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Italian Pages 260 Year 2014
DISCI
DIPARTIMENTO storia culture civiltà
Medievistica
Collana DiSCi Il Dipartimento di Storia Culture Civiltà, attivo dal mese di ottobre 2012, si è costituito con l’aggregazione dei Dipartimenti di Archeologia, Storia Antica, Paleografia e Medievistica, Discipline Storiche Antropologiche e Geografiche e di parte del Dipartimento di Studi Linguistici e Orientali. In considerazione delle sue dimensioni e della sua complessità culturale il Dipartimento si è articolato in Sezioni allo scopo di comunicare con maggiore completezza ed efficacia le molte attività di ricerca e di didattica che si svolgono al suo interno. Le Sezioni sono: 1) Archeologia; 2) Geografia; 3) Medievistica; 4) Scienze del Moderno. Storia, Istituzioni, Pensiero politico; 5) Storia antica; 6) Studi antropologici, orientali, storico-religiosi. Il Dipartimento ha inoltre deciso di procedere ad una riorganizzazione unitaria di tutta la sua editoria scientifica attraverso l’istituzione, oltre che di una Rivista di Dipartimento, anche di una Collana di Dipartimento per opere monografiche e volumi miscellanei, intesa come Collana unitaria nella numerazione e nella linea grafica, ma con la possibilità di una distinzione interna che attraverso il colore consenta di identificare con immediatezza le Sezioni. Nella nuova Collana del Dipartimento troveranno posto i lavori dei colleghi, ma anche e soprattutto i lavori dei più giovani che si spera possano vedere in questo strumento una concreta occasione di crescita e di maturazione scientifica.
Francesca Pucci Donati
Il mercato del pane
Politiche alimentari e consumi cerealicoli a Bologna fra Due e Trecento
Bononia University Press
Bononia University Press Via Ugo Foscolo 7 40123 Bologna tel. (+39) 051 232882 fax (+39) 051 221019 © 2014 Bononia University Press ISSN 2385-0973 ISBN 978-88-7395-986-1 ISBN online 978-88-6923-507-8 www.buponline.com [email protected] I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. In copertina: ASBo, registro dell’Officium bladi datato 1414 in corso di riordino. Progetto grafico: Irene Sartini Impaginazione: DoppioClickArt – San Lazzaro (BO) Stampa: Global Print – Gorgonzola (MI) Prima edizione: dicembre 2014
Sommario
Prefazione. Alla ricerca del sistema VII Massimo Montanari Introduzione 1 1. Lo studio delle politiche alimentari nella storiografia europea 1 2. Approccio metodologico e fonti 9 3. Temi e contenuti 15 I. Il mercato 17 1. Oltre il mito. Bologna “grassa” nel Duecento 17 2. Il mercato a Bologna dall’Antichità al Medioevo 27 II. L’approvvigionamento cerealicolo 43 1. Bononia Felix. Una politica annonaria in fieri 43 2. Il ciclo del grano nella normativa di metà Duecento 58 3. Gli ordinamenta facta per dominos bladi 73 4. Quadro politico-istituzionale. Le liste dei domini bladi 87 5. Le magistrature annonarie negli statuti del 1288 101 6. La crisi di fine Duecento 115 III. I fornai 129 1. I mestieri del pane fra Antichità e Medioevo 129 2. I fornai nella documentazione due-trecentesca bolognese 139 3. Circuito del grano e fornai 163 4. I mestieri del pane. Ruoli e competenze 165 5. Capitale e beni immobili negli estimi dei fornai 169 6. Prestiti, pegni, debiti. I fornai nel sistema creditizio 184 IV. Il pane 191 1. Qualità, colori, forme del pane 191 2. Torte, pani salati e dolci. Qualche specialità medievale 196 3. Grano «pianta di civiltà». Qualche riflessione a margine 200 Bibliografia 205 Indice dei nomi di persona 241
Prefazione Alla ricerca del sistema
L’approvvigionamento alimentare in ambito cittadino è un tema classico della storiografia. Oggi però trascurato: non più di moda, si direbbe. Forse perché ci si è resi conto, in maniera sempre più chiara e consapevole, della complessità estrema del tema, per il sovrapporsi di prospettive economiche, politiche, sociali, culturali difficili da decifrare nei loro intricatissimi rapporti di interconnessione. Ecco dunque la necessità di guardare oltre i confini del mercato urbano, nella campagna che produce e nei meccanismi con cui è controllata. La necessità di considerare, oltre le cifre del mercato, le componenti etiche e morali (o immorali) dei meccanismi economici. La necessità di compulsare le fonti d’archivio ma anche, in parallelo, le narrative e le letterarie, che ci conducono alla dimensione mentale delle vicende quotidiane, a una valutazione qualitativa e non solo quantitativa. Alla ricerca non del singolo dato, ma del sistema (nella misura in cui esiste) che dà senso ai molti elementi che concorrono a costituirlo. Per una città come Bologna, tutto ciò assume una pregnanza anche maggiore. Perché Bologna non solo è alle prese, come ogni città medievale italiana, con il problema economico e sociale, politico e morale di garantire cibo sufficiente alla sua popolazione. Essa ha anche da governare un’immagine – fondata su sostanziosi dati materiali – creatasi proprio nei secoli centrali del Medioevo: quella della città “grassa” che assicura cibo e benessere, oltre che ai suoi cittadini, alla numerosa folla di intellettuali che affollano il suo Studio, studenti e professori. Su questa immagine, e su questa realtà, si costruiscono le fortune e le sfortune di Bologna e della sua classe dirigente, nel Medioevo e oltre. Ecco perché una ricerca come quella di Francesca Pucci Donati, risultato di un tenace lavoro su fonti edite e inedite, svolto principalmente (anche se non esclusivamente) nel ricchissimo Archivio di Stato di Bologna, non è una ricerca qualsiasi, su
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Prefazione
un aspetto della vita cittadina. Essa punta al cuore di questa storia, ricostruendone alcuni tratti essenziali. Certo, il mercato del grano non è tutto, né i fornai sono l’unico “mestiere del cibo” in questa come in altre città. Ma ciò a cui mira questa ricerca è ricostruire, almeno in alcuni punti visibili, il sistema e le sue intime correlazioni, tra città e campagna, produzione e mercato, trasformazione e consumo dei prodotti alimentari. Il cibo è un nodo centrale della storia, forse il più sensibile, l’oggetto attorno a cui, alla fin fine, tutto in qualche modo ruota. In queste pagine se ne troverà un bell’esempio. Massimo Montanari
INTRODUZIONE
1. Lo studio delle politiche alimentari nella storiografia europea «Quod in civitate Bononie pro civibus et comitatinis magna bladi copia habeat, eciam provideri ne comune Bononie subito possit propter bladi caristia in promptum precipitare periculum, et obviare illorum maliciis qui continue pro eorum posse conantur opere manu facto in civitate Bononie inducere caristia…»1.
Così recita il provvedimento assunto dal consiglio del popolo il 14 luglio 1292, uno fra i tanti di quel tenore emanati negli ultimi decenni del Duecento a Bologna. Espressioni quali «magna bladi copia» e «bladi caristia», menzionate nel documento bolognese sopracitato, si riscontrano spesso nelle disposizioni di legge delle città italiane centro-settentrionali e d’oltralpe medievali. Esse presupponevano la percezione della crisi da parte dei governanti e dei legislatori, nonché la consapevolezza delle cause che ne erano alla base. Nel Duecento a Bologna, come altrove in Italia e in Europa, i gruppi dirigenti cercavano di ovviare ai periodi di difficoltà e alle malversazioni che spesso si verificavano in quelle circostanze, adottando misure volte a controllare il mercato dei cereali, del pane e del sale, a gestirne i rifornimenti, il deposito, le scorte. L’approvvigionamento alimentare, infatti, si configurava quale fenomeno eminentemente politico nelle società europee preindustriali. Erano i governanti a dover assicurare la disponibilità dei beni di consumo primari ai cittadini e ai sudditi che, dal canto loro, lo ritenevano un fatto dovuto, oltre che necessario. Proprio sulla capacità di “nutrire la città” si giocava la credibilità di coloro che erano al ASBo, Comune Governo, Riformagioni e Provvigioni, Riformagioni del Consiglio del Popolo e della Massa, n. 135, 1292, c. 197v.
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potere, il cui obbligo primario era, per l’appunto, quello di provvedere ai rifornimenti necessari a soddisfare il fabbisogno quotidiano della popolazione2. Le sommosse e il malcontento per l’elevato prezzo del pane, o la scarsità di cereali sul mercato, erano problemi all’ordine del giorno nei centri urbani dell’Europa preindustriale. Non sempre il termine «caristia» e la crisi che ne conseguiva presupponevano mancanza o insufficienza di frumento. Anzi, quando nei provvedimenti legislativi si utilizzava il vocabolo «caristia» spesso non si trattava di raccolti andati a male a causa delle intemperie, anche se le cronache cittadine attestano, per i secoli medievali, innumerevoli disastri provocati dal clima avverso. Naturalmente, era frequente la possibilità che in determinati periodi (una congiuntura economica difficile, una guerra, mesi di siccità) non vi fosse produzione di grano o fosse molto esigua; in tal caso, si trattava di vera e propria fame (fames). Nondimeno, nella maggior parte delle situazioni in cui si verificavano congiunture difficili, i raccolti potevano aver dato i loro frutti e il frumento essere stato immagazzinato. Con il termine «caristia», infatti, i governanti e i legislatori non intendevano una totale mancanza o scarsità di viveri, quanto piuttosto il rincaro dei prezzi dei beni di prima necessità. A lungo si è dibattuto su questo tema. Recenti convegni, studi e contributi – in ambito europeo e italiano – incentrati principalmente sull’analisi delle carestie nella congiuntura del Trecento in Europa e nel Mediterraneo occidentale, hanno contribuito a mettere in luce una nuova interpretazione dell’idea di carestia, che chiarisce alcuni meccanismi economici soggiacenti alle politiche annonarie di città e stati europei di età preindustriale3. Secondo questa interpretazione, illustrata, fra gli altri, da François Menant4 e Luciano Palermo5, il termine latino caristia deriverebbe non tanto dal verbo carere, che significa assenza di qualcosa, quanto piuttosto dall’aggettivo carus, ovvero rincaro dei prezzi6. Il vocabolo fames, invece, designava la vera e propria mancanza di viveri, che poteva essere conseguente a un insieme di fattori estremamente negativi protrattisi nel tempo, fino a giungere a situazioni estreme di penuria di cibo e a elevati picchi di mortalità. Fra le cause della fame vi erano sovente consistenti raccolti andati a male, gravi fenomeni climatici che provocavano la distruzione degli arativi, dei prativi, dei boschivi (tempeste, inondazioni, siccità). In queste congiunture eccezionali l’alta percentuale di mortalità era ulteriormente accentuata dalla denutrizione e dalla scarsa igiene che ingenerava malattie e, non di rado, epidemie7. Diversamente dalla fames, la carestia riguardava il quotidiano, era breve e ricorrente; poteva non dipendere da una scarsa produzione di grano. Spesso, erano altri fattori a scatenarla; per esempio, la diffusione di false informazioni sui mercati urbani circa un cattivo 4 5 6 7 2 3
Kaplan 1984, pp. 23-24. Bourin, Drendel, Menant 2011; Benito I Monclús 2013. Menant 2007. Vedi inoltre Bourin, Drendel, Menant 2011. Palermo 1984; Palermo 1997, pp. 234-244; Palermo 2012; Palermo 2013. Pinto 1978. Vedi inoltre Faugeron 2009a, pp. 181-182; Faugeron 2014, pp. 185-188. Palermo 1984, p. 355.
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raccolto causava immediatamente un rialzo dei prezzi dei cereali (e quindi del pane) e dava adito a manovre speculative. Secondo Pere Benito i Monclús8 simili meccanismi incidevano pesantemente sulla rapida espansione di certe carestie, o di periodi di fame, che potevano trasformarsi da fenomeni di portata locale e regionale a fenomeni ben più consistenti, estesi all’intero bacino del Mediterraneo occidentale. Accadeva, per esempio, che parte dei quantitativi di grano in commercio venissero tolti dal mercato per provocare un rincaro dei prezzi. Protagonisti di tali speculazioni erano soprattutto i mercanti di cereali, ma anche i governi o chi agiva (ufficialmente) a loro nome. Vari esempi si potrebbero enumerare in questo senso. Nelle castellanie sabaude del Piemonte occidentale tra Due e Trecento, per esempio, la diminuzione di produzione era dovuta a manovre di stockaggio e vendita delle scorte cerealicole, attuata da chi, come i Savoia, aveva interesse a ottenere prezzi alti sul mercato e indebolire la nobiltà minore detentrice dei diritti signorili9. Nel Trecento Firenze fu teatro di vari casi di malversazioni, talvolta a carico degli ufficiali del comune, più spesso attuate dai mercanti di cereali10. Sempre nel Trecento si registrano a Roma dinamiche analoghe: il grano spesso veniva sottratto alla vendita da chi lo possedeva (generalmente, la nobiltà terriera e la piccola proprietà urbana) in attesa di un conseguente rialzo dei prezzi11. Simili macchinazioni si verificarono a Bologna in età comunale; nel 1257, alcune persone di fiducia incaricate dal governo cittadino di vendere il grano pubblico sul mercato, fra cui un certo numero di ecclesiastici, avviarono una serie di operazioni illecite, che provocarono di fatto una crisi granaria, di cui lo stesso governo bolognese dovette rispondere. Tale crisi non fu determinata da un cattivo raccolto (le cronache bolognesi non registrano per quell’anno, né per il successivo o il precedente, alcuna tragedia climatica), ma da transazioni non propriamente legali svolte da coloro che avrebbero dovuto agire in maniera trasparente per il bene comune. Una situazione del genere non significava necessariamente insufficiente produzione locale di frumento, mancati acquisti di cereali su mercati esterni, oppure depositi di cereali vuoti. Il grano poteva essere stato ritirato dal mercato in attesa della lievitazione dei prezzi12. Strategie di questo genere portavano al sorgere, a Bologna come altrove, di mercati clandestini a fianco di quelli ufficiali. I gruppi dirigenti cittadini europei cercarono nel XIII secolo di reagire a tali dinamiche mediante l’attuazione di severe politiche di compressione dei prezzi del grano. A Bologna, in particolare, l’élite a capo degli organi di governo rispose alle malversazioni subite con l’ema Benito I Monclús 2011. Per un quadro complessivo delle problematiche inerenti al tema delle carestie vedi il più recente Benito I Monclús 2013. Riguardo alle crisi frumentarie nel basso Medioevo nelle città catalane vedi Riera Melis 2013. 9 Salvatico 2004. 10 La Roncière 1982, pp. 613-615. 11 Palermo, Strangio 1997, pp. 328-330. 12 Palermo 1997, pp. 241-243. 8
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nazione di una legislazione straordinaria in materia di approvvigionamento, stoccaggio, vendita del grano, che permettesse un maggiore controllo del mercato del grano13. In tal senso, nell’aprile 1259 il comune elesse otto rappresentanti dei gruppi economici e finanziari cittadini, denominati domini bladi, incaricati di redigere un Ordinamentum bladi14 da rendere esecutivo nei mesi successivi. In quella circostanza fu istituito l’Officium bladi (di cui i domini bladi erano presidenti), la prima magistratura bolognese specificamente addetta al rifornimento di cereali. La politica cerealicola rappresentava soltanto un aspetto delle misure annonarie che i centri urbani dell’Occidente medievale approntarono in maniera sistematica nei secoli XII-XIII. L’annona riguardava i cereali e il pane, al pari degli altri prodotti di largo consumo. Gli stessi statuti delle città, infatti, prevedevano varie norme sulla carne, il pesce, gli ortaggi, i frutti, le spezie, il sale, il vino. Che il sistema annonario di una città o di uno stato non si esaurisse esclusivamente con i provvedimenti riguardanti il grano, ma comprendesse l’intero sistema alimentare, è un dibattito assai noto alla storiografia europea medievale e di Età moderna, recente e passata. In Italia, in particolare, Giuliano Pinto ha elaborato considerazioni importanti in un contributo del 198515, che ha costituito l’avvio per successive riflessioni da parte di medievisti italiani e stranieri. Secondo Pinto il tema della politica annonaria delle città-stato, e in seguito degli stati regionali, non era stato affrontato in lavori di sintesi che inquadrassero il problema in ambiti cronologici e spaziali di una certa ampiezza. Lo stesso lavoro di Hans Conrad Peyer uscito nel 195016, che rappresentava un’eccezione nel panorama degli studi europei, in quanto l’autore prendeva in esame la politica annonaria delle città dell’Italia padana, non oltrepassava la fine del XIII secolo. «Un’indagine sulla politica annonaria deve porsi innanzitutto l’obiettivo di recuperare la dimensione globale del problema», sosteneva Pinto in quel contributo, e non concernere esclusivamente l’approvvigionamento cerealicolo. Occorreva, dunque, svolgere ricerche incentrate sul problema della produzione, dei rifornimenti, dei consumi anche degli altri generi alimentari di largo consumo, quali la carne e il pesce. Consistente in questo senso è la documentazione a partire dalla fine del XIII secolo, in particolare per l’Italia centro-settentrionale, costituita dai registri di dazi, dai libri contabili di locazioni, dai censimenti fiscali. Per meglio inquadrare il problema – secondo Pinto – era necessario innanzitutto individuare per ogni città-stato, o unità politica, il rapporto fra fabbisogno e produzione interna, includendo i prodotti sostitutivi dei cereali, di cui si faceva ampio uso nel Medioevo. Era importante tener conto del mutare di questo rapporto in presenza di modificazioni dell’assetto territoriale e di periodi di picco della crisi demografica, quale quello verificatosi tra fine Duecento e inizi 15 16 13 14
Palermo 1997, pp. 244-246. Statuti del comune di Bologna 1245-67, III, pp. 491-547. Pinto 1985. Il medesimo contributo è stato ripubblicato con aggiornamenti in Pinto 1996. Peyer 1950.
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Trecento per una parte dell’Italia centro-settentrionale, come gli studi sulla congiuntura del Trecento hanno dimostrato. In tale prospettiva diventava fondamentale l’analisi delle politiche alimentari degli stati di età preindustriale in rapporto alla storia agraria, data la rilevanza dei prodotti locali per l’approvvigionamento e il commercio delle città17. Negli ultimi decenni varie indagini sono state sviluppate tenendo conto di queste filiere tematiche; indagini realizzate intrecciando la storia economica con studi di demografia e di politica fiscale, unitamente ad approfondimenti sulle corporazioni del vettovagliamento urbano e i mestieri del cibo. Uno studio, per esempio, relativo al mercato e alla politica economica delle città lombarde, fra fine Duecento e primo Trecento, è stato eseguito da Patrizia Mainoni18, la quale per il XII secolo ha esaminato anche il caso di Vercelli19. Diverse ricerche si potrebbero ricordare in materia annonaria in ambito italiano ed europeo, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, proseguite fino a tempi recentissimi20. Analoghi nodi problematici e approcci tematici sono emersi nell’ambito della storiografia di Età moderna. Riguardo alle politiche alimentari, Alberto Guenzi21 sostenne, in occasione del convegno del 1988 “Archivi per la storia dell’alimentazione”, che le politiche annonarie non erano limitate ai cereali, ma riguardavano anche il sale, la carne, il pesce gli ortaggi e la frutta. Orientamenti e suggestioni ancora oggi dibattute da parte dei modernisti. Stefano D’Atri22, che studia l’annona a Ragusa (Dubrovnik), ha ripreso le fila del discorso di Guenzi e di Ivo Mattozzi23, sottolineando l’importanza dell’indagine dei sistemi annonari sulla lunga durata, al fine di cogliere più distintamente la molteplicità delle componenti in gioco: dalla varietà delle politiche relative ai singoli alimenti, alle modalità di vendita, ai meccanismi dei prezzi, al rapporto fra periodi “normali” e periodi di crisi. Sono stati pubblicati numerosi studi (per l’Età moderna) incentrati sul rapporto fra le politiche alimentari di una città-stato, l’andamento demografico della stessa e la produttività delle campagne circostanti; fra esse si annovera l’indagine di Franco Cazzola circa l’economia ferrarese nel Rinascimento. Un’indagine per cui l’autore ha analizzato i rendimenti cerealicoli del territorio, i rapporti di lavoro fra proprietà e contadini, le tecniche agricole, nonché l’attività dei fornai e la produzione del pane24. Recentemente, tale approccio metodologico si Riguardo ai rapporti economici fra città e campagna vedi Pinto 2005. Ulteriori riferimenti bibliografici riguardo a questo tema sono riportati nella Parte II del volume. 18 Mainoni 2003. 19 Mainoni 2005. 20 Per un quadro d’insieme vedi L’approvisionnement des villes de l’Europe occidentale. Ulteriori riferimenti bibliografici sono forniti nel corso della trattazione. 21 Guenzi 1995. 22 D’Atri 2012. 23 Mattozzi, Bolelli, Chiasera, Sabbioni 1983. Vedi inoltre Mattozzi 1986. Altre città sono state studiate riguardo al tema dell’approvvigionamento alimentare. Vedi l’esempio di Milano nel XVI-XVII secolo (parziale 2009) e quello di Verona fra XV e XVIII secolo (Vecchiato 1979). 24 Cazzola 2003. Vedi anche Zanetti 1964; Basini 1970. 17
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è arricchito di ulteriori linee di ricerca, mirate all’analisi dell’evoluzione delle magistrature annonarie nei secoli25 e all’organizzazione dei mestieri alimentari in città26. In ambito medievistico, le proposte di Pinto sono state accolte da diversi studiosi, i quali hanno realizzato lavori sui sistemi annonari di città e di stati, mettendo a fuoco non soltanto le problematiche relative al grano, ma anche quelle riguardanti altri alimenti di largo consumo, quali la carne e il pesce. È il caso, per esempio, della tesi di dottorato di Fabien Faugeron (2009), pubblicata recentemente (2014) sulle politiche alimentari promosse dalla repubblica veneziana a fine Medioevo27. Lo studioso francese, sulla base di una consistente documentazione d’archivio (ma non soltanto), dalle fonti normative a quelle giudiziarie, ai capitolari dei mestieri alimentari, alle fonti narrative, ha inteso svolgere un’indagine «globale» (riprendendo il proposito di Pinto) circa la questione dell’approvvigionamento alimentare di una grande città mediterranea come Venezia. In questa prospettiva Faugeron ha esaminato le filiere del vettovagliamento urbano in rapporto alle politiche annonarie, alla produzione agricola, alle finanze pubbliche, al sistema di scambi commerciali, alla consumazione urbana28. Altri contributi (articoli, saggi, monografie) – sia per la storia medievale che quella moderna – sono stati concepiti e strutturati al fine di indagare le politiche alimentari degli stati preindustriali sotto diversi punti di vista: andamento demografico, strategie fiscali, produzione agricola, attività dei soggetti economici sul mercato, domanda dei consumatori. Sussiste a tutt’oggi una certa frammentazione del campo di indagine nell’ambito della medievistica italiana, dovuta alla molteplicità delle fonti, nonché alla varietà degli orientamenti di ricerca, che spesso necessiterebbero di lavori d’équipe e dell’impiego di competenze diversificate. I problemi di interpretazione dei sistemi annonari hanno occupato anche, e soprattutto, un ruolo centrale nella storiografia otto-novecentesca europea di indirizzo prevalentemente economico. A iniziali teorie basate sul principio di “mercato autoregolato” secondo il meccanismo della domanda e dell’offerta si è sostituita l’idea di “economia di mercato”, concetto che permette – secondo parametri più recenti – di cogliere meglio la natura e la varietà delle transazioni29. I principi di funzionamento dei mercati alimentari, il loro inquadramento da parte delle autorità pubbliche, il valore delle derrate commestibili nelle società di età preindustriale hanno dato luogo a letture diversificate sulla questione della formazione dei prezzi. Negli anni Cinquanta del Novecento Raymond De Roover30, uno degli artefici della Pult Quaglia 1990. Bargelli 2013. 27 Faugeron 2009a; Faugeron 2009b; Faugeron 2014. 28 Faugeron 2009a, pp. 12-23; Faugeron 2014, pp. 1-13. 29 Grenier 1995; Grenier 1996; Palermo 1997; Salvemini 1997; Britnell 1997; Ago 1997; Menjot 2008. 30 De Roover 1951, pp. 495-496. Vedi inoltre De Roover 1955; De Roover 1958; De Roover 1974. Più recente: Langholm 1992. 25 26
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rivalutazione del pensiero economico degli scolastici31, sostenne che per essi l’idea del “giusto prezzo” era il prezzo di concorrenza, la cui regolamentazione spettava di diritto all’autorità pubblica. In assenza di tale regolamentazione, il giusto prezzo si configurava quale risultato di una stima comune, frutto della libera valutazione dei venditori e dei compratori, ossia delle dinamiche di forza dell’offerta e della domanda32. In seguito, gli studiosi di economia morale, sulla scia del suo iniziatore Edward P. Thompson33, hanno insistito su una concezione organicistica dei rapporti fra stato, società e mercati, fortemente influenzata dalla Chiesa34. In base a tale interpretazione, il “giusto prezzo” delle derrate alimentari, e in particolare del pane, non deriverebbe dalla legge dell’offerta e della domanda, né tantomeno della libera concorrenza, bensì dalle relazioni personali e dal ruolo di ciascuno nella società, secondo una logica di giustizia distributiva. Invece, le sue variazioni sarebbero attribuibili alla communis aestimatio, rappresentata dal forum, mediante la fissazione legale dei prezzi, che potevano essere stabiliti da esperti in grado di valutare il valore intrinseco di un bene35. Nella fattispecie, in ambito italiano Giacomo Todeschini36 ha illustrato due diverse interpretazione del mercato, del commercio e del ruolo del mercante, delineatesi in seno al pensiero teologico e filosofico nella seconda metà del XIII secolo. Secondo la scuola francescana l’abilità professionale del mercante determinava il valore dello stesso (quindi la sua capacità di profitto) e l’equilibrio dei prezzi, appunto la communis aestimatio, o valutazione comune sul mercato, governata da regole generali dettate dalla società. Diversamente, gli esponenti della scuola domenicana ritenevano che l’utilità civica del mercante comportasse la legittimità del suo guadagno, che però doveva essere limitato e sorvegliato. Era una valutazione che aveva poco a che fare con l’equilibrio dei prezzi, ma dipendeva dal valore intrinseco degli oggetti. Nel pensiero economico medievale si affermò anche il concetto di equità dipendente dalla fluttuazione del prezzo delle merci. Da una nozione di “giusto prezzo” l’attenzione dei teologi e dei filosofi si volse piuttosto verso l’analisi delle modalità di scambio dei valori, quindi dei valori in grado di definire l’utilità 31 De Roover dimostrò che la tradizione scolastica ebbe inizio nel XIII secolo e si protasse fino al XVIII secolo, e che gli scolastici non intesero esaminare il problema economico come fenomeno autonomo, ma quale elemento accessorio dell’ordine sociale e spirituale. Per tale interpretazione De Roover riprese le riflessioni di Armando Sapori (Sapori 1974). 32 De Roover 1951. Per un inquadramento dell’analisi di De Roover in rapporto al pensiero economico moderno e novecentesco vedi Kirshner 1975, pp. 322-323. 33 Edward P. Thompson scrisse un saggio nel 1971 apparso sulla rivista Past and Present, in cui rifletteva sul comportamento della folla nell’Inghilterra del Settecento. Lo storico inglese propose un’analisi del comportamento delle folle quale espressione di una cultura alternativa rispetto a quella liberista divenuta dominante con Adam Smith. Per descrivere tale cultura alternativa Thompson coniò l’espressione di “economia morale”. Vedi Thompson 1991 (e 2001). 34 Faugeron 2009a, pp. 606-611; Faugeron 2014, pp. 631-637. 35 Vedi anche Ago 1998; Clavero 1991; Guerreau 2001. 36 Todeschini 2005, p. 205.
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pubblica dello scambio37. Recentemente, in ambito anglosassone, si è sostenuta l’intima relazione fra morale, legge e realtà. James Davis nel suo lavoro Medieval market morality (2012)38 ha inteso descrivere e spiegare le rappresentazioni ideologiche e legali dei mercanti nell’Inghilterra tardomedievale, fornendo una comparazione critica con le pratiche di mercato. Secondo lo studioso non vi era conflitto fra morale, legge e vita quotidiana, né tantomeno armonia, quanto piuttosto un flusso continuo e un continuo riadattamento fra ideologia e mentalità, leggi dello stato e religione. Vari studi riguardano, inoltre, il ruolo centrale delle istituzioni nella vita economica e commerciale di uno stato, nonché la funzione del mercato. Steven Laurence Kaplan39 ha indagato questi aspetti riguardo all’approvvigionamento di cereali e pane a Parigi nel Settecento sotto forma di una continua tensione fra “principio del mercato” (market principle) e “luogo del mercato” (marketplace). Il primo corrisponderebbe a un sistema di relazioni in cui i prezzi sono determinati da una dinamica impersonale dell’offerta e della domanda; il secondo costituisce lo spazio fisico entro cui un insieme di norme sono applicate. Numerose ricerche hanno messo in luce l’esistenza di molteplici circuiti che alimentavano il mercato urbano in età preindustriale. Renzo Paolo Corritore40, per esempio, ha rilevato per il territorio mantovano all’inizio dell’epoca moderna una segmentazione del mercato granario. Si erano formati, trasversalmente al rapporto città/contado, diversi circuiti di approvvigionamento, differenziati in base alle possibilità di accesso ai mercati, corrispondenti a costi di produzione e qualità dei prodotti distinti. In un’analisi per certi aspetti affine a quella di Corritore, Monica Martinat41 ha riscontrato nella Roma pontificale dei secoli XVIXVII un’organizzazione del mercato cerealicolo caratterizzata dalla compresenza di due circuiti separati: quello circoscritto nell’area di piazza del Campo de’ Fiori, regolamentato da norme precise ed esplicite, dove agivano i piccoli contadini-produttori locali, e il circuito dei mercanti di campagna e dei grandi proprietari fondiari, disseminato in città. La segmentazione dei circuiti del grano non comportava soltanto distinzioni di carattere quantitativo, ma riguardava anche la configurazione stessa degli scambi: si diversificano i luoghi dove avvenivano le transazioni e le strategie di vendita. A Bologna nel XIII secolo coesistevano, in città e nel contado, a fianco di quelli ufficialmente gestiti o regolamentati dal comune, micro-circuiti di grano e di pane, promossi grazie all’iniziativa, talvolta non propriamente legale, di privati, singoli o gruppi consortili. In questa prospettiva, alla luce degli studi sull’idea di carestia, quella di giusto prezzo e di economia morale, ho cercato di enucleare alcuni aspetti delle politiche cerealicole intraprese dal governo bolognese, intrecciando la storia istituzionale ed economica con quella sociale e dell’alimentazione. 39 40 41 37 38
Todeschini 2005, p. 207. Davis 2012. Kaplan 1984, pp. 23-40. Vedi inoltre Kaplan 1976 e Kaplan 1996. Corritore 2000, p. 66; pp. 199-217; pp. 219-260. Martinat 1999. Cfr. Martinat 2004, pp. 219-329.
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2. Approccio metodologico e fonti Questo lavoro costituisce il risultato di ricerche da me svolte nel corso degli ultimi due anni presso l’Archivio di Stato di Bologna. Ricerche che presero le mosse da una precedente indagine su fonti archivistiche bolognesi, in occasione di uno studio collettivo pubblicato nel 2008, quale risultato di un laboratorio organizzato dall’allora Dipartimento di Paleografia e Medievistica dell’Università di Bologna (oggi incorporato nel Dipartimento di Storia culture civiltà)42. In tale occasione ebbi modo di accostarmi alle fonti d’archivio e studiare una categoria dei mestieri dell’alimentazione nel Medioevo, i salaroli, mercanti di sale, carni salate, formaggio, cereali inferiori (denominati biado nelle fonti bolognesi ma anche altrove, negli statuti cittadini italiani e d’oltralpe43). Quel breve articolo costituì il punto di partenza per una riflessione più approfondita sui mercanti e gli artigiani di cibo a Bologna nel pieno e basso Medioevo. A seguito di un’indagine preliminare, eseguita per campionature dal 1250 fino ai primi decenni del Trecento, sulle carte del fondo procuratori del comune44 e su quelle prodotte dall’Officium bladi (documentazione in corso di riordino)45, la mia attenzione si è appuntata su uno dei prodotti che avevo già incontrato studiando i salaroli: il biado. Da questo primo scandaglio di fonti è nata l’indagine sui cereali e sui mestieri del pane: in primis i fornai, ma anche i mugnai, i trasportatori, i mondatori. Proprio sul tema del pane e dei fornai a Bologna, un ampio lavoro di carattere economico è stato compiuto per l’Età moderna da Alberto Guenzi46 negli anni Ottanta del secolo scorso, mentre non vi sono studi esaustivi per i secoli medievali. Si contano numerosi contributi, monografie, saggi – ancora oggi fondamentali – che illustrano la storia della città fra Due e Trecento da un punto di vista prevalentemente politico, istituzionale, economico, sociale, culturale (basti pensare alla presenza dello Studium). Nell’ambito di questi orientamenti, inerenti alla vita del comune e alle sue magistrature, alcuni studiosi hanno svolto riflessioni significative relativamente al grano, al pane e ai fornai. Penso, per esempio, ai lavori ormai classici, risalenti alla fine dell’Ottocento, di Augusto Gaudenzi sugli statuti di popolo47; a quelli di Gina Campanini, Rinaldi 2008. Louis Stouff, a proposito dell’approvvigionamentoalimentare in Provenza nel XIV e XV secolo, rileva l’amibiguità nelle fonti statutarie cittadine del vocabolo bladum (Stouff 1970, pp. 39-40). Giuliano Pinto, studiando lo Specchio umano del fiorentino Domenico Lenzi, meglio conosciuto come Libro del biadaiolo, sottolinea che i cereali al di fuori del frumento, e i legumi, erano indicati genericamente con il termine biade (Pinto 1978, pp. 34-36; Pinto 1982, pp. 98-100). 44 ASBo, Camera del comune, Procuratori del comune, bb. 1-9. 45 Ringrazio gli archivisti dell’Archivio di Stato di Bologna, che mi hanno permesso di accedere a parte della documentazione suddetta. Ho consultato in particolare i più antichi registri pervenuti risalenti agli anni 1286-87, e ho eseguito una campionatura su una serie di registri di fine Duecento-inizi Trecento. 46 Guenzi 1978; Guenzi 1981; Guenzi 1982. 47 Statuti arti. 42 43
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Fasoli48 sviluppati a partire dagli anni Trenta fino agli anni Settanta del Novecento, riguardanti il ruolo delle corporazioni in rapporto all’istituzione comunale. Fondamentali per un quadro complessivo della vita economica a Bologna nel Medioevo sono i saggi di Luigi Dal Pane degli anni Cinquanta-Sessanta49. A essi occorre aggiungere, inoltre, gli studi di Antonio Ivan Pini50, realizzati nei decenni SettantaNovanta del Novecento, circa i mestieri del vettovagliamento urbano, la politica annonaria e quella demografica, approntate dal governo bolognese nel corso del Duecento. Una prospettiva di ricerca – quella della demografia storica – affermatasi proprio negli anni Settanta-Ottanta del Novecento, nel contesto italiano e d’oltralpe, con l’intento di esaminare le dinamiche relative all’aumento o alla diminuzione delle popolazioni urbane. Il caso di Bologna è significativo in questo senso. Soltanto una riflessione sull’andamento demografico degli abitanti della città e del contado51, unitamente a un’indagine circa la produzione agricola del suo territorio52, consente di comprendere a fondo le politiche annonarie realizzate dal comune fra Due e Trecento. Secondo gli studi di Pini la città felsinea a metà del XIII secolo era una delle città più popolose d’Europa. I suoi abitanti, costituiti da gruppi più o meno stanziali, si identificavano con mercanti, studenti, intellettuali, artigiani, venditori stabili e ambulanti, giocatori, meretrici, contadini, proprietari terrieri inurbati, oltre alla fitta schiera di funzionari del comune, che affollavano i consigli e le sedute indette del governo bolognese presso le sedi del potere in piazza Maggiore. Nei lavori degli studiosi sopracitati si delineano, in maniera più evidente che in altri, alcuni nodi problematici riguardo allo studio dei mestieri dell’alimentazione a Bologna nel Medioevo. Già Gaudenzi53 cercò di riflettere sulle motivazioni alla base dell’esclusione delle categorie del vettovagliamento urbano e dell’ospitalità dalla possibilità di riunirsi in associazione. Gina Fasoli54 definì tali categorie “società proibite”, proprio in quanto impossibilitate a formare una società. Pini55 cercò di motivare il trattamento privilegiato riservato a tre mestieri del cibo – beccai, pescivendoli e salaroli – che ottennero licenza di riunirsi in corporazione, a suo avviso, in virtù della loro consistenza economica e numerica. Caratterizzate da uno scarso rilievo istitu Fasoli 1935a; Fasoli 1936a; Fasoli 1972. Dal Pane 1957; Dal Pane 1968; Dal Pane 2008. 50 Pini 1962; Pini 1969; Pini, Greci 1976; Pini 1978; Pini 1982; Pini 1996, pp. 35-178. 51 Riguardo al tema della demografia per il caso Bolognese vedi Pini 1996, Bocchi 1984; Greci 1994. 52 Un’indagine approfondita sulla proprietà fondiaria nel territorio bolognese fra Due e Trecento non è ancora stata realizzata. Sono stati eseguiti singoli lavori sugli investimenti fondiari di alcune famiglie bolognesi (o inurbate) appartenenti al nuovo ceto imprenditoriale cittadino, quali i Guastavillani (Gaulin 1987), i Principi (Greci 1986) o la famiglia di Giacomo Casella (Pini 1993b). Da tali contributi è emersa la tendenza per quei secoli, nel Bolognese, alla conversione degli arativi in terreni da pascolo. A tutt’oggi manca un esame su una campionatura più ampia di unità fondiarie. 53 Gaudenzi 1899. 54 Fasoli 1935a, pp. 238-239. 55 Pini 1982, pp. 275-277. 48 49
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zionale nella vita politica cittadina, ma fulcro delle attività produttive bolognesi, le cosiddette “società proibite” parteciparono a processi economici complessi, di cui si rilevano tracce nelle fonti normative, giudiziarie, amministrative, fiscali due-trecentesche. L’analisi attenta di queste e di altre fonti, fra cui le cronache, la letteratura di viaggio e quella agronomica permetterebbe di mettere meglio a fuoco il ruolo e la funzione delle suddette categorie nella vita economica di una città che in quei secoli figurava quale sosta obbligata per i mercanti italiani che vi confluivano dal centro Italia, al pari di quelli provenienti d’oltralpe. Si tratta di approcci metodologici e tematici, adottati altresì in alcuni studi inerenti alla produzione e al commercio di determinati prodotti alimentari, quali la carne e il pesce. Una serie di indagini, infatti, riguardanti le corporazioni “lecite” del cibo – beccai, pescivendoli, salaroli – sono state realizzate a partire dalla metà degli anni Settanta del Novecento, e ancora nei decenni successivi, allo scopo di delineare la storia di quelle categorie nel contesto politico-economico cittadino, nonché le fasi, i luoghi e i ritmi di lavoro. In questa prospettiva si inquadrano la monografia di Mario Fanti56 sulla storia dei macellai bolognesi nel corso dei secoli fino al Novecento e il saggio di Valeria Braidi57 sul ruolo politico e militare dei macellai nella Bologna medievale. Occorre, inoltre, ricordare il contributo del 1975 di Pini58 sui pescivendoli nei secoli XIII-XIV e il recente lavoro collettivo sull’arte salumaria dei salaroli, dal Medioevo fino a oggi, con saggi di Giancarlo Roversi e Paola Foschi59. Prospettive di indagine trasversali, relativamente ai mestieri dell’alimentazione, sono state avanzate in tempi recentissimi in rapporto a temi specifici, come per esempio, la presenza femminile nel mondo artigiano. Significativi, in tal senso, sono i profili professionali di donne attive nel sistema produttivo bolognese individuati da Rossella Rinaldi60 per il Due-Trecento, fra cui spiccano le treccole, venditrici sul mercato urbano di frutta e ortaggi. Diversamente, Antonella Campanini61 ha esplorato le forme di comunicazione che l’autorità bolognese impiegava nel Cinquecento per informare il popolo delle decisioni prese in materia annonaria, fra cui le grida e i bandi riguardanti i macellai e la vendita di carne fresca costituiscono un esempio significativo. La storiografia locale si è arricchita nel corso degli ultimi decenni di spunti e quesiti relativi alla vita economica bolognese in Età medievale, con un’attenzione specifica al settore alimentare. Il pane, come si già accennato, è stato studiato da Guenzi, il quale ha messo a fuoco l’universo produttivo che vi ruotava attorno a partire dal XV secolo62. Per il periodo precedente i dati sui cereali e sul pane risultano Fanti 1980. Braidi 2004. 58 Pini 1975. 59 Roversi 2006. 60 Rinaldi 2012. 61 Campanini 2010. 62 Più compatta risulta la documentazione di Età moderna conservata in una serie fondi studiati da Alberto Guenzi, come quello dell’Assunteria delle Arti, in cui si trova una busta relativa alle attività 56 57
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disseminati in fonti economiche e fiscali, in quelle normative e giudiziarie. Dall’esame a campione di tale genere di fonti ha preso avvio la presente ricerca. Laddove mi è stato possibile ho cercato di porre a confronto il caso bolognese con quello di altri comuni italiani. Mi sono concentrata principalmente sull’esame di fonti duecentesche, perché in quel secolo, definito “secolo d’oro” da Pini63, si configurano le prime magistrature incaricate di gestire il vettovagliamento urbano e nel contempo affiora nelle fonti un mondo variegato di mestieri alimentari, fra cui quelli del pane. Dietro l’immagine di città “grassa e dotta”64, coniata da studenti e viaggiatori stranieri, ma ben presto adottata dai bolognesi, vi era un insieme di attività produttive, artigianali, commerciali, creditizie, entro cui le categorie professionali del cibo – dalle meno considerate a quelle più reputate – svolgevano una funzione trainante per il mercato. Si tratta di prospettive di indagine differenti, per le quali ho approfondito certi aspetti della storia politico-istituzionale, unitamente a riflessioni sulle vicende economiche e sociali della città. Alcune considerazioni conclusive riguardano soprattutto la storia dell’alimentazione, nella misura in cui il pane è un prodotto culturale frutto di un sapere complesso, di consuetudini e di costumi, locali e importati da fuori, soggetti a modifiche nel tempo e testimoni di diverse maniere di concepire l’atto del mangiare. Nell’intento di ricostruire qualche tassello circa le politiche cerealicole promosse dal comune, nonché il rapporto fra istituzioni e mestieri del pane nel Due-Trecento, ho esaminato una serie di fonti archivistiche, edite e inedite, conservate presso l’Archivio di Stato di Bologna e la Biblioteca comunale dell’Archiginnasio. Un primo gruppo di fonti è costituito dalla normativa (edita) prodotta dal comune nel XIII secolo, cui si aggiunge la prima raccolta statutaria trecentesca. Mi riferisco, in particolare, agli statuti del 1245-67, a quelli del 1288 e del 1335. Sempre in materia legislativa, ho consultato l’ordinamento dei fornai del 132765, inedito, contenente una normativa speciale riguardante questa categoria, di cui si fa cenno nei successivi statuti del 1335. Ho altresì preso in considerazione gli statuti del 1352 (editi solo parzialmente66), benché più tardi rispetto alla maggior parte di documenti esaminati, in quanto presentano per la prima volta una rubrica-tariffario contenente i prodotti cotti dai fornai in città67. della compagnia dei fornai dal Cinquecento fino al Settecento (ASBo, Assunteria d’Arti, Notizie sopra le Arti, Fornari, b. 1). A tale fondo si aggiungono l’Assunteria di Abbondanza, contenente le disposizioni prese in materia annonaria dalla magistratura, denominata appunto Assunteria dell’Abbondanza (ASBo, Assunteria di Abbondanza, secc. XVI-XVIII); il fondo Assunteria di Camera, comprendente, fra i vari dazi, anche quello delle moline, delle cialde e il Monte Annona (ASBo, Assunteria di Camera, Diversorum, secc. XVI-XVIII, nn. 63, 64, 76, 106, 107). Nello stesso fondo è contenuto il calmiere perpetuo per i fornai (ASBo, Assunteria di Camera, Notizie diverse e Instrumenti, C, n. 5). 63 Pini 2002a. 64 Riguardo al mito di Bologna grassa vedi Montanari 2002; Montanari 2004a. 65 BCABo, Fondi Speciali, Manoscritti B, B. 4094, 1327. 66 Gli Statuti 1352, 1357, 1376, 1389. 67 ASBo, Comune Governo, Statuti, 1352, vol. XI, n. 44.
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Poiché è espresso nella medesima rubrica il riferimento a una consuetudine passata, ho ritenuto plausibile supporre che gli stessi prodotti circolassero a Bologna in periodi antecedenti al 1352. Mediante l’analisi di questo corpus di fonti ho cercato di delineare le misure adottate dal governo bolognese in merito alla politica cerealicola, alle diverse fasi del ciclo del pane, ai mestieri del vettovagliamento urbano, della panificazione, dell’ospitalità. Un altro gruppo di fonti di carattere legislativo, ma aventi valore di provvedimenti esecutivi, è rappresentato dalle Riformagioni e provvigioni del popolo e della massa emanate a fine Duecento dal consiglio del popolo, divenuto in un secondo tempo “consiglio del popolo e della massa”68. Tali riformagioni erano delle ordinanze promulgate in merito a problemi contingenti di ordine pubblico (lavori urbanistici, designazione di incarichi nell’ambito della gestione della cosa pubblica), oppure legati alla necessità di reperire rapidamente introiti per finanziare una guerra o l’approvvigionamento di quantitativi di grano. Accanto al corpus documentario costituito dalla normativa, ordinaria e straordinaria, e da provvedimenti esecutivi aventi valore di legge, ho indagato un insieme di fonti (inedite) di natura economica e finanziaria prodotte da alcune magistrature duecentesche. Nella fattispecie, ho esaminato i Libri contractuum e i pacta stipulati dai procuratori del comune, ufficiali addetti all’amministrazione dei beni comunali (mulini, stadere, botteghe) e alla gestione dei dazi sulle mercanzie provenienti da fuori, fra cui il biado e altri generi alimentari (frutti, vino, spezie)69. Dallo spoglio di tali documenti è emersa l’ubicazione di alcuni spazi adibiti alla vendita del pane70 e una serie di pacta che i procuratori avevano stipulati con i fornai. Questo genere di contratti si riscontra successivamente, a partire dagli Ottanta del Duecento, nei registri del già citato Officium bladi71. Di quest’ultima documentazione ho analizzato, a campione, un certo numero di registri a partire dagli anni 1286-87 (i primi pervenutici) fino al 1314. Da essi ho tratto informazioni relative all’inquadramento del lavoro dei fornai nel contesto istituzionale, ma anche dati circa le importazioni di grano da altri territori, i dazi e le tratte pagate dagli ufficiali del comune ai fornitori. Vari documenti prodotti dall’Officium bladi attestano, inoltre, i salari di coloro che venivano impiegati nel ciclo del pane. L’esame di fonti fiscali, quali gli estimi cittadini del 1296-9772 mi ha consentito di delineare un quadro generale di queste professioni, pur nella consapevolezza che non tutti i denuncianti dichiaravano interamente il valore dei beni posseduti, o li ASBo, Comune Governo, Riformagioni e Provvigioni, Riformagioni del Consiglio del Popolo e della Massa (1280-1311). 69 ASBo, Camera del comune, Procuratori del comune, bb. 1-9 (1231-1310). 70 ASBo, Comune Governo, Registro Grosso, I. Il banco di un altro fornaio era ubicato sotto il portico del palazzo del Podestà (ASBo, Curia del Podestà, Ufficio del giudice al disco dell’orso, Accusationes, IV, 1285/XXIII). 71 Registri dell’Officium bladi, secoli XIII-XIV (materiale in corso di riordino presso l’Archivio di Stato di Bologna). 72 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, bb. 2-48, 1296-97. 68
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dichiaravano soltanto in parte. Mi sono soffermata, in particolar modo, sull’analisi delle cedole d’estimo dei fornai. Per meglio cogliere la situazione sociale ed economica degli addetti alla panificazione, ho incrociato i dati rilevati negli estimi con quelli provenienti dalla campionatura di altre fonti di natura seriale, quali le Società d’armi 73 e le Venticinquine, fonti attestanti i cittadini idonei alla chiamata alle armi in caso di guerra74. Ho inoltre visionato i primi statuti della compagnia dei fornai (1404-06)75, nonché altri materiali relativi ai secoli XV-XVI, riguardanti l’attività dell’associazione76. Al fine di implementare il quadro documentario esaminato ho indagato fonti di altra natura, quali, per esempio, le cronache bolognesi, ricche di informazioni sul clima, sui raccolti, le crisi agricole, i prezzi del grano, ma anche su acquisti di cereali da parte dell’uno o dell’altro comune italiano. Si tratta di fonti ampiamente utilizzate dai medievisti che, tuttavia, ne hanno spesso messo in luce i limiti, ponendo il problema della loro reale attendibilità77. Informazioni interessanti sulla qualità dei grani sono contenute, inoltre, nei testi agronomici, in particolare nel trattato trecentesco del bolognese Pier de’ Crescenzi, i Ruralia commoda78, di cui un libro è dedicato ai tipi di cereali prodotti nel territorio bolognese e al modo di coltivarli. Annotazioni inerenti alla storia dell’alimentazione provengono altresì dall’esame di trattati dietetici e ricettari culinari in lingua volgare dei secoli XV-XVI, attestanti una cultura gastronomica italiana, precipuamente “cittadina”, in fase di affermazione, all’interno della quale anche Bologna “grassa” aveva la sua collocazione. Non da ultimo, ho usufruito di fonti iconografiche, laddove mi sembrava potessero costituire un completamento “visivo” alle riflessioni, descrizioni, o esemplificazioni fornite all’interno dei singoli capitoli. Il supporto delle immagini mi ha permesso in certi casi di cogliere possibili forme e colori dei pani che venivano effettivamente serviti sulle tavole dei bolognesi, o comprati al mercato de platea. Lo studio, seppur frammentario e per campionature, di fonti di altra natura rispetto a quelle archivistiche mi ha permesso di cogliere talvolta particolari, talaltra dati più consistenti, circa determinati aspetti del vivere quotidiano. Queste fonti – intrecciate con quelle archivistiche – mi sono servite per enucleare l’ultima parte del lavoro, più strettamente connessa alla storia e alla cultura dell’alimentazione. Visualizzare i pani e ASBo, Capitano del popolo, Società d’arti e d’armi, Armi, b. 4, Società dei Quartieri, 72 (matricole, 1270); ASBo, Capitano del popolo, Società d’arti e d’armi, Armi, b. 2, Società dei Leopardi, 38 (matricole, 1272 circa); ASBo, Capitano del popolo, Società d’arti e d’armi, Armi, b. 2, Drappieri pro arma, 41 (matricole, 1310). 74 ASBo, Capitano del popolo, Venticinquine, b. 4, porta Ravennate, 1273, fasc. 1; ASBo, Capitano del popolo, Venticinquine, b. 1, porta Piera, 1273, fasc. 17. 75 ASBo, Capitano del popolo, Società d’arti e d’armi, Statuti delle arti, Società dei fornai, Statuti 14041406. 76 ASBo, Assunteria d’Arti, Notizie sopra le Arti, Fornari, b. 1 (XVI-XVII secolo). 77 Palermo 1984. 78 Crescenzi, 1. 73
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altri prodotti della panificazione commerciati a Bologna e nel suo territorio, nel Medioevo e nella prima Età moderna, ha costituito lo spunto per una riflessione sul variegato mondo dei consumatori. 3. Temi e contenuti Con questo lavoro, che si articola in quattro sezioni, ho inteso fornire un quadro politico-istituzionale ed economico della città nel Due-Trecento e, del pari, tratteggiare il profilo professionale dei mestieri del pane, nella fattispecie quello dei fornai, oltre a proporre alcune suggestioni circa il tipo di prodotti della panificazione commerciati a Bologna nel Medioevo. La prima parte comprende un’introduzione sul mito di Bologna “grassa” e la realtà politica, istituzionale, economica che aveva contribuito a crearlo. Alcuni luoghi simbolici di tale mito sorsero proprio nel Medioevo, ovvero le principali piazze-mercato della città: piazza Maggiore, piazza di porta Ravegnana, il Mercato di Mezzo, espressione che designava un insieme di viuzze intermedie fra le due piazze principali. La storia di tale comparto, unitamente alle attività che vi si svolgevano, alla varietà di venditori che vi operavano, ai consumatori che vi passavano e vi sostavano, costituisce un tassello importante della vita economica bolognese nel Duecento. La storia di queste piazze e delle vie a esse attigue incise profondamente sulle modalità di rifornimento del grano e sulla vendita del pane nel tessuto urbano. La seconda parte riguarda l’approvvigionamento cerealicolo e la fabbricazione del pane mediante l’analisi di fonti legislative, amministrative, economiche, finanziarie prodotte dagli uffici del comune. Ne emerge un quadro politico-istituzionale nel quale le politiche alimentari rappresentavano una delle priorità del governo bolognese (se non la principale). Attorno al reperimento del grano e del sale si concentrarono gli sforzi delle magistrature comunali, affinché il commercio di questi prodotti fosse monopolio del governo. In particolare, la magistratura dei domini bladi acquisì sempre maggiore importanza nella seconda parte del Duecento, tanto che nelle ordinanze promulgate dal “consiglio del popolo e della massa” degli ultimi decenni del secolo essi furono protagonisti di numerosi provvedimenti esecutivi relativi al rifornimento di grano, al suo deposito nei granai pubblici, alla distribuzione dello stesso ai fornai. La terza parte del lavoro concerne lo studio dei mestieri del pane fra Due e Trecento. Che si trattasse di funzioni e ruoli distinti lo si coglie dalla terminologia impiegata per designarli, diversificata sin dall’età classica. Significative per il commercio al dettaglio del pane furono le categorie dei fornai e degli albergatori, le cui attività erano regolamentate dalla normativa statutaria. Le medesime categorie furono spesso protagoniste di traffici illeciti, come si rileva da numerose testimonianze registrate nelle fonti giudiziarie coeve. Intorno a questi mestieri si era altresì svilup-
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pata un’attività creditizia, che presupponeva la circolazione di modeste somme di denaro e di pegni, spesso impiegati per esercitare l’ars fornarie. Molti fornai erano proprietari di piccoli appezzamenti di terreno nella guardia civitatis o nel comitatus. La quarta sezione tratta del pane e di altri prodotti della panificazione attestati nelle fonti scritte e iconografiche medievali e della prima Età moderna. Dall’insieme di questo corpus si colgono informazioni circa la forma, la qualità, il colore dei pani venduti a Bologna fra XIII e XVII secolo. Al pari della maggior parte delle città italiane ed europee, il pane bianco di frumento era considerato il pane per eccellenza, nonché uno dei simboli della cultura alimentare cittadina. I fornai confezionavano e cuocevano anche torte salate farcite di carne, spezie, formaggio, verdure e dolci. Grazie a questi cibi la cucina prodotta nella città felsinea si inseriva in una tendenza gastronomica europea attestata nei libri culinari medievali. Nondimeno, già nel Cinquecento si delinearono alcuni prodotti ritenuti tipici di Bologna. Ricostruire in parte il significato di tali rappresentazioni ha costituito un ulteriore obiettivo del lavoro. Questo lavoro non sarebbe potuto giungere a compimento senza l’aiuto e il sostegno di coloro che in questi due anni mi hanno seguita e spronata con sollecitudine e affetto. Desidero innanzitutto ringraziare Massimo Montanari, al quale sono grata per la disponibilità nell’avermi offerto spunti di riflessione nel corso dell’indagine e suggerimenti in merito al contenuto e alla struttura del volume. Desidero ringraziare Rossella Rinaldi, che ha indirizzato il mio percorso di investigazione fra le carte d’archivio due-trecentesche bolognesi, permettendomi di acquisire dimestichezza nel trattare una documentazione di carattere economico e fiscale di non facile interpretazione. Utili sollecitazioni in merito a singoli nodi problematici mi sono giunti in varie occasioni di discussione e confronto. Giuliano Pinto mi ha fornito indicazioni di carattere bibliografico circa il tema delle crisi granarie e delle dinamiche dei prezzi per i secoli XIII-XIV. Luciano Palermo ha sottoposto alla mia attenzione l’importanza delle nozioni di carestia e di mercato nelle economie di età preindustriale. Da Franco Cazzola ho ricevuto validi consigli di impostazione del lavoro agli inizi della mia ricerca. Tiziana Lazzari mi ha fornito delucidazioni in merito a temi di natura politico-istituzionale. Le segnalazioni bibliografiche di Alessandra Cianciosi ed Elisa Erioli, ciascuna nel proprio ambito di competenze, mi hanno permesso di approfondire singoli aspetti della trattazione. Ringrazio inoltre gli archivisti e gli amici operatori dell’Archivio di Stato di Bologna, che mi hanno aiutata nel reperimento dei materiali, nella fattispecie Valentina Gabusi e Giancarlo Busati. Un ringraziamento particolarmente affettuoso a Carla e Anna, che mi sono state vicine durante la stesura del libro.
I. IL MERCATO
1. Oltre il mito. Bologna “grassa” nel Duecento La vocazione di Bologna quale luogo di traffici e scambi1 si suppone risalga alle più antiche forme di insediamento del nucleo urbano; tale predisposizione al commercio è divenuta in alcuni periodi storici un aspetto peculiare della città e del suo territorio. È il caso, per esempio, della fase di maggiore espansione della civiltà etrusca in area padana (VI- IV secolo a.C.) e, più di un millennio dopo, dell’età comunale. Il Duecento, in particolare, è il secolo in cui fiorisce il mito di Bologna “la grassa”2, attestato per la prima volta in fonti letterarie francesi del XIII secolo e diventato simbolo della ricchezza e della produttività bolognesi. Un mito formatosi allorché si crearono determinate condizioni politiche, economiche, sociali, culturali e Bologna assurse a centro di livello internazionale. Tali condizioni sono da attribuirsi alla fertilità del territorio, alla presenza dello Studium, la più antica università d’Europa (1088), allo svilupparsi di una spiccata cultura dell’ospitalità, alle iniziative urbanistiche intraprese dal comune, nonché alle numerose attività artigianali, mercantili, creditizie attive nel tessuto urbano. Determinanti furono gli scambi e la circolazione di persone, merci e idee a livello locale, regionale, extraregionale, agevolati da un sistema di comunicazione potenziato dalla rete fluviale, oltre che da quella via terra. Lo stretto rapporto intessuto fra mercato interno e mercato esterno fu probabilmente uno dei fattori che favorì il dif Montanari 2010, pp. 7-12. Altri riferimenti bibliografici in merito a questo tema sono forniti nel corso della trattazione. Circa l’idea di Bologna come città-mercato dal punto di vista della storia dell’architettura, vedi Sicari 2004. 2 Riguardo al mito gastronomico di Bologna grassa, vedi Montanari 2002; Montanari 2004a. 1
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fondersi del mito di fertilità attribuito alla campagna bolognese, così come successe per lo stato gonzaghesco in epoca moderna. È divenuta, infatti, quasi proverbiale la naturale “abbondanza” del Mantovano, spesso ricordata in numerosi scritti di ambasciatori, geografi, viaggiatori, letterati fra Cinque e Settecento3. Una notorietà, per quanto riguarda la città felsinea, che beneficiava ampiamente della posizione geograficamente strategica dell’insediamento urbano. Ubicata fra la pianura digradante verso il Po e le propaggini montuose della catena appenninica, compresa fra corsi d’acqua, quali il Reno a ovest, il Savena e l’Idice a est, Bologna divenne il fulcro delle due arterie di transito che, provenienti da Ferrara e da Pistoia attraversavano le valli del Savena e del Reno, proseguendo in direzione di Ferrara verso la pianura. A potenziare questa funzione fu la via Emilia, imponente opera romana che congiungeva la città con la Romagna da un lato, dall’altro con la pianura emiliana e lombarda. «Bologna è chiamata la grassa, perché è situata in un territorio estremamente fertile, ben coltivato» scriveva ancora nel Settecento il monaco Jean-Pierre Labat nei suoi Voyages en Espagne et en Italie (1732)4. “Grassa” è l’appellativo che per primi gli stranieri, soprattutto studenti, viaggiatori, intellettuali, le attribuirono. Ne deriva l’impressione di un centro ricco, ospitale, intriso di cultura, abbondante di viveri e di merci5. Tale appellativo si saldò fortemente con l’altra denominazione divenuta emblematica nel Medioevo, ovvero Bologna la “dotta”6. L’immagine e il mito di Bologna “grassa e dotta” divennero parte integrante dell’identità della città, tanto che i due termini furono spesso impiegati nelle fonti letterarie (ma non soltanto) quali componenti di un’unica espressione. Nei diari dei viaggiatori ricorrono spesso entrambe le attribuzioni, o quantomeno una delle due (più frequentemente, “grassa”). Varie testimonianze insistono proprio sull’idea di città universitaria, fertile e ospitale, la cui notorietà era riconosciuta persino in Europa. «Bologna la grassa insegna a truffare le leggi e piega le liti in tante pieghe che del torto fa diritto» affermava ai primi del Duecento il monaco francese Barthélemy7. «Parigi perde molto grasso, mentre Bologna la grassa ingrassa» dichiarava il monaco Gautier de Coinci negli stessi anni8. Già nel XII secolo lo Studium era ritenuto un centro di rilievo, soprattutto nell’ambito degli studi giuridici, in particolare quelli di diritto romano9. Il poeta inglese Gaufrido considerava Bologna quale sede illustre proprio per l’insegnamento del diritto, allo stesso modo in cui Salerno lo era per la medicina, Parigi per la Corritore 2000, pp. 23-49. Labat 1730, p. 234. Per una traduzione italiana di questo brano e di altri relativi a Bologna, vedi Benedictis 1995, p. 39. 5 Vedi Roversi 1994, Sorbelli 2007. 6 Montanari 2004. 7 Montanari 2004a, p. 9. 8 Ibidem. Per l’edizione del testo vedi Vie de Saint Léocardie p. 575. 9 Per una bibliografia essenziale sulla storia dell’Università di Bologna, vedi Zanella 1985; Brizzi, Pini 1988. 3 4
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teologia, Orléans per le lettere. Scrisse Gaufrido in proposito: «In morbis sanat medica virtute Salernum/ aegros; in causis Bononia legibus ornat/ nudos; Parisius dispensat in artibus illos/ panes, unde cibat robustos; Aurelianis educat in cunis auctorum lacte tenellos»10. La scuola giuridica bolognese cominciò ad acquisire rinomanza con i maestri Pepone e Irnerio (attivo quest’ultimo nella prima metà del XII secolo)11. Fama che non cessò di crescere grazie all’apporto dei giuristi della scuola irneriana. Lo studio del diritto orientava verso nuovi orizzonti professionali rispetto alla più tradizionale teologia per cui l’università di Parigi si era distinta. Nel Duecento (ma l’afflusso era già iniziato nel secolo precedente) accorsero a Bologna da tutt’Europa studenti stranieri12, per lo più di condizione agiata, con domestici a seguito, fra cui gli addetti alla cucina13. Del pari, vi accorsero viaggiatori, intellettuali e professori, richiamati anch’essi dalla fama e dall’internazionalità del luogo. La presenza dello Studium rese Bologna un centro competitivo in Europa, al pari di altre città italiane sedi di università, come suggeriscono i proverbi «Bologna è la grassa per chi ci sta, ma non per chi ci passa» e «Bononia docet»14. La concorrenza era spietata come si evince dal detto «Bologna la grassa, Padoa la passa»15, che evoca l’idea di Bologna surclassata da Padova. Forse, l’espressione si riconduce alla translatio studii, ossia al trasferimento spontaneo di un gruppo di docenti e di studenti provenienti dallo Studium bolognese a Padova, da cui ebbe origine nel 1222 l’università padovana16. Bologna incrementò la fama di “grassa” e “dotta” integrando la propria identità in un complesso circuito di relazioni materiali e intellettuali, in una rete di scambi fra città italiane e straniere, che metteva in comunicazione realtà politiche ed economiche diverse, più o meno distanti. Un’identità potenziata, d’altronde, dallo stretto rapporto con la campagna, che Bologna, come altri centri urbani dell’Italia centro-settentrionale, aveva ampiamente sviluppato in età comunale17. Nell’ambito del rapporto fra città e contado il mercato18 era il luogo fisico della ridistribuzione dei prodotti provenienti dal territorio circostante e da regioni lontane su uno spazio commerciale che doveva rispondere alle necessità quotidiane di una popolazione composta di cittadini e forestieri, stanziale o di passaggio. Un circuito di scambi e un luogo di incontro fra domanda e offerta, fra venditori e consumatori, che costituiva uno degli aspetti principali dell’economia della città19. Erano proprio i fruitori di tale mercato a diffondere Gaufridus, p. 1009 e segg. Cfr. Casini 1883. Dolcini 2007; Roversi-Monaco 2007. 12 Zaccagnini 1926; Zaccagnini 1944; Pini 1988; Pini 2001. 13 Malfitano 1998. Cfr. Montanari 2004a, pp. 17-18. 14 I medesimi proverbi si ritrovano nei dizionari attuali. Vedi Lapucci 2007, p. 179. 15 Ibidem. 16 Riguardo alla storia dell’Università di Padova vedi Piovan, Sitran Rea 2001; Del Negro 2002. 17 Montanari 2002, p. 7. 18 Per una riflessione sul concetto di mercato nel Medioevo, vedi Arnoux 2012. 19 Circa l’economia bolognese nel Duecento, vedi Dal Pane 1957; Dal Pane 1968; Dal Pane 2008. 10 11
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la fama di Bologna, specialmente gli studenti, i quali, spostandosi da un capo all’altro dell’Italia e dell’Europa, avevano modo di conoscere ambienti diversi e raccontare per iscritto e a voce le proprie esperienze. Costituisce in questo senso una testimonianza significativa il Chronicon di Benzo di Alessandria (vissuto fra Due e Trecento), in cui Bologna è descritta quale «pinguis est Italie civitas quam et soli fertilitas fecundam reddidit et studii cultura famosam effecit…De laudibus preterea ipsius notare michi videtur superfluum cum fere cuncti maxime litterati studentes quantis bonis affluat sint experti»20. Secondo Benzo era superfluo parlare della fecondità del suolo e del celebre Studium; tutti, ma soprattutto gli studenti, bene sapevano (perché lo avevano sperimentato) di quanti e quali beni la città fosse fornita. Il secolo “d’oro” (così definito dagli studiosi locali21) di Bologna la “grassa” e la “dotta” coincise soprattutto con gli anni compresi fra il 1228 e il 127822, che corrisposero in parte con la fase sperimentale del governo popolare, i cui presupposti politici, economici, sociali, culturali, sono da ricercarsi nella progettualità intrapresa dal comune nel secolo precedente. La crescita demografica23 e l’ampliamento del tessuto urbano24 avvenuti nel XII secolo, prima e dopo la piena autonomia politica del comune (per cui fu fondamentale il diploma concesso nel 1116 dall’imperatore Enrico V ai cives Bononienes25), determinarono il sorgere di nuove esigenze dal punto di vista dell’approvvigionamento alimentare, nonché la necessità di affermare uno stretto controllo sul territorio circostante e i centri minori del contado26. La sottomissione politica della campagna alla città, tendenza comune alle città del centronord Italia27, avvenne in concomitanza con il fenomeno di investimento fondiario avviato dai ceti urbani emergenti28. Protagonisti di tali investimenti non furono soltanto l’aristocrazia terriera inurbata e gli enti ecclesiastici bolognesi, già impegnati in quel settore, ma anche la proprietà laica in fase di espansione, rappresentata da nuovi imprenditori di estrazione borghese. È il caso della famiglia mercantile dei Principi29, di quella dei Guastavillani30, del macellaio Giacomo Casella31, oppure dei Benzo, Chronicon, XIV, c. CXLVIII (edito in Berrigan 1967, p. 180). Cfr. Montanari 2004a, pp. 11-12, p. 22. 21 Pini, 2002; Giansante 1985-86; Greci 2007. 22 Greci 2007, p. 500. 23 Riguardo alle dinamiche demografiche a Bologna nel Medioevo vedi Pini 1969; Pini, Greci 1976; Pini 1978; Pini 1993b; Dondarini 1994; Pini 1996b, pp. 116-120; Greci 2007, pp. 504-508. 24 Circa lo sviluppo urbanistico della città nei secoli medievali vedi Bocchi 1987; Bocchi 1995; Bocchi 2007. 25 Vedi più avanti in questo capitolo. 26 Vasina 2007. 27 Mucciarelli, Piccinni, Pinto 2009. 28 Milani 2001; Greci 2007, pp. 528-534. 29 Greci 1986; Greci 2007. 30 A questo proposito un esempio è costituito dalla famiglia Guastavillani. Vedi Gaulin 1987; Coser, Giansante 2003. 31 Pini 1977a; Pini 1993b. 20
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Lambertini, proprietari fra Due e Trecento di un cospicuo patrimonio fondiario nella pianura bolognese e di terreni nel Ferrarese32. Al pari di altri gruppi consortili appartenenti all’élite urbana, i Lambertini si occuparono di attività bancarie, ma investirono parte del capitale accumulato nell’acquisto della terra. I prodotti agricoli servivano per soddisfare il fabbisogno familiare, mentre le eccedenze venivano vendute sul mercato33. Il rapido consolidamento di situazioni patrimoniali del genere, ossia l’arricchimento di gruppi familiari mediante investimenti in attività mercantili, bancarie, fondiarie, incentivava la circolarità di denaro, merci, persone, contribuendo a dare notevole inpulso all’università. La capacità attrattiva dello Studium, le cui esigenze accrescevano la domanda dei beni di prima necessità (ma non soltanto), favorì l’incremento dei servizi connessi all’ospitalità e stimolò una più ricca offerta di prodotti alimentari e di altre merci (come le vesti)34. Artigiani e commercianti intensificarono il loro volume di affari, assumendo un peso rilevante nella vita economica e politica cittadina35. In tale contesto il comune attivò una serie di iniziative urbanistiche importanti nella seconda parte del XII secolo36, fra cui la progettazione, a scopo difensivo, di una nuova cerchia muraria (denominata dei Torresotti), che delimitò un’area quintuplicata rispetto a quella racchiusa dalle prima mura, quelle di selenite (risalenti a un periodo imprecisato, databile tra il V e il VII secolo)37. Numerosi furono gli interventi mirati alla manutenzione e alla realizzazione di infrastrutture in città e nel territorio, al fine di incrementare le attività produttive e commerciali, in particolar modo quelle riguardanti la rete idrica. Mediante la costruzione di una chiusa corrispondente all’attuale zona di San Ruffillo sul corso del Savena e a Casalecchio sul fiume Reno38; i due corsi d’acqua furono condotti in città tramite un sistema di canali inalveati nell’antico letto del torrente Aposa39, che scorreva (e scorre ancora oggi) interrato nei pressi delle Due Torri40. La costruzione di canali41 e mulini42, Montanari 1967, pp. 326-327. Ibid., pp. 350-351. 34 Pini 1976; Pini 1988; Malfitano 1998; Montanari 2004. 35 Greci 1988; Greci 2007, pp. 508-520. 36 Bocchi 2007. 37 Sulle più recenti proposte di datazione per le mura di selenite, vedi Brogiolo, Gelichi 1998, pp. 55-56. Cfr. Greci 2007, p. 501; Cosentino 2007, pp. 28-39. 38 Manaresi 2005, pp. 81-93. 39 Ortalli 2005a. 40 Zanotti 2000. 41 Bocchi 2007, pp. 224-226. 42 Pini 1993a; Pini 1987; Galetti, Andreolli 2009. Riguardo al tema dei mulini e dei canali ubicati nella pianura bolognese, vedi i lavori relativi al Medioevo pubblicati in Galetti, Racine 2003. Per un’analisi comparativa con altre realtà urbane, vedi il caso di Reggio Emilia esaminato da Caroline Dussaix, che mette in evidenza l’importanza attribuita dal comune al funzionamento dei mulini per la politica economica della città fra XII e XIII secolo (Dussaix 1979). Per un quadro sui mulini in Romagna vedi inoltre Mancassola 2010. 32 33
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questi ultimi ubicati in numero crescente in città e fuori, permise di implementare l’attività di molitura del grano e la produzione tessile. Agli inizi del Duecento vennero, inoltre, intrapresi i lavori di scavo del canale Navile (1208)43, mediante il quale le acque del canale Reno44 furono convogliate a valle della città, fino a raggiungere il territorio ferrarese e il delta padano. Successivamente, allorché si delineò il pericolo di un attacco da parte di Federico II, fu avviata la costruzione di una nuova e più ampia cerchia, la terza in ordine cronologico, definita circla nelle fonti45, la cui realizzazione si completò soltanto nella seconda parte del Trecento46. Tale cerchia venne a includere i tratti delle nuove canalizzazioni più vicine al centro e le principali strade di accesso alla città. Ai primi del Duecento, inoltre, fu creata piazza Maggiore e furono edificati i palazzi del comune prospicienti la piazza stessa. Fu altresì concepita una zonizzazione dell’intero territorio bolognese: nel 1223 il governo cittadino stabilì di ripartire la città e il contado in quattro quartieri47, inserendo quest’ultimo nell’ambito della giurisdizione di Bologna. Questa suddivisione servì per introdurre un’importante riforma fiscale, basata sulla rilevazione degli estimi48, ossia la raccolta delle denunce dei beni di ciascun abitante della città e della campagna, allo scopo di calcolare le imposte sui beni immobili. Nel realizzare progetti di vasta portata il comune si assumeva responsabilità e spettanze di interesse collettivo, che precedentemente erano state di competenza dell’imperatore. Sin dall’inizio del XII secolo, Bologna aveva manifestato un certo grado di autonomia49. Secondo una nota tradizione storiografica, nel 1115 i bolognesi sarebbero insorti contro gli ufficiali imperiali distruggendo la rocca imperiale. Nel 1116 Enrico V, impegnato a consolidare la propria autorità nei territori della penisola, emanò il noto diploma con il quale riconosceva a Bologna una serie di prerogative, che di fatto ne ammettevano l’autogestione. A questo documento gli storici sono soliti ricondurre la nascita del comune bolognese. Successivamente, Bologna si schierò dalla parte di quelle città che si opposero alla volontà di Federico I Barbarossa, intenzionato a restaurare la propria autorità sulle città del centro-nord Italia. La pace di Costanza (1183)50, conseguente alla sconfitta militare dell’imperatore, segnò la fine della lunga disputa fra imperatore e comuni e comportò il riconoscimento istituzionale di questi ultimi, da allora liberi di agire in totale autonomia in ambito amministrativo, politico, economico, sociale. Hessel 1975, pp. 190-192. Frescura Nepoti 1975, pp. 167-171; Tabarroni 1992; Pini 1993c, pp. 15-38; Bocchi 1995, pp. 21-24. 45 Hessel 1975, p. 101, n. 9, p. 230. 46 La circla fu ultimata nel 1374. Vedi Bocchi 1995, pp. 33-36, p. 55; Foschi 1996. Cfr. Roversi 1985. 47 Pini 1977a. 48 Pini 1977b; Micheletti 1981; Giansante 1985; Foschi 1993; Zanarini 1993; Smurra 2007. 49 Riguardo alla realtà altomedievale, vedi Lazzari 1998; Rinaldi 2007. 50 Vasina 2007. 43 44
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In tale mutato contesto istituzionale le società d’arti, formate da commercianti, imprenditori, artigiani e rivenditori, svolsero un ruolo significativo. Già nel corso del XII secolo nacquero le figure dei cambiatori (campsores)51 e dei mercanti (mercatores)52, appartenenti a famiglie di estrazione nobiliare e borghese, che disponevano di ingenti capitali e di una solida base patrimoniale. Essi furono i primi a beneficiare della vivace presenza degli studenti, della fama dello Studium, nonché degli interventi di carattere urbanistico, che non solo miglioravano la viabilità, facilitando lo spostamento di merci e persone, ma contribuivano a promuovere un’immagine di città intraprendente. L’aumento degli scambi sul mercato cittadino richiedeva necessariamente un giro di denaro e di affari consistente – fra cambi di moneta53, prestiti e pegni – tale da porre i campsores in primo piano. Nei decenni centrali del Duecento si assistette al progressivo avvicendamento, nella guida della città, tra le componenti aristocratiche e quelle popolari, costituite queste ultime dai gruppi emergenti che traevano vigore dalla crescita delle attività produttive e commerciali. Determinante per la partecipazione delle arti al governo fu la sommossa del 1228 guidata dal mercator Giuseppe Toschi il quale, facendo leva sul malcontento dovuto agli esiti sfavorevoli dell’offensiva contro Modena, ottenne importanti cambiamenti nei dispositivi di governo. Alla curia del podestà fu sostituito un organo collegiale, il “consiglio degli anziani e consoli”, composto dai rappresentanti delle arti affermatesi fra XII e XIII secolo, mentre i consoli provenivano dalle arti del cambio e della mercanzia. Negli statuti di metà del Duecento (1245-67)54 furono riconosciute ventuno società, fra cui tre mestieri del cibo: beccai (macellai, produttori e venditori di carne fresca)55, salaroli (venditori di carni salate, di biado56, di sale, di candele)57, pescivendoli (venditori di pesce fresco e salato)58. Alle altre categorie addette all’approvvigionamento alimentare – brentatori, trasportatori di grano, abburattatori, mugnai, fornai, tavernieri, osti, albergatori – non fu concesso di riunirsi in associazione59. Nei medesimi statuti vennero inserite importanti norme sui commerci, oltre a precise regole riguardanti il corretto svolgimento del mercato e delle fiere periodi51 Circa l’arte del cambio Bologna nel Medioevo, vedi Pini 1962; Muzzarelli 2007, pp. 979-985; Giansante 2008; Albertani 2011. 52 Hessel 1975, pp. 155-158; Greci 2004. 53 La prima moneta bolognese, il bolognino (bononinus) fu coniato nel 1191. Si trattava di una moneta in lega d’argento del peso di g. 0, 56 e del valore pari a 1/3 dell’imperiale. Cfr. Giansante 2008, pp. 51-52. 54 Statuti del comune di Bologna 1245-67. Vedi Greci 2007, p. 578, n. 62; Fasoli 1931; Cencetti 1940. 55 Riguardo alla corporazione dei beccai a Bologna, vedi Fanti 1980. 56 Battaglia, II, p. 203. Cfr. Pinto 1978, p. 34; Pinto 1982, p. 94, n. 2. 57 Circa il mestiere dei salaroli, vedi Roversi et alii 2006; Pucci Donati 2008. 58 A proposito dei venditori di pesce a Bologna, vedi Pini 1975. 59 Gaudenzi 1888b; Gaudenzi 1899; Fasoli 1935a; Fasoli 1936a, pp. 56-57. Sempre sulle società proibite, vedi Pini 1982 e Pini 1986b.
