des Wissens von Gott fragt».

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l’insaziabile ricerca umana della verità si fa tutt’uno con l’aspirazione ad una irraggiungibile identità con la conoscenza divina, nella quale tutto sussiste. Ad illustrazione di ciò, la lunga e densa pagina dal De docta ignorantia che stiamo esaminando si conclude evocando la nota metafora del poligono (simbolo della conoscenza umana) che tende ad iscriversi perfettamente nel cerchio (simbolo di quella divina). Il poligono moltiplica i propri angoli all’infinito aspirando a sovrapporsi ultimativamente alla perfezione priva di contrazioni del cerchio, ma non può riuscire in tale impresa se non rinunciando alla propria stessa condizione di poligono, contratto entro un numero – sia pure elevatissimo, ma pur sempre determinato – di angoli che condizionano la misurabilità del suo perimetro: Quasi ut si polygonia circulo inscripta natura foret humana, et circulus divina: si ipsa polygonia maxima esse debet, qua maior esse non potest, nequaquam in finitis angulis per se subsisteret, sed in circulari figura, ita ut non haberet propriam subsistendi figuram, etiam intellectualiter ab ipsa circulari et aeterna figura separabilem17.

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Se il poligono riuscisse ad essere il poligono massimo, del quale non potrebbe mai esistere un poligono maggiore («maxima… qua maior esse non potest»), allora non potrebbe più sussistere come tale entro angoli finiti, ­determinati. Non sarebbe più un poligono, ma si risolverebbe nel cerchio, perdendo la sua peculiare figura di sussistenza, la «propria subsistendi figura» poligonale che è distinguibile dal cerchio solo in ragione di una sua dimensionalità contracta (ossia in quanto conosciuto «intellectualiter»). Così l’intel­ letto umano potrebbe superare i propri limiti solo riuscendo ad essere l’intelletto massimo, del quale non potrebbe mai esistere un intelletto maggiore, ma dal quale in verità, e quasi senza averne coscienza, si distingue solamente in ragione, appunto, del proprio operare «intellectualiter», quale intelletto finito e contratto. *** Siamo con ciò pervenuti al fondamento speculativo della (cosiddetta) ‘rivoluzione gnoseologica’ di Cusano. Appare per lui assolutamente non vera, adesso, l’ipotesi che con la conoscenza il soggetto si sottoponga, allargando o restringendo le proprie maglie rappresentative, ad una passiva adaequatio della propria recettività ai modi di essere delle cose esterne: mettendo invece in movimento, con le loro diverse operazioni, le proprie molteplici facoltà, il soggetto opera attivamente tendendo (come il «venaticus canis» che insegue

Cusano non si interroga più su Dio ma sul sapere di Dio: a differenza di quanto pensava Cassirer, però, questo è ciò che più lo ricongiunge alla tradizione teologico-speculativa medievale. 17 Niccolò Cusano, ivi, III, c. 4, p. 132.

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la propria preda) ad avvicinarsi alla ultima, sfuggente rappresentabilità della visione delle cose in Dio, che coincide con la visione che delle cose ha Dio. Già nella sesta prosa del quarto libro della Consolatio Philosophiae di Boezio, in un famoso, lapidario avvertimento, la Filosofia mostrava al suo disperato discepolo come tra necessità del destino e liberalità della provvidenza non sussista alcuna diversità oggettiva e reale, ma solo una differente prospettiva di conoscenza: la stessa differenza che contrappone artificiosamente tempo ad eternità, divenire ad essere, il centro del cerchio alla circonferenza, e complessivamente, in un solo nodale confronto gnoseologico, la conoscenza razionale o dianoetica alla conoscenza intellettuale o noetica18. Niccolò Cusano, in piena armonia con i precedenti offerti dai migliori testimoni del platonismo cristiano, si è spinto ancora più in avanti rispetto a questa formulazione boeziana, accentuando la contrapposizione tra ratio e intellectus fino a risolverla nella assoluta contrapposizione di conoscere creaturale contratto e conoscere divino assoluto. Dal punto di vista direttamente terminologico, in verità, non sembra immediatamente facile individuare precedenti significativi nei sistemi platonico-­ cristiani medievali (come quello di Dionigi o di Giovanni Scoto) per l’uso della distinzione di contractio e abstractio come operazioni che sostengono la mente nel suo orientarsi bi-direzionale di discesa e ritorno di ogni realtà, dai generi più alti agli individui e viceversa fino al pensare divino. Viceversa essa è significativamente recepita negli scritti di autori più recenti rispetto a Cusano, presso i quali tale contrapporsi dinamico di individuazione e univer- 20 salizzazione del reale si trapianta sovente su panorami speculativi di matrice assai diversificata: ne ha fatto uno dei fondamenti della propria gerarchia ontologica Giordano Bruno19 e la si incontra nelle Disputationes metaphysicae di Suarez20. Non è tuttavia priva di interesse la possibilità di reperire alcune precise utilizzazioni in questo senso del verbo contrahere, dei suoi participi e degli aggettivi ad esso correlati, nelle pagine delle opere logiche e, soprattutto, teologiche dello stesso Boezio, nonché nella tradizione dei suoi commentatori dell’alto Medioevo: tale scoperta conferma infatti ulteriormente l’opportunità di ricondurre la concezione cusaniana dei rapporti tra soggetto e oggetto del conoscere entro l’alveo di una tradizione di continuità, non di rottura, con la tradizione platonico-cristiana medievale.

18 Cfr. Severino Boezio, Consolatio Philosophiae, IV, pr. 6, 17, PL 63, 817A, ed. C. Moreschini, K. G. Saur, München-Leipzig 2000, p. 124,74-78: «Igitur, uti est ad intellectum ratiocinatio, ad id quod est id quod gignitur, ad aeternitatem tempus, ad punctum medium circulus, ita est fati series mobilis ad providentiae stabilem simplicitatem». 19 Cfr. Giordano Bruno, De gli eroici furori, Parte prima, Dial. terzo, ed. M. Ciliberto (Dialoghi filosofici italiani), Mondadori, Milano 2000, p. 812-814; Dial. quarto, ivi, p. 821. Cfr. G. d’Onofrio, Vera philosophia, cit., pp. 265-268. 20 Cfr. Francisco Suárez, Disputationes metaphisicae, Disp. II, sect. 6 (Quomodo ens in quantum ens ad inferiora contrahatur seu determinetur), in Id., Opera omnia, voll. 25-26, ed. C. Berton, Louis Vivés, Paris 1861 [rist. Georg Olms, Hildesheim 1965].

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La teoria della ‘contrazione’ dei ‘generi’ nelle ‘specie’, e quindi di queste negli ‘individui’, è chiaramente descritta da Boezio innanzi tutto nel suo secondo (e tecnicamente più maturo) commentario all’Isagoge di Porfirio. Il predicabile più esteso contiene in sé quello meno esteso, che si configura al suo interno come l’esito di una costrizione semantica, qui presentata appunto come l’esito di un contrahere logico, per via delle obbliganti precisazioni di significato e riduzioni di estensione imposte dalle ‘differenze’: e che ha evidentemente una corrispettiva valenza sul piano ontologico, quale scansione dei gradi oggettivi dell’organizzazione della realtà, riproducibile nella mente umana mediante l’attività ordinata del conoscere21. Ma è poi in particolare negli Opuscula sacra che tale stretta coerenza tra il contrahere logico e la contractio ontologica consente di precisare in modo inequivocabile il significato dei termini razionali utilizzati dalla sapienza cristiana per accostarsi ad una relativa comprensibilità dei misteri della fede. Nel Contra Eutychen et Nestorium, in particolare, Boezio si propone di spiegare il senso del termine natura proponendone successivamente tre distinti significati, che egli stesso presenta poi esplicitamente come risultanti da un progressivo restringimento del comune campo semantico, dal più universale (per cui sono natura tutte le res) a quello intermedio (sono natura solo le sostanze, sia corporee, sia incorporee) al più ristretto (natura si predica solo delle sostanze corporee)22. Nell’accedere a questo ultimo significato, egli ricorre ancora per indicare l’atto mentale che ne determina la realtà al verbo contrahere: «Quod si naturae nomen, relictis incorporeis substantiis, ad corporales usque contrahitur (…), definiemus eam (…) motus principium secundum se non per accidens»23. Il più antico commentatore degli Opuscula sacra, ormai concordemente riconosciuto nel monaco tardo-carolingio Remigio di Auxerre24, spiega questo termine «contrahitur» come equivalente a «coartatur et adbreviatur»25: 21 Cfr. Severino Boezio, In Isagogen Porphyrii commentorum editio secunda, V, PL 64, 141D-142A, ed. S. Brandt, F. Tempsky-G. Freytag, Wien-Leipzig 1906 (CSEL 48), p. 305,316: «Omne enim quod amplius praedicatur, illius est continens quod minus dicitur. (…) Hujus autem ratio est quoniam genus semper suscipiens differentiam, speciem facit; hoc est: genus quod habet latissimam praedicationem, coartatum in differentias et contractum, speciem facit; omnino enim generi iuncta differentia speciem reddit, et ex universalitate atque latissima praedicatione in angustum speciei terminum contrahit. Animal enim cujus praedicatio per se longe lateque diffusa est, si arripiat rationalis differentiam, si etiam mortalis, diminuit atque contrahit in unum hominis speciem: unde fit ut minor sit semper species quam genus». 22 Cfr. Id., Contra Eutychen et Nestorium, 1, PL 64, 1341B, ed. C. Moreschini, K.G. Saur, München-Leipzig 2000, p. 209,59-62: «Natura igitur aut de solis corporibus dici potest aut de solis substantiis, id est corporeis atque incorporeis, aut de omnibus rebus quae quocumque modo esse dicuntur». Nella illustrazione successiva di queste definizioni Boezio procede poi in senso inverso, dal significato più ampio al più ristretto. 23 Ivi, 1342A, p. 210,90-211,98. 24 Cfr. G. d’Onofrio, Giovanni Scoto e Boezio: tracce degli «Opuscula sacra» e della «Consolatio» nell’opera eriugeniana, in «Studi medievali», 3a Ser., 21/2 (1980), pp. 707-752. 25 Remigio di Auxerre, Commentarius in Boethii Opuscula Sacra, V, ed. E. K. Rand, in Quellen und Untersuchungen zur lateinischen Philologie des Mittelalters, hrsg. von L. Traube, I, 2, C.H. Beck, München 1906, p. 60, 21.

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immediatamente dopo, però, mostra l’opportunità di intendere le tre definizioni boeziane di natura e quella di persona (che, in Boezio, le segue) proprio come corrispondenti ai successivi gradini risultanti appunto dall’intervento di tale contractio del significato dei termini26. La correlazione tra il valore logico e quello ontologico della contractio (sempre intesa come procedimento inverso all’abstractio), viene infine ulteriormente precisata quale cifra dell’universo mentale boeziano – che domina la concezione alto-medievale dell’ordine gerarchico del reale – dal più interessante fra i commentatori degli Opuscula sacra attivi nel secolo xii, Gilberto di Poitiers27. Allineandosi all’interpretazione di Remigio, anche Gilberto nell’analisi dei primi paragrafi del Contra Eutychen et Nestorium evidenzia come la classificazione discensiva (dal più esteso al meno esteso) dei significati del termine natura vi si concluda con la definizione di persona quale ultimo atto del progressivo restringimento dell’ambito semantico della ‘sostanza’, ridotto alle sole individualità razionali. Ed apertamente presenta tale individuazione reale quale esito produttivo dell’atto di conoscenza con cui la definizione-realtà della sostanza (o hypóstasis) generale viene contracta in quella della sostanza individuale28. Il che trova una ulteriore conferma, in riferimento alle ramificazioni discendenti dell’albero di Porfirio, nel commento al terzo trattato boeziano, il De hebdomadibus, dove Gilberto, inclinando dal piano gnoseologico a quello ontologico, insegna che i generi-specie inferiori, o subalterni, sono l’esito di

26 Cfr. ivi, p. 61, 21-23: «Semper a generalibus ad specialis, a specialibus ad specialissima, superflua quaeque subtrahendo, [Boethius] pertransit, donec ad naturam in qua sit persona perveniat». Cfr. G. d’Onofrio, Dialectic and Theology: Boethius’ «Opuscula sacra» and Their Early Medieval Readers, in «Studi medievali», 3a Ser., 27/1 (1986), pp. 45-67, in partic. pp. 64-66. 27 Fra gli scritti degli altri commentatori del secolo xii, è stata segnalata una anticipazione della nozione cusaniana di complicatio in Teodorico di Chartres, In Boethii De Trinitate, 2, 4, ed. N.M. Haring, Commentaries on Boethius by Thierry of Chartres and his School, Pontifical Institute of Medieval Studies, Toronto 1971 (Studies and Texts 13), p. 155: «Deus est enim unitas in se conplicans universitatem rerum in simplicitate». La tradizione medievale relativa all’incardinamento del molteplice nell’uno per via di complicatio è tuttavia più complessa, ed allunga le proprie radici nel vocabolario pseudo-dionisiano; cfr. Pseudo-Dionigi Areopagita, De divinis nominibus, 11, nella trad. lat. di Giovanni Scoto, PL 122, 1165CD: «Unam igitur quandam et simplam pacificae unitatis contemplabimur naturam (…) per quam una et insolubilis omnium complicatio secundum divinam ejus harmoniam constituitur». Cfr. inoltre Giovanni Scoto Eriugena, Periphyseon, V, PL 122, 868D-869A, ed. É. Jeauneau, Brepols, Turnhout 2003 (CCCM, 165), p. 14,360-368. 28 Cfr. Gilberto di Poitiers, Expositio in Boethii librum Contra Eutychen et Nestorium, 3, 28, PL 64, 1374A, ed. N.M. Häring, The Commentaries on Boethius by Gilbert of Poitiers, Pontifical Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1966 (Pontifical Institute of Mediaeval Studies and Texts, 13), p. 277, 68-71. E cfr. ivi, 49-50, 1376A, p. 282, 1-13: «Recte utique (…) idem nomen a genere ad speciem Graecorum usus contraxit, rationalem tantum substantiam ‘ypostasin’ nominans, (…) a genere universorum substantium contractum»; e ivi, 56, 1376D, p. 283, 41-44.

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una contractio tra gli aspetti di somiglianza (ossia di universalità) dei generi superiori: Tales sunt omnes differentiae illae quaecunque vel huic generalissimo proximae cum ipso quaedam contractioris similitudinis constituunt genera quae a logicis (…) subalterna vocantur, vel subalternis similiter adhaerentes quamlibet sub ispis subsistentiam specialem componunt29.

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E qui si spiega per quale ragione il prodursi ed il determinarsi ontologico di generi, specie e individui, trovino il loro fondamento nell’atto corrispondente del pensiero umano e nelle leggi della logica che lo governano: quanto più, infatti, la mente umana si assimila alla verità e la ri-produce nella propria interiorità, tanto più essa si adegua all’atto mentale con cui il divino pensiero e la divina volizione causano, ‘contraendoli’, i beni molteplici. Secondo il linguaggio boeziano, ripreso da Gilberto nel commentare la divisione aristotelica della filosofia teoretica richiamata all’inizio del De Trinitate30, nell’ordine della ‘fisica’ (che procede naturaliter) sono «contracta» e «concreta», quelle stesse realtà che appaiono «abstracta» nell’ordine del sapere logico-apodittico (o meglio, secondo Boezio, della ‘matematica’ che procede disciplinaliter); e che sono invece «abstracta» non solo apparentemente o per effetto della struttura logico-disciplinare della nostra mente, ma veramente e realmente, «re ipsa abstracta», nella perfetta visione della mente divina che produce tutto l’essere che è, ossia nell’ordine della ‘teologia’ (che procede intellectualiter): In divinis quoque, quae non modo disciplina, verum etiam re ipsa abstracta sunt, intellectualiter versari oportebit, id est ex propriis theologicorum rationibus illa concipere, et non ex naturaliter concretorum aut disciplinaliter abstractorum proprietatibus iudicare31.

L’universo speculativo di Cusano non è dunque lontano, né dissonante, da tale modello di speculazione, che ha origini tardo-antiche, e che diventa poi, diffusamente e tipicamente, medievale.

29 Id., Expositio in Boethii librum De bonorum ebdomade, 1, 99, 1324B, ed. cit., p. 209, 73-78. 30 Cfr. G. d’Onofrio, La scala ricamata. La philosophiae divisio di Severino Boezio tra essere e conoscere, in La Divisione della Filosofia e le sue Ragioni. Lettura di testi medievali (VI-XIII secolo), a cura di G. d’Onofrio, Avagliano, Cava dei Tirreni 2001 (Schola Salernitana. Studi e Testi, 5), pp. 11-63. 31 Gilberto di Poitiers, Expositio in Boethii librum primum De Trinitate, 2, 41, 1268C, ed. cit., pp. 86,38-87,42 (in maiuscoletto le parole di Boezio commentate).

Vialità e individuazione: l’eriugenismo di Nicola Cusano Sandro Mancini

La disamina che mi accingo ad effettuare prende le mosse da quello che a me pare essere il pensiero fondamentale di Nicola Cusano: l’intendere la condizione umana nel registro della vialità e l’assumere tutte le possibili interpretazioni di tale vialità nel segno della congetturalità. Ciò che nell’elaborazione cusaniana rimane sottratto allo spazio del dubbio è l’intuizione della singolarità dei viatores, come pure del cammino situato tra un inizio oscuro e un possibile compimento luminoso oltremondano, sullo sfondo del mondo concepito quale campo di prova per i tentativi dei viatores, e di Dio che sostiene, sospinge e attrae gli stessi. Il risultato, pertanto, è la concezione di un cammino compiuto da individui provvisti del carattere della singolarità. Questa connota ogni ente semplice come individuato per se stesso; solo ciò impedisce il dissolversi della verticalità teleologica in una orizzontale e indefinita rimanditività, esito che sarebbe inevitabile se l’esperienza umana fosse contrassegnata dalla divisibilità. Questa intuizione si dispiega negli scritti cusaniani non soltanto nel registro del discreto, ma anche in quello del continuo. Infatti l’ente finito, che è l’uomo, è inteso come costituito a immagine della sua assoluta fonte originaria, che egli esprime attuandosi, sulla base della coincidenza di vedere, operare ed essere. Pertanto, se per un verso i viatores sono irriducibili uno all’altro, quali essenze monadicamente incarnate, in una pluralità di cammini che non si lasciano disporre su un’unica linea continua, per un altro verso, invece, lo statuto di immagine che li connota fa sì che i loro percorsi di ricerca e attuazione della verità si lascino pensare anche come la manifestazione plurale della loro fonte unica, di Dio che nei loro cammini dispiega i suoi disegni provvidenziali, armonizzandoli in un percorso salvifico unitario1. 1 Certo, il quadro tematico è assai più complesso, come testimonia la ricca Forschung cusaniana. Molto è stato detto, soprattutto da parte di Beierwaltes, sui fecondi e strettissimi legami che mantengono il pensiero di Cusano radicato nell’alveo del platonismo cristiano medievale, e qui non è possibile ritornarvi. Cfr. S. Mancini, Beierwaltes nella corrente dell’eriugenismo:

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1. Nell’elaborazione cusaniana la vialità è illuminata dalla concomitante operatività della causa finale e della causa esemplare. Quest’ultima consente di misurare le stazioni dei cammini mediante gradienti eidetici e valoriali, mentre la causa finale riconduce tali misure alla loro fonte immisurabile, al loro primo e ineffabile Principio, misura di tutte le misure e fine di tutti i fini; esse sono congiunte, ma la seconda è più potente della prima e la ingloba. A questo esito Cusano giunge già nel De docta ignorantia del 1440 e nel successivo De coniecturis, riannodando il filo rosso del platonismo cristiano europeo che prende le mosse da Giovanni Scoto. Questi nel Periphyseon affermava l’inconoscibilità delle essenze, cioè del piano intemporale del quid est, insieme all’accessibilità alla mente dell’uomo del loro perimetro esterno, ossia del piano misto del quia est, costituito dal complesso delle circumstantiae in cui tali essenze si palesano, nell’intreccio ambiguo di visibile e invisibile. Cusano si colloca dunque nella scia dell’eriugenismo, non rinunciando alle essenze, pur concependole come non univocamente categorizzabili, in ottemperanza alla regola della dotta ignoranza, che riserva solo a Dio la precisione assoluta, e assume l’intera dimensione della sua manifestazione contratta nel registro dell’imprecisione. Acquisito che nella meditazione cusaniana l’esemplarismo è inseparabile dal finalismo e insieme fondato su di esso, cerchiamo di focalizzare meglio quest’ultimo. Che la causa finale imprima il suo sigillo sulla globalità dell’espressione, Cusano lo afferma a chiare lettere in tutto l’arco della sua elaborazione, dal De docta ignorantia al De beryllo, del 1458, dove leggiamo che «il fine dell’intenzione è la manifestazione»2. Quest’ultima è intelligibile come tale solo rinviando a un fine ultimo che la suscita, la rende produttiva, e la attrae verso la presenzialità assoluta del suo compimento ultimo, come leggiamo nel De venatione sapientiae, del 1462: «le stelle innumerevoli […] e le intelligenze numerose non sono state create al fine di questo mondo terreno, ma a lode del creatore»3. Infatti, muovendo dai presupposti dell’e-

la duplex theoria e lo statuto trascendentale della manifestazione, in «Annuario Filosofico», 22, 2006, pp. 117-134; Id., I modi della contrazione nel De coniecturis di Nicola Cusano, in «FIERI. Annali del Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi», 4, 2006, pp. 199-222 (il testo dell’Annuario n. 4 è scaricabile dal sito web del Dipartimento FIERI dell’Università di Palermo). 2 «Est autem intentionis causa manifestatio» (Nicolai de Cusa, De Beryllo, in Id., Opera Omnia, iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita, vol. XI, ed. L. Baur, Meiner, Hamburg 1940, p. 40). 3 «Non attendentes tot innumerabiles stellas huic terrae habitabili maiores et tot intelligentias non esse conditas ad finem huius terreni mundi, sed ad laudem creatoris, ut supra tactum est» (Nicolai de Cusa, De venatione sapientiae, in Id., Opera Omnia, vol. XII, edd. R. Klibansky e H.G. Senger, Meiner, Hamburg 1982, p. 60). La Dotta ignoranza propone una chiara e netta distinzione tra l’illimitata estensione del cosmo fisico, comportante l’indefinita serie quantitativa dei corpi celesti, e il limitato numero delle sostanze individuali in cui il Massimo assoluto si contrae, trasmettendo a ciascuna di esse la sua indivisibilità. Cfr. S. Mancini, Quando recte consideratur de contractione, omnia sunt clara. Singolarità e finalità

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laborazione cusaniana, qualora si concepissero le parti dell’universo fisico, e anche quest’ultimo, come fine a se stessi, ne risulterebbe la vanificazione dell’operatività di un telos ultimo: se il mondo fosse fine a se stesso, si rivelerebbe come intrinsecamente ateleologico, e il suo senso non potrebbe che coincidere con l’indefinita ripetizione del suo ricominciare e dileguare, dunque con la necessità di una cieca coazione a ripetere. Di conseguenza, venuto meno un fine ultimo della manifestazione, immanente ma insieme anche trascendente la stessa, verrebbe meno anche la consistenza degli scopi particolari, e la verticalità dei valori risulterebbe inesorabilmente risucchiata nell’indistinta orizzontalità del mondo, nel quale la manifestazione potrebbe esprimere solo la sua ultima insensatezza. Oltre che negli scritti menzionati, questo convincimento riaffiora in molti altri testi. Così nel De Aequalitate, del 1459, la contrazione è pensata come mossa dalla volontà di manifestare la «memoria nascosta»4 che palpita nel cuore di ogni particolare quia est: una memoria viva, che fa tutt’uno col desiderio d’essere, che sospinge gli intelletti finiti ad autoaffermarsi, e col desiderio dell’Uno infinito che li attrae dall’alto verso l’anelata meta. Dunque è scrutando nella potenza desiderante che Cusano chiarisce la scansione finalistica propria della contrazione, svolgentesi come il riprendersi e il rilanciarsi del desiderio d’essere al più elevato desiderio vitale, fino al desiderare proprio dell’intelletto. È qui fungente la triade procliana di esse, vivere, intelligere, così come era stata riformulata da Mario Vittorino alla luce della teologia trinitaria. Nel sistema speculativo cusaniano tale triade è resa operativa a più livelli, tra i quali ci limitiamo a considerare la dialettica del desiderio. Concepire il desiderare nella luce dell’Uno che trascende l’essere consente di porre a tema il de-siderare che libera l’uomo dalla orizzontalità ciclica del ritmico e inesorabile pulsare cosmico: l’atto del desiderare socchiude dentro di sé il varco che sottrae al destino la sua parvenza di ultimità e lo illumina come penultimo, liberato e trasceso dal tendere dell’intelletto verso il compimento luminoso già annunciato dal principio divino che lo abita come il suo più intimo apriori. Seguendo il filo della causa finale, siamo ricondotti così alla potenza che pulsa nel desiderio, come in ogni figura del tendere verso possibilità inespresse. La tematizzazione cusaniana del posse è troppo complessa per essere affrontata in questa sede. Basti menzionare che le due cifre filosofiche cusaniane dell’Uno, inteso come potenza assoluta, sono il possest – neologismo che dà il titolo al trialogus del 1460 – e il posse ipsum tematizzato nell’ultimo testo scritto da Cusano, il De apice theoriae della primavera del 1464, ove il posse travalica l’esse e si pone come ultimo nome del Principio inesprimibile.

nel De docta ignorantia di Nicola Cusano, in corso di pubblicazione su «Annuario Filosofico», 24, 2008. 4 Nicolai de Cusa, De Aequalitate, in Id., Opera Omnia, vol. X, ed. H.G. Senger, Meiner, Hamburg 2001, p. 27; tr. it. di G. Federici Vescovini, in Id., Opere filosofiche, cit., p. 704.

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Seguendo questo filo, Cusano prende le mosse dalla reversibilità di atto e potenza in Dio, e si spinge fino a pensare un potere che trascende l’atto. Infatti, se la coincidenza di atto e potenza si dà in Dio, ciò stesso testimonia che essa poteva darsi; dunque anche nel pensiero della suprema sintesi di atto e potenza si dispiega una possibilità assoluta che trascende l’attualità assoluta. In entrambe queste cifre congetturali, possest e posse ipsum, la dialettica del potere si distende sulle due sponde parallele dell’increato e del creato. Da un lato si dispone la dialettica intratrinitaria, pensata nella scia del De Trinitate di Agostino, come relazione perfetta di unitas, identitas (aequalitas) e connexio; dall’altro lato quella stessa dialettica si dispiega nella triade di posse facere (il principio creatore, assoluto), posse fieri (il primo contingente, coincidente con la totalità della manifestazione creativa del posse facere, risultato della creatio de nihilo con cui il posse facere lo pone in essere), e del loro nesso: nesso che dà luogo alla dimensione plurale del posse factum, rifrangendosi sia nel cielo intelligibile delle intelligenze angeliche e della comunione dei santi, sia in quello misto, sensibile-intelligibile, dei numerosi habitatores degli innumerevoli mondi, e tra questi, in posizione centrale, dell’uomo-microcosmo. Il partito ermeneutico che ha forgiato il fortunato, quanto discutibile, cliché di un Cusano protomoderno, per un verso orientato verso l’immanentismo che dopo la soglia della modernità si affermerà con Spinoza, ma per un altro verso ancora impigliato nei lacci della teologia medievale – ebbene, tale partito ravvisa nella dialettica trinitaria agostiniana, accolta dal Nostro, un’ipertrofica e ideologica duplicazione della dialettica triadica della potenza, dialettica che avrebbe dovuto rimanere circoscritta all’immanenza della vita. In questa direzione, una rivisitazione critica del possest esigerebbe di depurarlo dalle incrostazioni teologiche legate al registro della trascendenza. Tuttavia, a parte l’arbitraria e ideologica contrapposizione di immanenza e trascendenza, sulla base di un tale assunto si smarrirebbe l’operatività della dialettica intratrinitaria, che nella prospettiva cusaniana illumina finalisticamente la contrazione. Infatti la dialettica eterna del Principio – così come è accessibile alla mente dell’uomo, che non può mai innalzarsi oltre il piano congetturale, se non per via di un’intuizione negativa inoggettivabile – nella relazione reversibile di unitas, identitas e nexus fornisce la misura ideale per rendere intelligibili, seppure congetturalmente, gli scarti differenziali tra potenza e atto che intramano le relazioni interne ed esterne a ogni determinato posse factum. Ma se il possest, e da ultimo il posse nella sua purezza svincolata dall’esse, fungono da gradiente valoriale delle forme sostanziali, non le cristallizzano con ciò in una statica scala di valori, bensì imprimono loro la mobilità necessaria per intraprendere, e rilanciare nell’urto contro ogni ostacolo, il reditus all’Uno, la risalita lungo la via complicativa e singolare che prescrive a ciascun individuo le sue peculiari stazioni di senso. Insomma, senza il raccordo con la relazione esemplare assoluta, inscritta nel profilo del volto, di per sé inaccessibile, che il Dio unitrino ci mostra in trasparenza nella sua dialettica intratrinitaria, non sarebbe possibile intende-

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re lo spessore veritativo che le figure contratte presentano sulla scena dell’espressione, volta per volta determinate dalla capacità manifestativa del potere inscritto in ciascuna di esse, quale potenza di singolarizzazione e insieme di trascendimento verso l’Uno. 2. La dialettica triadica del potere, che mette capo al contingente posse factum, imprime a esso anche il carattere della indivisibilità che contraddistingue l’Uno negativo quale potere assoluto. Con ciò Cusano accoglie l’assunto della indistruttibilità delle forme sostanziali, e idealmente si pone come anello di congiunzione tra la filosofia cristiana medievale e la monadologia di Leibniz. La sua originalità, al riguardo, è data dal fatto che tale assunto è collegato all’assoluto posse, concepito non solo come scaturigine della teleologicità della contrazione, ma anche come potenza di singolarizzazione. Infatti la divina Triunitas propria del posse è il vettore intenzionale che, spingendo l’uomo a diventare se stesso, non lo allontana, ma al contrario lo chiama a sé: per l’uomo il singolarizzarsi lungo i sentieri della potenza desiderante – sentieri decifrabili solo mediante un’attenta inspectio sui – fa tutt’uno con l’elevarsi a Dio, che nel sospingere l’uomo a rientrare in se stesso dalla dispersa esteriorità, lo attrae a sé dall’alto in quanto suprema causa finale. Ancora una volta siamo ricondotti alla crucialità dell’intreccio tra monadologia e finalismo come contrassegni della dialettica cusaniana dell’espressione. Infatti, se la contrazione dell’Uno sfociasse in nodi relazionali provvisti soltanto di una fisionomia modalistica, ne risulterebbe un’insuperabile orizzontalità dei modi insostanziali, risucchiati nel vortice dell’indefinita ripetizione del ciclo del sorgere e del dileguare delle figure della manifestazione contratta, sullo sfondo di una vita sempre uguale a sé nell’incessante variare delle sue figure: dal registro della contingenza dell’espressione saremmo inesorabilmente condotti a quello della sua necessità, giungendo alla conclusione che trarranno Bruno e Spinoza, e che Cusano invece respinge, evitando in tal modo che la dialettica di explicatio e di complicatio si avviti su se stessa, nel ritmo vicissitudinale dell’alternarsi, e corrispondersi specularmente, dei due movimenti opposti. Proprio per sottrarsi a questo esito ateleologico, il pensatore di Kues concepisce la dialettica della contrazione come asimmetrica: ex parte hominis, l’explicatio precede assiologicamente la complicatio, in quanto evento insondabile, inscritto nell’imperscrutabile volontà di Dio di porre in essere, creaturalmente, la propria manifestazione. Di contro, la complicatio si profila come la necessaria via di risalita alla verità per la forma sostanziale5. Pertanto, questo cammino ascensionale è reso possibile anzitutto dal preliminare 5 In questa sede assumiamo la nozione cusaniana di complicatio, così come si presenta nella dialettica della contrazione, insieme alla correlata explicatio. Ma è presente nel pensiero cusaniano anche un’altra accezione di complicatio, che è operante nella dialettica intratrinitaria (si veda, ad es., il De visione Dei). Essa lumeggia l’autoconcepirsi di Dio come visione assoluta. Ringrazio Gianluca Cuozzo per la proficua discussione al riguardo e le sue preziose indicazioni.

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a­ bbassamento di Dio nella contingente contrazione esplicativa, e poi dal fatto che la forma particolare che lo percorre è provvista di un’identità irriducibile, che le consente di attraversare tutte le tappe della via, terrene e ultraterrene, fino alla facialis visio in cui culmina l’indiamento. Tuttavia nell’ulteriore focalizzazione di questa dialettica ci imbattiamo in una difficoltà, la stessa che ha attraversato il pensiero medievale nel tormentato cimento con la questione dell’individuazione, e che Cusano eredita senza superare. Infatti, se è chiaro il punto di arrivo monadologico della contrazione, non è altrettanto rigoroso il procedimento mediante cui Cusano vi perviene. Questa incertezza è dovuta alla compresenza nella sua speculazione di due incompatibili prospettive concernenti l’individuazione: l’una riconducibile alla tesi della creatio simul; l’altra imperniata sulla funzione mediatrice svolta dalla anima mundi, così come era stata elaborata dalla Scuola di Chartres nei termini di una ripresa della terza ipostasi di Plotino e Proclo, faticosamente armonizzata con la teologia trinitaria6. Non è qui il luogo per indagare se nel Nous di Plotino e di Proclo vi sia uno spazio non solo per le idee individuali, ma anche per le individualità stesse. Va comunque ricordato che in En. V, 7, 1 si afferma che nel Nous sono presenti anche le idee degli individui7. Come ha bene mostrato Ferrari, permane un’ambiguità al riguardo, giacché Plotino non chiarisce se l’individuo abbia nel Nous la sua idea in unità immediata con quella dell’umanità intera, o se questi sia provvisto di una sua peculiare idea, irriducibile a tutte le altre8. In ogni modo, il movimento di pensiero di Plotino mostra che l’Uno negativo, che di per sé si pone al di là di ogni determinazione, come ultraindividuale e ultrapensante, si individualizza, tramite la seconda ipostasi, il Nous, pur rimanendo Uno, e ricevendo così da quest’ultimo il tratto della propria indivisibilità, che poi viene trasmesso anche alla terza ipostasi, l’Anima, e alla totalità

6 Sarebbe utile un confronto al riguardo con la posizione di Ockham, che sottrae ogni spazio e funzione al principio di individuazione, negando il darsi di una distinzione reale tra l’essenza e il singolare. Ciò che rende distanti le prospettive dei due filosofi risiede nel punto di partenza, ossia nelle differenti matrici teoriche entro cui prendono forma le loro intuizioni: aristotelico nel caso del trecentesco Venerabilis Inceptor, neoplatonico nel caso di Cusano, permeato dall’umanesimo quattrocentesco. Eppure per diverse vie entrambi giungono a fondare l’originarietà e la contingenza del singolare nell’onnipotenza divina, come vedremo dal lato di Cusano nella parte conclusiva del presente studio. Sulla singolarità nel pensiero del Maestro inglese cfr. A. Ghisalberti, Guglielmo di Ockham, Vita e Pensiero, Milano 1972, pp. 71 e 88-89 e O. Todisco, Guglielmo d’Occam filosofo della contingenza, Edizioni Messaggero Padova, Padova 1998, pp. 36-40, 49-52, 105, 170. 7 «Esiste un’idea anche dell’individuo? Ora, se io e ogni altro possiamo ascendere al mondo intelligibile, allora anche il principio di ogni individuo esiste lassù. Se l’anima di Socrate è sempre Socrate, ci sarà un ‘Socrate in sé’ (Autosocrates), e perciò l’anima individuale (psyché kathékasta) […] deve sussitere lassù» (Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin, Rusconi, Milano 1992, p. 899). 8 Cfr. F. Ferrari, Individualità e totalità nella vita dell’intelletto: tracce di monadologia in Plotino?, in Aa. Vv. (a cura di B.M. d’Ippolito, A. Montano, F. Piro), Monadi e monadologie, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 23-27.

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delle entità psico-fisiche da cui essa è composta. In En. VI, 4, 4 leggiamo che le molte anime sussistono non per difetto, a causa della dispersione dell’essere sensibile, ma per un motivo intrinseco, ossia perché nel Nous non si dà incompossibilità tra universale e particolare, bensì una perfetta pienezza che viene partecipata imperfettamente dall’Anima: sia dall’Anima del tutto, sia dalle anime individuali, ciascuna delle quali è distinta dalle altre, pur senza mai essere separata dall’Anima del tutto e dal Nous che ne è il centro9. Ora, se nel Nous non c’è alternativa tra la totalità delle idee e la singola idea, a motivo della divina simultaneità che lo connota come la perfetta sfera delle idee, nell’Anima invece tale simultaneità genera una difficoltà, che Plotino stesso non risolve, né risolverà il successivo corso del platonismo cristiano, con l’eccezione di Eriugena. Infatti sia nella concezione plotiniana della Psyché panton, sia nella successiva tematizzazione dell’Anima mundi, l’individuazione viene delineandosi in un processo graduale e discensivo: di tipo emanatistico in Plotino e Proclo, e di tipo creaturale nel platonismo cristiano. Quel che conta è che in entrambi i registri, accomunati da una concezione ilozoista del cosmo fisico, l’individualità sorge dal dimensionalizzarsi del primo, eccellente, animale vivente, che è già in se stesso insieme singolare e universale. Così il singolo uomo partecipa sia della singolarità dell’anima del mondo, sia della sua universalità, ma il secondo carattere prevale sul primo. Il risultato è l’impossibilità del principio di individuazione a fondare la monadicità delle forme sostanziali. Tuttavia il platonismo cristiano attinge alla teologia trinitaria la strumentazione per un’altra spiegazione dell’individualità, che evita di far emergere, per gradi discensivi, la singolarità della forma sostanziale dall’universalità di un più ricomprensivo principio e afferma invece la creazione simultanea di tutte le anime individuali: soltanto in seconda battuta Dio porta sulla scena del mondo alcune di esse, facendole sorgere col distenderle nella successione del tempo e nella varietà dello spazio. In questa differente impostazione non si ripresenta più il primato dell’universale sul particolare, che impedisce al principio di individuazione di dar luogo a una coerente monadologia, e l’anima del mondo non svolge più una funzione operativa, divenendo un residuo inerte, legato solo al sopravvivere di una cosmologia ilozoista. Il mondo, così, perde il carattere di primo e più eccellente animale, ed è concepito in funzione della vialità degli enti individuali, quale segno visibile della presenza di Dio e quale campo di prova in cui prendono forma i cammini di quegli enti, disegnanti la fisionomia del reditus. Insomma, il mondo nella prospettiva esemplaristica deve desostanzializzarsi per far emergere i veri attori della storia: da un lato Dio unitrino, creatore e

9 «Le molte anime esistono già nel loro complesso, ed esistono in atto, non in potenza, singolarmente, poiché l’Anima unica e universale non impedisce che le molte anime esistano in essa, né le molte sono di impedimento all’unica» (ivi, p. 1123).

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salvatore, e dall’altro lato le forme sostanziali: uomini, habitatores dei mondi innumerevoli, demoni e angeli. Ora, nell’elaborazione di Cusano sono presenti entrambe queste strategie dell’individuazione, e ciò genera un’aporia. Per precisarne meglio i contorni, proviamo a illuminarla a partire dalla matrice eriugeniana della teoria cusaniana della contrazione, la cui centralità è stata ben focalizzata da Beierwaltes; del resto, è stato proprio Eriugena a utilizzare il termine contractio per tradurre la systolè di Massimo il Confessore. Nel Periphyseon, il capolavoro di Giovanni Scoto, è già operante il successivo schema eckhartiano della emanatio simplex, quale produzione simultanea, da parte di Dio, di tutte le forme sostanziali in un libero atto creativo, concepito a sua volta come un vedere e insieme un conferire l’essere alle immagini teofaniche inscritte nella assoluta visione di Dio: Dio ha visto tutti gli esistenti che ha creato nella sua infinita saggezza, prima che essi fossero da lui condotti sulla scena dell’espressione, e questa divina visione è costitutiva di tutte le individualità esistenti, le quali hanno lì la loro peculiare e indistruttibile verità e consistenza d’essere10. A monte di tale assunto si situa una primigenia intuizione, operante sia nel platonismo classico di Plotino e Proclo, sia nel platonismo cristiano che va da Gregorio di Nissa a Massimo in Oriente, e prende le mosse da Agostino in Occidente. Essa intende il senso della vicenda umana come disponentesi su due piani paralleli e intersecantisi, tendenti ultimamente alla loro riunificazione in Dio. Per sommi capi, Eriugena la riformula in questi termini: tutti gli esistenti sussistono da un lato nelle loro rispettive cause eterne (la cui totalità viene a delineare il secondo dei quattro ordini in cui si articola la ‘natura’, designante la sfera eidetica della ‘natura creata e creante’ che raccoglie le ‘cause primordiali’) e dall’altro nei loro peculiari effetti sensibili, così come si dischiudono nell’ordine misto, sensibile-intelligibile, caratterizzante il terzo ordine della natura, ossia la ‘natura creata e non creante’. Eriugena ribadisce più volte che tutti gli enti sono stati creati tutti insieme in una sola  volta, e sono emersi simultaneamente al di fuori delle loro rispettive cause primordiali11. Va rimarcato anzitutto che questa posizione rinvia – benché solo idealmente – a Plotino (fatta salva, ovviamente, la differente prospettiva conseguente all’assumere, da parte di Eriugena, l’integralità della manifestazione nel segno della creaturalità); questi sosteneva che l’uomo vive sia nell’Anima,

10 Cfr. Periphyseon, Liber IV, ed. E.A. Jeauneau (Corpus Christianorum, Continuatio Mediaeualis, t. 161), p. 55, ll. 1508-1514, Brepols, Turnhout 2000, (corrispondente a 778D-779A della Patrologia Latina, ed. H.J. Floss, t. 122, Paris 1853). 11 «Siquidem haec omnia caeterarumque uisibilium rerum natura simul et semel condita sunt, suis temporibus et locis ordinata et constituta; nulliusque eorum generatio in formas et species, quantitates et qualitates, generationem alterius temporalibus morulis praeoccupauit, sed simul ex aeternis suis rationibus, in quibus essentialiter subsistunt in uerbo dei, unumquodque secundum genus et speciem suam numerosque indiuidos processere» (Periphyseon, Liber III, ed. cit., 1999, p. 115, ll. 3316-3323 – PL 699A-699B).

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come nella sua dimensione propria, sia nel Nous, con la sua parte più nobile; dal Nous l’uomo non si distacca mai interamente, neppure quando è rivolto prevalentemente al sensibile e smarrisce se stesso. Il punto in cui Eriugena si separa da tale impostazione è la sua assunzione dell’uomo come microcosmo, dunque come ente privilegiato entro l’ordine della creazione. In quest’ultimo l’uomo precede assiologicamente (non però temporalmente, giacché la creazione si dà come simultanea entro il secondo ordine della natura) tutte le altre creature a motivo di questa sua esclusiva funzione di cerniera e ricapitolazione dell’intera creazione; limitatamente a questo riguardo, neppure l’angelo sopravanza l’uomo, ma è con lui in una relazione di reciprocità12. A una prima considerazione, potrebbe sembrare che neppure l’istanza eriugeniana della creazione simultanea di tutte le forme sostanziali nella ‘seconda natura’, custodente le essenze, risolva lo scoglio del principio di individuazione, giacché Eriugena sostiene che nella ‘terza natura’ la causa primordiale si dimensionalizza discensivamente in genere, specie e individuo13. Ora, mentre non crea difficoltà di sorta la corrispondente connessione di genere, specie e individuo entro l’ambito della seconda natura, dal momento che al di fuori del tempo una concatenazione siffatta non può comportare alcuna diminuzione di spessore ontologico – al di là di quella che separa l’atto creativo proprio di Dio da tutte le cose create, intemporali e temporali –, non altrettanto si può dire riguardo alla terza natura. Sembrerebbe dunque che Eriugena non rinunci, nell’ambito della creaturalità temporale, a una prospettiva gradualistica, che egli formula come sintesi del platonismo classico e della teologia veterotestamentaria, nell’idea della compresenza di tutti gli uomini in Adamo, quale «uomo unico e solo», da cui poi sono prelevati tutti i discendenti: «Simul enim ac semel in illo uno homine, qui ad imaginem dei factus est, omnium hominum rationes secundum corpus et animam creatae sunt»14. Tuttavia, a una più attenta considerazione, emerge l’originalità del tentativo eriugeniano di conciliare simultaneità e successione. Infatti Giovanni Scoto non cristallizza il processo dell’individuazione in una scala gerarchica, in cui all’individuo sia conferita una minore pregnanza veritativa rispetto alla specie e ancor più al genere. Questo esito è evitato dall’opera dello Spirito Santo, che produce una differenziazione intelligibile, nella quale non si dà subordinazione valoriale né ontologica: l’individuo riceve così tutta la consistenza veritativa della causa primordiale cui inerisce. Nel caso dell’umanità, ne consegue che ogni singolo uomo è Adamo, e Adamo è ogni singolo uomo; ciò vale anche nel male, per cui la responsabilità per il peccato originale non Cfr. Periphyseon, Liber IV, ed. cit., ll. 1550-1584, pp. 56-57 (PL 779D-780C). A tale graduazione discensiva, sul piano gnoseologico corrisponde una simmetrica ascesa nella conoscenza di sé da parte dell’uomo. Quest’ultima viene acquisita in due momenti distinti: in modo generale e occulto nelle cause primordiali; in modo individuale e manifesto, cioè autocosciente, negli effetti delle cause primordiali (Cfr. Periphyseon, Liber IV, ed. cit., p. 52, ll. 1423-1428 – PL 776D). 14 Periphyseon, Liber II, ed. cit., 1996, p. 76, ll. 1790-1792 (PL 582A). 12 13

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diminuisce nella serie degli individui, ma permane anch’essa intera. In tal modo Eriugena concepisce l’individualità alla luce della nozione di «forma sostanziale»15, quale contrassegno di indivisibilità impresso dalle cause primordiali alle loro rispettive manifestazioni. È bene soffermarsi, seppure brevemente, su questo punto, perché esso è un caposaldo della teoria cusaniana della contrazione. In sintesi, nel Periphyseon la forma sostanziale: – è irriducibile alla materia informata (L. III, PL 701A); – sussiste senza cambiamento nel proprio genere, nonostante la mutevolezza del corpo alterabile cui è congiunta (PL 702A); – non comincia a esistere col corpo sensibile, né cessa di esistere con la sua morte e decomposizione, e per questo motivo essa merita la qualifica di «terra»16. Un corollario significativo di questa prospettiva, che incontriamo nel quinto libro17, è la funzione che viene ad assumere il tema della resurrezione. Questa si impone quale necessità della ricongiunzione dell’anima col corpo incorruttibile, adamitico, di cui era provvisto l’Uomo Unico prima della sua caduta, e che non è stato interamente annientato dalla caduta stessa. Eriugena ipotizza che la resurrezione avvenga attraverso l’azione divina che consente all’anima di richiamare a sé le parti del corpo corruttibile, una volta che esso si sia decomposto e disperso nell’universo, e che le fa uguali al corpo incorruttibile. Riepilogando, nel Periphyseon ogni forma particolare, presente nella ­‘terza natura’ (ossia nel cosmo spazio-temporale, sintesi di sensibile e intelligibile), si struttura tramite la sua partecipazione alla forma sostanza cui inerisce, per cui ogni uomo è prelevato da Adamo, l’Uomo Unico; reciprocamente, la forma sostanziale sussiste in tutte le forme particolari quale «forma unica e identica», senza accrescimenti e diminuzioni ontologiche, in tutti i luoghi e in tutti i tempi della manifestazione. Ora, in una tale concezione, imperniata sulla dialettica tra Dio da un lato (pensato insieme come forma prima e come al di là di tutte le forme) e le forme sostanziali dall’altro lato, il mondo può svolgere solo la funzione di spazio mobile, transeunte e insostanziale18 – quindi sprovvisto del carattere della indistruttibilità proprio delle forme sostanziali – in cui i viatores si cimentano, mettendo alla prova se stessi nei loro percorsi teleologici: uno spazio però non neutro, bensì contraddistinto dalla bellezza ricevuta come dono benevolo di Dio concesso all’uomo. La physis, con la parvenza della sua bellezza, si fa visibile entro l’ambito della terza natura, per consentire agli uomini di condurre l’attraversamento della zona intermedia

15 Cfr. Periphyseon, Liber I, ed. cit., p. 75, l. 2314 (PL 496B) e p. 77, l. 2367 (PL 497C); Liber III, ed. cit., pp. 117-119, ll. 3398-3413 e ll. 3453-3461 (PL 701A-702B). Ringrazio Giulio d’Onofrio per le sue importanti puntualizzazioni sull’individuazione in Eriugena, fornitemi in margine alla lettura del presente saggio. 16 «[…] aridae (hoc est terrae) uocabulo non incongrue appellatur» (Liber III, ed. cit., p. 119, ll. 3460-1 – PL 702B). 17 Cfr. Periphyseon, Liber V, ed. cit., 2003, p. 87, ll. 2794-2802 (PL 922B) e p. 106, ll. 33653375 (PL 935C-935D). 18 Cfr. Periphyseon, Liber V, ed. cit., p. 55, ll. 1718-1731 – PL 897C-898A.

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mondana e coronare la risalita alla ‘quarta natura’, coincidente con Dio quale Omega assoluto, fine di tutti i fini. Ora, una volta che in una siffatta prospettiva il mondo naturale sia svuotato di una sua autonoma consistenza e gli sia sottratta l’attributo della sua ultimità e indistruttibilità, anche l’anima del mondo non può mantenere la funzione vivificante le forme particolari nella via complicativa che scandisce le tappe del reditus. Così il processo esplicativo che va da Dio all’Uomo Unico, fino all’uomo in carne e ossa, non deve essere appesantito dalla posizione surrettizia di un Mondo Unico. Quest’ultimo, in effetti, si configurerebbe solo come un fattore di appesantimento e sviamento del cammino di risalita delle forme sostanziali verso Dio: un ostacolo assente nella prospettiva eriugeniana, e invece presente in quella cusaniana. 3. Come nel pensiero di Eriugena, anche in quello di Cusano, sei secoli dopo, la contrazione dell’Uno sfocia nelle forme singolari, le quali hanno col Principio da cui discendono un rapporto sia di identità sia di differenza. Il primo nesso fa sì che ognuna di esse, in Dio, sia Dio stesso, in quanto atto della sua eterna e simultanea autocreazione e autoriconoscimento nella perfetta aequalitas del Verbo; viceversa il secondo nesso fa sì che Dio si sottragga alla totalità delle forme sostanziali, trascendendole nella sua ­ultracategorialità. Così, una volta pensato l’Uno come coincidenza dei nessi di identità e di differenza, Dio va poi pensato come al di là di qualsiasi coincidentia oppositorum, compresa la più radicale, la coincidenza dei contraddittori. Per vagliare l’interpretazione cusaniana dell’individuazione, così come si dispiega sulla base di questa teoria della contrazione, prendiamo le mosse dal De docta ignorantia. Qui l’individuazione avviene in due momenti. Il primo va dall’infinità negativa propria del Massimo assoluto fino all’infinità privativa peculiare al massimo contratto, per cui il cosmo viene concepito senza limiti ma sprovvisto della perfetta precisione, che rimane prerogativa del Massimo assoluto. Il secondo momento copre il percorso discensivo lungo le successive modulazioni del massimo contratto, e si arresta alle forme particolari, di modo che la sterminata estensione degli accidenti, che si distendono nella materia sensibile, rimane esclusa dal potere complicativo necessario ad attivare il reditus all’Uno. Ritengo che in questa suddivisione in due fasi dell’individuazione si annidi una tensione irrisolta: concependo la totalità del massimo contratto come la prima e più elevata singolarità cui dà luogo la contrazione del Massimo assoluto, Cusano viene a elevare infondatamente il cosmo a primo e più eccellente individuo, nonostante che esso sia qualificato come intrinsecamente indefinito. Nella dialettica della contrazione, sulla base dei presupposti ontologici cusaniani, solo alle forme particolari avrebbe dovuto essere riconosciuto lo statuto di singolarità contratta; ora, Cusano nega coerentemente tale statuto agli universali astratti, i quali sono in atto soltanto negli intelletti particolari degli uomini, ma lo riserva all’universo fisico, in forza del principio che lo vi-

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vifica dall’interno. Anche se al riguardo – come vedremo – egli è ambiguo, in effetti è solo ricorrendo all’operatività dell’anima del mondo che può essere conferita al cosmo la qualifica di singolo primo, quale immenso organismo vivente, che trasmette in seconda battuta la singolarità a tutti gli enti animati, e tra questi anche all’uomo, il quale pure svolge la medesima funzione di microcosmo già riconosciutagli da Giovanni Scoto. Certo, anche in Cusano l’approdo della contrazione rimane in ultima istanza di tipo monadologico: solo le forme individuali sono in atto, ponendosi rispetto al loro principio creatore, il Massimo assoluto, in un nesso che è intramato sia di identità sia di differenza, di modo che Dio è, in ogni sostanza singolare, l’essere di quella cosa senza coincidere integralmente con essa. Tuttavia a questo esito si perviene per il tramite del principio mediatore del singolo contratto primo, il principio vivificante il mondo e immanente a esso. Proviamo a mettere meglio a fuoco la questione. Nella Dotta ignoranza viene allestito un duplice registro dell’individuazione, in quanto la singolarità delle forme particolari si presenta in un modo allorché è riferita al Massimo assoluto, e in un altro modo nella prospettiva del massimo contratto. Nel primo caso, la forma particolare è contenuta nel tutto, e a sua volta è contenente il tutto, per cui ne consegue l’attribuzione di una peculiare infinità anche alla parte, oltre che al tutto, e su questa base, nel terzo libro dell’opera, verrà svolta una teologia dell’incarnazione; reciprocamente, il Massimo assoluto viene concepito come non solo contenente le sue parti, ma anche contenuto da ciascuna di esse19, venendo così a configurarsi non solo come infinito negativo, ma anche – se ci consente l’anacronismo – come infinito transfiniente. Nel secondo caso, invece, le forme particolari contengono il tutto solo contrattamente, ovvero limitatamente all’apertura prospettica insita nella propria finita contrazione, ragion per cui il tutto del massimo contratto non è ricompreso nelle sue forme particolari se non parzialmente. Ora, tra le due prospettive non vi è incompatibilità, perché a loro comune fondamento vi è l’assunto che soltanto il singolare è in atto. Di conseguenza, agli universali è conferita una presenza meramente virtuale, come quella che spetta a enti di ragione esistenti contrattamente negli intelletti individuali che li intenzionano. Nella sfera del massimo contratto troviamo dunque i singolari in atto e gli universali in potenza. Di converso, in quella del Massimo assoluto si dà la coincidenza tra i due poli: nella eccelsa e incontratta Mente divina sono raccolte le cause esemplari di tutte le forme particolari, in identità con esse, e la totalità degli esemplari è custodita, e insieme trascesa, nel Massimo assoluto, quale esemplare unico e a un tempo sovraessenziale. Così, pensato come Uno negativo trascendente ogni determinazione categoriale, Dio travalica il nesso di esistenza ed essenza, e si presenta alla mente dell’uomo come la forma di tutte le forme e insieme come la singolarità di 19 Cfr. Nicolai de Cusa, De docta ignorantia, in Id., Opera omnia, vol. I, edd. E. Hoffmann e R. Klibansky, Meiner, Leipzig 1932, I, XXIII, § 72.

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tutte le singolarità, per ritrarsi poi, in modo incomprensibile, al di là di questa stessa rappresentazione, come al di là dell’essenza e della stessa singolarità. Il discorso di Cusano al riguardo si conclude, nel capitolo VI del II libro del De docta (soprattutto nel § 125, cui qui ci siamo riferiti), con tale guadagno speculativo, e con la consapevolezza critica della congetturalità che spetta a qualsiasi interrogazione umana del senso ultimo dell’essere: l’uomo non può sapere come avvenga questo raccogliere e questo trasfigurante trascendere, ma può acquietare la sua ricerca nell’intuizione negativa che afferra incomprensibilmente Dio come universale assoluto e simultaneamente come singolare assoluto. Nel prosieguo del secondo libro (§§ 149 e 150) l’autore respinge l’anima del mondo quale forma autonoma, negandole la funzione di intermediaria tra le forme particolari e il Massimo assoluto, e criticando esplicitamente i «platonici», cioè Proclo, che è al riguardo la fonte diretta del Nostro. Contestando dunque la tesi di una zona mediana tra Dio e le realtà singolari sorte dalla explicatio divina, sembrerebbe che Cusano serri la sua dialettica dell’espressione su un impianto saldamente monadologico; ma non è così. Infatti, se per un verso egli prende le distanze dai «platonici» sull’anima del mondo, per un altro verso non se ne distacca fino in fondo, non rinunciando a conferire al mondo lo statuto di prima e più elevata singolarità creata, in quanto forma prima, che trasmette poi alle forme particolari la non plurificabilità che lo contraddistingue, e che a sua volta proviene ultimamente dal Massimo assoluto. Questa oscillazione attraversa gli scritti successivi, e giunge fino al De ­venatione sapientiae, del 1462, come si evince chiaramente dal cap. XXII, nel ‘campo di caccia’ che, continuando l’indagine sul «campo dell’unità» svolta nel cap. XXI, approfondisce quest’ultima come singularitas. Qui il discorso muove dall’Uno, presentato come indiviso da sé e diviso da tutto ciò che si mostra come non-uno, e proprio da ciò viene inferita la singolarità dell’Uno. Il secondo passaggio di questa caccia sapienziale focalizza la singolarità come contrassegno essenziale delle entità contratte che partecipano dell’Uno. Infatti l’Uno, che è non plurificabile, in quanto singolarità prima è causa di tutti i singolari, ponendosi come «la singolarità di tutti i singolari», per se singularis. Muovendo poi dal punto di vista della singolarità, Cusano afferma che è proprio del singolare l’abbracciare il tutto, e riconferma l’irriducibilità del singolare alle determinazioni accidentali che pur gli ineriscono, e che differenziano la sua contrazione da quella di tutti gli altri singolari, senza incrinare con ciò la sua perseità. Tuttavia ricompare a questo punto la precedente ambiguità: la singolarità è ricevuta, per ogni singolare finito, dalla singolarità dell’Uno quale Bene massimo, che la trasmette anzitutto alla singolarità del

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mondo, poi alla singolarità della specie, infine, come grado minore, alla singolarità degli individui20. Come si vede, Cusano ripropone conclusivamente l’individuazione come un processo discensivo che termina negli individui, con una diminuzione di singolarità rispetto a quella che inerisce al cosmo naturale. Ma se la forma particolare trae dal mondo la propria monadicità, seppure in seconda battuta rispetto all’Uno, la sua indistruttibilità risulta essere subordinata a quella del mondo. Si diparte qui una linea di divaricazione rispetto alla teologia biblica, che Cusano cela ma non può evitare. La teoria cusaniana rimane impigliata in questa oscillazione, ma anche la nostra critica deve rimanere sospesa; infatti, nella chiusa del cap. XXII l’autore rinvia, per un ulteriore sviluppo del discorso, che muove dalla somiglianza tra la singolarità e la luce eterna, a un suo libro intitolato La figura del mondo, che purtroppo non ci è pervenuto. Nonostante ciò, la finalità, la singolarità e il loro nesso sono da acquisire come le due componenti irrinunciabili della dialettica cusaniana della contrazione.

