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Italian Pages 136 [144] Year 2019
MIMESIS / ETEROTOPIE N. 537 Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna comitato scientifico
Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina), Stefano G. Azzarà (Università di Urbino), Oriana Binik (Università degli Studi Milano Bicocca), Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria”, Varese), Giuseppe Di Giacomo (Sapienza Università di Roma), Raffaele Federici (Università degli Studi di Perugia), Maurizio Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera), Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo), José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid), Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3), Micaela Latini (Università degli Studi di Cassino), Luca Marchetti (Sapienza Università di Roma)
I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review
IL MOMENTO POPULISTA Ernesto Laclau in discussione A cura di Fortunato Maria Cacciatore
MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Eterotopie, n. 537 Isbn: 9788857554839 © 2019 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935
INDICE
Presentazione7 Fortunato Maria Cacciatore Avvertenza9 Crisi e populismo. Note sulla fortuna di Ernesto Laclau11 Tommaso Nencioni Laclau lo stratega: populismo ed egemonia tra spazio e tempo33 Samuele Mazzolini Decentrare il populismo: quattro critiche a Laclau75 Michele Filippini Momento populista e resto democratico-radicale99 Fortunato Maria Cacciatore Perché non possiamo non dirci populisti Geminello Preterossi117 Bibliografia degli scritti di Ernesto Laclau129
PRESENTAZIONE
Questo volume nasce con l’ambizione di riaprire in Italia la discussione sul pensiero di Ernesto Laclau, all’interno di un “momento populista” che ne ripropone all’ordine del giorno concetti e significanti (a cominciare da quello di “popolo”) inevitabilmente coinvolti nell’arena politico-ideologica e, dunque, esposti a vari usi e abusi. Abbiamo allora preso sul serio il sottotitolo di questo libro, “Ernesto Laclau in discussione”, raccogliendo cinque contributi di altrettanti studiosi, diversi per background, ma accomunati dall’interesse per le “logiche” e l’evoluzione di un pensiero mai semplicemente astratto dalle circostanze storiche. “Discussione” è da intendersi, quindi, in una duplice maniera: da una parte come approfondimento e critica del percorso del teorico argentino, dall’altra come confronto tra le interpretazioni e le sensibilità degli autori degli interventi a lui dedicati. Nel primo saggio, attraverso un fruttuoso confronto tra le tesi populiste di Laclau e quelle cicliche di Giovanni Arrighi, Tommaso Nencioni approda a una critica del (post)operaismo nella sua versione “moltitudinaria”, rivendicando il populismo come “politica ai tempi della crisi”, che ha le “istituzioni come oggetto del contendere”. Nel secondo saggio, Samuele Mazzolini entra nel “laboratorio laclauiano” per gettare luce sullo scarto tra egemonia e populismo, due concetti che spesso vengono identificati e che invece mostrano, sia nella loro genealogia sia nella loro decodifica politica, specificità proprie. Michele Filippini, ancora sulla scorta di un’analisi puntuale dei testi, fa emergere le riformulazioni e gli aggiustamenti che nel tempo Laclau ha operato sulla sua teoria, individuando infine quattro possibili “innesti teorici” utili a evitare una sua essenzializzazione. Nel terzo saggio, opera di chi scrive, si tenta di mostrare come ogni chiusura, istituzionale o populista, implichi un “resto democratico-radicale” irriducibile che può (ma non è scontato) riaprire la produttività politica e l’espansione continua della politica egemonica. Infine, il saggio di Geminello Preterossi centra la sua analisi più propriamente sul presente, analizzando le potenzia-
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lità e i limiti del populismo all’interno di quella crisi del neoliberismo che ne determina il “momento” specifico. Lasciamo al lettore ogni giudizio, nella convinzione che il confronto tra voci e posizioni differenti sia il modo migliore per rendere giustizia al lascito teorico e politico di Ernesto Laclau. Fortunato Maria Cacciatore
AVVERTENZA
Le opere principali di Laclau sono state citate nel testo con le seguenti abbreviazioni. PI Politics and Ideology in Marxist Theory: Capitalism, Fascism, Populism (Verso, 1977) ESS (con Chantal Mouffe) Egemonia e strategia socialista: verso una politica democratica radicale (il melangolo, 2011; ed originale Verso, 1985) NR New Reflections on the Revolution of our Time (Verso, 1990) E Emancipazione/i (Orthotes, 2012; ed. originale Verso, 1996) DSS (con Judith Butler e Slavoj Žižek) Dialoghi sulla sinistra: contingenza, egemonia, universalità (Laterza, 2010; ed. originale Verso, 2000) RP La ragione populista (Laterza, 2008; ed. originale Verso, 2005) FRS Le fondamenta retoriche della società (Mimesis, 2014; ed. originale Verso, 2014)
Tommaso Nencioni
CRISI E POPULISMO. NOTE SULLA FORTUNA DI ERNESTO LACLAU
In una società conflittuale, non pacificata – non suturata – prendono corpo domande che possono o meno trovare risposte adeguate negli assetti egemonici solidificati in determinate istituzioni. Ernesto Laclau chiama “democratiche” quelle domande che possono essere riassorbite all’interno del contesto egemonico dato, che possono cioè trovare una risposta istituzionale; chiama invece domande “popolari” quelle che eccedono le capacità di assorbimento da parte delle istituzioni vigenti. Se molte domande populiste inevase si accumulano prende forma una “catena di equivalenze” al cui interno i vari nodi conflittuali, pur mantenendo la propria autonomia (il che implica una giudizio sulla loro intrinseca potenziale disarticolazione – o differente articolazione), allo stesso tempo la perdono per divenire “significanti vuoti”: esprimono cioè esigenze irriducibili all’assetto istituzionale dato, nelle quali le altre domande finiscono così per “riconoscersi”; queste istanze irriducibili, e gli agenti sociali che ne sono i portatori, diventano “egemoni”. È il caso, ad esempio, delle lotte per la pace e la redistribuzione delle terre nel corso della rivoluzione russa; o delle lotte contro i privilegi nobiliari in quella francese. Si costruisce così un “popolo”, un “fronte popolare”, lungo la catena equivalenziale ed in opposizione ad un “nemico” che impedisce che le varie domande vengano soddisfatte: l’autocrazia zarista o lo stato feudale francese, per rimanere ai nostri esempi. Ma anche “gli immigrati” nella nuova destra europea, o il dominio di un particolare gruppo etnico nei nazionalismi periferici. È il carattere di questa alterità che determina in ultima istanza la formazione del fronte popolare. Il populismo non è dunque un particolare tipo di movimento politico, ma è la logica stessa dell’articolazione del Politico. È il campo all’interno del quale si strutturano le egemonie. Il problema centrale della teorizzazione di Laclau è dunque quello della ricomposizione per via politica dell’esplosione – o dispersione, o proliferazione1 – delle identità e degli agenti sociali. Una ricomposizione populista 1
NR, p. 20; FRS, pp. 38 e 49.
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e non classista in senso “essenzialista”: non è un gruppo sociale predeterminato che è destinato a ricoprire il ruolo di avanguardia in questo processo di ricomposizione – come la classe operaia nel marxismo classico – ; piuttosto gli agenti e le identità sociali danno forma ad un processo egemonico in maniera contingente e relazionale. I conflitti che danno vita al fronte popolare, che costruiscono il popolo, acquisiscono capacità egemonica in relazione l’uno con l’altro, e il grado di possibilità della loro unificazione è determinato dalla contingenza storica in cui si producono e in opposizione ad un assetto egemonico dato – un quadro istituzionale inteso in senso lato – che impedisce che le domande che sorgono dai conflitti possano essere riassorbite. “Ciò che costituisce l’unità della Repubblica – ricorda Laclau citando il Saint Just della Convenzione – è la distruzione totale di ciò che si oppone ad essa”. E aggiunge: “Questa relazione fra blocco e simultanea affermazione di una identità è ciò che intendiamo per contingenza”2. Il Politico è l’asse attorno al quale questi conflitti si strutturano. Il loro carattere di irriducibilità all’interno di un ordinamento egemonico dato è di natura contingente; secondo Laclau non esiste nessun agente storico finalisticamente chiamato a risolvere le contraddizioni della società; l’unificazione dei conflitti nel fronte popolare non è intrinseca, è una possibilità, ma deve avvenire per via politica. Con il nodo della proliferazione del conflitto – e del mancato automatismo tra il conflitto e la sua riunificazione attorno al partito della classe operaia (come avrebbe voluto l’ortodossia marxista) – Laclau inizia a confrontarsi nell’America Latina a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento (cruciale in questo senso è la riflessione sull’esperienza del peronismo argentino); questo poi si ripresenta in tutta la sua cogenza nei movimenti globali sorti sulle ceneri della crisi del neoliberalismo nella prima decade del XXI secolo, ed ancora una volta il panorama sudamericano costituisce per lui un punto di vista privilegiato. Queste mobilitazioni tendono a operare in una maniera che eccede le capacità incanalanti dei quadri istituzionali esistenti. Questa è la dimensione orizzontale di “autonomia” che corrisponde esattamente a quanto, nel mio lavoro, ho chiamato “logica equivalenziale”. La mia seconda tesi afferma, tuttavia, che la dimensione orizzontale di autonomia, abbandonata a se stessa, sarà incapace di apportare cambiamenti storici a lungo termine, a meno che non sia completata dalla dimensione verticale di “egemonia”; in altri termini, da un radicale trasformazione dello stato. L’autonomia lasciata a se stessa conduce, presto o tardi, all’esaurimento e alla dispersione del movimento di protesta. Di contro 2
NR, p. 38.
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l’egemonia, se non affiancata dall’azione di massa a livello della società civile, conduce al burocratismo, il quale sarà facilmente colonizzato dal potere corporativo delle forze dello status quo. Avanzare nelle due direzioni dell’autonomia e dell’egemonia: questa la vera sfida lanciata a coloro che mirano a un futuro democratico, in grado di offrire un senso reale al tanto auspicato “socialismo del ventunesimo secolo”3.
L’emergere del populismo è dunque subordinato all’unificazione dei conflitti all’interno di una catena equivalenziale e all’identificazione di un nemico che blocchi il soddisfacimento delle domande che sorgono dal conflitto. Il carattere populista o meno di un particolare movimento emerge, per così dire, a posteriori. L’emersione avviene in un contesto di “crisi organica” (o “crisi di autorità”), un concetto gramsciano riadattato da Laclau per descrivere le fasi in cui “si debilitano le articolazioni egemoniche di base e nelle quali un numero via via crescente di elementi sociali acquisisce il carattere di ‘significanti fluttuanti’”4. Sono questi i periodi in cui gli antagonismi “proliferati” trovano una nuova articolazione. In queste pagine si cercherà di illustrare le dinamiche globali che hanno portato all’“esplosione” degli agenti sociali e alla conseguente “ridefinizione della politica”5, per poi riscontrare le ragioni della fortuna di Laclau nella fase attuale, figlia di quella esplosione e di quella ridefinizione. 1. La crisi e la proliferazione del conflitto sociale L’attuale crisi, nella lettura che ne ha dato Giovanni Arrighi, è crisi del ciclo egemonico statunitense, sorto sulle ceneri di quello britannico alla fine della “seconda guerra dei trent’anni” (1915-1945, seconda rispetto alla prima che, culminata nella pace di Westfalia, aveva posto le basi per l’egemonia inglese) e imperniato sulla grande fabbrica integrata fordista. Allo stesso tempo, la crisi attuale ha le sue radici all’interno delle strutture che di quel modello avevano garantito il successo. Arrighi scrive prima dello scoppio della crisi del 2008, e tuttavia il suo modello ci aiuta a capire il 3 4 5
FRS, pp. 38-39. NR, p. 28. Per il concetto gramsciano cfr. A. Gramsci, Quaderni del Carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 1638-1639. C. Donolo, La politica ridefinita. Note sul movimento studentesco, in “Quaderni piacentini”, 35, 1968.
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lungo periodo della crisi, retrodatandone le scaturigini alla metà degli anni Settanta del secolo scorso (anche lo scoppio dei conflitti sociali del 2008 si presenta a Laclau come piena epifania di fenomeni già avviati negli anni Settanta). È infatti a partire degli anni Settanta del Novecento che sui profitti della grande impresa capitalistica integrata, il centro propulsore del ciclo statunitense di accumulazione, si registra una tempesta perfetta, una doppia pressione di natura orizzontale e verticale. Arrighi mutua la nozione di “pressione orizzontale” da Robert Brenner e dalla sua riflessione sullo “sviluppo ineguale”. Nel ventennio successivo alla seconda guerra mondiale, un gruppo di Paesi inseriti in via periferica nel sistema egemonico statunitense – in particolar modo, Germania federale e Giappone – avrebbero approfittato di condizioni particolarmente favorevoli per colmare il gap di sviluppo dalla metropoli nordamericana: la possibilità di giovarsi di capitali affluiti da oltreoceano, delle tecnologie colà sviluppatesi, assieme ad un vasto bacino di manodopera locale inoccupata o immigrata da sfruttare. Di queste condizioni di sviluppo la metropoli stessa si sarebbe nel breve periodo avvantaggiata, sia economicamente che politicamente: Le grandi multinazionali e le banche internazionali degli Stati Uniti ansiose di espandersi a livello mondiale, erano in cerca di sbocchi redditizi per i loro investimenti diretti all’estero. D’altro canto, i produttori presenti sul mercato interno degli Stati Uniti, cercavano di incrementare le loro esportazioni, e per questo avevano bisogno di una forte crescita della domanda estera per i loro prodotti. Uno stato a vocazione imperiale come gli Stati Uniti, tutto concentrato a rintuzzare il comunismo e a garantire l’agibilità a livello mondiale per la libera impresa, era fortemente interessato a che i suoi alleati (e concorrenti commerciali) godessero di un successo economico, dato che ciò favoriva il consolidamento politico dell’ordine capitalistico mondiale uscito dalla guerra […]. Tutte queste forze, dunque, per raggiungere il loro obiettivo avevano bisogno, in un modo o nell’altro, del dinamismo economico dell’Europa e del Giappone6.
Nel periodo che intercorre dal 1965 al 1973, da gioco virtuoso lo “sviluppo ineguale” si trasforma in gioco a somma zero, o addirittura negativo. La pressione orizzontale – esercitata cioè dalle economie dei paesi periferici sul centro metropolitano dell’accumulazione – avrebbe generato una stagnazione globale dei profitti7. 6 7
Cit. in G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del XXI secolo, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 118-119. G. Arrighi, B.J. Silver, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli squilibri planetari, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 29 e 113.
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Arrighi fa proprio il modello di Brenner, ma aggiunge alle cause della crisi un fattore che Brenner aveva rimosso8: la pressione bottom up esercitata sui profitti dal movimento operaio dei paesi industrializzati e dagli esiti del processo di de-colonizzazione. Un fattore decisivo, che conduce peraltro a ribaltare il modello che Arrighi stesso aveva costruito per le precedenti transazioni egemoniche: allora l’apice del conflitto sociale si era prodotto come conseguenza dell’ondata di finanziarizzazione – e conseguente polarizzazione sociale9 – con la quale necessariamente il capitale cerca di rivalutare se stesso, stante le scarse opportunità offerte dall’investimento diretto in un mercato saturo10. Nella crisi degli anni Settanta era invece stato il conflitto stesso e le conquiste raggiunte dalle classi subalterne a provocare la saturazione11. Saturazione che a sua volta aveva prodotto lo sfarinamento del blocco sociale garante dell’equilibrio raggiunto nella fase di ascesa di un determinato ciclo egemonico: Il punto fondamentale è che le espansioni dell’intero sistema riguardanti il commercio e la produzione, che hanno caratterizzato ciascun periodo di egemonia, si sono fondate su patti sociali tra gruppi dominanti e subordinati. I periodi di egemonia sono stati caratterizzati da un “circolo virtuoso”, con pace sociale ed espansione del commercio e della produzione che si rafforzavano reciprocamente. I periodi di transizione egemonica, al contrario, sono stati caratterizzati da un “circolo vizioso” in cui una crescente competizione tra stati e tra imprese si intreccia con una conflittualità sociale sempre più esplosiva che conduce a periodi di ribellioni al livello del sistema, crolli dello stato e rivoluzioni. […] l’intensificazione della competizione tra Stati e imprese capitaliste durante ciascuna transizione egemonica (ha) indebolito le condizioni necessarie per la riproduzione dei patti sociali esistenti. In particolare, […] la crescente finanziarizzazione dei processi di accumulazione durante ciascuna transizione egemonica (è) andata di pari passo con una rapida ed estrema polarizzazione della ricchezza, che a sua volta ha indebolito il consenso della “classe media” su cui si fondava l’ordine egemonico mondiale. In parte, la spinta che sta dietro il crescente conflitto sociale dei periodi di transizione viene dagli sforzi di questi strati “medi”, finalizzati a difendere i privilegi di cui godevano all’interno del patto sociale egemonico. […] le stesse espansioni egemoniche (hanno) 8
Si rimanda alle considerazioni svolte in G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 120 e ss. 9 Per la polarizzazione sociale nel periodo di transizione tra l’egemonia olandese e quella inglese nei futuri Stati Uniti, che dette il la alla rivoluzione americana, cfr. G. Arrighi, B.J. Silver, Caos e governo del mondo, cit., p. 187. Per gli effetti sulla madrepatria olandese si veda pp. 190-191. 10 Ivi, p. 36. 11 Ivi, pp. 328-329.
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indebolito le basi sociali delle varie egemonie mondiali, trasformando l’equilibrio su scala mondiale delle forze di classe. Durante i periodi di espansione sistemica nuovi gruppi e classi sociali – esclusi dai benefici del patto sociale egemonico in vigore – crebbero in dimensioni e potere distruttivo. Le lotte di questi gruppi per vedere riconosciuti i propri diritti sono state sia la causa che la conseguenza della crescente concorrenza tra Stati e tra imprese12.
È una situazione che richiama da vicino i termini nei quali Gramsci evoca una fase di crisi organica. Ed è esattamente la situazione nella quale Laclau, a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, inizia a prendere coscienza dei limiti del classismo marxista. Nel momento in cui il conflitto sociale raggiunge la sua massima estensione e profondità, esso, nei termini di Laclau, “esplode”, “prolifera”, per il venir meno del blocco sociale che era stato alla base del precedente ciclo egemonico di accumulazione. La nozione di Arrighi di indebolimento del consenso della classe media è in parte collimante con quella di Laclau di esplosione del conflitto, inteso qui come allargamento quantitativo (il che coinvolge anche aspetti qualitativi) delle fasce di popolazione non integrate nel ciclo egemonico in ritirata. Il conflitto esplode poi anche in senso ulteriore, con la risposta che i gruppi dirigenti danno alla crisi del 1965-1973: esplode cioè il luogo fisico del conflitto, la grande fabbrica integrata. Perde così centralità politica la classe operaia, l’elemento che aveva dato profondità istituzionale al conflitto nel corso del ciclo egemonico statunitense: il “popolo” operaio. Questo non basta per considerare il proletariato di fabbrica come “inesistente” o “invisibile” o definitivamente “integrato”. Già abbiamo visto in Arrighi come, al contrario, proprio le lotte condotte dagli operai della grande fabbrica integrata in Occidente – in senso lato, uno degli elementi della “classe media” necessaria per cementare il blocco egemonico tramite il Welfare State – abbiano concorso a determinare la crisi del ciclo statunitense, ed allo stesso tempo dalla crisi siano state acuite. Ed è anche difficile prevedere che il mutamento sociale futuro possa fare a meno dell’apporto del proletariato di fabbrica. Del resto, le rivoluzioni che hanno sconvolto il ciclo egemonico inglese e poi statunitense non si sarebbero prodotte senza l’apporto del gruppo sociale sul quale il conflitto si era imperniato nei cicli precedenti, cioè i contadini. Con la proliferazione del conflitto si generano però domande nuove, che allo stesso tempo fiancheggiano quelle dei movimenti sociali stabilizzatisi nel periodo di auge del ciclo egemonico – nel nostro caso, il 12 Ivi, p. 175.
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movimento operaio della grande fabbrica – ma mantengono la propria autonomia e anzi talvolta entrano con essi in contraddizione. Per l’Italia, il fenomeno è stato affrontato in medias res da Carlo Donolo, il quale già nel 1968 scriveva che: la mobilitazione sociale era sostenuta dall’intreccio di nuove e vecchie contraddizioni, il cui potenziale eversivo derivava proprio dalla concomitanza di tutte le forme della lotta di classe e della conflittualità anticapitalistica: lotte operaie, lotte sociali, lotte antistituzionali. La novità […] è […] che di questi conflitti sono state protagoniste non solo le classi di cui si conoscono bene i nomi storicamente, ma anche formazioni sociali emergenti solo ora come soggetti collettivi capaci di conflitti efficaci13.
Tanto più che una delle risposte che il capitale dà alla crisi di accumulazione è proprio, almeno a livello metropolitano, lo smantellamento dei luoghi privilegiati del conflitto, ovvero della grande fabbrica integrata14. Come il successo della strategia egemonica statunitense nel secondo dopoguerra aveva prodotto la propria crisi, nello schema di Bremer/Arrighi, così il successo della strategia del movimento operaio organizzato nella grande fabbrica integrata ha determinato la crisi di quella stessa strategia: L’anticipo con cui negli Stati Uniti si sono formate aziende multinazionali a forte integrazione verticale ha consentito loro di aggirare, con gli investimenti esteri diretti, il protezionismo dilagante in quel periodo. Ma lo stesso successo della loro azione di ricomposizione e di espansione del mercato mondiale nel secondo dopoguerra ha finito per attenuare quei vantaggi, e lo scontro concorrenziale che ne è seguito li ha trasformati, per certi aspetti, in svantaggi […]. Con l’intensificarsi della concorrenza, si sono trovate costrette ad appaltare a piccole aziende molte attività che prima venivano svolte al loro interno, e la tendenza all’integrazione verticale e all’espansione della struttura gestionale che era stata la fortunata cifra dell’espansione del capitalismo degli Stati Uniti fin dagli anni Settanta del secolo diciannovesimo ha cominciato ad essere sostituita dalla tendenza verso l’estensione orizzontale di collegamenti poco strutturati e verso la rivitalizzazione, in chiave subordinata, della piccola impresa15.
13 C. Donolo, La politica ridefinita, cit., p. 95. 14 Per il caso italiano si rimanda a F. De Felice, L’Italia repubblicana. Nazione e sviluppo. Nazione e crisi, Einaudi, Torino 2003. In De Felice è netto il giudizio sulla politicità della scelta intrapresa dai gruppi dirigenti di far “esplodere” la grande fabbrica in risposta alla conflittualità operaia. 15 G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 164.
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Ma la dismissione degli investimenti dalla grande fabbrica è stata solo una delle vie di fuga del capitale dalla tempesta perfetta che si era abbattuta su di esso. Un nuovo modo di accumulazione ha preso campo, un disegno globale di ri-configurazione del capitale e di re-distribuzione della ricchezza e del potere di classe che David Harvey ha chiamato “accumulazione per espropriazione”16. La crisi degli anni Settanta era stata, nel linguaggio di Arrighi, una “crisi spia”17, poi solo apparentemente riassorbita nella belle époque degli anni Ottanta-Novanta e da essa si era sviluppato, per “esplosione” o “proliferazione”, un nuovo tipo di movimenti sociali; allo stesso modo l’accumulazione per espropriazione, il modello alla base dalla belle époque (occidentale) di fine secolo, ha generato una crisi che è la piena epifania di quanto annunciato dalla precedente crisi-spia, ed il conflitto si è ripresentato in maniera ancor più “esplosa” di quanto già capitato nel ciclo di lotte del “lungo Sessantotto”. È quindi il caso di illustrare le modalità di funzionamento dell’accumulazione tramite espropriazione, per poi vedere da una parte la risposta istituzionale che i gruppi dirigenti hanno elaborato per venire incontro a questo nuovo tipo di accumulazione, e dall’altra i nuovi conflitti che essa ha generato. Al termine di questo breve riepilogo potremo passare a descrivere come si inserisce in questo quadro il pensiero di Laclau18. 2. La società di mercato e i suoi nemici Si è detto nuovo tipo di accumulazione, ma in realtà, nell’interpretazione di Harvey, l’accumulazione per espropriazione più che una novità rappresenta un’opzione di riproduzione del capitale sempre presente. Anzi, l’accumulazione per espropriazione, per Harvey, altro non è che il periodico tentativo da parte del capitale di ricreare le condizioni che hanno permesso quella che Marx ha chiamato “accumulazione originaria”, che tuttavia in Harvey perde questo carattere originario, proprio perché le 16 D. Harvey, Breve storia del neoliberalismo, Il Saggiatore, Milano 2005, pp. 226-231. 17 G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 2014. 18 Curiosamente, ma qui si può fare solo un accenno alla questione, nella critica di Laclau alla spiegazione marxiana dell’accumulazione capitalistica riecheggiano temi ripresi da Harvey nella sua teoria dell’accumulazione per espropriazione. È probabile che più che ad un dialogo diretto tra i due, le assonanze (tali sono, e non coincidenze) derivino da una comune lettura di Rosa Luxembourg. Cfr. NR, p. 42.
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sue caratteristiche sono destinate a riproporsi ciclicamente ogni qualvolta il capitale deve affrontare una crisi. Quelle stesse condizioni che hanno permesso l’accumulazione originaria, ad ogni fase di accumulazione per espropriazione sono destinate a espandersi orizzontalmente nel globo (dal Lancashire all’intero pianeta) e verticalmente per quanto riguarda la quantità di oggetti trasformati in merce: la mercificazione e la privatizzazione dei terreni e la forzata espulsione delle popolazioni contadine [Messico e Cina]; la conversione di varie forme di diritti di proprietà (comune, collettiva, dello Stato ecc.) in diritti di proprietà esclusivamente privati […]; la soppressione dei diritti alla proprietà comune; la trasformazione in merce della manodopera e la soppressione delle forme alternative (indigene) di produzione e consumo; i processi coloniali, neocoloniali e imperiali di appropriazione di risorse (incluse quelle naturali); la monetizzazione dello scambio e della tassazione, in particolare della terra; la tratta degli schiavi (che continua, particolarmente nell’industria del sesso); l’usura, il debito nazionale e, più sconvolgente che mai, l’uso del sistema di credito come strumento radicale di accumulazione tramite esproprio19.
Ognuna di queste forme di espropriazione genera contro-movimenti di resistenza, che fiancheggiano le lotte del proletariato della grande fabbrica all’interno del capitalismo e si pongono come lotte “contro il capitale”, cioè contro una forma di organizzazione della società immediatamente percepita come “immorale”. Non più il mercato come istituzione al servizio della società, ma la società stessa come variabile subordinata agli interessi del mercato. E si riconfigura anche – tema caro ai movimenti populisti – la questione nazionale, specialmente a fronte dell’uso del debito pubblico come principale vettore dell’accumulazione tramite espropriazione. Harvey a questo punto introduce, riprendendola da Karl Polanyi, la nozione del passaggio da una economia di mercato ad una società di mercato20, una società nella quale è trasformato in merce ciò che non nasce come merce, e cioè la vita umana attraverso la mercificazione del lavoro, l’ambiente attraverso la mercificazione della terra, e la moneta21. L’utopia liberale della società di mercato ha in sé, seguendo ancora il ragionamento di Polanyi, i germi dell’autodistruzione della società in quanto tale, per cui all’interno della società stessa sono destinati a prendere corpo contro-mo-
19 D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2005, p. 182. 20 K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 2010, p. 74. 21 Ivi, pp. 92-95.
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vimenti di difesa dall’autodistruzione22. Non è un caso che lo slogan usato da uno dei leader del processo di accumulazione per espropriazione, Margareth Tatcher, sia stato “la società non esiste”. Perché nella società l’utopia liberale non è realizzabile. Almeno non democraticamente. Ed in effetti la controrivoluzione neo-liberale per prendere campo ha avuto bisogno di una ulteriore espropriazione, quella della sovranità popolare. L’ideologia che i gruppi dirigenti hanno posto alla base di questo tipo di espropriazione è stata quella della sostituzione della politica con “l’amministrazione”: con “la gestione ingegneristica delle differenze individuali” che – secondo Laclau – “si [sbarazza] di ogni dicotomia antagonista”23. Alla gestione di questa fase sono state chiamate istituzioni democraticamente irresponsabili di natura tecnocratica: nasce così la governance. Ogni Paese o gruppo di Paesi ha seguito una via particolare alla sostituzione della politica con l’amministrazione. Le prove generali risalgono alla metà degli anni Settanta, con la bancarotta della città di New York. Fu lì che le istituzioni tecnocratiche presero il potere per la prima volta. Su scala sempre maggiore, e con sempre maggiore frequenza, l’esperimento è stato ripetuto a partire dai primi anni Ottanta nei Paesi del Terzo Mondo caduti sotto l’amministrazione controllata del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, in seguito alla sopravvenuta insolvenza del debito da essi contratto. Si è poi passati per l’abolizione della municipalità di Londra nell’Inghilterra tatcheriana, per giungere alla costruzione della Comunità europea come processo continentale di espropriazione della sovranità popolare – Paesi come la Svezia (ma il discorso potrebbe valere anche per l’Italia) avevano sviluppato istituzioni robuste di contrasto al dilagare della “società di mercato” che sono state smantellate col ricorso al “vincolo esterno” – per giungere infine all’attualità dei trattati di libero commercio, con il loro seguito di tribunali “paritari” chiamati a giudicare quegli Stati che pongano ostacoli alle esigenze di profitto delle imprese trans-nazionali. I neoliberisti tendono quindi a favorire l’egemonia degli esperti e delle élites. Esiste una netta preferenza per l’esercizio del governo tramite decreti esecutivi e decisioni giudiziarie, piuttosto che tramite il processo decisionale 22 “La nostra tesi è che l’idea di un mercato autoregolato implicasse una grossa utopia. Un’istituzione del genere non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza umana e naturale della società […]. Era inevitabile che la società prendesse delle misure per difendersi, ma qualunque misura avesse preso, essa ostacolava l’autoregolazione del mercato, disorganizzava la vita industriale e metteva così in pericolo la società in un altro modo” (Ivi, p. 2). 23 RP, p. 19.
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democratico e parlamentare. I neoliberisti preferiscono mantenere le istituzioni chiave, come la banca centrale, al riparo dalle pressioni democratiche. Dato che la teoria neoliberista si fonda sul primato della legalità e su una rigida interpretazione della costituzionalità, ne consegue che conflitti e contrapposizioni devono essere mediati attraverso i tribunali. Soluzioni e rimedi ai problemi di qualsiasi tipo vanno cercati a titolo individuale, attraverso il sistema legale24.
È all’interno di questo nuovo quadro istituzionale che i movimenti populisti prendono forma, ed è in questo contesto ideologico che i gruppi dirigenti si allarmano per la minaccia da essi rappresentata: ciò che si nasconde dietro a un gesto tanto sdegnato [l’addio al populismo] penso sia l’addio alla politica tout court, abbinato all’idea che la gestione di una comunità spetti a un potere amministrativo che trae la sua legittimità dal sapere in che cosa consiste, a conti fatti, una “buona comunità”25.
Quella della pura amministrazione e delle istituzioni tecnocratiche chiamate a gestirla si è presto rivelata, come aveva previsto Polanyi, un’utopia, e sono sorti nuovi movimenti di opposizione, da principio nelle periferie espropriate, e poi, dal 2008 in poi, nel cuore stesso delle metropoli dell’accumulazione. Solo che si tratta di un conflitto, per riprendere i termini di Laclau, esploso, proliferato. Ognuno dei meccanismi vigenti dell’accumulazione per espropriazione ha favorito l’insorgere di contro-movimenti, in un periodo in cui è però venuta meno la centralità politica della classe operaia della grande fabbrica integrata come centro propulsore del conflitto. Sia per ragioni attinenti al contesto storico – l’esplosione, appunto, della grande fabbrica – sia per ragioni soggettive, inerenti alla sconfitta subita dalle forze rivoluzionarie al culmine del ciclo precedente. Il populismo allora – per come è teorizzato da Laclau – appare come un tentativo di ricomposizione per via politica del conflitto disperso. Ed allo stesso tempo, il sistema teorico laclauiano ci offre importanti spunti di analisi circa le ragioni della sconfitta del precedente ciclo conflittuale. 3. Intermezzo: perché il populismo? Dalla pubblicazione de La ragione populista, la figura intellettuale di Laclau si è distinta globalmente come quella del teorico del populismo. 24 D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, cit., p. 81. 25 RP, p. XXXII.
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Tuttavia, da un punto di vista descrittivo, per molto tempo l’opzione populista non è stata una stella fissa nella produzione teorica del filosofo argentino. Nell’opera nella quale Laclau per la prima volta fa sistematicamente i conti con la tradizione marxista, egli, assieme a Chantal Mouffé, appare invece proteso verso l’elaborazione di una strategia socialista e di una politica democratica radicale26. Nel 1990 le riflessioni di Laclau si concentrano invece sulla rivoluzione dei nostri tempi. Solo nel 2005 Laclau sistematizza le proprie riflessioni sul populismo, ma nell’introduzione alla sua ultima raccolta di scritti, pubblicata postuma nel 2014, la sua attenzione si sposta ancora e pare dedicata a gettare le basi per un socialismo del XXI secolo. Perché, dunque, concentrarsi in questa fase politica sul “populismo”? Pare di poter introdurre, solo per cenni, tre considerazioni preliminari a questo proposito: 1) il populismo come prassi e progetto politico vive una stagione particolarmente fortunata perché movimenti populisti hanno avuto successo; questa, ancorché rasenti la tautologia, è una delle cause storicamente alla base della fortuna di ogni progetto politico; 2) questo successo, riportato in America Latina per tutta la prima decade del nuovo secolo, si è prodotto in un momento in cui, da una parte, in Europa si viveva una crisi drammatica, che ci faceva apparire la situazione dell’America Latina nei primi anni del millennio un de te fabula narratur; dall’altra, questo successo veniva riportato, in America Latina, mentre in Europa i processi di emancipazione popolare erano asfittici dal punto di vista della prassi politica e della battaglia delle idee. Si è prodotto perfino, in questo contesto, un rovesciamento semantico per cui, mentre prima era la sinistra europea che aveva il potere di “nominare” i fenomeni politici secondo i propri schemi, ora succede il contrario. Ad esempio, Edgardo Mocca, uno dei principali teorici del populismo argentino, ha potuto definire la coalizione/partito della sinistra greca, Syriza, come “populismo griego”27; 3) ma la ragione principale appare un’altra. Di cosa parlano i grandi mezzi di informazione, ispirati da quella ideologia della pura amministrazione alla quale ci siamo riferiti nel paragrafo introduttivo, quando parlano di “populismo”? Da Bernie Sanders a Donald Trump, dalla destra austriaca a Podemos, da Syiriza al Front National, dal peronismo nella sua variante kirchnerista alla destra polacca, dalla Lega Nord al Partido Socialista Unificado de Venezuela, “The Economist”, “The Wall Street Journal”,
26 Cfr. ESS. 27 https://www.pagina12.com.ar/diario/elpais/1-263215-2015-01-04.html.
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“El Pais”, e tutti gli altri grandi corporate media unificano questi fenomeni così distanti l’uno dall’altro sotto l’etichetta di populismo28. In questa confusione vi è un (involontario) elemento di chiarezza: se fenomeni così disparati sono racchiusi sotto un’unica etichetta, quella appunto di populismo, non sarà perché il populismo non rappresenta una particolare ideologia o prassi politica, ma piuttosto una logica metapolitica, destinata ad emergere in particolari momenti storici? Più che partiti populisti e partiti istituzionali, esisterebbero allora momenti populisti e momenti istituzionali. Le finestre populiste si aprirebbero quando le istituzioni egemoniche – dal punto di vista economico, politico e morale – caratteristiche di una determinata epoca, crollano. Si apre allora un interregno nel quale al populismo è riservato il compito di progettare una nuova articolazione politica del sociale, ovvero, nuove istituzioni. Si conferma dunque anche empiricamente il sospetto che quando si parla di “populismo” non ci si riferisca ad un particolare tipo di movimento politico, ma alla possibilità dell’articolazione del Politico in quanto tale. E questo è il populismo per Laclau. Il mio tentativo, però, non sarà quello di determinare il vero referente del termine populismo. Farò esattamente il contrario: cercherò di mostrare come il populismo non possieda nessuna unità referenziale proprio perché non designa un fenomeno circoscrivibile, ma una logica sociale, i cui effetti coprono una varietà di fenomeni. Il populismo è, se vogliamo dirla nel modo più semplice, un modo di costruire il politico29.
Riappropriarsi del termine “populismo” significa quindi riappropriarsi della possibilità stessa del Politico. Questo anche se l’ambiguità del populismo non è da ricondurre esclusivamente alla maniera in cui il fenomeno è descritto dai mezzi di comunicazione di massa. Il populismo costituisce, lo si è appena visto, il ground zero della politica. Movimenti populisti si affermano in periodi di crisi organica, di crisi cioè economica, sociale, morale, istituzionale. In fasi di “interregno” in cui, sempre rimandando a Gramsci, il vecchio ordine muore e il nuovo ancora non sa nascere30. È in questi frangenti che il momento populista è destinato a prendere campo; 28 Cfr. ad esempio J.A., The populist are on top. Trump and Sanders win New Hampshire, in “The Economist”, 10 febbraio 2016; G.F. Seib, Behind the Rise of Populism, Economic Angst, in “The Wall Street Journal”, 20 febbraio 2016; P. Simon, La quiebra de la representaciòn, in “El Paìs”, 31 maggio 2016. 29 RP, p. XXXIII. 30 A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 311.
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che al suo interno, e non nell’assedio reciproco tra istituzioni e populismo, si risolvono i termini della battaglia politica. Pensiamo a quanto accaduto nel secolo scorso, a cavallo tra le due guerre mondiali. Con lo scoppio della rivoluzione russa, l’affermarsi del fascismo prima in Italia e poi in Germania e nel resto d’Europa ed il varo del New Deal negli Stati Uniti, solo pochi e isolati intellettuali continuarono a riproporre la validità delle vecchie istituzioni del liberalismo ottocentesco, e vennero ovunque, talvolta tragicamente, smentiti dai fatti. Il campo “istituzionale” – o, se si vuole, “quel” campo istituzionale – non esisteva più. Dall’agone populista sarebbe sorto il campo istituzionale avvenire. Con la crisi organica, le istituzioni caratteristiche del precedente assetto egemonico o sono già crollate o non hanno comunque più cogenza. Parallelamente, nella società si sgretola il ceto medio, inteso non come categoria econometrica, ma come blocco di massa che, con il suo consenso nei confronti dell’equilibrio sociale raggiunto, garantisce che il potere dei gruppi dirigenti si dispieghi come egemonia e non come puro dominio. La classe operaia occidentale (bianca e di sesso maschile) rappresenta per Arrighi il ceto medio che ha sostenuto l’egemonia del modello di accumulazione della grande fabbrica integrata basato sugli Stati Uniti. Lo sgretolamento di questo ceto medio riapre i termini della battaglia politica. Le domande sociali che sgorgano da questa esplosione sono le più disparate. La battaglia populista, che può avere intenzioni ed esiti tanto rivoluzionari quanto reazionari, si svolge all’interno di questo campo. Rivoluzione, reazione e rivoluzione/reazione (così Gramsci introduce in alcuni luoghi dei Quaderni il concetto di “rivoluzione passiva”31), sono tutte opzioni presenti contemporaneamente sulla scena, opzioni non prive di ineluttabili termini di contiguità. Una contiguità non ideologica o programmatica, ma relativa al calderone sociale nel quale le opzioni populiste tra di loro in contrasto prendono forma. Nel corso della precedente crisi organica, quella della seconda guerra dei trent’anni, lo si è visto, bolscevismo, riformismo roosveltiano e fascismo erano presenti come le tre opzioni sgorgate dall’apertura della finestra populista. Ipotesi fortemente alternative l’una all’altra, ma unificate dalla netta separazione rispetto all’egemonia liberoscambista britannica e alle istituzioni su cui essa si era strutturata. Vi è poi un fondamento ontologico della contiguità tra le varie forme di populismo, che risiede nel rapporto che queste intrattengono con la modernità. La modernità intesa, secondo la tradizione post-coloniale, come dia31 Ivi, pp. 1324-1325.