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che. Nonostante il persistere di conflitti interni ed esterni, la città visse negli anni Cinquanta del secolo una fase positiva. L’aspirazione del comune a diventare un polo strategico tra centro e nord Italia si concretizzò con la vittoria nella battaglia di Fossalta contro Federico II (1249). Oltre a sconfiggere Federico II il comune imprigionò il figlio re Enzo60 nel palatium novum prospiciente piazza Maggiore. La morte di Federico II avvenuta nel 1250 segnò la fine delle ambizioni imperiali sulle libertà politiche dei comuni. In tale contesto si affermò a Bologna un governo di «popolo», dove confluirono elementi della nobiltà immigrata di recente dal contado, ricchi mercanti, artigiani, intellettuali iscritti fra le fila dell’arte dei notai. I governi bolognesi di quegli anni intrapresero una serie di programmi espansivi a ovest verso il Modenese, a sud verso il Frignano e a est verso la Romagna, la costa adriatica e il delta padano61. L’ambizione politica del comune fu insidiata da una crisi economica annunciatasi nel 1259, che investì la città e il territorio. In tale situazione il comune emanò una normativa straordinaria in merito all’approvvigionamento cerealicolo62 e istituì una magistratura specificamente addetta alla politica cerealicola, denominata Officium bladi63, cui erano preposti i domini bladi, uomini di fiducia del comune appartenenti alle famiglie emergenti cittadine. Malgrado le misure approntate dal governo per ovviare ai problemi di rifornimento dei beni alimentari di prima necessità, a partire dagli anni ’70 Bologna incominciò a vivere un periodo difficile; si delineò un’inversione di tendenza rispetto all’aumento demografico e allo sviluppo delle attività commerciali verificatosi nella prima parte del secolo. Inoltre, si inasprì la lotta fra le fazioni nobiliari dei Geremei (filopapali) e dei Lambertazzi (filoimperiali), acuitasi in seguito alla sconfitta subìta nel conflitto contro Venezia tra il 1270 e il 127364. Tale conflitto fu causato dal blocco imposto dalla potenza lagunare al transito dei rifornimenti di sale e cereali sul corso del Po in direzione di Bologna65. Ulteriori scontri tra le parti cittadine indussero gli esponenti più intraprendenti delle associazioni popolari ad avvicinarsi ai guelfi (filopapali). A promuovere questa saldatura fu Rolandino de’ Passeggeri, maestro d’arte notarile che in quegli anni aveva assunto un ruolo di protagonista sulla scena cittadina, fino a raggiungere un rilievo di natura quasi signorile. Così, la maggior parte delle società della pars populi 66 intervenne a vantaggio dei Geremei, favorendo la sconfitta dei ghibellini e la definitiva prevalenza dei sostenitori filopapali67, oltre a costringere Pini, Trombetti Budriesi 2001. Hessel 1975, pp. 121-139. 62 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, libro XII: Ordinamenta facta per dominos bladi. 63 Il fondo contenente la documentazione prodotta dall’Officium bladi è in corso di riordino. 64 Hessel 1975, pp. 258-261. Circai rapporti commerciali fra Bologna e Venezia vedi Bonacini 2005. 65 I rapporti commerciali fra Bologna e Venezia, e la guerra che seguì, sono trattati nella Parte II. 66 Gaudenzi 1896. 67 Vitale 1901. 60 61
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all’esilio le famiglie della fazione avversa. Con la cacciata dei Lambertazzi del 1274 (seguita da altre due, rispettivamente, nel 1279 e nel 1306) ebbero inizio le espulsioni di massa e l’esilio forzato di numerosi concives, che in seguito si schierarono spesso con i signori e le città rivali68. Gli anni successivi ai disordini del 1274 videro la definitiva affermazione della parte guelfa, l’abbandono delle ambizioni bolognesi di dominio sulla Romagna e l’affermazione della sovranità papale su Bologna e il suo comitato69. Tale contesto politico comportò forti ripercussioni sul piano sociale e professionale; accrebbe il divario fra le società riconosciute a pieno titolo, di parte popolare, e quelle invece che ne erano escluse. Persistette il divieto di associarsi per i mestieri del cibo e dell’ospitalità, ribadito negli statuti comunali del 128870. Negli ultimi decenni del Duecento l’emergere di gruppi economicamente in ascesa provocò ripercussioni all’interno del ceto magnatizio, determinando ulteriori adeguamenti ed equilibri. La sfida popolare aveva suscitato la crisi dei gruppi nobiliari, senza però comprometterne definitivamente il peso politico. Contemporaneamente, una parte consistente dell’élite di antica data, accogliendo le istanze avviate dai gruppi emergenti, promosse nuove attività economiche e finanziarie, riuscendo a conservare una posizione preminente nella vita cittadina. Le restrizioni antimagnatizie71 ebbero effetti diseguali sui consorzi nobiliari, alimentando sempre più una distinzione fra vecchia aristocrazia e categorie produttive di recente formazione. Oltre all’élite urbana si creò a Bologna, come altrove nell’Italia comunale, un’élite rurale composita, costituita da coloro che svolgevano un’attività commerciale in campagna. Si trattava di gruppi sociali ed economici medi, che abitavano nei castra e nei villaggi, le cui fortune poggiavano sulle attività mercantili e finanziarie da essi stessi promosse72. Le alterne vicende politiche che caratterizzarono questi decenni, unitamente alla fase di recessione economica che investì la città sin dagli anni ’60 ebbero notevole influenza sull’andamento del mercato bolognese. La sconfitta subita nella guerra contro Venezia e la perdita dell’influenza sulla Romagna73 concorsero a diminuire l’importanza della città nei circuiti di scambio internazionali, extraregionali, regionali e locali. Del pari, ne risentì il commercio interno, che il governo bolognese gestiva per il rifornimento dei beni alimentari di prima necessità74. A completare il quadro fu la progressiva “chiusura” delle corporazioni artigiane e mercantili, sempre più regolate da forme di monopolio nei rispettivi ambiti di 70 71 72 73 74 68 69
Milani 2003. Vasina 2007. Statuti di Bologna dell’anno 1288. Fasoli 1933. Vedi inoltre Fasoli 1939. Cfr. Mucciarelli, 2008 Pinto 2007, pp. 94-96. Su questo aspetto della politica estera di Bologna, vedi Parte II. Tale crisi si acuì nel Trecento, a seguito della peste del 1348. Vedi Dondarini 2007.
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attività, oltre che da rigide norme di accesso per l’iscrizione all’arte. Situazioni di difficoltà si riscontrano anche in Europa fra Due e Trecento. A Erfurt, per esempio, nel 1264 furono soppresse le associazioni dei panettieri e dei macellai; a Bourges, a metà Trecento, le riunioni dei membri delle corporazioni si svolgevano sotto la sorveglianza della polizia, per evitare che i consociati tramassero qualche macchinazione75. A Bologna, sia le arti riunite in associazioni che quelle “proibite”, cui era stato vietato questo diritto, giovarono dell’esistenza di un circuito commerciale di beni alimentari, al minuto e all’ingrosso, inserito in una rete di scambi internazionale per buona parte del Duecento. Nello stesso periodo si definì maggiormente la dislocazione dei luoghi di mercato nel tessuto urbano, che aveva cominciato a delinearsi nei secoli precedenti. I mercati urbani ricevettero una sistemazione definitiva, allorché il comune procedette a sviluppare imponenti iniziative urbanistiche, che portarono alla nascita di tre poli distinti, eppure attigui, nel centro della città. La normativa statutaria degli anni ’50-’60 prevedeva numerose regole circa l’organizzazione delle piazze nei giorni di mercato. Un mercato che non era soltanto uno spazio fisico, ma rappresentava un insieme di rapporti complessi e diversificati, nonché intrecci di persone, cose, idee, integrati in un universo economico di valori condivisi76. Il mercato, d’altronde, era un luogo d’incontro fra parenti, amici, vicini; lì si distribuivano e raccoglievano informazioni, si stringevano i più vari contratti davanti al notaio, si concordavano fidanzamenti e matrimoni, si creavano situazioni di convivialità presso le osterie e le taverne77. Il mercato (e le fiere) costituiva uno dei luoghi di incontro e di socialità per contadini; vi si recavano i lavoratori stagionali per trovare lavoro; vi circolava un’umanità estremamente varia: buffoni, cantastorie, predicatori, meretrici. Il mercato cittadino si configurava quale spazio di legittimazione delle identità, a partire dal comune stesso, che dal riassetto urbanistico del centro traeva legittimità e prestigio entro le mura e oltre, nel territorio. Anche nelle campagne, infatti, il mercato era un luogo di aggregazione e di affari, dove confluivano i prodotti tessili e alimentari dei mercanti e degli artigiani, abitanti nelle singole comunità, casta, villaggi. Lungo le vie principali che conducevano dalla città ai centri rurali e viceversa vi erano locande, hospitia, cambiatori, trasportatori, le cui attività beneficiavano dei traffici, dei flussi di persone e di merci78. Se questo sistema di mercati si definì nei secoli centrali del Medioevo, nondimeno è attestata storicamente la predisposizione della città, sin dalle sue orgini, al commercio e agli scambi.
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Cipolla 1980, p. 241. Grohmann 2011. Cherubini 1997. Pinto 2007, pp. 99-104.
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2. Il mercato a Bologna dall’Antichità al Medioevo Tracce di spazi destinati a un uso commerciale sono riscontrabili a Bologna sin da epoche remote. Le zone abitate in età neolitica ed eneolitica sorsero sul gradino collinare compreso tra il torrente Ravone a ovest e il torrente Aposa a est. Intorno al IX secolo a.C. risalgono i primi indizi dell’esistenza della cultura villanoviana, ritenuta la più antica manifestazione della presenza etrusca in area padana79. Le comunità villanoviane, dislocate lungo la fascia pedecollinare emiliano-romagnola, inizialmente dedite alle attività di caccia, raccolta, pesca, si consacrarono in seguito all’agricoltura, all’allevamento, all’attività manifatturiera. Del pari, esse attivarono scambi commerciali ad ampio raggio, estendendo una rete di contatti con i villaggi vicini e zone più lontane, da un lato e dall’altro della dorsale appenninica e tra le due coste della penisola. La vocazione commerciale della zona fu rafforzata allorché in pianura, a metà strada tra la valle del Reno e quella del Savena, sorse il centro etrusco denominato Velzna, in latino Felsina 80. La fase di maggior sviluppo risale alla metà del VI secolo quando gli Etruschi, in conflitto con i Greci e i Cartaginesi per il controllo dei traffici marittimi del Mediterraneo centrale, intesero valorizzare l’area padana e intensificare gli scambi tra la zona tirrenica e l’alto Adriatico e, da qui, tra il delta del Po e le valli dei suoi affluenti. Furono fondati i centri di Marzabotto, Spina, Mantova e si ricostituì l’insediamento di Bologna, che divenne centrale nella rete degli itinerari commerciali tra mondo mediterraneo e interno continentale81. Questo nuovo assetto, probabilmente incentivato da una seconda colonizzazione di popolazioni provenienti dall’Etruria centrale, determinò il definitivo passaggio dell’abitato alla dimensione urbana. Felsina entrò a far parte di una confederazione di città etrusche autonome, che condividevano il medesimo sistema politico ed economico, divenendone il fulcro tra VI e IV secolo82. Una centralità non disgiunta dalla consapevolezza delle potenzialità del territorio, come attestano varie fonti letterarie83. L’espansione economica di Felsina fu interrotta dall’arrivo dei Galli Boi, che nel IV secolo a.C. occuparono il territorio tra il fiume Panaro e il torrente Sillaro (entro i quali era incuneata la città)84. I Galli Boi, propensi a stanziamenti sparsi presso i castella limitrofi, compromisero la struttura dell’abitato etrusco, causando il declino delle attività produttive e di scambio. Nondimeno, la città (ribattezzata Bona) Sassatelli 1987. Ibidem. 81 Ibid., pp. 11-12. 82 «Bononia, Felsina vocitata tum cum princeps Etruriae esset», ovvero capitale o “città madre” del territorio etrusco in area padana. Così la definì nel I secolo d.C. Plinio il Vecchio (Plinio, Naturalis Historia, III, 112). Vedi in proposito Sassatelli, Donati 2005 . 83 Polibio, II, 14-17; Strabone, V, 12, 218; Plinio, Nat. Hist., XVI, 65, 161; Plinio, Nat. Hist., XXXVI, 22, 161. Cfr. Ortalli 1993, p. 253. 84 Vitali 1987; Minarini 2005. 79 80
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ebbe ugualmente un ruolo preminente in seno alla formazione politico-territoriale “boica” e, grazie a una certa integrazione tra Galli e popolazione autoctona, riacquisì parzialmente un ruolo di crocevia. La fortunata posizione geografica di FelsinaBona non dovette sfuggire ai Romani. Essi, infatti, sin dagli inizi del II secolo a.C., realizzarono un programma di conquista della pianura padana, occupando e rifondando i centri dislocati lungo la fascia pedecollinare che unisce l’Adriatico all’alto Po. Sottratta nel 196 a.C. ai Galli Boi, Felsina venne rifondata nel 189 a.C. con il nome di Bononia, forse retaggio del toponimo celtico Bona 85. La città fu posta a presidio di un territorio, ai cui abitanti il senato romano riconobbe le medesime prerogative delle colonie soggette al diritto latino86. Rispetto ad altri centri maggiori allineati lungo la via Emilia, Bononia ebbe un ruolo economico e politico meno rilevante. Continuò, tuttavia, a essere un nucleo urbano di una certa preminenza, in quanto si trovava in una posizione centrale della Cispadana, ubicata all’incrocio di importanti assi itinerari. La ricchezza della produzione agricola e artigianale, nonché la vivacità dei traffici, favorirono la prosperità della città romana, che Pomponio Mela, geografo del I secolo d.C., definì opulentissima.87 Prosperità che ebbe il suo culmine fra la fine del I secolo a.C. e il I d.C., quando Bologna si dotò di spazi destinati a transazioni commerciali, alla vendita dei beni di prima necessità e di altre merci. Già in età repubblicana88 l’abitato era strutturato secondo la trama ortogonale delle vie che si incrociavano ad angolo retto in base a due orientamenti paralleli: quello dei decumani, da est a ovest, e quello dei cardines da sud a nord. Al centro del perimetro urbano di forma quadrata si intersecavano il decumanus maximus 89 e il cardo maximus 90, inseriti in una maglia di decumani e cardini che racchiudevano isolati (insulae) rettangolari91. Del pari, i terreni pianeggianti ai lati della via Emilia furono suddivisi da Rimini a Piacenza in centurie, sorta di appezzamenti dalla struttura quadrata inscritti in una rete quadrangolare di strade, canali, scoli conformati all’orientamento della via Emilia. All’interno dell’impianto ortogonale urbano furono concepiti spazi a uso commerciale. I ritrovamenti archeologici di via Indipendenza (anni 1985-86) hanno permesso di rinvenire un comparto a destinazione pubblica, ubicato in un’area estesa fra le attuali vie Indipendenza, Manzoni, Porta di Castello, Montegrappa92. Fin dall’età repubblicana in questo spazio si ergeva probabilmente un edificio templare (sul quale nell’alto Medioevo fu impiantata la rocca imperiale93) 87 88 89 90 91 92 93 85 86
Il termine Bononia pare richiamasse la stessa idea del latino bona, ovvero beni, ricchezza. Vitali 1987; Donati 1987; Brizzi 2005. Ortalli 1993, p. 253. Bergonzoni 1977. Corrispondente all’asse formato dalle attuali vie Ugo Bassi e Rizzoli. Coincidente con le odierne vie Val d’Aposa e Galliera. Ortalli 2005b. Ortalli 1993, pp. 273-275. Foschi 1989.
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cui si affiancò un grande ambulacro94. La rimanente area, situata fra il cardo di via Indipendenza e il decumanus di via Manzoni, era presumibilmente un piazzale sterrato, che ebbe forse in età repubblicana rilevanza civile e commerciale95. Infatti, sul decumanus di via Manzoni veniva convogliato parte del traffico veicolare di transito urbano. Si è ipotizzato che la zona fosse un luogo di convergenza e di scambi: un mercato all’aperto, idoneo alla vendita di armenti e vari generi di consumo, verosimilmente esposti su banchi mobili. Oltre al forum commerciale esisteva il forum nel senso di piazza principale, su cui si affacciavano gli edifici pubblici. Esso era ubicato, presumibilmente, nella porzione nord-occidentale dell’attuale palazzo comunale, nei pressi di quello che doveva essere l’incrocio fra il cardo e il decumanus maximi96. La zona del forum commerciale fu soggetta, nella prima età imperiale, a ulteriori interventi urbanistici. I già citati ritrovamenti archeologici del 1985-86 hanno indotto a supporre la presenza di una nuova struttura in età augustea e giulio-claudia (I secolo d.C.). Doveva trattarsi di una costruzione in muratura, i cui numerosi resti pare risalissero a un grande edificio adibito a mercato coperto, il macellum97, caratterizzato da uno sviluppo longitudinale bipartito da colonnati con porticato su un piazzale centrale. Si ritiene che esistesse un abitato dotato, in età imperiale, di un forum inserito nel tessuto urbano, posto su una via di comunicazione verso l’esterno, l’attuale via Galliera, denominata strada Salaria, in quanto di lì giungevano in città i carichi di sale. Si è ipotizzato, inoltre, che le insulae su cui si estendeva il centro amministrativo e commerciale fossero pedonalizzate mediante una regolamentazione della circolazione dei veicoli da trasporto98. A partire dalla seconda metà del III secolo, tuttavia, l’assetto complessivo della civitas romana incominciò a subire profonde modifiche99. Il deterioramento della pavimentazione delle strade, che aveva sottolineato la funzione amministrativa e monumentale dell’area attorno al cardo e al decumano massimi, dovette determinare un progressivo scadimento dei selciati già nel corso del IV e V secolo. L’area denunciò, fra il V e il VII secolo, un forte degrado accompagnato dal sorgere di spazi incolti, che si affiancarono al costruito. La zona che in età augustea era inserita nella parte più prestigiosa della città, il forum, dopo il VII secolo aveva perso la funzione commerciale che l’aveva caratterizzata100. La fisionomia del nucleo urbano fu modificata dalla costruzione di una grande fortificazione all’angolo nord-ovest delle mura di selenite, su cui in seguito si sarebbe esteso il perimetro del castellum imperiale. A conferma dell’immagine di decadenza della città è spesso citato il noto giudizio di Sant’Ambrogio, il quale in viaggio (forse 96 97 98 99
Ortalli 1993, p. 275. Ortalli 1989. Ortalli 1999. Ortalli 1993, pp. 276-277. Cosentino 2007, p. 25. Ortalli 1993, p. 275. 100 Cosentino 2011. 94 95
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nel 394) lungo la via Emilia verso Milano, lamentò nella epistola all’amico Faustino la trascuratezza e l’abbandono che suscitava la vista di Bologna e di altri centri101. In realtà, tale giudizio rispondeva ai canoni del genere letterario delle consolationes, di origine classica e spesso impiegato dagli scrittori cristiani102. Se l’interpretazione tradizionale della testimonianza di Sant’Ambrogio riconduce a un mondo, quello tardo antico, che si suppone stesse progressivamente perdendo la capacità di attivare scambi e produrre ricchezza su circuiti locali e regionali103, recenti studi archeologici hanno messo in luce nuovi dati. Sono emersi, infatti, segni di una vitalità mai interrotta e di una certa ripresa dopo il III secolo nei centri sulla via Emilia104. Il nucleo urbano di Bologna, però, subì nell’alto Medioevo un drastico ridimensionamento. Che cosa sia accaduto al mercato della città tardo-antica non è dato dire. Le ipotesi più accreditate si fondano sulla supposizione che nell’alto Medioevo permanesse ancora un’area di mercato105, erede probabilmente del macellum di età imperiale, antistante la cattedrale di San Pietro. Tale mercato, o mercato di San Giovanni Battista106 (dal battistero dedicato al Battista eretto accanto alla cattedrale), assurse probabilmente, a simbolo della città episcopale. Se nel periodo della dominazione longobarda (727 o 732-774) la città incominciò a ingrandirsi presso porta Ravegnana107, in seguito, con l’assestarsi del regno italico (IX-X secolo)108, la medesima area si configurò quale nuovo spazio di scambio fra città e campagna. Davanti al complesso di Santo Stefano e presso porta Ravegnana (o Ravennate) si recavano i contadini per vendere i loro prodotti in eccedenza. L’antico mercato vescovile, ubicato davanti alla cattedrale di San Pietro, erede del macellum romano, incominciò a perdere importanza con l’affermarsi del nuovo polo sorto appena oltre le mura. Difficile è stabilire quando il mercato di porta Ravegnana abbia assunto funzioni pubbliche con relativi dazi e gabelle. Di fatto, il trivio di porta Ravegnana divenne, intorno al X secolo, un luogo di scambio e di congiunzione tra il mondo cittadino e la Romagna, da cui giungevano il grano e il sale diretti in Lombardia o i beni di lusso di provenienza adriatica, per i quali Bologna era una destinazione finale o un passaggio obbligato109. A Bologna il vescovo dovette svolgere importanti funzioni politiche e religiose, nonché gestire le attività economiche in città e fuori, come emerge da un documento del X secolo, il più antico attestante l’esistenza di un mercato nel territorio bo101 Ambrogio, Epistolae, XXXIX (VIII). L città di Bononia, Mutina, Rhegium, Brixillum, Placentia erano «semirutarum urbium cadavera» secondo lo stile classico delle consolationes. 102 Per questa interpretazione del commento di Sant’Ambrogio, vedi Bollini 1971 e Demeglio 1991. 103 Neri 2005, pp. 687-694. Cfr. Cosentino 2007, p. 27. 104 Demeglio 1991, p. 23. 105 Sul mercato in area padana di età alto medievale, vedi Bocchi 1993b. 106 Bocchi 1993, pp. 13-16. Cfr. Bocchi 2007, pp. 200-206. 107 Ibid., pp. 28-31; Bocchi 2007, pp. 200-206. 108 Fumagalli 1978. 109 Greci 2007b, p. 510.
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lognese. Si tratta del diploma concesso intorno al 905 da re Berengario I al vescovo di Bologna Pietro110, con il quale gli riconosceva i diritti sul porto ubicato sul fiume Reno, all’incrocio tra il fiume e la via Emilia111. Il re accordava altresì al vescovo i diritti sul nuovo mercato formatosi presso Selva Pescarola112, una zona vicino al Reno, nelle vicinanze di un porto in seguito caduto in disuso, sito nella cintura suburbana113. Nel medesimo documento si sanciva la libera navigazione per colui che si fosse recato dal Reno al Po, e l’esenzione da qualsiasi imposta per le merci che dal Po risalivano il Reno sino al porto e al mercato. Con tale diploma si legittimava e si tutelava la giurisdizione episcopale sul traffico di merci convogliate in città per via fluviale e su un territorio esteso a settentrione114. Forse, questo documento costituiva l’atto conclusivo di un percorso avviatosi secoli prima, attestante la formazione di tragitti commerciali orientati dalle strade alle vie d’acque, passati sotto la giurisdizione del vescovo115. Presso Selva Pescarola, inoltre, si svolgeva nel mese di agosto una delle due fiere annuali, quella del Reno; l’altra, la fiera di San Procolo, si teneva all’inizio di maggio in città, nelle vicinanze dell’omonima chiesa116. Entrambe furono trasferite nel 1219 nel neonato campus fori 117, un’area esterna alla seconda cerchia di mura, detta dei Torresotti118. A differenza del mercato che si teneva in città, la fiera aveva luogo sul territorio ed era generalmente organizzata in uno spazio preciso, in periodi determinati dell’anno, stabiliti in base ai cicli climatici e a quelli agricoli. In essa convergevano operatori economici provenienti da circuiti di scambi a corto, medio, ampio raggio (locale, regionale, extraregionale), al fine di commerciare beni in quantità consistenti119. Non soltanto le fiere annuali e il mercato quotidiano dipendevano dalla giurisdizione del vescovo fra X e XI secolo120; anche le categorie professionali attive presso porta Ravegnana erano sotto la sua tutela. Del pari, egli controllava le merci che arrivavano dalla via Salaria121 su porta Ravegnana, nonché la riscossione dei pedaggi a esse relativa. Si trattava soprattutto dei carichi di sale che giungevano da Cervia122 e del pesce proveniente dalle coste romagnole e dalle zone paludose della Per l’edizione del testo vedi Fanti, Paolini 2004, n. 26, pp. 85-86. Cfr. Pini 1962, p. 35; Bocchi 1972b, p. 44; Rosa 1976, p. 140; Rinaldi 2007, pp. 163-164. 111 In età precomunale l’area portuale e il limitrofo mercato bolognesi facevano parte della giurisdizione del vescovo. Cfr. Fasoli 1935b, p. 11; Pini 1999c, pp. 164-165; Lazzari 1998, pp. 118-119. 112 Dal Pane 1957, pp. 69-70. 113 Quest’area corrisponde grossomodo all’attuale Beverara. 114 Rinaldi 2007, pp. 163-164. 115 Cosentino 2007, p. 66. 116 Hessel 1975, pp. 192-193. Cfr. Dal Pane 1957, p. 154; Bocchi 1995, p. 25. 117 Si tratta dell’attuale piazza VIII Agosto. Hessel 1975, p. 193. Cfr. Dal Pane 1957, p. 154. 118 Sulla datazione dei Torresotti, vedi Pini 1977b, pp. 27-28. Cfr. Bocchi 2007, pp. 222-224. 119 Circa la differenza fra mercato e fiera nel Medioevo, vedi Grohmann 2011, pp. 24-34. 120 Riguardo alla figura del vescovo nei secoli centrali del Medioevo, vedi Paolini 2007. 121 Hocquet 1995; Hocquet 2005. 122 Riguardo al sale di Cervia, vedi Montanari 1988. 110
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bassa pianura123. Nell’XI secolo il vescovo godeva altresì dei diritti sul mercato nel frattempo formatosi nei pressi del monastero di Santo Stefano, come attesta il noto privilegio elargito il 23 marzo 1074 da papa Gregorio VII al vescovo Lamberto124. Tale documento registra la concessione di diversi beni del comitato al suddetto vescovo. Lo stesso documento registra altresì la concessione dei proventi derivanti dal mercato presso Santo Stefano, denominato mercato di San Giovanni Battista (in quanto la chiesa stefaniana era dedicata al Battista), oltre ai già citati introiti ottenuti dai dazi della via Salaria. Lo slittamento del mercato dalla zona adiacente alla cattedrale verso un’area nei pressi di una porta fu una tendenza comune a diverse città del centro-nord Italia. È il caso, per esempio, di Siena, dove nell’alto Medioevo il mercato si svolgeva entro le mura e nelle vicinanze della cattedrale125. Il medesimo mercato sarebbe stato trasferito, con l’espansione demografica e urbana dell’abitato fuori dalla prima cerchia muraria, nell’area presso l’incrocio delle principali vie che conducevano al nucleo urbano126. Si è ipotizzato che il sorgere di aree di mercato inizialmente marginali ed esterne rispetto alla cinta muraria, a Bologna come a Siena e in altre città, fosse dovuto non tanto alla necessità di poter disporre di maggiore spazio, quanto allo stretto legame fra sedi di mercato e istituzioni ecclesiastiche. L’area di mercato ubicata davanti a porta Ravegnana127 e la costruzione delle Due Torri128, al di là del torrente Aposa, concorsero a creare, fra XI e XII secolo, un comparto particolarmente attivo e strategico dal punto di vista economico. Le Due Torri, nella fattispecie, furono edificate in posizione utile al controllo della viabilità e degli accessi al centro urbano, la cui presenza era segno indicativo di un costante e progressivo sviluppo dei traffici convergenti sulla piazza. Presso porta Ravegnana si insediarono importanti istituzioni economiche e finanziarie, fra cui l’arte del cambio e quella dei mercanti129 che, a fine Trecento, vi eressero le proprie sedi (rispettivamente, il foro dei Mercanti e il palazzo della Mercanzia)130. Nel Quattrocento anche i drappieri fecero edificare il loro palazzo in posizione adiacente alla piazza. La nota miniatura della matricola dell’arte dei drappieri del 1411131, restituisce un’immagine vivida del trivio di porta Ravegnana in un giorno di mercato affollato di botteghe, baldacchini e banchi dei venditori di panni e di tessuti. È la rappresen Pini 1975, p. 347. Savioli 1784, n. 70, pp. 118-120, ora ripubblicato in Fanti, Paolini 2004, n. 52, pp. 138-142. Cfr. Bocchi 1993b, pp. 14-15. 125 Tuliani 1998, p. 62 e nota 12 per una bibliografia approfondita. 126 Casi simili si riscontrano, oltre che a Bologna e a Siena, anche in altre città quali, per esempio, Vercelli e Piacenza. In proposito vedi Bocchi 1993a. 127 Scannavini 1993, pp. 77-86. 128 Bocchi 2007, pp. 208-212. 129 Vedi pagine precedenti. 130 Cecchieri, Vianelli 1982; Bocchi 2007, p. 291. 131 Bologna, Museo Civico, Matricola dei Drappieri, 1411. Vedi Medica 2003. 123 124
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tazione di una piazza animata, dove il movimento e i gesti dei venditori, i colori delle merci esposte nei più svariati angoli della piazza, contribuiscono a suscitare un’idea di vivacità e dinamismo. Molteplici attività affollavano l’area antistante porta Ravegnana, come si rileva dagli statuti del 1250, che registrano la presenza di botteghe e banchi di lino, di scarpe, di legna132. Malgrado gli spazi occupati dalle botteghe appartenessero a privati, il comune tese a gestire e controllare gli esercizi che vi si svolgevano. In tal senso, il governo bolognese provvide a elaborare un sistema per “terminare”, ossia delimitare le aree pubbliche ed evitarne l’abuso. La documentazione relativa alla distinzione fra spazi pubblici e privati confluì nei Libri terminorum, ossia “libri dei cippi di confine”133. Questo metodo di identificazione della proprietà del suolo, applicato per la prima volta nel 1202, fu perfezionato in occasione della terminazione del 1245134. In tali circostanze il comune provvide a delimitare, con la sistemazione di opportuni picchetti, le superfici di porta Ravegnana di pertinenza della collettività, fornendo minuziose disposizioni circa il loro uso135. Così, risulta che a porta Ravegnana la croce136 situata al centro della piazza, doveva essere libera da ingombri e sovrastrutture137. Nei tratti circostanti fu vietata qualsiasi iniziativa individuale che comportasse la presenza di banchi, tende, insegne. Vi si potevano collocare i venditori di ortaggi, di pollame e di formaggi, i mercanti di vino, di bozzoli da seta, di granaglie (vicino ai quali teneva banco l’esattore della gabella del grano). Nella medesima area sostavano i commercianti forestieri, la cui presenza era tollerata nelle ore di mercato. Era inoltre concesso vendere bestiame (in particolare, i porci), purché fossero tenuti legati. Una così grande varietà di merci risultò insufficiente per i traffici giornalieri cui l’area antistante la porta era destinata. Allo scopo di assicurare una certa viabilità e garantire ordine e pulizia a porta Ravegnana, il comune permise alle varie attività commerciali, ormai congestionate, di espandersi in spazi aggiuntivi costituitisi lungo le viuzze che si diramavano dal mercato, fra cui quel tratto di via Emilia denominato strada del Mercato di Mezzo o via Mercato di Mezzo138. Già nel XII secolo l’insieme delle viuzze lì nei pressi veniva definito nelle fonti con l’espressione forum maior139. Il termine forum140 nella documentazione medievale ereditò la duplice accezione risalente all’età romana, di Vi avevano sede i merciai e gli artigiani del settore tessile. Vedi Rinaldi 2007, p. 231. Bocchi 1995, pp. 49-50; Smurra 2003. 134 Ibid., pp. 424-426. 135 Pini 1995. 136 Nikolajević 1990. 137 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, p. 234. 138 Riguardo alla storia del nome vedi Fanti 1974, pp. 607-609. Vedi inoltre Scannavini 1993. 139 L’espressione forum maior si riscontra, per esempio, in una cartula vendicionis datata 10 novembre 1130 eseguita da Guidus filius de Andrea de Zitto (ASBo, Demaniale, 1/5591, n. 4, 1130: «…in civitate Bononie in loco qui vocatur forum maior prope ecclesia Sancti Michaelis»). 140 Riguardo al significato del termine forum, vedi Montanari 2003b, p. 116. 132 133
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piazza e di mercato, e si consolidò in età umanistica. Nelle fonti bolognesi, in particolare, forum designò un luogo di traffici sorto come prolungamento di una piazza e situato non lontano dalla piazza del comune, simbolo della vita politica e amministrativa della città. Nei documenti del XIII secolo la medesima area fu chiamata forum medii o foro de medio141, o Mercato di Mezzo, espressione che definì, fino all’Ottocento, sia il segmento della via Emilia che da porta Ravegnana giungeva alla piazza del comune, sia il comparto urbano. Si trattava di un comparto molto diverso da quello odierno: privo di portici, caratterizzato dalla presenza di strade strette e di vicoli che collegavano le due arterie parallele principali, la via Mercato di Mezzo e l’asse delle vie contermini. Il Mercato di Mezzo si qualificò sin da subito (le prime attestazioni risalgono al XII secolo) quale area destinata allo scambio dei generi alimentari al minuto. Era un settore commerciale attiguo a porta Ravegnana (e suo prolungamento) attivato ben prima che il comune intervenisse per gestire il difficile rapporto fra spazi pubblici e privati. Pare, per esempio, che la stessa via forum de medio fosse il luogo privilegiato della vendita delle granaglie, finché non fu costruito il palazzo del Biado sul lato sud-occidentale di piazza Maggiore a fine Duecento. Sempre nel XIII secolo, il forum de medio divenne sede di varie società d’arte, fra cui i beccai, i pescivendoli, i salaroli. La corporazione (o arte) dei beccai, o macellai, la più potente delle tre sul piano politico ed economico, acquistò fra il 1244 e il 1251 una serie di edifici, in gran parte già adibiti a uso di macellerie, ubicate fra via Mercato di Mezzo e la via a essa parallela, che si diramava da porta Ravegnana142. Tali edifici costituirono la beccaria grande o magna, situata vicino a porta Ravegnana, presso il corso del torrente Aposa, dove già da tempo era organizzata l’attività dei macellai. Oltre alla beccaria magna, i macellai bolognesi possedevano una beccaria de curia presso la curia o cortile del comune, posta tra gli odierni palazzi del Podestà e re Enzo. Nella via adiacente (via Caprarìe), che confluiva su piazza di porta Ravegnana, la società dei beccai fissò la propria sede. I macellai iscritti alla corporazione avevano l’obbligo di vendere la carne esclusivamente nelle due beccherie ufficiali dell’arte e disponevano di spazi adibiti alla macellazione143. Le bestie venivano probabilmente ammazzate presso l’Aposa, nel punto in cui il torrente entrava in città attraverso il palancato (palizzata in legname), che allora delimitava la terza cerchia di mura o circla144. Probabilmente, già prima del 1288 la corporazione dovette essersi dotata in quella zona di un macello decentrato che, insieme alle due beccherie, permettesse di eseguire il ciclo completo, dalla Queste espressioni compaiono già alla fine del XII secolo negli atti di compravendita dei terreni, come è il caso di Albertus de Pragatto che nel 1187 vende un terreno sito nella curia di Pragatto a Ugolinus filius quondam Ubaldini e ai suoi eredi (ASMo, S. Petro, IV, n. 53, 1187). 142 Fanti 1980, pp. 19-22. 143 Ibid., p. 46. 144 Vedi pagine precedenti. 141
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macellazione alla vendita al minuto145. Alla fine del Trecento l’arte istituì presso porta Ravegnana un proprio pelatoio dei maiali, acquistando quello di fronte alla beccaria magna, e allestì una serie di beccherie piccole ubicate all’interno del comparto Mercato di Mezzo146. L’altra corporazione del cibo che trovò una collocazione ufficiale nel Mercato di Mezzo fu l’arte dei pescivendoli, sorta nella seconda metà del Duecento147. I venditori di pesce operavano presso porta Ravegnana già nell’XI secolo e, probabilmente, fecero parte delle categorie professionali tutelate dal vescovo148. A partire dal XII secolo l’arte fu presente nel Mercato di Mezzo, dove ebbe in seguito la propria sede149. I pescivendoli attivi in città si procuravano il pesce presso il porto del Maccagnano150 sul canale Navile o naviglio (fuori l’attuale porta Lame), dove venivano a contatto con mercanti, operanti su questo e su altri porti del naviglio151. Una volta introdotto in città, il pesce fresco doveva essere venduto in giornata. L’attività dei pescivendoli, al pari di quella dei beccai, rappresentava una continua fonte di preoccupazione per l’autorità cittadina. Negli statuti comunali due-trecenteschi si intimava a quelli di porta Ravegnana di tenere sgombra la strada e si vietava loro di gettare gamberi e pesci marci sulla piazza. La vendita del pesce fresco era consentita soltanto presso porta Ravegnana, per facilitare così la riscossione dei dazi e il controllo igienico sulla merce. Tuttavia, a metà Duecento il commercio di pesce avveniva anche presso alcune pescherie site sulla piazza del comune. In un primo tempo abusive, esse furono in seguito accettate dall’arte, che impose però una rigida separazione fra i luoghi di vendita più antichi (piscatores de porta) e quelli recenti, creati sulla piazza del comune (piscatores de platea)152. Similmente, i salaroli, costituitisi in società negli anni 1244-52 e aventi sede presso la chiesa di San Giovanni in Monte, svolgevano la loro attività dislocati nei tre mercati cittadini, il trivium de porta Ravennate, la platea comunis e il forum de medio153. In quest’ultimo la società dovette gestire dei punti-vendita per il commercio dei cereali inferiori (quello del frumento154 era direttamente amministrato dall’autorità comunale). I soci avevano in affitto dei banchi e degli spazi sulla piazza del comune dalla parte del palazzo del Podestà, dove presumibilmente vendevano la maggior parte dei loro prodotti. Presso piazza di porta Ravegnana possede Fanti 1980, pp. 46-47. Ibid., p. 82. 147 Pini 1975. 148 Ibid., p. 339. 149 La sede dell’arte e numerosi banchi erano ubicati in via Pescherie. 150 Vedi Parte II. 151 Pini 1975, p. 342; Pini 1993c, pp. 15-18; Atlante storico di Bologna. Il Duecento 1995, pp. 21-24. 152 Pini 1975, p. 344. 153 Pucci Donati 2008. 154 Circa il consumo cittadino di frumento nell’Occidente medievale, vedi Montanari 1994a, pp. 65-67. 145 146
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vano delle botteghe, dove probabilmente organizzavano l’arrivo dei carichi di sale dalla via Salaria155. I salaroli ne predisponevano la vendita al dettaglio per conto del comune, in quanto potevano vendere soltanto sale di proprietà comunale156. Il commercio del sale costituiva l’attività principale della società, esercitata non soltanto al minuto in città, ma all’ingrosso fuori, come è testimoniato nei primi statuti dell’arte, in cui si accenna a una postazione presso l’antico porto vallivo di Dugliolo157. Questa località, situata più a oriente rispetto al naviglio – che collegava Bologna con il Po di Primaro in territorio ferrarese – costituì a metà del Duecento un importante scalo per i quantitativi di sale provenienti da Cervia e da Chioggia158. Oltre al traffico dei grani e a quello del sale, che interessava soprattutto gli operatori economici dipendenti dal comune, questo comparto urbano (piazza Ravegnana unitamente al Mercato di Mezzo) costituiva un polo di attrazione per i forestieri, in particolar modo gli studenti. Accanto al mercato dei beni alimentari si sviluppò quello del danaro e del credito, divenuto nel corso del Duecento un’attività assai redditizia. La presenza di cambiatori (campsores) e di mercanti (mercatores) a porta Ravegnana identificò questo settore quale polo finanziario della città, dove convergevano in numero consistente i banchieri di altre regioni. Si ritiene che accorressero al mercato e alle fiere bolognesi banchieri piacentini, astigiani, lombardi, ferraresi, anconetani e, soprattutto, toscani, i quali avevano creato in città una propria società detta dei Toschi. La rilevanza dei mercanti fiorentini, in particolare, si evince dall’esistenza di tariffe daziarie speciali loro riservate, definite in vari trattati commerciali stipulati fra Firenze e Bologna. A queste si aggiungeva la creazione di una Societas mercatorum florentinorum Bononie commorantium, probabilmente formatasi nel 1222, di cui è pervenuto uno statuto compilato nel 1279 con aggiunte degli anni 1286-89159. L’intraprendenza dei mercanti fiorentini divenne quasi proverbiale. Ancora nel XV secolo il bolognese Sabadino degli Arienti inserì nella sua raccolta di novelle Le porrettane160 la figura di un certo Marcasino Ottabuoni, mercante fiorentino trasferitosi a Bologna con la moglie Pippa «a fin de darse al suo usato exercizio della mercantia, come è costume de’ fiorentini, li quali più che altra nazione italica per fugire il somno e l’oziose piume, nimiche d’ogni spirto gentile, se dano alla mercantia e ad altri lucrosi exercizii»161. Allo scopo di facilitare l’afflusso di mercanti stranieri in città e, nel contempo, Pucci Donati 2008, p. 191, rubr. 16. La via Salaria corrispondeva all’attuale via San Vitale. Ibid., p. 192, rubr. 22. 157 Ibid., p. 193, rubr. 25. 158 Hessel 1975, p. 192. 159 Gaudenzi 1888a. 160 Le novelle, dedicate al duca Ercole d’Este, furono redatte nel 1483; nel codice Palatino 503 della Biblioteca Nazionale di Firenze risulta che la redazione definitiva è posteriore al 1492. Per l’edizione del testo vedi: Sabadino degli Arienti 1981. 161 Sabadino degli Arienti 1981, p. 19. Cfr. Malfitano 1998, pp. 29-31. 155 156
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implementare la circolazione dei mercanti bolognesi nei paesi stranieri, il comune stipulò vari trattati con altre città fra XII e XIII secolo, acconsentendo a traffici diretti tra forestieri162. Nel XIII secolo le principali famiglie e compagnie mercantili e finanziarie fiorentine (come i Bardi, i Cerchi, i Peruzzi, gli Acciaiuoli, i Frescobaldi) fissarono a Bologna importanti filiali, al pari dei senesi Bonsignori e dei pistoiesi Ammanati. Questi ultimi vi avevano perfino la sede centrale della compagnia e da Bologna dirigevano le loro attività, consistenti nel far pervenire i panni dalle Fiandre per smerciarle nelle città padane, o nel prestare denaro a studenti o a ecclesiastici e signori di tutt’Europa163. Bologna venne a configurarsi quale mercato di consumo e centro finanziario, a raggio locale, ma anche distrettuale e transappenninico164, nonché tappa di transito e di smistamento di merci di ogni genere165. I mercanti bolognesi erano impegnati nel commercio all’ingrosso e al minuto; trafficavano le merci più svariate, dalle stoffe alle pelli, ai metalli, alle spezie, ai generi alimentari, anche se la loro attività principale riguardava i tessuti. Essi incominciarono a frequentare sin dalla fine del XII secolo le fiere della Champagne, aperte tutto l’anno a turno nelle città di Troyes, Bar, Provins, Lagny. Il Ducento fu il secolo d’oro di queste fiere, che fungevano da luoghi di incontro e di scambio166. Non pochi mercanti bolognesi si recavano inoltre in Inghilterra, oltre a condurre transazioni con principi laici ed ecclesiastici tedeschi167. Pare che un certo Giraldus Cambrensis avesse acquistato nel 1203 alla fiera di Troyes da mercanti bolognesi venti marchi d’oro in moneta di Modena. Nel 1278 l’Universitas mercatorum Italiae nundinas Campanie ac regnum Franciae frequentantium prese parte alle fiere della Champagne168; nel 1295 stipulò un trattato con i conti di Borgogna, in favore di mercanti di varie città italiane, fra cui figuravano dei bolognesi169. La presenza di campsores e mercatores a piazza Ravegnana, unitamente al commercio al minuto di beni di vario genere, compresi quelli alimentari, accrebbe progressivamente l’importanza di questo comparto della città fra fine XII e inizio XIII secolo. L’ampliamento del mercato favorì lo spostamento del baricentro del comune, orientato nel XII secolo verso la chiesa di Sant’Ambrogio170, in direzione di un’area più prossima del nuovo polo commerciale. Fino ad allora, infatti, i Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, p. 250. Dini 1995. 164 Palmieri 1929. 165 Sui generi maggiormente commerciati nel Medioevo, anche sulle lunghe distanze, vedi Sapori 1955; Pini 1986a. Cfr. Greci 1978. 166 Cipolla 1980, p. 253. 167 Hessel 1975, p. 156. 168 Riguardo alle fiere di Champagne vedi Grohmann 2011, pp. 41-50. 169 Dal Pane 1957, pp. 115-116. 170 La chiesa di Sant’Ambrogio, ubicata presso l’odierno vicolo Colombina, esisteva dalla tarda età carolingia. Fu demolita in vista della costruzione della chiesa di San Petronio. 162 163
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rappresentanti cittadini si erano riuniti presso la curia sancti Ambroxii171 (il cortile antistante la chiesa o la vicina casa del comune) per confermare le decisioni dei governanti civili e militari, come la sottomissione di una comunità del contado, un’alleanza militare o una guerra da intraprendere. Questa sede, già alla metà del secolo XII, non fu più considerata idonea, tanto che i podestà furono spesso costretti a migrare altrove172. Ai primi del Duecento il comune decise perciò di dotarsi di una sede ufficiale e stabile. I consoli sentivano la necessità di creare un nuovo spazio rappresentativo del potere comunale che fosse alternativo all’area antistante la cattedrale. Il governo cittadino avviò la prima operazione urbanistica che avrebbe cambiato il volto di Bologna: l’apertura di piazza Maggiore chiamata piazza del comune (platea o curia comunis) per distinguerla dalla curia sancti Ambroxii173. Al pari della prima sede del comune, anche il nuovo palazzo del comune, denominato in seguito del Podestà174, fu edificato prospiciente la neonata piazza. Così, fra il 1202 e il 1203, furono atterrate numerose case e fu creata la platea communis175. In latino platea176 indicava uno spazio, aperto, ampio, piano, destinato a uso pubblico, non necessariamente adibito a mercato. Poteva trattarsi di una piazza in senso stretto, oppure di vie larghe, adatte al transito di veicoli e di merci ingombranti. Da allora le funzioni comunali furono trasferite attorno alla nuova piazza, mentre la casa di vicolo Colombina, sede precedente del comune, fu affittata e in seguito venduta a privati177. Inizialmente, il nuovo palazzo del comune assunse la denominazione di palazzo Giuridico, poiché il podestà era anche la più alta carica nell’amministrazione della giustizia. Negli anni Cinquanta fu ridenominato palatium vetus rispetto al neonato palazzo Re Enzo o palatium novum. Sin da subito, sotto il palatium vetus o palazzo del Podestà furono dislocate delle botteghe, come attesta un documento del Registro Grosso datato 11 ottobre 1212178. In esso è registrato l’affitto a otto privati di una serie di domus di proprietà comunale ubicate «sub palatio comunis Bononie a latere sero ipsius palatii»179, ossia sul lato nord del palazzo. Le domus, sorte probabilmente nel tardo XII secolo, erano generalmente strutture di vendita al coperto; in esse si svolgeva un commercio al minuto, ma anche all’ingrosso per quantità limitate di prodotto. Nel Duecento sono conosciute soprattutto le domus degli artigiani tessili e dei lavoratori della pelle riuniti in corporazioni, oltre Foschi 1993-94. Cfr. Smurra 2003, pp. 419-423. Si tratta di un passaggio (oggi scomparso) inglobato nel palazzo dell’Archiginnasio. 173 La curia santi Ambroxii era situata nei pressi dell’attuale via D’Azeglio. 174 Foschi 2001, pp. 66-67. 175 Scannavini 1993; Bocchi 1995, pp. 104-105. 176 Montanari 2003b, p. 115. 177 La chiesa di Sant’Ambrogio fu distrutta per far posto alla costruzione della basilica cittadina di San Petronio (dal 1390). 178 ASBo, Comune, Registro Grosso, I, 1212, cc. 195-197. Cfr. P. Foschi 2001, pp. 69-71. 179 ASBo, Comune, Registro Grosso, I, 1212, c. 195r. 171 172
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ad alcune del settore alimentare, in particolare quelle dei beccai e dei pescivedoli180. A fine XII secolo è attestata anche la presenza di una domus Raineirii pistoris181 sita, probabilmente, nella medesima area dove fu edificato il palatium vetus. Doveva trattarsi di una dimora privata, che fungeva anche da luogo di lavoro182. Nel 1244-46 a nord-ovest del palazzo Giuridico (palazzo del Podestà o palatium vetus) fu costruito il già citato palazzo Re Enzo, chiamato palatium novum comunis Bononie183 quale ampliamento degli edifici comunali, allo scopo di ricoverare al piano terreno le macchine da guerra dell’esercito bolognese. Tre anni dopo la sua costruzione, nel 1249, il palatium novum divenne sede del prigioniero della guerra di Fossalta, re Enzo figlio di Federico II, che vi rimase fino alla morte, sopraggiunta nel 1272 (da cui il nome di palazzo Re Enzo). Nel 1256 fu istituita la magistratura del capitano del popolo e per quest’ultimo venne edificata dietro al palazzo del Podestà una residenza, in cui era inglobata una torre in precedenza di proprietà della famiglia dei Lambertini. A seguito della costruzione del palazzo del capitano del popolo, all’incrocio con il palazzo del Podestà, fu eretta nel 1259 la torre dell’Arengo184. La torre fu impostata su quattro pilastri angolari che reggevano una volta a croce, la quale formò il cosiddetto voltone del Podestà. Essa divenne il punto di riferimento per i cittadini, allorché si convocava l’assemblea generale o li si chiamava a raccolta per qualsiasi necessità. In quell’area si svolgevano le feste cittadine (si pensi alle feste della porchetta in voga ancora in epoca moderna, rappresentate nelle famose Insignia degli Anziani185). La torre dell’Arengo completava il gruppo degli edifici, che si stagliavano sulla piazza a simbolo del governo comunale; lì si reclutava l’esercito, si proclamavano i bandi, si eseguivano le pene, avevano luogo le più importanti cerimonie pubbliche e religiose186. Che la platea comunis rappresentasse l’intreccio fra potere politico e attività economiche si evince anche dalla documentazione prodotta dalla magistratura dei procuratori del comune187, pervenutaci a partire dagli anni Trenta del Duecento. Si tratta di registri elaborati da ufficiali pubblici, i procuratores appunto, addetti alla gestione dei beni di proprietà comunale, fra cui i luoghi destinati alla vendita. È il caso, per esempio, di un registro datato 1256188, in cui sono attestate le botteghe (stationes) e Checcoli 2008, pp. 255-256. Riguardo ai mestieri del cibo, disponevano di domus sia i macellai che i pescivendoli. 181 ASBo, Comune Governo, Registro Grosso, I, 1201, c. 99v. Cfr. Trombetti Budriesi, Duranti 2010, I, n. 190, p. 121. 182 Riguardo alla categoria dei pistores vedi Parte III. 183 Foschi 2001, pp. 80-87. 184 Ibid., pp. 68-69. 185 Giansante 2005, pp. 93-125. 186 Le feste religiose ebbero luogo soprattutto da quando fu costruita la basilica di San Petronio. 187 Riguardo a questa magistratura, vedi Orlandelli 1951; Orlandelli 1954. 188 ASBo, Comune, Procuratori del Comune, Libri contractuum, 1/7, cc. 1-6. pubblicati in appendice al contributo Foschi 2001. 180
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gli spazi (loca) affittati a cittadini a scopo commerciale. Fra questi ultimi è menzionata un’area posta a settentrione del mercato de platea, nella direzione del Mercato di Mezzo, dove esercitavano il loro commercio i fornai. Trovandosi questo locum, verosimilmente, nella stessa zona della già citata domus di Rainerius pistor, si potrebbe supporre una continuità dei luoghi adibiti alla vendita del pane fra XII e XIII secolo189. Dal medesimo registro si evince che il portico del palazzo del Podestà e le aree prospicienti la piazza furono caratterizzate dalla presenza di diversi tipi di venditori: dai calzolai, ai merciai, alle oveterie (lavoranti che confezionavano copricapi)190, ai tricoli e tricole191 (venditori e venditrici di ortaggi, frutta, granaglie), ai salaroli. Mescolati ai banchi e alle botteghe di costoro esercitavano il loro mestiere i notai. La nuova piazza, la platea comunis, fu teatro dell’emergere di categorie professionali che operavano già da tempo nel tessuto cittadino (presso porta Ravegnana e le viuzze del Mercato di Mezzo). Ubicata non distante dal forum romano e dal mercato vescovile (antistante la cattedrale San Pietro), la platea comunis divenne l’erede di quegli spazi. Seppur interno al perimetro delle antiche mura di selenite, il mercato de platea identificò una realtà politica, economica, sociale profondamente mutata rispetto al periodo tardo antico e altomedievale. Era il luogo dove si vendevano il grano, la carne, il pesce, la frutta e la verdura, il sale, oltre ad altri generi di prodotti non alimentari. A rafforzare la funzione simbolica di piazza-mercato fu la costruzione del palazzo del Biado nell’angolo sud-occidentale della piazza stessa, divenuto in seguito il primo nucleo dell’attuale palazzo comunale192. In realtà, il commercio del biado dovette svolgersi anche precedentemente sul mercato della piazza, data la presenza di fornai nell’area antistante il complesso degli edifici comunali e di depositi di grano sotto il portico del palazzo del Podestà. La realizzazione del palazzo del Biado193 rappresentò probabilmente l’istituzionalizzazione – in termini politici e urbanistici – di una situazione preesistente. Il palazzo del Biado194 fu costruito fra il 1293 e il 1295 dal comune guelfo al posto di case più antiche acquistate sin dal 1287, appartenute a famiglie filoimperiali, quali i Frenari, i Guezzi, i Raineri, e Francesco Accursio, figlio del famoso giurista. Tali acquisizioni avvennero in concomitanza con il rafforzamento del potere politico della In proposito vedi Parte III. La figura femminile dell’oveteria era probabilmente diffusa nell’Europa medievale; attestazioni della presenza di ovaters – vendedores de huevos – si riscontrano, per esempio, nel mercato di Valencia nel XIV secolo. Cfr. García Marsilla 1993, p. 105. 191 Circa la figura femminile della tricola in ambito bolognese, vedi Rinaldi 2012. 192 Circa la ricostruzione di piazza Maggiore e degli edifici circostanti, vedi Falletti 1906. Cfr. Bergonzoni 1984. 193 Roversi 1981. Cfr. Bergonzoni 1987. 194 Il 1293 quale anno di costruzione del palazzo del Biado è attestato in Ghirardacci 2005, p. 311. Cfr. Guidicini 1869, p. 347 Sull’aspetto del palazzo, vedi Gozzadini 1884, pp. 425-450; Roncagli 1879. Per le vicende costruttive del vasto complesso denominato oggi palazzo comunale, vedi Bergonzoni 1987. 189 190
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parte filopapale. In particolare, nel 1293 si sanzionò un progetto architettonico nel quale il magazzino del grano fu definito palatium e fu avviato il lavoro che prevedeva il congiungimento architettonico di tre case confinanti, il cui aspetto sarebbe divenuto omogeneo mediante la costruzione di una facciata con portico. Nel nuovo edificio si cercarono di inserire gli elementi preesistenti; la torre degli Accursio venne infatti incorporata. Il palazzo del Biado fu concepito per essere un luogo multifunzionale: serviva come magazzino e luogo di vendita del grano e sede di governo. Sotto il portico trovarono posto alcuni banchi dei macellai (o beccai); nel 1336 vi si installarono i dazieri del vino. Nondimeno, in quello stesso anno si decise di riservare tutto l’edificio agli “anziani e consoli”, la magistratura espressione delle arti (o corporazioni), che nel frattempo era diventata il principale organo di governo195. Il deposito di frumento e di granaglie e i dazieri del vino vennero spostati altrove. Le macellerie ubicate sotto il portico furono soppresse con l’arrivo a Bologna nel 1350 dei Visconti, che adibirono il pianterreno a stazionamento delle loro truppe. Il mercato de platea non determinò l’esaurirsi della funzione commerciale e finanziaria di porta Ravegnana. Anzi, i due poli si rafforzarono l’un l’altro. Che porta Ravegnana continuasse a conservare un ruolo importante risulta evidente dagli interventi urbanistici approntati dal comune nel 1286196. In quell’anno si abbatterono case e botteghe, si isolarono parzialmente le torri Asinelli e Garisenda e fu creata a tutti gli effetti piazza di porta Ravegnana. Le pescherie situate fra la torre Asinelli e l’attuale chiesa di San Bartolomeo (piscarie porte ravennatis) furono trasferite in via Pescherie Vecchie. La nuova immagine della piazza de porta (così denominata nei documenti per distinguerla dalla platea de curia o comunis) venne a inglobare le Due Torri, da quel momento meno ingombrate dall’affastellamento di baracche e banchi, di cui una, la Garisenda, fu elogiata da Dante in uno noto sonetto197. Tracce di tali cambiamenti sono contenute nel Liber terminorum198 del 1286 e, soprattutto, in quello del 1294199, in cui si registrava la situazione degli spazi pubblici e privati prospicienti le piazze de curia e de porta. In particolare, la neonata piazza di porta Ravegnana dovette risultare congestionata da una viabilità difficoltosa; perciò, il comune provvide a far sgomberare l’area e a disimpegnare gli accessi e i passaggi. Si trattava di misure già approntate in parte qualche anno prima, quando furono inserite negli statuti cittadini (quelli del 1288) alcune disposizioni concernenti la praticabilità della zona di mercato, unitamente a norme che ne garantissero il decoro e l’igiene. Tamba 1978, p. 12. Bocchi 2007, pp. 281-283. 197 Tale sonetto fu trascritto nel volume dei Memoriali datato secondo semestre 1287: «Non mi poriano già mai fare ammenda/ del lor gran fallo gli occhi miei, sedelli/ non s’accecasser, poi la Garisenda/ torre miraro co’ risguardi belli». Riguardo a Dante e Bologna, vedi Dante e Bologna nei tempi di Dante 1967. 198 Bocchi 1995, p. 50; Foschi 1990. Cfr. Smurra 2003. 199 Heer 1984; Bocchi 1995, p. 50. 195 196
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Dato lo spazio ristretto a disposizione, si ribadì200 il divieto di sosta ai carri carichi di legname o di altro materiale, e si presero provvedimenti per smaltire i rifiuti della macellazione della carne e della vendita del pesce fresco. Un ulteriore polo commerciale aggiuntosi al sistema delle piazze-mercato bolognesi fu realizzato a partire dal 1219, quando il comune acquistò da privati una serie di terreni a nord-est della città, appena fuori della cerchia di mura dei Torresotti. Si trattava di una vasta area che divenne sede di un commercio extraurbano, di cui l’attuale piazza VIII agosto rappresenta soltanto una parte. La scelta del luogo fu motivata dalla prossimità della rete di canali che si andava delineando in quel comparto della città. Tale area fu adibita al campus fori201 o campo del mercato. Campus202 è un termine latino impiegato nel Medioevo per indicare lo spazio che oggi chiamiamo piazza (si pensi a Venezia o a Siena), la cui origine rurale evoca l’aspetto della città altomedievale, caratterizzata dalla compresenza di campi, orti, vigne, inframmezzati alle abitazioni. Con questa espressione, campus fori, si indicò il mercato bolognese dove si recavano i contadini provenienti dalla campagna per vendere gli animali. Era il luogo dove venivano trasportate mercanzie di vario genere: dalle calzature, ai capi di abbigliamento, alle merci ingombranti (legname, botti, gli attrezzi agricoli), già spostati dalla platea comunis all’inizio del Duecento203. Presso il campus fori il sabato aveva luogo il mercato del bestiame e si svolgeva annualmente la fiera che riuniva le più antiche fiere del Reno (in agosto) e di San Procolo (in maggio)204. In maggio e in agosto i cambiatori si trasferivano nel campus fori con i loro pesi, bilance, prontuari di cambio e sacchetti di monete, presso banchi allestiti per loro dall’arte. Mediante l’apertura della nuova piazza il governo comunale intese disciplinare momenti decisivi della vita commerciale cittadina e controllarli a fini fiscali205. Dal 1390, inoltre, il campo del mercato divenne sede della fiera di San Petronio, che si teneva nei giorni precedenti e seguenti la festa del santo patrono cittadino, fissata il 4 ottobre206. Nella seconda metà del Duecento altre due aree dalla forma allungata con funzione commerciale si aggiunsero al sistema dei mercati sopra descritto: le selciate (o seliciate) di strada Maggiore e di San Francesco207. Provvedimenti simili, riguardanti porta Ravegnana, erano già stati inseriti negli statuti di metà del Duecento, sia per quanto riguarda la viabilità che il decoro urbano e la salubrità del luogo. 201 Capoferro Cencetti 1990. Cfr. Bocchi 1995, p. 50; Bocchi 2007, pp. 240-241. 202 Montanari 2003b, pp. 114-115. 203 Bocchi 1990, p. 203. Per un confronto con altri mercati di città romagnole vedi Pini 1986a, pp. 42-43. 204 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, p. 223; Bocchi 1995, p. 50. 205 Greci 2007, p. 510. 206 Piazza VIII agosto rimase per secoli, ed è tuttora, sede di un mercato settimanale (oggi soprattutto di vestiario). Il mercato del bestiame fu trasferito nell’Ottocento in un’area esterna alle mura, corrispondente approssimativamente all’attuale piazza Trento Trieste. 207 Ancora oggi piazza Aldrovandi ospita un mercato giornaliero di beni alimentari, mentre piazza Malpighi ha accolto un mercato settimanale fino alla seconda guerra mondiale. 200
II. L’APPROVVIGIONAMENTO CEREALICOLO
1. Bononia Felix. Una politica annonaria in fieri Strategie economiche e approvvigionamento cerealicolo. Il ciclo della produzione, distribuzione e consumo del grano costituisce uno degli ambiti di indagine più significativi nel dibattito storiografico sul rapporto fra economia, politica e società negli stati dell’Europa preindustriale. Al pari del sale, il grano ebbe un peso fortemente politico1. Nelle città-stato medievali le necessità alimentari furono fonte costante di preoccupazione, soprattutto nei paesi la cui produzione granaria risultava insufficiente. Questi si videro costretti a importare i beni primari e a creare specifiche magistrature addette all’annona. Anche gli stati che producevano in eccedenza furono obbligati a dotarsi di un apparato di pubblici funzionari preposti al controllo e alla gestione dei prodotti provenienti dalle campagne. A tali spese si aggiungeva la necessità di mantenere calmierato il prezzo del grano rivenduto al dettaglio in città, nonché l’esigenza di limitare le esportazioni. Occorreva inoltre provvedere allo stoccaggio del grano, che si configurava quale fase delicata, in quanto si trattava di immobilizzare temporaneamente il capitale pubblico per farlo fruttare in seguito. Spesso, infatti, dalla vendita dei quantitativi di cereali immagazzinati derivavano le entrate più cospicue della città-stato, come avvenne per esempio a Venezia nel XIII e XIV secolo, dove la principale fonte di guadagno proveniva dalla Camera frumenti e dall’ufficio della Ternaria, addetti alla vendita del grano giacente nei depositi del comune2. Palermo 1986. Per una riflessione sull’economia nelle società preindustriali, vedi Palermo 1997. Cfr. Cipolla 1980. 2 Faugeron 2009a, pp. 106-109; Faugeron 2014, pp. 105-108. 1
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Il commercio di un bene di prima necessità come il grano richiedeva stabilità politica: da esso dipendeva la sopravvivenza degli abitanti della città e delle comunità del territorio. Di qui scaturivano le forti implicazioni politiche connesse alle questioni annonarie, in particolar modo, all’approvvigionamento cerealicolo, e l’importanza di redigere legislazioni dettagliate in materia di rifornimento di grano, commercio e trasformazione dello stesso in pane. La sola capacità di assicurare costanti e sicuri rifornimenti alimentari era spesso sufficiente ai gruppi economicamente dominanti per legittimare il proprio diritto a governare3. Le categorie che gestivano le varie fasi dell’approvvigionamento della città erano le stesse che agivano sull’andamento dei consumi e sulla gestione degli scambi fra città e campagna4. La stabilità politica costituiva la condizione necessaria per approntare strategie di rifornimento cerealicolo efficaci, che esaurivano d’altronde soltanto un aspetto delle dinamiche annonarie5. Tali strategie implicavano l’adozione di una serie di misure e di provvedimenti di vario genere, a partire appunto dalla creazione di magistrature addette al vettovagliamento urbano. L’amministrazione delle derrate frumentarie esigeva, infatti, la formazione di un apparato di pubblici ufficiali – fra cui amministratori, finanzieri, appaltatori, mercanti, operatori specializzati – destinato a gestire il ciclo produttivo del pane. Ciclo che risultò sempre più segmentato fra Due e Trecento, caratterizzato da una netta distinzione, sul piano economico e sociale, fra coloro che erano a capo degli uffici direttivi e gli addetti alle varie fasi del lavoro (trasportatori, vetturali, mugnai, pesatori, abburattatori, fornai). Questo sistema aveva in realtà delle debolezze intriseche, in quanto molteplici interessi spesso contrastanti erano in gioco: quelli dei venditori, dei consumatori, e di chi deteneva il potere, interessato soprattutto a dirigere in forma di monopolio i problemi annonari. Per esempio, uno dei primi provvedimenti assunti da Giacomo I d’Aragona il Conquistatore, dopo aver preso Valencia (1238), fu quello di concedere alla città il diritto di tener mercato tutti i giovedì dell’anno, garantendo protezione a tutti coloro che portavano le loro mercanzie in città. Il corpus di leggi che Giacomo il Conquistatore aveva promulgato, Els Furs, cui si conformarono i monarchi successivi, prevedeva una capillare regolamentazione del mercato dei beni alimentari, con figure di controllo delle operazioni e delle transazioni che si svolgevano presso il mercato6. Similmente, nel basso Medioevo le città catalane furono caratterizzate da una forte presenza municipale nell’approvvigionamento cerealicolo e nella gestione del ciclo del grano, benché l’iniziativa privata svolgesse comunque in questo settore un ruolo fondamentale7. Tucci 1983, pp. 290 segg.; Palermo 1986, pp. 79-80. Per un esempio comparativo relativo al caso di Roma vedi Palermo 1979, p. 44 e sgg. 5 Circa il dibattito riguardo alla dialettica fra politiche cerealicole e politiche annonarie negli stati europei preindustriali, vedi Introduzione al volume. 6 García Marsilla 1993, pp. 95 e sgg. 7 Riera Melis, Pérez Samper, Gras 1997, pp. 291-292. 3 4
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Nelle città-stato italiane medievali il confine fra pubblico e privato risultava labile8. Coloro che ricoprivano le cariche di governo e si curavano della “cosa pubblica” spesso appartenevano ai gruppi familiari e consortili economicamente e finanziariamente più influenti nel contesto urbano. Gli interessi privati si confondevano non di rado con quelli pubblici. In questo senso il rapporto fra “formale” (lecito) e “informale” (illecito)9 si configurava complesso e sfuggente, non soltanto in rapporto alle categorie più umili impegnate in questo settore, ma anche, e soprattutto, in relazione ai gruppi dirigenti. Questi ultimi dovevano assicurare una politica cerealicola efficace, che investiva l’intero ciclo del pane: nella fattispecie i rifornimenti e il commercio del grano costituivano due fasi delicate, assieme al settore delle spese pubbliche e alle strategie finanziarie per contenere il costo delle derrate sul bilancio dello Stato10. Occorreva inoltre favorire la produttività, mediante interventi sul territorio: dai lavori di bonifica di aree paludose all’estensione di dissodamenti, alla costruzione di strade e canali che agevolassero i trasporti delle vettovaglie. La politica annonaria, e soprattutto quella cerealicola, si intrecciavano così a misure assunte in ambito agricolo, consolidando il rapporto stabilito dalla città con il contado a essa soggetto11. Un tema oggetto di studi e di polemiche è proprio quello dell’interpretazione politica dei provvedimenti concernenti l’annona e il commercio del grano. La tesi di Salvemini, secondo cui la politica annonaria dell’età comunale recepiva differenti interessi ed era perciò frutto di contrasti tra un ceto composto prevalentemente da consumatori (o da gruppi sociali aventi gli stessi interessi) e un altro che raggruppava i grandi proprietari fondiari12, ritenuta non convincente da Ottokar e da Fiumi13, è stata rivalutata da Pinto, che la considera plausibile per l’età comunale. In particolar modo, tale tesi sarebbe plausibile in riferimento alle città in cui l’attività manifatturiera non era particolarmente sviluppata e la presenza dei ceti mercantili-imprenditoriali e di manodopera salariata era meno forte14. Una tesi che sembra acquistare rilevanza ancora maggiore alla fine del Medioevo, dato il progressivo consolidarsi della grande proprietà fondiaria cittadina e la costituzione o l’ampliamento di un ceto urbano che viveva sulla vendita delle eccedenze agricole, e mal sopportava gli interventi pubblici volti a calmierarne i prezzi o a impedirne lo smercio sui mercati Palermo 1986, p. 80. Riguardo a questo tema sono in corso di pubblicazione gli Atti della XLVI Settimana di Studi dell’Istituto Internazionale di Storia Economica “F. Datini”: Il commercio al minuto. Domanda e offerta tra economia formale e informale secc. XI-XVIII/Retail trade. Supply and demand in the formal and informal economy from the 13th to the 18th centuries, 4-7 maggio 2014. 10 Ginatempo 2000. Cfr. Carboni 2008. 11 Pinto 1996, p. 94; Mucciarelli, Piccinni, Pinto 2009. 12 Salvemini 1960, pp. 137-141. Tale interpretazione di Salvemini fu ripresa e puntualizzata da Caggese 1908. Per una lettura politica dell’annona come parte integrante dei diritti sovrani della città sul proprio dominio, vedi Collodo 1990, pp. 395-402. 13 Ottokar 1962; Fiumi 1956; Fiumi 1977. 14 Pinto 1978, pp. 129-130. 8 9
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più redditizi15. Nelle città in cui l’attività dei proprietari fondiari era favorita dalla circolazione del danaro agiva una dialettica politica serrata tra interessi agrari e interessi mercantili-artigiani16. Le negoziazioni tra i poteri politici e i poteri economici ebbero, come si è già accennato, effetti notevoli sugli assetti produttivi delle campagne. Le motivazioni di fondo della formazione di una consistente proprietà fondiaria cittadina sono innanzitutto di carattere economico. I gruppi mercantili videro nell’acquisto dei terreni un investimento solido a fronte di affari rischiosi, seppur maggiormente fruttuosi17. I proprietari fondiari, qualunque fosse la loro estrazione, aristocratica o borghese, erano in grado di orientare il valore di scambio dei cereali, aumentandone i prezzi con obiettivi economici (accrescimento di rendita e profitti) e politici (strategie destinate a condizionare le scelte della città). Coloro che gestivano la proprietà terriera non si opponevano al potere cittadino (il mercato urbano costituiva il principale sbocco dei loro beni cerealicoli); tuttavia, agivano a favore di un interesse privato, che non sempre si integrava con quello comune della città e di quei gruppi che in tale veste la governavano. Nondimeno, nell’Europa occidentale tardo medievale la produzione dei beni agricoli nelle campagne e il consumo degli stessi nelle città erano strettamente legati. Tale situazione imponeva forme di collaborazione fra chi deteneva le strutture produttive e chi organizzava il sistema del mercato e dei consumi; ma, allo stesso tempo, determinava il verificarsi di frizioni e contrasti per il controllo del mercato18. Nel caso di Bologna, i nuovi proprietari fondiari, appartenenti a gruppi mercantili e imprenditoriali cittadini, incentivarono notevolmente l’estensione dei prati destinati al pascolo del bestiame a scapito delle coltivazioni cerealicole. Si tratta di un fenomeno diffusosi anche altrove in Italia fra Due e Trecento, come è testimoniato, per esempio, nella Maremma toscana19. A Bologna gli stessi gruppi imprenditoriali parteciparono attivamente al governo della città fra le fila della pars populi e i nominativi di alcuni di essi si annoverano fra gli otto domini bladi eletti nel 1259, incaricati di gestire il sistema annonario e redigere un ordinamento speciale. Non soltanto occorreva riorganizzare le singole fasi del processo produttivo, di quello di distribuzione e del consumo, ma tale carica investiva anche oneri di carattere finanziario. Infatti, i domini bladi erano appaltatori e finanziatori del comune per il ciclo del pane, ma non soltanto. Essi si occupavano degli investimenti necessari alla realizzazione di interventi urbanistici di innovazione, manutenzione o riparazione degli edifici, dei canali, dei portici. Inevitabilmente, l’interesse pubblico si confondeva con quello privato di quelle famiglie di imprenditori e di mercanti, che Pinto 1996, p. 95. Grohmann 2001, p. 153. Circa il dibattito sul rapporto fra politiche annonarie e storia agraria vedi Piccinni 2009, p. 602. 17 Pinto 1982, p. 161. 18 Palermo 1997, pp. 250-251. 19 Piccinni 2013, p. 183. 15 16
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divennero prestatori del comune e garanti del funzionamento del sistema annonario, così come si andò configurando nella seconda parte del Duecento. A Bologna, le politiche cerealicole, gli investimenti agrari e le dinamiche creditizie, implementate grazie all’attività delle arti del cambio e della mercanzia, rappresentarono un nodo di interessi estremamente forte, che condizionò notevolmente le strategie di approvvigionento alimentare della città. L’origine di tali orientamenti politici, economici e finanziari è da ricercarsi nel XII secolo, quando la città incominciò a giovarsi della crisi di Ravenna, del successo ottenuto con le altre città lombarde contro l’autorità imperiale, della presenza dello Studium, che attirava studenti stranieri, professori, intellettuali, viaggiatori, favorendo così l’incremento demografico urbano. “Secolo d’oro” è stato definito dagli studiosi locali il periodo di anni compreso fra il 1228 e il 1278, coincidente soprattutto con la fase sperimentale al governo della pars populi 20. Tale fase fu preceduta da una serie di cambiamenti strutturali verificatisi a Bologna alla fine del XII secolo, in particolar modo negli anni 1183-1228. Mutamenti che permisero al comune di acquisire una maggiore stabilità e autonomia politica, e conseguentemente, di assumere una serie di provvedimenti in materia economica. A questi fattori si aggiunse un accresciuto senso civico dei bolognesi legato al culto di San Petronio, che avrebbe soppiantato quello di San Procolo21, rafforzato dalle iniziative che il comune assunse in ambito urbanistico per donare un volto nuovo al centro urbano. Grazie alla maggiore autonomia ottenuta in seguito alla pace di Costanza (1183) e, completamente, dopo la morte dell’imperatore Enrico VI (1197), Bologna riuscì, verso la fine del secolo, a definire e consolidare il proprio dominio sulla campagna e a incrementare la produttività del territorio a essa soggetto22. I primi interventi di carattere economico presero avvio da una politica demografica attuata dal comune per orientare i flussi migratori verso il contado. L’obiettivo principale fu quello di aumentare la produttività agricola allo scopo di “nutrire” la città e rafforzare la capacità difensiva del territorio con la costruzione di borghi franchi (proseguita fino agli anni Quaranta del Duecento)23. I borghi franchi erano così denominati in quanto centri muniti di mura difensive (borghi), dotati di particolari franchigie e privilegi, fra cui quello di poter essere abitati unicamente da uomini liberi (venivano considerati tali anche coloro che vi fossero immigrati)24. La fondazione di borghi franchi rientrava in una strategia di pianificazione del terri Pini 2002a; Giansante 1985-86; Greci 2007, pp. 499-500. Marchi, Fanti 1989; Pini 1972. Cfr. Greci 2007, p. 501. 22 Hessel 1975, p. 189. Per un inquadramento del rapporto città-campagna nell’Italia comunale vedi Mucciarelli, Piccinni, Pinto 2009. 23 Un esempio di borgo franco strategico studiato per il territorio bolognese è quello di Castel San Pietro. Vedi in proposito Pini 2002b. 24 Fasoli 1942; Pini 1996, pp. 116-120; Pini 1986, pp. 91-95; Greci 2007, pp. 504-505. Cfr. Comba, Panero, Pinto 2007. Per una rifessione storiografica sui borghi franchi comunali vedi Panero 2008. 20 21
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torio volta a favorire la città a scapito delle giurisdizioni signorili25. Motivazioni di ordine politico-militare e agrario-demografiche si intrecciavano a ragioni di natura economico-commerciale: il borgo franco sorgeva ai confini del territorio a custodia di rotte percorse da mercanti, oppure a difesa di un guado, o a controllo di passaggi obbligati di fondovalle. Il popolamento della campagna, d’altronde, rappresentava una garanzia per la città in termini di produttività. Diverse erano, tuttavia, le strategie adottate dai governanti nei confronti dei vari gruppi sociali e professionali. Le disposizioni comunali rivolte alle famiglie signorili del contado non prevedevano l’obbligo della residenza in città, almeno per un certo periodo dell’anno; inoltre si incentivava l’afflusso di artigiani, contadini e addetti al vettovagliamento. Allo scopo di incrementare il numero degli abitanti della campagna, il governo bolognese cercò di favorire l’immigrazione di artigiani forestieri e di sviluppare l’agricoltura, colonizzando le terre incolte vicino alle valli del Po. Fu emanata una normativa secondo la quale a ciascun forestiero stabilitosi nel contado si concedevano i privilegi degli esenti per 30 anni. Speciali facilitazioni vennero accordate a gruppi numerosi e organizzati. Da terre vicine e lontane accorsero sarti, ciabattini, pellicciai, fabbri, fornai, macellai, barbieri26. Nel 1221-22 fu fondata una colonia agricola a Baratino (a nord est di San Martino in Argine). Nel 1231 si stabilirono nel territorio boscoso di Minerbio e di Altedo 150 famiglie provenienti soprattutto da Mantova, che incominciarono a versare un tributo annuale al comune. Quest’ultimo stipulò dei contratti con maestri e operai tessili provenienti da città toscane e lombarde27 e volle controllare le forme di gestione della terra. Risalgono agli inizi del Trecento vari accordi riguardanti terreni del contado affittati con un canone ad medietatem28. Si tratta di un genere di locazione agraria, caratterizzata dalla suddivisione a metà dei prodotti, diffusasi nella campagna bolognese e in Romagna, che preludeva a rapporti di tipo mezzadrile29. Forse i registri dell’Officium bladi, in cui si riscontrano tali testimonianze, rispecchiano una situazione preesistente. Altrove, come per esempio in Toscana, forme a conduzione mezzadrile erano pienamente sviluppate nel Due-Trecento30. Nonostante la politica attuata dal comune di popolamento del contado, nel corso del Duecento si assistette a un progressivo incremento demografico urbano (molti provenivano dal territorio circostante), che venne a rappresentare un problema per il rifornimento cerealicolo della città e per la conduzione dei poderi di Fasoli 1942, pp. 200-201; Panero 1984, pp. 329-354. Cfr. G. Pinto 1996, pp. 43-44. Sugli artigiani salariati vedi Artigiani e salariati 1984; Degrassi 1996. 27 Pini 1986a, p. 41. 28 Vi sono testimonianze di “scritte mezzadrili” in vari enti produttori, come quelli religiosi. Vedi Rinaldi 1989, p. 876, nota 26. 29 Montanari 1994b, pp. 89-105; Pasquali 1995, p. 157; Pasquali 2008, p. 380. Cfr. Malowist 1978, pp. 484-491. 30 Vedi Pinto 1982, pp. 225-246; Piccinni 1982, pp. 48-116; Piccinni 2002, pp. 160-164. Per una ricognizione bibliografica sulla mezzadria in Toscana, vedi Rinaldi 1989. 25 26
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proprietà dei cives. Si verificò di fatto un’inversione di tendenza; ossia cominciò un flusso migratorio degli abitanti del contado verso la città, che provocò inevitabilmente la diminuzione della manodopera, dei servizi e delle prestazioni professionali sul territorio. A questi fattori si aggiunse la conseguente riduzione dell’entità del prelievo fiscale sui fumanti (abitanti del contado). Per ovviare a questa tendenza migratoria, il comune emanò una serie di disposizioni fra cui, per esempio, quella del 1246, volta a indurre uomini provenienti da Castelfranco, Belvedere, Castel Leone, Scaricalasino, Castel San Paolo a far ritorno nei loro luoghi di origine31. Il governo bolognese intese investire nella produttività del contado, anche in termini di infrastrutture e servizi. In questo senso va interpretata la politica comunale in favore dell’insediamento di gruppi familiari nel distretto bolognese e l’inurbamento di artigiani forestieri; per gli stessi motivi, si intraprese la costruzione di una rete di comunicazione via terra, affidata in parte agli stessi abitanti del contado, che metteva in contatto Bologna con la Lombardia a ovest e la Romagna a est; Firenze e Pistoia a sud; Ferrara a nord32. Poiché la manutenzione delle strade era possibile soltanto quando si aveva il diritto di disporre dei passaggi fluviali, il comune riuscì, verso la metà del XIII secolo a gestire interamente i ponti (con annesso l’ospizio) dislocati sulla via Emilia a ovest, sul Reno, e quelli sull’Idice a est, molti dei quali erano stati amministrati in precedenza da corporazioni religiose33. Oltre alle comunicazione via terra, il governo bolognese si concentrò a implementare l’utilizzo delle vie d’acqua. Allo scopo di creare un collegamento più breve verso la foce del Po, e dunque verso l’Adriatico, il comune fece costruire il canale Navile o naviglio, che collegava il comparto nord della città con il Po di Primaro, attraverso il territorio ferrarese34. I lavori iniziarono nel 1208 e proseguirono probabilmente fino al 1221; non si ha notizia della data del loro compimento. Il corso del naviglio costituiva una continuazione del già esistente ramus Reni, che portava l’acqua del fiume Reno dalle vicinanze di Casalecchio entro le mura, sul lato nord ovest. Tale corso usciva, in seguito, dalla città vicino a porta Lame, scorreva nei pressi di Corticella e Castagnolo, e tra Santa Maria in Duno e San Marino, toccava Altedo e Pegola e raggiungeva le valli35. Questo canale era fondamentale per il trasporto dei quantitativi di cereali provenienti dal territorio ferrarese verso Bologna. Che fosse un’area importante di raccordo fra il centro urbano e le tratte commerciali a nord della città si evince dall’esistenza, già nella prima parte del XIII secolo, di Statuti del comune di Bologna 1245-1267, I, pp. 473, 492-493; II, pp. 63-64; III, p. 364. L’arteria principale del traffico verso la Lombardia e la Romagna era la via Emilia; la strada verso Firenze attraversava la valle del Savena, passava per Pianoro e Roncastaldo e, transitando per la Futa, raggiungeva il Mugello. La strada per Pistoia aveva inizio da porta Saragozza raggiungeva Casalecchio e risaliva la valle del Reno lungo la riva occidentale del fiume. La via verso Ferrara iniziava a porta Galliera, passando per Corticella, Galliera, Poggio Renatico (Hessel 1975, p. 190, n. 9). 33 Hessel 1975, p. 190. 34 Pesci, Ugolini, Venturi 1995, pp. 63-83. Cfr. Pesci, Ugolini, Venturi 2005, pp. 157-179. 35 Hessel 1975, p. 191. 31 32
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una “posta dei Maccagnani” ubicata sul canale Navile, il cui nome derivava dalla famiglia dei Maccagnani che ne erano i proprietari. Questi ultimi, provenienti dalle file dell’aristocrazia consolare, possedevano una serie mulini su quel canale, venduti ai procuratori del comune negli anni 1219-2036. I Maccagnani, infatti, figuravano fra i proprietari laici i cui mulini furono espropriati dal comune nello stesso torno di anni37. Presso la medesima posta, nel 1284 il comune costruì un porto fluviale (detto, appunto, Maccagnano38) all’imboccatura del canale Navile fuori porta Lame, dove fece edificare una casa da affidare in gestione a privati quale luogo di ristoro per mercanti e viaggiatori39. Il confine settentrionale del territorio bolognese con il ferrarese era d’altronde contrassegnato da una serie di torri, costruite in funzione difensiva, ma soprattutto commerciale, per il controllo delle vie d’acqua (Fig. 1)40. Fra esse si annoverano le torri di Galliera, dell’Uccellino, del Cocenno, quella da Verga (nei pressi dell’antica strada di Galliera), che facevano parte del sistema di sorveglianza del canale Navile. Queste costruzioni vennero a costituire una rete di approdi importante nel territorio bolognese, unitamente al porto della Pegola, in seguito soppiantato da Malalbergo, entrambi ubicati lungo il Navile, a Traghetto (località vicino ad Argenta) e presso la torre dei Cavalli (nelle vicinanze di Molinella)41. All’insieme di tali approdi-porti facevano capo canali naturali o semiartificiali, che permettevano il trasporto di navi con persone e merci. In particolare, la torre dell’Uccellino, fondata nel 1242 presso Ferrara, era un castrum composto da una torre (ancora esistente) circondata da una cortina muraria, dotata di un ponte levatoio e funzionale al controllo sul passaggio fluviale e pedonale42. Dalla torre dell’Uccellino, volgendo verso nord-est rispetto a Bologna, il canale doveva arrivare in territorio ferrarese e sfociare nel Po di Primaro, non lontano dalla Torre della Fossa e dalla torre del Fondo, site nelle vicinanze di Ferrara sempre lungo il naviglio (o canale Navile). Invece, muovendo in direzione delle mura bolognesi, dalla medesima torre dell’Uccellino, doveva partire un canale che seguendo il tracciato del Navile, toccava Pegola, giungeva fino a Corticella, sfruttando la naturale depressione del terreno in quella zona43. Che il traffico commerciale fosse intenso è confermato anche dai numerosi patti stipulati tra Bologna e Ferrara nei secoli XII e XIII44. Ferrara, d’altronde, aveva il dominio della navigazione sul Po di Primaro (il braccio prin Vedi i regesti in Trombetti Budriesi, Duranti 2010: nn. 552, 553, 554, 555, 556, 557, 558, 559, 560, 561, 571, 616, 617. 37 Pini 1993c, p. 34. 38 Frescura Nepoti 1975, p. 168. 39 Al riguardo, vedi capitolo relativo agli statuti del 1288. 40 Benati 1989; Cianciosi 2011, p. 17. 41 Rosa 1976, p. 142. 42 Vedi Cianciosi 2011a, p. 13; Cianciosi 2011b, pp. 298-302, 304-306. 43 Rosa 1976, pp. 142-143. 44 Bocchi 1972b. 36
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cipale fino alla rotta di Ficarolo nel 1154); tutti coloro che vi passavano dovevano pagare i suoi pedaggi. Vari trattati che Bologna stipulò o annullò con Ravenna, Venezia, Mantova e la stessa Ferrara erano mirati ad assicurare il commercio fluviale. Anche il passaggio dalla Torre dell’Uccellino, presso l’omonimo castrum, assieme con quello di Castel Franco (attuale Castel Franco Emilia), comportava il versamento di un pedaggio, denominato passadium Loxolini et Castri Franchi negli statuti del 128845, riscosso per le merci che transitavano per Bologna dirette o provenienti da Ferrara. Nel 1260, per esempio, il podestà Lanfranco Usodimare e i procuratori del comune d. Iacobinus d. Çacharie de Basacomatre, miles, d. Ugolinus d. Martini de Funi affittarono a d. Arardus de Cartafogolis, d. Gerardus Palmatius, d. Gervasius, d. Bonacursius de Mantua e d. Petriçolus Solavita il pedaggio della Torre dell’Uccellino e di Castelfranco fino al 15 giugno per 404 lire. In città il dazio doveva essere riscosso presso il borgo di Galliera e il borgo di San Felice, per le merci in uscita e in entrata da Ferrara e Modena46. Un secondo braccio del naviglio deviava da Pegola a occidente verso Galliera e un terzo a est, verso Dugliolo, divenuto negli anni 40-50 del Duecento una postazione di transito verso Bologna dei carichi di sale provenienti da Chioggia e da Cervia, gestiti dalla società dei salaroli47. Pare che nel 1262 la parte superiore del naviglio fosse stata allargata per farvi transitare le navi cariche provenienti da Corticella, destinate a entrare in città. Infatti, sul canale si sviluppò un intenso traffico tra Bologna e Ferrara, cosicché nel 1269 le due città fissarono le tariffe per le tratte compiute da persone e merci, oltre a proibire ai barcaioli di riunirsi in associazione, affinché non potessero esercitare un monopolio nei trasporti e avere capacità contrattuale in un settore commerciale così delicato48. A seguito della costruzione del naviglio, il porto di Galliera49, l’antico scalo di Bologna verso il Po, dovette perdere importanza. Esso si trovava sulla strada romana che volgeva da Aquileia verso Bologna, ed era collegato col Po da un braccio d’acqua. La principale porta settentrionale di Bologna e la strada che conduceva a tale porto era denominata via Galliera, ma anche via Salaria50. Scarse sono le informazioni sull’origine di questo porto. Si suppone l’esistenza di un approdo nel X secolo, in quanto presso la curtis di Antoniano, situata nelle vicinanze di Galliera, vigeva il diritto di ripaticum, ossia il privilegio di riscuotere i dazi sulle imbarcazioni, che probabilmente lì attraccavano51. Ancora nel XIII secolo Galliera era provvista di Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, p. 99, 177, 575, 591; II, pp. 122-124, 179, 186, 575, 591. ASBo, Comune Governo, Registro Grosso, 1260, c. 480v. Vedi Trombetti Budriesi, Duranti 2010, I, n. 812 e n. 815. 47 Pucci Donati 2008, p. 209. 48 Hessel 1975, p. 191. 49 Vedi Ardizzoni 2002. Cfr. Cianciosi 2011a, p. 9. 50 Hocquet 1995. 51 Cianciosi 2011b, pp. 302-303. La fonte relativa a questa attestazione si trova in Diplomata Regum et Imperatorum Germaniae, I, n. 249, p. 357. 45 46
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fossati e palizzate; nel suo porto i bolognesi avevano una torre e un posto di guardia. Tuttavia, verso la fine del secolo, Galliera non risulta più tra i porti del Po e nel secolo successivo il suo collegamento con il fiume viene definito paludoso nelle fonti52. A esso subentrarono altri porti situati più a oriente: Cavagli, il già citato Dugliolo e Pegola. Cavagli e Pegola divennero nel Duecento due postazioni intermedie di controllo del grano che da Ferrara, lungo il naviglio, giungeva a Bologna. Lo spirito di iniziativa che spinse il comune alla costruzione del naviglio emerse, inoltre, dai provvedimenti relativi al mercato e alle fiere. Quando infatti fu costrui to il naviglio, il punto di partenza della navigazione fu spostato a nord di Bologna e così anche il mercato (prima ubicati a nord-ovest fuori della città53), per il quale si creò la piazza denominata campus fori54. Allo scopo di incrementare l’afflusso dei forestieri durante il periodo delle fiere, si sospendevano le disposizioni che avrebbero altrimenti ostacolato il commercio. Cessavano le rappresaglie, ossia il diritto concesso dalle autorità pubbliche a un cittadino di sequestrare le persone o i beni degli abitanti di un altro stato in cui questi aveva subito un’offesa o non gli era stata resa giustizia55. Inoltre, si permettevano i traffici diretti tra forestieri. In questa prospettiva sono da intendersi i patti stipulati tra Bologna e altri comuni a partire dalla fine del XII secolo. Nell’accordo del 1193 stipulato fra Ferrara e Bologna, per esempio, si stabilirono per Bologna dettagliate tariffe doganali: i mercanti bolognesi dovevano pagare un pedaggio di accesso alla fiera di Ferrara e di transito con le proprie merci; si ribadiva per Ferrara il passagium in vigore fino ad allora56. I trattati del 1203 e del 1207 riguardanti singole vertenze, non cambiarono l’entità della dogana che esisteva ancora nel 1228, quando i ferraresi emanarono gli ordinamenta ripe57. Solo dodici anni dopo ebbe luogo un cambiamento profondo, allorché le due città si accordarono per l’eliminazione del passagium. L’interesse commerciale di Bologna non fu rivolto esclusivamente a nord; la città felsinea mostrò una forte inclinazione verso la Toscana, concludendo analoghi accordi con i pistoiesi58. Nel 1220, inoltre, i bolognesi stabilirono con Firenze la diminuzione del passagium a 12 denari e, nel 1254, la sua completa abolizione. Sull’altra grande arteria di traffico, la via Emilia, essi ottennero nel 1203 da Reggio, il loro nuovo alleato contro Modena, l’esenzione dalla dogana di transito. Negli anni Sessanta, all’apice della potenza, i mercanti bolognesi non dovevano pagare il passagium né a Modena, né alle città romagnole o a Venezia59. 54 55 56 57 58 59 52 53
Hessel 1975, pp. 191-192; Fasoli 1978. Vedi Parte I. Vedi Parte I. Sul significato giuridico delle rappresaglie vedi Bocchi 1972b, p. 48. Ibid., pp. 52-53. Hessel 1975, p. 193. Ibid., p. 194. Ibidem.