20 «Nominatur autem singularitas. Nam cum unum non sit aliud quam unum, singulare videtur, quia in se indivisum et ab alio divisum. Singulare enim cuncta complectitur; cuncta enim singula sunt, et quodlibet implurificabile. Singula igitur, cum omnia et implurificabilia sint, ostendunt esse unum maxime tale, quod omnium singularium causa. Et quod per essentiam est singulare, et implurificabile; est enim id quod esse potest, et omnium singularium singularitas. Unde sicut simplicitas omnium simplicium est per se simplex, quo simplicius esse nequivit, ita singularitas omnium singularium est per se singularis, quo singularius esse nequit […]. Sicut singularits speciei singularior quam suorum individuorum, et singularitas totius singularior quam partium et singularitas mundi singularior quam singulorum omnium. Unde sicut singularissimus deus est maxime implurificabilis, ita post deum mundi singularitas maxime implurificabilis et deinde specierum, post individuorum, quorum nullum plurificabile» (Nicolai de Cusa, De venatione sapientiae, in Id., Opera Omnia, ed. cit., p. 63; tr. it. in Opere filosofiche, cit., p. 976 – corsivo mio).

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La ratio melancholica al cospetto della «misura segreta» del mondo Gianluca Cuozzo «Radicem doctae ignorantiae in inapprehensibili veritatis praecisione statim manifestans» (De docta ignorantia I 2, 8)

Immaginiamo un mondo dove tutto è misurabile, sussumibile – con certi gradi di approssimazione – alla regola della conformità e proporzionalità (Vergleichung) adeguata degli enti: ogni cosa è comparabile con un’altra, tale da entrare in una equazione quantitativa con l’alterità in un modo sempre misurabile dalla nostra mens, quale viva mensura della realtà: si tratta di quella facoltà razionale e discretiva (ratio discernens) che, in quanto compasso vivente, «risolve tutte le cose alla molteplicità ed alla grandezza»1. Tutto l’universo, allora, dovrà esser costituito secondo numerus, pondus et mensura, conformemente ad un certo ordine – fatto di symmetria, concinnitas e consensus partium – che la ragione può formalizzare secondo le leggi stabilite dalla geometria e dall’aritmetica. Proportio, consonantia et harmonia, peraltro, sono gli stessi concetti che Cusano impiegherà per definire la bellezza: essa consiste in «quandam consonantia diversorum»2; «ratio pulchri in universali consistit in resplendentia formae super partes materiae proportionatas»3. Ora si pensi a questo stesso mondo, dapprima fondato sul numero e sulla misura, come a ciò che vi è di più incerto, mai conoscibile pienamente dalla ragione. Un mondo in cui la misura assoluta non esiste, dove la proporzione fra gli enti, rispetto ad un numero certo e preciso, dà come esito una sorta

1 N. Cusano, De coniecturis, in Opera omnia, Iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis, vol. III, a cura di J. Koch e K. Bormann, Meiner, Hamburg 1972, I, p. 40; trad. it. di G. Santinello (in N. Cusano, La dotta ignoranza, Le congetture, Rusconi, Milano 1988), p. 268. 2 N. Cusano, Sermo CCXL, Tota pulchra est, amica mea (1456), edizione critica e introduzione di G. Santinello, Società Cooperativa Tipografica, Padova 1958, p. 32. 3 Ivi, p. 33.

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di  scarto differenziale fra idem ed aliud, sproporzione costitutiva del reale che frustra costantemente l’umana volontà di sapere. Detto con Cusano, nella realtà non esiste la precisione assoluta, poiché i termini della comparazione – per quante mediazioni ‘assimilative’ e comparanti si frappongano fra di essi per attenuare l’originaria dissimiglianza – non giungerà mai all’uguaglianza assoluta. È come se il bilancio di previsione, a cui la realtà dovrebbe de facto adeguarsi, fosse costantemente messo in discussione da un bilancio consuntivo in cui entrate ed uscite non fossero mai pareggiate sullo zero (quale misura identica e perfetta coincidenza del diverso): qualcosa sfugge costantemente alla misurazione, poiché alla resa dei conti un «eccedente» e un «ecceduto» mettono in crisi ogni calcolo razionale: «È immediatamente evidente che non vi è proporzione dell’infinito col finito; perciò è chiaro che, dove è dato trovare un eccedente (excedens) e un eccesso (excessum) non si è giunti al massimo puro e semplice, perché sono finite sia le grandezze eccedenti che quelle eccedute»4. Uno stesso mondo, essenzialmente ancipite, sarebbe dunque allo stesso tempo misurabile e non-misurabile, quantificabile e non-quantificabile, ordinato – secondo numero, peso e misura – ed essenzialmente inordinato. Le varie proporzioni finite, detto in altri termini, si librano nel vuoto come infondate rispetto ad una misura assoluta – rapporto d’identità (o absoluta aequalitas), quale verità ultima di ogni comparazione relativa – che non è dato ravvisare nel «campo» di applicazione delle congetture razionali (il caelum ­rationis, scrive Cusano nel De coniecturis). La ragione, con compasso, bilancia e tavole algebriche di proporzione, fondate su multipli di numeri interi, crea e proietta una rete di rimandi logici sul mondo, stabilendo così delle coordinate di riferimento – simili a quelle tracciate sensibilmente sulla mappa del cartografo – che siano in grado di restituire una immagine ordinata e razionale della realtà; allo stesso tempo, la ragione è consapevole della natura per così dire ‘immaginale’ e meramente ipotetica (vale a dire congetturale) di questa costruzione logica, di questa mappatura della realtà: si tratta infatti di un’ars coniecturalis rispetto a cui ogni numero e misura, quale libera esplicazione della mente, possiede un carattere inevitabilmente ‘soggettivo’ e per così dire ‘immaginale’. Ogni costruzione razionale della realtà, detto altrimenti, ha in Cusano il carattere proprio della ‘prospettiva pittorica’: le varie coordinate congetturali, che creano ripartizioni geometriche ben ordinate e rapportabili l’una all’altra nella realtà, si appuntano ad un centro di prospettazione che non coincide con il principium realitatis – inaccessibile alla sfera della ragione –, quanto piuttosto s’identifica con l’occhio dell’indagatore

4 «Quoniam ex se manifestum est infiniti ad finitum proportionem non esse, est et ex hoc clarissimum, quod, ubi est reperire excedens et excessum, non deveniri ad maximum simpliciter, cum excedentia et excessa finita sint»: N. Cusano, De docta ignorantia, in Opera omnia, cit., vol. I, a cura di E. Hoffmann e R. Klibansky, Meiner, Leipzig 1932, I 4, pp. 8-9; trad. it. di G. Santinello, cit., p. 64.

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s­ tesso: esso è posto su un punto qualsiasi della ideale circonferenza che s’irraggia dalla facies facierum, il volto onniveggente di Dio, che sta in un rapporto di perfetta identità (maxima aequalitas) – e dunque di precisione infinita – con il Verbum, l’imago consubstantialis Patris. Al cospetto di questo volto infinito, quale perfetta e precisa misura di se stesso e di tutto il reale – volto che sta però «in una luce inaccessibile» (Dio, infatti, «est maxime lux, quod est minime lux»)5 –, la ragione umana «non può intendere in modo preciso la verità delle cose procedendo per similitudini. La verità non è né di più né di meno: consiste in qualcosa di indivisibile e non può con precisione misurarla tutto ciò che non è il vero stesso […] La ragione, dunque, che non è la verità, non comprende mai la verità in modo così preciso da non poterla intendere più precisamente ancora all’infinito»6; vale a dire, come afferma Albrecht Dürer (1471-1528) a proposito della realizzazione artistica della bellezza assoluta, mediante un’indefinita approssimazione alla infinita precisione della bellezza (zur rechten Hübsche annähern)7: essa, detto con Cusano, in quanto «a nullo est alia aut diversa, excedit omnem intellectum»8; «Solus Deus sic se cognoscit»9. Oppure, come ancora Cusano scrive nel sermone Tota pulchra, solo «la bellezza assoluta, che è Dio, intuisce se stessa e s’infiamma del suo stesso amore»10. Il mondo della ragione, secondo Cusano, è il mondo visto e misurato dalla sola ragione; tra una costruzione razionale e l’altra c’è la stessa difformità esistente tra le varie raffigurazioni di uno stesso volto in quanto colto da prospettive angolari pittoriche diverse: nessuna di esse è una replica perfetta dell’absolutus visus divino, esemplare ed archetipico. La prospettiva razionale sulla realtà, scrive Cusano nel De visione Dei, «per angulum quantum videt»: essa coglie il mondo secondo l’occhio della ragione, «che non è la verità» assoluta, ma soltanto un certo grado di approssimazione ad essa. La ragione, come mostra esemplarmente la Figura Paradigmatica (al centro del De coniecturis), è solo un estremo di un gioco di sguardi reciproci e complementari; l’altro, l’elemento fondante (la base della piramis lucis), è dato dalla absoluta visio divina: «videndo me – scrive Cusano nel De visione Dei – das te a me videri». Finché prospettiva angolare e visione circolare (sine N. Cusano, De docta ignorantia, cit., I 4, p. 11. «Non potest igitur finitus intellectus rerum veritatem per similitudinem praecise attingere. Veritas enim non est nec plus nec minus, in quodam indivisibili consistens, quam omne non ipsum verum existens praecise mensurare non potest […] Intellectus igitur, qui non est veritas, numquam veritatem adeo praecise comprehendit, quin per infinitum praecisius comprehendi possit […]»: ivi, I 4, p. 9; trad. it. cit., p. 64. 7 A. Dürer: Vier Bücher der menschlichen Proportion; Das dritte Buch, Nürnberg 1528 (Faksimile-Neudruck, Verlag A. Uhl, Nordlingen 1980), f. T II r. 8 N. Cusano, De docta ignorantia, cit., I 4, p. 10. 9 N. Cusano, Sermo CCLV, Multivarie multisque modis (1457), in Nicolai Cusae Cardinalis Opera, Parisiis, apud Jodocum Badium Ascensium, 1514, vol. II, Excitationes, fol. 156v. 10 «Pulchritudo absoluta, quae est Deus, seipsam intuetur et in sui ipsius amorem inardescit»: N. Cusano, Sermo CCXL, Tota pulchra est, amica mea (1456), cit., p. 37. 5 6

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perspectiva) non s’incontrano, la nostra mente non può cogliere la realtà così com’è, ovvero così come è vista da Dio: al di là di ogni immagine, misura, proporzione e concetto. Vedere il mondo come io stesso, quale ente esplicato e creaturale, sono visto da Dio, quale visio entificativa ed essenziante, nello specchio infinito del Verbum – speculum sine macula, assolutamente rectus e perfetto –, significa di fatto liberare il mondo da quelle esili trame ipotetiche costituite dalle umane congetture; vuol dire cioè lasciar affiorare incomprensibilmente il fondamento ascondito di ogni contrazione dalle reti logiche che ricoprono e ingabbiano la realtà, lasciandoci infine trasfondere da una visione che oblitera ogni prospettiva quantitativa ed angolare: qui, in questa fusione di sguardi, il vedente «vede la sua verità, poiché questa lo vede, ossia vede il vedente in essa come vede se stessa» (in una perfetta simmetria di sguardi)11. Tutto ciò, in altri termini, significa guardare melancolicamente al cielo della ragione come ad una media speculatio – eternamente vacillante tra sensibilità ed intellectus –, la quale non è in grado di ascendere, «per sé sola soltanto», al terzo cielo dell’intuizione più semplice: là dove tutte le forme, superando il principio di non contraddizione, vero e proprio baculus rationis, si risolvono in un’identica forma, infinita ed assolutamente complicativa di tutto il reale: forma formarum, o Figlio unigenito (il Verbum), che è la relazione d’infinita eguaglianza in cui tutta la realtà trova la sua praecisa mensura, al di là di ogni Brauch (abilità manuale) e Kunst (la conoscenza artistica vera e propria). Solo l’ars divina è in grado di rappresentare fedelmente la verità in un’immagine di infinita eguaglianza, in cui essa verità possa apparire precisamente e sostanzialmente, senza alcuno scarto ontologico tra modello ed immagine: «Così come il raggio di sole è immagine della sostanza del sole, allo stesso modo il Figlio è immagine naturale del Padre: egli viene rappresentato attraverso la figura della sostanza, e non mediante una figura artificiale. Quest’ultima, difatti, non è immagine della sostanza, bensì dell’accidente, così come la figura scolpita o dipinta imita l’esemplare soltanto in una figura accidentale. Come la luce del sole possiede nella sua virtù tutto ciò che è proprio del sole, allo stesso modo il Verbo di Dio possiede nella sua virtù tutto ciò che è proprio di Dio»12. Senza conversione dello sguardo finito (razionale) alla simultanea et incontracta visio divina, la mia costruzione razionale della realtà non è dissimile da una sinopia ricavata dal «taglio» della piramide visiva pittorica: i punti e tratti tracciati su di essa, mimetici dell’ordinamento della realtà che si vuole raffigurare, dipendono dalla posizione del mio occhio nello spazio, e non ade11 E. Beierwaltes, Visio absoluta. Riflessione assoluta in Cusano, in Identità e differenza, trad. dal tedesco di S. Saini, Vita e Pensiero, Milano 1989, p. 194. 12 «Sicut radius est imago solaris substantia, sic Filius naturalis imago Patris quae per figuram substantiae significatur, et non artificialem, quae est imago non substatiae sed accidentis; sicut sculpta imago vel picta in accidentali figura tantum imitatur exemplar. Sicut lumen solis portat omnia in virtute sua quae sunt in sole, sic verbum Dei portat omnia in virtute quae sunt in Deo»: N. Cusano, Sermo CCLV, Multivarie multisque modis, cit., fol. 157r.

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gueranno mai la «verità precisa» su cui si struttura ontologicamente l’universo quale explicatio creativa di un’infinita ‘immagine archetipa (Urbild) senza volto’. Sia il mondo della ragione – calcolabile e misurabile –, colto dalla prospettiva angolare della ratio discernens, sia quello prodotto dall’arte pittorica, è soltanto un’‘immagine del mondo’: die Kunst (l’arte come sapere razionale) e die Brauch (il sapere pratico dell’artigiano o dell’idiota, fondato sull’applicazione tecnica di principi matematici e geometrici), direbbe Albrecht Dürer, trovano il loro fondamento in una costruzione congetturale del tutto simile, di cui numero, misura e proporzione sono le leggi intrinseche. Queste leggi sono valide finché si rimane nel «cielo della ragione», che non è mai la verità. Ogni immagine razionale del mondo, come le produzioni dell’arte, non può accedere alla verità, ma è soltanto un ‘simbolo congetturale’ dotato di una certa funzione euristica, capace perciò di delucidare ermeneuticamente – in speculo et in aenigmate – la struttura fondativa del reale, senza mai poterla restituire, al di là di ogni modo contrazione e figura determinata, nella sua perfetta precisione: nel linguaggio di Cusano, sul piano della ragione «misura e misurato, anche se uguali, rimarranno sempre differenti»13. Sì, proprio Dürer sembra incarnare e far proprio, sul piano della dottrina della raffigurazione artistica, molti tratti rilevanti del pensiero di Cusano qui evidenziati14. Alcuni passi dei suoi scritti teorici – Unterweisung der Messung (1525)15 e Die vier Bücher der Menschlichen Proportion (1528) – si rivelano intessuti di vere e proprie criptocitazioni tratte dal De docta ignorantiae dal De coniecturis cusaniani. Anche per Dürer la bellezza assoluta (rechte Hübsche o, come è stato tradotto in latino da Joachim Camerarius, con la supervisione di Willibald Pirckheimer, absoluta pulchritudo)16 sfugge alla capacità di comprensione dell’artista: cosa sia il bello assoluto, scrive icasticamente

13 «Mensura et mensuratum, quantumcumque aequalia, semper differentia remanebunt»: N. Cusano, De docta ignorantia, cit., I III, p. 9; trad. it. cit., p. 64. 14 Sulla probabile influenza della concezione matematica di Cusano sulla trattatistica geometrica tedesca del ’500, si veda L. de Bernart, Cusano e l’archimedismo del Rinascimento, in Aa.Vv., Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und Italien, a cura di M. Thurner, Akademie Verlag, Berlin 2002, pp. 374-377. 15 La traduzione latina di Joachim Camerarius, dal Mittel-Hoch Deutsch di Dürer, fu pubblicata a Parigi nel 1532 con il titolo Institutionum geometricarum quatuor libris. Camerarius (Bamberga 1500-1574), tra i più grandi filologi del XVI secolo, fu incaricato da Filippo Melantone di riorganizzare gli ordinamenti e gli statuti delle Scuole pubbliche di Norimberga tra il 1525 e il 1526. Avendo aderito al luteranesimo, si stabilì nella città di Dürer fino al 1535, periodo in cui strinse una profonda amicizia con l’umanista Pirckheimer, con il quale si dedicò alla sistemazione dell’opera postuma düreriana. Cfr. M. Pezza, Albrecht Dürer e la Teoria delle proporzioni dei corpi umani, Gangemi, Roma 2007, pp. 23-25. 16 La traduzione svolta dal Camerarius dei Vier Bücher venne pubblicata nel 1528 a Norimberga, corredata dalla prima biografia dell’artista (Vita di Albrecht Dürer); è pure da tenere presente la traduzione italiana di Paolo Gallucci (1538-1631, matematico, astronomo e cosmografo insigne, debitore delle dottrine del Regiomontano), con il titolo Della simmetria dei corpi humani (Venezia, 1591). Per il concetto cusaniano di pulchritudo, cfr. N. Cusano, Sermo CCXL, Tota pulchra est, amica mea (1456), cit.

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Dürer, weiß ich nicht17. Nel mondo vi sono soltanto gradi determinati di bellezza, sempre affetti quantitativamente da «un di più» e da «un di meno». Il bello in sé, come la precisione assoluta della verità per Cusano, sfugge ad ogni immaginazione e ragionamento del pittore – dato che, secondo Dürer, anche la produzione artistica è una libera esplicazione creativa aus der Vernunft (termine, quest’ultimo, che ancora Camerarius tradusse non a caso con ratio). Inutile quindi ricercare la bellezza con i mezzi messici a disposizione dall’arte, poiché questa abita una sfera inaccessibile al dominio estetico e dunque alla ragione stessa: essa, in quanto allo stesso tempo trascendente il reale e fondamento segreto nascosto nel suo grembo inaccessibile, è nota solo a Dio, «maestro di ogni bellezza». La stessa cosa vale per la proporzione umana, fondamento della bellezza del corpo raffigurato: «La bellezza è l’armonia delle parti in rapporto reciproco e con il tutto», scrive Dürer18; la proporzione ‘bella’, in senso assoluto, non esiste incorporata in un singolo individuo. Ciascun corpo esistente possiede un grado di proporzione, armonia e bellezza soltanto relativo, grado incarnato da ogni singolo oggetto potenzialmente raffigurabile solo per quel tanto che di esso è conforme al suo essere particolare e caratteristico, che non è mai l’entità assoluta (absoluta entitas) dell’intera realtà. Inutile anche stabilire, attraverso l’osservazione di una molteplicità di casi empirici approssimativamente ‘belli’, una mera media statistica tra i vari gradi relativi di proporzionalità e bellezza (die durchschnittliche Schönheit, Mittelmass): anche se «das rechte Mitte ist das Beste»19, questa media non fornisce a posteriori la bellezza o la proporzione assoluta, che è piuttosto il modello primitivo, in se stesso inconoscibile, e non tanto il risultato della composizione post factum della «infinita varietà» (unendliche Unterschied) dei singoli casi di bellezza relativa. Per di più, i dati offerti dal mondo reale spesso, secondo Dürer, non sono traducibili in perfette proporzioni algebriche: le singole parti di un corpo, così come le relazione dei corpi tra di loro, rispetto alla ragione commisurante, possiedono un che di inesprimibile «in termini di frazioni e aliquote»: essi, di fatto, sono «inesprimibili mediante quel numero con cui si vorrebbe misurali» (unnenbarlich in der Zahl, die man messen will)20. Queste relazioni, intrinseche alle parti di uno stesso corpo o dei corpi nei loro rapporti estrinseci, all’atto della misurazione, producono una comparazione esprimile matematicamente soltanto mediante un numero ‘irrazionale’. Meglio, dunque, piuttosto che cercar di ottenere la bellezza assoluta, domandarsi «come debba essere eseguita una figura migliore» di un’altra, senza pretendere che la nostra produzione sia l’ottimo puro e semplice (Allerbesten): ogni nostra

M. Pezza, op. cit., p. 12. E. Panofsky, La vita e l’opera di Albrecht Dürer, trad. dall’inglese di C. Basso, Abscondita, Milano 2006, 334. 19 A. Dürer, Vier Bücher, Das dritte Buch, cit., f. T I r. 20 E. Panofsky, op. cit., p. 344. 17 18

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creazione, inevitabilmente, sarà sempre inficiata o da una certa «mancanza» (Mangel), o da un certo «sovrappiù» (Überfluss), che non ne permetterà mai l’uguaglianza assoluta (o perfecta adaequatio) con la somma bellezza. Di fatto, scrive significativamente Dürer, «io non credo che vi sia nessun uomo al mondo che sia in grado di definire il massimo di bellezza nella più umile creatura vivente, per non dire dell’uomo, che è una speciale creatura di Dio e padrone delle altre creature. Ammetto solo che un uomo possa immaginare e produrre una figura più bella di un’altra […] ma non lo sarà mai al punto che non ve ne possa essere un’altra ancora più bella. Questa [perfezione] non rientra nelle possibilità della mente dell’uomo. Solo Dio possiede un tale sapere. Quale debba essere la più bella forma e misura (die schönste Gestalt und das schönste Mass) possibile dell’uomo è stabilito soltanto dalla Verità»21. D’altro canto, il rapporto ratio e arte in genere (Kunst) è stabilito da Dürer in perfetta sintonia col pensiero di Cusano: la prospettiva pittorica, che è il punto archimedeo della geometria applicata (dottrina in cui non a caso culmina lo scritto Unterweisung der Messung), è un modo – confacente a ragione, a numero e misura – di organizzare matematicamente lo spazio secondo proporzione (Vergleichen) e armonia (Anordnung), vale a dire, scrive Dürer nei Quattro libri sulla proporzione umana, secondo «buone ragione geometriche». E tuttavia essa non è sinonimo di ‘realismo’: rappresentare pittoricamente la realtà con l’ausilio della piramide visiva, ben diversamente, significa organizzare geometricamente una porzione dello spazio in modo meramente ‘simbolico’, ovvero offrire un’immagine della realtà che ha una validità soltanto congetturale. Misura, armonia e proporzione sono allora delle fictiones euristiche in grado di permettere la coerenza intrinseca della riproducibilità mimetica della realtà del modello da raffigurarsi, e ciò senza alcuna pretesa che questi concetti matematici possano restituire quel fondamento segreto del reale – incomprensibile per la ratio – che si rivela, di fatto, persino nel brutto, nell’orrido e nell’abnorme: detto con Dürer, in ciò che appare recalcitrante ad ogni canone estetico nelle cosiddette abgeschiednen Dinge (le cose separate e disarmoniche), in cui al più può solo darsi un concetto di ­«bellezza smisurata» (übermässige Schönheit), dunque sproporzionata rispetto alle capacità della nostra ragione comparante (vergleichende Vernunft)22. Se Alberti dunque è il teorico in arte di un certo ‘oggettivismo’ (secondo cui la matematica e la geometria corrispondono effettivamente all’organizzazione intrinseca dell’ordinamento mondano), per Dürer – fedele in ciò forse all’ars coniecturalis di Cusano – la geometria, anche applicata all’arte, si rivela come un metodo dell’intelligenza essenzialmente ‘ricostruttivo ed ipotetico’, da doversi quindi intendere in un senso puramente ‘simbolico’. Per Dürer l’immagine raffigurata, si potrebbe dire, non è nient’altro che un sogno ben ordinato; non è dunque un caso che egli definisca l’opera bella, almeno per quanto 21 22

A. Dürer, Vier Bücher, Das dritte Buch, cit., f. T II r. Ivi, T III r.

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attiene al genere fantastico (quelle raffigurazioni che hanno dunque un oggetto non esistente in natura), un Traumwerk. L’immagine ben riuscita, in tal senso, ha lo stesso rapporto con la realtà (e con la bellezza in senso assoluto) che ha l’homo bene figuratus, iscritto a braccia e gambe distese nel circolo vitruviano, con l’effettiva azione creatrice di Dio a partire dal modello della verità umanità ante peccatum custodita eternamente nel Verbo – esemplare perfetto e trascendente (imago archetipa, Urbild), con cui Dio soltanto può sottoporre ad una regola, a noi sempre ignota, persino quelle figure colleriche o melancoliche che, dal punto di vista della comparabilità (Vergleichlicheit) razionale in cui si esplica creativamente la nostra mente, proprio belle non possono dirsi. Rispetto all’archetipo, la realtà raffigurata dall’artista è dunque soltanto un’immagine, un suo adombramento che produce rapporti di armonia e proporzioni in una ben determinata porzione di realtà ‘idealmente ricostruita’, secondo ordine e ragione, attraverso linee geometriche e contorni ben definiti. La mente dell’uomo, scrive Dürer, è interiormente piena di immagini e figure (inwending voller Figur), e se a un buon pittore fosse possibile vivere per sempre egli potrebbe «produrre ogni giorno nuove forme di uomini e di altre creature di cui non si è mai visto il simile, né è stato pensato da nessun altro uomo»23. In tali opere l’artista si comporta come un Dio: ma le sue creazioni sono soltanto congetture artistiche, immagini belle (schöne Gestalten) e ben ordinate del reale fondate su mere ipotesi di calcolo razionale (vernünftiger Mass). La misura precisa della realtà vera trascende la mente e il cuore dell’artista, sicché il suo potere «è nullo al cospetto della creazione di Dio»24: e sebbene Dio, così scrive Dürer, «doni all’uomo istruito nell’arte, in un modo o nell’altro [vale a dire, sempre diversamente], un potere enorme […] è evidente che tutte le cose che l’uomo può fare si distinguono, di per se stesse, l’una dall’altra». Nessuna di queste, direbbe Cusano, eguaglia il divino posse in atto, che è tutto ciò che è possibile che sia; «ragione per cui – prosegue Dürer – nessun artista vivente può essere certo di fare due cose così uguali l’una all’altra, che esse non possano essere riconosciute e reciprocamente distinte. Infatti – e qui Dürer potrebbe aver tratto lumi dall’esperimento cusaniano del lancio irripetibile del globus verso il centro dei nove cerchi concentrici, esperimento esposto nel De ludo globi – «tutto il nostro fare non potrà mai essere conforme o completamente uguale a quello di un altro. Così noi vediamo che quando vogliamo ottenere due stampe da una stessa matrice di rame incisa, o colare due oggetti da uno stesso stampo, ne risultano [negli artefatti] delle differenze mediante cui le copie possono essere ancora riconosciute e distinte tra loro. E quello che avviene in queste cose precisissime, vale ancor di più per le altre che possono esser fatte a

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Ivi, T I r; cfr. E, Panofsky, op. cit., p. 358. E. Panofski, op. cit., p. 357.

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mano libera»25. Come per il lancio cusaniano della palla, anche per la tecnica dell’incisione è dunque da tener presente «ciò che accade al di fuori dell’intenzione»26: asperità del terreno, condizioni atmosferiche ed imprevedibilità del movimento della sfera concavo-convessa sul piano irregolare del ludus sapientiae, fanno di ogni lancio un unicum irripetibile. D’altronde Cusano, già nel De docta ignorantia, segnalava come sia evidente che, sul piano della comparatività razionale, noi «non possiamo trovare due o più cose così simili e uguali tra loro, da non essere ancora più simili, all’infinito»27. Nella dedica a Willibald Pirckheimer dell’opera Unterweisung der Messung, Dürer pare approfondire il valore congetturale della «misurazione con il compasso e con il regolo nelle linee, superfici e corpi», spingendo quest’ordine di considerazioni all’estremo; fino ad estenuare, cioè, riguardo alle procedure di misurazione razionali qui descritte, ogni preciso riferimento alla matematica e alla geometria quali discipline che hanno a che vedere direttamente con la realtà oggettiva del mondo. Egli, di fatto, sostiene come la Kunst der Messung – «fondamento esatto (rechter Grund) di tutta la pittura», da Dürer offerto ai giovani ed inesperti artisti (apprendisti le cui opere sono colme di ingenui errori) come indispensabile correttivo – trovi il proprio scopo nello svelare la rechte Wahrheit, o la coerenza intrinseca al raffigurato, in modo che questa verità delle immagini possa esser vista con i propri occhi («vor Augen sehen mögen»). Si tratta di quella coerenza interna alle opere (Gleichheit; lat. aequalitas), di cui furono anticamente maestri i Greci e i Romani, misura che possa impedire all’artista, ad esempio, di «servire all’idolatria, in modo tale che un qualsivoglia credente sia nientemeno portato, a causa dei dipinti e delle immagini, all’empietà (Afterglauben), più di quanto un uomo pio non sia spinto al delitto per il solo fatto di portare un’arma al suo fianco»28. La misura, in questo caso, si riferisce evidentemente ad un orizzonte di concetti tradizionali e di precetti estetici classici che nulla hanno a che vedere, nell’arte della raffigurazione, con la resa fenomenologica ed oggettiva della realtà delle cose (adaequatio). Insegnare l’arte della misura, per Dürer, equivale a istruire l’artista ad una forma superiore di diletto (Wohlgefallen) rispetto al semplice compiacimento per la propria abilità manuale (Brauch): quella ingenerata dall’armonia e dalla proporzione, che vive soltanto laddove si eviti una palese «contraddizione» (Widersinn) nella resa figurativa di un’immagine: sia essa reale o inesistente, brutta o bella, tratta dalla natura o di genere fantastico, l’immagine deve per forza assecondare quella misura A. Dürer, Die vier Bücher, Das dritte Buch, cit., f. T I r. N. Cusano, De ludo globi, a cura di G. von Bredow, testo a fronte latino-tedesco, Meiner, Hamburg 1999, I LV, p. 60: «[…] globus remote a centro declinat, videri quod non secundum pellentis intentionem sed etiam secundum fortunam moveatur». 27 «Patet non posse aut duo aut plura adeo similia et aequalia reperiri, quin adhuc in infinitum similiora esse possint»: N. Cusano, De docta ignorantia, cit., I, III, p. 9; trad. it. cit., p. 64. 28 A. Dürer, Die vier Bücher, Das dritte Buch, cit., f. T I r. 25 26

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(potremmo anche dire il decor) escogitata ed impartita dalla nostra ragione a quella ‘regione dell’apparenza’ in cui le concrezione artistiche prendono forma: si tratta di «ordinare l’immagine nel suo complesso, con magnificenza e maestria, in tutti gli elementi costitutivi (Gliedmassen) del tutto proporzionale»29. Come Dürer precisa nell’Excursus estetico al termine del terzo libro dei Vier Bücher der menschlichen Proportion (dedicato alla pittura), la misura – «senza di cui la mia dottrina [delle proporzioni] non può essere compresa nei propri fondamenti (gründlich)»30 – è un parametro intrinseco, quasi morfologico, intorno a cui la figura prende corpo e vita: questo principio consta del giusto rapporto delle parti col tutto, parti che devono essere, come già in Vitruvio, intese quali partizioni – sempre di una determinata grandezza proporzionalmente calcolata sul goldener Schnitt (o sectio aurea) della figura – rispetto alla lunghezza complessiva del corpo raffigurato. Come a dire che per Dürer la matematica è confinata in un mondo altamente ingegnoso eppure racchiuso nella «insipiente e ristretta ragione» (ungelehrter, kleiner Verstand) dell’artista, costrutto ideale che nulla ha a che vedere con l’essenza della realtà. Non pare allora avere altra ragione, se non questa concezione simbolica e congetturale della geometria, l’entusiasmo di Dürer, riportato nel diario di viaggio nei Paesi Bassi, di fronte all’Agnello mistico di Jan van Eyck (1426): polittico mistico e altamente simbolico definito – nonostante le palesi ‘sviste’ prospettiche – «un’opera splendida, dipinta con grande intelligenza (mit grossen Verstand); in particolare sono molto buoni Eva, Maria e Dio Padre»31. La misura a cui rapportare «la tavola di Johannes», per così dire, non è per Dürer un canone tratto dal mondo esterno, ma è il fulcro ‘congetturale’ di quell’universo simbolico partorito dalla mente dell’artista fiammingo: come nella xilografia düreriana esemplificante il Metodo per disegnare un nudo, la rete geometrica fatta di porzioni quadrangolari omogenee con cui distribuire proporzionatamente, secondo numero e misura, le parti della figura, non è desunta dall’oggetto da ritrarre, quanto piuttosto frutto dell’artificio dell’artista, aiutato nella sua opera da un telaio derivante anch’esso aus der Venrnunft – telaio (o mappatura proiettiva della realtà) suddiviso nelle partizioni regolari indicate ed interposto tra l’occhio del disegnatore e il modello32. Come Ivi, f. T II v. Id., Widmund der Proportionslehere, f. A II v. 31 A. Dürer, Viaggio nei Paesi Bassi, trad. dal tedesco di A. Lugli, Diabasis, Reggio Emilia 2005, p. 111. 32 Tornando all’Agnello mistico van Eyck, il fatto che le linee di fuga del pavimento su cui è posato il trono dell’Onnipotente, inaspettatamente, aprano prospetticamente porzioni dello spazio che ‘realisticamente’ non dovrebbero esser visibili, potrebbe facilmente essere per Dürer un rimando simbolico alla prospettiva infinita divina – quale unendlicher Mass, segreta ed inaccessibile alla ragione umana, a partire da cui organizzare ‘geometricamente’ uno spazio teologico e trascendente –, prospettiva infinita invalidante ogni umana misura proporzionale e lo stesso principio razionale di comparatività (Vergleichlicheit). Ben altro, così almeno credo, sarebbe stato il giudizio espresso da Leon Battista Alberti: egli non era di certo un sostenitore della coincidentia oppositorum, e nemmeno pareva esser simpatizzante per una transumptiva 29 30

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scrive significativamente Dürer, confermando così la propria accezione simbolica della prospettiva pittorica – fino a dischiudere la coerenza artistica di raffigurazioni ‘geometriche’ fantastiche e quasi incantate –, «con questa mia lezione [sulla misura] io vorrei parlare soltanto delle linee esterne delle forme (Gestalten) e delle immagini (Bilder), e di come esse possano essere tracciate punto dopo punto, e in alcun modo delle cose colte nella loro costituzione intrinseca (innerlichen Dingen)»33. Ma chiudiamo con Dürer: vi è qualcosa nella sua opera artistica che corrisponda a quest’ordine di pensieri circa la ragione (Vernunft) dell’artista al cospetto della ‘misura assoluta’ quale tesoro (Schatz; tesaurus) segreto del mondo? L’epoca di Dürer è attenta in vario modo all’esigenza di dar forma iconica ed allegorica al pensiero filosofico. Hartmann Schedel (1440-1514), per fare un esempio, nell’imponente Weltchronik pubblicata a Nürnberg nel 1493, per giustificare la sua ambiziosa impresa editoriale – sarà in effetti per lungo tempo l’unico incunabolo arricchito di un apparato iconografico di ben 645 xilografie –, in una stringata Commendatio34, dedica al lettore alcune parole significative: «Dalla lettura di questa Cronaca oserei prometterti, o lettore, un piacere tanto grande che tu avrai l’impressione non tanto di leggere, bensì – quando vedrai raffigurate (depicta videbis) le sinora mai ritratte immagini degli imperatori, dei pontefici, dei filosofi, dei poeti e degli altri uomini illustri, ciascuno nei costumi del suo tempo – di avere realmente sotto gli occhi (oculo intueri) la sequenza di tutte le storie […]», dalla creazione fino ai giorni nostri. In tal modo il lettore, con l’ausilio queste «immagini splendenti», potrà scorgere – attraversando le sei età del mondo come una galleria di ritratti – anche i momenti salienti della storia delle scienze naturali, della filosofia e della religione. Con questa breve premessa dello Schedel – in cui Stephan Füssel ravvisa un piega oramai pienamente umanistica della cultura del Nord35 – si stabilisce e formalizza, forse per la prima volta in modo così netto e perentorio, un rap-

proportione delle figure finite della ragione verso una «infinita figura» quale simbolo della radice (radix simplex) segreta della realtà: quel vultus incontractus et sine figura, quale absoluta complicatio di ogni ‘immagine creaturale’. Devo alcune di queste precisazioni circa l’impiego della prospettiva in Jan van Eyck al prof. W. Schneider (Hildesheim). 33 A. Dürer, Die vier Bücher, Widmung der Proportionslehre, cit., f. A II v. Il pavimento ritratto da van Eyck, detto in altri termini, non raffigura alcun pavimento esistente: è un elemento di geometria simbolica funzionale al ‘tutto immaginale’ della composizione artistica, totalità figurale vista in questo caso nel suo imprescindibile slancio (nel linguaggio di Cusano: transumptio, transcensus) teologico e mistico verso una ‘misura’ assoluta segreta e sconosciuta alla ratio calcolante. 34 L’unica copia latina superstite introdotta da una Commendatio è presente alla Bayerische Staatsbibliothek di München (Rara 287). 35 Cfr. Hartmann Schedel, Chronicle of the World. The complete and Annotated Nuremberg Chronicle of 1493, Introduction and Appendix by S. Füssel, Taschen, Köln-LondonMadrid-­New York-Paris-Tokyo 2001, pp. 8-9.

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porto indissolubile fra pensiero ed immagine, davvero caratterizzante da quel momento in poi gran parte della cultura umanistica e rinascimentale. Forse, a questo riguardo, un precedente può essere ravvisato soltanto nel Libro VII del De architectura di L.B. Alberti, dove si propone un intreccio indissolubile tra storia, pittura e filosofia: «E io starò a riguardare una pittura, de le buone, dico […], forse con non manco piacere d’animo che io mi stia a leggere una buona historia; l’uno e l’altro è pittore, l’uno dipinge con le parole, e l’altro col pennello, l’altre cose sono ad amenduoi pari e comuni, nell’uno e nell’altra si ha bisogno di grandissimo ingegno, e di incredibile diligentia. Ma io vorrei che nei tempii, e ne le mura, e nel pavimento non fusse cosa alcuna, che non fusse tutta Filosofia»36. La pittura – l’immagine – s’ispira ad una «più grassa Minerva» rispetto alla matematica ed alla geometria37; la sua forza «quasi divina», d’altronde, la rende gradita e istruttiva non soltanto ai dotti, ma anche «a gli ignoranti» e gli «imperiti: essa è depositaria di quell’«antichissimo ornamento de le cose, degna de i libri, grata ai dotti, e agli ignoranti»38. Sarà proprio Albrecht Dürer, non a caso operante nella bottega dell’editore della Weltchronik Anton Koberger, suo padrino, a dare pieno sviluppo alle possibilità espressive, anche sul versante filosofico, insite nell’arte della xilografia e del bulino. In alcuni casi, come la celebre Melancholie I, l’immagine sembra assurgere a ‘condensazione immaginale’ di pensiero – Denkbild, direbbe Walter Benjamin – e traduzione in icona di un vero e proprio trattato filosofico. Si può arguire che il trattato filosofico soggiacente – quasi in filigrana – all’incisione del 1514 sia, se non direttamente riconducibile ad un’opera ‘precisa’ di Cusano, ad una conoscenza, forse anche diretta, del pensiero cusaniano. Questa immagine, come ha dimostrato Panofsky, è una sintesi straordinaria di elementi iconografici derivanti dalle speculazione teologico-morali medievali sulla dottrina delle complessioni umorali (in particolare dell’acedia), e di altri, pertinenti alle arti liberali (anche applicate), che derivano dalle rappresentazioni del typus geometriae39. L’immagine, nel suo atteggiamento pensoso, triste e rassegnato, trova ai suoi piedi l’intero armamentario di strumenti del geometra, dello scultore, del falegname e dell’artigiano in genere: 36 L.B. Alberti, L’architettura, tradotta in lingua fiorentina da C. Batoli, Appresso F. Franceschi, Venezia 1565, Libro VII, f. 238, 31-38. 37 Id., La Pittura, trad. it. di L. Domenichi, G. Giolito de Ferrari, Venezia 1658, f. 4. 38 Ivi, f. 21. 39 Dürer, afferma E. Panofsky, con la propria Melancholia I operò «da una parte, una intellettualizzazione della malinconia e, dall’altra, un’umanizzazione della geometria», stringendo in un unico emblema la teoria medievale delle complessioni umorali e dei vizi (quest’ultima oggetto della teologia morale), e le raffigurazioni delle arti liberali (anche applicate) del Typus geometriae. In tal senso, continua Panofsky, Dürer «immaginò un essere dotato del potere intellettuale e delle conquiste tecniche di un’‘arte’, eppur disperato perché dominato dall’‘umore nero’. Raffigurò una geometria divenuta malinconica, o per dirla nell’altro verso, una malinconia dotata di tutto quello che è implicito nella parola geometria – in breve, una Melancholia artificialis o melanconia dell’artista»: op. cit., p. 210.

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un compasso trattenuto a stento dalla mano destra, una bilancia (che pare un emblema sia dell’opera düreriana Unterweisung der Messung, sia di quella cusaniana De staticis experimentis), la Mensula Jovis fondata sui multipli del quadrato del quattro (in cui Panofsky ravvisa uno strumento proprio dell’agrimensura: l’arte della misurazioni dei terreni), una pialla, una sega, alcuni chiodi piegati e via dicendo. Saturno, d’altro canto, il pianeta che esercita il suo nefasto influsso astrale sul temperamento melancolico, presiede proprio all’arte della misurazione e alla quantità delle cose, ed in particolare alla suddivisione della terra. Ora, lo sguardo tetro e rassegnato della Dama melancolica, l’abbandono al suolo dei suoi strumenti di misurazione, e il gomito destro poggiato su un libro chiuso, fanno pensare alla figura serotina del «genio infelice»: il suo furore eroico e conoscitivo, saturo di quelle competenze matematiche e geometriche che sono proprie della ragione, è melancholicus poiché la Dama angelica è consapevole della propria insuperabile ignoranza: «Alata, ma accovacciata al suolo, incoronata ma offuscata da ombre, munita degli arnesi dell’arte e della scienza, ma chiusa in un’oziosa meditazione, dà l’impressione di un essere creativo ridotto alla disperazione dalla consapevolezza di barriere insormontabili che la separano da un più alto dominio del pensiero»40. La vera misura segreta del mondo sfugge inesorabilmente alle sue ‘arti’; di fatto, scrive Dürer, «l’errore è a tal punto presente nella nostra facoltà di conoscere, e l’oscurità (Finsternis) s’insinua a tal punto prepotentemente in noi, che persino nel nostro procedere a tentoni erriamo»41: docta ignorantia. La melancolia della dama angelica, dunque, a causa di questa insuperabile ignoranza della ragione, è quella di un essere pensante nello stato di insuperabile perplessità: «Non è fissa su un oggetto che non esiste, ma su un problema che non può essere risolto» con strumenti puramente razionali42: si tratta del mondo metafisico, che la ragione, quale media speculatio, può solo intravedere ma non può mai raggiungere. Questo dominio segreto si staglia al suo orizzonte soltanto nella messa in crisi di ogni logica binaria e ragione discorsiva; ovvero, come la stessa dissoluzione entropica del suo potere conoscitivo in vista di un’altra facoltà superiore del sapere e di un’altra logica: si tratta del pensiero metarazionale e intellettivo che, accedendo alla coincidentia contraditoriuorum, può cogliere enigmaticamente l’infinito in atto divino quale ‘misura assoluta ed abscondita del reale’. Rimanere chiusi nella sfera della ragione separata e separante, scrive Cusano nel Sermone Remittuntur ei peccata multa (1445), è ripetere il peccato di superbia di Adamo: «voler conoscere da se stessi soltanto»43, senza alcun lume rivelato, significa irrigidirsi su una abstracta ratio e sul principio

Ivi, p. 218. A. Dürer, Vier Bücher, Das dritte Buch, cit., f. T II v. 42 E. Panofskj, op. cit., p. 211. 43 N. Cusano, Sermo LIV, in Nicolai de Cusa Opera omnia, cit., Sermones II (1443-1452), fasc. 3 (Sermones XLIX-LVI), a cura di R. Haubst e H. Schnarr, Meiner, Hamburg 1996. 40 41

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di noncontraddizione come unici criteri del conoscere e del vero: di fatto, scrive Cusano, «lumen intelligentiae, quod nos gestamus in similitudine lucis divinae, quae est ipsa veritas, est lumen rationis et ipsi rationi naturale, sine qua ratio nostra non est perfecta ratio»44. Conoscere da se stessi soltanto, senza quella lux veritatis sine omni tenebra, significa inoltre condannarsi da se stessi alle pene eterne di una perenne tenebra intellettuale, ovvero ad una morte spirituale che «ci allontana inesorabilmente da Dio» (a Deo separat): come scrive Cornelio Agrippa von Nettesheim, il cui pensiero può essere definito una versione scettica della filosofia cusaniana, «non vi è cosa più pestifera che impazzare con la ragione in mano» soltanto45. Ragione ipertrofica, stultitia e ignoranza colpevole e peccaminosa (la quale, al cospetto del vero ­inconoscibile, converte se ad aliud), sono allora elementi di una stessa costellazione spirituale: essa può essere intesa come uno status di fondamentale «disproportio con il fine stabilito da Dio»46, l’assoluta e segreta proporzione (allo ­stesso tempo massima e minima) obliterante ogni umana misurazione razionale. La figura melancolica, alla luce di queste ultime considerazioni, recupera in chiave allegorica quegli aspetti iconografici, propri della teologia morale, che hanno a che vedere con la dottrina dei vizi derivante dalla dottrina medievale delle complessioni: la ragione, irrigidita su se stessa nelle sue vane elucubrazioni misuranti e comparative, illudendosi di poter giungere alla scienza degli Dei» con le sole sue forze, è in realtà una figura spettrale e luciferina. Dietro di lei, come ne Il sonno del dotto di Dürer, sembra infine far capolino il diavolo: non a caso un mantice – lo stesso con cui il demonio instilla cattivi pensieri nell’orecchio dell’erudito addormentato nella sua estenuante venatio sapientiae – spunta al di sotto delle vesti della dama. L’ottusità della ragione separante e separata, figlia del rationali separati spiritus Luciferi47, direbbe Cusano, anche in Dürer porta con sé il segno indelebile del proprio supplizio: la nigredo dell’artista e del filosofo, colto nel suo accanimento conoscitivo post-lapsario, che ha ormai posto una cesura irricomponibile inter Deum et hominem48. Egli, nel suo infruttuoso tentativo di giungere al bello e alla verità assoluti con i soli strumenti discretivi offerti dalla ratio, «precipita [infine] in una regione lontana separantes nos a te»49, in cui il sole della

Ivi, 262, col. 2. H.C. Agrippa von Nettesheim, De incertitudine et vanitate scientiarum (1533), trad. it. di T. Provvidera, Aragno, Torino 2004, p. 28. 46 R. Haubst, Die Christologie des Nikolaus von Kues, Herder, Freiburg 1956, p. 66. 47 N. Cusano, De dato Patris luminum, in Nicolai de Cusa Opera omnia, cit., Opuscola I, vol. IV, a cura di P. Wilpert, Meiner, Hamburg 1959, I, 70; trad. it. di G. Santinello (in N. Cusano, Scritti filosofici, vol. II, Zanichelli, Bologna 1970), p. 137. 48 Id., Cribratio Alkorani, in Opera omnia, cit., vol. VIII, a cura L. Hagemann, 1986, II, p. 114; trad. it. di P. Gaia (in N. Cusano, Opere religiose, UTET, Torino 1971), p. 810. 49 Id. De visione Dei, in Opera omnia, cit., vol. VI, a cura di A.D. Riemann, Meiner, Hamburg 2000, VIII, 29; trad. it. di G. Santinello (in N. Cusano, Scritti filosofici, cit.), p. 289. 44 45

Nicola Cusano e Albrecht Dürer: proporzione, armonia e Vergleichlicheit

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verità si è oramai ritratto, lasciando il suo posto a tetri raggi lunari filtrati da una impenetrabile caligine ‘verspertina’. Una stessa figura, dunque, rappresenta magistralmente e condanna senza appello ogni vita spirituale, ispirata a Kunst e Brauch, che sia fissata rigidamente ad un livello intermedio del conoscere: la media speculatio (razionale). La ragione, qualora non osi fare il passo verso l’intuizione intellettuale – ove soltanto risulta ammissibile la coincidenza degli opposti –, è quella adulterina ratio che, vivendo ‘astrattamente’ nell’universo chiuso dei suoi costrutti mentali, continua a dividere se stessa da Dio: misura assoluta ed abscondita, coincidenza della misura massima e della minima, invalidante ogni umana misurazione. Il peccato (Sunde), secondo Cusano, deriva non a caso da sundern: dividere, separare, appuntandosi al solo principio di non-contraddizione. La felicità del dotto, allora, sta soltanto nel vedere nella ragione un ponte verso un ulteriore campo del sapere: Cusano ha osato compiere, per mezzo del cielo intellettuale e della visio unitiva, questo trascensus in infinitum. Per lui i limiti conoscitivi della ragione sono gli stessi del suo campo di validità: «A ogni regione corrisponde un modo di conoscere ad esso proprio»; sicché «tutto quanto si mostra preciso lungo la via della ragione, è tale perché si trova sotto il cielo della ragione»50, che non è la verità: ora, «un mondo non numera, non parla, non agisce alla stessa maniera di un altro […], ma ciascun mondo impiega le proprie modalità51. Come ‘contasse’ questo mondo superiore, pienamente metafisico, è il segreto che hanno condiviso ineffabilmente Cusano e Dürer. Dal canto di Dürer, accedere a questa sfera teologica ha forse significato – dal punto di vista artistico – contestualizzare la propria imago melancholica in una triplice scansione di motivi iconografici che culmina nella contemplazione ‘luminosa’ e serena del San Girolamo nello studio. È forse un caso che egli, nel viaggio nei Paesi Bassi, vendesse sempre congiuntamente le incisioni coeve de Il cavaliere, la morte e il diavolo, della Melancholia I e del San Gerolamo? Potrebbero queste immagini esser viste, allora, come tappe di un unico processo conoscitivo tendente alla visione estatica di Dio? La Melancholia, in questo caso, sarebbe, per così dire, un’icona della ‘media imaginatio’ dell’artista, posta tra la raffigurazione della prudenza e della fede del Cavaliere cristiano (Erasmo?)52 e la visione beatifica del divino da parte del Santo: in questa sua quieta ed estatica contemplazione egli sembra difatti superare la «tragica irrequietezza» di ogni ragione non ancora risolta in ‘visione’, vagante in quella regione intermedia – librantesi tra terra e cielo, sensibilità e visione intellettiva – propria di una ‘facoltà mediana’ il cui nocciolo è pur sempre da ravvisarsi in una ratio imaginativa: dunque, ancora troppo legata al sensibile e sottomessa alla struttura ‘lapidaria’ del cosmo per poter accedere all’arcana fonte trascendente di tutte le inadeguate ed approssimative misure mondane. Id. De coniecturis, cit., p. 75; trad. it. cit., p. 292. Ivi, p. 67; p. 288. 52 Cfr. Erasmo da Rotterdam, Enchiridion militis christiani, pubblicato nel 1504. 50 51

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Da questo punto di vista, l’imago melancholica potrebbe risultare una critica sprezzante della figura dell’artista tematizzata da L.B. Alberti nel De statua, dove lo scultore è descritto provvisto di gran parte di quegli strumenti allegorici (simbolo del sapere matematico) che si sono trovati raffigurati nell’incisione düreriana: non avranno forse gli scultori – così si chiede Alberti – «squadra (tignarii normam), filo a piombo (pendiculum), livella (libellam) e cerchio (circulum), con il cui aiuto e guida eseguiranno facilmente angoli, linee e superfici definite e determinate in modo da completare con grande precisione il loro lavoro?»; ci si deve aspettare, dunque, «che lo scultore esegua i suoi eccellenti e mirabili lavori a caso e non con la guida sicura e costante della ragione?»53. In fondo per Alberti, ben diversamente dalla prassi sperimentale di Cusano, «le arti si imparano prima studiando il metodo (ratione et via), poi impadronendosene con la pratica (proxime ago)»54. Dürer e Cusano, mediante il concetto d’immagine, paiono aver sondato altri livelli d’esperienza, al di là di quel campo del sapere accessibile a quella viva mensura che è la ragione!

53 L.B. Alberti, De statua, Introduzione, traduzione e note di M. Spinetti, testo latino a fronte, Liguori, Napoli 1999, p. 25. 54 lvi, p. 35.

Il De pace fidei di Cusano e la parabola dell’anello di Lessing Walter Andreas Euler

La domanda su come le pretese di verità delle religioni debbano relazionarsi l’una nei riguardi delle altre non è affatto un problema che interessa solo la teologia accademica. La questione è di significato fondamentalmente e letteralmente esistenziale in un tempo in cui i conflitti tra le culture e tra le religioni – dopo gli accadimenti dell’11 Settembre 2001 – sono sulla bocca di tutti. La seguente relazione affronta questa problematica in base a due classiche concezioni occidentali del tema: lo scritto De pace fidei di Nicolò Cusano e la parabola dell’anello nella versione riportata nell’opera drammatica Nathan il saggio di Gotthold Ephraim Lessing. Vorrei in primo luogo presentare velocemente le due concezioni e poi confrontarle tra di loro. I Iniziamo con il testo più antico: lo scritto De pace fidei fu composto da Cusano nel settembre 1453 quando era vescovo di Bressanone nel Sud Tirolo. Quest’opera contiene già nel suo titolo un programma: essa ha l’intenzione di fornire i fondamenti teoretici per la realizzazione dell’unità tra le religioni e così di servire alla realizzazione della pace nella fede e quindi anche tra gli uomini e tra i popoli1.

1 Nei manoscritti contenenti l’opera si trovano differenti varianti del titolo. Oltre a quella comunemente utilizzata De pace fidei, o meglio Dialogus de pace fidei, si trovano anche i titoli: De unitate fidei et sanctarum [sic] diversitate in unum reducenda, De concordia religionum, De pace et concordia unice fidei, De pace seu concordia fidei, cfr. Nicolai de Cusa Opera omnia, 22 voll., Meiner, Leipzig/Hamburg 1932ss. (cit. d’ora in avanti come h), vol. VII, p. 3, lin. 1, Concordia nationum in fide catholica et ritu, cfr. h VII, p. 63, lin. 5. La storia delle interpretazioni del testo, così ricca di tensioni, inizia dunque già con il primo copista. Nicolò stesso in una sua lettera a Giovanni di Segovia opta per la formula De pace fidei (cfr. h VII, p. 97, lin. 2). La pace tra le religioni è perciò la vera anima del suo visionario dialogo.

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Questa impresa è motivata da un evento storico di eccezionale significato: il 29 maggio dell’anno 1453 l’esercito del sultano turco Maometto II il Conquistatore aveva preso la città di Costantinopoli, l’ultimo baluardo del dominio imperiale bizantino. Con ciò inimmaginabili atrocità si consumavano nel nome della religione, molti uomini furono uccisi o resi schiavi, immensi beni culturali e tesori artistici furono assurdamente distrutti. La caduta di Costantinopoli fu per l’intero Occidente un evento traumatico che diffuse la paura e il terrore per i Turchi2. In questa situazione Nicolò Cusano reagì in modo totalmente diverso dalla maggior parte dei suoi contemporanei. Mentre questi maledicevano i mussulmani, gridando vendetta e progettando la crociata, Cusano, che aveva visitato la città di Costantinopoli nel 1437 restando profondamente impressionato dalla sua bellezza così come dalla sua ricchezza culturale, scrisse un libro, il De pace fidei appunto. Quest’opera esorta non ad una campagna militare di vendetta, bensì vuole contribuire a superare per sempre la violenza nel nome della religione. In tale testo Cusano si presenta non come l’autore, bensì come il testimone di un’assemblea celeste, in cui Dio-Padre, Cristo, diversi angeli, Pietro e Paolo così come 17 uomini saggi in qualità di rappresentanti dei popoli e delle religioni conosciuti da Cusano cercano insieme una strada verso la pace tra le diverse religioni3. Nel capitolo introduttivo dell’opera il 2 «Dopo gli eventi del 1453 molti umanisti iniziarono a chiamare i turchi «barbari», e molti videro essi come una minaccia per la cultura. A partire da Bruni, gli umanisti del XV secolo tendevano a vedere e descrivere i turchi come i «nuovi barbari». L’appellativo divenne così di uso comune negli anni seguenti alla caduta di Costantinopoli che «barbari» divenne un cognomen di turchi» (cfr. N. Bisaha, «New Barbarian» or Worthy Adversary? Humanist Constructs of the Ottoman Turks in Fifteenth-Century Italy, in Western Views of Islam in Medieval and Early Modern Europe. Perception of Other, edited by D.R. Blanks and M. Frassetto, Macmillan Press, Hampshire-London 1999, p. 193). L’amico di Cusano, Enea Silvio Piccolomini (più tardi papa Pio II) definì la caduta di Costantinopoli una «seconda morte di Omero, Pindaro, Menandro» (ivi, p. 192). 3 «Le notizie sulle crudeltà e sevizie compiute ultimamente dal re dei Turchi a Costantinopoli ed ora pervenute a conoscenza di un uomo che una volta aveva visitato quelle regioni, lo infiammarono di tale fervore verso Dio da indurlo a pregare, con molti gemiti, il Re dell’universo affinché, mosso dalla misericordia, volesse alleviare la persecuzione che infuriava più che mai a causa delle diverse usanze religiose. Ora accadde che, dopo qualche giorno, forse in seguito ad una diuturna e continua meditazione, quest’uomo devoto ebbe una visione che gli fece intravvedere come, attraverso il concorso di alcuni uomini sapienti ed esperti in tutte quelle divergenze riscontrabili nelle religioni del mondo, si potesse trovare un certo facile accordo di massima, che potesse costituire una base appropriate e legittima per stabilire la pace perpetua nella religione. Affinché quella visione potesse un giorno giungere a conoscenza di coloro cui spetta decidere su tali importanti problemi, egli la trascrisse qui di seguito fedelmente, per quanto è dato ricordarla» (De pace fidei, h VII, c. 1; tr. it., La pace nella fede, in N. Cusano, Opere Religiose, a cura di P. Gaia, Utet, Torino 1971, p. 619). Per ulteriori informazioni sugli aspetti essenziali del De pace fidei cfr.: W.A. Euler, Nikolaus von Kues als Wegbereiter des Interreligiösen Dialogs und der Theologie der Religionen, in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft» (d’ora in avanti «MFCG»), 28 (2003), pp. 211-231; J.E. Biechler, Interreligious dialogue, in Introducing Nicholas of Cusa: a guide to a renaissance man, edited by C.M. Bellitto, T.M. Izbicki, G. Christianson, Paulist Press, New York 2004,

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discorso si concentra in primo luogo sul problema della molteplicità delle religioni e sulle sue cause. Viene posta la domanda: perché ci sono molte religioni, visto che Dio è uno, e perché si combattono tra loro queste molte religioni, che adorano tutte nello stesso tempo l’unico Dio? La risposta del cardinale, esposta attraverso gli spiriti celesti, suona: gli uomini sono stati creati da Dio in modo da poter aspirare e raggiungere liberamente la comunione con Lui, ma essi tendono sempre ad assolutizzare il temporale e il penultimo e a considerare il solito e l’abituale come l’unica verità. Le differenti abitudini religiose, che dividono gli uomini gli uni dagli altri, divengono per loro nel corso del tempo in qualche modo una seconda natura4 che essi difendono come la verità, lasciandosi talvolta persino uccidere per essa5. Solo pochi uomini sono nella posizione di potersi dedicare completamente allo spirituale. Tuttavia questi possono riconoscere con l’aiuto divino che in fondo c’è una sola verità che si esprime nelle differenti religioni ogni volta in modo vario6. Cusano parla di una religio in rituum varietate, di una religione nella molteplicità dei riti7, che diventa manifesta se le religioni sono interrogate sui loro presupposti. Conformemente a questo programma non si tratta di convertirsi ad un’altra religione, bensì di mettere allo scoperto il fondamento comune di tutte le religioni8 che Nicolò chiama una fides orthodoxa, la sola vera fede9. Tale compito sarà affidato nel De pace fidei a 17 uomini saggi in qualità di rappresentanti dei popoli e delle religioni. Essi stabiliscono in dialogo con la Parola divina, Pietro e Paolo il nucleo centrale comune di tutte le religioni. Tali elementi centrali sono: la comprensione monoteistico-trinitaria di Dio, l’incarnazione del Figlio di Dio, la vita eterna e la giustificazione per fede10. Il pensiero-guida programmatico dello scritto: una religio in rituum varietate – la ricerca del comune fondamento di tutte le religioni – possiede due ampie implicazioni teologico-religiose che lo distinguono fondamentalmente dalle idee altrimenti sostenute nella teologia medievale:

pp. 270-296; V. Hösle, Interreligious Dialogues during the Middle Ages and Early Modernity, in Educating for Democracy. Padeia in an Age of Uncertainty, edited by A. O. Olson, D.M. Steiner, I.S. Tuuli, Rowman & Littlefield, Lanham et al. 2004, pp. 59-83. 4 Cfr. De pace fidei, cit., c. 1; tr. it., pp. 621-622. 5 Cfr. Apologia doctae ignorantiae, h. II, p. 6, linn. 3-7. Già nel precendente scritto, il De coniecturis, richiama l’attenzione sul fatto che la religio, l’adorazione di Dio, oscilla variabilmente tra spiritualitas et temporalitas (De coniecturis, h III, p. 149, n. 149, linn. 8-9). 6 Cfr. De pace fidei, cit., c. 3; tr. it., p. 625): «Poiché questa verità è una sola ed ogni libero intelletto deve poterla contemplare, tutte le religioni così diverse dovrebbero essere ricondotte ad un’unica vera fede». 7 Cfr. De pace fidei, c. 1; tr. it., p. 622: «[…] tutti sapranno che non c’è che una sola religione nella varietà dei riti». 8 Cfr. De pace fidei, cit., c. 4; tr. it., p. 626: «La Parola rispose: “Voi vedrete che non si tratta di cambiare fede, ma di presupporre in tutte la stessa ed unica religione”». 9 Cfr. nota 7. 10 Cfr. De pace fidei, cit., cc. 4-16; tr. it., pp. 626-668.