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lettica tra dominio e resistenza, come un rapporto di potere che fin dal suo affermarsi si presenta aperto alle ipotesi molteplici del suo superamento. Il populismo, da questo punto di vista, è allora il movimento concreto che si pone l’obiettivo di impedire il pieno dispiegamento del dispositivo di dominio rappresentato dalla modernità; la fuoriuscita dalla dialettica della modernità. L’ultimo Marx, del resto, riflettendo sulla questione russa, aveva attribuito ai rivoluzionari in lotta contro l’Autocrate il compito di “salvare” la comune contadina russa dallo sviluppo “progressivo” della modernità capitalistica32. Una intuizione poi ripresa dal giovane Gramsci nella sua esaltazione della rivoluzione d’ottobre contro il capitale33. La contiguità dei progetti populisti risiede dunque, anche, nella loro ricerca di una via di fuga dal moderno. La loro divaricazione si produce al momento di definire il tipo di via d’uscita dalla modernità; di scegliere il punto di rottura della dialettica in essa insita. Come scrivono Michael Hardt e Antonio Negri – la loro riflessione ci è qui utile al di là del loro esplicito rifiuto dell’ipotesi populista – l’antimodernità dei fenomeni reazionari consiste nel “tentativo di rompere la relazione che è fondamento della modernità per liberare il dominatore dalla necessità di avere a che fare col dominato”34. Un progetto che troviamo alla base di tutto il populismo di destra in auge in questa fase. Viceversa, progetti di populismo democratico si presenterebbero come progetti di uscita dal rapporto di dominio insito nella modernità tesi alla liberazione dei subordinati. Siamo dunque giunti a tirare le fila: il populismo non rappresenta una particolare ideologia o una particolare maniera di costruzione delle leadership, né, men che meno, una posa discorsiva. Il populismo è il campo della contesa politica nella crisi della società di mercato di Polany, nella crisi organica di Gramsci, nella crisi degli assetti egemonici di Arrighi, nella crisi della modernità di Negri/Hardt. Il populismo è la politica ai tempi della crisi. 4. Disarticolazione e ricomposizione: il populismo di Ernesto Laclau Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di 32 Cfr. M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, p. 95 e più in generale M. Musto, L’ultimo Marx. 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale, Donzelli, Roma 2016. 33 A. Gramsci, La rivoluzione contro il capitale, in “Avanti!”, 24 novembre 1917. 34 M. Hardt, A. Negri, Comune, cit., p. 106.
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venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle con un dito35.
Oggi il mondo è un po’ meno recente rispetto all’infanzia di Aureliano Buendia, ma molte cose continuano ad essere prive di nome. Nella costruzione del discorso, la pura logica continua ad essere un’utopia. La metafora, la metonimia, la catacresi continuano ad essere espedienti irrinunciabili nella costruzione del dicibile. Così come, nella costruzione delle articolazioni politiche e delle identità sociali in una società conflittuale, la pura amministrazione continua ad essere un’utopia. In questo senso la costruzione del popolo è una costruzione, in Laclau, “catacrestica”: l’ideologia può essere distinta dalla retorica di un’azione politica solo se intendiamo quest’ultima come un mero ornamento linguistico che non veicola in alcun modo il contenuto trasmesso. Questa è l’idea classica di retorica, distinta qui dalla logica. […] Cosa succede, nondimeno, se il campo della logica fallisce nel costruire se stesso come un ordine chiuso, e gli accorgimenti retorici diventano necessari per ottenere tale chiusura? In tal caso, dispositivi retorici come la metafora, la metonimia, la sineddoche, la catacresi diventano strumenti di una razionalità sociale allargata, e non possiamo più rigettare un’interpellanza ideologica come meramente retorica. Parimenti, non possiamo più mettere da parte con tanta facilità l’imprecisione e la vuotezza dei simboli politici populisti: tutto comincia a dipendere dall’atto performativo che questa vuotezza comunque innesca36.
L’egemonia è quindi per Laclau quel processo che porta una moltitudine parziale a tendere alla totalità37. Il Terzo Stato della rivoluzione francese 35 Si tratta dell’incipit di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. 36 RP, p. 13. 37 “Populismo, secondo la ragione concepita da Laclau, significa l’impossibilità del discorso di nominare oggettivamente la totalità del sociale. […] Questa frattura ontologica, non cancellabile storicamente da una dialettica finalistica, la si può nominare soltanto attraverso appellativi-limite: il numero 0, la cosa in sé kantiana, l’Essere hadeggeriano, l’oggetto a lacaniano ecc. Questi nomi denominano nelle rispettive teorie il luogo in cui la teoria si arresta di fronte a un ‘reale innominabile’ […]. E, per la stessa ragione, questi nomi sono sempre il risultato di una battaglia egemonica che dimostra che non c’è mai una totalità unificabile del sociale, e che ‘l’antagonismo è il limite dell’oggettività’, Si dice limite e non estinzione dell’oggettività, come pretenderebbe il relativismo post-moderno” (J. Alemán, Populismo: un término en disputa, “Horizontes del sur”, 3, 2016, http:// www.nuestrasvoces.com.ar/horizontes/populismo-un-termino-en-disputa/).
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che parla a nome di tutto il popolo. Ciò che va bene per la General Motors va bene per gli Stati Uniti. Nella concezione della politica di Laclau la trascendenza non smette di agire sul sociale, ma neppure lo determina sotto qualche forma. Si presenta piuttosto come tendenza. Una tendenza periclitante, che trova nel Politico l’ambito della sua articolazione contingente. Ma ignorare questa tendenza porterebbe al “tramonto della politica” in quanto tale, cioè all’abbandono di qualsiasi progetto di concretizzare in istituzioni nuove la dialettica tra l’immanenza del sociale e la trascendenza del politico. Di qui la critica alle dottrine puramente immanentistiche, incapaci di porsi il problema della transizione, “di dirci esattamente in che cosa dovrebbe consistere il passaggio che porterà dall’Impero al potere della moltitudine”38. Le domande che sorgono nel seno della società, nello strutturarsi della catena equivalenziale e nella formazione del fronte popolare, non perdono tuttavia la propria autonomia. Per cui l’assetto egemonico dato mantiene sempre la possibilità di disarticolare il fronte popolare. Allo stesso tempo, la barriera che separa il popolo dal nemico si mantiene mobile, per cui nei periodi di crisi degli assetti egemonici consolidati le domande possono riaggregarsi in articolazioni differenti: Laclau così spiega, ad esempio, il passaggio dalla militanza comunista al voto lepenista tra la classe operaia dell’Ïle-de-France. Tutta la teorizzazione matura di Laclau, pare di poter dire, si sviluppa in una polemica su due fronti: da una parte contro il nucleo essenzialista del marxismo, in base al quale la classe operaia, al termine di un percorso più o meno necessario di unificazione, sarebbe destinata ad assumere il ruolo di classe generale, di agente unico deputato al cambiamento storico; dall’altra contro quella che abbiamo definito, fondendo una terminologia polanyiana con l’analisi laclauiana, l’utopia liberale della pura amministrazione. Contro l’essenzialismo marxista, Laclau valorizza il carattere contingente e relazionale dei conflitti sociali. Contro l’utopismo liberale, valorizza la natura equivalenziale e non differenziale delle domande politiche. Il gioco politico si sviluppa dunque nella dialettica tra la dimensione orizzontale dell’autonomia (la catena equivalenziale) e quella verticale dell’egemonia, tra il momento della costruzione del potere e quello della presa del potere, cioè tra la pluralità del conflitto “esploso” e la sua ricomposizione in un disegno organico di cambiamento, cioè ancora nella tensione della società civile verso il farsi Stato. 38 RP, p. 230.
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In questo contesto, l’analisi di Laclau non si limita a fornire una chiave per la strutturazione di progetti di emancipazione avvenire, ma anche per comprendere la sconfitta dei movimenti sociali esplosi allo scoppio della “crisi spia” del 1965-1973. Abbiamo già detto che le varie domande che concorrono a formare la catena equivalenziale, se da una parte perdono la propria autonomia e si fondono con le altre nella strutturazione del fronte popolare – o blocco storico – , dall’altra mantengono la propria carica differenziale. Il blocco storico alla base del ciclo egemonico statunitense si era potuto consolidare attraverso la cooptazione, tramite il Welfare State, di una parte delle domande del movimento operaio della grande fabbrica. Ma quelle stesse domande si erano fatte alla lunga incompatibili con il mantenimento in auge del ciclo egemonico, mentre erano state affiancate da altre (diritti civili, diritti delle donne, battaglie ambientali). Le classi medie di cui parla Arrighi, che sono il vero cemento che mantiene l’unità del blocco storico egemonico nel suo periodo di espansione, avevano iniziato a de-solidarizzarsi dai gruppi dirigenti. Di qui il fenomeno, più volte richiamato, del carattere allo stesso tempo più intenso e più disperso del conflitto all’inizio della crisi del ciclo egemonico statunitense. L’autonomia dei nuovi movimenti è stata allo stesso tempo, nella lettura di Laclau, la loro forza – per le capacità di espansione che ha garantito – e la loro debolezza: perché ogni movimento – o domanda – se non inquadrato nella dimensione verticale dell’egemonia, rimane fluttuante, e per l’assetto egemonico dato è possibile riassorbirlo: se l’identità dei soggetti o delle forze sociali che diventano autonome fosse costituita una volta per sempre, il problema si porrebbe solo nei termini dell’autonomia. Ma se queste identità dipendono da alcune precise condizioni di esistenza sociali e politiche, l’autonomia stessa può essere difesa e ampliata solamente nei termini di una lotta egemonica [cioè nello strutturarsi come nodo di una catena equivalenziale]. I soggetti politici femministi o ecologisti, per esempio, sono, in un certo senso, come ogni altra identità sociale, significanti fluttuanti, ed è un’illusione pericolosa pensare che siano garantiti una volta per sempre, che il terreno che ha costituito le loro condizioni discorsive di emergenza non possa essere sovvertito. Il problema dell’egemonia, che arriverebbe a minacciare l’autonomia di alcuni movimenti, è quindi un problema mal posto. A rigor di termini, questa incompatibilità esisterebbe solamente se i movimenti sociali fossero monadi, sconnesse l’una dall’altra; ma se l’identità di ogni movimento non può mai essere acquisita una volta per tutte, allora non potrà essere indifferente a quello che ha luogo fuori di essa39. 39 ESS, p. 221.
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È stato questo il caso non solo di parte del movimento femminista40 o ambientalista41, ma anche del nuovo movimento operaio degli anni Sessanta/Settanta42. Cosa ne è, insomma, della “moltitudine”, priva di un progetto populista? I due concetti, quello di moltitudine caro a Hardt/Negri e quello di popolo caro a Laclau, presentano innegabili similitudini unite a differenze non ricomponibili. Entrambi sono il prodotto della presa d’atto della proliferazione del conflitto che abbiamo descritto all’inizio. In Hardt/Negri la “dimensione verticale” – il Politico, la costruzione istituzionale – non costituisce però l’ambito della contesa egemonica aperto alle varie ipotesi in campo, ma il momento necessariamente portatore della “corruzione”43 della dimensione orizzontale, di per sé tesa alla costruzione del “comune”, anzi, che di per sé già è “comune”; la moltitudine è il prodotto immediato della proliferazione e questo carattere immediato è il presupposto stesso della sua potenzialità trasformatrice. Per Laclau invece il momento verticale è la condizione fondamentale affinché la moltitudine possa agire politicamente. La moltitudine deve farsi popolo44. Nel corso dell’auge del ciclo statunitense di accumulazione, il sistema di Welfare State – a prescindere dalla diversa valenza e modalità di costruzione che esso ha assunto nei vari Paesi – si è mostrato capace di disarticolare le “domande populiste” sorte dal proletariato della grande fabbrica integrata in Occidente. Successivamente, la contro-rivoluzione neo-liberista 40 N. Fraser, How feminism became capitalist’s handmaiden – and how to reclaim it, in “The Guardian”, 14 Ottobre 2013. 41 J. Jachnow, What became of the German green?, in “New Left Review”, 81, maggio-giugno 2013. 42 Il movimento operaio della fabbrica pre-fordista poteva mantenere un alto potere negoziale nei confronti delle centrali organizzative dell’accumulazione facendo leva sulla propria specializzazione. Doveva quindi costruire alleanze politiche per accedere al governo ed imporre “dall’esterno” una legislazione di fabbrica che garantisse l’agibilità delle proprie rivendicazioni. Di qui la necessità di una strategia egemonica nei confronti dei ceti medi, senza il consenso o per lo meno la non-belligeranza dei quali non si sarebbe potuto ottenere il controllo dei governi. Il movimento operaio della grande fabbrica integrata deriva invece il proprio potere di interdizione immediatamente dalla sua collocazione all’interno della filiera della produzione. Di qui l’accento spostato dall’egemonia all’autonomia. Cfr. G. Arrighi, T.K Hopkins, I. Wallerstain, Anti-Systemic Movements, Verso, London 1989, pp. 38-40. 43 È questo il termine in più luoghi impiegato da Hardt e Negri, cfr. M. Hardt, A. Negri, Comune, cit., pp. 164-165.. 44 Per la critica di Laclau a Negri cfr. RP, pp. 226-231.
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nel corso della seconda belle époque degli anni Novanta ha disarticolato il fronte delle domande sorte in conseguenza della proliferazione del conflitto. Dal punto di vista istituzionale, la risposta veniva data in termini di governance, di “decostituzionalizzazione e di governamentalizzazione di una serie di dispositivi di produzione di norme la cui efficacia si realizza al di fuori della sovranità, attivati da una pluralità di attori che devono essere funzionali alle esigenze dei mercati”45. Ogni aspetto del conflitto “esploso” era stato recuperato all’interno di un quadro ideologico la cui denominazione più efficace pare quella di “estremo centro”, un luogo della politica dal quale il conflitto è espunto in nome della modernizzazione, in nome cioè della possibilità di trovare soluzioni tecniche ad ogni problema insorto nella società. Soluzioni tecniche attinte anche dal calderone “radicale”, purché funzionale ai meccanismi dell’accumulazione senza limiti. La modernizzazione è la modernità senza il conflitto. La crisi del 2008 ha però sancito il fallimento della governance, incapace di riassorbire la pluralità del conflitto e la profondità della crisi. Questo breve excursus sulle differenze che intercorrono tra la prospettiva populista, quella post-operaista e quella liberale ci permette di ricondurne le origini ad una diversa e antitetica concezione della dialettica tra conflitto e istituzioni, tra Stato e popolo. Nella visione neoliberale le istituzioni non sono modellabili dal conflitto, ma anzi tendono ad ipostatizzare i rapporti tra i gruppi sociali: “Da questa prospettiva il conflitto è visto come un fallimento o una debolezza delle istituzioni e della democrazia, e la sua esistenza rappresenta un segno di deterioramento”46. L’ipotesi populista ne emerge sotto forma di patologia, di elemento destinato a minare il “buon funzionamento” delle istituzioni. Nella prospettiva post-operaista, al contrario, l’elemento corruttore è ravvisato nell’irruzione dello Stato, quale motore di necessaria perversione del conflitto e di sua neutralizzazione a tutto vantaggio dei gruppi dominanti. E, di conseguenza, il populismo, con il suo richiamo agli agenti classici di verticalizzazione del politico, come elemento di confusione e di tradimento delle istanze di liberazione intrinseche nel conflitto sociale. Entrambe queste visioni, pur per molti versi antitetiche, paiono però accomunate da un rifiuto della politica, un rifiuto “dall’alto” nel caso dell’ideologia neoliberale, un rifiuto “dal basso” nel caso delle correnti 45 M. Hardt, A. Negri, Comune, cit., p. 230. 46 L. Cadahia, V. Coronel, Populismo repubblicano: oltre la contrapposizione tra Stato e popolo, in http://www.senso-comune.it/luciana-cadahia-e-valeria-coronel/ populismo-repubblicano-oltre-la-contrapposizione-tra-stato-e-popolo/.
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post-operaiste. A fronte di ciò, il populismo recupera una visione dialettica dello Stato e delle istituzioni come oggetto del contendere, come frutto del conflitto. All’interno del campo populista, certamente, si apre la questione delle frontiere attorno al quale il conflitto è strutturato, con conseguenti ipotesi di divergenti sbocchi istituzionali per la crisi della governance. Il populismo reazionario individua queste frontiere all’interno del popolo, vagheggia un ritorno ad una condizione primigenia e a-storica di purezza, stabilisce gerarchie razziali, sessuali, ecc. e opera per la formazione di istituzioni gerarchiche, escludenti. È questo il caso del leghismo, del lepenismo, del trumpismo. Il populismo democratico, da parte sua, valorizza la concezione del popolo come costruzione storicamente variabile, incorpora le differenze e allo stesso tempo tende all’unità dei subalterni nei termini richiamati nell’introduzione e disegna pertanto istituzioni avvenire aperte all’incorporazione degli istituti di potere popolare che si formano nella società. È stato questo il caso delle costituzioni “populiste” del ciclo progressista dell’America Latina, o dei progetti messi in campo da Podemos (superamento del “regime della transizione”) o della France Insoumise (VI Repubblica). È in questo contesto che la rappresentazione dello scontro politico di questo scorcio di secolo come uno scontro tra forze populiste e forze istituzionali appare privo di senso. Così come l’illusione sul carattere di per sé costituente delle nuove soggettività produttrici di (e prodotte dal) conflitto. La sfida, nel grado zero della politica prodotto dalla crisi, è tutta all’interno del campo populista. La ricostruzione delle istituzioni di domani sarà il prodotto della contesa egemonica per spostare le frontiere dell’antagonismo in senso democratico/inclusivo o gerarchico/esclusivo.
Samuele Mazzolini
LACLAU LO STRATEGA: POPULISMO ED EGEMONIA TRA SPAZIO E TEMPO
Introduzione L’opera di Ernesto Laclau gode di discreta salute. Non potrebbe essere altrimenti in un’epoca in cui la categoria “populismo” imperversa nel dibatitto accademico e non, grazie alla diffusione su scala globale di progetti che fanno della polarizzazione politica il loro segno distintivo. La fama di Laclau infatti – specie quella ottenuta negli ultimi anni – è in buona parte legata al riscatto di un termine tradizionalmente vituperato nella letteratura politologica e impiegato come epiteto denigratorio nella prassi politica, ma oggi come non mai centrale per identificare i tratti di una svolta che vede l’affanno di attori politici tradizionali a favore di una varietà di soggetti, antagonisti – quantomeno nominalmente – allo status quo. Nella proposta di Laclau il populismo assume un doppio statuto che è bene chiarire sin da subito: sulle orme della trasformazione che Antonio Gramsci apportò alla nozione di egemonia, il populismo è, al contempo, strumento analitico che mette a disposizione una chiave di lettura privilegiata per capire determinati fenomeni politici se non addirittura la politica stessa, così come proposta strategica per la parte politica in cui Laclau si identificava. In tal senso, il riferimento di Podemos al contributo del teorico argentino1 è stato centrale per ribadire la sua natura strategica e proiettare la figura di Laclau oltre le aule dei corsi post-laurea a cui era rimasta in buona parte confinata. Di Laclau, tuttavia, si tende a restringere la lettura a La ragione populista (RP), ampliando in taluni casi il repertorio a Egemonia e strategia 1
Cfr. P. Iglesias, Understanding Podemos, in “New Left Review”, 93, 2015, pp. 7-22; Í. Errejón, ¿Qué es “Podemos”?, in “Le Monde Diplomatique en español” [online], (http://www.monde-diplomatique.es/?url=articulo/00008564128721681 86811102294251000/?articulo=8c640f81-5ccc-4723-911e-71e45da1deca), 2014; Í. Errejón, In Spagna soffia il vento del cambiamento. Intervista a Íñigo Errejón, segretario politico di Podemos, in “MicroMega” [online] (http://temi.repubblica. it/micromega-online/“in-spagna-soffia-il-vento-del-cambiamento”-intervista-ainigo-errejon-segretario-politico-di-podemos/), 2015.
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socialista (ESS). Questo risulta particolarmente vero in Italia dove le traduzioni dei suoi testi sono tuttora incomplete e di ridotta diffusione, con il paradosso che il secondo libro – uscito originalmente in inglese nel 1985 con 20 anni di anticipo sul primo – sia stato in realtà tradotto e pubblicato posteriormente. Il ritardo e la scarsità delle traduzioni dà conto, più in generale, di una penetrazione tutto sommato limitata nel nostro paese. Nonostante il successo riscosso nel mondo accademico anglosassone e latinoamericano infatti, Laclau è conosciuto relativamente poco in Italia, e sulla sua opera si è scritto ancora meno, salvo alcune rare e lodevoli eccezioni2. Un’altra prova di questa indifferenza è data dalla sostanziale assenza di ricercatori italiani nei registri del programma post-laurea che Laclau ha ideato e avviato presso l’Università dell’Essex, dove sono transitati invece centinaia di studiosi di decine di paesi diversi. Ora, la scarsa diffusione del pensiero di Laclau nel contesto italiano – insieme al riconoscimento della sua importanza da parte di chi scrive – potrebbe indurre a fare del presente testo uno scritto meramente divulgativo. Tuttavia, la miglior maniera per favorirne la ricezione e sottolinearne i meriti risiede forse nella proposta di una disamina critica della sua opera. Non quindi un’esposizione da vetrina, ma un calarsi nei meandri del suo corpus per segnalare virtù e contraddizioni, nel tentativo di avviare un’agenda di lavoro che, anche in Italia, faccia del suo contributo un corpo vivo su cui lavorare attivamente, individuando percorsi inesplorati, disattivando eventuali impasse, mettendolo in comunicazione con tradizioni diverse, legandolo all’analisi di – e, perché no, all’azione su – contesti concreti. Riprendendo il filo iniziale, il populismo risulta sicuramente il tema laclauiano che maggior richiamo esercita nel dibattito contemporaneo e forse ciò può rappresentare un limite nella misura in cui rischia di oscurare il resto dell’impianto teorico sviluppato da Laclau. È proprio qui che vengono al pettine i nodi di una lettura sommaria: sebbene il populismo rappresenti infatti la sintesi – e per certi aspetti la formalizzazione – del suo percorso intellettuale, ne è anche pericolosamente un paradossale paravento. Laclau, prima di diventare il “teorico del populismo di sinistra”, ha dato vita a un complesso sistema – conosciuto sotto il nome di “teoria del discorso della Scuola di Essex” – attraverso cui ha proposto una de-essenzializzazione del pensiero socialista e la genesi di una teoria della significazione, prendendo le mosse, ma discostandosi al contempo dalle intuizioni gramsciane sulla nozione di egemonia. È stato proprio l’approfondimento di questa 2 Cfr. D. Melegari e M. Baldassari (a cura di), Populismo e democrazia radicale. In dialogo con Ernesto Laclau, Ombre Corte, Verona 2012.
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categoria a permettergli di superare le colonne d’Ercole del marxismo o, con le sue parole, ad aggrapparsi a una delle migliori schegge messe in circolazione dalla sua deflagrazione3. Laclau fieramente post-marxista dunque, dove sono proprio il populismo e l’egemonia a fare da colonne portanti dell’ontologia politica offerta in sostituzione dell’ontologia sociale del marxismo. Eppure si tratta, per iniziare a svelare il quid della critica, di colonne molto, forse troppo vicine tra di loro. Il territorio concettuale di populismo ed egemonia, in altre parole, non solo è contiguo, ma per certi versi sovrapposto. Qual è dunque la loro funzione nell’architettura teorica laclauiana? Ma soprattutto qual è il loro sviluppo nel suo pensiero? Come si intersecano esattamente e a che tipo di teoria politica danno vita? E infine, che tipo di ricadute hanno sul piano dell’analisi e della pratica politica emancipatoria? Sono domande, queste, di primaria rilevanza nel contesto attuale, in cui la marginalità delle forze eredi del movimento operaio e la loro distanza dai “giochi egemonici” risulta sempre più evidente, mentre viene in parallelo sdoganata, non senza difficoltà e recalcitranze, l’idea di un populismo di sinistra. 1. Laclau, strategia e ontologia politica Sebbene Laclau non possa essere considerato un filosofo strictu senso – argomenta Oliver Marchart –, la sua opera mantiene un nocciolo filosofico, la cui presenza è tuttavia inestricabile dall’articolazione e dalla reciproca influenza stabilita con la scienza (intesa come linguistica e analisi del discorso) e la diade pratica/teoria politica4. Per Laclau infatti, teoria e pratica sono due facce della stessa medaglia in virtù del fatto che le categorie teorico-politiche sono parte integrante dei discorsi che sostengono istituzioni e operazioni sociali5. È senza dubbio l’incontro con l’opera di Gramsci – seguendo ancora Marchart – che gli permette di articolare la sua esperienza militante in una cornice teorica e analitica coerente6. Tutto ciò definisce inequivocabilmente l’orientamento generale dell’intervento
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NR, p. 201. O. Marchart, Postfoundational Political Thought. Political Difference in Nancy, Lefort, Badiou and Laclau, Edinburgh University Press, Edinburgh 2007. E. Laclau, The Making of Political Identities, Verso, London 1994, p. 2. O. Marchart, Postfoundational Political Thought, cit., p. 55.
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di Laclau: «nonostante le procedure argomentative cristalline e “logiche” [...] la natura del suo pensiero è decisamente strategica»7. Laclau, d’altronde, non si era mai dimenticato da dov’era partito. Come rivela in un’intervista del 1988: «Durante tutta la sua vita Joyce ritornò alla sua esperienza nativa a Dublino; per me sono quegli anni di lotta politica nell’Argentina degli anni ‘60 che tornano in mente come punto di riferimento e confronto»8. Sebbene a rigore non più un militante politico vero e proprio, Laclau non aveva mai smesso di mantenere un rapporto stretto con la sfera della pratica politica, una vicinanza riacuitizzata dalla pertinenza – e dall’ampio apprezzamento – delle sue tesi sul populismo nel contesto della “marea rosa” populista in America Latina, con i cui governi, in particolare quelli argentini di Néstor Kirchner e Cristina Fernández, mantenne un’importante affinità9. Al contempo è anche vero che le riflessioni di Laclau si fanno via via più marcatamente ontologiche e orientate alla definizione di una teoria generale della politica – con il risultato di dar vita a un sistema teorico che di recente Perry Anderson non ha esitato a definire di «tecnicità proibitiva»10 –, tralasciando l’aspetto normativo che continua invece ad essere centrale nell’opera della moglie e partner intellettuale Chantal Mouffe. Più in generale, il riferimento alla politica, per così dire, di parte, diviene più rado anche se mai assente nei libri a firma singola, continuando invece a trasparire con maggior chiarezza in interventi “minori”, quali articoli su riviste e interviste, e in quelli collettanei11. Tuttavia, questo non significa che la sua opera non abbia riverberi di prima importanza sul rinnovamento del pensiero e della pratica socialista ed emancipatrice. È quindi lecito domandarsi cosa renda effettivamente strategico il suo pensiero. Più che la prossimità ai processi di lotta e trasformazione politico-sociale, infatti, il carattere strategico sembra essere dato proprio da quel nocciolo «strettamente filosofico» a cui fa allusione Marchart. Qual è questo nocciolo, dunque? Per Marchart, questo va inquadrato nella differenza ontologica, ossia nella «differenza come differenza» così come intesa da Martin Heidegger12. 7 8 9
Ibidem. NR, p. 200. Questa connessione non va tuttavia esagerata come hanno invece fatto diversi mezzi di informazione argentini. Come confermatomi da C. Mouffe e P. Biglieri, Laclau incontrò solo una volta Néstor Kirchner, e due o tre volte Cristina Fernández de Kirchner. 10 P. Anderson, The Heirs of Gramsci, in “New Left Review”, 100, 2016, pp. 71-97. 11 Cfr. DSS. 12 O. Marchart, Postfoundational Political Thought, cit., p. 56.
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L’apripista di questa riflessione è l’articolo The Impossibility of Society, originalmente apparso nel 1983. Qui Laclau indica senza mezzi termini «la crisi del concetto di totalità sociale» il quale «operava come un principio sottostante di intelligibilità dell’ordine sociale»13. In altre parole, ciò che viene messo al bando da Laclau è il concetto di un’essenza immutabile, di un oggetto positivo la cui conoscenza può raccontarci cosa si celi davvero dietro «le variazioni empiriche espresse alla superficie della vita sociale»14. Laclau contrappone a questa totalità fondante «l’infinità del sociale», ossia un «eccesso di significato» non controllabile che segnala la limitatezza di ogni struttura e quindi l’impossibilità della società come oggetto unitario e intellegibile. La società dunque non può fissare il proprio significato una volta per tutte, in quanto costantemente travolta dal «gioco infinito delle differenze»15. Se l’argomento si esaurisse qui Laclau sarebbe da aggiungere al novero dei pensatori post-moderni à la Lyotard o anti-fondazionalisti à la Feyerabend. Non è questo il caso. L’impossibilità di un universale viene accostata nondimeno alla sua necessità, aprendo le porte all’aspetto produttivo della sua teoria politica, che la rende post- piuttosto che antifondazionale. Per Laclau difatti un universo privo di una qualsivoglia fissazione di significato sarebbe un universo psicotico. «Il sociale non è solo il gioco infinito delle differenze. È anche il tentativo di limitare quel gioco, di addomesticare l’infinità, di abbracciarla all’interno della finitezza di un ordine»16. Ciò che Laclau chiama «sutura», che sta a significare la chiusura definitiva del sociale, è dunque impossibile, ma la tensione a raggiungerla funge da condizione di possibilità affinché si producano delle fissazioni parziali e relative a partire dall’istituzione di punti nodali, i quali non possono però essere stabiliti a priori. Invece di essere spazzato via del tutto, quindi, l’universalismo è mantenuto attraverso l’attenzione ai fondamenti contingenti e ai processi costitutivi di questi punti nodali17. Gli ulteriori passaggi che aggiungono complessità a questo ragionamento verranno chiariti lungo il corso della disamina delle nozioni di egemonia e populismo. Ciò che urge mettere in luce a questo punto sono le tre coppie di differenze che si dipanano dall’argomento post-fondazionalista di La-
13 E. Laclau, The Impossibility of Society, in “Canadian Journal of Political and Social Theory”, 7 (1-2), 1983, p. 22; anche in NR, pp. 90-91. 14 Ibidem. 15 Ibidem. 16 Ibidem. 17 E. Laclau, The Making of Political Identities, cit., p. 2.
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clau18. La prima ha a che vedere con la distinzione tra il sociale e il politico a partire dalle categorie di sedimentazione e riattivazione di Edmund Husserl. Il sociale è il terreno di ciò che è presentato come oggettivo, come naturale: si tratta di pratiche discorsive sedimentate, per così dire routinizzate, le quali hanno interesse a celare e far dimenticare le proprie origini, il proprio momento istituente e la propria contingenza al fine di far svanire possibilità alternative19. Di contro, il momento del politico si manifesta mediante una messa in discussione delle relazioni sociali vigenti e la possibilità di istituzione di nuove configurazioni egemoniche. Si fa così largo, per sua stessa ammissione, tutta la pregnanza ontologica dell’apparato laclauiano: «La distinzione tra il sociale e il politico è quindi ontologicamente costitutiva delle relazioni sociali»20. La seconda coppia di differenze riflette la prima, in quanto riprende il termine il “politico” e l’idea di fondo circa l’impossibilità della chiusura, ma lo oppone in questo caso alla politica. La distinzione ha maggior risonanza negli scritti dei teorici vicini a Laclau, rimanendo pressoché solo abbozzata nei suoi testi21. È Mouffe, che per prima e in maniera più approfondita si avvicina al pensiero di Carl Schmitt da cui la coppia è mutuata, a fornirne la descrizione più compiuta: Per “il politico”, mi riferisco alla dimensione dell’antagonismo che è inerente alle relazioni umane, antagonismo che può prendere molte forme ed emergere in diversi tipi di relazioni sociali. La “politica”, d’altro canto, indica un insieme di pratiche, discorsi e istituzioni che cercano di stabilire un certo ordine e organizzare la coesistenza umana in condizioni che sono sempre potenzialmente conflittuali in quanto condizionate dalla dimensione de “il politico”22.
Mentre “il politico” definisce un orizzonte, una logica che fornisce le coordinate quasi-trascendentali attraverso cui la sedimentazione e la desedimentazione del significato hanno luogo, la politica rappresenta l’ordine delle istituzioni reali, delle pratiche concrete che risentono della logica anteriore. In questo modo, “il politico” e la politica non vengono mai a conci-
18 Questo argomento è ripreso da O. Marchart, Postfoundational Political Thought, cit., pp. 138-149. 19 NR, p. 34. 20 Ivi, p. 35. 21 O. Marchart, Postfoundational Political Thought, cit., p. 142. 22 C. Mouffe, The Democratic Paradox, Verso, London 2000, p. 101.
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dere, rimanendo necessariamente confinati su piani diversi. Fare altrimenti vorrebbe dire risuscitare la nozione di un fondamento universale. È la stessa differenza che intercorre nella terza coppia tra livello ontologico e livello ontico, il primo concernente l’impossibilità di una riconciliazione definitiva, il secondo equiparabile al registro empirico. A ben vedere, quest’ultima coppia generalizza il ragionamento della coppia precedente, facendolo fuoriuscire dal carattere regionale in cui è proposta la differenza “il politico”/politica. In questo modo risulta evidente che la teoria del discorso di Laclau non può essere ridotta a una teoria della significazione politica, in quanto rappresenta piuttosto una teoria della significazione tout court. La logica politica della significazione infatti non si limita al sottoinsieme della politica, ma indica la politicità persino di sistemi di significato non-politici23. In definitiva, tra i due livelli esiste uno iato insormontabile che tuttavia li rende dipendenti l’uno dall’altro: il registro ontico infatti non può racchiudersi in se stesso, mentre l’ontologico può mostrarsi solo attraverso l’ontico24. Questa distanza rimane tuttavia fondamentale: Se avessimo una situazione dialogica in cui raggiungessimo, quanto meno come idea regolativa, un punto in cui tra la dimensione ontica e quella ontologica non ci fosse differenza, in cui ci fosse una sovrapposizione completa, allora in quel caso non ci sarebbe più niente da egemonizzare perché questa pienezza assente della comunità potrebbe essere data da uno e un solo contenuto politico25.
Ritornando al motivo di apertura di questa digressione, perché il discorso strettamente filosofico permette di pensare strategicamente? Come ci dice enfaticamente Laclau: Una volta che l’indecibilità ha raggiunto lo stesso fondamento, una volta che l’organizzazione di un certo schieramento è governata da una decisione egemonica – egemonica perché non è oggettivamente determinata, perché sarebbero possibili anche decisioni diverse – il regno della filosofia giunge alla fine e il regno della politica comincia26.
23 O. Marchart, Postfoundational Political Thought, cit., pp. 146-147. 24 E. Laclau, L. Zac., Minding the Gap: The Subject of Politics, in E. Laclau (a cura di), The Making of Political Identities, cit., p. 30. 25 E. Laclau, Hegemony and the Future of Democracy: Ernesto Laclau’s Political Philosophy, intervista in L. Worsham, G.A. Olson (a cura di), Race, Rhetoric, and the Postcolonial, State University of New York Press, Albany 1999, p. 135. 26 E, p. 144.
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L’enunciato ribadisce il senso della differenza ontologica di cui si è fatta già menzione e schiude una serie di potenzialità per l’agire politico una volta assimilato il carattere egemonico della società. Laclau definiva infatti la teoria dell’egemonia precondizione per il pensiero strategico27. È proprio il carattere non-finito e non-finibile delle relazioni sociali che obbliga a pensare alla costruzione (radicalmente contingente e quindi non sussumibile da un processo di ordine superiore) dell’universale in termini di articolazione politica e di forgiatura di identità politiche sempre nuove. Per dare il senso della natura strategica della sua ontologia, Laclau sviluppa le nozioni di egemonia – come si è già visto – e di populismo, della cui evoluzione nel suo corpus daremo ora conto. 2. Dal populismo all’egemonia: i primi passi Abbiamo visto che egemonia e populismo devono il proprio statuto nell’architettura laclauiana al peculiare ruolo filosofico che svolgono e in particolare alla svolta post-fondazionalista che Laclau compie a partire dai primi anni ʼ80. Entrambi i termini tuttavia appaiono già nelle riflessioni di Laclau degli anni ʼ70, in quella che viene comunemente definita la sua fase althusseriana. È proprio “l’incontro” con i limiti analitici e politici imposti dal determinismo economico e il riduzionismo di classe, insieme all’intuizione che populismo ed egemonia possano essere di ausilio a superare tali ostacoli, a facilitare il percorso di uscita dal marxismo che il teorico argentino intraprende. Sarebbe quindi più appropriato dire che lo sviluppo dello “strettamente filosofico” e le nozioni di populismo ed egemonia si sono mossi pari passu. Lo fanno, tuttavia, in maniera curiosa: mentre il populismo occupa infatti un ruolo centrale nelle riflessioni iniziali di Laclau per poi finire sottotraccia, riemergendo solo a partire dalla sua ultima monografia La ragione populista, al contrario, nella sua prima collezione di saggi Politics and Ideology in Marxist Theory. Capitalist, Fascism, Populism la nozione di egemonia parte in sordina, per poi divenire l’asse portante di Egemonia e strategia socialista e dei seguenti lavori. In una nota a piè di pagina del penultimo testo di PI, Fascism and Ideology, Laclau nota che «il concetto di egemonia, così com’è definito da Gramsci, è un concetto chiave nell’analisi politica marxista, il quale ha bisogno di essere sviluppato in tutte le sue implicazioni»28. Menziona, in 27 E. Laclau, Hegemony and the Future of Democracy, cit., p. 159. 28 PI, p. 141.
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tal senso, una serie di considerazioni di Chantal Mouffe, all’epoca inedite – saranno pubblicate da lì a poco29 –, nelle quali si valorizza il contributo di Gramsci volto al superamento dell’economicismo e del riduzionismo di classe. È solo nel saggio successivo Towards a Theory of Populism che Laclau avanza una definizione, ancorché piuttosto indeterminata, di egemonia, insieme a un’elaborazione invece molto dettagliata del populismo. Qui l’egemonia di una classe dominante sta a significare la sua capacità di articolare interpellazioni e contraddizioni non riconducibili alla classe (elementi che lungo il testo caratterizza anche come popolar-democratici), così come alcuni contenuti provenienti dal discorso politico e ideologico delle classi dominate30. Rigettando l’esistenza di un nesso causale tra struttura e sovrastruttura e negando che tutti gli elementi ideologici abbiano necessariamente a che vedere con la classe, l’interesse polemico di Laclau è rivolto in particolare alla rigida topografia propria delle versioni “volgari” del marxismo31. Tuttavia, l’egemonia per Laclau non presuppone l’imposizione di una visione uniforme del mondo, bensì l’articolazione di visioni diverse in una maniera tale per cui il loro potenziale antagonistico risulta neutralizzato32. Per quanto riguarda il populismo invece, questo viene definito nello stesso testo come «la presentazione di interpellazioni popolar-democratiche come un complesso sintetico-antagonista rispetto all’ideologia dominante»33. Cos’è che differenzia il populismo dall’egemonia allora? Anche l’egemonia, si è visto, contiene al suo interno questo tipo di interpellazioni. È possibile evincere che nell’egemonia della classe dominante questi elementi sono smussati e resi inoffensivi – rendendoli così delle particolarità differenziali –, mentre il discorso populista sviluppa a pieno il loro antagonismo, opponendoli allo Stato34. In tal modo, il populismo diviene un discorso antagonista ove prevalgono elementi non di classe, popolar-democratici. Questa prevalenza, tuttavia, va caratterizzata. Non si tratta di una superiorità qualitativa, bensì puramente quantitativa. L’articolazione di elementi ideologici non di classe infatti può essere condotta soltanto da certe classi. L’antagonismo di fondo che determina in ultima istanza i processi 29 30 31 32 33 34
C. Mouffe, Hegemony and Ideology in Gramsci, in C. Mouffe (a cura di), Gramsci & Marxist Theory, Routledge, London 1979. PI, p. 162. Ivi, pp. 158-159. Ivi, p. 161. Ivi, pp. 172-173. Ivi, p. 173.