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Nel rapporto fra città e contado60 Bologna61 cercò di regolare l’attività agricola emanando numerosi provvedimenti volti all’incremento della produttività dei terreni, fra cui per esempio, le norme di irrigazione. Questi provvedimenti erano orientati a favorire gli interessi dei cives, come gli statuti sull’incorporazione dei fondi e i divieti di tenere a maggese i terreni arabili62. A tali disposizioni si aggiungevano la volontà di calmierare i prezzi e l’ordinanza secondo cui tutti i cereali del contado, tranne quelli usati per la semina o per il sostentamento dei fumanti, dovevano essere trasportati a Bologna per essere venduti sul mercato63. Lo stretto rapporto fra città e campagna, l’attività dello Studium, che rivestiva una funzione trainante per l’economia cittadina, nonché la presenza stanziale e temporanea di mercanti e viaggiatori, furono fra i fattori che contribuirono a definire la vocazione commerciale e artigianale della città felsinea. Essa si configurava nel Duecento quale importante centro di consumo a corto, medio, ampio raggio64. Al pari di Padova, sede di un’università di livello internazionale e sua concorrente (è noto il proverbio «Bologna grassa, Padua la passa»), Bologna assumeva il volto di una metropoli urbana costretta ad approntare un sistema di rifornimento cerealicolo efficace, reso necessario dalla rapida crescita demografica e dall’insufficiente apporto del contado. Probabilmente, la necessità di approvvigionarsi oltre il distretto bolognese fu, in parte, una conseguenza del fenomeno di conversione degli arativi in prativi. La vocazione commerciale di Bologna, infatti, si definì maggiormente in contemporanea al fenomeno di investimenti fondiari nel contado, attivato dai ceti urbani emergenti. Promotori di tali investimenti furono, oltre all’aristocrazia terriera inurbata e agli enti ecclesiastici, anche la proprietà laica in piena espansione, rappresentata, come si è accennato, da nuovi gruppi imprenditoriali e mercantili di estrazione borghese65. L’intervento della nobiltà inurbata negli esercizi commerciali si concretizzò di pari passo con la conservazione di solide basi patrimoniali nel contado66. Agli antichi proprietari si andarono dunque affiancando, nel corso del XIII secolo, famiglie di estrazione borghese le cui fortune provenivano dagli scambi e dal prestito a interesse. Questo fenomeno si riscontrava anche in altre città italiane, ma a Bologna la presenza dello Studium conferì all’attività creditizia un valore particolare. I numerosi studenti di elevato rango sociale, con consistenti capacità economiche, rappresentarono una notevole risorsa per la vita urbana. La loro presenza alimentava la domanda e, di conseguenza, stimolava il Circa i rapporti economici, politici, sociali fra le città, vedi Grohmann 2001 e Pini 2001b. Vedi Piccinni 2009. 61 Casini 1991; Pini 1986b, pp. 88-91; Vasina 2007. 62 Statuti del comune di Bologna 1245-67, I, pp. 140-145; II, p. 243; III, p. 362. 63 Ibid., II, p. 213 e sgg.; III, p. 523. 64 Dal Pane 2008, pp. 64-65. 65 Pini 1977a; Pini 1993b; Greci 1986b; Greci, 2007, pp. 520-528. A questo proposito un esempio è costituito dalla famiglia Guastavillani. Vedi Gaulin 1987; Coser, Giansante 2003. 66 Bocchi 1972a, pp. 79-94. 60
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mercato a offrire sempre nuovi servizi (si pensi all’ospitalità) e prodotti, che si volevano in abbondanza. All’aumentata domanda di prodotti agricoli dovuta all’incremento della popolazione urbana non corrispose, tuttavia, un forte sviluppo economico. Vari fattori entrarono in gioco in questo senso. Fra essi, la concorrenza di altre università, competitive a livello europeo, che indebolì gradualmente la fama dello Studium bolognese, e dunque, la sua capacità attrattiva. Pesarono, inoltre, le ripercussioni seguite alla lunga lotta sostenuta da Bologna contro Federico II. Questa fase di difficoltà e rallentamento produttivo portò l’autorità comunale a mutare la propria politica demografica, stabilendo freni più o meno severi all’immigrazione67. Si fecero più decisi gli interventi, come si è accennato, per adeguare i flussi migratori e favorire soprattutto quelli verso il contado. Si cercò di incoraggiare l’insediamento di comitatini in città e l’iscrizione alla categoria dei cives soltanto di gruppi socialmente elevati. Di fatto, l’immigrazione urbana continuò a comprendere in larga misura lavoratori generici, anche nullatenenti, che si impiegavano nella manifattura tessile e nell’edilizia. Le misure demografiche del comune di Bologna assunsero ben presto un carattere selettivo a favore di un inurbamento di professionisti e artigiani specializzati, come per esempio gli artigiani tessili veronesi68, ma anche quelli provenienti dalla Toscana e dalla Lombardia. Il governo bolognese, temendo un sotto popolamento del contado, con il conseguente rischio di una riduzione delle entrate fiscali, provvide a respingere nelle campagne i comitatini giunti in città. A motivazioni di ordine demografico si univano ragioni di ordine fiscale69; il noto provvedimento denominato Liber Paradisus del 125770 fu concepito in questo senso. L’aumento della popolazione bolognese subì una battuta d’arresto nella seconda parte del Duecento, da cui seguì una minore domanda e un rialzo dei prezzi dei beni di prima necessità. Bologna fu costretta a importare anno per anno quantitativi consistenti di cereali71. Misure ancora più restrittive furono adottate riguardo al ciclo del pane. Già nel XII secolo il comune acquistò da privati vari mulini per cereali; questo avvenne ancora per tutta la prima parte del Duecento, come è attestato da diversi atti di vendita di privati ai procuratori del comune, relativi agli anni 20-5072. Le strutture molitorie più importanti si trovavano sul ramus Reni e sul canale Savena. In particolare, i mulini ubicati sul ramus Reni (nel comparto occidentale) erano stati costruiti alla fine del XII secolo da un consorzio di quaranta comproprietari Pini 1978. Fennel Mazzaoui 1967-68. 69 Pini 1978; Pini 1969. 70 Pini 1996b, p. 122; Giansante 1999; Greci 2007, p. 506; Antonelli, Giansante 2008; Dal Pane 2008, pp. 61-74; Pini 2008. 71 Peyer 1950, p. 73 e sgg; Pini 1986b, pp. 88-89; Pinto 1996, p. 87. 72 Vedi Trombetti Budriesi, Duranti 2010, I. 67 68
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privati, i cosiddetti “Ramisani”73, costituitosi probabilmente all’indomani della pace di Costanza (1183). I Ramisani, fra cui si annovera Tommasino Principi, appartenente a una famiglia emergente nel contesto cittadino74, conclusero nel 1208 un trattato col comune, ottenendo assicurazione che nessun altro mulino sarebbe stato costruito sul canale. Fra le clausole dell’accordo vi erano anche la sicura utilizzazione dei loro impianti, il monopolio dell’attività molitoria e l’esenzione dalle spese di manutenzione del canale Reno. Il governo bolognese, dal canto suo, si assicurò il diritto di condurre l’acqua del loro canale a un canale in costruzione, che avrebbe alimentato il Navile. Nondimeno, dodici anni dopo il comune si impossessò dei mulini che ancora non gli appartenevano, espropriando i Ramisani e penetrando progressivamente in quel comparto urbano fino ad allora gestito da privati. Ai proprietari espropriati, per lo più appartenenti all’aristocrazia consolare, ma in parte anche a nuovi gruppi economici, fu corrisposto in cambio un rimborso in denaro. In aggiunta alle strutture dei Ramisani, il comune acquisì alcune decine di mulini che affittò annualmente dietro un pagamento in cereali. L’operazione iniziata nel 1219 proseguì negli anni immediatamente successivi, avanzando di pari passo con la costruzione di nuovi impianti sul canale Savena e sul canale Reno. Il comune diventò così uno dei principali proprietari delle strutture idrauliche presenti nel tessuto urbano e dei canali fuori le mura, oltre ai canonici della cattedrale, proprietari degli impianti sul torrente Aposa. L’ammontare dell’affitto in natura era variaribile. I cereali consegnati dai mugnai affittuari del comune venivano in parte offerti a chiese e conventi, in parte venduti sul mercato cittadino ai fornai secondo un prezzo stabilito dal comune. Il governo bolognese mirava, attraverso la fissazione di un “giusto prezzo”, ad assicurarsi il monopolio del commercio del grano e del pane, salvaguardando la pace sociale e l’ordine pubblico. Anche le comunità rurali possedevano dei mulini, i cui affittuari erano obbligati a macinare i cereali a chiunque lo domandasse, chiedendo come pagamento non oltre la quattordicesima parte (del biado macinato). Alle comunità rurali, inoltre, era proibito tenere un mercato o parteciparvi, a eccezione delle fiere. Al fine di impedire l’incetta di grano in città, il comune stabiliva un prezzo per i cereali e la quantità che ciascuno poteva comperare. L’acquisto per la rivendita era proibito, il commercio dei cereali era posto sotto severo controllo ed era concentrato nelle piazze-mercato urbane destinate alle transazioni al dettaglio e all’ingrosso, ossia porta Ravegnana e piazza Maggiore. L’importazione e l’esportazione dei beni alimentari erano regolamentate secondo modalità diffuse nelle città-stato dell’Italia comunale: si favoriva l’importazione e si proibiva l’esportazione, soprattutto di carne, verdure, cereali. Fino a un certo momento a Bologna
Riguardo ai Ramisani, vedi Hessel 1975, p. 199; Frescura Nepoti 1975, p. 167; Pini 1993c, pp. 30-31; Greci 2007, pp. 502-503. 74 Greci 1986b; Greci 2007, p. 521. 73
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fu concessa l’esportazione di spezie75 e di vini locali76; in seguito, anche per questi generi alimentari, si verificò un graduale inasprirsi dei divieti di esportazione. Patti commerciali e politica estera fino a metà Duecento. La maggior parte dei patti stipulati da Bologna con altri centri urbani sin dalla fine del XII secolo aveva alla base motivazioni di ordine economico77. Tale strategia commerciale si inquadrava nel contesto più ampio dei conflitti fra i comuni e Federico II. Bologna seguì la politica milanese e lombarda, sia perché aveva partecipato alla lega che si era costituita al tempo di Federico I, sia perché aveva delle mire espansionistiche nei confronti della Romagna78. Se in una prima fase (1197-1226) la città felsinea conseguì dei successi grazie alla debolezza dell’autorità imperiale, la seconda (1226-1248) fu caratterizzata dall’aspro scontro con Federico II, conclusosi con la disfatta dell’imperatore a Vittoria presso Parma nel 1248. Una terza fase (1247-1256) corrispose alla sconfitta del potere imperiale e all’affermazione del dominio della città. Forti interessi di natura commerciale, strettamente legati alla politica cerealicola, si intrecciavano con la volontà di estendere il proprio dominio sulle città limitrofe situate vicino a vie di transito importanti, oppure produttrici di grano, quali per esempio, Ferrara a nord e Imola a est. A metà del 1248 tutta la Romagna era sotto il dominio di Bologna, che impose propri podestà ovunque con grandi vantaggi commerciali (riguardanti i cereali e il sale) e territoriali (l’acquisizione di Imola)79. L’interesse per la Romagna non era disgiunto da una politica mirata al controllo delle vie di transito verso l’Adriatico. In questo senso, il governo intraprese una serie di iniziative, come quella di aprirsi una via verso il mare, che suscitò col passare del tempo forti contrasti con Venezia80. Bologna intese trarre da alcune città romagnole maggior profitto possibile in termini di approvvigionamento cerealicolo. Era il caso di Imola, esportatrice di grano e di vino. Nel 1248 Imola stipulò con Bologna una concordia che assomigliava a un atto di sottomissione politica con annesse alcune clausole commerciali formalmente bilaterali, ma in pratica a vantaggio del comune bolognese. Si stabiliva in questo patto la totale esenzione dai dazi per le merci imolesi destinate o transitanti per la città e il contado bolognese e, viceversa, per quelle bolognesi destinate o di passaggio per Imola. Le rappresaglie erano annullate, ogni sequestro revocato e qualsiasi questione pendente sarebbe stata risolta dal tribunale 75 Una lista di spezie si rileva dalle tariffe del datium o passadium del 1261 riscosso dagli ufficiali del comune presso Borgo di Galliera e Borgo San Felice (ASBo, Procuratori del Comune, 1.8). In questa lista sono citati: pepe, chiodi di garofano, cardamomo, galanga, noce moscata, zenzero, cinnamomo. 76 Vedi in proposito Pini 1974. 77 Riguardo ai patti stipulati fra Bologna e altre città nel XIII secolo, vedi Franchini 1932a; Bocchi 1972b; Bonacini 2005. 78 Riguardo alla politica estera di Bologna nel Duecento, vedi Hessel 1975, p. 101 e ss. Vedi inoltre Vasina 1965. Cfr. Greci 2007, pp. 563-570. 79 Peyer 1950, pp. 73-93. 80 Battistella 1916.
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ordinario o da un collegio arbitrale caso per caso. Questo accordo confermava quanto Imola aveva dovuto promettere già nel 1222, ovvero la libera esportazione delle derrate per Bologna e le interdizioni di esportazione ordinate da Bologna. La politica nei confronti di Imola si inquadra, come si è accennato, nel progetto più ampio di dominazione della Romagna. Nel 1253 Bologna sottomise Ravenna; nel luglio dello stesso anno stipulò un trattato con i ravennati in cui erano incluse le clausole relative al transito delle merci, quelle sul sale e sui dazi per detto transito81. Nel 1254 i bolognesi comperarono Cervia da Tomaso da Fogliano; nel trattato dell’anno precedente, essi avevano promesso ai ravennati di restituire loro Cervia, ma non tennero conto di detta clausola e la conquistarono per conto proprio82. Disponendo delle saline di Cervia e del porto di Ravenna Bologna accrebbe la sua influenza sulle altre città romagnole83. Nel 1256 Bagnacavallo e Faenza vennero sottomesse, al pari di Forlì e Forlimpopoli. Bagnacavallo e Faenza, in misura minore Forlì, avrebbero dovuto condurre esclusivamente a Bologna tutte le loro mercanzie senza il pagamento di alcun dazio. Gli episodi di carestia che interessarono l’Italia nel 125684 e la crisi economica che ne conseguì preoccuparono ben presto anche Bologna, tanto è vero che qualche anno dopo il comune emanò uno statuto speciale riguardo all’approvvigionamento cerealicolo proveniente dal contado e da oltre il distretto85. In tale difficile congiuntura, Bologna cercò di indurre i comuni romagnoli a convogliare le loro eccedenze di grano sul mercato bolognese. Nondimeno, la penuria di grano si faceva sentire anche nelle campagne romagnole. Perciò Imola si rifiutò di inviare grano a Bologna, sostenendo che il patto firmato nel 1248 dava ai bolognesi la libertà di estrarre dal territorio imolese qualsiasi prodotto, ma non obbligava gli imolesi a condurre il loro grano esclusivamente sul mercato di Bologna. Allo scopo di porre fine alle continue sollecitazioni e pressioni del comune bolognese, gli imolesi ricorsero alla consulenza del noto giurista bolognese Odofredo86. Questi sentenziò in data 25 agosto 1258 che il comune di Bologna non poteva imporre al comune di Imola l’invio di tutti i quantitativi di grano, né il comune di Imola era costretto a farlo. Malgrado la sentenza di Odofredo, il governo bolognese non abbandonò le sue pretese sul grano imolese87. Imola rimase soggetta all’autorità politica di Bologna Torre 1966, p. 40. Ibid., p. 41. 83 Corpus chronicorum bononiensum, p. 136: «Eo anno omnes de Romandiola fecerunt mandata Bononie sine contraditione» (Cronaca Villola). Cfr. Torre 1966, p. 41. 84 Corpus chronicorum bononiensum, pp. 139-140; Chronicon Bononiense, p. 56; Predieri 1855, p. 54. 85 Vedi capitolo di questa parte II, relativo all’Ordinamentum factum per dominos bladi. 86 Il testo della sentenza è pubblicato in Pini 1975b, Appendice, III, p. 97 e in Padovani 1992, in Appendice, n. 39, pp. 537-538. 87 Il notaio imolese Pietro di Erro fu l’autore della copia autentica, nel registrum comunis, della sentenza emessa nell’agosto 1258 dal giurisperito Odofredo in favore di Imola contro il comune di Bologna. In essa si giudicava illegittima la pretesa bolognese di ottenere consistenti forniture di grano dal comune vicino. Vedi Lazzari 2004, pp. 418-419. 81 82
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fino al 1274, lo stesso anno della prima cacciata dei Lambertazzi88. La storia dei patti commerciali stipulati da Bologna con centri vicini e lontani rivela quanto il controllo delle vie commerciali e il rifornimento dei beni alimentari di prima necessità, in particolar modo i cereali e il sale, costituirono uno degli elementi propulsivi della politica estera della città. 2. Il ciclo del grano nella normativa di metà Duecento Le redazioni statutarie degli anni 1245-67. Norma e prassi. Il comune di Bologna incominciò a svolgere una prima attività statutaria, attestata in alcuni decreti di consoli e di podestà, già nella seconda metà del XII secolo89. La volontà del governo bolognese di approntare un insieme di leggi che regolasse ogni aspetto della vita cittadina divenne rapidamente una necessità per una città in espansione, il cui Studium eccelleva proprio nella disciplina del diritto e poteva vantare illustri maestri. L’esigenza di raccogliere in un corpus ordinato una serie di disposizioni già attive e consuetudini invalse nell’uso, divenne più forte allorché si affermò la figura del podestà forestiero, al quale occorrevano dei testi scritti per applicare la legge. In questa prospettiva nel 1237 si formò un collegio di pubblici ufficiali, i compositores statutorum o statutari, i quali costituirono un istituto permanente per apportare le necessarie correzioni, o aggiunte, deliberate dal consilium comunis. Tale commissione, composta da otto membri (due per quartiere) scelti in rappresentanza dei diversi gruppi sociali90, operò in una fase molto delicata della vita politica cittadina, in concomitanza con il rilievo assunto dalle forze popolari nell’assetto del comune. Fu istituito nel 1255 il consilium populi, che affiancò il consilium communis, di fatto sostituendosi a esso nelle funzioni legislative. Oltre al consilium populi, l’anno successivo fu creata la magistratura del capitano del popolo, che venne a sovrapporsi a quella del podestà91. Gli statuti di metà Duecento riflettevano il peso politico ed economico acquisito dalle società d’arti nella vita cittadina e contemplavano, mediante il meccanismo delle riformagioni, la possibilità di modificare in itinere i dispositivi di legge. Le rubriche di tali statuti furono soggette a revisioni, correzioni, aggiunte, eliminazioni, che si susseguirono a partire dal 1250 fino al 126792. Si trattò di un lavoro di adattamento continuo delle norme alle congiunture economiche e ai rivolgimenti politici Pini 2000; Lazzari 2004, pp. 426-429. Greci 2007, p. 557. 90 Si trattava di un mercante, un cambiatore, due appartenenti alle arti minori, due giudici, due milites (Greci 2007, p. 557). 91 Greci 2007, pp. 548-549. 92 Statuti del comune di Bologna 1245-1267. La data del 1245 indicata da Frati è da correggere con 1248 (Greci 2007, p. 578, n. 62). Cfr. Fasoli 1931; Cencetti 1940. 88 89
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di quegli anni, che determinò ulteriori interventi destinati ad aggiungersi al corpus statutario originario. Ne sono un esempio gli Ordinamenta facta per dominos bladi (1259)93, emanati per sopperire alla situazione di crisi economica in cui versava la città, oppure gli statuti dei podestà Matteo da Correggio (1261) e Guglielmo da Sesso (1265)94, i quali intendevano incentrare nel ruolo del podestà i poteri relativi al mantenimento dell’ordine pubblico. O, ancora, fu il caso degli statuti dei frati gaudenti Loderingo Andalò e Catalano di Guido d’Ostia, chiamati a guidare la città nel 126595. Molteplici i temi trattati negli statuti di metà Duecento: provvedimenti legati ai vari aspetti della vita politica ed economica cittadina, fra cui, per esempio, l’attribuzione delle cariche politiche e civili, l’attività giudiziaria, il regolamento dei luoghi mercato e delle attività produttive, i lavori pubblici, l’esercito. Nella fattispecie, in materia economica i legislatori approntarono una serie di norme relative all’approvvigionamento alimentare, tema divenuto estremamente urgente, data la notevole crescita demografica registrata in città nella prima parte del Duecento96. Proprio dalla trattazione delle problematiche connesse alla questione annonaria emerge il carattere “sperimentale” di tali redazioni statutarie97. Nel corso dei primi anni di questa esperienza fino al 1259 (ma anche dopo) i legislatori si concentrarono a mettere a punto, in taluni casi a emendare o annullare, un insieme di rubriche relative al ciclo della panificazione, ai prodotti utilizzati, nonché alle strutture e ai mezzi impiegati. Una crescente attenzione fu riservata ai mestieri del vettovagliamento urbano, figure professionali, diversificate per mansioni e competenze, comprendenti il settore dei trasporti (vetturali), della produzione-trasformazione (mugnai, abburattatori, fornai), della vendita (fornai, venditori di pane), dell’ospitalità (osti, albergatori, tavernieri). La concreta organizzazione di queste attività emerge, in parte, da rubriche concernenti obblighi e divieti imposti per disciplinare l’agire lecito e vietare quello illecito; in parte, si evince da precise indicazioni relative alla qualità dei cereali e alla corretta manutenzione delle strutture da lavoro. I mestieri del vettovagliamento urbano e dell’ospitalità. L’attenzione e lo sforzo dei legislatori furono dunque rivolti ad approntare un sistema produttivo caratterizzato dal concatenarsi di fasi successive, affidate a operatori specializzati al servizio del comune con contratti a tempo determinato (normalmente, di sei mesi o un anno). Similmente, furono istituite delle figure di controllo e di gestione degli Tali Ordinamenta costituiscono il libro XII dell’edizione di Frati. Vedi il capitolo seguente. Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, pp. 551-580. 95 Ibid., III, pp. 591-651. 96 Pini 1996b. 97 Esistono tracce di redazioni antecedenti andate perdute. Gli statuti del 1245-67 non costituirebbero la prima normativa prodotta dal comune di Bologna, ma la più antica conservata presso l’Archivio di Stato di Bologna. 93 94
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addetti al vettovagliamento, alla panificazione, all’ospitalità. Si tratta degli yscarii, ufficiali del comune che svolgevano anche compiti di carattere giudiziario, in quanto potevano inquisire le suddette categorie e comminare loro le pene pecuniarie previste dagli statuti98. Il termine scarii o yscarii pare fosse un vocabolo di retaggio longobardo; secondo Gina Fasoli doveva trattarsi di una figura di sorvegliante pubblico esistente ben prima della nascita del comune99. A parte gli yscarii l’unico ufficio attivo sin dall’inizio del Duecento in ambito economico fu quello costituito dai procuratori del comune100, come si è già accennato, ufficiali incaricati di amministrare i beni di proprietà del comune, fra cui le locazioni a privati dei mulini in città e nel contado, e quelle delle botteghe e dei banchi ubicati sul mercato urbano. Numerosi contratti furono stipulati periodicamente fra i procuratori e i mestieri del vettovagliamento, in particolare, mugnai, custodi, fornai, venditori di prodotti alimentari, quali i salaroli101, i tricoli e le tricole102, che avevano vari banchi, stationes e loca ubicati in piazza Maggiore. Anche salaroli e tricoli parteciparono al ciclo del pane, in quanto fino al 1259 fu loro concesso di rivendere biado al minuto unitamente ad altri cibi. Dai registri dei procuratori non è possibile trarre informazioni circa il genere di scambi che avvenivano nelle stationes e nei loca. Per poter disegnare un quadro più completo delle transazioni economiche al dettaglio occorrerebbe incrociare questa fonte con altre di contenuto più prettamente commerciale, come quelle sui cereali (Ufficio del biado) e sul sale (Ufficio del sale)103, le cui prime attestazioni pervenuteci risalgono a fine Duecento. Il commercio dei prodotti della panificazione, al pari di quello dei cereali, avveniva – secondo quanto prevedevano gli statuti – in determinati punti delle piazze cittadine e costituiva soltanto uno dei tasselli del ciclo del pane. Nella fattispecie, la vendita del pane era preceduta da una serie di fasi in cui entravano in gioco diverse figure professionali prive di rilievo politico e istituzionale, poiché impossibilitate di riunirsi in società, ma fondamentali nell’approvvigionamento cerealicolo. Si trattava dei trasportatori (victurales), i mondatori (mondatores), i già citati mugnai (mulinarii), gli abburattatori (abburattatores), gli “assaggiatori” o agrimensori (açazatores)104. Costoro non potevano ave Statuti del comune di Bologna 1245-1267, I, pp. 76-80; I, p. 182; I, p. 201; II, pp. 232-236; I, p. 211; I, p. 308; I, p. 322; II, p. 42; I, p. 176; I, pp. 207-210; II, p. 45 e 255; II, p. 255; I, 108; I, p. 210; III, p. 175; III, p. 691 (definizione): «Ufficiale preposto alla polizia della città, sopravvegghiando singolarmente le misure de’ rivenditori; […] i mulini acciò seguatamente non vi si riscuotesse mulenda oltre la quantità prescritta; i fornai che facessero il pane al peso stabilito […]». 99 Fasoli 1935a, p. 256. Cfr. Leicht 1937, p. 95. 100 Circa questa magistratura, vedi Orlandelli 1951; Orlandelli 1954; Tamba 1990. 101 Circa il mestiere dei salaroli, vedi Roversi et alii; 2006 Pucci Donati 2008. 102 Riguardo alla figura delle tricole, vedi Rinaldi 2012. 103 Hocquet 2005. Riguardo alla documentazione relativa all’Ufficio del sale nei secoli XIII-XV, vedi Berti 1976-77. 104 Statuti del comune di Bologna 1245-67, III, p. 637. 98
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re dei propri ministrali, né tantomeno una corporazione105. Il podestà di Bologna aveva il compito di verificare che non sorgessero gruppi associativi legati a questi mestieri, mentre gli yscarii erano addetti a inquisire i sospetti sovversivi106. La normativa di metà Duecento prevedeva una serie di regole assai rigide al fine di disciplinare l’operato di tali categorie. Basti pensare al ruolo dei vetturali, gli addetti al trasporto del biado presso i mulini e le stadere ubicati in città, i cui compiti erano definiti con precisione in varie rubriche, come per esempio, in quella intitolata De penis victuralium qui portant somas ad molendinum107. In essa si stabiliva che i trasportatori di biado facessero pesare ogni carico sia all’andata che al ritorno dal mulino, pena 20 soldi. Nessun vetturale poteva ricevere denaro per trasportare il biado al mulino, altrimenti avrebbe pagato una sanzione pari a 10 lire. Questi lavoratori non avevano diritto, infatti, di gestire autonomamente un’attività, imporre un proprio tariffario e ricevere un compenso dal cliente. I vetturali erano obbligati, inoltre, a fornire un fideiussore di sicura reputazione che garantisse per una somma pari a 20 lire. Questo mestiere risultava essere di primaria importanza nell’ambito del ciclo del pane: coloro che lo praticavano avevano un ruolo di controllo e sorveglianza dei tragitti compiuti dai carichi di cereali nel micro-circuito cittadino108. Strutture, pesatura, raffinamento. Alcune fasi del ciclo del grano. Nella normativa di metà Duecento erano presenti prescrizioni volte alla salvaguardia e alla manutenzione delle strutture di proprietà del comune, come recita la rubrica De molendinis comunis non vendendis et moletura eorum tollenda109. In essa si ordinava che i mulini comunali non potessero essere venduti, donati, dati in enfiteusi o alienati, ma soltanto affittati annualmente. Le locazioni dei mulini, ambito di competenza dei già citati procuratori del comune, venivano infatti registrate in appositi contratti stipulati fra il comune e i conduttori di tali strutture. Anche le stadere, ovvero le bilance pubbliche rappresentavano uno strumento fondamentale nelle fasi di trasformazione del prodotto originario. L’attività di misurazione e pesatura delle mercanzie ritornava con insistenza nelle regole statutarie, quale aspetto di primaria importanza nell’economia delle città medievali europee. Testimonianze documentarie di varia natura, non soltanto di carattere legislativo, evidenziano come, a partire dal pieno e tardo Trecento, venissero impiegati strumenti sempre più sofisticati per svolgere tutta una serie di mansioni legate alla pesatura di monete, oggetti, sale, cereali e Ibid., II, pp. 254-255; Gaudenzi 1888b; Gaudenzi 1899. Cfr. Fasoli 1935a e Fasoli 1936a, pp. 56-57. Sempre sulle società proibite vedi Pini 1982. 106 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, pp. 254-255. 107 Ibid., I, p. 322. 108 Interessanti riflessioni sul ruolo dei trasportatori di grano nella Parigi settecentesca di Luigi XV sono in Kaplan 1984, pp. 550-553. 109 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, pp. 37-38. 105
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altri cibi. Basti pensare alle fonti iconografiche del tempo, che spesso forniscono dettagli interessanti circa l’attività del pesare che si svolgeva nelle piazze e presso le botteghe. È il caso, per esempio, della miniatura del 1328 realizzata dall’artista bolognese, denominato il Maestro, raffigurante la piazza del mercato, dove la bilancia, l’atto del contare, del quantificare i prodotti e gli oggetti campeggiano la scena110. A sottolineare quanto questa funzione fosse importante è la norma del 1250 denominata De staderiis faciendis per contratas et de penis victuralium et molendinariorum delinquentium111, concepita per evitare che si verificassero frodi e furti presso i mulini. A tal scopo, infatti, i vicini112 di ogni cappella o vicinia (o più di una), dovevano avere a loro disposizione una stadera e uno scriptor addetto a registrare le pesature effettuate presso la stadera, prima e dopo il trasporto del biado al mulino. Lo scriptor, che prestava giuramento e riceveva uno stipendio pari a 4 lire al termine di sei mesi, aveva l’obbligo di stare l’intera giornata accanto alla stadera, di cui rispondeva per qualsiasi danno ai ministrali. Coloro che adempivano al compito di pesare i sacchi di grano svolgevano un’importante funzione di sorveglianza del commercio cittadino: il loro ruolo di intermediari fra venditori e compratori era fondamentale, al pari del controllo della qualità dei cereali e delle misture. L’atto stesso del misurare costituiva una garanzia della correttezza degli scambi e della trasformazione del biado in farina113. Ulteriori indicazioni riguardavano la manutenzione dei contenitori utilizzati presso il mulino114 nel caso in cui si macinavano castagne. Le castagne115 erano uno dei prodotti largamente impiegati quali sostitutivi dei cereali nel Medioevo assieme alle leguminose da granella116. Non sussistono altri riscontri, oltre a questo, dell’uso di quantitativi di castagne negli statuti bolognesi, né nella documentazione di fine Duecento dell’Officium bladi, dalla quale peraltro si rileva l’impiego di vari cereali per ottenere diversi tipi di pane117. Numerose sono inoltre le prescrizioni circa le operazioni di conservazione del grano; per esempio, gli stai contenenti il frumento dovevano essere muniti di fori e venire aperti nella parte superiore perché 110 Questa miniatura è contenuta nel Digesto conservato presso la Biblioteca Universitaria di Torino (Torino, Biblioteca Universitaria, «Digesto», segn. E.I.1). Riguardo alla miniatura bolognese nel Trecento vedi Gerli 1979a; Gerli 1979b. 111 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, pp. 38-45. 112 Hessel 1975, pp. 143-144. Cfr. Sella 1908. Cfr. Rinaldi 2005, p. 195. 113 Significative considerazione sulla funzione dei pesatori sono state svolte da Steven Kaplan per la Francia del XVIII secolo (Kaplan 1984, pp. 545-550). 114 Riguardo agli strumenti impiegati al mulino si veda anche la rubrica Quod nappus et starium comunis reaptetur (Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, p. 62). Occorreva rinnovare lo staio di rame del comune, al pari del nappo di rame, che doveva essere adeguato a quello a raso. 115 Cherubini 1981. Cfr. Pinto 1996, p. 85. 116 Circa le leguminose da granella e i cereali inferiori vedi Messedaglia 1932; Nada Patrone 1981; Pinto 1982, pp. 129-140; Pinto 1996, p. 85; Montanari 2004c, pp. 124-146. 117 Riguardo a questo tema vedi Parte IV.
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il biado macinato non marcisse118. Anche le mansioni da eseguire al momento della molitura erano descritte con precisione: i forestieri che si recavano al mulino, eseguivano la molitura con le loro mani sotto il controllo del mugnaio. Quest’ultimo doveva lavorare da solo presso il mulino senza aiutanti; un atto di frode comportava l’immediata rimozione dall’incarico per dieci anni. Se il quantitativo di biado risultava di minor peso una volta macinato, il mugnaio doveva subitamente rimediare, e il vetturale, se colpevole, era tenuto a restituire il doppio della parte sottratta. Nei codici statutari del 52-67 è registrata una riformagione119 della suddetta rubrica (De staderiis faciendis per contratas et de presidentibus officio staderiarum)120, nella quale la dislocazione delle stadere è delineata su base territoriale con riferimento non più alle vicinie, ma ai quattro quartieri (porta Piera, porta Stiera, porta Ravennate, porta Procola). L’importanza della pesatura dei quantitativi veniva ribadita in una rubrica attestata nei codici degli anni 59-67, relativa alle mansioni dei vetturali (Quod viturales portantes somas ad molendina faciant ponderari in eundo et redeundo, nec accipiant pretium pro portatura)121. In essa la sanzione pecuniaria per chi non pesava il quantitativo all’andata e al ritorno dal mulino ammontava a ben 100 soldi, e 10 lire inflitte al vetturale che accettava un compenso per il trasporto. Ogni vetturale era tenuto a fornire un fideiussore per l’ammontare di 10 lire. Emerge evidente da questa serie di rubriche il timore costante della frode sui beni di prima necessità e i conseguenti meccanismi attivati dal comune per limitare consuetudini probabilmente molto diffuse. L’approvvigionamento cerealicolo quotidiano era di fondamentale importanza e non si potevano lasciar insorgere, fra le maglie del sistema pubblico, interstizi di illegalità promossa da singoli o da gruppi organizzati. Le categorie dei vetturali (victurales) e dei mugnai (mulinarii) erano sottoposte a una severa sorveglianza proprio perché, rappresentando i primi segmenti del ciclo produttivo del pane, dal loro operato dipendeva la quantità e la qualità del frumento e, dunque, della farina utilizzata per fare il pane che confluiva sul mercato. L’idea che il mugnaio spesso frodasse ritorna nella maggior parte delle norme riguardanti la molitura, volte a disincentivare qualsiasi tipo di infrazione. Nella rubrica De mendis bladi a molendinariis faciendis122, per esempio, si stabiliva che, se il carico di frumento o di mistura portato al mulino risultava, una volta macinato, inferiore di peso a quello iniziale, immediatamente o il giorno seguente, si sarebbe dovuto procedere a compensare quella diminuzione, aggiungendo della farina di buona qualità corrispondente alla quantità 118 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, p. 45; III, p. 680: «appellavasi ancora una misura frumentaria, rispondente al quarto dello staio»; p. 686: «Starium, starum, staio aferesi di Sextarium, misura di capacità, così pei liquidi come pei solidi». 119 Le riformagioni del consiglio del popolo di Bologna «possono definirsi quali delibere del consiglio del popolo e non è necessario e neppure possibile ricorrere ad ulteriori specificazioni circa la loro valenza» (Tamba 1995, pp. 240-241). 120 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, pp. 38-44. 121 Ibid., II, pp. 38-39. 122 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, p. 45.
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mancante. Al mugnaio che non rimediava all’errore spettava una multa di 20 soldi, oltre a essere tenuto a risarcire il danno o la parte di farina mancante123. Un’altra figura professionale fondamentale in queste prime fasi di lavorazione del grano era quella dell’abburattatore (abburattator), ossia colui che setacciava la farina ottenuta dalla molitura del frumento per separare il fiore dalla crusca. Doveva trattarsi di un mestiere di un certo rilievo, se è vero che nei centri urbani, a partire dal XIII secolo, il consumo di pane bianco prodotto col fiore della farina divenne simbolo distintivo delle élites cittadine, rispetto a un pane più o meno scuro, caratterizzato dall’impiego di misture o di farina di frumento non raffinata124. Nell’iconografia popolare cinque-seicentesca125 l’aburattator era rappresentato fra gli umili mestieri itineranti; una condizione di vita e di lavoro non molto diversa di quella del setacciatore medievale. Che questi lavoratori vivessero di scarsi guadagni si evince altresì dalla rubrica De abburatoribus126, in cui si definiva una sorta di tariffario in base alla prestazione: ciascun setacciatore poteva ricevere per ogni operazione di abburattatura 3 bolognini e non oltre per 2 corbe di farina. Una pena pecuniaria di 20 soldi spettava al trasgressore. Di fatto quello del setacciatore era un lavoro ambulante. Così si evince dalle modifiche inserite nei codici statutari degli anni 52-67127, in base alle quali ogni abburattator doveva essere munito di una struttura (hedificium)128, un baldacchino con il nome del cavallo e un drappo per abburattare, come usavano fare coloro che provenivano dalla Lombardia. Chi ne era sprovvisto, era costretto a pagare un’ammenda di 20 soldi. Nei codici del 64 e 67 si affermava, in aggiunta, che nessun abburattatore poteva comprare della crusca (remolus) per rivenderla; una sanzione pari a 3 lire veniva inflitta a colui che non si atteneva alla norma129. Al pari dei vetturali e dei mugnai, gli abburattatores non avevano diritto di svolgere un proprio commercio di grano. Coloro, invece, ai quali era concesso (mercanti, proprietari terrieri) dovevano seguire scrupolosamente le regole: era possibile vendere “al colmo”, ossia uno staio o un sacco riempito di biado che sopravanzasse di poco la misura. Nei codici del 64 e del 67 si specificava che bisognava smerciare i prodotti “al colmo”, tranne le cipolle, i navoni, la frutta, le pere grosse e gli altri frutti, che dovevano vendersi a “rasura”, togliendo dallo staio quanto eccedeva rispetto alla capienza del contenitore130. Nella medesima rubrica si sanciva, inoltre, l’equivalenza fra una corba e 3 stai131. Vendere “al colmo” e non “a rasura” significava “ricolmare” Ibid., II, p. 48. Pinto 1978; Montanari 1994a, pp. 41-44. 125 Mitelli 1983. 126 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, p. 53. 127 Ibidem. 128 Ibid., III, p. 669: «Macchina, ingegno qualunque atto a gettare pietre ed altro». 129 Ibid., II, pp. 125-126. 130 Sella 1937, p. 288; Statuti del comune di Bologna 1245-67, III, p. 680: «Rasiera, bastoncello ritondo per rasare lo staio, cioè per levar via da esso il colmo, che sopravanza alla misura». 131 Ibid., II, p. 140. 123 124
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lo staio o il sacco il più possibile di biado anche oltre il bordo del contenitore stesso; “a rasura”, invece, era uno staio o un sacco riempito fino all’estremità superiore (o bordo) senza superarla. Nel sistema di misurazione bolognese questo genere di indicazioni132 corrispondeva a una pratica assai diffusa e a quantitativi concreti chiaramente definiti nella percezione di coloro che operavano nel settore annonario. Lo stesso modo di descrivere le quantità si riscontra in altre città italiane. Per esempio, a Firenze133 e nel suo contado per pesare il grano si impiegava il sextarius, nel contempo unità di misura e recipiente. Esso poteva essere utilizzato al colmo o raso, e vi era una differenza non irrilevante fra i due. Francesco Balducci Pegolotti nella sua La pratica della mercatura, opera composta fra il 1310 e il 1340, scrisse che a Firenze 1200 staia rase equivalevano a 1050 staie colme134. I depositi di grano simbolo del capitale pubblico “immobilizzato”. Oltre al problema della pesatura dei cereali e del riempimento degli stai, vi era quello dello stoccaggio del biado incamerato fino al momento della vendita. Lo stoccaggio consisteva nell’immagazzinare e conservare il grano in un deposito, o in recipienti, nella quantità sufficiente per l’immissione periodica sul mercato. In base alla rubrica del 1250 De frumento comunis bene conservando apud ipsum comune usque ad kalendas madii135, il cui titolo subì qualche variazione nei codici degli anni successivi136, tutto il frumento e il biado provenienti dalla locazione dei mulini, e da altre possessioni del comune, dovevano essere conservati e custoditi nei magazzini pubblici fino ai primi di maggio. Il grano non poteva essere venduto, donato o permutato, eccetto i quantitativi destinati ai luoghi religiosi. Presso i mulini, affittati unicamente per fornire il frumento al comune, i mugnai dovevano disporre di quartarole ferrate, che erano recipienti della capienza di un quarto dello staio, muniti di pontexellum137 ferreo sorretto verticalmente da un colonellum138, al pari dei nappi139 e dei cuppiroli140. Riguardo al sistema delle misure a Bologna nel Medioevo, vedi Martini 1976. Cfr. Zupko 1990; Andreolli 2003. 133 La Roncière 1982, pp. 26-27. 134 Balducci Pegolotti 1970, p. 167. Vedi La Roncière 1982, p. 27. 135 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, p. 150. 136 Ibidem. 137 Statuti del comune di Bologna 1245-67, III, p. 677: «Ponticello, ferro traversale alla bocca dello staio, sopra cui scorre la rasiera nelle misure rase, sorretto da altro verticale, detto Colonellum». 138 Ibid., III, p. 666: «Ago dello staio, che dal mezzo del fondo viene sino alla maniglia, detta pontexellus, che traversa la bocca dello staio, e serve a prenderlo e a sollevarlo, sulla quale scorre la rasiera nelle misure rase». 139 Ibid., III, p. 674: «Nappo, misura frumentaria […], del nappo si servivano i mugnai segnatamente per misurare la mulenda». Du Cange, III, p. 569: «Poculum, crater, scyphus». Cfr. Sella 1937, p. 231: «misura per la farina». 140 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, pp. 155-157; III, p. 667 «Misura frumentaria»; Du Cange, II, p. 659: «Mensura frumentaria, probabiliter eadem que Cupellus…quorum Cupellorum sexdecim factunt sextarium». 132
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Questi termini indicavano l’unità di misura e nel contempo il recipiente che conteneva la medesima quantità. Che il deposito del biado fosse una continua fonte di preoccupazione è confermato nei codici statutari del 62-67, dove risulta aggiunta la norma De frumento comunis reponendo141, in cui si stabiliva che la consegna del frumento al comune sarebbe dovuta avvenire in quattro tempi. Ovvero, i mugnai erano tenuti a rimettere ogni tre mesi la quarta parte del quantitativo richiesto complessivamente, che doveva essere riposta nei depositi-botteghe del palazzo del comune, ubicati sotto il portico del palazzo del Podestà, custoditi da frati deputati a ricevere il frumento. Qualora i depositi risultassero insufficienti, le quantità eccedenti venivano sistemate in due o più cantine, secondo la volontà del podestà e degli anziani e consoli. Lo stoccaggio figurava quale fase determinante nel ciclo di approvvigionamento del grano; il deposito e il mantenimento della qualità dei cereali costituiva una delle preoccupazioni principali del governo cittadino. Lo smaltimento di quantitativi andati a male poteva rappresentare, infatti, un problema; in quei casi, capitava che si obbligassero i fornai ad acquistare le partite di grano danneggiato. Commercio del grano e misure protezionistiche fra città e contado. Dal trasporto del grano, alla sua molitura, al raffinamento della farina, allo stoccaggio presso i magazzini comunali, si passava successivamente alla vendita dei quantitativi incamerati. Precise disposizioni erano fornite riguardo al mercato del frumento e degli altri cereali introdotti in città da mercanti forestieri, da portatores e victurales al servizio del comune, o dai produttori del contado. Al fine di impedire ai privati cittadini di acquistare biado in misura superiore alla quantità consentita (per conservarlo o rivenderlo), col rischio di provocare un rialzo dei prezzi, il comune aveva stabilito che nessuno potesse comprare cereali o frumento, se non nei luoghi del mercato pubblico, ovvero sotto le volte del palazzo del Podestà e sotto le volte della torre degli Asinelli. Inoltre, era permesso acquistare il biado o il frumento, che veniva venduto in scodelle pubblicamente per le strade della città. Di fatto, era lecito a ciascun cittadino recarsi ogni quindici giorni, presso i granai del comune in piazza e ricevere 4 corbe di biado per il fabbisogno familiare, eccetto la spelta e l’orzo, acquistabili in quantità superiore anche per le necessità degli animali allevati. Alcune categorie di mercanti godevano di una serie di agevolazioni; i salaroli, per esempio, potevano comprare 6 corbe di spelta o di orzo (ma non altro genere di cereali) da rivendere ogni settimana sul mercato cittadino; gli albergatori avevano il permesso di comprare 10 corbe di spelta o di orzo a settimana. Chi veniva scoperto compiere un’infrazione, era tenuto a pagare 15 lire (negli anni successivi la multa fu fissata per tutti a 100 soldi, ossia 5 lire, oltre alla confisca del biado). La normativa Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, pp. 150-151.
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prevedeva che per ogni cappella si eleggessero ogni sei mesi due uomini fidati, incaricati di accusare i contraffattori e controllare che il biado non fosse venduto presso i granai privati o altrove. I trasportatori di biado, dal canto loro, avevano il compito di portare a terzi soltanto i carichi di grano nelle quantità prestabilite su carri, cavalli o asini. Al trasgressore spettava l’amputazione del piede o la fustigazione per la città; oppure, avrebbe dovuto versare una pena pecuniaria di 25 lire142. In una riformagione degli anni 1252-67 si precisava che i trasportatori di biado non dovevano in alcun modo intromettersi nella vendita dei cereali, né fungersi da mediatori, né tantomeno acquistarne per rivenderli; la multa ammontava a 100 soldi143. Allo scopo di alimentare il mercato urbano, e nella prospettiva di una politica di tipo protezionistico, il comune aveva imposto agli abitanti, uomini e donne, della città e del distretto, di tenere il grano in loro possesso (frutto del raccolto della terra) in luoghi sicuri e di trasportarlo in città in occasione della festa della beata Maria in agosto. In base a tale norma, era permesso a ciascuna famiglia di trattenere soltanto i cereali per il fabbisogno di un mese. Qualsiasi cittadino, che aveva i propri possedimenti estesi per 8 miglia fino alle terre di confine, era tenuto a portare in città il biado ricavato dai propri possedimenti. Nei codici statutari degli anni 52-60 si precisava, inoltre, che ogni comitatino (abitante del comitatus, o territorio di Bologna) doveva consegnare il biado in eccedenza, tolto quello indispensabile per la famiglia e il quantitativo necessario alla semina (norma scomparsa nei codici del 64-67144). Colui che contravveniva, pagava una multa di 10 lire145. Tutti i prodotti, dunque, dovevano confluire sul mercato urbano; chi proveniva da altri territori, però, doveva pagare una gabella per vendere il grano sul mercato bolognese. Infatti, i mercanti forestieri che sostavano con le loro mercanzie presso gli alberghi entro il comitato dovevano pagare la reva, ovvero il dazio delle merci depositate presso l’hospitium, pari a 1 bolognino a libbra146. Con il termine reva si intendeva la gabella gravante sulle merci provenienti da fuori il distretto147. Essa corrispondeva al diritto di riva e di passaggio, il cosiddetto ripaticum148, la gabella Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, pp. 210- 212. Ibidem. Varianti. Cod. 52: Cod. 59 Cod. 60 Cod. 64, 67. 144 Ibid., II, p. 214. 145 Ibid., II, pp. 213-214. 146 Ibid., II, p. 219. 147 Du Cange, VI, p. 170: «vectigal, quod pro mercibus ex regionibus exteris allatis penditur: vulgo, droit de rève et de haut rivage»,. Cfr. Sella 1937, p. 293. Per altre possibili interpretazioni, vedi Battaglia, XV, p. 175: [dall’arabo raḥba “piazza, mercato di grano”] in età medievale e rinascimentale, termine che indicava (anche nelle varianti raiba, reba, e inoltre reva e rieva, che provengono da tramite francese) in Sicilia il magazzino dell’annona (e l’annona stessa) o monte frumentario, a Genova i magazzini con piazza antistante dove soltanto era permesso vendere cereali, a Pisa il compenso dovuto dai mercanti che depositavano merci nei fondachi pubblici. Raba o gabella della reva era detta a Genova la tassa pagata da chi vendeva cereali sul mercato, e in altre città, ora il dazio sulle merci provenienti dall’estero, ora varie imposte sulle vendite. 148 Du Cange, VI, p. 192. 142 143
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della ripa, il dazio di transito e di fermo presso la riva di un fiume149. Nei codici statutari del 59-67 la medesima norma veniva precisata: i mercanti dovevano denunciare giornalmente quanto avevano venduto agli osti che li ospitavano. Gli osti che non si premuravano di riscuotere il pagamento della reva, avrebbero dovuto pagare al comune il doppio della stessa150. Pane e vino nelle osterie del contado. L’ultima fase del ciclo cerealicolo era quella della confezione del pane e della sua vendita al minuto in città e nel comitato. La normativa statutaria di metà Duecento (escluso l’Ordinamentum dominorum bladi del 1259) prevedeva alcune disposizioni relative al commercio del pane sul territorio bolognese in luoghi quali le taverne e le osterie. I mestieri dell’ospitalità erano infatti coinvolti nella preparazione e nella vendita del pane, oltre che nello smercio dei cereali. Nella rubrica del 1259 De terris districtus Bononie in quibus debet esse taberna, tabernarius et tabernaria151, per esempio, si stabiliva che in qualsiasi terra del distretto in pianura, costituita almeno da 30 fumanti (abitanti del contado), vi doveva essere sempre una taverna adibita allo spaccio di pane e vino, e di altre vettovaglie da offrire al “giusto prezzo” ai forestieri e a coloro che vi sostavano. Il termine distretto (districtus) designava nelle fonti legislative duecentesche l’insieme dell’antico comitato e delle terre in seguito annesse, che figuravano sotto la giurisdizione del comune di Bologna152. Infatti, il comitato (comitatus), che nell’alto Medioevo fu dominato dalle aristocrazie territoriali bolognesi153, cominciò a prendere corpo quale entità dipendente dalla città soltanto in età comunale, allorché il governo bolognese attuò una politica di conquista del territorio circostante. Oltre alla vendita del pane nei centri della pianura bolognese, la normativa di metà Duecento (codici del 60-67) prevedeva anche un provvedimento riguardante le località orientate verso le zone montane, come Pragatto154, ubicata a nord est di Monteveglio, Pradalbino nella valle del Samoggia155, oppure, Ceretolo, a sud est di Pradalbino. Il massaro di dette terre era tenuto a far osservare gli statuti cittadini, altrimenti lo stesso avrebbe dovuto pagare una multa di 10 lire. Le osterie potevano svolgere attività di vendita fino alle calende di maggio (il primo del mese)156. Il governo bolognese, al pari di altre città-comuni del centro-nord Italia157, intendeva assicurarsi che sul proprio territorio fosse garantita una qualche forma di ospitalità Battaglia, VI, p. 646. Ibidem. 151 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, p. 167. 152 Hessel 1975, p. 159. Riguardo all’estensione del distretto bolognese nel Due-Trecento, vedi cartina in fondo al volume Sorbelli 1902. 153 Riguardo al comitato bolognese nell’alto Medioevo, vedi Lazzari 1998. 154 Pragatto fu occupata dal comune bolognese nel 1288 (Hessel 1975, p. 68). 155 All’iniziodel XII Pradalbino apparteneva al monastero di Nonantola (Hessel 1975, p. 36). 156 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, pp. 167-168. 157 Tuliani 2006, pp. 81-85. 149 150
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a pagamento. L’esistenza di strutture destinate a fornire vitto e alloggio anche nel contado rappresentava una risorsa importante per il commercio e la vitalità della città. Fuori dal centro urbano la locanda era spesso l’unico spaccio di generi alimentari, quasi una sorta di piccolo mercato “coperto” nel quale si potevano comprare pane, carni, frutta e verdura, spezie, oltre a essere un luogo d’incontro158. Misure daziarie in un centro di scambi internazionale. All’organizzazione delle attività produttive connesse al ciclo del pane si aggiungeva una serie di provvedimenti assunti dal governo cittadino per ovviare a eventuali disordini interni, e affrontare la ricorrente penuria di grano, che inaspriva il problema dell’approvvigionamento cerealicolo. In questo senso si inquadrano alcune misure daziarie159 adottate dal comune già a partire da metà Duecento, caratteristiche di una politica economica di stampo protezionistico, adottata da molte città del centro-nord Italia160. Tale politica prevedeva il consumo in ambito urbano della quasi totalità della produzione di frumento e biado del contado161, e aveva lo scopo di incentivare le entrate di merci provenienti, su corto e medio raggio, da distretti limitrofi o da altre regioni162. Alla metà degli anni Cinquanta, il comune bolognese attuò una serie di disposizioni nei confronti delle comunità del contado e delle città vicine che erano sotto la sua influenza o il suo dominio163. Con l’affermazione del governo di «popolo», a partire dal 1255-56, lo sfruttamento del contado di fatto divenne più consistente; fu creato un rigido assetto amministrativo e si precisò maggiormente il concetto di sottomissione giuridica dei comitatini al comune164. Fino a quel momento il governo bolognese, che pure aveva promosso nel contado una politica di estensione delle colture, si era limitato a intervenire solo in casi di eccezionale penuria, preoccupandosi di acquistare anche in territori lontani il fabbisogno in grano da rivendere alla popolazione urbana a un prezzo politico, stabilito di volta in volta. Dal 1259 fu istituita una nuova magistratura, inizialmente straordinaria, in seguito ordinaria, l’Officium bladi, nella quale si ribadiva il divieto di esportare granaglie fuori dal distretto e si riaffermava l’obbligo di Peyer 1950, p. 237. Bocchi 1973; Frescura Nepoti 1982; Pini 1981; Pini 1996a. Riguardo alla fiscalità a Bologna nel Quattrocento, vedi Orlandelli 1953. 160 Circa l’approvvigionamento cerealicolo in Italia nei secoli XIII-XV, vedi Pinto 1985. 161 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, p. 203; II, p. 207; II, p. 216; II, p. 277; III, p. 544. Le attività connesse al ciclo del pane erano vietate fuori dal distretto di Bologna, come la molitura (Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, p. 245; II, p. 248). Ancora nello statuto del 1335 viene ribadito il divieto di esportare biado fuori dal distretto per macinarlo (Lo statuto del 1335, I, p. 285). 162 Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, 213. Coloro che avevano portato il biado in città in un luogo sicuro, potevano trasportarne fuori Bologna soltanto una parte a uso della propria famiglia, per fare il pane o per seminare. Vedi Statuti del comune di Bologna 1245-67, II, p. 214. 163 Ibid., III, p. 337. 164 Pini 1986b, pp. 102-105. 158 159
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convogliarle sul mercato cittadino. Il comune bolognese attivò dei controlli dettagliati sulla redditività delle proprietà, per costringere gli abitanti del contado a portare il biado eccedente in città. Alla base di tale politica vi era l’intento di proteggere e valorizzare i prodotti della campagna, e quello di garantire alla città e ai suoi abitanti il rifornimento sufficiente dei beni alimentari di prima necessità (nella fattispecie, cereali e sale). La paura delle crisi economiche, delle annate di cattivo raccolto, nonché delle pestilenze, erano all’ordine del giorno nelle città italiane ed europee medievali165. Bologna non costituiva un’eccezione in questo senso. Le strategie di politica commerciale assunte dai governanti rivelavano certamente la ferma volontà di approvvigionare la popolazione urbana (per favorire il mercato dei consumi), ma anche l’intento di alimentare gli scambi su scala inter-cittadina. Bologna, infatti, non era soltanto una “piazza” dove si recavano esclusivamente i potenziali consumatori; vi giungevano anche i mercanti di grano che vendevano i loro quantitativi o compravano frumento e prodotti di vario genere per commerciarli su altri mercati urbani o rurali. Bologna si inseriva nel Duecento in una rete di scambi166 a circuito regionale, extra-regionale, internazionale. Del pari, essa era un centro di consumo e produzione, sebbene quest’ultima risultasse insufficiente per soddisfare la domanda del mercato interno167. Proprio perché Bologna assurse rapidamente a fulcro di scambi nel contesto della penisola italiana e oltralpe, divenne fondamentale per il comune approntare una politica daziaria efficace. L’esame delle fonti statutarie duecentesche permette di delineare l’evolversi delle misure protezionistiche attivate dal comune. Già nella normativa di metà Duecento il comune intese approntare una politica economica mirata a incoraggiare il più possibile l’importazione di viveri, mediante l’elaborazione di un insieme di disposizioni. Per esempio, nessun mercante di cibo era obbligato a pagare alcun pedaggio entrando in città, mentre si ribadiva il dazio in uscita per chi trasportava fuori dal distretto bolognese delle mercanzie, secondo quanto stabilito nello statuto in vigore dal 1238168. Altrove, si affermava il divieto per chiunque di trasportare fuori dal comitatus viveri di qualsiasi genere, tranne zafferano, pepe, zenzero e miele e ogni tipo di spezie169. Difficile è spiegare perché fosse concessa l’esportazione di questi prodotti e non di altri; forse – facendo riferimento in particolare alle spezie – esse giungevano in quantità ragguardevole sul mercato cittadino, provenienti tramite mare dalle rotte orientali e dunque potevano anche essere trasportate altrove, oltre a costituire merce con valore di scambio. A riprova di questo è, per esempio, un registro dei procuratori del comune datato 1262, nel quale 167 168 169 165 166
Montanari 1994a. Montanari 2010, pp. 7-12. Montanari 2002; Montanari 2004a. Statuti del comune di Bologna 1245-1267, II, pp. 33-34. Ibid., II, p. 203.
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si indicano i dazi riscossi presso il borgo di Galliera e il borgo di San Felice per il pedaggio di una serie di prodotti tessili e alimentari, fra cui alcune spezie quali zafferano, pepe, chiodi di garofano, noce moscata, cardamomo, ma anche miele e olio170. Interessante è notare che spesso lo zafferano e il pepe erano impiegati dalle corporazioni d’arti bolognesi con funzione simbolica o come forma di compenso per i soci. È il caso, per esempio, della società dei falegnami, che dal 1264 introdusse un nuovo sistema di retribuzione, in base al quale parte del compenso veniva versato in pepe e zafferano171. Si trattava di un sistema di pagamento in natura molto diffuso nel Duecento172. Spesso gli artigiani iscritti nelle associazioni di mestiere erano retribuiti con delle merci anziché con denaro173; nelle transazioni economiche le spezie, in particolare, erano di frequente impiegate come monete174. Accanto a questa valenza commerciale, esse svolgevano una funzione culinaria e dietetica di fondamentale importanza nella cucina medievale europea175. Le spezie, infatti, non soltanto costituivano gli ingredienti delle salse da abbinare a pietanze a base di carne e di pesce, ma possedevano anche molteplici virtù curative e medicinali. Nella fattispecie, il pepe e lo zafferano furono ampiamente utilizzati sin dall’Antichità, in quanto si riteneva che avessero funzione digestiva, se abbinati alla carne176. Il miele, impiegato nel Medioevo soprattutto come dolcificante (sostituito in seguito dallo zucchero), era prodotto in quantità abbondante nelle campagne bolognesi177. Il divieto di esportazione diventava invece assoluto nel caso di beni alimentari talmente importanti per la città, quali il pane e la carne. Era proibito trasportare fuori dal centro urbano biado, legumi, carni morte o vive senza privilegio o licenza concessa dall’episcopato, dal podestà, dal consiglio o dalla decima parte dello stesso178. Una multa molto elevata (300 lire) o, in alternativa, l’amputazione della mano, spettava a chi non osservava la regola. Oltre al trasgressore, anche il comune di confine della terra attraverso la quale il biado veniva trasportato, doveva essere sanzionato con una multa pari a 100 lire, e anche più, secondo la volontà del podestà. Costituiva un’eccezione il caso in cui si tenesse conto della buona fede del comune “trasgressore”, oppure quest’ultimo avesse dichiarato la frode entro tre giorni. Il sistema di controllo volto a evitare furti di quantitativi di cereali, d’altronde, ASBo, Procuratori del Comune, 1.8, Liber contractuum, 1262, cc. 15v-16v. Erioli 2014, pp. 31-33. 172 Dopsch 1949, pp. 194-205; Cipolla 1956, pp. 3-12. 173 Erioli 2014, p. 31. 174 Cipolla 1956, pp. 5-6; Cipolla 1988. 175 Riguardo al ruolo delle spezie nella cucina e nella dietetica medievale, vedi Laurioux 1983; Flandrin 1997; Freedman 2008. 176 Montanari 1979, pp. 407-411; Laurioux 1983, pp. 29-31; Flandrin 1997, pp. 383-386; Freedman 2008, pp. 58-59. 177 Greci 1976; Pini 1976. 178 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, II, pp. 203-206. 170
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doveva scattare immediatamente, qualora si presentasse una situazione del genere. Se i custodi addetti alla sorveglianza del biado non denunciavano gli autori del furto, subivano l’amputazione della mano e del piede. Inoltre, se qualcuno, che fosse un singolo o una comunità, conduceva dei traffici con un nemico di Bologna, entrava in vigore la normativa relativa alle rappresaglie179. Altrove, i legislatori ribadivano che le mercanzie trasportate in città o nel distretto, come per esempio, le armi e i cavalli, il sale e le vettovaglie in genere, potevano essere liberamente condotte fuori dal territorio bolognese senza alcun sigillo; del pari, si accoglievano le merci di qualsiasi tipo in città, previo il pagamento di una tariffa daziaria o di quella di pedaggio180. Il movimento delle importazioni poteva annullare persino i crediti e i prestiti; la normativa in merito disponeva il divieto di sequestro dei beni a chiunque portasse viveri, cavalli o armi sul mercato cittadino, anche qualora si trattasse di merci frutto della riscossione di un debito o di rappresaglie. La politica di carattere protezionistico intrapresa dal comune comportava una serie di obblighi da parte delle comunità facenti parte del territorio bolognese. Innanzitutto, nessuno poteva trasportare fuori dal distretto del grano per macinarlo, senza il permesso del podestà di Bologna. I giudici delle terre del comitatus dovevano controllare che non si verificassero spostamenti illeciti di carichi di cereali; in tal caso, avrebbero dovuto dichiarare qualsiasi infrazione ai procuratori del comune. Gli stessi giudici erano tenuti a recuperare il biado e consegnarlo al massaro della comunità181. Si precisava che nessuno poteva andare a macinare nell’episcopato di Modena; il podestà doveva recarsi una volta all’anno con i procuratori a visionare i confini fra bolognesi e modenesi e fare un rapporto al consiglio del comune182. Inoltre, in base al patto fra Imola e Bologna, non si poteva trasportare biado fuori dal comitato di Imola Rafanaria183 (denominazione comune a vari luoghi della Romagna e al fiume oggi detto Lamone e anticamente detto Rafanaria). Tale biado doveva essere condotto a Bologna e perciò tutti i porti ubicati sul fiume Rafanaria erano posti sotto la sorveglianza di custodi al servizio del comune, cosicché né biado né altri viveri, né legno potevano essere trasportati altrove. Gli uomini delle terre di Romagna, che avevano giurato sotto il comune bolognese, e i loro rettori, non potevano impedire il trasporto di biado e viveri dalle loro terre verso Bologna184. Queste disposizioni si inquadrano nella fase, coincidente con gli anni Cinquanta del Duecento, caratterizzata dal predominio di Bologna sulla Romagna, e in particolare su Imola, divenuta il “granaio” più importante della città. Ibid., II, pp. 207-209; II, pp. 277-279. Ibid., II, pp. 207-209. 181 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, II, p. 245. 182 Ibid., II, pp. 248-249. 183 Ibid., III, p. 680: « denominazione comune a parecchi luoghi delle parti di Romagna, non che al fiume Lamone, anticamente Anemo e ne’ bassi tempi Alamon e Rafanaria». 184 Ibid., III, pp. 337-338. 179 180
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3. Gli ordinamenta facta per dominos bladi Malversazioni e crisi economica. Alle origini dell’Officium bladi. L’istituzione di magistrature annonarie autonome, produttrici di una documentazione relativa all’approvvigionamento dei cereali, si riscontra a Bologna, come altrove nell’Italia comunale185, a partire dalla seconda metà del Duecento e nel Trecento186. L’esigenza di creare degli uffici appositamente designati per risolvere i problemi connessi al ciclo del pane nacque da una serie di fattori contingenti – politici, demografici – che concorsero a rendere il rifornimento di grano più difficoltoso che nei decenni precedenti. Innanzitutto, ancora negli anni Cinquanta e Sessanta del Duecento, Bologna risentiva dell’incremento demografico registrato sin dall’inizio del secolo, quando il comune – in ben altro quadro locale e internazionale – aveva favorito se non addirittura incentivato l’inurbamento in città e nel contado di artigiani e di altre categorie di lavoratori, al fine di creare nuove sinergie nell’ambito della produzione e del commercio. Un incremento demografico che, peraltro, a seguito di un periodo di costante progressione, incominciò a mettere in seria difficoltà il governo bolognese, sia in rapporto all’approvvigionamento alimentare che per motivazioni di ordine fiscale. Nonostante la Romagna fosse a metà anni Cinquanta il “granaio” di Bologna e la notorietà dello Studium costituisse un polo di attrazione molto forte, la città si trovò ad affrontare una complessa situazione economica, aggravata da ricorrenti crisi, che richiesero l’attuazione di una serie di iniziative in ambito legislativo. Si trattava di una congiuntura difficile verificatasi lungo un decennio in diverse realtà comunali del centro-nord Italia, come si evince da varie cronache dell’epoca. Per esempio, nell’anno 1250 l’esercito bolognese si recò presso il torrente Crostolo (a ovest di Reggio) e fece pervenire biado e altri viveri a Parma, pressata dalle forze filo-imperiali e prostrata dalla carestia187. Pure il 1256 fu un anno di penuria di viveri, di rialzo dei prezzi e di pestilenza in Italia, in particolar modo in Toscana. Pare che i contadini del territorio di Lucca si fossero recati a Bologna per comprare del frumento, che il comune fece pagare loro e ai fiorentini al prezzo di 8 soldi la corba188. Giovanni Villani nella sua Cronica nuova annotò: «Nell’anno MCCLXXXVI, spezialmente del mese d’aprile e di maggio, fu grande caro di vittuaglia in tutta Italia, e valse in Firenze lo staio del grano alla misura rasa soldi XVIII di sol185 Pinto 1985, p. 625 nota 4. Per una riflessione sulle fonti archivistiche in relazione alla politica annonaria, vedi Pinto 1981. 186 Per esempio, a Siena l’attività dell’ufficio del Biado nel Trecento si evince dallo Statuto del biado risalente agli anni 1340-1347, nel quale era stata raccolta e riorganizzata la normativa precedente. Vedi Piccinni 2013, p. 178 (in particolare, nota 17). 187 Petri Cantinelli Chronicon, p. 6. Cfr. Chronicon Bononiense, p. 54. 188 Corpus chronicorum bononiensium, pp. 139-140 (Cronaca B), p. 140 (Cronaca A), p. 140 (Cr. Bol). Cfr. Chronicon Bononiense: p. 56: «Item eodem anno fuit magna caristia victualium in Tuscia, quare immensa copia frumenti tributa fuit a comune Bononie florentinis et lucensibus».
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di XXXV il fiorino dell’oro»189. Anche il 1260 fu un anno di carestia e di sventura nel territorio bolognese190 e in tutta Italia, che provocò un’alta mortalità191. Proprio in questo periodo a Bologna si crearono le condizioni per l’elaborazione di nuovi ordinamenta relativi al rifornimento di grano, da cui nacque la prima magistratura annonaria della città, ovvero l’Officium bladi e furono nominati gli ufficiali incaricati di gestirla, i domini bladi. La circostanza contingente che indusse il comune a emanare una normativa speciale fu determinata dalla cattiva amministrazione dei quantitativi di biado nell’anno 1257 avvenuta sotto la podesteria di Bonaccorso da Soresina192, fautore fra il maggio e l’agosto dello stesso anno di un patto con Ravenna193. A tale amministrazione presero parte anche degli ecclesiastici, incaricati di distribuire equamente i cereali, cosa che però non fecero194. A seguito di malversazioni di questo genere nell’aprile 1259 furono eletti otto rappresentanti del comune, due nelle società d’arti, due in quelle d’armi, due provenienti dal cambio e due dalla mercanzia, i quali avevano il compito di inquisire coloro che si erano macchiati di tali traffici e punirli con pene pecuniarie. Così si evince dalle Reformationes conscilii populi pro sapientibus et aliis electis ad inquirendas baratarias bladi dello stesso anno (raccolte nel codice statutario del 1262)195. In detta riformagione gli anziani e consoli stabilirono innanzitutto che né dominus Iacobinus Rangonus, che fu podestà di Bologna nel 1259 quando i colpevoli vennero inquisiti, né qualcuno della sua famiglia o dei sapientes eletti ad inquirendas baratarias bladi, potessero incorrere nella scomunica di quegli ecclesiastici che erano stati da loro stessi condannati per la cattiva amministrazione del biado. Le sentenze non potevano essere contestate; chi avrebbe mosso rimostranze, sarebbe stato punito con una multa di ben 100 lire. Qualche mese dopo quelle condanne, a fine luglio 1259, i domini bladi formarono una commissione che legiferò in materia annonaria al fine di evitare che si riproducesse episodi simili a quello del 1257. A rendere più complessa la situazione fu il blocco operato da Venezia nei confronti di Bologna, in quanto quest’ultima aveva palesato le proprie mire espansionistiche sul porto di Ravenna, per il trasporto delle derrate alimentari dall’Adriatico alla foce del Po di Primaro, lungo il fiume stesso e di lì lungo il naviglio fino a Bologna. Ravenna, l’antico porto principale della Romagna, non era nelle condizioni di ostacolare la politica di Bologna, ma dietro Ravenna c’erano i veneziani che non desideravano l’affermazione di un nuovo concorrente sull’Adriatico. Inoltre, il progetto di Bologna avrebbe ostacolato 191 192 193 194 195 189 190
Villani 2007, I, VIII, cap. CXI, p. 576. Predieri 1855, p. 54, p. 56. Ghirardacci 2005, V. I. p. 200. Statuti del comune di Bologna 1245-67, III, 454 (nota), p. 456. Vedi pagine successive. Statuti del comune di Bologna 1245-67, III, p. 454, nota a. Ibid., III, pp. 454-465.