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1) In primo luogo, esso presuppone che anche nelle religioni non-cristiane sia in gioco l’unico Dio e che anche nelle altre religioni l’aspirazione alla conoscenza e all’amore di Dio, che è proprio per natura di tutti gli uomini, abbia un effetto positivo. Le religioni non-cristiane non sono dunque semplicemente invenzioni umane o opera del diavolo come presumono la maggior parte dei contemporanei di Cusano e molti teologi scolastici. Tutte le religioni infatti si basano su una comune natura umana. Questo è espresso nel primo capitolo dello scritto, in un discorso dell’arcangelo al Dio-Padre, nel seguente modo: «O Signore, re dell’universo, che cosa ha ogni creatura che tu non le abbia dato? A Te è piaciuto infondere nel corpo dell’uomo, formato dal fango della terra, uno spirito razionale, affinché in esso risplendesse l’immagine della tua ineffabile perfezione. […] Questo spirito intellettivo, disseminato sulla terra e circondato dall’ombra, non può vedere la Luce e il principio della propria esistenza. Per questo tu hai creato contemporaneamente all’uomo tutte quelle realtà sensibili che lo riempiono di meraviglia e lo sollecitano ad innalzare gli occhi dello spirito a Te, Creatore di tutte le cose, e a ricongiungersi a Te con un atto di supremo amore, onde, arricchito in tal modo di meriti, potesse ritornare alla propria origine11. In questo discorso vengono abbozzate in poche parole le linee fondamentali di un’antropologia teologica che, come abbiamo detto, si manifesta in tutte le religioni. L’uomo è una creatura di Dio dotata di spirito in cui brilla l’immagine del creatore, per questo può innalzarsi dal mondo terreno e aspirare ad essere riconciliato con Dio, la sua origine. Solo attraverso questa unione è possibile l’eterna beatitudine alla cui acquisizione l’uomo aspira per natura12. 2) Il pensiero guida una religio in rituum varietate implica inoltre che le differenti religioni convergano nel loro fine e che la realizzazione di questo fine nei diversi popoli e nelle diverse epoche si esprima in diversi modi. La differenza e la molteplicità dei riti e degli usi viene espressamente riconosciuta da Cusano come un contributo all’incremento della venerazione di Dio13.

Cfr. De pace fidei, cit., c. 1; tr. it., p. 621. Cfr. De pace fidei, cit., c. 13; tr. it., p. 654: «Gli uomini desiderano conseguire la beatitudine, cioè la vita eterna, soltanto nella propria natura. L’uomo non vuole essere che uomo, non un angelo o un’altra natura, ma vuole essere un uomo beato, cioè un uomo che raggiunga la felicità eterna. Ora tale felicità non è che la fruizione di Dio, vale a dire l’unione della vita umana con la Fonte da cui promana la vita stessa, e tale Fonte è la Vita divina ed immortale». 13 Cfr. De pace fidei, cit., c. 1; tr. it., pp. 622-623: «Se poi non fosse possibile eliminare questa differenza di riti, oppure non fosse conveniente, in quanto la loro varietà costituisce un incremento della devozione, poiché ogni paese cercherà di celebrare con più zelo le proprie cerimonie credendole più gradite alla tua Maestà, che almeno possa esservi una sola religione ed un solo culto di latria, come unico sei Tu stesso». Cfr. De pace fidei, cit., c. 19; tr. it., p. 672: «Se non si può raggiungere la conformità nel modo di praticare tali atti religiosi, si permettano ai popoli le loro proprie devozioni e cerimonie, purché sia salva la fede e la pace. Forse ammettendo una certa varietà, aumenterà anche la devozione, in quanto ogni popolo si sforzerà con diligenza e zelo, di rendere più splendido il proprio rito, gareggiando con gli altri popoli per conseguire così maggior merito presso Dio e la lode del mondo». 11 12

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Tuttavia che l’idea cusaniana di una religio in rituum varietate non conduca ad un relativismo teologico-religioso, che consideri le differenti religioni solo come forme storiche o nazionali di apparizione della stessa essenza della religione, risulta dalla parte centrale dello scritto. Il dialogo tra le religioni si sforza proprio di provare che negli elementi centrali della rivelazione cristiana, in cui anche tutte le altre religioni convergono, siano riscontrabili e trovino perfetta espressione l’autentico amore e conoscenza di Dio14. L’interesse teologico di Cusano vale innanzitutto per l’idea dell’incarnazione di Dio15. Egli ha provato spesso a mostrare che l’incarnazione è da comprendere come un avvenimento dal quale l’umanità e allo stesso tempo ogni singolo uomo (indipendentemente dalla sua provenienza e la sua appartenenza razziale e religiosa) non possono restare esclusi16. Il naturale movimento dell’uomo, così dice Nicolò nel Sermo XLI, riallacciandosi al ragionamento del libro III del De docta ignorantia, non aspira al di là dell’umano, ma esso mira alla perfetta realizzazione di ciò che è innato nella specie umana. L’uomo ha la vita e quindi aspira ad una vita perfetta, razionale e senza mancanze. L’uomo possiede la capacità di conoscere, dunque il suo impulso alla conoscenza non raggiunge la pace fino a quando egli non ha afferrato tutto il conoscibile. L’uomo aspira a ciò che è bene, per questo egli non riposa e non si ferma fino a quando non raggiunge ogni singolo bene. Questa aspirazione infinita vive nella natura dell’uomo e per questo non può essere vana17. Essa è realizzata in quell’essere che, allo stesso tempo, è uomo e Dio. La conseguenza – scrive Cusano – è che «il movimento della mia natura umana (humanitas) è tale da attingere Dio nell’uomo con essa. Io trovo, dunque, in me stesso con la mia umanità l’uomo, che è tanto uomo, quanto è anche Dio. Ed è quest’uomo, nel quale io solamente sono capace di attingere la quiete nella mia natura umana. Quiete infatti è Dio. Tale uomo dunque che è anche Dio è quello a cui tutti gli uomini sono mossi secondo la natura dell’umanità. E questo è Gesù Cristo benedetto che fu desiderato segretamente da tutti i popoli»18.

14

p. 26.

Cfr. E. Benz, Ideen zu einer Theologie der Religionsgeschichte, Steiner, Wiesband 1961,

15 Sulla cristologia cusaniana cfr.: W.A. Euler, Proclamation of Christ in Selected Sermons from Cusanus Brixed Period, in Nicholas of Cusa and his age: essay dedicated to the memory of F. Edward Cranz, Thomas P. McThige and Charles Trinkaus, edited by T.M. Izbicki, C.M. Bellitto, Brill, Leiden-Boston-Köln 2002, pp. 89-103; Id., Christ and the Knowledge of God, in Introducing Nicholas of Cusa, cit., pp. 319-346. 16 Cfr. W.A. Euler, Nikolaus von Kues als Wegbereit des Interreligiösen Dialogs, cit., pp. 220-224; W. Dupré, Religious Plurality and Dialogue in the Sermons of Nicholas of Cusa, in «Studies in Interreligious Dialogue», 15, 2005, pp. 83-84. Dupré cita due importanti passaggi dai sermoni CXXVI e CCLXVI e sintetizzando conclude: «Le ultime due citazioni indicano chiaramente che Nicolò si riferisce a Cristo come al centro comune di tutta la realtà che connette l’orizzonte dell’umano con quello della creazione» (ivi, p. 84). 17 Cfr. Sermo XLI, h XVII/2, pp. 146-147, n. 2. 18 Sermo XLI, h. XVII/2, p. 148, n. 9, lin. 21-n. 10, lin. 11.

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Il vertice teologico-religioso della cristologia cusaniana consiste nel considerare Cristo (o formulato in modo neutrale: il compimento dell’idea del farsi uomo di Dio) come realizzazione dell’umana ricerca di Dio. Tale realizzazione accade all’uomo non come qualcosa di estraneo, di assolutamente sconosciuto, bensì come un confronto con quello, che l’uomo deve essere e per questo può essere: la natura spirituale unita al creatore. Cristo, o meglio l’idea dell’incarnazione di Dio, è presupposta perciò anche in ogni religione – almeno come implicita necessità del pensiero – indipendentemente dal fatto se questo sia ogni volta cosciente o meno. Essa costruisce il cuore di quella una religio che secondo Cusano si può esprimere in una molteplicità di riti e di usi. Il programma teologico-religioso di Cusano si basa dunque, detto sinteticamente, su una concezione inclusivista della verità che riporta le religioni non cristiane nei loro fondamenti positivamente alla dottrina della fede cristiana19. Solo così nella sua prospettiva è logicamente possibile partire da un comune fondamento di tutte le religioni. Cusano pone il cristianesimo e le altre religioni non antiteticamente in opposizione, bensì egli considera la rivelazione cristiana come realizzazione, come compimento di queste, al quale tutti gli uomini e tutte le religioni aspirano. Con ciò si apre nel suo pensiero una visione dei problemi delle religioni che rende possibile cercare il dialogo20 e la concordanza tra le religioni senza vedere queste solo come oggetto di evangelizzazione e, allo stesso tempo, senza rinunciare alla propria natura cristiana.

19 Almeno nell’area linguistica tedesca la più famosa definizione di «inclusivismo» è quella data dall’indologo Paul Hacker. Secondo Hacker inclusivismo significa: «che si spiega una rappresentazione religiosa o visione del mondo centrale per un altro gruppo come fosse identica ad una rappresentazione fondamentale per il gruppo a cui si appartiene». L’altro Dio viene spiegato come identico con il proprio e allo stesso tempo si afferma «che l’altro…in qualche modo è subordinato e sottoposto a sé» (cfr. U. Tworuschka, Glauben alle an denselben Gott? Religionswissenschaftliche Anfragen, in Theologie der Religionen. Positionen und Perspektiven evangelischer Theologie, edited by Christian Danz, U.H.J. Körtner, Neukirchener Verlag, Neulirchen-Vluyn 2005, pp. 30-31). Questa definizione formulata in relazione alla religione induista è applicabile almeno fondamentalmente alla posizione di Cusano come le osservazioni di Vittorio Hösle mostrano: «L’approccio di Cusano è chiaramente inclusivista – in ogni religione ci sono accenni alla vera religione rivelata nella cristianità, dal momento che i fondamenti della cristianità sono impliciti in ogni religione. Per un monismo metafisico radicale come quello di Cusano posizioni dualiste come l’esclusivismo necessariamente non sono accettabili; in qualche modo egli deve condividere la convinzione di Abelardo secondo cui non ci sono dottrine così false da non contenere alcuna verità. Senza dubbio l’inclusivismo ha certamente alcuni tratti paternalistici: esso presuppone che l’interprete ha una posizione superiore e che egli è capace di comprendere i rappresentanti delle altre tradizioni meglio di come si autocomprendono essi stessi. Quando Cusano scrive nel suo sermone CXXVI che ogni ebreo crede in Cristo, se egli lo voglia o no, come l’idea di «cristiano anonimo» di Karl Rahner provoca l’ira dei non-cristiani» (Interreligious Dialogue during the Middle Ages and Early Modernity, cit., pp. 72-73). 20 Cusano scrive in una sua lettera del 28 dicembre 1454 indirizzata al teologo spagnolo Giovanni di Segovia: «credo che sia meglio parlare che combattere» (h VII, p. 100, linn. 13-14).

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II Il famoso poeta e scrittore dell’epoca illuministica Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781), come risulta dalla sua corrispondenza, conosceva lo scritto di Cusano De pace fidei e si impegnò per la sua traduzione21. Lessing si è occupato del problema della verità delle religioni storiche e della loro relazione reciproca in molti scritti. Egli non rappresenta la posizione generalmente deistico-razionalista, secondo cui le religioni rivelate storiche sono da superare, bensì le considera come spazi necessari per l’incontro con Dio22. Lessing, figlio di un pastore protestante, ha apprezzato il cristianesimo e ha considerato se stesso come un «amante della teologia»23, tuttavia la sua presa di posizione  verso le questioni teologiche non sempre è chiara24. Egli si è 21 Nell’articolo Die Wirkungsgeschichte des Dialogs De pace fidei, in «MFCG», 16, 1982, pp. 122-125, Raymond Klibansky mostra che secondo le informazioni contenute nella sua corrispondenza Lessing si adoperò per il De pace fidei facendo tradurre lo scritto cusaniano al suo amico Franz Conrad Arnold Schmid. Con la lettera dell’8 dicembre 1779 Schmid prega Lessing di correggere e commentare la sua traduzione (cfr. ivi, pp. 123-124). La traduzione di Schmid è andata perduta. 22 Cfr. D.-M. Gruben, Die Pluralität der Religionen in Lessings Ringparabel und die Unterscheidung zwischen Rechtfertigung und Wahrheit, in Theologie der Religionen. Positionen und Perspektiven evangelischer Theologie, cit., p. 164; H. Schultze, Lessings Toleranzbegriff. Eine theologische Studie, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1969, pp. 75-76. Nell’opera tarda del 1780 Die Erziehung des Menschengeschlechts Lessing osserva che le religioni rivelate sono stadi intermedi necessari nell’evoluzione spirituale dell’umanità, che ha come fine la religione puramente razionale. Nell’art. 76 dell’opera Lessing scrive: «[…] il perfezionamento delle verità rivelate in verità di ragione è assolutamente necessario se si vuole aiutare il genere umano. Quando vennero rivelate, non erano certo ancora verità di ragione; ma vennero rivelate per diventarlo» (cfr. G.E. Lessing, Sämtliche Werke. Unveränderter photomechanischer Abdruck der von Karl Lachmann und Franz Muncker 1886 bis 1924 herausgegebenen Ausgabe von Gotthold Ephraim Lessings sämtlichen Schriften, de Gruyter, Berlin-New York 1979 [cit. d’ora in avanti LM], vol. XIII, p. 415, linn. 17-24; tr. it., L’educazione del genere umano, in G. E. Lessing, Opere filosofiche, a cura di G. Ghia, Utet, Torino 2006, p. 535). In opposizione a ciò si pone la domanda retorica dell’art. 77 che afferma la priorità della rivelazione rispetto alla ragione in relazione alla conoscenza di Dio: «E perché non dovremmo anche da una religione, la cui verità storica appare, se si vuole, un poco imbarazzante, parimenti essere guidati a concetti migliori e più circostanziati sull’essenza divina, sulla nostra natura, sul nostro rapporto con Dio, concetti ai quali la ragione umana da sola non sarebbe mai e poi mai giunta?» (LM XIII, p. 432, linn. 13-18; tr. it., p. 535). 23 Lessing scrive negli Axiomata del 1778: «Io sono un amante della teologia e non un teologo» (LM XIII, p. 109, linn. 27-28). Notevole è la seguente osservazione di Karl Barth sull’intensivo interesse di Lessing per la teologia: «Nei giorni della sua giovinezza e della sua vecchiaia, questo figlio di un pastore sassone s’è impegnato sul terreno della teologia non solo occasionalmente, ma con una tale passione e con una così ampia competenza che ci si potrebbe ben chiedere se il suo interesse centrale, autentico, non abbia potuto risiedere qui piuttosto che sul piano dell’arte e dell’estetica. In ogni caso negli ultimi dieci anni della sua vita i problemi teologici, anche esteriormente, lo hanno impegnato come nessuna altra cosa» (K. Barth, La teologia protestante nel XIX secolo, 2 voll., a cura di I. Mancini, Jaca Book, Milano 1972, vol. I, p. 284). 24 Le contraddizioni più importanti nelle affermazioni di Lessing sulle questioni teologiche sono indicate da G. Nenne, Lessings theologische Schriften im Zusammenhang seines Werkes,

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occupato di un problema fondamentale che si è fatto virulento nel pensiero storico-critico dell’illuminismo. Questo problema, che all’epoca di Cusano non era ancora sentito, suona nel modo seguente: le verità storiche sulle quali le religioni rivelate si basano, ad esempio l’affermazione «Gesù è risorto dalla morte», possono diventare verità di ragione, ossia verità che ogni uomo con la necessità della logica è capace di riconoscere? Tra le «verità di ragione necessarie» e le «verità storiche accidentali» c’è per Lessing, secondo il breve scritto Über den Beweis des Geistes und der Kraft (1777), un «pericoloso ampio fossato», «oltre il quale io – così scrive Lessing – non posso andare, anche se spesso e seriamente ho provato il salto»25. Tuttavia resta la possibilità, così scrive Lessing nello scritto menzionato, di attenersi all’«intima verità» della religione, che tuttavia non è dimostrabile26. Questo problema, la separazione fondamentale di verità storiche e razionali, delle verità rivelate e di ragione, costituisce lo sfondo delle argomentazioni di Lessing nella parabola dell’anello contenuta nel dramma Nathan der Weise del 1779 (III Atto, VII Scena). Com’è noto la parabola dell’anello come tale non risale a Lessing stesso, bensì si trova già nel Medioevo e precisamente in autori islamici, ebraici e cristiani, ogni volta con sensi e significati diversi27. La parabola dell’anello è in certo qual modo il corrispettivo europeo dell’asiatica «Parabola dei nati ciechi e dell’elefante»28. Il concreto modello in Lessing in heutiger Sicht, edited by E.P. Harris-R. E. Schade, Jacobi Verlag, Bremen-Wolfenbüttel 1977, p. 40. Hillen chiama Lessing un «grossen Dialektiker» (ivi, p. 50). 25 «Casuali verità storiche non possono mai essere la prova di necessarie verità razionali» (LM XIII, p. 5, linn. 34-36; tr. it., Sulla prova dello spirito e della forza, in G.E. Lessing, Opere filosofiche, cit., p. 544). «Questo e solo questo è l’ampio e brutto fossato oltre il quale non so andare, per quante volte ne abbia seriamente tentato anch’io il salto. Se qualcuno è in grado di aiutarmi a varcarlo, lo faccia: io lo prego e lo scongiuro. Si sarà guadagnato da parte mia un’eterna ricompensa» (LM XIII, p. 7, linn. 34-36; tr. it., p. 546). La differenziazione di Lessing tra le «verità storiche accidentali» e le «verità di ragione necessarie» si basa sulla distinzione di Leibniz tra verità di ragione (vérités éternelles) e verità di fatto (vérités de fait). Nell’art. 33 della Monadologia Leibniz scrive: «Ci sono pure due specie di verità, quelle razionali e quelle fattuali: a) le verità razionali sono necessarie, e il loro opposto è impossibile; b) le verità fattuali sono contingenti, e il loro opposto è possibile» (G.W. Leibniz, Hauptschriften zur Grundlegung der Philosophie, edited by Ernst Cassirer, vol. II, Meiner, Hamburg 1966 [III ed.], p. 443, linn. 16-20; tr. it., Monadologia, a cura di S. Cariati, Rusconi, Milano 1997, p. 73). 26 «Che mi importa se la leggenda è vera o falsa? I frutti sono eccellenti» (LM XIII, p. 8, linn. 19-20; tr. it., p. 547). Nel testo Eine Parabel del 1778 Lessing osserva: «Io ho detto che, se anche non dovessi essere in grado di rilevare tutte le obiezioni che la ragione è tanto occupata a muovere contro la Bibbia, tuttavia la religione resterebbe imperturbabile e indisturbata nei cuori di quei cristiani che hanno conseguito un sentimento interiore delle sue verità essenziali» (LM XIII, p. 99, linn. 1-6; tr. it., Un parabola, in G.E. Lessing, Opere filosofiche, cit., p. 587). Cfr. H. Schultze, Lessings Auseinandersetzung mit Theologen und Deisten um die «innere Wahrheit», in Lessing in heutiger Sicht, cit., pp. 179-184. 27 Sulla tradizione della parabola dell’anello cfr. F. Niewöhner, Veritas sive Varietas. Lessings Toleranzparabel und das Buch Von den drei Betrügern, Lambert Schneider, Heidelberg 1988; K.-J. Kuschel, «Jud, Christ und Muselmann vereinigt»? Lessings «Nathan der Weise», Patmos, Düsseldorf 2004, pp. 125-163. 28 Cfr. U. Tworuschka, Glauben alle an denselben Gott?, cit., pp. 35-39.

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di Lessing è il poeta italiano Giovanni Boccaccio, che ha trattato la parabola dell’anello nella sua famosa raccolta di novelle Decameron del 134829. Tuttavia la versione di Lessing differisce da quella di Boccaccio in importanti dettagli teologici e con ciò dà al testo un significato teologico molto personale30. Si colloca nel contesto del nostro tema la domanda se Cusano conoscesse la storia di Boccaccio o un’altra versione medievale della parabola dell’anello. Tuttavia finora su ciò non ho ancora trovato nessuna prova. Boccaccio stesso per la sua inclinazione ad un’ironica distanza nei confronti della fede cristiana e per la sua edonistica frivolezza non era sicuramente un autore per il gusto del cardinale di Kues. Il dramma Nathan der Weise si svolge al tempo delle crociate a Gerusalemme, la città sacra delle tre grandi religioni monoteistiche: ebraismo, cristianesimo e islamismo. Questa città è significativa anche per lo scritto di Cusano, dove alla fine viene proposta (interpretata quale la Gerusalemme eterna) come il centro dell’unica religione e dell’eterna pace31. Il sultano Saladino esorta l’ebreo Nathan, che è conosciuto come uomo saggio, a indicare quale delle tre menzionate religioni secondo il suo parere è la vera. Come risposta alla domanda del sultano Nathan racconta la storia «dell’uomo in Oriente» che possedeva un anello di opale di inestimabile valore32. Questo anello aveva, scrive Lessing, «un magico potere di rendere amati, grati a Dio e agli uomini»33. L’anello che fino a quel momento era stato trasmesso ogni volta al figlio più amato, giunse nelle mani di un padre che avendo tre figli amati tutti e tre allo stesso modo promise a ognuno di loro l’anello. Il padre fece allora fabbricare altri due anelli i quali erano così simili all’originale che lui stesso non poteva più riconoscere l’originale (in Boccaccio il padre può a

29 Cfr. G. Boccaccio, Decameron, a cura di M. Marti, Rizzoli, Milano 1958, pp. 102-105, Primo giorno, Terza storia: Melchisedech giudeo con una novella di tre anella cessa un gran pericolo dal Saladino apparechiatogli. 30 Cfr. G. Kaiser, Lessings «Nathan der Weise». Glaube, Liebe, Hoffnung: der Grund des Toleranzdramas, in «Pastoraltheologie», 80, 1991, p. 572. 31 Cfr. De pace fidei, cit., c. 19; tr. it., pp. 672-673. 32 «Molti anni or sono un uomo, in Oriente,/ possedeva un anello inestimabile,/ un caro dono. La sua pietra, un opale / dai cento bei riflessi colorati» (LM III, p. 90; tr. it., Nathan il saggio, con testo ted. a fronte, tr. it. di A. Casalegno, Garzanti, Milano 1992, p. 155, vv. 19101914). Il riferimento all’opale non si trova nella tradizione della parabola dell’anello, bensì per la priva volta appare in Lessing. Nella tradizione letteraria all’opale vengono associate numerose qualità positive. A partire da Plinio il Vecchio sono attribuiti a questa pietra preziosa una straordinaria bellezza e un potere curativo, essa serve anche come simbolo per la grazia di Dio, quando a indossarlo è un uomo senza colpa; cfr. M. Nirenberg, The Opal: Lessing’s Ring reexamined, in «Modern Language Notes», 85, 1970, pp. 686-696. 33 LM III, p. 90; tr. it., p. 155, vv. 1915-1917: «ha un potere segreto: rende grato/ a Dio e agli uomini chiunque/ la porti con fiducia». L’espressione «chiunque lo porti con fiducia» non si trova in Boccaccio, bensì risale a Lessing. Ciò significa che il «potere miracoloso» non è legato all’oggetto bensì al soggettivo modo di portare l’anello. Cfr. H. Zirker, Lessing «Ringparabel» – zur Tragfähigkeit eines Modells, in «Religionsunterricht an höheren Schulen», 24, 1981, pp. 317-318.

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malapena ancora riconoscerlo, in Lessing invece assolutamente no)34. Prima della sua morte il padre dà ad ognuno dei figli un anello; ognuno dei tre pensa dunque di aver ricevuto il vero anello e di essere il solo legittimo principe della casa. In conseguenza di ciò segue un passaggio decisivo riguardo alla questione della verità:

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Nathan: Si litiga, si indaga, si accusa. Invano. Impossibile provare quale sia l’anello vero – (dopo una pausa, durante la quale egli attende la risposta del sultano) Quasi come per noi provare quale sia – la vera fede. Saladino: Come? Questa è la tua risposta alla domanda?… Nathan: Valga soltanto a scusarmi, se non oso cercare di distinguere gli anelli che il padre fece fare appunto al fine che fosse impossibile distinguerli. Saladino: Gli anelli! – Non burlarti di me! – Le religioni che ti ho nominato si possono distinguere persino nelle vesti, nei cibi, nelle bevande! Nathan: E tuttavia non nei fondamenti. – Non si fondano tutte sulla storia, scritta o tramandata? E la storia solo per fede e per fedeltà dev’essere accettata, non è vero? – E di quale fede e fedeltà dubiteremo meno che di ogni altra? Quella dei nostri avi, sangue del nostro sangue, quella di coloro che dall’infanzia ci diedero prova del loro amore, e che mai ci ingannarono, se l’inganno per noi non era salutare? – Posso io credere ai miei padri meno che tu ai tuoi? O viceversa? – Posso forse pretendere che tu, per non contraddire i miei padri, accusi i tuoi di menzogna? O viceversa? E la stessa cosa vale per i cristiani, non è vero? – Saladino: (Per il Dio vivente! Ha ragione. Io devo ammutolire)35.

Questo passaggio rende chiaro perché Lessing consideri la questione della verità riguardo alle religioni teoreticamente insolubile: tutte le religioni, secondo Lessing, si fondano infatti su tradizioni storiche che in ultimo non pos-

34 Lessing: «Egli chiama in segreto un gioielliere, / e gli ordina due anelli in tutto uguali/ al suo; e con lui si raccomanda/ che non risparmi né soldi né fatica/ perché siano perfettamente uguali./ L’artista ci riesce. Quando glieli porta,/ nemmeno il padre è in grado di distinguere/ l’anello vero» (LM III, p. 91; tr. it., p. 157, vv. 1945-1950). Boccaccio: «Il valente uomo, che parimenti tutti gli amava, né sapeva esso medesimo eleggere a qual più tosto lasciar lo dovesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti e tre sodisfare: e segretamente ad uno buono maestro ne fece fare due altri, li quali sì furono somiglianti al primo, che esso medesimo che fatti gli avea fare, appena conosceva qual si fosse il vero» (Boccaccio, Decameron, cit., p. 105). 35 LM III, pp. 92-93; tr. it., pp. 157-159, vv. 1961-1992.

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sono essere più indagate. Esse devono essere accolte «per fede e fedeltà». La ragione umana, in conformità a quanto già detto, non è assolutamente nella posizione di decidere astrattamente quale religione storica è vera e quale no, poiché essa non è capace di saltare oltre «il pericoloso ampio fossato» tra le verità storiche e le verità razionali. Con ciò è negato ogni fondamento argomentativamente giustificabile a qualsivoglia rivendicazione di verità assoluta di un’unica e autentica religione. Com’è noto la parabola dell’anello a questo punto non è ancora finita. I figli, che rappresentano le tre grandi religioni monoteistiche, così come il padre rappresenta Dio, si accusano reciprocamente di impostura e portano il caso dinanzi ad un giudice che deve decidere quale anello sia il vero anello. Questi si serve contro i figli, che pensano solo a sé e al proprio vantaggio, del fatto che il vero anello possiede il «magico potere di rendere amati, grati a Dio e agli uomini». Probabilmente essi sono tutti «truffatori truffati»: truffati dal padre, che ha lasciato a ciascuno in eredità un falso anello; truffatori perché attraverso il loro comportamento tradiscono il potere della pietra dell’anello. Ognuno afferma di possedere il vero anello, ma la loro concreta prassi di vita, il loro comportamento dimostra il contrario36. La soluzione del giudice è per questo tanto facile quanto geniale. Cito dal responso del giudice ai figli: Nathan: […] accettate le cose come stanno. Ognuno ebbe l’anello da suo padre: ognuno sia sicuro che è autentico. – Vostro padre, forse, non era più disposto a tollerare ancora in casa sua la tirannia di un solo anello. E certo vi amò ugualmente tutti e tre. Non volle, infatti, umiliare due di voi per favorirne uno. – Orsù! Sforzatevi di imitare il suo amore incorruttibile e senza pregiudizi. Ognuno faccia a gara per dimostrare alla luce del giorno la virtù della pietra nel suo anello. E aiuti la sua virtù con la dolcezza, con indomita pazienza e carità, e con profonda devozione a Dio. Quando le virtù degli anelli appariranno nei nipoti, e nei nipoti dei nipoti, io li invito a tornare in tribunale, fra mille e mille anni. Sul mio seggio siederà un uomo più saggio di me; e parlerà. Andate! – Così disse quel giudice modesto37.

La parabola dell’anello del dramma di Lessing Nathan der Weise offre ­riguardo alla questione della verità delle religioni concorrenti la seguen-

36 «Su, ditemi: chi di voi è il più amato/ dagli altri due? – Avanti! Voi tacete?/ L’effetto degli anelli è solo riflessivo,/ non transitive? Ciascuno di voi ama/ solo se stesso? Allora tutti e tre/ siete truffatori truffati! I vostri anelli/ sono falsi tutti e tre. Probabilmente/ l’anello vero si perse, e vostro padre/ ne fece fare tre per celarne la perdita/ e per sostituirlo» (LM III, p. 94; tr. it., p. 161, vv. 2019-2027). 37 LM III, pp. 94-95; tr. it., pp. 161-163, vv. 2031-2054.

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te soluzione38: la verità, o meglio la falsità delle religioni si misura secondo il criterio dell’essere insieme, l’uno con l’altro e l’uno per l’altro, davanti a Dio-Padre in spirito d’amore e di tolleranza. La verità delle religioni non è un problema da risolvere teoreticamente39, bensì è in ultimo una domanda che riguarda la prassi della religione40. Se una religione è vera o falsa, lo decide il comportamento del suo fedele. Lessing non professa in questo testo, al contrario di molti altri autori dell’Illuminismo, un superamento di tutte le religioni concrete a favore di un’astratta religione della ragione. Le religioni storiche non devono essere superate, bensì è possibile la tolleranza. La tolleranza è anche possibile se le religioni ricordano la loro originaria promessa, vale a dire la prassi dell’amore, che secondo Lessing costituisce il cuore della verità religiosa. Lessing scrive nel breve testo Testamentum Johannis: «dove c’è l’amore, là è la vera religione»41. Questo significa al rovescio che là dove l’amore manca, non c’è nessuna vera religione. Si può in relazione a ciò anche ricordare le parole di Gesù: «Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere» (Mt 7, 20)42. Dal primato della prassi vivente e della tolleranza deriva in ultimo l’immagine di una gara tra le religioni «per dimostrare alla luce del giorno la virtù della pietra nel suo anello».

38 Cfr. H. Fuhrmann, Lessings Nathan der Weise und das Wahrheitsproblem, in «Lessing Yearbook», 15, 1983, pp. 63-94. 39 Lessing sapeva molto bene che la sua concezione delle pretese di verità delle religioni rivelate non era corretta come risulta da una sua lettera datata 7 novembre 1778 a suo fratello Karl, cfr. LM XVIII, p. 293, linn. 8-11. 40 Cfr. A. Schilson, Lessing Christentum, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1980, pp. 44-47, 88-93. 41 Nell’opuscolo Das Testament Johannis (LM XIII, pp. 11-17; tr. it., Il Testamento di Giovanni, in G.E. Lessing, Opere filosofiche, cit., pp. 549-554) concepito come Dialogo tra «Egli» e «Io» Lessing tratta di una notizia trasmessa da Girolamo secondo la quale Giovanni Evangelista ha dato solo il seguente comandamento: «Figlioli, amatevi!» (tr. it., p. 551). Questa affermazione viene definita da Lessing (Ich) il «testamento di Giovanni», il cui eccezionale significato dal suo punto di vista viene chiarificato nel seguente dialogo: «Io: Agostino racconta che un certo platonico avrebbe detto che l’inizio del Vangelo di Giovanni, «In principio era il Verbo ecc.», meriterebbe di essere scritto in tutte le chiese, nel posto più visibile e che cade più all’occhio, in lettere dorate. Egli: Certo! Quel Platonico aveva ragione. – Oh, i platonici! E, certamente, Platone stesso non avrebbe potuto scrivere nulla di più sublime di quell’inizio del Vangelo di Giovanni. Io: Può essere. – Tuttavia io, che non me ne faccio molto dei sublimi scarabocchi di un filosofo, credo che con molto maggiore diritto meriterebbe di essere scritto in tutte le chiese, nel posto più visibile e che cade più all’occhio in lettere dorate…il testamento di Giovanni. Egli: Ehm! Io: Figlioli, amatevi!» (LM XIII, p. 14, lin. 36-p. 15, lin. 17; tr. it., p. 552). 42 Cfr. P. von der Osten-Sacken, Lessing «Nathan» und das Neue Testament, in «Evangelische Theologie», 56, 1996, pp. 57-60.

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III La concezione di Lessing è diventata intanto sotto vari aspetti bene comune43. Anche il Concilio Vaticano II insiste sull’obbligo di tutti i cattolici di incontrare con amore e rispetto i fedeli di tutte le religioni44. L’idea di una «competizione delle religioni nell’amore» si trova già in Cusano45 ed è accennata anche nel Corano, dove, anche se solo a margine, nella Sura 5, 48 è detto: «Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Vi ha voluto però provare con quel che vi ha dato. Gareggiate pertanto nelle buone opere. Tornerete tutti a Dio, e allora egli vi darà contentezza delle cose in cui eravate discordi»46. Il punto centrale della posizione di Lessing, vale a dire che la questione della verità è irrisolvibile teoreticamente, è tuttavia problematico. Veramente in questo punto differisce essenzialmente da Cusano. La filosofa della religione Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz esprime la differenza tra Cusano e Lessing nel seguente modo: per Lessing l’uomo «non è capace di riconoscere la verità e per questo è tollerante»; per Cusano invece l’uomo è «capace di riconoscere la verità e per questo è tollerante. Benché egli incontra la verità anche nel suo rivestimento, o persino oscuramento, deve considerarne il vero cuore»47. La domanda da porre a Lessing è: si può seguire veramente una strada religiosa se non si è convinti di trovare in essa anche la verità? Nelle condizioni del nostro presente, in cui quasi un’illimitata molteplicità di religioni e visioni del mondo concorrono le une con le altre nel mercato delle offerte di senso, non solo non si può rinunciare a porre la questione della verità, ma si deve anche trovare una risposta che non sia fondata solo pragmaticamente, bensì che sia anche persuasiva teoreticamente. Altrimenti la scelta di una religione, o meglio di una visione del mondo, diviene solo una questione di gusto personale. Un tale atteggiamento è sicuramente adeguato in un ristorante o in un negozio di arredamento, ma non corrisponde alla serietà esistenziale che è connessa alla scelta di una fede o di una visione del mondo. Anche se si adotta, secondo la massima di Lessing48, la religione tradizionale in «fede e fedeltà» si pone in modo inevitabile il problema della differenza tra bene e male 43 Cfr. H. Zirker, Lessings «Ringparabel» – zur Tragfähigkeit eines Modells, cit., p. 312; H. Bürkle, Der Mensch auf der Suche nach Gott – die Frage der Religionen, Bonifatius, Paderborn 1996, p. 61. 44 Cfr. I documenti del Concilio Vaticano II, Paoline, Cinisello Balsamo 1967, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane – Nostra Aetate, art. 5. 45 Cfr. nota 15. 46 Cfr. Il Corano, a cura di M.M. Moreno, Utet, Torino 1967, Sura 5, 48, p. 114. 47 H.-B. Gerl-Falkovitz, Die zweite Schöpfung der Welt. Sprache, Erkenntnis, Anthropologie in der Renaissance, Matthias Grünwald, Mainz 1994, p. 207. 48 In opposizione alla massima della parabola dell’anello – «la storia solo per fede e fedeltà dev’essere accettata» (tr. it., p. 159, vv. 1976-1978) – Lessing scrive in una precedente lettera al padre del 30 maggio 1749: «La religione cristiana non è un’opera che si deve accettare per fede e fedeltà alla sua lunga storia (LM XVII, p. 18, linn. 6-7).

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che le tradizioni religiose pongono come inevitabile, e si pone la questione secondo quali criteri questa differenziazione si effettui49. Questo vale anche in considerazione dell’atteggiamento postulato da Lessing di «profonda devozione a Dio»50 che non è possibile senza definire ciò che si crede essere contenuto nel concetto di Dio e della sua volontà. «L’illuminismo» sulla natura della rivendicazione della verità religiosa, in accordo all’accenno compiuto su Lessing, «ha bisogno» così, come scrive il filosofo Kurt Hübner, «esso stesso di un suo rischiaramento (Aufklärung)»51. Il problema in Cusano è invece che la sua soluzione alla fine può apparire come una costruzione dogmatica (e per lo più così viene interpretata), sebbene egli si sia impegnato completamente a una fondazione antropologico-­ filosofica della sua posizione che oggi merita attenzione, anche se non la si può sicuramente considerare come una prova logica irrevocabile della verità della fede cristiana52. Cusano si distingue da Lessing specialmente riguardo alla questione della compatibilità di verità storica e verità di ragione. Dal suo punto di vista l’assoluto, il divino, si può mostrare nella storia degli uomini (formulato teologicamente: si può rivelare) e di massima può anche essere riconosciuto in quanto tale53. Tuttavia Cusano tiene fermo il primato della verità su tutte le abitudini («Se si tenesse in conto, così scrive Cusano nel Sermo XXIX, che Dio è la verità – egli infatti ha detto: ‘Io sono la verità’ e non Io sono l’abitudine») e questo significa allo stesso tempo che egli è convinto della fondamentale ri-conoscibilità della verità (incluso della verità storica). Indipendentemente da questa problematica e dal concreto tentativo di soluzione di Cusano, tale idea di una religione nella molteplicità dei riti è significativa anche per il presente: oggi essa può essere intesa come un principio ermeneutico attraverso cui i contenuti dei sistemi religiosi tradizionali possono essere discussi con uno sguardo ai contenuti comuni della religione, che Cusano caratterizza come l’anelito innato dell’uomo alla verità e alla salvezza. Tuttavia, a mio avviso, una differenza assoluta come quella sostenuta da Raymond Klibansky tra l’approccio di Cusano e quello di Lessing è altamente problematica. Il maestro della Cusanusforschung fonda la sua posizione nel seguente modo: «Nicolò sa che la sua religione è l’unica vera, lo sa attraverso la rivelazione. Per Lessing invece la rivelazione è educazione, educazione del genere umano, educazione alla moralità, e questa moralità è il compito più alto proprio di una religione»54. Questa differenza è fondamentalmente corretta, ma essa non fa ancora completa giustizia a Cusano e a Lessing. In 49 Cfr. R. Laufen, Gotthold Ephraim Lessing Religionstheologie – eine bleibende Herausforderung, in «Religionsunterricht an höheren Schulen», 45, 2002, pp. 362-363. 50 LM III, p. 96; tr. it., p. 163, v. 2047. 51 Cfr. Hübner, Das Christentum im Wettstreit der Weltreligionen, Mohr, Tübingen 2003, p. 144. 52 Cfr. W.A. Euler, Nikolaus von Kues als Wegbereiter des interreligiösen Dialogs, cit. 53 Cfr. h XVII/1, p. 37, n. 9, linn. 1-3. 54 Cfr. R. Klibansky, Die Wirkungsgeschichte des Dialogs «de pace fidei», cit., p. 124-125.

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relazione a Cusano essa ignora il conseguente sforzo di superare il positivismo della rivelazione attraverso un’appropriata riflessione filosofico-teologica. Riguardo a Lessing essa trascura la sua caratterizzazione delle religioni come spazi del concreto, storico, manifesto e indispensabile esercizio della «profonda devozione a Dio», come dice il finale della parabola dell’anello. Cusano e Lessing si incontrano nell’idea che le diverse religioni rappresentano ideali etici concordanti e che la prassi delle religioni miri (o almeno dovrebbe mirare) all’amore di Dio e del prossimo55. A tal fine entrambi si basano su un elemento centrale del messaggio di Gesù. Dall’altro lato essi tendono a minimizzare la differenza tra le religioni56. Essi partono da una fondamentale unità o meglio identità di tutte le religioni che ha la sua origine in un comune fondamento divino e in una comune natura umana. Le differenze tra le religioni possono, per questa posizione, secondo il contesto essere giudicate positivamente o anche negativamente (questo tanto in Cusano quanto in Lessing), ma esse non vengono percepite come ultime insuperabili barriere tra le religioni. L’idea guida cusaniana di una religio in rituum varietate si lascia proporre dunque – per quanto riguarda i contenuti pure se in forma mutata – come idea guida fondamentale anche per la versione della parabola dell’anello di Lessing. Cusano e Lessing concordano inoltre nella convinzione che la forma di una vera religione nella molteplicità dei riti tra gli uomini, popoli e culture resta discutibile da quell’uomo saggio di cui parla la parabola dell’anello di Lessing57 e tramite il quale Dio comunicherà a tutti la sua decisione risolutiva. Ma – ed è su questo punto decisivo per il futuro dell’umanità che si incontrano nuovamente Cusano e Lessing – la disputa probabilmente inevitabile tra le religioni e le visioni del mondo deve essere decisa pacificamente, con argomentazioni, non con fucili e pugni, e con reciproco rispetto l’uno per l’altro in una competizione dell’amore. (Traduzione dal tedesco di Davide Monaco)

55 «Paolo: I comandamenti di Dio sono pochissimi, notissimi a tutti e comuni a tutti i popoli. Anzi la luce che ce li manifesta è innata nell’anima razionale. Difatti in noi parla Dio ordinandoci di amare Lui, dal quale riceviamo la vita, e di non fare agli altri se non ciò che vorremmo fosse fatto a noi. L’amore pertanto è la pienezza della legge di Dio, e tutte le leggi si riconducono a quella» (De pace fidei, cit., c. 16; tr. it., p. 666). 56 La parabola dell’anello offre un argomento decisivo per la molteplicità delle religioni, ma all’opposto nessuno per la loro eterogeneità di contenuti. La questione è messa da parte già attraverso il presupposto della parabola, ossia che i tre anelli sono eguali tra di loro» (G. Kaiser, Lessing «Nathan der Weise», cit., pp. 573-574). Che Cusano a malapena accenni alla differenza tra le religioni risulta dal suo pensiero conduttore della sua teologia delle religioni: una religio in rituum varietate. 57 LM III, p. 95; tr. it., p. 163, vv. 2051-2053.

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Nei suoi scritti e nelle lezioni pervenuteci Schelling non cita mai espressamente Cusano. Fra una lista elencante volumi della sua biblioteca risulta incluso il libro di Franz Jacob Clemens, Giordano Bruno und Nicolaus von Cusa, edito nel 1847, quando l’unico testo ancora in fase di elaborazione delle opere schellingiane era la Darstellung der reinrationalen Philosophie, a cui attese sino all’anno della morte, nel 1854. Lesse probabilmente di Cusano in alcune storie della filosofia e della matematica, nei limiti da esse concesse a tale autore. Sicuramente non poté leggere il De non aliud, dialogo pubblicato solamente nel 1888. Indirettamente, in particolare attraverso Giordano Bruno e Johannes Reuchlin, recepì alcune sue problematiche specifiche, in primis quella di Dio come coincidentia oppositorum1.

1 F.J. Clemens, Giordano Bruno und Nicolaus von Cusa, Wittmann, Bonn 1847 (SB) (rist. an., Thoemmes, Bristol 2000), in part. pp. 37-132; J. Brucker, Historia critica philosophiae, 6 voll., Breitkopf, Leipzig 1742-1767 (rist. an., Olms, Hildesheim 1975), vol. IV, 1766, p. 30; D. Tiedemann, Geist der spekulativen Philosophie, 6 voll., Akademische Buchhandlung, Marburg 1791-1797, vol. V, 1796, p. 321: menziona l’opera di Cusano «über die gelehrte Unwissenheit»; G.G. Fülleborn, Über einige seltne Schriften des Iordano Bruno, in Beyträge zur Geschichte der Philosophie, a cura di G.G. Fülleborn, 3 voll., Frommann, Jena 1791-1799 (rist. an., Schmidt, Bad Feilnbach 2007), vol. II.7, 1796, pp. 37-103, p. 87; A.G. Kästner, Geschichte der Mathematik, 4 voll., Rosenbusch, Göttingen 1796-1800 (rist. an., Olms, Hildesheim 1970), vol. I, 1796, pp. 400-417, vol. II, 1797, pp. 122-128; J.G. Buhle, Lehrbuch der Geschichte der Philosophie und einer kritischen Literatur derselben, 8 voll., Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1796-1804, vol. VI.1, 1800, pp. 255-256; W.G. Tenneman, Geschichte der Philosophie, 11 voll., Barth, Leipzig 1798-1814, vol. IX, 1814, pp. 133-138; Nicolai de Cusa De non aliud, in J. Übinger, Die Gotteslehre des Nicolaus Cusanus, Schöningh, Münster 1888, pp. 150-193; G. Bruno, De la causa, principio, et uno, [Charlewood], Venezia [London] 1584, ora in Id., Dialoghi italiani, a cura di G. Aquilecchia e G. Gentile, 2 voll., Sansoni, Firenze 19583, vol. I, pp. 173-342, testo letto attraverso l’estratto in appendice a F.H. Jacobi, Über die Lehre des Spinoza in Briefen an den Herrn Moses Mendelssohn, Löwe, Breslau 17892 (SB), ora in Id., Werke, a cura di F. Köppen, 6 voll., Fleischer, Leipzig 1812-1825 (rist. an., Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1968), vol. IV, 18193 (La dottrina di Spinoza, tr. it. di F. Capra e V. Verra, Laterza, Bari 1969); G. Bruno, Summa terminorum metaphysicorum, Lahn, Marburg 1609 (SAM, 04.10.1808); G. Bruno, De triplici minimo et mensura, Wechel & Fischer, Frankfurt am Main

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Tuttavia non solo le tematiche, ma le modalità stesse di affrontare diversi 1591 (SAM, 04.10.1808); G. Bruno, De imaginum, signorum, & idearum compositione, Wechel & Fischer, Frankfurt am Main 1591 (SAM, 04.10.1808); G. Bruno, De progressu et lampade venatoria logicorum, [Krafft, Wittenberg] 1587 (SAM, 04.10.1808); J. Reuchlin, De arte cabalistica, 3 voll., Anshelmus, Hagenau 1517, vol. I, p. 154: «Istud autem omnem nostrum intellectum transcendit, qui nequit contradictoria in suo principio combinare via rationis, quantum per ea, quae nobis ab ipsa natura manifesta fiunt ambulamus, quae longe ab hac infinita virtute cadens, ipsa contradictoria per infinitum distantia connectere simul nequit, ut quidam Germanorum philosophissimus archiflamen dialis annos paulo anto quinquaginta et duos posteritati acceptum reliquit». Cfr. inoltre H. Fuhrmans, Schellings Philosophie der Weltalter. Schellings Philosophie in den Jahren 1806-1821, Schwann, Düsseldorf 1954, pp. 438-449; H. Heimsoeth, Studien zur Philosophiegeschichte, Universität, Köln 1961, pp. 148-149; H.U. von Balthasar, Glaubhaft ist nur Liebe, Johannes, Einsiedeln 1963 (Solo l’amore è credibile, tr. it. di M. Rettori, Borla, Roma 1982), cap. I; H.U. von Balthasar, Herrlichkeit, 7 voll., Johannes, Einsiedeln 1961-1969, vol. V (Gloria. Una estetica teologica, tr. it. di G. Sommavilla et alii, 7 voll., Jaca Book, Milano 1975-1980, vol. V, pp. 500-501); W. Kasper, Das Absolute in der Geschichte. Philosophie und Theologie der Geschichte in der Spätphilosophie Schellings, Grünewald, Mainz 1965, pp. 139-140, 198 (L’assoluto nella storia nell’ultima filosofia di Schelling, tr. it. di M. Marassi e A. Zoerle, Jaca Book, Milano 1986, pp. 194, 253-254); H. Holz, Spekulation und Faktizität. Zum Freiheitsbegriff des mittleren und späten Schelling, Bouvier, Bonn 1970, pp. 26, 220, 262, 357, 386, 434; X. Tilliette, Schelling. Une philosophie en devenir, 2 voll., Vrin, Paris 1970, 1992², vol. II, p. 147n.; R.F. Brown, The Later Philosophy of Schelling. The Influence of Boehme on the Works of 1809-1815, Bucknell University, Lewisburg 1977, p. 54; H. Titze, «Identitäts» philosophie heute und bei Schelling, Hain, Meisenheim am Glan 1979, pp. 3, 7, 76, 81; W. Beierwaltes, Identität und Differenz, Klostermann, Frankfurt am Main 1980 (Identità e differenza, tr. it. di S. Saini, Vita e Pensiero, Milano 1989), cap. IV.1; B. Braun, Schellings zwiespältige Wirklichkeit. Das Problem der Natur in seinem Denken, EOS, St. Ottilien 1983, pp. 184-185, 191; M. Cacciari, Sul presupposto. Schelling e Rosenzweig, in «aut aut», 211-212, 1986, pp. 43-65; E. Brito, La création selon Schelling. Universum, Peeters, Leuven 1987, pp. 469, 494, 577; M. Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990, 20012, pp. 140-145; S. Ricci, La ricezione del pensiero di Giordano Bruno in Francia e in Germania. Da Diderot a Schelling, in «Giornale critico della filosofia italiana», 70, 3, 1991, pp. 431-465; A. Franz, Philosophische Religion. Eine Auseinandersetzung mit den Grundlegungsproblemen der Spätphilosophie F.W.J. Schellings, Rodopi, Amsterdam 1992, p. 295; F. Tomatis, Kenosis del logos. Ragione e rivelazione nell’ultimo Schelling, Pref. di X. Tilliette, Città Nuova, Roma 1994, pp. 113-114, 116, 196, 198; M. Cacciari, Filosofia e teologia, in P. Rossi (a cura di), La filosofia, vol. II, UTET, Torino 1995, pp. 365-421, pp. 412-414; W. Schmidt-Biggemann, Schellings «Weltalter» in der Tradition abendländischer Spiritualität, in F.W.J. Schelling, Weltalter-Fragmente, a cura di K. Grotsch, 2 voll., Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 2002, vol. I (= Grotsch I), pp. 1-78, pp. 4, 12-24; G. Strummiello, L’idea rovesciata. Schelling e l’ontoteologia, Pagina, Bari 2004, p. 39; M. Cacciari, Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, pp. 68-80; F. Tomatis, Inizio e parola di Dio, in S. Dietsch-G.F. Frigo (a cura di), Vernunft und Glauben, Akademie, Berlin 2006, pp. 55-61; A. Franz, Möglichkeit und Wirklichkeit als Grundprinzipien neuzeitlichen Wirklichkeitverständnisses bei Nikolaus von Kues und F.W.J. Schelling, in K. Reinhardt-H. Schwaetzer (a cura di), Nicolaus Cusanus und der deutsche Idealismus, Roderer, Regensburg 2007, pp. 41-58; H. Schwaetzer, Zur Cusanus-Rezeption im Deutschen Idealismus, in «Litterae Cusanae», 3, 2003, pp. 24-26; Id., Die intellektuelle Anschauung als methodisches Prinzip einer naturwissenschaftlichen «scientia aenigmatica»: Anmerkungen zur Konzeption von Wissenschaft bei Cusanus und im Deutschen Idealismus, in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 29, 2005, pp. 247-261; Id., «Visio intellectualis» – Cusanus und Schelling. Eine systematische Annäherung, in K. Reinhardt-H. Schwaetzer (a cura di), Nicolaus Cusanus und der deutsche Idealismus, cit., pp. 87-102; P. Ziche, «der Punkt sey der Kreis in seinem Chaos». Cusanische Kreisbildlichkeit und Schellingsche Möglichkeitsstrukturen, in

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problemi filosofici e teologici, quelli per entrambi centrali, avvicinano Cusano e Schelling in maniera stupefacente, tanto da rendere teoreticamente affascinante e feconda una comparazione. In tale comunione a distanza ha giocato sicuramente un ruolo determinante la tradizione a cui entrambi principalmente si riallacciano assieme alla biblico-cristiana, reinterpretandola originalmente, quella neoplatonica. Il riferimento comune è oltre che a Platone, a cui si affianca comunque anche un’approfondita conoscenza e interpretazione di Aristotele, almeno a Filone d’Alessandria, Plotino, Gregorio di Nissa, Agostino d’Ippona, Proclo, Dionigi Areopagita, Giovanni Scoto Eriugena, Anselmo d’Aosta, Bonaventura da Bagnoregio, Eckhart2. Ritengo particolarmente profonda, arricchente, complessa la vicinanza di Cusano e Schelling nelle rispettive ultime fasi del loro pensiero, interpretabili come costituite dai dialoghi cusaniani scritti a partire dal 1460, in particolare il De possest (1460), il De non aliud (1461-1462), il De venatione sapientiae (1462), il Compendium (1464) e il De apice theoriae (1464), nonché dalle lezioni schellingiane di Philosophie der Mythologie e Philosophie der Offenbarung, in specifico quelle su Der Monotheismus (1837/38, 1842 e 1845), Einleitung in die Philosophie der Offenbarung e Philosophie der Offenbarung (1841/42, 1842/43 e 1844) e la Darstellung der reinrationalen Philosophie (1847-1854), relative dunque agli ultimi anni del periodo monacese (18361841) e soprattutto a quello berlinese (1841-1854)3. Una guida affidabile per compiere i primi passi dell’abissale via tracciabile fra Cusano e Schelling è sicuramente il De venatione sapientiae, opera cusaniana che riprende i principali temi delle sue precedenti. Esaminiamo i primi quattro dei dieci campi di caccia della sapienza delineati, senza addentrarci nella folta foresta, ubertosa e incessante, dei successivi, delle lodi a Dio K. Reinhardt-H. Schwaetzer (a cura di), Nicolaus Cusanus und der deutsche Idealismus, cit., pp. 59-86. 2 Sull’ampia e complessa tradizione neoplatonica (e il suo influsso su Cusano e Schelling) sono preziosissimi tutti gli studi di W. Beierwaltes; tra le più profonde interpretazioni odierne del pensiero di Platone stesso, invece, fondamentali i lavori di G. Reale e F. Ferrari; per ricostruire i molteplici rapporti di Schelling con i filosofi precedenti, oltre che scritti e Nachschriften delle lezioni sono utili suoi diari, epistolari e documenti o testimonianze su di lui (cfr. Rariora; Tagebuch 1809-13, 1814-15, 1846, 1848, 1849; Plitt I-III; Fuhrmans I-III; Cotta; SB; SAM; Spiegel I-IV), essenziali le ricerche di G. Riconda; cfr. infra, Bibliografia, cap. 3, ad vocem. 3 Su Cusano rinvio, oltre che ai profondi saggi di W. Beierwaltes, in particolare agli eccellenti studi di G. Cuozzo, Mystice videre. Esperienza religiosa e pensiero speculativo in Cusano, Trauben, Torino 2000, 20022, e di D. Monaco, Deus Trinitas. Dio come non altro nel pensiero di Nicolò Cusano, Pref. di W. Beierwaltes, Città Nuova, Roma 2009, l’uno soprattutto per l’attenta ricostruzione della teoria conoscitiva e mistica, l’altro per l’accurata periodizzazione, lo scavo delle fonti, l’analisi del pensiero filosofico-teologico, nonché la ricchissima bibliografia. Per l’individuazione del lungo percorso dell’ultima filosofia di Schelling, faccio riferimento e rimando ai miei lavori precedenti, in particolare a F. Tomatis, Kenosis del logos. Ragione e rivelazione nell’ultimo Schelling, cit., nonché a tutte le fondamentali ricerche di X. Tilliette. Le maggiori opere teoretiche che abbiano subito influssi da parte di tali pensatori sono quelle di L. Pareyson, G. Riconda, V. Vitiello e M. Cacciari; cfr. infra, Bibliografia, cap. 3, ad vocem.