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storici è ancora quello relativo alle relazioni di produzione, dove lo scontro è tra la borghesia (o alcune delle sue frazioni) e la classe operaia35. Questo antagonismo però non può che dispiegarsi a livello politico e ideologico, sfera in cui si mescolano anche degli elementi non riconducibili alla classe. Il risultato è che la classe non può presentarsi in una forma incontaminata, pura; sarà bensì il principio articolatore, con un impatto decisivo sulla forma e sulla direzione politica ultima, di un discorso ampio, i cui contenuti specifici non sono tuttavia determinabili a priori. In questo senso, Laclau distingue due diversi tipi di populismo: uno reazionario attraverso cui una frazione del blocco dominante cerca di affermare il proprio dominio su un’altra, l’altro invece emancipatorio quando a dispiegarlo è la classe operaia36. Entrambi i populismi, ad ogni modo, cercheranno di presentarsi antagonisticamente come la vera incarnazione del popolo e degli interessi nazionali37. Rimane da chiarire in maniera più dettagliata quale sia la relazione che intercorre tra populismo ed egemonia. Secondo Laclau, «le classi non possono affermare la propria egemonia senza articolare il popolo nei loro discorsi; e la forma specifica di questa articolazione nel caso di una classe che cerca di confrontare il blocco di potere nel suo complesso, al fine di affermare la propria egemonia, sarà il populismo»38. In tal modo, il populismo diviene la strada per l’egemonia per quelle classi che ancora non la detengono. Dal testo di Laclau si deduce che una volta che una classe e i suoi alleati si sono convertiti in blocco egemonico, la dimensione antagonista scema. In altre parole, il populismo consisterebbe nell’unico realistico tentativo di ottenere il potere per un soggetto politico interessato a mettere mano all’attuale configurazione sociale: una strategia, dunque, il cui tratto dominante (l’antagonismo) verrebbe a cessare una volta ottenuti gli scopi prefitti. Come è evidente, tanto il populismo quanto l’egemonia hanno in questo testo un’inflessione marcatamente sociologica che viene invece accantonata a partire dai primi anni ’80. Comunemente, si identifica il libro Egemonia e strategia socialista come il punto di svolta tra il Laclau marxista e quello post-marxista. Tuttavia, uno sguardo ai suoi scritti tra il 1977 e il 1985 rivela che Laclau intraprende questo cambiamento con la pubblica-
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Ivi, pp. 159-160. Ivi, pp. 173-174. Ivi, p. 161. Ivi, p. 196.
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zione del testo Populist rupture and discourse39. La nozione di discorso e quella correlate di discorsività sono introdotte ufficialmente nella prospettiva laclauiana: Per “discorsivo” non intendo tutto quello che si riferisce al “testo” in senso stretto, ma all’insieme dei fenomeni in cui e attraverso i quali ha luogo la produzione sociale di significato, un insieme che costituisce una società in quanto tale. Il discorsivo non è quindi concepito come un livello né come una dimensione del sociale, ma piuttosto come coestensivo con il sociale in quanto tale40.
Tale delucidazione è funzionale a un nuovo modo di concettualizzare l’antagonismo. Per Laclau, l’antagonismo non è né un’opposizione reale empirica à la Kant né una contraddizione dialettica à la Hegel, ma una relazione di contraddizione che emerge nel discorso, cioè attraverso la proposizione contestuale di un insieme di posizioni opposto a un altro polo. In altre parole, né la positività di ogni oggetto né l’opposizione logica tra oggetti diversi sono garantite. L’antagonismo nasce come una creazione significativa attraverso una serie di operazioni discorsive. Ne consegue che la subordinazione non genera naturalmente una sua resistenza. Piuttosto, è solo nella misura in cui una serie di equivalenze tra diversi elementi viene creata antagonisticamente in relazione a una forza dominante che un soggetto nasce e una rottura populista ha luogo41. Tuttavia, mentre il populismo riguarda l’esacerbazione dell’antagonismo, l’egemonia borghese riguarda il riassorbimento dell’antagonismo attraverso sistemi di cooptazione. In altri termini, il populismo lavora per la costruzione di una nuova egemonia attraverso la costruzione di una catena di equivalenze tra posizioni le quali, diventando “popolari”, sono inserite in una logica dicotomica della società. Al contrario, un’egemonia basata su mosse trasformistiche cerca di mantenere tali posizioni come meramente “democratiche”, cioè attraverso una loro soddisfazione differenziale, impedendone la coagulazione in un’identità popolare più ampia42. L’argomento è ampliato in Socialist Strategy. Where Next?43, un’introduzione esplicita a ESS, in cui Laclau e Mouffe confrontano direttamente il marxismo, asserendo che la centralità 39 E. Laclau, Populist Rupture and Discourse, in “Screen Education”, 34 (99), 1980, pp. 87-93. 40 Ivi, p. 87. 41 Ivi, pp. 88-90. 42 Ivi, pp. 92-93. 43 E. Laclau e C. Mouffe, Socialist Strategy. Where Next?, in “Marxism Today”, 25 (1), 1981, pp. 17-22.
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della classe operaia in un progetto contro-egemonico non può essere preso come un mero dato di fatto44. Pressoché coevamente, nel già citato testo The Impossibility of Society, viene esplicitamente formulata l’indeterminatezza di ogni formazione sociale e le tracce rimanenti di qualsiasi topografia del sociale vengono eliminate. Qui, la società non ha alcun fondamento, nessuna legge di movimento, eppure è caratterizzata da tentativi continui e parziali «di agire sul sociale, di egemonizzarlo»45. Questo significa che diversi discorsi cercheranno di fissare le identità di un sistema e la loro prevalenza potrà essere solo contingente. Il terreno per la pubblicazione di ESS è ormai pronto. Ricapitoliamo le principali mosse intraprese da Laclau e Mouffe in questa fondamentale pietra miliare del post-marxismo. Il libro traccia una genealogia della nozione di egemonia allo scopo di radicalizzarla ulteriormente. Le discussioni sull’egemonia, secondo gli autori, si intrufolano nei dibattiti marxisti proprio come conseguenza dello «specchio rotto della “necessità storica”»46. Si fanno cioè largo in virtù di una serie di sconfessioni empiriche di alcuni dei postulati positivisti propri del marxismo. Tra questi, due assumono un ruolo dirimente: da una parte, la dispersione delle lotte e la provata incapacità della classe operaia di trasformarsi da classe in sé a classe per sé; dall’altra, lo “sviluppo diseguale e combinato” del contesto russo che constringerà l’incipiente classe operaia a farsi carico di – a “egemonizzare” appunto – un compito, quello della rivoluzione democratico-borghese, che non era previsto essere di sua competenza nello schema evolutivo marxista47. Due mosse teoriche contraddistinguono la radicalizzazione del concetto di egemonia. In primo luogo la topografia struttura/sovrastruttura, ancora presente per quanto sfumata in PI, viene del tutto accantonata. In questa maniera, la sfera politica e ideologica è resa indipendente da quella economica: nessun nesso meccanico o causale può essere tracciato tra i vari piani del sociale, eliminando così il privilegio di cui godevano nell’opera precedente le relazioni di produzione. La seconda mossa è un corollario della prima: la centralità della classe operaia viene dismessa in quanto risulta impossibile attribuirle degli interessi oggettivi. «Gli interessi fondamentali del socialismo non possono essere dedotti logicamente dalle posizioni determinate nel processo economico»48. Mentre in PI gli inte44 45 46 47 48
Ivi, p. 22. E. Laclau, The Impossibility of Society, cit., p. 22; anche in NR, p. 91. ESS, p. 144. Ivi, pp. 44-48, 99-101. Ivi, p. 150.
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ressi e la direzione politica di fondo della classe operaia e della borghesia vengono trattati come un dato di fatto – al contrario degli elementi non di classe i quali acquiscono significato solo nella misura in cui sono articolati a una o l’altra classe “fondamentale” –, in ESS nessun elemento gode di un’identità assicurata. È proprio la mancanza di un centro privilegiato di irradiazione, di un “ancoraggio” aprioristico, a eliminare non solo qualsiasi pretesa teleologica, ma anche la possibilità di fissare un’identità a qualsiasi agente sociale. L’identità, in questo senso, diventa puramente contingente e relazionale, trovando origine nell’articolazione che viene contestualmente stabilita con altri elementi49. In questo senso, ESS occupa un ruolo centrale in quanto conferma la volontà di Laclau e Mouffe di demolire qualsiasi fondamento di base. Dove ci porta questa formulazione? Dato che non esiste alcuna essenza positiva, siamo di fronte a un’apertura del sociale – intesa come espansione del significato attraverso la proliferazione delle differenze – rendendo possibile parlare di “essenza negativa”. In tale contesto, vari ordini sociali tentano – ma in ultima istanza falliscono sempre – di addomesticare il campo delle differenze50. Come accennato sopra, questi tentativi sono condotti attraverso una pratica articolatoria che stabilisce una relazione tra gli elementi, che a loro volta sono modificati a seguito della loro unione. Qui, ci viene data un’ulteriore definizione di discorso: è la totalità risultante da tale articolazione51. Tuttavia, un discorso non è una positività determinata e delimitata, poiché la relazione stabilita tra le differenze «sarà incompleta e segnata dalla contingenza»52. Saranno possibili esclusivamente fissazioni parziali grazie all’intervento di punti discorsivi privilegiati – i cosiddetti punti nodali – che fissano il significato di una catena significante53. Tali punti, tuttavia, non possono essere definiti a priori in quanto emergono solo contestualmente. Oltre a sabotare la nozione di interessi oggettivi, Laclau e Mouffe riconoscono – sulla scorta dell’apparizione dei nuovi movimenti sociali – la moltiplicazione delle posizioni che un soggetto può occupare, vale a dire l’esplosione di una varietà di possibili antagonismi in seno alla società. Le ripercussioni dal punto di vista della pratica politica sono chiare: «una serie di altri punti di rottura e antagonismi democratici possono articolarsi in una “volontà collettiva” socialista, su un piano di uguaglianza, con le rivendi49 50 51 52 53
Ivi, p. 152. Ivi, p. 159. Ivi, p. 171. Ivi, p. 180. Ivi, p. 183.
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cazioni operaie. L’era dei “soggetti privilegiati” – in senso ontologico, non pratico – della lotta anticapitalista è stata definitivamente superata»54. Questi antagonismi restano però, in se stessi, privi di un orientamento politico naturale, in quanto acquisiscono un determinato senso solo nel momento in cui vengono ad articolarsi ad altri antagonismi. La spinta esercitata sugli Autori dalla concomitante proliferazione dei nuovi movimenti sociali e dalla ricca letteratura al riguardo può essere chiaramente apprezzata in questo testo ed è successivamente ammessa dallo stesso Laclau55. Questa influenza è esplicita non solo nel capitolo finale del testo in cui la proposta normativa risulta in qualche modo cucita su misura ai nuovi movimenti sociali, ma anche e soprattutto nella creazione di una nuova ontologia politica. Tuttavia, non va dimenticata la forte influenza esercitata da una serie di svolte teoriche risalenti a quegli anni, come la decostruzione di Jacques Derrida e il metodo genealogico di Michel Foucault56. Qual è dunque la definizione di egemonia fornita da Laclau e Mouffe alla luce di quanto analizzato finora? Il campo generale di emergenza dell’egemonia è quello delle pratiche articolatorie, ovvero un campo in cui gli “elementi” non si sono cristallizzati in “momenti” [...] È perché l’egemonia presuppone il carattere incompleto e aperto del sociale che può aver luogo solamente in un campo dominato dalle pratiche articolatorie57.
Vi è dunque una certa continuità tra il precedente tentativo – per quanto appena abbozzato – di definizione di egemonia e quello di ESS, una continuità che risiede nella sottolineatura del carattere articolatorio del discorso. Tuttavia, un’ulteriore condizione è inserita: «per parlare di egemonia il momento articolatorio non è sufficiente. È necessario anche che l’articolazione abbia luogo attraverso uno scontro con le pratiche articolatorie antagoniste»58. Qui, al contrario, lo scarto con la formulazione precedente è vistoso:
54 Ivi, p. 153. 55 E. Laclau, Building a New Left: An Interview with Ernesto Laclau, in “Strategies”, 1 (Fall), 1988, p. 12; anche in NR, p. 180. 56 D. Howarth, Hegemony, Political Subjectivity, and Radical Democracy, in S. Critchley, O. Marchart (a cura di), Laclau: A Critical Reader, Routledge, London 2004, p. 272. 57 ESS, p. 213. 58 Ivi, p. 215.
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L’ideologia della classe dominante, proprio in quanto dominante, interpella non solo i membri di quella classe ma anche i membri delle classi dominate. La forma concreta in cui l’interpellazione di queste ultime ha luogo è l’assorbimento parziale e la neutralizzazione di quei contenuti ideologici attraverso cui la resistenza al dominio della prima è espressa. Il metodo caratteristico per ottenere questo obiettivo è l’eliminazione dell’antagonismo e la sua trasformazione in una semplice differenza59.
Mentre l’antagonismo nella nozione di egemonia fornita in PI è blandito, nella nuova definizione l’egemonia diviene sinonimo di articolazione e antagonismo, ossia la creazione di frontiere con altri discorsi. L’egemonia passa dall’essere un’articolazione di successo che in virtù di tale successo sospende il proprio antagonismo e attenua quello altrui, a un’articolazione in cui l’antagonismo è trattato come elemento cruciale e distintivo. Questo avviene in quanto l’antagonismo diventa il vero indice del limite dell’oggettività e la sua apparizione viene messa in relazione all’impedimento posto agli agenti sociali di raggiungere la propria identità60. Può sembrare una conclusione da poco; in realtà ne derivano profonde ripercussioni. Sotto questa nuova luce, diventa infatti difficile concettualizzare quegli ordini sociali che, pur rispettando lo spazio vuoto del potere di lefortiana memoria (senza cadere, cioè, nella tentazione di «ristabilire l’unità che la democrazia ha infranto tra i luoghi del potere, della legge e del sapere»61) riescono ancora in una certa misura a “naturalizzare” le relazioni sociali. La supposizione che i limiti dell’oggettività siano dati dall’antagonismo stabilito con ciò che si trova all’esterno, è sfidata dalla plausibile circostanza di avere un’esteriorità che si presenta come non antagonista. Di conseguenza, concettualizzare l’egemonia come strettamente legata all’antagonismo oscura la possibilità del discorso istituzionalista, proprio perché non considera che i blocchi di potere tendono a neutralizzare le differenze in modo non antagonistico, pur rimanendo in ultima analisi egemonici (cioè articolatori e instabili). In altri termini, ciò che è oscurato nel rendere l’egemonia necessariamente antagonista è che qualsiasi sistema cercherà di nascondere la propria contingenza in una certa misura, e ciò sarà fatto alleviando la spinta antagonista inerente alla sua irruzione iniziale. Per inquadrare i motivi di questa virata, è bene menzionare un ulteriore passaggio politico-storico in ESS. «Questo mutamento decisivo nell’immaginario politico delle società occidentali ha avuto luogo due secoli fa 59 PI, p. 161. 60 ESS, p. 201-202. 61 Ivi, p. 276.
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e può essere definito in questi termini: la logica dell’equivalenza venne trasformata nello strumento fondamentale della produzione del sociale»62, dove per equivalenza gli Autori intendono il processo di costituzione di un sistema di significazione attraverso la dissoluzione delle differenze tra vari elementi politici e idelogici, i quali si concatenano e stabiliscono un’identita negativamente, ossia a partire dalla loro comune opposizione a un oggetto a loro esterno63. Più specificamente, l’articolazione diventa possibile solo con la modernità e il tramonto delle società chiuse, le quali, regolate com’erano da una logica teologico-politica, determinavano trascendentalmente posizioni differenziali fisse per gli individui. La politica in questo contesto non poteva che ridursi a una ripetizione continua di relazioni gerarchiche in uno spazio chiaramente delimitato. Come afferma Laclau in un testo coevo: «una comunità contadina medievale si riproduceva sulla base di un’articolazione molto rigida delle posizioni, che precludeva qualsiasi rimodellamento o riarticolazione. La forma egemonica del politico era assente»64. È con l’introduzione dell’orizzonte democratico che si creano le condizioni di possibilità affinché diverse forme di resistenza alla subordinazione si possano articolare, dando vita al continuo gioco delle differenze. Siccome questo gioco non può essere più congelato, esso implica necessariamente un continuo ri-disegno delle frontiere, trasformando l’antagonismo nell’indice sia della possibilità sia dell’instabilità di ogni sistema di differenze. In tal modo l’egemonia viene a definire la forma moderna della politica: «da allora in poi non c’è stata politica senza egemonia»65. Non si tratta tuttavia di una soluzione convincente: se la mancanza di un fondamento è una proprietà ontologica e non una condizione storica effimera, questa deve soggiacere anche ai periodi “governati” da una logica trascendentale. In altre parole, la contingenza – e quindi l’egemonia – devono essere necessarie e “trans-storiche” per essere realmente di carattere ontologico, altrimenti ricadono nel registro ontico. L’alto grado di chiusura delle società passate non era, in altre parole, la manifestazione di una sceneggiatura già scritta, per cui esisteva un’essenza positiva dappoi venuta meno. Ciò che la “rivoluzione democratica” spazza via è una sedimentazione coercitiva delle relazioni sociali. Ma se la rivoluzione demo62 Ivi, p. 234. 63 Ivi, pp. 205-206. 64 E. Laclau, The Hegemonic Form of the Political: a Thesis, in C. Abel, C. Lewis (a cura di), Latin America: Economic Imperialism and the State, University of London – Institute of Latin American Studies Monographs, London 1985, p. 73. 65 ESS, p. 230, ma traduzione mia da p. 151 dell’originale: E. Laclau, C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, Verso, London 1985.
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cratica è stata possibile, la contingenza, e quindi l’egemonia, devono essere sostenute fino in fondo. Detta da Critchley: «mentre tutte le società sono tacitamente egemoniche, la caratteristica distintiva della società democratica è di essere esplicitamente egemonica»66. Ciò significa che non è che la contingenza sia resa possibile/necessaria dall’immaginario di uguaglianza messo in circolazione dalla Rivoluzione francese, quanto piuttosto che la logica della contingenza è istituzionalizzata. In tal senso, va detto che ESS rappresenta un passo indietro rispetto a PI. 3. Dall’egemonia al populismo: l’ultimo Laclau Queste criticità sono parzialmente dissipate a partire da New Reflections on the Revolution of Our Time (NR). Sollecitato da un intervento di Slavoj Žižek pubblicato nello stesso volume, Laclau ritocca alcune delle coordinate del testo precedente. Lo sloveno lancia un avvertimento a Laclau: se riteniamo che i soggetti sociali siano minacciati dall’antagonismo degli “altri” e che la loro identità sia così destabilizzata, il rischio dell’essenzialismo è ancora dietro l’angolo, perché questa concezione «implica che le relazioni antagoniste possano alla fine essere trascese nel nome di un’emancipazione finale»67. Come asserisce lo stesso Žižek: non è il mio nemico esterno a impedire che io raggiunga l’identità con me stesso, bensì è ogni identità a essere già bloccata, caratterizzata da un’impossibilità, e il nemico esterno è semplicemente il piccolo pezzo, il resto della realtà su cui “proiettiamo” o “esternalizziamo” questa intrinsenca, immanente impossibilità68.
La mancanza è quindi ontologica e risiede nel cuore stesso della soggettività, segnalando un fallimento che non ha redenzione e che si estende anche ai soggetti dei progetti egemonici e alle strutture sociali. Non c’è bisogno di antagonismo per concludere che un sistema è intrinsecamente instabile. Tuttavia, l’avvertimento è solo parzialmente assimilato da Laclau. Da un lato, l’introduzione del concetto di dislocazione sembra rimpiazzare 66 S. Critchley, Is there a Normative Deficit in the Theory of Hegemony?, in S. Critchley, O. Marchart (a cura di), Laclau: A Critical Reader, cit., p. 115. 67 D. Howarth, Hegemony, Political Subjectivity, and Radical Democracy, cit., p. 260. 68 S. Žižek, Beyond Discourse-Analysis, in NR, pp. 251-252.
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la funzione precedentemente attribuita all’antagonismo69. La dislocazione è definita da Laclau in tre modi: come la forma stessa della temporalità, cioè l’esatto opposto dello spazio, dove lo spazio è inteso come una legge strutturale di successioni necessarie; come possibilità, nel senso che una struttura dislocata apre una panoplia di vie ugualmente percorribili, eppure quella scelta è indecidibile a priori; e come la forma stessa della libertà, intesa come assenza di determinazione, rendendo il soggetto portatore di un’identità strutturale fallita che lo spinge a continui atti di identificazione70. In altre parole, la dislocazione è quel terreno ontologico primario che rivela che non esiste un’identità strutturale in quanto qualsiasi soggetto è portatore di un’identità strutturale sempre già fallita, e che la comprensione della società non equivale a comprenderla per quello che è, ma per ciò che la impedisce di essere71. Tuttavia, la sostituzione dell’antagonismo per la dislocazione come indice del limite dell’oggettività non è pienamente compiuta, poiché in altri punti del testo Laclau afferma chiaramente il contrario. Ad esempio: «Il punto cruciale è che l’antagonismo è il limite di tutta l’oggettività»72 e, poche pagine dopo, la forza antagonizzante «blocca la piena costituzione dell’identità» pur essendo anch’essa «parte delle condizioni di esistenza di tale identità»73. Anni dopo, Laclau riconoscerà senza mezzi termini gli errori commessi in ESS e presuntamente emendati in NR: l’antagonismo è già una forma di iscrizione discorsiva – cioè di dominio – di qualcosa di più primario che, da New Reflection on the Revolution of Our Time in poi, ho iniziato a chiamare “dislocazione”. Non tutte le dislocazioni devono essere costruite in modo antagonistico74.
Come abbiamo visto, tuttavia, non è così. In questo senso, Urs Stäheli ha perfettamente ragione nell’affermare che «Laclau non può sfuggire a una costruzione circolare nella relazione tra antagonismo e dislocazione»75. Di conseguenza, la proposta di Stäheli di disaccoppiare radicalmente le due 69 70 71 72 73 74
NR, p. 39. Ivi, pp. 41-44. Ivi, p. 44. Ivi, p. 17. Ivi, p. 21. E. Laclau, Glimpsing the Future, in S. Critchley, O. Marchart (a cura di), Laclau: A Critical Reader, cit., p. 319. 75 U. Stäheli, Competing Figures of the Limit. Dispersion, Transgression, Antagonism, and Indifference, in S. Critchley, O. Marchart (a cura di), Laclau: A Critical Reader, cit., p. 234.
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nozioni in modo tale da poter pensare all’impossibilità di un sistema autonomamente da una simbolizzazione antagonistica sembra il modo più convincente per uscire da questa impasse76. L’antagonismo, in questo senso, andrebbe sostituito dall’“esterno costituivo” di Derrida, che si limita a trasmettere che ogni formazione discorsiva, per significare se stessa in quanto tale, deve riferirsi a qualcosa di esterno a se stesso77. E per quanto riguarda l’egemonia come forma della modernità politica? Secondo Fabio Frosini, la dislocazione: estende ora a qualsiasi sistema sociale la struttura contingente che, in Hegemony and Socialist Strategy emergeva come peculiarmente legata all’età moderna. [...] Se la dislocazione c’è sempre stata, vi è sempre stato mito, vi è sempre stato il processo di ricostituzione dell’oggettività sociale a partire dal suo “esterno costitutivo”, vi è sempre stata “egemonia”; di conseguenza, il passaggio alla modernità non segna una discontinuità radicale, non introduce una nuova “forma”78.
Questo non è necessariamente così e il fatto che Laclau non abbia risolto interamente il dilemma antagonismo/dislocazione ne è responsabile. Alcune parti del testo potrebbero in effetti permetterci di dedurre ciò che Frosini suggerisce, come per esempio il passaggio in cui Laclau afferma che «una società dalla quale il politico è stato completamente eliminato è inconcepibile – significherebbe un universo chiuso che si limita a riprodursi attraverso pratiche ripetitive»79. Ciononostante, se andiamo oltre la superficie, quando si tratta di radicalizzare questa linea di pensiero, Laclau indietreggia verso la posizione espressa in ESS: sia la frammentazione e la crescente limitazione degli attori sociali, sia la dissociazione permanente tra gli immaginari sociali e gli spazi mitici in grado di incarnarli, sono un processo profondamente radicato nella rivoluzione democratica degli ultimi due secoli, nonché nello stato generale delle società contemporanee. Nelle società relativamente stabili non c’è distanziamento tra le superfici di iscrizione e ciò che è inscritto in esse. L’“ordine” è immanente nei rapporti sociali80. 76 Ibidem. 77 A. Norval, Letter to Ernesto, in NR, p. 137. 78 F. Frosini, Gramsci dopo Laclau: politica, verità e le due contingenze, in Id. (a cura di), Da Gramsci a Marx: ideologia, verità e politica, Derive Approdi, Roma 2009, p. 154. 79 NR, p. 35. 80 Ivi, 81.
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E per quanto riguarda la definizione di egemonia in senso stretto? Sebbene l’egemonia non sia il tema centrale del testo, emerge quello che David Howarth definisce il terzo (e ultimo) modello di egemonia proposto da Laclau81. Ciò che lo definisce in contrasto con il modello precedente in cui solo la contingenza degli elementi ideologici veniva riconosciuta, è la consapevolezza che anche i soggetti dei progetti egemonici e le strutture sociali in quanto tali sono contingenti82. Con questa mossa, la connotazione che Laclau aveva inizialmente attribuito all’egemonia è ancora una volta in primo piano: «tutto dipende [...] da chi è al comando. È una questione di egemonia nel senso più stretto del termine»83. La questione del comando - e del potere, una delle nozioni più centrali in NR - è fondamentale qui, in quanto non si può assumere la coerenza né del progetto egemonico né della società, e quindi «l’atto egemonico non sarà la realizzazione di una razionalità che lo precede, ma un atto di costruzione radicale»84. Tuttavia, il potere di chi? C’è in questo senso un distacco sempre maggiore dalla letteralità, dai contenuti, una spaccatura inconciliabile tra il significante e il significato. Ciò viene enfaticamente alla ribalta nella proposizione delle nozioni di mito e immaginario sociale. Mentre il primo consiste in uno «spazio di rappresentazione» che sutura un sistema dislocato e ricrea così una nuova oggettività85, il secondo è «un mito cristallizzato» che diventa la vera forma di pienezza, «un orizzonte illimitato di iscrizione di ogni richiesta sociale e ogni possibile dislocazione»86. Entrambe sono presentate come operazioni egemoniche, ma si è portati a dedurre che l’immaginario sociale sia più radicale, poiché la sua elasticità è maggiore, anche se ciò accade, come accennato sopra, al costo di avere «il contenuto letterale [...] deformato e trasformato attraverso l’aggiunta di un numero indefinito di domande sociali»87. Tuttavia, questa formulazione impone la domanda: egemonia di cosa? L’egemonia qui diventa semplicemente la parola d’ordine dell’instabilità cronica di qualsiasi sistema nei tempi moderni, non il predominio di un progetto politico flessibile e malleabile. Se un particolare progetto presta il nome a un immaginario sociale la cui essenza normativa diventa tuttavia irriconoscibile rispetto a ciò che era un tempo, allora dovremmo chiederci se non abbia piuttosto subito l’egemonia di un al81 82 83 84 85 86 87
D. Howarth, Discourse, Open University Press, Buckingham 2000, p. 110. NR, pp. 28-29. Ivi, p. 29. Ibidem. Ivi, p. 61. Ivi, pp. 61, 64. Ivi, p. 67.
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tro progetto. Sicuramente, è importante considerare che qualsiasi progetto politico che incarna la pienezza sarà necessariamente contaminato e non sarà in grado di imporsi nella sua forma più pura, ma se non si mantiene un ancoraggio con alcuni contenuti sostanziali, allora parlare di egemonia inizia a perdere di senso. L’influenza di Gramsci su Laclau inizia a sbiadire. Solo in seguito Laclau arriva a separare l’antagonismo dalla dislocazione in modo un po’ più visibile facendo qualche passo in avanti verso la risoluzione dell’impasse sopra descritta. Come spiega Laclau nella collezione di saggi successiva Emancipazione/i: «stiamo cercando di indicare i limiti della significazione – il Reale, se vogliamo, in senso lacaniano – e non c’è modo diretto di farlo se non attraverso la sovversione del processo di significazione stesso»88. Il Reale lacaniano qui equivale alla vera e propria rottura di ogni rete simbolica, che si manifesta attraverso nodi e inconsistenze della rappresentazione. Tuttavia, poiché un sistema in sé non ha un fondamento positivo, i limiti di un discorso non possono essere adeguatamente rappresentati e vengono alla ribalta solo per mezzo di un antagonismo che fonda un nuovo sistema89. In questa prospettiva, l’antagonismo appartiene all’ordine immaginario-simbolico della realtà in quanto è già una costruzione discorsiva, mentre la dislocazione è localizzata nel Reale, segnalando così la sua dimensione negativa come limite del discorso90. O, come elaborato altrimenti da Frosini, «l’antagonismo è il farsi-azione della dislocazione»91, a significare che la crisi di un determinato ordine può o meno condurre all’apparizione di discorsi antagonisti capaci di sfidarlo e infine scalzarlo. Eppure la questione non è ancora del tutto esente da ambiguità. Sulla questione differenza/equivalenza, Laclau scrive che «da un lato, ogni differenza si esprime come differenza; d’altro, ognuna di loro si cancella in quanto tale entrando in una relazione di equivalenza con tutte le altre differenze del sistema»92. Fin qui nulla di eccepibile, ma, in questa tensione inestricabile, l’antagonismo è invocato come necessario affinché l’oggettività si strutturi: “[s]olo se l’oltre diventa il significante della pura minac88 E, p. 56. 89 Ivi, p. 54. 90 J. Glynos, Y. Stavrakakis, Encounters of the Real Kind: Sussing Out the Limits of Laclau’s Embrace of Lacan, in S. Critchley, O. Marchart (a cura di), Laclau: A Critical Reader, cit., pp. 205-206. 91 F. Frosini, Spazio/tempo ed egemonia/verità. Due questioni (gramsciane) per Ernesto Laclau, in M. Baldassari, D. Melegari (a cura di), Populismo e democrazia radicale. In dialogo con Ernesto Laclau, Ombre Corte, Verona 2012, p. 179. 92 E, p. 55.
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cia, o della pura negatività, del semplicemente escluso, ci possono essere limiti e sistema (vale a dire un ordine oggettivo)»93. O, per dirla in altro modo, è proprio la prevalenza della dimensione equivalenziale a scapito di quella differenziale che consente la rappresentazione del sistema come una totalità94. Cosa succede quando prevale il momento differenziale? Ciò che sembra mancare qui è il riconoscimento che un sistema stabile non ha bisogno di antagonismo per significare se stesso. È il progetto che intende sovvertire un sistema stabile che ricorre a una spinta antagonistica, attraverso un concatenamento equivalenziale delle categorie escluse. Ma le categorie escluse non sono necessariamente espulse dal sistema stabile in modo antagonistico, poiché il sistema tipicamente cerca di reinserirle o almeno di attenuare il loro potenziale antagonismo. In altre parole, la lotta tra la volontà di antagonismo e la volontà di evitare l’antagonismo non è ben rappresentata qui. C’è un ulteriore passo nella concettualizzazione dell’egemonia di Laclau in questa fase, che ha a che fare con la resa positiva del Reale lacaniano, perché «sebbene la pienezza e l’universalità della società siano irraggiungibili, la loro necessità non scompare: si mostrerà sempre attraverso la presenza della loro assenza»95. L’idea di fondo qui è che: in una situazione di disordine radicale l’“ordine” è presente come ciò che è assente; diventa un significante vuoto, il significante di quell’assenza. In questo senso, le varie forze politiche possono competere nei loro sforzi di presentare i loro obiettivi particolari come coloro che possono adempiere al riempimento di quella mancanza. Egemonizzare qualcosa significa esattamente compiere questa funzione di riempimento96.
Proprio perché la pienezza non è un dato e non giace in un terreno infrastrutturale, «essa non può avere alcuna forma di rappresentazione, e deve prenderla in prestito da qualche entità costituita all’interno dello spazio equivalenziale»97. In questo senso, uno degli elementi dell’equivalenza è “svuotato” del suo contenuto differenziale, cioè del suo significato specifico, e viene ad incarnare la funzione universale di rappresentazione dell’intero sistema. Questo significante vuoto è quindi ciò che in ESS Laclau e Mouffe definiscono il punto nodale. La peculiarità inerente a questa nuova 93 94 95 96 97
Ivi, p. 56. Ivi, p. 58. Ivi, p. 71. Ivi, p. 62. Ivi, p. 60.
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terminologia risiede non solo nella formalità che gli strumenti linguistici che egli impiega conferiscono alla sua linea di ragionamento, ma è la risposta alla domanda: “[c]he cosa determina [...] il fatto che un significante piuttosto che un altro assuma in circostanze diverse quella funzione significante [quella del significante vuoto]?»98. La risposta è l’irregolarità del sociale, il che significa che diverse lotte mostrano diverse capacità di svolgere questo ruolo, a loro volta «il risultato di processi in cui la logica della differenza e la logica dell’equivalenza si sovradeterminano l’un l’altra»99, rendendo necessario lo studio di una particolare congiuntura per determinare quale sia il significante vuoto. Mentre questa dinamica è descritta in modo persuasivo, altre perplessità emergono osservando che Laclau considera come una relazione egemonica la relazione attraverso la quale un contenuto particolare diventa il significante di una pienezza comunitaria assente100. Questa “vittoria”, sostiene Laclau, è pericolosa, perché l’operazione egemonica tende a eliminare gli effettivi promotori e beneficiari del significante che viene svuotato del proprio contenuto differenziale. Ciò che Laclau intende qui è che lo stendardo sotto il quale avviene una determinata operazione politica tende spesso a essere sacrificato. Tuttavia, due problemi emergono da questa lettura. Innanzitutto, questa posizione è piuttosto statica, perché trattando il significante vuoto come qualcosa che appartiene necessariamente a un campo specifico, la frontiera viene resa immobile. A questo punto della traiettoria di Laclau, la teorizzazione dei significanti fluttuanti non è ancora ben sviluppata. Come dirà successivamente lo stesso Laclau in RP: «[i]n una situazione in cui la categoria di «significante vuoto» fosse l’unica a operare, con totale esclusione del momento di fluttuazione, avremmo una frontiera completamente immobile - qualcosa che è difficilmente immaginabile»101. Questo non è difficile da capire: qualsiasi domanda, anche la più importante, se viene trattata come una rivendicazione e non come un progetto politico realmente organizzato, può essere contestata da gruppi rivali. In secondo luogo, siamo di nuovo di fronte a un tipo di egemonia totalmente effimero, la cui differenza con la versione di Gramsci si rende particolarmente palpabile. È certamente vero che per il pensatore sardo la costruzione del blocco storico è un’operazione egemonica che implica che il promotore (nel suo caso, inferibile a partire da un’analisi infrastrutturale) 98 99 100 101
Ivi, p. 57. Ivi, p. 60. Ivi, p. 61. RP, p. 126.
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si spogli dei suoi interessi corporativi, ma questo non significa che tutti questi interessi possano essere sacrificati, mentre nella resa di Laclau sembra possibile supporre che questa sia una possibilità abbastanza concreta. Almeno alcuni dei principi fondamentali presentati da un progetto politico dovranno essere concretizzati per far sì che parlare di egemonia abbia un senso. Ancora una volta, vi è un eccessivo privilegio concesso al significante, mentre il significato diventa quasi del tutto irrilevante. Ciò che va messo in rilievo a questo punto è lo sdoppiamento della nozione di egemonia, una mossa che – come vedremo – non è esente da ambiguità. Mentre la nozione di egemonia mantiene marginalmente il significato di un’articolazione predominante e contingente, la specificità del significante vuoto parla anche dell’egemonia di un particolare elemento all’interno non solo di un discorso, ma di tutta la società. Il significante vuoto non è altro che il nome di una pienezza assente, uno stato di plenitudine mancante trasversale alla società nel suo complesso. L’egemonia quindi è l’egemonia di un assemblaggio discorsivo, ma anche l’egemonia di un particolare elemento nella società in generale, la cui associazione a un determinato campo, tuttavia, non può essere trattata come un già dato. Molti di questi temi sono ripresi in La ragione populista, in cui l’Autore risuscita la nozione di populismo e cerca di coniugarla a quella di egemonia. L’importanza attribuita al populismo non lascia scampo a dubbi: «il populismo potrebbe rappresentare alla fine la strada maestra per comprendere qualcosa circa la costituzione ontologica del politico in quanto tale»102. In particolare, il populismo è definito come l’espansione della logica equivalenziale a spese di quella differenziale, in un’operazione che comporta il tracciamento di una frontiera antagonistica103. Sembrerebbe che, di nuovo, l’antagonismo la faccia da padrone. Tuttavia, in questo caso ciò è mediato dal riconoscimento che, in netto contrasto con il populismo, «un discorso istituzionalista si sforza di far coincidere i limiti della formazione discorsiva coi limiti della comunità»104, privilegiando in tal modo la logica della differenza. In altri termini, mentre il populismo cerca l’articolazione di un numero di domande in una catena equivalenziale sulla base di un’opposizione condivisa con un nemico, l’istituzionalismo tenta di affrontare queste domande in una maniera tale che lo status quo non venga messo in discussione e impedendo di conseguenza l’apparizione dell’antagonismo. Il populismo come articolazione antagonista quindi, come in PI. 102 Ivi, p. 63. 103 Ivi, p. 73. 104 Ivi, p. 76.