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Venezia nel proprio disegno di controllare il traffico delle merci nell’entroterra196. A questo scopo nel 1251 Venezia fece costruire il castello di Marcamò alla confluenza fra il Po di Primaro e il ramo fluviale che si staccava per arrivare a Ravenna. Tale castello fungeva per i veneziani da filtro del commercio padano197. In questo modo la città lagunare ottenne il controllo del tratto che andava dal Po di Primaro al mare e a Ravenna. Quando Forlì si pose sotto il dominio di Bologna (1256), quest’ultima cercò di impadronirsi del porto di Ravenna198 proponendo un trattato a Ravenna fra maggio e agosto 1257, in cui si ribadiva che tutti i dazi ravennati esatti per via terra e via acqua dovevano essere riscossi per metà dai bolognesi e le cariche di podestà e capitano del popolo dovevano essere ricoperte da cittadini bolognesi199. Ravenna tentennò; il suo podestà, Senzanome Di Pipino, con l’approvazione del consiglio, nominò un procuratore per contrattare. Che cosa sia avvenuto del patto non è dato dire; è tuttavia probabile che i ravennati si piegarono in un primo tempo ai bolognesi; di certo nel 1258 i podestà di Ravenna furono bolognesi200. Tuttavia, la politica monopolistica di Bologna non doveva essere gradita né a Ravenna né a Cervia. Proprio per questo sorse un contrasto fra Bologna e Ravenna nell’estate del 1259, allorché Bologna inviò un ambasciatore a Ravenna per chiedere che si concedesse ai mercanti bolognesi e ravennati di poter trasportare a Bologna biado proveniente dal distretto di Ravenna o da altro luogo senza pagare alcun dazio. La richiesta fu respinta, allora Bologna minacciò di intervenire con le armi; a quel punto il podestà di Ravenna, Azzo da Bagnacavallo, accettò. Il consiglio generale di Ravenna approvò l’accordo relativo ai dazi proposto dai bolognesi il 17 settembre 1259201. L’iniziativa bolognese non poteva essere gradita a Venezia, che non voleva avere rivali nel controllo del porto di Ravenna e del traffico fluviale sul Po, né nel commercio del sale di Cervia. In quel frangente Venezia non reagì, se non rafforzando e ampliando il già citato castello di Marcamò, e ricorrendo a una maggiore sorveglianza della via fluviale che conduceva al Po. Ai ravennati non rimaneva che destreggiarsi fra i due contendenti. Forse, la proibizione del 1259 di trasportare cereali e altre vettovaglie a Bologna fu dovuta alla pressione dei veneziani, anche se i bolognesi accusarono i ravennati202. L’insistente richiesta ai ravennati (e i problemi che ne conseguirono) si inquadrava nella difficile fase economica che il comune bolognese stava attraversando. La normativa straordinaria attivata a partire da fine luglio1259 rappresentava una prima risposta, sul piano legislativo, alle problematiche annonarie, in particolare a quelle cerealicole, aggravatesi a causa 198 199 200 201 202 196 197
Hessel 1975, p. 256. Pini 1993d, p. 514. Ravenna si era posta sotto la protezione sotto Bologna nel 1253. Vedi Hessel 1975, p. 256. Pini 1993d, p. 525. Cfr. Torre 1966, pp. 43-44. Ibid., 1966, p. 46. Ibid., pp. 48-49. Ibid., p. 49.
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di malversazioni interne e di una politica estera i cui successi ed equilibri si rivelarono alquanto precari e labili. I lavori della commissione eletta per elaborare tale normativa confluirono negli Ordinamenta facta per dominos bladi, una serie di norme straordinarie volte a disciplinare tutti gli stadi del rifornimento cerealicolo, dall’arrivo dei quantitativi provenienti da regioni più o meno lontane (la Romagna, Ferrara, Venezia, Ancona, Spoleto, la Puglia203) al pagamento del dazio del biado, alla custodia nei magazzini pubblici dello stesso, alla sua vendita all’ingrosso e al minuto. Con questo ordinamento il comune di Bologna orientava l’attività legislativa, come stava accadendo in altri comuni italiani, che si erano dati degli statuta bladi 204, verso la regolamentazione dell’approvvigionamento urbano e del mercato del grano. In tale prospettiva si adottarono, innanzitutto, misure drastiche per alleggerire la “pressione demografica” mediante l’espulsione dalla città e dal territorio di categorie di cittadiniconsumatori ritenuti parassiti della società, quali i ladri, le meretrici, i ruffiani, i biscazzieri205. Provvedimenti di tal genere, unitamente al divieto per i diseredati di varcare le mura, furono adottati in vari centri urbani (come Siena e Pisa), fra Duecento e Trecento, in qualità di provvedimenti eccezionali in periodi di penuria di cibo206. Se a Bologna questo genere di ordinanze fu inserita negli statuti ufficiali già nel Trecento, in Toscana esse assunsero un carattere di normativa ordinaria soltanto a partire dal XV secolo207. Gli Ordinamenta: una normativa straordinaria concepita a se stante. Negli Ordinamenta del 1259 si ripresero in gran parte le disposizioni già stabilite nelle precedenti redazioni statutarie e se ne adottarono delle nuove. Questo ordinamento, contenuto in unico codice statutario datato 1262, costituisce il libro dodicesimo dell’edizione di fine Ottocento di Ludovico Frati. Lo stesso curatore spiegava in una nota di aver stabilito liberamente di designarlo come libro XII, quasi fosse una sorta di continuazione di quelli precedenti (numerati nei manoscritti)208. In proposito, Gina Fasoli209, sostenne che Frati operò una scelta arbitraria di riordino del materiale documentario. Secondo la studiosa, infatti, non sussistevano validi motivi per annette Peyer 1950, p. 155. Fiumi 1977. Cfr. Pini 1986, p. 157. 205 Statuti del comune di Bologna 1245-67, III, pp. 509-510. 206 Pini 1978, p. 389, p. 27, pp. 320-322; Statuti Pisa, I, L. III, rub. LI; Geremek 1973, pp. 675-677. 207 Pinto 1996, pp. 48-49 (per ulteriori riferimenti bibliografici vedi nota 39 p. 49). 208 Statuti del comune di Bologna 1245-67, III, p. 491. Si tratta degli Ordinamenta facta per dominos bladi. Frati in una nota a p. 490 della sua edizione spiega che questo ordinamento si ritrova soltanto nel codice dell’anno 1262. Si tratta di un quaderno di 6 carte nel quale vengono riportati detti Ordinamenta redatti a più riprese nel 1259, per riorganizzare il mercato del biado e delle vettovaglie. L’autore pubblica questo quaderno come libro XII, nonostante sia privo di numerazione. L’incipit è il seguente: Hec sunt ordinamenta facta per dominos bladi. 209 Fasoli 1936b, pp. 52-53. 203 204
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re questa parte agli statuti precedenti, considerandola quale naturale proseguimento di quelli. La struttura stessa dell’ordinamento quasi fosse un libro compiuto in sé stesso, al pari del suo contenuto incentrato essenzialmente sulla politica cerealicola, inducono piuttosto a pensare che si trattasse di una normativa straordinaria concepita separatamente rispetto all’altra. Diversi elementi paleografici e diplomatici concorrono a rafforzare questa ipotesi: dalla rilegatura compatta delle carte componenti gli Ordinamenta, alla scrittura di un’unica mano, alla modalità di scrittura dei titoli in rosso per ogni rubrica. L’analisi del contenuto delle rubriche permette altresì di svolgere una riflessione circa le misure adottate dai domini bladi e le funzioni svolte dall’ufficio alle loro dipendenze, l’Officium bladi. Nei decenni successivi l’Officium bladi venne articolandosi ulteriormente per ruoli e competenze, come si rileva dalla prima documentazione pervenutaci risalente agli anni 1286-87210. Già nella prima rubrica degli Ordinamenta si definiscono i criteri seguiti dai legislatori nella redazione di questa normativa. Gli anziani e consoli decretarono, innanzitutto, che i provvedimenti contenuti negli statuti del comune e del popolo non consonanti con quelli dell’Ordinamentum dei domini bladi, da quel momento in avanti sarebbero stati cassati. Gli anziani e consoli, inoltre, stabilirono che dovesse essere eletto un bonus et legalis homo per ogni società di arti e armi, assieme con gli otto domini bladi, il cui compito era quello di ripristinare e gestire il mercato del biado e dei viveri a Bologna. Le riformagioni riguardanti i provvedimenti annonari dovevano essere trascritte nei libri degli statuti e in quelli degli statuti del popolo. I rappresentanti delle corporazioni unitamente agli otto domini bladi non potevano ricevere uno stipendio dal comune o dalle singole società. Qualora il podestà o gli anziani proponessero di retribuirli, gli stessi sarebbero stati tenuti a pagare al comune una multa di 100 lire211. Per un mercato regolato. L’attività legislativa dei domini bladi. Uno degli obiettivi principali del comune era quello di regolamentare il mercato del frumento e degli altri cereali. Al fine di evitare che si verificassero ulteriori frodi – recita la rubrica 2 del libro XII212 – i domini bladi ordinarono che i venditori di biado o farina attivi in città, nei borghi, nelle vicinanze dei mulini dislocati sul ramus Reni, dentro o fuori la cerchia (la seconda, quella denominata dei Torresotti), trasportassero il grano presso la piazza del comune, oppure sotto le volte degli Asinelli. In questi luoghi ogni mercante aveva il diritto di tenere il proprio carico ammassato in sacchi per l’intera giornata e venderlo entro sera; mentre non gli era consentito di riportare indietro la merce rimasta invenduta. I quantitativi trasportati sulla piazza dovevano essere obbligatoriamente smerciati. Colui che contravveniva a tale norma (ovvero riportava il biado presso i proprio depositi) era sanzionato con un’am Riguardo all’Officium bladi, vedi capitolo sulla politica cerealicola negli anni 60-80 del Duecento. Statuti del comune di Bologna 1245-67, III, pp. 495-506. 212 Ibid., III, pp. 507-508. 210 211
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menda pari a 50 lire, oltre a perdere quel quantitativo di biado, di cui la metà sarebbe spettata al comune e l’altra all’accusatore. Si trattava di un mercato del grano nel quale operavano mercanti provenienti da altri distretti oppure attivi nel territorio bolognese, se non addirittura presso i mulini privati ubicati sui canali Reno e Savena. Era d’obbligo che queste transazioni avvenissero pubblicamente negli spazi designati dal comune, tanto è vero che nella medesima norma si ribadiva che la vendita di biado o farina in ambito privato (la casa, il granaio, il mulino) era illegale. L’infrazione a tale regola era punita con una pena pecuniaria elevatissima, pari a 300 lire o, addirittura, con l’amputazione di un piede. Al fine di disincentivare il traffico illecito di grano al di fuori dei luoghi consentiti, gli Ordinamenta contemplavano la medesima sanzione anche per il compratore doloso, ovvero 300 lire o, in alternativa, l’amputazione della mano e di un piede. Il trasportatore di biado che svolgeva dei commerci nascostamente, se scoperto, veniva multato per 50 lire, oppure subiva l’amputazione del piede; il carico gli veniva confiscato e incamerato dal comune. Ancora, per chi osava rubare il biado di notte la pena pecuniaria era doppia. Questa disposizione avrebbe avuto una validità di 5 anni a partire dall’anno 1259 e oltre, secondo la volontà del consiglio del comune213. L’attività legislativa dei domini bladi non si appuntava esclusivamente sui luoghi consueti della vendita del grano, ma riguardava anche i locali di ristoro pubblici. Allo scopo di evitare spreco di viveri nelle taverne e nelle caneve (sorta di cantine214), dove le vivande venivano consumate quotidianamente da inutiles personas – così recita la rubrica –, si decretava che nessun cibo potesse essere venduto nei medesimi luoghi. Soltanto chi apparteneva alla famiglia di colui che gestiva la taverna o la cantina aveva il diritto di mangiare in detti luoghi. Una pena pecuniaria di 50 lire spettava ai trasgressori, che fossero osti o avventori215. Le difficili circostanze economiche in cui versava la città spinsero il comune bolognese a revocare le rappresaglie stabilite nella normativa precedente, affinché le importazioni di cereali non rischiassero di essere bloccate. Perciò i domini bladi soppressero tutte le rappresaglie inflitte precedentemente a coloro che provenivano dalle terre di Romagna, dalla Marca anconetana, dalla valle di Spoleto, da Venezia, dalla Puglia, da Ferrara e dal suo distretto, a partire dalle calende dell’agosto 1259 per la durata di un anno. Gli uomini di detti territori e città potevano venire a Bologna con le loro mercanzie senza temere alcun ostacolo; chi era prigioniero a Bologna o nel distretto, sarebbe stato liberato. Il comune bolognese chiedeva che gli stessi provvedimenti fossero adottati dalle suddette province, città, terre, ovvero che lasciassero circolare i cittadini bolognesi con i loro carichi da trasportare a Bologna216. Al fine di far pervenire quantità consistenti di viveri e biado, e favorire l’afflusso 215 216 213 214
Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, pp. 507-508. Sella 1937, p. 68. Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, pp. 508-509. Ibid., III, pp. 510-511.
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di un maggior numero di mercanti forestieri, i domini bladi stabilirono, inoltre, la revoca delle rappresaglie contro coloro che provenivano dalla Lombardia o dalla Tuscia e da qualsiasi altra provincia e comune, contro i quali erano state lanciate delle rappresaglie. Tale provvedimento valeva fino alle calende dell’agosto 1259. Il comune di Bologna chiedeva che anche questi territori tenessero il medesimo comportamento nei confronti dei cittadini bolognesi e concedessero loro la licenza di trasportare viveri in città217. La gestione e il controllo del commercio del biado costituiva una delle preoccupazioni principali del governo bolognese, come si rileva dalle numerose disposizioni previste nell’Ordinamentum dei domini bladi. L’obiettivo era quello di regolamentare l’attività dei mercanti di grano in città e nel territorio, ma anche la vendita e distribuzione della “razioni” di grano pubblico spettanti ai cittadini. Vi era infatti una precisa disposizione concernente la quantità di biado da assegnare a ogni gruppo famigliare: gli ufficiali che gestivano il frumento e i cereali del comune a scopo di vendita, avevano l’ordine di vendere a ogni famiglia per il consumo domestico non oltre 2 corbe di biado al mese, la metà rispetto ai precedenti statuti (prima erano 4 corbe). Coloro che usufruivano di tale quantitativo dovevano giurare di non utilizzarlo per farne un proprio commercio, altrimenti avrebbero dovuto pagare 25 lire di multa, oltre a e restituire il doppio del frumento ricevuto. Tale disposizione, fissata l’ultimo giorno di luglio del 1259, entrava in vigore per un anno e più, secondo il volere del consiglio del comune218. Si assicurava dunque, sul piano legislativo, il rifornimento cerealicolo ai cives esclusivamente consumatori e non mercanti. La penuria di grano sul mercato fu una delle cause della diminuzione dei quantitativi destinati a ogni singola famiglia. Questa norma, al pari delle altre relative ai luoghi di vendita e alle rappresaglie, rientrava nell’ambito di una politica volta a fissare i principi di un mercato regolato e controllato. Precise disposizioni riguardavano, altresì, alcune categorie di venditori di biado, nella fattispecie i già citati tricoli e i salaroli, i quali non potevano più vendere né immagazzinare cereali presso la bottega o i propri banchi o in qualche altro luogo della città o dei borghi, e neppure custodire quello di terzi, pena una sanzione di 100 lire. Costituiva un’eccezione il caso in cui un tricolo o un salarolo partecipasse direttamente a qualche traffico, destinato a far pervenire biado da un altro distretto; allora avrebbe potuto vendere il grano nei luoghi prestabiliti. Mediante questa disposizione, valida per 5 anni219, si intendeva impedire il commercio di cereali a quei riveditori al minuto – salaroli e tricoli – che in precedenza, invece, lo avevano praticato abitualmente. Si vietava, inoltre, la vendita di biado a partire dall’ora del vespro di San Pietro (verso sera) fino al suono della campana del comune della mattina seguente in piazza Maggiore, e alla campana della messa della Chiesa di San Ibid., III, pp. 521-523. Ibid., III, pp. 511-512. 219 Ibid., III, pp. 512-513. 217 218
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Bartolomeo presso porta Ravegnana. Una pena pecuniaria elevata, pari a 100 lire, spettava ai venditori e acquirenti che trasgredivano la regola; 50 lire ai trasportatori220. Non soltanto le fasce orarie erano fissate con precisione; anche le modalità di vendita erano definite in maniera dettagliata. A differenza di quanto stabilito precedentemente, i domini bladi ordinarono che nessun venditore portasse in scodelle, grembiuli o su pale di legno il biado da vendere al minuto presso la curia del comune o sotto le volte degli Asinelli. L’ammenda ammontava a 25 lire221. Le norme relative al mercato del grano erano vincolanti e costrittive per i consumatori, oltre che per i venditori. Al fine di garantire una distribuzione equa di biado alla popolazione bolognese, si vietò a coloro che già disponevano di cereali a sufficienza per tutto l’anno, ovvero fino alla raccolta successiva, di acquistare al mercato quantità di frumento o di mistura. La multa per chi non osservava la regola corrispondeva a 50 lire; 100 lire per chiunque comprasse biado per conto di terzi. Facevano eccezione l’orzo e il miglio, che si potevano impiegare per nutrire i cavalli e le bestie, e il seminativo che il proprietario di un terreno era tenuto a dare (per contratto), in parte o interamente, ai propri laboratores terre. O, ancora, nel caso si trattasse di un agricoltore che lavorava un terreno di sua proprietà a cui fosse necessario avere del seme222. Ulteriori disposizioni riguardavano la tutela del mercato del grano, che doveva svolgersi in maniera “ordinata”. Per esempio, si ribadiva la norma secondo cui i trasportatori o portatores di biado non dovevano mescolarsi ai commercianti nei luoghi adibiti alla vendita, ossia presso la curia del comune e sotto le volte degli Asinelli. Essi potevano recarsi in detti luoghi soltanto se chiamati per trasportarvi il biado acquistato e rimanervi per la durata della pesatura e del successivo pagamento da parte del compratore. Un’ammenda di 20 soldi (1 lira) spettava al trasportatore che non osservava la prescrizione. Riguardo al mercato di piazza Maggiore, l’unico luogo dove i portatores potevano eventualmente sostare corrispondeva all’area della Chiesa di Sant’Apollinare, oppure sotto i portici del comune (del palazzo del Podestà) vicino alla postazione degli yscarii. Invece, presso il mercato di porta Ravegnana, i trasportatori dovevano fermarsi dalla parte opposta rispetto alla piazza223. Oltre al trasporto, anche lo stoccaggio dei cereali costituiva per il governo cittadino una costante fonte di preoccupazione. Perciò fu designato un certo numero di custodi addetti alla sorveglianza dei depositi, secondo un meccanismo di rotazione giornaliero da una piazza all’altra. Si stabilì, infatti, che una metà dei custodi controllasse i magazzini ubicati presso la curia del comune e le volte degli Asinelli per un giorno e una notte consecutivi, e l’altra metà, il giorno seguente, di giorno e di notte224. Essi avevano l’obbligo di controllare l’attività dei compratori e dei vendito 222 223 224 220 221
Ibid., III, pp. 513-514. Ibid., III, pp. 514-515. Ibid., III, pp. 514-515. Ibid., III, pp. 515-516. Ibid., III, pp. 516-517.
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ri di frumento; se scoprivano un individuo sospetto che conservava del biado per sé e la propria famiglia, agendo contro gli Ordinamenta, allora dovevano seguirlo fino alla casa dove costui trasportava detto carico e perquisirla. I custodi inadempienti venivano sanzionati con una multa di 25 lire225. Il datium bladi e i problemi finanziari del comune. Alle misure annonarie riguardanti l’organizzazione dei quantitativi di grano, si aggiungevano i provvedimenti inerenti all’arrivo in città del biado proveniente da un’altra giurisdizione e distretto. La normativa prevedeva che il grano venisse consegnato ai presidenti dell’Officium bladi, i quali avrebbero pagato il dazio del biado in nome del comune (con l’avere del comune) a coloro che trasportavano i quantitativi di cereali fino alle mura della città. Tale dazio equivaleva a 2 soldi la corba di frumento, fave, segale, ceci o fagioli, e 12 bolognini (= 1 soldo) la corba di altro biado. Se qualcuno dichiarava di aver trasportato cereali da un altro distretto (ma non fosse vero) e riceveva pertanto il denaro del comune di Bologna, veniva condannato a pagare 100 soldi di multa, oltre a perdere il biado. Tale disposizione aveva validità fino alla festa di San Pietro del giugno successivo226. Il comune di Bologna, d’altronde, si trovò in quell’anno 1259 nella condizione di dover richiedere una deroga per saldare un debito in denaro. Nell’intenzione di fornire garanzia ai creditori, i domini bladi disposero che tutti coloro qui debent recipere denarios a comuni Bononie pro maxinatis acconsentissero a prorogare di due mesi il termine stabilito per il pagamento, o di più, secondo il contratto di mutuo che il comune intendeva rinnovare loro. In base a tale contratto, il comune si impegnava a restituire la somma dovuta entro il nuovo termine. Il comune – si legge negli Ordinamenta – aveva l’assoluta necessità di disporre di denaro liquido per pagare il dazio del biado a coloro che conducevano i cereali a Bologna da altri distretti. I denarii de maxinatis venivano di fatto impiegati, dunque, per saldare il dazio del biado e altre spese a esso relative. Grazie alla liquidità di denaro disponibile, il comune poteva incentivare le importazioni di cereali, attirando i mercanti di grano con pagamenti immediati per i quantitativi immessi in città227. A differenza dei venditori che smerciavano i cereali sul mercato urbano dietro il pagamento del datium bladi228, i mercanti che giungevano alle porte della città erano rifornitori all’ingrosso del comune. Quest’ultimo era tenuto a pagare loro un datium bladi, che concludeva una transazione economica contratta diretta Ibid., III, pp. 517-518. Ibid., III, pp. 518-519. 227 Ibid., III, p. 519. 228 Nella documentazione dei procuratori del comune si riscontrano per vari anni, a partire dal 1260 circa, i dazi del biado che si dovevano pagare nell’una e nell’altra piazza. Nonostante le oscillazioni del dazio, quello relativo a piazza Maggiore era sempre superiore alla gabella sui carichi venduti a porta Ravegnana. 225 226
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mente dal governo cittadino con un altro comune o un altro territorio a corto, medio o lungo raggio. Spesso il governo bolognese chiedeva somme di denaro a privati cittadini o a gruppi consortili sotto forma di mutuo o di semplice prestito. Simili meccanismi di prestito si verificarono anche in altri comuni italiani. A Venezia, per esempio, il primo prestito pubblico documentato per l’acquisto di frumento risale alll’anno 1229: il Gran Consiglio accordò a Giacomo Bobizzo, legato veneziano in Puglia, la facoltà di ricevere in prestito da privati a nome del comune fino a 5000 lire di piccoli denari veneziani allo scopo di comprare frumento per tre mesi229. Il comune fiorentino, nel XIV secolo, ricorse a un articolato sistema di gabella, ma anche alla più rapida ed efficace modalità del prestito per pagare l’approvvigionamento di grano proveniente da altri territori. Anticipare i proventi derivanti dalle gabelle mediante prestiti divenne un processo sempre più frequente nella Firenze trecentesca, che si trattasse di prestiti volontari o forzosi, a carico dei contadini, di cittadini appositamente scelti, oppure di mercanti e artigiani230. Articolate strategie di prelievo di denaro erano state approntate anche dal comune bolognese nel corso del Duecento. Varie disposizioni, infatti, della legislazione del 1259 concernevano il denaro che il comune riceveva tramite mutuo, oltre a quella già descritta. Era il caso, per esempio, delle somme pecuniarie che Bologna aveva ottenuto, per mezzo dei propri sindaci, dal comune fiorentino e da altri, disponibili ad accordare un mutuo in denaro ai bolognesi. Il podestà, il procuratore e il massaro del comune avevano l’obbligo di utilizzare tale denaro esclusivamente per comprare il biado e organizzarne il trasporto in città da fuori distretto231. Altrove si ribadiva che tali somme non dovevano essere spese per nessuna altra ragione, e che il comune si impegnava a restituirle ai creditori. Una multa estremamente elevata, pari a 1000 lire, spettava a chiunque osasse proporre un’esenzione dal pagamento del mutuo in qualche consiglio o arengo o congregazione del popolo; 500 lire per colui che l’aveva scritta. Inoltre, pene pecuniarie molto severe erano previste per coloro che proponevano un utilizzo diverso del denaro ricevuto in prestito: se si trattava di un miles la sanzione era pari a 550 lire; se pedes, 300 lire. Il podestà e gli anziani e consoli avevano l’obbligo di seguire l’ordinamento; qualora non si attenessero alla regola, gli ufficiali successivi avrebbero dovuto esigere dai precedenti dette quantità di denaro232. In particolare, dominus Iacobino Rangonus, l’allora podestà di Bologna, i suoi giudici, i milites, i notai e altri membri della sua famiglia non potevano danneggiare o ostacolare, tramite l’impiego dei sindaci del comune, persone e cose in occasione delle rappresaglie, oppure in vista della riscossione dei denari de maxenatis, utilizzati per pagare il dazio del biado. Se un sindaco contravveniva a Riguardo ai prestiti di privati al comune veneziano vedi Faugeron 2009a, pp. 122- 124; Faugeron 2014, pp. 118-122. 230 La Roncière 1982, pp. 606-607. 231 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, pp. 525-526. 232 Ibid., III, pp. 526-527. 229
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questa ordinanza, era multato con un’ammenda di 1000 lire; ai giudici spettava una multa di 300 lire, il notaio che scriveva la sentenza 200 lire e chiunque li aiutasse, 50 lire. Il podestà di Bologna aveva la responsabilità di esigere queste sanzioni entro un mese, altrimenti sarebbe stato egli stesso condannato a pagare 1000 lire233. Il sistema di multe elevate a carico degli stessi elementi di governo induce a pensare che la corruzione e le transazioni illecite fossero all’ordine del giorno anche fra coloro che dovevano gestire la cosa pubblica in nome del bene comune. Ulteriori precauzioni contro le frodi. Si ridefiniscono le norme. Al pari della normativa degli anni 1245-67, una serie di disposizioni riguardavano la strumentazione consona a pesare i carichi di biado per evitare che si verificassero frodi e furti. A questo scopo i domini bladi ordinarono che vi dovesse essere una quantità sufficiente di stai e sacchi di rame con ferla234 per misurare i cereali e la farina presso la curia del comune e sotto le volte degli Asinelli. Tali sacchi, bollati con la bolla del comune, dovevano essere custoditi dai frati o da uomini di fiducia (ma né salaroli, né tricoli) fino a giugno. Questi boni homines disponevano dello strumento da impiegare per ottenere la rasura dei sacchi e degli stai, operazione che svolgevano nei luoghi adibiti alla vendita235. I venditori di biado e farina, dal canto loro, avevano l’onere di far pesare i sacchi soltanto con gli stai di rame o le quartarole e le mezze quartarole del comune di legno ferrate con le ferla di ferro, nel caso in cui il comune non disponesse di quelle in rame. Il pesatore doveva riempire lo staio in ogni sua parte e usare lo strumento idoneo per la rasura. Una sanzione pari a 25 lire spettava a colui che non eseguiva tali operazioni236. Oltre agli ufficiali addetti alla pesatura, vi erano i custodi degli stai e dei sacchi del comune, tenuti a predisporre sacchi in abbondanza per quelli che intendevano misurare il biado o la farina. Una multa di 10 soldi spettava al custode che non preparava ogni giorno detti sacchi e che per tale funzione riceveva un compenso. Era rigorosamente vietato conservare gli stai o i sacchi di notte; la sanzione ammontava a 15 soldi. Questa ordinanza, entrata in vigore il 10 novembre 1259, rimase valida fino alla festa di San Pietro del giugno successivo e oltre, secondo la volontà del consiglio del comune237. Il dominio sulla campagna: una politica cerealicola accentratrice. Il governo bolognese gestiva non soltanto la fase del commercio del grano ma in parte anche quella della produzione, grazie allo stretto rapporto di interdipendenza fra città e campagna. La città dominava la campagna circostante dal punto vista legislativo, fiscale, commerciale ed economico. Già negli statuti precedenti era stato imposto ai proprietari 235 236 237 233 234
Ibid., III, pp. 527 e sgg. Sella 1937, p. 141. La ferla era un pezzo di ferro che serviva per rinsaldare lo staio. Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, pp. 520-521. Ibid., III, pp. 520-521. Ibid., III, pp. 533-534.
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fondiari di trasferire le eccedenze di biado in città, affinché lì venisse immagazzinato il grano. Tale disposizione fu ribadita con forza negli Ordinamenta del 1259. Si ingiungeva a tutti coloro che possedevano dei quantitativi di biado in qualche terra del distretto di trasportarlo in città entro le calende del mese di settembre. Una sanzione di ben 100 lire spettava a colui che trasgrediva la norma, oltre alla perdita del biado. A sottolineare la gravità di questo atto si aggiungeva, per il trasgressore, la privazione di ogni diritto giuridico contro qualsiasi persona (o ente) per motivi di natura varia, quali per esempio, la locazione di beni, il mutuo, la soccida. Inoltre, la casa in cui veniva trovato il biado sarebbe stata bruciata dopo aver trasportato il quantitativo in città. Costituiva un’eccezione il caso in cui si trattasse di un cives che aveva la propria attività in quella terra, così che gli conveniva impiegare parte del biado per la semina, oppure darne ai suoi lavoranti, affinché seminassero. Per il lavoro dei campi il proprietario aveva il permesso di tenere al massimo 30 corbe di biado. Se questi risiedeva parte dell’anno in città, aveva il diritto di conservare per sé e la sua famiglia esclusivamente la quantità di cereali sufficiente al periodo che trascorreva nel centro urbano. Anche ai comitatini era consentito serbare il biado necessario per la semina e per il fabbisogno della famiglia. Ai massari e consoli delle stesse terre era invece affidato il compito di denunciare al comune coloro che conservavano il biado contro la forma dell’ordinamento e oltre la data stabilita. Essi dovevano segnalare i trasgressori entro 15 giorni scaduto il termine. Altrimenti gli stessi consoli o massari avrebbero pagato una multa di 25 lire al comune; 50 lire, se la comunità conteneva fino a 50 fumanti; 100 lire, con un numero di fumanti compreso fra 50 e 100; 200 lire, se i fumanti erano superiori a 100. Veniva inoltre prorogata la scadenza entro la quale bisognava portare il biado a Bologna, ovvero fino a metà settembre238. Anche il biado guasto doveva essere trasportato nei luoghi consueti (presso la curia del comune o presso le volte degli Asinelli) e smerciato fino alla festa della Natività; dopo tale giorno, non si sarebbe più potuto venderlo, né immagazzinarlo. Il venditore che non osservava la norma avrebbe pagato al comune 20 soldi la corba, oltre a perdere il biado. Il podestà di Bologna era tenuto a eleggere degli uomini di fiducia, entro 15 giorni dall’inizio della sua carica, che provvedessero a fare delle ispezioni sui luoghi di vendita, per controllare l’operato di chi vi smerciava biado magagnato (=guasto). Costoro avevano l’obbligo di denunciare al podestà, o ad altri della sua famiglia, chi aveva commesso un’infrazione. I presidentes offitio bladi et victualium stabilirono questa disposizione nel novembre 1259239. Albergatori, salaroli, tricoli, vetturali. Il commercio al dettaglio. Se varie disposizioni ruotavano attorno al mercato del grano e disciplinavano la requisizione dei quantitativi prodotti nel contado bolognese, altre rubriche degli Ordinamenta erano Ibid., III, pp. 523-524. Ibid., III, p. 533.
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incentrate, invece, su coloro che operavano nell’ambito del ciclo del pane, che facessero parte del segmento della produzione e del confezionamento o, più semplicemente, della vendita. È il caso, per esempio, della categoria degli albergatori, già presenti nei precedenti statuti, i quali svolgevano un ruolo fondamentale nel settore della ristorazione. Tramite un meccanismo di selezione simile a quello previsto per i fornai240, essi venivano eletti a rotazione per ospitare viaggiatori forestieri e abitanti del comitatus, e confezionare il pane venale secondo il “giusto peso” fissato dal comune. Una volta nominati i fornai, gli albergatori non avevano più il diritto di fare il pane venale; potevano vendere pane o altri cibi nel proprio hospitium soltanto ai forestieri e ai comitatini, che avrebbero dovuto però consumarli altrove. Chi contravveniva alla regola, era costretto a pagare un’ammenda di 100 lire, oppure subire l’amputazione del piede241. La consumazione sul luogo era ammessa soltanto nei periodi in cui gli albergatori avevano il permesso di fare il pane (cioè quando erano vacanti i fornai). Diversamente, essi potevano vendere al minuto a tutti coloro che non erano cives, presso i loro hospitia, una serie di prodotti fra cui la spelta, l’orzo, il pane, i legumi242. L’offerta di un servizio di vitto e alloggio da parte di privati costituiva per le autorità cittadine un cespite di guadagno non irrilevante. Ne è prova la già citata reva, applicata ai mercanti che sostavano con le loro merci presso le taverne, gli alberghi e le locande243. Diverse categorie professionali erano coinvolte nel commercio dei cereali e del pane; non soltanto fornai e albergatori, ma anche salaroli e tricoli. Poiché si ribadiva la consuetudine di riporre il frumento nelle pertinenze del palazzo Vecchio (o palazzo del Podestà), sotto il cui portico erano ubicate le botteghe adibite a deposito per il biado del comune, i domini bladi stabilirono che i salaroli e i tricoli fossero trasferiti altrove e che venisse restituita loro la pensio versata per le botteghe affittate sotto detto portico. Da quel momento, per 25 anni, essi non avrebbero più avuto il permesso di sostare nei pressi del palazzo Vecchio244. Trattandosi di un’area destinata a contenere i depositi di grano pubblico, la presenza di altri operatori del settore avrebbe creato situazioni di sorveglianza difficili e di promiscuità. Oltre ai rivenditori di grano al dettaglio, anche i trasportatori rappresentavano una fonte di preoccupazioni per il governo cittadino. L’attività di questa categoria era già stata disciplinata negli statuti precedenti. Negli Ordinamenta del 1259 si ribadirono alcune condizioni: si stabiliva che nessun carrettiere o altra persona potesse trasportare biado fuori dal comitato fino alla successiva festa di Ognissanti (1 novembre), né tantomeno trasferire biado in città. Una multa di 25 lire spettava a chi non seguiva la norma, oltre alla perdita del carro, dei buoi e del carico. Tale provvedimento – recita la rubrica – era pensato 242 243 244 240 241
Riguardo ai fornai, vedi Parte III. Statuti del comune di Bologna 1245-67, III, pp. 524-525. Ibidem. Ibid., II, p. 219. Ibid., III, p. 525.
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per assecondare la concentrazione di cereali in città, per facilitare la semina e favorire un’abbondante raccolta245. Si precisava, inoltre, che tutte le riformagioni eseguite dal consiglio della massa del popolo relativamente al biado e alle vettovaglie dovessero essere inserite negli statuti del comune e in quelli del popolo e dunque applicate in qualità di legge. Qualora il podestà (attuale o futuro), gli anziani e consoli, o i consoli dei mercanti, non intendessero seguirle, una multa estremamente elevata, pari a 1000 lire, sarebbe stata loro inflitta246. Questa norma costituiva, probabilmente, uno degli esempi delle numerose riformagioni approvate nei decenni successivi dagli anziani e consoli e dal consiglio della massa in materia annonaria. Gli Ordinamenta erano una legislazione temporanea e transitoria, volta a risolvere problemi contingenti. Basti pensare che alla fine di ogni rubrica si indicava la durata di validità del singolo provvedimento. Tali provvedimenti, o riformagioni, sarebbero potuti rimanere in vigore per anni o, al contrario, decadere, nell’arco di qualche mese. Le riformagioni relative alle questioni cerealicole rappresentarono, nella seconda parte del Duecento, la prosecuzione sul piano legislativo degli Ordinamenta dei domini bladi del 1259, e affiancarono la redazione statutaria del 1288, incentrata maggiormente sulla definizione delle magistrature dei dazi e delle gabelle247. Le riformagioni. Una normativa che muove dal contingente. Un’ulteriore norma era stata approntata per rendere effettive le riformagioni relative all’Officium bladi. In base a tale disposizione, alcun ministrale, console, massaro, rettore di nessuna società d’arte e d’arme poteva riunirsi per proporre delle riformagioni che diminuissero il valore degli ordinamenta già in corso, o li cambiassero. Una multa di 100 lire spettava al ministrale, al massaro o a chi intendesse creare una società, o un consiglio, per stabilire autonomamente nuove riformagioni; 50 lire di sanzione per colui che fosse a conoscenza di tali manovre ma le occultasse; 50 lire a carico del notaio autore della proposta scritta. L’insieme della società coinvolta sarebbe stata punita con una sanzione di ben 300 lire. Il podestà in carica era tenuto a riscuotere le multe e incamerare i soldi per il comune. Chiunque dichiarasse pubblicamente i malfattori meritava la metà della pena pecuniaria; le società erano tenute a operare un controllo al loro interno, denunciando i soci inadempienti248. Altri provvedimenti presenti negli Ordinamenta del 1259 avevano un carattere del tutto personale, essendo rivolti a singoli ufficiali dell’Officium bladi. Per esempio, i presidenti dell’Officium bladi et victualium stabilirono che Iohannes q. Martini Cristiani, notaio degli stessi, ricevesse 30 lire dell’avere del comune per il lavoro di scrittura eseguito249. Dominus Meçovillanus Bonzagni e d. Rovixius merçarius, presidenti 247 248 249 245 246
Ibid., III, pp. 528-529. Ibid., III, pp. 529-531. Vedi capitolo di questa parte relativo alla normativa del 1288. Statuti del comune di Bologna 1245-67, III, pp. 531-532. Ibid., III, pp. 538-539.
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di detto ufficio, ebbero il compito di pagare il dazio del biado in nome del comune di Bologna durante il loro incarico, ovvero dal 6 agosto fino al giorno di San Martino, l’11 novembre 1259. Probabilmente, si trattava di esponenti dell’élite economica della città che, all’occorenza, potevano fungere da prestatori del comune, anticipando le somme da pagare per il dazio del biado. A essi furono riconosciuti alcuni meriti inerenti alle opere pubbliche, fra cui l’aver fatto costruire dei muriccioli (murellos) sotto le volte del palazzo Vecchio e predisporre delle bina250, ossia fila di banchi su cui vendere il grano. Per tali mansioni essi dovevano ricevere 15 lire251. Si aggiungeva l’attività di d. Albertonus di borgo di strada San Vitale, un altro notaio al servizio dei predetti presidenti, cui spettavano 15 lire252. Fra le varie riformagioni registrate, vi è quella dell’11 novembre, con la quale i presidenti stabilirono che si dovessero immagazzinare circa 20 mila corbe di frumento provenienti da un’altra giurisdizione o distretto, da custodire fino alle calende dell’aprile successivo (1260)253. Sempre nello stesso giorno, l’11 novembre, i domini bladi ordinarono che il podestà di Bologna reperisse entro 15 giorni 4000 lire. Tale somma sarebbe servita per pagare il dazio del biado, per saldare gli acquisti di frumento fino ad allora non pagati e retribuire gli ufficiali dell’Officium bladi254. La specificità di questi provvedimenti evidenzia il carattere straordinario degli Ordinamenta dei domini bladi, il cui operato muoveva da situazioni contingenti e non da un disegno di legge generale. La magistratura dei domini bladi fu denominata nel 1271 domini qui presunt officio bladi e, nel 1278, si suddivise in presidentes officio molendinorum e presidentes ad recipiendum et vendendum bladum comunis 255. Tale distinzione di ruoli e competenze preludeva alla segmentazione degli uffici addetti al ciclo del pane, avviata con gli statuti del 1288, e definitasi più compiutamente in quelli del 1335. 4. Quadro politico-istituzionale. Le liste dei domini bladi Politica estera e circuiti commerciali nella seconda metà del Duecento. Il comune di Bologna, a partire dagli anni Sessanta-Settanta del Duecento, incominciò a vivere una fase discendente, caratterizzata dalla perdita progressiva d’autorità sulle città romagnole, a causa dell’affermazione della potenza veneziana nel controllo di alcune città chiave per gli scambi commerciali, come Ferrara e Ravenna. Tale fase fu, inoltre, influenzata dal predominio pontificio in Romagna256. Alle vicende esterne 252 253 254 255 256 250 251
Sella 1937, p. 39: «fila di banchi nelle fiere e mercati». Statuti del comune di Bologna 1245-67, III, p. 539. Ibid., III, pp. 539-540. Ibid., III, p. 544. Ibid., III, pp. 544-545. Hessel 1975, p. 199, nota 137. Greci 2007, p. 563.
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si intrecciarono quelle interne, caratterizzate dalla lotta fra le parti dei Geremei e dei Lambertazzi, che contribuirono ad accelerare il processo di crisi della città. Bologna, infatti, non seppe mantenere l’egemonia sulle città romagnole che era riuscita ad affermare negli anni Cinquanta: eccetto una maggiore autonomia concessa a Forlì, le altre città mostrarono rapidamente insofferenza. Imola lamentava le frizioni fra le fazioni, i difficili rapporti tra comune e Chiesa, oltre all’acquisizione da parte di Bologna del porto di Conselice e di altri possessi ecclesiastici (1269). Nel complesso, le città romagnole subivano limitazioni nel commercio locale, pesanti imposizioni di rifornimenti (riguardo al frumento) a prezzi stabiliti dalla città felsinea con trasporti a carico dei fornitori. Così, nel 1262 Bologna impose alla contea di Imola un rifornimento obbligatorio di 10.124 corbe, alla città di Imola 4000, a Bagnacavallo 2000, a Faenza 4000 corbe. I romagnoli dovevano sostenere anche le spese del trasporto ed essere puntuali nell’effettuare gli ordini per non incorrere in sanzioni257. Consistenti quantitativi furono probabilmente consegnati da Bagnacavallo a Bologna negli anni 1266, 69, 70, 71, prima della fine dell’autunno fino al giugno successivo258. Il comune bolognese fissava il prezzo di vendita. Ancora, nel 1269 gli imolesi259 furono costretti a trasportare a Bologna ben 3500 corbe di frumento, che vennero ammassate in parte presso i frati gaudenti conventuali di Santa Maria della Ceriola in strada Maggiore, in parte presso i magazzini di un certo Gherardo Rombolini260. Il grano così requisito dai bolognesi venne pagato agli imolesi al prezzo di 9 soldi la corba, mentre sul mercato al dettaglio l’anno successivo raggiunse persino le 8 lire la corba. Nel febbraio 1270 l’ambasciatore imolese Tedesco di Salamone depositava sempre nei magazzini di Gherardo Rombolini altre 1.070 corbe di grano che gli imolesi, non possedendo in proprio, avevano dovuto comprare nella Marca d’Ancona, impiegando il denaro preso in prestito dai banchieri bolognesi. Analoghe imposizioni riguardavano il sale; nell’agosto del 1270 Imola avrebbe dovuto procurarsi 10.000 corbe di sale a Cervia per trasportarle sul mercato bolognese. Numerose in proposito sono le testimonianze di prestiti contratti dal comune imolese con banchieri e cambiatori bolognesi, soprattutto con alcune famiglie bolognesi quali i Foscardi, i Foscherari, i Tettalasini, i Pepoli, i Zovenzoni. Il comune imolese tentò nel 1269 di rivolgersi ai banchieri fiorentini, ma essi preferirono operare sulla piazza di Bologna dove il comune, secondo statuto, non poteva imporre prestiti forzosi. Il mercato finanziario imolese rimase saldamente in mano ai bolognesi, nonostante già alla fine degli anni Sessanta l’economia della città felsinea attraversasse un periodo di recessione. L’indebolimento del ruolo dei mercanti bolognesi sulle piazze internazionali li spingeva a ripiegare su attività creditizie, Hessel 1975, p. 255. Peyer 1950, p. 85. 259 Circa la storia di Imola nel Duecento e i rapporti che ebbe con Bologna vedi Pini 1975b. Pini 1982. 260 B.C.I., Mazzo III, n. 21; Pini 1975b, p. 88. 257 258
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come il prestito agli studenti261, contrastate dalla presenza delle compagnie toscane262. Il mercato finanziario imolese rimase sotto l’influenza di Bologna ancora nel 1278, sebbene quest’ultima dovette abbandonare il controllo politico-economico sulla Romagna, dove subentrava il governo pontificio con una pesante politica fiscale. Soltanto verso la fine del XIII secolo i banchieri fiorentini divennero stabili sulla piazza imolese; nel corso del XIV secolo essi acquisirono una decisa preminenza sui banchieri bolognesi, in concomitanza con l’incrementarsi delle esportazioni annonarie del grano imolese sul mercato fiorentino. I rapporti politici e commerciali che si delinearono fra Bologna e Imola negli anni 1260-80 sono emblematici della parabola discendente che la città felsinea visse nella seconda parte del Duecento. Altre vicende interne ed esterne e nuove dinamiche economiche concorsero a favorire il declino della città quale centro di livello internazionale. La politica monopolistica attuata da Bologna nei confronti della Romagna aveva portato frutti brevi ed effimeri. Inoltre, Venezia, interessata ai commerci che transitavano per il porto ravennate e quello di Cervia (per il sale) non poteva accettare che un concorrente assumesse una posizione di rilievo sulle vie di sbocco verso l’Adriatico. Già nel 1260 Venezia sottomise Ravenna e il patto del 1261 segnò il consolidamento della sua posizione di preminenza nel controllo e gestione delle foci del Po263. Bologna non contrastò la conquista veneziana di Ravenna, sebbene mantenesse ancora il dominio su Cervia e sul commercio del sale; ancora per otto o nove anni le relazioni con la città lagunare furono amichevoli. Nondimeno, progressivamente la situazione mutò per Bologna, anche a causa delle difficoltà finanziarie in cui versava il comune. L’espansione della prima parte del secolo parve esaurita quando negli anni 1269-71 le avversità climatiche – ricordate nelle cronache – e una grave mancanza di viveri innescarono problemi ancora maggiori264. Nel 1269 una «grandissima piovia fuo in questo anno, per la quale l’acqua de Reno cressete sì forte che andava di sopra dal ponte da Casalechio, et doe volte del dito ponte andono per terra. La quale acqua andoe per Argelada e per Masimadegho e per Cento facendo grandissimo danno in più luoghi»265. In tale contesto di crisi i rapporti con Venezia andarono incrinandosi. Nel luglio 1270 Bologna stipulò un altro trattato con Ravenna in funzione antiveneziana: la città felsinea si impegnava a costruire «fortilitia super ripis Padi» alle foci del fiume266; Ravenna prometteva di vendere a Bologna, non a Venezia, frumento e altre vettovaglie267. 263 264 265 266 267 261 262
Dal Pane, 1957, pp. 115-118. Pini 1962, p. 73. Pini 1993d, p. 525; Torre 1966, pp. 50-53. Predieri 1855, p. 54. Corpus chronicorum bononiensium, pp. 178-179 (Cronaca B). Pini 1993d, p. 526. Torre 1966, p. 57.
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Venezia volle opporsi al tentativo bolognese di attrarre Ravenna e il suo porto nella propria sfera di influenza268. La guerra scoppiò soltanto alla fine dell’estate 1270, quando Venezia tagliò gli approvvigionamenti dal mare a Bologna probabilmente per propria necessità. Bologna riuscì ad avere dalla sua parte Ravenna e Ferrara. Vi fu uno scontro a Marcamò che vide schierati Bolognesi e Ravennati contro i Veneziani; la distruzione del castello segnò un momentaneo insuccesso dei lagunari. Il conflitto durò all’incirca dal 1270 al 1273269. Dopo alcune vittorie, Bologna risultò sconfitta, in quanto ricattata nei suoi rifornimenti annonari e ormai sull’orlo della bancarotta. Già nel 1270 il governo bolognese dovette farsi prestare 5000 lire per l’acquisto dei viveri270 e nell’autunno seguente fu costretto a ricorrere a un prestito forzoso di 33.000 lire271. Nel 1271, infatti, in pieno conflitto contro Venezia, «fuit exercitus Savignani et magna caristia. Eo anno elleti fuerunt cl homines de Bononia qui prestaverunt XXXIII(m) libras cauxa emendi bladum»272. La pace dell’agosto 1273 sancì la sconfitta di Bologna e il patto che ne conseguì ridefinì i rapporti commerciali273 fra le due città. I bolognesi si impegnavano a distruggere il fortilizio costruito alle foci del Po di Primaro; si impegnavano altresì ad astenersi dall’interferire sulle questioni riguardanti Ravenna e riconoscevano i diritti acquisiti dai veneziani su Ravenna, nonché i rapporti commerciali quali erano stati prima della guerra. I veneziani si vedevano legittimato il dominio commerciale su Ravenna e il diritto di tenere il castello di Marcamò e il «visdomino» a Ravenna. Venezia si garantiva dunque il controllo sul traffico fluviale padano, anche se ai bolognesi era permesso ritornare sul mercato veneziano e importare liberamente ogni anno dalla Romagna e dalle Marche quantitativi di frumento fino 20 mila corbe274. Il trasporto poteva essere effettuato per mare, facendolo transitare per il porto di Primaro, quando in Venezia il frumento non superasse il prezzo di 30 staia veneziana. La medesima disposizione valeva per il sale di Cervia. Tali rifornimenti venivano sottoposti alla sorveglianza veneziana, giacché in caso di carestia la città lagunare ostacolava la circolazione, ponendo lungo il corso del fiume, o altrove, degli uomini per controllare la quantità delle merci importate dai bolognesi. Questo trattato definiva la dipendenza di Bologna da Venezia, per quanto riguarda i rifornimenti che viaggiavano nei circuiti sotto l’influenza veneziana275.
Vasina 1965, p. 22. Torre 1964, pp. 94-95; Torre 1966, pp. 57-61. Cfr. Vasina 1986, pp. 23- 24. 270 ASBo, Giudice al disco dei procuratori, Istrumenti. Cfr. Hessel 1975, p. 260, nota 209. 271 Corpus chronicorum bononiensium, p. 181 (Cronaca Villola). Cfr. Hessel 1975, p. 261, nota 210. 272 Corpus chronicorum bononiensium, p. 181 (Cronaca Villola). 273 Franchini 1932a. Cfr. Bonacini 2005. 274 Pini 1993d, p. 526. 275 Sul conflitto fra Bologna e Venezia e il trattato a conclusione dello stesso vedi Torre 1966, pp. 60-61. 268 269
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La nuova situazione politico-commerciale creatasi a seguito della guerra con Venezia alimentò la crisi interna del governo di matrice popolare; crisi che si aprì a Forlì nel 1274 in occasione della cacciata della pars guelfa locale. I Geremei premevano per soccorrere gli alleati forlivesi, i Lambertazzi si opposero, chiedendo di dirottare il contingente su Modena. Accorsero inoltre alleati delle due fazioni: per i Geremei, dalle maggiori città del sistema guelfo-angioino, per i Lambertazzi, dalla Romagna. In un primo tempo si raggiunse una mediazione, ma i tumulti ripresero in maggio quando fu organizzata una nuova spedizione contro le città romagnole. Al termine di una battaglia lunghissima, il 2 giugno 1274 un numero elevato di Lambertazzi abbandonò Bologna, fuggendo a Faenza276. Si delineò quella nota contrapposizione interna e inter-cittadina che caratterizzò le vicende politiche, finanziarie ed economiche di Bologna nell’ultimo ventennio del secolo. La vittoria veneziana, i problemi interni che portarono all’affermazione del regime guelfo, l’intervento di Guido I da Montefeltro (ghibellino) e la politica del papato in Romagna, favorirono il decadimento di Bologna quale centro internazionale. Rimanevano i problemi di carattere economico che assillavano una città ancora popolosa e bisognosa di frequenti approvvigionamenti di beni alimentari. Il rifornimento cerealicolo continuò, perciò, a rappresentare uno dei motori principali delle strategie messe in campo dai vari soggetti politici che si susseguirono al potere. I domini bladi. Un gruppo economico al potere. La magistratura dell’Officium bladi, ai cui vertici erano i domini bladi, come si è già visto, fu creata per necessità contingenti, connesse al periodo di crisi in cui versò la città negli anni 1257-59277. L’importanza assunta da tale magistratura per la vita economica bolognese negli anni successivi si riscontra nella documentazione prodotta dagli uffici dipendenti dai domini bladi e dalle riformagioni attuate dal consiglio degli anziani e consoli in merito ai rifornimenti di frumento, alla conservazione dello stesso, alla sua vendita. La continua esigenza di intervenire sulle questioni annonarie più urgenti spingeva il governo cittadino a emanare provvedimenti di volta in volta adeguati a problemi contingenti. Si trattava di ordinanze che variavano nell’arco di un lasso di tempo breve (uno o più mesi, talvolta un anno). Perciò, le disposizioni prese dagli uffici dipendenti dai domini bladi non figuravano negli statuti del 1288, quali, per esempio, singole decisioni temporanee circa la destinazione di un determinato carico, o lo smercio ai fornai di un quantitativo di grano andato a male. Oppure, particolari utilizzi del denaro ottenuto dalla vendita del biado, che i domini bladi impiegavano per opere pubbliche urgenti, come la riparazione di un mulino, di qualche elemento della piazza del comune, o l’allargamento di una via. La magistratura stessa dei domini bladi, così come emerge dalla documentazione citata, si configura, a partire dal 1259 (anno della sua istituzione), quale segmento fondamentale del sistema di approvvigionamento Bonacini 2005, p. 207. Vedi capitoli precedenti di questa parte.
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cerealicolo bolognese nella seconda parte del Duecento, ma non soltanto. Infatti, da varie riformagioni degli anni 80-90, si rileva che si trattava di ufficiali del comune impegnati nella gestione della “cosa pubblica” nel senso più ampio del termine. Negli anni Settanta, per esempio, alle loro dipendenze erano i domini qui prehestis officio molendini comuni Bononie, i quali nel 1278 diedero 400 corbe di frumento a 400 uomini nominati per formare l’esercito; spettava a ciascuno di essi una corba di frumento come salario in ragione di 30 soldi la corba e 18 soldi al giorno278. I domini bladi, d’altronde, facevano parte dei gruppi familiari che avevano maggiore peso politico ed economico in città, i cui interessi commerciali erano tutelati dai medesimi elementi che ricoprivano le cariche più importanti in seno al governo. L’intreccio fra interessi privati e interessi pubblici divenne sempre più consistente verso la fine del secolo. Già la prima rubrica degli Ordinamenta domini bladi conteneva i membri della commissione che si costituì per redigerli, la quale risultava composta da rappresentanti delle armi e delle arti suddivisi per quartiere, fra cui figurano alcune famiglie per lo più di estrazione mercantile (Piçolpassi, Bonifaçi, Spinelli, Vinciguerra, Guicardini, Spillari, De Gargino, Zacarie, Pegolotti, Laurenti, Spinabelli, Rovisi, Casali)279. Negli statuti del 1288 le liste dei domini bladi furono composte prevalentemente da esponenti delle famiglie mercantili di parte geremea più importanti della città, quali per esempio, i Gozzadini, i Zovenzoni, i Pegolotti, i Colforati, i Foscherari, i Bianchetti280. Fra essi era menzionato anche Romeo Pepoli281, l’iniziatore della fortuna della famiglia Pepoli che con Taddeo, figlio di Romeo, portò alla nascita della prima signoria della città.282 Numerose disposizioni riguardanti l’operato dell’Officium bladi e degli altri uffici inerenti al ciclo del pane (Officium garnariorum, Officium molendinorum) sono contenute nelle provvigioni e riformagioni emanate dal comune di Bologna dal 1248 in avanti283. A parte quelle pubblicate nelle edizioni statutarie del 1245-67 (Frati) e del 1288 (Fasoli-Sella), le restanti riformagioni furono emesse di volta in volta dal “consiglio del popolo e della massa”. Le prime riformagioni pervenuteci risalgono agli anni 70-80 del Duecento; a esse seguirono le delibere conciliari del comune comprese fra i secoli XIV e XV284. Poiché il consiglio del ASBo, Soprastanti, depositari e conduttori dei dazi, Dazio delle moliture, Atti, XXIII/111, 1278. Cfr. Hessel 1975, p. 199, n. 137. L’autore precisa che l’ufficio comunale addetto a consegnare i cereali nel 1271 era quello dei domini qui presunt officio bladi; lo stesso ufficio nel 1278 si suddivise fra i presidentes officio bladi e i presidentes ad recipiendum et vendendum bladum comunis. 279 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, pp. 505-506. 280 Statuti di Bologna dell’anno 1288, II, pp. 532-533. 281 Ibid., II, p. 533. 282 Vedi Antonioli 2001; Antonioli 2004. 283 Per un inquadramento storico-istituzionale delle riformagioni vedi Tamba 1996a. 284 In particolare, le riformagioni del consiglio del popolo contengono le deliberazioni prese a scrutinio dal consiglio del popolo, dal 1288 sino al 1337, anno in cui cessarono le convocazioni del consiglio per l’affermarsi della signoria Pepoli e della conseguente perdita delle libertà comunali. 278
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popolo rappresentò per tutto il periodo considerato la massima autorità legislativa del comune, i provvedimenti contenuti in questa raccolta erano ritenuti vere e proprie leggi, nonostante si presentassero dal punto di vista formale come verbali di seduta285. Il consiglio del popolo e della massa fu l’ultimo definitivo sviluppo dei precedenti consilium parvum populi e consilium magnum populi, detto anche più semplicemente consilium populi 286. Il primo costituiva l’assemblea degli anziani e consoli e dei loro consiglieri, il secondo accoglieva i ministrali delle società d’arti e armi insieme ad altri consiglieri. Al “consiglio del popolo e della massa” si sarebbe arrivati in seguito, con l’aggiunta al consiglio precedente di alcuni sapienti di massa. L’allargamento del “consiglio del popolo” in “consiglio del popolo e della massa” sarebbe avvenuto dopo i movimenti popolari del 1256 che, come è noto, segnarono una decisiva affermazione dei gruppi popolari al potere. Ancora però questo consiglio, se pure di fatto era il principale organo deliberativo del comune, non possedeva la piena potestà legislativa. Le sue delibere, infatti, essendo il frutto dell’assemblea di una parte della cittadinanza, il populus, dovevano essere convalidate dall’approvazione dei consigli generale e speciale del comune, anche solo formalmente. Soltanto nel 1282, dopo l’emanazione degli “ordinamenti sacrati” il consiglio del popolo diventò, anche giuridicamente, la principale autorità legislativa del comune287. Da un registro dei domini bladi (1286-87) 288: introiti e spese. L’attività dei domini bladi e dell’ufficio che essi presiedevano emerge dalla ricca documentazione prodotta dal già citato Officium bladi. Le prime tracce di una rendicontazione amministrativa risalgono agli anni 1286-87, quando è attestato un primo Liber Le delibere del consiglio del popolo e della massa erano composte di due parti: la posta e il partitum o reformatio. La prima era la proposta di legge elaborata in consiglio dalle autorità di governo, cioè dal capitano del popolo o dal priore degli anziani; la seconda era la vera e propria delibera, presa dal consiglio stesso a seguito della discussione svoltasi fra i consiglieri e conclusasi con la votazione. L’atto veniva definito nel suo complesso riformagione e ciò in dipendenza della nota formula diplomatica con cui la delibera stessa veniva annunciata nel documento: «facto partito cum fabis albis et nigris …reformatum est…». Vedi Introduzione all’inventario delle riformagioni consultabile presso ASBo. 286 Fasoli 1935a; Tamba 1996a; Tamba 1996b. 287 Vedi Inventario ASBo, p. IX. 288 Si tratta del primo documento superstite prodotto dall’Officium bladi nel biennio 1286-87, conservato presso l’Archivio di Stato di Bologna, attualmente in fase di riordino. Nell’incipit della prima carta si legge: « Hec sunt expense facte per dominum Nicholaum domini Guidoctis de Borromeis depositarium dominorum Scanabichi de Romançiis, Baldoyni de Corvis, Baldoyni de Baldoynis et Boniohannis domini Lanbertini de Zovençonibus presidencium officio bladi pro comuni Bononie de denariis ad eum perventis occaxione dicti officii et de mandato dictorum dominorum ut patet in preceptis scriptis manu domini Suçi Romixii et Michaelis Bresche notarii dicto officio bladi, sub millesimo ducentesimo octuagesimo sexto, indictione quartadecima tempore domini Thebaldi de Brusatis potetestatis Bononie, et eciam in millesimo ducentesimo octuagesimo septimo, indictione quinta decimam tempore domini Ugolini de Rubeis potestatis Bononie». 285
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dominorum bladi. Si tratta del libro delle spese eseguite e degli introiti ricevuti da d. Nicholaus domini Guidoctis de Borromeis depositario dei domini bladi Scanabichus de Romançiis, Baldoynus de Corvis, Baldoynus de Baldoynis, Boniohannis d. Lanbertini de Çovençonibus, presidenti dell’Officium bladi. Questo registro contiene un insieme di dati relativi alla fine dell’anno 1286 e al primo semestre del 1287, riguardanti il rifornimento cerealicolo. Il registro si apre con i pagamenti effettuati dal depositario dei domini bladi ai conduttori in città dei cereali provenienti da altro distretto; cereali incamerati dal comune a partire dal 22 dicembre 1286 fino al 5 luglio 1287. Del pari, sono elencati i pagamenti dei salari degli addetti all’approvvigionamento cerealicolo (custodi del grano nel contado e in città; nunzi; pesatori). A questa prima registrazione seguono i quantitativi di frumento ricevuti dal depositario fra dicembre 1286 e gennaio 1287, nonché quelli direttamente acquistati dai domini bladi da gennaio a maggio 1287. Un ulteriore segmento del ciclo produttivo del pane, documentato nel Liber, è rappresentato dalla rotazione settimanale dei fornai cittadini289. Che l’intero sistema organizzativo fosse severamente controllato dai sopraddetti domini bladi lo si evince dal Liber condempnationum fraudum trascritto a seguito dell’elenco dei quantitativi di grano distribuito ai fornai. Numerosi sono i casi registrati di addetti al vettovagliamento urbano che frodavano la legge: dai vetturali, ai mugnai, ai fornai, ai tavernieri. Punizioni pecuniarie più o meno elevate (a seconda della gravità del reato) colpivano indifferentemente sia gli operatori cittadini che quelli attivi nel contado. La prima parte del Liber fornisce informazioni circa la ramificazione di una parte dei circuiti commerciali da cui proveniva il grano destinato a entrare in città, ovvero Ferrara e il suo territorio. In virtù di una serie di patti stipulati con la città estense, e dopo aver accettato la supremazia veneziana (1273), Bologna poté beneficiare di consistenti rifornimenti provenienti dalla pianura padana, nella fattispecie dal ferrarese, che costituiva uno dei “granai” del comune felsineo. I quantitativi di biado erano “vistati” e pesati presso postazioni intermedie fra Ferrara e Bologna da ufficiali del comune di Bologna, che ricoprivano la carica di capitaneus nei medesimi luoghi o in centri limitrofi. Una posta che ricorre frequentemente nel Liber è il porto di Cavagli, a est di Durazzo e di San Martino in Argine, ubicato sul fiume Quaderna Inferiore. Pare che i bolognesi se ne fossero impossessati a metà del XII secolo, nel periodo in cui fu conquistata Imola290. Dalla Chronica parva ferrarense si evince che di fronte ad Argenta si staccava un corso d’acqua dal Po di Primaro, ramificato a sua volta in due canali, uno dei quali, quello occidentale, confluiva nel vicum Cavali qui portus est, quo itur Bononiam291. Tale corso d’acqua passava per San Martino in Argine, Vedrana, Budrio volgendo in dire Al riguardo, vedi Parte III relativa al lavoro dei fornai in città. Hessel 1975, p. 45, n. 157; p. 192. 291 Riccobaldo da Ferrara 1983. Patitucci Uggeri 1981. Cfr. Hessel 1975, p. 45, n. 157. 289 290
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zione di Fiesso (nei pressi dell’attuale Castenaso). Altri due scali intermedi, dove si pesavano i quantitativi, erano Ca’ Maggiore nel comitato di Ferrara e il porto di Pegola, importante scalo ubicato sul naviglio, che collegava la pianura padana con il settore nord-ovest della città. Il grano veniva anche “vistato” nella curia di Baratino a nord est di San Martino in Argine, dove nel 1221-22 fu fondata una colonia agricola, nella fase in cui il comune promosse l’immigrazione di artigiani forestieri nel contado bolognese292. I carichi di frumento giungevano da Ferrara e dal suo territorio, talvolta anche da Argenta, a nord-est di Cavagli (in tal caso, il primo controllo era eseguito nel comitato della città stessa). I luoghi di destinazione del grano erano porta Ravennate e la piazza del comune, dove si svolgeva quotidianamente il mercato dei cereali. Non di rado, una singola derrata giungeva in città in più tornate. Il meccanismo di controllo dei carichi veniva attivato nuovamente una volta varcate le mura; il grano era vistato e pesato a porta Ravennate e nella piazza del comune. Il depositario del biado in carica (il già menzionato Nicholaus domini Guidoctis de Borromeis) sovrintendeva alle operazioni e pagava per conto del comune il dazio al conduttore, comprensivo dell’acquisto del quantitativo e dei costi di trasporto e di eventuali gabelle sulle tratte percorse fino a Bologna. Il dazio si diversificava a seconda del tipo di prodotto; nella maggioranza dei casi vi era un prezzo fisso a corba (intesa come unità di peso). Una corba di frumento costava 3 soldi; 2 soldi una corba di fave, orzo o altri cereali che non fossero frumento; 18 denari una di meliga (miglio o granaglie per animali)293. Rispetto al dazio del frumento stabilito nel 1259 (2 soldi a corba) si era verificato in più di vent’anni un rialzo del prezzo del frumento pari a 1 soldo. Era una tendenza abbastanza diffusa nelle città italiane e d’oltralpe nella seconda parte del Duecento, dovuta al ritorno, su scala europea, della coltivazione del frumento nel pieno e tardo Medioevo a scapito degli altri cereali, e al consumo del pane di frumento invece di quello a base di misture294. Nelle città francesi, a partire dal XIII secolo, il pane bianco di frumento era la base dell’alimentazione di coloro che abitavano nei centri urbani, indipendentemente dalla loro posizione economica e sociale295. Nelle città catalane, nel basso Medioevo, nei periodi non di crisi economica, il pane di frumento faceva parte della dieta delle élites e dei gruppi sociali meno abbienti296. Significativi, inoltre, erano i consumi di pane bianco registrati nella Toscana centro orientale fra Tre e Quattrocento, sia in ambito cittadino che rurale297. A fine Trecento, per Ibid., p. 189. Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, p. 672: «Saggina, maniera di biada per le bestie». Du Cange, III, p. 330: «Melica, Vox est Italica, nostris Blè, vel milium Indicum». 294 Montanari 1994a, pp. 69-71; Cortonesi 1996, pp. 265-267. 295 Desportes 1987, p. 88. 296 Riera Melis, Pérez Samper, Gras 1997, pp. 287-288, p. 295. 297 Pinto 1978, p. 41e sgg.; Pinto 1982, pp. 130-133; pp. 166-168. 292 293
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esempio, nei poderi di proprietà del monastero di Monte Oliveto situato a sud-est di Siena, il frumento costituiva la maggior parte del raccolto298. prodotto
dazio
frumento
3 soldi a corba
biado (orzo…)
2 soldi a corba
legumi (fave…)
2 soldi a corba
meliga
18 denari a corba
Dazio del biado nel 1286-87.
In alcuni casi, tuttavia, il dazio del frumento era inferiore a 3 soldi a corba, forse perché valutato dagli stessi domini bladi di qualità inferiore. Così, per esempio, il carico di 146 corbe frumento registrato il 26 marzo dal depositario dell’Officium bladi, trasportato da Boltramino di Ferrara, fu stimato 10 imperiali a corba per cattiva qualità del quantitativo. Un carico giunto sulla piazza del comune il 1 aprile della consistenza di 20 corbe di frumento fu pagato 2 soldi e 6 denari per la stessa ragione; mentre un altro di 93 corbe, arrivato a porta Ravegnana il medesimo giorno, fu prezzato 2 soldi e 9 denari a corba. I domini bladi eseguivano il controllo della qualità e stabilivano il prezzo da pagare al fornitore. Come fosse reinvestito questo frumento “meno buono” non è dato dire con esattezza; è probabile che venisse messo da parte e utilizzato in periodi di penuria di grano, oppure lo stesso comune cercasse di rivenderlo su piazza a un prezzo conveniente o, addirittura, lo orientasse verso un mercato non propriamente lecito. Di certo, in determinate circostanze, la vendita di alcuni quantitativi di qualità peggiore veniva imposta ai fornai del comune che facevano il pane venale per la città, come risulta da una serie di riformagioni degli anni Novanta del Duecento. Probabilmente, il biado “cattivo” veniva impiegato anche in transazioni economiche che non necessariamente riguardavano il mercato dei cereali. Varia era l’identità dei rifornitori di grano del comune registrati in questa fonte. In alcuni casi si trattava di persone residenti nella posta intermedia, che si incaricavano di trasportare il quantitativo fino a Bologna, come per esempio Iacobus de Gambolago, residente a Pegola ma nato a Ferrara, forse trasportatore di mestiere. Questi fu pagato il 22 dicembre 1286 11 lire e 11 soldi per aver trasportato a Bologna il 12 dicembre 77 corbe di frumento vistate e registrate nel comitato di Ferrara presso la casa di Gaçius de Lambertinis. Oppure, è il caso di dominus Riccardus di Argenta (a nord est di Cavagli), trasportatore di un carico di 49 corbe e mezzo di fave e 49 di frumento, registrate presso il porto di Cavagli e, in seguito, nella piazza del comune il 9 gennaio 1287, per un dazio corrispondente a 2 soldi, 6 denari la corba di Piccinni 1982, p. 35.
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frumento. In questo caso il prezzo del frumento era inferiore a quello abitualmente fissato (3 soldi la corba). Il trasporto del grano a Bologna da altri distretti non era gestito soltanto da singoli; spesso, infatti, si trattava di più soci che si assumevano l’onere di condurre personalmente il biado in città, svolgendo un’attività di carattere imprenditoriale. Dominus Blanchus Cosse e domina Bonacose di d. Giovanni de Corradi socio di Blanchus, per esempio, guadagnarono 95 lire il 7 maggio 1287 per aver fatto condurre da Ferrara a porta Ravennate sabato 3 maggio (e i due martedì seguenti) un carico di 596 corbe di orzo e 364 corbe di fave, per il dazio di 2 soldi a corba. Talvolta, si trattava di esponenti appartenenti a gruppi di rilievo nel contesto cittadino. Dominus Vincignete de Culforatis, in nome di Dolce de Chusano, campsor di Ferrara, provvide a far arrivare il 18 dicembre 1286 a porta Ravennate 116 corbe e mezzo di orzo, che lo stesso pesò, per le quali il depositario del comune gli versò il 22 dicembre 11 lire e 19 soldi, essendo il dazio di 2 soldi a corba di biado. La famiglia mercantile dei Colforati era ben inserita nel tessuto urbano, tanto è vero che vantava esponenti importanti nel tessuto cittadino, quale dominus Michilinus de Culforatis eletto fra i domini bladi nel 1296299. Sussistono ulteriori esempi in questo senso: dominus Ursus de Blanchittis acquistò con i propri soci 575 corbe di frumento per i domini bladi condotto a Bologna dalla città di Cavagli. Il depositario pagò il 27 febbraio 1287 a detto Ursus 413 lire, 12 soldi e 3 denari, in ragione di un dazio elevato, pari a 14 soldi e 6 denari la corba. Il quantitativo fu posto presso il magazzino del depositario per rivenderlo successivamente. Il consorzio familiare dei Blanchittis contava fra le proprie fila notai e cambiatori, ma anche appaltatori del comune per il dazio del biado. Si trattava di esponenti dell’élite economica e finanziaria bolognese che non di rado ricoprivano la carica di domini bladi, gestivano il sistema di rifornimento dal punto di vista amministrativo e giudiziario e, di fatto, figuravano fra coloro che sovvenzionavano gli acquisti all’ingrosso dei cereali. Il medesimo meccanismo di appalto del dazio del biado era già stato approntato in occasione della crisi del 1259300. Si potrebbe tracciare una lista delle famiglie o dei gruppi consortili che, dalla fine degli anni Cinquanta fino agli Ottanta e Novanta del Duecento, furono eletti negli organi di governo e ricoprirono la carica di domini bladi. Si pensi ai Foscherari, ai Gozzadini, ai Zovenzoni, ai Pegolotti, ai Colforati. Tuttavia, il comune non si avvaleva soltanto di intermediari cittadini, oppure di imprenditori esterni, ma provvedeva a rifornirsi direttamente alla fonte, qualora vi fossero accordi precisi, come è il caso degli Estensi di Ferrara. La voce di pagamento più consistente del registro, infatti, riguarda un quantitativo ingente di frumento – 6000 corbe – acquistato presso gli Esti, proveniente dal comitato della loro città, eseguito tramite i fattori Brunitus de Ferro e Paulus de Cospis, per il dazio di 14 soldi a corba, elevato quasi quanto quello comprato da Ursus de Blanchittis (14 soldi e Statuti di Bologna dell’anno 1288, II, p. 533. Vedi capitolo III di questa parte.
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6 denari la corba di frumento). Secondo l’accordo alla base di tale transazione le consegne del grano sarebbero avvenute in tre tempi (febbraio, marzo, maggio) per un totale di spesa pari a 4200 lire, che il comune avrebbe dovuto versare agli Estensi. Lo stesso registro301 contiene l’ammontare dei carichi di frumento ricevuti dal depositario dei neoeletti domini bladi, d. Thomaxinus de Ritio da parte di d. Maglolinus de Sardelli depositarius bladi al tempo di d. Iacobus de Balduinis e dei suoi soci, precedenti presidenti dell’Officium bladi. Il nuovo depositario riceveva in affidamento i quantitativi di frumento in deposito; era incaricato di registrarne l’acquisizione avvenuta e indicare dove erano stati conservati. Così, dal 21 dicembre 1286 fino al 14 gennaio 1287, il depositario incamerò 7450 corbe di frumento. Nella maggior parte dei casi il frumento era depositato sia sotto il portico del palazzo Vecchio (palazzo del Podestà), nei locali adibiti a tale scopo, sia presso la chiesa di Santo Stefano per i carichi più consistenti. Un terzo magazzino si trovava presso la casa di un privato, dominus Bitinus de Gardini. I Gardini erano un’importante famiglia di dottori in legge e giudici302, che seppe adeguarsi nel corso del Duecento al nuovo orientamento economico. In particolare, Bitinus era proprietario fondiario di varie di terre arative e a vigneto di una certa estensione, ubicate nel distretto bolognese, come è attestato nell’estimo del 129697303. Da quest’ultimo emerge un reddito consistente sui beni immobili di Bitinus, pari a 4178 lire, e un debito di 1840 lire304, segno che la sua attività, di carattere probabilmente imprenditoriale, era inserita nel circuito creditizio cittadino. I presidenti dell’Officium bladi fecero, come si accennava, alcuni acquisti direttamente da fornitori esterni a Bologna305. Il frumento comprato da altri distretti veniva incamerato e registrato dal depositario. Nel periodo intercorrente fra il 4 gennaio e il 4 marzo 1287 furono eseguite quattro consegne comprese fra le 116 e le 497 corbe di frumento. Di rilievo, come già accennato, è l’acquisto di 6000 corbe di frumento da parte di intermediari dei domini bladi presso i fattori dei marchesi d’Este. Il frumento incamerato dai domini bladi da gennaio a maggio ammontava a ASBo, Registro Officium bladi, anni 1286-1287. «Hoc est frumentum et bladum comunis Bononie receptum per dominum Thomaxinum de Ritio depositarium bladi ellectum per dominos Scanabicum de Romançiis, Balduinum de Balduinis, Balduinum de Corvis, Bonjohannem Çovençonibus, nunc bladi officio sub anno domini M CC lxxxvi et LXXXVII indictione xiiiia et xva, die sabati xxi mensis decembris». 302 Tamba 1998. 303 ASBo, Comune, Ufficio dei riformatori degli estimi, s. II, b. 28, 1296-97, Porta Ravennate, San Michele del Mercato, 1r. Ravennate 304 Ibidem. 305 ASBo, Registro Officium bladi, anni 1286-1287. «Hoc est frumentum et bladum emptum per dominos Scanabicum de Romatiis, Balduinum de Balduinis, Balduinum de Corvis et Bonçagne de Çovençonibus prexidentes offitio bladi pro comuni Bononie quod conductum fuit de alieno districtu et receptum per dominum Thomaxinum de Ritio depositarium bladi per dominos supradictos nomine et vice ipsorum dominorum ad infrascriptis personis pro ut inferius denotatum». 301
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14813 corbe. Di esso, 400 corbe sarebbero state vendute ai fornai del comune, come testimoniano le carte successive del medesimo registro306. Del restante quantitativo una parte, probabilmente, sarebbe stata riposta nei depositi e un’altra ancora, forse, rivenduta sul mercato cittadino a terzi, o utilizzata nei pagamenti del comune. data
corbe frumento
venditore frumento
4 gennaio 1287
116
d. Pax q. d. Vachitini merçarius
24 febbraio
570 e 1/2
d. Ursus de Blanchittis
3 marzo
179 e 1/2
d. Açolinus d. Saffulini
4 marzo
497
Bonacosa Guidonis
quantitativi ricevuti su più giorni fino al 20 maggio
6000
Florinus Noclerius e soci, acquistano il biado per i domini bladi da d. Paulus de Cospis e d. Brunitus de Ferro fattori dei marchesi estensi
Somma totale: frumento ricevuto da gennaio a maggio
14813 corbe di frumento
Quantitativi di frumento acquistato dai domini bladi, trasportati da un altro distretto e ricevuti dal depositario dell’Officium bladi.
Questo registro permette di delineare alcune tratte compiute dai carichi di cereali provenienti da altri territori, in particolare dal ferrarese, con i relativi scali, pesature e registrazioni. La struttura stessa del Liber quale libro contabile permette di cogliere alcune tracce del circuito di denaro e di frumento gestito dai domini bladi e dai loro sottoposti. Innanzitutto, il depositario dei domini bladi, che fungeva da tesoriere dell’ufficio medesimo, pagava i conduttori di cereali che trasportavano i carichi da fuori il distretto. Detti conduttori erano responsabili del trasporto e dell’acquisto del biado, oltre che dell’eventuale pagamento di dazi o gabelle sulle tratte compiute. Costoro si configuravano talvolta quali semplici trasportatori, ma più spesso come imprenditori e mercanti che acquistavano il grano su altre piazze per rivenderlo al comune. Da tale registro si rilevano i pagamenti in denaro, i quantitativi di grano incamerati e il prezzo (a peso), che il rappresentante dei domini bladi doveva saldare per conto del comune. A queste carte si aggiunge un altro registro o Liber (dentro al Liber principale) riguardante, per lo stesso periodo di mesi, i quantitativi di frumento che il precedente depositario consegnava al nuovo e l’indicazione del deposito di provenienza, oltre ad alcuni acquisti eseguiti direttamente mediante fornitori esterni. Segue la Vedi Parte III.