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(quinto), delle tre ipostasi trinitarie (unità, uguaglianza, nesso: sesto, settimo, ottavo), del termine (nono) e dell’ordine (decimo), che secondo una sintetica interpretazione della filosofia positiva schellingiana potremmo riassumere nel campo infinito di lode teogonica, sino alla sua storica dilatazione attraverso la caduta dell’uomo originario, cum-scientia della creazione, denominabile Deus-Trinitas sive cre-atio continua. Percorrendo i campi cusaniani della dotta ignoranza, del poter-è (possest), del non altro e della luce (e relativa visione intellettuale) avremo modo di avvicinarli abissalmente ai vertici del pensiero schellingiano: il non-sapere sciente, ciò che può-è (potest) l’essente (ossia l’Uno o l’Egli stesso), il mero che, l’intuizione intellettuale divenuta estasi e stupore della ragione. Il primo campo di caccia della sapienza è costituito dalla docta ignorantia (De venatione sapientiae, XII; cfr. Agostino d’Ippona, Epistulae, CXXX 15, CXCVII, CXCIX, 13; Bonaventura da Bagnoregio, In sententiarum liber, II 23, Breviloquium, V 6). Socraticamente, solo Dio è sapiente, sapienza, agli uomini più dotti è invece concesso soltanto di sapere di non sapere (Platone, Apologia Socratis, 20e-23b; cfr. Ecclesiastes, I 8; Agostino d’Ippona, De ordine, II 44). Tuttavia se il massimo del sapere umano è l’ignoranza, lo è come vertice del sapere, ignoranza dotta, che riconosce come di Dio non sia possibile avere concetto, determinarne la quiddità, il che cosa, l’essenza. Cusano si riallaccia alla VII lettera di Platone (342a-344b; De principio, XXVI, De possest, 181r/177v, 183r/180r, De non aliud, XXII, Compendium, I), nella quale il grande padre del pensiero occidentale sostiene come l’anima cerchi spontaneamente di conoscere l’essenza, ma inutilmente, poiché né nome né definizione né immagine né scienza o intelligenza riescono a dirla, ma indicano solo qualità, tanto da far apparire soltanto il non conoscere di chi tentasse una spiegazione ricorrendo ad esse. Seguendo Dionigi Areopagita, tuttavia, Cusano precisa che proprio attraverso la dotta ignoranza sia possibile contemplare, non certo comprendere ma nemmeno intellegere, quella divina luce tenebrosa che sta oltre ogni essere e conoscere (De mystica theologia, Epistulae, I; cfr. Porfirio, Sententiae, XXV, In Parmenidem, 92r-v; Gregorio di Nissa, De vita Moysis, II 162-165: «ideîn en tô mè ideîn»). «L’incomprensibile infatti è raggiunto da questa scienza dell’ignoranza» (De principio, XXIX; De possest, 179r/175v, 181r/177v, 183v/180v; De non aliud, XIV, XVII; De venatione sapientiae, XXX; Compendium, VIII; De apice theoriae, 220r/108v). Anche per Schelling il socratico sapere di non sapere, la docta ignorantia (di Agostino, Bonaventura e Cusano) o ignorance savante di Pascal è il passo estremo del cammino del sapere, la conclusione del procedere razionale: «il non-sapere dev’essere necessariamente una docta ignorantia, una ignorance savante, come s’è già espresso Pascal» (XIII 98; cfr. Paulus, 403, 440; Kierkegaard, 35-36). Nelle Conferenze di Erlangen (1821) Schelling mostrò come il cammino del sapere umano consista nel progredire dialetticamente dal sapere nesciente al non-sapere sciente (IX 228-239). Quindi pose il non-sapere sia a inizio sia a conclusione del procedere razionale, secondo due suoi diver-

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si aspetti. Per avviarsi lungo la via filosofica occorre innanzitutto rinunciare, abbandonare il sapere, non voler sapere, non-sapere. Ogni sapere umano è sapere che propriamente non sa, sapere nesciente. Anche l’ultimo passo del procedere conoscitivo è un non-sapere, tuttavia non-sapere sciente, che sa. Infatti a Erlangen Schelling affermò addirittura che il non-sapere supremo dell’io pone esso stesso l’assoluto, in un uscire fuori di sé, un’estasi dell’io. L’intuizione intellettuale, che più che intuire contempla l’assoluto fuori di sé, fuori dell’io, viene qui reinterpretata come estasi dell’io nel porre in un non-sapere sciente l’assoluto come proprio assoluto contenuto, abissale coscienza, in una Er-innerung che scopre e pone l’assoluto o eterna libertà al fondo estatico e nesciente dell’io. Invece nella Philosophie der Offenbarung (XIII 97-99), secondo un’evoluzione del suo pensiero evidenziatasi a partire dal 1839 circa (cfr. Mittermair), Schelling pone a conclusione del cammino meramente razionale il sapere nesciente, il sapere che non sa, intendendolo come filosofia critica, a priori, filosofia negativa. Ma per approfondire come esso mostri un limite negativo, che, con un procedere conoscitivo diverso, la filosofia positiva, procedente assieme a priori e per posteriora, può essere se non superato tuttavia reso significativo. La filosofia negativa cerca infatti sempre il quid delle cose, il che cosa della realtà, scoprendo stupefatta infine come mai riesca a concettualizzarlo pienamente, veramente, realmente, restandole solo il vuoto che, il quod, certissimo ma privo di concettualità, indubitabile ma imprepensabile, indimenticabile e immemorabile. Senza abbandonare questa consapevolezza estatica e critica della filosofia negativa, la filosofia positiva per un verso a partire da tale mero che ipotizza sempre a priori come possa essere in relazione con tutta quanta la realtà, per altro verso prova per posterius che tutto ciò che esiste sia effetto di tale ipotesi onnirelazionale, di libera causalità del mero che o Uno-uno rispetto all’onnicompossibilità trinitaria, quindi dimostra gradualmente la divinità di ciò che esiste, solo indirettamente e sempre ancora in fieri l’esistenza di Dio. Filosofia negativa e filosofia positiva, apofasi e catafasi (cfr. XII 61-65n.), sono i due volti del sapere umano, tenuti congiunti dalla dotta ignoranza come estatica esperienza non-conoscitiva e non-senziente, tuttavia estremamente educatrice nello stupore di fronte al vuoto e indubitabile mero che. Proprio su questa stessa ambivalente via, di origini dionisiane e platoniche, Cusano cita espressamente Anselmo d’Aosta (De venatione sapientiae, XXVI; cfr. XII, XVII, XXXV; De visione Dei, I; De non aliud, IV, Prop. XVII; Compendium, X; De apice theoriae, 220r/108v, 221r/109v), il quale dicendo, nel cap. XV del Proslogion, al Signore ciò che Egli sia tiene indisgiungibilmente assieme affermazione positiva di Lui come quo maius cogitari nequit, ciò di cui non si può pensare (nulla di) maggiore, e definizione negativa di Dio come quiddam maius quam cogitari possit, qualcosa maggiore di quanto possa essere pensato. Cusano ribadisce come Dio sia maggiore di ogni concetto, più grande di quanto lo si possa concepire; ma assieme anche che Dio

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è perfezione, benché infinita e incomprensibile, quindi inesauribile. Dionisianamente, Dio è nominabile con i nomi più eccelsi: Bene, Bellezza, Luce, Essere, Vita, Sapienza, Potenza, Pace, Eternità, Perfezione, Causa, Uno… Amore; tuttavia Egli resta non nominato e inattingibile nella sua essenza sovrasostanziale, caliginosa per eccesso di lucore. A tale doppia via, da tenere assieme congiuntamente, inunificabilmente e inseparabilmente, si riferisce dunque Schelling, a partire dalla sua stessa definizione del cammino del pensiero come filosofia negativa e filosofia positiva. In particolare, la distinzione fra Dio come ens perfectissimum e Dio come ens necessarium gli permette di approfondire l’argomentazione anselmiana e poi cartesiana dell’esistenza di Dio svolta a priori, nel puro pensiero, mostrando, con Kant, come ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore, l’ideale trascendentale della ragione, Dio in quanto essere perfettissimo, sia alcunché di meramente necessario, indubitabile, inevitabile, tuttavia anche unvordenklich, immemorabile, imprepensabile, infondabile nella sua stessa esistenza, rimanendo quindi mera ipotesi razionale. Dio è l’essere perfettissimo, ma solo se esiste. La sua esistenza inconcettuale e ulteriore a qualsiasi perfezione pensabile non è provata nella pur perfettissima idea di essere perfettissimo, di cui non si può pensare nulla di maggiore, seppur inteso, come fa Schelling, quale Spirito perfetto, onnicompossibilità. Passiamo qui inevitabilmente al secondo campo di caccia, spinti in esso dalla stessa dotta ignoranza, ricercante un nome di Dio pur nella consapevolezza della sua trascendente innominabilità. Per Schelling il Dio della prova cosiddetta ontologica anselmiano-cartesiana può essere inteso, nella sua perfezione, in quanto ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore, soltanto come Spirito perfetto, così perfetto e compos sui da poter pensare in Lui, in Uno, potenza, atto e indifferenza fra atto e potenza e potenza e atto. Per individuare i principi dell’essere, Schelling si riallaccia direttamente ai generi introdotti nel Filebo da Platone (30a-31a; XI 393-395, cfr. Timaeus 24-32, 59-70), reinterpretandoli e rielaborandoli. Tali principi o cause prime sono anche definiti possibilità o potenze dell’essente (XI 304). Riassumendo schematicamente la schellingiana teoria delle potenze (cfr. Lasaulx 93ss.; Beckers 93-95; Ehrhardt 24-82; Helmes 408-448; X 17-19, 100-103; X 241-286; XII 24ss.; Mittermair 115-134; Paulus 225-231, 447-473; Chováts 173ss.; XIII 62ss., 198ss.; XIV 337ss.; X 303ss.; Amiel 248-252; XI 288-292, 299-304, 313320, 386-397, 584-590), abbiamo, da pensarsi simultaneamente in uno: a. il poter-essere o il potente l’essere o la potenza di essere, che inevitabilmente trapasserebbe nell’essere, negandosi in quanto pura possibilità, se non fosse resa intransitiva da un suo assoggettamento, messa in soggezione da parte della seconda potenza, che la rende dunque mero hypokeímenon; b. il puramente essente, tale non in quanto risultato di passaggio a potentia ad actum, che permette di pensare alla attualità della stessa pura potenzialità; c. la potenza di essere in quanto tale, il libero potente essere, indifferentemente atto e potenza o potenza e atto, potenziale anche nell’attualizzazione e attuale

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nella purissima possibilità potenziale. Nessuna di queste possibilità, unilateralmente, può dire il principio primo dell’essere, propriamente quarta causa, causa dell’essere, aitía toû eînai. Esso può indicarsi come Spirito perfetto, i cui tre momenti o volti pensabili sono costituiti dalle tre potenze o possibilità, tanto da renderlo eterna onnicompossibilità dell’essere. Anzi, vera quarta causa e causa dell’essere effettivo è propriamente solo Dio o l’Uno (di per sé, nella sua ineffabilità, maggiore di quanto possa essere pensato) in quanto È lo Spirito perfetto, in quanto liberamente possa-sia (in-transitivamente) l’essente nella sua onnicompossibilità. Lo Spirito perfetto è causa solo dell’essere futuro, ancora tutto potenziale e possibile, è dunque l’Uno-che-sarà, il Signore che può-è l’essere futuro, realizzato solo se Dio o l’Uno-uno, liberamente e in-transitivamente, si fa causa dell’essere, causa dello Spirito perfetto o onnicompossibilità in quanto effettivamente onnipotente e stando tuttavia oltre ogni potenza come purissima e attualissima possibilità. Schelling insiste sin dalle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti ad essa connessi del 1809 sul senso causale della copula nel giudizio, indicante un potere piuttosto che una identificazione matematica (VII 340-350; cfr. X 264-265, Helmes 311, XII 53; cfr. Cusano, De possest, 180v/177r). Ciò vale per eccellenza quando il soggetto sia Dio e il predicato l’universo, come, secondo l’espressione schellingiana, nella proposizione: Dio è l’essente, ossia: l’Uno-uno È in-transitivamente lo Spirito perfetto o onnicompossibilità di potenza e atto e indifferenza fra potenza e atto. Nella Philosophie der Offenbarung in particolare Schelling rileva il fatto che nelle lingue semitiche il verbo essere regga l’accusativo, a differenza del latino sum, intransitivo. In esse l’essere è da intendersi come un potere che è essere al tempo stesso, un essere in senso causale, potenziale, analogamente al possum latino, per cui potest significherebbe non solo è-potente (o è-possibile), ma È, come un «è» che regga l’accusativo, in-transitivamente potremmo dire, causando e quindi trasferendo tuttavia senza transitare. Il tedesco Kann corrisponde a tale causalità in-transitiva, espressa dall’arabo Kan o dall’ebraico Kun. «L’arabo dice, contro ogni altra grammatica: homo est sapientem. Questo accusativo indica che per esso l’È ha lo stesso significato di potest, poiché il verbo possum regge, secondo la natura delle cose e quindi in ogni lingua, l’accusativo» (XIII 229; cfr. 295-297). In tal senso va intesa l’espressione ricorrente nella Darstellung der reinrationalen Philosophie per il principio primo, l’Uno-uno: «das, was das Seyende Ist», ciò che È l’essente, ciò che è causa dell’essere per l’essente, aitía toû eînai (XI 274, 315, 362, 402-403, 562-563, 565, 586, 588; cfr. XIII 71-72, 174, Plitt III 229). Per Schelling, dunque, la definizione filosoficamente più raffinata di Dio può così esprimersi: se Dio esiste, l’Uno-che (soggetto imprecedibile o prius imprepensabile) potest (verbo in-transitivo) l’ens perfectissimum (oggetto unitotale); se Dio si dà, l’Uno-uno può-È (in-transitivamente) lo Spirito perfetto costituito nella sua onnicompossibilità eterna dalle possibilità di potenza di essere, puramente essente e indifferenza fra atto e potenza.

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Dionigi Areopagita nominò Dio potenza, potenza infinita, potenza inalterabile e indefinibile, potenza inesauribile, potenza sovrasostanziale causa di ogni potenza al di sopra di ogni potenza e dell’autopotenza (De divinis nominibus, VIII 1-6). Potenza infinita, illimite-potenza, «apeirodýnamis» chiamò già Proclo l’Uno (In Parmenidem, 1118, 19; cfr. Porfirio, In Parmenidem, 91r). Plotino indicò l’Uno, in quanto pegé, fonte dell’essere, «dýnamis tôn pánton», potenza di tutto (Enneades, III 8 10). Platone, alludendo all’Uno attraverso il bene, lo disse al di là dell’essenza per dignità e potenza, «presbeía kaì dynámei» (Respublica, 509b); ricordando peraltro ripetutamente la potenza del bene, «toû agathoû dýnamis» (Filebus, 64e; cfr. Timaeus, 28a). Lo stesso San Paolo definì il Cristo potenza di Dio, «theoû dýnamin» (I ad Corinthios, I 24). Cusano, forse anche rammentando il passo in cui Agostino d’Ippona avvicina posse e esse (In Iohannis, XX 4: «Si enim hoc esset esse ipsius, quod est posse ipsius, cum vellet posset», «Se infatti il suo essere fosse ciò che è il suo potere, volendo potrebbe»), nominò Dio virtus infinita, virtus actu infinita, infinita potentia, omnipotens, actus omni potentiae, posse omnis posse, posse simpliciter, posse esse, ipsum posse esse, ipsum esse, ipsum posse, posse ipsum, posse ipsum absolutum, id quod esse potest, quo nihil prius esse potest, quo nihil prius nec potentius, posse-est, possest (De possest, 175v-178r/171v174r; De non aliud, VII; De venatione sapientiae, XIII, XXXIV-XXXV, XXXVII; Compendium, X, Epil.; De apice theoriae). Nel De possest (174v/170r, 176r/172r), Cusano dapprima riporta il passo della Lettera ai Romani di San Paolo (I 20), in cui l’apostolo parla di potere eterno e divinità di Dio, «sempiterna quoque eius virtus et divinitas», e, benché l’invisibile per eccellenza, della sua conoscibilità. Potere e divinità eterni di Dio, così come ogni altra cosa invisibile di Dio, sono scorgibili da parte delle creature attraverso le cose intellegibili del creato. Nel conoscere intellettivamente le cose create si scorgono in esse stesse gli invisibilia Dei: eternità, potenza, divinità. Poiché ogni cosa che esiste può essere ciò che è in atto, senza tuttavia che il poter esser fatto possa di per sé tradursi in atto (secondo il principio aristotelico della priorità dell’atto rispetto alla potenza), ogni esistente in sé mostra la necessità di Dio in quanto Trinità, complicante in sé potenza, atto, nesso fra potenza e atto, tale da poter fare, cioè creare, ciò che può esser fatto (De possest, 175r/170v, De venatione sapientiae, VI-VII). Successivamente Cusano richiama i nomi con i quali Dio stesso ha nominato se stesso: «ego sum Deus omnipotens» (Genesis, XVII 1); «ego sum qui sum» (Exodus, III 14), di quest’ultimo riportandone anche la versione greca, egó eimi ho ón, trasposta in latino: «ego sum entitas». Dio onnipotente e colui che sono (o l’entità), questi i nomi dell’autonominazione divina. Potere ed essere, possibilità e attualità, potenza e atto sono per eccellenza i nomi di Dio, da intendere coeterni in Dio. Posse ed esse, assieme, contratti in un solo termine coniato da Cusano stesso, danno posse-est, possest. Dio inteso come possest complica in sé tutte le cose. Potere, essere e connessione fra i due, potenza, atto e nesso sono anzi

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propriamente per Cusano le tre coeterne ipostasi di Dio, Padre e Figlio e Spirito santo (De possest, 175r/170v, 180r-180v/176v-177r, 181v/178r). Il nome possest è semplicemente un concetto umano, nota Cusano, tuttavia capace di condurre enigmaticamente il ricercatore, come un’immagine enigmatica che faccia da guida al procedere intellettuale, ad una qual certa asserzione positiva di Dio (De possest, 177v/173v; cfr. I ad Corinthios, XIII 12; Plotino, Enneades, VI 9 11: «aínigma»; Gregorio di Nissa, De vita Moysis, II 27, II 96). Possest dunque come nome guida per una positiva intuizione contemplativa di Dio, secondo quanto Egli stesso abbia affermato di sé. Occorre tuttavia notare che Cusano non usa l’espressione posse-esse, né possum o potest, correntemente latina. La prima, potere-essere, avrebbe unito posse ed esse come auspicato da Cusano stesso. La seconda, posso o può in latino classico, sarebbe stata adatta a indicare la verbalità sostantiva della essenza divina, soggettiva potenza in-transitiva, causale e inesauribile nell’essere Dio onnipotente creatore di tutte le cose. Invece egli ha coniato il nome possest, poter-è, cioè potere-è, posse-est, secondo quanto ricostruisce Cusano stesso (De possest, 176r/172r). Al di là del riferimento alla vulgata di San Gerolamo e alla versione dei LXX nel tradurre Esodo, III 14, qui emerge non tanto una sintesi fra potere ed essere come nome positivo di Dio, autonominatosi tale, quanto una presupposizione, da parte dello stesso supremo nome di Dio, di Esso o Egli stesso, di colui che È, senza poterlo identificare né al potere né all’essere né al nesso fra i due. Nel possest risuona forse del nome di Dio l’autopronuncia in ebraico, positiva e apofatica assieme, eminenziale, che nell’annunciare una relazione personale con le creature mantiene a un tempo, eternamente, l’imperscrutabilità e libertà dell’arbitrio divino, al di là dell’essere e del potere, pura possibilità attuale nella sua semplice purezza immemoriale: ’ehjeh ’ašer ’ehjeh, io sarò (con voi) colui che sarò (con voi). Se possest è il nome guida a Dio sia nel dialogo omonimo, De possest, sia nel De venatione sapientiae, tuttavia Cusano nel suo ultimo scritto, il De apice theoriae, dice esplicitamente che meglio ancora del vocabolo possest (il poter-è), posse ipsum (il potere stesso) sia adatto a nominare ciò senza di cui nulla può (potest) essere, vivere, intendere (De apice theoriae, 219r/107v; cfr. Plotino, Enneades, V 9 10; Porfirio, In Parmenidem, 90r). Il termine ipsum posse, lo stesso potere, ricorre già in precedenza, accanto a quello centrale di possest (De possest, 176r/172r, 177v/173v, 178r/174r, 180v/177r; De venatione sapientiae, III, VII, IX, XIV, XXII, XXXVIII), ma in tal modo non ne viene ancora enucleata la potenza nominale data dalla postposizione del preposto rafforzante aggettivo dimostrativo: posse ipsum. Il potere stesso interpreta e approfondisce il poter-è proprio nel senso indicato. Dio è onnipotente, ma non si esaurisce nella sua onnipotenza, nel suo essere creatore, benché inteso anche in senso meramente potenziale. Dio è entità, essere per eccellenza, nella sua purissima possibilità è eternamente attuale, eppure l’essere e l’essenza ne limitano l’ulteriorità e priorità, la divina signorilità. Ricordiamo come sia posse sia ipsum, attraverso la particella *-pt (come anche hospes,

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hostis, despótes…), indicano una signorilità, un potere non necessariamente esercitato, una potenza pura, indifferente rispetto all’azione o non azione, superiore ad ogni essere o avere, fare ed esercitato potere, libera e liberale, generosa e intangibile, magnanima e trascendente, impossedibile e inesauribile. Un poter fare indipendente eppure relazionale, attivo ma libero da vincoli, autonomo ed eteronomo assieme. Un Egli, il potere stesso, un che realissimo e imprepensabile, eterno e immemorabile: Uno che poter-è Egli stesso. Ciò che È l’essente, l’Uno-uno che in-transitivamente può-È l’essente cioè lo Spirito perfetto nella sua onnicompossibilità trinitaria di potenze è detto da Schelling proprio anche l’Uno-che, Hén ti, o l’Egli stesso (XI 314, 564, 570; XI 274, 586, XIII 174, 253, 271, XII 100n.). L’Egli stesso è nome di origine platonica, attraverso una interpretazione in tal senso personale del riferimento all’Uno, in relazione possibile con i molti eppure al di là di ogni relativizzazione, dell’espressione del Parmenide «tò autò toûto», l’Esso stesso, secondo la lettura di Porfirio (Platone, Parmenides, 143a; cfr. Porfirio, In Parmenidem, 90r; Proclo, In Parmenidem, 1186, 33). Schelling, seppur non riallacciandosi direttamente a tale fonte, come nemmeno Cusano, tuttavia forse attraverso Proclo, converge nell’attenzione alla denominazione, arricchendola nel porla al vertice abissale del suo pensiero. «Questo concetto ora, il concetto di quell’assolutamente rappresentato, è quello di essere l’essenza universale, la potentia universalis. Colui che è prima di ogni potenza, in cui nulla vi è di universale, e che perciò può essere soltanto un essere assolutamente particolare, appunto questo è la quintessenza di tutti i principi, ciò che comprende tutto l’essere. Egli è ciò significa: egli, per ciò che non è esistente (mè ón), mera onnipossibilità, è causa dell’essere (aitía toû eînai) appunto per il fatto che Egli è ciò. In questo esser-l’essente (noi denominammo prima così – l’essente – la quintessenza di tutti i principi), in questo esser-l’essente è la sua eterna divinità (he aídios autoû theiótes [Ad Romanos, I 20]), vi è ciò attraverso cui egli si rende conoscibile. Per sé, infatti, l’Uno è ignoto, non ha alcun concetto attraverso il quale esser designato, ma soltanto un nome – di qui l’importanza che viene riposta nei nomi –, nel nome è Egli stesso, l’Unico, che non ha suo uguale. Conosciuto l’Uno lo è attraverso o in questo, che esso è l’essenza universale, il pân, l’essente secondo il contenuto (non l’effettivamente-­essente)» (XIII 174). Solo ciò che è assolutamente particolare, Uno, Egli stesso, può essere la potenza universale, causa dell’essere per ogni cosa che è, per lo Spirito perfetto in quanto onnicompossibilità dell’essere futuro, non ancora effettivo nella sua pur perfettissima e trinitaria essenza quindi solo meontica (precedente l’essere, non negatrice dell’essere come l’ouk rispetto al mè indicherebbe), che esprime ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore, ma appunto ancora solo nell’idea, benché assoluta, irrevocabile nella sua eterna teogonia. Anche Schelling richiama il passo di San Paolo in proposito: l’Unico Dio è ignoto, l’Uno-uno o l’Egli stesso non è una sua concettualizzazione, ma il suo unico nome. L’unico che tuttavia anche riveli la sua eterna divinità nell’essere

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causa in-transitiva dell’essere molteplice, in ogni sua onnicompossibilità, mostrandosi dunque eterna potenza universale, riversante l’Uno stesso nei molti rivolti all’Uno, senza perdere la propria signorile divinità, libera e imperscrutabile, tenebrosa dunque per eccesso di lucore. Nel ritrovare le tracce della signorile causalità divina nelle sue creature, illuminate dalla sua caliginosa luce inaccessibile, è possibile allora non certo transitare l’intransitabile via a ritroso della creazione, tuttavia contemplarvi, in contuizione francescana sempre presupponente un’estatica intuizione vuota, nello stupore della mera cointuizione, gli invisibilia Dei, la sua eternità, potenza e divinità. Nel nome di Egli stesso sono coimplicate tutte queste sovraessenziali qualità, tanto da potersi rivelare in una continua relazione irrelativamente creativa e comunicativa e vitalizzante. Ma se l’Egli stesso è nome positivo di Dio inteso come Uno-uno, ciò che È in-transitivamente l’essente nella sua onnicompossibilità ossia lo Spirito perfetto, id quo maius cogitari nequit, oû he ousía enérgeia, ciò che è atto per essenza (Aristotele, Metaphysica, 1071b; cfr. XI 314, 316, 456, 562, 588, XIII 104, Tagebuch 1846, 77), triunità eterna di possibilità, attualità e libera indifferenza fra potenza e atto, esse e posse, affinché non lo si idolatrizzi ipostatizzandone la sovrasostanziale signoria, di Signore dell’essere al di là dell’essere, occorrerà anche un nome negativo, risultato ultimo, senza fiato e a mani vuote, dell’exclusio potentiae, della eliminazione di ogni minima ipotesi a sostegno umano, sino all’anipotetico, ma ancora verso il principio, inizio al di là dell’essere e del bene stesso (cfr. Platone, Respublica, 533c, 511b; XIII 241). Questo nome esalato quando la via ascetica e intellettuale della sola ragione si faccia estatica sino allo stupore, vertiginosamente attratto e respinto assieme dalla voragine abissale dell’Uno-uno ricercato, non è altro che l’Uno-che (XI 314, 564, 570) o il mero che actu (XIV 348; XI 563-564), negativo e indubitabile risultato di ogni ascesa trascendentale che tutto, persino se stessa e Dio, abbandoni. Proprio quando nel secondo campo di caccia sembrava che la rinuncia alla piena prensione conoscitiva, l’umiltà di fronte all’incatturabile a cui ci si fosse attenuti con contegno raro nel precedente riuscisse a offrire una ricompensa eccelsa, maggiore di quanto ci si potesse aspettare e si fosse capaci di vedere, tuttavia la più grande immaginabile, persino il richiamo del nome emesso dalla agognata preda stessa della più incessante ricerca a perdifiato non è stato capace di afferrarlo. Solo inattingibilmente si attinge l’inattingibile, secondo Cusano, solo nello stupore muto della ragione estatica, posta fuori di sé e dalla sua potenzialità trascendentale, si tocca intangibilmente per Schelling il mero che, il quod, das bloß Daß, ciò che resta di meramente esistente, essente actu, di fatto, non natura sua, per presunte necessità. Nel passaggio estatico dal secondo al terzo campo di caccia, ecco che assieme si dischiude la quarta dimensione di una apofatica visione intellettuale e inconcettualizzante stupore della ragione, di fronte ad Un che, meramente actu, non altro che non altro. Forse anche Cusano intuì tale inevitabilità di fatto, non ulterior-

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mente vincolabile, della mera esistenza dell’Uno-uno, attualissima possibilità, accennando: «et concipis ipsum posse actu esse», e concepisci il potere stesso essere d’atto, in atto senza precedente potenzialità (De possest, 177v/174r). L’altro, o meglio il non altro enigmatico nome divino partorito da Cusano per accennare all’Uno-uno o Dio «è» il non altro, non aliud, li non aliud, ancora più precisamente risulta l’espressione non aliud quam non aliud o la proposizione ricorrente «non aliud» est non aliud quam non aliud (De non aliud; Cribratio Alkorani, II 8; De venatione sapientiae, XIV). L’asserzione tramite la negazione della negazione (della negazione) affermante la negazione della negazione (della negazione) rivolta verso – risultato di negazione-esclusione – la negazione della negazione (della negazione), autoaffermativa ed eteroaffermativa assieme, è la definizione per eccellenza, che rivela i molti complicati nell’Uno e cointuisce l’Uno esplicato nei molti, in ciasc-uno, tuttavia in grazia di una via, una traccia se non un cammino, una guida enigmatica non certo dogmatica per la vista o l’intuizione: li quam, il che. Il che, «li quam», afferma Cusano, guida la vista intuitiva «in non aliud», la dirige verso il non altro. Infatti con il nome non altro dice non altro che non altro, «non aliud quam non aliud»: il non altro si mostra nel che dell’espressione non altro che non altro, e si mostra come non altro che non altro, infatti può affermarsi definitoriamente che il non altro è non altro che non altro, «“non aliud” est non aliud quam non aliud» (De non aliud, XXI; I, V, Prop. III). Il che dirige lo sguardo, guida l’intuizione verso il non altro, in quanto il non altro è prima dell’altro (Uno), in quanto il non altro è altro nell’altro (Uno-che-è), in quanto il non altro è ciascun ente in ciascun ente (ciasc-Uno dei molti). Con ciò non si afferma che il non altro sia l’identico, piuttosto che in ciascun identico e nella stessa unità per eccellenza, possest o posse ipsum, triunità di unità e uguaglianza e nesso, Uno e entità e amore fra essi, potere e essere e nesso, potenza e atto e nesso (Uno-Trinità-che-poter-è-stesso l’onnicompossibilità dei molti ciascuno), l’intuizione, mentre osserva internamente e se ne cura estaticamente rapita nel proprio amato, va anche oltre, ancora più profondamente dentro e assieme vertiginosamente fuori, guidata dal mero che verso il non altro. «Poiché il “non altro” definisce se stesso, il “non altro” stesso è non altro del “non altro” stesso» (De non aliud, Prop. VI; cfr. De docta ignorantia, I, 7, II, 7, Idiota de mente, XI, De Aequalitate, De Possest, 175r/170v-171r, 180r-180v/176v-177r, 181v/178v-r, Cribatio Alkorani, II 7-8, De non aliud, V, De Venatione sapientiae, XXI-XXVI; cfr. Agostino d’Ippona, De doctrina christiana, I, 55, De Trinitate, VI 5; Teodorico di Chartres, Glosa, V 17). Il quam cusaniano fa rivolgere lo sguardo, conduce l’anima a stupire della trasparenza meta-fisica di ogni cosa e del Deus Trinitas stesso in non aliud, verso l’inizio, epì tèn archén: hyperoúsios koinonía, mero che, Un che en archê. Schelling non formula la stessa espressione cusaniana, non aliud, accenna soltanto alla definizione di Filolao, «hateros tôn állon», diverso dall’altro, per indicare l’unicità e separatezza di Dio. In nota peraltro precisa: «Dio stesso non è assoluta indifferenza (= colui a cui nulla può essere disuguale), bensì

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assoluta differenza (= colui a cui nulla può essere uguale), quindi l’assolutamente determinato (id quod absolute praecisum est), separato da tutto per sua natura, l’assoluto solo, e con una parola unico in senso supremo, una parola, che sarebbe usata del tutto falsamente se Dio fosse soltanto l’essenza universale» (XII 100 e n.). Schelling elabora una filosofia positiva che sospende la comprensione a priori trinitaria di Dio come Spirito perfetto – così onnicompossibile da risultare eternamente irrevocabile anche nel processo teogonico di separazione delle tre potenze trinitarie al fine di un’armoniosa creazione avente a suo specchio finale l’anima dell’uomo originario – all’esperienza estatica dello stupore della ragione, quale passo estremo della filosofia negativa, di fronte al mero che, actu necessariamente esistente. Stupore umano assimilantesi a quello divino, rispetto alla abissale arché sui cui sta sospesa la stessa Trinità. Schelling conduce e segue le facoltà umane, gradualmente, oltre la stessa contemplazione, théa (XI 557-558; cfr. Platone, Respublica, 517b). L’io non può certamente annullare il proprio nefasto stato extradivino, conseguenza della caduta o peccato originale, nemmeno accogliendo il messaggio di salvezza della rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Tuttavia, innanzitutto, può rinunciare alla propria egoità e ritirarsi in se stesso. Così facendo lo spirito lascia spazio all’anima, fa kénosis, svuotamento dell’io, entrando in contatto con Dio al fondo vuoto dell’anima. Ad una prima fase di devozione mistica, può succedere quella artistica dell’assimilarsi a Dio, dell’homoíosis theô (cfr. Platone, Theaetetus, 176b; Phaedrus, 253a-b; Respublica, 613a-b; Timaeus, 90d; Leges, 716c), farsi simili alla Divinità, per infine compiere il cammino ascetico in una superiore scienza contemplativa, di pura thèa, contemplazione dell’essere stesso da parte della pura anima, divinamente identificatasi. Ma qui secondo Schelling avviene una seconda crisi della scienza razionale, un’estrema disperazione dell’io seppur spogliatosi in nuda anima. Infatti il Dio a cui assimilarsi sino all’unione contemplativa è mero ideale, pura idea, benché assoluta, id quo maius cogitari nequit. Dio è l’essere perfettissimo, l’ente stesso perfetto in ogni sua onnicompossibilità, Spirito perfetto irrevocabile e onnipotente Signore dell’essere, tuttavia di un essere meramente futuro, potenziale, non necessariamente attuale nella sua stessa ideale possibilità. Di fronte a questo abisso su cui è sospeso Dio stesso in quanto causa finale e ideale della ragione, ciò che è atto per essenza, causa sui, delle facoltà umane non resta che lo stupore muto, vertiginosamente attratto e respinto da tale Dio ideale, attonito e paralizzato innanzi a ciò che resta al vero abissale termine dell’ascetica ascesa razionale all’essere perfettissimo, eliminata ogni ipotesi o appiglio, punto d’appoggio o conoscitivo, prensione o intellezione: un mero che, ulteriore persino all’anipotetico dialetticamente raggiunto e intellettualmente conosciuto, semplicissimo e intransitabile e ineffabile inizio, meramente essente senza essere o necessità: «das actu Actus seyende», «das actu Actus-Seyn» (XI 563-564; cfr. Mittermair 120, 125; Paulus 458461; Kierkegaard 74; Chováts 179; XIII 157, 169; XIV 339, 344, 346-349).

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Actu, in atto, di fatto tale mero che (nemmeno un questo che, tóde ti, solamente un che, hén ti) risulta attualmente essente, puramente esistente nella sua perfetta semplice potenzialità, attualissimamente possibile. Non vi è una necessità cogente che faccia in esso coincidere i contraddittori di essere e pensiero, potenza e atto, possibilità e realtà. Risulta sicuramente, indubitabilmente necessario, ma come risultato appunto di eliminazione di ogni ipotesi, persino dell’anipotetico, che cade da solo dalla sua eccelsa empireità. Esso è indubitabile poiché imprepensabile, indimenticabile in quanto immemorabile, pensiero di un momento senza spazio né tempo, istantaneo e fulminante e vuoto, eppure estremamente esperienziale, necessario perché meramente essente actu, non natura sua necessariamente esistente. Quindi, che sia actu meramente essente implica che non sia esclusa una possibilità della sua attualità dopo, non prima della sua purissima realtà. Al necessariamente esistente actu, l’atto perfettissimo di fatto, in atto, non natura sua, non di necessità necessariamente esistente, non è escludibile si riveli una possibilità che lo segua anziché precederlo, rispetto alla quale esso sia atto natura sua, per essenza purissima attualità. È qui che per Schelling si apre lo spazio della libertà di Dio e corrispondentemente della libertà umana, capace originariamente di rivolgersi a Dio come specchio dell’universo creato, ma anche di riavvicinarsi ­temporalmente a Dio successivamente alla caduta originaria. A ciò soccorre certamente, dapprima, come indicato, l’intelletto umano, Verstand in quanto giunto da un Urstand, un sussistente stato originario di cum-scientia creationis, quindi in certo modo ancora Urpotenz, potenza originaria, benché soltanto più capace di porre un mondo extra Deum, separato da Dio e dall’unitotalità universale (Ehrhardt 221; Paulus 491, 537; XIII 297, 352; XIV 235; Amiel 236). Ma come testimonia l’ultima, estrema crisi della scienza razionale, la stessa contemplazione intellettiva e divinizzante di Dio come ens perfectissimum non fa che rivelare il baratro aperto fra uomo e Dio, conoscenza e realtà. Riprendendosi da questa esperienza estatica di stupore, estenuante e agghiacciante, esponente ai limiti del sopravvivere, le stesse facoltà umane atterrate poiché atterrite dalla vuota idealità del proprio preteso ideale possono riaversi, convertendosi senza dogmatiche presupposizioni ad un conoscere esperienziale rinnovato, un nuovo cammino. Sempre a priori la ragione percorrerà il proprio procedere positivo, tuttavia potendo verificare attraverso le sue eventuali riscontrabili conseguenze la validità dell’ipotesi a priori inevitabilmente pensata trinitariamente, secondo l’onnicompossibilità potenziale, sospesa al mero che actu, imperscrutabile inizio sovrasostanziale. Ciò a condizione di muoversi sempre con un doppio passo, critico e meta-fisico, negativo e positivo, trascendentale ma aperto a comprendere eventi trascendenti l’intrascendibile circolarità trascendentale umana fatta della suprema unità di essere e pensiero (XI 587). Per questo la prova per posterius della divinità di ciò che esiste, anziché dell’esistenza di Dio, non finisce mai, sino alla fine escatologica dei tempi (XI 571). E di questi eventi meta-fisici, empirici in senso supe-

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riore, decisivo per la comprensione dello stato di caduta dell’uomo e quindi per una possibile restaurazione dell’unitotalità cosmoteandrica originaria è quello dell’incarnazione di Dio, Mensch-werdung Gottes, il suo farsi uomo in Gesù Cristo per grazia, liberamente accolta, comprensibile per fede, quaerens intellectum, solo a partire dalla sua resurrezione. Nel cercare di conoscere colui che è prima di tutte le cose, il prius della stessa Divinità, Schelling giunge negativamente allo stupore della ragione, esperienza estatica in cui non si attinge alcun quid, bensì meramente un quod, l’infinitamente esistente, necessariamente essente actu (XIII 158-159; cfr. Plotino, Enneades, VI 9 11). Si tratta per Schelling di un’idea rovesciata, un concetto vuoto, posto dalla ragione cieca: il potente essere rovesciato, la potenza di essere rivoltata (XIII 155-159, XIV 349). Infatti la ragione umana è infinita potenzialità, a cui corrisponde solo l’atto infinito, l’infinitamente essente. Se essa ritirandosi in se stessa si fa criticamente oggetto a se stessa ricerca l’essere nella potenzialità. Esaurita tale vuota costruzione a priori di ogni possibilità essa torna dunque nella sua estaticizzante sostanzialità, esce fuori di sé, scoprendo come suo immediato contenuto, proprio concetto immediato l’infinitamente esistente. «Se la ragione è oggetto a se stessa, se il pensiero si dirige al contenuto della ragione, come nella filosofia negativa, questo è qualcosa di accidentale, la ragione non è con ciò nella sua pura sostanzialità ed essenzialità. Ma se essa è in questa (se non si ritira dunque in se stessa, non cerca in se stessa l’oggetto), allora ad essa come infinita potenza del conoscere può corrispondere solo l’atto infinito. Secondo la sua mera natura essa pone soltanto l’infinitamente essente; contrariamente [umgekehrt], dunque, essa è nel porlo come priva di moto, come stupefatta [erstarrt], quasi attonita, ma essa ristà stupefatta [erstarrt] dinanzi all’essere sconvolgente tutto, solo per giungere attraverso questa sottomissione al suo vero ed eterno contenuto, che essa non può trovare nel mondo sensibile, come ad un effettivamente conosciuto, che essa perciò ora possiede anche eternamente. L’infinitamente esistente è dunque il concetto immediato della ragione» (XIII 165). Il concetto immediato della ragione è un’idea rovesciata, priva di realtà e posta in stato estatico di piena cecità, suscitante stupore piuttosto che meraviglia, apofasi anziché parole, irrigidimento immoto. Se taluni mistici sostengono di conoscere estaticamente il che cosa, il was, qui invece si attinge meramente il che, il daß, semplicemente essente actu, infinitamente esistente di fatto. Dunque solo possibile prius della Divinità: natura sua necessariamente esistente, atto per essenza, potenzialità attuale (XIII 159-165). Cusano stesso ricerca anch’egli proprio ciò che precede l’essere, ciò cui nulla è precedente o più potente (De non aliud, IV, IX; Compendium, X). Elaborando assieme ad una teologia dell’inattingibile quindi inscindibilmente anche una visione del cammino conoscitivo volto all’invisibile. Cusano segue le indicazione platoniche della VII lettera, sino a mostrare l’intuizione che vada al di là dell’essere e del conoscere stessi. «Non si può negare che la cosa per natura sia prima che sia conoscibile. Dunque né il senso, né l’immagina-

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zione, né l’intelletto coglie il modo di essere, poiché questo precede tutto. Ma tutte le cose che siano attinte da qualunque modo di conoscere significano soltanto quel modo di essere precedente; e perciò non sono la cosa stessa, ma sue similitudini, specie o segni. Dunque non c’è scienza del modo di essere, benché si veda certissimamente che tale modo è. Abbiamo dunque una vista mentale intuente in ciò che è prima di ogni cognizione», «visum mentalem intuentem in id quod est prius omni cognitione» (Compendium, I; cfr. De filiatione Dei, III; De non aliud, XXI-XXII). Di ciò che precede ogni effettiva conoscenza umana, che sia sensazione o immaginazione o intellezione, con il vedere della mente si vede il quid dell’id, o piuttosto non si intuisce altro che il quod, il mero che, che esso sia, il mero modus essendi, senza qualità, il semplicissimo che, potenzialità attuale, precedente tutto, prima dell’essere e del non essere stessi? L’occhio intellettuale «quamdiu aliquid videt, non esse id quod quaerit», finché vede qualcosa, non è ciò che cerca (De visione Dei, VI). Cusano ricorda come secondo Platone la definizione non attinga il quid, l’essenza della cosa, ma vi giri intorno senza coglierla. Tuttavia nel caso della definizione autodefinitoria del non aliud le cose stanno diversamente, poiché attraverso di essa si definisce solo negativamente, per guidare la mente verso il non altro stesso: il non altro è non altro che non altro. Non si tratta con il non altro propriamente di una definizione, quanto di un moto, un movimento definitorio, un camminare lungo una via negativa sino a intuire incomprensibilmente sola-mente il non altro, in dotta ignoranza. La conoscenza perfetta del non altro propriamente può esser chiamata solo ignoranza. Si tratta di un conoscere intuitivo, non razionale, di visione non comprensione. Il non altro è il concetto assoluto della mente, intuito e non compreso. Dunque solo le negazioni guidano la vista della mente al che cosa, al quid, benché il non altro sia quid al di là del quid; invece le affermazioni conducono soltanto al tale quid, al tal che cosa: ogni nome significa il tal che cosa, determinato. Per questo le negazioni sono prima della affermazioni e la proposizione negativa è il principio dell’affermazione, la sua condicio sine qua non. Non c’è un vocabolo proprio della quiddità, vista dalla sola pura mente, ma sempre nomi che si riferiscono non al quid stesso, a cui solo le negazioni guidano senza toccarlo, bensì al tale quid, da essi significato con segni sensibili, affermando ma sempre e soltanto un tal che cosa, una tal essenza, non l’essenza stessa, il quid sola-mente intuibile. Non a caso, ricorda Cusano, «tutti i teologi videro che Dio sia qualcosa di maggiore di quanto possa esser concepito, e perciò lo dissero «sovrasostanziale», «sopra ogni nome» e simili»: ulteriore a ogni nome e hyperoúsios, al di sopra dell’essenza, maggiore della quidditas più perfetta e pura (De non aliud, IV, V, XV-XVI, XXI-XXII, Prop. XV-XVI; cfr. Platone, Epistulae, VII; Dionigi Areopagita, Epistulae, I, IV; Anselmo d’Aosta, Proslogion, XV). «Il concetto di Dio è concetto o verbo assoluto, complicante in sé ogni concettualizzabile». Il non altro risulta conceptus absolutus, che definisce sé e ogni altro, tuttavia visto ma non concepito con la mente (De possest, 179r/175v; De

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non aliud, XX; cfr. Porfirio, In Parmenidem, 93v: «apólyton»). È visione di sé e visione dell’altro in quanto non altro che è non altro che non altro. Trascendentale orizzonte intuitivo che senza trascendersi, intuendosi intrascendibile, intuisce la trascendenza come trascendente ogni orizzonte trascendentale, eppure in esso trascendentalmente intuibile nella sua trascendenza. Il non altro non è nome di Dio, tuttavia mediante il non altro, directio speculantis, rivelo il nome concepibile. La visione del non altro non comprende il nome stesso di Dio, eppure è l’intuizione della via, negativa e positiva, che guida il viandante a Dio. Poiché è visto esso stesso incomprensibilmente, il termine non altro non è il nome di Dio, bensì la via che guida al principio, che ci mette in moto e conduce verso l’intuizione dell’Uno o Dio. Ma il significato delle parole e dei nomi non possono renderci la visione stessa, solo esser mezzi per rivolgerci e condurci in direzione dell’invisibile sola-mente intuibile. Così il non altro stesso, la considerazione che il non altro non è altro che non altro, precisamente che il non altro è non altro che non altro, è per un verso solo via negativa, che guida lo speculante verso il principio, senza nominarlo; per altro verso è anche in un qual certo modo positivo nome enigmatico di Dio, un enigma o immagine attraverso la quale incamminarsi ad esprimere più da vicino il nome non nominabile di Dio, contemplandolo in essa nel suo risplendente trasparire. Via negativa, imprescindibile e prioritaria, senza la quale ogni nome o parola risulterebbe idolatrica o antropomorfizzante, e via positiva di avvicinamento per espressione emergente da una costante dotta ignoranza eliminatrice di tutto sino all’ineffabile, assieme entrambe mostrano quanto il non altro, che il non altro sia non altro che non altro prima di ogni negazione e affermazione. Come sosteneva Dionigi Areopagita, rammentato da Cusano, l’ineffabile trascende ogni affermazione e negazione, oltre ogni privazione e attribuzione, in modo quindi eminentissimo, per eccellente superiorità a ogni positiva o negativa via di appropinquamento (De non aliud, II, IV, XIV, XXII; De divinis nominibus, I 4; De mystica theologia, I 2). A proposito della imprescindibilità di due vie, apofatica e catafatica assieme, nel nominare il Dio nascosto, ineffabile e inesauribile, gemelle guide ad una theologia eminentiae assieme critica ed espressiva, trascendentale e narrativa, nel De non aliud Cusano non fa che ribadire quanto indicato già nel De possest, benché il nome enigmatico avvicinante a Dio sia qui possest anziché il successivo non aliud, a sua volta poi rimpiazzato da posse ipsum nella sua contemplativa corsa teologica, da vero aspirante theo-phoro. «Non importa allora in che modo nomini Dio, purché tu in tal modo trasferisca intellettualmente i termini al poter essere» (De possest, 175v/171v). Dio, l’innominabile, può essere nominato con qualsiasi parola, termine o nome, a condizione che in tal denominare l’innominabile, colui che è sopra ogni nome e definizione, eminentemente prima di tutte le affermazioni e negazioni, al di là dell’essere e del non essere stessi, simultaneamente l’intelletto trasferisca il particolare termine utilizzato al poter essere stesso, al poter-è, primo possibile nome attualissimo di Dio stesso, nome di cui non si può pensare e

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nominare maggiore, senza quindi fermarsi alla parola detta ma volgendosi attraverso di essa a intendere intellettualmente il poter-è, sempre maggiore di quanto possa nominarsi. Dunque il possest è un nome abbastanza propinquo a Dio, secondo l’umano concetto di Lui (De possest, 176r/172r). Eppure il concepire umano mai potrà pienamente comprendere il possest. Infatti il nostro intelletto, benché lo veda da lungi, a remotis, non coglie il possest stesso (De possest, 178r/174r; De venatione sapientiae, III; De apice theoriae, 219r/107r, 220r/108v). «Neppure il più alto intelletto può concepire l’infinito senza termine e l’Uno che è tutto e inoltre esso stesso ove non è diversità di opposizione». «Infatti se l’intelletto non si assimila all’intelligibile non intende, essendo l’intendere assimilare e misurare gli intelligibili con se stesso, o intellettualmente; che in colui che è ciò che può essere non è possibile». «Colui che ascende deve abbandonare tutto e trascendere il proprio intelletto» (De possest, 176v/172v). Occorre attraverso il proprio intelletto distaccarsi da tutto, rilasciare ogni proprietà e potere, facoltà e conoscenze, cose e pensieri e ragioni, abbandonare e abbandonarsi sino a trascendere l’intelletto stesso, assumendo intuitivamente il possest come enigmatico nome guida e tuttavia simultaneamente ignorando, quindi dottamente, la sua quiddità sovraessenziale inattingibile, scorta solo e sempre da lontano. Il possest, per un versante, applicato «a qualcosa di nominato diventa in un certo modo enigma per ascendere all’innominabile». Considerato invece, per l’altro versante, «assolutamente, senza applicazione a qualcosa di nominato, in qualche modo conduce enigmaticamente all’onnipotente, affinché là tu veda tutto ciò che intendi essere o poter essere fatto, al di sopra di ogni nome con cui ciò che può essere è nominabile, anzi al di sopra dello stesso essere e non essere, in ogni modo con cui tali cose possono essere intese» (De possest, 177v/173v). Benché la ricerca sulla via negativa sia più vera, tuttavia anche sulla via positiva è possibile farsi condurre da tale nome guida enigmatico, possest. Infatti se «attraverso la negativa noi troviamo il percorso più vero, poiché ciò che cerchiamo è incomprensibile e infinito», comunque «il possest conduce enigmaticamente il ricercatore a una qualche asserzione positiva di Dio» (De possest, 177v/173v, 182v/179v). Nell’enigma si attinge una possibilità di vedere, un poter vedere, posse videri, piuttosto che una visione. Tale possibilità pura, vuota, un vedere senza visione e assieme un’immagine in cui l’intuizione sprofondi senza fine, è come una caligine ombrosa, che tuttavia se condotta in atto dall’alto, dall’automanifestazione di Colui che è attualità di ogni potenza, ne attinge la tenebrosa luce creativa. Solo per grazia tale possibilità può essere resa attuale, manifestata da Dio Padre in Gesù Cristo per coloro che umilmente sappiano attraverso la fede lasciarlo abitare dentro di sé (De possest, 178r/174v; cfr. I ad Corinthios, XIII 12; Plotino, Enneades, VI 9 11: «aínigma»; Dionigi Areopagita, Epistulae, IX). Solo nella pura luce virtuosa che è Dio visione e creazione, essere e conoscere, potenza e atto sono uno; il vedere di Dio è un costituire (De non

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aliud, XXIII). Dunque tutte le cose nominabili, se complicate in Dio sono Dio stesso, se esplicate nel mondo sono mondo (De possest, 175r/171r). È il potere stesso, per eccellenza esclusiva onniincludente, il quid ricercato, la quiddità stessa, ma nel senso che la sia in-transitivamente, la È in quanto il possest o il non aliud o il posse ipsum preceda sovrasostanzialmente la quidditas stessa. Infatti la quiddità può essere, quindi non può essere senza il potere stesso, che essa senza porre presuppone (De possest, 179v/176r; De venatione sapientiae, XII, XXIX; De apice theoriae, 219r-v/107r-v). Se a Dio può esser conferito un nome, posse ipsum è quello più appropriato alla sua trascendenza, al di là di qualsiasi perfezione e nominazione. «Se infatti può esser nominato, lo nominerà meglio soprattutto potere stesso, di cui nulla può essere più perfetto, né credo sia dabile un altro nome più chiaro, più vero o più facile» (De apice theoriae, 219r-v/107v). Intuendo il potere stesso, la visione della mente vedrà oltre la capacità di comprendere, essa infatti «si eleva a vedere ciò di cui nulla può essere maggiore» (De apice theoriae, 220r/108v). Ma lo vedrà proprio perché nella stessa visione intuitiva anche intuirà il suo esser sempre maggiore di quanto possa essere nominato e visto e inteso attraverso l’intuizione mentale di Dio come ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore, nominandolo possest, non aliud quam non aliud o posse ipsum. E che Dio resti maggiore di quanto possa essere ed essere visto dalla mente o nominato, «in se posse ipsum supram omnem potentiam cognitivam», il potere stesso in sé sopra ogni potenza cognitiva, è testimoniato dal rapimento di San Paolo al terzo cielo, nemmeno attraverso il quale l’apostolo di Gesù Cristo stesso riuscì a comprendere l’incomprensibile, tanto che esso ancora sempre susciterà la nostra ricerca di migliore comprensione (De apice theoriae, 219r/107r, 220r/108v; II ad Corinthios, XII 2). Dai primi agli ultimi scritti Cusano sembra sempre ribadire la tradizione neoplatonica e mistica della homoíosis theô, l’assimilarsi a Dio sino all’unificazione. Citando espressamente la Teologia platonica di Proclo (I 3), nel De venatione sapientiae (XVII) afferma che l’anima intellettiva, rivolgendosi dentro di sé, contempla Dio e tutte le cose, attraverso una assimilazione con Dio stesso. Egli infatti, e siamo infatti già giunti e rapiti nel quarto campo di caccia della sapienza, identifica la sapienza di Dio e Dio stesso alla luce, tanto da affermare che la grazia donata agli uomini da Dio attraverso Gesù Cristo, sapienza incarnata – secondo una tradizionale identificazione di sophía veterotestamentaria e lógos giovanneo, a differenza di Schelling –, non è altro che luce, luce data a illuminazione intellettuale e diffusa teofanicamente in tutto il creato. E non solo la sapienza, aggiunge Cusano, il potere stesso, posse ipsum, viene denominato da taluni santi luce, luce indefettibile e inesauribile (De quaerendo Deum, III; De visione Dei, XX; De non aliud, Prop. XII; De venatione sapientiae, XV-XVII; De apice theoriae, 219v/108r; cfr. Filone d’Alessandria, Legum allegoriae, I 43-47; De confusione linguarum, 146; De fuga et inventione, 108-112).