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Tuttavia, non abbiamo mai un discorso interamente populista o interamente istituzionalista, nella misura in cui ogni identità è divisa tra la sua natura differenziale e la sua incorporazione equivalenziale105 e quindi «[l]e equivalenze possono indebolire ma non addomesticare le differenze»106. Di conseguenza, equivalenza e differenza sono fondamentalmente incompatibili, ma entrambe sono necessarie – e costantemente in gioco -– nella costituzione del sociale. Ciò a sua volta determina che ogni intervento politico sia necessariamente sempre populistico, non importa in quale misura107. Questa conclusione può sembrare in contrasto con l’affermazione secondo cui l’antagonismo può essere del tutto assente se la dislocazione non interviene in primo luogo a generare quelle domande che diventeranno il mezzo di ogni esperimento populista. Come affermato da Laclau: «[s]enza questa frattura nell’ordine sociale – per quanto minima all’inizio – non sarebbe possibile l’antagonismo, o la frontiera, o il «popolo»»108. Le due posizioni possono essere riconciliate argomentando che le sfide antagoniste di progetti rivali possono sempre emergere – obbligando così coloro che hanno il potere a reagire – ma quell’antagonismo non ha reali possibilità di prosperare e costituire un nuovo popolo a meno che non avvenga una sorta di esperienza dislocante. Inoltre, va notato che la necessità di una rottura dell’ordine sociale affinché abbia luogo un intervento populista genuino (e tuttavia per nulla scontato), indica che l’antagonismo è stato finalmente sostituito dalla dislocazione come limite dell’oggettività e che quest’ultima ora funziona come una semplice possibilità acciocché l’antagonismo possa emergere. Che dire dell’egemonia? Nel testo, Laclau si riferisce agli elementi di base dell’articolazione semplicemente come domande sociali109. Laclau discrimina tra due tipi di domande: quelle democratiche, cioè richieste che tendono a rimanere isolate, o domande popolari, cioè quelle che tendono a coalizzarsi, seppure in forma incipiente, in modo tale da formare una soggettività sociale più ampia, ma senza ancora creare un sistema stabile di significazione110. Questa differenziazione ci fornisce una prima chiave per comprendere la relazione che Laclau postula in RP tra populismo ed egemonia: «le prime [le domande democratiche] si possono soddisfare con 105 106 107 108 109 110
Ivi, p. 74. Ibidem. Ivi, p. 146. Ivi, p. 81. Ivi, p. 69. Ivi, p. 70.
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l’espansione di una formazione egemonica. Le seconde [le domande popolari] rappresentano una sfida secca alla formazione egemonica»111. In una certa misura, c’è una somiglianza con la sua prima formulazione: «una classe è egemone [...] nella misura in cui può articolare diverse visioni del mondo in una maniera tale per cui il loro potenziale antagonismo sia neutralizzato»112. Infatti, se tralasciamo che l’elemento da articolare è – come appena analizzato – espresso in modo diverso (visioni del mondo vs domande) e che il discorso, dopo la svolta post-fondazionalista, ora sostituisce il ruolo apodittico attribuito alla classe, abbiamo una certa congruenza tra le due posizioni. L’istituzionalismo dunque è la forma del discorso di una formazione egemonica che cerca di accomodare domande e scoraggiare l’antagonismo, mentre il populismo – si può inferire – è il tentativo di un discorso di diventare egemonico attraverso un’articolazione antagonista di domande insoddisfatte. Ma il populismo è già in sé egemonico? O è la sola strada per l’egemonia? La nozione di populismo proposta in questa sede risulta arricchita da una serie di sviluppi teorici che mettono in luce l’approfondimento del confronto di Laclau con la psicoanalisi e la linguistica e che suggeriscono un modo peculiare di concepire la relazione tra populismo ed egemonia. Innanzitutto, l’egemonia è equiparata alla figura retorica della catacresi113. La catacresi consiste nel «nominare qualcosa che è essenzialmente innominabile»114, ossia nell’impiego di un termine figurato quando uno letterale è mancante. Visto che qualsiasi discorso politico non è niente altro che un assemblaggio contingente di elementi che non può essere compreso concettualmente – cioè non risponde all’operazione di un fondamento che li porta insieme necessariamente –, l’attribuzione di un nome segue la stessa dinamica insita nella logica egemonica, consistente nell’«operazione di assunzione da parte della particolarità di un significato universale incommensurabile»115. È proprio per questo, ci dice Laclau, che la costruzione politica del “popolo” è essenzialmente catacrestica116. A questo punto, se egemonia = catacresi e catacresi = populismo viene da chiedersi se il populismo sia già in se stesso egemonico (come la sintesi delle due equazioni ci autorizza a dedurre), o se invece rappresenti una strada per 111 112 113 114 115 116
Ivi, p. 77. PI, p. 161. RP, p. 67-68. Ivi, p. 67. Ivi, p. 66. Ivi, p. 68.
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l’egemonia senza però alcuna assicurazione di successo. Questa incertezza trova riflesso nell’ambiguità esposta anteriormente: il significante vuoto incarna la pienezza assente della società o è il punto nodale di un discorso specifico? Nella distinzione tra i tre modelli di egemonia proposti da Laclau (il primo corrispondente a quello avanzato in PI, il secondo in ESS e il terzo da NR in poi), Howarth problematizza analogamente lo statuto del significante vuoto: mentre il secondo modello comporta una pluralità di punti nodali legati insieme in una formazione discorsiva o un blocco storico da delle pratiche egemoniche, il terzo modello suggerisce che l’unità di una formazione sociale è costituita da un significante vuoto che stabilisce il significato degli altri significanti, ovvero sia svolge la funzione totalizzante di collegare tra loro gli elementi del sistema117.
La risposta alla domanda precedente riguardo al presunto carattere già egemonico (o meno) del populismo dipende da come concettualizziamo il significante vuoto: se è qualcosa che tiene assieme solo il campo popolare, allora l’egemonia non è garantita (o piuttosto: è egemonico solo all’interno del suo campo, ma non necessariamente nella società nel suo complesso), se è invece il nome di una pienezza assente che il campo popolare riesce a incarnare riempendola temporaneamente con i suoi contenuti, allora diviene necessariamente egemonico all’interno di tutta la formazione sociale. L’ambiguità permane dato che il significante vuoto varia dal leader118 (come espressione ultima di una singolarità che tiene assieme il popolo, ma che chiaramente non può incarnare una pienezza che preesiste alla formazione del campo popolare), al nazionalismo – solo per fare un esempio – per cui «non è solo che il nazionalismo potrà essere rimpiazzato da altri termini nel ruolo di significante vuoto, ma anche che il suo significato varierà a seconda della catena equivalenziale cui esso è associato»119. Il significato di un leader vivo cambierà difficilmente, poiché può attivamente resistere l’incorporazione in diverse catene di equivalenze. Inoltre, l’incertezza è ancora una volta rafforzata da due fattori: da un lato, come già accennato, il significante vuoto è considerato semplicemente come una superficie privilegiata di iscrizione senza alcun vettore normativo intrinseco. In questo contesto, sarebbe più sensato parlare di un’operazione egemonica quando 117 D. Howarth, Hegemony, Political Subjectivity, and Radical Democracy, cit., p. 268. 118 RP, pp. 94-95. 119 Ivi, p. 215.
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un progetto con una visione del mondo sostanziale riesce a riempire quel significante con il suo contenuto, piuttosto che quando un particolare significante occupa una posizione sociale privilegiata, poiché quest’ultimo rimane sempre suscettibile di essere appropriato da altri progetti, rendendo così spuria qualsiasi allusione alla sua egemonia. Dall’altro, la possibilità che una singolarità diventi l’unico punto di ancoraggio, l’unico oggetto che trasmette una pienezza assente che orienta un’intera formazione sociale nel «ritmo accelerato delle trasformazioni sociali»120 della postmodernità, è particolarmente dubbio. Tornando alla linguistica, Laclau opera qui un’importante radicalizzazione del suo ragionamento. Quando un simbolo popolare diventa il sito di iscrizione di una serie di aspirazioni, il suo ruolo non può essere confinato a quello di un’espressione passiva di questi significanti. La funzione è pienamente attiva: il simbolo «costituisce ciò che esprime attraverso lo stesso processo di espressione»121. In altre parole, non è un medium trasparente, ma è dotato di una vera e propria forza strutturante, una produttività sociale che rende possibile l’unione di un numero di domande insoddisfatte, rivelando l’effetto retroattivo della nominazione122. Come rendere conto di questa produttività? La sua forza, argomenta Laclau, è data dall’affetto, il quale intrattiene una relazione intima con la significazione: «l’affetto è necessario per il processo di significazione»123. Laclau considera dunque che le categorie psicoanalitiche trascendano il proprio campo di origine in quanto appartenenti a una riflessione ontologica generale124. In questo senso, Laclau sviluppa qui un incontro più sofisticato con la dimensione positiva del Reale lacaniano, la cui mancanza era stata precedentemente segnalata da alcuni degli studiosi formatisi sotto la sua supervisione125. Nello specifico, il soggetto è considerato come portatore di una jouissance andata perduta, uno stato di pienezza primordiale e irrecuperabile, associato alla diade madre/figlio. Questa privazione spinge il soggetto a identificarsi in ciò che Lacan denomina object petit a, ossia degli oggetti parziali126 120 NR, p. 39. 121 RP, p. 94, ma traduzione mia dall’originale: E. Laclau, On Populist Reason, Verso, London 2005, p. 98. 122 RP, p. 102. 123 Ivi, p. 105. 124 Ivi, p. 108. 125 J. Glynos, Y. Stavrakakis, Encounters of the Real Kind, cit., p. 209. 126 La parzialità dell’oggetto è data proprio dalla sua incapacità di fornire la soddisfazione mitica inerente alla diade madre/figlio. Una volta che la perdita di questa plenitudine originale si è materializzata, il soggetto può ottenere soddisfazione
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tra i quali è possibile annoverare le ideologie politiche127. Laclau traccia un’equivalenza particolarmente significativa: la logica dell’ object petit a è la stessa logica che sottende al principio di egemonia. Nelle sue parole: «l’oggetto parziale diventa qui una totalità, diventa il principio strutturante dell’intera scena»128. L’equipollenza è giustificata dato che la pienezza ricercata attraverso un oggetto parziale è mitica e sfuggevole. L’oggetto, elevato alla dignità della Cosa, «è [...] il nome che la pienezza riceve all’interno di un certo orizzonte storico, un nome che in quanto oggetto parziale di un investimento egemonico non è un semplice surrogato129, ma il punto di raccordo di attaccamenti passionali»130. Come segnalato precedentemente, il bisogno di costruire un “popolo” «si manifesta solo quando quella pienezza non è realizzata» – ossia quando la dislocazione si mostra attraverso una proliferazione di domande frustrate –, «e gli oggetti parziali all’interno della società (mete, figure, simboli) subiscono un investimento tale da diventare il nome della sua assenza»131. Ma quanto sono davvero cogenti le implicazioni strategiche derivanti da questa concettualizzazione di populismo ed egemonia? E in realtà fino a che punto sono capaci di gettar luce sui fenomeni politici e sociali? È giunto il momento di passare a una revisione critica dell’apparato ontologico di Laclau. 4. Populismo ≠ egemonia: prendere spazio e tempo sul serio Che lo si ritenga di per sé egemonico o come la strada per l’egemonia, il populismo nel suo complesso è pensato dalla prospettiva laclauiana come un’operazione egemonica. In un testo sulla connessione tra la teoria dell’egemonia e i policy studies, Howarth distingue due aspetti fondamentali dell’egemonia. Da una parte l’egemonia può: essere vista come una pratica politica che comporta l’unione di domande disparate per forgiare progetti o “coalizioni discorsive” che pos-
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solo attraverso un oggetto parziale (J. Copjec, Imagine There’s no Woman: Ethics and Sublimation, The MIT Press, Cambridge, MA 2002, p. 59). Y. Stavrakakis, The Lacanian Left, Edinburgh University Press, Edinburgh 2007, p. 30. RP, p. 107. Ersatz, nella versione originale: E. Laclau, On Populist Reason, cit., p. 116. RP, p. 110. Ibidem.
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sono contestare una forma particolare di governo, pratica o politica. Queste pratiche presuppongono l’esistenza di antagonismi e la presenza di “significanti flottanti” che possono essere articolati da progetti politici rivali132.
Si tratta della nozione di populismo così come la definisce Laclau in RP. Per quanto concerne il secondo aspetto, Howarth asserisce che qualsiasi coalizione necessita di installazione e riproduzione in modo tale che i soggetti accettino e si conformino al nuovo regime. L’enfasi di Howarth ricade sulla necessità intrinseca ad ogni ordine di riprodursi senza dover essere sfidato di continuo, attraverso una «incorporazione differenziale o persino la cooptazione di rivendicazioni e domande»133. Qui, Howarth traccia un parallelo tra la logica differenziale attraverso cui questa dinamica è catturata dalla teoria laclauiana e la nozione foucaultiana di govermentalità. Arditi è ancora più esplicito nel sottolineare una certa sovrapposizione tra populismo ed egemonia. In particolare, La differenza specifica che introduce il populismo vis-à-vis con l’egemonia è la suddivisione della società in due campi, con la finalità di produrre una relazione di equivalenza tra domande e di costruire una frontiera o una loro relazione antagonistica. Questa è la ragione per cui si può dire che il populismo è una specie del genere “egemonia”, la specie che mette in discussione l’ordine esistente con il proposito di costruire un altro ordine. L’altra specie è il contrario della prima: è il discorso istituzionalista la cui essenza è quella di mantenere lo status quo134.
Arditi è particolarmente critico di questa operazione: una diffidenza rafforzata dalla doppia equiparazione che Laclau disegna inizialmente tra egemonia e politica in ESS e successivamente tra populismo e politica in RP, in quella che appare come «una riscrittura ad hoc della narrativa dell’egemonia commisurata al tema della Ragione populista, dentro la quale si genera uno slittamento continuo tra il populismo e l’egemonia, e tra questi e la politica»135. Se «il populismo [è] come egemonia e come politica», come dice lo stesso titolo provocatorio del testo di Arditi, lo statuto specifico di ogni categoria perde efficiacia teorica e corre il rischio di spiegare 132 D. Howarth, Power, Discourse, and Policy: Articulating a Hegemony Approach to Critical Policy Studies, in “Critical policy studies”, 3 (3-4), 2009, p. 318. 133 Ivi, p. 321. 134 B. Arditi, Il populismo come egemonia e come politica? La teoria del populismo di Ernesto Laclau, in “Il Ponte”, 8-9, 2016, pp. 29-30. 135 Ivi, p. 31.
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ben poco, convertendo la triade in una mera tautologia. In tal senso, è pertinente domandarsi fino a che punto è ragionevole e analiticamente produttivo impiegare gli strumenti della psicoanalisi e della linguistica cristalizzati nella nozione di populismo per spiegare la società e, allo stesso modo, fino a che punto può un progetto populista naturalizzare i valori di cui è portatore e occultare le proprie tensioni136. Una pratica populista – di destra o di sinistra ha poca importanza – che ottiene il potere attraverso l’assemblaggio discorsivo di una serie di significanti flottanti opponendoli a un determinato regime politico non è necessariamente capace di instillare un nuovo modus vivendi in armonia con l’ethos politico che va sbandierando. Proprio per questo, il populismo come operazione egemonica potrebbe non cogliere una serie di fenomeni politici come l’opportunismo, il trasformismo e persino il clientelismo. In altre parole, una pratica politica può benissimo riuscire nell’articolazione di domande frustrate e nella proiezione di una narrativa mitica che suscita l’investimento passionale del soggetto, ma è altrettanto plausibile che fallisca di essere egemonica nel senso di portare a compimento una trasformazione di ampia portata della formazione sociale. Va enfatizzato che l’articolazione antagonica delle domande esistenti non esclude la possibilità di venire a patti con le coordinate ideologiche e morali appartenenti a milieus molto diversi. Più specificamente, al centro dell’insoddisfazione verso l’eccessiva prossimità tra populismo ed egemonia è che non tutti i progetti populisti che coronano la propria sfida politica ottenendo il potere riescono ad alterare il conformismo che sta alla base della formazione sociale che si cerca nominalmente di superare. Detta diversamente, la modificazione delle identità politiche esplicite non va necessariamente di pari passo all’abbandono di disposizioni profondamente radicate, le quali sono piuttosto in armonia con l’ordine politico che solo apparentemente è spazzato via. Laclau non è totalmente ignaro di questa possibilità. Così come scrive insieme a Mouffe nella prefazione alla seconda edizione di ESS edita originalmente nel 2001: «Invece che della riformulazione del progetto socialista, nell’ultimo decennio stiamo stati testimoni del trionfo del neoliberismo, la cui egemonia è diventata così pervasiva da avere un effetto profondo sulla stessa identità della sinistra»137. In questo caso specifico, Laclau e Mouffe percepiscono che l’egemonia va oltre l’articolazione delle 136 D. Howarth, Hegemony, Political Subjectivity, and Radical Democracy, cit., pp. 266-269. 137 ESS, p. 30.
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domande da parte di un progetto politico che punta a prendere il potere. L’egemonia qui implica piuttosto un’operazione ben più sottile ed efficace, la quale pervade la formazione sociale nella sua interezza e capovolge le identità di tutti i suoi agenti, avversari inclusi. Un riconoscimento simile avviene anche in RP in un passaggio illustrativo riguardante la politica statunitense: «Se anche Bush perdesse le elezioni, dunque, il suo successore sarebbe legato mani e piedi dalla camicia di forza di una formazione egemonica i cui parametri restano sostanzialmente immutati»138. Come sbrogliare la matassa? La riformulazione delle nozioni di spazio e tempo possono fornire degli spunti preziosi al fine di separare del tutto il populismo dall’egemonia. Abbiamo già accennato allo schema antinomico attraverso cui Laclau concettualizza spazio e tempo. In tal senso, viene qui proposta la pluralità di spazio e tempo. Iniziamo con lo spazio. Per riassumere brevemente, lo spazio per il pensatore argentino corrisponde a «qualsiasi ripetizione che è governata da una legge strutturale di successioni»139, divenendo quindi sinonimo di stasi, di assenza di politica, di tentativo di chiusura. Chiusura che fallisce necessariamente grazie all’intervento del tempo, il quale, per mezzo della dislocazione, reinietta dinamismo e interrompe il sistema di causalità predefinita, ridando linfa alla politica e venendo quindi equiparato alla libertà140. In una critica rivoltagli dalle pagine della “New Left Review”, Doreen Massey – pur condividendo l’impianto filosofico generale di Laclau – condanna apertamente questo dualismo del tipo A/non-A che stabilisce una priorità che premia la temporalità a scapito della spazialità e definisce la seconda a partire dalla prima, ossia come mancanza della prima141. Massey è impegnata nel restituire allo spazio e alla spazialità una descrizione positiva e dinamica, argomentando che il sociale è anche costruito spazialmente, divenendo esso stesso una potenziale fonte di dislocazione, giacché in esso sono racchiuse relazioni sociali diverse, la cui interazione dischiude potenzialità inattese e sicuramente non catalogabili sotto il concetto di causalità142. Questa critica deriva tuttavia più dal fatto che Massey fosse una geografa che dalle ripercussioni negative che queste nozioni hanno sul resto dell’impianto laclauiano. Massey giudica infatti metaforico l’impiego di spazialità e temporalità operato da
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RP, p. 131. NR, p. 41. Ivi, pp. 42-43. D. Massey, Politics and Space/Time, in “New Left Review”, 196, 1992, pp. 71-72. Ivi, pp. 70, 80-81, 84.
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Laclau143, nonostante questi abbia smentito questa possibilità apertamente: «E si noti che quando facciamo riferimento allo spazio, non lo facciamo in un senso metaforico, a partire dall’analogia con lo spazio fisico»144. È proprio questa rivendicazione a rendere sterili queste categorie nel pensiero di Laclau e a richiedere un intervento ben più incisivo rispetto alla riabilitazione dello spazio e alla postulazione della necessaria imbricazione tra le due dimensioni145. In un recente articolo commemorativo successivo alla scomparsa di Laclau, la stessa Massey propone il suo concetto di spazialità in termini plurali riscattando l’importanza della multipolarità. «Le differenze geografiche contemporanee sono occluse in una temporalità unica. Parlare di modernità multiple può servire allora a spazializzare la modernità, ad aprire una geografia differenziata di alternative, e – potenzialmente – a politicizzarla»146. L’interesse concreto di Massey è qui rivolto all’America Latina dove, con riferimento agli sperimenti populisti della “marea rosa”, si starebbe formando un’identità nuova e genuinamente alternativa al neoliberismo147. Lo spazio ha qui un valore dimostrativo: la multipolarità, le diverse esperienze politiche in luoghi distinti ci dimostrano che le cose possono essere altrimenti, fornendo esempi che spezzano la gabbia del pensiero unico. Ma questa pluralità è pensata solamente tra entità che a loro volta sono pensate in maniera omogenea. Vi è infatti un altro modo per concepire la pluralità spaziale, non solo in termini di paesi in quanto tali, bensì anche come diversità di siti del sociale. Stuart Hall ci aiuta a inquadrare meglio la questione. Secondo lo studioso di origine giamaicana: l’egemonia implica: la lotta per contestare e dis-organizzare una formazione politica esistente, l’assunzione di una “posizione dominante” (per quanto su basi minoritarie) in un numero di diverse sfere della società allo stesso tempo – economia, società civile, vita intellettuale e morale, cultura; la conduzione di un tipo di lotta ampia e differenziata; la conquista di un margine strategico di consenso popolare; e, quindi, l’assicurazione di un’autorità sociale abbastanza profonda da conformare la società a un nuovo progetto storico148. 143 144 145 146
Ivi, pp. 77-78. NR, p. 41. D. Massey, Politics and Space/Time, cit., p. 77. D. Massey, Conversando sobre “el espacio” con Ernesto Laclau, in “Debates y Combates”, Edición homenaje a Ernesto Laclau (2), 2015, p. 11. 147 D. Massey, Learning from Latin America, in “Soundings”, 50, 2012, pp. 131-141; Id., Conversando, cit., pp. 16-17. 148 S. Hall, The Hard Road to Renewal, Verso, London 1988, p. 7.
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Come vediamo, il sociale è composto da siti tra loro diversi che, pur vivendo in relazione molto stretta ed essendo reciprocamente influenzabili, non sono sovrapponibili e che possono anzi dimostrare anche “andature” diverse. La spazialità è reale: a ciascuno di questi siti del sociale corrispondono dei luoghi concreti – Gramsci li chiamava metaforicamente «trincee» «fortezze» e «casematte»149–, nonostante questa corrispondenza non sia netta e inequivocabile, ma piuttosto lasca e continuamente emendabile. Ad ogni modo, ciò che Hall mette in evidenza è che l’egemonia non può essere ridotta alla «lotta per contestare e dis-organizzare una formazione politica esistente» – che corrisponde grosso modo a ciò che per Laclau è il populismo. L’egemonia comporta sì l’elevazione di una particolarità al ruolo di universale, ma tale elevazione ha bisogno di essere replicata su diversi fronti nei quali la pervasività ultima è data dal “controllo” dei soggetti, da quello che cioè Gramsci chiama adeguamento della «civiltà» e della moralità delle più vaste masse, per cui senza «sanzioni» e «obbligazioni» tassative viene esercitata una pressione collettiva in grado di mutare i costumi insieme ai modi di pensare ed operare150. La nozione di spazio di Laclau quindi è singolare perché tende a ridurre una formazione sociale alla sua società politica (limitando così la sua nozione di politica principalmente all’arte del governo), ma anche perché persino in quel contesto non tiene conto della sua intrinseca pluralità. In altre parole, Laclau trascura la società civile e concepisce la politica principalmente come la lotta tra progetti che si sfidano l’un l’altro nell’arena istituzionale. La società civile è vista solo come il luogo da cui emergono le domande da cui attingere strumentalmente e la cui cronologia è limitata ai periodi di crisi, non come il luogo in cui il consenso è creato e ricreato attraverso un costante e lungo lavoro pedagogico. Inoltre, l’analisi dell’arena politica è particolarmente impoverita, poiché chi riesce a “giocare il gioco della catacresi” meglio di altri determina un’oggettività che pervade le istituzioni politiche e trabocca senza mediazioni nella società civile. La possibilità di concepire lo spazio (e di conseguenza anche l’egemonia) in questi termini è resa difficile dalla nozione onnicomprensiva di discorso. Proprio in un passaggio in cui vengono ribadite le differenze con Hall, Howarth e Stavrakakis sottolineano che «le distinzioni tra pratiche politiche, economiche e ideologiche sono pragmatiche e analitiche, e stret149 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, edizione di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 866, 973, 1566-67, 1615. 150 Ivi, p. 1566.
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tamente interne alla categoria di discorso»151. Qui non si tratta di reinserire il discorsivo come un livello subordinato a un piano privilegiato né di negare la meritoria incorporazione dell’intuizione wittgensteiniana per cui la distinzione discorsivo/extra-discorsivo viene superata152, ma di sottolineare l’intrinseca multiformità del sociale, applicando anche in questo contesto il concetto di articolazione. In altre parole, la proiezione di un discorso, un progetto o una pratica – termini che Laclau utilizza come sinonimi153 – può limitarsi a un dominio, ossia la sua progettualità può esaurirsi all’interno di un sito ben definito, così come può anche avere la capacità di estendere la propria influenza all’intero piano sociale. In questo senso, pluralizzare lo spazio interno al sociale può gettar luce sulla reale portata egemonica di un progetto e coadiuvare l’elaborazione di strategie emancipatrici di maggiore incisività. La dimensione temporale aggiunge un ulteriore strato di complessità al ragionamento. In una critica alla nozione hegeliana della temporalità, Althusser asserisce che il presente è trattato come una ‘sezione d’essenza’, cioè l’operazione intellettuale attraverso la quale si opera, non importa in quale momento storico, un taglio verticale, un taglio del presente tale che tutti gli elementi del tutto rivelato tramite questa sezione siano tra loro in un rapporto immediato, che esprime immediatamente la loro essenza interna154.
Il bersaglio dell’obiezione di Althusser è la teleologia intrinseca a tale nozione di presente, la quale «conduce ad un concetto di storia sostanzialmente estetizzato, come successione di “sezioni d’essenza” della contemporaneità tra loro identiche in quanto mere manifestazioni di un’essenza sempre uguale a se stessa»155. Nonostante Laclau sia sempre stato in prima linea nella battaglia contro la teleologia e l’hegelismo, è tuttavia possibile trarre uno spunto dalla critica di Althusser per inquadrare la limitazione della concezione laclauiana del tempo. La temporalità di Laclau è di certo 151 D. Howarth, Y. Stavrakakis, Introducing Discourse Theory and Political Analysis, in D. Howarth, A. Norval, Y. Stavrakakis (a cura di), Discourse Theory and Political Analysis, Manchester University Press, Manchester 2000, p. 4. 152 ESS, pp. 176-177. 153 Cfr. E. Laclau, R. Bhaskar, Discourse Theory Vs Critical Realism, in “Alethia”, 1, 2, 1998, p. 9. 154 L. Althusser et al., Leggere il Capitale, tr. it. a cura di M. Turchetto, Mimesis, Milano-Udine 2006, p. 182. 155 P. Thomas, Gramsci e le temporalità plurali, in V. Morfino (a cura di), Tempora Multa. Il governo del tempo, Mimesis, Milano-Udine 2013, p. 195.
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priva di essenza, ma è anche singolare. Ciò non si evince esclusivamente dal trattamento esplicito che Laclau riserva al tempo, ma anche dal resto del suo impianto discorsivo. Se operassimo un taglio verticale in qualsiasi momento storico usando la teoria del populismo infatti, la relazione tra i suoi elementi non sarebbe l’espressione di un’essenza interna che permea tutta la storia, dato che il loro essere insieme sarebbe interamente contingente, ma questi elementi sarebbero in qualche modo in una relazione immediata tra loro, sarebbero cioè coordinati, sincronici. Il risultato della teoria del populismo laclauiano è quello di consegnarci un piano liscio per cui l’intervento vittorioso di una pratica populista disloca la formazione sociale precedente e ne installa una nuova interamente coerente con se stessa. Invece di un continuum lineare di tipo hegeliano per cui ogni presente è già contenuto in quello precedente e contiene a sua volta quello successivo, lo schema offertoci da Laclau è un dis-continuum caratterizzato da cambi abrupti che rendono ogni presente interamente estraneo al precedente e al successivo, producendo così una serie temporale di eventi discreti. Gli strumenti teorici di Laclau ci permettono di descrivere una serie di proprietà in un tutto statico, sincronico. Tuttalpiù, la dimensione diacronica dovrà essere concepita come una diacronia di ordini sincronici156. Questa concezione del tempo di tipo bergsoniana/heideggeriana fa sì che «la singolarità della situazione cad[a] del tutto sotto la categoria di oggettività, per cui diventa impossibile pensare il modo concreto, nel quale l’innovazione politica fa irruzione nel sistema dei significati»157. La conseguenza di questa unicità temporale «conduce a un’analisi concreta assai povera, nella quale le distinzioni tra casi e situazioni diverse sono ridotte a dettagli superficiali»158. A partire da NR infatti, Laclau privilegia crescentemente il momento della decisione a scapito della pluralità che opera all’interno di qualsiasi sistema; una decisione che è sempre più arbitraria e che rischia di passare come l’unica vera cifra dell’istituzione del sociale, come già avvertito da Norval159 e Howarth160.
156 F. Frosini, “Spazio-tempo” e potere alla luce della teoria dell’egemonia, in V. Morfino (a cura di), Tempora Multa, cit., p. 226. 157 Ivi, p. 227; NR, p. 42. 158 F. Frosini, “Spazio-tempo”, cit., p. 227. 159 A. Norval, Hegemony after Deconstruction: The Consequences of Undecidability, in “Journal of Political Ideologies”, 9 (2), 2004, pp. 148-149. 160 D. Howarth, Hegemony, Political Subjectivity, and Radical Democracy, cit., p. 264.
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Come concepire la temporalità dunque? Filippini avanza un’interpretazione della concezione gramsciana che risulta di particolare utilità, giacché distingue tra due tempi, uno plurale e l’altro singolare: Questi due tipi di temporalità – quella plurale che vede sempre una lotta per l’affermazione e quella singolare rappresentata dalla forza che in quel momento è egemone – sono sempre in gioco contemporaneamente nell’analisi gramsciana. All’interno della temporalità plurale il risultato dello scontro è diverso volta per volta, istante per istante; all’interno della temporalità singolare il rovesciamento avviene invece a ogni cambio d’epoca, quando la “linea del tempo” si modifica puntando in un’altra direzione161.
La temporalità singolare (o egemonica) è quindi quella del blocco dominante, che non coincide necessariamente e/o perfettamente con chi detiene il potere politico. Questo tipo di temporalità determina in gran misura il contesto in cui avviene la lotta tra diversi progetti. In tal modo, siamo in grado di distinguere tra durata ed epoca: «la prima è il teatro della lotta immanente162 delle forze sociali all’interno di un sistema di potere egemonico; la seconda è lo sfondo ineguale sul quale si combatte questa lotta»163. È importante far leva sul fatto che la durata non comporta trasformazioni sostanziali all’interno della formazione sociale, mentre l’epoca implica la creazione di una nuova civilizzazione e la distruzione dei vecchi automatismi164. Tuttavia, ciò non significa affatto che la durata – o la temporalità plurale – sia sempre e necessariamente caratterizzata da battibecchi politici di poco conto, dato che questi possono in taluni casi arrivare a mettere in discussione la temporalità singolare di un’epoca. Questa dinamica è catturata ancora meglio se consideriamo la distinzione speculare che Gramsci disegna tra l’occasionale e il permanente. «Ciò che è occasionale dà luogo alla critica politica, ciò che è permanente dà luogo alla critica storico-sociale; ciò che è occasionale serve a giudicare i gruppi e le personalità politiche, ciò che è permanente a giudicare i grandi raggruppamenti sociali»165. Gramsci quindi propone l’esistenza di tendenze organiche e di congiunture: mentre le prime tendono ad essere processi di lungo corso associati al ragionamento strategico, le seconde sono fenomeni di breve termine 161 M. Filippini, Using Gramsci. A New Approach, Pluto Press, London 2016, p. 106. 162 Il testo inglese riporta “imminent” (imminente), un refuso confermato dall’autore. 163 M. Filippini, Using Gramsci, cit., p. 107. 164 Ibidem. 165 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, cit., p. 455.
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e legati alla dimensione tattica e del quotidiano166. Nonostante la diversa portata storica tuttavia, nemmeno l’organico è permanente in senso stretto. Quando la lotta lanciata nella sfera occasionale stabilisce un nuovo modus vivendi in una varietà di aree tali da dettare una transizione complessiva della formazione sociale, allora un nuovo “permanente” viene stabilito. Ricapitolando: lo storicismo di Gramsci impedisce ai dispositivi teorici di catturare un dato momento storico tralasciando la totalità dei fenomeni sociali167. Il punto è che il populismo di Laclau, a causa della sua fissazione con la contestazione immediata di un regime o una pratica, risulta troppo schiacciato sul sincronico, mentre la nozione di egemonia è intrinsecamente diacronica. Su questo punto, il divario tra Laclau e Gramsci è particolarmente ampio: mentre Laclau vede nel populismo un meccanismo strategico per la sinistra che trae sostento da un’analisi sincronica dell’ambiente sociale (le domande), Gramsci ci avverte invece che «i concetti teorici devono emergere da un’astrazione complessa di evidenze che spazino su un periodo di tempo sufficientemente lungo»168. C’è anche un angolo speculare da cui è possibile affrontare la questione della temporalità, che ha a che fare con l’eccesiva rapidità con cui si reputa che una formazione sociale sia trasformabile. La resilienza delle relazioni sociali e istituzionali neoliberiste indica infatti una certa lentezza del modo in cui certe disposizioni profondamente radicate subiscono un cambiamento, il che sembra contraddire lo scenario più volatile offerto da Laclau. Ecco perché la ricerca di una migliore definizione di populismo ed egemonia, oltre a riscattare Gramsci, dovrebbe fare i conti anche con la lettura che Laclau fa di Jacques Lacan. A questo proposito, vale la pena segnalare l’impostazione lacaniana di Yannis Stavrakakis, poiché illustra molto bene il peso sproporzionato attribuito al momento del politico, concettualizzato come il momento di de-sedimentazione che apre la finestra a un intervento populista (e che quindi lo precede): «[esso] equivale all’interruzione della dislocazione che minaccia tutte le simbolizzazioni del sociale, fino alla definitiva sovversione di ogni sedimentazione della realtà politica»169. Il momento del politico è sempre in grado di mettere in discussione tutte le simbolizzazioni sociali esistenti? Non è possibile misurare l’entità di una dislocazione e per la stessa ragione il suo potenziale? Tutte le prece166 Cfr. ivi, p. 1579; E. Morera, Gramsci’s Historicism: A Realist Intepretation, Routledge, London 1990, p. 90. 167 E. Morera, Gramsci’s Historicism, cit., p. 83. 168 Ivi, p. 84. 169 Y. Stavrakakis, Lacan and the Political, Routledge, London 1999, p. 75.
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denti simbolizzazioni sono ugualmente a rischio di evaporazione? Questo aspetto è rafforzato dal primato del significante che va di pari passo alla marginalizzazione del significato. Qui «il significato scompare perché non è più associato al concetto [...] Il significato scompare in quanto tale, cioè come l’epicentro della significazione»170. Come abbiamo visto, queste formulazioni forniscono la premessa su cui si basa l’ultima versione del populismo di Laclau. Questa mossa, tuttavia, equivale a postulare che tutto si perde ogni qualvolta interviene il momento del politico. Anna Marie Smith problematizza questa tendenza nel pensiero laclauiano negli anni ‘90, sviluppando ulteriormente alcuni dei dubbi espressi da Stuart Hall già negli anni ‘80. Hall afferma che le formazioni storiche, per quanto teoricamente malleabili, «stabiliscono linee di tendenza e confini che danno al campo della politica e dell’ideologia la “struttura aperta” di una formazione e non semplicemente lo scivolamento verso una pluralità infinita»171. A partire da ciò, quello che per Smith è particolarmente problematico è l’adozione di un modello formale che presta attenzione esclusivamente alla funzione dell’identificazione (e, va aggiunto, della de-identificazione) a spese dei suoi contenuti. In altre parole, la posizione laclauiana-lacaniana enfatizza la questione del soggetto della mancanza, un soggetto costantemente alla ricerca di un completamento impossibile e quindi portato a identificarsi continuamente in nuovi oggetti (politici). Così facendo tuttavia, si perdono di vista le tracce storiche e le tradizioni normalizzate che, dal punto di vista gramsciano, interferiscono con la possibilità che un particolare discorso abbia risonanza e diventi quindi egemonico172. Pur riconoscendo i suoi meriti nel segnalare l’impossibilità dell’identità, anche Aletta Norval contempla i rischi di un’adozione non mediata di questa teoria psicoanalitica della soggettività, in quanto induce ad eliminare le reti storicamente specifiche delle relazioni di potere in cui sono coinvolti gli agenti sociali173. La questione ruota attorno alla “strutturalità” dell’apertura di qualsiasi struttura: mentre la prima posizione sostiene che le articolazioni passate sono indebolite ma non vengono mai completamente perse, poiché ogni significante «porta le tracce delle articolazioni passate», la seconda sostiene che il Reale fa piazza pulita di ogni struttura, creando così una sorta di
170 Ivi, p. 26. 171 S. Hall, The Hard Road to Renewal, cit., p. 10. 172 A.M. Smith, Laclau and Mouffe. The Radical Democracy Imaginary, Routledge, London 1998, p. 76. 173 A. Norval, Deconstructing Apartheid Discourse, Verso, London 1996, p. 64.
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tabula rasa su cui possono essere costruite articolazioni del tutto nuove174. Per dirla in modo diverso, la posizione gramsciana/post-strutturalista accetta la fallibilità di qualsiasi sistema, ma afferma anche che le condizioni in cui si verifica tale fallimento struttureranno parzialmente, sebbene in modi impossibili da determinare a priori, le condizioni per il prossimo fallimento, in contrapposizione al punto di vista lacaniano di Laclau, il quale presta scarsa considerazione alla possibilità di “trascinamento” di determinati significati. La preferenza di Laclau per la “tabula rasa” diventa particolarmente visibile, secondo Smith, nell’importanza data alla questione della vacuità: Da una prospettiva lacaniana, gli “investimenti” non avvengono perché i significanti hanno significati specifici che risuonano organicamente all’interno di un dato contesto, ma perché i “significanti vuoti” promettono di ottenere godimento, l’unità primaria e il completamento che è stato precluso al momento di ingresso nel linguaggio. [...] La svolta lacaniana di Laclau è in questo senso un allontanamento non solo dalla teoria post-strutturalista, ma anche dalla tradizione gramsciana, poiché Gramsci insiste sul fatto che un discorso politico avrà risonanza presso “il popolo” nella misura in cui ha qualche tipo di attinenza con le tradizioni popolari175.
Conclusione Nel suo pezzo commemorativo, Massey avanza tre possibili criteri per stabilire se una rivendicazione di multipolarità possa genuinamente costituire una molteplicità che conti. In primo luogo, deve sfidare apertamente uno o più princìpi di fondo del modello egemonico; secondariamente, deve essere in grado di stabilire la propria traiettoria; infine, quest’ultima deve dimostrare di essere sostenibile176. Il suo ragionamento, che collima con l’apprezzamento di Laclau per i processi populisti dell’America Latina, porta proprio a individuare nelle esperienze progressiste di quel continente «un tipo di spazio genuinamente nuovo»177. Un’alterità al neoliberalismo, quella latinoamericana, la cui radicalità ho messo in questione altrove con riferimento all’esperimento ecuadoriano 174 175 176 177
A.M. Smith, Laclau and Mouffe, cit., pp. 78-79. Ivi, p. 81. D. Massey, Conversando, cit., p. 13. Ivi, pp. 16-17.