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vendita-distribuzione del frumento ai fornai del comune307, che ruotavano settimanalmente per fare il pane venale e una serie di casi giudiziari inseriti nel Liber condamnationum fraudum 308, che chiude il Liber principale. In esso non poche condanne sono indirizzate a vetturali sorpresi a trasportare carichi di cereali altrove rispetto a Bologna. Spesso si trattava di modiche quantità; per esempio, il 30 novembre 1286, Albertus Bellebene di Calcara e il suo compare furono scoperti dai custodi trasportare 2 corbe di frumento presso Calcara, contro l’ordinamento dei domini bladi. I due accusati ammisero il tentativo di frode e furono condannati a pagare 100 soldi, multa che saldarono il 16 dicembre. Il trasporto illecito di qualsiasi tipo di cereale, non soltanto di frumento, era passibile di multa; un certo Martinello fu condannato a pagare 40 soldi per essere stato sorpreso, senza licenza, con 2 corbe di segale in viaggio verso la terra di Creda. Ugolinus laborator fu costretto a versare 3 lire di multa in quanto i capitani deveti (incaricati di sorvegliare il rifornimento cerealicolo) consegnarono ai domini bladi delle lettere, in cui era evidente che detto Ugolinus aveva esportato illegalmente un moggio di cicerchia e uno di frumento da San Giovanni in Persiceto. Il sistema di controllo approntato dal comune per sorvegliare i circuiti, anche a breve raggio, di cereali e altri prodotti, non sempre funzionava come avrebbe dovuto. Al vertice di esso vi erano i capitani deveti 309, ufficiali alle dipendenze dei domini bladi designati a sovrintendere ogni genere di transazione o spostamento di persone e di merci da dentro a fuori la città e viceversa. Alle loro dipendenze erano i custodi deveti, guardiani dei depositi comunali di cereali in città e nel contado, i quali avevano il compito di segnalare ai capitani qualsiasi attività sospetta o ritenuta illecita. Non sempre però questi ufficiali erano irreprensibili. È il caso, per esempio, di Deodatus custode deveti, il quale una sera trasportò del biado a San Ruffillo, che aveva preso dalla casa di un certo Rudolfinus, residente entro le mura, presso porta Santo Stefano. Evidentemente si trattava di un trasporto illegale se detto custode fu condannato a pagare 20 soldi di multa. Altri esempi si potrebbero citare. Il sistema annonario approntato dal comune rivelava interstizi di illegalità all’interno della magistratura stessa creata per gestire il ciclo produttivo del pane ed esercitare il controllo sugli addetti al vettovagliamento urbano e dell’ospitalità. Più spesso erano ufficiali alla base gerarchica dell’Officium bladi, come i custodi deveti, ma talvolta poteva trattarsi anche di alte cariche di responsabilità, che approfittavano della loro posizione e del prestigio sociale acquisito per svolgere transazioni non consentite. Vedi Parte III. Il registro in questa seconda parte è molto deteriorato; presenta annerimenti in vari punti delle carte, buchi e parti frantumate o attaccate. Per questo non tutti i casi giudiziari sono leggibili. Il registro, come si è già rilevato, è in corso di riordino presso l’Archivio di Stato di Bologna. 309 Il termine devetum signicava interdictum, prohibitio ossia “divieto”, dunque erano ufficiali aventi il potere di vietare qualcosa a qualcuno, o agire affinché venissero proibite determinate iniziative o attività. Forcellini, II, 85. Du Cange, II, p. 88. Cfr. Sella 1937, p. 125. 307 308
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5. Le magistrature annonarie negli statuti del 1288 Contesto politico-istituzionale e modalità di composizione degli statuti. La redazione statutaria del 1288310 si inquadra in un periodo di profonde trasformazioni politiche conseguenti alla vittoria della parte filo-papale dei Geremei su quella filo-imperiale dei Lambertazzi e la cacciata di questi ultimi (1274), e conseguenti all’affermazione di Rolandino de’ Passeggeri, notaio e maestro dello Studium311, il quale favorì l’alleanza fra Geremei e popolari312. Nell’ambito del nuovo assetto politico-istituzionale, nel 1282 fu concepita, elaborata e proclamata una prima legislazione antimagnatizia (gli “ordinamenti sacrati”)313, volta a scardinare l’arbitrato e le posizioni di privilegio dei magnati. A essa furono aggiunti due anni dopo (1284) gli “ordinamenti sacratissimi”, che ebbero validità effettiva fino al 1292, ma anche oltre. Con tali ordinamenti i sapienti e i ministrali delle società di popolo cercarono, sotto la guida di Rolandino, di risolvere i disordini e gli scontri politico-sociali, agendo sul piano legislativo e all’interno delle istituzioni. Successivamente, essi mirarono a prolungare gli effetti dei loro ordinamenti, inserendoli nel libro V dei dodici libri costitutivi degli statuti comunali emanati nel 1288. Tali leggi furono strappate dal codice originario nel 1292, in occasione della reazione alla politica antimagnatizia, per essere sostituite con norme di carattere più conciliativo. La risposta popolare a questo tentativo determinò la reintroduzione del precedente corpus con aggiunte e modifiche. Furono allora raccolti definitivamente nel V libro gli ordinamenti composti fra il 1282 e il 1292314. Rispetto agli statuti del 1250, frutto di esperienze registrate nella prassi politico-istituzionale dei decenni precedenti, quelli del 1288 risultavano più sistematici e rigorosi nella suddivisione delle materie. Essi non presentavano più una netta distinzione fra comune e popolo, ma erano espressione del popolo quale unico soggetto politico. La redazione di questi statuti venne deliberata nell’aprile 1287 e le modalità per la nomina della commissione dei giuristi addetti a compilarli furono affidate al capitano del popolo e agli anziani. La commissione, quale si rileva da una riformagione del 1287, fu composta da due giurisperiti, quattro notai e quattro rappresentanti del popolo, uno per quartiere, anch’essi notai315. I dieci officiales presidentes statutis compilandis risultarono tutti tecnici del diritto, pratici e non teorici316. La direzione del lavoro fu tenuta dai Statuti dell’anno 1288. Tamba 2000; Pini 2002a, p. 20. 312 Vitale 1901. Cfr. Greci 2007, pp. 549-551; pp. 570-574. Noto è il testo poetico riguardante la lotta fra le due fazioni: Pellegrini 1891-92; 1892. 313 Fasoli 1933. Vedi inoltre Fasoli 1939. Cfr. Mucciarelli 2008. 314 Statuti del popolo di Bologna, pp. VIII-IX; Fasoli 1933, pp. 379-383; Prefazione a Statuti di Bologna dell’anno 1288, pp. XXIII-XXIV. 315 Statuti del popolo di Bologna, pp. 329-330. Cfr. Prefazione all’ed. Statuti di Bologna dell’anno 1288, pp. VII-VIII. 316 Cencetti 1940, pp. 8-9; Tamba 2012, p. 51. 310 311
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giudici (poco più tardi dottori) Giuliano Di Cambio e Bonagrazia Armani, noti e apprezzati nell’ambiente forense quali avvocati, come dimostrano i numerosi consigli dell’uno e dell’altro, registrati fra le carte giudiziarie dell’archivio. I compilatori utilizzarono le redazioni precedenti, assimilandole alle riformagioni e agli ordinamenti più recenti. Guidati da criteri sistematici, affinati dalla pratica politica e giudiziaria, essi trasposero, assemblarono e aggiornarono statuti e rubriche, finché, dopo quasi un anno e mezzo, riuscirono a presentare un codice nuovo che «faceva fare un passo in avanti alla legislazione statutaria non solo di Bologna ma della massima parte delle città italiane»317. La novità di tali statuti risiedeva nella loro struttura, costituita da dodici libri, ognuno dei quali dedicato a un tema specifico318. I legislatori del 1288 si ispiravano ai principi di autonomia del comune, ai rapporti interni fra istituzioni e gruppi sociali, evitando qualsiasi riconoscimento della sovranità papale. Questa redazione lasciava trasparire le tensioni e le contraddizioni presenti all’interno del partito guelfo nel confronto fra popolari e maggiorenti Geremei; tensioni, d’altronde, che si stavano estendendo entro e fuori la comunità cittadina. La severa normativa di ridimensionamento del potere dei magnati a tutela giudiziaria dell’elemento popolare, unitamente alla volontà di uguagliare ceti urbani e rurali, perseguita da Rolandino de’ Passeggeri, risultarono tuttavia inadeguate per ridurre discriminazioni e immunità ormai profondamente diffuse nella società bolognese. A determinate situazioni di privilegio se ne sostituirono altre, che di fatto mantennero elevata la conflittualità politica319. Cionondimeno, i legislatori concentrarono la loro attenzione su aspetti concreti della vita economica bolognese. Uno degli obiettivi principali era quello di creare (o riorganizzare) una serie di magistrature320 addette a gestire le attività produttive, commerciali e finanziarie. Particolare rilievo ricevettero le magistrature riguardanti il sistema annonario, ossia l’insieme di regole e di consuetudini volte a disciplinare l’approvvigionamento alimentare nel centro urbano e nel contado, nella fattispecie il rifornimento cerealicolo. Ancora in quegli anni, a Bologna, come altrove nell’Italia comunale, non esisteva di fatto un sistema annonario ben definito321. Nuove magistrature annonarie e politica daziaria. Gli statuti del 1288 riprendevano alcuni aspetti-chiave presenti negli Ordinamenta del 1259 e, soprattutto, ne sviluppavano altri relativi all’organizzazione del ciclo cerealicolo e al sistema daziario. Le mansioni delle categorie impegnate nel vettovagliamento urbano, alle quali si ribadì il divieto di riunirsi in associazione (già presente negli statuti precedenti)322, 319 320 321 322 317 318
Cencetti 1940, pp. 8-9. Ibid., p. 9. Vasina 2007, pp. 603-604. Frescura Nepoti 2008. Pinto 1978; Pinto 1985. Statuti di Bologna dell’anno 1288, II, p. 220.
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vennero ulteriormente precisate nel senso di una maggiore segmentazione del lavoro. Furono istituite nuove magistrature e uffici con competenze diversificate, che affiancavano i domini bladi nella gestione dell’intero ciclo cerealicolo, dal rifornimento e custodia del grano, alla sua molitura e raffinamento, al confezionamento del pane. Fra esse vi erano i domini molendinorum et garnariorum323, espressione che univa le due magistrature degli ufficiali addetti all’amministrazione dei mulini e dei granai del comune. La normativa riguardo alle funzioni di questi ufficiali era dettagliata; per esempio, si prevedevano due modalità distinte di conduzione dei mulini. Nei periodi in cui i mulini non erano affittati, ma gestiti direttamente dal comune, l’ufficio dei domini molendinorum era composto da due domini eletti dal consiglio degli ottocento e dal consiglio del popolo324, oltre a due notai e due nunzi. Quando invece i mulini erano affittati, e dunque affidati a un conduttore per un anno, l’ufficio era costituito soltanto da un dominus molendinorum e da un notaio325. Accanto alle attività connesse alla molitura del grano, anche quelle relative allo stoccaggio e alla custodia dei cereali erano regolamentate nella legislazione del 1288. I magazzini di biado, infatti, simboleggiavano il “capitale immobilizzato” del comune, che ricavava da essi una delle principali entrate del budget pubblico, oltre a derivarne una delle più sicure forme di investimento. A presiedere questo settore erano i domini garnariorum (o ad garnaria)326, come si è accennato, l’altra magistratura impegnata nel ciclo del grano. Essi erano addetti in prima persona all’accumulo del biado del comune, quando i mulini non erano locati. Allorché i mulini erano concessi in affitto, i domini ad garnaria riscuotevano la pigione in natura dai mugnai affittuari. Gli stessi domini erano coadiuvati da un notaio, tenuto a registrare in un libro le quantità pervenute, quelle vendute, nonché le elargizioni eseguite su ordine del comune327. Le magistrature economiche già attive negli anni precedenti, quali i procuratores comunis e i domini bladi furono mantenute. Ai procuratori fu ancora affidato l’incarico di procurare negotia per l’utilità del comune e del distretto. Questi ufficiali avevano il compito di stipulare i contratti di locazione dei beni comunali, gli appalti dei dazi, fra cui quelli del biado e dei mulini, oltre a recuperare i beni comunali presso terzi328. L’attività dei domini bladi, le loro competenze e incarichi, invece, non figurano “normati”. Vari nominativi sono però menzionati nelle riformagioni degli anni 90, inserite negli ordinamenti “sacrati e sacratissimi” (libro V)329 riguardo a questioni di vario genere, non necessariamente legate all’ap Ibid., I, 4821, 1132, 13925, 14028, 1417, 14124, 14135, 47630. Riguardo all’organo del consiglio del popolo a fine Duecento vedi Tamba 1996b, pp. 49-93. 325 Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, p. 48; I, p. 189; I, p. 140. Cfr. Frescura Nepoti 2008, p. 387. 326 Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, 4818, 1132, 14718, 14812, 47630. 327 Ibid., I, p. 78; I, p. 147. 149; II, p. 189. Cfr. Frescura Nepoti 2008, p. 388. 328 Statuti di Bologna dell’anno 1288, II, p. 60. 329 Registro del 1286-87 dell’Officium bladi in corso di riordino. 323 324
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provvigionamento cerealicolo. In una riformagione di fine 1296 (dei medesimi statuti), fra le fila dei domini bladi, risultano alcuni esponenti delle famiglie di parte geremea più importanti della città, quali, per esempio, i Gozzadini, i Zovenzoni, i Pegolotti, i Colforati, i Foscherari330. Costoro svolgevano anche funzioni di ordine pubblico come la ristrutturazione della piazza, la riparazione dei mulini, la manutenzione delle strade. La sorveglianza dei luoghi di mercato faceva parte dei loro incarichi. Essi dovevano rispondere a esigenze di igiene, decoro e ordine. In una riformagione del 1292 (contenuta nel libro V) si stabiliva, per esempio, che il trivio di porta Ravennate rimanesse sgombro; soltanto ai venditori di cibo era concesso tenere i cereali, o altri viveri, in sacchi posti su assi o banchi, nei pressi del discus per raccogliere la gabella bladi331. Simili disposizioni valevano per la platea communis che, attorno alla croce e per l’estensione di due pertiche, doveva rimanere libera da tende, banchi, gabbie di polli e altri animali, perché non vi fosse cattivo odore332. Interessante è notare, inoltre, che alcuni dei nominativi citati negli ordinamenti “sacrati e sacratissimi” (e altrove negli statuti del 1288) erano gli stessi che figuravano fra i domini bladi del Liber del 1286-87. Si trattava di d. Scanabichus de Romançiis333, d. Baldoynus de Corvis, notaio della società delle spade334, d. Baldoyinus de Baldoyinis335, d. Boniohannes d. Lambertini de Çovençonibus, membro degli anziani e consoli336, i quali appartenevano alle società di popolo. Soltanto Scanabicus de Romançiis era definito, assieme ai figli, “nobile” della città di Bologna. Inoltre, sempre nel libro V, erano registrati i sapientes ellecti super infrascriptis et domini bladi et alii tractatores, suddivisi nei quattro quartieri337; per esempio, Boniohannes domini Lambertini de Çovençonibus era nominato per il quartiere di porta Ravennate e Romeo Pepoli per il quartiere di San Procolo. Erano esponenti del mondo mercantile e imprenditoriale bolognese, nonché prestatori del comune. Tale rilevanza economica si tramutava spesso in cariche politiche ai vertici della pars populi al governo e all’interno delle singole società di popolo. Di fatto, la magistratura dei domini bladi risultava pienamente attiva nel 1288, quando furono emanati gli statuti, rimasti in vigore fino al 1318338, come attesta anche la documentazione prodotta dall’Officium bladi. Statuti di Bologna dell’anno 1288, II, pp. 532-533. Ibid., II, p. 566. 332 Ibid., II, p. 567. 333 Ibid., I, p. 4219; II, p. 293. 334 Ibid., I, 3726, 3786, 3972, 40027, 57730, 5789, 59926; II, p. 245. Baldoynus de Corvis fu nominato nel libro V fra gli anziani e consoli del popolo e fra notai degli stessi, oltre a risultare nella lista dei consules notariorum e fra i consoli del popolo delle società delle arti, cambio e mercanzia. 335 Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, 37316; 42229. 336 Ibid., I, 41240; II, p 303. 337 Ibid., I, 53235; 56516. 338 Prefazione all’edizione Statuti di Bologna dell’anno 1288, p. VII. 330 331
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Un elemento di novità di questi statuti rispetto alle redazioni precedenti, fu l’elaborazione di un complesso e articolato sistema daziario, in cui confluirono le norme di metà Duecento e per il quale fu istituita la magistratura dei domini de gabella339. Tale sistema di dazi e gabelle costituisce il III libro degli statuti. Già nella prima rubrica si definivano le magistrature più sopra menzionate dei domini de gabella e dei domini molendinorum et garnariorum, oltre alla figura del depositario del comune, dei notai e dei frati impiegati in detti uffici340. Il depositario o massaro del comune, che versava una securitatem di 10 mila lire, aveva il compito di custodire il denaro ricevuto e fare registrare al notaio in un apposito libro di conti le entrate e le uscite. I domini de gabella, la cui securitatem ammontava a 1000 lire, avevano il compito di sorvegliare che le gabelle venissero pagate al frate deputato al cippo della gabella e che, in seguito, i proventi di dette gabelle pervenissero integralmente al comune341. I domini molendinorum, eletti mediante provvigione del “consiglio degli ottocento e del popolo”, dovevano sostare ad tubatas (ossia sotto i loggiati o portici di proprietà del comune)342 e nei pressi dei granai, e controllare e sanzionare l’operato di mugnai, vetturali, pesatori, bollatori. Essi erano tenuti a prestare una securitatem di 500 lire, oltre a compilare un libro di conti di entrate e di spese eseguite durante il loro incarico, di cui numerosi registri figurano nella documentazione prodotta dall’Officium bladi fra fine Duecento e inizi Trecento. A parte l’istituzione di nuove magistrature, le misure daziarie del 1288 ricalcavano quelle già adottate negli anni 50-60: nessun cittadino o forestiero poteva condurre fuori dalla città o dal distretto qualsiasi genere di mercanzia343 senza aver prima ricevuto la licenza dai domini de gabella e aver pagato il datium corrispondente; altrimenti era prevista una sanzione pari a 100 soldi, nonché la perdita delle merci e del bestiame344. Si fissava, inoltre, la gabella bladi quod molitur reddenda345 per la molitura del grano. Il dazio variava a seconda della composizione del prodotto: 4 denari a corba di frumento, 2 denari a corba di mistura; 3 denari a corba, se il frumento era mescolato a fave. Simili misture di cereali e legumi per fare il pane erano presenti altrove in Italia nel tardo Medioevo. Al mercato di Orsanmichele di Firenze, per esempio, si trovavano, oltre al frumento, anche segale, orzo, spelta, miglio, fave, cicerchie, vecce; mentre non si vendevano fagioli, piselli, ceci, lenticchie, farro e avena, diffusi in altre zone d’Italia e d’Europa346. Nella Toscana Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, 1132, 1311, 13117, 13319, 13511, 1367, 13724, 1381, 13813, 46030, 47628. 340 Ibid., I, p. 113; 115-117; 149. 341 Ibid., I, pp. 115-117. 342 Statuti del comune di Bologna 1245-67, III, p. 690: «parte della casa assai elevata, rispondente forse alle odierne altane»; Sella 1937, p. 369: «specie di camere». 343 Vedi in proposito la rubrica V del libro III (Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, pp. 118-121). 344 Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, p. 117. 345 Ibid., I, p. 123. 346 Pinto 1978, p. 34 e sgg. Pinto 1982, pp. 98-99. 339
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centro-orientale, inoltre, spesso si utilizzavano le veccie e le cicerchie nella panificazione, quando il grano risultava insufficiente e si doveva ricorrere a un pane di ripiego. «A tempo di carestia, pan veccioso» ricordava un proverbio attestato sin dal XIV secolo347. La norma bolognese sul dazio della molitura è interessante, perché indicativa del genere di cereali e leguminose impiegati per fare il pane e del valore di mercato attribuito a ogni tipo di farina. Tale norma doveva essere scrupolosamente rispettata da chiunque si recasse al mulino per macinare il grano. La non osservanza della regola comportava una multa di 6 denari per ogni denaro non pagato. Se si trattava di un chierico o di un ecclesiastico, o di qualcuno che godeva di una posizione privilegiata, gli veniva revocata la protezione del comune e del popolo di Bologna. prodotto
corba di frumento
corba di mistura
corba di frumento + fave
gabella
4 denari
2 denari
3 denari
La gabella bladi negli statuti del 1288.
Alle gabelle relative alla molitura del grano, si aggiungeva la gabella molendinorum et pistrinorum comitatus Bononie348, che riguardava i conduttori dei mulini e dei pistrini349. In base a tale disposizione, nessun conduttore di mulino poteva pagare al comune meno di 3 lire, e ogni conduttore di pistrino una cifra non superiore a 40 soldi. Se un mulino o un pistrino veniva distrutto o danneggiato, colui che lo aveva in custodia era obbligato a dichiarare la gravità del danno, il periodo di tempo necessario per ricostituirlo e, verosimilmente, quando avrebbe rincominciato a macinare. Se un mulino o un pistrino veniva demolito per volere dei domini de gabella, il conduttore poteva ripristinarlo e farlo funzionare soltanto dopo aver saldato la gabella. Oltre al dazio della molitura e quello dei mulini e pistrini, gli statuti del 1288 prevedevano la gabella furmenti et farine solvenda350. Chiunque intendesse vendere frumento, biado o farina in città, nei borghi o nel comitato, era tenuto a pagare ai domini de gabella 1 bolognino piccolo (ovvero ½ di un denaro) a corba. Nella medesima rubrica si specificava che 133 libbre di farina costituivano una corba (il cui peso era compreso fra 50 e 60 kg)351. Rigide norme e gabelle onerose per le comunità del contado. Il sistema daziario approntato nel 1288 riguardava anche l’organizzazione delle terre del contado. Fu347 Pinto 1978, p. 37; Pinto 1982, p. 105. Riguardo al proverbio, esso è citato in Crescenzi, III, 23 e in Lettera di Spudeo Adiaforo, p. 39 348 Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, p. 129. 349 Riguardo a mulini e pistrini vedi Parte III. 350 Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, p. 126. 351 Ibid., I, p. 126. Cfr. Martini 1976, p. 92; Peyer 1950, p. 183.
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rono infatti impartite precise disposizioni ai massari del comitato, affinché i guadagni ottenuti dalla riscossione delle gabelle pervenissero al comune di Bologna e non fossero impiegati altrove. Si ribadiva la sottomissione del contado alla città, nonché la sua dipendenza politico-amministrativa, che si traduceva essenzialmente in imposizioni fiscali e di controllo sui traffici aventi luogo nel territorio bolognese. Innanzitutto, nella rubrica De comunibus terrarum quod hobediant dominis de gabelle et ipsorum breve 352 i massari del comitato dovevano comparire entro otto giorni dalla loro elezione davanti ai domini de gabella, dichiarare obbedienza e accordarsi con gli stessi domini circa i dazi da esigere ciascuno nella propria terra. Ogni terra doveva necessariamente eleggere un massaro, altrimenti i suoi abitanti sarebbero incorsi in una sanzione pari a 25 lire. Il massaro neoeletto aveva l’obbligo di comunicare ai domini de gabella bolognesi la consistenza degli abitanti e versare la gabella relativa: 5 soldi per le comunità con 50 fumanti, 10 per quelle con oltre 50 fumanti. Diversi gli incarichi spettanti al massaro di una curia (circoscrizione amministrativa e giudiziaria) del contado: entro un mese dalla sua elezione, era tenuto a denunciare i nuovi pistrina353 e i mulini che si trovavano sotto la sua giurisdizione. Su di essi doveva svolgere una rigida sorveglianza, affinché ciascun abitante pagasse la gabella prima di macinare il grano e non si recasse presso i mulini e i pistrini di altre curie, pena 40 soldi. La gabella sullo smercio di qualsiasi tipo di merce ammontava a un 1 denaro piccolo a libbra354. Prima della vendita, la mercanzia doveva essere sottoposta a pesatura e bollatura; per la bollatura di uno staio la tariffa era di 4 denari; per la quartarola, di 2 denari. Il massaro aveva l’onere di segnalare ai domini de gabella coloro che non pagavano entro un mese dalle avvenute transazioni. Si riconfermava nella legislazione del 1288 il ruolo essenzialmente subordinato delle terre del distretto bolognese nei confronti della città. Le gabelle riscosse nel contado dai massari costituivano un cespite di entrata consistente per il comune. Nel contesto rurale le contrattazioni, gli scambi e le compravendite avvenivano spesso nelle osterie, nelle locande e negli alberghi. Fuori dal centro abitato la locanda era in molti casi l’unico spaccio di generi alimentari per i passanti, oltre a rappresentare un luogo d’incontro della comunità, che rispondeva a molteplici esigenze: poteva fungere da macello, forno, pizzicheria, spezieria. Le taverne e le locande venivano così a configurarsi quali spazi di scambio, spesso con funzioni di mercato, in alternativa alle piazze urbane355. In questi luoghi non si vendevano soltanto pane e vino al dettaglio, ma anche carni, frutta e verdura, spezie. Il massaro, con l’aiuto dell’oste, era tenuto a sorvegliare le attività connesse Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, pp. 135-137. Vedi parte III. Battaglia, XIII, p. 578. 354 Sella 1937, p. 195: «misura di peso»; Martini 1976, p. 92: 1 libbra = 12 once (0, 361851 kg); 1 oncia = 8 ottavi o 16 ferlini (0, 030154 kg). 355 Peyer 1990, p. 237. 352 353
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al commercio, oltre a riscuotere le gabelle. Infatti, i mercanti operanti nel distretto bolognese, al pari di quelli attivi in città, dovevano dichiarare la quantità di merce immessa giornalmente sul mercato e pagare la gabella (reva)356 all’oste (hospitator), nella cui casa-ospizio (hospitium), sostavano con i loro prodotti. Tale gabella ammontava a 1 bolognino piccolo (la metà di un denaro) per ogni libbra di merce venduta. Bologna si configurava quale centro di traffici dove i mestieri dell’ospitalità svolgevano un ruolo determinante nella riscossione dei dazi del comune357. Al di fuori degli osti e degli albergatori, nessun cittadino o comitatino poteva tassare la mercanzia di terzi; una multa di 50 lire spettava al trasgressore358. Oltre le mura. Ospitalità e ristoro presso il porto del Maccagnano. Si riconfermava, dunque, negli statuti del 1288 il ruolo in un certo senso di “esattori” svolto dai mestieri dell’ospitalità. A dimostrazione della rilevanza che queste categorie avevano per il mercato al dettaglio di pane e cereali, si registrano alcune disposizioni relative agli esercizi di ristoro sorti nei pressi del porto del Maccagnano359. Esso fu costruito dal comune nel 1284 fuori porta Lame (in corrispondenza del sostegno della Bova, in prossimità delle gualchiere della Beverara) sul canale Navile360, importante via di comunicazione verso la pianura padana, che collegava Bologna con il territorio ferrarese, il Po di Primaro e il mare Adriatico361. In realtà, la città disponeva già di un porto-scalo ubicato sul canale Navile a Corticella. Infatti, negli statuti cittadini del 1262 si contemplava una serie di lavori per migliorare la navigabilità del tratto compreso fra Corticella e la città, allo scopo di far arrivare le imbarcazioni entro le mura. Sempre nel 1262 è attestato un contratto d’affitto stipulato dai procuratori con Gerardo figlio di Scoto, della durata di dieci anni per 10 soldi all’anno, riguardante la gestione di un’isola sita sul Navile a Corticella362. Questo luogo era destinato all’edificazione di «domos de pallea ad hospitandum Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, p. 134. Per il significato di reva vedi Sella 1937, p. 293. Vedi inoltre Battaglia, XV, p. 175. 357 Riguardo al ruolo di osti e albergatori nel commercio cittadino vedi, Peyer 1990. 358 Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, p. 133. 359 Frescura Nepoti 1975, p. 168; Rosa 1976, pp. 144-145. 360 Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, pp. 152-153; I, 14213, 15011, 15029, 15234, 1538, 15329, 15412, 15423, 1561. 361 Pesci, Ugolini, Venturi 1995, p. 53; Pesci, Ugolini, Venturi 2005; Costa 2011, p. 170, 181. 362 Frescura Nepoti 1975, pp. 168-169. Il contratto del 1262 si trova nei Libri contractuum (ASBo, Camera del comune, Procuratori del comune, 1.9, Libri contractum, 1262, c. 19v: «Insuleta que est in navigio Curtixelle supra ponte Curtixelle, ubi arivant naves causa faciendi et habendi ibi domos de pallea ad hospitandum et albergandum navigatores et alias personas qui vadunt et veniunt, eo modo quod non impediatur portus predictus quando naves possint bene et comode armari et accessum et introitum ac exitum ad ipsas naves haberi, a die .vi. intrante octubri preterito usque ad .x. annos proximos completos, pro pensione decem solidos bononiesium omni anno usque ad dictum terminum domino Gerardo filio quondam domini Scoti»). 356
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et albergandum navigatores et alias personas qui vadunt et veniunt»363, purché non risultassero di ostacolo alla viabilità delle navi (Fig. 2). Il porto di Corticella era dunque già funzionante negli anni Sessanta del Duecento; fungeva da scalo commerciale e punto di sosta e di ristoro per coloro che entravano o uscivano dalla città. Successivamente, il comune intese, tuttavia, trasferire il porto più vicino al centro urbano con intenti protezionistici, fiscali e di controllo dell’accesso settentrionale di merci e persone, senza peraltro trascurare gli interessi legati allo scalo di Corticella. Fu così che, probabilmente, all’inizio degli anni Ottanta del Duecento, venne costruito il porto del Maccagnano, già attivo sicuramente nel 1286, presso le gualchiere della Beverara in corrispondenza del sostegno della Bova (Fig. 3)364. Risalgono, infatti, al 13 dicembre 1286 alcune riformagioni relative al naviglio e al porto del Maccagnano, in cui si prendeva una serie di misure in merito al suo funzionamento e ai lavori necessari per migliorarne la viabilità365. Queste riformagioni confluirono sotto forma di ordinamenti nel Registro Grosso in data 1 gennaio 1287, e furono emanate per volontà del capitano del popolo Corrado da Montemagno da Pistoia366. In tali ordinamenti si definiva il transito lungo il canale Navile in prossimità del Maccagnano; vi si stabiliva che per il commercio in direzione di Ferrara occorreva transitare per detto porto. La casa fatta costruire dal comune verso il porto doveva essere data in locazione a osti, che ne facessero un hospitium dove offrire cibo e bevande agli avventori. Era vietato edificare abitazioni private entro il raggio di 25 pertiche, nelle quali si vendessero pane e vino; una multa pari a 50 lire toccava al trasgressore. Veniva così a configurarsi uno spazio destinato al ristoro controllato dal governo bolognese. Soltanto il commercio al dettaglio del pane comunale, proveniente dai fornai pubblici cittadini367 era consentito. A ribadire la sopraddetta disposizione era la precisazione – contenuta nei medesimi ordinamenti – secondo la quale nessuno doveva tenere una taverna o vendere pane o vino dalla chiesa di San Silvestro di Corticella fino al Maccagnano, altrimenti avrebbe pagato una sanzione pari a 25 lire. Quest’area portuale appena fuori le mura cittadine si configurava quale spazio adibito a servizi di accoglienza di rilevante interesse per l’esercizio del potere pubblico. Allo scopo di rendere meglio accessibile tale Ibidem. L’insieme dei sostegni creati nel tratto compreso fra il sostegno della Bova e quello di Corticella sono documentati in una mappa settecentesca prodotta dal comune. In essa sono altresì attestate le tratte di terreno che fiancheggiavano il canale, vendute nel 1287 da privati o enti religiosi al comune (ASBO, Gabella Grossa, Atlanti di mappe e stampe 10, 1785). 365 Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, pp. 149-151. 366 ASBo, Comune-Governo, Registro Grosso, II, 1287, cc. 9r-10v. Queste disposizioni sono presenti in Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, pp. 150-151. Vedi Trombetti Budriesi, Duranti 2010, n. 10. 367 Le fonti non sono chiare su questo aspetto: negli ordinamenti del 1287 e negli statuti del 1288 non si esplicita da dove provenisse il pane che l’oste doveva vendere nell’hospitium. 363 364
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area, il consiglio del popolo incaricò un esponente della famiglia dei Piantavigne, uno dei più importanti gruppi del nuovo ceto dirigente cittadino, d. Thomasinus de Plantavignis, di sovraintendere, a nome del comune, alla compravendita del terreno necessario per la costruzione della strada e dei banchi nei pressi del Navile. Inoltre, Thomasinus, coadiuvato da un certo d. Dominicus e da d. Gardinus de Pegolettis, quest’ultimo depositario del comune e ufficiale del biado368, aveva il compito di stimare i mulini ubicati su detto canale e migliorarne la funzionalità. Ulteriori disposizioni – presenti negli ordinamenti del 1287 emanati da Corrado da Montemagno da Pistoia – riguardavano l’ampliamento del ponte ligneo che si trovava fra il porto e le gualchiere del comune, per favorire il transito dei carri, del bestiame, delle persone. Si stabiliva inoltre l’allargamento della via che portava da quel ponte al mercato del comune (corrispondente probabilmente al campus fori), in aggiunta ad altri interventi sempre volti a favorire la viabilità dall’area portuale verso il comparto nord-ovest della città. Anche l’igiene e il decoro preoccupavano il comune: si disponeva, infatti, la rimozione della casa di coloro che lavoravano le viscere degli animali vicino al porto (dove probabilmente era il macello), che doveva essere edificata più lontana dal canale, in quanto il fetore risultava sgradevole per chi passava o sostava, oltre a inquinare l’acqua del canale. A d. Thomasinus de Plantavignis, assieme ad altri rappresentanti del comune, spettava la scelta dell’ufficiale che sovrintendesse ai lavori del canale e del porto, provvedesse a quanto era utile per il comune, ed esercitasse potere giudiziario su coloro che conducevano le navi verso il porto, nonché sui mercanti che viaggiavano con le loro mercanzie. Questa serie di ordinanze stabilite nel 1287 confluirono negli statuti del 1288. In essi si confermavano le iniziative attivate l’anno precedente, ovvero l’acquisto della casa nelle vicinanze del Maccagnano, affittata a bonis viris perché vi tenessero un hospitium, offrendo pane e vino agli avventori369. Si definiva, inoltre, un’area portuale, caratterizzata dalla presenza di luoghi di ristoro pubblici, gestiti da privati che si assumevano l’onere di fornire un servizio di vitto ai viaggiatori370. Nella medesima area vennero a concentrarsi varie attività di smercio dei cibi, in primis il pesce. Già negli statuti di metà Duecento si stabiliva che il pesce fresco che giungeva «ad portum» (forse, ancora quello di Corticella)371 potesse essere venduto all’ingrosso soltanto ai pescatori bolognesi. Qui avevano diritto di recarsi i mercanti forestieri che arrivavano con i carichi di pesce, risalendo il naviglio372. Tale norma fu ribadita negli statuti dei pescatori del 1253373, ma anche in quelli Statuti di Bologna dell’anno 1288, II, p. 5332. Ibid., I, p. 154. 370 Tuliani 2006, pp. 81-85. 371 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, II, libro 8, rubr. 89. Cfr. Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, pp. 153-154: «De porto non habendo in aliquo loco quam ad Machagnanum in cannali». 372 Pini 1975a, p. 333. 373 Ibidem, p. 342. 368 369
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successivi. Una molteplicità di traffici aveva luogo nei pressi del porto; per esempio, nel 1287 Giovanni castagnaro della cappella di San Benedetto di borgo Galliera dovette pagare una pena pecuniaria pari a 100 soldi (5 lire) ai domini bladi per aver organizzato il trasporto di un carico di castagne “camuffato”. Lo stesso Giovanni, infatti, affidò le castagne a un carrettiere che le trasportò al porto su un carro in quattro ceste nelle quali sopra erano disposte, in modo che si vedessero, delle pere, e sotto c’erano le castagne. Così, l’uomo dichiarò all’ufficiale della gabella che si trattava soltanto di pere. Ma la frode non riuscì, le castagne furono scoperte e Giovanni castagnaro fu punito con la sopraddetta multa in denaro, come si evince dal Liber condamnationum fraudum del 1286-87, contenuto nel Liber dei domini bladi374. La navigazione lungo il canale Navile non fu sempre agevole. Nonostante la costruzione di un nuovo porto e i continui lavori di escavazione del cavo manufatto, l’acqua non era sempre abbondante, in quanto il Navile era alimentato dal canale di Reno, la cui portata era limitata. Inoltre, il Navile era stato ricavato da uno scavo operato in terreni argillosi-sabbiosi, si riempiva facilmente di limo, rendendo la viabilità difficoltosa e spesso interrotta. Nel tratto compreso fra Corticella e Bologna, essendo in pendenza, il corso dell’acqua era difficilmente regolabile e diventava spesso causa di franamenti e rotture. Perciò furono necessari vari interventi di ripristino della funzionalità del canale. Per questi motivi i bolognesi furono costretti a ricorrere ancora al vecchio porto di Corticella che, seppure più distante dalle mura cittadine, garantiva una continuità di funzionamento375. A riprova dei problemi che la morfologia del canale creava, ancora negli statuti cittadini del 1335 si ribadiva la necessità di eseguire opere di manutenzione e riparazione della struttura del naviglio, nonché del flusso dell’acqua376. Mulini, granai, stadere in città e nel contado. Nella normativa statutaria del 1288 i domini de gabella erano coadiuvati, come si è accennato, dai domini molendinorum et garnarioum377, incaricati ogni mese di far ricalibrare le stadere, occuparsi dell’amministrazione dei mulini e dei granai, nonché della gestione dei mugnai, che lavoravano alle loro dipendenze. Questi ultimi avevano il compito macinare giorno e notte e tenere in buono stato i mulini. Qualora un mulino non fosse funzionante per colpa del mugnaio, lo stesso doveva ripararlo; il danno veniva stimato dai domini e il mugnaio era suscettibile di sanzione pecuniaria378. Presso il mulino ciascun mugnaio riponeva il biado in sacchi bollati con il sigillo degli ufficiali che 376 377 378 374 375
Si tratta del primo registro pervenutoci prodotto dall’Officium bladi. Vedi Parte II. Rosa 1976, pp. 145-146. Lo statuto del 1335, II, pp. 928-930. Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, pp. 139-140. Ibid., I, p. 140.
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gestivano le stadere, pena una multa di 100 soldi. A coloro che portavano il biado al mulino si imponeva di osservare l’ordine di arrivo per macinarlo379. La pesatura dei sacchi di grano avveniva presso le stadere del comune ubicate accanto alle tubatas del comune, site nelle vicinanze del serraglio di Borgo Galliera e di quello di Podiali e vicino al porto del Maccagnano. I quantitativi venivano registrati e bollati con la bolla dei frati di penitenza assegnati a quell’incarico. Per ogni pesatura erano presenti tre o quattro frati eletti dai loro ministrali, i quali annotavano il peso del biado all’arrivo e quello della farina successivo alla molitura. Gli stessi frati dovevano, inoltre, effettuare il controllo della farina, prima di restituirla al proprietario. Essi avevano l’incarico di trascrivere questi dati su un apposito registro, da consegnare a tempo debito ai domini dei granai (domini garnariorum)380. Se il biado ridotto in farina era inferiore al quantitativo di partenza, il mugnaio che lo aveva macinato era tenuto a ripristinare il corrispettivo in farina ed era condannato a pagare 3 denari per ogni libbra di farina sottratta al carico iniziale. Nel caso in cui il mugnaio si rifiutasse di pagare, gli ufficiali che presiedevano alle stadere dovevano denunciarlo. Almeno due mugnai dovevano stare al mulino al quale erano stati assegnati, tranne quando si riuniva l’esercito; allora potevano rimanere soltanto un mugnaio e un vetturale. I mugnai avevano l’obbligo di custodire presso i mulini e le capanne loro assegnati due vagli (vallum)381 per ogni fusolo382, uno per mondare il frumento e l’altro per le fave. Gli stessi mugnai, inoltre, erano incaricati di tirare fuori dalle capanne il biado e farlo consegnare dai vetturali al proprietario nel giorno stabilito. Nessun altro aveva l’accesso al mulino al di fuori del mugnaio, il quale riceveva la quantità di biado condotta dal vetturale assegnatogli383. I vetturali, dal canto loro, erano tenuti a portare al mulino soltanto il grano previamente bollato con la bolla degli ufficiali addetti alle stadere del comune. Il vetturale che non seguiva la procedura era sanzionato con una multa di 100 soldi e gli veniva tolto il biado. Nessun vetturale poteva trasportare al mulino (al quale era stato designato) se non il grano stabilito, pena 5 soldi a corba e 5 soldi per ogni giorno in cui non effettuava il trasporto richiesto; 5 soldi al sacco per le consegne in ritardo. Per ogni vetturale che nascondeva o sottraeva quantitativi di biado, la pena pecuniaria ammontava a 100 soldi. Tutti i vetturali dovevano portare il biado e gli introiti dei mulini presso i granai del comune e consegnarli ai domini garnariorum. Nel giorno stabilito da questi ultimi i vetturali estraevano dalle capanne dei mulini e dalle case dei mugnai la parte di biado che spettava loro e ai mugnai; a chi trasgrediva toccava una pena pecuniaria di 20 soldi, oltre a perdere il biado. Ibid., I, p. 141. Ibid., I, p. 142. 381 Sella 1937, p. 379. 382 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, p. 671: «Perno di legno che regge le macine del mulino o delle gualchiere». Cfr. Sella 1937, pp. 155-156. 383 Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, pp. 142-143. 379 380
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Era inoltre vietato a qualsiasi vetturale accettare carichi di biado portati da parte di abitanti del comitatus su cavalli, carri, asini, o sul collo, pena 100 soldi. Ciascun vetturale era tenuto a prestare una garanzia (securitatem) davanti ai procuratori del comune pari a 10 lire384. La normativa prevedeva che ogni vetturale transitasse dentro e fuori Bologna in tutta sicurezza, con i propri muli, cavalli, asini, e non potesse essere ostacolato in occasione di rappresaglie, o di multe, attribuite al comune o agli uomini della sua terra385. Che il circuito dei grani fosse controllato nelle sue varie fasi, a partire da quella del trasporto, si evince anche dalla regolamentazione dei movimenti delle merci. Era vietato portare a macinare biado fuori dal comitato bolognese, pena 25 lire e la perdita del quantitativo e delle bestie. Gli stessi cittadini e comitatini potevano esercitare una funzione di controllo sul trasporto illegale di grano, denunciando chi contravveniva alla regola e sequestrandogli il carico386. Nei centri del comitatus si prescriveva che i mugnai ricevessero il quattordicesimo (quatuordexano) del quantitativo macinato; invece, in montagna, dalla parte della strada che passava da Imola verso Modena, i mugnai potevano incamerare il sedicesimo (sexdesanum) e non di più; l’infrazione sarebbe stata punita con una multa di 40 soldi (2 lire). Ogni mugnaio del comitatus doveva essere munito di nappi, cuppiroli, quartarole da conservare nella propria capanna e mulino, calmierati e delle giuste dimensioni, bollati con la bolla del comune387. I mulini, le gualchiere, le capanne, le masserizie venivano registrati in appositi libri388. Chiunque conducesse una di queste strutture del comune era obbligato a versare il canone previsto entro il termine stabilito, oppure entro 2 giorni dalla stipula del contratto. I mulini e le gualchiere venivano concessi soltanto per un anno al conduttore; in seguito, il comune ne predisponeva l’assegnazione ad altri. Queste strutture potevano essere locate soltanto «ad affictum frumenti et non ad pecuniam vel aliam mercedem aut affictum»389. Il biado raccolto dagli affitti dei mulini cittadini o da altre possessioni del comune veniva custodito fino alle calende di maggio presso i granai del comune; non poteva essere venduto, o in qualche modo alienato, eccetto il frumento dato in offerta ai religiosi della città o del distretto per l’elemosina390. Il podestà e il capitano provvedevano a donare i quantitativi di frumento in due occasioni, una metà per la festa della Natività e l’altra metà per le calende di maggio. I domini preposti all’Officium garnariorum si impegnavano a ottemperare a dette disposizioni, eccetto il caso in cui il comune disponesse di poco biado. In tali circostanze 386 387 388 389 390 384 385
Ibid., I, pp. 143-145. Ibid., II, pp. 222-223. Ibid., I, p. 145. Ibid., I, pp. 145-146. Ibid., I, p. 146. Ibidem. Ibid., I, p. 147; II, pp. 191-194.
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venivano elargiti minori quantitativi rispetto a quelli stabiliti. Detti domini garnariorum avevano l’onere di conservare il biado e venderlo secondo il volere del comune; ai loro successori dovevano consegnare il grano rimasto, fare in modo che non marcisse né si guastasse, né si confondesse con altro biado. Entro 15 giorni dal termine del loro ufficio, essi erano tenuti a rendere conto del biado ricevuto, restituito e venduto. Trasportatori, mugnai, abburattatori. Ai margini del sistema produttivo. Le numerose prescrizioni relative alla figura dei trasportatori suggeriscono la rilevanza di questo mestiere apparentemente marginale nel ciclo del pane. La fase del trasporto da fuori entro le mura cittadine e all’interno delle stesse costituiva, infatti, un tassello fondamentale e delicato del ciclo cerealicolo. Le possibilità di frode e di furto erano elevatissime, data l’insicurezza delle strade. Fra le multe impartite agli addetti al vettovagliamento urbano, attestate nei registri dell’Officium bladi, varie erano a carico di trasportatori di frumento e di altri cereali. I trasportatori di biado (portatores bladi), del resto, vivevano in non pochi casi alle soglie della povertà, come si rileva da una serie di dichiarazioni registrate negli estimi del 1286-87. Turellus filius q. Gerardi portator furmenti ad molendina, per esempio, si dichiarava nullatenente391, mentre Iohannes q. Rodulfi qui moratur in braina S. Proculi in domo Benvenuti de Asinis diceva di essere un «pauper homo», che viveva esclusivamente del «labore suo id est quia portator frumenti»392. Un’altra figura importante nel ciclo del pane, già presente nei precedenti statuti, era quella dell’abburattatore o setacciatore (abburattator). La tariffa per questa mansione era di 2 denari piccoli a corba; colui che esigeva di più, pagava una multa di 10 soldi393. Non si trattava di un mestiere molto remunerato, come si evince dagli estimi di qualche abburattatore bolognese del 1296-97, i cui redditi dichiarati sui beni immobili erano pari a 6 o, tutt’al più, a 10 lire394. La condizione dei mugnai era migliore di quella dei trasportatori e degli abburattatori. Come si rileva dagli estimi del 1296-97, su 15 mulinarii soltanto due erano nullatenenti; anche se la media del reddito corrispondeva a 33 lire circa, si contavano punte oltre le 100 lire. È il caso, per esempio, di Thomas Ughipti residente nel quartiere di porta Stiera, il quale aveva denunciato 117 lire di reddito e 28 lire di debiti. Fra i suoi beni vi era un hedificium, qualche animale e la proprietà di metà di un ronçinus, sorta di roncone, uno strumento adunco da taglio395 del valore di 9 ASBo, Comune, Ufficio dei riformatori degli estimi, s. II, b. 18, 1296-97, Porta Procola, S. Mamolo, 194r. 392 ASBo, Comune, Ufficio dei riformatori degli estimi, s. II, b. 22, 1296-97, Porta Procola, S. Procolo, 213r. 393 Statuti di Bologna dell’anno 1288, II, p. 213. 394 ASBo, Comune, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 5a, 1296-97, Porta Piera, S. Maria della Mascarella, 198r; ASBo, Comune, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 44, 129697, Porta Stiera, S. Maria Maggiore, 613r. 395 Sella 1937, p. 297. 391
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lire (la seconda metà apparteneva a un altro mugnaio). Thomas aveva però contratto vari debiti, in parte legati all’attività del mulino; doveva corrispondere a dominus Petrus e a suo fratello Sandrus 46 corbe di frumento per l’affitto dell’anno passato di un mulino di detto Pietro, sito nella terra di Maçolino. Per l’affitto del medesimo mulino nell’anno corrente Thomas doveva ai proprietari 45 corbe di frumento, oltre al pagamento della gabella per l’utilizzo della struttura, pari a 5 lire 16 soldi e 8 denari, in ragione di 10 lire ogni 6 mesi. Per l’affitto annuale di quel mulino e di qualche prato era tenuto a versare per i prossimi 6 anni 120 corbe di frumento, come da instrumentum notarile, regolarmente stipulato fra lo stesso e i proprietari396. Trasportatori, abburattatori, mugnai: si trattava di operatori che, pur essendo fondamentali nel sistema produttivo della città, non ebbero possibilità, nel Due-Trecento, di incidere sulla vita politica, sociale ed economica della città, a causa del divieto di riunirsi in associazione, abolito soltanto ai primi del Quattrocento. Erano categorie costrette ai margini della società, ma tutt’altro che marginali. 6. La crisi di fine Duecento Difficoltà economiche e instabilità politica. Gli ultimi decenni del Duecento rappresentarono per il comune di Bologna un periodo difficile sotto molteplici aspetti – dalla politica interna a quella estera, alla crisi finanziaria ed economica – che influirono negativamente sulla fama di città “grassa” e “dotta”, contribuendo a favorire il principiarsi di quel declino che la caratterizzò nel secolo seguente. Nel Trecento, infatti, Bologna perse quel respiro internazionale, derivato soprattutto dall’attività dello Studium e dall’industria dell’ospitalità che vi si creò attorno, da cui i traffici e i commerci avevano tratto notevoli benefici. Il susseguirsi dei conflitti esterni costrinse il comune bolognese ad affrontare spese belliche sempre più ingenti, che misero a dura prova le finanze del governo. L’aggravarsi dei problemi finanziari, a causa del crescente squilibrio fra le entrate fiscali e le ingenti spese per le opere pubbliche, le imprese militari, gli acquisti di grano, il mantenimento delle magistrature amministrative, economiche e giudiziarie, avevano contribuito ad aumentare il debito pubblico. Bologna stava piegando a uno status di oligarchia ristretta a poche famiglie o consorterie potenti, dalle cui fila provenivano i domini bladi, che costituivano l’élite finanziaria ed economica bolognese. Allo scopo di sostenere un bilancio sempre più deficitario, il comune fu costretto a riprendere sistematicamente quella politica di rilevamento fiscale nei confronti dei cittadini e dei comitatini avviata nel 1235. Si provvide perciò con l’aggiornamento periodico per quartiere degli estimi nel 12961297, continuando nel 1308 e in seguito, con ulteriori prelievi fiscali nel corso del Trecento. 396 ASBo, Comune, Ufficio dei riformatori degli estimi, s. II, b. 34, 1296-97, Porta Stiera, S. Benedetto del Borgo di Galliera, 164r.
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Strategie cerealicole ed esiti della politica estera. Le strategie di rifornimento dei cereali che il comune bolognese adottò negli ultimi anni del Duecento furono influenzate dall’intrecciarsi delle vicende esterne in cui la città si trovò coinvolta. A causa delle difficoltà sorte in Romagna, Bologna non seppe reagire contro l’espansione degli Este negli anni Ottanta e Novanta; respinse, infatti, con difficoltà fra il 1293 e il 1303 gli attacchi di Azzo VIII d’Este, signore di Ferrara, la cui arma più efficace fu il blocco delle esportazioni dei cereali fuori Ferrara. Nel 1295 il transito di biado fu vietato e di nuovo nel 1299 e nel 1301397. Non risultano, in effetti, nei registri delll’Officium bladi di questi anni quantitativi di cereali provenienti dal Ferrarese. Il comune bolognese dovette inoltre affrontare situazioni problematiche create dalla presenza del governo papale in Romagna, che rivendicò il controllo sul commercio del biado, decretando l’interdizione di esportare cereali. Tali misure risultarono particolarmente gravose per Bologna. Nell’autunno 1291 gli anziani e consoli decisero di inviare un’ambasciata al conte di Romagna e al marchese di Ancona, per ottenere il permesso di trasportare grano e di transitare senza dazi, attraverso il territorio romagnolo. Tuttavia, allorché Bologna intraprese un attacco contro gli estrinseci, la fazione esiliata installata nel territorio di Imola, il conte di Romagna gli oppose un’interdizione che impediva qualsiasi negoziazione. Nella primavera del 1292 si presentò una circostanza favorevole per Bologna, perché il conte fu scacciato dalla sua residenza di Forlì; Ravenna, Faenza, Cesena e Bertinoro si legarono contro di lui. Bologna approfittò di questa situazione per proporre al conte un trattato che prevedeva il libero passaggio di tutti i viveri (eccetto il sale) attraverso la Romagna verso Bologna. Secondo tale progetto si accordava a Bologna l’esclusività dell’insieme delle forniture da Medicina. Precedentemente, i proprietari bolognesi di unità fondiarie ubicate nel territorio di Medicina avevano domandato al conte l’autorizzazione di esportare i loro raccolti di cereali dove volessero, ma Bologna aveva condannato coloro che trasportavano, senza permesso, quantitativi di cereali altrove che a Bologna. Nel giugno 1292 il conte diede il suo accordo per lettera al governo bolognese in favore dell’esclusività delle forniture, al pari dell’annullamento del divieto di esportare le vettovaglie liberamente dalle terre di Medicina e da altre terre della Romagna o, attraverso le stesse, in altri territori. Tali concessioni non significarono molto, data la debolezza della dominazione papale in Romagna. Bologna stessa non godeva più di una posizione privilegiata in Romagna; infatti, nel 1298 fu costretta a domandare ai Polenta di Ravenna e di Rimini l’autorizzazione di passaggio per i propri cereali. Nel 1299 Ravenna vietò delle consegne dalla Puglia e nel 1304 Faenza s’impadronì di un’ingente quantità di biado transitante sul suo territorio, perché tali esportazioni risultavano contro il suo statuto. Nel 1310, all’epoca della guerra fra Venezia e la Chiesa per assicurarsi il dominio su Ferrara, si temette a Bologna per la sicurezza dei trasporti di grandi Peyer 1950, pp. 80-81.
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quantità di biado comprati a Ravenna, oltre a una possibile confisca dei veneziani. Nel 1313 Bagnacavallo e Imola bloccarono le esportazioni di biado398. Anche le città toscane rappresentavano una concorrenza pericolosa per Bologna nell’acquisto dei cereali in Romagna. Nel 1285 si stabilì a Firenze di distruggere un castello nella valle del Lamone, per facilitare la via d’accesso principale del biado proveniente dalla Romagna. Nel 1291 si fece arrivare a Guido da Polenta a Ravenna una somma di denaro, perché agevolasse le consegne cerealicole provenienti dalla Romagna in direzione di Firenze. Nel 1302 in una decisione del consiglio di Bologna fu menzionato il nome di un commerciante che esportava biado dalla Romagna verso Firenze. Quando Pistoia nel 1303 domandò l’autorizzazione di poter fare uscire quantitativi di cereali senza pagar dazio, attraversando il territorio di Bologna, quest’ultima impose la condizione seguente: il biado non doveva provenire né da Faenza, né da Imola e il convoglio doveva essere sorvegliato da religiosi designati a questo incarico. Nel 1304 Pistoia fece una nuova domanda, aggiungendo che i cereali venivano scaricati a Cervia o in altri porti dell’Adriatico per essere direttamente trasportati a Pistoia. Bologna acconsentì a condizione che il trasporto fosse provvisto di licenza di transito con il nome del proprietario, la quantità, la provenienza e il luogo di consegna399. Le relazioni fra Bologna e Venezia, invece, si assestarono su un rapporto di dipendenza commerciale. Dopo la sconfitta del 1270-73 Bologna incominciò a chiedere rifornimenti alla città lagunare. Fu così che nel 1282, 87, 98, 1302 e 1303, Bologna domandò a Venezia di approvvigionarla in cereali. Nel 1302 Venezia accordò 1500 stai d’orzo presi dai propri depositi, che Bologna si impegnò a rimborsare con una quantità di frumento equivalente, derivante da un carico bolognese atteso dalla Sardegna400. Non si conoscono accordi a lungo termine con le città delle Marche o i signori del sud d’Italia. Tuttavia, Bologna acquistava spesso quantitativi di cereali in Puglia, mentre le Marche svolgevano soltanto un ruolo di regione di transito. Intorno agli anni Sessanta, le consegne di cereali provenienti dalla Puglia erano frequenti e, a giudicare dalla politica di Bologna nei confronti delle città costiere romagnole, doveva essere così da tempo. Nel 1270, 1299 e 1302 Bologna acquistò cereali in questo modo, anche tramite intermediari; per esempio, nel 1302, la società commerciale Fiorentina della Scala si impegnò a consegnarle 20.000 corbe di segale arrivate d’oltre mare401. Talvolta, le transazioni commerciali non andavano a buon fine e poteva capitare che determinati quantitativi di cereali non giungessero a destinazione. Nella primavera del 1311 Ancona bloccò importanti trasporti dalla Puglia in direzione di Bologna. La crisi granaria causata dalla mancata consegna di questo biado fu una delle ragioni alla base della rivolta bolognese del 29 aprile 1311, riportata dalle cronache del periodo: «Item dicto anno frumentum et omnia comestibilia cara fuerunt Bo 400 401 398 399
Peyer 1950, pp. 89-90. Ibid., pp. 90-91. Ibid., p. 91. Ibid., p. 92.
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nonie, preterquam olei et lupini, et valebat corbes frumenti XXX solidos et ultra; et quia non poterat haberi de frumento, rumor fuit in platea et in tribio di porte Ravenatis»402. La scarsità di cereali sul mercato e il notevole rialzo del prezzo del frumento disponibile, ben 30 soldi (e oltre) a corba di frumento, gettò nella disperazione i bolognesi. Di qui scaturì la rivolta («rumor fuit») nella piazza del comune e presso il trivio di porta Ravennate. Una penuria di cibo e, soprattutto di pane, che dovette costituire un serio problema per una città universitaria quale Bologna. Come ricordava nel XIV secolo uno studente di Oxford venuto a studiare Bologna: «Senza mangiare e bere le arti deperiscono»403. I disordini sociali sorti in tale circostanza suscitarono grande preoccupazione nell’autorità cittadina, che si ritrovò a dover sopperire a un grave problema di approvvigionamento e costretta a sedare il malcontento popolare in una congiuntura economica difficile. A motivazioni politiche si intrecciavano eventi climatici non propriamente favorevoli già da qualche tempo; nel 1291, per esempio, vi fu una grande tempesta di grandine che distrusse il biado e l’uva nella montagna della valle del Reno404. Il 1294 fu teatro di una pesante carestia e un grande diluvio405; Orso Bianchetti, uno dei savi del consiglio dei duemila, fece condurre 4 mila corbe di frumento per beneficio pubblico e lo diede ai poveri per 5 soldi la corba; come ricompensa gli fu concesso dal comune di potersi servire dell’acqua pubblica per i propri mulini406. Invece, il 1295 è ricordato nelle cronache come un anno di fertilità e abbondanza di vino e frumento. Per certuni la corba di frumento valeva 6 soldi e il vino 7407, mentre secondo altre fonti, «la corba del formento se havea per soldi sei e del vino per soldi cinque e quatro»408. Di nuovo, l’anno 1300 è annoverato fra i periodi di penuria di cereali nel bolognese409. La rivolta del 1311, dunque, si inseriva in un periodo già marcatamente segnato da difficoltà di approvvigionamento frumentario, aggravate da fenomeni climatici che potevano ostacolare o addirittura compromettere l’andamento dei raccolti. Le motivazioni che indussero la città di Ancona a bloccare la nave non sono chiare; sicuramente, la necessità di biado, la posizione ghibellina (opposta a Bologna), nonché le buone relazioni in quel periodo fra Ancona e Venezia, concorsero a svolgere un ruolo determinante nella scelta di bloccare il carico di frumento verso la città felsinea. Questa vicenda rivela fino a che punto, dopo la perdita dell’ascendente sulla Romagna, Bologna dipese, per l’approvvigionamento cerealicolo, anche dal sud Italia, e dalla potenza lagunare, dominatrice dell’Adriatico. Corpus chronicorum bononiensium, p. 317. Cfr. Braidi 2008, p. 251, p. 261. Fletcher, Upton 1993, p. 221. Cfr. Montanari 2004a, p. 11. 404 De Griffonibus, p 25. 405 Corpus chronicorum bononiensium, p. 240 (Cronaca Villola): «Item eo ano fuit magnum diluvium aquarum». 406 Predieri 1855, p. 58. 407 De Griffonibus, p. 26. 408 Corpus chronicorum bononiensium, p. 245 (Cronaca A). 409 Predieri 1855, p. 55. 402 403
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Negli ultimi decenni del Duecento Bologna non traeva rifornimenti soltanto da Ferrara, dalla Puglia, da Venezia o in Romagna, ma ovunque fosse possibile. Occasionalmente, giungevano dalla Lombardia quantità considerevoli di grano; nel 1292-93 un commerciante, a nome del comune di Bologna, vi acquistò 103.000 corbe. Nel 1301 un funzionario del comune si recò nei territori di Verona e Mantova per acquistare biado; nel 1302 degli emissari con gli stessi fini si volsero verso Padova. Frequenti erano i premi per coloro che si incaricavano dell’importazione di cereali; premi che ammontavano, generalmente, a 3-6 soldi a staio410. Una strategia che si riscontra anche in altri comuni italiani. A Firenze, per esempio, nel 1329, annata di grave crisi economica, gli ufficiali del Biado, impiegarono il premio di importazione quale misura efficace per favorire l’afflusso di grano in città411. A Bologna, il comune pose delle limitazioni circa il premio d’importazione; non tutti potevano goderne. Si stabilì, per esempio, che nessun compenso spettasse ai proprietari bolognesi di terreni posti in zone sotto la dominazione di altre potenze. Un’ulteriore misura invalsa nell’uso, destinata a incoraggiare le importazioni, consisteva nell’esentare temporaneamente i rivenditori di derrate alimentari dal pagare i dazi nelle tratte di percorrenza verso la città. Nondimeno, alla fine del XIII secolo bisognava pagare la gabella e il dazio di entrata, segno della difficile situazione finanziaria in cui versava Bologna in quel periodo. Misure annonarie nelle riformagioni del consiglio del popolo412. Sin dagli anni Ottanta del Duecento quattro domini bladi furono eletti ogni anno (o 6 mesi) per occuparsi dell’approvvigionamento dei cereali, dei premi sull’importazione e degli acquisti al di fuori del distretto bolognese. Essi gestivano la vendita dei cereali del comune e, grazie a numerosi ufficiali alle loro dipendenze, sorvegliavano il mercato del grano. Il 22 agosto 1295 il consiglio del popolo e della massa ribadì una riformagione, già in vigore il 7 marzo dello stesso anno sotto il capitano del popolo Miletus de Griffis, secondo la quale nessun abitante della città o del comitato di Bologna poteva smerciare frumento sul mercato urbano, a meno che non si trattasse del frumento del comune. Tale disposizione sarebbe rimasta valida finché non fosse stato venduto tutto il frumento del comune, fino a quantificare la somma di 5.000 lire da utilizzare per pagare gli ufficiali, le guardie e altri funzionari pubblici. Si stabilì, inoltre di dare ai conduttori del dazio di piazza Maggiore per la durata di questo periodo 140 lire, mentre a quelli di porta Ravegnana, 80 lire413. I funzionari addetti ai granai e ai mulini costituivano una magistratura dotata di una certa autonomia negli anni Novanta; nel 1296, per esempio, furono incaricati dell’approvvigionamento dei cittadini e di occuparsi delle guarnigioni Peyer 1950, pp. 93-94. Pinto 1978, p. 113. 412 Tamba 2009. 413 ASBo, Comune Governo, Riformagioni e Provvigioni del consiglio del popolo e della massa, n. 140, 1295, c. 243r. 410 411
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di Bologna. Durante l’anno di guerra 1297 contro gli Este occorreva predisporre tutte le installazioni delle fortificazioni. Le società d’arti reclamarono che fossero scelte persone particolarmente adatte a tale incarico; fra essi vi era Romeo Pepoli. I funzionari addetti ai grani, i loro notai e collaboratori erano dispensati dal servizio militare. Quando, nell’autunno 1297, il podestà condusse un’ambasceria a Roma, essi formarono un governo di sostituzione per qualche mese con altri funzionari. Tale accumulo di responsabilità dovette essere soppresso negli anni seguenti, perché nel 1302 un officium munitionis castrorum apparve a fianco dei responsabili dei cereali. Nel 1307, in un periodo di continui combattimenti in Romagna, si affidarono i poteri decisionali in materia annonaria al bargello, l’ufficiale comunale responsabile della sicurezza e del reperimento di coloro che erano stati banditi. Al termine dell’anno, detto bargello fu sostituito nella gestione dei cereali da un collegio di 12 persone, aventi le stesse competenze. Si tratta soltanto di alcuni dei provvedimenti registrati nelle riformagioni degli anni Novanta. Provvedimenti che mettono in evidenza il carattere del tutto arbitrario delle decisioni assunte dal consiglio del popolo e della massa riguardo al rifornimento cerealicolo, affidato spesso a qualche elemento di spicco del momento. Le lotte interne ed esterne, i problemi finanziari e di approvvigionamento cerealicolo, pare avessero completamente “polverizzato” le funzioni delle magistrature create con gli statuti del 1288. Esperti sapienti in materia annonaria erano designati secondo modalità che variavano spesso in base alla situazione contingente. Talvolta erano dieci, talaltra due assegnati a ogni quartiere, o ancora, uno per corporazione. Il consiglio del popolo adottava le proposte approvate a larga maggioranza414; in alcuni casi si consultavano le societates artium et armorum. Così, nel 1292 il consilium populi decise di domandare il parere delle società di popolo sulla vendita di una grande quantità di cereali del comune. Nonostante la frammentazione di funzioni che caratterizzò gli uffici connessi al rifornimento dei cereali, ancora negli anni Novanta, emergeva la preminenza in termini di potere decisionale e operativo dei domini bladi. Nel 1292 essi ottennero la facoltà di pagare dei premi d’importazione e i salari degli ufficiali impiegati ai loro ordini; ricevettero il benestare dal consiglio del popolo e della massa per acquistare dei cereali da fuori il distretto e, a questo fine, fecero inviare degli ambasciatori415. Sempre nello stesso anno i domini bladi ricevettero l’autorizzazione di punire i fornai, i venditori di cereali o di farina416. Il controllo del mercato del grano provocava non pochi problemi; per esempio, il provvedimento assunto dai domini bladi nel 1293, i quali proibirono la vendita privata per quattro settimane al fine di smerciare in priorità i cereali del comune, ASBo, Comune-Governo, Riformagioni del consiglio del popolo, vol. I bis X (1273-1313); vol. I, 1290, VII, 27; X, 6; vol. II, 1292, IV, 14: vol. V, 1301, X, 20; vol. IX, 1310, VIII, 6. 415 ASBo, Comune-Governo, Riformagioni del consiglio del popolo, n. 135, II/4, 1292, c. 167r. 416 ASBo, Comune-Governo, Riformagioni del consiglio del popolo, Iv. 135, II/4, 1292, c. 197v-198r. 414
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suscitò la protesta di coloro che intendevano immettere sul mercato i propri quantitativi. È il caso di Petrus de Granarolo che, in possesso di una consegna di cereali acquistata al mercato, esigeva riparazione dal comune417. I domini bladi erano, inoltre, impegnati in attività di altro genere, relative per esempio alla manutenzione dei luoghi della piazza, fra cui la sorveglianza dell’acqua, che doveva scorrere verso la piazza del mercato, come è attestato in una riformagione dell’anno 1300418. Sempre nello stesso anno essi ottennero liberum arbitrium nei confronti di coloro che agivano contro gli statuti419. Per determinate decisioni essi furono affiancati da altre cariche di rilievo. Nel 1301, nel 1302 e 1312 il consiglio fu confrontato a una “cedola”, ossia una richiesta formalmente presentata e valida di fronte alla legge, di alcune società che reclamavano la possibilità di acquistare cereali. In tal caso, il consiglio del popolo e della massa affiancò ai domini bladi il capitano del popolo per gestire e risolvere l’intera questione420. Il comune bolognese continuò negli anni Novanta del Duecento a mettere in opera le strategie economiche che aveva approntato a partire dagli anni Cinquanta; per esempio, proseguì nell’elargizione di frumento alle confraternite religiose, come prevedevano gli statuti del 45-67 e quelli dell’88. Sono registrate in un libro di conti prodotto dall’Officium bladi del 1291 le donazioni di quantitativi, eseguite in due tempi dai depositari dell’ufficio dei granai (prepositis officio granariorum), a favore di vari enti religiosi421. Nel budget riguardante il frumento incamerato dal comune rientrava infatti anche la voce delle donazioni agli enti religiosi, perché ne facessero un uso proprio e distribuissero pane e farina ai poveri. Era una pratica diffusa nel Due-Trecento nelle città italiane. A Prato, per esempio, è attestata nel XIV secolo l’attività di distribuzione di pane e farina del Ceppo Vecchio dei Poveri, ente fondato nel 1282 nel quadro delle confraternite laicali, sorte grazie alla predicazione francescana422. Il registro dell’Officium bladi del 1291 attesta l’annotazione dei quantitativi di frumento elargiti agli enti religiosi soltanto per i giorni 3 maggio, 4 maggio, 5 Peyer 1950, p. 155, n. 16 (Le riformagioni conservate presso l’Archivio di Stato di Bologna sono indicate con segnatura non rintracciabile). 418 Ibidem. 419 Ibidem. 420 Ibid., p. 151. 421 Registro dell’Officium bladi, anno 1291. Si legge nell’incipit della prima carta: «In Christi nomine amen. Hoc est frumentum et soluciones facte de frumento comunis Bononie dato et soluto infrascriptis religionibus et piis locis sive ipsorum syndicis per dominos Arinerium domini Riçoli et Francischum quondam Iohannis de Cento dominos prepositos officio garnariorum comunis Bononie pro dimidia huius quod infrascripte religiones anuatim pro ellimosinis recepere debent a comuni Bononie ad duos terminos secundum formam statuti [...] et formam precepti domini Antonii de Fusiraga presentis potestatis Bononie scripti manum Aymerici Codecasa notarii dicti domini potestatis et Bolitte ancianorum et consulum populi Bononie, scripte manu Gerardi Ferarii notarii dictorum ancianorum et consulum sub annis domini millesimo ducentesimo nonagesimo primo, indicione quarta, ut inferius continetur». 422 Pinelli 2013. 417
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maggio, 11 giugno; il “sindaco e procuratore” risultava essere l’intermediario fra il comune e l’ente religioso. Per il giorno 11 giugno, nella fattispecie, le informazioni registrate sono parzialmente diverse. I domini dell’ufficio dei granai diedero a dominus Albertus Belintendi, syndicus et procurator dei canonici della chiesa bolognese di San Pietro Maggiore, un quantitativo di grano in restituzione di una parte del frumento proveniente dai mulini, che detto capitolo possedeva sul Ramus Reni. Sempre nel 1291 i domini bladi ricevettero dai domini dei granai 2000 corbe di frumento che incominciava a guastarsi. Altre 1250 corbe di frumento furono affidate agli ufficiali dell’Officium bladi, per darle ai fornai, oltre a 960 corbe di mistura. Ancora, i preposti all’ufficio dei granai consegnarono agli ufficiali dell’Officium bladi 3500 corbe di frumento conservato presso di loro. Verosimilmente nel 1292 (il registro non reca la data esatta) i preposti all’Officium dei granai (dominus Rainerius e dominus Francischus) vendettero 203 corbe di frumento ad minutum in platea comunis per il dazio di 18 soldi a corba. Il denaro percepito dalla vendita di detto frumento fu trasferito a frater Bellettus de Tonsis, massaro e depositario del comune, secondo il mandato del capitano del popolo scritto per mano di Manfredotto de Burellis, notaio degli anziani e consoli. Successivamente, i preposti all’ufficio dei granai Rainerius e Francischus vendettero 33 corbe di mistura del comune ad minutum in platea comunis, in ragione di 10 soldi a corba. Sempre a frater Bellettus de Tonsis essi consegnarono il denaro ottenuto dalla vendita di detta mistura, tolte 4 lire e 12 denari spesi per il trasporto, e tolti i pagamenti in favore degli agrimensori, nonché le scritture relative alle operazioni di pesatura e vendita. Nel mese di giugno del 1292 il frate Bellettus de Tonsis ricevette da d. Arinerio di d. Riçoli e d. Francischus quondam d. Johannis de Cento officialibus olim comunis Bononie ad garnaria comunis Bononie 195 lire e 15 soldi, il guadagno derivato dal frumento e dalla mistura da essi venduti nella piazza del comune423. In un altro un registro dell’Officium bladi di fine Duecento si riscontrano i patti degli addetti al vettovagliamento dei beni alimentari in città e fuori, ossia portatores e victurales424. Iacobus Albertini portator della cappella di Santa Caterina di Saragozza promise di non trasportare biado da una casa a un’altra, oppure dalla piazza del comune o dal trivio di porta Ravegnana presso la casa di un privato, se non una corba di biado alla volta per la molitura. Promise, inoltre, di non trasferire biado presso la dimora di chi comprava biado senza la licenza di detti domini. A questa prima dichiarazione di Seguono nel medesimo registro le spese fatte da dominus Arinerius de Riçoli e Francischus q. domini Iohannis de Cento prepositi officio garnariorum olim per comuni Bononie, relative ai trasportatori, ai misuratori, ai custodi, secondo la riformagione e provvigione redatta da Manfredotto de Burellis notaio degli anziani e consoli. Per i vetturali che trasportarono il biado nella piazza del comune, per i misuratori e i custodi le spese sostenute dai preposti furono: 56 soldi per una quantità di 203 corbe di frumento e 33 corbe di mistura. Inoltre, a Manfredotto de Burellis spettarono come compenso 25 soldi. 424 Registro di fine Duecento prodotto dall’Officium bladi. L’incipit è il seguente: «In hac parte libri continetur securitatem portatorum et victuralium». 423
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securitatem segue una lista di portatori che si impegnavano a rispettare le condizioni di lavoro secondo il medesimo formulario, quasi sempre in coppia, di cui l’uno fungeva da fideiussore dell’altro. Il 27 gennaio (non è dato dire l’anno) 86 portatores diedero garanzia; il 28 gennaio fu la volta di altri 12 portatores. Oltre a queste securitates vi sono il 27 gennaio quelle di 30 victurales e il 18 marzo le securitates victuralium comitatus; 4 vetturali del mulino di Santa Cecilia di Corvara, per esempio, garantirono di condurre il biado presso detto mulino e riportare la farina al luogo da dove era stato preso. Ogni vetturale aveva un fideiussore. Anche i custodi, suddivisi per porta425, eletti da detti domini, fornivano le loro securitates (garantite dalla presenza di un fideiussore): il 18 febbraio Nicholaus Adigheni della cappella di San Paolo, il primo fra essi, custode della porta di San Manio si impegnò a stare continuamente presso detta porta e vietare di portare fuori dalla cerchia il biado senza permesso. Se i frequenti e ripetuti patti fra i domini bladi e gli addetti dell’approvvigionamento cerealicolo rappresentavano l’inquadramento amministrativo di una prassi lavorativa in atto da decenni, altrettanto numerose erano in quel periodo le multe nei confronti di coloro che commettevano una qualche infrazione. Si rileva, infatti, dalla documentazione dell’Officium bladi, come si è già notato, una molteplicità di casi giudiziari di piccola entità, inerenti alle questioni annonarie. Era un universo di commerci e di traffici che si svolgeva, probabilmente, ai confini della legalità; talvolta veniva tollerato, talaltra era punito mediante l’inflizione di severe pene pecuniarie. Questo aspetto del commercio dei beni di prima necessità – ossia il carattere “formale” (lecito) e “informale” (illecito) delle transazioni economiche a breve e medio raggio – ebbe notevole influenza sull’andamento della politica annonaria cittadina nel Duecento. Tale dato emerge proprio dalla rilevanza che acquisì nella seconda parte del secolo il sistema capillare di controllo e di custodia del grano, come si rileva dal registro appena descritto. Un sistema che negli anni Novanta giunse a un’ulteriore articolazione, tramite l’impiego di un elevato numero di vetturali e di trasportatori e il loro ricambio veloce. Così, in altro un registro di fine Duecento dell’Officium bladi sono contenute diverse denunce nei confronti degli addetti al vettovagliamento, che dovevano comparire di fronte ai domini bladi in presenza di testimoni. Guido Gualengus e suo figlio furono denunciati perché avevano trasportato del biado a Modena per venderlo. Guido, che aveva un fideiussore, negò il fatto al cospetto dei domini bladi e fu assolto. Spesso le denunce provenivano da cittadini anonimi, come quella di un tizio che si presentò davanti ai domini bladi con un sacco di grano, dicendo di aver scoperto un certo Bencevenne nell’atto di trasportarlo fuori dal borgo delle Lame su un carro. Altre denunce e condanne erano a carico di coloro che conducevano il biado oltre il comitato di Bologna verso altre città, come Modena. Correva voce, per Le porte citate nel documento sono le seguenti: Malpertuso, Mascarella, Pratello, San Donato, Saragozza, Sant’Isaia, Santo Stefano, borgo San Pietro, Galliera, delle Lame, San Felice, Strada Maggiore, San Vitale, San Giacomo, strada Castiglione. 425
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esempio, che Johannes Benedei de Albirolis, massaro di San Giovanni in Persiceto, e gli uomini di quella terra, facessero trasferire di giorno e di notte quantitativi di biado dalla terra di San Giovanni verso il comitato e la città di Modena per venderlo. Interrogati, risposero che sì, avevano fatto trasportare del biado da San Giovanni in Persiceto a Modena, perché in quei giorni c’era una rissa nella terra di Castel di San Giovanni. Furono multati per 50 lire. Un altro genere di attività che oscillava fra il formale e l’informale, oltre al trasporto illecito di cereali, era il commercio dei pani. Le possibilità di infrazione erano molteplici: pani mal cotti, pani di peso diverso da quello previsto, pani venduti in quantità inferiore a quella richiesta, oppure in luoghi non consentiti. Tanti erano i divieti, altrettanto numerose erano le infrazioni. In un 14 aprile di fine Duecento426 alcuni uomini, denunciati ai domini bladi, ammisero le loro colpe: Iohannes Albertini della cappella di San Martino dei Caccianemici fece il pane superiore al numero ai lui assegnato; venne multato per 40 soldi; Dondus fornarius e Zagonello, entrambi della cappella di San Vitale, dovettero pagare 40 soldi per aver confezionato del pane non conforme alla norma. Facciolus barberius tabernarius, scoperto a vendere 20 pani “fuorilegge”, fu condannato come gli altri due a versare una sanzione di 40 soldi. La pena pecuniaria saliva soprattutto quando il trasgressore veniva sorpreso a vendere. È il caso di Bencevene q. Guidocti della cappella di San Biagio, cui toccò una multa di 100 soldi (5 lire), perché stava trafficando contro la forma degli statuti; oppure, quello di Gerardus Geradelli, tabernarius della cappella di San Biagio, multato per 100 soldi poiché stava commerciando il pane vendutogli da Bencevene Guidocti in casa sua. Talvolta, le denunce non erano del tutto fondate: Acolbene Clarii fornarius della cappella di San Leonardo venne denunciato per aver preparato in ambito domestico del pane venale contro la forma degli statuti. Ingiuntogli di comparire davanti ai domini (pena 25 lire), questi dichiarò che il pane trovato dall’ufficiale in casa sua era pane “lecito”; garantiva per lui dominus Francischus de Rasuriis. Fu assolto. Da questa breve campionatura si rileva come, ancora fra fine Duecento e inizi Trecento, le strategie di controllo del ciclo produttivo del pane fossero in fase di definizione e la normativa di volta in volta applicata a casi concreti. La legislazione stessa inerente all’approvvigionamento cerealicolo era gestita sempre più spesso dal consiglio del popolo e della massa con lo strumento delle riformagioni. Gli ufficiali e le magistrature afferenti alle questioni annonarie, specificatamente il rifornimento cerealicolo, assunsero connotati più complessi e numeri più consistenti sullo scorcio del XIII secolo, segno che il sistema annonario stava differenziandosi al suo interno a seguito della segmentazione delle mansioni. Ne risultava un’organizzazione del lavoro articolato, mirante a sorvegliare e amministrare più agevolmente gli ad L’anno in cui fu redatto questo registro non è attestato nelle carte pervenuteci e non è possibile desumerlo dalle informazioni in esso contenute. La scrittura indurrebbe a ipotizzare che si tratti degli ultimi anni del Duecento.