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Pur ritenendo che la deificazione ecceda ogni modo dell’intuizione (De filiatione Dei, I), laddove Proclo parlava invece di prosbolé anziché noûs, di un contatto intuitivo superiore all’intelletto capace esso stesso di conoscere il bene (In Respublicam, I 280; cfr. Platone, Theaetetus, 153; Plotino, Enneades, II 9 1, III 8 10), tuttavia Cusano sostiene anche che accada una vera e propria unificazione, hénosis (De venatione sapientiae, XXX; cfr. I ad Corinthios, VI 17; Plotino, Enneades, VI 9 9-11, IV 4 2, I 2 3; Proclo, De platonica theologia, I 3; Dionigi Areopagita, De divinis nominibus, I 1, X 1-3, De mystica theologia, I 1; Eckhart, Predigten, VI, LII). Scrutando dentro di sé, l’anima intellettiva contempla Dio e tutte le cose, in ciò sta il fine ultimo della ricerca della sapienza. Perciò l’intelletto quando intuisce se stesso si rallegra, infatti può rispecchiarsi nella propria causa finale, Dio. La mente entra in sé e vede sé, e in sé vede sé e tutte le cose in Dio, poiché essa stessa è Dio e tutte le cose. Attraverso la filiazione di Dio l’intelletto stesso è Dio e tutte le cose: «est deus et omnia». (De filiatione Dei, II; cfr. De venatione sapientiae, XVII). Eppure, dirà Cusano nel suo ultimo scritto, se la mente in sé contempla il potere stesso, nel vedere se stessa vede anche di non essere il potere stesso, ma soltanto la sua immagine (De apice theoriae, 221r/110r). E per quanto perfettissimo più di ogni altro uomo, persino Gesù Cristo, sapienza di Dio, theoû sophía, è solo immagine, seppur del Dio invisibile: imago Dei invisibilis (I ad Corinthios, I 24; Ad Colossenses, I 15). Non a caso Gesù Cristo stesso, Figlio di Dio, sotto il portico di Salomone così disse della sua hénosis al Dio Padre: «ego et Pater unum sumus», «egò kaì ho patèr hén esmen». «Io e il Padre siamo uno», pluralità di persone e unicità dell’unione; non: «io e il Padre sono uno», unificazione fra le stesse distinte persone. Forse, addirittura, «io e il Padre siamo l’Uno». Infatti, come notò Cusano, abbiamo hén, unum, il neutro, non eîs, unus, il maschile, che corrisponderebbe correttamente alle due persone. Padre e Figlio, le due persone, restano plurali e distinte rispetto ad un terzo neutro, Uno che si presuppone, che non posto presuppongono (Sermones, XI; Ioannem, X 30; cfr. Eckhart, Expositio sancti Evangelii secundum Ioannem, III 362). Come nel De venatione sapientiae accanto alla teoria dell’assimilazione Cusano richiama il fatto che l’esemplare sia sempre più grande, maggiore di quanto la sua pur perfetta immagine possa concepire e pensare, tanto che il penetrare in sé dell’anima sia una ricerca sprofondante sempre più a fondo, nel correre dietro a Dio dentro di sé, così già nel De filiatione Dei accanto ad una radicale interpretazione della platonica assimilazione a Dio, homoíosis theô, intendendola unificazione con Dio, farsi divini, divinizzazione sino alla deificazione, théosis (De filiatione Dei, I, VI; cfr. De possest, 176v/172v; De venatione sapientiae, XVII, XX; cfr. Platone, Theaetetus, 176b, Phaedrus, 253ab, Respublica, 613a-b, Timaeus, 90d, Leges, 716c; Plotino, Enneades, VI 9 4-11; Porfirio, Sententiae, XXV; Dionigi Areopagita, De coelesti hierarchia, I 3, De ecclesiastica hierarchia, I 2-4, De divinis nominibus, I 2, II 11), egli anche subito sottolinea come infine non si tratti che di una adozione dall’alto,

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divina, un esser rapiti attraverso un’apparizione divina e trasformati in vita. La filiazione di Dio o divinizzazione, per coloro che accolgono il Verbo e credono, è una partecipazione per adozione, non la filiazione super-assoluta dell’unigenito Figlio di Dio (De filiatione Dei, I, III). L’intelletto umano, per la teofania che in lui discende, ascende approssimandosi incessantemente ad assimilarsi all’unità infinita e divina. Il farsi simili a Dio non ha fine, il suo termine stesso è infinito (De coniecturis, XVI). I gradi del conoscere umano vedono in Cusano un succedersi di percezione sensibile, comprensione razionale, concezione o intellezione intellettuale, infine contemplazione o intuizione o visione mentale o spirituale, sino all’estasi del rapimento mentale ad opera della divina grazia incomprensibile. Al di là della comprensione razionale è dunque possibile una visione intellettuale, quella della vista mentale intuente. Il poter vedere mentale o spirituale oltrepassa il poter comprendere razionale, anzi, forse persino il mero poter concepire intellettuale. La verità contemplata dalla mente sta comunque al di sopra della ragione, come ogni verità intuita dall’occhio della mente (De possest, 178r/175r; De non aliud, III, XIX; Compendium, I; De apice theoriae, 220r/108v). Attraverso l’ascesa razionale e intellettuale, l’anima giunge infine ad intuire Dio come coincidentia oppositorum sive contradictoriorum – concezione con la quale Cusano nel De non aliud ammette di aver cercato per molti anni la verità che il non altro è prima di tutto. L’anima umana arriva con le sue sole forze, capaci di rinuncia e rilascio, depauperamento e abbandono, anche delle proprie stesse facoltà interiori, al caliginoso muro del Paradiso, luce inaccessibile che dà vertigine e stupore per eccesso di energia, attratta e respinta assieme dalla sua verticalità abissale infinita, paralizzata senza possibilità di ulteriore transito sensibile, razionale, intellettuale. Occorre dunque trascendere il muro della visione invisibile, dove cessa ogni concetto. L’infinito sta al di sopra della coincidenza dei contraddittori, della tenebra razionale, eminente opposizione degli opposti senza opposizione (De visione Dei, IX-XIII; De non aliud, IV, XIX; cfr. I ad Timotheum, VI 16; Giovanni Scoto Eriugena, De divisione naturae, I 72; Eckhart, Predigten, LXXI). Eppure proprio tale caliginoso muro del Paradiso, infinita coincidenza dei contraddittori, è l’asse del mondo, il pilastro supremo fra terra e cielo aderendo al quale soltanto è possibile attendere, a mani vuote, una mistica visione della luce divina, nera per eccesso di biancore, se rapiti per grazia dalla sua increata energia. «Nemo potest Deum mystice videre, nisi in caliginem coincidencie, quae est infinitas» (Epistula ad Ayndorffer, 14.09.1453; cfr. De visione Dei, VI, IX; De possest, 178r/174v, 183v/180v; cfr. 176r/172r). Dio è «infinita essendi forma», infinita forma d’essere al di là della stessa coincidenza degli opposti (Apologia doctae ignorantiae, 12; cfr. De dato Patris luminum, II; De possest, 176r/172r, 182v/179v; Compendium, VIII). Tale mera forma dell’essere mostra semplicemente il che, il quod, non altro che non altro, di id quod quidditas potest, del possest che È in-transitivamente

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la sostanza, la pura forma essendi e ogni possibile essere e creatura. Da un lato, «nel non altro, essendo esso ciò che può essere, semplicissimo e perfettissimo, non cade varietà». Persino la volontà di Dio, «Voluntas Dei est “non aliud”» (De venatione sapientiae, XVI; De non aliud, IX). Il non altro, ciò che può essere o poter-è o potere stesso, è non altro che non altro. Per altro, simultaneamente assieme, nel non altro ogni ente o figura, pensiero e creatura, è presente eternamente nella sua sovrasostanziale e autodefinitoria infinita natura. Egli stesso dunque è niente in niente e tutto in tutto, «in tutto è tutto e in nulla nulla», tutti i contraddittori e i compossibili eppure anche la loro coincidenza assoluta. Come afferma Dionigi Areopagita: «Ed è “in tutto tutto” e in nulla nulla ed è conosciuto da tutto in tutto e da nulla in nulla» (De non aliud, XIV; Dionigi Areopagita, De divinis nominibus, VII 3; cfr. I ad Corinthios, XV 28). Ma il non altro stesso, non altro che non altro, poter-è stesso, sta allora anche al di là di tale abissale parete del Paradiso costituita dall’indifferenza suprema dell’onnicompossibilità irrevocabile in cui la mente umana intuisce l’eccellenza suprema, Spirito perfetto schellingiano. Giunti al mero che di fronte a cui non può che stupire estasiata la ragione, assottigliati vertiginosamente presi e respinti dal vorticare del non aliud quam non aliud sospesi all’impalpabile guida del quam, non resta che attendere senza attesa, intuire a vuoto, correre immoti verso un inizio puro. Solo per grazia accade veramente la visione intuitiva. La grazia dell’incontro personale con Dio, fattosi un Tu nel Figlio di Dio, concrocifissi col quale, con cuore puro, munditia cordis, poter pregare senza parole e raccomandazioni, finché Egli stesso, Tu stesso, liberamente, forse, ti dai a vedere, ti manifesti, ti mostri. Il Dio personale, che supera il veto veterotestamentario «non poteris videre faciam meam» e si dà faccia a faccia, hilare visione, non è conoscibile se non «per sui ipsius ostensionem», sua stessa automanifestazione, purissima luce data dall’alto a nostra teofanica illuminazione (De quaerendo Deum, III; De dato Patris luminum, I; De visione Dei, V, XVII; De possest, 178v/174v, 178v/175r; De non aliud, XXI; Compendium, XIII; cfr. Exodus, XXXIII 18-20; Gregorio di Nissa, De vita Moysis, I 20-21, II 24-34, II 219220; Eckhart, Sermones, XXXII). Nemo scit, nisi qui accipit, tale Deus absconditus per sua grazia rivelato. Al suo autodonarsi possiamo rispondere solo nel giubilo, cantando le sue lodi (De visione Dei, XVII; cfr. Isaias, XLV 15; Apocalypsis, II 17). E ininterrotta lode al Dio che viene incontro è rincorrerlo e contemplarlo e amarlo senza fine. Il lume della fede, ricevuto per grazia da Dio per mezzo di Gesù Cristo, aperta porta al rapimento oltre il muro circondante il Paradiso, illumina infatti l’intelletto e lo fa ascendere, al di sopra della ragione, verso l’apprensione della verità (De dato Patris luminum, V). Per fede riceviamo addirittura il dono della Trinità stessa, la grazia di esser rapiti nella sua perfettissima onnicompossibilità di unità e uguaglianza e amore, di potenza e atto e nesso, di Padre e Figlio e Spirito; tuttavia attraverso il Deus Trinitas la ricerca intellettuale non viene meno, anzi, estasiati nel suo ambitus omnium continuiamo sempre più abissalmente a indagare Dio, verso l’arché

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purissima di cui incessantemente stupire, ora alla sua vivente presenza stessa illuminatrice (De non aliud, V). Raramente Cusano parla espressamente di estasi, invece ricorrentemente di raptus, raptus mentis, rapimento mentale, talvolta di un esser esaltati dall’alto, da Dio (De filiatione Dei, III; Apologia doctae ignorantiae, 16; De sapientia I, 16; De visione Dei, XVI-XVII; De apice theoriae, 219r/107r; cfr. Psalmorum, XXX 23; Filone d’Alessandria, Quis heres, 249-266; Plotino, Enneades, VI 9 11: «homoíoma», «harpastheìs»: rapito, «ékstasis»; Agostino d’Ippona, Sermo, LII 16; Bonaventura da Bagnoregio, Breviloquium, V 6). Forse proprio per rimarcare, contro ogni confusione, che si tratti di un passivo esser rapiti, da Dio, piuttosto che di una attiva o non-volitiva estasi dell’io. Inoltre anche perché comunque il cammino di ascesi spirituale è interiore all’anima, e se di fuoriuscita, uscir fuori di sé si tratta, ciò è rilevato rispetto al corpo, non all’anima, al cui più profondo fondo piuttosto occorre internamente rivolgersi per lì attendere il manifestarsi libero e gratuito di Dio, da colà sopraggiungibile. Inizialmente, Cusano sembra far coincidere immediatamente l’esser rapiti con il vertice mistico dell’ascesi intellettuale. «Perciò l’irradiazione o immissione [della sapienza eterna] nell’anima santa è moto desideroso nell’estasi [in excitatione]. Infatti colui che cerchi con moto intellettuale la sapienza, toccato internamente viene rapito, dimentico di sé, nel corpo quasi fuori del corpo [rapitur in corpore quasi extra corpus] verso la dolcezza pregustata; il peso di tutte le cose sensibili non può trattenerlo dall’unirsi all’attraente sapienza; abbandonato il senso rende l’anima folle di stupefatta ammirazione [stupida admiratione], sicché nulla apprezza tranne essa» (De sapientia I, 16; cfr. II ad Corinthios, XII 2). Lo stupor, stupore o vertigine di fronte al nudo quod della coincidenza dei contraddittori, viene qui immediatamente confuso con la admiratio, meraviglia per la teofania (cfr. anche Apologia doctae ignorantiae, 15; De visione Dei, VI; De sapientia I, 16; De possest, 178v/175r; De venatione sapientiae, XIV). Dopo il 1460, invece, Cusano riconoscerà nettamente lo scarto fra ascesi mistica e rivelazione divina. Quell’abissale fessura inscalabile e insaltabile fra stupore perché il muro della coincidenza dei contraddittori non risulti ancora il Paradiso e meraviglia per la grazia teofanica dell’energia divina, quando donata direttamente dal Dio libero, accoglibile solo da chi si sia evacuato sino a librare soffice nube vaporosa sulle vette di posse ipsum, non aliud e possest a rifrangere il primo eventuale raggio dell’inizio, a correre in alto bianchissimo fiocco di neve traspirante librato dallo spirito divino e sciolto trasparente a ogni colore del creato, in contemplativa creazione teogonica cointuitiva. Secondo Esodo, III 14, sovraeccelsa vetta relazionante l’autonominarsi di Dio, Egli è forma dell’essere, colui che è. «Questo nome conduce dunque lo speculante, al di sopra di ogni senso, ragione e intelletto, alla visione mistica, dov’è la fine dell’ascesa di ogni virtù cognitiva e l’inizio della rivelazione del Dio ignoto. Quando infatti il ricercatore della verità, abbandonata ogni cosa,

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sarà asceso al di sopra di se stesso, e scoprendo di non avere accesso oltre ­verso il Dio invisibile, che si mantiene invisibile, poiché con nessuna luce della sua ragione può esser visto, allora aspetta con devotissimo desiderio quel sole onnipotente, e di essere illuminato dal suo sorgere che scaccia le tenebre, affinché egli possa vedere l’invisibile tanto quanto esso manifesterà se stesso» (De possest, 176r/172r). La visione dell’invisibile è certamente impossibile senza un’ascesi conoscitiva ed esistenziale, sua condicio sine qua non, tuttavia non consegue necessariamente ad essa né è proporzionale al grado di abbandono e ascensione mistica, bensì all’automanifestarsi di Dio, se e quando e quanto Egli per grazia si doni, pura e gratuita teofania, da attendere in umile devozione e celestiale desiderio, senza precatturanti volizioni (De filiatione Dei, III; De dato Patris luminum, I, V). Lo stesso libero automanifestarsi e ri-velarsi di Dio è colto da Schelling nell’interpretare il passo biblico. È il Dio vivente, il Dio in divenire, nascosto e rivelantesi, imperscrutabile eppure personale, che parla a Mosé sul monte Oreb, Egli stesso: ’ehjeh ’ašer ’ehjeh; ich werde seyn, der ich seyn werde; ego ero qui ero (Exodus, III 14; cfr. XIII 269-270, XII 32-33, XI 165, 171ss., 177, Ehrhardt 500, Kittel 135). In attesa e ascolto del Dio vivente, per noi sempre ancora futuro, avvenire, il Dio diveniente, si compie il cammino fatto a passo doppio di filosofia negativa e filosofia positiva. Stupefatti al fondo vuoto della corsa ascetica interiore sino all’estasi inapprensiva e meravigliati di fronte all’universo creaturale, è presso il werdende Gott: der Werdender, der Zukünftiger (XI 165, 172; cfr. XII 103), che sostiamo in moto, in rapita contemplazione. La «conoscenza del vero Dio non è alcuna conoscenza naturale, proprio per questo nemmeno alcuna stazionaria, ma sempre solo in divenire [werdende], perché il vero Dio stesso non è per la coscienza colui che è [der seyende], ma sempre solo colui che diviene [der werdende], colui che proprio in quanto tale si chiama anche vivente, sempre solo colui che appare, che sempre dev’essere invocato e ricordato com’è ricordata un’apparizione» (XI 177). Una via soltanto conduce all’experimentalis contactus (De visione Dei, V), alla viva esperienza, senza enigmi, visio faccia a faccia con Dio: «prósopon pròs prósopon», persona verso persona (De filiatione Dei, III; De possest, 179r/175v, 183v/180v; I ad Corinthios, XIII 12). Tante personali vie, singolarmente percorse e intuite, in cammino verso quell’unica verità che è Dio, fonte di vita e via stessa, da cui possiamo solo esser rapiti. Come ricorda Cusano Dio, Deus, Theós deriva da theorô (theoréo), vedo e corro, precisamente da theáomai e théo, contemplo e corro, da cui theâsthai, vedere, contemplare, e théein, correre (De quaerendo Deum, 19; cfr. De Deo abscondito, 14; De visione Dei, I; Complementum theologicum, XIV; De non aliud, XXIII; De venatione sapientiae, XV; De apice theoriae, 220r/108v; cfr. Platone, Cratylus, 397d; I ad Corinthios, IX 24; Gregorio di Nissa, Contra Eunomium, II 397; Dionigi Areopagita, De divinis nominibus, XII 2; Giovanni Scoto Eriugena, De divisione naturae, I 12). Nell’assimilarsi a Dio, eminentissima via illimi-

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te, contemplare e correre, librarsi in ascensioni e rivolgersi ad intuire, velo- 100 cemente camminare verso l’intransitabile e vedere la luce intangibile, alpi-­ misticamente nera e bianca rifrangentesi in infiniti colori creaturali per la nostra cointuizione laudativa, stupefatta e meravigliata assieme, sempre in corale cammino singolare, orizzontante e verticale, sono le due ali imprescindibili nell’approssimarsi ad accogliere, se ci prenda e si doni, in via, la sua ri-corrente theophanía. Bibliografia 1. Fonti comuni di Cusano e Schelling (anche secondo edizioni recenti) Ippocrate, Opera omnia, a cura di J.A. van der Linden, 2 voll., testo gr. e trad. lat., Gaasbeeck, Lugduni 1665 (SAM, 10.03.1809). Ippocrate, Opera omnia, a cura di S. Mack, 2 voll., Kaliwoda, Wien 1743-1749 (SAM, 10.03.1809). Platone, Opera omnia, Valder, Basel 1534 (SAM, 20.04.1809). Platone, Opera, a cura di J. Burnet, 5 voll., Clarendon, Oxford 1900-1907. Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, 7 voll., Bibliopolis, Napoli 1998-2007. Platone, Parmenide, a cura di F. Ferrari, testo orig. a fronte, BUR, Milano 2004. Platone, Filebo, a cura di M. Migliori, testo orig. a fronte, Bompiani, Milano 2008. Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta, testo orig. a fronte, BUR, Milano 2007. Platone, Timeo, a cura di G. Reale, testo orig. a fronte, Bompiani, Milano 2000. Aristotele, Opera, a cura di I. Bekker, 2 voll., Reimer, Berlin 1831 (a cura di O. Gigon, Berlin 1960-19612). Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, testo orig. a fronte, Bompiani, Milano 2004. Cicerone, Opere politiche e filosofiche, a cura di N. Marinone, testo lat. e tr. it., 2 voll., UTET, Torino 1976, 19882. Filone d’Alessandria, Commentario allegorico alla Bibbia, a cura di R. Radice, testo orig. a fronte, Bompiani, Milano 2005. Giustino Martire, Opera, a cura di J. Lang, 3 voll., Froben, Basel 1565 (SAM, 1833). Origene, Werke, a cura di P. Koetschau, 12 voll., Teubner, Leipzig-Berlin 1899ss. Origene, Traité des principes, a cura di H. Crouzel e M. Simonetti, testo gr.-lat. e tr. fr., 5 voll., Cerf, Paris 1978-1984 (I principi, tr. it. di M. Simonetti, UTET, Torino 1968). Origene, Commentaire sur S. Jean, a cura di C. Blanc, testo gr. e tr. fr., 5 voll., Cerf, Paris 1966-1982 (Commento al Vangelo di Giovanni, tr. it. di E. Corsini, UTET, Torino 1968). Origene, Contre Celse, a cura di M. Borret, testo gr. e tr. fr., 5 voll., Cerf, Paris 19691976 (Contro Celso, tr. it. di A. Colonna, UTET, Torino 1971). Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. Reale, testo gr. e tr. it., Bompiani, Milano 2005. Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin, testo orig. a fronte, Bompiani, Milano 2000. Porfirio, Isagoge, a cura di G. Girgenti, testo orig. a fronte, Bompiani, Milano 2004.

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Pensare l’Uno con Cusano. L’interpretazione di Werner Beierwaltes Davide Monaco

«Unum est, quod omnes theologizantes aut philosophantes in varietate mo- 115 dorum exprimere conantur»1. Con queste parole tratte dal De filiatione dei di Nicolò Cusano si potrebbe sintetizzare l’idea guida fondamentale delle ricerche di Werner Beierwaltes (Klingeberg am Main 1931), volte – secondo il titolo programmatico di uno dei suoi testi principali che rivela l’interesse genuinamente metafisico beierwaltesiano – a Denken des Einen2. L’espressione, che in italiano potrebbe tradursi anche come «Pensiero dell’Uno», è stata resa su indicazione esplicita dello stesso Beierwaltes con «Pensare l’Uno», ossia sottintendendo una sfumatura di significato anche imperativa – «bisogna pensare l’Uno»3 – e che implica una qualche forma di necessità. Lo stesso sottotitolo di quest’opera, Studi sulla filosofia neoplatonica e sulla storia dei suoi influssi, è anch’esso egualmente rappresentativo del cammino di pensiero dello studioso e filosofo tedesco che – spinto dall’intrascendibile necessità del pensiero di pensare l’Uno – ha concentrato la sua attenzione specificatamente sul neoplatonismo antico (Plotino e Proclo in particolare) seguendone le tracce e ricostruendone la Wirkungsgeschichte nella prima teologia cristiana, nel Medioevo, nel Rinascimento, nell’Idealismo tedesco e nella filosofia 1 Nicolaus Cusanus, De filiatione dei, in Nicolai de Cusa Opera omnia, iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita, vol. IV, Meiner, Hamburg 1959, p. 59. 2 W. Beierwaltes, Denken des Einen. Studien zur neuplatonischen Philosophie und ihrer Wirkungsgeschichte, Klostermann, Frankfurt am Main 1985 (tr. it. di L.M. Gatti, Pensare l’Uno. Studi sulla filosofia neoplatonica e sulla storia dei suoi influssi, Vita e Pensiero, Milano 1991). 3 Cfr. G. Reale, Significato e portata del Pensare l’Uno di Werner Beierwaltes, in W. Beierwaltes, Pensare l’Uno. Studi sulla filosofia neoplatonica e sulla storia dei suoi influssi, cit., p. 20. Sul pensiero di Beierwaltes cfr. inoltre: S. Mancini, Beierwaltes e la trascendentalità del pensiero, in «Giornale di Metafisica», 1, 2007, pp. 165-210; S. Mancini, Beierwaltes nella corrente dell’eriugenismo: la duplex theoria e lo statuto trascendentale della manifestazione, in «Annuario filosofico», 22, 2006, pp. 117-134.

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contemporanea, con una capacità di approfondimento che ne fa una delle 116 massime autorità a livello internazionale sulla tradizione neoplatonica e sulla storia dei suoi effetti4. A Cusano Beierwaltes ha dedicato un numero impressionante di saggi in un arco temporale di quasi cinquant’anni di studi, tentando da un lato di ricostruire la relazione del suo pensiero con la filosofia greca e medievale e dall’altro di approfondirne le caratteristiche che ne fanno un pensatore del Rinascimento e aperto alla modernità5. Tali interessi l’hanno condotto ad una 4 Tra i volumi principali pubblicati da Beierwaltes cfr.: W. Beierwaltes, Proklos. Grundzüge seiner Metaphysik, Klostermann, Frankfurt am Main 1965; Id., Platonismus und Idealismus, Klostermann, Frankfurt am Main 1972 [II. ed. 2004]; Id., Identität und Differenz, Klostermann, Frankfurt am Main 1980; Id., Denken des Einen, cit.; Id., Eriugena. Grundzüge seines Denkens, Klostermann, Frankfurt am Main 1994; W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, Klostermann, Frankfurt am Main 1998; Id., Das wahre Selbst. Studien zu Plotins Begriff des Geistes und des Einen, Klostermann, Frankfurt am Main 2001; Id., Procliana. Spätantikes Denken und seine Spuren, Klostermann, Frankfurt am Main 1997. 5 Cfr.: W. Beierwaltes, Deus oppositio oppositorum. Nicolaus Cusanus, De visione Dei XIII, in «Salzburger Jahrbuch für Philosophie», 8,1964, pp. 175-185; Id., Cusanus und Proklos. Zum neuplatonischen Ursprung des non aliud, in G. Santinello (a cura di), Nicolò Cusano agli inizi del mondo moderno, Sansoni, Firenze 1970, pp. 138-140; W. Beierwaltes, Visio absoluta oder absolute Reflexion (Cusan), in Id., Identität und Differenz, cit., pp. 144-175 (tr. it. di S. Saini, Visio absoluta. Riflessione assoluta in Cusano, in Identità e differenza, Vita e Pensiero, Milano 1989, pp. 174-207)]; Id., Subjektivität, Schöpfertum, Freiheit. Die Philosophie der Renaissance zwischen Tradition und neuzeitlichem Bewusstsein, in Aa.Vv., Der Übergang zur Neuzeit und die Wirkung von Traditionen, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1978, pp. 15-31; W. Beierwaltes, Identität und Differenz als Prinzip des cusanischen Denkens, in Id., Identität und Differenz, cit., pp. 105-143 (tr. it. di S. Saini, Identità e differenza come principio del pensiero cusaniano, in Identità e differenza, cit., pp. 145-173 e pp. 365-378); W. Beierwaltes, Über die Cusanus-Ausgabe, in M. Meiner, Ceterum censeo… Bemerkungen zur Aufgabe und Tätigkeit eines philosophischen Verlegers (Festschrift für Richard Meiner zum 8. April 1983), Hamburg 1983, pp. 26-30; W. Beierwaltes, Einheit und Gleichheit. Eine Fragestellung im Platonismus von Chartres und ihre Rezeption durch Nicolaus Cusanus, in Id., Denken des Einen, cit., pp.  368-384 (tr. it. di L.M. Gatti, Unità e Eguaglianza. Una formulazione del problema nel platonismo di Chartres e la sua recezione attraverso Niccolò Cusano, in Pensare l’Uno, cit., pp. 315-328); Id., Das seiende Eine. Zur neuplatonischen Interpretation der zweiten Hypothesis des platonischen Parmenides: das Beispiel Cusanus, in G. Boss-G. Seel, Proclus et son influence, Grand Midi, Zürich 1987, pp. 287-297 [rip. in Id., Procliana. Spätantikes Denken und seine Spuren, Klostermann, Frankfurt am Main 2007, pp. 215-222]; W. Beierwaltes, Visio facialis. Sehen ins Angesich. Zur Coincidenz des endlichen und unendlichen Blicks bei Cusanus, Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, phil.-hist. Klasse, Heft 1, München 1988, 56 pp. [rip. in vers. abbreviata in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft» 18, 1989, pp. 91-124]; Id., Die Cusanus-Ausgabe. Nicolai de Cusa Oper Omnia iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita, in «Jahrbuch der Heidelberger Akademie der Wissenschaften», 1987, pp. 101-106; Id., Eriugena und Cusanus, in Id., Eriugena. Grundzüge seines Denkens, cit., pp. 295-329 (tr. it. di E. Pereoli, Eriugena e Cusano, in Id., Eriugena. I fondamenti del suo pensiero, Vita e Pensiero, Milano 1998)]; Der verborgene Gott, in Id., Platonismus im Christentum, cit., pp. 130-171 (tr. it. di A. Trotta, in «Annuario Filosofico», 14, 1998, pp. 7-24; e tr. it. di M. Falcioni, Il Dio ­nascosto. Dionigi e Cusano, in Id., Platonismo nel cristianesimo, cit., pp. 153-202); Id., «Centrum tocius vite». Zur Bedeutung von Proclos’ «Theologia Platonis» im Denken des Cusanus, in A.Ph. Segonds-C. Steel (a cura di), Proclus et la Théologie Platonicienne, Leuven University Press-Les

Pensare l’Uno con Cusano

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riflessione sulla ricezione cusaniana del neoplatonismo (in particolare di Pro- 117 clo, Dionigi e Giovanni Scoto) e sulla sua originale riformulazione di alcuni Leitmotiv del pensiero neoplatonico. L’esposizione della relazione storica è stata tuttavia sempre inseparabilmente vincolata all’interesse sistematico verso i concetti fondamentali che fanno del pensiero cusaniano un’unità completa in se stessa in divenire. Alla base del pensiero cusaniano dell’Uno sta per Beierwaltes l’interpretazione delle prime due ipotesi del Parmenide di Platone non come attinenti due oggetti diversi, ma come riguardanti lo stesso principio. Sulla scia del pensiero di Dionigi e delle esigenze dettate dalla fede nella rivelazione cristiana, l’«Uno-sovraessente», che è prima e al di là dell’essere, assolutamente irrelato e trascendente, e l’«Uno-che-è», essere in senso pieno, intelletto che pensa se stesso e che coordina la molteplicità, rigorosamente distinti da Plotino e Proclo, vengono identificati da Cusano6. L’Uno non viene più concepito come l’assolutamente irrelativo, bensì alla luce della Trinità come 118 ­unità trinitariamente auto-relazionale e auto-costituentesi che malgrado il suo auto-­dispiegamento riflessivo deve essere concepita come non-moltepliBelles Lettres, Louvain-Paris 2000, pp. 629-651 [rip. in Id., Procliana. Spätantikes Denken und seine Spuren, cit., pp. 191-214]; W. Beierwaltes, Mystische Elemente im Denken des Cusanus, in W. Haug-W. Schneider-Lastin (a cura di), Deutsche Mystik im abendländischen Zusammenhang. Neu erschlossene Texte, neue methodische Ansätze, neue theoretische Konzepte. Kolloquium Kloster Fischingen 1998, Niemeyer, Tübingen 2000, pp. 425-448; W. Beierwaltes, Das Verhältnis von Philosophie und Theologie bei Nicolaus Cusanus, in «­ Philotheos», 1, 2001, pp. 150-176 [rip. in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 28, 2003, pp. 65-102 (tr. it. Il rapporto tra filosofia e teologia in Cusano, in Identità cristiana e filosofia, a cura di G. Ferretti, Rosenberg&Sellier, Torino 2002, pp. 131-166)]; W. Beierwaltes, Hans Gerhard Senger. Ein Leben mit Cusanus, in «Litterae Cusanae», 2, 2002, pp. 50-65; Id., Nicolaus Cusanus: Innovation durch Einsicht aus der Überlieferung – paradigmatisch gezeigt an seinem Denken des Einen, in A. Aertsen – M. Pickave (a cura di), Herbst des Mittelalters?, de Gruyter, Berlin-New York 2004, pp. 351-370 [rip. in Procliana. Spätantikes Denken und seine Spuren, cit., pp. 165-190 (tr. it. di M. Falcioni, Qual è l’elemento cristiano del neoplatonismo di Niccolò Cusano?, in Neoplatonismo pagano versus neoplatonismo cristiano. Identità e intersezioni, a cura di F. Romano, CUECM, Catania 2007)]; Id., Dank und Gedanken, in W. Beierwaltes-H. G. Senger (a cura di), Nicolai de Cusa Opera Omnia. Symposium zum Abschluß der Heidelberger Akademie-Ausgabe. Heidelberg, 11. und 12. Februar 2005, Winter, Heidelberg 2006, pp. 9-19; Id., Visio dei. Die mystische Theologie des Nicolaus Cusanus im Kontext benediktinischer Spiritualität, in «Studien und Mittleitungen des Benediktinerordens und seiner Zweige», 117, 2006, pp. 81-96; Id., Theophanie. Nicolaus Cusanus und Johannes Scottus Eriugena. Eine Retractatio, in «Philotheos», 6, 2006, pp. 153-175 [rip. in K. Reinhardt-H. Schwaetzer (a cura di), Nikolaus von Kues in der Geschichte des Platonismus, Roderer, Regensburg 2006, pp. 103134]; W. Beierwaltes, Venatio sapientiae. Das Nicht-Andere und das Licht, in corso di stampa; Id., Prefazione a D. Monaco, Deus Trinitas. Dio come non altro nel pensiero di Nicolò Cusano, Città Nuova, Roma 2009. Alcuni dei principali saggi di Beierwaltes su Cusano sono ora raccolti in traduzione spagnola nel volume: W. Beierwaltes, Reflexión metafísica y espiritualidad, tr. spagnola di A. Ciria, EUNSA, Pamplona 2005. 6 Sull’interpretazione neoplatonica e cusaniana del Parmenide platonico cfr. W. Beierwaltes, Das seiende Eine. Zur neuplatonische Interpretation der zweiten Hypothesis des platonischen Parmenides: das Beispiel Cusanus, cit., pp. 215-222; W. Beierwaltes, Denken des Einen, cit., pp. 193-225.

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ce e non-differente, prima di ogni molteplicità e differenza. Viene inoltre così a delinearsi una dialettica paradossale di trascendenza e immanenza del Principio divino che è, al medesimo tempo, omnia in omnibus, «tutto in tutto» e omnium nihil, «nulla di tutto»7. Tale dialettica, che per Beierwaltes è un motivo portante già del pensiero neoplatonico, assume in Cusano, alla luce dei concetti cristiani di creazione e di incarnazione e della riflessione ­dionisiano-eriugeniana, una nuova configurazione. L’immanenza del principio nell’ente viene considerata in modo più fecondo grazie alla diversa valutazione della creatura: il mondo diventa essenzialmente teofania, rivelazione, immagine, specchio, partecipazione, esplicazione di Dio e senza che ciò annulli o consumi la trascendenza divina. Tale concezione che costituisce l’impianto neoplatonico-cristiano al fondo del pensiero del cardinale è per Beierwaltes il fondamento e il filo rosso dell’originale elaborazione di quei nomi enigmatici o immagini concettuali divine – coincidentia oppositorum, idem, visio absoluta, possest e non aliud – che rappresentano uno degli elementi più originali della speculazione cusaniana8. Tali nomi che non sono esaustivi del Principio divino poiché, in quanto parola, sempre frutto della ratio finita umana, sono piuttosto immagini enigmatiche che rinviando a ciò che in senso proprio resta innominabile vengono impiegate per approssimarsi sempre più, anche se mai in modo definitivo, alla praecisio absoluta dell’essere in sé di Dio. La dialettica libera e non necessaria tra il Deus absconditus e il Deus ­incarnatus di nascondimento e manifestazione propria al Dio ri-velato cristiano non nega o impedisce il pensiero, bensì addirittura lo esige e lo suscita 119 mostrandone al contempo il limite. Da un lato dunque il linguaggio e il pensiero a causa della loro struttura determinante non sono in grado di esprimere Dio, che non è qualcosa di determinato, dall’altro vi è la necessità costante da parte del linguaggio e del pensiero di dover volgere la loro attenzione al fondamento che rende possibile il dire e il pensare9. Ecco perché nonostan7 Cfr.: W. Beierwaltes, Deus oppositio oppositorum. Nicolaus Cusanus, De visione Dei XIII, cit.; W. Beierwaltes, Identität und Differenz als Prinzip des cusanischen Denkens, cit.; W. Beierwaltes, Eriugena und Cusanus, cit.; W. Beierwaltes, Der verborgene Gott. Cusanus und Dionysius, cit.; W. Beierwaltes, «Centrum tocius vite». Zur Bedeutung von Proclos’ «Theologia Platonis» im Denken des Cusanus, cit. Sul tema, oltre agli studi di Beierwaltes cfr.: J. Stallmach, Das Nichtandere als Begriff des Absoluten, in Aa.Vv., Festschrift für Bischof Dr. Albert Stohr, Matthias-Grünewald-Verlag, Mainz 1960, pp. 329-335 [ripubblicato in J. Stallmach, Ineinsfall der Gegensätze und Weisheit des Nichtwissens. Grundzüge der Philosophie des Nikolaus von Kues, Aschendorff, Münster 1989]; M. Alvarez-Gómez, Die verborgene Gegenwart des Unendlichen bei Nikolaus von Kues, Verlag Anton Pustet, München-Salzburg 1968, pp. 179-199; K. Kremer, Gott – in allem alles, in nichts nichts. Bedeutung und Herkunft dieser Lehre des Nikolaus von Kues, in «MFCG», 17, 1986, pp. 188-219; J. Stallmach, Immanenz und Transzendenz im Denken des Cusanus, in L. Honnefelder-W. Schüssler (a cura di), Transzndenz. Zu einem Grundwort der klassischen Metaphysik, Schöningh, München 1992, pp. 183-192; D. Monaco, Deus Trinitas, cit., pp. 221-237. 8 Cfr. W. Beierwaltes, Der verborgene Gott, cit. 9 Cfr. W. Beierwaltes, Der verborgene Gott, cit.

Pensare l’Uno con Cusano

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te tutte le riserve metodiche rispetto alla possibilità di dare nome al Deus ­absconditus, alla mai abbandonata professione di docta ignorantia, Cusano ha sempre tentato di riguadagnarlo alla parola creando nuovi percorsi, concetti, nomi o immagini concettuali, di cui nessuno può considerarsi uno stadio definitivo. Il concetto di infinitas absoluta è l’orizzonte primario di tutte le determinazioni cusaniane che cercano di esprimere l’essere di Dio come un assoluto. Tale infinitas, in quanto negazione del finito, negatio negationis, va intesa come coincidenza di ogni opposizione nel senso di eguaglianza che esclude ogni differenziazione individuale, complicatio unitaria ed uguagliante che abbraccia in sé tutto il possibile. L’infinità di Dio è rischiarata dunque primariamente da Cusano attraverso l’idea di coincidentia oppositorum che mostra la differenza dell’origine divina dal piano del finito. Il finito, infatti, è sempre qualcosa di determinato attraverso la sua identità e quindi altro o differente dall’altro di cui manca, alterità che può progredire sino all’opposizione contraria o contraddittoria; esso è pertanto un insieme con un’intensità sempre diversa di unità e alterità, identità e differenza. L’origine divina è piuttosto come coincidentia oppositorum il massimo assoluto di unità e di autoidentità; essa è in se stessa la negazione di tutto il finito, in-finitum. Quello che nell’ambito del finito è determinato nel suo essere attraverso l’alterità e l’opposizione, nell’infinito è superato nella sua alterità o opposizione in quanto in esso l’attualmente massimo, che è allo stesso tempo il minimo senza differenza, è tutto quello che può essere. Pensare l’Unità assoluta come coincidentia oppositorum permette di comprendere, secondo un noto adagio cusaniano, che tra il finito e l’infinito non c’è proporzione10. Beierwaltes sa cogliere, tuttavia, come la dottrina della coincidentia oppositorum già nel De docta ignorantia abbia due momenti: secondo il primo, infatti, Dio complica gli opposti in unità, ma per l’altro, come nella tradizione neoplatonica, Dio supra omnem oppositionem est11. Paradossalmente di conseguenza secondo il De docta ignorantia Dio è oltre gli opposti e, al mede- 120 simo tempo, la loro coincidentia. Non a caso nel successivo De visione Dei (1453)12 Cusano non identifica il pensiero della coincidentia oppositorum con l’infinità assoluta, ma lo riconduce a un livello o a una condizione precedenti rispetto alla visione dell’infinito: la coincidentia oppositorum diventa una

10 Cfr. Nicolaus Cusanus, De docta ignorantia, I, 3, in Nikolaus von Kues, Philosophisch-­ theologische Werke, vol. I, Meiner, Hamburg 2002, p. 12: «Ex se manifestum est infiniti ad finitum proportionem non esse». 11 Nicolaus Cusanus, De docta ignorantia, I, 4, in Nikolaus von Kues, Philosophischtheologische Werke, cit., p. 18. 12 Sul De visione Dei cfr.: W. Beierwaltes, Visio absoluta oder absolute Reflexion (Cusanus), cit.; W. Beierwaltes, Visio facialis. Sehen ins Angesich. Zur Coincidenz des endlichen und unendlichen Blicks bei Cusanus, cit.; W. Beierwaltes, Visio dei. Die mystische Theologie des Nicolaus Cusanus im Kontext benediktinischer Spiritualität, cit.

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forma ancora concettuale del pensiero intellettuale che per toccare l’infinito deve essere superato in un vedere che non è né comprensivo né oggettuale. Cusano utilizza dunque la metafora del «muro del Paradiso» per indicare la coincidentia oppositorum oltre cui vivrebbe Dio13. Tale modifica è dovuta secondo Beierwaltes al rischio che il concetto di coincidentia potesse provocare una falsa comprensione dell’unità di Dio come una coesistenza di opposti o come un loro perdurare, tuttavia tale variazione non significa che l’idea della coincidentia sia soppressa, bensì piuttosto, che pensata sino in fondo nella metafora del «muro del paradiso», sia segno di un’esperienza del limite del concetto. Per Beierwaltes dunque la metafora del muro degli opposti non segna nessuna modificazione fondamentale nel pensiero di Cusano, ma una precisazione e una chiarificazione delle implicazioni di ciò che già in esso era contenuto14. Per il cammino verso la visio Dei Cusano è dunque cosciente che la coincidentia oppositorum non può valere come espressione immediata e allo stesso tempo ultima dell’infinito, come il suo modo originario di essere, ma come un livello necessario per passare all’infinitas absoluta15. Malgrado ciò l’infinito non può essere visto senza un attraversamento del pensiero della coincidenza degli opposti o contraddittori perché esso è l’essere complicativo al di là dell’opposizione e della contraddizione. La coincidentia opposositorum al di là di ogni opposizione può dunque essere pensata, per lo studioso tedesco, secondo un’altra espressione cusaniana come oppositio oppositorum sine oppositione16. Tale formulazione, che Cusa121 no riporta a Dionigi, ma che non trova un riscontro letterale in lui – anche se potrebbe essere ricostruita dai diversi elementi del suo pensiero – trova secondo Beierwaltes nell’opera di Giovanni Scoto una sua sicura fonte17. Infatti 13 Cfr. Nicolaus Cusanus, De Visione Dei, in Nicolai de Cusa Opera omnia, iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita, vol. VI, Meiner, Hamburg 2000, pp. 35, 40-41 14 Cfr. W. Beierwaltes, Mystische Elemente im Denken des Cusanus, cit. 15 Cfr. De visione Dei, cit., pp. 35 ss. L’idea di Dio come ultra o super coincidentiam oppositorum è contenuta già in un’annotazione a margine a Dionigi, cfr. L. Baur, Nicolaus Cusanus und Pseudo Dionysius im Lichte der Zitate und Randbemerkungen des Cusanus, Winter, Heidelberg 1941, marg. 589, e in Nicolaus Cusanus, Apologia doctae ignorantiae, in Nicolai de Cusa Opera omnia, iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita, vol. II, Meiner, Hamburg 1932, p. 15. 16 Cfr. Nicolaus Cusanus, De visione Dei, cit., p. 46; Id., Apologia doctae ignorantiae, cit., p. 15; Id., De theologicis complementis, in Nicolai de Cusa Opera omnia, iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita, vol. V, f. 2a, Meiner, Hamburg 1998, p. 78; Id., De non aliud, in Nicolai de Cusa Opera omnia, iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita, vol. XIII, Meiner, Leipzig 1944, p. 47. 17 L’idea di Dio come oppositio oppositorum sine oppositione viene da Cusano attribuita a Dionigi senza che sia possibile trovarne riscontro diretto nel testo dionisiano. Cfr. Nicolaus Cusanus, Apologia doctae ignorantiae, cit., p. 15; Id., De non aliud, cit., p. 47. Cfr. sul tema: L. Baur, Nicolaus Cusanus und Pseudo Dionysius im Lichte der Zitate und Randbemerkungen des Cusanus, cit., p. 51. La dottrina dell’oppositio oppositorum sine oppositione è divenuta un topos dell’interpretazione cusaniana di Beierwaltes, di cui sul tema cfr.: W. Beierwaltes,

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nel I libro del Periphyseon si trova l’espressione oppositorum oppositio, che nella copia posseduta da Cusano è stata evidenziata con una nota a margine18. La formula oppositio oppositorum sine oppositione ha per Beierwaltes due sensi. Secondo il primo l’opposizione degli opposti va intesa come opposizione a tutti gli opposti, ossia come alterità o differenza assoluta, senza opposizione, dall’opposizione. Questo primo senso dice l’incommensurabile alterità del Principio. Sine oppositione in sé e fuori di sé vuol dire che l’essere dell’origine assoluta è assoluta semplicità e unità. Il concetto di oppositio oppositorum sine oppositione si mostra così come un’interpretazione della coincidentia poiché indica l’oltre-categoriale differenza da tutto del Principio divino attraverso l’alterità e l’opposizione ai derivati determinati in quanto unità al di là degli opposti. Il secondo senso in cui il concetto di oppositio oppositorum approfondisce il pensiero fondamentale della coincidenza degli opposti sta invece nel suo indicare allo stesso tempo l’origine dell’opposizione degli opposti. L’opposizione assoluta è dunque il fondamento che opera in tutti gli opposti facendo sì che in quanto reciprocamente opposti siano quel che sono; in tal modo è il fondamento della loro distinzione e della loro autoidentità o autoeguaglianza. Il principio complicativo è coincidenza assoluta, infinita uguaglianza e così allo stesso tempo fondamento e origine del dividersi e dell’esplicarsi degli opposti come elementi costitutivi del mondo. È tutto in tutto, ogni cosa è la sua contrazione sebbene lui resti incontraibile. In lui tutto è identico a lui. L’oppositio oppositorum è origine dell’opposizione degli opposti in quanto è la complicazione di essi. Dio è dunque oppositio oppositorum in quanto è il fondamento della rispettiva opposizione degli opposti, è l’opposto che opera in tutti gli opposti e 122 che tutti gli opposti determina. Tuttavia, poiché non è possibile pensare nulla di opposto rispetto al fondamento universale degli opposti, Dio, paradossalmente rispetto al primo aspetto, è attiva opposizione rispetto ad ogni altra cosa. Dio nega quindi di sé tutto ciò che è opposto, per cui proprio in quanto oppositio oppositorum non è da questa affetto o determinato. Questa interpretazione risponde ad un elemento centrale del pensiero neoplatonico approfondito da Cusano: Dio, nonostante o proprio per il suo essere in ogni essere, è separato da ed è innalzato al di sopra ogni essere, e pertanto è tutto e nulla insieme. In siffatto modo l’idea di coincidentia oppositorum non sarebbe superata nel senso di un essere lasciata alle spalle, bensì, secondo il significato dell’aufheben hegeliano o del tollere latino superata por-

Deus oppositio oppositorum. Nicolaus Cusanus, De visione Dei XIII, cit.; Id., Eriugena und ­Cusanus, cit.; Id., Mystische Elemente im Denken des Cusanus, cit. 18 Cfr. Iohannes Scottus, Periphyseon (De divisione naturae), Libro I, ed. critica di I.P. Sheldon-Williams e E. Bieler, The Dublin Institute for Advanced Studies, Dublino 1968, p. 206 (517 C); J. Koch, Kritisches Verzeichnis der Londoner Handschriften aus dem Besitz des Nikolaus von Kues, in «MFCG», 3, 1963, p. 98.

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tandola a un livello di verità superiore, approfondita come oppositio oppositorum sine oppositione aprendo la strada a quel nome divino che rappresenta una delle cifre del pensiero cusaniano: il non aliud. Secondo Beierwaltes il non aliud rappresenterebbe una fusione e una radicalizzazione non solo della coincidentia oppositorum e dell’oppositio oppositorum sine oppositione, ma anche dei nomi enigmatici di idem e di possest19. Nel suo primo saggio cusaniano Deus oppositio oppositorum (1964)20 lo studioso tedesco interpreta il non aliud come espressione dell’unità del Principio con se stesso a causa della sua alterità o differenza assoluta da tutto l’altro, ricollegandolo al senso di trascendenza implicito nell’espressione oppositio oppositorum sine oppositione e individuandolo come formulazione negativa dell’immanenza del Principio espressa positivamente dal nome enigmatico di idem. Più in generale secondo lo studioso tedesco ci sarebbe un rapporto di unità tra l’idem e il non aliud: il non altro sarebbe la formulazione negativa dell’idem, l’espressione negativa di ciò che l’identità affermativamente esprime21. Ancora in Identität und Differenz als Prinzip des cusanischen Denkens (1978), in polemica col norvegese Wyller, Beierwaltes ha affermato che l’idem è la formulazione linguisticamente positiva del non aliud22. Il non aliud rappresenterebbe, dunque, secondo il principio cusaniano per cui le negazioni sono più adeguate delle affermazioni, una radicalizzazione in senso negativo dell’idem. Nondimeno per Beierwaltes, oltre che dell’idea di idem, il non aliud rappresenta un approfondimento dell’idea di possest23. Possest e non aliud sono 123 entrambi una precisazione e un’articolazione del pensiero dell’Unità infinita intesa attraverso la coppia concettuale di complicatio ed explicatio. Come il possest, il non aliud è unione di poli che si negano o sono opposti all’interno della stessa dimensione, unione che precede assolutamente la dimensione dell’opposizione e attraverso la quale questa, come quella della differenza, è resa possibile. Il possest precede assolutamente possibilità e realtà ed è il fondamento che permette il loro rapporto, così come il non aliud precede l’identità e la differenza rendendo possibile il loro rapporto. Il non aliud è senza alterità, non manca di nulla che potrebbe limitarlo in se stesso e nella sua opera creatrice verso l’esterno, è una forza o una potenza unita trinitariamente alla quale giustamente Cusano attribuisce il predicato di virtus actu infinita24. Il non aliud è possest, forza creatrice che ha tutto il possibile in sé.

Cfr. W. Beierwaltes, Der verborgene Gott. Cusanus und Dionysius, cit. Cfr. W. Beierwaltes, Deus oppositio oppositorum. Nicolaus Cusanus, De visione Dei XIII, cit. 21 Cfr. W. Beierwaltes, Deus oppositio oppositorum. Nicolaus Cusanus, De visione Dei XIII, cit. 22 Cfr. W. Beierwaltes, Identität und Differenz als Prinzip des cusanischen Denkens, cit. 23 Cfr. W. Beierwaltes, Identität und Differenz als Prinzip des cusanischen Denkens, cit. 24 Cfr. Nicolaus Cusanus, De non aliud, cit., p. 16. 19 20

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La stessa concezione di Dio come visio absoluta, approfondita da Beierwaltes in decisivi contributi sul tema25, contiene alcuni importanti elementi teorici del pensiero cusaniano sviluppati dal non aliud. Innanzitutto concepire Dio come visio absoluta significa per Beierwaltes concepirlo come visione o pensiero di se stesso che, vista la coincidenza di vedere, pensare e creare in Dio, indica un suo autocostituirsi riflessivamente o, secondo il De non aliud, il suo essere conceptus absolutus26, autocostituzione di se stesso in quanto autoriflessione assoluta. Tale unità non si costituisce, pertanto, in un modo tale che essa, come nel contesto procliano, escluda la relazionalità, piuttosto essa è e vive proprio di questa. Il vedere nell’assoluto è, proprio mediante l’esclusione della differenza puro concepire se stesso, esprimere se stesso, vedere se stesso. L’assoluto vedere tuttavia non è chiuso in sé, ma s’apre alla costituzione dell’alterità la quale è nondimeno connessa alla propria origine. Il vedere assoluto, come il non aliud, penetra, comprende e rende vivo ogni ente come sua essenza e insieme lo trascende. Tanto poco si può infatti sottrarre il vedere assoluto ad un ente quanto questi potrebbe rinunciare alla propria identità. Il mondo attraverso il vedere assoluto che costituisce l’essere diventa allora teofania, manifestazione, esplicazione, immagine dell’assoluto, secondo il modo della contrazione. La finitudine dell’uomo diviene il luogo di manifestazione e di operazione dell’assoluto in quanto è il vedere infinito che vede e si manifesta nel vedere finito. La visio absoluta è dunque, secondo l’interpretazione beierwaltesiana dell’Uno-Dio cusaniano, allo stesso tempo trascendente, in quanto assoluta rispetto al vedere finito, e immanente, in quanto fondamento del vedere finito. Come il vedere-se-stessi è un autocostituirsi di Dio e in tal modo fondamento per la creazione ad extra, così l’autodefinizione assoluta del non aliud implica una definizione di ogni altra cosa. 124 In quest’unico atto trinitario il soggetto della visione, il visibile e l’atto del soggetto sono reciprocamente distinti e ciononostante devono essere pensati come una relazionalità in sé unitaria o come un’unità in sé dinamica in virtù del concetto che vede e crea se stesso. L’eliminazione nel De non aliud della differenza mediante un triplice non aliud segnala proprio la contemporanea unità della visio o dell’auto-definizione del concetto assoluto. Per Beierwaltes, a partire dagli anni del De Beryllo (1458) e del De principio (1459) Cusano avverte la necessità di una revisione della teoria del Principio assoluto sulla base della concezione filosofica dell’unità di Proclo ed è proprio grazie al non aliud che il concetto di Uno viene precisato concettualmente e terminologicamente. Nessuno dei «nomi» coniati da Cusano, per Beierwaltes, riesce a dire in una sola parola l’unità di trascendenza e immanenza in o come Dio, né a chiarirla meglio, del non aliud27. Il non aliud

25 Cfr. W. Beierwaltes, Eriugena und Cusanus, cit.; W. Beierwaltes, Visio absoluta oder absolute Reflexion (Cusanus), cit. 26 Nicolaus Cusanus, De non aliud, cit., p. 49. 27 Cfr. W. Beierwaltes, Der verborgene Gott. Cusanus und Dionysius, cit.

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indica che Dio è differenza assoluta rispetto a tutto ciò che è altro e allo stesso tempo che non è diverso dall’altro, ma opera in esso quale sua essenza, come fondamento individuante, singolarizzante e distinguente. Allo stesso tempo in quanto non aliud est non aliud quam non aliud28, esso definisce se stesso e definendosi, poiché la definizione non va intesa in senso logico-formale, ma ontologico (non è il semplice accertamento di ciò che già è), crea se stesso, si autocostituisce trinitariamente. Il non aliud rinvia così all’autodispiegarsi trinitario di Dio, di cui il compimento è la Trinità come non aliud triniter repetitum. La stessa autodefinizione come autocreazione ne fa poi il presupposto della definizione dell’altro, la non-alterità dell’assoluto che si manifesta nella singola realtà, in quanto ogni cosa è non altro da quello che è, è il fondamento costitutivo dell’esistenza di ogni singolo ente, della sua identità e individualità. Il non aliud, oltre a essere definizione che definisce ogni cosa, è tuttavia allo stesso tempo anche ciò che è definito in ogni altro, di modo che in ogni altro si può vedere in fondo teofanicamente solo il non altro che in quello si definisce. In ogni singola realtà si manifesta pertanto il non altro come non altro da essa, allo stesso tempo però la sua manifestazione rinvia alla sua trascendenza. Uno dei molti meriti degli studi beierwaltesiani è stato quello di mostrare come Cusano intese l’enigma del non aliud come una precisazione e una continuazione della teoria procliana dell’Uno. Il non aliud infatti, come mostrano gli importanti marginalia cusaniani a Proclo, in particolare alla Teologia platonica e al Commento al Parmenide, rappresenta una radicalizzazione o una reinterpretazione dell’Uno assoluto procliano29. Entrambi sono: origine 125 che in sé è oltre tutti gli opposti; prima di affermazione e negazione; da nulla altro; prima dell’altro; prima di identità e alterità; nulla di tutto e allo stesso tempo causa di tutto. Se forti sono le affinità tuttavia non minori sono le divergenze. Mentre l’Uno assoluto procliano è in se stesso senza relazione, al di là di tutte le opposizioni e gli enti relativi, solo in sé, il cusaniano non aliud, pur essendo oltre tutti gli opposti, è in sé essenzialmente trinitario. Inoltre, per la sua irrelatività l’Uno procliano non pensa in quanto anche se pensasse solo se stesso sarebbe già relazione a sé, mentre il cusaniano non aliud è concetto assoluto pensante e definiente se stesso e tutte le cose. ConNicolaus Cusanus, De non aliud, cit., p. 4; p. 12. Cfr. H.G. Senger, Die Exzerpte und Randnoten des Nikolaus von Kues zu den lateinischen Übersetzungen der Proclus-Schriften. Theologia Platonis-Elementatio theologica, Winter, Heidelberg 1986; K. Bormann, Die Exzerpte und Randnoten des Nikolaus von Kues zu den lateinischen Übersetzungen der Proclus-Schriften. Expositio in Parmenidem Platonis, Winter, Heidelberg 1986. Sulle annotazioni marginali di Cusano ai testi di Proclo cfr.: W. Beierwaltes, Philosophische Marginalien zu Proklos-Texten, in «Philosophische Rundschau», 10, 1962, pp. 49-90; Id., Cusanus und Proklos. Zum neuplatonischen Ursprung des non-aliud, in G. Santinello (a cura di), Nicolò Cusano agli inizi del mondo moderno, cit., pp. 138-140. Sul rapporto tra il pensiero procliano e quello cusaniano cfr. W. Beierwaltes, Das seiende Eine. Zur neuplatonischen Interpretation der zweiten Hypothesis des platonischen Parmenides: das Beispiel Cusanus, in G. Boss-G. Seel (a cura di), Proclus et son influence, cit. 28 29

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tro l’esclusione procliana del pensiero e per tanto anche dell’autoriflessione dall’Uno – e Cusano, annota Beierwaltes, era molto cosciente di questo presupposto – sta il non aliud trinitario come conceptus absolutus che si autodefinisce riflessivamente30. La triunitas divina si evidenzia per Cusano come autofondazione che definisce se stessa e che in questa autodefinizione – da pensare ontologicamente – si muove fuori da se medesima con il pensiero e con l’amore. Certamente l’auto-differenziazione che si realizza in questo movimento non deve essere intesa, come nell’Uno non pensante, come un’alterità addizionale che si separa realmente e che turba e distrugge l’unità, ma come l’auto-apertura che non permette in assoluto la scissione né l’opposto del non altro primo nel non altro secondo, non distinto da quello grazie alla mediazione del non altro terzo che fonde entrambi nella trinità assoluta31. Malgrado le affinità, le differenze fondamentali tra il non aliud cusaniano e l’Uno assoluto procliano sono date dal contesto cristiano in cui pensa e opera Cusano, in particolare dalla necessità di riflettere sulla trinità, la creazione, l’incarnazione e la personalità di Dio. Proprio sulla base di tali presupposti, scrive Beierwaltes, Cusano pensando il non aliud come auto-concetto trinitario e la sua paradossale coincidenza di trascendenza e immanenza è andato 126 decisamente al di là di Dionigi e di Proclo. Il non aliud sistematizza e porta a compimento felicemente la riflessione cusaniana sull’Uno rappresentando la cifra concettuale della sua caccia al nome di Dio32. Sulla base della concezione cusaniana dell’Uno è possibile comprendere una delle tesi più feconde per la filosofia contemporanea dello studioso tedesco, frutto delle sue intense ricerche su Cusano e sul neoplatonismo. Secondo Beierwaltes la riflessione henologica cusaniana e neoplatonica mette in dubbio la legittimità della nota tesi di Heidegger secondo cui la storia della metafisica occidentale sarebbe caratterizzata dall’oblio della differenza ontologica tra essere ed ente. Infatti, se con «differenza ontologica» si intende la distinzione qualitativa tra essere ed ente, per cui l’essere deve essere pensato, cooriginariamente col nulla, come «non dell’ente»33 o come il «totalmente altro rispetto all’ente»34, allora si può legittimamente affermare con Beierwaltes che è proprio della concezione cusaniana dell’Uno-Dio come non aliud (e della concezione neoplatonica dell’Uno in genere) l’intento di pensare l’asso-

30 Cusano era ben cosciente delle differenze: basti pensare all’annotazione marginale 152 alla Theologia Platonis in cui egli scrive «Ostendit PLATONEM principalem causam ponere supra intellectum». Cfr. H.G. Senger, Die Exzerpte und Randnoten des Nikolaus von Kues zu den lateinischen Übersetzungen der Proclus-Schriften. Theologia Platonis-Elementatio theologica, cit., marg. 152. Sulle differenze tra il sistema procliano e quello cusaniano cfr.: W. Beierwaltes, Cusanus und Proklos. Zum neuplatonischen Ursprung des non-aliud, cit.; Id., «Centrum tocius vite». Zur Bedeutung von Proklos’ Theologia Platonis im Denken des Cusanus, cit. 31 Cfr. Nicolaus Cusanus, De non aliud, cit., p. 13. 32 W. Beierwaltes, Der verborgene Gott. Cusanus und Dionysius, cit. 33 M. Heidegger, Zur Seinsfrage, Klostermann, Frankfurt am Main 1959, p. 38. 34 M. Heidegger, Zur Seinsfrage, cit., p. 40.

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luta differenza del principio da ogni ente e non solo di rappresentarlo come un differente, che anche se inteso superlativamente resta rinchiuso nella stessa dimensione. Per Heidegger il pensiero occidentale avrebbe colto sempre e solo l’essere come «fondamento», mancando il «non-pensato» della metafisica, ossia il carattere eventuale dell’essere, l’ereignet dell’Ereignis, il suo Abgrund, l’essere senza fondamento. Tale critica tuttavia non coglie la paradossale unità di accesso positivo e negativo al Principio primo elaborata dal neoplatonismo e da Cusano e isolandone il lato affermativo disconosce l’ulteriorità e la trascendenza dell’Uno-Dio, che è sì fondamento di tutto, in quanto l’ente che è altro rispetto all’Uno-Dio può essere solo attraverso esso-egli stesso, ma che al medesimo tempo è nella sua essenza oltre l’esser-fondamento e l’esser-causa, ossia Esso o Egli – come già sapeva finemente Plotino – è causa non «in sé», ma solo «per noi»35. Quando lo chiamiamo causa infatti esprimiamo piuttosto «noi stessi»: il nesso dell’altro con l’identico, ma non questo identico stesso. In Proclo la paradossale unità di accesso negativo e positivo troverà adeguata espressione nella concezione dell’Uno come fondamento senza fondamento o causa senza causa36. Per Cusano, come abbiamo visto, Dio è «principio di tutto» e, al medesimo tempo, sua negazione, «nulla di tutto». Benché il prin127 cipio operi come causa o essenza di tutte le cose, non viene affatto pensato a livello dell’ente, bensì esso è nel tutto restando nulla di tutto, è nel mondo non nel modo del mondo. L’interpretazione heideggeriana della metafisica occidentale come essenziale e destinale oblio dell’essere ridotto ad ente è possibile dunque, paradossalmente, sulla base di un altro oblio, quello dell’autentico significato speculativo e storico del pensiero platonico e neoplatonico da parte di Heidegger stesso. Tale critica ad Heidegger e la connessa rivalutazione della henologia neoplatonica rappresentano sicuramente uno dei portati più preziosi che grazie ai suoi profondissimi studi sul neoplatonismo Beierwaltes consegna alla riflessione filosofica contemporanea.

35 Cfr. Plotinus, Enneades, VI 9, 3, 49-54, in Id., Opera, a cura di P. Henry-H.-R. Schwyzer, 3 voll., Desclée de Brouwer, Paris 1951-1973. 36 Cfr. Proclus, Theologia Platonis, II 9, 58, 24, in Id., Théologie platonicienne, 6 voll., ed. H.D. Saffrey-L. G. Westerink, Les Belles Lettres, Paris 1968-1997.

De Possest Vincenzo Vitiello

1. Il De Possest1 è un’alta opera di Teologia trinitaria. Alta e coraggiosa, 129 dacché pone nel cuore stesso del Deus-Trinitas il non-essere. Già altra volta ho rilevato che il versetto giovanneo: tò phôs en tê skotía phaínei, kaì he skotía autò ou katélaben («la luce splende nella tenebra, e la tenebra non l’ha accolta»: Gv, 1.5), solleva un arduo problema teologico, ché afferma esservi (esservi stato, esservi da sempre: era, ên) en archê non solo ho Lógos pròs tòn theón, il Verbo presso-verso Dio, sì anche he skotía, la tenebra2. La tenebra del Nulla: non è illegittimo, infatti, nominare non-essere la tenebra, se Luce è vita, e cioè: essere. Skotía, il Nulla che non è Dio, il Nulla che contrasta Dio, respingendolo – ou katélaben: non l’ha accolto – coeterno a Dio? Non come ipotesi, bensì come presupposto, questa tesi è presente in Agostino, nelle Confessiones, dove spiega la differenza della perfezione del Figlio – generato da Dio-Padre ex sese – rispetto all’imperfezione del cosmo creato ex nihilo: «Fecisti enim coelum et terram non de te: nam esset aequale unigenito tuo ac per hoc et tibi […] et ideo de nihilo fecisti coelum et terram»: XII, 7.7). Tesi, peraltro, densa di conseguenze sul piano antropologico, ché pone l’origine del male «fuori» ed «oltre» l’uomo, che pure è ‘implicato’ nella teo-cosmo-­ gonia sin dall’origine, se dobbiamo stare a quanto dice Giovanni: en tò kósmo ên, kaì ho kósmos di’autoû eghéneto, kaì ho kósmos autòn ouk égno («era nel mondo, e attraverso lui il mondo fu generato, e il mondo non lo conobbe»: Gv, 1.10). Affermazione, questa dell’origine del male «fuori» ed «oltre» l’uomo, totalmente esplicita nella distinzione tra peccato e colpa – ovvero nella concezione del ‘peccato originale’.