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de la Revolucion Ciudadana178. Sebbene sia vero che i populismi latinoamericani hanno apportato conquiste lodevoli dal punto di vista dei diritti sociali sfidando l’egemonia neoliberista nell’ambito delle politiche pubbliche, non sembra che la loro traiettoria sia in grado di sostenersi nel tempo, né tanto meno appare che abbiano dato vita a una formazione sociale interamente nuova. Non è questa la sede per una disamina rigorosa di queste esperienze politiche, ma è sufficiente indicare che i rovesci subìti e le difficoltà registrate negli ultimi anni testimoniano l’incapacità di rivoluzionare il sociale nella sua interezza e che, anzi, gli ambiti culturale e morale, così come quello cruciale delle abitudini sociali, siano rimasti in gran misura invariati, rendendo in tal modo difficile la possibilità di parlare di una nuova “epoca” nel senso che Gramsci attribuiva al termine. Questo non significa trascurare che è stato solo attraverso un percorso populista che una certa inversione di marcia si sia comunque potuta verificare. In tal senso, vale la pena mettere in luce la differenza siderale rispetto alle pratiche della sinistra nostrana, la quale dimostra ormai un’incapacità conclamata di intercettare e articolare le domande sociali. La sua insistenza a rivolgersi a una parte – nella convinzione infondata che la società avanzi una richiesta di sinistra – piuttosto che al tutto rende improbabile persino che essa acquisti centralità nella sfera dell’“occasionale”. Solo la creazione di un “popolo” a partire da orizzonti mobilitanti, aggreganti e capaci di ridisegnare le identificazioni politiche le permetterebbe di scardinare le inerzie e mettere sotto scacco i detentori del potere politico. In questo modo, pensare strategicamente da una prospettiva emancipatrice significherebbe pensare sia populisticamente sia egemonicamente, dove per populismo ed egemonia si intendono però cose diverse. Il populismo che ci propone Laclau rimane un’arma efficace per contestare un regime politico esistente e creare nuove maggioranze prendendo spunto da elementi del senso comune e creando un’equivalenza a partire dal rigetto nei confronti di un comune avversario. L’egemonia va intesa invece come la costruzione di un consenso attorno a una nuova cultura e civilizzazione, la quale prevede una “guerra di posizione” con una “geografia” e una temporalità ben diverse da quelle del populismo, il quale è tipicamente votato alla società politica piuttosto che a quella civile e ha nell’imminente il suo orizzonte temporale privilegiato. Una strategia emancipatrice dovrebbe quindi essere in grado di giungere a una mediazione tra la “vuotezza” del 178 S. Mazzolini, Revolución Ciudadana y populismo de Laclau: una problematización, in M. Le Quang (a cura di), La Revolución Ciudadana en escala de grises. Avances, continuidades y dilemas, IAEN, Quito 2016, pp. 25-50.
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populismo e la “pienezza” propria dell’egemonia: una strategia, in altre parole, che sappia cimentarsi con l’ambiguità, senza farsene travolgere.
Michele Filippini
DECENTRARE IL POPULISMO: QUATTRO CRITICHE A LACLAU
1. Laclau “in movimento” Il contributo di Ernesto Laclau alla teoria critica post-marxista è strettamente legato, almeno nell’ultimo decennio, al dibattito sempre più ricco sul populismo. La discussione su questo tema si è però avviata su un doppio binario che rischia di mettere in ombra le possibilità di innovazione politica che erano invece contenute nel percorso che questo Autore aveva intrapreso prima del suo ultimo e più famoso volume La ragione populista. Il primo di questi binari è caratterizzato dall’indagine del rapporto tra democrazia e populismo, con una varietà di posizioni che vanno dalla loro radicale incompatibilità alla loro produttiva coesistenza1. Sul secondo binario, ma in parte sovrapposte al primo, viaggiano invece le riflessioni sullo statuto teorico del populismo, con una polarizzazione che vede la sua interpretazione come programma politico/strategico opposta alla sua ridu-
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Sul primo versante si veda N. Urbinati, Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e verità, Università Bocconi, Milano 2014, Id., Democracy and populism, in “Constellation”, 5, 1998, pp. 110-124. Sul secondo, le recenti prese di posizione di J.P. McCormick, prosecuzione del suo famoso studio Machiavellian Democracy, Cambridge University Press, Cambridge 2011 (cfr. gli articoli nel blog “Il rasoio di Occam – MicroMega”: J. McCormick, Sulla distinzione fra democrazia e populismo, L. Del Savio, M. Mameli, Sulla democrazia machiavelliana di McCormick: perché il populismo può essere democratico). In una posizione intermedia si situano M. Canovan, con la sua nozione di populismo come “ombra” della democrazia (Trust the People! The Populism and the Two Faces of Democracy, in “Political Studies”, 47, 1999, pp. 2-16; Id., Taking Politics to the People. Populism as the Ideology of Democracy, in Y. Mény, Y. Surel (a cura di), Democracies and the Populist Challenge, Palgrave Macmillan, Oxford 2002, pp. 25-44) e B. Arditi, con la nozione di populismo come “spettro” della democrazia (Politics on the Edge of Liberalism. Difference, Populism, Revolution, Agitation, Edinburgh University Press, Edinburgh 2008, pp. 42-53).
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zione a canone stilistico e discorsivo senza un contenuto programmatico stabile2. Se dovessimo posizionare la proposta populista laclauiana dovremmo necessariamente situarla ai due estremi di questi spettri: da una parte, il populismo per Laclau non solo è l’essenza della democrazia, ma “la ragione populista [...] equivale alla ragione politica tout court”3, per cui il problema del rapporto tra democrazia e populismo non si pone, perché, all’interno di questo schema, esso non è nemmeno formulabile4; dall’altra, il populismo si configura come una “logica politica”5, indipendente dai suoi contenuti reali e tendenzialmente esaustiva di ogni forma di agire politico. Posizionare troppo frettolosamente la proposta laclauiana all’interno di questi dibattiti rischia però di obliterarne i caratteri radicalmente innovativi e aperti, riducendola a uno fra i tanti posizionamenti rispetto al termineconcetto “populismo” di cui sono ricche le discussioni contemporanee. Se si vuole prendere sul serio il tentativo di Laclau di formalizzare i contorni di una logica politica specifica occorre invece iniziare a ricostruire i diversi stadi attraverso i quali questa logica è emersa, i vicoli ciechi che ha incontrato, le riformulazioni alle quali è stata sottoposta, iniziando anche a far emergere in modo critico e costruttivo alcuni suoi problemi e contraddizioni6. 2
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Da posizioni diverse L. Zanatta (Il populismo, Carocci, Roma 2003) e C. Formenti (La variante populista, DeriveApprodi, Roma 2016) propongono una lettura del populismo che si basa sul suo contenuto politico-programmatico. Al contrario, anche in questo caso da posizioni assai diverse, M. Tarchi (L’Italia populista: dal qualunquismo ai girotondi, Il Mulino, Bologna 2003) e M. Canovan (Populism, Junction, London 1981) cercano di tratteggiare una forma mentis populista, uno stile che prescinde, almeno in parte, dai contenuti politici. Per una disamina accurata delle posizioni e della letteratura sul populismo cfr. D. Palano, Populismo, Editrice bibliografica, Milano 2017. RP, p. 212. Nemmeno la versione di destra del populismo pone per Laclau questo problema, visto che “in alcune fasi, il contenuto ontico può esaurire la sua capacità di ricoprire quel ruolo, mentre il bisogno di quel ruolo resta inalterato; e che – data la relazione indefinita tra il contenuto ontico e la funzione ontologica – la stessa funzione può essere assolta da significanti di segno politico diametralmente opposto. Ecco perché tra un populismo di sinistra e un populismo di destra esiste sempre una zona grigia che può essere attraversata, ed è stata attraversata, in entrambe le direzioni” (RP, pp. 82-83). RP, p. 111. L’impianto concettuale di Laclau è tanto specifico quanto articolato, per una sintesi chiara ed efficace dei concetti utilizzati nella sua teorizzazione del populismo si veda E. Laclau, Populism: What’s in a Name?, in F. Panizza (a cura di), Populism and the Mirror of Democracy, Verso, London 2005, pp. 32-49.
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Utilizzando gli stessi gesti teorici di Laclau – desostanzializzazione e articolazione – questo percorso dovrebbe andare nella direzione di un decentramento del populismo, atto a scoprire quei nodi politici irrisolti che si nascondono dietro una costruzione geometrica che si vuole interamente coerente come quella populista. Laclau stesso tende a raccontare questa evoluzione come una progressiva emancipazione da quello che chiama l’“essenzialismo marxista”, riconoscendo come unica discontinuità del suo percorso teorico quella tra il suo primo libro Politics and Ideology in Marxist Theory e i seguenti7. In realtà l’impianto categoriale laclauiano muta in maniera significativa nei passaggi segnati dai suoi successivi contributi, testimoniando di una ricerca aperta che cerca di fare i conti, da una parte, con le proprie contraddizioni, dall’altra, con lo sviluppo politico ed economico del capitalismo contemporaneo. I suoi concetti chiave – egemonia, articolazione, antagonismo, equivalenza, populismo – possono così ricevere definizioni diverse e a volte in conflitto, anche all’interno dello stesso volume. Questo movimento dell’impianto categoriale laclauiano – in opposizione all’immagine di un sistema chiuso costruito secondo una logica hobbesiana geometrico-razionale8 – deve essere considerato, più che una debolezza, una fonte di potenziale invenzione politico-teorica. In questo senso è quindi utile lavorare all’interno del “laboratorio Laclau”, per aprirlo a influssi diversi, che ne sporchino i contorni definiti permettendo l’irruzione di logiche diverse. Su questa base, verranno identificati quattro temi specifici sui quali esercitare una critica costruttiva, fornendo anche qualche possibile innesto teorico.
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Cfr. E. Laclau, Logica e strategia del popolo. Intervista a Ernesto Laclau, in M. Baldassari, D. Melegari (a cura di), Populismo e democrazia radicale. In dialogo con Ernesto Laclau, Ombre Corte, Verona 2012, pp. 11-12. Molti interpreti hanno sottolineato la vicinanza del sistema laclauiano a quello hobbesiano, sia per struttura logico-argomentativa, sia per la centralità data allo Stato e alla rappresentanza (per Laclau, la rappresentazione di una totalità da parte di una domanda particolare): cfr. J.L. Villacañas, The Liberal Roots of Populism. A Critique of Laclau, in “The New Centennial Review”, 2, 2010, pp. 171-172; S. Mezzadra, S. Chignola, Fuori dalla pura politica. Laboratori globali della soggettIvità, in “Filosofia politica”, 1, 2012, p. 71. Un intento del presente contributo è quello di relativizzare tale connessione, sia sul versante metodologico, mostrandone le successive riformulazioni, sia su quello politico, aprendo a diverse configurazioni istituzionali.
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2. Populismo, egemonia, antagonismo La prima critica all’impianto concettuale di Laclau riguarda la differenza tra populismo ed egemonia, nonché lo statuto dell’antagonismo9. Il nucleo di questa critica può essere così formulato: dato il terreno sul quale si forma ogni populismo – l’emersione dell’antagonismo, la fissazione di una frontiera stabile che dicotomizza lo spazio politico, la nascita dell’identità popolare, la fissazione in punti nodali di significanti vuoti – come si può dar conto, con questo modello, del potere costituito, ovvero del potere dei dominanti? La questione può sembrare eccentrica rispetto a un impianto costruito con l’intento di riattivare una politica popolare dei dominati, ma pone in realtà un problema fondamentale: attraverso il concetto di egemonia il populismo rappresenta una logica politica generale, che comprende al suo interno due modalità solo in parte diverse di “costruzione della società”, a seconda che il soggetto che le incarna sia dominante o dominato? Oppure il populismo è solamente la logica della sovversione di un ordine politico, e quindi necessita di una teoria del potere “seconda” per rendere conto della politica dei dominanti? Nel corso della sua vita, Laclau si è più volte spostato su questa frontiera. Nel suo primo volume (PI) la politica dei dominati viene infatti descritta secondo le forme dell’articolazione e dell’antagonismo, mentre l’esercizio del dominio funziona per articolazione, ma non per antagonismo. Assorbimento e neutralizzazione sono invece il modus operandi della politica dei dominanti, che in questo modo si caratterizza non per l’antagonismo (e la creazione di frontiere politiche), ma per il suo contenimento10. In questo caso, per populismo si intende solamente la logica politica della sovversione di un ordine: le teorie del potere sono due. In Egemonia e strategia socialista l’antagonismo svolge invece un ruolo così centrale da essere quasi naturalizzato, considerato come un dato ineliminabile (che appartiene al livello ontologico) di ogni tentativo (sempre fallimentare) di chiusura del sociale. L’emergere dell’antagonismo è infatti la condizione di ogni fissazione parziale di una società, mentre la forma di 9
Questo tema trova una trattazione anche nel contributo di S. Mazzolini a questo volume, che lo affronta da un’angolatura in parte diversa. Cfr. anche B. Arditi, Il populismo come egemonia e come politica? La teoria del populismo di Ernesto Laclau, in “Il Ponte”, 8-9, 2016, pp. 19-42; G. Preterossi, Ciò che resta della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 134-138. 10 Cfr. il quarto capitolo di PI dal titolo Towards a Theory of Populism (pp. 143198) e la trattazione di questo tema da parte di Mazzolini nel contributo a questo volume.
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questo antagonismo, come i soggetti che investe, dipende interamente dal tipo di articolazione che questi riescono a mettere in campo, non essendo più assicurata la presenza di un soggetto articolatorio necessariamente centrale. Antagonismo e articolazione, insieme, diventano le condizioni necessarie dell’egemonia, che per Laclau è l’unica forma possibile della politica contemporanea11. Il concetto di populismo, in questa fase, scompare, lasciando spazio all’egemonia come logica politica generale che comprende al suo interno tanto la politica dei dominati quanto quella dei dominanti. Ma se l’egemonia si dà solo se veicolata da un antagonismo che stabilisce una frontiera, una relazione di opposizione, un fondamento negativo, come è possibile, all’interno di questo schema, rendere conto di quella che ho chiamato la politica dei dominanti, che procede per integrazione successiva e non per opposizione negativa? Un tentativo di superamento di questa problematica avviene in New Reflections on the Revolution of our Time, dove al concetto di antagonismo viene affiancato quello di dislocazione. La dislocazione, come evento ricorrente e condizione di possibilità di ogni tipo di società, mantiene l’elemento dell’impossibilità della chiusura del sociale, ma non implica necessariamente una contrapposizione; l’antagonismo diventa allora una particolare forma della dislocazione, in particolare quella che la vede “agita” da un movimento populista di contestazione dell’ordine esistente12. Le teorie del potere tornano a essere due, entrambe egemoniche, prendendo una forma antagonistica o spoliticizzante a seconda del soggetto agente. Quella che sembrava la chiusura teorica del problema viene però smentita dall’ultimo libro, La ragione populista, nel quale l’antagonismo torna centrale nella sua funzione strutturante del campo politico e l’egemonia lascia di nuovo spazio alla preminenza del populismo. Qui Laclau torna a ragionare sulla contestazione dell’ordine e sulla formazione di frontiere politiche dalla parte dei dominati, fondando però quasi tutte le sue asserzioni su un livello ontologico che pretende di spiegare la totalità del Politico. Quest’ultimo testo non permette così alcuna considerazione sulla forma e sulla pratica del potere dei dominanti, schiacciata all’interno di una logica politica generale che descrive però solamente le forme della contestazione dell’ordine vigente13. 11 Cfr. il terzo capitolo di ESS dal titolo Oltre la positività del sociale: antagonismo ed egemonia (pp. 155-226). 12 NR, pp. 3-85. 13 Scrive Laclau: “non ci troviamo di fronte a due tipi diversi di politica, di cui solo uno sarebbe politico, mentre l’altro implicherebbe la morte della politica e il suo
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Un ulteriore segnale nella direzione di una sostanziale afasia di RP rispetto al potere costituito è la sua scarsa utilità come supporto teorico e come strumento strategico per quei movimenti politici che, tramite una “campagna populista”, sono riusciti effettivamente ad assumere il controllo di alcuni apparati statali. Lo schema laclauiano che esce da RP non è infatti strutturalmente in grado di pensare un potere costituito diverso da quello combattuto nel presente e, proprio per questo, perde di utilità per chi si deve confrontare con i problemi tipici della gestione del potere: il mantenimento e l’ampliamento del consenso, la difficoltà di modificare radicalmente gli assetti di potere (economico e sociale in primis), la gestione dei rapporti internazionali tanto geopolitici quanto economico-finanziari, la gestione del rapporto tra innovazione democratica radicale e difesa degli assetti di potere istituzionali, ecc. Questa incertezza teorica sullo statuto dell’egemonia e su quello del populismo può essere letta, oltre che tramite l’antagonismo, anche attraverso le nozioni di “domande democratiche” e “domande popolari”, che nei testi di Laclau servono a connotare i soggetti politici sulla base del rapporto con il tipo di potere che li interpella e che vuole inserirli all’interno di una catena di equivalenze. Mentre in ESS le prime sono considerate le più importanti, in quanto aprono una pluralità di spazi politici non necessariamente dicotomici, in RP sono invece quelle che, in quanto isolate, vengono assorbite più facilmente dal potere dominante. Le domande popolari, viceversa, in ESS sono un caso limite frutto di situazioni eccezionali (come il millenarismo), mentre in RP sono quelle centrali che articolano un populismo antagonista rispetto all’ordine esistente14. Pur essendo opposte, le due formulazioni di riassorbimento in forme sedimentate del sociale” (RP, p. 146). Ma l’analisi del “discorso istituzionale”, che dovrebbe rappresentare l’opposto egemonico del populismo, non solo è assai limitata, ma si concentra quasi esclusivamente proprio sui suoi effetti spoliticizzanti: al suo interno, “il principio universale della ‘differenzialità’ diventa l’equivalenza dominante” (RP, p. 76). Cfr. B. Arditi che, specie in Il populismo come egemonia e come politica? (pp. 12-14), propone di leggere il nesso egemonia-populismo nei termini di una relazione tra genere e specie. 14 “È chiaro che il concetto fondamentale è quello di “lotta democratica”, e che le lotte popolari sono semplicemente delle congiunture specifiche che risultano dalla moltiplicazione degli effetti di equivalenza tra le lotte democratiche” (ESS, p. 217). In RP le domande democratiche vengono invece caratterizzate come domande soddisfatte, creando così l’effetto paradossale di dissolversi in quanto tali, e riducendo ancora una volta il campo istituzionale a un meccanismo di spoliticizzazione e incorporazione: “Questo è il passaggio da quelle che abbiamo definito domande democratiche alle domande popolari. Le prime si possono soddisfare con l’espansione di una formazione egemonica. Le seconde rappresentano una
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ESS e RP condividono però una caratteristica: entrambe faticano a identificare la differenza tra una domanda interna e una esterna al sistema di potere vigente. Indipendentemente da quale delle due prospettive le si voglia osservare – quella che privilegia le domande democratiche e presuppone una proliferazione di conflitti e movimenti; o quella che privilegia le domande popolari e presuppone la loro unificazione attraverso una catena di equivalenze – in entrambi i testi diventa impossibile distinguere le domande, perché ci si ritrova all’interno di una sola teoria del potere, che estende la sua logica ferrea tanto alla politica dei dominati quanto a quella dei dominanti15. Questo è uno dei risultati della logica radicalmente discorsiva che informa i contributi di Laclau, e che è stata ripetutamente criticata per la sottovalutazione che comporta degli aspetti materiali dei soggetti in lotta16. Ma in questo caso, oltre alla semplificazione discorsiva della soggettività, entra in gioco un altro elemento, ovvero che l’appartenenza delle domande a una catena di equivalenze piuttosto che a un’altra diventa un fattore assolutamente indeterminato, per cui l’unica differenza rilevante rimane quella del “chi comanda”17. Questa impostazione, da una parte, individua ed essenzializza un ambito del Politico del tutto arbitrario; dall’altra, non permette di rendere conto della specificità tanto della politica dei dominati quanto di quella dei dominanti.
sfida secca alla formazione egemonica” (RP, p. 77). Sul tema si veda il saggio di F.M. Cacciatore nel presente volume. 15 “I gruppi dominanti e sfruttatori non distorcono il contenuto popolare più dei discorsi rivoluzionari: semplicemente li articolano in maniera diversa” (Laclau in risposta a Zizek in DSS, p. 205). 16 “La critica dell’ortodossia marxista ha finito per condurre Laclau e Mouffe a rimuovere dal loro orizzonte teorico le condizioni materiali dell’emergenza delle soggettività” (S. Mezzadra, S. Chignola, Fuori dalla pura politica, cit., p. 72); anche Palano parla di un “sostanziale disinteresse del teorico argentino nei confronti delle risorse materiali di potere di cui i soggetti possono effettivamente disporre” (D. Palano, In nome del popolo sovrano? La questione populista nelle postdemocrazie contemporanee, in S. Cingari, A. Simoncini (a cura di), Lessico postdemocratico, Stranieri University Press, Perugia 2016, p. 183). 17 “The problem here is not that the coherence of a rule can never be fully realized in empirical reality, but that the rule itself is undecidable and can be transformed by each new addition. Everything depends, as Lewis Carroll would say, on who is in command. It is a question of hegemony in the strictest sense of the term” (NR, p. 29). È nota la critica fatta da Hall all’uscita di ESS: “non c’è alcuna ragione per cui qualsiasi cosa non sia o sia potenzialmente articolabile con qualsiasi altra cosa” (S. Hall, On Postmodernism and Articulation. An Interview, in “Journal of Communication Inquiry”, 10, 1986, p. 56).
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3. Sedimentazione e riattivazione Proseguendo sulla stessa linea di ragionamento, la seconda critica all’impianto concettuale di Laclau si appunta sul fatto che, quando le logiche del potere sembrano invece iniziare a essere due (come in PI e NR), la loro differenza viene interamente spiegata attraverso la dicotomia sedimentazione-riattivazione18. Nei due testi indicati si presuppone infatti che i dominanti siano tali grazie alla sola gestione, spoliticizzazione, depotenziamento delle domande stesse, e che un progetto populista antagonista sia invece caratterizzato dalla possibilità di espressione e soddisfacimento “attivo” delle domande, seppure all’interno di una catena di equivalenze di tipo egemonico. Con il suo impianto ontologico post-fondazionalista19 che impedisce di pensare una società chiusa e trasparente a se stessa, Laclau è certo lontano da ogni forma di utopia che prospetti un mondo completamente pacificato, ma proprio per questo non riesce a pensare un potere che non si dia come sedimentazione di pratiche, come passivizzazione. Il progetto populista, paradossalmente, sembra così capace di “attivare” le domande soltanto finché è dominato, ovvero di presentarsi come un progetto politico emancipatorio soltanto finché questo progetto fallisce. Laclau rimane così all’interno di un immaginario che interpreta la “cristallizzazione egemonica”, di qualunque tipo essa sia, come caratterizzata da sole pratiche di sedimentazione. Un limite del populismo come logica politica sembra quindi essere l’incapacità di immaginare una politica oltre la configurazione di potere esistente. O meglio, di immaginarla con gli stessi strumenti teorici con i quali interpreta l’oppressione presente. Questa insufficienza della teoria laclauiana rispetto alle forme del potere costituito origina dal suo stesso impianto, che muove da una differenza qualitativa, presupposta e mai discussa, tra le domande che vengono articolate dal populismo antagonista e quelle articolate dalle forme di potere costituite. Le prime sembrano infatti essere le “vere domande”, quelle che rifiutano l’incorporazione o che non possono strutturalmente essere soddisfatte all’interno di una determinata configurazione di potere; le seconde sembrano invece essere domande di “qualità inferiore”, perché vengono neutralizzate dal potere dominante, sedimentandosi in pratiche consuetudinarie. Non esistendo una differenza ontologica tra le domande, ed essendo quindi il loro rapporto con il potere costituito l’unico modo per 18 Cfr. NR, pp. 33-36. 19 Cfr. O. Marchart, Post-Foundational Political Thought: Political Difference in Nancy, Lefort, Badiou and Laclau, Edinburgh University Press, Edinburgh 2007.
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distinguerle, Laclau finisce per ridurre la loro differenza a due sole forme di esistenza: passivizzazione o antagonismo. Lo schema sedimentazione/ riattivazione – derivato da Husserl – rimuove così il problema dell’ambiguità, della specificità, financo dell’autonomia del potere politico (inteso in senso ampio e non solo statale), trattando il dominio come sola oppressione/passivizzazione e definendo come unica forma del politico la sua contestazione/sovversione20. In NR, ad esempio, Laclau sostiene che il capitalismo contemporaneo aumenti notevolmente il numero di dislocazioni, un fatto che favorirebbe, a suo avviso, la formazione di nuove domande antagonistiche a scapito dell’oggettività sociale garantita dal potere dominante21. Ma la forma tipica del potere dominante degli ultimi trent’anni, il neoliberalismo, ci mostra al contrario un sistema di nuova gestione e di messa a valore della proliferazione di queste dislocazioni. Che l’aumento delle dislocazioni favorisca l’emergere di domande antagoniste sembra in questo contesto più un auspicio che una realtà. Spesso, al contrario, questa proliferazione aumenta invece il numero di posizioni soggettive particolari che si possono occupare all’interno di un’oggettività plurale, che in qualche modo ha interiorizzato il suo esterno costitutivo. Le identità, che per Laclau sono la forma prima della soggettività, per il capitalismo contemporaneo sono invece posizioni soggettive la cui dislocazione viene continuamente usata per la produzione e l’estrazione di valore22. Lo stesso problema emerge se guardiamo le 20 In NR la differenza tra sociale e politico viene tradotta con quella tra sedimentazione e riattivazione, a sua volta ricondotta alla differenza tra spazio e tempo (spazio come ripetibilità e non come spazio fisico, cfr. NR, pp. 41-42). Ma se il dominio è il regno della sedimentazione, quindi del solo spazio, questo vuol dire che non esiste il “tempo del potere”? Non era invece la “rivoluzione passiva”, gramscianamente, proprio una delle forme del tempo dei dominanti? 21 “The more dislocated is the ground on which capitalism operates, the less it can rely on a framework of stable social and political relations and the more central this political moment of hegemonic construction will be; but for that very reason, the more extensive the range of alternative political possibilities opposed to capitalist hegemonization will also be” (NR, p. 56; cfr. anche le pp. 67-68, 82-84). 22 Cfr. D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, traduzione di P. Meneghelli, Milano, Il Saggiatore, 2007; S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Bologna, Il Mulino, 2014; Id., On the multiple frontiers of extraction: excavating contemporary capitalism, in “Cultural studies”, published online 17 March 2017, pp. 185-204. Scrive Villacañas nella sua critica a Laclau: “Liberalism serves as Laclau’s point of departure because it allows him to speak in terms of demand, the nature of things, and emotional-social bonds, but he does not want to accept the existing play between civil society and neoliberal power. […] he does not think the specificity and novelty of neoliberalism because
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pratiche ripetitive che vengono identificate come segno di un’oggettività stabile. Anche qui, in senso inverso, la stabilità del neoliberalismo sembra venire proprio dalla costante sovversione della ripetibilità delle pratiche. Il neoliberalismo vive della creazione di quegli elementi esterni che dislocano le identità e della gestione dei processi di egemonizzazione e incorporazione successiva di queste dislocazioni23. L’approccio sedimentazione/riattivazione finisce quindi per sottovalutare, da una parte, l’attività e la produttività delle domande che sono parte della catena di equivalenze di un dominio, la loro necessaria, seppur parziale e controllata, attivazione perché il dominio sussista e si riproduca; dall’altra, gli elementi di sedimentazione che sono sempre presenti anche nelle pratiche antagonistiche dei soggetti dominati, e che permettono la continuità e la sopravvivenza delle tradizioni di lotta. 4. Pluralità delle logiche politiche La terza critica all’impianto concettuale dell’egemonia e del populismo riguarda il loro statuto teorico. Anche in questo caso, tale problema ha avuto it is easier to construct a populist logic upon the old liberal government at its first stages, with its logic of demands, than upon neoliberalism and its logic of supply” (J.L. Villacañas, The Liberal Roots of Populism, cit., p. 168). Da un’angolazione diversa anche Mezzadra e Chignola segnalano come “da un lato, le politiche neoliberali compromettono definitivamente l’autonomia del politico e l’identificazione di quest’ultimo con lo Stato. Dall’altro, la finanziarizzazione dell’economia fissa nodi del comando esterni alla costituzione e al dispositivo di regolazione che le è stato proprio. Si tratta, crediamo, del definirsi di un irrecuperabile spiazzamento complessivo delle categorie del politico che deve essere assunto e pensato nella sua radicalità” (S. Mezzadra, S. Chignola, Fuori dalla pura politica, cit., p. 81). 23 Ha fatto emergere bene i limiti dell’analisi laclauiana su questo tema, in relazione alla Lega Nord, Emanuele Leonardi: “È nostra convinzione, infatti, che l’approccio di Laclau presenti, accanto a fertili intuizioni, una serie di limiti che tendono a costringere la molteplicità del materiale empirico a disposizione nel letto di Procuste di una teoria generale dell’ontologia politica che non tiene in debito conto le trasformazioni strutturali della governamentalità neoliberale, che rappresenta invece, a nostro avviso, la base materiale del sorgere e dell’evolversi del leghismo [...]. L’incapacità di strutturare il campo sociale lungo un unico asse, cioè di imporre una frontiera ben definita al di là del quale sta un nemico ben riconoscibile, è stato uno dei punti di forza della politica del Carroccio” E. Leonardi, Populismo come adattamento. Note critiche sull’analisi laclauiana della Lega Nord, in M. Baldassari, D. Melegari (a cura di), Populismo e democrazia radicale, Ombre Corte, Verona 2012, pp. 86, 93.
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in Laclau diverse formulazioni. Appurato che entrambi i concetti non designano un contenuto specifico e positivo ma una logica politica, questa logica è l’unica logica politica possibile, oppure esistono altre logiche che agiscono contemporaneamente e che si intrecciano con quella egemonico/populista? In ESS la logica egemonica occupa tutto lo spazio dell’azione politica ed è considerata l’unica logica possibile dopo l’apertura dell’orizzonte democratico (con la Rivoluzione francese), che moltiplica le posizioni soggettive occupabili all’interno della società e dà luogo a una pluralità di conflitti non posizionabili stabilmente ai lati di una frontiera data: A rigore, l’opposizione popolo/ancien régime fu l’ultimo momento in cui gli stessi limiti antagonistici tra due forme di società si presentarono – con le specificazioni che abbiamo visto – sotto forma di linee di demarcazione chiare ed empiricamente date. Da allora la divisione tra l’interno e l’esterno, in base alla quale l’antagonismo assumeva la forma di due sistemi contrapposti di equivalenze, diventò sempre più fragile e ambigua, e la sua costruzione si presentò come il problema cruciale della politica. Questo voleva dire che non si dava più politica senza egemonia24.
La frontiera che divide l’interno dall’esterno non è quindi più assicurata da una struttura sociale rigida, ma deve essere costruita politicamente. Dando all’egemonia il significato ampio di questa costruzione, Laclau può quindi affermare la sostanziale equivalenza tra politica ed egemonia, relegando tutto quello che cade fuori dal perimetro egemonico come non-politico. A questo punto, però, è facile notare come tale affermazione reintroduca surrettiziamente nell’analisi proprio quel carattere essenzialista sulla cui esclusione era stato costruito l’impianto di ESS. Non si tratta più di un essenzialismo legato alla determinazione di classe, come era stato per il marxismo ortodosso; nondimeno si tratta di una fissazione definitiva del campo del politico, che porta con sé, necessariamente, una totalizzazione dell’esperienza sociale assai distante dal principio stesso su cui è costruita l’argomentazione di ESS25. Questa contraddizione viene a galla nella parte finale del libro: 24 ESS, p. 230. 25 “The critique of traditional Marxism, the refusal of the idea of the existence of a ‘unique privileged position’ for thinking and practicing the transformation of society (meaning the position of the working class and the contradiction between capital and labor), leads to a depoliticization of social struggles and a reinstatement of the ‘privileged position’ that has been traditionally occupied by the state (and by the party)” (S. Mezzadra, Beyond the State, Beyond the Desert, in “The
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È l’affermazione di un “fondamento” che vive soltanto negando il suo carattere fondamentale; di un “ordine” che esiste solo come parziale limitazione del disordine; di un “senso” che si costruisce solo come eccesso e paradosso di fronte all’assenza di senso. In altre parole, il campo del politico come spazio per un gioco che non è mai “a somma zero”, perché le regole e i giocatori non sono mai pienamente esplicitati26.
Se il campo del politico non è chiuso, se non è mai determinato fino in fondo da una logica di somme e sottrazioni, di equivalenze e differenze, se gli stessi giocatori non sono mai chiaramente esplicitati, ecco allora che, conseguentemente, una sola logica politica non può racchiudere il suo movimento complessivo. La citazione si conclude infatti con la riga finale del libro: “Questo gioco, che elude il concetto, ha almeno un nome: egemonia”27. Il corsivo è stato aggiunto, ma quell’“almeno” non è certo lì per caso28. Altri nomi possono infatti essere dati a questo gioco; altre logiche, evidentemente sempre politiche, possono lavorare insieme e intrecciarsi a quella egemonica. In RP questa incertezza sullo statuto dell’egemonia – che lì diventa populismo – come unica logica politica si ripropone inesorabilmente. Insieme ad affermazioni definitive come “la ragione populista [...] equivale alla ragione politica tout court”29 o “il politico è sinonimo di populismo”30, troviamo infatti formulazioni più accorte, come quella in chiusura dell’In-
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South Atlantic Quarterly”, 4, 2011, p. 996). “Their reflection on hegemony does not quite manage to cast off the spell of necessity they criticized so cogently in their book [...] the implicit claim concerning the necessity of hegemony is more problematic in that it shields hegemony from the test of its own contingency […]. Hegemonic articulations may be contingent, but the hegemonic form ends up being necessary” (B. Arditi, Post-hegemony. Politics Outside the Usual Post-Marxist Paradigm, in A. Kioupkiolis, G. Katsambekis (a cura di), Radical Democracy and Collective Movements Today. The Biopolitics of the Moltitude versus the Hegemony of the People, Ashgate, Farnham 2014, pp. 18-19, 21). ESS, p. 284. Ibidem. Non concordo, in questo caso, con l’analisi che di questo passo fa Arditi, in un contributo per altri versi assai interessante: “La citazione è abbastanza lapidaria: ci dice che i campi semantici della politica e dell’egemonia finiscono col sovrapporsi, o per lo meno che nel campo politico esiste solo un gioco, quello dell’egemonia. Ci permette anche di comprendere perche Laclau non possa concepire una politica della moltitudine” (B. Arditi, Il populismo come egemonia e come politica?, cit., p. 27). RP, p. 212. Ivi, p. 146.
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troduzione, per cui “il populismo è [...] un modo di costruire il politico”31, o questa ancora più esplicita: “il popolo [...] sarà una via per la costruzione dell’unità del gruppo. Ovviamente, non sarà l’unica. All’interno del campo sociale rimangono all’opera altre logiche, che rendono possibili tipi di identità differenti da quella populista”32. L’ambiguità sull’esistenza e sul ruolo di altre possibili logiche politiche permane. In RP si ripropone comunque amplificato – rispetto a ESS – il problema di una violenta semplificazione sia dei modi di costruzione del soggetto politico, sia del campo all’interno del quale questa emersione può e deve avvenire. Dei “modi”, ovvero delle logiche politiche, ci occuperemo ora, mentre la “limitatezza del campo” sarà l’oggetto dell’ultima critica. Una logica politica potenzialmente intrecciata (o intrecciabile) a quella populista è sicuramente la logica evenemenziale per come l’ha formulata Alain Badiou33. La vicinanza dei concetti di “dislocazione” in Laclau e di “evento” in Badiou è stata d’altronde sottolineata dallo stesso Laclau, che ne ha descritto la differenza nei termini della loro frequenza, rivendicando la mancanza di fondamento come base di entrambi34. Quello che l’articolazione di una logica evenemenziale potrebbe apportare a un’analisi populista, proprio in relazione alla scarsità dell’evento, è una sensibilità rispetto al tema dell’intensità politica, che è invece assente nelle formulazioni laclauiane. La politica populista di Laclau sembra infatti non ammettere gradienti o intensità, configurandosi come una logica binaria di attivazione/disattivazione delle domande che non prevede gradi intermedi di mobilitazione, attivazioni parziali, ma anche il riconoscimento della dismisura di un evento politico radicale35. Una tale attivazione “a intensità definita” fatica a cogliere, in particolare, la natura di quegli eventi epocali che strutturano il campo stesso 31 Ivi, p. XXXIII. 32 Ivi, p. 69. 33 Cfr. l’uso che Badiou ne fa in San Paolo. La fondazione dell’universalismo, traduzione di A. Ferrari, Cronopio, Napoli 1999; Id., La Comune di Parigi. Una dichiarazione politica sulla politica, traduzione di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2004; Id., L’ipotesi comunista, traduzione di L. Boni, A. Cavazzini e A. Moscati, Cronopio, Napoli 2011. 34 E. Laclau, Logica e strategia del popolo. Intervista a Ernesto Laclau, in M. Baldassari, D. Melegari (a cura di), Populismo e democrazia radicale, cit., p. 33. 35 Una sola volta Laclau sembra riferirsi a diversi gradi di populismo come misura di un movimento, ma anche in questo caso è il movimento nel suo complesso a essere più o meno populista, mentre le domande sono sempre caratterizzate da uno stato binario di attivazione/disattivazione: cfr. E. Laclau, Populism: What’s in a Name?, cit., p. 45.
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dell’agire politico (si pensi alla rivoluzione bolscevica o alla nascita del cristianesimo, per riprendere gli esempi di Badiou). La proposta di Badiou sembra invece riuscire a interpretare quella differenza temporale – che anche Gramsci segnalava – tra gli eventi che fanno epoca e quelli che abitano il tempo della durata36. L’impianto laclauiano sconta in questo caso l’immagine di una temporalità unica che non permette di pensare mutamenti radicali – anche nel caso della sua trattazione del tempo come vettore di dislocazione rispetto allo spazio37 –, ma che soprattutto limita le possibilità di innovazione politica che potrebbero essere presenti in un’inedita configurazione di potere di quelli che oggi sono i dominati38. Una seconda logica politica potenzialmente articolabile con quella populista è quella moltitudinaria proposta da Antonio Negri e Michael Hardt39. Tale logica riesce infatti a rendere conto della pluralità costante e costitutiva dei soggetti coinvolti in una lotta, così come della continua potenzialità – o produzione di innovazione politica – che rimane in capo ai soggetti anche all’interno di configurazioni di potere egemoniche e rappresentative40. Alcuni studi recenti hanno mostrato come entrambi gli impianti teorici – quello operaista/post-strutturalista e quello gramsciano/laclauiano –, pur essendo alternativi, permettano di cogliere diverse specificità dei conflitti recenti. Non è qui in questione l’ibridazione di logiche diverse, operazione che porta sempre al depotenziamento di entrambe, ma i loro effetti di alternanza all’interno dello stesso movimento. Nell’analisi dei 36 Mi si consenta il rimando al mio M. Filippini, Using Gramsci. A New Approach, Pluto, London 2017, pp. 105-121. 37 Cfr. NR, pp. 41-45. 38 “L’impressione è che il “conflittualismo” democratico-radicale, mentre funziona perfettamente come demistificazione della pretesa di totalità delle democrazie argomentative e consensualiste, non possa andare oltre l’indicazione della relazione antagonista come orizzonte insuperabile del Politico, e in particolare, del Politico “democratico”, caratterizzato dalla continua riattivazione dell’antagonismo” (A. Amendola, Democrazia radicale, biopolitica e soggettivazione, in A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicchi, A. Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, Quodlibet, Macerata 2008, p. 373). 39 Cfr. la trilogia di M. Hardt e A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (2000), traduzione di A. Pandolfi e D. Didero, Rizzoli, Milano 2002; Id., Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, traduzione di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2004; Id., Comune. Oltre il privato e il pubblico (2009), traduzione di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2010. 40 Spunti interessanti in questo senso vengono anche dalla proposta di S. Mezzadra e B. Neilson di un modello basato sulla traduzione piuttosto che sull’equivalenza in Confini e frontiere..., cit., p. 363; nonché dai rilievi di B. Arditi in Posthegemony, cit.,17-44.