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detti alle singole fasi e predisporne il ricambio rapido. Emerge, infatti, evidente il meccanismo della “rotazione” su base elettiva degli operatori per periodi di tempo determinato, stabiliti probabilmente in base alla funzione stessa che ciascuna categoria svolgeva. I fornai, per esempio, erano a disposizione del comune a rotazione settimanale, come pure gli albergatori e gli osti. Ai trasportatori, ai vetturali, ai custodi, in città e nel contado, veniva richiesta un’alternanza frequente, nell’ordine di due o tre mesi, secondo i patti di securitas pervenutici. È anche il caso degli assaggiatori (açasatores), tenuti a eseguire le operazioni di pesatura sui carichi di frumento e di biado, che giungevano da fuori presso piazza di porta Ravegnana e piazza Maggiore, oppure sui cereali venduti ai fornai per fare il pane venale. Di maggiore durata erano invece gli incarichi che implicavano un’assunzione di responsabilità: per esempio, coloro che dovevano riscuotere le gabelle del cippo presso i luoghi di transito fuori le mura rimanevano in carica 6 mesi, al pari dei notai addetti a redigere i libri di conti e gli ufficiali “presidenti” delle magistrature. Fra questi ultimi, i più importanti erano i domini bladi, cui seguivano i domini garnariorum e i domini molendinorum. Costoro avevano alle loro dipendenze una serie di ufficiali di minor grado per sbrigare le faccende di carattere amministrativo, fra cui spiccavano appunto la figura del depositario, sorta di tesoriere, che teneva la cassa dell’ufficio e gestiva i movimenti di soldi e di cereali, e il notaio, incaricato di redigere le scritture delle transazioni e validarle dal punto di vista della legge. I presidenti uscenti (di un semestre) dovevano consegnare tutte le carte e i libri di conti ai loro successori. Ai presidenti dei granai spettava, inoltre, il compito di consegnare ai neoeletti i quantitativi di biado eventualmente rimasti nei depositi. Difficile definire i rapporti di competenze e responsabilità fra le singole magistrature nel corso dell’ultimo ventennio del Duecento; doveva trattarsi di rapporti in continua evoluzione. Nelle riformagioni degli anni Novanta le decisioni in merito a un carico da piazzare, oppure a un prezzo di vendita, provenivano dal consiglio del popolo e della massa. A seconda del provvedimento assunto, tale organo impartiva ordini ai domini bladi piuttosto che ai domini garnariorum o viceversa. Date le competenze e i servizi richiesti, i domini bladi risultavano più importanti per il comune, soprattutto perché fra le loro fila venivano eletti esponenti di rilievo del mondo mercantile bolognese in grado di sovvenzionare le casse del comune nei periodi di crisi. Un esempio fra tutti: Romeo Pepoli. I presidenti degli altri uffici, pur appartenendo probabilmente alla élite cittadina, non necessariamente avevano mezzi consistenti da diventare, all’occorrenza, finanziatori del comune. Una quarta magistratura, che in qualche modo “completava” gli uffici del pane fra Due e Trecento è quella dei domini fornariorum427. Essa fu creata nel 1327 con l’emanazione di una serie di ordinamenta speciali redatti esclusivamente per la categoria dei fornai. Tali ordinamenti confluirono successivamente nello statuto comunale del 1335. Vedi Parte III.
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Fig. 1. Sezione del territorio Bolognese nel Medioevo (tratta da A. Sorbelli, La signoria di Giovanni Visconti a Bologna e le sue relazioni con la Toscana con una carta del distretto bolognese alla meta del sec. 14, Bologna 1902, rist. an.: Sala Bolognese 1976).
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Fig. 2. Sostegno e Paraporto di Corticella, ASBo, Gabella grossa, Atlanti di mappe e stampe, n. 10, 1785.
Fig. 3. Sostegno della Bova e casa del Maccagnano, ASBo, Gabella grossa, Atlanti di mappe e stampe, n. 10, 1785.
III. I FORNAI
1. I mestieri del pane fra Antichità e Medioevo «Non saprei dire qual arte fosse mai più necessaria di questa del Fornaro appresso tutte le nationi del mondo; imperocché noi vediamo per esperienza, che tutte le genti di questa presente vita vogliono mangiare del pane, mentre che loro son vivi. Et se non fusse questo magisterio, non so come andaria il fatto nostro. Ma conviene, che il Fornaro sia huomo intelligente, e che habbia buona pratica in saper fare l’arte sua con destrezza, imperocché egli è di bisogno di haver buona cognition dei grani, sapendo i paesi dove son nati, per sapere quale fa miglior farina, perche alcuni paesi fanno formenti, che sempre fanno il pane negro, e altri lo fanno bianchissimo come quello di Padoa, di Friuli, del Polesene, di Rovigo, del Ferrarese, del Bolognese, e di tutta la Romagna»1.
Così scrisse il medico bolognese Leonardo Fioravanti nell’opera Dello specchio di scientia universale (1583), sottolineando come la panificazione fosse un’arte complessa e quello del fornaio un mestiere che richiede abilità e pratica. Qualche anno dopo lo scrittore romagnolo Tommaso Garzoni in La piazza universale di tutte le professioni del mondo (1585)2 ripropose le medesime riflessioni rievocando il mito classico di Cerere, dea romana della fertilità, che insegnò all’uomo a coltivare i campi e a fare il pane con il grano ottenuto dal raccolto3. Numerose sono le attestazioni letterarie che, sin dall’Antichità, attribuiscono importanza al sapere (fare) e alle conoscenze del fornaio riguardo al grano e alla sua lavorazione. Una cultura che, Fioravanti 1583, I, 49. Cfr. Camporesi 1997. Garzoni 1996, II, pp. 1352-1353. 3 Ibidem, p. 1352. 1 2
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stando alle parole di Fioravanti e di Garzoni, doveva incentrarsi su una profonda conoscenza delle potenzialità del territorio e su una solida esperienza4. La varietà stessa dei termini impiegati nel mondo classico per designare le diverse competenze richieste in questo mestiere è indice della sua complessità5. Quella del fornaio, del resto, è una professione antica. Presso le civiltà dell’area mediterranea, la cultura del pane si affermò sin dalla comparsa della scrittura: esistono tracce circa l’arte del pane e di coloro che la esercitavano. I primi indizi sulla preparazione di cibi a base di cereali trovano riscontro in Occidente in età remota6. Secondo la mitologia greca, Demetra (la Cerere romana evocata da Tommaso Garzoni), dea della terra feconda e delle coltivazioni, apprese all’uomo la fabbricazione del pane; Arcas, re di Arcadia figlio di Zeus e di Callisto, insegnò l’arte ai suoi sudditi. Omero menziona espressamente il pane (σΐος7, ἄρτος8, πὑρνον9), senza peraltro indicare il modo di prepararlo. I medesimi termini impiegati da Omero si ritrovano nelle Opere e i giorni di Esiodo10. Si suppone che nell’antica Grecia il pane fosse confezionato originariamente nelle case dalle donne e dagli schiavi11. Erodoto, narrando di Periandro di Corinto, vissuto fra fine VII-inizio VI a.C., allude all’esistenza di un forno appartenente a un fornaio12. Probabilmente, nel V secolo a.C. erano presenti nelle città greche fornai di professione, denominati ἀρτοποιοί13 o ἀρτοϰόποι14 e il pane si vendeva in vere e proprie botteghe15, anche se si mantenne l’abitudine di fabbricarlo in casa. In epoca alessandrina (IVIII secolo a.C.) l’importanza attribuita all’arte della panificazione acquisì grande rilievo, tanto è vero che fiorì una letteratura incentrata sul pane e i dolci. Autori quali Ateneo, Archestrato e Trifone d’Alessandria hanno lasciato importanti testimonianze in questo senso16. Nel mondo romano i più antichi termini latini appartenenti alla sfera semantica della panificazione provengono da peis, radice del verbo pinso, pinsere che significa pestare mediante l’utilizzo di un pestello e di un mortaio, oltre a indicare Circa il concetto di cibo come cultura e frutto di un sapere complesso, vedi Montanari 2004b. Riguardo all’arte della panificazione nella storia della lingua, vedi Cacia 2009. 6 Vedi Daremberg, Sanglio 1969, pp. 494-502. 7 Omero, Il. V, 341; IX, 702; Od. VIII, 222; IX, 9 e 90; X, 101; XII, 19. Il termine σΐος designa spesso un alimento solido in contrapposizione al liquido, dunque non solamente il pane. 8 Omero, Od., XVII, 343; XVIII, 120. 9 Omero, Od., XIV, 312; XVII, 12 e 362. 10 Esiodo, 145 e 442. 11 A proposito dei termini indicanti i mestieri coinvolti nel ciclo del pane nell’antica Grecia, vedi Daremberg, Sanglio 1969, p. 494. 12 Erodoto, V, 92, 7. 13 Daremberg, Sanglio 1969, p. 494. 14 Ibidem. 15 Per designare la bottega del fornaio si riscontrano i termini ἀρτοπτεϊον e ἀρτοxοπεϊον (Dioscoride II, 38). 16 Daremberg, Sanglio 1969, p. 494. 4 5
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la sgusciatura del grano17. Da tale radice derivò una serie di termini, fra cui pistor18, colui che pestava, mondava il grano e preparava il pane e pistrinum19, il luogo dove il grano era schiacciato e macinato. Del pari, dalla radice di pinso ebbe origine il vocabolo pistrinarius20 che in età classica indicava la stessa funzione di pistor e si conservò nel Medioevo in alcune lingue romanze con il significato di fornaio21. La radice peis si oppone a quella insita nel verbo molo, molere e nel termine mola (macina), che rimanda all’atto del macinare il grano con una macina, da cui derivano i termini molendinum (mulino) e molendinarius (mugnaio) 22. Che si trattasse dell’una o dell’altra famiglia di termini (pinso o molo), vi era alla base l’idea del pestare e mondare i grani con gli strumenti atti a svolgere tale operazione. Il luogo adibito a queste attività fu denominato in età classica prevalentemente pistrinum; se ne riscontra l’uso in Italia e in Europa ancora nei secoli XIII-XV. In Provenza, per esempio, fra 1350 e 1480, si hanno attestazioni di pistrina nella maggior parte delle dimore cittadine, indipendentemente dall’ambito sociale di appartenenza della famiglia. Si trattava, per lo più, di una struttura in legno bianco, mobile, poggiante su quattro piedi e talvolta munita di coperchio; spesso ce n’era più d’uno nella medesima casa23. Nel mondo antico le parole pistor, pistrinum, pistrinarius, oltre a essere intese nell’accezione originaria connessa a pinso, indicavano la confezione del pane nel suo complesso. Il pistrinum rappresentava il luogo dove si svolgeva una parte delle mansioni riguardanti il ciclo produttivo del pane, dal pestare al mondare, al macinare il frumento e gli altri cereali. I termini pistor, pistrinum, pistrinarius conservarono questi significati fino al Medioevo. Il termine pistor, in particolare, mantenne l’accezione di colui che lavorava la farina e cuoceva l’impasto, mentre perse quella di addetto a pestare i grani, più spesso denominato mulinarius24. Inoltre, lo spazio fisico dove avveniva l’attività della molitura incominciò a essere definito, fra tarda Antichità e alto Medioevo, non più soltanto pistrinum, ma anche molendinum. Entrambi i vocaboli si riscontrano nella normativa bolognese dei secoli XIII-XIV25. Del Ernout, Meillet 1994, p. 509. Forcellini, III, p. 561: «pistor, qui ante inventum molarum usum frumentum in pila contundebat». Nelle fonti classiche, da Plauto a Varrone a Plinio, pistor è innanzitutto colui che schiaccia i grani, li riduce in farina, fa il pane ma anche «alia opera dulciaria». Du Cange, VI, pp. 336-337. 19 Forcellini, III, 1830, p. 561: «[…] locus in quo frumentum, et aliae fruges ante trusatilium inventionem in pilis conterebantur». Cfr. Du Cange, VI, pp. 337. 20 Du Cange, VI, p. 337. 21 Ernout, Meillet 1994, p. 509. 22 Ibidem, p. 411. 23 Stouff 1970, p. 28. 24 Ibidem. 25 Sarebbe interessante svolgere un’indagine comparativa con normative statutarie coeve di altre città italiane, per verificare la frequenza dell’impiego di questi termini, nonché i differenti esiti linguistici a seconda dell’area geografica di pertinenza delle singole realtà urbane. 17 18
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pari, in altre realtà cittadine italiane coeve, pistrinum e molendinum costituiscono due sfere semantiche differenti per indicare lo stesso (o affine) ambito produttivo. Negli statuti ravennati del 1253, per esempio, è netta la distinzione fra i due tipi di strutture: l’attività dei pistrinarii risulta separata da quella dei mulinarii26. La varietà e ricchezza di accezioni riguardanti i mestieri del pane nel mondo classico evidenzia l’importanza che avevano i gesti connessi all’atto del preparare e cuocere il pane e l’arte che presupponevano. Complesse e articolate erano le competenze che spettavano al pistor, al pistrinarius, al mulinarius. Se nell’Antichità queste figure professionali tendevano a ricoprire più mansioni, nel Medioevo si verificò una maggiore frammentazione nelle fasi del lavoro. Pistor indicò, a partire da un certo momento, prevalentemente colui che preparava l’impasto27, mentre pistrinarius definì, oltre che il fornaio, l’addetto a ridurre il frumento (e gli altri cereali) in farina28. Al pistrinum29 si svolgevano la molitura dei grani, il setaccio della farina, la preparazione dell’impasto, la cottura dello stesso. Nel Medioevo, tali attività iniziarono a essere gestite separatamente; la macinazione era affidata al mulinarius (o molinarius)30, che operava nel molendinum31. Accanto alle famiglie di parole derivate dalle radici di pinso e di molo, si affiancò nel periodo classico il gruppo semantico connesso all’idea di calore, espressa dall’aggettivo latino formus, che significa caldo32. Alla medesima radice di formus appartengono i termini furnus e fornax, differenziatisi nell’uso: ovvero il primo designava il forno a pane, il secondo il forno per la lavorazione di materiali quali le terracotte, i metalli, la calce33. Da furnus provengono i composti furnaceus e furnarius (fornaio)34. Il termine furnarius (o fornarius)35 identificava in senso stretto l’addetto al forno e alla cottura del pane; tuttavia, nelle fonti bolognesi medievali venne ad acquisire, probabilmente fra XIII e XIV secolo, un’accezione più ampia, indicando per lo più anche le mansioni svolte dal pistor36. In altre realtà italiane e d’oltralpe, invece, rimase la distinzione fra pistor, colui che fa il pane e lo vende, e il fornarius, colui che lo cuoce per terzi. Dagli statuti di Ravenna del 1253, per esempio, emerge che i fornai erano Pini 1993d, p. 534. Sul significato di pistor e pistrinum nel mondo classico, vedi inoltre Lübker 1898, pp. 943-944. Cfr. Daremberg, Sanglio 1969. 28 Ibidem. 29 Sul funzionamento del pistrinum in epoca romana, vedi Coates-Stephens 2006, pp. 473-498. 30 Du Cange, IV, p. 538. 31 Forcellini, III, p. 151. Cfr. Du Cange, IV, pp. 443-445. 32 Ernout, Meillet 1994, p. 248. 33 Ibidem. 34 Ibidem. 35 Forcellini, II, p. 457. Cfr. Du Cange, II, p. 635. Si riscontra nelle fonti medievali l’oscillazione della prima sillaba fur- o for-, generante le varianti furnarius/fornarius. Dalla fine del Medioevo e in Età moderna si riscontra spesso l’accezione fornarius, da cui deriva l’italiano fornaio. 36 È questa l’impressione tratta dallo scandaglio delle fonti normative, fiscali, giudiziare, economiche esaminate per il Duecento e i primi del Trecento. 26 27
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di due tipi: i furnarii, che cuocevano il pane portato loro dai pistores e dai privati; i pistores, che facevano il pane, non lo cuocevano, ma lo vendevano al mercato37. La medesima distinzione è attestata a Firenze nel Trecento38 e in Provenza. A Carpentras, fra 1350 e 1450, le due categorie erano nettamente distinte per professione e rilievo sociale (i pistores meglio remunerati dei furnarii), malgrado non mancassero casi in cui le mansioni dell’uno e dell’altro tendevano a confondersi39. Persisteva, inoltre, in Italia e in Europa l’usanza di fare il pane in ambito domestico. Nelle città catalane medievali, per esempio, fino al XIV secolo le famiglie di artigiani preparavano il pane in casa e lo portavano a cuocere presso il forno del quartiere; dalla metà del Trecento si diffuse il costume di affidare la fabbricazione del pane quotidiano a un panadero, cui si consegnavano periodicamente le partite di cereali40. La distinzione fra pistor e furnarius, dunque, continuò a sussistere in molte realtà cittadine italiane ed europee medievali. Tale distinzione è così espressa nel dizionario latino medievale di Du Cange: «Distinguendus omnino est pistor a furnario, quamvis uterque idem officium prææstet, et circa idem artificium versetur: pistor panes vendendos coquit, furnarius furnum dominicum curat ad coquendos panes illorum, qui eo furno uti debent, nec panes venum exponit, nisi alia sit loci consuetudo vel lex; pistor artis panificæ magisterium adipisci tenetur, quod furnario nequaquam necessarium est»41. Nelle fonti bolognesi due-trecentesche questa differenza di significato sembra scomparire in favore di una figura professionale, denominata spesso, o con l’uno o con l’altro termine, senza che sussistessero significative differenze di ruolo e competenze. I due vocaboli e i loro corrispettivi in volgare ebbero esiti diversi nell’area linguistica europea. Da furnarius/fornarius deriva l’italiano medievale fornario42, più antico del francese boulanger, dello spagnolo panadero e del romeno brutar43. Pistor è attestato nell’alto Medioevo in Gallia: pestour in antico francese, pestor in provenzale44. Probabilmente, pistor e furnarius/fornarius (con le loro derivazioni) dovettero coesistere per vari secoli con risultati diversificati a seconda dell’area geografica di diffusione. In realtà, già nel mondo classico pistor nell’immaginario collettivo era identificato con il mestiere del fornaio. All’esistenza di pistores nel mondo romano accenna Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) nella Naturalis Historia, dove sostiene che non vi furono fornai a Roma prima della terza guerra di Macedonia (171-168 a.C.). Fino ad allora – avverte Plinio – il pane veniva confezionato prevalentemente dalle donne in ambito domestico45. Se si ipotizza che 39 40 41 42 43 44 45 37 38
Pini 1993d, p. 534. La Roncière 1982, pp. 69-70. Stouff 1970, pp. 32-33, 35-37. Riera Melis, Pérez Samper, Gras 1997, pp. 295-296. Du Cange, II, p. 635. Circa il termine italiano fornaio e la sua origine latina, vedi Bartoli 1936, pp. 103-109. Bartoli 1936. Mastrelli 1971, p. 303. Plinio, Nat. Hist., XXIII, 107.
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ancora in età repubblicana questo mestiere non era soggetto a severi controlli da parte dell’autorità, è accertato che durante l’Impero operavano dei collegia pistorum a Roma e a Costantinopoli, istituiti probabilmente in precedenza sotto la repubblica. Essi furono riorganizzati da Traiano (I secolo d.C.) e disciplinati nel V secolo con l’emanazione del Codice teodosiano46. Se i primi imperatori ostacolarono la formazione di associazioni, gli ultimi le resero obbligatorie47. Malgrado non vi siano testimonianze circa l’attività di veri e propri collegia nelle province in età tardo-antica48, si suppone esistessero dei collegia attivi al di fuori di Roma, come, per esempio, a Ostia49. Si ritiene, inoltre, che la professione di pistor dovesse svolgersi sotto il controllo di funzionari imperiali50. In proposito è testimoniata la presenza di fornai a Ravenna nel VI secolo; in un papiro, forse del 580, è nominato come acquirente di un fondo, un certo Florentinus ex praeposito pistorum. Inoltre, è attestata l’epigrafe Hic requiescit in pace Florentinus pater pistorum regis Theodoricis51. Anche a Otranto, per lo stesso periodo, sono stati ritrovati indizi relativi all’ars pistoria52. Nell’alto Medioevo l’ars pistoria rimase sotto il controllo dell’autorità, che fosse il signore, il conte, il vescovo, il re, a gestire l’approvvigionamento cerealicolo e le fasi successive del ciclo del pane53. Non erano certamente numerosi coloro che esercitavano l’arte in città tra il VI e il X secolo, allorché dovette verificarsi una rarefazione del lavoro e una difficoltà nel gestire le strutture adibite ai diversi segmenti produttivi. In una fase di instabilità e insicurezza, probabilmente la confezione del pane dovette avvenire prevalentemente in ambito domestico. Diverse sono inoltre le testimonianze relative ai “pani di carestia” preparati con ingredienti vari, fra cui, per esempio, semi d’uva o fiori dei noccioli, radici delle felci o erba dei campi54. In ambito italiano una prima documentazione attestante l’esistenza di un commercio alimentare e di gruppi di lavoratori, artigiani e mercanti di cibo, risale ai primi secoli del Medioevo55. In età longobarda, per esempio, presumibilmente nel 715, fu redatto a Pavia nel palazzo di Liutprando, re dei Longobardi, un capitolare Il Codex theodosianus è una raccolta ufficiale di costituzioni voluta dall’imperatore romano d’Oriente Teodosio II (408-450). Pubblicato il 15 febbraio 438, esso entrò in vigore nell’Impero romano d’Oriente e in quello d’Occidente il 1 gennaio 439. L’organizzazione dei collegia pistorum di Roma e Costantinopoli è trattata nella fattispecie nel libro XIV. Per l’edizione vedi Code Théodosien. 47 Visconti 1931; Visconti 1935. 48 Leicht 1937. Cfr. De Robertis 1981. 49 Riguardo al corpus pistorum a Ostia in età imperiale vedi De Ruyt 2002, pp. 49-53. 50 Vedi Fujisawa 1995. 51 Visconti 1931, pp. 520-521. 52 Ibid., p. 520. 53 Riguardo alle arti nell’alto Medioevo, vedi Maggio 1996. 54 Montanari 1994a, pp. 7-11. 55 Circa le prime attestazioni di associazioni professionali nelle città italiane, vedi Degrassi 1996, pp. 119-127. Cfr. Greci 2007a. 46
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nel quale si stabilivano i dazi e i pedaggi che spettavano alle navi cariche di sale provenienti da Comacchio, quando risalivano il Po verso il territorio longobardo56. Nell’864 Carlo il Calvo, re dei Franchi occidentali, emanò a Pîtres sulla Senna un editto (chiamato Pistense)57, in cui si definiva il controllo sulla circolazione monetaria nelle città e in altri mercati, il monopolio urbano della zecca, nonché le attività commerciali negli stessi luoghi58. Sempre nel medesimo editto si imponeva ai conti di censire i mercati del comitato, al fine di individuare quali fossero di antica istituzione, quali più recenti e quali illegali59. Inoltre, si richiedeva agli ufficiali pubblici di controllare soprattutto in città, ma anche fuori, che i venditori di carne, pane e vino non alterassero le misure60. Circa un secolo e mezzo dopo fu redatto il noto testo pavese conosciuto come Honorantie civitatis Papie61, composto in un periodo anteriore all’incoronazione di Corrado II imperatore (1027) e costituito da un memoratorio dei redditi della Camera regia di Pavia, capitale del Regno d’Italia. In esso si delineava l’organizzazione dei gruppi artigiani gestiti dall’autorità pubblica e da questa dipendenti, fra cui però non figuravano i mestieri del cibo, probabilmente dipendenti da ufficiali diversi dal camerarius62. Le più antiche testimonianze medievali di ambito italiano riguardo ai mestieri del pane variano, in termini cronologici, a seconda delle città e delle vicende delle singole categorie professionali63. Le prime tracce dell’attività di fornai si riscontrano, per lo più, a partire dal pieno Medioevo, come è il caso, per esempio di Verona, dove è attestato un officium macellatorum et pistorum per il XII secolo. Doveva trattarsi, tuttavia, di un officium di origine più antica, se a capo delle arti erano delle figure denominate gastaldiones, termine che rimanda all’epoca longobarda64. Anche a Piacenza i pistores risultano attivi nel XII secolo. Dalle leggi più antiche della città emerge che nel 1180 il vescovo vantava determinati diritti su forni e mulini65; inoltre, dal breve dei consoli comunali degli anni 1170-71 si evince che i pistores e le pistorissae erano alle dipendenze di ufficiali delegati del vescovo stesso66. I fornai piacentini dovettero beneficiare, assieme ad altre categorie di lavoratori, di una certa rinomanza e benessere economico, se furono fra gli artigiani che intorno al 1150 contribuirono alla costruzione della cattedrale. Una serie di rilievi scolpiti, posti sui pilastri di Montanari 2004c, 147-163. Capitularia regum Francorum. 58 Vedi Bordone 2002, pp. 323-333. 59 Capitularia regum Francorum, II, n. 273, c. 19, pp. 317-318. 60 Ibid., II, n. 273, c. 20, pp. 318-319; Leicht 1937, p. 32. Cfr. Maggio 1996. 61 Solmi 1920; Landogna 1922; Solmi 1932; Die “Honorantiae civitatis Papie” (ed. critica). 62 Leicht 1937, pp. 28-40, 96-97. Cfr. Maggio 1996, pp. 79-100. 63 Per una riflessione sugli intrecci fra economia e corporazioni nel Medioevo, vedi i contributi contenuti nel volume Tra economia e politica 2007. 64 Ibid., pp. 95-95. 65 Solmi 1916. Cfr. Leicht 1937, p. 122. 66 Ibidem. 56 57
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quest’ultima, raffigurano le professioni che parteciparono alla sua costruzione, fra cui, per l’appunto, i fornai67. Sono raffigurazioni che rivelano come fosse già avviato un processo di rivalutazione del lavoro manuale, anche su un piano prettamente ideologico68. Le più antiche società di fornai che produssero una propria normativa statutaria sono due-trecentesche. A Firenze il primo statuto dell’arte fu elaborato nel 1337 e approvato nel 134569; a Modena alla fine del XIV secolo70. A Venezia i pistores formarono una società nel 1334, mentre i forneri, ossia coloro che cuocevano il pane per terzi, soltanto nel 144571. Negli statuti ravennati, in vigore dalla seconda metà del XV fino all’inizio del XVI (1441-1509), per esempio, sussisteva ancora la distinzione fra fornarii, pistrinarii e molendinarii, a ciascuno dei quali è dedicata una rubrica72. A Bologna non si rilevano testimonianze riguardanti i mestieri del pane anteriori al XII secolo73. Tracce consistenti della loro attività in città si ritrovano nella documentazione prodotta dagli uffici economici del comune e nelle norme statutarie duecentesche. Da tali fonti emerge che la categoria dei fornai, al pari degli altri mestieri del vettovagliamento urbano, era fortemente controllata dal comune. L’attestazione negli statuti della figura degli yscarii, di retaggio longobardo come si rileva dal termine medesimo74, suggerisce l’idea che essi sorvegliassero i mestieri del vettovagliamento già in un periodo antecedente al XIII secolo75. I pistores sono menzionati negli statuti del 1245-67 fra coloro che non potevano riunirsi in associazione, le cosiddette “società proibite”76; norma ribadita in quelli del 128877. Nella documentazione trecentesca di carattere istituzionale (ma non soltanto) i fornai cominciarono a essere spesso denominati con i termini furnarius/fornarius e panicogolus, mentre il vocabolo classico pistor (in ambito bolognese) venne meno impiegato. Ai primi del Quattrocento il primo statuto bolognese redatto in lingua volgare (al pari di quelli successivi) attesta l’impiego del termine fornarius, ma persisterà, seppur con minor frequenza, l’uso di pistor. Verosimilmente, fornarius prevarrà in Età moderna soprattutto nella versione volgare fornaro, divenuta nell’italiano contemporaneo fornaio78, affiancata da panettiere79. Questi vocaboli si affermeranno a Bolo Vedi Cochetti Pratesi 1975; Romano 1978, p. 11. Cfr. Medica 1999, p. 55. Vedi Degrassi 1996, pp. 216-217. 69 Statuti delle arti dei fornai e dei vinattieri di Firenze, pp. 1-45. 70 Statuti ed ordini dell’arte dei fornari di Modena, pp. 163-196, p. 168. 71 Faugeron 2009a, pp. 515-516; Faugeron 2014, pp. 544-545. 72 Statuti del comune di Ravenna, pp. 202-204. 73 La professione del fornaio figura quale uno dei mestieri attestati nella documentazione membranacea del XII secolo. Vedi ASBo, Fondi delle Corporazioni religiose soppresse. Cfr. Vasina 2007, p. 462. 74 Fasoli 1972. 75 Fasoli 1935a, p. 256. Cfr. Leicht 1937, p. 95. 76 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, II, p. 254 e note; III, p. 66. Fasoli 1935a; Fasoli 1936a; Pini 1982, pp. 275-277. 77 Statuti di Bologna dell’anno 1288, II, p. 220. 78 Battaglia, VI, p. 195. 79 Ibid., XII, pp. 476-477. 67 68
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gna (ma anche altrove in Italia) a scapito di pistore80 e panicuocolo81, tanto è vero che appartengono ancora oggi al linguaggio corrente. Difficile è spiegare la diffusione, fra Medioevo ed Età moderna, di furnarius piuttosto che di pistor; forse, potrebbe spiegarsi con la rilevanza assunta dalla figura di colui che gestiva il forno in ambito cittadino e rurale. Nondimeno, presso il forno non si cuoceva soltanto il pane. Emerge, per esempio, da una rubrica degli statuti bolognesi del 1352 che il furnarius/fornarius cuoceva vari tipi di carne secondo un tariffario di prestazione preciso e articolato: «de tegla magna sive padella in qua sunt carnes vel pulli, anseres, anatre, pipiones vel alia animalia percipere possint [fornarii] ad plus sex denarios parvos. Et si parva [tegla] solum tres denarios ad plus»82. Attorno all’attività del cuocere veniva a concentrarsi, presumibilmente, un esercizio di natura pubblica sul quale necessariamente il comune appuntava la propria attenzione in misura maggiore rispetto alle mansioni svolte in ambito domestico83. Ai fornai bolognesi e alle altre categorie appartenenti alle cosiddette “società proibite” fu permesso di creare una propria corporazione soltanto agli inizi del Quattrocento, quando il cardinal legato Baldassarre Cossa concesse ai gruppi di lavoratori non organizzati la facoltà di associarsi e la possibilità di dotarsi di propri statuti84. Il primo statuto, pervenutoci in copia, datato 1404-06, è più tardo rispetto ad altre realtà cittadine italiane, come per esempio quello già citato dei fornai di Firenze85. Nella prima carta dello statuto bolognese si accenna a una versione precedente, forse di qualche anno, di cui non è rimasta traccia86. Una redazione successiva, conosciuta tramite una notizia indiretta, risale al 1465. A essa seguì un altro statuto, che ebbe una prima stesura nel 1515, fu approvato dai quaranta riformatori il 28 giugno 1547 e pubblicato nel 155387 con allegata la matricola dei fornai, com Il termine pistore è attestato nel XIII secolo anche in alcune fonti letterarie, come per esempio nel Novellino (II: «Messere, io vi dico che voi foste figliuolo d’uno pistore»), nel poeta duecentesco Ruggiero Apugliese (II: «so’ pistore e so’ fornaio buono e bello»). Nell’italiano corrente questo termine è ancora vivo, specialmente in alcune regioni dell’Italia nord-orientale e in qualche dialetto. Cfr. Battaglia, XIII, pp. 577-578. 81 Battaglia, XII, p. 482. Il panicuocolo, termine caduto in disuso, in lingua italiana designa il fornaio che cuoce il pane per conto di terzi (dai quali riceve la pasta già pronta). 82 ASBo, Comune, Statuti, 1352, 44, cc. 207v-208r. Riguardo all’analisi di questa rubrica, vedi paragrafo successivo. 83 Per un inquadramento di questa norma del 1352 vedi capitoli successivi. 84 Fasoli 1935a, p. 71. Cfr. Pini 1982, p. 280. 85 Statuti delle arti dei fornai e dei vinattieri di Firenze. 86 ASBo, Statuti delle arti, Società dei fornai, Statuti, 1404-1406, c. 3r: «Quisti sono li ordeni dela compagnia di fornari novamente fatti e compiladi che se deno tignire et observare per li homini de quela compagnia». 87 Di questa redazione esiste una copia nel manoscritto, cui è allegata la matricola presso la Biblioteca comunale dell’Archiginnasio (BCABo, Fondo speciale Gozzadini, raccolta Gozzadini, ms Gozz. 272. Vedi Rossi 1950, p. 9. Del pari, un’altra copia è conservata presso l’Archivio di Stato di Bologna (ASBo, Assunteria d’Arti, Notizie sopra le Arti, Fornari, b. 1). 80
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prendente gli iscritti prima del 1565 fino al 159488. Si coglie in questo corpus di norme tardomedievali e cinquecentesche l’affermarsi di una gerarchizzazione dei ruoli all’interno della compagnia, come era avvenuto nella maggior parte delle arti sorte nel Duecento89. Oltre agli incarichi canonici previsti dalla struttura corporativa (massaro, consoli, sindaci, notaio, messi) vi erano i ruoli inerenti all’arte, ovvero il “maestro di forno” tenuto a dare obbedienza al massaro, gli hobedienti, i famegli, i garzoni aiutanti del fornaro90. Si tratta di figure professionali subordinate al maestro di bottega tipiche delle società di mestiere medievali; esse non avevano autonomia lavorativa e generalmente pagavano una tassa al maestro al fine di lavorare alle sue dipendenze91. Per alcuni poteva trattarsi di un apprendistato necessario allo scopo di avviare in seguito una propria attività; per altri era una condizione di vita che si prolungava senza termine. Le possibilità economiche del singolo influenzavano evidentemente le eventuali successive opportunità nel mestiere. Probabilmente, simili meccanismi di reclutamento dovevano essere scattati anche per la categoria dei fornai bolognesi nel Due-Trecento, nonostante non fosse riconosciuta istituzionalmente, e malgrado la normativa statutaria oscillasse fra la concessione e il divieto ai fornai di tenere degli apprendisti. Se nel 1262 si proibiva ai pistores al servizio del comune di avere dei lavoranti, negli anni 1296-97 la situazione pareva radicalmente mutata. Infatti, negli estimi dei medesimi anni si rilevano varie cedole di furnarii che, fra i debiti, dichiaravano di dover corrispondere ai loro famuli il compenso spettante per le mansioni svolte. A conferma dell’idea che i fornai erano coadiuvati da aiutanti nella preparazione del pane o nella vendita dello stesso è anche l’iconografia cinque-seicentesca, ricca di immagini relative ai ruoli subalterni. Basti pensare al garzone del fornaio e al ciambellaro, ritratti mentre vendono i prodotti per strada, da Giuseppe Maria Mitelli nelle Arti per via (1660)92. La crisi economica che investì Bologna ai primi del Seicento indusse il governo misto, formato dal cardinal legato e dal senato (costituito dai rappresentanti delle famiglie più eminenti della città), a sciogliere la Compagnia dei fornai il giorno 3 gennaio 1603. Quest’ultima fu accusata di gestire l’attività della panificazione a fine di lucro. In realtà, tale provvedimento celava motivazioni di ordine politico ed economico piuttosto consistenti. Il governo approntò una serie di norme straordinarie riguardanti l’approvvigionamento urbano, unitamente a un disciplinamento severo delle categorie professionali coinvolte nel ciclo del pane93. I fornai, dal canto loro, tentarono di Rossi 1950. Questo aspetto dell’arte dei fornai è trattato più distesamente nei prossimi paragrafi. 90 Nello statuto della Compagnia dei fornai dei primi del Quattrocento si delinea una gerarchia di ruoli e competenze probabilmente già esistente nei secoli precedenti (ASBo, Statuti delle arti, Società dei fornai, Statuti, 1404-1406): gerarchia che si definirà compiutamente nelle redazioni statutarie cinquecentesche (ASBo, Assunteria d’Arti, Notizie sopra le Arti, Fornari, b. 1). 91 Degrassi 1996, pp. 57-63. 92 Mitelli 1983. Cfr. Molinari Pradelli 1984. 93 Sulla politica annonaria attuata dal governo misto, vedi Guenzi 1978; Guenzi 1981; Guenzi 1982. 88 89
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ricostituirsi in associazione nel 1614 e, in seguito, nel 1623, ma il senato non lo concesse. Essi formarono allora una confraternita avente come protettore San Guglielmo e la loro sede fu trasferita dal Mercato di Mezzo al Borgo San Pietro, una zona meno prestigiosa della città94. Consistente è la documentazione cinque-sei-settecentesca – fra bandi relativi al grano, ai forni, notificazioni, petizioni, suppliche, tariffari – che lascia supporre un difficile rapporto fra la categoria dei fornai e gli organi di governo95. 2. I fornai nella documentazione due-trecentesca bolognese «Il pan e ’l sol, se ben vedo e comprendo/ hanno un’istessa forma, una statura/ la qual hor hor vi vengo descrivendo. / Il sol si mostra in sferica figura, così in figura sferica si vede/ esser il pan, con tonda positura. / Il sole a tutti gli altri lumi eccede,/ di splendor, di calor e di bellezza, / e in mezzo de’ pianeti alberga e siede./ Il pan di nutrimento e di dolcezza/ fra tutti i cibi della prima classe/ il pregio tiene, e ognun l’ama ed apprezza»96.
È questo un frammento del poemetto in versi intitolato Capitolo piacevole in lode del pane composto dal cantastorie Giulio Cesare Croce, natio di San Giovanni in Persiceto, vissuto a Bologna nella seconda metà del Cinquecento e ai primi del Seicento. Nel passo citato l’autore esalta il pane, cibo essenziale per la vita, che paragona al sole, mentre critica i fornai, in passato poveri e abituati a un’esistenza modesta, ora, invece, «vestiti da signori, /o almeno al par de’ nobili cittadini»97. Arricchitisi grazie al mestiere, i fornai (con le loro mogli) pretendono di figurare fra gli esponenti più insigni di Bologna, sostiene il cantastorie bolognese, esperto affabulatore e ironico interprete del suo tempo. Qualche secolo prima, invece, i fornai a Bologna non se la passavano così bene. Nel Duecento, periodo a cui risale una prima documentazione consistente circa questa categoria, chi praticava l’arte della panificazione (o ars fornarie) a Bologna, seppur non versasse in condizioni di povertà, apparteneva presumibilmente a un gruppo di lavoratori di estrazione economica e sociale media o medio-bassa. Vi erano certamente coloro che potevano disporre di una maggiore agiatezza grazie al possesso di beni immobili, ma rappresentavano casi isolati rispetto alla norma98. Il mancato riconoscimento istituzionale dovette rendere più complesso il rapporto fra la categoria e l’autorità comunale. Circa il Mercato di Mezzo quale comparto urbano e luogo di mercato, vedi Parte I. ASBo, Assunteria d’Arti, Notizie sopra le Arti, Fornari, b. 1. Vedi inoltre: BCABo, Fondo Speciale Gozzadini, Raccolta Gozzadini, ms. Gozz. 259. Numerosi bandi, notificazioni, precetti relativi ai fornai e all’uso dei forni sono pubblicati nel sito web: BCABo, Archiweb, Raccolte Digitali, Raccolta Bandi Merlani. 96 Croce 2009. Il passo citato è nel Capitolo piacevole in lode del pane (p. 291). 97 Ibid., p. 290. 98 Riguardo a questo aspetto, vedi ultimo paragrafo di questa parte. 94 95
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Che il rapporto fra fornai e governo cittadino fosse difficoltoso è attestato ampiamente nella documentazione duecentesca. Significativa in questo senso è la normativa statutaria, rispettivamente, degli anni 1250-6799 e 1288100, nonché i registri prodotti dall’ufficio dei procuratori del comune101 e quelli dell’Officium bladi. Gli ufficiali di quest’ultimo, i domini bladi, furono incaricati di gestire l’approvvigionamento cerealicolo secondo gli ordinamenta straordinari promulgati nel 1259102. Dall’esame delle fonti sopracitate si riesce a tratteggiare, in linea generale, la funzione che i fornai svolsero nell’ambito dell’istituzione cittadina, l’organizzazione del loro lavoro nel tessuto urbano, il ruolo che ebbero rispetto alle altre categorie impiegate nel ciclo del pane. Si tratta di fonti dalle quali, tuttavia, non emerge chiaramente la distinzione fra pistor e furnarius/fornarius spesso impiegati l’uno per l’altro. Tale documentazione permette, tuttavia, di comprendere la politica approntata dall’autorità cittadina in merito alla preparazione e alla vendita del pane venale e di rilevare notizie circa il peso del pane, il suo prezzo, la dislocazione dei punti-vendita. L’insieme di questi provvedimenti costituì un aspetto importante della politica annonaria approntata per la prima volta negli statuti di metà Duecento103. La redazione di tali statuti si inquadra in un periodo in cui le società d’arti erano ormai parte attiva del governo. Tale situazione si definì a partire dal 1228, quando, a seguito della sommossa capeggiata dal mercante Giuseppe Toschi104, la parte popolare ottenne decisivi mutamenti nei dispositivi di governo del comune. Invece, la componente aristocratica già dal 1255 aveva visto ridurre notevolmente la propria partecipazione alla vita politica105. Gli statuti riflettevano questo mutato quadro politico, economico e sociale creatosi in anni di notevole espansione (anche in senso urbanistico) del centro abitato e di affermazione di nuovi gruppi di potere, da cui però i fornai e gli altri addetti al vettovagliamento erano esclusi106. Significative e non scontate sono in proposito le riflessioni di Augusto Gaudenzi che così commenta la rubrica relativa alle “società proibite”: «…la sanzione di questo divieto fu semplicemente “quod si facta fuerit, in numero et ordine aliarum societatum non recipiatur”, e solo furono proibite espressamente, sotto pena di un’ammenda, le unioni dei fornai, mugnai, abburattatori, osti, facchini, probabilmente perché si temeva che degenerassero in camorre, e producessero un rincaro nel pane e nel Statuti del comune di Bologna 1245-1267. Statuti dell’anno 1288. 101 Orlandelli 1954. Per un inquadramento della fonte, vedi Orlandelli 1951. L’inventario dei beni del comune del 1256 contenuto nella b. 1 di questo fondo, è stato pubblicato in Appendice al contributo di Foschi 2001. 102 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, p. 491. Cfr. Fasoli 1936b, pp. 52-53. 103 Ibidem, pp. 42-48. 104 Circa gli avvenimenti di questi anni, vedi Parte I. 105 Circa le vicende politico-istituzionali di quegli anni vedi Hessel 1975, parte III, cap. II. Vedi inoltre Greci 2007b. Cfr. Milani 2012. 106 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, II, p. 254. Cfr. Statuti arti, p. 523. 99
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vino»107. Motivazioni di ordine sociale ed economico furono probabilmente all’origine di questa disposizione, ribadita nelle redazioni statutarie successive. Si voleva impedire ai mestieri del pane (trasportatori, mugnai, abburattatori, fornai, pesatori di cereali) di riunirsi in associazione, affinché non acquisissero peso politico e il loro operato non avesse una forte ricaduta sull’oscillazione dei prezzi del pane e dunque sul potere di acquisto della popolazione urbana. Fattore, quest’ultimo, di notevole preoccupazione per il comune, in quanto poteva produrre sommosse e proteste, compromettendo l’ordine cittadino e i commerci. Risultava estremamente rischioso per il governo comunale concedere autonomia associativa alle professioni del vettovagliamento urbano, che avrebbero potuto creare una sorta di monopolio nell’ambito della filiera del pane, in termini di costi, tempi, ritmi e rapporti di lavoro. Dato il quadro istituzionale entro cui tali statuti furono concepiti e compilati, emerge evidente la rilevanza attribuita alle categorie professionali e al mondo mercantile e artigianale che esse rappresentavano. Nondimeno, se le società d’arti figuravano ben delineate nella normativa del 1250-67, non poche disposizioni concernevano anche i mestieri che non ebbero diritto di riunirsi in associazione, nella fattispecie quelli relativi all’approvvigionamento alimentare e all’ospitalità. Proprio perché si trattava di un ambito vitale, difficile e delicato per il governo della città – quello del rifornimento di viveri per la popolazione urbana – numerose regole furono stabilite in questi e negli statuti successivi, al fine di gestire e controllare il sistema annonario, in particolare il rifornimento cerealicolo. I fornai furono impiegati sin da subito in questo sistema, a partire dall’acquisto dei grani (o della farina) fino alla finale confezione del pane. Si trattava di un ruolo decisivo, in quanto, oltre a fare il pane, essi erano i principali acquirenti del frumento, del biado e della farina sul mercato urbano. Motivazioni di natura economica, finanziaria e politica concorrevano a farne perciò una categoria rigidamente controllata, la cui posizione giuridica di cives risultava di grado inferiore rispetto agli appartenenti alle società d’arti, poiché priva del diritto di partecipazione alla vita politica cittadina108. Al pari dei fornai, anche i mugnai, i brentatori, i tavernieri, i vetturali, gli osti si trovavano nella medesima condizione109. Gli addetti al vettovagliamento urbano erano inoltre posti sotto il controllo degli yscarii (o di quatuor qui sunt loco yscariorum), come si è visto, ufficiali il cui nome induce a pensare a un’origine longobarda della funzione, attivi già in epoca pre-comunale e fino al 1267110. Essi furono sostituiti in seguito da nuovi organi di sorveglianza imposti dal comune. In aggiunta alla norma relativa al divieto di riunirsi in associazione, di carattere coercitivo, si contano negli statuti di metà del Duecento altre rubriche nelle Gaudenzi 1899, p. 22. Sull’impossibilità di partecipare alla vita politica del comune ai non iscritti a un’arte, vedi Milani 2003. 109 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, II, p. 254. 110 Ibid. I, pp. 176-80. Cfr. Fasoli 1935a, pp. 256 e sgg; Fasoli 1972; Pini 1982, p. 273. 107 108
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quali si evoca il lavoro del fornaio. È il caso, per esempio, della rubrica «De pane faciendo ad pensam»111, attestata nei codici degli anni 1250-62 (ma cancellata da quello del 1264)112, il cui incipit rivela la volontà dell’autorità comunale di gestire direttamente il mercato del pane: «Ad hoc ut forenses possint habere panem in civitate Bononie factum ad pensam», ovvero affinché gli stranieri abbiano il pane secondo il giusto peso stabilito dal comune. Detta rubrica ribadisce che «duo pistores vel plures si videbitur potestati et conscilio pro quolibet quarterio eligantur singulis septimanis dum coequati fuerint omnes per quarteria, qui faciant panem ad pensam sibi datam a potestate vel ab aliis cui potestas commiserit, salvo quod non possit committi yscariis pensas». Due o più pistores dovevano essere eletti, uno per quartiere ogni settimana, in base alla volontà del podestà e del consiglio, o su ordine degli yscari. La pensa equivaleva al peso e alla misura del pane che si vendeva per conto del comune. Il pane di frumento aveva in quei secoli la forma di un piccolo pane bianco, tondo (che doveva essere ben cotto) come quelli rappresentati nella Tavola del Miracolo dei Pani di San Domenio, conservata nella chiesa bolognese di Santa Maria e San Domenico della Mascarella113, oppure quelli ritratti nell’affresco delle Storie di Santa Maria Egiziaca di Cristoforo da Bologna nella chiesa di San Giacomo Maggiore. In un particolare delle Storie, la Comunione e viatico di Santa Maria Egiziaca, è raffigurato un venditore nell’atto di porgere alla santa, che si affaccia alla porta, tre pagnotte attaccate l’una all’altra (a forma di triade)114. Se è possibile immaginare la forma dei pani grazie a queste (e altre) rappresentazioni iconografiche coeve e più tarde, più ostico risulta, invece, individuare il costo di un singolo pane confezionato ad pensam. Nella rubrica in questione, infatti, il prezzo non risulta indicato; probabilmente oscillava continuamente, influenzato da un insieme di fattori intrinseci alla situazione economica e politica cittadina, non facilmente prevedibili. Altri tipi di fonte, quali quelle cronachistiche, permettono di reperire qualche informazione circa il prezzo dei cereali (ma non del pane). Risulta, per esempio, che nel 1256, a seguito di una grave carestia verificatasi in Toscana, i contadini del contado di Lucca giunsero sino a Bologna e il comune bolognese offerse loro (e ai fiorentini) un’elevata quantità di frumento al prezzo di 8 soldi bolognini a corba115. Invece, in anni addietro, precisamente nel 1227, allorché si verificò un’estrema penuria di cibo e un’alta mortalità a Bologna e altrove, il frumento fu venduto per 3 lire di bolognini a corba, una corba di fave per 48 soldi, una di spelta Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, p. 199. Vedi Hessel 1975, p. 199. Riguardo al peso del pane e al suo valore monetario, vedi Travaini 2013. 112 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, p. 199. Questo statuto era stato copiato nel codice del 1264, ma in seguito cassato. 113 Vedi Calvia 2001-2002. 114 Riguardo alle forme e ai colori del pane nelle fonti iconografiche, vedi Parte IV. 115 Chronicon Bononiense, p. 56. 111
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per 34 soldi e una di miglio per 28 soldi116. L’andamento del prezzo del frumento era fortemente condizionato dagli eventi esterni, che fossero carestie, guerre, fenomeni climatici, ragioni di politica commerciale ed estera. I fornai bolognesi non avevano alcuna possibilità di condizionare il mercato del pane, essendo acquirenti del comune obbligati a sottostare alla normativa statutaria117. Sin dalla prima regolamentazione, l’organizzazione del lavoro dei fornai fu concepita su rotazione settimanale e su base territoriale. Nella stessa settimana nessun altro pistor o fornarius, fuorché quelli designati dal comune, poteva fare o cuocere il pane comunale, focaccine («fogacias»)118 o brazzatelle («braçadellas»), dolci simile alle ciambelle119. Al fornaio che osava fare il pane, o venderlo a nome del comune, in una settimana a lui non assegnata, spettava una pena assai dura: gli veniva confiscato il pane, era fustigato per la città o, in alternativa, doveva pagare 25 lire di multa. Nell’aggiunta ai codici del 1252-60 la multa saliva a 100 soldi e, nel codice del 1262, colui che infrangeva la regola era tenuto a pagare 103 soldi per la fabbricazione o il commercio di qualsiasi pane illegale. Ciascun pistor, inoltre, doveva essere eletto dai curiales ogni mese per una cappella (o, eventualmente, due pistores, se nella medesima cappella risiedeva un numero elevato di abitanti). Già in questa rubrica, la più dettagliata riguardo ai mestieri del pane negli statuti di metà Duecento, si delinea un’organizzazione del lavoro su base territoriale. Al pari delle altre categorie professionali, fra cui i salaroli120, la dislocazione dei luoghi dove esercitare l’arte (in questo caso la cottura presso il forno e la vendita del pane in punti strategici entro le mura) era vincolata alla ripartizione in circoscrizioni amministrative della città, ovvero i quattro quartieri, a loro volta suddivisi in cappelle. Tale ripartizione fu attuata a partire dal 1217-18, allorché gli esponenti delle più potenti società d’arte (mercanti e cambiatori) entrarono a far parte degli organi di governo121. Lo stesso principio di divisione territoriale fu ribadito nel pactum stipulato nel 1262 sotto la podesteria di Andrea Zeno da Venezia dai procuratori del comune122 con dodici fornai forestieri. La condizione di forestiero garantiva la totale estraneità del singolo alla vita politica (non essendo civis bolognese) e assicurava un controllo ancora maggiore sull’ars fornarie. Andrea Zeno, dal canto suo, nel 1262, durante il primo incarico di podestà123, volle che fosse annullato un contratto anteriore, pro De Griffonibus, p. 9. Aggiunta nei codici 52-62. Vedi Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, p. 200. 118 Carnevale Schianca 2011, p. 255. 119 Ibid., p. 81. 120 Pucci Donati 2008, pp. 187-215. La “zonizzazione” dei mestieri è una caratteristica importante delle società d’arti bolognesi. Vedi, per esempio, il caso dei merciai in Rinaldi 2008. 121 Hessel 1975. 122 ASBo, Comune Governo, Procuratori del Comune, b. 1, fasc. 9, 1962, cc. 10v-11r. 123 Andrea Zeno ricoperse la carica di podestà una seconda volta nel 1264. Cfr. Gualandi 1962; Legati, Podestà, Consoli e Capitani del popolo 2009 (http://badigit. comune.bologna.it/governo_ bologna/2index.html). 116 117
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mulgato da Giacomino Rangoni da Modena podestà nel 1259124. Le due podesterie di Andrea Zeno (rispettivamente, 1262 e 1264), come quelle successive, si inquadrano nella fase delle relazioni commerciali avviate fra Venezia e Bologna negli anni Sessanta, frutto della politica di penetrazione veneziana in Romagna125. Le disposizioni di Andrea Zeno non prevedevano deroghe. Risalgono, infatti, al 1262 due riformagioni in cui si obbligavano i fornai a sottostare alle regole del nuovo patto senza protestare, esporre denuncia o agire contro il podestà e la sua famiglia, essendo stati cassati i precedenti accordi stipulati con Giacomino Rangoni. Colui che contravveniva alla regola, doveva pagare 100 lire di bolognini entro tre giorni126. Tali riformagioni lasciano trapelare una certa difficoltà da parte dell’autorità comunale nel gestire una categoria professionale che, seppur impossibilitata a riunirsi in associazione e, talvolta, di provenienza esterna, poteva rivelare una capacità contrattuale non irrilevante, data la sua fondamentale funzione economica in ambito cittadino. Il documento approvato sotto la podesteria di Giacomino Rangoni, di cui è rimasto un accenno nelle due riformagioni sopra menzionate (inserite nel corpus statutario del 1250-67) è andato perduto. È pervenuto, invece, il pactum stilato il 14 dicembre 1262 dal podestà Andrea Zeno e dai procuratori del comune con i dodici pistores forestieri, di provenienza varia: quattro da Ferrara, uno da Padova, due da Imola, uno da Reggio Emilia, due da Piacenza, uno da Brescia, uno da Este127. Secondo tale pactum i fornai si impegnavano a prendere dimora nei quattro quartieri di Bologna per la durata di tre anni e promettevano di fare il pane venale «ad pensam» bollato con la bolla indicante ciascuno il proprio nome. Si trattava del pan buffetto («bufitum»), il pane bianco destinato alle élites, prodotto con il fior di farina, ottenuto da varietà selezionate di grano128. I pistores garantivano di vendere il «panem bufitum» bene preparato e lievitato, dalla forma tondeggiante, bianco e ben cotto. Sottoscrivendo questo contratto, i fornai si obbligavano a non commettere alcuna frode e attenersi agli ordinamenti stabiliti. Essi potevano guadagnare 12 soldi bolognini a corba di frumento; dovevano acquistare settimanalmente il Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, pp. 101-102. Cfr. Hessel 1975, p. 200, n. 144. Greci 2007b, p. 519. Circa le dinamiche commerciali fra Bologna e Venezia, vedi Parte II. 126 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, pp. 101-102. 127 ASBo, Comune Governo, Procuratori del Comune, b. 1, 1262, fasc. 9, c. 10v: «Tale pactum intum est inter dominem Andream Geno honorabilem potestatem Bononie et dominum Iohannem de Socis et dominum Çençorem milice procuratores comunis Bononie nomine et vice comunis Bononie ex una parte, et pro ipso comuni et pistores infrascriptos qui facere volunt panem pro comuni ex alia, scilicet: Gibertum quondam Redulfi de Bubet de Ferraria; Avanzum quondam Gerardi notarii de Padua; Ugulinum quondam Redulfi de Imola; Michaelem Redulfi de Imola; Albericum de Placentia pistorem; Petrum Iacomelli de Rigio; Bonum hominem pistorem de Ferraria; Martinum quondam Iohannis Blanci qui fuit de Ferraria; Girardum quondam Iacobini qui fuit de Hesto; Boninsignam pistorem de Placentia; Aserbinum quondam Belleboni pistorem de Ferraria; Corradinum quondam Aymerici qui fuit de Brixia». 128 Riguardo al pane in età moderna: Guenzi 1982, p. 40. Vedi inoltre, Messedaglia 1973, I, p. 170; Kaplan 1984, p. 58; Pult Quaglia 1990, pp. 157-159; Corritore 2000, p. 98. 124 125
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frumento necessario nei luoghi consentiti, ovvero presso il mercato ubicato nella piazza del comune e quello di porta Ravegnana129. Ai dodici fornai forestieri era proibito assumere alle proprie dipendenze un pistor bolognese, residente nella guardia civitatis o nel comitatus e, del pari, era vietato loro lavorare in un forno di terzi o altrove. Ciascun pistor doveva esercitare l’arte soltanto nel proprio forno o nella casa in cui abitava (munita di forno) con licenza del podestà. Questa seconda modalità (casa con forno) si riscontra anche in altre fonti documentarie di fine Duecento130. I fornai forestieri assunti dal comune assicuravano, inoltre, di non cuocere il pane per altri pistores o panicoculos e di non vendere il pane di terzi, ma soltanto quello «ad pensam» bollato come previsto da contratto. Rimaneva escluso il pane che essi facevano con le rimanenze di grano, che vendevano senza «pensa» e non bollato. I predetti fornai subivano dei controlli esclusivamente dagli yscarii della curia del podestà, o da altri che li rappresentassero, qualora non si attenessero alle clausole previste nel pactum. Nel medesimo pactum, inoltre, erano descritte dettagliatamente le modalità del lavoro da svolgersi presso il forno e le eventuali infrazioni alla norma. Se risultava che dieci pani (o meno di dieci) di un’infornata avevano un minor peso rispetto a quello richiesto, ma non oltre la mezza oncia, a causa dell’abbassamento («baxatura») delle pagnotte (o perché erano meno cotte), i fornai non potevano essere multati. Diversamente, se più di dieci pani avevano un peso inferiore rispetto alla norma, o, anche solo qualche pane pesava meno di mezza oncia, allora dovevano pagare per ogni pane di minor peso una multa pari a 12 bolognini e il pane veniva loro sequestrato. Tali indicazioni così precise lasciano supporre che la normativa fosse disattesa con una certa frequenza. Si riscontrano, infatti, numerose pene pecuniarie a carico di fornai in una documentazione di qualche decennio posteriore agli anni in cui questo pactum fu approvato (1262-64)131. Non poche multe riguardavano l’uso di frumento di proprietà non comunale, lo smercio di pane non bollato, l’impiego di frumento o di altri cereali di scarsa qualità oppure andati a male, nonché la vendita di pane scarsamente cotto. La casistica delle irregolarità era vastissima e le pene pecuniarie molto varie, anche se moderate in termini di denaro (più elevate erano quelle relative al trasporto illegale di frumento). Il confine fra lecito e illecito risultava spesso labile e sfuggente. Per questo il comune aveva approntato un sistema di controllo capillare sugli addetti al vettovagliamento urbano e, per lo stesso motivo, imponeva ai fornai, mediante la stipulazione di pacta come quello del 1262, di impegnarsi formalmente davanti al podestà e ai procuratori del comune. Una multa di 100 lire o il pignoramento dei Riguardo al Mercato di Mezzo, vedi Parte I. Vedi trattazione sugli estimi nel capitolo successivo. 131 La documentazione di cui accenno nel testo fa parte dell’Officium bladi, magistratura attiva sicuramente negli anni Ottanta del Duecento (i primi registri pervenutici risalgono al 1286-87) e forse anche prima. In essa numerose sono le multe a carico di fornai per inadempienze e commercio illecito. 129 130
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beni (nel caso non venisse pagata la multa) spettava a colui che non si atteneva alle regole del contratto. Dal canto loro, i procuratori e il podestà promettevano di tener fede alla promessa data. Il patto del 1262 non fu inserito negli statuti del 1250-67, tuttavia vi si accenna nelle riformagioni dello stesso anno (1262), quando l’allora podestà Andrea Zeno fece cassare il patto precedente. A questo pactum ne seguì un altro nel 1264, concordato con alcuni abitanti della città132, segno che l’esperimento di assumere fornai forestieri era rapidamente tramontato. In anni successivi ai primi pacta fra comune e fornai, incominciarono a essere attivi nel dispositivo delle magistrature annonarie i domini bladi, come si è visto, ufficiali creati dal governo cittadino per ovviare alle difficoltà economiche del 1259133. I domini bladi, uomini provenienti dalle fila dei gruppi economici e politici più influenti e potenti della città, disposero la stesura di una nuova normativa di cui si è già trattato134 – promulgata quale insieme di provvedimenti straordinari relativi all’anno 1259. In tale normativa fu ribadita la maggior parte delle regole riguardanti l’approvvigionamento cerealicolo, formulate nelle precedenti redazioni135. Altre, invece, come per esempio la rubrica sul pane «ad pensam» sopracitata, attestata negli statuti di metà Duecento, furono omesse. Gli stessi ordinamenta dei domini bladi del 1259 costituirono un nucleo significativo di disposizioni in materia annonaria, dalle quali si evincono informazioni circa i mestieri del pane. È il caso della rubrica riguardante gli albergatori136, che ribadisce il meccanismo di reclutamento delle categorie dell’ospitalità. Al pari dei pistores, anche gli albergatores dovevano essere eletti per poter ospitare i forestieri e i comitatini137 a nome del comune. Gli albergatores avevano il diritto di fare il «panem venalem ad pensam», bollato con la bolla su cui era impresso il loro nome, fino a quando non fossero stati nominati i pistores incaricati di confezionare il pane. Una volta designati questi ultimi, gli albergatori potevano fare, dare o vendere il pane e altri cibi soltanto a coloro che avrebbero alloggiato nella loro casa (o nel loro ospizio). La multa per chi contravveniva a tale disposizione ammontava a ben 100 lire di bolognini; a chi non pagava veniva amputato un piede. Gli albergatori, come nella normativa precedente, avevano licenza di vendere ai forestieri e ai comitatini orzo, spelta, miglio. Numerose multe a carico di albergatori, tavernieri e fornai rivelano uno smercio diffuso di grani e pani nelle case e nelle taverne, non propriamente legale, che spesso sfuggiva al controllo degli ufficiali del comune. Hessel 1975, p. 200. Vedi Parte II. 134 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, p. 495. 135 Circa questo tema, vedi Parte II. 136 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, p. 524. Tale norma era già stata introdotta nelle redazioni precedenti. Riguardo all’ospitalità nel Medioevo e alla categoria professionale degli osti e degli albergatori, vedi Peyer 1990; Tuliani 2006. 137 Riguardo al comitatus bolognese nel pieno e tardo Medioevo, vedi Descriptio civitatis Bononie; Zagnoni 2001; Cianciosi 2008. 132 133
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Se i divieti e gli obblighi delle suddette categorie erano ribaditi nella normativa del 1259, altre misure più concrete, quali la ripartizione territoriale del lavoro dei pistores e la rotazione settimanale degli stessi, divennero – a fine Duecento – prerogativa dell’Officium bladi. La prima documentazione pervenutaci prodotta da questo ufficio risale agli anni 1286-87138 e riguarda la gestione e il controllo dell’intero sistema annonario bolognese. Fra gli ordinamenta dei domini bladi del 1259 e i primi documenti dell’Officium bladi sono trascorsi 27 anni. Un lasso di tempo di non facile interpretazione in rapporto alla configurazione che assunsero le magistrature cittadine riguardo al problema dell’approvvigionamento. Data l’evoluzione dell’istituzione comunale verso una sempre maggiore specializzazione degli uffici amministrativi e finanziari, è plausibile ritenere che l’Officium bladi avesse acquisito gradatamente un ruolo centrale nell’organizzazione del sistema annonario. Si tratta di una fonte – quella dell’Officium bladi – estremamente significativa per ricostruire, sulla base di un esame a campione dei fascicoli conservati, tasselli della politica economica promossa dal comune. Tale documentazione risulta composta per lo più di registri contabili tenuti da un ufficiale alle dipendenze dei domini bladi, in carica per 6 mesi, chiamato depositarius. In questi registri si annotava ogni genere di provvedimento assunto in materia di approvvigionamento: dai rifornimenti di frumento e altri cereali provenienti dal contado e da oltre il distretto, ai prezzi dei quantitativi, agli stipendi degli addetti al vettovagliamento, al frumento macinato presso i mulini urbani e la campagna circostante, alla dislocazione dei fornai in città. Il più antico documento pervenutoci139, già esaminato in parte, relativo al primo semestre del 1287, attesta nuovamente la zonizzazione dei fornai per quartiere e cappella, ma in maniera più capillare rispetto al patto dei procuratori del 1262. Nella fattispecie, vi si indica che il depositario consegnava a venti fornai, settimanalmente, 400 corbe di frumento, 20 corbe ciascuno. I fornai erano distribuiti cinque per porta (Stiera, San Procolo, Ravegnana, Piera) e identificati con la cappella di residenza. Essi erano deputati a fare il pane a turno ogni settimana, a partire dal gennaio 1287 fino a giugno dello stesso anno. Un certo numero di nominativi si ripete nelle varie settimane, segno che il comune si rivolgeva più spesso a fornai con cui aveva già stabilito dei rapporti di lavoro. I fornai erano tenuti a dare securitatem, ossia una garanzia di fideiussione, che di fatto si traduceva in una somma di denaro versata ai domini bladi. In quegli stessi anni il governo bolognese promosse la redazione di nuovi statuti cittadini, i già menzionati statuti del 1288, nei quali si ribadiva la proibizione per i mestieri del cibo e dell’ospitalità di riunirsi in società140. In essi, come si è visto, è presente una regolamentazione articolata del sistema annonario cittadino, che riprende le redazioni di metà degli anni Cinquanta e aggiunge nuove disposizioni. Materiale prodotto dall’Officium bladi, registro anni 1286-87. ASBo, Comune Governo, Procuratori del Comune, b. 1, 1262, fasc. 9, cc. 26-29. 140 Statuti di Bologna dell’anno 1288, II, p. 220. 138 139
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Scompare, per esempio, dalla redazione del 1288, la figura degli yscarii quali funzionari incaricati di sorvegliare gli addetti al vettovagliamento urbano, sostituiti dagli ufficiali della gabella e da quelli dei mulini (i domini de gabella e i domini molendinorum et garnariorum)141. Non si riscontra, invece, la presenza di una normativa specifica riguardante i domini bladi, confluita nelle riformagioni dei medesimi statuti. Non sono registrate, inoltre, rubriche specifiche attinenti al pane o ai fornai, a parte quell’unica concernente il divieto di associarsi. Sono altresì attestate alcune norme circa il lavoro dei mugnai142, nonché i dazi del biado143 e del frumento144, che interessavano i fornai in qualità di acquirenti del comune. Ai domini bladi il consiglio del popolo attribuì in quegli anni un numero sempre maggiore di funzioni rispetto a quelle assegnate nella normativa redatta nell’anno 1259. Essi, infatti, giunsero a partecipare ai vertici decisionali del comune, presenziando in ogni consiglio particolare insieme con il podestà e gli anziani e consoli, riguardo a provvedimenti non soltanto di carattere annonario. È proprio fra le fila dei domini bladi, e di coloro che si occupavano delle entrate e delle spese del comune, che compare spesso, anche soltanto in qualità di consigliere, il nome di Romeo Pepoli145. È infatti nelle sedute del consiglio del popolo che si prendevano provvedimenti urgenti in materia annonaria, non di rado supportati dall’élite finanziaria bolognese. Le disposizioni più significative stabilite in quelle sedute potevano riguardare gli ambiti di competenza dei singoli ufficiali addetti al ciclo produttivo dei cereali e i rapporti gerarchici fra gli uni e gli altri. Interessanti in proposito sono le riformagioni del 1292146 nelle quali si stabilisce che, qualora i domini bladi rimanessero senza frumento da dare ai fornai, gli stessi domini dovevano richiedere a quelli dei granai (domini garnariorum) il quantitativo di frumento rimasto nei depositi. In tal modo, i domini bladi avrebbero potuto consegnarlo ai fornai dietro il pagamento di una gabella (il cui prezzo a corba era in loro potere fissare). I fornai facevano il pane venale del comune con questo frumento147, oppure con la mistura fornita loro dai domini bladi148. In una successiva riformagione dello stesso anno149 si aggiunge Ibid., I, p. 125. Cfr. Pini 1982, p. 278. A proposito del mulino, si riscontra l’impiego nelle fonti bolognesi dei termini molendina e pistrina, con accezione non equivalente. 143 Statuti di Bologna dell’anno 1288, I, p. 123. 144 Ibid., I, p. 126. 145 Sulla figura e il ruolo di Romeo Pepoli, vedi Giansante 1991; Papi 2011. Cfr. Lettieri 2012, pp. 796-797. 146 ASBo, Comune-Governo, Riformagioni e Provvigioni, Riformagioni del Consiglio del Popolo e della Massa, n. 135, reg. II/4, 1292. 147 ASBo, Comune-Governo, Riformagioni, Riformagioni del Consiglio del Popolo e della Massa, n. 135, reg. II/4, 1292, c. 174v. 148 ASBo, Comune-Governo, Riformagioni, Riformagioni del Consiglio del Popolo e della Massa, n. 135, reg. II/4, 1292, c. 175r. 149 ASBo, Comune-Governo, Riformagioni, Riformagioni del Consiglio del Popolo e della Massa, n. 135, reg. II/4, 1292, cc. 197v-198r. 141 142
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va che il ricavato della vendita del frumento ai fornai doveva essere impiegato per acquistare il biado forestiero per la città. Tale compito spettava a quattro boni et legalles et fide digni homines di età non inferiore a quarant’anni, garanti e fideiussori del comune, eletti dal consiglio per un anno, dalle calende di luglio del 1292 fino alle calende di luglio dell’anno successivo. Detti uomini erano tenuti a prestare al governo cittadino una bonam et ydoneam securitatem pari a 10 mila lire di bolognini ciascuno, una somma elevatissima per quei tempi 150. Generalmente le securitates più consistenti erano di 1000 lire di bolognini. Evidentemente, in questo caso la situazione finanziaria del comune doveva essere compromessa a tal punto da indurre il governo a richiedere una quantità di denaro ingente ai quattro uomini prescelti, che erano dei prestatori. Con la formula della securitas, di fatto, il comune riusciva ad esigere anche prestiti forzosi di entità considerevole. Era quella dei prestiti forzosi una pratica diffusa presso i comuni dell’Italia centro-settentrionale151; a Venezia, per esempio, essa fu attuata già verso la fine XII secolo, prima ancora che l’istituzione annonaria fosse attivata152. A Firenze, a partire da fine Duecento e nel corso del Trecento, il comune ricorse di frequente a prestiti forzosi per finanziare l’annona; fra le fila dei prestatori vi erano spesso le arti maggiori, in particolar modo l’arte della lana153. A Bologna si scelsero dunque alcune persone, i quattro boni et legalles homines appunto, incaricate espressamente di gestire la vendita del frumento e degli altri cereali sul mercato urbano. Con il denaro ricavato essi avevano l’obbligo di acquistare nuovo biado da fuori e farlo giungere in città, oltre a provvedere a suddividerlo fra i pistores settimanalmente, secondo la volontà del depositario dei domini bladi. I quattro uomini dovevano inoltre sorvegliare i pistores, affinché non tentassero di rifornirsi di frumento, farina o biado presso terzi, oppure cercassero di smerciarlo in città o nel distretto154. Una volta comprato il grano, i fornai erano tenuti a farsi carico della molitura presso i mulini cittadini; oppure, potevano acquistare direttamente la farina dai mugnai o dagli ufficiali del comune. Che si trattasse di frumento o farina, le interdizioni erano ribadite con insistenza nelle riformagioni; numerose erano le multe inflitte ai fornai dagli ufficiali dei domini bladi. Da questa documentazione trapela un microcosmo di rivendita e acquisto illecito di grano e pane. Non poche contravvenzioni avevano, infatti, come protagonisti fornai e mogli di fornai che portavano il pane presso la taverna o l’osteria del vicino, con i quali avevano, probabilmente, una consuetudine di scambi. Così riporta il testo. Vedi Molho 1996; Boone, Davids, Janssens 2003; Ginatempo 2000; Molho 2006, pp. 37-61. 152 Faugeron 2009a, pp. 133-137; Faugeron 2014, pp. 135-141. 153 Pinto 1978, pp. 123-126. 154 ASBo, Comune-Governo, Riformagioni, Riformagioni del Consiglio del Popolo e della Massa, n. 135, reg. II/4, 1292, cc. 197v-198r. 150 151
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Le riformagioni di fine Duecento155, fra cui quella menzionata del 1292, furono redatte in una fase molto difficile per il governo bolognese, come si è visto, una fase di decadenza della città, provata ora dalle continue lotte interne e dai conflitti esterni. La cacciata dei Lambertazzi segnò l’affermazione sulla scena politica di Rolandino de’ Passeggeri. La guerra persa contro Venezia (1273) aveva indebolito la vecchia aristocrazia cittadina, permettendo al populus, guidato da Rolandino, di allearsi con l’aristocrazia filo-papale per allontanare dalla città i sostenitori filo-imperiali e, in seguito, anche non pochi magnati guelfi156. L’affermazione popolare coincise così con l’inizio di nuovi conflitti. Nel 1278 Rolandino fu nominato “anziano perpetuo”, carica che gli conferiva la preminenza assoluta; lo stesso anno l’accordo tra Rodolfo d’Asburgo e papa Niccolò III cambiò completamente il quadro politico. L’anno seguente i bolognesi giurarono fedeltà al papa, ma iniziò ben presto un nuovo scontro che vide contrapporsi il populus all’oligarchia filo-papale. Furono decenni di aspri conflitti di cui gli Ordinamenti sacrati e sacratissimi già menzionati costituiscono l’espressione più significativa sul piano normativo157. Negli stessi decenni, alle lotte interne si aggiunsero quelle esterne. La guerra contro Venezia fu seguita dal conflitto ingaggiato nei confronti della signoria estense, che impegnò Bologna dal 1296 al 1298158. Il contado bolognese e le sue colture furono messi a dura prova dalla guerra provocata da Azzo VIII d’Este, che creò un fronte di alleanza con le città ghibelline romagnole159 per contrastare il governo papale e minare l’influenza di Bologna sulla Romagna. Verso il confine occidentale Azzo III d’Este trovò sostegno nei modenesi. A fianco dei bolognesi si strinsero Parma, Piacenza, Brescia, Milano con Matteo I Visconti in qualità di capitano del popolo, e gli estrinseci di Reggio e Modena capeggiati dai Rangoni, che furono i principali artefici delle spedizioni militari sul versante orientale montuoso del Frignano. Le vicende della guerra si conclusero anche grazie all’arbitrato di Firenze e di papa Bonifacio VIII con la cessione a Bologna dei castra limitanei di Bazzano e Savignano sul Panaro. Questo scontro determinò non poche conseguenze sul piano economico. Le riformagioni del consiglio del popolo di quegli anni attestano varie strategie adottate dal comune per recuperare denaro, fra cui, nel 1295, la vendita arbitraria di quantitativi di frumento. Continue erano le suppliche da parte dei comuni del contado, Per un’analisi delle riformagioni in rapporto alla politica di approvvigionamento del grano fra Due e Trecento, vedi Braidi 2008, pp. 351-349. 156 Milani 1996; Milani 2003. Cfr. Braidi 2008, p. 251. 157 Gli Ordinamenti sacrati e sacratissimi costituiscono il libro V dell’edizione Fasoli-Sella, che fu strappato dal codice originale nel marzo 1292 in una fase di reazione alla politica antimagnatizia condotta dalle compagnie di popolo, e sostituito da altre norme di carattere più conciliativo. La reazione popolare determinò il ripristino degli antichi ordinamenti. Vedi Fasoli 1933; Braidi 2008, p. 253. 158 Gorreta 1906. Cfr. Vasina 2007, pp. 581-651. Cfr. Braidi 2008, p. 253. 159 La lega comprendeva i comuni di Cesena, Forlì, Faenza, Imola, Bagnacavallo, gli estrinseci di Ravenna, Rimini e Bertinoro, i fuoriusciti bolognesi di parte lambertazza e le città di Modena, Reggio, e Ferrara. Cfr. Braidi 2008, p. 254. 155
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sprovvisti di uomini per la difesa e la manutenzione dei castra. Si giunse nel 1297 a imporre una vendita forzosa di grano ai cittadini fino al prezzo di 28 soldi la corba. Fu in questo contesto che il consiglio del popolo incominciò ad attribuire sempre più poteri ai domini bladi. Nel maggio 1299 il procuratore del comune di Bologna comparve davanti al priore e al gonfaloniere di giustizia di Firenze, al cui arbitrato erano ricorse le parti per suggellare la pace. Questi lamentò le scorrettezze di Azzo VIII d’Este, che aveva proibito il passaggio dei mercanti bolognesi impegnati a trasportare a Bologna quantitativi di frumento. Lo stesso Azzo d’Este aumentò il dazio richiesto ai mercanti in ragione di 4 denari per lira del valore stimato di ogni merce diretta a Bologna, e continuò questa politica per altri anni160. Poiché le terre del contado versavano in condizioni di degrado e vi era una forte penuria di viveri, il consiglio del popolo fu costretto ad acquistare grano oltre il distretto bolognese, rivolgendosi a Venezia nell’agosto 1303161. In tale contesto si inquadra la già citata rivolta del pane del 1311 datata 29 aprile162, l’unica di cui si abbia notizia nelle cronache bolognesi due-trecentesche163. L’impossibilità di trovare frumento presso il mercato della piazza del comune e di quello del trivio di porta Ravegnana, il cui prezzo era già proibitivo per ampi strati della popolazione (30 soldi e più, a corba di frumento), scatenò la rivolta dei bolognesi. Decenni di lotte interne cui si era aggiunta la guerra contro la signoria estense avevano aggravato il problema dell’approvvigionamento dei beni prima necessità. Il consiglio del popolo prese allora una serie di provvedimenti straordinari: furono espulsi dalla città e dal contado coloro che erano ritenuti delle “bocche” di troppo da sfamare; il frumento doveva essere venduto soltanto ai cittadini a 20 soldi la corba. Si ribadiva a chiunque di vendere il biado nei luoghi di mercato previsti dalla normativa, ossia le piazze del comune e di porta Ravegnana. Infine, si stabiliva una nuova elezione dei domini bladi e dei loro notai. In tale circostanza venne ridefinita la figura di questi ufficiali, il cui compito fu affidato agli anziani e consoli e a sapienti da loro scelti. Secondo le nuove disposizioni i domini bladi erano eletti dal “consiglio dei quattromila” e dal “consiglio del popolo”, quattro per quartiere coadiuvati da quattro notai; dovevano prestare 1000 lire di bolognini al comune a garanzia del corretto esercizio della carica. Essi avrebbero dovuto mettere in atto qualsiasi strategia per rifornire in modo adeguato la città e scongiurare ulteriori rivolte: ovvero, acquistare e condurre il frumento e ogni tipo di granaglia dai distretti di altre città nel territorio bolognese, venderlo in città al prezzo stabilito con l’avvallo degli anziani e consoli. I domini bladi erano inoltre Ibid., p. 261. Ibidem. 162 Ibidem. 163 Corpus chronicorum Bononiesium, p. 317 (Cronaca A): «Item dicto anno frumentum et omnia comestibilia cara fuerunt Bononie, preterquam olei et lupini, et valebat corbes frumenti XXX solidos et ultra; et quia non poterat haberi de frumento, rumor fuit in platea et in tribio porte Ravenatis». Cfr. Braidi 2008, p. 251, p. 261. 160 161
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incaricati di adottare qualunque misura per impedire l’esportazione di cereali o farina dal territorio. Essi erano tenuti a vigilare affinché la farina proveniente dai mulini del contado giungesse nelle mani degli ufficiali del comune addetti alla raccolta del biado (cariche spesso ricoperte dai frati degli ordini religiosi cittadini), i quali dovevano assegnarle ai fornai del comune. La riorganizzazione dei domini bladi non risolse il problema dell’approvvigionamento cerealicolo, che necessitava di ingenti investimenti in denaro da impiegare nell’acquisto di frumento e biado164. Nelle precarie condizioni finanziarie in cui versava il comune all’inizio del Trecento furono personaggi come Romeo Pepoli165, il ricco banchiere “cripto-signore” del comune, a risollevare le sorti della città. La sua intraprendenza non fu d’altronde isolata; a diversi livelli varie personalità concorsero a partecipare alla vita economica bolognese, promuovendo nuove attività imprenditoriali. Esemplificativo è il caso di Giacomo Casella166, figlio di un drappiere che si trasformò in beccaio di successo e venditore di bestiame; o quello dei Guastavillani167, ricchi imprenditori che, grazie ai proventi del commercio di cereali e di bestiame, si inurbarono a Bologna e assursero a famiglia senatoria. Significativa fu inoltre la vicenda dei Bentivoglio168 i quali tra Due e Trecento, incominciarono la lenta scalata verso il potere. Fu, tuttavia, Romeo Pepoli colui che intervenne maggiormente nella politica di quegli anni, grazie al prestigio personale progressivamente acquisito; partecipò infatti a tutte le balìe create fra il 1310 e il 1312. Le balie erano delle magistrature straordinarie con poteri eccezionali istituite dal populus per un tempo determinato. Romeo Pepoli era divenuto l’esponente di spicco di una nuova cerchia ristretta composta da un’élite finanziaria ed economica, che seppe approfittare del disordine politico e del progressivo sgretolarsi delle fortune filo-imperiali. La sua presenza divenne indispensabile perché fosse realizzato qualsiasi programma del comune. Egli riuscì ad avere accesso ad alcuni degli organi decisionali della città e a influenzare gli ufficiali pubblici, suscitando tuttavia scontentezza e malumore. Proprio il sostegno o l’opposizione alle sorti dei Pepoli determinò una nuova spaccatura che per molti decenni avrebbe caratterizzato il confronto interno: quella fra gli Scacchesi, sostenitori dei Pepoli, e i Maltraversi, loro oppositori capeggiati dai Gozzadini. In questo clima politico si inseriva l’attività dei domini bladi, i quali gestivano l’intero ciclo del pane e prendevano importanti decisioni relative a problemi di emergenza quotidiana. A tale genere di provvedimenti si aggiungevano i patti che periodicamente i domini bladi stipulavano con i fornai, analoghi a quelli duecenteschi. Per esempio, nel pactum del 1314169 sono menzionati i nominativi dei fornai 166 167 168 169 164 165
Ibidem, pp. 271-272. Giansante 1991. Pini 1977a; Pini 1993b. Coser, Giansante 2003. Ady 1965; Bocchi 1971; Bocchi 1971; Bocchi 1976. Si tratta di un fascicolo del 1314 dell’Officium bladi.