1 Cito da: Nicolaus Cusanus, De Possest, in Nicolai de Cusa Opera omnia, iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita, vol. XI.2, a cura di R. Steiger, Meiner, Hamburg 1973. 2 Cfr. V. Vitiello, E pose la tenda in mezzo a noi…, Albo Versoio, Milano 2007, cap. I: «La Trinità e il Sacro. La trascendenza del corpo», pp. 17-48.

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È in questo contesto teo-cosmo-antropo-logico che si inserisce – intenzionalmente – il De Possest. Per convincersene, basta prestare attenzione all’inizio, alla domanda che l’abate Johannes e frate Bernardus rivolgono al Car130 dinale, riguardo alla possibilità di vedere gli «invisibilia» (cfr. De Possest, pp. 3-4). Il problema non è gnoseologico, è ontologico, meglio: onto-­teologico, ché concerne Dio e gli enti, e solo secondariamente il conoscere. L’abate cita – non proprio correttamente – un passaggio del primo capitolo dell’Epistola ai Romani, ove Paolo parla dell’ira (orghé) di Dio per l’empietà (asébeia) e l’ingiustizia (adikía) non soltanto dei Giudei ma degli uomini tutti, che, quantunque gli aórata di Dio, la sua eterna potenza e la sua divinità, si siano manifestati nelle opere della creazione, in cui sono visibili (kathorâtai), non solo non hanno glorificato (edóxasan) né ringraziato (eukarístesan) Dio, ma lo hanno abbassato a immagine d’uomo quando non d’animale – volatile o quadrupede o rettile. Il brano paolino è tutto giocato sulla dialettica aórata / kathorâtai, invisibile / visibile, Aniconico / Icona: siamo nel cuore della teologia paolina, che diverrà il pilastro su cui poggia la teologia trinitaria e, quindi, la teodicea cristiana: il peccato in tanto può essere ascritto alla malvagità dell’uomo, in quanto l’Invisibile si è reso visibile, ancorché per speculum in aenigmate (di’esóptrou en ainígmati: I Co, 13.12). Agostino darà compiuta formulazione a questa teologia nel De Trinitate, particolarmente nei Libri (V-VII) in cui si sofferma sulla ‘problematica’ distinzione del Figlio dal Padre. C’è da chiedersi, infatti: se è l’intera Trinità, e non il solo Padre, che ‘invia’ il Figlio – «a Patre et Filio missus est idem Filius» (II, 5, 9) – come distinguere il Padre dal Figlio? Agostino, richiamandosi alla distinzione di Ilario, spiega che il Padre, il Figlio, lo Spirito sono ciascuno la Trinità tutta, il Padre in quanto Aeternitas, il Figlio in quanto Imago, lo Spirito in quanto Munus. E noi ancora chiediamo in che l’aeternitas del Padre si differenzi dall’imago del Figlio, essendo l’imago stessa aeterna. La risposta non può essere che quella suggerita dal versetto 3 del cap. 1 del Vangelo di Giovanni: pánta di’autoû eghéneto kaì chorìs autoû eghéneto oudè hén («tutte le cose furono generate attraverso lui e senza di lui nulla fu generato»: Gv, 1.3). L’autós è il Lógos, che in quanto tale opera come il Noûs di Plotino, che pollà epoíese tèn mían (Enneadi, VI, 7, 15). Il Figlio, icona del Padre, icona della Trinità, dispiega quanto nel Padre permane en hení, in uno, nei mére chrónou, nell’aionica immagine mobile del tempo. Nell’aeternitas è l’aídios di Paolo – nel latino di Agostino s’ode l’eco del greco di Paolo, in cui risuona la lingua di Platone. La dialettica aórata / kathorâtai è tutta platonica, come testimoniano le pagine del Timeo ora evocate (37c-38c), e quelle sulla chôra (52a-b), nonché le altre della VII Lettera sull’alethós on (342a-e), strettamente connesse alle più note della Repubblica sull’idéa toû agathoû, sole intellegibile, phôs e zoé pur esso, ma su cui non è possibile fermare lo sguardo (506d-509b). Anche il politico-filosofo è solo politeiôn zográphos (501c), solo ‘pittore’ di costituzioni. Il Perfetto si dà solo in immagine, nell’imperfetto.

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Perché questi riferimenti – al passato? Perché mi sembrano essenziali per comprendere l’effettiva apertura del Cusano al ‘futuro’, il vero senso – anche nel significato di direzione – dell’influenza ch’egli esercitò sui pensatori del 131 tempo a lui successivo: da Bruno a Vico, e oltre. 2. Ed allora, proprio per determinare il ‘senso’ di questa influenza, cominciamo col dire che del non-essere che ancora nelle Confessiones era presente ‘accanto’ a Dio, nel De Trinitate non v’è più parola. Perché non ve n’è bisogno. È infatti tutto ‘complicato’ nel Padre, che come essere assoluto, essere privo di negazione, è negazione assoluta della pluralità degli enti, che in quanto molti sono l’uno limite dell’altro, l’uno negazione dell’altro. Se omnis determinatio est negatio – come dirà altro platonizzante filosofo, ebreo d’origine, come Paolo –, allora la positività assoluta del Padre sarà negazione della negazione. Talché il Non–essere è già tutto nell’Essere, che però lo tiene stretto a sé, legato, subordinato, mezzo e non fine. Chi lo scioglie dall’Essere è il Figlio, di’autoû pánta eghéneto. Nel che è implicito che la condizione del male e del peccato è il Figlio. Condizione non ‘causa’, spiegherà Schelling in pagine di rara profondità speculativa ed ermeneutica, comparando, opponendo il Figlio – che si sottomette al Padre, offrendo se stesso e l’opera sua, il creato – a Satana, che, al contrario, mira ad insignorirsi del mondo. Eppure Schelling ammonisce a non disprezzare (verachten) né ingiuriare (lästern) Satana3. In certo modo Satana libera l’uomo dal peccato. Per contrastare Dio, per non accoglierlo (l’ou katélaben di Paolo), non erano sufficienti le sole forze dell’uomo. L’uomo – al più – collabora. E può collaborare, perché v’è stata l’opera del Figlio che ha sciolto il non-essere dall’essere. 3. Questo scioglimento aveva un alto prezzo, relegava Dio in una trascendenza inafferrabile, dividendo totalmente l’essere di Dio dal conoscere Dio. Quale Dio? Il Dio Padre, il Dio aídios, eterno e semplice. Il Dio che è oltre l’amore, dacché la sua ‘volontà’ da nulla è vincolata: quel che è, è «quia (Deus) vult, nec est alia causa quaerenda» – così Occam4. È l’esplicazione teologica di Malachia 1. 2-3: Ho amato Giacobbe, ho odiato Esaù. Ma può ancora essere detto ‘salvifico’ questo Dio? Sciolto il Figlio dal Padre, non è, il Padre, il vero pericolo della Trinità? Il «quia vult» non può comprendere anche il non-volere? Non è l’Aeternitas del Padre, il suo essere-aídios, ‘oltre’ ­l’Imago del Figlio, in un’oltranza che il grido dell’ora nona rivela in tutta la sua tragicità – periculum summum, per l’uomo non solo, sì anche per la Tri­

3 Cfr. F.W.J. Schelling, Philosophie der Offenbarung, trad. it. con testo tedesco a fronte di A. Bausola, riv. da F. Tomatis, Bompiani, Milano 20022, Lezione XXXIII, pp. 296-297 e 298-299. 4 Guglielmo di Occam, Commento alle sentenze, I d 14 q. 2 G, cit. da H. Blumenberg in Säkularisierung und Selbstbehauptung (Teil 1-2 di Die Legimität der Neuzeit), Suhrkamp, Frankfurt/M. 1983, p. 178.

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132 nità? La gran tela di Grünewald mostra con l’e-videnza della figura che svanisce nella Gloria del Padre, la potenza della Perfezione, della Compiutezza, del Nulla della negazione della negazione. Che è poi la potenza dell’Uno: egò en autoîs kaì sù en emoí, hína ôsin teteleioménoi eis hén («io in loro e tu in me, affinché siano perfetti (compiuti), in uno»: Gv, 17.23). E questa perfezione, questa compiutezza, è dettata dall’amore stesso: hína ginóske ho kósmos hóti sú me apésteilas kaì egápesas autoùs kathòs emè egápesas («affinché il mondo conosca che tu mi hai inviato e hai amato loro come hai amato me»: ib.). 4. A questa conclusione estrema, a cui l’ultima teologia scolastica fu pericolosamente prossima, Cusano intese far fronte. E, qui la forza e il coraggio del suo pensiero, davvero anticipatore, che senza nulla respingere di quella conclusione, anzi facendola propria, l’usa come punto di partenza per procedere oltre. Dico il punto d’arrivo del ragionamento di Cusano prima della sua articolata e ardua argomentazione. E lo espongo con la brevità di una formula, dacché ci serve, ora, solo da Leitfaden. La formula è questa: La potenza della perfezione là si mostra compiutamente, dove non si limita a negare soltanto le molteplici negazioni delle determinatezze determinate – degli essenti –, ma nega anche la negazione di queste negazioni, e piegandosi su di sé, nega se stessa. Là è perfetta – compiuta – la negazione, dove nega il negare medesimo. (Se qualcuno avverte in questa formulazione echi hegeliani, ha buon udito – aggiungo che la ‘cosa’ è voluta, intenzionale; e vedremo anche perché). 5. Cusano comincia da lontano, dal concetto di dýnamis. Non traducibile immediatamente con ‘potenza’, perché dýnamis, all’inizio, è sinonimo di aóriston, indeterminato. Riferendosi a Protagora e Anassagora, Aristotele afferma che costoro credono di parlare dell’essere (tò òn légein) ma di fatto parlano del non-essere (perì toû mè óntos légousin), infatti l’indeterminato è essere in potenza e non in atto (tò gàr dynámei òn kaì mè entelecheía tò aóristón estin: Metaph., IV, 4, 1007b 28-29). E proprio in quanto aóriston, la dýnamis non è soggetta all’arché tês antipháseos. Ma quale lo spazio ‘logico’ proprio della dýnamis? La domanda è ineludibile se non si vuole abbandonare il principio di contraddizione al caso – come dire: all’eventualità di invasioni di campo dell’indeterminato. Ma delimitare lo spazio logico dell’indeterminato significa: determinarlo, fin qui e non oltre. Significa assoggettare anche tò aóriston all’arché tês antipháseos. È quello che fa Aristotele e che si può seguire passo passo nel Libri della Metafisica, IX e XII in particolare, ove attraverso una serie di distinzioni e sottodistinzioni – da dýnamis toû poieîn e dýnamis tou patheîn, o páschein, a dynámeis metà lógou e dynámeis álogoi (cfr. Metaph., IX, 2, 1046a 38-1046b 28) – giunge ad affermare la priorità 133 dell’enérgheia sulla dýnamis. Próteron enérgeia dynámeos è l’evidenza somma per Aristotele, il phanerón (Metaph., IX, 8, 1049b 5): come, infatti, senza una causa in atto è possibile il passaggio dalla potenza all’atto? Da questa

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somma evidenza deriva l’eterna medesimezza del tutto (tautà aeí: Metaph., XII, 6, 1072a 9), ovvero: la necessità del Tutto. La ferrea catena del principio di contraddizione, del principio che non crolla, lega Dio stesso, l’enérgheia teléia, l’atto perfetto, compiuto che non può non essere quello che è. 6. Sin da Paolo la teologia cristiana parla contro questo principio, contro la logica mondana, che insuperbisce e gonfia, pretendendo di estendere il suo dominio su ciò che è oltre il mondo. Non Dio dipende dal principio, ma il principio da Dio. Cusano – come poi anche Schelling – critica il principio con le armi stesse di chi per primo lo ha formulato. E le armi sono i concetti di dýnamis, che possiamo ora rendere subito con potenza, ed enérgheia, atto. La distinzione – dice – vale per le cose finite che non sono all’origine di sé, che cioè hanno la loro potenza ad essere fuori di sé, non vale per l’essente che è origine di sé, che è potenza d’essere ciò che è. Si badi: questa concezione dell’essente, qui ex sese oritur, non è affatto la stessa dell’essente in atto. In questa v’è solo l’atto – actus sine potentia –, in quella v’è insieme con l’atto la potenza, la potenza di sé. Dio non soltanto è – ma Dio è quello che può essere, quello che ha la capacità d’essere. Ora il Dio atto puro, il Dio aristotelico, che soltanto è, è necessariamente. Il Dio di Cusano che è quello che la sua potenza d’essere lo fa essere, è possest. È quello che ha la potenza d’essere. Qui potenza ed atto si rinviano reciprocamente, in un circolo in cui il primo è l’ultimo e l’ultimo è primo. L’atto di Dio, infatti, è tale per la potenza d’essere che lo fa essere quello che è; insieme (háma, simul) questa potenza d’essere è essa medesima, qua talis, atto. Il Dio di Aristotele, atto in atto, ha escluso da sé il non-essere, è, e solamente è, ha fuori di sé il mondo. Il Dio di Cusano ha in sé il non-essere: è quello che è, e tutto quello che non-è. Ha in sé il mondo. Con un balzo Cusano, accogliendo in sé Aristotele e l’esito ultimo della teologia scolastica, si porta fuori ed oltre Aristotele e la teologia scolastica. Il tema è – è ancora – quello del rapporto tra Aídios e icona, o, se si preferisce, aeternitas ed imago. 7. Aídios è l’eternità che non si vede, ma che ha in sé – complicite – tutte le immagini che sono dispiegate – explicite – nel mondo. Come nega la singola immagine, così ne ha bisogno, l’esige e proprio nella sua determinata determinatezza, o singolarità. La negazione del mondo è insieme la creazione del mondo. La dialettica hegeliana del concetto è estremamente vicina alla relazione cusaniana tra complicatio ed explicatio quantunque Hegel non ne faccia cenno. L’hegeliano concetto universale, infatti, se non è nessuno dei singoli concetti particolari – colore non è bianco, né rosso, né giallo… –, è tale perché li comprende tutti: non è nessuno d’essi per esserli tutti5. 134 Similmente il Dio cusaniano che non è ‘veloce’, dacché nessuna distanza di5 Cfr. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in Id., Werke in zwanzig Bänden, Suhrkamp, Stuttgart 1969-1970, 5-6, II, pp. 274-279.

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vide in Lui inizio e fine, ma ‘velocissimo’ secondo un’accezione superlativa che non ammette superiore, in quanto ogni distanza in Lui è già da sempre superata. Velocissimo ed immobile, quindi (cfr. De Possest, pp. 13, 24-25, 63-64). Cosa apprendiamo da questo e da altri consimili esempi che Cusano abilmente adduce – quali: «odor enim sine odore et dulce sine dulcedine et sonus sine sono» (ib., p. 83) –? Che la negazione del negativo – la negazione della molteplice figura del mondo – si ripiega su di sé: Dio non è il mondo e simul lo è: non lo è explicite, ma complicite. Il Dio di Cusano non ha il nulla fuori di sé, ma in sé, e non asservito all’essere, ma pari all’essere. De Possest, l’unità inscindibile di posse ed esse, dice appunto questo: Dio è tò aóriston e tò horistón, indeterminatezza e determinata determinazione. Aídios e icona, aeternitas ed imago – come si diceva. Per comprendere nella sua specificità questa complicatio di complicatio ed explicatio – in linguaggio hegeliano: questa Verbindung der Verbindung und der Nicht-Verbindung6 –, è opportuno, se non necessario, sottolineare la distinzione tra la posizione teologica cusaniana e quella all’apparenza, ma solo all’apparenza, prossima, di Meister Eckhart. Invero le divide un abisso. Anche Meister Eckhart, in particolare nel trattato Von Abgeschiedenheit, pone l’uomo in Dio, al punto da affermare – direi più con la hýbris dell’invasato di Dio che con la Demütigkeit, la humilitas del cristiano da lui stesso esaltata come unica via per giungere alla suprema virtù dell’Abgeschiedenheit – «ich zwinge Gott zu mir»7. Ma, quale uomo? Non l’uomo mondano, ma l’uomo nobile – quegli la cui essenza riposa già da sempre in Dio. Non l’uomo, quindi, ma l’essenza dell’uomo. Non l’uomo, ma la divinità dell’uomo. All’uomo, all’uomo mondano non altro compito resta che la separazione, il distacco e l’abbandono del mondo, la negazione del mondo. Nel mondo l’uomo – l’uomo nobile – deve separarsi dall’uomo, da sé, deve tornare a Dio. Ad essere esclusivamente in Dio. V’è qui una sola negazione: la negazione del concetto universale, la negazione che colpisce il particolare, il determinato, il mondo. Questa negazione è incapace di completarsi in negazione della negazione, di farsi posizione, di tradursi in creazione. La creazione è anzi abbandonata. La creazione è un incidente di percorso nella ‘storia’ teogonica. Il Figlio deve tornare al Padre – libero dal mondo. Sciolto dal mondo. Libero da sé. 135 Cusano unisce ciò che il mistico ha diviso. Cusano è l’antignostico ­kat’exochén. Non abbandona il mondo, non nega l’opera del Figlio, al contrario fa del Figlio la dóxa theoû, della creazione l’epifania di Dio, del mondo la contrazione di Dio – la sua attuazione-determinazione, concrezione in figura. Possiamo ripetere per il Dio di Cusano quello che Hegel disse per definire il proprio Dio, il Dio del suo cristianesimo filosofico: Dio è spirito in quanto

Cfr. G.W.F. Hegel, Systemfragment, in Werke, cit., 1, Frühe Schriften, p. 422. Cfr. Meister Eckhart, Von Abgeschiedenheit, ed. critica a cura di E. Schaefer, Röhrscheid, Bonn 1956, p. 210. 6 7

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vive in comunità, in quanto è comunità8. Possiamo integrare questa citazione con un’osservazione teologica di stampo rigorosamente trinitario: l’unità del Padre col Figlio in Cusano – l’unità di complicatio ed explicatio – è l’unità del Deus-Trinitas espressa nella Terza Persona, che – notava Agostino – è l’unica a non avere un suo nome proprio, suo nome essendo quello dell’intera divinità; ed è giusto che non l’abbia – continuava Agostino –, perché Egli è della Trinità la Trinità, della Trinità il vincolo che lega Padre e Figlio (cfr. De Trinitate, 5, 11.12). Trinità che Cusano estende a tutte le cose:«sine potentia et actu atque utriusque nexu non est, nec esse potest quicquam» (De Possest, p. 58). 8. Ed ora la domanda che non può esser ulteriormente rinviata: perché questa insistenza nel raffrontare il nostro Autore con Hegel (che nelle sue Lezioni di Storia della filosofia non fa cenno alcuno al Cusano, mentre dedica parecchie pagine a Böhme)? La ragione non è storiografica, ma filosofico-storica. E cioè, essendo il mio interesse – è bene esplicitarlo – vòlto da sempre più a quanto accade nel sottosuolo della storia che non a ciò che si svolge alla luce della coscienza storiografica, mi sono soffermato non sull’influenza del pensiero cusaniano esplicitamente e criticamente accolta dai filosofi che gli sono succeduti nel tempo, ma sulla convergenza tra le posizioni di pensiero che si sono imposte nell’età moderna con le tesi fondamentali di Cusano, indipendentemente dalla consapevolezza che i singoli filosofi ne abbiano avuto, o potuto avere. V’è una logica delle cose – che sono poi le domande che il mondo pone all’uomo, e quindi ai filosofi – ch’è più forte, penso, di qualsiasi soggettiva ragione ‘critica’. 9. Torniamo dunque al problema. Al problema del non-essere e della ­ egazione. Portando a compimento la negazione col piegarla su se stessa, n Cusano indica la via per superare la crisi epocale segnata dalla scissione tra essere e pensiero operata dall’ultima teologia scolastica. La negazione della negazione ricongiunge il Figlio al Padre. In termini giovannei ri-porta il Ver- 136 bo, il Lógos verso e presso (prós) Dio. Il Figlio e, quindi, il mondo: pánta di’autoû eghéneto. Il mondo è ‘salvato’ – Dio potrà creare infiniti mondi, e nessuno di essi sarà a Lui pari, ma tutti saranno in Lui, eternamente in lui, complicite; e fuori di lui explicite – nel tempo. L’essere nel tempo non toglie eternità alle cose – e non soltanto alla loro essenza che non passa, sì anche al tempo, che torna ad essere immagine eterna, aionica, dell’eterno, aídios, in movimento. Così essere e pensiero si ricongiungono: in Dio, in quanto l’oltranza del Padre (Hén) esige il Figlio (tà pánta); nell’uomo che non per

8 «Er [sc. der Geist] ist seine Gemeinde»: G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, Meiner, Hemburg 19526, p. 543, ma cfr. anche le pagg. successive sino alla 548; ed altresì Id., Vorlesungen über die Philosophie der Religion, ed. Lasson, trad. it. E. Oberti e G. Borruso, voll. 2, Zanichelli, Bologna 1973, I, pp. 106-107; II, pp. 377-427.

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forza sua, ma per la mediazione del Figlio riceve la ‘rivelazione’, che è insieme Parola, Verbo e mondo. La contractio Dei è die Offenbarung Gottes, la manifestazione di Dio. Dio si scrive nel mondo. La natura come scrittura di Dio. Deus sive natura. Il razionalismo moderno ha le sue premesse in Cusano. E non si dica che nel razionalismo moderno cade la docta ignorantia, perché la distinzione tra ciò che si può conoscere in modo distinto e ciò che invece respinge le distinzioni logiche, la si ritrova ancora nella gnoseologia di Galilei, come distinzione tra conoscenza divina e conoscenza umana, nell’ontologia di Spinoza, come distinzione tra natura naturans e natura naturata, per non dire di Vico che unendo ontologia e gnoseologia sottolineava che nella lingua latina «minuere et diminutionem et divisionem significat»9. Non si conosce se non distinguendo, dividendo, diminuendo, per cui «quo pacto infinitum in haec finita descenderit, si vel Deus id nos doceret, assequi non possemus […] Mens humana finita est et formata; ac proinde indefinita et informia intelligere non potest, cogitare quidam potest: quod vernacula lingua diceremus: «può andarle raccogliendo, ma non già raccôrle tutte» (ib., Cap. IV, § I, p. 78). Potrei continuare a lungo – ripetendo una storia già narrata e spiegata da autorevoli storici del pensiero: la storia del neo-platonismo nel pensiero moderno. E sarebbe cosa del tutto superflua. Richiamo solo l’attenzione su un punto – non certamente ignoto – ma che mi permette di tornare a Cusano mostrando l’aporia di fondo del suo pensiero più alto: il pensiero del ­«possest». 10. Per quanto il pensiero moderno mantenga la distinzione tra c­ omplicatio ed explicatio nelle varie formulazioni che ne ha dato, è innegabile ch’esso ha insistito – del tutto in linea col pensiero cusaniano – sul nexus necessario di complicatio ed explicatio. Ho già citato una celeberrima espressione di Hegel, ora voglio dapprima ricordare un pensiero di altro aristotelico tedesco, il più grande prima di Hegel: Leibniz. E non credo stupisca la mia definizione di entrambi, Leibniz e Hegel, come ‘aristotelici’: è ben nota la forte presenza 137 di Aristotele nel neo-platonismo, e in Plotino in particolare. Con ciò non voglio ridurre la portata della mia definizione, piuttosto sottolinearla: si vedrà tra breve cosa intendo significare con essa. Dunque il pensiero di Leibniz: «per il fatto stesso che esiste qualcosa piuttosto che nulla, dobbiamo riconoscere che nelle cose possibili, ovvero nella stessa possibilità o essenza, vi è un’esigenza di esistenza, o, per dir così, una pretesa di esistere: in una parola, che l’essenza tende per se stessa all’esistenza. Donde segue direttamente che tutti i possibili, ossia tutto ciò che esprime l’essenza o realtà possibile – tendono con pari diritto all’esistenza, in proporzione alla loro quantità di essenza o di realtà, cioè al grado di perfezione che

9 G. Vico, De antiquissima Italorum sapientia, trad. it. con testo latino fronte a cura di M. Sanna, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2005, Cap. I, § I, p. 22.

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contengono. Non è altro la perfezione che la quantità d’essenza»10. Si noti lo slittamento semantico del concetto di essenza da «possibilità» a «realtà», attraverso il medio del concetto di «perfezione». A commento un passo hegeliano, dalla Fenomenologia: «La forza dello spirito è grande quanto la sua estrinsecazione (Äusserung), la sua profondità tanto profonda per quanto esso, lo spirito, osa nell’esporsi (in seiner Auslegung) diffondersi e perdersi (sich zu verlieren)»11. La negazione della negazione così com’è stata pensata da Leibniz e Hegel, sulla scia di Cusano, comporta la negazione del possibile nel necessario. Non credo che ci sia bisogno di citare passi di Hegel e/o neppure Leibniz a documentare questa mia affermazione – tanto la cosa è nota. Quello che piuttosto è interessante mostrare è come in Cusano il possest si traduce – immediatamente – in necessità. E, si badi, non solo in necessità di Dio, ma in necessità di tutte le cose. Ancora una citazione, anzi due, sempre dal De Possest. La prima: «Oportet ipsum (sc. Deum) esse super omnem oppositionem. Nam in ipso non potest esse alteritas, cum sit ante non esse. Si enim post non esse esset, non esset creator sed creatura de non esse producta. In ipso igitur non esse est omne quod esse potest. Ideo de nullo alio creat, sed ex se, cum sit omne quod esse potest» (De Possest, p. 86; corsivo mio). La negazione della negazione, la negazione piegata su di sé, porta al trionfo dell’essere sul non-essere, ma si badi non come esito, bensì come premessa. La negazione in tanto è possibile portarla su di sé in quanto è compiuta dall’essere, che è oltre ogni opposizione, oltre il nulla e oltre la distinzione potenza/atto. Questo esser-oltre l’opposizione potenza/atto adesso non è il circolo sempre compiuto di potenza ed atto che comporta l’attualità della potenza come la potenzialità dell’atto. Adesso non v’è circolo affatto: l’atto è prima della potenza, la potenza sempre solo seconda: è la potenza dell’atto, per cui tutto quanto non ancora è, ma può essere, è già in Dio: nella complicatio sempre in atto. Nell’essere di Dio necessario, la cui possibilità consiste nell’aver già in sé quel 138 che può essere da Lui creato, esplicato nel mondo e come mondo, e nell’avere la potenza (che ora dice: forza, Kraft) di farlo. Nel possest di Dio l’est prevale sul posse, di tanto che tutto si rivela necessario. Tutto – non solo Dio. Seconda citazione: «Cum enim praecedat ipsa aeternitas non-esse, quod se in esse producere nequit, necesse est omnia per aeternum esse de non-esse seu non exstantibus produci. Aeternum igitur esse est necessitas essendi omnibus» (ib., p. 80; corsivo mio). Cos’altro aggiungere, se non la conclusione aristotelica «tautà aeí»? L’ultimo brano di Cusano che s’è citato riprende infatti alla dimostrazione aristotelica dell’antecedenza dell’atto alla potenza: se non c’è una causa in atto come può la potenza passare in atto?

10 G.W. Leibniz, Sull’origine radicale delle cose (1697), in Id., Saggi filosofici e lettere, a cura di V. Mathieu, Laterza, Bari 1963, pp. 78-79 (corsivi miei). 11 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 15.

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11. Dopo aver gettato uno sguardo in avanti, al futuro di Cusano, ci siamo vòlti indietro, al passato, mostrando come Cusano resti nella logica della ‘necessità’ che ha dominato il pensiero occidentale – e sarebbe interessante un confronto tematicamente condotto tra la conclusione cui giunge Cusano e l’inizio della riflessione di Avicenna sul rapporto tra necessario e possibile che anticipa molti dei temi – problemi e soluzioni – del grande Spinoza12. È che Cusano costringe a ri-pensare l’intera tradizione del pensiero occidentale, nella quale porta inquietudini nuove ed antiche risposte. Purtroppo queste hanno prevalso, specie nella ricezione storiografica del Cusano, tutta giocata sul concetto della anticipazione del modello epistemologico della modernità. Ma come s’è cercato di mostrare la modernità a cui si ricollega la filosofia di Cusano – la modernità com’è stata interpretata da Hegel e Heidegger, e Cassirer e Blumenberg, è la modernità della ‘fondazione del mondo’, la modernità della soggettività come subjectum, hypokeímenon, la modernità che dopo aver piegato Dio al mondo, Dio all’esigenza di ‘salvare’, ‘serbare’ il mondo, ha capito che a questo compito poteva provvedere direttamente il mondo. Se il mondo è in eterno in Dio, e non solo complicite, sì anche explicite, per il nexus necessario di complicatio ed explicatio, perché più allora la complicatio? È il tragitto di Hegel – su cui abbiamo insistito abbastanza: il tragitto dalla tesi della Verbindung der Verbindung und der Nicht-Verbindung, traduzione del legame necessario di complicatio ed explicatio, alla affermazione che la forza dello spirito è tale per quanto riesce a realizzarsi nel mondo e come mondo. 139 Ma questa lettura del moderno non è tutto il moderno: dal tronco cartesiano è sorto non solo il ramo hegeliano del trionfo della soggettività, sì anche quello kantiano della kenosi del soggetto, dell’Ich denke tanto poco ‘sicuro’ di sé da dirsi anche Er oder Es, das Ding welches denkt, vorgestellt = X13. Nel cuore dell’Io Kant pose il mistero del pensiero – che giunge sempre troppo tardi per definire quello che soprattutto gli interessa e l’inquieta: se stesso, il suo limite da cui dipendono le sue possibilità. Che è poi il grande problema che travaglia il pensiero cristiano, da sempre – da Paolo – diviso tra affermazione della parvità del proprio pensiero e superbia nella propria fede14.

12 Cfr. Avicenna, Metafisica, Scienza delle cose divine, dal Libro della Guarigione, trad. it. con testo arabo a fronte e testo latino in nota, introduzioni, note e apparati a cura O. Lizzini, Prefazione, rev. del testo latino, cura editoriale di P. Porro, Bompiani, Milano 2002, I, sezz. IVVI; B. Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata, trad. it. con testo latino a fronte di G. Durante, note di G. Gentile e G. Radetti, Sansoni, Firenze 1963, I: Def. I, Prop. XXIX, Prop. XXXIII: scholium I; II: Prop. XXXI: corollarium, Prop. XLIV: demonstratio e scholium; IV: Def. III, Prop. XII: demonstratio. 13 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Akademie Textausgabe, de Gruyter, Berlin 1968, A (Bd. IV), 346, B (Bd. III), 404. 14 Non potendo qui ‘dare ragione’ di questa affermazione, mi trovo costretto a rinviare al mio Ripensare il cristianesimo. De Europa, Ananke, Torino 2008.

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12. Il De Possest è magnifico documento – monumento – di questa scissione. Chi predilige l’inquietudine delle domande alla certezza delle risposte che in esso si trovano, può tornarvi proficuamente, ché una traccia del cammino da fare è già ben delineata: piegare non solo la negazione sulla n ­ egazione – come sulla sua scia Hegel ha in seguito fatto, e al meglio – ma il possibile su se stesso, interrogandosi non sulla possibilità dell’essere soltanto, ma dello stesso possibile. Possest, scrive Cusano, è unità di posse ed esse, «ideo nulla creatura est possest. Quare omnis creatura potest esse quod non est. Solum principium, quia est ipsum possest, non potest esse quod non est» (De Possest, p. 33). Ad evitare l’assurdo di un principio che sottrae sé a se stesso, di un principio che non è principio, di un ‘esser-possibile’ non possibile ma necessario – e tanto da espandere la sua necessità a tutte le cose, come Cusano stesso afferma, e lo si è citato di sopra –, è giocoforza dividere ciò che egli ha unito, liberando, sciogliendo totalmente e radicalmente il posse dall’esse. E dacché non è dato parlare del possibile con la grammatica e la sintassi dell’essere che inchioda quello che definisce alla necessità d’essere quello che è15; e dacché «omne quod per nos scitur non sciatur sicut sciri potest – potest enim melius sciri» (ib., p. 51) – appare ineludibile questa conclusione, che vogliamo esprimere con le sue parole, nel suo chiaro latino: «quanto igitur intellectus intelligit conceptum Dei minus formabilem, tanto maior est» (ib., p. 50). Pensata rigorosamente, la docta ignorantia impone un diverso modo di pensare, un diverso stile: pensare riducendo. Che è insieme abito etico, un modo di abitare il mondo diversamente: il pensiero come esercizio di kenosi. Diverso modo di pensare, diverso stile di vita. Nuovo? Direi, piuttosto, antico. Il primo filosofo l’aveva nominato thanátou meléte.

15 Per un’ampia e argomentata trattazione del tema, non posso che rinviare al mio recentissimo Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’io alla logica della seconda persona, ETS, Pisa 2009.

LETTURE

Se l’elenchos aristotelico è in grado di coinvolgere Adriano Fabris

1. Ciò che m’interessa, nelle riflessioni che seguiranno, è discutere se ed 141 eventualmente in qual misura, cioè a partire da quali condizioni ed entro quali limiti, il dispositivo dell’argomentazione enunciato e messo in opera da Aristotele nel libro Γ dei suoi trattati di metafisica è in grado davvero di coinvolgere. Con l’uso del verbo ‘coinvolgere’ non intendo affatto indicare la messa in opera di un processo di convincimento psicologico, né il raggiungimento di una qualche forma di assenso in virtù di una sorta di causazione che sarebbe attuata dal procedimento argomentativo. Alludo piuttosto all’istituzione di un rapporto, di un legame giustificato e stabile, fra coloro che compartecipano all’esporsi di qualcosa – ciò che potremmo chiamare «principio» – e questo stesso qualcosa: il principio, appunto. Tale principio è in grado di suscitare un rapporto non solo fra esso stesso e chi lo può accogliere, ma anche fra tutti coloro che al principio si possono variamente riferire. Sia nel primo che nel secondo caso, comunque, il coinvolgimento avviene, nel caso di chi si rapporta al principio, favorendo la sua scelta di aderire a ciò che, proprio nel suo esporsi, acquisisce legittimazione. Nella storia del pensiero si è cercato di garantire un tale rapporto in diversi modi. In ambito filosofico è prevalsa sovente una via «logica»: nel senso che il coinvolgimento veniva garantito non già per l’abilità retorica o argomentativa di un singolo individuo, bensì grazie all’esporsi/imporsi del principio stesso, che si manifesterebbe nella sua verità e necessità, e di cui l’individuo finirebbe per essere semplice portavoce. Perciò Eraclito poteva chiedere, com’è attestato dal frammento 50 DK, di non ascoltare tanto lui, quanto il Logos che attraverso di lui veniva ad esprimersi. Questa via «logica» al coinvolgimento è la via soprattutto privilegiata dalla filosofia intesa e praticata come teoria. Ho cercato di mostrare altrove come e perché questo approccio risulti parziale e fuorviante. Esso infatti dev’essere accompagnato, se un coinvolgimento deve accadere, dalla sua effettiva messa in opera: pratica, attiva e agente. E di questa messa in opera è responsabile

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– nella molteplicità di significati che di questa parola sono propri – il filosofo in prima persona. Chi fa teoria, se intende coinvolgere, deve in altre parole far riferimento a 142 ciò che lo motiva e così, a sua volta, essere in grado di motivare. Ciò è quanto viene pensato e messo in opera dall’etica. La teoria, per coinvolgere, deve dunque trasformarsi in TeorEtica. Ma davvero questo passaggio è necessario? Davvero la teoria, di per sé, con le sue argomentazioni ben formate, non è in grado di motivare neppure all’assunzione delle sue stesse conclusioni? Una breve analisi dell’andamento dell’elenchos aristotelico può forse aiutarci a chiarire questo punto1. 2. Nell’elenchos aristotelico la pretesa che ciò a cui si fa riferimento, con un argomentare che dovrebbe coinvolgere l’oppositore, è davvero qualcosa di incondizionato e tuttavia, insieme, è qualcosa di universalmente condivisibile proprio in virtù della comune relazione con l’incondizionato, si manifesta già nella presentazione del principio stesso. Il principio di non contraddizione risulta, com’è noto, «quello intorno al quale è impossibile cadere in errore», «il principio più noto», «quello non ipotetico», quello che «dev’essere già posseduto prima che si apprenda qualsiasi cosa». Si tratta, in una parola, del principio «più saldo, più sicuro di tutti»2. Non si tratta però di un principio la cui fondatezza è collegata all’evidenza e al fatto che, proprio in quanto evidente, esso può venire intuito. Non è sufficiente, per la legittimazione del principio, la sua semplice esibizione. È necessario invece percorrere, piuttosto che la via breve dell’intuizione, la strada lunga della dimostrazione. Anche se – com’è noto – si tratta di una dimostrazione indiretta, particolare. La «dimostrazione per via di confutazione» del principio di non contraddizione è infatti una dimostrazione che si basa proprio su questo principio. Ma non nel senso della cosiddetta petizione di principio – quell’errore argomentativo per il quale un principio viene assunto in via preliminare quale condizione della dimostrazione stessa che lo concerne –, bensì nel senso di un dispositivo dialettico grazie a cui l’onere della prova è scaricato sull’oppositore, volente o nolente che sia: mostrando cioè che sussiste – anche nell’atto

1 Pubblico qui, in anteprima, alcune pagine dedicate ad Aristotele tratte dal mio libro ­ eorEtica. Filosofia della relazione, in corso di stampa presso l’editrice Morcelliana di Brescia. T Il riferimento al più ampio contesto del libro, naturalmente, è ciò che consente di meglio chiarire la posta in gioco e il significato della lettura dell’argomentazione elenchica che qui viene proposta. 2 Aristotele, Metafisica Γ, 3, 1005b, 10 ss. Un’analisi dei concetti che entrano in gioco nella «particolare interpretazione del principio all’interno di diversi sistemi logici e di pensiero», nonché una trattazione del principio stesso che va da Aristotele fino ad alcune logiche «non aristoteliche» (passando per Kant, lo psicologismo, Meinong, Russell e Peirce) è quella offerta da V. Raspa nel suo In-contraddizione. Il principio di contraddizione alle origini della nuova logica, Edizioni Parnaso, Trieste 1999.

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di negazione del principio, compiuto esplicitamente o implicitamente dall’avversario – un’inevitabile relazione al principio stesso3. Quest’ultimo infatti è 143 sempre già all’opera per regolamentare ogni argomentazione, ogni asserzione e, finanche, ogni espressione significativa di una singola parola. In altri termini: quando viene «detto qualcosa», qualsiasi cosa, il principio di non contraddizione è sempre già coinvolto, e come tale può essere fatto emergere e venir esibito. Ciò perché esso risulta criterio di determinazione e di significanza sia del linguaggio, sia del pensare, sia anche, per Aristotele, dell’essere. Aristotele mette in scena dunque questa specifica forma di coinvolgimento teorico: il fatto che, in ogni discorso significante, in quanto significante, una struttura di non contraddizione risulta inevitabilmente implicata. Si tratta di un’implicazione che può essere fatta emergere rapportandosi ad essa, tematizzandola ed enunciandola, appunto, sotto forma di principio. Ciò è quanto viene compiuto da Aristotele passando dal piano dell’esperienza dello scambio comunicativo, con le regole che sono in esso insite e che rendono possibile l’intesa, al piano dell’enunciazione in termini logici di quella regola che, fra di esse, risulta fondamentale: ciò che viene chiamato, appunto, il «principio di tutti i principî». Tuttavia il coinvolgimento è qui attuato, ripeto, non già mostrando la presenza di un riferimento al principio di non contraddizione nell’ambito di quel discorso o di quell’argomentazione che sarebbero condotti in generale da un qualsivoglia parlante (oppure, nel caso specifico, di quel parlante che risulta sostenitore del principio stesso). Nel gioco artificiosamente costruito in Metafisica Γ 4, e caratterizzato come si diceva da un ben preciso impianto dialettico, ad Aristotele interessa soprattutto concentrarsi sul dire dell’oppositore e sul fatto che lo stesso oppositore del principio, se dice qualcosa, inevitabilmente mette in opera ciò che il principio stesso enuncia. Ancora. Abbiamo visto che il coinvolgimento in rapporto al principio avviene qui perché il principio stesso risulta immediatamente implicato nel discorso significativo (e nel pensiero dell’uomo che un tale discorso articola). Lo è a tal punto che anche il discorso sul principio non può che mettere in opera un tale principio. Lo è, soprattutto, perché la stessa negazione del principio – sia nella forma di un discorso significativo che nega il principio stesso, o magari la sua ultimità, o anche la sua incondizionatezza, oppure la sua verità; sia, ripeto, nella forma della semplice enunciazione discorsiva di qualcosa; sia, infine, nella mera espressione di un vocabolo che abbia comunque un significato per chi lo proferisce – implica immediatamente l’essere in atto di ciò che è regolato dal principio stesso. E dunque anche l’oppositore, per quello che dice, viene assorbito nel dispositivo di autoaffermazione del 144

3 Sul significato del termine ‘dialettica’ in Aristotele e sull’applicazione del concetto a questo contesto si veda E. Berti, Does Aristotele’s Conception of Dialectic Develop?, in E. Berti, Nuovi studi aristotelici, I, Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, Brescia 2004, pp. 235-64 (in particolare p. 258).

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principio: un’autoaffermazione che appunto si verifica non solo attraverso il discorso di chi lo enuncia, ma anche mediante l’espressione di colui che, almeno a parole, non lo vuole ammettere. Non si può insomma evitare il riferimento al principio, inteso come concrezione della struttura significativa del discorso e condizione della stessa ­significatività tanto di esso, quanto di ogni singola parola che vuole avere significato. Al meccanismo insito nella sua affermazione non si può sfuggire. Il che significa che la struttura del discorso – ma anche, in Aristotele, del significato e dell’essere – è una struttura che funziona secondo quel principio: il quale quindi esprime davvero ed esibisce la «struttura originaria» delle parole e delle cose. Lo può fare nella misura in cui esprime il dispositivo secondo cui ogni discorso funziona, e lo rappresenta, a sua volta, in forma di discorso (cioè mettendo in opera il principio stesso proprio nel discorso che lo riguarda). Lo può fare nella misura in cui lo stesso discorso che nega il principio (secondo una ben precisa accezione del negare: quella messa in opera dall’oppositore) è, in quanto discorso, strutturato secondo il dispositivo che viene enunciato proprio da quel principio. E lo può fare, soprattutto, nella misura in cui lo stesso principio esprime ed esibisce anche la struttura dell’essere, nonché la struttura del rapporto che lega l’essere al dire significativo. 3. Il coinvolgimento è allora da intendersi, in questo caso specifico: a) come messa in luce e immediato accoglimento di un aspetto della struttura del discorso: un aspetto che, in quanto strutturale, è sempre in gioco in questo discorso stesso. Si tratta di un aspetto che può venir esplicitamente tematizzato, anch’esso nella forma di uno specifico discorso, cioè formulandolo a sua volta nei termini del principio di non contraddizione; b) come messa in luce e immediato accoglimento dell’applicazione del principio anche all’enunciazione del principio stesso, in quanto questa enunciazione ha appunto la forma di un discorso. Perciò il principio di non contraddizione, anche nel suo venire formulato, è soggetto al dispositivo che proprio esso enuncia; c) come messa in luce e immediato accoglimento dell’applicazione del principio anche all’enunciazione di quel discorso o al pronunciamento di quella semplice espressione attraverso i quali si vorrebbe negare il principio stesso. Infatti anche l’atto di negazione, nel gioco argomentativo, è qualcosa che viene asserito, e che viene asserito nella forma di uno specifico discorso, oppure che, in quanto espressione significativa, alla forma di questo discorso può essere ricondotta; d) come messa in luce ed immediato accoglimento del principio quale espressione della struttura significativa non solo del rapporto tra il discorso (e, prima ancora, il pensiero) e ciò che è, ma della stessa significatività dell’essere. Questo avviene, come vedremo, in virtù dell’assunzione 145 di un implicito nesso fra uno specifico modello di discorso e una particolare concezione di ciò che viene chiamato «verità». Insomma: il coinvolgimento consiste nell’essere già all’opera di ciò che si vuole dimostrare non tanto nel procedimento della dimostrazione stessa

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quanto, in Metafisica Γ, soprattutto nel procedimento di opposizione a ciò che si vuole dimostrare. Ed è per questo che, nella messa in scena ­dell’elenchos, non si può sfuggire al dispositivo enunciato dal principio di non contraddizione: anche nel caso che l’avversario non si esprima attraverso un’asserzione, allo scopo di negare il coinvolgimento, ma si limiti a dire qualcosa che abbia per lui significato, qualcosa, cioè, di determinato. Tale coinvolgimento può essere a sua volta espresso, in conseguenza dell’assunzione di un atteggiamento distaccato, nella formula del principio «più saldo di tutti». È questo ciò che appunto avviene in Aristotele. E – nonostante l’oggettivazione che, trasformato in una formula, il principio subisce – il coinvolgimento non va perduto, perché nella forma apofantica in cui il principio viene espresso il contenuto dell’asserzione (il principio di non contraddizione come criterio di significanza) è appunto già all’opera (così come lo è nell’asserzione che lo nega). E lo è anche – in virtù del suo essere principio di significanza e dunque criterio del rapporto tra logos ed essere, nonché della virtuale determinatezza e significanza dell’essere stesso – nel caso della semplice enunciazione di qualcosa di significativo: in quanto, come tale, ciò risulta qualcosa di determinato. 4. Nella dimostrazione per via di confutazione del «principio di tutti i principî» viene messa in opera, dunque, una specifica forma di coinvolgimento teorico. Più precisamente incontriamo qui un’implicazione di tipo particolare: quella per cui ciò che viene enunciato dal principio è qualcosa di presente e di attivo anche (e addirittura) nel dire dell’oppositore. Rilevare semplicemente questo fatto, tuttavia, non basta. Non basta neppure per Aristotele. Bisogna infatti indurre l’oppositore a prendere atto di questa implicazione e ad ammettere che «levando via il logos il logos permane»4. Questo è il punto. Aristotele sembra inizialmente confidare nel fatto che sia sufficiente esibire la struttura non contraddittoria del dire significativo per far emergere anche un accordo universalmente condiviso riguardo al principio. Pare vedere un’effettiva implicazione fra la messa in luce del principio, attraverso il processo mediato dell’elenchos, e l’immediato accoglimento del principio stesso, cioè l’effettivo coinvolgimento che il rapporto con esso produce in chi parla. Ma le cose non stanno propriamente in questo modo. L’esercizio del discorso secondo il principio, che per Aristotele è qualcosa d’inevitabile, non comporta un riconoscimento altrettanto inevitabile del principio stesso come 146 principio fondamentale. Lo stesso Aristotele sembra implicitamente esserne consapevole: altrimenti non sarebbero necessarie tutte le argomentazioni che egli successivamente adduce per persuadere il sofista e il seguace di ­Protagora. Ciò significa che permane uno iato tra l’esibizione del dispositivo logico, anche attraverso la sua concreta messa in opera nel procedimento di

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Aristotele, Metafisica Γ 4, 1006a, 25.

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confutazione dell’oppositore, e l’effettiva assunzione del principio come principio inconcusso. E tale iato non può essere colmato, come direbbe Wittgenstein, semplicemente guardando o, più ancora, imparando a vedere come stanno davvero le cose: sarebbe ingenuo, se non addirittura velleitario. Bisogna infatti essere in grado di governare la distanza fra l’immediata aderenza a ciò che viene enunciato nel principio, nel senso della sua inevitabile messa in opera in un dire significante, e il riconoscimento del principio, l’adesione ad esso. E questa distanza è colmata, eventualmente, da una scelta. Giacché, a ben vedere, lo stesso oppositore è indotto da Aristotele, nel procedimento confutativo, a staccarsi dal fatto che sta semplicemente esprimendo qualcosa, e qualcosa di significativo; viene fatto riflettere sulla struttura determinata e determinante della sua stessa espressione. Ma anche questo non basta: egli viene indotto – persuaso, ovvero costretto – ad accogliere la struttura del logos che già da sempre lo coinvolge. E può sempre non farlo. 5. Resta dunque uno iato da colmare. L’interlocutore, staccato dalla sua immediata aderenza al contesto del suo modo di pensare, deve ora essere indotto a riconoscerne la contraddittorietà. In che modo Aristotele intende indurlo a ciò? In che modo, cioè, intende attuare questo ulteriore coinvolgimento? Nella prospettiva aristotelica – che esprime l’impostazione condivisa più in generale del pensiero greco – il compito di stabilire un legame tra l’immediata aderenza a una struttura e l’esplicita adesione a questa struttura stessa è demandato, nei fatti, non già a una scelta, bensì, di nuovo, all’argomentazione: alla forza persuasiva che è insita nella teoria. Ecco, allora. Proprio nell’inevitabile messa in opera di ciò che viene espresso dal principio – quale si compie mediante il discorso, anche attraverso il discorso dell’oppositore – si ha l’esibizione del potere di coinvolgimento che di tale principio è proprio. Movendo da qui si comprende anche l’attrattiva che è propria, da Aristotele a Emanuele Severino, di un tale meccanismo argomentativo, e che induce a farvi riferimento per qualsiasi costruzione filosofica riguardante sia il pensiero che l’essere. Il coinvolgimento, in una parola, viene reso possibile da un meccanismo al quale è impossibile sfuggire. Neppure l’oppositore lo può. Anzi, proprio lui è utilizzato da Aristotele quale veicolo per l’affermazione e la dimostrazione per via di confutazione di ciò che il principio enuncia. O, almeno, così pare. Perché l’oppositore può sempre rifugiarsi nell’indif147 ferenza: nell’indifferenza rispetto al suo stesso errore. E l’indifferenza, come si sa, è segno di contraddizione solo per chi non è indifferente al principio di non contraddizione. Così ad Aristotele resta pur sempre un compito da assolvere, al di là della messa in luce dell’autocontraddizione performativa nella quale ricadrebbe l’oppositore: il compito di coinvolgerlo a riconoscere il principio e ad assumerlo; il compito di accogliere e seguire intenzionalmente la regola. Vi è infatti, anche qui, un’insopprimibile persistenza dell’errore. Per avere ragione

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del quale non è sufficiente mostrare il nesso fra non contraddizione, determinatezza e discorso significativo. Bisogna spingere chi non la riconosce (o la rifiuta) ad assumere questa situazione; bisogna volerla fare propria. Resta ulteriore spazio, allora, per altri esempi di coinvolgimento teorico e per nuove argomentazioni: come quelle che vengono elaborate da Aristotele nel seguito dello stesso capitolo 4 di Metafisica Γ. Resta poi spazio per la persuasione e per la sua retorica. Resta spazio, naturalmente, per la violenza nei confronti dell’oppositore: una violenza esercitata in nome di chi ritiene di avere – letteralmente – ragione. 6. Ci sono buchi e intoppi, dunque, nel ben oliato meccanismo dell’argomentazione aristotelica. C’è qualcosa che rimane fuori dalla dimensione di coinvolgimento teorico che essa mette in scena e realizza, e che la teoria stessa cerca, a sua volta, di recuperare. Abbiamo infatti visto che, anche una volta che sia stabilito e «dimostrato» il principio di non contraddizione, è necessario indurre ad accoglierlo. Soprattutto è necessario spingere a farlo colui che non lo riconosce: colui che dev’essere persuaso che non accettare le regole insite nella struttura argomentativa del suo stesso discorso vuol dire rinunciare a fare un discorso significativo. Almeno secondo queste regole. Infatti – e questo è un altro punto decisivo – vi è uno sfondo di regole, implicitamente assunte, che va ben al di là di ciò che viene espresso dal principio di non contraddizione e che definisce, nel suo insieme, un modello di pensiero in cui solo certi problemi, e non altri, possiedono importanza. Abbiamo detto che il principio di non contraddizione, esposto e legittimato in Metafisica Γ, risulta un principio incondizionato. Ma, a ben vedere, una tale assenza di condizioni propriamente non è tale. Vi è in primo luogo, sullo fondo dell’enunciazione del principio stesso e della sua giustificazione, un presupposto che viene per lo più implicitamente accolto (e che Aristotele esplicita, in parte, altrove5): il fatto che proprio quel discorso che è solidale con il principio di non contraddizione, proprio quel discorso nel quale esso a sua volta si esprime e si giustifica, è solo un certo tipo di discorso fra i vari l­ogoi possibili; il fatto cioè che, tra i vari modi di espressione dell’essere 148 umano, risulta privilegiato qui il discorso apofantico, nella misura in cui esso soltanto è significativo. Esso è tale perché rispecchia una particolare struttura dell’enunciato: quella in grado di dire «che è ciò che è e che non è ciò che non è». Ed esso, ancor di più, è tale perché si collega a un determinato modello di ciò che viene chiamato «verità»: quello genericamente esprimibile in termini di corrispondenza tra logos e stato di cose. Principio di non contraddizione, modello apofantico del discorso e concezione corrispondentista della verità s’illuminano e si sostengono dunque a vicenda. Definendo non solo lo spazio entro il quale vi possono essere un pen5 Si veda De interpretatione 17a, 1, sgg. Si noti che il verbo ‘anaireo’ («sollevare», «levar via», «togliere», «annullare»), usato in questo passo, sarà poi tradotto dal tedesco ‘aufheben’.

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siero e un linguaggio significativi, ma soprattutto la dimensione al cui interno l’essere stesso può trovare ordine e spiegazione. Tutto questo però, nel contesto di Metafisica Γ, rimane per buona parte implicito. Così come restano sullo sfondo, in questa riflessione aristotelica, tutta una serie di presupposti che, a mo’ di riepilogo, è bene invece cercar di esplicitare. Resta implicito anzitutto il carattere mediato, inevitabilmente mediato, del rapporto con la situazione di determinatezza e di significanza – che fa da sfondo tanto al discorso e al pensiero dell’uomo, quanto all’essere su cui vertono un tale pensiero e un tale discorso – da parte di quel filosofo che la individua e la studia, enunciandola poi nelle formulazioni, a sua volta non contraddittorie, del principio di non contraddizione. E in parallelo, poi, non viene adeguatamente esplicitata – come invece ho cercato di fare, assumendo l’ottica del coinvolgimento – la modalità in cui questo rapporto si realizza. Aristotele infatti, volendo affrontare una tale questione, decide di mettere in scena, concretamente, una procedura di confutazione. Egli mostra in che modo è inevitabilmente coinvolto, nella situazione che viene enunciata attraverso il principio, colui che, implicitamente o esplicitamente, intende negarlo. Ma, stando a quello che viene attuato in Metafisica Γ, questa relazione è anzitutto una relazione logica: una relazione che si esplica nell’ambito della teoria e che, per sporgere al di là di tale ambito, ha bisogno di presupporre la corrispondenza tra ordine del pensiero (e del discorso) e ordine delle cose, tra sfera della conoscenza e sfera dell’essere. La teoria è qui incaricata del compito di coinvolgere. Ma lo può fare solo fino a un certo punto. E lo può fare solo a partire dal privilegio del discorso apofantico e movendo dall’elaborazione, a esso sinergica, di una particolare concezione della verità. Il che significa: sulla base di un’estensione della portata del principio di non contraddizione che travalica l’impianto logico della dimostrazione e viene a riguardare – nella misura in cui, appunto, esso è criterio di significanza – tanto la dimensione dell’essere, quanto il rapporto tra essere, dire e pensare. Inoltre quella che viene messa in scena attraverso il dispositivo dell’elenchos è una relazione rispetto alla quale Aristotele non discute esplicitamente 149 la possibilità che l’oppositore non ne sia coinvolto. Egli paventa questa eventualità: prova ne sia il fatto che non risparmia argomenti per convincerlo. Ma in ogni caso considera – di nuovo su di un piano teorico – tale suo non coinvolgimento come un errore: l’errore del sofista, l’errore di Protagora. Un errore logico. Che, tuttavia, pur sempre può verificarsi, visto che dev’essere confutato. Ma che non ha cittadinanza nell’ambito della filosofia: almeno in quella che si muove nello spazio aperto da una particolare concezione del discorso e da una determinata idea di verità. Di più. Trattandosi di un errore, necessita appunto di essere corretto: usando la «buona violenza» di un’argomentazione impietosa. E invece proprio la possibilità di essere dentro e fuori questa relazione stessa è ciò che di fatto il meccanismo aristotelico presuppone. Non solo nel

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caso dell’eventuale oppositore, ma anche da parte dello stesso filosofo: il quale deve prendere le distanze dalla situazione logica e ontologica in cui è pur sempre immerso per poter enunciare il principio e per poter poi prendersi cura di chi intende confutare. Una tale fuoriuscita dalla situazione inevitabile che il «principio di tutti i principî» costringe ad abitare – la messa in conto della possibilità che vi sia qualcuno che dev’essere persuaso, o costretto, ad assumerla – è proprio la condizione affinché scatti il meccanismo della confutazione dell’oppositore. Non si tratta di una questione che riguarda la condizione dell’oppositore: il quale può ben essere persuaso e riconoscere il proprio errore. Si tratta piuttosto di una possibilità che lo stesso sostenitore del principio deve mettere in conto: anche solo per dare il via alla confutazione. In altri termini: ben oltre il ben rotondo ambito dell’essere, con il suo destino di necessità, vi è – indispensabile da assumere proprio per l’affermazione di questa stessa necessità – la sfera del nulla o, quanto meno, del possibile. E se le cose stanno così, un problema ulteriore che Aristotele lascia aperto è proprio quello di giustificare, sempre nell’ottica del principio di non contraddizione, la relazione con quel contraddittorio, con quel possibile in cui dimora l’oppositore, che è richiesta dall’affermazione del principio stesso, nella sua necessità6. 7. Ecco dunque fino a che punto il dispositivo dell’elenchos aristotelico è in grado di coinvolgere. Ecco a quali condizioni ed accettando quali presupposti. In ogni caso il suo limite è dato dall’esistenza di quella scelta che consente all’oppositore di superare la propria indifferenza, di riconoscere ­l’errore della sua posizione e di passare dalla mera aderenza ad essa all’ade- 150 sione nei confronti del principio e di ciò che da esso è governato. Resta da vedere, infine, se lo stesso schema applicato nel caso del discorso apofantico può valere per altri tipi di discorso. Aristotele stesso, come ho detto, dichiara nel De interpretatione di compiere una scelta ben precisa per questo modello, escludendone altri in quanto non sinergici con la concezione della verità da lui privilegiata. Ma egli non giustifica questa sua scelta. Qual è dunque il senso dell’esclusione di altre modalità di discorso – poetico, religioso, retorico – se non la preliminare assunzione del legame fra discorso apofantico, principio di non contraddizione e concezione corrispondentista della verità? Non vi è forse un presupposto in qualche modo arbitrario alla base del privilegio di quel discorso che poi verrà strutturato secondo la legge enunciata, appunto, dal principio di non contraddizione? Non rimane, al fondo di tutto il meccanismo dell’elenchos, la decisione per un particolare

6 Questo approfondimento è stato offerto, in particolare, da E. Severino fin dal quarto capitolo del suo libro La Struttura originaria (1958), nuova edizione, Adelphi, Milano 1981. Si vedano proposito le riflessioni espresse invece da V. Vitiello nel suo libro Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Città Nuova, Roma 2002 e la risposta di Severino alle osservazioni di Vitiello in E. Severino, Discussioni intorno al senso della verità, Edizioni ETS, Pisa 2009.