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recenti movimenti globali (dalle “primavere arabe” a occupy fino agli indignados) Kioupkiolis e Katsambekis hanno mostrato, ad esempio, come le due logiche lavorino entrambe in profondità, facendo emergere configurazioni irriducibili a uno solo dei paradigmi in questione41. Parallelamente, sulle insorgenze globali degli ultimi anni sta crescendo una letteratura che potremmo definire “egemonica”, ma che al tempo stesso non concentra tutta la sua attenzione sulle forme istituzionalizzate della politica classica, tenendo invece insieme l’attenzione alle “insorgenze moltitudinarie” con quella alle pratiche egemoniche42. Dai due lati del campo vengono quindi avanti analisi che mettono in positiva tensione il paradigma populista, in un gioco di alternanza di logiche politiche che sembra adatto alle condizioni contemporanee di un panorama politico frastagliato. 5. Il fantasma di Hobbes La quarta e ultima critica si appunta, più che sull’impianto categoriale di Laclau, su quello che sembra un presupposto della sua analisi e che ha finito per condizionarne fortemente la lettura: la centralità dello Stato. Se da una parte è infatti vero che l’impianto laclauiano sembra presupporre un unico spazio politico a disposizione – quello statale-nazionale – caratterizzato da solidi confini (territoriali, istituzionali, culturali) e piena sovranità (politica, economica) – un’ipotesi oggi sempre più difficile da sostenere43 – 41 “Laclau’s ‘uneven power’, ‘logic of equivalence’, ‘representation’ and the dialectic of ‘particularity/universality’ are alive and kicking amidst the constituent politics of the multitude” (A. Kioupkiolis, A Hegemony of the Multitude. Muddling the Lines, in A. Kioupkiolis, G. Katsambek (a cura di), Radical Democracy and Collective Movements Today, cit., p. 162). Stessa cosa fa Katsambekis: “My hypothesis is that we might not even have to choose between the two categories, since collective subjects do not crystallize into stable concrete entities but are rather mercurial in form and in action and can manifest themselves in diverging ways” (G. Katsambekis, The Multitudinous Moment(s) of the People. Democratic Agency Disrupting Established Binarisms, in Ivi, p. 177). 42 Cfr. J. Chalcraft, Popular Politics in the Making of the Modern Middle East, Cambridge University Press, Cambridge 2016; B. De Smet, Gramsci on Tahrir: Revolution and counter-Revolution in Egypt, Pluto Press, London 2015 e A. Kioupkiolis e G. Katsambekis (a cura di), Radical Democracy and Collective Movements Today, cit. Anche Arditi cerca di “supplementare” l’egemonia laclauiana con altre logiche politiche nel già citato Post-hegemony. 43 “[Laclau] si trova costretto a “presupporre” uno spazio economico “nazionale”, sostanzialmente impermeabile agli attori esterni, e dunque a immaginare una “sovranità” anche economica analoga a quella che immaginavano i teorici della
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è però anche vero che queste, che sembrano precondizioni dell’emersione di una logica egemonico/populista, non sono in realtà mai esplicitate nei testi di Laclau, che in alcuni passaggi sembra invece alludere a una politica fuori dallo Stato. Procediamo con ordine e vediamo come il problema dello spazio politico presupposto dal populismo sia definito in primo luogo dall’unico soggetto considerato politicamente legittimo: il popolo. C’è una domanda che attraversa tutta la ricostruzione della parabola del marxismo teorico fatta in ESS: perché l’unità politica dev’essere necessariamente un’unità di classe? Gli argomenti portati a favore di questa desostanzializzazione del discorso marxista insistono tutti sul superamento di uno schema teleologico, legato a una congiuntura storica specifica che aveva visto l’emergere della classe operaia. Liberarsi di questo schema permette a Laclau e Mouffe di far emergere la logica della contingenza e quella dell’articolazione come principi di ogni costruzione politica. Seguendo questa stessa logica – quella dell’offuscamento della contingenza e dell’articolazione da parte di un presupposto teleologico derivato da una contingenza storica – una domanda simile può essere rivolta all’impianto di RP: perché l’unità politica deve essere necessariamente un’unità “popolare-nazionale”, caratterizzata da un’identità forgiata sulla vicenda storicamente specifica dello Stato nazione? Perché il tipo di unità politica non suturata che Laclau presenta può innestarsi solamente sul paradigma hobbesiano e non invece costituirsi su altre forme originali di aggregazione sociale come quelle federaliste, universaliste o internazionaliste44? La genesi stessa del popolo in Hobbes non testimoniava della sua artificialità, della sua finzione come strumento concettuale per mettere in forma una particolare situazione di crisi (quella dettata dalle guerre di religione)? Il rischio di considerare il popolo – e quindi le sole domande popolari come legittime e il solo populismo come loro traduzione politica – l’udipendenza quando auspicavano l’indebolimento dei legami con i Paesi industrializzati e un’industrializzazione sostitutiva delle importazioni; in secondo luogo, perché sopravvaluta il nodo della effettiva capacità dello Stato di agire sul terreno economico, consolidando nel tempo la propria egemonia. Ed è invece proprio con questi problemi che si sono trovati a fare i conti tutti i nuovi regimi di sinistra latinoamericani” (D. Palano, In nome del popolo sovrano?, cit., p. 183). 44 Volendo solamente nominare degli esempi concreti, la logica populista potrebbe fruttuosamente confrontarsi con la sperimentazione politica federalista del Rojava, con i richiami tuttora presenti all’internazionalismo socialista e comunista, con movimenti come il bolivarismo o il panafricanismo, e addirittura trovare connessioni con un universalismo politico come quello della Chiesa cattolica nella nuova veste datagli da Papa Francesco.
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nica forma possibile di aggregazione politica è quindi, ancora una volta, quello di attivare un essenzialismo, non più di classe ma “di popolo”, non determinabile politicamente ma fissato preventivamente. Così facendo, le forme nelle quali questa logica si può esplicitare vengono rigidamente definite sulla base di elementi presupposti (lo spazio nazionale, la figura del leader), come la successione storica degli esperimenti populisti descritti in RP sembra confermare, limitando la gamma possibile delle logiche populiste (a questo punto da identificarsi come articolatorie) disponibili per una pratica di lotta ed emancipazione. Su questo piano, occorre dire che ESS mantiene ancora quelle possibilità di immaginazione politica, quell’apertura che in RP sembra invece destinata a chiudersi con la strategia populista: In termini politici, questo significa che proprio come non si danno superfici privilegiate a priori per l’emergenza degli antagonismi, non si danno nemmeno regioni discorsive che il progetto di una democrazia radicale debba escludere a priori come possibili sfere di lotta. Le istituzioni giuridiche, il sistema educativo, le relazioni lavorative, i discorsi di resistenza delle popolazioni marginali costruiscono forme originali e irriducibili di protesta sociale, e contribuiscono così a tutta la complessità e ricchezza discorsiva su cui dovrebbe fondarsi il programma di una democrazia radicale45.
Come si evince da questa citazione, in ESS lo spazio per la sperimentazione di forme politiche nuove, all’interno di una democrazia radicale, è chiaramente aperto. Quando affrontano il tema dell’autonomia in relazione all’egemonia – del problema se la seconda costituisca un pericolo per la prima – Laclau e Mouffe esplicitano infatti come le diverse lotte che devono trovare una forma di articolazione (anti-razzismo, anti-sessismo, anticapitalismo) non debbano farlo necessariamente nella forma del partito o di un’altra forma istituzionale definita a priori. Il punto centrale, lì, è che per mantenere l’apertura del sociale, per sancire il postulato della sua impossibile chiusura da parte di ogni logica politica, non solo le identità devono essere pensate come mai definitivamente acquisite (contingenti), ma anche le loro forme organizzative devono essere plurali. L’apertura all’innovazione istituzionale, oltre che a quella delle identità dei soggetti, viene in questo caso rivendicata con forza: “l’egemonia è un tipo di relazione politica e 45 ESS, pp. 282-283. Anche Palano rileva come in ESS la pluralità degli antagonismi permetta l’apertura del campo politico, mentre RP “tende a chiudere la pluralità degli antagonismi all’interno dello spazio unitario del populismo” (D. Palano, Il principe populista. La sfida di Ernesto Laclau alla teoria radicale, in M. Baldassari, D. Melegari (a cura di), Populismo e democrazia radicale, cit., p. 260).
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non un concetto topografico, è chiaro come essa non possa essere concepita come un’irradiazione di effetti da un punto privilegiato”46. Questa “laicità” rispetto alle forme dell’organizzazione politica non è – come si tende a pensare – una caratteristica della sola fase iniziale del pensiero di Laclau. Nonostante gli esempi storici presenti in RP si concentrino tutti su partiti che mirano alla conquista dello Stato (Italia, Cina, Jugoslavia, Argentina, Turchia), in altri contesti discorsivi Laclau considera l’investimento sul solo partito come un limite: “Il PCI fu senza dubbio una potente forza di democratizzazione della società italiana durante i due decenni che seguirono la guerra, ma il momento di articolazione tra le lotte nella politica comunista fu concepito esclusivamente all’interno della forma-partito”47. Se si guarda poi allo Stato, ci si accorge che l’unica definizione che ne viene data è talmente ampia da minare il riferimento al significato storico del termine: Quando diciamo “Stato” ci riferiamo ad un concetto che indica una funzione ordinatrice all’interno di una formazione sociale. Può essere lo Stato-nazione, ma non necessariamente solo questo, può anche riguardare uno Stato sovranazionale, oppure una serie di funzioni ordinatrici che non hanno nulla a che vedere con la dimensione pubblica nel senso stretto del termine48.
Davanti alle mobilitazioni transnazionali che agli inizi degli anni 2000 venivano etichettate come “seconda potenza mondiale”49, Laclau sembra addirittura aprire alla possibilità di un populismo sovranazionale, mettendo in questione ancora una volta la forma-partito: “Sta emergendo così un nuovo internazionalismo, che però rende obsolete le tradizionali forme istituzionali della mediazione politica. L’universalità della forma ‘partito’, 46 ESS, p. 222. Non mi sembra sia mai stata rilevata un’altra differenza sostanziale tra ESS e RP, che concorre a testimoniare la chiusura da parte del secondo dello spazio politico aperto dal primo: se in ESS il concetto di egemonia emerge dal travaglio teorico del marxismo, in RP il concetto viene invece derivato dalla storia delle scienze sociali “borghesi” come la psicologia delle folle e l’antropologia criminale. Questa diversa genealogia, sulla quale Laclau si sofferma a lungo in entrambi i volumi (cfr. ESS, pp. 43-154; RP, pp. 5-60), non è certo neutra: lo sguardo sulla folla è infatti, sin dall’origine, lo sguardo che il potere dominante esercita sulla folla, forgiando gli strumenti teorici e tecnici per governarla; la politica egemonica nasce invece all’interno del discorso dei dominati, come strumento per mettere in forma la sovversione tipica di quello stesso soggetto che il potere aveva visto come folla. 47 E. Laclau, Logica e strategia del popolo. Intervista a Ernesto Laclau, cit., p. 20. 48 Ivi, p. 22. 49 P.E. Tyler, A New Power in the Streets, in “New York Times”, 17 February 2003.
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per esempio, è messa oggi radicalmente in questione”50. Degna di nota è anche la chiusura di RP dove, dopo l’analisi di casi storici come il populismo americano, il movimento kemalista e il peronismo, è presente un invito a non “sostanzializzare” il populismo in un canone teorico, in una strategia fissa che separi ciò che è populista da ciò che non lo è: “esistono moltissime altre combinazioni e possibilità”51. Chiedere quindi all’impianto teorico laclauiano, come a volte anche Laclau sembra fare, di “rapprendersi” in una strategia politica vuol dire invalidare uno dei suoi presupposti, quello fondamentale e radicale, ovvero l’impossibilità di fissare a priori il luogo di emergenza degli antagonismi, i soggetti a loro propri, le catene di equivalenza all’interno delle quali la loro identità verrà riformulata, e in definitiva il carattere stesso della loro articolazione. Anche a discapito di una certa assertività delle formulazioni concettuali, della presenza costante di una logica ferrea che sembra non permettere formulazioni alternative, e di alcune affermazioni che sembrano ridurre tutto lo spettro della politica all’interno del framework populista, è infine degno di nota come RP non si chiuda con l’appello alla costruzione di fronti populisti, ma con l’identificazione dell’unico elemento comune alle pratiche populiste, ovvero quello del rapporto permanente e conflittuale tra logiche della differenza e logiche dell’equivalenza. 6. Conclusione Le intuizioni di Laclau utili per una politica dei dominati sono innumerevoli, e l’analisi di alcune criticità non deve sminuirne l’importanza. Di queste intuizioni vale la pena menzionare la catena di equivalenze come dispositivo in grado di descrivere potentemente l’accumulo di forza che si genera quando si articolano battaglie e soggetti diversi. Un’attenzione particolare deve in questo caso essere dedicata al fatto che l’identità di un soggetto che si esprime in una domanda muta quando questa domanda si articola con altre domande. Questo significa, da una parte, che non esiste un unico popolo che può essere potenzialmente costruito; dall’altra, che l’equivalenza non costituisce un’omologazione, che non si tratta di una diminutio dell’identità, ma di una sua specifica espansione/trasformazione. La creazione del popolo, o meglio, in termini più generali, la verticalizzazione delle istanze degli esclusi, è un atto di creazione politica non deter50 RP, p. 219. 51 Ivi, p. 209.
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minato e non determinabile a priori, che riformula le identità e al tempo stesso mantiene il carattere parziale delle domande52. Una seconda intuizione fondamentale è quella della frontiera che divide il campo politico – un’immagine che richiama, oltre Schmitt come sua fonte principale53, anche lo “spirito di scissione”54 già gramsciano e prima ancora soreliano – e che è alla base dell’articolazione antagonista. Mettere a frutto politicamente il negativo che c’è in ogni costruzione soggettiva non significa in questo caso ridurre il soggetto a pura negatività, definirlo in soli termini reattivi, ma riconoscere la potenza politica del rifiuto che fa da sfondo alle costruzioni egemoniche, pur non determinandone il contenuto specifico. Pare infine assai fruttuosa la creazione o la riformulazione – di origine linguistica e psicanalitica – di nozioni come significante vuoto, significante fluttuante e punti nodali, che identificano bene le cristallizzazioni discorsive, di significazione – e per questo di realtà –, attraverso le quali si solidificano gli immaginari politici, l’orizzonte di pensabilità, le capacità trasformative dei soggetti politici, mentre al tempo stesso sanciscono la loro provvisorietà, la loro dipendenza dalle configurazioni di potere che le sorreggono, quindi il loro possibile collasso e la loro possibile riarticolazione. Date queste acquisizioni – senza mai dimenticare quella principale, ovvero il processo di de-essenzializzazione del marxismo che ESS ha avuto il merito di stimolare –, e date le critiche presentate in questo saggio, si possono quindi azzardare una serie di condizioni per un fruttuoso “decentramento del populismo”. La prima è quella di non cedere alla semplificazione di un’unica teoria del potere che spieghi sia le forme di dominio esistenti sia quelle del suo possibile rovesciamento, lavorando allo stesso tempo a un impianto che non confonda il dominio con la pura sedimentazione delle pratiche e la sua contestazione esclusivamente con la loro riattivazione. Si tratta in questo 52 “Chiamiamo articolazione tutte quelle pratiche che stabiliscono una relazione tra gli elementi tale che le loro identità si modifichino come conseguenza della pratica articolatoria” (ESS, p. 171). “Se l’articolazione è una pratica e non il nome di un complesso relazionale dato, deve implicare una qualche forma di presenza separata degli elementi che quella stessa pratica articola o ricompone” (ESS, pp. 155-156). 53 Laclau cita raramente Carl Schmitt (cfr. FRS, pp. 236-241) anche se è indubbia l’influenza del giurista tedesco su alcune sue formulazioni. Chantal Mouffe ha invece riconosciuto più volte l’influenza di Schmitt sulla sua proposta di una politica agonistica (cfr. C. Mouffe, Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti (2005), Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 12-19; Id., The Democratic Paradox, Verso, London 2000, pp. 36-59; Id. (a cura di), The Challenge of Carl Schmitt, Verso, London 1999). 54 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, p. 333 (Q3§49).
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caso di un’accortezza in grado, da una parte, di mantenere una differenza sostanziale tra oppressione ed emancipazione (o più correttamente di liberazione), che concepisca la seconda come qualcosa di significativamente diverso dal mero rovesciamento dei rapporti di forza; dall’altra, di non limitare il campo e le regole della politica alle forme presenti di organizzazione del potere, lasciando campo aperto all’innovazione. Tornare alla fonte principale del discorso di Laclau può in questo caso essere d’aiuto: lo stesso Gramsci aveva ragionato tenendo a mente questo problema. Non riguardano infatti questa duplicità del potere i tentativi di tenere insieme la divisione governanti/governati e il suo superamento, l’“intellettuale tradizionale” come funzionario e l’asserzione che “ogni uomo è intellettuale”, la realtà della “legge ferrea dell’oligarchia” e il progetto di un “moderno Principe”, la crescente burocratizzazione degli apparati e il metodo della “filologia vivente”55? Il cantiere a cielo aperto dei Quaderni del carcere fornisce probabilmente meno risposte politiche immediate dell’edificio ben costruito di Laclau, ma dai Quaderni si può trarre un’indicazione di metodo essenziale se si vogliono, proseguendo con la metafora, gettare buone fondamenta. Con Gramsci, occorre allora tenere insieme il realismo degli attuali processi politici di dominio con le potenzialità innovatrici (anch’esse profondamente realistiche) dei soggetti che lottano per la propria liberazione. Il problema torna a essere quello, in un certo qual modo classico, del marxismo novecentesco: le forme di potere dei dominanti devono essere le stesse forme di potere messe in atto dai dominati per combattere il dominio di quelli? Lo stesso concetto di egemonia in Gramsci manteneva l’ambiguità di una nozione che aveva il suo campo di emergenza nella politica dei dominanti, attraverso l’analisi dei moderati nel Risorgimento. Il passaggio da una politica egemonica a una controegemonica, segnatamente, non viene infatti mai formalizzato nel testo gramsciano, al punto che si possono rintracciare, distinte ma intrecciate, tanto una teoria politica dell’egemonia dei dominanti, quanto una potenziale contro-egemonia dei gruppi subalterni, quanto ancora una generale teoria dell’egemonia che abbraccia entrambe56. È questo un segnale ulteriore di un nodo di problemi che non può 55 Su questi temi mi si consenta il riferimento a M. Filippini, Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società, Carocci, Roma 2015, p. 188. 56 Cfr. V. Gerratana, Stato, partito, strumenti e istituti dell’egemonia nei “Quaderni del carcere”, in B. De Giovanni, V. Gerratana, L. Paggi, Egemonia, Stato, partito in Gramsci, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 37-54; Id., Le forme dell’egemonia, in Id., Gramsci, problemi di metodo, Editori Riuniti, Roma 1997, pp. 119-126.
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essere facilmente sciolto, perché le due strategie condividono il campo del politico, ma una delle due deve fare i conti con le determinazioni implicite nel dominio dell’altra57. Una seconda condizione riguarda lo statuto del populismo/egemonia, che da una parte non deve essere considerato una strategia ma una logica, dall’altra deve abbandonare le velleità totalizzanti che lo vogliono come unica logica politica possibile. Se infatti pensiamo il populismo/egemonia come una logica politica, e come una fra le possibili logiche politiche, allora le sue caratteristiche contingenti, i caratteri specifici della sua emergenza, non sono più dei limiti da riportare all’interno di uno schema predefinito, ma possibilità di innovazione. Il fatto che la logica egemonico/populista sia una delle logiche politiche in azione, ma non l’unica e non necessariamente la più importante, permette di conseguenza l’elaborazione di una molteplicità di strategie politiche, che possono variare in funzione della fase politico-economica, del tipo di trasformazioni che il capitalismo sperimenta, del livello di organizzazione dei soggetti, ecc. Quando la logica egemonico/populista racchiude invece al suo interno, e al tempo stesso spiega completamente, tutte le possibili configurazioni politiche, allora la strategia dei dominati viene in qualche modo già fissata, segnata univocamente dalle costanti indiscusse del “campo politico” che, pur permettendo infinite variazioni, nondimeno riproduce sempre la stessa forma di articolazione58. La terza condizione consiste nel prendere sul serio il rilievo di Laclau, che abbiamo già citato, sulla non necessaria centralità dello Stato in un progetto politico egemonico/populista. Questa apertura a diverse forme possibili di organizzazione politica ci permette di immaginare tale logica anche fuori da quello specifico contenitore istituzionale. Diventa così possibile, da una parte, immaginare attivazioni populistiche a livello micro (municipali o urbane) o macro (continentali); dall’altra, pensare un progetto di liberazione nella forma plurale di un sistema di istituzioni (nel senso ampio del temine) all’interno del quale lo Stato nazionale giochi certamente un ruolo, ma non necessariamente quello centrale. 57 Ho provato ad approfondire questo problema in Gramsci rispetto alla concezione della temporalità nel capitolo dal titolo Temporality in M. Filippini, Using Gramsci, cit., pp. 105-21. 58 Mi sembra questo il limite più vistoso di RP, dove Laclau, pur definendo il populismo una “logica politica” (RP, p. 111), in realtà poi lo sostanzia con una serie di esempi che restringono fortemente l’applicabilità di questa logica, fornendo di fatto una singola strategia. Laclau finisce così per tracciare uno solo dei possibili movimenti strategici che creano la logica populista.
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La quarta e ultima condizione ha a che vedere con lo statuto teorico dei soggetti politici. Nei testi di Laclau il soggetto sembra infatti essere ricavato solo negativamente, ovvero come emergenza in opposizione a qualcosa che ha invece uno statuto positivo. Tale procedimento non riguarda solamente l’identificazione di un nemico come condizione per la propria costituzione, ma anche la definizione stessa del soggetto come segno dell’impossibilità dell’oggettività. Il soggetto, così definito, finisce però per essere considerato come un effetto, un sottoprodotto del tentativo di stabilizzare un’oggettività data. Laclau sembra riprendere così, inconsapevolmente, uno degli elementi caratteristici del marxismo ortodosso, ovvero l’immagine di una classe operaia come elemento derivato del capitale, non solamente nel senso di prodotto necessario alla sua riproduzione, ma come elemento storicamente e logicamente dipendente. Da questa impostazione derivava una storia lineare il cui protagonista unico era il capitale nelle sue varie forme, una storia dalla quale era stato espunto – o al massimo considerato dialetticamente come un’antitesi alla quale seguiva necessariamente una sintesi – ogni elemento soggettivo alternativo59. Il fatto che ogni soggettività all’interno dell’impianto laclauiano “non può essere oggettiva, ma si costituisce solamente sui bordi frastagliati della struttura”60, se da una parte ci dice – giustamente – che non esiste una posizione oggettiva centrale del sistema (e del suo rovesciamento), dall’altra però – pericolosamente – concede a tale struttura la determinazione in ultima istanza su ogni posizione soggettiva antagonista. La storia non sarebbe altro, in questo caso, che la successione delle storie del dominio. Una possibile via d’uscita da questo vicolo cieco – quello che vede la soggettività e la sovversione solamente come effetto della struttura – può essere quella di problematizzare il concetto di oggettività che Laclau usa, ricorrendo ancora una volta a Gramsci. Ha infatti senso descrivere in maniera così rigida un’oggettività? O non è forse vero che il campo sociale vede diverse oggettività in conflitto (che a volte sono anche poteri in conflitto), che insistono su diversi ambiti (politico, economico, geografico, psichico, ecc.), non sempre frutto dell’intenzione soggettiva di un gruppo dominante ma come risultato di meccanismi, operazioni, intenzioni e poteri che si scontrano? Davvero l’oggettività è interrotta solamente dall’emersione di soggetti nei punti di fallimento 59 Una rottura radicale con questo modo di intendere la classe operaia all’interno del capitalismo avanzato era stata l’inversione di tale rapporto a opera dell’operaismo: cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966; Id., Il demone della politica, Il Mulino, Bologna 2017. 60 NR, p. 61.
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(della chiusura) del sistema? Se è così, allora, qual è la consistenza di quei soggetti, che pure esistono, che si trovano a essere partecipi di diverse oggettività, esprimendo magari pienezza in una e dislocazione in un’altra? In breve, Laclau sembra qui sottovalutare l’indicazione gramsciana secondo la quale “l’assedio è reciproco”61, ovvero che ci sono diverse oggettività in conflitto che solo parzialmente riescono a egemonizzare il campo sociale. L’invito che conclude queste riflessioni è allora quello di considerare la logica egemonico/populista di Laclau come una teoria aperta, un cantiere sul quale si può e si deve continuare a lavorare. Le quattro mosse qui suggerite – diversificazione delle teorie del potere, compresenza di logiche politiche diverse, immaginazione istituzionale oltre lo Stato e concezione più “articolata” della soggettività politica – vogliono essere un tentativo di approfondimento e allargamento di questa teoria, per scongiurarne una malaugurata ma sempre possibile cristallizzazione.
61 “Si passa alla guerra d’assedio, compressa, difficile, in cui si domandano qualità eccezionali di pazienza e di spirito inventivo. Nella politica l’assedio è reciproco, nonostante tutte le apparenze e il solo fatto che il dominante debba fare sfoggio di tutte le sue risorse dimostra quale calcolo esso faccia dell’avversario” (A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 802 [Q6§138]).
Fortunato Maria Cacciatore
MOMENTO POPULISTA E RESTO DEMOCRATICO-RADICALE
[…] il populismo potrebbe rappresentare alla fine la strada maestra per comprendere qualcosa circa la costituzione ontologica del politico in quanto tale (RP, p. 63) Ma dobbiamo allora dire che il politico è sinonimo di populismo? (RP, p. 146).
1. Tutto pare dipendere da alcune “decisioni teoriche” ricapitolate nelle osservazioni conclusive di La ragione populista1. Decisioni teoriche che, in quanto decisioni, avranno inevitabilmente condizionato la teoria decisa, ridefinendola nel corso stesso dell’indagine (e, ancora, alla sua fine). Decisioni che, per quanto teoriche, non si saranno fondate su nessun “principio a priori esterno”, sebbene siano state prese, come sempre accade, entro i limiti di pratiche sedimentate e di cornici normative storicamente determinate2. Decisioni non solo teoriche, quindi, ma etico-politico-teoriche3. 1 2 3
RP, p. 211. DSS, pp. 86 e 82. Può valere qui ciò che Laclau dice a proposito dell’egemonia come “approccio teorico”: quest’ultimo “poggia sulla decisione essenzialmente etica di accettare, come orizzonte di ogni intellegibilità, l’incommensurabilità tra l’etico e il normativo (che include anche il descrittivo)” (DSS, p. 83). Ma, proprio perché etico e normativo-descrittivo sono incommensurabili, diviene necessario articolarli (egemonicamente), ovvero negoziare questa incommensurabilità. In tal senso scrive ancora Laclau: “Una teoria dell’egemonia non è […] una descrizione neutrale di ciò che sta accadendo nel mondo, ma una descrizione la cui stessa condizione di possibilità è un elemento normativo che governa, sin dall’inizio, qualsiasi comprensione dei ‘fatti’” (DSS, p. 83). È, infine, Laclau stesso (siamo nel 2000) ad ammettere come “nel passaggio dal marxismo classico all’‘egemonia’, e da quest’ultima alla ‘democrazia radicale’” abbia luogo “una estensione dell’area
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Avranno deciso, fra l’altro, l’interpretazione e l’uso del termine “popolo” che, nel testo di Laclau, compare sempre iscritto tra apici che sembrano sorvegliarne il carattere essenzialmente politico (nel senso che il “popolo” si costituirebbe in assenza di ogni “substratum ultimo”, ovvero di ogni essenza preliminare al processo della sua costruzione)4. Decisioni teoriche, al plurale. Ma quella più decisiva avrà ritagliato, nel discorso stesso della ragione populista, un ruolo costitutivo all’eterogeneità sociale, complicando altre decisioni non necessariamente o, comunque, non immediatamente compatibili con essa. Ad esempio, quella che indica nella “frontiera”, intesa in un certo modo, lo schema di formazione dei soggetti o degli attori collettivi dell’emancipazione. Non si tratterà semplicemente di segnalare eventuali contraddizioni nel discorso di Laclau, ma di leggerlo così come egli (con Mouffe) ha suggerito di rileggere i testi dell’eredità marxista: Il nostro approccio ai testi marxisti ha […] tentato di riscoprire la loro pluralità, di comprendere le numerose sequenze discorsive – in misura considerevole eterogenee e contraddittorie – che costituiscono la loro struttura e ricchezza interna e ne garantiscono la sopravvivenza come punto di riferimento per l’analisi politica5.
In questo intervento, proverò a mostrare come la decisione per l’eterogeneità comporti sempre un resto democratico-radicale, precisando che l’attributo non si limita a qualificare il progetto elaborato in Egemonia e strategia socialista6. Continua anzi a circolare nelle argomentazioni di
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del progetto descrittivo/normativo” cui non sarebbe seguita, nel suo lavoro, una “estensione dell’area dell’argomentazione normativa”. “In altre parole, nel formulare un progetto politico che si rivolga a una nuova situazione, la dimensione descrittiva è avanzata più rapidamente di quella normativa. Penso che questa sia una critica valida […]” (DSS, p. 295). Se contribuiscono a isolare graficamente la politicità del “popolo”, gli apici attestano anche il rischio inevitabile di confusioni con i suoi omonimi pre-politici (etnici, nazionali, culturali). E bisogna riconoscere (tenere e rendere conto del fatto) che, nella lotta e nella comunicazione politiche, e in determinate congiunture storiche, il popolo senza apici (l’ethnos se si vuole) risulta più immediato e efficace del “popolo” (e poco importa se i suoi sostenitori credano nella sua realtà oppure no). ESS, p. 41. Mi sembra, tuttavia, importante riprendere alcune questioni aperte da ESS e rileggerle tra le righe di RP (e viceversa). Si rileggano anche le pagine di PI, precisamente quelle del capitolo intitolato Towards a Theory of Populism, là dove Laclau precisa: “con democrazia non intendiamo niente che abbia una relazione necessaria
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Laclau, impedendo la chiusura unilaterale tanto del momento populista quanto del momento istituzionalista7. Riemerge e insiste soprattutto quando le ipotesi euristiche e i requisiti teorici8 che permetterebbero di pensare e costruire il “popolo” (del “populismo”) devono riconfigurarsi rispetto alle loro “condizioni storiche”: con il valore storico, differenziale, “fluttuante” di ogni significante e con le circostanze in cui il nome stesso – “popolo” – e i suoi sinonimi divengono, a loro volta, la posta in gioco della lotta per l’egemonia. È un resto nel senso che ogni costruzione politica (comprese quelle democratico-popolari o democratico-liberali) sono essenzialmente incomplete per l’eterogeneità che esse articolano sempre solo parzialmente; è democratico-radicale nel senso che a restare in gioco, per Laclau, sono sempre le capacità collettive (teoriche, storiche, strategiche) di espandere le lotte “popolari” (democratiche) per l’emancipazione e di trasformare in tal senso le istituzioni. Nella tradizione del pensiero occidentale, l’associazione fra eterogeneità e democrazia risale per lo meno a Platone. Nella Repubblica, la poikilia (diversità, varietà, come nella variegatura colorata della superficie di un artefatto, un ricamo ad esempio, ma anche astuzia, scaltrezza) designa, negativamente in questo caso, il carattere della vita e della politeia democracon le istituzioni parlamentari liberali. […] intendiamo qualcosa di più che misure […] per stabilire libertà civile, uguaglianza e auto-governo […] intendiamo […] un insieme di simboli, valori […] attraverso i quali il ‘popolo’ diviene consapevole della sua identità mediante il suo blocco di potere” (PI, pp. 107-108). 7 E. Laclau, Institucionalismo y Populismo, in https://lalineadefuego. info/2012/09/07/institucionalismo-y-populismo-por-ernesto-laclau/. Nel “discorso corrente dei settori conservatori (ma non solo di questi ultimi)” – si legge in questo articolo – l’“istituzionalismo” si presenta come “condizione necessaria di ogni politica coerente e razionale”, mentre il “populismo” appare come “il regno della manipolazione ideologica, del personalismo e dell’arbitrarietà”. Per Laclau, i due poli possono apparire “nella loro purezza”, solo se assunti come i termini di una mera dicotomia e, tutto sommato, solo attraverso una “riduzione all’assurdo”. Nella pratica, non si dà un “istituzionalismo” tanto completo da eludere definitivamente la “costruzione di identità popolari antisistema”, né si dà un “populismo tanto puro” da abbandonare ogni “ancoraggio istituzionale”. Ne deriverebbe la seguente “morale”: “qualsiasi processo di trasformazione del rapporto di forze nel campo sociopolitico non può verificarsi senza una profonda riforma delle istituzioni”. Su questo problema si veda il saggio di M. Filippini nel presente volume. 8 I “requisiti” cui faccio riferimento sono, in breve, i seguenti: “(l) la formazione di una frontiera interna antagonistica che separa il “popolo” dal potere, (2) un’articolazione equivalenziale delle domande che rende infine possibile l’emergenza del ‘popolo’”. C’è poi, aggiunge Laclau, un “terzo requisito” che “non si realizza appieno finché la mobilitazione politica non ha raggiunto un livello più alto: l’unificazione delle varie domande […] in un sistema stabile di significazione” (RP, p. 68).
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tiche in congiunzione con l’anarchia (la democrazia è detta kai anarchos kai poikile, 558c). Principio della democrazia è la libertà (eleutheria sempre sospesa sulla soglia della exousia, la licenza) che si afferma e istituzionalizza quando vincono i poveri (otan oi penhetes nikhesantes). Dopo questa rottura (“populista” potrebbe dirsi), le magistrature cominciano a essere “determinate per lo più col sorteggio” (557a) e l’uguaglianza viene dispensata “indifferentemente a uguali e ineguali” (558c). Si manifesta così l’eterogeneità antropologica e politico-istituzionale che colorisce, è il caso di dire, la descrizione ironica di Platone. La poikilia non designa una mera dispersione, ma un tessuto complesso che tiene insieme il disparato e, perciò, suscita attrazione e repulsione. Nella sua singolarità, la democrazia pare comprendere e mescolare al suo interno qualsiasi altro tipo di politeia, compresa se stessa. E l’uomo (anēr) democratico assume, tra molte altre figure, le sembianze di chi cittadino non è ancora o non può esserlo affatto: quelle del bambino o della donna affascinati e catturati dalle composizioni variopinte. È Socrate a parlare: dove c’è questa licenza, è chiaro che ciascuno può organizzarvisi un suo particolare modo di vita, quello che a ciascuno più piace […] Forse […] tra le varie costituzioni questa è la più bella. Come un variopinto mantello ricamato a fiori di ogni sorta, così anche questa, che è un vero mosaico di caratteri, potrà apparire bellissima. E bellissima […] saranno forse molti a giudicarla, simili ai bambini e alle donne che contemplano gli oggetti di vario colore (557 b-c). […] Chi […] vuole organizzare una polis, forse è costretto a recarsi in uno stato democratico per sceglierne, come se andasse a una fiera di costituzioni, il tipo che gli piace […] (557d). [L’uomo democratico o egalitario] vive giorno per giorno compiacendo così il primo appetito che capita […]: ora si sbornia e suona l’aulos per poi bere acqua e dimagrire, ora fa ginnastica per poi rimanersene pigro […], ora fa mostra di interessarsi di filosofia. Spesso si dà alla politica e salta su a dire e a fare qualunque cosa gli passi per la testa […] (560c-d).
In questi passaggi, il pluriverso democratico (antropologico-politico) appare prodotto e riprodotto dall’affermazione di una parte (sebbene maggioritaria per numero), i poveri, sulla minoranza di coloro che per natura, merito o censo sarebbero gli unici riconoscibili come cittadini. Nella scrittura di Laclau, come vedremo, l’eterogeneità sociale si dà come pluralità e alterità inassimilabili rispetto a ogni progetto di riunificazione politica. Non si identifica con la democrazia in astratto, né è predestinata a una politica dell’emancipazione democratica. E, però, l’eterogeneità di Laclau
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implica la proliferazione, la dispersione fluttuante di “domande democratiche” che si esprimono sempre (ecco una decisione che duplica quella per l’eterogeneità) come domande di egaliberté9. Vale a dire: come richieste indirizzate al “sistema” dagli underdog10. Se non è garantito che la costruzione politica del “popolo” proceda in senso democratico (ad esempio, verso una politeia democratico-liberale che è un’articolazione storica e, dunque, finita), il “popolo” secondo la “ragione populista” richiede sempre un appello all’espansione egalibertaria e, dunque, la destabilizzazione delle frontiere esistenti. Ma ecco le decisioni in questione: Pensare il ‘popolo’ come categoria sociale richiede una serie di decisioni teoriche che abbiamo preso nel corso della nostra indagine. Forse quella cruciale concerne il ruolo costitutivo che abbiamo attribuito all’eterogeneità sociale. Se non le assegnassimo questo ruolo, l’eterogeneità potrebbe essere concepita, nella sua opacità, come la forma soltanto apparente di un nocciolo che, in sé sarebbe invece omogeneo e trasparente11.
L’eterogeneità sociale sarebbe, invece, “primaria e irriducibile”: non solo perché plurale o molteplice, ma perché sempre in eccesso rispetto ai tentativi di chiudere in un tutto la comunità, la società, la nazione, la cultura… Se è così, allora il “popolo”, a sua volta, non è concepibile come un dato, ma solo come una “categoria politica”, cioè come “costruzione contingente del legame sociale”12. Il termine “popolo” non designa una entità 9
Faccio mia la parola composta (mot-valise) coniata da Balibar in una conferenza intitolata “La proposition de l’égaliberté” (“Les conferences du Perroquet”, Paris 1989); il testo, ampliato e rielaborato, si può leggere ora in Id., La proposition de l’égaliberté, PUF, Paris 2015. 10 Scrive Laclau nell’appendice al quarto capitolo di RP (p. 118 ss.): “con ‘democratico’ non intendo in questo contesto, nulla che abbia a che fare con un regime democratico”. Le “uniche proprietà” che le “domande democratiche” avrebbero in comune con “la nozione più usuale di democrazia” (ma è già tanto) sarebbero secondo Laclau: “(1) che esse sono avanzate al sistema dai derelitti (underdogs), ed è implicita in esse una dimensione egalitaria; (2) che la loro stessa emergenza presuppone un qualche tipo di esclusione o di deprivazione […]”. Dunque, le “domande democratiche” non sono “teleologicamente destinate a trovare una articolazione politica determinata”. In ogni caso, il legame tra le demand (come unità d’analisi del “populismo”) e il democratico (che si attribuisce loro) appare comunque indissolubile: se, come dice Laclau, il predicato “non fa che ripetere […] ciò che è già incluso nella nozione di domanda”. 11 RP, p. 212. 12 FRS, p. 198.