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suddivisi per quartiere e identificati con la cappella di residenza, ciascuno munito di fideiussore170. Ogni fornaio si impegnava a vendere soltanto il pane preparato con il frumento del comune, bollato con la bolla del comune. Questi garantiva, inoltre, di consegnare il denaro ottenuto dalla vendita del pane agli ufficiali dei granai, di non tenere in casa per sé e la propria famiglia più di una corba di farina. Ogni fornaio non poteva cuocere il pane senza licenza del dominus executor dell’Officium bladi. Chi contravveniva a queste disposizioni, veniva sanzionato con una multa abbastanza elevata, pari a 100 lire di bolognini171. Il rapporto contrattuale fra la categoria dei fornai e l’autorità cittadina fu ufficializzato in una normativa speciale del 1327 promossa dai domini bladi e approvata dal cardinale Bertrando del Poggetto (1327- 1332)172 lo stesso anno in cui divenne signore della città. Tale normativa era il risultato dell’evoluzione della politica attuata dalle istituzioni comunali consistente nell’affidare a magistrature specifiche una parte dei propri poteri in materia annonaria. Si tratta di una tendenza comune a molti nuclei urbani del centro nord Italia, fra XIII e XIV secolo. A Venezia, per esempio, fu redatto fra il 1350 e il 1365 il Capitolare degli ufficiali al formento, che attesta l’esistenza di vari uffici subalterni all’autorità cittadina, addetti ai diversi aspetti dell’approvvigionamento e commercio dei cereali173. Anche l’ordinamento bolognese del 1327 costituiva il proseguiemento dell’esperienza legislativa precedente; tuttavia, la sua elaborazione coincise, come si è accennato, con un mutamento del quadro politico. Bertrado del Poggetto, infatti, ricoprì contemporaneamente le cariche di legato pontificio e dominus di Bologna. Furono i vertici cittadini a consegnare il governo nelle sue mani (5 febbraio 1327), per porre rimedio alle debolezze in cui versava la città, a seguito della sconfitta militare riportata a Zappolino nel 1325 contro l’esercito filo-imperiale. Sin da subito Bertrando rivelò notevole intraprendenza riguardo ai problemi più urgenti, anche se emerse ben presto la sua ambiguità sul piano istituzionale, dovuta alla duplice veste di signore e legato pontificio, orientato a perseguire la causa della Chiesa a scapito degli interessi dei bolognesi. Bertrando lesse il trasferimento dei poteri alla propria persona, e per suo tramite al pontefice, come atto privo di condizionamenti, tanto che pose fine alle attività dello stesso consiglio. Egli scelse Bologna come perno della politica italiana del papato avignonese, che intendeva creare un forte stato guelfo nell’Italia settentrionale, indipendente dall’influenza angioina. Estraneo ai difficili equilibri dell’oligarchia urbana, Bertrando del Poggetto mirò soprattutto a ristabilire una pace formale, presentandosi come leader super partes. Attivò immediatamente una serie di riforme in materia amministrativa e fiscale, esautorando le strutture comunali esistenti, allo scopo di riassestare le finanze 172 173 170 171
Materiale dell’Officium bladi, anno 1314, fascicolo alle cc. 1-3, 6-7, 9, 12. Materiale dell’Officium bladi, anno 1314. Ciaccio 1905. Cfr. Vasina 2007, pp. 622-625. Faugeron 2013.
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cittadine e promuovere la realizzazione di importanti opere pubbliche. Significativi provvedimenti furono adottati anche in ambito istituzionale; provvedimenti che trasformarono rapidamente il comune in signoria174. Di fatto la politica attuata da Bertrando del Poggetto risultò assai onerosa per i bolognesi dal punto di vista fiscale175, in quanto si prevedeva la continuazione dei lavori di completamento della circla già disposti nel marzo 1327 e la costruzione della rocca di Galliera, la fortezza del legato, i cui lavori iniziarono nel 1330 e si conclusero due anni dopo. In tale contesto si inquadra, inoltre, l’estimo del 1329176, promosso allo scopo di rinnovare i precedenti ruoli d’estimo e imporre una nuova esazione di imposte. Accanto a questi provvedimenti Bertrando del Poggetto approvò gli ordinamenta dei domini bladi del 1327, concepiti per ottenere una maggiore efficienza nel sistema di approvvigionamento cerealicolo. La difficile situazione economica e finanziaria spinse, probabilmente, il cardinale ad approvare tali ordinamenta, che rientravano in quel disegno di revisione dello statuto del 1288 voluto da Bertrando stesso, e attuato mediante l’istituzione di una commissione formata da esperti di diritto. È noto che questo statuto, di cui non è rimasta traccia, fu emanato nel 1332 dopo un lungo lavoro preparatorio volto a ridefinire le magistrature e i compiti dei nuovi ufficiali del governo cittadino, di cui si riscontrano numerose influenze nella raccolta del 1335177. Le disposizioni del 1327 riflettono un’ulteriore segmentazione delle fasi del ciclo del pane rispetto ai primi del Trecento e, parallelamente, registrano la creazione di un sistema capillare di controllo sugli addetti al vettovagliamento urbano. È proprio nell’ambito di questa normativa speciale che compare per la prima volta l’Officium fornariorum et panicogolorum, probabilmente istituito in quella circostanza. Così recita l’incipit: «In Dei nomine amen et Beate Marie Virginis glorioxe matris eius et omnium sanctorum et sanctarum eius. Statuta, provixiones et ordinamenta officii fornariorum, panicogollorum, hospitatorum et tabernariorum civitatis Bononie et alliorum quorumcumque faciencium contra dictum officium»178. Nella prima rubrica179 si dichiara la volontà di controllare l’attività di queste categorie e la necessità di sorvegliare i conti dell’ufficio dei granai e di quello dei fornai180. Nelle rubriche seguenti si affrontano altri aspetti inerenti all’organizzazione di dette magistrature. Vi si certifica, per esempio, che l’ufficio dei fornai riceveva 1200 corbe di frumen Per un approfondimento circa le innovazioni di carattere istituzionale attuate da Bertrando del Poggetto, vedi Ciaccio 1905, pp. XXV-XXVI. 175 Circa la politica fiscale di Bertrando del Poggetto, vedi Matassoni 1996; Pini 1996a; Pirillo, 1995. 176 Pirillo 1996. 177 Introduzione a Lo statuto del 1335, pp. XXXI-XXXII. 178 BCABo, Fondi Speciali, Manoscritti B, B. 4094, c. 1r. Cfr. Fanti, Sighinolfi 1990, p. 94. 179 Nel manoscritto le rubriche, evidenziate in rosso rispetto al corpo del testo, non sono numerate; si indica qui una numerazione crescente a partire dalla prima carta. 180 BCABo, Fondi Speciali, Manoscritti B, B. 4094, c. 1r. 174
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to al mese in ragione di 36 soldi a corba, un prezzo assai elevato se confrontato con le stime duecentesche181, ma conforme all’andamento europeo di crescita del prezzo del frumento sul mercato fino a metà Trecento182. Secondo tale ordinamento il pane doveva essere ben cotto, pari al peso di almeno 6 once, e munito della bolla del comune. I fornai erano tenuti a dare all’ufficiale dei domini bladi (come garanzia) 50 lire di bolognini entro otto giorni da quando avevano incamerato il quantitativo di grano183. Gli ufficiali dei granai, a loro volta, avevano l’obbligo di dichiarare i quantitativi di frumento immagazzinati e la parte che avrebbero dato, a loro volta, ai fornai184. Anche i mestieri dell’ospitalità era coinvolti nello smercio del pane. I tavernai potevano vendere il pane nella propria taverna, ma non altrove; né i fornai, i panicogoli e i tavernai avevano il permesso di fare il pane per smerciarlo in piazza o altrove, senza la licenza dei domini bladi. La pena pecuniaria per colui che non ottemperava a tali condizioni ammontava a 100 soldi e 12 denari a pane. Era un sistema di gestione che si avvaleva in parte della sorveglianza esercitata dai fornai stessi su altri elementi che praticavano l’ars fornarie. Gli ordinamenta del 1327, infatti, prevedevano una sorta di selezione all’interno della categoria degli ufficiali del biado, che dovevano eleggere quattro fornai (o, anche, non necessariamente fornai) della città o del distretto, da assegnare ciascuno a un quartiere. Questi ultimi avevano il diritto di entrare e uscire dalla città senza armi, sia di giorno che di notte, ed erano incaricati di denunciare tutti coloro che non preparavano il pane seguendo l’ordinamento previsto (senza bolla o licenza, o con frumento sconosciuto)185. Sia i fornai che i tavernai e gli osti avevano l’onere di esporre un’insegna fuori dalla casa dove esercitavano l’arte, in modo che li si potesse identificare chiaramente186. Una volta pagato il frumento al prezzo stabilito dai domini bladi, i fornai avevano diritto di vendere il pane in proprio. Se invece non lo acquistavano, erano tenuti a confezionarlo e a restituirlo agli ufficiali dei domini bladi187. Si tratta di una documentazione significativa, che segna l’istituzionalizzazione di una serie di magistrature delineatesi precedentemente, a cavallo fra Due e Tre181 BCABo, Fondi Speciali, Manoscritti B, B. 4094, c. 1r: «De laboratione fienda per fornarios civitatis Bononie de frumento dicti comunis». 182 Palermo 1997, p. 230, p. 238. 183 BCABo, Fondi Speciali, Manoscritti B, B. 4094, cc. 1r-v: «De satisfacione ydonea prestanda coram dicto officiali». 184 BCABo, Fondi Speciali, Manoscritti B, B. 4094, c. 1v: «De frumento comunis Bononie dandum per fratrem vel allium existentem ad garnarium dicti comunis causa laborandi frumenti». 185 BCABo, Fondi Speciali, Manoscritti B, B. 4094, c. 2r: «De ellectione fienda per dictum officialem vel eius successoribus de quatuor fornariis vel alliis non fornariis qui debeant ingerere de omnibus et singulis soprascriptis et infrascriptis». 186 BCABo, Fondi Speciali, Manoscritti B, B. 4094, c. 2v: «De insignis tenendis per fornarios, tabernarios, hospitatores de die et de note». 187 BCABo, Fondi Speciali, Manoscritti B, B. 4094, c. 3v.
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cento, quando l’Officium dominorum bladi era già operativo e si stavano creando le premesse per l’attuazione di una gestione capillare dell’approvvigionamento alimentare. Rispetto alla normativa precedente, non vi è più menzione della rotazione settimanale dei fornai, probabilmente perché alla politica economica del governo comunale erano subentrate altre strategie avviate in un quadro politico completamente mutato. Rispetto al periodo del governo comunale, intorno agli anni Trenta del Trecento i fornai avevano un maggiore margine di manovra nel settore della vendita; rimanevano tuttavia vincolati alle disposizioni governative per quanto riguarda l’acquisto della materia prima e il prezzo del pane. In proposito, gli ordinamenta del 1327 contenevano un tariffario dettagliato relativo al dazio del pane188, menzionato per la prima volta proprio in questo documento. Anche altrove si riscontrano attestazioni del genere a partire dal XIV secolo; per esempio, a Firenze la prima gabella del pane è datata 1305; essa veniva appaltata all’arte dei fornarii per una somma annuale di 2.800 lire189. Tale dazio a Bologna era gestito da un conduttore che aveva il diritto di amministrare due forni in qualunque parte della città, presso i quali poteva fare e vendere il pane venale e ogni genere di impasto cotto («omne genus paste chote»). Il peso del pane oscillava a seconda del prezzo del frumento; se il frumento costava di più, il pane necessariamente pesava di meno (ed era più piccolo). Il tariffario serviva a proporzionare i prezzi in rapporto alle quantità; per esempio, il pane cotto doveva avere la consistenza di almeno 8 once190 se il frumento costava al massimo 20 soldi a corba. Se, invece, il frumento era stimato fra i 20 e i 25 soldi (inclusi) a corba, il pane cotto pesava 7 once almeno. Se il frumento veniva valutato da 25 soldi fino a 30 a corba, il pane cotto doveva essere almeno di 6 once. Se il prezzo del frumento oltrepassava i 30 soldi a corba, allora il conduttore del dazio doveva percepire dal fornaio (o da chi faceva il pane per venderlo) 4 soldi a corba; dunque, il peso del pane cotto doveva essere inferiore alle 6 once. Il rialzo del prezzo del frumento era la conseguenza di una minore disponibilità di cereali sul mercato. Secondo un’ulteriore disposizione non era lecito preparare il pane o la pasta in città o nella guardia, senza la licenza del conduttore del dazio del pane. Al trasgressore veniva inflitta una multa di 5 lire e oltre, di cui una metà spettava al comune e l’altra al conduttore191. Quest’ultimo aveva «omnem iurisdictionem, arbitrium et baylia que continetur in provisionibus factis super dacio panis»192.
Riguardo al dazio del pane e agli altri dazi inerenti al ciclo de pane, vedi Parte II. La Roncière 1982, pp. 41-43. 190 Un’oncia equivale 28, 35 grammi. Vedi Martini 1976, p. 92. 191 BCABo, Fondi Speciali, Manoscritti B, B. 4094, c. 6r: «Dacium fornariorum et panis civitatis Bononie et eius pacta Rubrica». 192 Ibidem. 188 189
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prezzo del frumento a corba peso del pane cotto
fino a 20 soldi 8 once
20-25 soldi
25-30 soldi
almeno 7 once almeno 6 once (fra 7 e 8) (fra 6 e 7)
oltre 30 soldi inferiore alle 6 once
Peso del pane e prezzo del frumento negli Ordinamenta del 1327.
La figura del conduttore del dazio del pane divenne, dunque, un ruolo chiave nel sistema dell’acquisto dei grani per fare il pane venale, svolgendo la funzione di garante per i fornai, qualora le circostanze lo richiedessero. Colui che ricopriva questo incarico, al pari dei domini bladi, doveva far parte di un’élite economica e finanziaria cittadina, che godeva di un’ampia disponibilità di mezzi. Tale conduttore poteva essere un fornaio di professione, oppure un imprenditore e dirigere due forni in città con addetti alle proprie dipendenze (ipotesi forse più probabile, date le responsabilità che l’incarico richiedeva). Questo ordinamento costituì una fase di passaggio verso un’ulteriore articolazione degli uffici relativi al ciclo del pane. Una serie di nuove magistrature fu infatti definita con la redazione dello statuto del 1335, approvato nell’anno di ripristino dell’autonomia della città, dopo l’espulsione di Bertrando del Poggetto (1334)193. Tale statuto, compilato fra il 1334 e il 1335, prima della signoria di Taddeo Pepoli (1337-1347)194, attesta il vano tentativo di ricostituire le magistrature del comune di popolo195. Il dissesto finanziario in cui da tempo versava la città indusse i legislatori a ridisegnare una normativa puntuale circa i dispositivi finanziari del comune196. Del pari, furono ridefinite spettanze e incarichi degli addetti all’annona, a partire dall’Officium domini bladi, da cui dipendevano gli altri uffici impegnati nel vettovagliamento urbano. Con la redazione di questo statuto l’Officium domini bladi197 assunse maggiore rilievo istituzionale; se ne riconobbe la centralità rispetto alle altre magistrature, quali l’ufficio degli addetti ad custodiam garnarii bladi198, quello dei domini fornariorum et panicogolorum199 e la magistratura dei domini molendinorum200. In tale normativa si richiamavano esplicitamente gli ordinamenta del 1327 all’interno della rubrica relativa ai domini fornariorum201. Con lo statuto del 1335 il nuovo Lo statuto del 1335, I, p. X; Trobetti Budriesi 2007. Vedi Antonioli 2004. 195 L’ultima esperienza di un regime detto “del popolo e delle arti” occorse negli anni 1376-1401. Vedi in proposito Tamba 2009. 196 Tale normativa è contenuta nel libro V. Cfr. Introduzione a Lo statuto del 1335, I, p. LXXXVI. 197 Le rubriche relative a questa magistratura e alle seguenti sono contenute nel libro IV dello statuto. Vedi Lo statuto del 1335, I, p. 149. 198 Ibid., I, p. 154. 199 Ibid., I, p. 156. 200 Ibid., I, p. 273. 201 Ibid., I, p. 157: «…secundum formam provixionum loquencium de predictis factarum in mileximo trecentesimo vigeximo septimo, die decimo octavo, mensis dicembris vel septembris…». 193 194
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governo cittadino recuperava in chiave nuova alcuni aspetti della politica economica approntata durante l’esperienza di Bertrando del Poggetto, ridefinendo incombenze e poteri nella gerarchia delle varie cariche. In questo contesto l’ufficio dei domini fornariorum et panicogolorum si delineava quale tassello intermedio fra i fornai e i domini bladi e, del pari, fra i fornai e le altre categorie implicate nel ciclo del pane, ovvero i vetturali, i mugnai, i depositari dei granai. Anche qualora i fornai godessero di un certo margine di autonomia, le operazioni che li riguardavano erano rigidamente controllate dai domini fornariorum (che a loro volta dovevano rendere conto ai domini bladi). Verosimilmente, i domini fornariorum non esercitavano concretamente l’ars fornarie, ma appartenevano ai gruppi economicamente più potenti della città202 e, dunque, avevano i requisiti necessari per fornire garanzia e copertura finanziaria al governo bolognese, nel caso di difficoltà nei pagamenti dei quantitativi del frumento o di problemi connessi alla fase del trasporto, della molitura o della confezione del pane. Di fatto, gli addetti all’ufficio dei fornai erano incaricati di ricevere il frumento del comune da consegnare ai fornai, che facevano il pane venale «bene coctum et staxonatum in ea quantitate et ad gualmedrum seu pondus et pro precio ac tempore que sunt vel fuerint ordinata per ipsos dominos officio bladi»203. Si ribadiva, inoltre, la disposizione del 1327 in base alla quale i fornai dovevano rimettere il pane agli ufficiali deputati o ai daziari, se non fosse toccato loro pagare il frumento. Se, invece, i fornai fossero stati vincolati al pagamento del frumento, allora avrebbero avuto licenza di venderlo per sé o per terzi. Coloro che non seguivano le suddette norme, venivano sanzionati secondo le provvigioni del 1327204, che fungevano da normativa di riferimento. Le multe in denaro erano comminate dagli ufficiali del Disco dell’Orso, ufficio presieduto da un giudice e quattro notai del podestà (successivamente, i notai divennero otto), nominati dai consigli cittadini. Tale ufficio aveva l’incarico di riscuotere il pagamento delle collette e degli oneri imposti dal comune, nonché di esigere l’esecuzione di condanne pecuniarie in caso di infrazioni205. Gli ufficiali dei fornai e gli altri addetti ricevevano il salario dal comune206. Si riconfermava, inoltre, l’impossibilità per i fornai e per le altre categorie impiegate nel vettovagliamento urbano di riunirsi in associazione207. Il governo cittadino ap Circa l’identità politica, economica, sociale dei domini occorrerebbe svolgere ulteriori ricerche fra le fonti d’archivio. Da indagini a campione eseguite sui nominativi dei domini bladi riscontrati in documenti duecenteschi è emerso che si trattava spesso di cittadini appartenenti alle famiglie economicamente più importanti della città. 203 Lo statuto del 1335, I, p. 156. 204 Ibid., p. 157. 205 Guida archivio Bologna, p. 572. Presso il giudice del Disco dell’Orso si registravano i libri malpagorum, contenenti l’elenco degli inadempienti in materia di imposte e tasse. 206 Lo Statuto del 1335, I, p. 346. Riguardo al salario dei due ufficiali preposti all’ufficio dei fornai: a ciascun di essi per sei mesi spettavano 30 lire, per un anno 120 lire. Ai due notai: per 6 mesi 25 lire, 100 lire per un anno. Ai quattro nunzi: per 6 mesi 9 lire, per un anno 72 lire. 207 Ibid., II, 747. 202
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plicava un calmiere ai salari che più incidevano sul costo della vita, fra cui quelli di coloro che lavoravano nel settore della panificazione. Il controllo dei salari costituiva un settore d’intervento dell’autorità pubblica che veniva generalmente assolto dalle singole corporazioni208. A Bologna, in particolare, trattandosi di categorie cui fu proibito associarsi fino al Quattrocento, questo aspetto era gestito direttamenti dall’ufficiali dell’Officium bladi. Prevenire la formazione di gruppi associativi nel settore degli addetti ai beni di prima necessità evitava il formarsi di filiere di monopolio in un ambito della produzione e del commercio di tale rilevanza, come quello dei cereali e del pane. Il medesimo divieto di associarsi fu rinnovato nella seconda redazione statutaria trecentesca datata 1352209, emanata durante la signoria di Giovanni Visconti (13501354)210. Dopo la morte di Taddeo Pepoli (1347), i figli, succeduti al governo della città ma incapaci di reggerne la signoria, avevano venduto i diritti all’arcivescovo milanese (1350). Due anni dopo, papa Clemente VII riconobbe la signoria viscontea, concedendo a Giovanni Visconti e ai suoi eredi il vicariato su Bologna in cambio di un’ingente somma di denaro (1352). I primi atti dell’arcivescovo milanese furono diretti a rassicurare la popolazione con l’offerta di pace interna e di sicurezza economica. Nondimeno, Giovanni Visconti volle nominare direttamente coloro che avrebbero dovuto ricoprire le cariche pubbliche più importanti (capitano, luogotenente del signore, vicario del signore e podestà), scegliendoli fra i congiunti e gli amici più fedeli. I ruoli invece di secondo piano furono affidati a elementi milanesi e lombardi graditi all’arcivescovo. I bolognesi cercarono di contrastare questo abuso di potere. Neppure a due mesi dall’instaurazione della signoria (1350), gli anziani e i consoli stabilirono che per ricoprire qualsiasi carica nel consiglio dei quattromila occorreva ricevere la loro approvazione. Giovanni Visconti sembrò ignorare tale disposizione e ordinò che i funzionari addetti all’amministrazione dei beni comunali non fossero più i domini averis ma dei racionatores comuni, ossia dei semplici ragionieri privi di facoltà decisionale211. Nei mesi successivi egli provvide a riassestare le finanze del comune compromesse dalle continue guerre, utilizzando le entrate derivanti dai dazi e ponendo gli stessi dazi all’incanto al prezzo più elevato possibile, annullando i privilegi concessi dai Pepoli ai fumanti del contado. Nel 1351 si verificò la rottura della tregua armata fra Firenze e i Visconti, di cui si temeva l’espansione oltre Appennino. Le relazioni pacifiche intercorse fra Bologna e Firenze nella prima parte del Trecento ebbero fine. In questo difficile contesto politico-economico emerse nel giugno 1351, per la prima volta, l’idea di redigere un nuovo corpus statutario, ma non se ne fece nulla a causa dell’incalzare degli eventi bellici. Qualche Vedi Cipolla 1980, pp. 228-229. ASBo, Comune-Governo, Statuti, 1352, n. 44, vol. XI, c. 172r-v. 210 Per un inquadramento della redazione statutaria del 1352 dal punto di vista politico-istituzionale, vedi Introduzione a Gli Statuti 1352, 1357, 1376, 1389, pp. XIV-CLXXXVI, alle pp. XV-XXXVII. 211 Ibid., pp. XX-XXIII. 208 209
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mese dopo (settembre 1351) fu il vicario generale a sottoporre al consiglio degli anziani del comune e al vicario del podestà la proposta, che fu approvata, di rivedere la normativa statutaria. Giovanni Visconti, non avendo ancora ottenuto la ratifica dal papa (ebbe il vicariato pontificio su Bologna da Clemente VII qualche mese più tardi, nell’aprile 1352), volle suggellare il proprio dominio con l’emanazione di nuovi statuti212. Tali statuti costituirono un valido strumento legislativo piegato alla volontà del signore, le cui norme furono spesso disattese213. A differenza dello statuto del 1335, in questa seconda redazione trecentesca non vi è accenno alle magistrature relative all’approvvigionamento urbano. Forse, proprio lo spirito accentratore di Giovanni Visconti, che nella gestione del potere si era avvalso di familiari e di fedeli collaboratori nei ruoli-chiave, lo indusse a considerare irrilevante l’attuazione di disposizioni statutarie di carattere amministrativo, economico, fiscale214. Non vi figurano né l’Officium dominorum bladi, né quelli relativi ai domini dei granai o dei mulini, e neppure quello dei domini fornariorum. Tuttavia, la normativa del 1352 è la prima fonte bolognese in cui compare un tariffario dettagliato relativo alle prestazioni dei fornai. Esso è inserito nella rubrica «De salario laboratorum et certorum artificum»215, che attesta un elenco dei compensi spettanti a una serie di categorie di salariati216, fra cui i braccianti agricoli, i fornai, gli abburattatori, i mondatori di grano, i brentatori, i cimatori di panni, i sarti, i calzolai. Presumibilmente, tale norma codificava una realtà preesistente al 1352, ossia una situazione lavorativa e una produzione di beni alimentari (e non) createsi in anni addietro, ma ufficializzate soltanto dopo la peste del 1348217. La fissazione di un tariffario fu una misura assunta da vari comuni del centro-nord Italia in conseguenza della peste che, provocando una drastica diminuzione di popolazione, creò di fatto le condizioni per l’aumento del costo della manodopera. I provvedimenti attuati dai governi cittadini furono mirati a calmierare il salario di artigiani, contadini, operai, per contrastare l’eventuale incremento del potere contrattuale dei lavoratori. Tale rubrica218 fu riprodotta nelle successive redazioni statutarie trecentesche del 1376 e del 1389. Essa presenta i compensi spettanti agli addetti alla panificazione, fissati in base alla durata del contratto e alle prestazioni giornaliere, per le quali era stabilito un tariffario. Si tratta di prestazioni che comprendevano la cottura per conto di terzi di quantitativi di pane, di carne, nonché la preparazione di cibi salati. 212 Storti Storchi 1990, pp. 71-102. Per ulteriori spunti bibliografici su questo tema, vedi Introduzione a Gli Statuti 1352, 1357, 1376, 1389, p. XXVI, n. 22. 213 Ibid., p. XXXVI. 214 Trombetti Budriesi 2007, pp. 810-825. 215 ASBo, Comune-Governo, Statuti, 1352, n. 44, vol. XI, cc. 207r-209v. 216 Sul tema dei salariati a Bologna nel Medioevo, vedi Pini 1985. 217 Riguardo alla peste e alla crisi del Trecento a Bologna, vedi Dondarini 2007. 218 Circa i lavoratori salariati nel Medioevo, vedi Campanini, Rinaldi 2008; Greci 1988; Degrassi 1996; Zanoboni 2009. Per uno sguardo oltralpe, vedi Geremek 1975.
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Innanzitutto, nella suddetta norma si distinguevano i salari di tre diverse categorie di fornai, che fossero uomini o donne, cives o forestieri: chi lavorava da più di 7 anni poteva richiedere al proprio datore di lavoro un compenso annuale che oltrepassasse i 6 soldi; per colui che esercitava l’arte da almeno 3 anni ma meno di 7, la retribuzione annuale corrispondeva a 4 soldi. Infine, per i primi 2 anni di lavoro non era previsto alcun salario (in quel caso, il profitto proveniva soltanto dalla vendita). Sembra delinearsi un percorso professionale che premiava l’esperienza e la specializzazione nell’ars fornarie. La retribuzione del fornaio aumentava allo scadere, rispettivamente, del terzo e del settimo anno. In aggiunta a queste corresponsioni, i fornai traevano guadagno dalle infornate di cibi che cuocevano giornalmente per terzi. Doveva trattarsi di prestazioni richieste per la cottura di vivande consumate abitualmente e in maniera diffusa da una schiera composita di gruppi sociali. In base al suddetto tariffario risulta che per ogni artocrea (o artoclea) grande il fornaio non poteva esigere più di 2 denari piccoli; invece per l’artocrea piccola, la curnutula, o il cossone soltanto 1 denaro. Oltre ai prodotti della panificazione, i fornai erano tenuti a cuocere altri cibi; per esempio, il prezzo per la cottura di una teglia grande o padella contenente carni, polli, anatre, piccioni o altri animali, era di non oltre 6 denari piccoli; se la teglia era piccola, il fornaio non poteva esigere più di 3 denari. Le tariffe dei cibi erano connesse alla qualità della preparazione dell’alimento e alla sua consistenza. Fra i prodotti della panificazione l’artocrea219 grande, sorta di torta farcita di carne, costava ovviamente il doppio di quella piccola, dei più semplici cornetti di pane (curnutula) e del cossone (o cassone), pane o pasta ripiena d’erba detta anche crescione220. Il fornaio cuoceva anche i pani farciti, o più spesso le torte, contenenti formaggio, carne, pesce, verdure. Le torte, non a caso, costituirono uno dei tratti distintivi della cucina europea fra XIII e XV secolo221. L’artocrea era soltanto una delle possibili declinazioni della torta medievale, che nei ricettari dell’epoca prendevano il nome di pastello, pasticcio, coppo e altri termini ancora222. Oltre alle torte e ai pani ripieni, il tariffario prevedeva la cottura di carni di volatili, nella fattispecie polli, anatre, piccioni. In questo caso il prezzo dipendeva unicamente dalla quantità, designata dalle dimensioni della padella, che poteva essere grande o piccola. Queste indicazioni si comprendono nel quadro di una nuova gastronomia affermatasi in Europa fra XIII e XIV secolo: «suo ambito naturale è soprattutto la città con i suoi pubblici esercizi, quei forni che i documenti del tempo (statuti, novelle) ci mostrano assiduamente frequentati per la cottura dei cibi»223. È noto, d’altronde, come nel tardo Medioevo il consumo di carne fosse considerevolmente aumentato nelle città europee, anche fra i gruppi 221 222 223 219 220
Carnevale-Schianca 2011, p. 57. Ibid., pp. 193-194. Montanari 1994a, p. 84. Cfr. Capatti, Montanari 1999, pp. 67-72. Ibid., p. 67. Montanari 1994a, p. 84.
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sociali meno abbienti224. Alla base di questa tendenza vi erano, fra i vari fattori, i nuovi investimenti fondiari incentrati sull’allevamento del bestiame, sui pascoli e prati, anziché sulle colture cerealicole; investimenti che favorirono un afflusso maggiore di quantitativi di carne sul mercato cittadino a prezzi accessibili anche per consumatori meno agiati225. È attestata, inoltre, nella cultura alimentare europea tardomedievale la predilezione per i volatili, divenuti uno degli status symbol della nobiltà226. Non tutti i volatili tuttavia erano uguali, e la consuetudine diffusa di cuocerli presso il forno, come si evince dalla lettura di varie novelle italiane trequattrocentesche, aveva contribuito a svalutarne alcune specie dal punto di vista ideologico. Tali carni, infatti, si qualificavano come cibo consumato non soltanto dalle élites, ma da più ampie fasce della popolazione urbana; considerazione valida soprattutto per animali quali i polli, le anatre e i piccioni, volatili ritenuti meno “nobili” di pernici, fagiani e quaglie227. cibi
prezzo
artocrea grande
2 denari piccoli
artocrea piccola, curnutula, cossone
1 denaro
teglia grande (polli, anatre, piccioni)
6 denari piccoli
teglia piccola
3 denari
Tariffario prestazioni dei fornai (statuti 1352).
Nella rubrica statutaria del 1352 si ribadiva che i fornai erano tenuti a cuocere il pane senza frode. Per ogni infornata non conforme alla regola il fornaio era obbligato a pagare una multa di 40 soldi e dare il doppio al danneggiato. In riferimento all’applicazione della pena pecuniaria faceva fede la parola (sotto giuramento) del dominus o della domina, nella cui domus era confezionato il pane. In questa rubrica si alludeva probabilmente a una varietà di configurazioni lavorative, che dovevano comprendere il contesto cittadino e quello rurale, riflettendo di fatto una realtà preesistente alla redazione dello statuto228. Già per il tardo Duecento è attestato in ambito urbano un certo numero di fornai che avevano in locazione la casa assieme al forno dislocati nei quattro quartieri. Che inoltre l’attività dei fornai fosse da tempo organizzata secondo regole largamente condivise, emerge dalla rubrica stessa del 1352, in cui si evoca una consuetudine nel praticare l’ars fornarie, affermatasi prima della redazione del medesimo statuto: «Et quilibet fornarius et fornaria tenantur Ibid., pp. 91-98; Montanari 2003a. Vedi anche Nigro 1983. Montanari 1994a, p. 93. 226 Capatti, Montanari 1999, pp. 76-78. 227 Ibid., p. 76. 228 Riguardo al forno cittadino e di campagna nel Medioevo, vedi Stouff 1970. Vedi anche Desportes 1987. Per un inquadramento del tema in Età moderna, vedi Pult Quaglia 1990. 224 225
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operari et operari facere artem et consuetudinem sue fornarie pro ut operabantur et faciebant ante presens statutum»229. Tale statuto fu emanato – come si è già accennato – in circostanze particolari, qualche anno dopo la peste del 1348, a seguito della quale Bologna, al pari di altre città italiane, adottò misure severe per calmierare i prezzi dei cibi, delle mercanzie e le prestazioni degli artigiani230. La difficile situazione contingente dovette indurre i legislatori a legittimare un insieme di costumi invalsi da tempo nel contesto professionale bolognese. 3. Circuito del grano e fornai L’esame della documentazione due-trecentesca, basato sulla campionatura di determinate annate, comprendente la normativa statutaria, le riformagioni, i patti con i fornai, alcuni registri dell’Officium bladi,231 permette di formulare una serie di ipotesi circa il ruolo svolto dagli addetti alla panificazione nell’ambito del circuito del grano. Diverse domande sul funzionamento di questo sistema, tuttavia, non ricevono risposta dalle testimonianze analizzate, data l’impossibilità di ricostruire con compiutezza le varie fasi dell’approvvigionamento urbano. Alla luce delle fonti sopracitate, emerge l’idea che nel Duecento, fino agli inizi del Trecento, i fornai lavorassero per il comune su rotazione settimanale; al di fuori della settimana loro assegnata potevano esercitare il mestiere in proprio, acquistando il frumento del governo bolognese. Negli anni Ottanta del Duecento essi compravano il frumento o il biado, oppure la farina, presso gli addetti dei depositari dell’Officium bladi; precedentemente, i rifornimenti erano gestiti dai procuratori del comune, con i quali i fornai stipulavano di anno in anno i pacta o contratti di assunzione. Fino al 1267 i pistores, al pari degli altri mestieri del vettovagliamento, furono posti sotto la sorveglianza degli yscarii; di fatto, questa figura scomparve dalla legislazione del 1288, quando erano già attivi i domini bladi e gli ufficiali a loro servizio, come si evince dalle riformagioni di quegli anni. Nel 1327 furono istituiti i domini fornariorum, che divennero il tassello intermedio fra i domini bladi e i fornai. Un volta incamerato il denaro ottenuto dai fornai, i domini fornariorum dovevano consegnare tali somme ai depositari dei domini bladi, somme che sarebbero state impiegate per il rifornimento di ulteriore frumento o biado proveniente da altri territori, oppure utilizzate per altri acquisti o manutenzioni. Anche il frumento rimasto a lungo nei granai del comune e non più di buona qualità doveva essere venduto. In tal caso, i domini garnariorum si facevano carico di depositare i quantitativi di frumento residuo presso i domini bladi, i quali, a loro ASBo, Comune-Governo, Statuti, 1352, n. 44, vol. XI, c. 208r. Pini 1985; Pirillo 1994. 231 Tale documentazione è pervenuta a partire dal 1286-87; non è dato dire se tale ufficio avesse prodotto dei registri sugli incarichi dei fornai negli anni precedenti. 229 230
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volta, tramite ufficiali di fiducia, o gli stessi domini fornariorum, li vendevano ai fornai. I fornai costituivano l’ultimo segmento del ciclo produttivo, con la significativa distinzione che fino al 1327 essi dipesero direttamente dai domini bladi, successivamente dai domini fornariorum, questi ultimi non fornai di professione, ma esponenti dei gruppi economici più potenti della città e garanti per il governo cittadino. Già nel Duecento (e ancora agli inizi del Trecento) la vendita del frumento e del biado non era libera e il mercato dei grani era ufficialmente “regolato”, ovvero il comune stabiliva, tramite l’emanazione di una normativa ordinaria e straordinaria, le disposizioni che avrebbero orientato la domanda e l’offerta dei cereali. I fornai, dal canto loro, dovevano sottostare a tale normativa e il controllo su questi passaggi di consegne era molto serrato. Qualora i fornai disponessero di frumento o biado non trasformato in farina, avevano l’onere di trasportarlo (o farlo trasportare) presso il mulino comunale più vicino per farlo pesare, poi macinare, infine pesare di nuovo la farina così ottenuta. Pare (stando alla campionatura eseguita) che i fornai comprassero più spesso frumentum o biadum piuttosto che farina. Il governo bolognese, fra Due e Trecento, cercò costantemente di mantenere e gestire il monopolio del mercato del grano, senza lasciare alcuno spazio di manovra per iniziative autonome. Tale monopolio, tuttavia, non disincentivava l’arrivo di altri operatori economici da fuori, i quali conducevano il loro frumento o biado, previo il pagamento di un dazio sulla vendita presso i luoghi del mercato urbano. Dai registri dell’Officium bladi si rileva che quantitativi consistenti di grani venivano immessi in città e smerciati, non soltanto per conto del comune, ma anche per conto di terzi. Acquirenti del grano, oltre ai fornai, non erano i gruppi agiati (nobili e ricchi borghesi), i quali beneficiavano dei prodotti delle loro terre, ma i mercanti forestieri e bolognesi che compravano il grano per rivenderlo su altre piazze. In tal senso, Bologna si configurava non soltanto quale mercato la cui offerta rispondeva alle necessità alimentari dei suoi abitanti, ma anche come fulcro di smistamento e di passaggio di quantitativi in seguito trasportati altrove. Sia per i venditori che per gli acquirenti vi era l’obbligo di recarsi nei luoghi consueti di vendita e acquisto del frumento e degli altri cereali, ovvero le volte del palazzo del Podestà e le volte della torre degli Asinelli232. Una parte di rivenditori era inoltre dislocata nei 4 quartieri della città e fuori dalla cerchia, Erano i cosiddetti fornai da “scaffa” o scaffieri233, ossia venditori di pane in determinati punti-vendita, i quali probabilmente vendevano al dettaglio anche farina, remolo (crusca)234 e tridello o tritello (crusca più fine)235. Que Statuti del comune di Bologna 1245-1267, II, p. 210. Guenzi 1978; Guenzi 1982. 234 Du CanGe, III, p. 121: «[…]a vocabulo vernaculo bononienis Ramel, Ital. Crusca, Semola[…]». Cfr. Battaglia, XV, p. 791: «Ant. Crusca di Frumento. […] Michele Savonarola, 1-67: Quando el pane è cum la remola mescolato, cussì se rende molto abstersivo, apto ad far disperdere». 235 Coronedi Berti, p. 451: «Tridèl, s. m. Tritello, Cruscherello, Crusca più minuta ch’esce alla seconda setacciata». Battaglia, XXI, p. 379: «(dial. ant. Tridèlo), sm. Sottoprodotto della maci232 233
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sta modalità di commercio si riscontra nelle fonti a partire dalla fine del Trecento e, successivamente, in Età moderna, in una serie di documenti relativi alla congregazione dell’ars fornarie236. Ancora nel Trecento, tuttavia, i fornai necessitavano della licenza dei domini bladi (dei domini fornariorum dal 1327) per acquistare i cereali. Era prevista una multa di 100 soldi per chi contravveniva a tale disposizione, oltre a 10 soldi a corba per i quantitativi acquistati illegalmente; se il fornaio veniva colto nell’atto di comprare in detti luoghi senza permesso, la multa era duplicata237. 4. I mestieri del pane. Ruoli e competenze La categoria dei fornai attivi nel contesto urbano bolognese medievale sfugge a una rigida classificazione. Si tratta di un mestiere di non facile definizione, le cui competenze, sul piano formale e tecnico, subirono modifiche continue, modellate di volta in volta sull’evolversi di una normativa ordinaria e straordinaria in fase di definizione fra Due e Trecento. Poteva capitare, per esempio, che gruppi professionali distinti svolgessero mansioni affini. Se negli ordinamenta dei domini bladi del 1259 (e ancora nel 1327) si prevedeva che anche gli osti e i tavernieri potessero fare il pane venale e quindi in qualche maniera coadiuvassero i fornai, questi ultimi, d’altro canto, nel Trecento ricoprirono incarichi di responsabilità all’interno della gerarchia degli ufficiali preposti al vettovagliamento urbano. Esemplificativi in questo senso sono i già citati ordinamenta del 1327, nei quali si prevedeva che quattro fornai nominati dai domini fornariorum verificassero e sorvegliassero l’operato degli addetti alla panificazione. In tal modo, essi si assumevano una serie di prerogative che erano state proprie dei domini stessi e precedentemente, nel Duecento, degli yscari. Si era così venuta a costituire nel corso del Trecento una nuova figura di “controllore” in favore di una gerarchizzazione in senso verticistico della categoria, tramite l’istituzione di una figura intermedia fra i fornai e i domini fornariorum. Gli addetti alla panificazione erano investiti anche di molteplici funzioni nell’ambito del ciclo del pane e, talvolta, praticavano altre professioni. Del pari, i mestieri dell’ospitalità quali l’oste o il taverniere avevano beneficiato nella seconda metà del Duecento (ma ancora nel Trecento) di una serie di disposizioni evidentemente non destinate soltanto ai fornai. La coesistenza di orientamenti politici contraddittori, nonché il tentativo di precisare capillarmente le funzioni del fornaio e la difficoltà (o la scarsa volontà) di legittimarne il ruolo professionale da parte del governo cittadino, si comprendono tenendo presente proprio il carattere “sperimentale” del sistema annonario bolognese in quei secoli. nazione dei cereali, formato da fini particelle di crusca, di grano e di farina, usato in particolare come alimento per il bestiame». 236 ASBo, Assunteria del Comune, Arti-Fornari, b. 1, 1523, fasc. a stampa. 237 BCABo, Fondi Speciali, Manoscritti B, B. 4094, c. 2v.
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Non soltanto l’attività dei fornai era strettamente connessa alle scelte economiche intraprese dal governo bolognese, ma era condizionata in forte misura dai disordini provocati dai gruppi familiari, parteggianti per l’una o l’altra posizione, filo-imperiale o filo-papale (con l’ulteriore opposizione scatenatasi successivamente all’interno di quest’ultima). Del pari, il rincaro dei prezzi era fortemente influenzato dai rivolgimenti esterni, dai patti stipulati o rotti con altre città, più o meno vicine. Tali patti riguardavano spesso il controllo delle vie commerciali e l’approvvigionamento dei beni primari, quali il sale e il frumento. Risulta comprensibile come anche uno dei ruoli-chiave del ciclo del pane, quello del pistore-fornaio, fosse sottoposto a ripetute messe a punto da parte dei legislatori. Le incessanti verifiche e controlli sull’operato degli addetti alla panificazione, nonché le frequenti revisioni delle mansioni a essi conferite, rappresentavano alcuni degli strumenti approntati dal governo per inquadrare una professione dai contorni economicamente e socialmente sfuggenti. A completare il quadro era l’impossibilità per quanti esercitavano l’ars fornarie, di riunirsi in associazione e dotarsi di un proprio statuto238. Obblighi, norme, imposizioni di carattere commerciale, unitamente alle punizioni pecuniarie, contribuivano a fornire un’immagine del fornaio non esemplare, di un venditore pronto a frodare le autorità e i cittadini, ogniqualvolta se ne presentasse l’opportunità. Era una normativa severa e capillare, spesso disattesa, soprattutto per quanto riguarda il commercio del pane al dettaglio, che sfuggiva con maggiore facilità alle supervisioni dei domini bladi e, in seguito, dei domini fornariorum. Numerose sono le multe inflitte ai fornai per aver preparato il pane venale contro le norme previste dagli ordinamenti. Varie sanzioni riguardavano il peso, la bollatura, la composizione del pane (a base di frumento o mistura), nonché la licenza di vendita e lo smercio in luoghi proibiti239. Tuttavia, fonti di altra natura, per lo più fiscale, rinviano a un’idea più articolata dell’attività degli addetti alla panificazione. Emergono casi di fornai benestanti (o quasi), di cittadini aventi dei possedimenti nel contado, di prestatori attivi in un microcircuito di scambi di piccoli quantitativi di denaro e di oggetti. Risultano, talvolta, legami familiari fra membri di arti diverse, raramente invece fra individui della stessa ars fornarie. Non è dato dire se esistesse la consuetudine di trasmettere il mestiere di padre in figlio e se si fosse delineata, per il Due-Trecento, una distribuzione delle mansioni del lavoro all’interno di un stesso gruppo familiare. A questo proposito sarebbe interessante indagare il ruolo della moglie del fornaio, incrociando testimonianze di tipologia diversa, come quelle iconografiche, con le tracce esistenti nella documentazione d’archivio. Sicuramente, anche le donne potevano svolgere (e svolgevano) questo mestiere dalla “vocazione” domestica in ambito cittadino e rurale240. Ne è un esempio la già menzionata rubrica sui lavora Riguardo all’associazionismo nel Medioevo, vedi Pini 1999a. Documentazione dell’Officium bladi, anni 1312 e 1313. 240 Riguardo alla presenza femminile nel lavoro artigiano, vedi Degrandi 1996; Rinaldi 2012. 238 239
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tori salariati contenuta negli statuti bolognesi del 1352, dove il tariffario relativo alle prestazioni è rivolto sia ai fornai che alle fornaie. Altri suggerimenti sono forniti dalle miniature, dagli affreschi, dai dipinti, che spesso raffigurano la donna in casa nell’atto di preparare l’impasto. Che si trattasse della moglie del fornaio o di giovani di una ricca e nobile famiglia, quali le dame del castello di Bentivoglio241, si rileva spesso la figura femminile associata al pane. Qualche nominativo di donna si riscontra nelle liste dei fornai del comune del 1287, indice che in certi casi la donna lavorava in qualità di imprenditrice e interlocutrice del comune, senza ricorrere necessariamente a un intermediario maschile. Tracce di una presenza femminile si rilevano, inoltre, nella documentazione due-trecentesca nell’ambito delle inquisizioni a carico dei mestieri del cibo e dell’ospitalità. In essa le donne figuravano spesso come mogli del fornaio che aiutavano il marito a svolgere piccoli commerci di pani illeciti presso le case di vicini e, non di rado, nelle osterie e locande. Doveva trattarsi di scambi concordati fra fornai, osti e albergatori per rifornimenti quotidiani, che sfuggivano al controllo degli ufficiali del comune. Sicuramente, elevata era la presenza di domestiche nelle case dei signori, che preparavano il pane e lo cuocevano nel forno di proprietà. Nonostante sia difficile delineare un quadro generale riguardo agli uomini e alle donne che intrapresero l’ars fornarie, si riescono a enucleare alcune idee circa questa professione per i secoli medievali. Mediante la campionatura di un insieme di fonti seriali è stato possibile abbozzare il profilo di una categoria che comprendeva individui di estrazione economica e sociale diversificata, accomunati dall’impossibilità di riunirsi in associazione, eppure attivi nel tessuto urbano a più livelli. Da un punto di vista strettamente giuridico, tale proibizione impediva ai fornai di partecipare concretamente alla vita politica cittadina e li obbligava a subire i provvedimenti che gli organi di governo prendevano in materia annonaria, senza alcuna possibilità di contrattazione. Nondimeno, veniva accordato loro, al pari di qualsiasi cittadino di sesso maschile in maggiore età, il diritto di prendere parte ad altre forme associative. Essi ebbero infatti l’opportunità di iscriversi fra le fila delle società d’armi242, ovvero dei raggruppamenti di cittadini liberi e volontari, organizzati su base territoriale, finalizzati alla difesa comune e al mantenimento dell’ordine. All’interno delle società d’armi erano confluiti elementi appartenenti ai diversi gruppi sociali, dai nobili agli artigiani, ai borghesi di estrazione sociale medio-alta, spesso già iscritti a una società d’arte. Formatesi in seguito ai tumulti scoppiati fra XII e XIII secolo, le società d’armi rappresentarono un appoggio per il comune, che si avvalse della loro organizzazione per estendere il reclutamento delle truppe cittadine, obbligando alla leva gli abili alle armi, di età compresa tra i diciotto e i sessant’anni. Nel corso del Duecento le società d’armi furono rappresentate nell’ambito del consiglio degli Montanari, Pasquini 2006. Riguardo alle società d’armi, vedi Statuti delle Società delle Armi. Cfr. Fasoli 1935a e 1936a.
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anziani e consoli. Negli ultimi decenni del secolo esse costituirono un sostegno militare alla politica antimagnatizia e antighibellina, tanto che dopo la prima cacciata dei Lambertazzi (1274) le uniche quattro società d’armi che li avevano sostenuti furono soppresse243. Già dalla metà del Duecento fra le file delle società d’armi si annoveravano individui provenienti non soltanto dalle associazioni riconosciute, ma anche da quelle cosiddette “proibite”244. L’iscrizione a queste società garantiva l’inserimento nel quadro istituzionale cittadino. Numerosi nominativi di artigiani e professionisti si contano nelle liste delle loro matricole, quali calzolai, drappieri, medici, orefici, strazzaroli, salaroli, pellicciai e fornai. Per esempio, nella matricola della società dei Quartieri, datata 1270, erano iscritti i domini Ubaldinus pistor, Nicholaus filius Martini fornarius, Gerardus fornarius, Auliverius pistor filius Iohannini245. Dalla matricola della società dei Leopardi del 1272 si rilevano i nominativi di tre fornai preceduti dall’appellativo dominus, ossia Vitale fornarius, Dominicus fornarius, Symon fornarius246; della società dei Drappieri pro arma facevano parte nel 1310 Guidetus fornarius e Ditus q. Iohannis fornarius247. La presenza di nominativi preceduti dall’appellativo dominus induce a supporre che si trattasse di una categoria rappresentata anche da elementi di condizione agiata. Che questa categoria fosse composta di gruppi eterogenei si evince dall’analisi degli estimi del comune del 1296-97, una documentazione di carattere fiscale, basata sull’accertamento dello stato patrimoniale dei cittadini piuttosto che sul reddito del singolo denunciante248. Il fornaio che si dichiarava nihil habens poteva, di fatto, godere di un reddito derivante da una o più attività249. Si è rilevata, in ambito storiografico, l’importanza degli estimi per la storia dell’agricoltura, della fiscalità, dell’economia delle città italiane nel Medioevo. In particolare, circa il caso bolognese, è stato messo in luce il valore di questa fonte in rapporto ai beni dei gruppi artigiani e ai lavoratori della terra residenti nel centro urbano e nel contado. Si tratta di una documentazione ricca di informazioni relativamente alla professione, alla condizione patrimoniale e lavorativa di varie categorie, comprese quelle non legittimate a riunirsi in associazione, ossia gli addetti al vettovagliamento urbano, alla panificazione, all’ospitalità250.
Vedi Introduzione a Statuti delle Società delle Armi. Fasoli 1935a, pp. 238-239. 245 ASBo, Comune Governo, Capitano del Popolo, Società di popolo, Armi, b. 4, Società dei Quartieri, 72 (matricole, 1270). 246 ASBo, Comune Governo, Capitano del Popolo, Società di popolo, Armi, b. 2, Società dei Leopardi, 38 (matricole, 1272 circa). Questo registro faceva parte dei libri matricularum. 247 ASBo, Comune Governo, Capitano del Popolo, Società di popolo, Armi, b. 2, Drappieri pro arma, 41 (matricole, 1310). 248 Pini 1993c, p. 44. Cfr. Giansante 1985, p. 124. 249 Pini 1993c, p. 44. 250 Giansante 1985, p. 127. 243 244
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5. Capitale e beni immobili negli estimi dei fornai I primi estimi a noi pervenuti in maniera frammentaria sono datati 1235 e riguardano il contado. Si ha notizia di estimi cittadini risalenti agli anni 1239, 1250-52, 1279-82, 1287-88, la cui documentazione è andata perduta. È pervenuto qualche frammento dell’estimo eseguito probabilmente fra il 1277 e il 1279 dal giurista Pax de Pacibus, attivo all’epoca di Stoldo di Iacop de Rossi (podestà di Bologna nel 1277), vicario del podestà Orsini nel 1279, ancora podestà nel 1281251. Di esso sono conservati un ruolo d’estimo relativo al quartiere di porta Ravegnana e un frammento di porta Piera, ricopiato nel 1281 durante la podesteria di Rolandino di Canossa252, in cui sono registrati vari nominativi di fornai. Il primo estimo comprensivo della città e del contado, conservato interamente, risale agli anni 1296-97253 quale proseguimento del precedente rilevamento. L’atto istitutivo degli estimi del 1296-97 è rappresentato dalla provvigione del 3 maggio 1296 pubblicata dagli “otto sapienti della guerra e dai quattro anziani e consoli della guerra”, commissione straordinaria creata all’indomani della sconfitta del 1 aprile 1296 presso il fiume Santerno, subita dall’esercito bolognese nella guerra contro l’Este. Tale organo ricevette pieni poteri dal “consiglio del popolo e della massa del popolo” allo scopo di reperire i finanziamenti per la guerra contro Azzo VIII d’Este 254. Secondo la normativa avevano l’obbligo di sottoporsi al censimento gli abitanti della città, dei borghi, del suburbio e della guardia civitatis (la prima fascia di campagna esterna alle mura), uomini e donne, di qualsiasi parte politica, aventi giurato obbedienza al comune. Nella fattispecie, in questa sede si sono presi in esame gli estimi dei fornai censiti in città255, consistenti in 80 cedole di cui 12 di residenti nel quartiere di porta Procola, 17 in quello di porta Ravennate o Ravegnana, 19 nel quartiere di porta Stiera, 32 in quello di porta Piera. Da tale campionatura emerge la concentrazione, a fine secolo, di un numero maggiore di fornai nel comparto nord del centro urbano corrispondente ai quartieri di porta Piera (nord-est) e di porta Stiera (nord-ovest), rispetto a quello sud, comprendente i quartieri di porta Ravegnana (sud-est) e Procola (sud-ovest). Pur supponendo l’esistenza di fornai sfuggiti alla denuncia dell’estimo, pare delinearsi una distribuzione nel complesso “puntiforme” estesa ai 4 quartieri, caratterizzata da un “picco” di fornai residenti nel quartiere di porta Piera. Dall’a Smurra 2007, p. 44; Raveggi 2000, p. 610, p. 624. Smurra 2007, p. 44. 253 ASBo, Comune, Ufficio dei riformatori degli estimi, II, 1296-97, bb. 2-48. Per un inquadramento istituzionale degli estimi del 1296-1297, vedi Smurra 2007. Per una ricognizione bibliografica riguardo agli estimi bolognesi, vedi n. 8, p. 5 dell’Introduzione al suddetto volume. Le cedole di questi estimi sono pubblicate sul sito www.centrofasoli.unibo.it/asbo/. 254 Gorreta 1906, p. 63. Smurra 2007, p. 33. 255 Negli estimi del 1296-97 l’aggiunta della professione al nome è pressoché sistematica. Negli estimi trecenteschi il mestiere non sempre è menzionato. 251 252
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nalisi di tali estimi emergono alcuni tratti comuni agli esponenti della categoria dei fornai. Innanzitutto, non sussistono elementi sufficienti per asserire con certezza che la residenza corrispondesse al luogo di lavoro256. Non è dato dire se esistessero forni pubblici in città. A differenza dei mulini, le cui affittanze da parte del comune a singoli mugnai sono censite nei registri duecenteschi dei procuratori del comune e, nel Trecento, in quelli dei difensori dell’avere257, le pigioni dei forni non sono rintracciabili nella documentazione prodotta dagli uffici del comune. L’attestazione di forni esclusivamente di proprietà privata negli estimi del 1296-97, ma anche in cedole di estimi trecenteschi258, induce a pensare che non vi fossero a Bologna strutture pubbliche destinate alla cottura del pane. Diversamente, in altre città erano funzionanti sia forni pubblici che privati, come è il caso di Venezia nel XV secolo. I primi, affittati a pistores veneziani al servizio del comune, servivano per cuocere il grano proveniente dai granai pubblici e farne un pane speciale per l’approvvigionamento della flotta (il cui consumo si riscontra anche in Provenza259). I secondi appartenevano ad artigiani produttori, forneri e pistori, oltre a essere normalmente presenti nei palazzi patrizi e nelle dimore borghesi260. Sulla base delle fonti bolognesi esaminate, pare lecito supporre che l’esercizio del cuocere fosse di per sé stesso una prerogativa di natura pubblica e dunque gestito dal comune, mentre le strutture materiali appartenessero, per lo più, a privati. Questi ultimi erano laici, famiglie di estrazione borghese o nobiliare di spicco nel contesto politico ed economico cittadino, oppure enti ecclesiastici. Si pensi al forno del monastero di Santo Stefano, le cui prime attestazioni sono quattrocentesche, ma presumibilmente la struttura doveva essere più antica261. Proprio una documentazione ASBo, Comune, Ufficio dei riformatori degli estimi, s. II, b. 4, 1296-97, Porta Procola, b. 17, S. Lucia, 52r; ASBo, Comune, Ufficio dei riformatori degli estimi, s. II, b. 15, 1296-97, Porta Procola, San Giovanni in Monte, 13r; ASBo, Comune, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 4, 1296-97, Porta Piera, S. Donato, 35r; ASBo, Comune, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 4, 129697, Porta Piera, S. Alberto, 51r; ASBo, Comune, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 4, 1296-97, Porta Piera, S. Cecilia, 143r; ASBo, Comune, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 29, 1296-97, Porta Procola, S. Stefano, 118r. 257 Riguardo alle magistrature dei procuratori del comune e dei difensori dell’avere (quest’ultima subentrò alla prima nel Trecento nell’esercizio della cosa pubblica), vedi Orlandelli 1954. Per un inquadramento della fonte vedi inoltre Orlandelli 1951. 258 Ulteriori esempi, oltre a quelli riscontrati negli estimi del 1296-97, si rilevano negli estimi del 1315-16: alcuni fornai dichiarano di risiedere nel quartiere di Porta Stiera. Ancora negli estimi del 1385 si riscontra qualche esempio relativo a questa categoria: un certo numero di fornai dichiara di avere la propria abitazione nel quartiere di Porta Procola. Occorrerebbe svolgere un’indagine approfondita per verificare la presenza di fornai nei quattro quartieri cittadini. Sugli estimi nel Trecento, vedi Pini 1996a; Pirillo 1996. 259 Stouff 1970, p. 50: «panis vocatus bescuech». 260 Faugeron 2009a, pp. 486-489; Faugeron 2014, pp. 515-518. 261 Circa il forno del monastero di Santo Stefano, esiste una documentazione risalente al XV secolo. Vedi fascicolo a stampa in ASBo, Assunteria d’Arti, Notizie sopra le Arti, Fornari, b. 1. L’incipit del do256
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più tarda confermerebbe l’ipotesi dell’opzione casa-abitazione munita di forno in città. Si tratta, nella fattispecie, di una rubrica dello statuto della Compagnia dei fornari del 1553, nella quale si specifica che ogni fornaio doveva essere in possesso, appunto, di una casa con forno: «ciascuno fornaro, quale vorra tenire forno aperto, sia tenuto ogni anno del mese di febraro comparire dal masaro o vicemasaro et compagni et denuntiare che lui va a stare nella festa de San Michel di Maggio prossimo seguente in la tale casa, dove che intende et vuole exercitare l’arte, esprimendo la casa et forno la contrada et la capella dove sia posta detta casa…»262. Presso la propria casa, dunque, il fornaio preparava e cuoceva il pane per il comune o quello portato da terzi, i quali erano tenuti a corrispondergli un compenso per il servizio di cottura. Il fornaio, d’altro canto, poteva fornire tale servizio (dietro pagamento) anche per la cottura di altri cibi, quali le carni o le torte, come si evince dalla normativa del 1352. Se emergono esempi, nella Bologna due-trecentesca, di case con forno di proprietà per lo più privata, non è tuttavia possibile affermare che esse fungessero anche da bottega263. Risulta più plausibile ipotizzare che i punti-vendita del pane (denominati scaffe dal tardo Trecento) fossero separati dal luogo di produzione, identificandosi con i mercati de platea (piazza Maggiore) e de porta (trivio di porta Ravegnana). Le rare attestazioni di domus pistorum, ossia strutture coperte ubicate nei pressi del mercato, adibite alla vendita del pane (ma forse anche luoghi di produzione dello stesso), risalgono a un periodo antecedente, precisamente alla fine del XII secolo264. A quell’epoca, forse, i fornai disponevano di maggiore autonomia organizzativa e commerciale, e il comune non aveva ancora approntato una rigida legislazione in materia annonaria. Nel Duecento la situazione mutò in favore di un capillare controllo della categoria da parte degli ufficiali del comune. Del resto, tenere una bottega, definita statio nelle fonti bolognesi dei secoli XII-XIV (ma anche domus), significava avere l’opportunità di svolgere un commercio in proprio. Un condizione lavorativa di cui i fornai bolognesi, pare, potessere beneficiare in maniera limitata nel Due-Trecento. La rivendita del pane, come si è detto, era concentrata negli spazi consentiti dagli statuti comunali all’interno delle piazze cittadine, dove si svolgeva il mercato giornaliero. È il caso, per esempio, di Pace fornaio della cappella di Santa Maria Maggiore (quartiere di porta Stiera), che nel 1285 vendeva il pane sotto il portico del palazzo del comune265 prospiciente piazza Maggiore. I punti-vendita del pane erano probabilmente dislocati in tutti i quartieri della città, anche in luoghi distanti dal cumento è il seguente: «Illustrissimi Signori. I fornari della Città di Bologna l’anno 1473 e prima di quel tempo havevano per consueto (come hoggidì costumano tutte le Città d’Italia) di fare due sorti di pane…». 262 ASBo, Assunteria d’Arti, Fornari, Statuti, 1553, c. 28r. 263 Riguardo alle botteghe nel Medioevo, vedi Greci 1986a. 264 Vedi Parte I. 265 ASBo, Curia del Podestà, Ufficio del giudice al disco dell’orso, Accusationes, IV, 1285/XXIII, c. 212r.