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modello di discorso e di verità? Aristotele, ripeto, pare muoversi all’interno di questa presupposizione, senza tuttavia giustificarla. Così come si muovono all’interno di essa tutti coloro che, applicando il meccanismo dell’elenchos, intendono riportare a un determinato modello di discorso e di pensiero – che pure è inevitabile usare, come io stesso sto facendo ora – ogni altra forma di espressione, filosofica e non. Resta da vedere, davvero in ultimo, se il principio di non contraddizione vale ugualmente quando si ha a che fare con qualcosa d’indeterminato oppure quando ci s’imbatte in un’infinità di determinazioni. È questo ad esempio il motivo per cui Cusano si trova costretto a distaccarsi da esso quando vuole parlare di Dio. E in effetti il concetto di ‘Dio’ è un ottimo banco di prova per approfondire il reciproco legame di principio e coinvolgimento. Mettendo in gioco, insieme al concetto di ‘fede’, anche la dimensione della volontà, quale emerge con l’imporsi di un’esperienza cristiana del mondo. Ma non necessariamente solo all’interno di una prospettiva teorica.

Dal sogno del dio al sogno dell’animale da gregge: le riflessioni di Nietzsche sul fenomeno onirico Sergio Sánchez*

Del fenomeno del sogno si può dire quello che Remo Bodei ha detto del 151 delirio, vale a dire: costringe comunque la ragione pigra o pavida a guardare nelle sue stesse pieghe, a riconoscersi non come un monolito, bensì come una famiglia di procedure che rinviano a un ceppo comune e che, per evolversi, deve accettare continue sfide1.

Se in verità Nietzsche non è il Zerstörer der Vernunft di cui ha parlato Luckásc, tuttavia si può mostrare che ha costretto la ragione «monolitica» a guardarsi in specchi di processi che, intimamente fusi con essa, ne suggeriscono un’altra immagine, che la richiama alla modestia ed all’accettazione continua di sfide, sotto pena di incorrere nella cecità di Edipo. Questo è stato il sogno per Nietzsche: uno degli specchi nei quali ha cercato il riflesso degli aspetti meno immediati e visibili della ragione (e anche del mondo, all’inizio del suo itinerario). Rispetto a coloro che hanno visto nel sogno (come nella follia) una deformazione della ragione, Nietzsche ha creduto nella fedeltà di questo specchio, riconoscendo che in essa c’è molto di onirico. E questo, l’onirico della ragione, gli ha procurato un’immagine nuova tanto della nostra razionalità quanto della nostra irrazionalità. In diversi momenti e da differenti angolazioni del suo itinerario, il fenomeno del sogno ha suscitato l’attenzione del filosofo. Come in altri ambiti della sua filosofia, anche qui sono noti i cambi e le trasformazioni che ha sofferto il suo pensiero, per cui necessariamente questi debbono essere tenuti presenti dallo sguardo che su questo fenomeno voglia dirigersi. Comunque, non è nostra intenzione, in ciò che seguirà, esaminare esaustivamente tutti i luoghi nei

* Universidad Nacional de Córdoba, Argentina. 1 R. Bodei, Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia, Laterza, Roma-Bari 2000, p. IX.

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quali si è occupato del sogno. Ci basterà identificare i momenti più rilevanti della sua riflessione al riguardo ed esporre con la maggior chiarezza possibile 152 le linee essenziali del collegamento con i grandi temi della sua opera: la critica della cultura, la critica della metafisica, la riflessione psicologica, ecc. 1. Sotto lo sguardo di Apollo Nietzsche apre il suo libro sulla tragedia introducendo le categorie fondamentali che struttureranno il suo sviluppo, segnalando che «la scienza estetica» avrà ottenuto un beneficio rilevante «quando saremo giunti, non solo all’intellezione logica, ma alla sicurezza immediata dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco» e al suo incessante gioco di opposizione e composizione2. Questa duplicità è in principio quella di due «istinti artistico-naturali» contrapposti, che Nietzsche ci invita ad associare ai «mondi artistici separati del sogno e dell’ebbrezza, fenomeni fisiologici entro i quali si può avvertire un’antitesi corrispondente» a quella che regge quelli3. 2 GT [La nascita della tragedia] 1, KSA 1, p. 25. Le opere di Nietzsche e i frammenti postumi si citano secondo le Sämtliche Werke in 15 Bänden. Kritische Studienausgabe, Hrsg. von G. Colli und M. Montinari, de Gruyter, Berlin-New York 1980 (KSA), con le stesse sigle e riferimenti usati negli apparati critici di questa edizione. [N.d.T.: al fine di rispettare il più possibile l’interpretazione data da Sergio Sánchez dei testi nietzschiani, si è scelto di non riportare, per le citazioni, il testo delle traduzioni edite in italiano, anche se, ovviamente, le si è tenute presenti. Ciò soprattutto perché queste ultime presentano scelte di traduzione dal tedesco all’italiano che non si accorderebbero con quelle operate dall’autore di questo saggio. Ad esempio, Sánchez traduce Schein sempre con apariencia, mentre usa ilusión per tradurre il tedesco Wahn; invece nella traduzione italiana Adelphi (La nascita della tragedia, in Opere di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari, volume III, tomo I, Adelphi, Milano 1972), Schein è tradotto ora con «parvenza», ora con «apparenza», ora con «illusione», a seconda del contesto. Così, schöne Schein (GT, KSA 1, p. 25) viene tradotto da Colli-Montinari con «bella parvenza», così come da U. Fadini (cfr. La nascita della tragedia, a cura di V. Vitiello e Ettore Fagiuoli, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. 53: in nota qui si legge anche che «apparenza» traduce Erscheinung, mentre «parvenza» traduce Schein e «fenomeno» Phänomen, anche se poi l’espressione Schein des Scheins suonerà come «apparenza dell’apparenza»), mentre Sánchez traduce bella apariencia; eine inbrünstige Sehnsucht zum Schein (GT, KSA 1, p. 39) per Colli-Montinari è «fervido anelito verso l’illusione» (op. cit., p. 35), e per U. Fadini è «ardente anelito verso l’apparenza» (op. cit., p. 88), mentre per Sánchez è ferviente anhelo de apariencia. Qui, dunque, si è scelto di mantenere l’uniformità del testo castigliano, traducendo Schein-apariencia sempre con «apparenza», e Wahn-ilusión sempre con «illusione». Infine, das Ur-eine si trova tradotto da Colli-Montinari con «uno originario» (p. 35) ed allo stesso modo da Fadini (p. 88), mentre per Sánchez è Uno primordial: questi usa nel suo testo distintamente anche il castigliano originario, ma non qui; perciò si è scelto di renderlo con «Uno primordiale», conservando anche la maiuscola così come fa Sánchez. Per lo stesso motivo, cioè perché l’autore utilizza distintamente anche il castigliano impulso, si è deciso di tradurre instinto [Trieb] con «istinto», anche laddove le traduzioni italiane consultate riportano invece «impulso». Questo discorso in merito alle citazioni nietzscheane varrà anche per tutti gli altri testi citati nel saggio]. 3 GT 1, KSA 1, p. 26.

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In questo contesto, il sogno costituisce il frutto più primigenio della vo- 153 lontà di forma dei greci, effetto di forze plastiche inconsce creatrici della «bella apparenza» di immagini nitide, di profili definiti che rendono possibile il piacere della contemplazione netta e precisa, e che è «il presupposto di ogni arte figurativa». Il sogno è la concrezione più elementare e spontanea di tale volontà, «nella cui produzione ogni uomo è un artista completo»4. Agli antipodi di questa vis creatrice di forme, incontriamo il principio dionisiaco cui si associa lo stato fisiologico dell’ebbrezza [Rausch], descritta come rapimento estatico e immersione nel fondo amorfo di un’esperienza in cui è sospeso il principio di individuazione. L’istinto dionisiaco e la sua concomitante esperienza di ebbrezza è il presupposto di ogni arte non figurativa, anzitutto, la musica, della quale Schopenhauer aveva segnalato il fatto che può prescindere dallo spazio, e che è la prima fenomenizzazione della Volontà. Pertanto, abbiamo due registri diversi, anche se intimamente intrecciati, nel significato delle categorie dell’apollineo e del dionisiaco. Da una parte, essi implicano due tipi distinti di espressione artistica – dando luogo ad una classificazione duale delle forme d’arte: l’espressione figurativa (cui paradigma è la scultura), di stampo apollineo, e l’espressione non figurativa (cui paradigma è la musica), di stampo dionisiaco. Dall’altra parte, danno conto di una contrapposizione sul piano psicologico-antropologico: la contrapposizione tra sogno ed ebbrezza, «fenomeni fisiologici» caratterizzati come «stati artistici della natura», i quali permettono a Nietzsche di lanciare uno sguardo alle condizioni fisiologiche che rendono possibile la creazione artistica. Tuttavia, il significato della coppia [dupla, N.d.T.] apollineo-dionisiaco non si esaurisce in questo doppio registro o piano di significazione. In effetti, ambedue le categorie assumono anche un valore e un senso metafisici, di forte impronta schopenhaueriana: così come l’autore del Die Welt als Wille und Vorstellung aveva concepito il dualismo fondamentale del mondo come «rappresentazione» (mondo dell’apparenza delle forme spazio-temporali individuate e rette dal principio di ragione, il cui status ontologico è quello del Wahn: illusione) e «volontà» (fondo noumenico, cosa in sé), allo stesso modo è possibile comprendere il dualismo dell’apollineo e del dionisiaco fondamentalmente come un’appropriazione nella quale l’apollineo corrisponde al mondo della rappresentazione e il dionisiaco alla volontà, che in Nietzsche suona come das Ur-eine: l’Uno primordiale. In questa cornice, la relazione tra «apollineo» e «dionisiaco» è una relazione di forze all’interno dell’individuo stesso, ed il cui raggio di azione e conseguenze comprende l’intero ambito della cultura (il cui sviluppo deve essere considerato alla luce del gioco dialettico e della lotta dei due istinti [Triebe]), eccedendo così considerevolmente l’ambito assegnato allo studio di essa nelle pagine iniziali del libro, cioè, quel- 154 lo della «scienza estetica».

4

Ibid.

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In questo modo, il sogno non è l’unico scenario di forme suscitato su richiesta di Apollo: un’altra sfera di apparenza è quella del mondo che l’uomo prende ordinariamente per reale, il mondo della realtà empirica. Questo è ciò che Nietzsche afferma quando scrive che «si potrebbe designare Apollo come la magnifica immagine divina del principium individuationis, per i cui gesti e sguardi ci parlano tutto il piacere e la saggezza dell’“apparenza”»5. In questo senso, il mondo come intreccio di Vorstellungen e i mondi onirici non differiscono in sostanza in quanto sono, essenzialmente, Wahn: illusione, in senso schopenhaueriano. L’ambito simbolizzato da Apollo comprende tutto lo spettro della «rappresentazione visuale», nel quale il sogno si presenta come lo «stato artistico-naturale», dominato dall’immaginazione e dalla creatività, e sperimentabile da tutti gli uomini in tal modo che ognuno è allo stesso tempo creatore e spettatore. L’idea del sogno come un «mondo artistico» nel quale la fantasia di chi sogna si dispiega creativamente con tutta la libertà, facendo di costui un vero artista, non è un’idea originale di Nietzsche: il sogno come modello per la creazione dell’artista lo troviamo dovunque nella tradizione romantica6. Invece, di sicuro sembra originale la caratterizzazione del sogno come Schein: con essa, come precisa Ugolini, Nietzsche «accentua la contrapposizione con l’ebbrezza dionisiaca secondo lo schema schopenhaueriano per cui il sogno apollineo corrisponde al mondo come rappresentazione, mentre l’ebbrezza dionisiaca al mondo come volontà»7. Ad ogni modo, costituisce di per sé un chiaro indicatore del posto e dello status accordati al fenomeno del sogno sulla scena fortemente metafisica nella quale si fanno presenti i temi della riflessione filosofica nell’opera giovanile sulla tragedia. In effetti, si deve tener in conto il modo col quale, come parte di una vasta «cosmodicea estetica»8, Nietzsche conferisce un fondamento metafisico ai fenomeni artistici e cultu155 rali legati al sogno, per poter apprezzare la misura in cui questo rimane sottomesso alle coordinate metafisiche (romantiche: schopenhaueriane e wagneriane) che inquadrano la riflessione del filosofo prima che voltasse le spalle definitivamente ai suoi maestri e prendesse il cammino dello spirito libero.

GT 1, KSA 1, p. 27. Cfr. A. Béguin, L’âme romantique et le rêve: Essai sur le Romantisme allemand et la Poésie française, José Corti, Paris 1939; W. Kemper, Der Traum und seine Be-deutung, Rowohlt Taschenbuch Verlag GmbH, Hamburg 1955 (specialmente cap. 1); più specificamente, S. Barbera, Apollineo e dionisiaco. Alcune fonti non antiche di Nietzsche, in G. Campioni, A. Venturelli (a cura di), La «Biblioteca ideale» di Nietzsche, Guida, Napoli 1992, in cui l’autore fa importanti osservazioni sull’impronta di Schopenhauer e Wagner nel ruolo e nel carattere assegnati da Nietzsche al sogno in GT. 7 G. Ugolini, Guida alla lettura della «Nascita della tragedia» di Nietzsche, Laterza, Roma-­ Bari 2007, p. 42. 8 Rohde è stato il primo ad usare questo termine in relazione a GT (Lettera a Nietzsche del 6 di febbraio del 1872), osservando che in questa opera (cap. 25) l’alleanza finale di Apollo e Dioniso non è orientata a nessun «bene», a nessun fine, bensì alla pura giustificazione della vita «come fenomeno estetico». 5 6

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Inscritto nella dimensione dello Schein, il sogno non differisce dalla veglia nei termini in cui la finzione differisce, per opposizione, dalla realtà. L’uno e l’altra sono tipi differenti di rappresentazione, che per essere valutate debbono essere contrapposte alla realtà in sé irrappresentabile dell’Uno primordiale [das Ur-eine] donde sorgono. Tuttavia, Nietzsche affermerà, paradossalmente, che il sogno costituisce una dimensione più alta e importante della veglia, in quanto esprime in sé l’apparenza e l’illusione: Sebbene sia assai certo che delle due metà della vita, la metà della veglia e la metà del sogno, la prima ci sembra molto più privilegiata, importante, degna, meritevole di esser vissuta, più ancora, l’unica vissuta: io affermerei, tuttavia, benché ciò abbia tutta l’apparenza di un paradosso, che il sogno valuta in maniera esattamente opposta quel fondo misterioso del nostro essere del quale noi siamo l’apparenza9.

La ragione di questa valutazione a cui conduce il fenomeno del sogno poggia sul fatto che in esso si fa palpabile un «fervente anelito di apparenza» che Nietzsche, seguendo una «congettura metafisica», considera come radicato nell’Uno primordiale. In effetti, questa istanza originaria, che, in linea con il Wille schopenhaueriano, Nietzsche definisce come il vero soggetto metafisico («ciò che realmente è», il «nucleo più intimo della realtà», l’«unico fondamento del mondo») è caratterizzata come «un dio sofferente e tormentato», «divinamente insoddisfatto»10, intimamente affaticato per le contraddizioni e per un anelito imperioso di illusione che lo porta a produrre, come espressione di sé in termini di rappresentazione [Vorstellung], l’intero mondo dei fenomeni, la realtà empirica. In effetti, quanto più avverto nella natura quegli istinti artistici onnipotenti [i.e., quelli che suscitano i mondi onirici – N. di S. Sánchez], e, in essi, un fervente anelito di apparenza […], tanto più mi sento spinto alla congettura metafisica che 156 il veramente esistente, l’Uno primordiale, necessita insieme, in quanto è l’eternamente sofferente e contraddittorio, per la sua permanente redenzione, della visione estasiante, dell’apparenza piacevole: noi, che siamo completamente presi

9 GT 4, KSA 1, p. 38. [N.d.T.: si è notata una lieve differenza nel modo in cui questa citazione è stata tradotta in varie edizioni italiane, per cui sembra opportuno riportarle qui: «[…] io vorrei tuttavia, nonostante ogni sospetto di paradosso, affermare proprio l’opposta valutazione del sogno, riguardo a quel misterioso fondo del nostro essere di cui siamo l’apparenza» (traduzione Colli-Montinari, op. cit., pag. 35); «[…] io vorrei però, nonostante qualsiasi sospetto di paradosso, sostenere proprio l’opposta valutazione del sogno, in rapporto a quel misterioso fondo della nostra essenza, del quale noi siamo l’apparenza» (traduzione di Fadini, op. cit., pag. 87). La versione di Sánchez invece è: «yo afirmaría, sin embargo, aunque esto tenga toda la apariencia de una paradoja, que el sueño valora de manera cabalmente opuesta aquel fondo misterioso de nuestro ser del cual nosotros somos la apariencia»]. 10 Queste le espressioni con cui Nietzsche si riferisce all’Uno primordiale, con un’allusione tacita alle pagine che commentiamo, nel suo Zarathustra (Z, KSA 4, p. 35).

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in questa apparenza e che consistiamo in essa, ci vediamo obbligati a sentirla come il veramente non esistente [Wahrhaft-Nichtseiende], cioè, come un costante divenire nel tempo, nello spazio e nella causalità, in altre parole, come la realtà empirica11.

In base a ciò, il sogno, in quanto è apparenza creata dai soggetti empirici individuali, ognuno dei quali è a sua volta apparenza creata dall’Uno primordiale (necessitato come noi a «liberarsi» mediante la produzione di rappresentazioni e illusioni), deve essere considerato come apparenza di secondo grado o «apparenza dell’apparenza»: se prescindiamo per un istante dalla nostra propria «realtà», se concepiamo la nostra esistenza empirica, ed anche quella del mondo in generale, come una rappresentazione dell’Uno primordiale generata in ogni momento, allora dovremo considerare il sogno come l’apparenza dell’apparenza [Schein des Scheins] e, per conseguenza, come una soddisfazione persino più alta dell’ansia primordiale di apparenza12.

Pertanto, nell’ambito dello Schein che include ugualmente la veglia e il sogno, quest’ultimo riveste maggior rilevanza della realtà empirica, la quale, ipotecata e depotenziata dal fondo metafisico noumenico, diviene essa stessa «mero sogno» e illusione, ma senza esibirlo in sé come tale. Il sogno, invece, nell’evidenziare in sé l’apparenza e l’illusione come tali, porta l’attenzione verso ciò che esso non è, verso l’unico «realmente esistente»: il dio sofferente che occupa il centro della peculiare Mysterienlehre del giovane Nietzsche. 2. Il sogno di Pascal Una pagina dello scritto postumo del 1873, Über Wahrheit und Lüge in aussermoralischen Sinne, getta luce sul fenomeno del sogno da un’angolazione peculiare che, mentre si allontana dalla scena metafisica montata in Die Geburt der Tragödie, preannuncia anche perciò la prospettiva naturalizzata che assumerà Nietzsche alla fine degli anni Settanta. Al fine di apprezzare con esattezza la valutazione del sogno che Nietzsche presenta in questo breve ma complesso testo giovanile, sarà necessario ricostruire nelle sue linee fondamentali la problematica che affronta. 157 Prima di tutto, Nietzsche è interessato a mettere allo scoperto la genesi del linguaggio e delle categorie della ragione, mostrando fino a che punto è illusoria e contraria ad ogni evidenza della ricerca la credenza in una corrispondenza tra questi e una realtà in sé accessibile, in quanto risulta assolutamente

11 12

GT 4, KSA 1, p. 38-39. GT 4, KSA 1, p. 39.

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evidente la arbitrarietà e convenzionalità che caratterizzano in ogni lingua le designazioni delle cose. Respinta la verità come corrispondenza, il valore della conoscenza non può poggiare su nessuna relazione con un’istanza esterna alla sfera dello stesso animale in cui si origina. È una creazione dell’intelletto umano, che appare condizionato per intero dalla nostra «organizzazione psicofisica»13 e sottomesso, come tutti gli altri aspetti della vita degli organismi, alle universali condizioni di sopravvivenza e adattamento. per questo intelletto non v’è nessuna ulteriore missione che conduca più in là della vita umana […] solo è stato aggiunto precisamente come una risorsa degli esseri più infelici, delicati ed effimeri, per conservarli un minuto nell’esistenza, dalla quale, al contrario, senza questa aggiunta avrebbero ogni sorta di motivi per fuggire […] L’intelletto, come mezzo di conservazione dell’individuo, sviluppa le sue forze principali fingendo, posto che questo è il mezzo grazie al quale sopravvivono gli individui deboli e poco robusti, come quelli ai quali è stato negato servirsi, nella lotta per l’esistenza, di corni o dell’affilata dentatura dell’animale da preda. Negli uomini quest’arte di fingere raggiunge il suo punto culminante14.

In quanto mezzo di conservazione dell’individuo, quest’arte di fingere inerente all’intelletto serve all’istinto gregario ed ha nella verità la sua opera maestra, nella misura in cui questa non è nient’altro che il risultato del patto che fonda la società, il segnale di complicità di coloro che hanno abbandonato lo stato naturale privo di verità. In uno stato naturale di cose l’individuo, nella misura in cui si vuol conservare di fronte agli altri individui, utilizza l’intelletto e la maggior parte delle volte solo per fingere, ma, posto che l’uomo, tanto per necessità come per noia, desidera esistere in società e gregariamente, egli necessita di un trattato di pace e, in accordo con ciò, procura che, almeno, scompaia dal suo mondo il più grande bellum omnium contra omnes (…) in questo momento si fissa ciò che a partire da allora ha da essere «verità», cioè, si è inventata una designazione delle cose uniformemente valida e obbligatoria15.

Di conseguenza, tra le caratteristiche definitorie del concetto di «verità» 158 Nietzsche include esclusivamente note che in diversa maniera negano che lo stesso possa definirsi come la corrispondenza (metafisica) con una istanza in sé: 13 L’espressione è di F.A. Lange (Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart, Iserlohn 1866) autore fortemente presente in WL [Su verità e menzogna in senso extramorale] e negli scritti del periodo, specialmente come trasmettitore delle prospettive scientifico-naturali in voga. 14 WL, KSA 1, p. 875-876. [N.d.T.: per questo testo si è tenuta presente, su indicazione di S. Sánchez, la versione di F. Tomatis: Su verità e menzogna in senso extramorale, in F. Nietzsche, Su verità e menzogna, introduzione, traduzione, note e apparati di F. Tomatis, Bompiani, Milano 2006]. 15 WL, KSA 1, p. 887

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Che cos’è dunque la verità? Un esercito in movimento di metafore, metonimie, antropomorfismi, a conti fatti, una somma di relazioni umane che sono state messe in risalto, estrapolate e adornate poeticamente e retoricamente e che, dopo un prolungato uso, un popolo considera ferme, canoniche e vincolanti; le verità sono illusioni di cui ci si è dimenticati che lo sono; metafore diventate consunte e senza forza sensibile, monete che hanno perso la loro immagine e non sono più considerate come monete, bensì come metallo16.

L’idea che la fissazione del significato delle parole e dei concetti sia dovuta ad una convenzione o accordo tacito non contraddice, bensì al contrario implica, un passaggio inconscio o semicosciente, nei termini in cui Nietzsche aveva caratterizzato, già nel 1870, in Die dionysische Weltanschauung, la comprensione del simbolo come «accordo» inconscio17. L’«oblio» decisivo, frutto dell’abitudine, che finisce col sanzionare la convenzione come «verità» deve intendersi nello stesso senso: non siamo coscienti della genesi arbitraria delle nostre parole e concetti, «dimentichiamo», in questo senso, che sono metafore e illusioni, e le prendiamo come nomi delle cose in sé18. Nelle sue Vorlesungen sulla retorica19, Nietzsche sottolinea, in affinità con 159 Gerber20, l’origine individuale del linguaggio e la sua sanzione sociale verifi-

WL, KSA 1, p. 880-881. «Simbolo significa qui una copia completamente imperfetta e frammentaria, un segno allusivo sulla cui comprensione bisogna giungere ad un accordo: solo che, in questo caso, la comprensione generale è una comprensione istintiva, cioè che non è passata attraverso la coscienza chiara» (DW [La visione dionisiaca del mondo], KSA 1, p. 572). 18 L’idea generale che il linguaggio discenda da una creazione artistica obliata come tale, e che – come vedremo – questa creazione originaria sia dovuta a individui-artisti, è presente in Emerson ed è molto probabile che Nietzsche abbia trovato qui i primi suggerimenti in questa direzione. Nella seconda serie degli Essays, che Nietzsche conobbe e lesse entusiasticamente da studente secondario, leggiamo: «il poeta è colui che nomina, l’artefice del linguaggio […] I poeti crearono tutte le parole, e per questo il linguaggio è l’archivio della storia e, per dir così, una sorta di tomba delle Muse. Sebbene l’origine della maggior parte delle parole sia caduta nell’oblio, ogni parola fu in principio un tratto di genio e fu ammessa perché in quel momento simbolizzava il mondo per il primo oratore e per il primo interlocutore. L’etimologista scopre che le parole più morte furono in altro tempo brillanti dipinti. Il linguaggio è poesia fossile. Come la pietra calcarea del continente, formata da una massa infinita di conchiglie di piccoli animali, così il linguaggio è fatto di immagini o tropi che al presente, nel loro uso secondario, già da molto hanno cessato di ricordarci la loro origine poetica» (The complete Essays and other Writings of Ralph Waldo Emerson, The modern Library, New York 1940, Essays: Second Series, «The Poet», p. 329). 19 Cfr. la Grossoktav-Ausgabe delle Nietzsche’s Werke (Edizione Kröner, Leipzig 1912), Vol. XVIII (Secondo della Terza Sezione «Philologica»), p. 251. 20 G. Gerber, Die Sprache als Kunst, 2 Voll., Mittler’sche Buchhandlung, Bromberg 18711873. Quest’opera fornì a Nietzsche il modello tropologico per la comprensione della genesi del linguaggio. Sulla relazione Gerber-Nietzsche cfr. M. Stingelin, Nietzsches Wortspiel als Reflexion auf poet(olog)ische Verfahren e A. Meijers, Gustav Gerber und Friedrich Nietzsche. Zum historischen Hintergrund der sprachphilosophischen Auffassungen des frühen Nietzsche, in «Nietzsche Studien», 17, 1988, pp. 337-349; 369-390. 16 17

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cante, ambedue momenti della lotta tra alcuni pochi individui creatori e una maggioranza che tende a fissarsi-trincerarsi nell’uso canonico. Ma una volta realizzato il patto linguistico, si assicurano le condizioni della pace mediante il dominio della rigidezza universale e canonica dei significati fissati come concetti. Questi, che inizialmente sono metafore create dagli individui più forti, dai «signori» che esprimono il loro dominio sugli uomini e le cose in tale creazione, divengono fredde astrazioni nelle mani del gregge, che si appropria di queste metafore privandole della loro originaria e «pericolosa» instabilità, del loro essere non con-diviso [com-partido, N.d.T.], sul quale poggia la loro vivacità e forza suscitatrice di immagini. Ricompare qui l’osservazione delle note sulla teleologia secondo la quale creiamo concetti – in se stessi inappropriati ad esprimere «la vera essenza delle cose» – spinti dalla necessità di far fronte all’ignoto: all’irrefrenabile divenire21. Sottomettendo la sua azione come essere «razionale» al potere dei concetti astratti, l’uomo ora non deve più temere di soffrire per «essere trascinato dalle impressioni repentine, dalle intuizioni». Come metafore addomesticate e spogliate della loro inquietante singolarità, i concetti sono la consumazione della «metamorfosi del mondo negli uomini», il far «prossimo» il suo essere estraneo e indifferente, grazie a cui giunge a risultarci abitabile con una certa tranquillità e sicurezza: Solo mediante l’indurimento e pietrificazione di un impetuoso torrente primordiale composto da una massa di immagini che sgorgano dalla capacità originaria della fantasia umana, solo mediante la credenza che questo sole, questa finestra, questo tavolo sono una verità in sé […] vive (l’uomo) con una certa calma, sicurezza e conseguenza22.

Però il sotterrato impulso a metaforizzare, l’innata volontà di sperimentazione dell’individuo non risulta in assoluto abolita per il fatto che tutto un mondo di rigidi concetti sia stato creato intorno a lui come una fortezza. Al contrario, tale impulso – dal quale «non si può prescindere neppure un solo istante, poiché se così si facesse si prescinderebbe dall’uomo stesso» –, si man- 160 tiene intatto e cerca «un nuovo territorio e un nuovo alveo per la sua attività e li trova nel mito e, soprattutto, nell’arte»: questa rappresenta un cammino di ritorno all’originaria ricchezza del divenire, uno spazio per l’affermazione delle forze individuali di trasgressione, di liberazione dalla ragnatela della convenzione. L’incontenibile vis ludica dell’artista è unita alla scoperta che il linguaggio è «poesia fossile» – secondo l’espressione di Emerson – e prende impulso dalle dimensioni incoscienti e «vive» del linguaggio, previe alla loro 21 «Solo ciò che è matematico si può comprendere pienamente […] per tutto il resto si è di fronte all’ignoto. Per affrontare questo, l’uomo inventa concetti che raccolgono soltanto una somma di proprietà fenomeniche, ma che non raggiungono la cosa» (Zur Teleologie [1867-68] in Werke. Historisch-Kritische Gesamtausgabe, Beck, München 1933-1940, p. 383). 22 WL, KSA 1, p. 883.

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fossilizzazione23, da dove procede «quella forza originaria mediante la quale ci inventiamo a noi stessi come una forma unica della natura»24. I vettori dell’arte e del sogno convergeranno nuovamente qui, collocandosi ora in uno dei poli della peculiare tensione tra il mondo gregariamente normalizzato e il fondo elementare delle forze individuali che lottano per rinnovarlo. Effettivamente, nel suo gioco serio con le metafore comuni, in antagonismo con le convenzioni del mondo regolare e stabile della veglia – ma usando i suoi stessi materiali, giacché il nuovo non sarebbe più comprensibile se non risultasse relativamente familiare – l’artista ri-configura «il mondo reale dell’uomo sveglio» introducendo in esso un ordine tanto inaudito e sorprendente, tanto arbitrario e originale com’è quello del mondo dei sogni: Confonde costantemente le etichette e le caselle dei concetti istituendo nuove trasposizioni, metafore e metonimie; mostra ininterrottamente il desiderio di configurare il mondo esistente dell’uomo sveglio, facendolo così variegato, così irregolare, così incosciente, così incoerente, con l’incanto e con la perenne novità del mondo del sogno […] con piacere creatore, lancia metafore disordinatamente e smuove i cumuli delle astrazioni, in modo che, per esempio, designa la corrente come il cammino in movimento che porta l’uomo dove suole andare. In questo momento ha gettato lontano da sé il segno della servitù25.

L’irruzione della nuova realtà che l’arte (come il sogno) propone – realtà non stabilizzata dall’abitudine né provvista del valore e della permanenza della convenzione –, permette di scoprire, con i suoi effetti nel mondo della veglia, che lo stato di quest’ultima, la coscienza stessa di essere sveglio, è intimamente articolato e sostenuto dalla regolarità e stabilità durevoli del tessuto concettuale gregario proprio del «mondo reale». 161

In sé, certamente, l’uomo sveglio acquista coscienza del fatto che è sveglio solamente per mezzo del rigido e regolare tessuto dei concetti e, proprio per questo, quando in qualche occasione un tessuto di concetti è strappato all’improvviso dall’arte, arriva a credere che sogni26.

Il sogno e il novum che l’artista introduce sono di per sé refrattari (in quanto idios kosmos) al mondo comune (koinos kosmos) normalizzato dal patto gregario; questo antagonismo potrà risolversi, ma solo parzialmente e non

23 «Chiunque comprenda una proposizione soltanto come una combinazione di parole e di concetti, invece di comprenderla come un’immagine – scrive Meijers, parafrasando Gerber –, non ha in mente il linguaggio vivente (lebendigen Sprache), bensì solo uno “scheletro”». A. Meijers, op. cit., in «Nietzsche Studien», 17, 1988, p. 378; G. Gerber, op. cit., p. 238. 24 R. Poirier, The Renewal of Literature: Emersonian Reflexions, Random House, New York 1987, p. 135. 25 WL, KSA 1, p. 887-888. 26 WL, KSA 1, p. 887.

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assolutamente, a loro favore se non rinunciano del tutto a fare uso delle stesse convenzioni contro le quali si erigono, se riescono a «copiare la vita dell’uomo»27 generico, quantunque questa copia sia per un tempo, fino alla sua «fossilizzazione», solo una maschera. I sogni non conquistano gli stessi diritti della veglia precisamente perché non riescono a tendere i ponti necessari: «Solo il fallimento dei nostri sogni nel costruire una totalità permanente l’uno con l’altro o con la vita della veglia – dice Russell – ci obbliga a condannarli»28. Si ricorderà l’illustrativa metafora con la quale Schopenhauer assimila il sogno e la veglia alle pagine di uno stesso libro, del quale sono possibili due letture diverse. Le idee non differiscono: La vita e i sogni sono fogli di uno e lo stesso libro. Leggerlo di continuo equivale alla vita reale. Però alcune volte, quando finiscono le ore di lettura (il giorno) e arriva il momento del riposo, continuiamo a sfogliare questo libro senza ordine né accordo, aprendolo a caso in una o l’altra delle sue pagine; spesso si tratta di una pagina già letta e in altre occasioni di una pagina sconosciuta, ma sempre sono pagine di uno e lo stesso libro. Così, una pagina isolata non conserva relazione alcuna con una lettura coerente da capo a fine, ma non per questo risulta da meno rispetto ad essa, se si pensa che anche l’insieme della lettura coerente comincia e finisce all’improvviso, per cui è possibile considerarla come una sola pagina un poco più estesa29.

Però non è il suo maestro che Nietzsche tiene presente nel suo testo quando pone in rilievo queste idee – forse perché ormai non ne condivide più il giudizio che fa della vita e della realtà empirica una mera fantasticheria chimerica, come per forza esse devono apparire a chi crede di avere accesso ad una realtà più sicura, stabile e metafisicamente definitiva, come la Volontà o l’Uno primordiale: Aveva ragione Pascal – dice Nietzsche – quando affermava che, se tutte le notti ci sopravvenisse lo stesso sogno, ci occuperemmo tanto di esso quanto delle cose 162 che vediamo ogni giorno: «Se un artigiano fosse sicuro di sognare ogni notte, per dodici ore complete, che è un re, credo – dice Pascal –, che sarebbe tanto felice quanto un re che sognasse tutte le notti per dodici ore di essere un artigiano»30.

A partire da queste osservazioni, Nietzsche si occupa del mito comprendendolo nei medesimi termini che definiscono il sogno. Nel farlo, torna sulla tematica dell’eccitabilità mitico-artistica degli antichi greci, già affrontata

WL, KSA 1, p. 888. B. Russell, Conocimiento del mundo exterior. Fundamentos para un método científico filosófico, Fabril, Buenos Aires 1964, p. 83. 29 A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, Sämtliche Werke, Wolfgang Freiherr von Löhneysen, Cotta-Insel, Stuttgart 1960, I, § 5, p. 50. 30 WL, KSA 1, p. 887. Il testo di Pascal è il fr. 386 dei Pensée dell’Edizione Brunschvicg. 27 28

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nel suo libro sulla tragedia, contrapponendo questa caratteristica, propria dell’«uomo intuitivo», a quella che è propria dell’«uomo razionale», equipaggiato di fronte al divenire con «concetti e astrazioni» e risultato egli stesso di una prolungata disciplina critica. Nietzsche intende questa «eccitabilità mitica» dei greci antichi come spontaneità creatrice non soffocata o «repressa» dall’intronizzazione del ragionamento logico che porta al primato dell’«uomo teorico», secondo la diagnosi critica de Die Geburt der Tragödie che, nonostante importanti cambiamenti, ancora soggiace a queste pagine. La veglia diurna di un popolo miticamente eccitato, come quello degli antichi greci, è, di fatto, grazie al miracolo che vi opera di continuo, così come il mito suppone, più somigliante al sogno che alla veglia del pensatore scientificamente disincantato31.

Nell’orizzonte del mondo miticamente configurato, le possibilità degli avvenimenti non sono limitate e costrette al ristretto spazio del reale sanzionato, essendo escluso il resto come «finzione», bensì In ogni momento, come nei sogni, tutto è possibile, e la natura intera volteggia intorno all’uomo come se si trattasse semplicemente di una mascherata degli dei, per i quali non sarebbe che uno scherzo l’ingannare gli uomini sotto tutte le ­figure32.

Però ora non si tratta del dio «divinamente insoddisfatto» della sua opera giovanile, il quale suscita un mondo di sogno e illusione che include l’uomo come sua creazione. Al contrario, simile istanza metafisica sembra relativizzata nel testo di Nietzsche da quel «come se» (als ob), che colloca «gli dei» in un luogo per lo meno ipotetico, se non semplicemente retorico. In ogni caso, ciò che sta al centro di Über Wahrheit und Lüge in aussermoralischen Sinne non è più la cosmodicea ispirata da Schopenhauer e Wagner, fortemente gravata dal sublime33, bensì l’inquietante fabbrica della verità umana, troppo umana. 3. Viaggio in un «secondo mondo reale» 163

Com’è risaputo, Menschliches, Allzumenschliches apre un nuovo orizzonte alla riflessione di Nietzsche: quello dello spirito libero. È l’orizzonte sgombro del «nobile traditore»34 che ha decisamente girato le spalle ad ogni immediatezza romantica propugnata dai suoi maestri, ad ogni «convinzione» e ad ogni

Ibid. WL, KSA 1, pp. 887-888. Corsivo di S. Sánchez. 33 S. Barbera, op. cit., pp. 58 e ss. 34 NF [Frammenti postumi] 17 [66], 1876, KSA 8, p. 308. 31 32

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fede, per intraprendere il cammino della conoscenza. Il senso di rottura di questo «nobile tradimento», premessa fondamentale del libro – e dell’intero susseguente itinerario di Nietzsche –, lo dà un progetto di prologo del 1877: Voglio dichiarare espressamente ai lettori dei miei scritti precedenti che ho abbandonato le opinioni metafisico-artistiche che li dominavano: erano piacevoli, però insostenibili35.

In contrasto con tali opinioni metafisiche precedenti, che valutavano la storia e la scienza come pericolose per la vita, dato il loro carattere critico dissolvente, Nietzsche dichiara ora la necessità di una filosofia storica legata alle scienze naturali: si tratta di disoccultare e porre in evidenza, mediante la vivisezione storico-critica, tutto l’artificiale macchinario che soggiace all’ideale romantico ed alla metafisica, demitizzando l’«origine miracolosa» attribuita a tutto quanto si è stimato superiore. Così, l’intera costellazione di verità della metafisica, della religione e della morale, viene sorpresa nella sua inconsistenza, tradendo il fatto che non possiede lo splendore di un fuoco proprio, ma quello che le presta un’esistenza indebolita e incapace, senza questa risorsa, di «far fronte all’ignoto» – secondo l’espressione delle note sulla teleologia36. In questo movimento radicale di critica ab inferiori anche il sogno viene portato alla cruda luce del giorno ed esaminato secondo lo stesso implacabile ed incisivo sguardo storico. Spogliato dell’aura romantica che lo sottraeva come un miracolo alla realtà comune e gli concedeva preminenza rispetto a questa, è presentato ora come un evento della nostra vita che è stato oggetto di una cattiva interpretazione, la più antica che se ne è data e quella che è stata determinante perché a partire da essa si comprendesse tutto l’esistente secondo la completa scissione tra un mondo vero e una realtà apparente – nel caso dell’uomo, come scissione tra anima e corpo –, permettendo così che si manifestasse l’inveterata idiosincrasia dei filosofi metafisici e delle sensibilità religiose, i loro incurabili Vorurteile. Cattiva comprensione del sogno. In epoche di cultura rudimentale e primitiva, l’uomo credeva che nel sogno venisse a conoscenza di un secondo mondo reale [eine zweite reale Welt]; questa è l’origine di ogni metafisica. Senza il sogno non si sarebbe trovato nessun motivo per la scissione del mondo. Anche la scissione 164 tra anima e corpo mantiene una relazione con la più antica concezione del sogno, come allo stesso modo l’ammissione di una forma corporea dell’anima [Seelenscheinleib], vale a dire, l’origine di qualsiasi credenza negli spiriti e probabilmente anche la credenza negli dei. «Il morto continua a vivere, dato che appare in sogno al vivo»: così si ragionava allora e così per molti millenni37. NF 23 [159], 1876-1877, KSA 8, p. 463. Cfr. supra nota 21. 37 MA [Umano, troppo umano] I, 5, KSA 2, p. 27. Anche nel testo delle Vorlesungsaufzeichnungen, in cui Nietzsche si occupa del culto dei morti e degli antenati, leggiamo: «Der 35 36

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Si potrebbe pensare che l’idea centrale secondo la quale il sogno pone l’uomo in contatto con un «secondo mondo reale», e lo porta ad ammettere l’esistenza di spiriti e dèi, sia stata suggerita a Nietzsche da autori classici antichi, com’è il caso di Lucrezio38, al quale ha già fatto allusione in Die Geburt der Tragödie, quando ha sottolineato l’importanza del sogno nei termini in cui era presentato in questa opera: Nel sogno fu dove, secondo Lucrezio, per la prima volta si presentarono davanti alle anime degli uomini le splendide figure degli dei39.

Si potrebbe anche pensare, rimanendo nell’ambito dell’epicureismo, a quando Sesto Empirico fa riferimento all’opinione di Epicuro sull’origine della credenza negli dei, autori questi entrambi molto ben conosciuti e apprezzati da Nietzsche: Epicuro pensa che gli uomini trassero la concezione di Dio dalle presentazioni [presentaciones, N.d.T.] ricevute nel sogno [katà toùs hypnous phantasiôn]; «perché – dice – quando grandi immagini di forma umana sopravvennero loro durante il sogno, credettero che tali dei di forma umana esistessero realmente»40.

Ma l’allusione a «epoche di cultura rudimentale e primitiva» e le proposizioni finali che includono i morti nelle visite che fornirebbe il sogno inducono a pensare ad altra letteratura. E come succede assai spesso in Menschliches, Allzumenschliches, questa letteratura è scientifica. In effetti, tutto pare indicare che Nietzsche abbia tenuto presente qui l’opera dell’etnografo inglese John Lubbock41 The Origin of Civilization and the Primitive Condition of 165 Man. Mental and Social Condition of Savages, pubblicata a Londra nel 1870 Todte lebt fort, denn er erscheinst in Träumen und Halluzinationen der Lebenden; so begründet sich der Glaube an Geister, getrent von Körper» (Kritische Gesamtausgabe, Walter de Gruyter, Berlin-New York 1995, II 5, Der Gottesdienst der Griechen [WS 1875-1876; WS 1877-1878] § 3, p. 371). Cfr. anche MA I, 147, KSA 2, p. 142. 38 De rerum natura, V, 1168 e ss. 39 GT, 1, KSA 1, p. 26. 40 Sextus Empiricus, Against the Physicist, translated by R.G. Bury, Harvard University Press (Loeb), 2006, Book I, 25, p. 15. 41 Sir John Lubbock, Lord Averbury (1834-1913), occupò un posto significativo tra gli antropologi e studiosi della preistoria britannici del sec. XIX, essendo colui che per la prima volta impiegò i termini «paleolitico» e «neolitico» nel suo libro Prehistoric Times (1865). Il suo interesse per l’antropologia si orienta soprattutto verso la ricerca di «paralleli etnografici» che rendano possibile la ricostruzione dei dati archeologici, per cui utilizza un metodo comparativo di taglio evoluzionista. Criticato a volte, per il suo scarso criticismo documentale e per i suoi pregiudizi contro i «selvaggi», certo è che i dati etnografici utilizzati da Lubbock sono frequentemente non solo corretti, ma insostituibili oggi a causa della scomparsa di molte fonti. Si veda anche D.S. Thatcher, Nietzsche’s Debt to Lubbock, in «Journal of the History of Ideas», 44, 2, 1983, pp. 293-309. Thatcher registra i luoghi del testo di Nietzsche che evidenziano la sua lettura dell’antropologo inglese, senza approfondire il contesto problematico-speculativo nel quale avviene la recezione di questi da parte del filosofo.

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e tradotta in tedesco dalla terza edizione inglese nel 1875, edizione quest’ultima acquistata da Nietzsche a Basilea l’anno stesso della sua uscita e presente nella sua biblioteca personale42. Nel primo dei capitoli del suo libro dedicati alla religione di quelle che chiama alternativamente «razze inferiori» [lower races] o «popoli primitivi attualmente esistenti» [existing primitive people], Lubbock scrive: I sogni sono intimamente associati con le forme inferiori di religione. Per il selvaggio, possiedono una realtà e un’importanza che noi difficilmente possiamo apprezzare. Durante il sogno, lo spirito sembra abbandonare il corpo; e come nei sogni visitiamo altre località e perfino altri mondi, come se vivessimo una vita separata e differente, i due fenomeni sono considerati, in modo naturale, l’uno come complemento dell’altro. Di qui il fatto che il selvaggio pensa che gli eventi dei suoi sogni siano tanto reali come quelli delle sue ore di veglia, e da qui anche il fatto che sente in modo naturale che ha uno spirito che può abbandonare il corpo43.

E dopo aver intercalato esempi presi da ricercatori e viaggiatori, prosegue: «Da ultimo, quando sognano amici o parenti morti, i selvaggi credono fermamente di essere visitati dai loro spiriti, ed è da qui che credono, non nell’immortalità dell’anima, ma nella sua sopravvivenza al corpo44.

Cosicché, nelle sue affermazioni concernenti «epoche di cultura rudimentale e primitiva», Nietzsche si orienta, qui, come in altre parti, attraverso le ricerche di uomini di scienza contemporanei, molti dei quali (come nel caso di biologi, fisiologi, antropologi, etnografi, ecc.) assumono prospettive chiara- 166 mente darwiniane. Ma quel che forse importa di più, in relazione all’aforisma che ci interessa, è ciò che Nietzsche costruisce speculativamente con l’informazione scientifica che gli apporta la lettura di The Origin. In effetti, possiamo dire che il tratto «platonico» – se ci è permesso usare in senso lato questa espressione – inerente alla metafisica ed alla religione, cioè, la scissione prima richiamata della realtà in due livelli o mondi diversi, venendo denunciato da Nietzsche come procedente da una cattiva comprensione [Mißverständnis] del sogno, perde ogni appoggio razionale argomentabile. Risulterebbe così che il sogno non conduce a nessun altro mondo, bensì meramente suscita in chi sogna l’illusio42 Die Entstehung der Civilisation und der Urzustand des Menschengeschlechtes, Jena: H. Costenoble, 1875. Cfr. Nietzsches persönliche Bibliothek, herausgegeben von Giuliano Campioni, Paolo D’Iorio, Maria Cristina Fornari, Francesco Fronterotta und Andrea Orsucci, unter Mitarbeit von Renate Müller-Buck, Walter de Gruyter, Berlin-New York 2003, p. 276. Io utilizzo l’edizione nordamericana del 1871 (Apleton and Co., New York), effettuata sulla prima edizione inglese. 43 The Origin, cit., p. 126. 44 The Origin, cit., p. 126-127.

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ne che ciò accada. Però questa illusione, secondo un topos di Nietzsche, si è eretta ad istanza metafisica (la «vera» realtà) e religiosa (gli dèi o Dio) che ha ipotecato largamente, con l’autorità delle letzen Dinge, le cose più prossime. Si deve osservare, inoltre, che se consideriamo le affermazioni di Nietzsche che mirano, come vedremo, a fare del sogno un prodotto fisiologico cerebrale dovuto a stimoli sensoriali esterni45, ciò che questo aforisma suggerisce è che quello che ai primitivi si presentava come una via di uscita dall’arco dell’unidimensionalità immanente della vita, si rivela in realtà come un miraggio: invece di una porta su un altro mondo, il sogno è una sorta di specchio nel quale si riflette, duplicandosi, lo stesso mondo della veglia. Nuovamente stiamo di fronte all’idea del sogno come apparenza dell’apparenza, però ora l’apparenza originale copiata non è stata suscitata da nessuna istanza metafisica e non si trova, di conseguenza, depotenziata da questa: è semplicemente la realtà empirica [Wirklichkeit] che Nietzsche considera all’interno del suo proprio orizzonte teorico demistificatore, nel quale confluiscono il neokantismo e il darwinismo dell’epoca; un orizzonte nel quale spera di vederla emergere finalmente «sdivinizzata», libera da tutte le «ombre di Dio»46. 4. Preistoria della nostra veglia Nell’aforisma 12 di Menschliches, Allzumenschliches, intitolato «sogno e cultura», Nietzsche torna su ciò che potremmo chiamare il parallelo tra la veglia degli antichi e il sogno dei moderni, già richiamato, come abbiamo avuto opportunità di vedere, in Über Wahrheit nell’equiparare la «veglia diurna di un popolo miticamente eccitato» (i.e., gli antichi greci) con il sogno del «pensatore scientificamente disincantato». Nietzsche richiama l’attenzione sul 167 ­fatto che nel sogno la memoria appare ridotta al minimum della sua attività e della sua efficacia, così come «deve esser successo» a tutti gli uomini durante la veglia – ipotizza – nei «tempi arcaici dell’umanità». Questo assopimento della memoria nel sogno la rende «arbitraria e confusa» e la fa incorrere negli stessi «errori» dell’uomo intuitivo di Über Wahrheit che, come abbiamo visto, «confonde costantemente le etichette e le caselle dei concetti»47. Allo stesso modo, la memoria di colui che dorme, dice ora Nietzsche, «costantemente confonde le cose in base alle più effimere analogie», ovverosia, le considera «identiche» laddove non sono più che somiglianti. Ricordiamo che anche questo procedimento dell’identificazione del non identico era stato posto enfaticamente in rilievo da Nietzsche in Über Wahrheit, con l’intenzione di mostrare – seguendo Spir nella sua critica di ogni identità nel «mondo dell’e-

MA I, 13, KSA 2, p. 32-33. Cfr. FW [La gaia scienza] 108, 109, KSA 3, p. 467-469. 47 WL, KSA 1, p. 888. 45 46

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sperienza»48 – l’innegabile arbitrarietà e illogicità che domina la genesi dei concetti o, come si legge nel primo aforisma di Menschliches, come sorgono «il razionale dall’irrazionale», «la logica dalla illogicità»49. Nell’idios kosmos del sogno la nostra memoria indebolita ci rende incauti, disattenti, negligenti, di modo che riconosciamo male le cose e le equipariamo erroneamente in base ad un’identità che non esiste, dando luogo alla causa del cattivo ragionamento [Ursache des schlechten Schliessens], quale si può considerare che sia quello che sta alla base della cattiva comprensione del sogno, secondo l’aforisma 5 precedentemente considerato: «Il morto continua a vivere, dato che appare in sogno al vivo». In ciò, dice Nietzsche, ci comportiamo come il selvaggio che crea i suoi miti: con lo stesso arbitrio e confusione composero i popoli le loro mitologie, ed ancora oggi sogliono i viaggiatori osservare la propensione selvaggia all’oblio, come il loro spirito, dopo breve tensione della memoria, inizi a vacillare e, per mera rilassatezza, produca la menzogna e l’assurdo. Però tutti noi rassomigliamo nel sogno a questo selvaggio, il riconoscimento insufficiente e l’equiparazione erronea sono le cause del cattivo ragionamento di cui ci rendiamo colpevoli nel sogno: di modo che, quando un sogno ci si presenta chiaramente, ci spaventiamo di noi 168 stessi poiché conteniamo in noi tanta assurdità50.

Nel finale dell’aforisma, Nietzsche segnala come la nitidezza delle nostre rappresentazioni oniriche, inseparabile dalla nostra impassibile persuasione 48 African Spir, Forschung nach der Gewissheit (1869) e Denken und Wirklichkeit (1873741, 18772). Sulla ricca e decisiva relazione di Auseinandersetzung con African Spir, tanto in WL come in MA e l’opera seguente, mi permetto di rinviare ai miei lavori «Logica, verità e credenza: alcune considerazioni in merito alla relazione Nietzsche-Spir» in M.C. Fornari (a cura di), La trama del testo. Su alcune letture di Nietzsche, Milella, Lecce 2000, pp. 249-282 e Linguaggio, conoscenza e verità nella filosofia del giovane Nietzsche: i frammenti postumi del 1873 e le loro fonti, in «Annuario Filosofico», 16, 2000, pp. 213-240. 49 MA I, 1 KSA 2, p. 23. Precedentemente: WL, KSA 1, pp. 879-880: «Ogni parola si converte in maniera immediata in concetto poiché giustamente non ha da servire per l’esperienza singolare e completamente individualizzata alla quale deve la sua origine […], bensì deve adattarsi allo stesso tempo ad innumerevoli esperienze, per dir così, più o meno similari, mai identiche strettamente parlando; insomma, a casi puramente differenti. Ogni concetto si forma per equiparazione di casi non uguali». Cfr. allo stesso modo MA I, 11, KSA 2, p. 30-31. 50 MA I, 12, KSA 2, p. 31. Anche qui Nietzsche si appoggia a Lubbock per caratterizzare la memoria e l’attenzione dei selvaggi come intermittenti ed imperfette, e come fonti della «menzogna e dell’assurdo». In una pagina dell’introduzione del suo libro, Lubbock cita la testimonianza di un viaggiatore che ha conosciuto gli Ahts, comunità selvaggia del nordovest del Nordamerica: «All’uomo civilizzato, la mente del nativo sembra generalmente essere addormentata (asleep); e se gli fai all’improvviso una nuova domanda, devi ripetergliela mentre la mente del selvaggio sta sveglia, e parlare con enfasi fino a che lui ne capti il senso. […] si può osservare che il selvaggio perde a volte la memoria quando sta comunicando volontariamente qualche informazione. […] Però una breve conversazione lo stanca, soprattutto se le domande che gli si fanno richiedono uno sforzo del pensiero o della memoria da parte sua. Quindi, la mente del selvaggio sembra vacillare, e per mera debolezza, e questi dice menzogne e assurdità» (The Origin, cit., p. 5).

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circa la loro realtà, riattualizzi in noi similari stati allucinatori dell’umanità primitiva, frequenti in essa e perfino collettivi. Così, conclude Nietzsche, nel dormire e sognare riattiviamo in noi l’umanità primitiva: La perfetta chiarezza di tutte le rappresentazioni del sogno, che ha come presupposto la credenza incondizionata nella loro realtà, ci porta alla memoria stati passati dell’umanità nei quali l’allucinazione era straordinariamente frequente e forse si impossessava simultaneamente di comunità ed interi popoli. In questo modo, dormendo e sognando, torniamo a sperimentare in noi l’attività dell’umanità primitiva51.

L’affermazione che molte caratteristiche dell’uomo primitivo (credenze, abitudini, ecc.) sopravvivano sotterrate, però agenti, nell’uomo moderno è un topos della letteratura scientifica dell’epoca, specialmente del darwinismo. Lubbock vede basarsi in ciò l’importanza dello studio delle abitudini, leggi e idee dei «popoli primitivi attualmente esistenti», giacché in essi è possibile osservare «i più precoci stadi mentali per i quali è passata la razza umana» e verificare che molte idee primitive «sono radicate nelle nostre menti, come i fossili che si trovano incrostati nel suolo»52. Per quel che concerne specificamente il sogno, l’idea che in questo operi una sorta di «regressione» a stadi primitivi [Urzustände] dell’umanità, atavismi che vengono attualizzati in modo che torniamo a viverli in noi, costituisce chiaramente il presupposto centrale della concezione di Nietzsche a partire da Menschliches. Nell’aforisma 13 di quest’opera, di cui ci occuperemo nel prossimo paragrafo, essa appare esplicitamente enunciata: 169

Nel sogno continua ad operare in noi quella porzione arcaica di umanità, poiché costituisce le fondamenta sulle quali si sviluppò, e in ogni uomo si sviluppa ancora oggi, la ragione superiore: il sogno ci riporta a remoti stadi della cultura umana53.

E in Morgenröte trova netta espressione in un aforisma in cui il sogno è equiparato ai rapimenti passionali ed alla follia, poiché comporta, come questi, una restaurazione ed un regresso della memoria alle «esperienze primigenie» [Urerfahrungen] sul cui oblio si costruì nel tempo la condizione dell’uomo civilizzato: Negli accessi della passione, nelle fantasie del sogno e della pazzia, l’uomo riscopre la sua preistoria e la preistoria dell’umanità: l’animalità con i suoi gesti selvaggi; la sua memoria retrocede, quindi, assai lontano verso il passato, mentre invece

MA I, 12, KSA 2, p. 32. The Origin, cit., p. 1. 53 MA I, 13, KSA 2, p. 33. 51 52

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la sua condizione di civilizzato si sviluppò a partire dall’oblio di tali esperienze originarie, con l’indebolimento pertanto di questa memoria54.

Sul finire del secolo XIX, un medico viennese, lettore attento e originale di Nietzsche, che si volse all’opera di quest’ultimo in cerca di materiali per la sua propria Traumdeutung, dovette valutare queste osservazioni dell’autore di Menschliches come una conferma di alcuni aspetti dalla sua teoria psicologica, che, secondo la sua speranza, avrebbe potuto apportare importanti contributi alla ricostruzione delle fasi arcaiche dell’umanità: Abbiamo ormai il sospetto di quanto azzeccata sia l’opinione di Nietzsche che «nel sogno persiste uno stato primitivo dell’umanità, al quale a stento possiamo arrivare per una via diretta», e speriamo che l’analisi dei sogni ci conduca alla conoscenza dell’eredità arcaica dell’uomo e ci permetta di scoprire in lui lo spiritualmente innato […] risultando così che la psicoanalisi può aspirare ad un posto importante tra le scienze che si sforzano di ricostruire le fasi più antiche e oscure degli inizi dell’umanità55.

5. Ragionando in sogno L’aforisma 13 completa la «Traum-Theorie» di Menschliches. Il suo tema si enuncia nel titolo: «Logica del sogno» e, in parte, costituisce un approfondimento dell’aforisma 12. Nietzsche comincia con una considerazione relativa alle fonti del sogno. Secondo la sua opinione, i sogni sono provocati esclusivamente da stimoli 170 fisici o sensoriali che agiscono dall’esterno di chi dorme, oppure provengono casualmente dagli organi interni: Quando dormiamo, molteplici stimoli interni mantengono il nostro sistema nervoso in un costante stato di eccitazione, quasi tutti gli organi secernono e si mettono in attività separatamente, il sangue circola impetuosamente, la posizione del dormiente comprime certe membra, la camicia da notte influisce in modi diversi sulla sensibilità, lo stomaco digerisce e agita con i suoi movimenti altri organi, l’intestino si contorce, la posizione della testa porta con sé posizioni muscolari insolite, i piedi, scalzi, non pestando il suolo con le piante, causano la sensazione d’insolito tanto quanto il differente vestiario di tutto il corpo; tutto ciò, secondo la sua variazione ed il suo grado quotidiano, eccita per il suo carattere inusitato tutto il sistema, inclusa la funzione cerebrale56.