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presente pre-politica, ma un atto di istituzione e articolazione che compone una nuova agency a partire da una pluralità di elementi eterogenei. Le identificazioni popolari “sono sempre singolarità storiche”13. E il ‘popolo’ “sarà sempre qualcosa di più di una pura opposizione al potere”14. La decisione è fondamentale perché approfondisce lo scarto tra il “popolo” di Laclau e quello degli etno-populismi, o, più in generale, lo distingue dal popolo indifferenziato funzionante ideologicamente al di fuori degli apici che dovrebbero segnalarne la politicità e l’“inerente” dimensione egalibertaria. Quest’ultima, negli etno-populismi, trova la sua misura ultima nei confini tracciati intorno a uno spazio comunitario predefinito, al di fuori di ogni logica della differenza o dell’equivalenza15. L’“omogeneità” del “popolo” è, invece, secondo Laclau, sempre e solo il fissarsi parziale di un “orizzonte” prima o poi dislocato e sovvertito perché essenzialmente storico. In tal senso, la “ragione populista” non si allontanerebbe troppo (malgrado gli inevitabili spostamenti) dalle indicazioni elaborate a proposito del progetto di “democrazia radicale”: qualsiasi “orizzonte”, “centro” o “punto nodale” egemonico può (e deve) essere pensato solo come una “funzione” (si potrebbe aggiungere: come una “finzione” o un “tropo”): non come un ente-presente sempre già situato in un luogo naturale16. Parafrasando ESS: il “popolare” è articolazione perché il “popolo”
13 Ivi, p. 196. 14 RP, p. 144. 15 Si legge in RP (p. 73): “[…] abbiamo due possibili strade per la costruzione del sociale: o attraverso l’affermazione di tante particolarità – che sono, nel nostro caso, domande particolari – , i cui unici legami sono di natura differenziale; o attraverso un parziale venire meno della particolarità, alla luce di un’accentuazione di ciò che tutte le particolarità condividono in maniera equivalenziale. La seconda strada è quella che porta a tracciare una frontiera antagonistica, cosa che la prima non fa. Ho chiamato la prima modalità di costruzione del sociale ‘logica della differenza’, e la seconda ‘logica dell’equivalenza’”. Cfr. ESS, p. 209. 16 Come precisano Laclau e Mouffe in ESS, l’egemonia (ma può leggersi anche: il “popolo” in quanto costruzione politica e, dunque, egemonica) non è una “posizione determinabile all’interno di una topografia del sociale”, ma è “un tipo di relazione politica”. Ne deriva che il blocco egemonico (o “popolare”) non può essere inteso come “centro del sociale” nel senso di espressione o incarnazione di un “principio unitario soggiacente” (ESS, p. 219). Solo decostruendo questo “piano ontologico” (o “strutturale”), sarebbe possibile usare i “concetti dell’analisi classica” (“centro”, “potere”, autonomia”, ad esempio e tutti tra apici) come “logiche sociali contingenti” operanti in “precisi contesti congiunturali e relazionali” e sempre limitate da altre logiche, “spesso contraddittorie”. Nessuna di esse potrebbe mai pretendere a una “validità assoluta” (ESS, pp. 223-224).
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è impossibile17. Per definizione, quindi, il “popolo” non può vincolarsi a nessun dejà-là18 che renderebbe uguali solo coloro che sarebbero titolati in anticipo ad appartenervi. Concesso e non ammesso che i populisti in generale siano “anti-pluralisti”, come ha sancito un autorevole politologo19, Laclau non disconosce mai (nemmeno quando viene in primo piano il momento populista) una premessa (se si vuole una decisione) condivisa con Chantal Mouffe, che potrebbe addirittura definirsi aristotelica: “La pluralità non è il fenomeno da spiegare, ma il punto di partenza dell’analisi”20. Ciò vale anche per ogni processo di identificazione “popolare” (o no?). Certo, questa è solo l’enunciazione di un problema, non la sua soluzione, ma non si potrà fare a meno di tenerne conto. Occorrerà però chiedersi se e fino a che punto l’articolazione egemonica o “popolare” del pluriverso sociale (per quanto parziale e transitoria) possa consentire la riattivazione del resto democratico-radicale. 2. Nel testo di RP, l’eterogeneità stessa appare “variegata” e “molteplice” (multiple). Non è riconducibile a un’unica rappresentazione, né è risol17 Cfr. ESS, p. 185: “Il sociale è articolazione perché la ‘società’ è impossibile”. 18 L’espressione è tratta da A. De Benoist, Populismo. La fine della destra e della sinistra, tr. it. di G. Giaccio, Arianna edizioni, Bologna 2017, pp. 113-114. Scrive De Benoist: “Nel populismo, demos, ethnos e plebs, popolo politico, popolo organico e classi dominate sono strettamente associati”. Per Laclau, il farsi demos o populus del plethos o della plebs non deve necessariamente concatenarsi con qualcosa come un “popolo organico” (e, dal mio punto di vista, non dovrebbe farlo affatto… certo, per una decisione tutta etico-politica). 19 J.-W. Müller, Cos’è il populismo?, tr.it. di E. Zuffada, Università Bocconi Editore, Milano 2017, p. 130. 20 ESS, p. 220. Mi riferisco al Libro II della Politica di Aristotele, là dove si legge: la polis “è per natura una molteplicità” (plethos gar ti then phusin estin he polis) (1261a). Inoltre: non è costituita solo da una pluralità di uomini, ma da uomini “diversi specificamente” (ou monon d’ek pleionon anthropon estin he polis, alla kai ex eidei diapheronton). Aristotele ammette che una polis non potrebbe mai rinunciare del tutto all’“unità”. Ma precisa che non potrebbe mai nemmeno essere del tutto unitaria (nel senso dell’unità dell’oikos, della famiglia, o addirittura di un individuo). Una polis “non nasce da uomini simili (ou gar ghinetai polis ex omoion) […]”. Solo “l’uguaglianza nei rapporti reciproci” (to ison to antipeponthos) può istituirne e salvaguardarne la comunità (ibidem). Si noti che “pluralità” o “molteplicità”, nel testo di Aristotele, sono traduzioni di plethos, che è anche uno dei tanti nomi del “popolo”.
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vibile in una mera antitesi, perché abita nel “cuore” stesso dello spazio omogeneo. Si può definire solo attraverso ciò che rende possibile e impossibile qualsiasi commensurabilità sociale compresa quella scissa dall’antagonismo. Ciò significa che non è definibile in se stessa, ma è possibile solo tentare di individuarla tramite una serie di esempi. Tra queste figure risalta il Lumpenproletariat, che erede dei lazzaroni napoletani e della plebe hegeliana (Pöbel), dà corpo alla “complessità interna” di ogni “fronte popolare” e del suo stesso “strutturarsi”21. Laclau si riferisce per lo più agli scritti che Marx dedica al ciclo rivoluzionario francese 1848-185222 e, in particolare, alle pagine nelle quali l’insieme disparato dei Lumpen riaffiora complicando, con la sua poikilia, non solo lo schema dicotomico della lotta tra borghesia e proletariato (come classe operaia organizzata), ma anche l’interpretazione dello Stato (che, ormai, solo forzatamente poteva essere inteso come espressione di un’unica classe dominante e come privo di ogni autonomia rispetto alla classificazione economico-sociale). Rifiuto di tutte le classi, il Lumpenproletariat si manifesta tra i “vagabondi” e i “delinquenti”, tra la “gens sans feu et sans aveu” reclutata dal governo provvisorio, dopo la rivoluzione del febbraio 1848, per “opporre una parte degli operai all’altra”23. Entra poi nella composizione dell’elettorato di Luigi Bonaparte e, in particolare, ingrossa la base della Società del 10 dicembre al suo servizio:
21 RP, p. 144. Nella sua argomentazione, Laclau (RP, pp. 135 ss.) lascia ampio spazio a un saggio di P. Stallybrass, Marx and Heterogeneity: Thinking the “Lumpenproletariat”, in “Representations”, 31 (Special Issue: The Margins of Identity in Ninenteenth-Century England), 1990, p. 81. Scrive Stallybrass: “il binarismo della teoria marxiana della lotta di classe è interrotta da un terzo termine, il Lumpenproletariat, un termine che resiste alle pretese totalizzanti e teleologiche della dialettica”, ma le rende anche possibili. 22 In una intervista del 2012, a una domanda sul passaggio dal marxismo al postmarxismo nella sua traiettoria intellettuale e politica, Laclau risponde: “Credo che in realtà il postmarxismo sia iniziato nel 1848; è allora che hanno avuto inizio la storia del marxismo e il passaggio al postmarxismo”. Cfr. M. Cerbino, Postmarxismo, discurso y populismo. Un diálogo con Ernesto Laclau, in “Íconos. Revista de Ciencias Sociales”, 44, Quito, septiembre 2012, pp. 127-144. Più in generale, negli scritti di Laclau, possono leggersi due Marx almeno, sebbene a prevalere, in negativo, sia quasi sempre uno solo che, talvolta, appare più come un ibrido tra Marx e le sue versioni più dogmatiche e ortodosse. 23 K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, tr. it. a cura di A. Aiello, in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. X, Ed. Riuniti, Roma 1977, p. 59.
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[…] soldati in congedo, forzati usciti dal bagno, galeotti evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurmatori, bari, maquereaus, tenutari di postriboli, facchini, letterati, sonatori ambulanti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in breve, tutta la massa confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano ‘la bohème’24.
Lasciando da parte le metamorfosi del Lumpenproletariat nelle opere di Marx (tornerò su quest’ultimo nel paragrafo seguente)25, mi limito a sottolineare un solo punto, che è quello saliente per Laclau: gli altri eterogenei sono inclassificabili in maniera stabile (in quanto trasversali e transfrontalieri), ma proprio per questo sono suscettibili di articolazione politica (come esemplificherebbe il caso di Luigi Bonaparte). È, come si è detto, a partire dagli elementi di un “insieme eterogeneo” che occorre ripensare la formazione delle soggettività (o volontà) collettive indispensabili alla rivendicazione di una democrazia che non si esaurisca nel suo apparato amministrativo e procedurale. Certo, come mostra Marx, che descrivendoli pesca a piene mani nell’immaginario repulsivo della borghesia ottocentesca, gli altri eterogenei sembrano tendere più verso soluzioni autoritarie che in direzione di una espansione democratica. Per Laclau, una volta destituito il principio di continuità tra posizione di classe e orientamento ideologico, l’articolazione politica può (e deve) essere organizzata desde abajo, attraverso il concatenarsi di una serie di domande rese equivalenti dalla comune opposizione a una forza o a un potere antagonista (“regime
24 Id., Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, tr. it. a cura di G.M. Bravo, in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. XI, Ed. Riuniti, Roma 1982, p. 155. 25 Sul Lumpenproletariat in Marx e Engels, oltre al già citato P. Stallybrass, si veda l’approfondita e dettagliata analisi di H. Draper in Karl Marx’s Theory of Revolution, vol. 2: The politics of social classes (1978), AAKAR, Dehli 2011, pp. 453 ss. È importante sottolineare come il Lumpenproletariat di Marx, oltre a non essere riconoscibile come una classe in senso stretto, non sia nemmeno confinabile negli strati più bassi della società come “sottoproletariato” (una delle traduzioni della parola tedesca che è tra le più correnti, ma non coglie tutte le sfumature e gli spostamenti). Scrive Marx in Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, cit., p. 47: “Alla sommità stessa della società borghese trionfava il soddisfacimento sfrenato, in urto a ogni istante con le stesse leggi borghesi, degli appetiti malsani e sregolati in cui logicamente cerca la sua soddisfazione la ricchezza scaturita dal gioco, in cui il godimento diventa crapuleux, e il denaro, il fango e il sangue scorrono insieme. L’aristocrazia finanziaria, nelle sue forme di guadagno, come nei suoi piaceri, non è altro che la riproduzione del Lumpenproletariat alla sommità della società borghese”.
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oppressivo”, “establishment”, “casta” …), in nome di un “significante (tendenzialmente) vuoto”26. Il problema è che Laclau stesso, in un passaggio decisivo di RP, riconosce la funzione semplicemente euristica di tale schema, fondato su due presupposti tipico-ideali, introvabili nei “processi sociali effettivi”27. In primo luogo, si pre-comprende la possibilità di uno “spazio saturo” diviso tra “due fronti”; in secondo luogo, si dà per scontato che “ogni domanda insoddisfatta” dalle istituzioni vigenti si iscriva nel “fronte popolare” solo in ragione di questa sua condizione28. Ma Lumpenproletariat è anche il nome (o l’esempio par excellence) dell’impossibilità di una “distinzione netta tra ‘dentro’ e ‘fuori’” – perché il “fuori”, dice Laclau “appartiene alla stessa ‘logica di costituzione dell’interiorità’” (RP, p. 130). 3. In ESS, lo schema della frontiera appare segnato dalla finitezza della sua iscrizione storica (che, come riconoscono gli stessi Laclau e Mouffe è, in parte, frutto di una semplificazione)29: A rigore, l’opposizione popolo/ancien régime fu l’ultimo momento in cui gli stessi limiti antagonisti tra due forme di società si presentarono […] sotto forma di linee di demarcazione chiare ed empiricamente date. Da allora la divisione tra l’interno e l’esterno, in base alla quale l’antagonismo assumeva la forma di due sistemi contrapposti di equivalenze, divenne sempre più fragile e ambigua e la sua costruzione si presentò come il problema cruciale della politica30. 26 Il “significante vuoto” è, per Laclau, il nome della domanda che, in una catena equivalenziale, svuotandosi (relativamente) della sua particolarità si afferma come rappresentante dell’intera concatenazione “popolare”. 27 RP, pp. 116 e 145. 28 Ivi, pp. 130-131. 29 La disposizione delle forze, durante la Rivoluzione francese, “richiese anche operazioni egemoniche e implicò alcuni mutamenti nelle alleanze: si pensi a episodi come quello della Vandea. È solo da una prospettiva storica, e in comparazione con la complessità delle articolazioni egemoniche che caratterizzano le fasi successive della storia europea, che si può sostenere la relativa stabilità della struttura delle divisioni fondamentali e delle opposizioni nel corso della Rivoluzione francese” (ESS, nota a p. 229). Laclau e Mouffe si riferiscono a A. Rosenberg, Democrazia e socialismo. Storia politica degli ultimi centocinquanta anni (17891937), De Donato, Bari 1971 (citato in ESS, pp. 227 ss.). 30 ESS, p. 230.
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Per Laclau e Mouffe, è proprio questa trasformazione a esigere il ripensamento (anti-essenzialista) della politica in prospettiva egemonica e strategica31. Nei “paesi a capitalismo avanzato”, la moltiplicazione e lo sviluppo ineguale delle “posizioni democratiche” avrebbero reso difficile, se non impraticabile, il raccogliersi unitario delle varie istanze “intorno a un polo popolare”. Le condizioni della lotta politica, di conseguenza, si sarebbero sempre più allontanate dal “modello ottocentesco” di una politica delle frontiere “nettamente delimitate”32. Diviene allora necessario introdurre una distinzione (asimmetrica) tra “lotte democratiche” e “lotte popolari”. Parleremo quindi di lotte democratiche quando è implicata una pluralità di spazi politici, e di lotte popolari quando alcuni discorsi costruiscono tendenzialmente la divisione di un singolo spazio politico in due campi contrapposti. Ma è chiaro che il concetto fondamentale è quello di ‘lotta democratica’, e che le lotte popolari sono semplicemente delle congiunture specifiche […]33.
La distinzione si traduce in un’antinomia al contempo teorica e politica. Se è vero che la dimensione egalibertaria non può affermarsi politicamente senza antagonismo, lo stabilirsi unilaterale dello schema dicotomico (a sua volta impensabile senza quella dimensione) rischia di limitarne, se non di neutralizzarne, le possibilità espansive (antagoniste e istituzionali)34. 31 Scrivono Laclau e Mouffe: “È proprio perché non ci sono fondamenti garantiti da un ordine trascendente, da un centro capace di tenere insieme potere, legge e sapere, che diviene possibile unificare alcuni spazi politici attraverso articolazioni egemoniche. Ma queste articolazioni egemoniche saranno sempre parziali e suscettibili di essere contestate perché non c’è garante assoluto” (ESS, p. 277). 32 ESS, pp. 212-213. 33 Ivi, p. 217. In RP, Laclau discerne fra “domande democratiche” e “domande popolari”: le prime sembrano ridursi alla loro funzione di richiesta o petizione, in attesa del momento populista o del loro assorbimento in un sistema istituzionale che, a sua volta, pare destinato a confinarsi nella mera “amministrazione delle cose” (secondo la formula di Saint-Simon che spesso, nelle pagine di Laclau, affiora come un monito contro le tecno-espertocrazie, ma anche come il segnale di una tendenza a semplificare le possibilità di politica statale e istituzionale in generale). Su questo si veda Filippini, infra. 34 In ESS, la distinzione asimmetrica tra “lotte democratiche” e “lotte popolari” è descritta inoltre tracciando un’altra frontiera (storico-geografica): quella fra “società industriali avanzate” e “Terzo Mondo”. (La “ragione populista”, nel 2005, dovrà fare i conti con un “capitalismo globalizzato” in cui questo spartiacque risulterà ancora più irriconoscibile e le caratteristiche attribuite alla cosiddetta periferia del capitalismo sembreranno generalizzarsi): “Sembra che tra le società industriali avanzate e la periferia del mondo capitalista possa essere stabilita un’importante caratteristica differenziale: nelle prime la proliferazione dei punti di antagonismo
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In altre parole, senza frontiere, non sarebbe pensabile nessun “popolo”; ma non sarebbe pensabile né praticabile alcuna politica “populista” (tanto meno in senso democratico-radicale) se il solco dicotomico della frontiera fosse scavato da sempre e una volta per tutte. I termini dell’antinomia che, a mio parere, complica sia il progetto di “democrazia radicale-plurale” sia (mutatis mutandis) la “ragione populista”, possono mostrarsi ancora una volta attraverso Marx e la “specificità del suo intervento”35. La lettura di Laclau e Mouffe è duplice e contraddittoria: riconosce a Marx il passaggio oltre l’opposizione classica popolo/ancien régime, ma gli imputa anche, nello stesso giro argomentativo, “l’incapacità di dividere la totalità del corpo sociale in due campi antagonisti”, se non ricorrendo al “postulato di un momento di rottura fondamentale, di uno spazio unico di costituzione del politico”36. consente la moltiplicazione delle lotte democratiche, ma queste lotte, data la loro diversità, non tendono a costituire un ‘popolo’, ovvero a entrare in equivalenza le une con le altre e a dividere lo spazio politico in due campi antagonisti. Al contrario, nei Paesi del Terzo Mondo, lo sfruttamento imperialista e la predominanza di forme brutali e centralizzate di dominio tendono fin dall’inizio a dotare la lotta popolare di un centro, di un nemico unico e ben definito” (ESS, p. 210). Nel cosiddetto “Terzo Mondo”, l’emergenza del “popolare” tenderebbe a chiudere la “frattura” tra “spazio politico” e “società” (intesa come “referente empirico”). Ma questa “periferia” rivela gli stessi aspetti di una condizione che, nel “mondo capitalista”, la “rivoluzione democratica” avrebbe relegato nel passato. Le “lotte popolari”, scrivono Laclau e Mouffe, richiedono “relazioni di estrema esteriorità tra i gruppi dominati e il resto della comunità”: “L’inizio del patriottismo populista in Francia apparve durante la Guerra dei Cento Anni, ovvero nel mezzo di una divisione dello spazio politico risultante da qualcosa di tanto esterno quanto poteva esserlo la presenza di una potenza straniera. La costruzione simbolica di uno spazio nazionale attraverso l’azione di una figura plebea come Giovanna d’Arco è, in Europa occidentale, uno dei primi momenti di emergenza del “popolo” come agente storico. Nel caso dell’ancien régime e della Rivoluzione francese la frontiera popolare è divenuta una frontiera interna […] (ESS, p. 212). 35 ESS, p. 230. 36 Ivi, pp. 230-231. Il “nuovo principio” (quello della lotta di classe) – osservano Laclau e Mouffe – “risultava minacciato fin dall’inizio da una radicale insufficienza, dovuta al fatto che l’opposizione di classe era incapace di dividere la totalità del corpo sociale in due campi antagonisti, di riprodursi automaticamente, nella sfera politica, come linea di demarcazione. È per questa ragione che l’affermazione della lotta di classe come principio fondamentale della divisione politica ha sempre dovuto essere accompagnata da ipotesi supplementari, che relegavano la sua piena applicabilità al futuro: ipotesi storico-sociologiche, come la semplificazione della struttura sociale che avrebbe condotto alla coincidenza tra lotte politiche reali e lotta tra le classi come agenti costituiti al livello dei rapporti di produzio-
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L’intervento di Marx, scrivono Laclau e Mouffe: ha avuto luogo nel momento in cui la divisione dello spazio politico nei termini della dicotomia popolo/ancien régime pareva aver esaurito la sua produttività, e in ogni caso non era in grado di costruire una visione del politico che catturasse la complessità e la pluralità peculiari del sociale nelle società industriali. Marx tentò allora di pensare il fatto primario della divisione sociale sulla base di un nuovo principio: la lotta di classe37.
L’irrompere teorico e pratico del proletariato e della lotta di classe risponde, quindi, anche alla necessità di tradurre le divisioni politiche, o l’antagonismo, all’altezza della complessità economico-sociale delle “società industriali”. La scissione proletaria divide ancora per due, ma disloca la divisione dentro e oltre i confini dello spazio comunitario in cui si era preparata e realizzata la “rivoluzione semplicemente politica” del XVIII secolo38. Il proletariato divide all’interno il popolo, spezzandone l’unità, ma scinde anche la nazione come ultima istanza e mediazione del popolo con lo Stato39. Questo è il Marx che appare e scompare in ESS e in RP, cioè quello che mette in discussione l’appello all’indivisibilità del Volk: I democratici riconoscono di aver davanti a sé una classe privilegiata, ma essi, con tutto il resto della nazione che li circonda, costituiscono il popolo. Ciò che essi rappresentano è il diritto del popolo; ciò che interessa loro è l’interesse del popolo. Essi non hanno dunque bisogno, prima di impegnare una lotta, di saggiare gli interessi e le posizioni delle diverse classi […] Non hanno che da lanciare il segnale perché il popolo, con tutte le sue inesauribili risorse, si scagli sugli oppressori. Se poi, all’atto pratico, i loro interessi si rivelano non interessanti e la loro forza una impotenza, la colpa o è di quegli sciagurati sofisti che dividono il popolo indivisibile in diversi campi nemici; o dell’esercito […] o di un caso imprevisto […]40.
ne; oppure ipotesi riguardanti la coscienza degli agenti, come la transizione dalla classe in sé alla classe per sé” (ESS, p. 230). 37 Ivi, p. 230. 38 K. Marx, Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, tr. it. a cura di G.M. Bravo, in Annali franco-tedeschi, Massari ed., Bolsena 2001, pp. 117-135. 39 Ivi, p. 120. Scrive Marx: “Dei bonaccioni entusiasti, nazionalisti per temperamento e liberi pensatori per riflessione, cercano al contrario la storia della nostra libertà al di là della nostra storia, nelle teutoniche foreste vergini. Ma in che cosa la nostra storia della libertà differisce da quella della libertà del cinghiale, se la si può trovare solo nelle foreste? È noto inoltre che l’eco della foresta ci rimanda il nostro stesso grido. Pace dunque alle antiche foreste teutoniche!”. 40 K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, cit., p. 138.
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Laclau torna anche altrove sulle condizioni di (im)possibilità della frontiera antagonista (o “popolare”) in rapporto con il pensiero di Marx e, in particolare, nel corso di un noto dibattitto con Judith Butler e Slavoj Žižek. In questo caso, è lo stesso testo marxiano a fornire lo schema generale della frontiera antagonista. Lo scritto in questione è Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, a citare è Laclau: Su che cosa si fonda una rivoluzione parziale, semplicemente politica, la rivoluzione che lascia in piedi i pilastri della casa? Sul fatto che una parte della società civile si emancipa e perviene alla supremazia generale, sul fatto che una determinata classe intraprende, muovendo dalla propria situazione particolare, l’emancipazione […] Affinché la rivoluzione di un popolo e l’emancipazione di una classe particolare della società civile coincidano, affinché una classe rappresenti tutta la società, bisogna al contrario, che tutti i difetti della società siano concentrati in un’altra classe, bisogna che una determinata classe sia la classe dello scandalo generale, la personificazione delle barriere universali; bisogna che una particolare sfera sociale si identifichi con il crimine (o il torto) dell’intera società, cosicché la liberazione da tale sfera appaia come l’emancipazione universale. Affinché una classe divenga la classe della liberazione par excellence, occorre al contrario che un’altra classe diventi notoriamente la classe dell’asservimento41.
Per Marx, nella Germania immaginaria (e immaginata) di Federico Guglielmo IV e della borghesia tedesca irrealizzata, una volta impostosi “il problema capitale dei tempi moderni” (ovvero quello del rapporto tra il “mondo dell’industria e della ricchezza” e il “mondo politico”)42, una rivoluzione parziale è divenuta impossibile. E, poiché il “paese classico della non-contemporaneità”43 esemplifica, nella sua singolarità, gli anacronismi che complicano i tempi della storia in generale, mostrando ai “popoli moderni” (Francesi e Inglesi) l’incompiutezza delle loro rivoluzioni e un passato che non cessa di tormentarli44, l’impossibilità di una rivoluzione semplicemente politica assume ormai una portata generale e, in fin dei conti, la forma di una “utopia”. Quel che a Marx sembra irripetibile (o ripetibile solo come una commedia) è proprio il momento rivoluzionario in cui una parte della società civile (il Terzo Stato, la borghesia), 41 Id., Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, cit., pp. 130-131. Il passo riportato è citato da Laclau in Identità ed egemonia: il ruolo dell’universale nella costituzione delle logiche politiche, in DSS, pp. 46-47. 42 Id., Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, cit., pp. 122-123. 43 E. Bloch, Eredità di questo tempo, tr. a cura di L. Boella, Mimesis, Milano 2015, p. 155. 44 K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, cit., pp. 121-122: “La lotta contro il presente politico tedesco è lotta contro il passato dei popoli moderni, pur sempre molestati dalle reminiscenze di questo passato”.
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durante la Rivoluzione dell’89, era riuscita a “provocare in sé e nella massa un momento di entusiasmo” e a farsi riconoscere come la “rappresentante universale” della società contro il particolarismo dei privilegi (nobiltà, clero, monarchia)45. Se allora l’emancipazione parziale poteva operare come premessa di quella universale, ora l’emancipazione universale s’impone come la “conditio sine qua non di ogni emancipazione parziale”46. Siamo nel 1844, Marx non parla letteralmente di “lotta di classe” e nemmeno di “classe” (usa ancora Stand e non Klasse). Entra però in scena il proletariato: il non ancora attore chiamato a convertire in attività rivoluzionaria l’elemento passivo della trasformazione già in corso (l’auto-dissolversi della società civile nella produzione al suo interno di una parte ridotta a condizioni di “sofferenza universale” incalcolabili e ingiustificabili entro i parametri vigenti). Conversione che esige l’articolazione tra il proletariato e un pensiero il quale, a sua volta, deve esercitarsi “nella mischia” (im Handgemenge) e farsi critica intramondana. Si tratta di un pensiero che deriva ancora il suo linguaggio (dunque la sua stessa critica) dal corpo a corpo tra l’eredità di Hegel e quella di Feuerbach e assume nelle sue conclusioni un tono escatologico (più che teleologico in senso stretto)47. Il processo di emancipazione è pensato come la “riacquisizione dell’uomo” (o dell’essenza umana) dopo aver pagato il prezzo della sua “perdita completa”48. Per Laclau, si tratta di riattivare proprio la rivoluzione parziale che Marx avrebbe giudicato obsoleta riducendo la possibilità dell’emancipazione a una “ipotesi sociologica”: Per Marx, […] solo una riconciliazione piena, senza mediazioni, rappresenta una vera emancipazione. [L’alternativa] non è altro che un’universalità parziale e spuria, compatibile con una certa società di classe. Il compimento/ raggiungimento di una piena emancipazione e universalità dipende d’altronde dal verificarsi della sua ipotesi di base: la semplificazione della struttura di classe ad opera del capitalismo49.
Più in generale, nella sua analisi quasi sempre sincronica dei testi di Marx, Laclau tenta di separare, all’interno dello stesso discorso, rivoluzione “sociale” 45 Ivi, pp. 130-131. 46 Ivi, p. 132. 47 Ivi, p. 135: “La filosofia – scrive Marx – non può realizzarsi senza l’eliminazione del proletariato, il proletariato non può eliminarsi senza la realizzazione della filosofia. Quando tutte le condizioni interne saranno adempiute, il giorno della resurrezione tedesca sarà annunziato dal canto del gallo francese”. 48 Ivi, p. 133. 49 DSS, p. 48.
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e antagonismo. L’una dipenderebbe dallo sviluppo logico e filosofico-storico della contraddizione tra forze produttive materiali e rapporti di produzione; l’altro dipenderebbe da una “storia fattuale e contingente” (dunque politica) che finirebbe riassorbita dialetticamente in attesa del risolversi della prima50. Tuttavia, sottratta ogni “ipotesi sociologica” e ogni “logica soggiacente”, restituita così al politico la sua autonomia, non viene meno il privilegio della frontiera. O, nei termini di ESS, pur cessando di “fondarsi su una separazione evidente e già data” entro una “struttura referenziale definitivamente acquisita”, la “produzione” di tale struttura continua a imporsi come “il primo problema politico”51. Perché, si legge ancora in NR, “la presenza di frontiere è inerente al politico in quanto tale” e, di conseguenza, “c’è politica solo dove ci sono frontiere”52. E Laclau ribadisce la centralità (politica) dello schema frontaliero anche in RP: “Le frontiere sono la conditio sine qua non dell’emergenza di un ‘popolo’”53. Ma il problema di ESS si ripropone: cosa accade se l’eterogeneità impone l’estensione della catena di equivalenze fino a rendere irriconoscibili, al contempo, la stessa articolazione “popolare” e il “nemico” (o l’“avversario”) al di là di una frontiera (l’una e l’altro al contempo, essendo l’antagonismo, o l’ostilità, anche la relazione, o l’amicizia che li tiene insieme)? Cosa accade quando le “condizioni storiche” (quelle che Laclau riassume come “capitalismo globalizzato”) confermano e radicalizzano l’impossibilità del “popolo” inteso come gruppo “taken-for-granted”? Come e dove tracciare le frontiere? Laclau risponderebbe che, proprio in condizioni d’impossibilità, la politica come “articolazione contingente” rivela la sua necessità54. Se è così, e torniamo alle questioni poste all’inizio di queste riflessioni, il “populismo” democraticoradicale (forse possiamo provvisoriamente chiamarlo in questo modo) non può fare affidamento su nessuna “omogeneità” che implichi, “qualora fosse necessario”, la preliminare “esclusione dell’eterogeneo”55. In particolare, non può 50 51 52 53 54 55
NR, p. 8. ESS, p. 213. NR, p. 160. Ivi, p. 218. RP, p. 219. Quelle tra virgolette sono parole e considerazioni tratte da C. Schmitt, Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus, Duncker und Humblot, Berlin 1985, p. 14. Laclau dedica a Carl Schmitt un saggio critico sul quale mi soffermo in un lavoro in corso di stesura: On “Real” and “Absolute” Enemies, in “The Centennial Review”, Vol. 5, 1, 2005, pp. 1-12. Laclau si concentra, in particolare, sulla Teoria del partigiano di Schmitt e, in un passaggio centrale, afferma: “[…] la nozione di una
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isolarsi all’interno di nessuna “omogeneità nazionale”, qualora invece questa dovesse bloccare le possibilità espansive di articolazione e reprimere il resto democratico-radicale (quindi, in fin dei conti, la politica). Non a caso, alla fine di RP (pubblicato, ricordo, nel 2005) Laclau evoca l’emergenza di un “nuovo internazionalismo”, senza delinearne i caratteri e indicandolo piuttosto come un “compito politico-intellettuale”56. Col senno di poi, tutto si può dire tranne che quest’ultimo sia avanzato. Gli unici populismi che sembrano oggi trionfare sembrano quelli più o meno “nazionalisti”, se non apertamente “etnopopulisti”, nei quali “non c’è plebs che aspiri a essere un populus, perché plebs e populus vengono a sovrapporsi completamente”57. Populismi nei quali la sovranità nazionale si confonde totalmente con quella popolare e finisce per neutralizzarla. Di conseguenza, l’altro eterogeneo, ridotto a opposto, “non è interno, bensì esterno alla comunità” (ad esempio, i migranti o i corpi estranei non aderenti ai criteri di riconoscimento vigenti): Il principio etnico stabilisce sin dal principio quali elementi possano entrare nella catena equivalenziale e quali no. Per l’etnopopulismo non può esistere quindi il pluralismo. Le minoranze possono sopravvivere all’interno di un territorio definito, ma la marginalità deve restare un loro attributo costante […] L’attitudine autoritaria di questa logica politica è evidente […] Ne consegue, necessariamente, una tendenza verso l’uniformità […]58.
Populismi del genere sono non solo tendenzialmente xenofobi, ma sono anche impotenti innanzi alle equivalenze che si concatenano tra le élite e le istituzioni che controllano l’economia e la politica mondiali (quando non ne sono complici). Ecco perché, prese certe decisioni e tenendo conto di determinati rapporti di forza, si deve forse giungere fino a rimettere in gioco non l’antagonismo o il potere costituente popolare, ma il “popolo” come unico nome o guerra civile internazionale ha effetti che il discorso di Schmitt non può controllare entro i suoi stessi limiti. Superata l’idea di una guerra interstatale, risultava altrettanto superata l’esteriorità del nemico rispetto a un territorio dato […] I confini nazionali cessavano di definire l’identità del nemico. Questo tipo di conflitto [la guerra civile internazionale i cui i confini sono confusi e dislocati dalle resistenze partigiane, ad esempio] è assai differente da quella che implica un nemico esterno dato. Si approssima a quella che Gramsci chiamava ‘guerra di posizione’, la cui condizione basilare è che il nemico sia costantemente costruito attraverso lo spostamento e la riarticolazione di elementi sociali eterogenei”. Di Schmitt cfr. Teoria del partigiano, tr. it. di A. De Martinis, con un saggio di F. Volpi, Adelphi, Milano 2005. 56 RP, pp. 219 e 236. 57 Ivi, p. 187. 58 Ibidem.
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significante dei significanti politici. Bisogna verificare, nella prassi, se l’appello al “popolo” e la sua efficacia in senso democratico-radicale siano davvero generalizzabili oltre le frontiere che ne hanno tradizionalmente inquadrato le trasformazioni storiche (essenzialmente quelli dello Stato-nazione). Come suggerisce Balibar, limitarsi a riattivare il momento populista potrebbe non bastare, o potrebbe avere effetti reazionari, senza riflettere al contempo sulle “condizioni in cui delle rivendicazioni popolari, essenzialmente ambivalenti, possano essere democratizzate, servire all’emancipazione”59. E senza interrogarsi sulle possibilità di pensare e praticare le frontiere oltre il classico tracciato dicotomico. Possiamo ancora dire che populismo sia “sinonimo del politico”? Al limite, si può dire che sia uno dei sinonimi del “politico” inteso come atto istituente e costruzione di soggettività o di volontà collettive egemoniche. Il momento populista può essere ricompreso in un “cluster di dimensioni”, che Laclau in uno scritto coevo di RP, designa nuovamente come “democrazia radicale” in generale, o, meglio, come il suo “futuro”60. Le altre due dimensioni sono quella “istituzionale” (democrazia in senso formale, come sistema di regole e procedure) e quella del “pluralismo” (ideologico, religioso, culturale). Ridurre la politica a una qualunque di tali dimensioni provocherebbe il “collasso della democrazia”61: Una democrazia puramente liberale, in cui gli elementi democratici si riducessero al livello del regime, sarebbe perfettamente compatibile con ogni tipo di pratiche antidemocratiche al livello della società civile. Una democrazia puramente populista identificherebbe rigidamente la comunità (il populus) con una sezione particolare al suo interno (la plebs) e renderebbe così impossibile ogni forma (tipo) di interazione democratica. Ma nemmeno il puro principio del pluralismo funzionerebbe: una società così fondata mancherebbe di ogni sorta di cornice simbolica comune e, in realtà, non sarebbe affatto una società62.
Nessuna di queste dimensioni esaurisce la democrazia e non si dà uno “schema concettuale unificato” che possa ridurne l’eterogeneità. Per Laclau, si tratta di concepire la loro stessa interazione come un’articolazione politica contingente, ovvero storicamente determinata. 59 E. Balibar, Populisme et politique: le retour du contrat, in Id., La proposition de l’égaliberté, cit., p. 237. 60 E. Laclau, The future of radical democracy, in L. Tønder, L. Thomassen (a cura di), Radical Democracy. Politics between abundance and lack, Manchester University Press, Manchester-New York 2005, pp. 256 ss. 61 Ivi, p. 261. 62 Ibidem.
Geminello Preterossi
PERCHÉ NON POSSIAMO NON DIRCI POPULISTI
La teoria politica vive di “momenti”. A dispetto dell’uso ordinario, qui il termine “momento” non indica affatto una situazione occasionale e transitoria, ma una tendenza di fondo, destinata in qualche modo a fare epoca, a lasciare un’eredità: il “momento machiavelliano”, quello “hobbesiano”, il “momento Polanyi”. Oggi, quello “populista”. Con formule del genere, come indica l’utilizzazione di riferimenti a grandi classici del pensiero, è come se si volesse individuare l’essenza di una fase storica attraverso un paradigma teorico-concettuale (spesso identificato con un Autore, o una sua opera), in grado di ricondurre euristicamente la complessità sociale a una logica politica. Nel caso del populismo, il riferimento attuale non è solo alla sua fenomenologia storica, e agli indirizzi ideologici specifici che ne hanno caratterizzato la pratica politica: un fiume carsico che, muovendo dalla Russia e dall’America ottocentesche, riemerge con forza nel Novecento (non solo in America latina, ma in endiadi con altre possibili qualificazioni – plebiscitarismo, cesarismo, potere personale, qualunquismo – anche in Europa). La rilevanza teorica del populismo nel dibattito politico contemporaneo è essenzialmente dovuta al contributo specifico e originale di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, che non solo fa giustizia delle liquidazioni liberali del problema, ma soprattutto sembra oggi peculiarmente in grado di leggere la crisi della nostre democrazie e la fine del loro “matrimonio di convenienza” con il capitalismo (secondo l’efficace formula coniata da Wolfgang Streeck1). La crisi deflagrata nel 2008, i cui effetti di lunga durata sono ancora in corso, ha disvelato il vero volto della parabola neoliberista, facendone emergere le intrinseche contraddizioni. Il neoliberismo distrugge la democrazia costituzionale: le sottrae gli strumenti di integrazione sociale (inibendo strutturalmente gli obiettivi della piena occupazione e della redistribuzione); ne consuma le risorse di senso, sottoponendo rigidamente ogni ambito della vita, e il lavoro in primis, alla logica della mercificazione e 1
Cfr. W.Streeck, Tempo guadagnato, trad. it. a cura di B. Anceschi, Feltrinelli, Milano 2013.