M [Aurora] 312, KSA 3, p. 226. S. Freud, La interpretación de los sueños, Alianza, Madrid 1970, Vol. 3, p. 175. Non troviamo la citazione nelle opere di Nietzsche. Probabilmente Freud cita a memoria, e il testo in questione riproduce, non letteralmente, il senso di alcune righe di MA I, 13 citato prima. 56 MA I, 13, KSA 2, p. 32. Cfr. anche NF 23 [12], 1876-1877, KSA 8, p. 407. 54 55

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Freud, parlando nella sua Traumdeutung di quali siano state le sue fonti e considerando le differenti posizioni degli studiosi del sogno, allude alle ipotesi difese dai filosofi, secondo le quali, in un modo o nell’altro, «i sogni nascono da stimoli essenzialmente spirituali e rappresentano manifestazioni di forze psichiche che durante il giorno si trovano impedite a manifestarsi». «In totale opposizione a queste ipotesi – aggiunge – la maggioranza degli autori medici è concorde in un’opinione che a stento attribuisce ai sogni il valore di un fenomeno psichico»57. Anche se Freud non include Nietzsche come rappresentante di questa posizione, comprendiamo che la sua maniera di considerare il sogno coincide esattamente con quella dei medici da lui richiamati. In ciò deve vedersi un esempio chiaro della caratteristica prospettiva di Nietzsche dopo l’abbandono delle sue posizioni romantiche e metafisiche: ora il sogno appare nell’orizzonte delle «cose più prossime», «le più piccole e quotidiane», quelle che sono state largamente ipotecate-calunniate dalle «cose ultime» propugnate al di sopra del mondo e la vita concreta degli uomini dai metafisici e dagli uomini religiosi58. E in questo tragitto il paesaggio più accettabile, quello che meglio si adatta alla dura massima di igiene intellettuale che si è imposto Nietzsche come uomo di conoscenza, non è quello che si apre davanti agli occhi dell’artista né davanti agli occhi del filosofo così come questi si è sempre presentato, bensì il paesaggio che scruta lo sguardo del ricercatore della natura: «Una sete veramente ardente si impossessò di me – dice in Ecce Homo riferendosi all’epoca di Menschliches: a partire da quel momento, non ho coltivato di fatto nient’altro che fisiologia, medicina 171 e scienze naturali»59. Effettivamente: lo sguardo di Nietzsche sul sogno è lo sguardo dis-idealizzante [des-idealizadora, N.d.T.] dei medici, i fisiologi, gli scienziati della natura. Nietzsche sottolinea come, di fronte alle eccitazioni sperimentate dal cervello a causa dell’impatto dei molteplici stimoli ai quali è esposto il dormiente, «ci sono quasi cento motivi perché lo spirito si stupisca e cerchi ragioni di questa eccitazione». Precisamente, nella definizione del sogno che Nietzsche testa ora, esso «è la ricerca e la rappresentazione delle cause di queste sensazioni suscitate, ossia delle presunte cause»60. Così, se nell’aforisma 12 collocava al centro della sua analisi il riconoscimento imperfetto delle cose nel sogno (dovuto a un rilassamento della memoria) e la conseguente identità (erroneamente concepita) del non identico, ora la sua attenzione si concentra sulla costruzione di falsi ragionamenti a partire dall’assegnazione fallace delle cause. Con la stessa certezza con cui manteniamo le nostre credenze più elementari nella veglia, nei sogni attribuiamo cause alle eccitazioni suscitate dagli stimoli esterni ed interni che riceve il nostro cervello durante il riposo.

S. Freud, La interpretación de los sueños, cit., vol. I, p. 4. Cfr. MA II, 5, 6, KSA 2, p. 541-542. 59 EH [Ecce Homo], Menschliches, Allzumenschliches, KSA 6, p. 325. 60 MA I, 13, KSA 2, pp. 32-33. 57 58

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Si tratta di un’assegnazione causale retrospettiva (causa post effectum) che suppone un’inversione apparente del tempo, grazie alla quale ciò che è posteriore (l’invenzione figurativa con cui il sogno reagisce all’eccitazione o sensazione) diventa anteriore essendo interpretato (nel «racconto» del sogno) come la causa della sensazione del dormiente, che crede di vivere prima le circostanze che hanno occasionato la sensazione e solo dopo questa. Nietzsche introduce la trattazione del tema alludendo ai sogni in cui chiaramente uno stimolo esterno è incorporato come parte del sogno stesso: Chi si leghi i piedi con due cinghie forse sognerà che due serpenti si attorcigliano ai suoi piedi: questo è dapprima un’ipotesi, poi una credenza accompagnata dalla rappresentazione e l’invenzione di un’immagine: «Questi serpenti devono essere la causa di quella sensazione che io, il dormiente, sperimento», così giudica lo spirito del dormiente. Per questi, il passato prossimo così interpretato si converte in presente attraverso la fantasia eccitata. Così, ognuno sa per esperienza con quale rapidità chi sogna incorpori nel suo sogno un suono che lo colpisca fortemente, per esempio, rintocchi, spari di cannone, cioè, li spiega a posteriori [hinterdrein], in modo che crede di sperimentare prima le circostanze occasionanti e dopo quel suono61.

Certamente, Nietzsche è meno interessato al sogno in sé che alla sua logica soggiacente: una logica assurda che equivale alla pura e semplice illogicità. Soprattutto, gli richiama l’attenzione la perentoria disparità tra il com­ portamento della mente nel sogno, disposta ad assentire alle più stravaganti 172 ipotesi esplicative convertendole in certezze, e quello della stessa mente nella veglia, caratterizzata dalla cautela e dallo scetticismo: Come succede che la mente di chi sogna sbagli sempre così, mentre invece quella stessa mente in stato di veglia suole essere tanto fredda, cauta e scettica di fronte ad ogni ipotesi, al punto che la prima ipotesi che appare per spiegare una sensazione le basta per credere immediatamente alla sua verità (poiché nel sogno crediamo al sogno come se fosse realtà, prendiamo la nostra ipotesi come pienamente dimostrata)?62

La risposta di Nietzsche torna sull’idea di una riattivazione atavica nel sogno di abitudini arcaiche di pensiero, sopra le quali si sarebbe edificata la nostra attuale razionalità. Tali abitudini, che forniscono il tipo di spiegazioni «fantastiche e rozze» che nei sogni scattano in maniera automatica, sarebbero quelle proprie dell’uomo primitivo in stato di veglia, risultato di un addestramento effettuato durante prolungati periodi del suo sviluppo, sostituito posteriormente da un altro addestramento ed un’altra disciplina, che avrebbero sviluppato le abitudini della nostra razionalità attuale: 61 62

MA I, 13, KSA 2, p. 33; cfr. anche NF 21 [38], KSA 8, p. 372. MA I, 13, KSA 2, p. 33.

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Io credo che attualmente l’uomo ragioni nei sogni ancora come millenni fa ragionava l’umanità anche durante la veglia: la prima causa che giungeva allo spirito per spiegare qualcosa che avesse necessità di spiegazione, le bastava e passava per verità. (Così si comportano ancora oggi i selvaggi, secondo i racconti dei viaggiatori) […] Pensare durante il sogno ci è oggi tanto facile perché durante immensi periodi dell’evoluzione umana siamo stati così ben addestrati in questa maniera fantastica e rozza di spiegare in base alla prima idea che viene in mente63.

Considerando gli analoghi stati delle allucinazioni ipnagogiche, «portici e anticamere» del sogno, Nietzsche osserva come anche qui l’intelletto, con il concorso della fantasia, dia in ragionamenti erronei come il «sillogismo dall’effetto alla causa». In entrambi i casi, tale attività illogica deriverebbe da una sorta di svago o liberazione del cervello dalla sua dura disciplina diurna, giacché «durante il giorno deve soddisfare le severe esigenze di pensiero che illustra la più alta cultura». In questo modo, a partire dall’osservazione dei fenomeni del sogno e del suo analogo, l’allucinazione ipnagogica, possiamo inferire – conclude Nietzsche – «quanto tardivamente si sia sviluppato il pensiero logico più incisivo e il discernimento rigoroso di causa ed effetto», giacché ancora oggi ricorriamo involontariamente a «quelle forme primitive di ragionamento e ci passiamo approssimativamente la metà della nostra 173 vita in quello stato». Anche il poeta, aggiunge, si comporta in modo simile quando imputa i suoi stati d’animo e umori a cause che non sono per nulla quelle vere: come il sogno, anch’egli ci ricorda l’umanità antica e può aiutarci a comprenderla64. Un’ultima considerazione merita il tema del sogno in relazione con il cattivo ragionamento in Götzen-Dämmerung. Occupandosi in quest’opera degli errori tipici della ragione, Nietzsche torna sopra «l’errore delle cause immaginarie», partendo nuovamente dalla considerazione del sogno, nel quale «le rappresentazioni che furono generate da una situazione determinata, sono concepite erroneamente come causa della stessa»65. Ma, in questa riflessione tarda, Nietzsche omette ogni riferimento al fatto che il cattivo ragionamento nel quale incorriamo nei sogni fosse una pratica dell’umanità antica «anche durante la veglia». La ragione di tale omissione sembra chiara: Nietzsche trova ora che la stessa umanità presente ragiona in stato di veglia così come fa nei sogni («Di fatto, quando siamo svegli agiamo allo stesso modo»)66, sotto la 63 Ibid. Il riferimento a racconti di viaggiatori allude qui a G.M. Sproat, Scenes and Studies of Savage Life,1868, citato da Lubbock in The Origin, cit., p. 5 e ss. Cfr. supra nota 50. 64 MA I, 13, KSA 2, p. 35. 65 GD [Il crepuscolo degli idoli], Die vier grossen Irrthümer, 3, KSA 6, p. 92. 66 Nel senso di questa «equiparazione», risulta ugualmente interessante il testo di JGB [Al di là del bene e del male] 193 (KSA 5, pp. 114-115), nel quale Nietzsche segnala il fatto che «le esperienze che abbiamo mentre sogniamo […] finiscono per formare parte dell’economia globale della nostra anima», lo stesso che qualsiasi esperienza «realmente» sperimentata. Il travaso di elementi (Nietzsche parla qui di abitudini) dalla sfera onirica alla sfera della veglia evidenzia quanto poco definiti e stabili siano i confini comunemente supposti tra le due. L’idea

Dal sogno del dio al sogno dell’animale da gregge

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compulsione di un «istinto causale» [Ursachentrieb] grazie alla quale ad ogni eccitazione viene assegnata una causa: La maggior parte delle nostre sensazioni generali – ogni specie di ostacolo, pressione, tensione, esplosione nel gioco e contragioco degli organi, come specialmente lo stato del nervus sympaticus – eccitano il nostro istinto causale: vogliamo avere una ragione per cui ci sentiamo bene o ci sentiamo male67.

Quest’istinto causale risulta essere tanto elementare nella nostra costituzione, quanto decisivo, giacché la coscienza stessa di un fatto non ha luogo fino a che non sia stata assegnata a tale fatto una determinata causa o motivazione: Mai ci basta stabilire il fatto che ci sentiamo in questo e quel modo: non ammettiamo quel fatto – non prendiamo coscienza di esso – fino a che non abbiamo dato una specie di motivazione68.

E l’assegnazione di tale motivazione come causa si effettua con l’interven- 174 to incosciente del ricordo che apporta, come ingredienti, stati anteriori similari, insieme alle loro corrispondenti interpretazioni causali, incorporando anche – il che risulta decisivo – la credenza che i processi coscienti concomitanti siano stati le cause. Come risultato, sorge l’abituarsi ad una interpretazione causale data, a detrimento di ogni indagine ulteriore sulla causa «reale»: Il ricordo, che in questo caso entra in attività senza che noi lo sappiamo, evoca stati anteriori di egual specie, così come le interpretazioni causali fuse con essi, – non la causalità degli stessi. Indubbiamente, la credenza che le rappresentazioni, i processi coscienti concomitanti siano stati le cause, è evocata anche dal ricordo. Sorge così una abitudine ad un’interpretazione causale determinata, la quale ostacola in verità una ricerca della causa e addirittura la esclude69.

Nietzsche aggiunge una «chiarificazione psicologica di questo fatto» che colloca ancora una volta al centro della scena l’elementare timore dell’ignoto e la necessità istintiva di fargli fronte e scongiurarlo: questo imprime a tutto il processo prima descritto il carattere dell’appropriazione e della difesa in mezzo alla lotta: Il ridurre qualcosa di sconosciuto a qualcosa di conosciuto allevia, tranquillizza, soddisfa, procura, addirittura, un sentimento di potere. Con lo sconosciuto si dan-

generale che «la causalità del sogno è analoga alla causalità della veglia» la ritroviamo già in un frammento dei primi anni di Basilea: cfr.: NF 7 [195], KSA 7, p. 213. 67 GD, Die vier grossen Irrthümer, 3, KSA 6, p. 92. 68 Ibid. 69 Ibid.

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no il pericolo, l’inquietudine, la preoccupazione, – il primo istinto mira ad eliminare questi stati penosi. […] Una spiegazione qualunque è meglio che nessuna […] L’istinto causale è condizionato ed è eccitato dal sentimento della paura. Il «perché» deve fornire, se è possibile, non tanto la causa in se stessa bensì, piuttosto, una specie di causa – una causa tranquillizzante, liberatoria, alleviatrice70.

Così dunque, l’ultimo sguardo di Nietzsche sulle «cause immaginarie» trova il sogno e la veglia sommersi allo stesso modo in un continuum nel quale si sono dissolte le differenze – irrazionalità nell’uno, razionalità nell’altra – che fanno di essi mondi separati e incompatibili. L’uno e l’altra danno forma ad un arazzo tessuto con i fili di una stessa illogicità dalle mani del più antico dio del gregge: il timore dello sconosciuto. (Traduzione dal castigliano di Francesco Marino)

70 GD, Die vier grossen Irrthümer, 3, KSA 6, p. 93. È interessante osservare il parallelismo tra questa intolleranza istintiva nei confronti dello sconosciuto, e la similare riluttanza al caso e all’accidentale propria del mondo psichico presente nelle osservazioni di Freud, quando si occupa della superstizione: «Credo dunque alla casualità esterna (reale), non a quella interna (psichica)» (S. Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, in Opere di Sigmund Freud, Torino 1966-1980, vol. 4, p. 279). [N.d.T.: si è scelto di tradurre desconocido con «sconosciuto», perché Sánchez usa anche il castigliano ignoto, ch’è stato appunto reso col corrispondente italiano «ignoto»].

«Il fiore della negazione». Michelstaedter, Rensi, Emo* Luigi Capitano

…qualunque negazione e affermazione assoluta, rovina interamente da se… G. Leopardi In principio era la negazione A. Emo

Riuscire ad osservare la vita alla luce del nulla e dell’assurdo: fu questa 175 la scommessa di tre pensatori italiani – Michelstaedter (1887-1910), Rensi (1871-1941), Emo (1901-1983) – operanti in fasi diverse del secolo scorso. Questi tre filosofi «postumi», come vedremo, si trovano vagamente imparentati dalla peculiare curvatura nichilistica e dall’intonazione più o meno leopardiana che assume in ciascuno di essi la reazione al neoidealismo. Anziché tentare di inserire queste tre figure, peraltro abbastanza defilate e sui generis, in una possibile catene di influenze (Emo conosceva bene o male sia Rensi che Michelstaedter, e Rensi, a sua volta, difficilmente poteva disconoscere del tutto Michelstaedter), intendiamo concentrare la nostra at­ * Abbrevazioni: G. Leopardi, Zibaldone (= Z), a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 1997, 3 tomi. Michelstaedter, Dialogo della salute (= DS), a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano 1988; La persuasione e la rettorica, (= PR), a cura di S. Campailla, Adelphi, 1996; Poesie, (= P), a cura di S. Campailla, Adelphi, 1999; Sfugge la vita. Taccuini e appunti (= SV), a cura e con un saggio introduttivo di A. Michelis, «Postfazione» di M. Cerruti, Aragno, Torino 2004. G. Rensi, Lineamenti di filosofia scettica (= LFS), Zanichelli, Bologna 1921; Lettere spirituali (=  LS), con «Nota bio-bibliografica» di R. Chiarenza, «Prefazione» di L. Sciascia, Adelphi, 1987; La filosofia dell’assurdo (= FA), con «Nota» di R. Chiarenza, Adelphi, 1991. A. Emo, = Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981 (= DN), a cura di M. Donà e R. Gasparotti, «Prefazione» di M. Cacciari, Marsilio, Venezia 1989; Le voci delle Muse (= VM), a cura di M. Donà e R. Gasparotti, «Prefazione» di M. Cacciari, Marsilio, Venezia 1992; Il monoteismo democratico. Religione, politica e filosofia nei quaderni del 1953 (= MD), a cura di L. Sanò, «Prefazione» di M. Donà, Bruno Mondadori, Milano 2003; = Supremazia e maledizione. Diario filosofico 1973 (= SM), a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Cortina, Milano 1998; Quaderni di metafisica 19271981 (= QM), a cura di M. Donà e R. Gasparotti, con Prefazione di M. Cacciari, Bompiani, Milano 2006.

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176 tenzione sulle particolari risonanze leopardiane che è possibile rilevare dalle loro rispettive opere. La parabola del goriziano Carlo Michelstaedter fu breve e luminosa come quella d’una cometa. Il poeta-filosofo si congedò dalla vita a soli ventitré anni, appena ultimata nel 1910 la sua sorprendente tesi di laurea: La persuasione e la rettorica. Si tratta di un testo che, malgrado il suo stile inimitabile, si presta ad esser letto con sguardo sinottico insieme alla Filosofia dell’assurdo (1937) di Giuseppe Rensi, il pensatore scettico e misticheggiante osteggiato dal fascismo che considerava Leopardi «la più grande figura del pensiero italiano». Il motivo leopardiano della vita che sfugge a se stessa (Z, 649) riaffiora nelle pagine di Michelstaedter, come pure in quelle di Rensi: «l’uomo vuole dalle altre cose nel tempo futuro quello che in sé gli manca: il possesso di sé stesso: ma quanto vuole e tanto occupato dal futuro sfugge a sé stesso in ogni presente» (PR, 41); «in ogni presente manca qualche cosa che ci dovrebbe essere, in ogni presente quindi siamo nel male» (FA, 138). Analogamente, Emo mostrerà il «dramma della vita in cui l’uomo lotta per possedere se stesso, cioè il tempo e la vita» (QM, 635). Per il pensatore goriziano la vita nasconde la sua radicale insufficienza dietro il variegato manto della «rettorica»: retorica dei piaceri, dell’autorità; retorica artistica, filosofica, scientifica… (DS, 64). La nostra esistenza è resa «inadeguata» dalla stessa struttura del tempo: «la vita sarebbe se il tempo non allontanasse l’essere costantemente nel prossimo istante. La vita sarebbe unica, immobile, informe se potesse consistere in un punto» (PR, 43). Se la nostra vita fosse assoluta come un’idea platonica (o come un’anima nuda nell’isola dei beati, o come l’essere di Parmenide) essa avrebbe già raggiunto la «persuasione», ma di fatto nella vita quotidiana la nostra individualità rimane invischiata in una trama di relazioni accidentali che la irretiscono nelle forme inautentiche e illusorie della «rettorica». La mancanza d’assoluto e di essere da parte della nostra vita, la sua dipendenza dall’avere, è dunque costitutiva dell’esistenza non padrona di se stessa, che rimane come agganciata ad un peso in caduta libera verso il vuoto. Coniugando in modo impensato Leopardi con Platone e con i sapienti greci, Michelstaedter è riuscito ad anticipare in modo personalissimo tutta una serie di temi destinati a rifluire non solo nel «gergo» esistenzialista «dell’autenticità», ma anche in quello della «teoria critica». Il punto rotante di tutta la riflessione di Michelstaedter rimane la vita, l’aspirazione alla «vera vita» (DS, 93), alla «vita impossibile». Per questa via, egli non poteva non incontrare i due filosofi della verità e della vita par excellence: Platone e Leopardi. Montaigne – da Rensi rievocato accanto a Leopardi nelle sue Lettere spirituali – diceva che si muore non già perché si è malati, ma perché si è vivi. Ora, per Michelstaedter la malattia mortale dell’uomo è proprio la vita, la vita non vera, non padrona di se stessa, o come lui amava 177 dire, non ‘persuasa’. Non per nulla egli cercò di indicare una via e un rimedio in quel Dialogo della salute che si pone accanto alla sua opera maggiore.

Il fiore della negazione». Michelstaedter, Rensi, Emo

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Si può dire che Michelstaedter e Rensi abbiano scorto lo stesso paradosso: la vita e il mondo non potrebbero dirsi perfetti, a meno di cessare di esistere. Per Michelstaedter, «alcuna vita è mai sazia di vivere in alcun presente (…). Che se si possedesse ora qui tutta e di niente mancasse, se niente l’aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe d’esser vita» (PR, 40). Analogamente, secondo Rensi «se fosse possibile concepire un mondo migliore, il mondo, stante l’infinità del tempo, sarebbe divenuto perfetto, cioè avrebbe già raggiunta la meta dove non c’è più processo, la fine, il nulla. Perché il mondo ci sia, cioè continui ad essere, bisogna che non possa migliorare» (FA, 132). Il filosofo dell’assurdo riecheggia qui chiaramente un argomento del Nietzsche negatore dei «traguardi finali»: «se l’esistenza ne avesse uno, esso sarebbe già stato raggiunto». Rensi riprende inoltre la conclusione nichilistica di Leopardi e Schopenhauer, secondo cui il nulla è preferibile al mondo esistente, dal momento che quest’ultimo è assurdo (FA, 131). Come per Michelstaedter la vita sfugge a se stessa, così per Rensi l’umanità tenta vanamente di fuggire dal male e dall’assurdo, correndo sui «carboni ardenti» della storia (FA, 121). Michelstaedter e Rensi hanno interpretato, ciascuno a suo modo, il «senso tragico della vita», pur rimanendo fedeli allo spirito del leopardismo. Entrambi hanno avuto il coraggio di «mirare intrepidamente il deserto della vita» (Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico), di «guardare in faccia la morte» (DS, 84), di «venir a ferri corti colla propria vita» (DS, 85; PR, 129). Nessuno dei due ha mai piegato il proprio capo di fronte al male e all’assurdo, «nulla al ver detraendo» come il leopardiano «fiore del deserto», o come il cavaliere di Dürer evocato da Rensi, il quale «procede, severo, rassegnato, impassibile, tra la morte e il demonio» (FA, 224; LS, 165). Il piglio ardito di questa figura richiama anche le visioni di Michelstaedter e di Emo, entrambi persuasi che non vi sia «niente da aspettare, niente da temere» (DS, 81; 85), e che «non dobbiamo nulla sperare da alcuna positività; e perciò nulla temere da essa» (QM, 838). Tanto Michelstaedter quanto Rensi hanno sentito la vita come mancanza perpetua, come male perenne: «Mancar di tutto sì, e tutto desiderare – questa è la vita» (DS, 39). Ma anche per Emo ogni presente è il negativo in atto, «una serie di orrori» (SM, 89), sicché la vita può apparire come «qualcosa di assurdo, di terribile, di maledetto» (DN, 50). Pure in una visione così cupa, l’assurdo dell’esistenza rimane come purificato e redento dalla fiamma della negazione, quasi ‘ribattezzato’ nel nulla: «noi siamo l’eterna attualità del negarsi» (DN, 68); «noi moriamo in quanto siamo il morire dell’assoluto» (SM, 88). Il «Dio negativo» di Emo – questo dio metafisico e gnostico – muore perennemente nel mondo e in noi, ma nel mondo e in noi, nella nostra rappresentazione del mondo, pure continuamente risorge. La Storia si presenta al suo sguardo come uno spaventevole cumulo di cadaveri trasfigurato in un 178 «magnifico poema» dalla Musa Clio (cfr. SM, 36; 89). Nella triade degli autori considerati la negazione dell’assoluto (o nell’assoluto) rivela il tratto schiettamente nichilistico del lascito leopardiano (cfr. Z, 391-2; 1791-2). Come il

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relativismo, l’assolutismo non può eludere il paradosso. Il nesso dialettico relativo-assoluto rimane difatti invalicabile, come Leopardi vide benissimo: «si può dire che il mio sistema non distrugge l’assoluto, ma lo moltiplica; cioè distrugge ciò che si ha per assoluto, e rende assoluto ciò che si chiama relativo» (Z, 1791). L’indissolubilità logico-ontologica fra i due termini verrà ribadita con grande lucidità speculativa da Andrea Emo: «Non possiamo vivere senza essere assoluti, non possiamo vivere senza essere relativi. Ma la nostra relatività è relativa all’assoluto, cioè si riferisce all’assoluto, lo evoca. La nostra relatività è il negarsi della nostra assolutezza, e il negarsi è anch’esso un assoluto» (SM, 96). «Il tempo è l’assolutamente relativo, in cui l’assoluto si rivela negandosi. – Così il relativo è figlio dell’assoluto» (QM, 1074); «L’uomo cerca essenzialmente l’assoluto (…). Ma l’assoluto è delusivo; è sempre il contrario di se stesso» (MD, 83). In quanto nega se stesso, «l’assoluto è il solo nichilista» (QM, 1018). Emo ha mostrato come attraverso il ‘parricidio’ di Gentile l’attualismo abbia finito col negare la sua stessa pretesa assolutezza, e quindi come il destino dell’assoluto sia in ultimo quello di ‘collassare’ in se stesso. Ma non si deve dimenticare che l’autodissoluzione dell’idealismo gentiliano era stata già registrata da Rensi: Il fondo essenziale (…) di essa dottrina la quale si maschera di assolutismo, è precisamente la negazione di ogni assoluto. È che non esiste alcun contenuto di vero, di bene, di bello, che sia persistente, universale, valevole per tutti; che ogni siffatto contenuto regge, qua e là variamente, un istante per poi tosto passare e sommergersi, e apparire, da vero che era, falso, da bene male, da bello brutto. (Polemiche antidogmatiche, Zanichelli, 1920, p. XL). …incaponirsi a rappresentare la filosofia come verità (anzi come assoluta verità) nell’atto in cui si scorge come sviluppo perpetuo e senza conclusione, è fare di essa l’opera di un Sisifo che sempre certo di spingere il sasso del pensiero verso la cima della verità e nel medesimo tempo è pure sempre certo che appena toccata quella cima non sarà più la verità. (LFS, 259).

Si è potuto giustamente parlare, a tal proposito, di un «controcanto dell’attualismo» (Emery), in cui alla pretesa condizione edenica del Tantalo ­gentiliano si sostituisce quella infernale del Sisifo rensiano. Anche in Emo l’attualismo gentiliano si rovescia in una continua negazione dell’assoluto. Ed è proprio in tale negazione che è possibile cogliere un punto di tangenza ­insospettato fra nichilismo leopardiano e platonismo ‘cabalistico’: «la creazione ex nihilo è la creazione mediante la negazione, mediante il nulla. Il 179 nulla creatore» (DN, 64); «ogni immagine, essendo immagine del nulla, è immagine dell’assoluto, dell’eterno» (VM, 91); «L’origine è l’atto, e l’atto è l’atto del puro assoluto negarsi – la trascendenza è l’immanenza del negarsi. Dio «consiste» nel suo annichilirsi» (DN, 64). Il pensiero di Emo può in tal modo apparire come il fuoco di un’inedita prospettiva filosofica in cui convergono

Il fiore della negazione». Michelstaedter, Rensi, Emo

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un Leopardi evocato ex silentio e un Gentile letto à rebours; una strana, impensata combinazione fra nichilismo e attualismo; un attualismo in cui però viene tenuto fermo il negativo: «La attualità (cioè la pura presenza) e il nulla sono i due termini opposti e coincidenti che determinano e annullano tutto il reale» (QM, 727). «L’atto che nega radicalmente è la suprema affermazione» (QM, 987); l’«affermazione è la metamorfosi della negazione» (QM, 1322). Eppure, per Emo il ‘fiore della negazione’ non è la pura e semplice affermazione, come si evince da diversi passaggi dei Quaderni emiani: «L’affermazione è giustificata quando si afferma negandosi, mediante la negazione quando è la affermazione di una negazione» (QM, 941). Ma la negazione, a sua volta, non è una cosa diversa da Dio («Deus sive negatio»), così come l’Essere è forse solo una «metafora del nulla» (SM, 101), una sua permutazione: «il nulla è l’alfa e l’omega, è la forza d’inerzia. Quando contempliamo il magnifico spettacolo della rappresentazione, dobbiamo pensare che esso è una metamorfosi del nulla» (DN, 62). Analogamente, il Rensi più ‘gnostico’ aveva parlato della creazione come negazione divina: «Il mondo fenomenico è totalmente e per sua essenza, negazione di Dio, separazione e distacco da Dio» (da Scolii, cit. in N. Emery, Giuseppe Rensi. L’eloquenza del nichilismo, p. 16). Anche in Rensi, come in Emo, la sinonimia nihilistica fra Tutto e Nulla rivela una paradossale tensione mistica. A suo dire, che Dio sia svanito nel nulla, in conseguenza dello stesso progresso dello «spirito religioso», non significa che Egli non possa dissolversi al tempo stesso nel Tutto: «Allargandosi verso il Tutto, il Dio è svaporato nel Nulla; e nel seno dell’abisso divino il Tutto e il Nulla sono diventati sinonimi» (Le antinomie dello spirito). Nelle Lettere spirituali, Rensi (in contrasto almeno apparente con il materialismo scettico della Filosofia dell’assurdo) torna sulla sinonimia di Dio e nulla, ponendosi esplicitamente sulla scia della mistica – o teologia negativa – d’ogni tempo e latitudine: «Dio non lo puoi pensare che come Non-Essere, Nulla» (LS, 98). L’immagine emiana di un «Dio negativo» (DN, 39; SM, 195) era già stata anticipata da Rensi sin dal primo numero della sua rivista: la sempre maggior purezza dello spirito religioso ci spinse passo passo fino alla necessità di concepire Dio, non più come un ente positivo, dotato dei caratteri dell’esistenza, ma come qualche cosa di negativo, come qualche cosa di diverso da ciò che è, e quindi per converso come l’identico di ciò che non è, come un Non». (La religione, «Coenobium», novembre 1906, p. 27).

Come si vede, anche Rensi ricade nell’orizzonte del nichilismo mistico 180 leopardiano. La sua interpretazione dell’Uno eleatico come Nulla (FA, 139; cfr. LS, 100-101) rimane una grande intuizione. In effetti, il discorso sull’essere, fin dalla sua fondazione, non si definisce forse come ontologia negativa, come scienza del non-nulla? Il Nulla divino dell’Essere ha invisibilmente attraversato il cielo dell’Occidente da Parmenide a Platone, a Plotino, fino a raggiungere una chiarezza inaudita con la cabala, la mistica tedesca (Eckhart,

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Silesius, Böhme), Leopardi e Schelling. Si tratta di una storia piuttosto dimenticata, che tuttavia si prolunga come una scia luminosa nella ‘cabala letteraria’ del nichilismo novecentesco. Su questa stessa linea d’onda, Andrea Emo ha potuto scrivere: «Soltanto l’essere, inteso eleaticamente come il tutto, può essere la negazione, cioè essere l’attualità della negazione» (SM, 126). Rispetto alla posizione di Rensi, quella di Michelstaedter potrebbe apparire più disperata, negativa, e perfino, a suo modo, conseguente nella risoluzione del suicidio, le cui «ragioni» non a caso Papini poté definire «metafisiche». Tuttavia, il nichilismo di Michelstaedter non potrebbe essere qualificato semplicemente come negativo. Né si potrebbe dire che in Michelstaedter sia assente una certa tensione mistica verso l’autentico, verso la «pienezza dell’essere» (P, 53), l’assoluto e il positivo: «L’affermazione è il fiore della negazione» (PR, 105). Eppure, «la vita nella morte» (come recita il Canto delle crisalidi) dovette apparire al giovane pensatore-poeta più bella della «morte nella vita», così come la persuasione lo era della retorica. Di segno opposto il tragitto di Leopardi, che seppe invece resistere alla ricorrente tentazione del cupio dissolvi, lottando con quel demone dell’insensatezza e della stanchezza della vita che era rimasto ignoto agli antichi. La «morte nella vita» è per Leopardi la «noia», il male endemico della nostra epoca (Z, 2220). Ma la «malattia mortale» (Z, 427) che ha introdotto il disincanto nel mondo è la ragione stessa, «vera madre e cagione del nulla» (Z, 2942). Nel Frammento sul suicidio – brano della cronaca senza tempo della sua anima – Leopardi osserva come presso gli antichi «si viveva anche morendo, e ora si muore vivendo». Mentre prima si moriva in modo vitale ed eroico, ora invece si vive stanchi della vita e disperati. Ma, avverte Leopardi, una vita senza immaginazioni e illusioni vitali, una vita rischiarata dalla ragione al punto da rimuovere la rimozione del dolore, si ridurrebbe ad un «deserto» o un «serraglio» di folli. Parallelamente Leopardi notava l’altro paradosso espresso nella sua teoria del piacere: più si vive (nella distrazione), meno si vive. La vita è altrove: nel «paese di altrove», diceva Emo. Sulla linea di Schopenhauer e di Leopardi, Michelstaedter è tornato a vedere la «morte nella vita» come «vita illusoria», vita ad interim: una vita mancata proprio perché in preda alla brama di se stessa, in caduta libera verso un futuro che promette una felicità impossibile. Eppure, a scanso di equivoci, questa vita in vana fuga da se stessa e sempre incalzata dal demone della philopsychìa, è 181 proprio il contrario dell’abios bios (PR, 44) vagheggiato da Michelstaedter: la vita-non-vita che è la «vera vita», la vita persuasa, padrona di sé, la vita platonica e beata, non sottratta a se stessa dalla retorica del desiderio. Anche per Andrea Emo la «morte nella vita» rappresenta una condizione infernale: «Il diavolo è il principium individuationis che introduce nella vita, nella vita universa e indistinta, la morte» (QM, 475). E non v’è per noi altra morte che questa continua morte nella vita, poiché «la morte fisica è in realtà la fine del nostro morire, la liberazione dalla morte» (QM, 727).

Il fiore della negazione». Michelstaedter, Rensi, Emo

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In diversi passi Michelstaedter contraddice l’immagine consueta del nichilista passivo che, per fuggire dalla vana fuga della vita, si spinge fino alla volontaria uscita dal mondo, fino al «suicidio filosofico». Infatti, il pensatore goriziano vagheggiava l’utopia di una «vera vita», sottratta alla paura della morte: «Chi vuole fortemente la sua vita, non s’accontenta, temendo di soffrire, a quel vano piacere che gli faccia da schermo al dolore (…), ma anzi (…) s’afferma là dove gli altri sono annientati dal mistero» (PR, 71-72). Il nichilista positivo, «solo, nel deserto», crea se stesso nel «possesso attuale» di sé. Egli afferma aristocraticamente ogni attimo, quello stesso attimo presente che per gli altri rimane invece un inafferrabile mistero, una continua corsa in avanti verso un futuro sempre dilatato e illusorio. «Ogni suo attimo è un secolo nella vita degli altri» (PR, 89). L’«individuo» che ha raggiunto la persuasione ferma l’attimo, percorrendo una «via vertiginosa» per gli altri, affermando e raccogliendo tutta la sua volontà in un «punto» stabile, «finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente» (ivi). La persuasione è dunque il lampo che squarcia la «nebbia delle cose che sono e non sono» (DS, 80; cfr. 86), la salute dell’uomo «libero veramente» (DS, 85), che «da alcuna cosa dipende», che essendo venuto ai «ferri corti colla propria vita» (DS, 85; PR, 129), non ha «niente da aspettare, niente da temere» (DS, 81), e con «fermezza» si dispone alla «pace» della «bella morte» (DS, 86). Tutte queste suggestioni richiamano temi e motivi già noti al pensiero occidentale (l’istante in cui irrompe l’eterno; l’uomo nuovo creatore di se stesso; la mistica ‘uscita dal mondo’), eppure Michelstaedter continua a muoversi su un registro di pensiero tutto suo, che esclude esplicitamente il suicidio passivo concepito come inconsapevole «invocazione della morte», o anche come calcolato «schermo al niente» e «al dolore». Il poeta-pensatore afferma inoltre la «vita nella morte» per raggiungere con un «atto vitale» il porto della pace (parola che in greco suona arghìa, come la sua amata Argia). Non è possibile osservare il profilo della propria ombra senza ­distruggerlo (PR, 105; DS, 63-64), così come non si può «né fuggire né possedere» la propria vita (SV, 69). Michelstaedter prospetta una situazione-limite tipicamente pirandelliana. «Quanta vita mi sfugge», lamenterà Pirandello nel Fu Mattia Pascal. E tuttavia, l’esigenza di un polo positivo del nulla, la nostalgia dell’assoluto, rimane un bisogno metafisico inappagato quanto ­ insopprimibile: «L’assoluto non l’ho mai conosciuto, ma lo conosco così come chi soffre d’in- 182 sonnia conosce il sonno, come chi guarda l’oscurità conosce la luce» (PR, 96). Il vero assoluto per Michelstaedter non è quella finzione idealistica che i filosofi si portano a spasso, né un rimedio a buon mercato (un «empiastro»), bensì un fenomeno d’assenza che richiede il «coraggio dell’impossibile» (PR, 82), una «folle speranza» (DS, 93). Chiunque si ponga sulla via della ricerca dell’assoluto ha già paradossalmente smarrito la via. Chi, come Orfeo, si volge indietro per riguardare l’ombra del proprio amore, o del proprio profilo, o il riflesso del proprio sapere, o del proprio piacere, ha già perduto ogni cosa. Del resto, l’affermazione non matura che attraverso la negazione, altrimenti

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rimane destinata a fiorire, come la retorica, accanto alla vita, fuori di essa. Il momento della negazione è dunque necessario alla vita, ma esso è per altro verso impossibile, poiché la riflessione (che è negazione) falsa la vita. Ecco il paradosso supremo, la suprema maledizione. Il rovescio di questo paradosso è la solita litania di Michelstaedter: non si può sperare nell’«affermazione assoluta», e tuttavia non si può non sperare nell’«affermazione assoluta». Ma questa «folle speranza» non era stata forse anche quella di Leopardi (Z, 183)? Nel luglio del 1821 Leopardi scriveva, in un passo che apre un sorprendente squarcio sul suo nihilismo ‘mistico’: «in somma il principio delle cose, e Dio stesso, è il nulla» (Z, 1341; cfr. 1464). Intesa come «infinita possibilità», l’idea di Dio veniva distrutta come assoluto per resistere quale assoluto negativo. A questo punto, un’altra frase dello Zibaldone s’illumina di luce nuova: «Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere [c.n.], il niente, possa essere senza limiti» (Z, 4178). Solo il nulla è infinito, divino, benché inesistente. Su questa via negativa o paradossale all’assoluto si incontrano le figure di Rensi e di Emo. Rensi lo ha confessato apertamente: «Il mio arrovellarmi, imprecare o bestemmiare per la mancanza e inesistenza di quello che la religione afferma, che vorrei che fosse, a cui va la mia aspirazione più calda, ma vana; questo fatto è la mia religione» (Frammenti di una filosofia del dolore). La tentazione di trovare una soluzione mistica, già così insistente in Michelstaedter e Rensi, riemergerà anche in Andrea Emo, ancora una volta in forma di paradosso: «L’uomo cerca essenzialmente l’assoluto (…). Ma l’assoluto è delusivo; è sempre il contrario di sé stesso» (MD, 83). E ancora: «non possiamo pervenire direttamente all’assoluto, non vi sono vie per l’assoluto, fuorché la rinuncia a ogni assoluto (…). La negazione è un turbine che ci trasporta ai supremi vertici» (SM,155). Michelstaedter aveva parlato di una «pace» cui approdare in un «ultimo presente». Analogamente Emo annoterà: «La Pace è il possesso del presente, è l’eternità del presente» (QM, 939; cfr. SM, 153). Fra gli esempi più limpidi di nichilismo fra Otto e Novecento sarebbero da ricordare Maïnlander e Caraco: due nichilisti, se possibile, ancor più duri e diamantini di Stirner o di Cioran. Maïnlander e Caraco rimasero strenua183 mente fedeli alla loro visione disperata dell’esistenza, pur senza riuscire a rinunciare a quello «smalto sul nulla» che era rimasto per molti stilisti del pensiero negativo il solo rimedio all’«inconveniente di essere nati». Di tutt’altra specie ci appare il «fiore della negazione», anche se, come il fiore «del nulla» di Celan, ha potuto talvolta trovare uno sbocco nel «nichilismo in atto». Il «fiore della negazione» indica soprattutto una paradossale affermazione à rebours: la «disperata speranza» (Z, 1865) di una vita assoluta in Michelstaedter; la rivolta contro l’assurdo in Rensi; l’affermazione quale risvolto della negazione in Andrea Emo. In quest’ultimo caso bisogna però anche precisare che il negativo rimane in un certo senso il prius e non già l’altra faccia di una quieta positività in cui risolversi o pacificarsi: «l’attualità si nega ponendosi, affermandosi, e si afferma soltanto con questa negazione» (DN, 76). Nel

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mondo, come pure in noi stessi, Dio non cessa di risorgere dalla sua perpetua morte e negazione di sé: «Dio consiste nel suo annichilirsi; e il mondo è questo annichilirsi come resurrezione. L’immagine è la resurrezione dell’atto originario ed eterno, che è assoluta iconoclastia» (DN, 64). Insieme alla dialettica hegeliana degli opposti (QM, 727) Emo ha resuscitato «l’immane potenza del negativo», tornando a catturare nell’abisso della negazione infinita l’assoluto divino, ponendo l’accento sull’«attuale soggetto» e la sua «attualità», piuttosto che sull’Idea (QM, 454; 1110). Egli ha fissato il suo sguardo speculativo sull’incessante gioco del rovescio e sulla «trasparenza» della negazione. Per lui, «il negativo si manifesta (…) continuamente nel positivo» (DN, 47); ogni negarsi dell’assoluto è il suo risorgere «nel positivo, nel cosiddetto mondo reale» (ivi); realtà che poi non è altro che l’immagine, cioè la negazione, dell’originario «mondo negativo» (QM, 726; 868). Michelstaedter vedeva l’esistenza dominata dal «dio della philopsychìa», il «dio nemico» dell’attaccamento alla vita che, come il «piacere» illusorio di Leopardi, o il «genio della specie» di Schopenhauer, o anche come il «demoniaccio beffardo» di Pirandello, si prende gioco di noi con tutte le illusioni che ci crea, avvolgendoci in un’insensata e perpetua spirale di desiderio. L’immagine ricorda esplicitamente l’«orcio bucato» del Gorgia, paradigma di ogni futura teoria del piacere, declinata in filosofia dell’assurdo da Rensi e da Camus, che non a caso riprenderanno l’immagine della fatica di Sisifo per trasfigurarla nel simbolo stesso della condizione umana. L’uomo è alla perenne ricerca di ciò che rimane per sempre perduto alle sue spalle: in ciò assomiglia ad Orfeo (PR, 106). Ma egli si può paragonare egualmente a Sisifo, nel suo vano sforzo di raggiungere davanti a sé l’ultima vetta, che non sarà mai tale (LFS, 259; FA, 117). Insomma, come Sisifo e Orfeo l’uomo rimane fin dall’inizio esiliato dall’«Eden divino» (QM, 838). Ma cos’è che lo esilia e lo danna, se non – alla maniera di Leopardi – la sua passione adamitica per la conoscenza, il suo «cattivo genio; il cattivo genio della vita» (QM, 825)? Quando Michelstaedter scrive, sulla scia dei sapienti presocratici, che «a ognuno il suo mondo è il mondo» (PR, 53); che «ogni individuo nella notte 184 accende a sé un lume», non riuscendo a vedere altro che se stesso (ivi, 54); che egli non possiede la sua vita e, nella sua solitudine, non riesce a comunicare la sua voce (ivi, 42); o che «la vita è un’infinita correlatività di coscienze» (ivi, 45); o che gli uomini hanno «bisogno di esser qualcuno», e vantando o difendendo il buon «nome» della propria «persona» in tutta la «commedia» della vita si illudono «d’affermare l’individualità che loro sfugge»; soprattutto quando Michelstaedter vagheggia una vita «fuori della vita», è ben difficile eludere l’atmosfera pirandelliana da lui involontariamente evocata, insieme al verbo di quegli antichi sapienti greci che egli seppe rendere contemporanei al proprio spirito. Al pari di Michelstaedter, Rensi e Tilgher, anche Pirandello eredita dalla filosofia leopardiana il medesimo dramma irrisolto della vita che non riesce a consistere in una forma autentica. La famosa formula «vita vs forma» di Simmel (resa celebre da Tilgher a proposito di Pirandello, ma accolta

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anche da Rensi) rivela la sua più autentica e profonda ascendenza leopardiana. Lo stesso Pirandello, oltre a vedere in Leopardi il proprio Eckermann, ammetteva anche una certa vicinanza con quel «tragico dissidio» tra vita e forma che spezzò le giovani vite di Michelstaedter e di Weininger. A sua volta, Rensi non esitò a riconoscere in Pirandello la sua stessa filosofia trasposta con genio drammatico sulla scena. Se si osserva da vicino, il «fiore della negazione» non lascia dubbi sulla propria derivazione dal «fiore del deserto» di leopardiana memoria. Ma, benché il fiore del deserto significhi affermazione della vita e rivolta attiva contro il destino, esso non implica ancora un autosuperamento del nichilismo. Superare la soglia – leopardianamente, la «siepe» – del nulla di questo mondo significa soltanto scoprire l’«altra metà del nulla»… Il nichilismo non si risolve, per questa via, nel suo contrario. Eppure, nei nostri tre pensatori permane un’innegabile tensione mistica che imprime al loro filosofare un’impronta di segno inequivocabilmente positivo. Le loro pagine tradiscono le tracce di un innegabile platonismo di fondo: si pensi alla «leggerezza» della vita ideale in Michelstaedter o al «dio negativo» di Rensi e di Emo. Il ‘fiore’ del nichilismo postleopardiano è da ricercare proprio in tale segreto sfondo platonico. Neanche Andrea Emo riesce a sottrarsi a questa insospettata ‘ipoteca’ platonica. Emo parlava infatti di «due mondi» assolutamente diversi ma corrispondenti, in cui «il Regnum Dei è il regno negativo, è il mondo veduto dall’altra parte, l’altra parte dell’infinito tessuto: il mondo degli asfodeli» (DN, 47). Il nostro mondo è solo «il riflesso di una negatività essenziale, l’ombra di un’ombra» (ivi, 64). Che poi tale negatività venga interpretata idealisticamente da Emo come «atto della coscienza» non pregiudica lo schema platonico che vede la negazione archetipica (il nulla) prendere il posto dell’Uno. Il mondo negativo è il mondo archetipo, di cui il nostro mondo reale non sarebbe che un’immagine: 185

Il mondo negativo che noi consideriamo come l’antitesi e il completamento di questo, può essere inteso come quello che essendo l’opposto del nostro, tutto ciò che qui è assurdo ivi diviene possibile (…) tutto il tempo e lo spazio assumono un diverso significato. O non sono; anche tra noi tempo e spazio sono due negatività, due apparizioni del mondo negativo. Il mondo negativo, cioè l’opposto di questo mondo, è forse semplicemente l’immagine di questo mondo (…). (QM, 868).

Si ricordi che anche per Rensi lo spazio e il tempo («categorie dell’assurdo») sono solo fenomeni del nulla (FA, 161). Tutto in questo mondo è male e assurdo. Il nulla è dunque preferibile all’essere, come la morte alla vita (DS, 75): «meglio il nulla che l’assurdo» (FA, 131). Tali conclusioni negative e formule sileniche di Michelstaedter e di Rensi non rappresentano però che un esito parziale del loro nichilismo. Non per caso, la Filosofia dell’assurdo reca in epigrafe il famoso aforisma leopardiano: «Non v’è altro bene che il non essere…» (Z, 4174). La «vita nella morte» e la «luce che rompe la neb-

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bia» del non essere in Michelstaedter, il «nulla creatore» in Emo, sono cifre che si pongono sulla stessa linea. Non si tratta qui evidentemente del niente distruttivo, ma del Nulla mistico, di un Nulla creativo per definizione; di quel nulla che, prima di cadere nel mondo e di sublimarsi nuovamente nella poesia – giusto il «sistema» di Leopardi – non era stato qualcosa di diverso da Dio stesso! È pur vero che Leopardi e Michelstaedter, anche se in modi diversi, rimasero vittime d’un equivoco fatale, non essendo riusciti a distinguere il Nulla creativo dal Niente distruttivo. Nella nube di questa contraddizione si è lacerata l’anima di Leopardi, e in questa nebbia si è dissolta la vita del giovane Michelstaedter. Michele Federico Sciacca s’era chiesto: «Come possiamo sentire il desiderio di ciò che non esiste? E anche se lo sentissimo, come potrebbe essere utile, educativo il desiderio del nulla?» (Relativismo e scetticismo, in La filosofia italiana nel secolo XX). Una simile domanda retorica dimostra quanto si possa rimanere lontani dall’orizzonte del nichilismo mistico. La definizione di Rensi come «scettico credente» (Buonaiuti), variando un giudizio di De Sanctis su Leopardi («è scettico, e ti fa credente»), pur approssimandosi al nodo della questione, non lo scioglie affatto. Il punto è che Rensi ed Emo – entrambi sull’esempio di Leopardi – credevano nell’infinita, divina possibilità del Nulla. Un dubbio può forse rimanere per Michelstaedter: non si rivelò forse proprio tale possibilità la sua più intima e definitiva persuasione? Già Leopardi aveva confidato a chiare lettere in un Dio-Nulla inteso come «infinita possibilità» (Z, 1623), come solo «bene» (ivi, 4174). Tradotto in termini di cabalismo letterario, questo Nulla-Tutto è quello che si schiude allo sguardo divino e fanciullesco del poeta. Si apre così uno squarcio su un’impensata poetica negativa. Se leopardianamente il mondo è un tutto-nulla, la poesia, viceversa, si rivela un nulla-­ 186 tutto. «I fanciulli trovano il tutto anche nel niente», dice Leopardi (Detti memorabili di Filippo Ottonieri, cap. 2; cfr. Z, 527). L’infinito immaginario è una dimensione congeniale tanto al fanciullo quanto al poeta. Come il dio negativo esige una teologia negativa, così l’alfabeto della creazione postula una nuova estetica negativa. Nelle parole di Emo: «L’unica possibilità rimasta è quella della teologia negativa; come di Dio possiamo dire ciò che l’arte non è» (SM, 117). Laddove la ragione svela il nulla delle cose, la poesia rivela il nulla delle non-cose, di quelle «cose che non sono» che solo la «facoltà immaginativa (…) può concepire» (Z, 167). Introducendo un bel paradosso nella concezione puramente mimetica della poesia, «l’immaginazione vede il mondo come non è» (Z, 4358). «Non v’è altro bene che il non essere (…) le cose che non son cose» (Z, 4174). Questo unico bene e «ultimo quasi rifugio» è il «profumo che il deserto consola», «dell’arida vita unico fiore», unico filo di felicità da aggiungere alla fragile tela della nostra esistenza. Come dice Leopardi, «il mondo e gli oggetti sono in un certo senso doppi» (Z, 4418). Le cose immaginate dal poeta

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sono dunque non-cose: «egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi il suono di una campana; e nel tempo stesso con l’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono» (ivi). Analogamente, il leopardiano Michelstaedter potrà parlare di un «altro sole», «altri cieli», e di un «altro mare». La poesia è per lui un’«altra voce», un’«altra luce». L’«altra parte dell’infinito tessuto», «la voce dell’assenza, cioè del nulla», «la voce della Chimera»; «la vera poesia (…) è una continua allusione al suo al di là; essa crea un al di là», dirà dal canto suo Andrea Emo. La poesia è l’eco del nulla, il «paese delle chimere» (Z, 4500). Ed è proprio in questo regno del nulla (e di cose-non cose) che possiamo ritrovare tutto il bello del mondo, di quell’altro mondo immaginario che sempre «sottentra» alla realtà come l’ombra di un’ombra solo apparentemente più «reale e salda». Non per caso Leopardi identificava questo altro mondo col nome della dea di tutti i poeti: la luna, magnete astrale di tutti i nostri interrogativi senza risposta e silenziosa confidente di tutti i nostri sogni. Questa ‘altra parte’ del mondo (o del nulla) è il regno delle illusioni, in cui risiede tutto il bello e il bene di questo mondo (Z, 125). A ben vedere, la poetica delle illusioni prefigura un’estetica negativa. Alla luce di questa nuova poetica del nulla, l’antinomia pessimismo-ottimismo si dissolve, e il negativo si converte immediatamente in positivo. Come ha scritto Emo:

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L’espressione del nostro pessimismo è sempre un superamento del pessimismo; perciò l’espressione del pessimismo è diversissima anzi è l’opposto del pessimismo, del dolore. – non potremo mai esprimere artisticamente il nostro dolore; l’intimo nostro soffrire resterà sempre ignoto. – Forse che i versi di Leopardi, luminosi come il marmo, o quelli dei grandi tragici non trasportano subitamente al di là di ogni tragedia, nella regione della loro stessa luminosità? «Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo» avrebbe detto Archimede; se nell’anima nostra vi fosse un punto reale d’appoggio quanti mondi potremmo sollevare, quante nuove orbite, quante iperboli percorrere! – ma il nostro punto d’appoggio può essere soltanto il nulla. – (QM, 727).

Il nulla è il punto archimedeo di Emo come di Leopardi. Ma il nulla evoca anche inesorabilmente il suo contrario: «il nulla è la segreta nostalgia dell’essere» (QM, 1115). Il non essere riusciti a scorgere tale dimensione del Nulla ha avuto conseguenze enormi, a cominciare dalla riduzione del nichilismo leopardiano ad un banalizzante effetto di superficie (il cosiddetto «pessimismo cosmico»). Il nulla non è solo il «niente distruttivo» e senza ritorno; è anche il «nulla creativo», il nulla divino e poetico, il nulla della possibilità infinita. Non è solo il passato, ma anche il «futuro dell’essere». A differenza del niente (da cui non viene niente), il nulla è l’oriente dell’essere. Tale versante positivo del nulla è rimasto spesso in ombra, nonostante la riscoperta da parte di Adriano Tilgher della «teologia negativa» leopardiana, e malgrado l’illuminante distinzione fra «Nulla religioso» e «niente nichilistico» enfatizzata da Alberto Caracciolo.

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Ora, se quella di Leopardi è quasi una religione del nulla (come diceva Vossler), e anzi una forma di nichilismo mistico, con Michelstaedter, Rensi ed Emo non ci troviamo forse proprio sulla stessa linea d’onda? Per quanto il nichilismo mistico di un Leopardi possa richiamare il nullismo dei vari Jean Paul, Büchner, Goethe, ecc., in realtà se ne discosta, offrendo un nuovo respiro filosofico a tutte quelle suggestioni letterarie che nell’età del romanticismo si struggevano nel fuoco del nulla e del nulla di senso. Anche il nichilismo dichiarato di certi personaggi letterari russi (di Tolstoj e Dostoevskij), benché relativamente più attivo di quello romantico, rimane ancora di segno negativo, incapace com’è di assumere il nulla in un orizzonte positivo. Il «fiore della negazione» non è di questo tipo. Esso rimane, sull’esempio di Leopardi, un’efflorescenza del «nichilismo mistico», tanto per riprendere una formula di Scholem. Anziché non credere in nulla, i nostri tre autori credono nel Nulla. «Credere in Dio è credere nel nulla» (QM, 477), ha scritto nel modo più esplicito Andrea Emo. Difatti i nichilisti positivi confidano paradossalmente in un Dio che viene riaffermato nel momento stesso in cui viene negato. Da questo punto di vista, l’Apologia dell’ateismo di Rensi apparirà meno contraddittoria di quanto non si immagini: «Dio. Non ti vedo e ti nego, ma ti sento in me, opero «come se» tu esistessi e mi salvo lo stesso proprio con questa negazione» (Schegge). È quello che il materialista mistico Rensi ha chiamato, con un’evidente reminiscenza kantiana, «il Divino in me». Allo stesso modo, non stupisce che anche la morale di Rensi possa darsi la definizione di «religiosa», essendo ispirata da una sorta di follia divina, «dallo Spirito di Dio che soffia dove vuole e tu non sai né donde viene né donde va» 188 (Giovanni, III, 8, citato nell’«Introduzione» di Morale come pazzia). La «fede nel nulla» si oppone come una cifra dell’assoluto ad ogni retorica dell’idealismo. La negazione dell’assoluto si traduce così nella nostra triade in una «morte di Dio» dal significato non solamente nichilistico ma anche mistico, in una forma di paradossale «vita nella morte», in un’intuizione del nulla divino colto nella sua dimensione tanto negativa quanto creativa, in definitiva in una forma positiva di nichilismo. Quando Emo scriveva che «il mondo è continuamente rigenerato dal nichilismo di alcuni» (QM, 827), non alludeva forse a quei pensatori che, come lui, hanno saputo mantenere viva la «fede nel nulla» (ivi)? Avendo scorto in Leopardi una glorificazione del nulla, Nietzsche (VIII, 3, 21) vi ravvisò anche i segni un nichilismo passivo, debole, stanco e decadente, espressione di un «pessimismo romantico», di uno stato patologico, lamentevole e rassegnato, incapace di creare uno spazio per nuovi valori vitali. In verità, il giudizio di Nietzsche sembra attagliarsi meglio ad uno Schopenhauer che non al poeta-pensatore italiano, la cui rivolta titanica contro l’assurdo anticipa di un secolo Rensi e Camus. La vera novità filosofica di Leopardi (che verrà fatta propria e rilanciata da Rensi) consiste, infatti, nella sua scoperta dell’assurdo: il mondo non è semplicemente irrazionale o insensato, bensì assurdo, cioè letteralmente sordo e dissonante rispetto ad ogni umana attesa di senso (Z, 1470, 2432; FA, 197).

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Il nichilismo più radicale non dichiara tanto il rassegnato nonsenso del mondo (come in Schopenhauer) quanto la sua insostenibile assurdità. Rensi può essere considerato il più fedele epigono di Leopardi ma anche il più autentico precursore di Camus (Grenier non lo aveva invitato espressamente alla lettura di Rensi?). Lungi dal rovesciare in modo puro e semplice il panlogismo ottimistico di Hegel, Rensi ha avvertito lo stridente urto fra il nostro spirito e il mondo. Si tratta di una contraddizione che tuttavia è meno logica che pragmatica ed esistenziale. Non esiste, infatti, vero assurdo che non sia accompagnato da un atteggiamento di rivolta e di protesta contro la disarmonia fra l’uomo e il mondo. Il pessimismo rensiano s’inserisce dunque nella corrente della «rivolta metafisica» leopardiana, e non può quindi essere qualificato come il sintomo di un nichilismo rassegnato, disperato e passivo. Il cavaliere di Rensi richiama da vicino l’«uomo assurdo» di Camus, descritto da Sartre come un uomo «senza domani, senza speranza, senza illusioni, senza nemmeno rassegnazione», come l’uomo che «s’afferma nella rivolta» (Spiegazione dell’«Étranger» di Camus). Non c’è protesta né rassegnazione, ma solo un senso di «fallimento» metafisico (QM, 548) redento dalla negazione anche nella vena paradossale in cui si estenua il pensiero di Andrea Emo, ultimo aristocratico, inconsapevole discendente dello spirito leopardiano. Tutta la sua «filosofia del nulla» è un 189 immenso sistema rapsodico, una rete di voli pindarici sugli assurdi della vita, un trasvolare su quei grandi prati in cui fioriscono i fiori mistici e magici (QM, 866) della poesia e del pensiero. Nel regno elisio delle Muse, delle chimere e degli asfodeli il tempo è abolito come in quella memoria che per Emo rimane «il fiore del nostro annullarci» (SM, 156).

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Anno 2009 | Volume XLVIII | Fascicoli 1-2

Fascicoli 1-2: Cusano Saggi G. D’ONOFRIO, Nel cuore della «rivoluzione gnoseologica»: Cusano e la dottrina della contractio fra Medioevo e Rinascimento; S. MANCINI, Vialità e individuazione: l’eriugenismo di Nicola Cusano; G. CUOZZO, Nicola Cusano e Albrecht Dürer: proporzione, armonia e Vergleichlicheit. La ratio melancholica al cospetto della «misura segreta» del mondo; W. A. EULER, Il De pace fidei di Nicolò Cusano e la parabola dell’anello di Lessing; F. TOMATIS, Cusano e l’ultimo Schelling; D. MONACO, Pensare l’Uno con Cusano. L’interpretazione di Werner Beierwaltes; V. VITIELLO, De Possest. Letture A. FABRIS, Se l’elenchos aristotelico è in grado di coinvolgere; S. SÁNCHEZ, Dal sogno del dio al sogno dell’animale da gregge: le riflessioni di Nietzsche sul fenomeno onirico; L. CAPITANO, «Il fiore della negazione». Michelstaedter, Rensi, Emo.

ISSN 1824-4971 ISBN ebook 978-88-85716-63-6 Inschibboleth edizioni - Roma www.inschibbolethedizioni.com