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della finanziarizzazione. La disattivazione del nucleo progettuale delle Costituzioni democratiche è una conseguenza inevitabile di tale progetto di spoliticizzazione antisociale, che in Europa trova la sua codificazione algoritmica nel dispositivo disciplinare e gerarchico dell’euro, prodotto dell’ordoliberalismo tedesco. Il quale non è un’economia di mercato “buona” perché sociale, ma esprime il dogma per cui esiste una sola forma di socializzazione (quella determinata dal mercato competitivo), conta solo l’inflazione e non la disoccupazione (che ha un tasso “naturale”, stabilito dalle dinamiche spontanee del mercato, sulle quali è illusorio e pericolo intervenire: tasso naturale che guarda caso corrisponde alla possibilità di ricattare e frammentare il mondo del lavoro da parte di chi detiene il capitale, e di avere perciò strutturalmente garantita la deflazione salariale)2. Che poi questo modello di rapporto politica-economia, che inibisce qualsiasi eteronomia democratica rispetto all’immanenza mercatista dell’homo oeconomicus (che è solo competitore e consumatore) si saldi in Germania a un Welfare più ricco ed efficiente del nostro (ma non a investimenti pubblici adeguati in infrastrutture) risponde da un lato alla compattezza organicistica della società protetta tedesca (il conflitto è il rischio più esiziale da scongiurare), che ha precise radici storiche, dall’altro al fatto che il surplus commerciale e l’attrazione di capitali garantiti dall’euro consentono la realizzazione di uno Stato sociale in un solo Paese. Uno Stato sociale, si badi, comunque più volto a non lasciare soli i cittadini in difficoltà, secondo un paradigma da conservatorismo compassionevole, spoliticizzante, che alla tutela universalistica dei diritti sociali quali diritti di cittadinanza, cioè quali premessa di partecipazione, agonismo e di peso (più) eguale nella determinazione degli indirizzi politici sull’economia. Se, come sottolinea Tommaso Nencioni, la modernizzazione è la modernità senza il conflitto (e la crisi del 2008 ha sancito il fallimento della governance, incapace di riassorbire la pluralità del conflitto e la profondità della crisi stessa), la modernizzazione neoliberista è la modernità senza democrazia (essendovi la politica usata a fini antipolitici). Non è un caso, se oggi proliferano libri, partoriti dai piano alti dell’establishment neoliberale, volti a svalutare la democrazia e a sostenere che quello che in essa conta veramente è qualcos’altro rispetto al consenso popolare. O, addirittura, a veicolare esplicite prese di posizione antidemocratiche, in nome dell’epistocrazia. Alla faccia della retorica della società aperta che, sotto la pressione della crisi, rivela il suo vero volto classista, antiegualitaria ed escludente (come spesso è accaduto al liberalismo, ben capace di ricorrere 2
Cfr. A. Somma, La dittatura dello spread, DeriveApprodi, Roma 2014.
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di fatto allo stato di eccezione, pur erigendosi a vessillifero del potere limitato, quando si è trattato di difendere l’ordine proprietario da istanze non solo rivoluzionarie, ma anche solo redistributive). Il populismo di Laclau e Mouffe è tanto una teoria della politica quanto una proposta di antagonismo post-essenzialista. Rispetto alla sua spendibilità, l’obiezione classica del mainstream “progressista” è che il populismo sia sempre di destra, che ci sia un’impossibilità strutturale a una sua declinazione di sinistra, emancipativa. Ora, è certamente vero che esiste il rischio di un uso puramente propagandistico e retorico dell’appello al popolo, di natura ingannevole e de-emancipante. Un’opzione politica a rischio di plebiscitarismo, potere personale arbitrario ecc. Che gli esempi di populismo siano però solo di destra, è da tutto da vedere (oggi, in Europa, le uniche proposte “nuove”, che mettono in questione l’ordine costituito e sembrano in grado di arginare la deriva a destra, sono proposte “populiste”: dalla France Insoumise a Podemos); così come sarebbe bene non sottovalutare il peso, nell’alimentare la reazione populista, di un elitismo di sistema – al fondo antidemocratico –, che si nutre della sacralizzazione della tecnica e ha ampiamente contagiato la sinistra (riformista, ma non solo: basti pensare alle illusioni su una governance “liberatoria” perché orizzontale, coltivate da un certo coté radical e anti-statualista in questi decenni). Pertanto, è bene diffidare delle narrazioni autoconsolatorie delle vicende storiche e politiche, che servono solo a compensare la perdita di identità e di legame con i ceti popolari (che sono gli stessi che prima guardavano alle forze tradizionali della sinistra). In ogni caso, le idee di Laclau e Mouffe rappresentano una rottura con tutto il bagaglio dei pregiudizi sul populismo: il populismo democratico postula una nozione di popolo artificiale e inclusiva delle differenze, per costruire un’unità (non selettiva) dei subalterni. Il che non significa che le loro teorie siano lineari e senza problemi. Ad esempio, il termine“populismo” resta un contenitore troppo largo, che copre fenomeni storici vari e forse troppo diversi tra di loro, e ha in sé un’irriducibile (e per certi aspetti produttiva) ambiguità. É indubbio però che colga la logica del politico oggi (com’è inevitabile, a mio avviso, all’interno di un discorso di legittimazione post-tradizionale, che fonda il potere dal basso, e deve sostituire al principio di legittimità trascendente un’immanenza capace di eccedenza, ovvero di rappresentazione: il popolo, appunto.) Insomma, o c’è Dio o c’è il Popolo; e nelle società secolarizzate, è inevitabile che la fonte sia quest’ultimo. Quando l’assetto dei poteri costituiti entra in crisi, scollandosi da quella fonte, il bisogno di popolo si manifesta populistica-
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mente. Oggi siamo di fronte alla demolizione dei presupposti degli Stati pluriclasse, dovuta alla globalizzazione neoliberale (che non è un processo naturale, ma politico, anche se mira a rendere per sempre superflua o inattivabile una politica anche solo relativamente autonoma: per questo la prima e più autentica antipolitica è quella neoliberale, per quanto camuffata di razionalità tecnocratica). Non è pertanto un caso che siano sorti movimenti populisti di sinistra, o comunque anti-establishment, per ragioni legate alle istanze della sinistra economica e sociale (magari non approfondite adeguatamente, ma certo avvertite e in qualche modo assunte). Ma, a differenza di quello che tende a pensare Laclau (almeno in La ragione populista), egemonia e populismo non sono la stessa cosa: non a caso, il populismo emerge, e funziona, nelle fasi di “crisi d’ autorità”. L’esito di queste fasi di transizione (chiamate da Gramsci anche “interregni”), e in qualche modo anche il fine, è però la ricostruzione di una politica egemonica. Il dubbio che dobbiamo porci oggi, al tempo del populismo che sorge – per contrasto, ma subendone gli effetti – sul terreno neoliberale, e nel contesto dell’ovvietà (sospetta) dell’orizzonte democratico, è se valga ancora oggi questa tesi “gramsciana”, cioè se l’egemonia sia sempre il punto di cristallizzazione di un equilibrio realmente stabile, o se invece l’assenza di egemonia sia proprio lo spazio vuoto della lotta politica, entro il quale si genera energia contingente, ma non a partire da mere strategie retoriche e narrative, bensì dalla saldatura tra fronte linguistico e fronte degli interessi materiali. Insomma, la devastazione neoliberale del paesaggio sociale democratico-costituzionale apre la strada alla tradizionale contrapposizione tra due dialettiche (quella rivoluzione passiva/ egemonia reazionaria e quella rivoluzione attiva/egemonia progressiva), oppure azzera lo spazio stesso della politica egemonica, derubricandola a populismo? Dalla risposta a questo interrogativo derivano due opzioni ben diverse, benché entrambe non liquidatorie del momento populista: nella prima ipotesi, il populismo è uno strumento tattico, per convogliare forze da mettere al servizio di una nuova stabilità egemonica; nella seconda, il populismo è il “politico” stesso nella sua contingenza, in un contesto terremotato dal caos ingovernabile intrinseco al globalismo neoliberista. La contingenza del politico, più e prima che un dato ontologico nichilistico, è l’effetto della demolizione delle strutture concrete della mediazione, che necessitano di spazi politici concreti, di decisioni sovranamente democratiche, di poteri politicamente autonomi, eccedenti l’immanenza del pulviscolo sociale che si agita senza direzione nello spazio gassoso dei flussi. Il disordine neoliberale rischia di scavare la fossa alla stessa democrazia (liberale).
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Com’è noto, tutta l’architettura di Laclau si regge sulla funzione strutturante del “significante vuoto”. Ora, tale punto archimedeo, che allo stesso tempo apre e chiude l’aggregazione politica, dandole forma e visibilità, è sì in sé vuoto, cioè non sostanziale, ma non del tutto. Ovvero, è vuoto funzionalmente (un particolare che svolge una funzione significante generale: per essere efficace ha bisogno di svuotarsi dei contenuti specifici, differenziali, che possiede nell’immanenza sociale, per agganciare gli altri). Ma ciò non significa che non significhi nulla, che non abbia alcun contenuto. In realtà, veicola un messaggio in grado di catalizzare le domande inevase: quindi – per quanto semplice, ambiguo e trasversale (anzi forse proprio per questo) –, il suo “significato” non è irrilevante. Ogni significante vuoto è anche una parola d’ordine, che deve avere una presa sulla realtà sociale. E quindi non è poi così vuoto. È vero che in Laclau la riduzione del contesto sociale a quello retoricolinguistico è una possibilità reale, ma la teoria del populismo come teoria del politico ha maggiori potenzialità esplicative e progettuali se non riduce la materialità degli interessi e la loro produttività anche simbolica al puro piano dei discorsi. I discorsi sono il veicolo della politicizzazione, ma la materia del conflitto non è retorica, essendo fatta di bisogni e rapporti di forza. Sarà anche vero che non esiste più il soggetto-classe. Ma esistono certamente gli interessi di classe (così come la lotta di classe sulla base di tali interessi materiali, come mostra il fatto che essa è stata condotta efficacemente negli ultimi quarant’anni, seppur da una sola parte e dall’alto, nella piena consapevolezza di chi la conduceva, e nello sbandamento o peggio la subalternità di chi avrebbe dovuto contrastarla). In realtà, quel “soggetto” non è mai esistito come un “dato” già predisposto, nel senso che è sempre stato il risultato di un processo di costruzione egemonica, cioè di una valorizzazione polemica della partigianeria che mira a rispondere alle domande diffuse e prevalenti di un’epoca in un contesto storico determinato, a occupare lo spazio del Tutto non essendo Tutto, a determinare perciò il passaggio dall’in sé , cioè dalla mera potenzialità sociale, al per sé, ovvero alla sua manifestazione politica organizzata e antagonistica. Detto che i contenuti e gli interessi sussistono, e hanno tanto una valenza materiale quanto un riverbero simbolico, è vero che essi non bastano da soli a fare politica: il significante vuoto deve agganciare le domande, non è il prodotto della loro aggregazione. Quindi è il significante a unificare (in questo il populismo mantiene la logica rappresentativa hobbesiana). A mio avviso, è proprio il fantasma di Hobbes ciò che salva Laclau (e Mouffe) dall’individualizzazione neoliberale dell’agonismo, dalle illusioni vaga-
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mente cosmopolitiche del “post-” (sovrano, nazionale, statuale, moderno, politico ecc.). Il populismo di Laclau e Mouffe non è né una manifestazione politica tra le tante, né un movimento dal contenuto ideologico preciso, ma definisce – in certe condizioni – la logica e il terreno del conflitto politico (non a caso, sottrarvisi condanna all’inefficacia). Ma il populismo è il politico sempre, o solo oggi? Certamente, come si è detto, lo è in fasi di crisi di autorità. Ed è il candidato naturale a esprimere una rottura dell’equilibrio integrativo, e quindi una spinta agonistica forte, quando le condizioni dell’inclusione sociale nella cittadinanza democratico-pluralistica vengono erose. Ciò può avvenire per varie ragioni. Può essere l’effetto di un deficit di simbolizzazione che non si riesce a compensare se non in chiave carismatica, come nei regimi di massa dominati dalla modernizzazione legale-razionale weberiana. Ma può anche essere il risultato dell’assolutizzazione del mercato e della spoliticizzazione tecnocratica. Il populismo quindi può essere letto come un movimento interno al Moderno, volto a contrastare reattivamente il pieno dispiegamento del dispositivo di dominio incorporato nel capitalismo tecno-finanziario, nello stadio maturo, oggi estremo, del suo sviluppo. Essendo il Moderno tanto questa accelerazione, quanto il freno che consente la sua messa in forma e il mantenimento di esperienze “popolari” all’interno della modernizzazione (si pensi agli Stati democratici di diritto, che sono Stati sociali keynesiani, basati su organizzazione collettive, politiche e sindacali). Una prospettiva che smentisce la lettura unidimensionale – in chiave tecnocratica e globalistica - della modernità, oggi assai mainstream. L’ambivalenza del populismo sta tutta nella sua appartenenza alla società democratica, di cui condivide le spinte contraddittorie. Il popolo del populismo contemporaneo risente degli effetti del neoliberismo, ma rappresenta una reattività, la riemersione di nodi inaggirabili (ad esempio, quello dell’insicurezza sociale, del bisogno di protezione, della violenza e dell’identità), che il finanzcapitalismo pretenderebbe di dare per superati definitivamente, e invece lascia ingovernati. Il populismo esprime la logica metapolitica del politico. Per questo è opportuno parlare di “momento populista”, più che di “ideologia populista”. Ma attenzione alle fughe nell’astratto. Senza un contesto politico, spaziale e istituzionale concreto, il populismo non può darsi. Una politica di trasformazione “populista” non può inseguire chimere. Per questo il riferimento ovvio, l’ambito di esplicazione primario e obbligato del populismo è la democrazia (moderna), che presuppone lo Stato (moderno), nel
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cui seno sorge. Il fatto che lo Stato abbia subito varie “trasformazioni”, e debba confrontarsi con altri poteri (soprattutto economici) transazionali, non toglie che sia senza sostituti credibili, e rappresenti ancora il soggetto politico centrale tanto dal punto di vista del diritto pubblico interno quanto da quello del diritto pubblico internazionale, anche ai fini di una rinnovata cooperazione e solidarietà tra le nazioni (non a caso ai minimi storici con il globalismo trionfante: basti pensare alla vera e propria rimozione della questione palestinese). Pertanto, l’agire populista, se vuole essere realista, deve partire dallo Stato (democratico). E se vuole promuovere con il conflitto obiettivi di emancipazione sociale, non può che fare della piena occupazione e dei diritti sociali presi sul serio (cioè del nucleo del costituzionalismo sociale del Novecento) il proprio fulcro concettuale e politico. Lo Stato è un contenitore del conflitto. Per questo è democratizzabile. Ciò significa che sul suo terreno è possibile una dialettica politica. Il populismo mira a rilanciare la dialettica Stato-popolo. Occorre porsi in maniera chiara alcuni interrogativi ineludibili, rispetto alla questione centrale della statualità (e al suo legame con la teoria del populismo): quali sono i contenitori alternativi allo Stato (avendo ben chiaro che, come sottolinea Dieter Grimm, la differenza tra nazionale e federale non è così decisiva)? Siamo sicuri che auspicare la non centralità, se non l’irrilevanza, dello Stato sia una buona mossa per contrastare il finanzcapitalismo? E poi: di quale Stato stiamo parlando? Dello Stato costituzionale di diritto, che è democratico e sociale, dello Stato monoclasse dei ceti di proprietà e cultura, dello Stato nazista (con il quale lo Stato come sfera del politico distinto da una società civile autonoma scompare, divenendo mero strumento di Behemoth, secondo la famosa formulazione di Marcuse, per la quale con l’avvento di Hitler al potere “Hegel è morto”)? Lo Stato nazione è il luogo dove nasce la democrazia rappresentativa moderna (con molte contraddizioni e grazie a dure lotte per rendere effettiva l’uguaglianza). Il riferimento agli ideali di autodeterminazione e indipendenza dei popoli ha segnato – dapprima in Europa, poi nel mondo coloniale, e ancor oggi in varie parti del mondo, ad esempio in Palestina – una lunga stagione di lotte di liberazione. Confondere tutto ciò con il nazionalismo della politica di potenza è un falso storico e concettuale. La nazione, come ha sostenuto Böckenförde3, ha sostituito la religione come fulcro del vincolo collettivo (funzione integrativa da cui pare francamente problematico pensare di pre3
Cfr. E.-W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2007.
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scindere del tutto). Nel Novecento, dopo i guasti prodotti dal laissez-faire e dal regime del gold standard (come ha ben mostrato Polanyi) e il tragico esito reazionario della crisi di legittimazione dei regimi politici di massa che ne derivò, è stato prioritariamente il Welfare, insieme alla nuova stagione del costituzionalismo sociale e ai partiti di massa democratici, a garantire quel vincolo integrativo. Un Welfare, va detto, pur sempre collocato entro l’unità politica pluralizzata di uno Stato in grado di controllare democraticamente l’economia, in un quadro segnato dalla presenza della sfida bolscevica, che è stato uno dei fattori decisivi per imporre al capitalismo un compromesso. Il fatto che il successo di tale compromesso abbia spostato la bilancia a favore del salario rispetto al profitto, dell’uguaglianza rispetto alla proprietà dei capitali, e aperto la crisi del capitalismo fordista, da cui l’offensiva neoliberista ha prefigurato un’uscita non nel senso della riduzione dell’orario di lavoro e di una sempre maggiore socializzazione democratica, ma al contrario in direzione di una recupero feroce, via finanziarizzazione e disoccupazione, dei margini di profitto e di comando, determinando una nuova polarizzazione della forbice delle disuguaglianze, l’inferiorizzazione dei ceti medi, l’impoverimento del lavoro, non indica certo il fallimento delle idee di Keynes (e di quelle di Kalecki e Minsky), ma semmai al contrario la loro straordinaria pregnanza, che è arrivata a mettere seriamente in discussione il dominio del profitto e posto la questione di un salto ulteriore, nel senso di una maggiore socializzazione, dell’ordine democratico, che praticamente nessuna delle forze in campo a sinistra (tanto riformiste quanto radicali, tanto tradizionali quanto post-sessantottine) è stata in grado di raccogliere. Il fine di Laclau è legare verticalità e trascendenza del politico con l’autonomia delle lotte sul terreno della società civile. Senza questa connessione, queste non faranno mai massa critica. In questo Laclau ha visto giusto, e ha il merito di aver contribuito a smascherare le illusioni ingannevoli di impossibili rivoluzioni senza popolo. Il punto è che non si esce dalla trascendenza politica, anche (anzi, proprio) collocandosi nell’immanenza moderna: se si vuole generare un’eccedenza politica (e non rimanere disarmati rispetto a quelle che si determinano a destra), non ci si può affidare allo spontaneismo anarcoide di moltitudini più evocate che manifeste, o a immaginari popoli sconfinati (abbandonando i ceti popolari in carne e ossa alla predicazione regressiva di chi occupa un vuoto, dal quale non ci si può assolvere con retoriche buoniste o stigmatizzatrici), o ancora all’indeterminatezza della transizione (neoliberale!) al comunismo cognitivo (come se si trattasse di attendere una sorta di transustanziazione dell’immanenza sociale). Nell’immanenza non c’è alcun telos garantito. Non a caso, si travede qui un legame tra teologia politica e populismo. La teologia politica non
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sta solo in società chiuse e tradizionali. Se vale la tesi schmittiana, la modernità stessa è teologico-politica. Poiché il populismo ripropone la trascendenza del politico, articolandola linguisticamente (la logica dei due corpi del re non scompare affatto nella società democratica, ricorda giustamente Laclau), è in qualche modo anch’esso teologico-politico in senso moderno. Si tratta di un paradosso, perché il populismo sorge sul terreno della promessa democratico-radicale di autogoverno. Ma tale paradosso è apparente, perché quella promessa non è inverabile se non replicando un resto fittizio di laica trascendenza. Certo, bisogna stare attenti a distinguere tra il populismo come chiave euristica in senso storico e in senso teorico: il calderone sociale delle differenze entro cui può prosperare la politica populista è sempre frutto di una crisi organica, oppure è un dato anti-essenzialista costante (almeno nelle società post-tradizionali)? Laclau oscilla tra le due posizioni. Ma nella misura in cui il populismo è eminentemente un problema della modernità (matura), e questa è post-tradizionale, si può dire che l’eterogeneità sociale, e il bisogno di trascenderla in un’unità (per quanto sempre parziale), costituiscano una sorta di lascito secolarizzato, di simulacro persistente del teologico-politico moderno, che nei momenti di crisi più acuta si manifesta in maniera evidente, mentre nelle fasi di stabilizzazione è latente. L’impossibilità della totalità sociale e il gioco infinito delle differenze esibiscono l’impossibilità e allo stesso tempo la necessità dell’universale: come evidenza Samuele Mazzolini, post-fondazionale non significa antifondazionale. Si tratta di “addomesticare l’infinità”, riconoscendo che la saturazione del sociale (e quindi il telos marxista) è impraticabile. Proprio in questa sutura impossibile consiste la radice della persistenza del politico. Allo stesso tempo, la spinta verso la sutura porta a delle fissazioni parziali. Qui si colloca un nodo rilevante, per ogni politica ad alta intensità trasformatrice: anche i compromessi (come quello socialdemocratico) hanno bisogno di un desiderio totale, di una spinta alla totalità. Inoltre, è vero che Laclau sembra trascurare la società civile nelle sue articolazioni (è solo il luogo da cui provengono le domande?). In questo senso, lo Stato integrale di Gramsci, in quanto Stato della società civile, è altra cosa dallo Stato populista. Ma non sarà che proprio questa semplificazione verticale sia oggi il segreto della spendibilità di Laclau, che ne rende la teoria più adatta a comprendere la fenomenologia politica del “post-neoliberalismo” (formula con la quale non intendo la sua fine o sostituzione con un altro paradigma, ma il fatto che conosce una strutturale crisi
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di legittimazione ed efficacia), e a dare espressione al disagio connesso a una nuova questione sociale, dai profili in parte inediti, perché frutto della fine della società dei due terzi? Il popolo è una costruzione. Ma questo non vuol dire che se ne possa fare a meno. O che si tratti di un mera retorica priva di legame con la realtà. Non solo: il suo carattere di artificialità non implica che non si diano presupposti prepolitici – legati ad accumuli di artificialità pregressa, cioè a fattori storico-culturali ereditati, magari politicamente latenti, ma attivabili – su cui si esercita la politicizzazione populista. Quindi, è giustissimo distinguere gli etno-populismi da costruzioni populiste antagonistico-egemoniche, ma a patto di sapere che anche queste hanno bisogno di poggiare su qualcosa e di collocarsi in un contesto. Il vuoto è più una strategia, che un dato di realtà, e soprattutto il suo riempimento non è mai naturalisticamente dato (questo vale anche contro le naturalizzazioni neoliberali), ma frutto di una valorizzazione selettiva di contenuti. Abbiamo così, da un lato, la politicizzazione dei fattori prepolitici, per renderli produttivi politicamente. Ma allo stesso tempo, dall’altro, degli elementi contenutistici non arbitrari e duraturi si rivelano necessari. Sussiste, nell’artificio politico moderno, e persiste a mio avviso anche nell’artificialismo populista, una retroazione reciproca tra politico e prepolitico. Spesso si sente imputare alla teoria del populismo, in quanto rinnovata teoria del politico, l’accusa (infondata e caricaturale) di alimentare chissà quale deriva nazionalista (che, se c’è, ha ben altre cause, in primis il fallimento politico del globalismo, e in Europa dell’intreccio tra funzionalismo e ordoliberalismo che ha dato vita all’euro). Ma quali sono le condizioni di un efficace internazionalismo oggi? La prima premessa di igiene concettuale è quella di distinguere nettamente globalismo e cosmopolitismo, da un lato, e internazionalismo, dall’altro. E comprendere che solo recuperando spazi di agibilità al conflitto sociale e alla sua rappresentanza, solo riattivando seri margini di sovranità democratica si può sperare in una nuova stagione politica cooperativa. Mentre la sterilizzazione algoritmica della sovranità costituzionale ha già prodotto in Europa, ed è sotto gli occhi di tutti, non convergenza ma drastica divergenza. Il rilancio dell’internazionalismo non solo non è incompatibile con la lotta per ridemocratizzare gli Stati nazionali, ma trova nel successo di questa lotta una necessaria premessa. Altrimenti, si rischia di spacciare per solidarietà internazionale l’umanitarismo peloso (e ad intermittenza) della governance tecnocratica globale. Il globalismo, anche nelle sue varianti moraleggianti, vagamente cosmopolitiche, è catturato dalla logica del capitale. Anche perché se rinuncia
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a Stato e sovranità democratica in nome della cosmopoli, non ha strumenti politici per contrastarla e frenarla. Che senso ha dire che non si deve pensare ai popoli ma al mondo? Perché contrapporli? E dove si finisce così, se non nel finanzcapitalismo? I popoli sono anche interessi popolari, esperienze di comunità, identità storiche e tradizioni culturali (fatte, peraltro, in quanto artifici umani, non solo di costumi, ma anche di innovazioni che si consolidano: una natura “seconda” non facilmente liquidabile, per fortuna). Tutto ciò non può di certo essere identificato, sic et simpliciter, con razzismo, nazionalismo, tribalismo o fascismo. La globalizzazione azzera tutto ciò, naturalizzando l’umano (come sosteneva Kojéve, o nel senso dell’animalizzazione americana, o in quello della reiterazione snobistica della cerimonia del tè, in assenza del Giappone tradizionale). Davvero pensiamo che l’effetto sarà un meticciato fantastico, un mondo irenico? C’è di che dubitarne. E soprattutto, siamo sicuri che sarebbe augurabile? Tale disegno non rischia di risolversi in una piatta omologazione, che sradica e mercifica tutto? Ben venga la teoria del populismo, se non altro coma antidoto.
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ETEROTOPIE Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna 400. Annamaria Rufino, In-security. La comunicazione della paura nell’età medioglobale, Prefazione di Michel Maffesoli 401. Judith Butler, Catherine Malabou, Che tu sia il mio corpo 402. Fabio Mini, La guerra di Quinton 403. Alessandro Cutrona, L’attualità della mise en abyme nelle opere di Peter Greenaway e Charlie Kaufman 404. Federico Bellini, La saggezza dei pigri. Figure di rifiuto del lavoro in Melville, Conrad e Beckett 405. Carlo Carotti, Avanti o popolo! Socialisti e comunisti nei film italiani. 19452010 406. Dario Di Donfrancesco, La vela, la ruota, il vapore. Percorsi letterari e mezzi di trasporto dell’Adriatico 407. Roberto Marchesini, Emancipazione dell’animalità 408. Ruggero D’Alessandro, Luca Saltini, Il paese degli spazi e della polvere. Un viaggio negli U.S.A. con 13 scrittori. 1920-2000 409. Sarat Colling, Animali in rivolta, a cura di feminoska e Marco Reggio 410. Carlo Marcaccini, Il conflitto delle élites. Atene 508-403 a.C. 411. Nicola Perullo, Ecologia della vita come corrispondenza. Frammenti per la spoliazione del senso 412. Ernesto Laclau, Le fondamenta retoriche della società. Morte e resurrezione di una teoria dell’ideologia 413. André Gorz, Il filo rosso dell’ecologia, a cura di Willy Gianinazzi 414. Carmine Castoro, Il sangue e lo schermo 415. Gianni Gasparini, Novantanove pensieri sulla poesia 416. Alessandra Sannella, Micaela Latini, Alfredo M. Morelli (a cura di), La grammatica della violenza. Un’indagine a più voci 417. Stefano G. Azzarà, Nonostante Laclau. Populismo ed egemonia nella crisi della democrazia moderna 418. Matteo Bittanti (a cura di), Machinima. Dal videogioco alla videoarte 419. Pietro Misuraca, «Tutto quel che è, fi nisce». Guida a L’Anello del Nibelungo di Richard Wagner 420. Giuliano Marrucci, Cemento rosso. Il secolo cinese, mattone dopo mattone 421. Giovambattista Vaccaro, L’idea di comunismo e il marxismo del novecento. 422. Paolo Rigliano (a cura di), Sguardi sul genere. Voci in dialogo 423. Susi Pietri, Miroirs concentriques. Teoria del romanzo e poetica dei piani dell’essere in Balzac 424. Milosh F. Fascetti, La fine della musica 425. Elena Laurenzi, Il paradosso della libertà. Una lettera politica di Marìa Zambrano 426. Giorgio Girard, Letteralismo religioso delle masse, terrorismo e migrazione 427. Anna Zinelli, 1955-1968. Gli artisti italiani alle documenta di Kassel
428. Enrico Mauro, I pesci e il pavone. Contro la valutazione meritocratica della ricerca scientifica 429. Modesta di Paola, L’arte che traduce. La traduzione visuale nell’opera di Antoni Muntadas 430. Marilena Macaluso, Giuseppina Tumminelli, Socializzazione politica e “potere quotidiano”. Riflessioni teoriche e ricerca sul campo 431. Pietro Piro, Perdere il lavoro smarrire il senso. Esperienze educative e altri saggi di sociologia critica 432. Giulio de Martino, Borbonici e antiborbonici. Dal regno di Napoli e di Sicilia all’Italia unita 433. Cary Wolfe, Davanti alla Legge. Umani e altri animali nella biopolitica, a cura di Cristina Iuli 434. Kazimierz Sakowicz, Diario di Ponary. Testimonianza diretta del genocidio ebraico in Lituania, 1941-1943, traduzione e cura di Gigliola Bettelle 435. Paola Bozzi, Dada da capo 436. Stefano Calabrese, Storie di vita. Come gli individui si raccontano nel mondo 437. Rocco D’Ambrosio, Francesco Giannella, La corruzione: attori e trame 438. Giovanna D’Amia, La storia dell’architettura in Francia tra Illuminismo e Restaurazione. Un percorso tra libri e musei 439. Virginio Bettini (a cura di), Dal paesaggio alla civitas. Dall’ecologia del paesaggio alla pianificazione territoriale, 440. Laura Neri, Un’idea di poesia. L’officina dei poeti in Italia nel secondo Novecento 441. Alberto Castoldi, Franca Franchi, Francesca Pagani, Viaggio al termine del desiderio 442. Ilenia Colonna, Sette anni di crisi italiana nella narrazione dei media. Un’analisi socio-comunicativa 443. Matteo Bittanti, Enrico Gandolfi, Giochi Video. Performance, spettacolo, streaming 444. Mariacristina Sciannamblo, La rivincita delle nerd. Storie di donne, computer e sfida agli stereotipi 445. Stefano Mudu, Spazi Critici. I luoghi della scrittura d’arte contemporanea 446. Francesco Fiorentino, Gianluca Paolucci (a cura di), Letteratura e cartografia 447. Massimo Stella, Madreparola. Risorgenze della Musa tra modernismo europeo e antichità classica 448. Barbara Mazzon, Le vergini giurate. Donne Libere di costringersi e costrette a liberarsi, prefazione di Gianfranco Mormino 449. Viviana Segreto, La sovranità dell’uno. Filosofia politica della grecità 450. Elena Landone, Utopia didattica: l’apprendimento della lingua straniera oltre l’aula 451. Elena Bignami (a cura di), Le donne nel movimento anarchico italiano (1871-1956) 452. Paola Cotta Ramusino, Dire la Rivoluzione. Lessico e fraseologia nel decennio post-rivoluzionario 453. Alessandro Cinquegrani, Il sacrificio di Bess. Sei immagini su nazismo e contemporaneità
454. Elena Cuomo, Tutta colpa di Ismene? Interrogativi e questioni simbolicopolitiche sulla tratta delle donne nella società contemporanea 455. Carlo Formenti, Oligarchi e plebei. Cronache di un conflitto globale 456. Viviana Segreto (a cura di), Contro-parola. Foucault e la parrēsia 457. Manuele Bellini, Dialettica del diverso. Marxismo e antropologia in Luciano Parinetto 458. Silvia De Laude, La rondine di Pasolini 459. Ruggero D’Alessandro, Il romanziere in cattedra. Thomas Mann – Vladimir Nabokov Giuseppe Tomasi di Lampedusa Lezioni di letteratura 460. Nicolò Addario, La fine della morale. Genealogia, forme storiche e criticità dell’autodescrizione della società moderna 461. Gianpaolo Chiriacò, Voci nere. Storia e antropologia del canto afroamericano 462. Alessandro Simoncini, Democrazia senza futuro? Scenari dall’interregno postdemocratico 463. Marco Celentano e Roberto Marchesini, Pluriversi cognitivi. Questioni di filosofia ed etologia, prefazione di Dario Martinelli 464. Gianluca Vagnarelli, Oltre i confini del politico Michel Foucault filosofo della politicizzazione 465. Gianni Porta, Buchi nell’acqua. Sinistra ed egemonia liberale nel movimento Acqua bene comune 466. Donella Antelmi, Verdi parole. Un’analisi linguistica del discorso green 467. Elisa Alberani, La ricezione italiana di Fernando Pessoa. Tra mitizzazioni e appropriazioni (in)debite 468. Serena Carbone, Marcel Broodthaers. Poetiche dell’ombra 469. Orazio Maria Gnerre, Prima che il mondo fosse. Alle radici del decisionismo novecentesco 470. Le voyage d’Aphrodite. Per una Psico-Filosofia dell’immagine, progetto artistico e fotografie di Marco Barnabino, testi di Roberta Di Nicola 471. Elisabetta Tonello, L’altra poesia. Arte giullaresca e letteratura nel basso Medioevo 472. Diego Lazzarich, Gratitudine politica I. Dall’età classica al Medioevo 473. Alessandro Curioni, La protezione dei dati. Guida pratica al Regolamento Europeo 474. Fabio Libasci, Le passioni dell’io, Hervé Guibert lettore di Michel Foucault 475. La rivolta della cooperazione. Percorsi teorici tra letteratura e arti applicate, a cura di Andrea Fumagalli, Giovanni Giovannelli, Cristina Morini 476. Aldo Zanca, Il disordine del capitale. Ideologia e realtà del neoliberismo: il nuovo sfruttamento 477. John Zerzan e Enrico Manicardi, Nostra nemica civilità. Frammenti di resistenza anarchica alla civilizzazione, traduzione a cura di Silvia Paglia, Guido Dalla Casa, Marco Pessotto, Suzanne Marie Foster, Alberto Prunetti, Alberto Angelini 478. Arnaldo Alberti, Eclisse liberale, prefazione di Dick Marty 479. Renata Gambino, Grazia Pulvirenti, Storie menti mondi. Approccio neuroermetico alla letteratura 480. Michele Canalini, L’insegnante di terracotta. Dalla Buona Scuola in poi
481. Annalisa De Curtis (a cura di), Il Museo come laboratorio del presente. Attraverso la fiaba. I Dialoghi di C’era ancora una volta... 482. Marco De Natale, La memoria musicale: un arco di pensiero. Appendice e approfondimenti a Una teoria dell’ascolto musicale (2015) 483. Giuseppe Ferraro, La declusione della libertà. Per una cittadinanza senza nazione 484. Fabio Cifariello Ciardi, Giolo Fele e Marco Russo (a cura di), Creatività musicali. Narrazioni, pratiche e mercato 485. Sébastien Broca, Utopia del Software Libero. Dal bricolage informatico alla reinvenzione sociale, a cura di Giorgio Griziotti 486. Renato De Fusco, Storia dell’idea di storia 487. Alessandro Mancuso, Altre persone. Antropologia, visioni del mondo e ontologie indigene 488. Marco de Paoli, Elettricità, vita, cervello. L’innervazione dell’organismo-mondo 489. Alessandro Dal Lago, Massimo Filippi, Antonio Volpe Genocidi animali 490. Andrea Facciolongo, Paesaggi e marginalità. Etica ed estetica del Terzo paesaggio 491. Pierpaolo Ascari, Attraverso i confini. Lettura ed esperienza estetica in Stendhal e Flaubert 492. Melanie Klein, Weaning. Lo svezzamento come conflitto, Prefazione di Giacomo Clemente, Postfazione di Adriano Voltolin 493. Marco A. Quiroz Vitale, Diritti umani e cultura giuridica. Il principio di autodeterminazione e l’invenzione delle nuove schiavitù in Europa 494. Yves Charles Zarka, Filosofia e politica nell’età moderna 495. Thomas Benedikter, Più potere ai cittadini? Il fascino indiscreto della democrazia diretta 496. Claudia Caneva e Cecilia Costa (a cura di), L’immaginario contemporaneo 497. Olga Piccolo, Furti d’arte, collezionismo, musealizzazione. Le opere a Bergamo in età napoleonica, Prefazione di Sandra Sicoli 498. Serena Marcenò, Critica alla cooperazione neoliberale Resilienza e governance nelle politiche di aiuto allo sviluppo 499. Filippo Cannizzo, Briciole di bellezza. Dialoghi di speranza per il futuro del Bel Paese 500. Mario Costa, L’uomo fuori di sé. Alle origini della esternalizzazione. La fotografia, il fonografo e il telefono nella Parigi del XIX secolo 501. Laura Marchetti, Samar. La luce azzurra a Itaca, Roma, Bagdad 502. Maurizio Clementi, L’inesausto grembo. La poesia dell’ultimo Leopardi, 503. Maria Pirulli, La lingua dei segni nella Vergine delle Rocce. Un’ipotesi sulla firma di Leonardo 504 Stefano Sciacca, Sir William Shakespeare buffone e profeta 505 Vittorio Marchis e Marco Pozzi (a cura di) Incontri con la macchina. Scritti meta-scientifici 506 Diego Fusaro, Marx Idealista. Per una lettura eretica del materialismo storico 507 Nicola Nardella, I diritti di madre natura, Introduzione di Pablo Fajardo 508 Thierry Gontier, La questione dell’animale. Le origini del dibattito moderno
509. Imsuk Jung, Manuale di lingua e linguistica coreana 510. Clotilde Cicatiello, Sulla rivalità del parto: medici e levatrici a Napoli tra Ottocento e Novecento 511. Federico Francucci, Tutta la gioia possibile. Saggi su Giorgio Manganelli 512. Orsola Rignani, Metafore del corpo post-umanista: Michel Serres 513. Pierluigi D’Eredità, Lo sviluppo economico autodistruttivo. 1873-1914 514. Giorgio Girard, Nichilismo bifronte. Elzeviri sullo Spirito del Tempo 515. Stefano G. Azzarà, Comunisti, fascisti e questione nazionale.Germania 1923: fronte rossobruno o guerra d’egemonia 516. Marco Mancuso, Arte, tecnologia e scienza. Le Art Industries e i nuovi paradigmi di produzione nella New Media Art contemporanea, Postfazione di Bruce Sterling 517. Massimo Bignardi (a cura di), Siena laboratorio del contemporaneo. Didattica tra ricerca ed esperienze sul campo 518. Luca Cangianti, Alessandra Daniele, Sandro Moiso, Franco Pezzini, Gioacchino Toni, Immaginari alterati 519. Lou Andreas Salomé, La materia erotica 520. Barbara Saracino, I giochi, le stelle e l’uomo. Studio sociologico della curva normale 521. Barbara Bisetto, Andrea Maurizi (a cura di), La trasmissione del testo poetico in Cina e in Giappone 522. Antonio Fiori, Dallo sviluppo economico alla solidarietà sociale. Sanità e pensioni in Corea 523. Attilio Scuderi (a cura di), La libertà ostinata. Machiavelli e i confini del potere 524. Alessandra Pera, Un progetto tradito? La cittadinanza europea tra passato e futuro 525. Jacques Derrida, Tentazione di Siracusa 526. Andrea Lombardinilo, Università in democrazia. Habermas e la sfera della comunicazione accademica 527. Gianfranco La Grassa, Crisi economiche e mutamenti (geo)politici 528. Francesco Iengo, Verso un’arte desacralizzata, a cura di Aldo Marroni 529 Sandro Moiso, La guerra che viene.Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Prefazione di Valerio Evangelisti, Postfazione di Gioacchino Toni 530 Maria Efisia Meloni, Nereide Rudas, Il lavoro negato 531 Caroline Evans, Alessandra Vaccari, Il tempo della moda 532 Chiara Battistella (a cura di), Ovidio a Tomi: saggi sulle opere dell’esilio 533 Celeste Papuli, Io volevo andare nella foresta. Storie di vita per una sociologia dell’esperienza trans 534 Paolo Parisi Presicce, Herman Melville. Racconto di un tipo strano 535 Giandomenico Capris, Matteo Renzi dal pop al flop. Ascesa e declino di una leadership televisiva 536 Martina Castigliani, Cercavo la fine del mare
Finito di stampare nel mese di febbraio 2019 da Digital Team – Fano (PU)