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centro e dai mercati, seppure gli statuti non lo prevedessero, per garantire lo smercio del prodotto in zone vicino alle mura o nei pressi del suburbio. Similmente, si sarebbe portati a ritenere che esistesse un certo numero di forni distribuiti capillarmente entro le mura. Una serie di documenti cinquecenteschi attesta specifiche liste di venditori di pane attivi in tutte le cappelle, al pari degli elenchi dei gestori dei forni266. Sebbene si tratti di un’epoca completamente differente – quella di Bologna nel XVI secolo – certe dinamiche del sistema economico, che troviamo compiute nel Cinquecento, erano probabilmente in fase di definizione già qualche secolo prima. In special modo, la distribuzione nei 4 quartieri dei fornai e dei venditori di pane doveva aver avuto un’origine medievale, date le testimonianze prodotte dall’Officium bladi fra fine Duecento e inizi Trecento circa la suddivisione dei fornai per quartiere e cappella267. Questa ripartizione, volta ad assicurare per ogni comparto della città, settimanalmente, la vendita del pane venale a opera dei fornai del comune, costituiva l’ossatura di un’organizzazione ramificata orientata, non da ultimo, a evitare problemi di ordine pubblico, come accadde con la rivolta del pane del 1311268. La politica di suddivisione territoriale attuata dal comune non impedì, tuttavia, il sorgere di settori cittadini a specifica vocazione produttiva e commerciale. È il caso dell’area nord del centro urbano, dove si è rilevato dall’esame degli estimi del 1296-97 l’addensarsi di un numero consistente di fornai. Si tratta di un comparto caratterizzato dalla marcata presenza delle vie d’acqua, di canali e mulini, costruiti dal comune e da privati cittadini a partire dalla seconda metà del XII secolo269, per i quali fu elaborata una normativa specifica confluita negli statuti duecenteschi270. L’assetto di una così complessa ed estesa rete di corsi d’acqua fu dettata da necessità di vario genere: difesa strategica, rifornimento idrico per abbeverare gli animali, lavare i cibi, gli indumenti, gli utensili; irrigazione degli orti, dei vigneti e dei giardini; smaltimento dei rifiuti. Di fondamentale importanza era l’utilizzo delle acque nei processi produttivi, nell’attività dei mulini da grano, da olio, delle gualchiere per i panni e la carta, dei filatoi da seta. I corsi d’acqua costituivano una risorsa necessaria quali vie di navigazione e di trasporto; mettevano in comunicazione Bologna con il Po di Primaro e il mare Adriatico, favorendo l’attivazione di rotte importanti per il commercio internazionale271. A testimonianza della fama che ebbero le acque bolognesi nel Medioevo sono le parole di Benvenuto da Imola, professore presso lo Studium e autore di uno dei più significativi commenti trecenteschi alla Commedia di Dante. Nel commento al XVIII canto dell’Inferno Benvenuto elogia l’eccellente ASBo, Assunteria d’Arti, Notizie sopra le Arti, Fornari, b. 1. Vedi capitolo precedente di questa parte. 268 Braidi 2008. 269 Pini 1993c, pp. 15-38. Cfr. Zanotti 2000. Per un confronto con altre realtà, vedi Dussaix 1979, pp. 113-147. 270 Rinaldi 2000. Vedi anche Rinaldi 2005. 271 Pini 1990, p. 13; Pini 1993a. 266 267
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qualità delle acque del fiume Reno, che giungono in città tramite l’omonimo canale. «Questo Reno di Bologna ha un’acqua buona, non solo potabile, ma utilissima per i mulini e adattissima a macinare il frumento», afferma Benvenuto inframmezzando l’esegesi del testo con personali divagazioni272. Le acque del fiume Reno andarono ad alimentare il canale, costruito alla fine del XII secolo, originato dalla chiusa di Casalecchio secondo un percorso che penetrava nel comparto nord-ovest della città biforcandosi in due rami. Questi ultimi, che presero il nome di canale Cavaticcio e canale delle Moline, si ricongiungevano presso lo scalo del Navile da dove aveva inizio il canale dallo stesso nome273, creato fra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII secolo. Esso costituiva la continuazione del canale di Reno a nord della città, attraversava la pianura per immettersi nel Po di Primaro, consentendo di giungere all’Adriatico274. Il Navile (o naviglio) divenne la via principale per il traffico commerciale di Bologna verso Ferrara e Venezia (Fig. 4)275. La fitta rete di canali che entravano in città rappresentava una risorsa estremamente importante per l’economia bolognese, alimentata dalla forte presenza delle vie d’acqua276, naturali e artificiali, ramificate fuori e dentro il centro urbano, necessarie al trasporto delle merci, dei viveri, delle persone. Esse erano fondamentali per le attività produttive, come si è accennato, del settore tessile e di quello alimentare. Riguardo a quest’ultimo, decisive furono le iniziative intraprese da un gruppo di privati alla fine del XII secolo (una serie di famiglie riunitesi in società, che si facevano chiamare Ramisani277) e in seguito dal comune stesso; iniziative volte a costruire numerose “poste” di mulini278 adibite alla molitura del grano. Tali attività erano svolte un po’ ovunque in città, ma si concentravano particolarmente in uno dei due tratti terminali del canale di Reno, ovvero il canale delle Moline. La “posta” individuava il sito del complesso molitorio, costituito da due capanne giustapposte, da una parte e dall’altra del canale; ogni capanna comprendeva due mulini. I contratti d’affitto stipulati dal comune nel 1241 con mugnai attivi in città e nel contado, registrati dai procuratori del comune279, al pari di quelli redatti fra il 1259 e il 1260 segnalati nel Registro Grosso280, permettono di delineare la Benvenuto da Imola 2008. Cfr. Pini 1990, p. 13. Frescura Nepoti 1975; Cervellati, Dallerba, Salomoni 1980; Pesci, Ugolini, Venturi 2005. 274 Rinaldi 1989. Cfr. Cazzola 2000. 275 Hessel 1975, p. 191. 276 Circa l’importanza della rete idrica nell’economia bolognese, vedi Hessel 1975, pp. 3-5; Dal Pane 1957, pp. 22-27. 277 Hessel 1975, p. 199; Pini 1993c, p. 27. 278 Caruso 2004. Riguardo ai mulini e i canali nella pianura bolognese nel Medioevo, vedi Galetti, Andreolli 2009; Foschi 2010. Circa la presenza dei mulini nell’Europa medievale, vedi Galetti, Racine 2003. 279 ASBo, Camera del comune, Procuratori del Comune, b. 1/2, libri contractum, 1241, cc. 17-19. 280 ASBo, Comune Governo, Registro Grosso, I, cc. 479v-488r. Vedi Pini 1993c, p. 32. 272 273
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dislocazione dei mulini lungo il canale Reno e le sue diramazioni, i canali delle Moline e del Cavaticcio. Delle 15 poste individuate sul canale di Reno, 6 si collocavano sul tratto del canale che precede la biforcazione col Cavaticcio281, una era sita a nord della seconda cerchia di mura282; 6 erano ubicate lungo il canale delle Moline (denominate nelle fonti versus Mercatum e versus Aposam)283; 2 al termine del Cavaticcio284. I mulini da grano non si trovavano soltanto nei pressi del canale delle Moline, ma anche in altri comparti urbani. Risulta, infatti, che a metà Duecento il comune disponesse di 82 mulini da grano, di cui 50 ubicati sul canale Reno e 32 sul canale Savena, che servivano i quartieri, rispettivamente, di porta Ravegnana e di porta Procola285. A questi mulini, inoltre, si aggiungeva un numero indefinito di strutture in città o nel suburbio, di proprietà ecclesiastica o appartenenti a privati, situate sul fiume Savena, sul Reno, sull’Idice, sul Ravone, sullo Zena, sul Samoggia286. Nel 1241, per esempio, un certo Bonus pistor aveva in affitto una casa di proprietà del comune su un terreno appartenente al monastero di Santo Stefano super ramum Savine. Per tale affitto Bonus pagava annualmente al comune 100 soldi287. Il canale di Savena, costruito a fine XII secolo, a partire dalla chiusa di San Ruffillo, entrava in città intercettando le acque dell’Aposa e alimentava il funzionamento dei mulini da grano. La vicinanza della casa di Bonus al canale e alle poste dei mulini doveva inquadrarsi in un sistema di parcellizzazione del lavoro, che favoriva l’integrazione delle varie attività inerenti al ciclo del pane in un medesimo settore urbano. È dato supporre che esistesse una concentrazione di mulini e di case con forno in città, frutto della zonizzazione attuata dal comune sin dall’istituzione dei quartieri cittadini (1219). La rilevante concentrazione di fornai nel quartiere di porta Piera potrebbe giustificarsi con la presenza del canale delle Moline, alimentato dalle acque del canale Savena e del torrente Aposa, che garantivano la funzionalità dei mulini anche in condizioni di scarsità d’acqua. Potrebbe altresì spiegarsi tenendo presente che questo quartiere volgeva verso Ferrara e il Po di Primaro e, dunque, verso l’Adriatico e Venezia, zone dalle quali provenivano parte dei carichi di frumento che entravano in città tramite il naviglio288. Motivazioni di ordine tecnico (canali e mulini) e di natura geografica (posizione strategica verso il ferrarese e il Po di Primaro) dovettero incidere sulla consistente presenza di fornai nel quartiere di porta Piera, senza tuttavia alterare il quadro complessivo cittadino, caratterizzato nel suo insieme Poste degli Alberi, della Bocca di Bertalia, di Caimo, della Formica, del Poggio, del Sabbione. Posta della Veola. 283 Poste di Cagamoggio, della Castagna, dei Coppi, della Fantolina, di Glendanello, delle Tuvate. 284 Posta dei Maccagnani e della Beverara. Cfr. Pini 1993c, p. 35. 285 Ibid., p. 32. 286 Ibidem. 287 ASBo, Camera del comune, Procuratori del Comune, b. 1/2, libri contractum, 1241. 288 Pesci, Ugolini, Venturi 2005. 281 282
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dalla dislocazione di fornai e mugnai nei quattro quartieri cittadini. Alla zonizzazione dei fornai rilevata dagli estimi del 1296-97 corrispondeva l’organizzazione del lavoro distribuita anch’essa per quartiere, definita nei pacta due-trecenteschi già menzionati. Alcuni fornai, che avevano firmato tali pacta, furono infatti registrati negli estimi del 1296-97, come si rileva per qualche nominativo attestato nel pactum del 1287. È il caso, per esempio, di Michael q. Nichole fornarius289 stimato per il quartiere di porta Piera e attivo nella settimana del 28 febbraio; oppure, di Guasparinus fornarius290, residente nello stesso quartiere, impiegato dal comune nella settimana dell’8 maggio 1287. Anche Albertus q. Bonamici de Zena fornarius e Benvenutus q. domini Zunte fornarius, censiti entrambi per il quartiere di porta Procola, furono fornai assunti nel 1314. Doveva trattarsi di soggetti affidabili, in quanto, oltre a esercitare l’arte, essi godevano di una rendita patrimoniale, la cui consistenza oltrepassava l’estensione media di terreno posseduto dai fornai nella guardia civitatis e nel comitatus (corrispondente, per lo più, a 3 o 4 tornature). L’assenza (o quasi) di allevamenti di bestiame su media e ampia scala, fra i beni dei fornai censiti, nonché la tipologia di coltivazioni sparse di piccola estensione, inducono a inquadrare i fornai benestanti quali esempi isolati. Impressione confortata parzialmente dall’esame a campione di fonti di altra natura come le Venticinquine, ossia i registri delle iscrizioni alle armi dei cittadini di sesso maschile nella maggiore età291, suddivisi in due categorie, milites e pedites292. La differenza fra i due gruppi era di natura economica e sociale, oltre che di ruolo. Infatti, i milites, potendo disporre di uno o più cavalli si registravano fra gli equites, mentre fra le file dei pedites confluivano coloro che avevano minor disponibilità di mezzi. Risulta, per esempio, che quattro nominativi di fornai, preceduti dall’appellativo dominus, furono iscritti fra i pedites nell’anno 1273 per il quartiere di porta Ravennate293, e per quello di porta Piera294. Dall’esame degli estimi del 1296-97 è possibile evincere un insieme di situazioni patrimoniali diversificate. La media delle rendite dei beni mobili e immobili si attestava su valori compresi fra le 50 e le 130 lire, con sensibili variazioni a seconda del quartiere. Nella fattispecie, le medie relative ai capitali dei fornai residenti nei quartieri di porta Stiera e Ravennate ammontavano, rispettivamente, a 109 lire e 117 lire; invece, inferiori alle 100 lire risultano le medie degli altri due quartieri: 49 lire ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, bb. 5b-6, 1296-97, Porta Piera, S. Maria Maddalena, 263r. 290 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 9, 1296-97, Porta Piera, S. Sigismondo, 80r. 291 Riguardo alle venticinquine, vedi Pini, Greci 1976. 292 Circa la distinzione economica e sociale fra milites e pedites e sul ruolo dei primi vedi, Milani 2001. Cfr. Greci 2007b, p. 530. 293 ASBo, Capitano del popolo, Venticinquine, b. 4, porta Ravennate, 1273, fasc. 1. 294 ASBo, Capitano del popolo, Venticinquine, b. 1, porta Piera, 1273, fasc. 17. 289
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per porta Procola, 79 lire per porta Piera295. A questi dati si aggiungevano situazioni di relativa agiatezza che talvolta corrispondevano a rendite superiori alle 500 lire. Porta Ravennate. Dei 17 fornai residenti in questo quartiere 2 sostengono di essere nullatenenti. I restanti dichiarano di disporre di una casa o di un edificium (termine che indica, genericamente, un insieme di strumenti da lavoro, ma anche il locale dove sono custoditi)296 di proprietà o in affitto; denunciano altresì qualche appezzamento di terreno (orti, vigne e arativi) di medie e piccole dimensioni e un numero esiguo di maiali. I capitali dichiarati oscillano fra le 50 e le 200 lire, a eccezione del picco costituito dai beni di Bencevene q. Guidotti297, fornaio alle dipendenze del comune nella settimana del 10 marzo 1287298. Lo stesso Bencevene risulta avere un debito consistente (601 lire), indice di un giro di affari e denaro grazie al quale aveva probabilmente avviato una serie di investimenti. Talvolta, i revisori dell’estimo intervengono a correggere le stime. È il caso di Iohannes q. Bonagratie299, che aveva valutato i propri beni 137 lire, mentre gli ufficiali del comune correggono con 170 lire; oppure, di quello di Guirardus300, dichiarante 59 lire e 10 soldi, modificati in 80 lire. La maggior parte dei fornai doveva avere la casa in affitto, la cui quota non di rado è menzionata fra i debiti. È il caso di Theobaldinus q. Iohannis301 della cappella di Santo Stefano, che abita in una casa munita di forno ubicata nella medesima cappella, di proprietà del monastero di Santo Stefano, al quale versa annualmente 15 lire. Fra i fornai di questo quartiere 5 dichiarano di avere la casa di proprietà (sita nella cappella di residenza) ma non vi è alcun accenno a strutture da forno. Le stime di tali immobili variano da 30 a 50 lire; soltanto l’estimo di Bencevene q. Guidotti302 si distacca nettamente dagli altri. La sua casa posta nella cappella di Le medie sono state eseguite sulla base della somma dei capitali dichiarati dai denuncianti e sul numero di fornai per quartiere. Occorrerebbe anche elaborare una media delle medesime somme corrette dai revisori del comune, intervenuti in numerose cedole con modifiche sulle cifre parziali e complessive. 296 Battaglia, V, pp. 40-41: «Impianto artigianale, industriale o idraulico; complesso di strumenti e di macchine; il locale dove si trova, opificio, laboratorio, officina […]. Cantini, I-I-308: Sotto nome di edifizi si comprendono fattori da olio, mulini da grano, gualchiere, fornaci di ogni sorta ed ogni altro simile edifizio». 297 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 24, 1296-97, Porta Ravennate, S. Biagio, 225r. 298 Materiale dell’Officium bladi, anni 1286-87. 299 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 23, 1296-97, Porta Ravennate, S. Antonio di Savena, 29r. 300 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 23, 1296-97, Porta Ravennate, S. Bartolomeo di Porta Ravennate, 31r. 301 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 29, 1296-97, Porta Ravennate, S. Stefano, 118r. 302 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 24, 1296-97, Porta Ravennate, S. Biagio, 225r. 295
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San Biagio, unitamente a un edificium costruito sul terreno del monastero di Santo Stefano, valgono nell’insieme 130 lire. Bencevene si collocava nella fascia medio-alta della categoria in quanto, oltre a possedere la casa, aveva numerosi terreni siti nella guardia civitatis, ossia il suburbio, quella fascia territoriale esterna e concentrica alla città compresa fra le mura urbane e il contado (comitatus)303. Proprio nella guardia civitatis si trovava una parte consistente dei terreni denunciati dai fornai del quartiere di porta Ravennate. Si trattava di arativi (terre aratorie), terre lavorate (terre laborate), vigne e aree boschive. Nella maggior parte dei casi la loro estensione oscillava da 1 a 4/5 tornature (una tornatura equivale a 2080 m2)304; la stima a tornatura era estremamente variabile. Essa era fissata in funzione della qualità e della posizione del terreno rispetto alla città (se in pianura, area pedemontana o montana). Per esempio, Petrus Ugolini Roxe305 dichiara di possedere un terreno arativo nella guardia (Fossolo) di 4 tornature del valore di 15 lire a tornatura, 60 lire in totale. Iohannes q. Bonagratie306 possiede 4 tornature di terreno arativo nella guardia (presso un luogo detto Croce di Legno), la cui stima ammonta a 20 lire a tornatura, 80 nella somma. Invece, Iacobus q. Bonaveris307 è proprietario di un terreno molto più vasto rispetto a quelli di Petrus e di Iohannes, situato più distante dal nucleo urbano, precisamente nella curia di San Martino in Argile. A tale terreno viene attribuito un valore inferiore rispetto ai precedenti, 5 lire a tornatura per 18 tornature, stimate nel complesso 90 lire. Anche le vigne risultano di piccola estensione, composte di appezzamenti compresi fra 1 e 4 tornature. Iacobinus Michaelis308 possiede una vigna di 2 tornature e mezzo nella guardia (buscus Sancti Iuliani) del valore di 50 lire in totale. Invece, Bonincontrus q. Baliani309 è proprietario di una vigna di 4 tornature nella curia di Corvara (Fossa del Lupo), stimata 15 lire a tornatura, 60 lire in totale. È possibile che una parte del vino ottenuto da tali vigne confluisse su un mercato al dettaglio di piccolo raggio, anche se non sussistono testimonianze. Accanto alle vigne e ai coltivi, alcuni fornai possedevano dei maiali (in genere 2 o 3) a uso familiare, il cui valore oscillava fra le 3 e le 6 lire310; qualcuno, perfino, Benevolo 1992. Martini 1976, p. 92. 305 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 47, 1296-97, Porta Stiera, S. Tecla di Porta Nuova, 21r. 306 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 23, 1296-97, Porta Ravennate, S. Antonio di Savena, 29r. 307 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 28, 1296-97, Porta Ravennate, S. Omobono, 124r. 308 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 28, 1296-97, Porta Ravennate, S. Omobono, 118r. 309 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 29, 1296-97, Porta Ravennate, S. Stefano, 62r. 310 Dalle stime relative agli animali emerge il dato interessante di un allevamento domestico, probabilmente necessario al fabbisogno alimentare del fornaio. 303 304
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un certo numero di capi di bestiame. Guirardus311, per esempio, aveva in soccida da una certa Guisilla in Val di Reno 11 pecudes312; Bonincontrus q. Baliani313 aveva in soccida 9 agnelli assieme a Dinus de Caxadri. Il contratto di soccida, ossia l’affitto di capi di bestiame, si inquadra nella tendenza invalsa in uso a Bologna e in altre città padane, orientata «verso investimenti e riconversioni, che mettevano al centro della rendita non i prodotti della terra, ma gli animali, avvertiti congiuntamente come macchine da lavoro, da riproduzione, da latte e da carne»314. La diffusione di questo genere di contratti nel bolognese, nei secoli XIII-XIV, fu alimentata dalla stagnazione agraria di fine Duecento, dalla crisi trecentesca, dal calo demografico (aggravato notevolmente dalla peste), fattori che concorsero a favorire l’espansione degli incolti a scapito delle coltivazioni315. Costituiscono un’eccezione alle situazioni finora descritte i patrimoni fondiari di due fornai, entrambi residenti nella cappella di San Biagio: Hetolus q. Aspectati316 e Bencevene q. Guidotti317, iscritti fra le liste dei fornai del comune. Il primo dichiara vari appezzamenti di terreno di piccola estensione, ubicati nella guardia e nel contado, nella fattispecie presso la curia di Gargognano318. Le limitate dimensioni dei terreni, variabili da 1 a 3 tornature, nonché la loro tipologia (è compreso anche un bosco), indurrebbero a ritenere che si trattasse di proprietà destinate a un uso privato o a un ridotto commercio al minuto. Il secondo, Bencevene q. Guidotti, denuncia un insieme di terreni posti per lo più presso la curia di Fiesso sull’Idice (vicino a Castenaso). Uno di tali terreni è munito di casa nei pressi del fiume, stimato dal fornaio stesso 85 lire e corretto dai revisori del comune con 150 lire. Merita attenzione, inoltre, la situazione di Theobaldinus q. Iohannis319 della cappella di Santo Stefano, il quale ha in affitto una casa col forno in detta cappella di proprietà del monastero di Santo Stefano. Theobaldinus ha anche ricevuto in enfiteusi dal monastero di San Procolo 2 tornature di vigna poste nella guardia civitatis a mane di San Procolo (in un luogo detto Malavolta in Brayda) del valore di 16 lire, per cui paga al suddetto monastero un affitto annuale di 50 lire. Risul ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 23, 1296-97, Porta Ravennate, S. Bartolomeo di Porta Ravennate, 31r. 312 La stima complessiva degli animali risulta illeggibile. 313 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 29, 1296-97, Porta Ravennate, S. Stefano, 62r. 314 Andreolli 2003a, p. 203; Andreolli 2003b; Andreolli 1999. Cfr. Hessel 1975, p. 160. 315 Ibidem. 316 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 24, 1296-97, Porta Ravennate, S. Biagio, 131r. 317 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 24, 1296-97, Porta Ravennate, S. Biagio, 225r. 318 Gargognano assieme a Pontecchio era, nell’alto Medioevo, una località situata nell’area di radicamento signorile dei Conti. Vedi Lazzari 1998, p. 167. 319 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 29, 1296-97, Porta Ravennate, S. Stefano, 118r. 311
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ta infine proprietario di 1/3 di casa ubicata a Camugnano, terra del comitatus di Bologna, in un luogo detto Rota, oltre alla metà di un appezzamento accanto alla casa. Inoltre, è proprietario di altri piccoli terreni in detta terra e nella curia di Vighi, in condivisione con gli eredi di suo fratello agricoltore Uguccione. Si tratta di aree «prativas, boschiva et saxosas, salvaticas et domesticas» di cui Theobaldinus dice di ignorare i confini, di non trarne alcun guadagno, di non avervi mai abitato, ma non esclude che siano occupati. Il valore complessivo di questi terreni equivale a 12 lire. Infine, nella terra di Monte Calvo, ubicata nel comitatus di Bologna (nella zona compresa fra Farneto e Castel dei Britti), Theobaldinus possiede una vacca in soccida presso il signor Guidus de Riolo del valore di 6 lire, in aggiunta a 4 porci rossi stimati 15 lire. Porta Procola. I fornai stimati in questo quartiere sono 12, di cui uno si definisce nullatenente. Il capitale denunciato varia da cifre elevate (130 lire) a somme irrisorie (5 lire). Usepus filius q. Marchisini320, per esempio, è proprietario di un edificium del valore di 20 lire annesso a una casa, ubicato sul terreno di San Giovanni in Monte nel campus di Santa Lucia; per l’affitto del terreno paga 26 soldi. Invece Martinus q. Marchi321 dichiara il possesso della metà di un edificium di una casa posto nella medesima cappella sul terreno di proprietà dei frati di San Michele in Bosco. Tale edificium, che condivide con detti frati, è stimato 320 lire. Quattro fornai asseriscono di avere una casa nella cappella di residenza, le cui stime variano da 40 lire a 100 lire. Soltanto Benvenutus q. Iohannis322, residente nella cappella di San Giovanni in Monte, sostiene di avere in affitto una casa munita di forno, dove abita ed esercita l’ars fornarie, casa di proprietà di Gozzadino de’ Beccadelli, al quale deve 4 lire per l’affitto. Circa la stima dei terreni, si riscontrano per il quartiere di porta Procola modeste estensioni di arativi e vigneti, nell’ordine di 2/3 o, al massimo, di 5 tornature. Tre fornai certificano di possedere dei vigneti nella guardia civitatis: il già citato Usepus ha 3 tornature e mezzo di vigna in un luogo detto Selvola; Martinus q. Marchi, 1 tornatura di vigna. Benvenutus, locatario della casa con forno, possiede 2 tornature di vigna «piantata» sul terreno di proprietà del monastero dei Santi Vittore e Giovanni in Monte, ubicato nella guardia presso Selvola, vigna stimata 10 lire a tornatura, 20 lire in totale. Si tratta di un valore al di sotto della media per questo genere di coltura specializzata, il cui prezzo minimo si attestava nel Duecento intorno alle 12 lire e dipendeva soprattutto dal tipo di vigneto e dalla sua posizione323. La vinea ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 17, 1296-97, Porta Procola, S. Lucia, 442r. 321 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 18, 1296-97, Porta Procola, S. Mamolo, 144r. 322 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 15, 1296-97, Porta Procola, S. Giovanni in Monte, 13r. 323 Pini 1974, pp. 835-836. 320
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plantata, composta di filari di viti allungati fra i seminativi, è un modello di coltura specializzata diffusasi in Romagna già nel tardo Medioevo324 e soprattutto in Età moderna. Nel Bolognese tale coltura è presente nel XIII secolo nella guardia e sulle colline a ridosso della città; risulta di estensione variabile, mai inferiore alla tornatura e mezzo, mediamente compresa fra le 2 e le 4 tornature325. Vigneti in area urbana si riscontrano già nell’alto Medioevo; fra XI e XII secolo sono rilevati nei pressi della seconda cerchia di mura e, successivamente, al di fuori della terza cerchia, verso la Romagna e in prossimità dei colli prospicienti la città, oltre che in pianura in direzione di Ferrara. Si diffuse nel pieno e basso Medioevo una «viticoltura borghese» (Pini) in concomitanza con l’affermarsi di gruppi mercantili e artigiani, che investivano nella campagna e vedevano nella viticoltura un segno di nobilitazione sociale. L’espansione della viticoltura fu intensa, soprattutto, nella pianura padana in prossimità della guardia, oltre che nella zona pedemontana e in quella collinare a sud della città, compresa fra i fiumi Savena e Reno. Limitata fu invece la viticoltura nella media e alta montagna e nella bassa pianura, ancora in parte paludosa326. La presenza capillare di vigneti nel suburbio della città trovava rispondenza nella politica economica attuata dal comune, che mirava a incentivare il più possibile la produzione di grano e vino. Già negli statuti del 1245-67 tale orientamento è visibile attraverso una serie di disposizioni dedicate al vino327, per il quale non si fissava (a differenza del grano) un limite al quantitativo consentito per famiglia. Si vietava, però, di comprare vino per rivenderlo all’ingrosso o farne ingenti scorte328. Tale disposizione, tuttavia, non impediva ai piccoli proprietari di sviluppare un commercio al dettaglio329. Oltre ai vigneti, vari fornai residenti nel quartiere di porta Procola erano proprietari di terreni; Usepus, per esempio, dichiara 5 tornature di arativo in terra di Blagni del valore complessivo di 40 lire. Bertholomeus q. Giraldini330 possiede 2 tornature e mezzo di vigna del valore di 12 lire a tornatura nella curia di Gaibola, in un luogo detto Venato. Il già menzionato Benvenutus q. Iohannis ha «tres porcos qui tenet in domo»331 del valore di 6 lire. Di natura differente sono i proventi che trae dal possesso di animali Iohannes q. Ugolini332. Questi fornisce a domina Bonissima, Montanari 1994b, pp. 111-112. Cfr. Rinaldi 1987. Pini 1974, p. 835. 326 Ibid., p. 834. 327 Ibid., pp. 839-843. Riguardo alla cultura del vino nel Medioevo, vedi Pini 1989; Gaulin, Grieco 1994; Grappe 2006. 328 Statuti del comune di Bologna 1245-1267, II, p. 259. Cfr. Pini 1974, p. 845. 329 Ibid., p. 846. 330 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 14, 1296-97, Porta Procola, S. Damiano, 17r. 331 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 15, 1296-97, Porta Procola, S. Giovanni in Monte, 13r. 332 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 15, 1296-97, Porta Procola, S. Giacomo dei Carbonesi, 31r. 324 325
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moglie di domini Andree filii q. domini Chastellani, proprietario del terreno su cui è costruito l’edificium dello stesso Iohannes, 33 pecudes mediante un contratto di soccida di 7 lire, redatto presso il notaio Stefano Giacobini. Porta Stiera. I fornai stimati nel quartiere di porta Stiera sono 19; fra essi, 5 hanno lavorato per il comune nel 1287; uno soltanto, Aldrevandus q. Petri333, è definito pistor anziché fornarius. A parte tre fornai che si dichiarano nullatenenti, gli altri denunciano un capitale medio-alto con qualche eccezione attestata su cifre elevate, come le 784 lire dichiarate da Bertolus q. Gerardi; tre hanno un capitale inferiore alle 20 lire. Sei fornai sono proprietari di case, stimate fra le 40 e le 100 lire e, fra esse, quella di maggior valore (100 lire) appartiene al già menzionato Benvenutus q. Gerardi. Tre fornai denunciano altresì la proprietà di più case, fra cui Laçarinus q. Benedicti334, proprietario di «tres domos simul se tenentes» del valore complessivo di 100 lire. Henrigitus de Falsa q. Bonçoanis335 è proprietario di un edificium di una casa stimato 30 lire, posto sul terreno del vescovo di Bologna, al quale paga per l’affitto annuale 16 soldi e 3 denari. Si tratta di uno fra i vari esempi attestante la consuetudine di affittare il suolo (ma talvolta anche il soprasuolo). Al pari dei fornai residenti nel quartiere di porta Ravennate, quelli di porta Stiera dichiarano di possedere nella guardia civitatis soprattutto vigneti. È il caso di Vidale q. Ghibertini336, proprietario di una vigna a Monte della Guardia del valore di 20 lire; di Laçarinus q. Benedicti337, proprietario di un terreno a coltura mista, arativo e vigna, sito in Val di Ravone, stimato 15 lire a tornatura. Rappresentano un’eccezione i beni fondiari di Bertolus q. Gerardi, che afferma di avere tre appezzamenti ubicati nella guardia civitatis: 4 tornature con 3 casamenti posti nei pressi dei possedimenti di Santa Maria Maggiore, stimati 30 lire a tornatura; 2 tornature e mezzo di prativo sempre nella guardia vicino al laborerium di San Pietro, del valore di 25 lire a tornatura, corrette dal revisore in 30 lire a tornatura; 4 tornature e mezzo di arativo e vigna in condivisione con Ubaldino a 16 lire a tornatura (25 lire a tornatura secondo il revisore). Ulteriori terreni di dimensioni consistenti sono ubicati nella terra di Tizanedi. Il caso di questo fornaio è singolare per la varietà e quantità di terreni dichiarati (arativi, vigneti, terreni promiscui, prativi) e per la loro ubicazione (per lo più, nella guardia civitatis o nella curia di Tizanedi). Se si considera, ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori Stiera, S. Tecla di Porta Nuova, 12r. 334 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori Stiera, S. Isaia, 139r. 335 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori Stiera, S. Benedetto del Borgo di Galliera, 81r. 336 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori Stiera, S. Maria Maggiore, 572r. 337 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori Stiera, S. Isaia, 139r. 333
degli estimi, Estimi, s. II, b. 47, 1296-97, Porta degli estimi, Estimi, s. II, b. 16, 1296-97, Porta degli estimi, Estimi, s. II, b. 34, 1296-97, Porta degli estimi, Estimi, s. II, b. 44, 1296-97, Porta degli estimi, Estimi, s. II, b. 16, 1296-97, Porta
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inoltre, che Bertolus q. Gerardi dà in soccida a Berta di Villanova qualche animale del valore complessivo di 21 lire, possiede 2 porci (destinati probabilmente a uso familiare), ha una casa stimata 100 lire, oltre alla metà di un’altra casa condivisa con un certo Ubaldino, ne emerge il profilo di un fornaio-artigiano che ha investito nella terra. La situazione patrimoniale di questo fornaio può costituire un esempio seppur attestato per modesti valori, nel quadro di iniziative promosse su ampia scala dal comune, e fissate nella legislazione duecentesca. Porta Piera. Sono registrati 32 fornai residenti in questo quartiere. Unicamente il capitale di Francischus q. Iohannis338, fornaio al servizio del comune nel 1287, si distingue per consistenza dagli altri, raggiungendo l’ordine delle migliaia (1014 lire). Bonavintura q. domini Viviani339 dichiara 363 lire, 4 soldi, 4 denari; 6 fornai denunciano un capitale entro le 100 e 200 lire, un fornaio 90 lire; i restanti, una stima inferiore alle 85 lire. Si delinea una consistenza economica varia, riflesso di una categoria di lavoratori che a fine Duecento non si era assestata in una fascia di reddito e di rendita stabile. Rari dovevano essere i casi di coloro il cui tenore di vita rasentava la soglia della povertà. Fra gli abitanti di questo quartiere 14 fornai denunciano una casa di loro proprietà, per lo più ubicata nella cappella di residenza. Per esempio, Francischus q. Iohannis340, fornaio del comune della cappella di San Martino dell’Aposa, «habet domum unam in qua habitat cum cortesella et orto de retro»341 del valore di 200 lire. Bonrecuprus Ramberti342 ha una casa nella cappella di San Sigismondo del valore di 40 lire (ma il revisore corregge in 70); essa è situata sopra al terreno del monastero di San Vitale, al quale Bonrecuprus paga un affitto annuale di 1 denaro. Risulta un quadro di abitazioni che si attestano, a parte qualche cifra, su stime medio-alte, anche tenendo conto delle correzioni operate dai revisori del comune. Oltre a essere proprietari di case, certi fornai possiedono un casamentum o un edificium. Michael q. Nicole ha un edificium nella cappella di residenza (Santa Maria Maddalena) del valore di 60 lire, valutato dal revisore 150 lire. Martinus q. Alberti343 della cappella di Sant’Alberto è proprietario di «unum edificium unius domus ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 7, 1296-97, Porta Piera, S. Martino dell’Aposa, 96r. 339 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 5a, 1296-97, Porta Piera, S. Maria della Mascarella, 90r. 340 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 7, 1296-97, Porta Piera, S. Martino dell’Aposa, 96r. 341 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 71, 1296-97, porta Piera, S. Martino dell’Aposa, 96r. 342 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 9, 1296-97, Porta Piera, S. Sigismondo, 47r. 343 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 2, 1296-97, Porta Piera, S. Alberto, 51r. 338
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cupate cum uno furno»344 situati nella medesima cappella. La casa e il forno appartengono a un privato, a cui Martinus deve pagare 10 soldi e 6 denari per l’affitto del terreno; mentre l’edificium vale 30 lire. Questo documento conforta l’idea che i forni cittadini fossero spesso inseriti in strutture edilizie unitamente alla casa. Nel medesimo quartiere è attestato anche il caso di Philippus q. domini Iacobi345, residente nella cappella di San Donato, denunciante l’affitto per 3 lire di un forno di proprietà di Chaxinus de Plantavignis. La famiglia dei Piantavigne, di estrazione borghese e di parte filo-papale, apparteneva all’arte del cambio e si distinse dalla fine del Duecento per la consistenza dei beni fondiari, oltre che per gli incarichi pubblici ricoperti da alcuni dei suoi membri più illustri, come Dondiego Piantavigne, frate gaudente attivo a Bologna ai primi del Trecento346. I fornai residenti nel quartiere di porta Piera dichiarano altresì il possesso di appezzamenti di terreno, vigneto o arativo, ubicati nel contado. In particolare, Francischus q. Iohannis347, fornaio del comune, ha vari terreni di diverse dimensioni dislocati in pianura verso il ferrarese: 2 tornature di vigna nella guardia di Crovara a Roncaglio (vicino a Pescarola, non distante dalla città) del valore di 40 lire; gli altri appezzamenti sono dislocati in vari luoghi nella curia di Argelato. Detto Francischus possiede, sempre nella curia di Argelato, 8 tornature di arativo assieme con Iacobinus Vandi in un luogo detto Clauso (la sua metà vale 40 lire), oltre a 10 tornature di arativo in una zona detta Lopezo al prezzo 8 lire a tornatura, 80 lire in totale. Significativa è la concentrazione di arativi nella curia di Argelato, che dovevano formare una proprietà consistente di questo fornaio in pianura a nord della città, fra il Reno a ovest e il naviglio a est. Negli estimi del quartiere di porta Piera sono attestate altre tipologie di coltivo, quali l’ortivo e il vigneto. Bonrecuprus Ramberti possiede un orto della misura di 2 “chiusi” stimato 8 lire, sito nella cappella di residenza, unitamente a una tornatura di vigna nella guardia, in un luogo detto Lamarum, del valore di 20 lire e 3 tornature di vigna valutate 16 lire ciascuna. Doveva trattarsi di modesti appezzamenti, utilizzati principalmente per il fabbisogno famigliare. Albertus Bonpetri348 possiede 3 tornature di arativo nella curia di Fiesso, località sull’Idice (nei pressi di Castenaso), in un luogo detto Burghus, del valore di 10 lire a tornatura. Nella medesima curia Albertus ha 4 tornature di terreno misto, fra arativo e vigna, congiuntamente a un terzo di un altro terreno per un totale di 40 lire. Lo stesso Albertus è proprietario Ibidem. ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 2, 1296-1297, Porta Piera, S. Cecilia, 19r. 346 Castagnini 1976. 347 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 7, 1296-97, Porta Piera, S. Martino dell’Aposa, 96r. 348 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 4, 1296-97, Porta Piera, S. Leonardo, 1r. 344 345
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assieme a Petrus, nella curia di Santa Maria in Dono sul naviglio, di 5 tornature di arativo e vigna del valore di 5 lire a tornatura, e una tornatura e mezzo di arativo del valore di 40 soldi in totale. Dall’esame della cedola di Albertus Bonpetri, al pari di altri fornai che dichiarano una serie di terreni in diverse zone del contado bolognese, emerge una stima variabile degli appezzamenti, a seconda della loro ubicazione. In questo caso, la medesima tipologia – arativo con vigna – viene valutata diversamente a seconda che si trovi presso la curia di Santa Maria in Dono o in quella di Fiesso. In quest’ultima il prezzo assegnato a una tornatura è doppio (10 lire) che nell’altra (5 lire). La maggior vicinanza di Fiesso a Bologna doveva aver influito, probabilmente, sulla stima più elevata dei terreni. Quanto più ci si avvicinava alla città, tanto maggiore era il valore degli appezzamenti. A sud di Bologna, i terreni siti verso l’Appennino venivano valutati più di altri. È il caso della tornatura di vigna ubicata nella curia di Vizzano (nei pressi del Reno, a sud di Montechiaro) di proprietà di Iacobus q. Çamboni349, stimata 30 lire. Circa il possesso di animali, i fornai residenti nel quartiere di porta Piera dichiarano soltanto alcuni maiali, che tengono in casa a uso domestico; i porci rossi valgono meno degli altri e dei porcelli. Coradinus q. Benvenuti350, per esempio, possiede 4 porci rossi del valore di 7 lire; Becevenne filius Raynaldi351 ha 5 porcelli stimati 15 lire in totale (3 lire ciascuno). Guasparinus352 tiene in casa 2 porci del valore di 4 lire. 6. Prestiti, pegni, debiti. I fornai nel sistema creditizio Lo stretto nesso fra mondo artigiano e circuiti del denaro, come è stato rilevato da studi realizzati negli ultimi decenni353, costituisce un aspetto significativo nella dialettica fra istituzioni cittadine e categorie di lavoratori specializzati. È una realtà creditizia affermatasi a Bologna nel Duecento, al pari di altre città dell’Italia centrosettentrionale, in concomitanza con il rilievo acquisito dalle arti del cambio e della mercanzia per i traffici di merci e di soldi354, e dell’arte dei notai, per la redazione degli instrumenta notarili. Sono rapporti creditizi non esenti da problematiche di carattere morale, connessi alla legittimazione del commercio quale attività destinata ad alimentare il bene sociale, la redditività dei singoli e di interi gruppi familiari, nonché ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 2, 1296-97, Porta Piera, S. Andrea dei Piatesi, 34r. 350 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 7, 1296-97, Porta Piera, S. Martino dell’Aposa, 72r. 351 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 3, 1296-97, Porta Piera, S. Cecilia, 34r. 352 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 9, 1296-97, Porta Piera, S. Sigismondo, 80r. 353 Pini 1962. Cfr. Giansante 2008; Albertani 2011. 354 Per un quadro sulla storia del credito a Bologna, vedi Muzzarelli 2007. 349
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il benessere dei cittadini. Sono temi e problematiche che trovano giustificazione, per esempio, nella Collectium contractum di Rolandino de’ Passeggeri355. A Bologna, come altrove, si creò nel corso del Duecento un circuito di prestiti che investì anche il mondo artigiano, oltre a quello universitario e mercantile. Si tratta di elementi di un’economia in fase di espansione (fino agli anni Sessanta) che, come è già stato rilevato, beneficiò della presenza dello Studium, dell’affluenza più o meno stanziale di studenti e professori, di mercanti, viaggiatori, contadini, artigiani provenienti da altre città e d’oltralpe356. Si creò una circolazione di individui di estrazione sociale ed economica estremamente varia, che favorì il sorgere di un mercato di beni alimentari di prima necessità, ma non soltanto. Esso agevolò l’aumento di scambi di altri generi come quelli, per esempio, legati al settore tessile o all’industria libraria357. Si accrebbe notevolmente la possibilità di cambiare la moneta, nonché l’opportunità di disporre di denaro per qualsiasi tipo di transazione. L’economia bolognese sembrava maggiormente orientata verso i settori del commercio e del consumo, ma altresì avviata verso la produzione locale. Di qui il ruolo fondamentale dell’agricoltura, nonché l’importanza dell’allevamento del bestiame, una modalità di investimento fondiario ritenuta redditizia dalle famiglie appartenenti all’élite cittadina. Bologna risultava essere un centro di consumo e di scambio di merci, inserito in una rete commerciale regionale ed extraregionale, che beneficiava della fama dello Studium e del riverbero che tale fama procurava per gli affari, i prestiti, il circuito del denaro358. A conferma di questa tendenza numerosi sono gli esempi di credito/debito attestati negli estimi del 1296-97 relativi agli artigiani lavoratori, spesso coinvolti – come si è rilevato – in investimenti di terreni di piccola e media estensione, ubicati nella guardia civitatis o nel suburbio bolognese. Una tendenza inserita in un orientamento economico che coinvolgeva i gruppi economici più forti, costituiti prevalentemente da una borghesia imprenditoriale inurbata di recente formazione, unitamente a elementi aristocratici particolarmente attenti al nuovo trend commerciale. Nell’ambito dei mestieri alimentari, in particolare, lo si è visto, svariate sono le attestazioni di fornai residenti in città, proprietari di qualche appezzamento di terreno nelle immediate vicinanze delle mura o nel contado, a nord in pianura, oppure a sud in direzione dell’Appennino bolognese. Questi fornai risultano spesso debitori e creditori e, non di rado, impegnano i beni per ottenere un prestito in denaro, allo scopo di affittare una casa con forno, o comprare la casa stipulando un mutuo. Talvolta emerge il nesso fra indebitamento e ars fornarie, talaltra sono enumerati prestiti (generalmente non elevati) richiesti o concessi da fornai ad altri fornai, o a terzi, spesso artigiani di altri settori. Nella maggior parte 357 358 355 356
Ceccarelli 2007; Todeschini 2002; Todeschini 2004; Todeschini 2005. Hessel 1975, pp. 147-148. Greci 2004. Dal Pane 1957; Greci 2004; Greci 2007b.
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dei casi tali transazioni di denaro erano messe per iscritto tramite instrumentum notarile, malgrado si registri qualche traffico di denaro non ufficializzato davanti al notaio. Si delinea dalla campionatura eseguita sugli estimi del 1296-97 un micro-circuito di denaro e di pegni per il quale venivano impiegate somme modeste, che rivelano tuttavia un certo interesse verso forme di investimento nell’ars fornarie e, in misura contenuta, nella rendita fondiaria. Spiccano quali eccezione rispetto a questo quadro alcune situazioni di fornai agiati, proprietari di vari terreni, spesso ubicati nella stessa zona, titolari di un capitale compreso fra le 500 e le 1000 lire. In questi casi, si tratta di individui che si collocavano in una fascia economica e sociale media o medio-alta. Sarebbe interessante eseguire uno spoglio degli estimi trecenteschi per comprendere l’evolvere di condizioni patrimoniali di tale genere e di altre, ben più numerose, comprendenti i redditi fra le 100 e 500 lire, o addirittura inferiori alle 100. Da una campionatura degli estimi successivi, infatti, si potrebbero cogliere i mutamenti relativi alla composizione economica e sociale, nonché alle possibilità creditizie, di coloro che svolgevano questo mestiere in pieno e tardo Trecento. Nondimeno, la raccolta e la classificazione dei dati riscontrati negli estimi del 1296-97 costituiscono già un valido spunto di riflessione per inquadrare il movimento e l’impiego del denaro, le permute di oggetti, i rapporti fra le categorie professionali. Dall’esame delle cedole relative ai fornai residenti nei quattro quartieri cittadini emerge un quadro variegato, che permette di enucleare alcuni aspetti significativi del profilo degli addetti all’ars fornarie a fine Duecento. Interessante è il caso di Iohannes q. Bernardi359 il cui figlio svolge l’arte della zubboneria (l’arte di fabbricare giubboni) e possiede un capitale di 25 lire dichiarato nell’estimo del padre360. Da esso risulta che il figlio di Iohannes deve ricevere varie somme di denaro (ammontanti a 25 lire) per la vendita di giubboni pagati soltanto in parte dagli acquirenti. Forse questo capitale serviva a Iohannes stesso per finanziare la propria attività di fornaio. Si riscontrano, inoltre, prestiti fra gli stessi fornai, come è l’esempio di Gracianus361, creditore per 7 lire di Francischus fornaio. Altri hanno contratto dei debiti per ottenere un mutuo, o pagare l’affitto di una costruzione (un edificium, una casa, un forno), fra i quali il già citato Philippus q. Iacobi362, che deve dare a Chaxinus de Plantavignis e ai suoi fratelli 3 lire per la pensione del forno. ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, bb. 5b-6, 1296-97, Porta Piera, S. Maria Maddalena, 225r. 360 La dichiarazione del capitale del figlio nell’estimo del padre potrebbe spiegarsi con l’età giovane del figlio; ma non vi è indizio nella cedola che lasci supporre tale ipotesi. 361 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 11, 1296-97, Porta Piera, S. Vitale, 58r. 362 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 4, 1296-97, Porta Piera, S. Donato, 35r. 359
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Ancora, Iohannes q. Rustighelli363 denuncia 67 lire di debito: deve restituire a dominus Guidonus scriptor 6 lire ad laborandum artem fornarie; a Iacobus Sohibanarius notaio, deve 5 lire per il frumento da questi acquistato; con Dito suo famulo, figlio di Giovanni calzolaio, ha l’impegno di rendere 4 lire per il lavoro che questi aveva svolto al suo servizio. Il prestito in denaro copre una parte non irrilevante dei costi dell’attività di questo fornaio, dall’acquisto della materia prima (frumento o altro cereale) al pagamento delle prestazioni dei famuli, sorta di garzoni, che aiutavano il fornaio nello svolgimento delle varie mansioni, fra cui quella di vendere i pani sulla piazza cittadina o per via. Oltre alle tipologie appena descritte, si rilevano fornai creditori e debitori nei confronti di terzi, per giri di affari e di denaro a piccolo raggio e di modeste entità. Francischus q. Iohannis364 deve avere 90 lire da Andrea de Çanis per la restituzione di una dote. Lo stesso Francischus, d’altronde, è tenuto a rendere a Gracietus abburattator 7 lire; a un altro creditore deve 6 lire per l’ammontare complessivamente di 13 lire. Fra i debiti di Francischus è compresa una voce che riguarda direttamente l’attività dell’ars fornarie, nella fattispecie il raffinamento della farina mediante l’intervento dell’abburattator, che aveva il compito di separare col setaccio il fiore della farina dalla crusca (e da altri residui). Tale dato conferma l’estrema segmentazione delle fasi della panificazione a fine Duecento, assegnate a più operatori con competenze diversificate, e rafforza l’ipotesi che il fornaio gestisse e coordinasse in prima persona le attività connesse alla panificazione e fosse coadiuvato da aiutanti. Accanto ai prestiti si annoverano i pegni di oggetti a garanzia della restituzione di piccole somme di denaro; per esempio, Recevotus q. Passavantis365 tiene in pegno per 40 soldi prestati a un certo Toschanus una colcedra (sorta di coperta)366, una gonnella e una borsa. Dondideus q. Bondi367, fornaio al servizio del comune nel primo semestre 1287, creditore e debitore, fu fatto prigioniero a Imola nel corso della guerra fra le due città368. Al momento della dichiarazione dell’estimo Dondideus (o il figlio per lui) doveva ancora restituire a certi prestatori le 40 lire che essi avevano avanzato per farlo uscire di prigione. Allo scopo di ottenere tale somma Dondideus aveva disposto di pignorare una serie di oggetti quali una pelle, una guarnacca
363 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 3, 1296-97, Porta Piera, S. Cecilia, 127r. 364 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 7, 1296-97, Porta Piera, S. Martino dell’Aposa, 96r. 365 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 7, 1296-97, Porta Piera, S. Martino dell’Aposa, 238r. 366 Vedi Sella 1937, p. 100 (colcedrella: piccola coperta). 367 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 11, 1296-97, Porta Piera, S. Vitale, 43r. 368 Hessel 1975, pp. 270-273; Vasina 1982; Lazzari 2004.
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(sopravveste ampia e lunga, aperta ai lati per coprirsi dal freddo)369, una gonnella, una pancera, una cintura di argento, due ciroteca (guanti)370. Rilevante è, inoltre, il caso di Gerardinus q. Ghibertini371 debitore di Vinentius Ytilini per 30 lire ex causa laborandi, ossia per qualche spesa inerente all’ars fornarie. Talvolta si tratta di compensi che il fornaio deve ai propri sottoposti, come è il caso di Bertolus q. Gerardi, che ha l’obbligo di retribuire la prestazione di lavoro (laborerio) eseguita da un certo Domenico per il valore di 5 lire. Bencevene q. Guidocti372 si impegna a rendere 115 lire di cui 90 al proprio genero Bongiovanni del fu Petriçolo, quale completamento della dote di sua figlia e moglie del detto Bongiovanni. Theobaldinus q. Iohannis fornarius373 dichiara nella sua cedola il credito di un suo famulo, un certo Guidone del fu Uguccione, da lui stesso impiegato nell’ars furni, che dovrebbe ricevere da altri due una somma pari a 10 lire e 15 soldi. Theobaldinus denuncia un credito spettante al suo lavorante in quanto – così dichiara nell’estimo – figlio di fumanti (residenti nel contado) e impossibilitato a farsi valutare in città. Lo stesso Theobaldinus, a sua volta, deve 10 lire ai suoi tre famuli come compenso dell’anno precedente, oltre a dover rendere 18 lire ai soci Guido e Lapo di Firenze, prestatori a interesse (feneratores). Si rileva da questo e da altri estimi una traccia della gerarchizzazione del lavoro a fine Duecento. Vari fornai, attivi in proprio o per il comune, disponevano abitualmente di una serie di giovani (i famuli appunto) che li aiutavano a eseguire le varie fasi della panificazione. L’attività creditizia di non pochi fornai doveva inserirsi in un circuito di affari che oltrepassava le mura cittadine; il caso di Theobaldinus era probabilmente abbastanza comune. È nota, infatti, la presenza diffusa di mercanti e cambiatori toscani, nella fattispecie fiorentini, pistoiesi, lucchesi, senesi, operanti a Bologna sin dal pieno Duecento, in favore del comune e degli studenti, ai quali offrivano mutui a condizioni più vantaggiose dei banchieri bolognesi374. Si delinea anche un micro-circuito di scambi di denaro fra fornai e loro sottoposti, come quello di Bertholomeus q. Giraldini375 che aveva contratto un debito con due suoi famuli: a uno doveva restituire 3 lire e 11 soldi, all’altro 4 lire. Si enuclea altresì un giro di Battaglia, VII, p. 129: «Sopravveste originariamente ampia e lunga, aperta ai lati, spesso foderata di pelliccia e fornita di cappuccio, che veniva indossata, specie dagli uomini, sopra ogni altro abito per ripararsi dal freddo e dalla pioggia (e in Italia restò in uso sino alla fine del secolo XVI)». 370 Sella 1937, p. 95. 371 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 44, 1296-97, Porta Stiera, S. Maria Maggiore, 587r. 372 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 24, 1296-97, Porta Ravennate, S. Biagio, 225r. 373 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 29, 1296-97, Porta Ravennate, S. Stefano, 118r. 374 Pini 1962, p. 75; Greci 2007b. Cfr. Hessel 1975, pp. 157-158. 375 ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 14, 1296-97, Porta Procola, S. Damiano, 17r. 369
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affari e di soldi fra fornai e privati per l’affitto delle strutture necessarie allo svolgimento dell’ars fornarie: un esempio per tutti è quello del già menzionato Benvenutus q. Iohannis376 debitore di Gozzadino de’ Beccadelli per l’affitto annuale della casa con forno. Crediti, debiti, pegni: un universo di rapporti, oggetti, scambi, che si concentrava intorno a coloro che facevano il pane in città e spesso erano anche proprietari di appezzamenti di piccole dimensioni nella guardia o nel contado. Una categoria di lavoratori specializzati che esercitavano l’arte in ambito domestico, probabilmente coadiuvati da una consistente presenza femminile, di rado palesata nelle fonti, e da sottoposti alle loro dipendenze. In quale modo i proventi del lavoro sviluppato in città potessero integrare quelli della campagna, e viceversa, non è dato dire dal solo esame delle fonti d’estimo. Del pari, non è possibile accertare se al commercio e alla vendita del pane si affiancasse quello di altri prodotti, derivanti dai terreni coltivati o destinati all’allevamento. Emerge, tuttavia, un profilo professionale articolato per il quale l’ars fornarie risultava essere la principale, ma non unica attività svolta da questa categoria.
ASBo, Comune Governo, Ufficio dei riformatori degli estimi, Estimi, s. II, b. 15, 1296-97, Porta Procola, S. Giovanni in Monte, 13r. 376
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Fig. 4. I canali di Bologna (schema tratto da T. Costa, Il grande libro dei canali di Bologna, Bologna 2011, p. 103).
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1. Qualità, colori, forme del pane Diversi tipi di pane – per colore, forma, sapore – sono attestati nelle fonti scritte e iconografiche di ambito bolognese di epoca medievale e moderna. Tracce di questi prodotti si riscontrano nella documentazione di archivio, di carattere normativo, economico, celebrativo (disegni simbolici ai margini delle carte o sui frontespizi dei registri), risalenti ai secoli XIII-XVII. Emerge innanzitutto da tali fonti l’importanza e l’utilizzo del frumento rispetto agli altri cereali (denominati, come si è visto, con il termine generico biado). Al pari della maggior parte delle città italiane ed europee, anche a Bologna si prediligeva il consumo di pane bianco di frumento, considerato il pane per eccellenza, nonché uno dei simboli più significativi della cultura alimentare cittadina1. Esso si distingueva dal pane nero (o, piuttosto, scuro), composto di misture di grani, per lo più consumato dai rustici e dai cives meno abbienti. Nondimeno, fonti bolognesi due-trecentesche, normative ed economiche, attestano l’utilizzo di cereali inferiori per fare un generico pane di misture. Sicuramente in tali misture erano impiegate spelta, segale, orzo, cereali coltivati nel contado, come attesta un registro dell’Officium bladi datato 1314, in cui sono annotati i quantitativi di questi cereali (e di frumento), che periodicamente il comune requisiva a ogni famiglia residente in campagna. Oltre alle misture di cereali inferiori, vi era quella di frumento e fave, considerata più raffinata delle altre, tanto è vero che già negli statuti del 1288 il datium bladi ammontava a 3 denari a corba di frumento con fave, contro 2 denari per corba di mistura. In un registro dell’Officium bladi del 1290 è fornita la Montanari 1994a, pp. 41-44, 69-70. Cfr. Pinto 1978; Pinto 1982.
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composizione esatta della mistura di frumento e fave: essa risultava costituita per ¼ di fave e ¾ di frumento. I bolognesi, dunque, mangiavano anche pane più scuro, soprattutto nei periodi di penuria di grano e di rialzo dei prezzi, nonostante il frumento fosse ritenuto il cereale per eccellenza. Come accadeva per la carne, anche per il pane vigeva nel Medioevo il principio di «mangiare secondo la qualità della persona»: ovvero la qualità e il colore dello stesso variavano a seconda della condizione economica e sociale dei consumatori2. Alla base di motivazioni economiche vi erano profonde convinzioni e giustificazioni dietetiche, che affondavano le radici nella scienza medica antica. L’Occidente medievale ereditò dal mondo classico l’idea che il pane fosse il cibo “artificiale” perfetto creato dall’uomo; in esso le qualità che caratterizzavano tutti gli elementi dell’universo si amalgamavano in maniera equilibrata. In tal senso, il pane era il frutto di un sapere e di una tecnologia complessi3. Di qui l’ottimo valore dietetico attribuito a questo cibo, considerato tale soprattutto se di colore bianco. Secondo Pier de’ Crescenzi, agronomo bolognese vissuto nel Trecento e autore del trattato Ruralia commoda4, il pane di frumento doveva essere di forma media, ben cotto dentro e fuori, grazie all’impiego di un fuoco misurato. Il pane troppo secco era ritenuto difficilmente digeribile, mentre quello caldo e appena fatto era stimato più nutritivo e umido. Ragioni di natura dietetica, derivanti dalla scienza medica classica, soggiacevano alle spiegazioni “scientifiche” fornite da Pier de’ Crescenzi nel formulare la gerarchia dei possibili consumatori. Questi ultimi non si distinguevano soltanto per il colore del pane; anche se il pane era di frumento, vi erano non poche differenze determinate dalla preparazione e cottura dello stesso. A ogni stomaco spettava un certo tipo di pane: quello ben lievitato, salato e ben cotto era indicato per coloro che non svolgevano attività lavorative durante il giorno; quello scarsamente fermentato, senza sale e poco cotto, era adatto per chi eseguiva mansioni di fatica. Ai medesimi principi dietetici facevano riferimento, implicitamente, le rubriche statutarie cittadine, allorché recavano l’obbligo per i fornai di vendere un pane bianco, ottenuto dall’impiego del fior della farina di frumento (tolti, dunque, la crusca e il tritello), tondo, lievitato e cotto in maniera che fosse soffice dentro e croccante fuori (senza diventare secco). Queste caratteristiche erano ribadite nei primi statuti quattrocenteschi della compagnia dei fornari, a garanzia del lavoro dei soci5. Si sottindendeva l’idea della qualità del prodotto, per la quale numerose prescrizioni erano state inserite nella normativa statutaria bolognese, nel quadro di una tendenza comune, italiana ed europea, di controllo della produzione da parte delle autorità pubbliche6. Se nel Medioevo la mistura a base di frumento e fave era considerata mi Montanari 1994a, pp. 104-115. Montanari 2004b, pp. 9-10. 4 Crescenzi 1995, 1, III/ 14-18, pp. 168-169. 5 ASBo, Capitano del popolo, Società di popolo, Società dei fornai, Statuti, 1404-1406, c. 7v. 6 Cipolla 1980, p. 239. 2 3
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gliore di quella composta da altri cereali, nel Cinquecento sussisteva una netta contrapposizione fra il pane di frumento, ritenuto cibo esclusivamente per cittadini, e quello di fave, considerato cibo per contadini. In tal senso si esprimeva il cantastorie bolognese Giulio Cesare Croce nel componimento Contrasto del pane di formento e quello di fava per la precedenza7: alla contrapposizione fra pane di frumento e pane di fava corrispondeva l’opposizione fra città e campagna. Il frumento era un cibo da signori, quello di fava un pane di carestia, consumato in città solo quando non c’era abbastanza frumento. I cittadini – sosteneva Croce nel Contrasto – non amano mangiare il pane scuro, quale il pan di fave, difficile da digerire e nocivo per la salute. Soltanto nei periodi di crisi – ribadisce il cantastorie bolognese – è consigliabile mangiare pane di questo genere. Infatti, quando si verificava una fase di penuria di viveri, il prezzo del frumento aumentava e la sua qualità peggiorava. Di conseguenza, in tali congiunture era quasi meglio cibarsi di pane di fave; anche se difficile da digerire, seppur mal impastato e mal cotto, era sicuramente migliore di un pane di frumento mescolato al loglio e dannoso per la salute. Fra due pani del genere, il cui prezzo si ravvicinava nei periodi di crisi, secondo Croce, era quasi meglio quello di fave, ben più apprezzato dai contadini, i quali sapevano come farlo: lo impastavano così che diventasse «grande, grosso, tondo», non come i fornai cittadini che tendevano a fare impasti pesanti. Del resto, in tempo di carestia – nel Medioevo come nel Cinquecento – il pane era scuro, il frumento era impastato con il loglio e con l’acqua fredda, perché il cibo confezionato sembrasse sostanzioso (quando invece non lo era). Alla scarsezza di frumento disponibile si cercava di ovviare con qualsiasi tipo di prodotto, a cominciare dai cosiddetti cereali inferiori quali l’orzo, il miglio, la spelta, e dalle leguminose come le fave, i piselli, i ceci8; ingredienti che – come si è accennato – negli statuti cittadini due-trecenteschi erano ammessi per creare misture. Invece, negli statuti dei fornari dei secoli XV-XVI si ribadiva che il pane doveva essere di frumento; per esempio, secondo una rubrica del 1553 occorreva «lavorare la pasta di esso pane et farla lavorare nettamente con mani e non con piedi, et operare che il pane sia levato custodito et cotto debitamente et ad arbitrio del buon homo; et etiam fare detto pane de bona farina et buona robba rispettivamente, né mescolare in essa tridello o altra robba trista»9. Non soltanto la composizione e il colore del pane, da cui dipendevano il valore dietetico, economico e sociale dell’alimento erano al centro delle attenzioni dei governanti e dei fornai; anche la sua forma rivestiva una certa importanza. Pagnotte bianche e scure, tonde, ovali, a cornetto, a forma di tiera (più pani attaccati in fila)10, Croce 2009, pp. 299-307. Montanari 2004c, p. 134; Montanari 1994a, pp. 41-44; Montanari 2012, p. 65. 9 ASBo, Assunteria d’Arti, Fornari, Statuti, 1553, c. 27v. 10 Il termine “tiera”, che si riscontra nei documenti bolognesi del XVII secolo, è ritenuto un gallicismo da Pier Gabriele Goidanich (Goidanich 1914). Cfr. Castelli Zanzucchi 1998, pp. 88-104. Sia nel dizionario etimologico italiano di Carlo Battisti e Giovanni Alessio (Battisti, Alessio 1948), 7 8
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oppure staccate, sono rappresentate nelle fonti iconografiche medievali, dove figurano imbandite sulle mense di laici e di religiosi. Si pensi, per esempio, alla Tavola dei miracoli dei Pani di San Domenico11, affresco realizzato da un maestro padano del XIII secolo, conservato presso la chiesa di Santa Maria e San Domenico della Mascarella di Bologna. In esso sono rappresentati piccoli pani bianchi e tondi disposti sulla tavola dove siedono il santo e altri domenicani, in alternanza a brocche, piatti e bicchieri (Fig. 5). Oppure, si consideri la tiera di pani rappresentata da Cristoforo da Bologna nel noto affresco Comunione e viatico di santa Maria Egiziaca, appartenente alle Storie di Santa Maria Egiziaca, realizzato dal pittore nella seconda metà del Trecento (conservato in San Giacomo Maggiore)12. Un venditore ambulante (che trasporta con sé una gerla ricolma di pagnotte) offre alla santa una tiera di tre pani, che costituiranno il suo cibo durante il periodo di preghiera nel deserto (Fig. 6). Il pane diventa, in questo caso come nel precedente, emblema del nutrimento spirituale, che si rinnova e non si esaurisce, nonché dell’eucarestia e della carità. Sin dai primi scrittori cristiani emerse con forza la carica simbolica del pane. Agostino paragonava la costruzione del cristiano alla fabbricazione del pane; nelle vite dei santi numerosi personaggi coltivavano il frumento e la vite per diffondere la fede13. Tale forma, la tiera, doveva essere consueta per i bolognesi e rimandare a un universo quotidiano conosciuto. Si tratta, infatti, di un tipo di pane diffuso nel Bolognese, ma anche nelle città ubicate lungo la via Emilia. Esso veniva infornato disponendo sulla piastra pallottole di pasta accostate in fila ordinate, le quali, espandendosi durante la cottura, formavano una superficie intera ma frazionabile. Da simbolo religioso a simbolo di potere, il pane bianco tondo e piccolo rivestiva un significato politico nel ciclo di affreschi del castello di Bentivoglio presso Bologna, realizzato da un anonimo frescante intorno al 1480, volto a celebrare la famiglia dei Bentivoglio, all’epoca signori della città e del territorio bolognese14. In tale ciclo il pane è raccontato nel susseguirsi delle varie fasi di lavorazione fino a giungere al prodotto finito, dunque, dal lavoro agricolo al cibo. Le Storie del pane iniziano, infatti, con il disboscamento dell’incolto; i terreni vengono ripuliti, drenati, arati, seminati; a tali operazioni seguono la trebbiatura presso l’aia della casa colonica e il trasporto dei sacchi di grano al mulino. Da ultimo, la preparazione dei pani: due giovani dame e la domestica (o, forse, una donna di casa più anziana) lavorano assieme attorno a un tavolo sotto il porticato del castello per fare l’impasto; alcune pallottole, accorpate a due a due, sono già pronte per essere cotte (Fig. 7). Nella scena successiva le donne sono davanti al forno del castello nell’attesa che il pane cuocia. sia nel glossario modenese di Giovanni Galvani (Galvani 1971), la tiera ed pan equivale a una serie o più pani in fila. 11 Vasta è l’iconografia sul miracolo dei pani di San Domenico. Vedi in proposito Calvia 2001-2002. 12 Nicolini, Rizzi 2004, p. 43. 13 Montanari 1994a, pp. 24-26; pp. 61-62; Montanari 2012, pp. 61-62. 14 Montanari, Pasquini 2006. Cfr. Nicolini, Rizzi 2004, p. 43.
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Il consumo costituisce il completamento conviviale del lungo e complesso ciclo del grano: tre dame e due giovani cavalieri siedono a una tavola imbandita; i pani serviti caldi appena sfornati sono semplici piccoli, bianchi, uniti a due a due. Ritorna in questo genere di rappresentazione celebrativa il pane a forma di tiera a emblema del potere dei Bentivoglio sulla città. Il pane diventa anche simbolo, e risultato, dello stretto rapporto esistente fra centro urbano e campagna circostante. Nel XVI secolo le tiere (o tére) erano prodotte a Parma, Piacenza, Reggio, Modena, Bologna e a Ravenna; esse avevano la consistenza di quattro, sei, otto pani congiunti fra loro nella parte centrale, con o senza crosta. Possibili declinazioni delle forma di pane a tiera sono presenti nelle nature morte di Paolo Antonio Barbieri (1603-1649), nativo di Cento, fratello del Guercino, da cui trasse il gusto per il chiaroscuro e la vivacità del colore15. A differenza del fratello, Barbieri si dedicò a una pittura dai toni minori, incentrata su una rappresentazione naturalistica degli oggetti. Il pane ritorna spesso nelle sue nature morte, assieme a frutti e ortaggi; per esempio, nella composizione Agli, cipolle, pane e castagne, sono raffigurati pani a treccia, rigonfi, strozzati al centro in più punti e dalla crosta ben cotta, assieme a cipolle, agli e castagne. L’attenzione al dettaglio naturalistico si rileva anche in altri generi artistici coevi, quali le stampe di Annibale Carracci e Giuseppe Maria Mitelli, due artisti che, a distanza di un secolo l’uno dall’altro, furono attenti a raccontare scene di vita al mercato, in strada, nelle botteghe16. Entrambi rappresentano i pani commerciati per le vie della città: fornai che trasportano teglie, garzoni che vendono pagnotte piegati sotto il peso di gerle ricolme di pane e ciambelle. In particolare, Annibale Carracci (1560-1609), pittore bolognese che si ripropose di creare uno stile volto al classicismo naturalista, rappresenta una possibile declinazione della tiera medievale. Nel noto dipinto Mangiafagioli egli raffigura quattro pagnotte attaccate a forma quadrangolare e crea una composizione di cibi conosciuti e consueti nell’area emiliano-romagnola, ma anche altrove in Italia: accanto ai pani, vi sono la pietanza a base di fagioli, un trancio di torta alle erbe e delle cipolle (Fig. 8)17. La tiera doveva essere un cibo assai diffuso se circa un secolo dopo Giuseppe Maria Mitelli (1634-1718), incisore bolognese e autore di numerose stampe popolari, riprodusse a più riprese quella forma di pane e chi lo faceva: immagini di vita bolognese, costumi, feste, personaggi, curiosi episodi, ma anche personificazioni di paure e desideri, come quelli della fame e dell’abbondanza. Nella stampa del 1691 Pan figli egli è per voi, e vi dà pace, per esempio, una donna simbolo della carità allatta un neonato e distribuisce a un bambino pani che trae da una cesta posta al suo fianco. Ai piedi della donna un altro bambino ha in mano una tiera di quattro pani18. Nella stampa satirica Vero adobbo per ogni casa (1696) un fornaio dal nome 17 18 15 16
Benati, Peruzzi 2000. Molinari Pradelli 1984. Varriano 2009, pp. 62-63. Bertarelli 1940, pp. 59-60.
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Msier Pan Craci, camminando sotto il peso di una gerla carica di pagnotte, giunge davanti a un gruppo di popolani affamati che lo salutano con appellativi ammirativi e imploranti («Bellissima creatura», «Fior amatissim», «Tulipan odorifer», «Molt magnifich», «Carissim Sgnor», «A Sig. Gustosissim») (Fig. 9). La stampa allude alla festa degli «addobbi», che si celebrava a Bologna annualmente, a turno nei quartieri.19. Ancora, nel Gioco de mestieri (1698) l’incisore bolognese rappresenta il Fornaro nell’atto di vendere a una donna una triade di pani; altre file di pani attaccati sono esposte dietro e sopra al banco di vendita (Fig. 10)20. Il Gioco de mestieri è suddiviso in venti riquadri organizzati su quattro file; in ciascuno di essi è raffigurata una professione, con il relativo nome e un breve commento in dialetto bolognese sull’utile o sul danno del giocatore che vince o paga. Si tratta di una delle stampe di Giochi realizzati da Mitelli, giochi popolari molto diffusi, come quello dell’oca, che si praticavano con i dadi21. Il genere di supporto visivo – la stampa popolare – e la sua ampia circolazione, lasciano supporre l’altrettanto diffusa consuetudine alimentare, quella di fare i pani a tiera nel Bolognese. 2. Torte, pani salati e dolci. Qualche specialità medievale Oltre a semplici pani salati, singoli o raggruppati a tiera, i fornai confezionavano e cuocevano torte salate, farcite di carne, spezie, formaggio, verdure, pani ripieni e ciambelle dolci, vendute negli spazi consentiti dal governo e per strada dai garzoni. Questi cibi non erano distintivi di una cucina tipica della città. Al contrario, Bologna “grassa” era caratterizzata nel Medioevo da una cucina “internazionale”, che beneficiava degli apporti degli studenti stranieri; si alimentava tramite i traffici e gli scambi dei mercanti provenienti da varie parti d’Italia e d’Europa; si arricchiva grazie all’arrivo in città di diversi prodotti, fra cui le spezie, ingredienti fondamentali di tante pietanze a base di carne e di pesce. Bologna “grassa” si inseriva in un polo di centri italiani ed europei, dove la cucina si distingueva per essere “universale”; una tendenza attestata per l’Occidente latino nella maggior parte dei libri culinari di quei secoli22. Già nelle fonti normative duecentesche sono registrati alcuni prodotti della panificazione consueti nella città felsinea, ma non soltanto. Per esempio, nella nota rubrica sul pane venale «ad pensam» degli statuti cittadini di metà Duecento23, si menzionano le focacce («fogacias»)24. Anche in Provenza esse erano attestate con il termine fogassia (ma anche placentula) fra fine Trecento e inizio Quattrocento. Erano consumate ovun 21 22 23 24 19 20
Ibid., pp. 62-63, n. 330. Ibid, p. 135, n. 615. Costume e società 1988. Montanari 2002; Montanari 2004a Statuti del comune di Bologna 1245-1267, III, p. 199. Carnevale Schianca 2011, p. 255.
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que in città e nei villaggi in occasione di alcune festività, come alla vigilia di Natale o per l’Epifania25. Nel Mantovano a Natale si consumavano fugazze26; un dolce comune, addirittura passato in proverbio. Il noto «render pan per focaccia» ricorre spesso nelle Maccheronee del poeta mantovano Teofilo Folengo, vissuto fra fine XV e prima metà del XVI secolo27. Ancora, nella rubrica bolognese più sopra menzionata sono citate le brazzadelle («braçadellas»), sorta di ciambelle dolci, così chiamate per la forma a bracciale col buco dentro28. Nel XIII secolo a Venezia le brazzadele facevano parte dei munera che gli scaleteri, venditori di ciambelle e dolci, dovevano offrire ai provveditori del biado e al doge29. Le brazzatelle o ciambelle, un prodotto dolciario molto diffuso nel Medioevo in Italia e oltralpe, si ritrovano ancora in Età moderna quali prodotti tipici confezionati dai fornai, come si rileva negli statuti dei fornai modenesi del 1601, dove nella rubrica XXVIII si menzionano «brazzatele, crescenti e tortiglioni»30. Che si trattasse di un dolce popolare risulta dall’iconografia delle stampe popolari cinque-seicentesche, in cui spesso è ritratto il garzone di fornaio nell’atto di vendere, appunto, delle ciambelle. Anche nei libri culinari coevi, destinati alle élites urbane, sono descritte ricette di questi cibi. Essi erano, per esempio, conosciuti da Cristoforo Messisbugo, cuoco presso la corte degli Este di Ferrara, il quale nel suo manuale Banchetti composizione di vivande e apparecchio generale (1549)31 illustra la ricetta brazzatelle di latte e zuccaro32. Del pari, Bartolomeo Scappi, cuoco a Roma del papa Pio V, cita i ciambelloni con ova e latte nella sua Opera. Dell’arte del cucinare (1570)33, il più importante ricettario del Rinascimento italiano34. Doveva trattarsi di prodotti della panificazione, che la maggior parte dei cittadini acquistava direttamente dal fornaio. Assieme alle pagnotte più semplici, le focacce e le ciambelle erano alimenti alla portata dei gruppi economicamente e socialmente meno abbienti. Ulteriori informazioni circa i tipi di pani venduti in città si riscontrano negli statuti trecenteschi, a partire da quello del 135235, nel quale ricorre la già citata rubrica relativa al tariffario della cottura delle cibi, fabbricati a Bologna probabil Stouff 1970, pp. 51-52. Corritore 2000, p. 171. 27 Messedaglia 1973, I, p. 167. 28 Carnevale Schianca 2011, p. 81. 29 Faugeron 2009a, p. 521; Faugeron 2014, p. 550. 30 Statuti ed ordini dell’arte dei fornari di Modena, p. 188. 31 Messisbugo 1992. 32 Ibid., p. 107. 33 Scappi 1981, V, 148, c. 371v. 34 Capatti, Montanari 1999, pp. 15-22; Montanari 2004b, p. 47. 35 ASBo, Comune Governo, Statuti, 1352 n. 44, vol. XI, cc. 207r-209v, a c. 207v-208r: «Et de qualibet artoclea magna percipere debeant solum duos denarios parvos. Et de artoclea parva, curnutula vel cossone recipere non debeat nisi unum denarium bononinorum, sub pena quinque solidorum bononinorum pro qualibet vice et pro qualibet re in qua contrafecerint eis de facto auferenda et comuni Bononie applicanda […]». Vedi inoltre: Lo statuto del 1376. 25 26
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mente già nel Duecento36. Fra le prestazioni d’opera che il fornaio era obbligato a offrire vi era naturalmente quella di cuocere vivande già preparate: teglie piccole o grandi di carne, infornate di torte di varie dimensioni e pani farciti. Interessante in proposito è soprattutto la lista concernente i prodotti della panificazione. É infatti testimoniata la cottura di tre tipi di preparazioni: semplici cornetti di pani («cornutoli»), la cui singolarità era data dalla forma particolare a cornetto del pane stesso; il cossone o fiadone37, un genere di torta o pasticcio, contenente vari ingredienti, ma soprattutto formaggio, già presente nei documenti del XI-XII secolo38. Infine, è menzionata l’artocrea, una tipica torta salata medievale39. Questi ultimi due cibi sono spesso illustrati nei libri culinari e dietetici del Quattro-Cinquecento, anche se la loro preparazione era declinata in maniera diversa a seconda dell’area geografica. Per esempio, il cossone, detto comunemente “fiadone”, è citato a metà del XV secolo nel Libreto de tutte le cosse che se magnano di Michele Savonarola40, medico e umanista al servizio di Niccolò d’Este a Ferrara. Secondo Savonarola il cossone o fiaone, preparato per lo più con frumento, è di difficile digestione in quanto lessato, ancorché nutritivo. È un «pasto da vilano e da homini robusti e de exercitio grande, dil quale dice Averois il formento cocto cum aqua è grosso viscoso opilativo, duro da padire più de altra cossa ed è molto cattivo; non è aduncha pasto da zentilhomo»41. Dello stesso avviso è un secolo dopo Bartolomeo Scappi, il quale afferma che si tratta di un manufatto di pasta dura, destinata a racchiudere il ripieno e non necessariamente adatta a essere mangiata. Dentro i fiadoni, così chiamati «dal vulgo», si facevano cuocere diversi grani, fra cui orzo, riso, farro, miglio, panico; oppure, li si riempiva di formaggio parmigiano, zucchero, spezie, uva passa42. Similmente, Messisbugo menziona nel suo ricettario fiadoni a base di cereali («fiadoni grandi di frumento, o farro, o riso») e fiadoni con formaggio («fiadoni grandi d’uova e formaggio»)43. Il fiadone era anche la delizia di Gosa, Musa gozzuta del paradiso maccheronico di Teofilo Folengo44. Oltre al fiadone, a Bologna si confezionava e si vendeva l’artocrea. Con tale termine, ampiamente utilizzato nell’Europa meridionale, si designava un paté composto di carne, verdure, uova e spezie, contenuto in un sottile rivestimento di pasta. Il consumo di artocrea è attestato, per esempio, in area pedemontana, dove si preparava questo tipo di torta Per l’inquadramento politico-economico di questo genere di norme sulle prestazioni d’opera, vedi parte III del volume. 37 Capatti, Montanari 1999, p. 70. Cfr. Carnevale Schianca 2011, pp. 231-232. 38 Montanari 2004c, p. 86. Cfr. Capatti, Montanari 1999, pp. 69-70. 39 Carnevale Schianca 2011, p. 57. Riguardo alle torte salate nel Medioevo italiano, vedi Capatti, Montanari 1999, pp. 71-72. 40 Savonarola 1988. 41 Ibid., p. 61. 42 Scappi 1981, V, 47, 349r-v. 43 Messisbugo 1992, p. 121. 44 Messedaglia 1973, I, pp. 191-192. 36
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soprattutto in occasione delle feste pasquali45. Il suo consumo è registrato anche in Provenza ai primi del Quattrocento; lì la faceva l’artocrearius, colui che svolgeva il mestiere di pasticcere (mentre pistres erano gli addetti a fare il pane venale)46. Se i prodotti annoverati nella documentazione bolognese si inquadrano, per il Medioevo, nell’ambito di una gastronomia europea, dato il carattere “universale” delle cucine premoderne47, diversamente nei ricettari culinari cinque-seicententeschi, ma anche in altre fonti coeve, incominciano a delinearsi alcuni prodotti ritenuti tipici di Bologna. In questo senso, è noto l’esempio della torta di erbe «alla Bolognese» descritta da Bartolomeo Scappi nella sua Opera48 e rappresentata da Annibale Carracci nel già citato Mangiafagioli, nel quale essa è accostata, oltre al piatto di fagioli, a una tiera di quattro pani tondi (di cui si è accennato), a cipolle crude, a un bicchiere di vino vicino alla brocca. Mediante l’attenzione al dettaglio e alla rappresentazione realistica dei cibi, Carracci intese probabilmente restituire una vivida immagine del leggendario appetito locale, già rinomato a quell’epoca, che contribuì probabilmente a potenziare il mito di Bologna “grassa”49. La torta di erbe si inserisce in un gruppo di cibi, caratteristici di un «pasto da villano», come quello che avrebbe voluto Bertoldo, l’eroe contadino di Giulio Cesare Croce, che invece morì «fra aspri duoli», perché gli furono somministrati alimenti troppo delicati per il suo stomaco50. Ancora nel Seicento, Vincenzo Tanara, agronomo bolognese e autore del trattato L’economia del cittadino in villa (1644), ricorda la torta alle erbe, in particolare quella a base di bieta, quale specialità di Bologna51. L’insieme dei pani, torte salate, dolci che emerge dall’analisi di fonti diversificate, considerate per un periodo di tempo relativamente ampio (secoli XIII-XVII), permette di svolgere qualche considerazione circa i consumatori a Bologna nel tardo Medioevo e nella prima Età moderna. Lo stesso Carracci, ponendo al centro dell’immagine il “mangiafagioli” ricurvo sul piatto, invitava a focalizzare l’attenzione sul mangiatore. Difficile, tuttavia, è identificare con certezza coloro che acquistavano il cibo presso il mercato cittadino, almeno per i secoli medievali. Le fonti documentarie, di carattere normativo, giudiziario, economico, fiscale, raramente forniscono chiare indicazioni in questo senso. Forse, quelle giudiziarie consentono di reperire qualche indizio, laddove è sanzionata, per esempio, la vendita illecita di pani a terzi, oppure piccoli traffici che avvenivano presso le locande in città e nel contado; o ancora, singoli casi giudiziari dove fra i soggetti inquisiti vi erano anche compratori. Certamente a Bologna, nel Due-Trecento, vi era una nutrita schiera di avventori che 47 48 49 50 51 45 46
Nada Patrone 1981, p. 118. Stouff 1970, pp. 35-36. Montanari 2004b, pp. 110-111. Scappi 1981, V, 96, cc. 360v-361r. Varriano 2009, pp. 62-63. Montanari 1994a, p. 109. Tanara 1987, pp. 233-234.
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affollavano le osterie, gli alberghi, le locande, sorta di luoghi di mercato al coperto, dove, nei periodi in cui l’autorità lo consentiva, si acquistavano i cibi più diversi. Questi luoghi erano frequentati da un universo variegato di personaggi: mercanti, contadini, viaggiatori, giocatori, meretrici, artigiani, studenti. Lì, le persone si incontravano, contrattavano affari, matrimoni, prestazioni lavorative; organizzavano giochi d’azzardo; nel contempo si sedevano al tavolo e mangiavano, oppure acquistavano vivande per consumarle altrove. Gli abitanti della città andavano all’osteria, ma forse più spesso al mercato. Fra costoro vi erano quelli che per un motivo o per un altro non potevano fare il pane in casa. Infatti, quasi esclusivamente i signori e i ricchi borghesi disponevano di case con forno; gli stessi fornai erano costretti ad affittare la casa con forno per potere esercitare l’ars fornarie. Tutti coloro che non avevano il forno, andavano a comprare il pane presso il fornaio, oppure lo preparavano a casa e lo portavano al fornaio per cuocerlo. Doveva trattarsi di categorie non agiate, ma non soltanto. Gli studenti stranieri, per esempio, ricchi e benestanti, si trovavano nella situazione di doversi comprare tutto, pur disponendo di mezzi economici per avere una casa con cucina e forno e personale domestico al loro servizio. Parte dell’élite urbana, fra le cui fila si contavano non pochi proprietari terrieri, non aveva bisogno di andare al mercato o dal fornaio, poiché godeva delle risorse dei terreni, oltre ad avere alle proprie dipendenze coloro che si occupavano della preparazione e cottura dei cibi (cuochi, inservienti, domestiche). Un esempio significativo in tal senso è rappresentato dagli affreschi del castello dei Bentivoglio, dove l’intero ciclo produttivo del pane si realizzava nei pressi della dimora e delle proprietà dei signori di Bologna. La confezione del pane sembra solo eccezionalmente essere affidata alle giovani dame; quotidianamente, tali operazioni venivano probabilmente eseguite dalla donna più anziana, forse la cuoca di casa o una semplice domestica, che pare insegnare alle giovani le mansioni da svolgere. 3. Grano «pianta di civiltà». Qualche riflessione a margine Mediante l’analisi di questo corpus di fonti, documentarie ma anche di altra natura, ho inteso mettere a fuoco alcuni nodi problematici relativi al tema del mercato a Bologna nel Medioevo (con qualche incursione in Età moderna) e alle politiche cerealicole approntate dai gruppi familiari e consortili al potere fra Due e Trecento. Protagonisti di tale sistema economico erano i produttori, i politici, i creditori, i venditori, i consumatori. Riguardo a questi ultimi, la storia dell’alimentazione ha costituito un ambito di indagine fecondo, che mi ha permesso di svolgere alcune riflessioni su coloro che andavano al mercato per comprare i cibi. Rimangono, tuttavia, vari quesiti aperti su questo e altri aspetti: il rapporto fra la produzione agricola nel territorio bolognese e le politiche cerealicole del governo cittadino, i circuiti granari extra-urbani, la funzione dei fornai in ambito rurale. Il settore dell’ospita-
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lità, per cui Bologna sviluppò presto una forte vocazione, costituisce un campo di ricerca a tutt’oggi ancora inesplorato. Il ruolo di osti e avventori è fondamentale per comprendere tutta una serie di commerci al minuto, a breve e a medio raggio, di pane e di altri cibi. Oltre ai fornai, agli albergatori, agli osti, anche altri mestieri dell’alimentazione erano coinvolti nel commercio del grano. Mi riferisco ai salaroli e alle tricole, due categorie di lavoratori che in seguito alle malversazioni di metà Duecento furono cacciate dal portico del palazzo del Podestà, dove in quegli anni erano ubicati i magazzini di grano del comune. Speculazioni granarie, traffici illeciti, mercati clandestini, circuiti creditizi: altri aspetti relativi al mercato del grano che meriterebbero approfondimenti. Con la presente indagine ho inteso proporre e affrontare una serie di temi, in parte già messi luce da studi precedenti, in parte emersi dallo scandaglio della documentazione presa in esame. La mole e la varietà delle fonti d’archivio bolognesi per l’Età medievale (istituzionali, economiche, giudiziarie, fiscali) riguardo ai cibi, nonché ai mestieri dell’alimentazione, mi ha indotto a condurre, innanzitutto, una ricerca su un prodotto e un cibo, il grano e il pane, attorno ai quali venne a concentrarsi un sistema di valori politici, e economici, sociali, culturali. «Pianta di civiltà», per l’area mediterranea, è stato denominato il grano, a ragione, dallo storico francese Fernand Braudel. Anche per Bologna “grassa” nel Medioevo il frumento, il biado, le tiere, i cossoni, le artocree erano simboli di una civiltà, eminentemente cittadina, potenziata da un forte mercato, da uno Studium rinomato in Europa, dalla circolazione e dagli scambi di individui, merci, idee. Bologna era un centro urbano di produzione e, soprattutto, di consumo. Capire alcune delle dinamiche politiche ed economiche che stavano dietro al mito e all’immagine di Bologna “grassa” ha rappresentato l’obiettivo di questa ricerca. Rimane aperta la questione del sistema annonario, inteso nell’accezione più ampia del termine, di cui le politiche cerealicole – come è stato messo in luce dalla storiografia recente e passata – costituiscono soltanto un aspetto, anche se forse il più importante.
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Fig. 5. Maestro padano del XIII secolo, tavola di San Domenico, Miracolo dei pani (particolare), 1234 ca., tempera su tavola, Bologna, Chiesa di Santa Maria e San Domenico della Mascarella.
Fig. 6. Cristoforo da Bologna, Comunione e viatico di Santa Maria Egiziaca, Comunione di Santa Maria Egiziaca (particolare), 1360-1415, affresco, Bologna, Chiesa di San Giacomo Maggiore.
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Fig. 7. Anonimo bolognese del XV secolo, Ciclo del pane (particolare), 1475-1499, affresco, Castello di Bentivoglio.
Fig. 8. Annibale Carracci, Il mangia fagioli (dettaglio), olio su tela, Roma, Galleria Colonna.
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Fig. 9. Giuseppe Maria Mitelli, Vero adobbo per ogni casa, Bologna, 1696 (Catalogo Bertarelli, n. 330).
Fig. 10. Giuseppe Maria Mitelli, Il gioco del fornaro (particolare), tratto da Gioco dei mestieri a chi va bene e a chi va male, Bologna, 1698 (Catalogo Bertarelli, n. 615).
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Il mercato del pane
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Galvani 1971 = G. Galvani, Saggio di un glossario modenese, Bologna 1971 (rist. anast. dell’ed.: Modena 1868). Guida archivio Bologna = Guida generale degli archivi di Stato italiani 1. Bologna, Roma 1981, pp. 549-661. Lapucci 2007 = C. Lapucci, Dizionario dei proverbi italiani, Milano 2007. Lübker 1898 = F. Lübker, Lessico ragionato della Antichità Classica, dalla 6a ed. tedesca trad. con molte aggiunte e correzioni da C. A. Murero, Roma 1898. Martini 1976 = A. Martini, Manuale di metrologia, ossia Misure, pesi e monete in uso attualmente e anticamente presso tutti i popoli, Roma 1976 (ripr. facs. dell’ed.: Torino 1883). Orlandelli 1954 = Gli uffici economici e finanziari del comune dal XII al XV secolo, I. Procuratori del comune - difensori dell’avere - tesoreria e controllatore di tesoreria. Inventario, a c. di G. Orlandelli, Roma 1954. Sella 1937 = P. Sella, Glossario latino emiliano, prefazione di G. Bertoni, Città del Vaticano 1937. Trombetti Budriesi, Duranti 2010 = A. L. Trombetti Budriesi, T. Duranti (a c.), I libri iurium del comune di Bologna. Regesti, I-II, Perugia 2010.
Indice dei nomi di persona
L’indice dei nomi di persona contiene i nomi degli autori citati nel testo e in nota (in maiuscoletto), quelli dei personaggi storici e mitologici, unitamente ai nomi tratti dalla documentazione d’archivio inedita consultata (in tondo). Riguardo a questi ultimi, sono stati indicizzati i termini nella forma originale presente nel documento, oppure in quella cognominale di singoli individui (in latino) e di famiglie note (in italiano e in latino). Ove possibile, si è indicata la qualifica della persona nell’ambito del settore cerealicolo bolognese, a livello istituzionale (magistrature cittadine inerenti al ciclo del pane) ed economico (produzione, trasformazione, commercio del grano). Circa i personaggi storici menzionati nel corso della trattazione, si sono definite le cariche politiche e religiose, oppure il profilo culturale e scientifico nel caso di autori di fonti letterarie, culinarie o medico-dietetiche. Acciaiuoli, famiglia, 37 Acolbene Clarii, fornarius, 124 Açolinus d. Saffulini, d., fornitore di grano del comune, 99 Adigheni, Nicholaus, custode dei domini bladi, 123 Ady, C., 152n, 209 Ago, R., 6n, 7n, 209 Albericus de Placentia, pistor, 144n Albertani, G., 23n, 184n Albertonus, d., notaio dei presidenti dell’Officium bladi, 87
Albertus de Pragatto, venditore di un terreno, 34n Albertus q. Bonamici de Zena, fornarius, 175 Aldrevandus q. Petri, pistor, 181 Alessio, G., 193n, 239 Ambrogio, santo, vescovo di Milano, 29, 30, 206, 215 Ammanati, famiglia, 37 Andalò, Loderingo degli, podestà, 59 Andreolli, B., 21n, 65n, 173n, 178n, 209, 216, 218, 219, 223
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Antonelli, A., 54n, 215, 229, 232 Antonioli, G., 92n, 157n, 209 Arcas (Arcade), figlio di Zeus e Callisto, 130 Archestrato di Gela, poeta siceliota, 130 Ardizzoni F., 51n, 210 Arinerius d. Riçoli, d., ufficiale preposto all’Officium garnariorum comunis, 121n, 122 Armani, Bonagrazia, dottore in legge, 102 Aserbinus q. Belleboni de Ferraria, pistor, 144n Ateneo di Naucrati, scrittore greco, 130, 206 Auliverius pistor filius Iohannini, 168 Avanzus q. Gerardi notarii de Padua, pistor, 144n Azzo da Bagnacavallo, podestà, 75 Baldoynis de, Baldoynus, d., presidente dell’Officium bladi, 93n, 94, 98n, 104 Balducci Pegolotti, F., mercante, 65, 206 Balduinis (Baldoinis) de, Iacobus, d., presidente dell’Officium bladi, 98 Barbieri, P.A., pittore, 195 Bardi, famiglia, 37 Bargelli, C., 6n, 210 Barthélemy, monaco francese, 18 Bartoli, M., 133n Basini, G.L., 5n, 210 Battaglia, S., 23n, 67n, 68n, 107n, 108n, 136n, 137n, 164n, 176n, 188n, 239 Battistella, A., 56n, 210 Battisti, C., 193n, 239 Beccadelli de’, Gozzadino, proprietario di una casa con forno, 179, 189 Becevenne filius Raynaldi, fornarius, 184 Belintendi, Albertus, d., syndicus et procurator dei canonici di San Pietro Maggiore, 122
Bellebene di Calcara, Albertus, trafficante di grano, 100 Benati, A., 50n, 195n, 210 Bencevene q. Guidocti, fornarius, 124, 176, 177, 178, 188 Bencevenne, trasportatore di grano, 123 Benedei de Albirolis, Iohannes, massaro di San Giovanni in Persiceto, 124 Benedictis, A., 18n, 210 Benevolo, G., 177n, 210 Benito I Monclús, P., 2n, 3, 210, 224, 228 Bentivoglio, famiglia, 152, 194, 195, 200, 203, 209, 211, 227 Benvenuto da Imola, commentatore di Dante, 172, 173, 206 Benvenutus q. d. Zunte, fornarius, 175 Benvenutus q. Gerardi, fornarius, 181 Benvenutus q. Iohannis, fornarius, 179, 180, 189 Benzo d’Alessandria, letterato, 20, 211 Berengario I, re d’Italia e imperatore, 31 Bergonzoni, F., 28n, 40n, 210, 211 Berrigan, J.R., 20n, 211 Bertarelli, A., 195n, 204, 239 Bertholomeus q. Giraldini, fornarius, 180, 188 Berti F., 60n, 211 Bertolus q. Gerardi, fornarius, 181, 182, 188 Bertrando del Poggetto (Bertrand du Pouget), ecclesiastico e cardinale francese, 153, 154, 157, 158, 214, 233 Bianchetti (Blanchittis o Blanchitis), famiglia, 92 Blanchitis, Ursus (Orso Bianchetti), d., fornitore di grano del comune, 97, 99, 118 Bobizzo, Giacomo, legato veneziano, 82 Bocchi, F., 10n, 20n, 21n, 22n, 30n, 31n, 32n, 33n, 38n, 41n, 42n, 50n,
Il mercato del pane
52n, 53n, 56n, 69n, 152n, 211, 218, 219, 226, 227, 228, 235 Bolelli, F., 5n, 224 Bollini, M., 30n, 211 Boltramino di Ferrara, trasportatore di grano, 96 Bonacini, P.P., 24n, 56n, 90n, 91n, 206 Bonacosa Guidonis, fornitore di grano del comune, 99 Bonacose di d. Iohannes de Corradi, d., moglie un fornitore di grano del comune, 97 Bonacursius de Mantua, d., appaltatore di pedaggio, 51 Bonavintura q. d. Viviani, fornarius, 182 Bongiovanni del fu Petriçolo, 188 Bonifaçi, famiglia, 92 Bonifacio VIII, papa, 150 Bonincontrus q. Baliani, fornarius, 177, 178 Boninsigna de Placentia, pistor, 144n Bonissima uxor d. Andree filii q. d. Chastellani, titolare di un contratto di soccida, 180-181 Bonpetri, Albertus, fornarius, 183, 184 Bonsignori, famiglia, 37 Bonus de Ferraria, pistor, 144n Boone, M., 149n, 212 Bonzagni, Meçovillanus, d., presidente dell’Officium bladi, 86 Bordone, R., 135n, 212 Bourin, M., 2n, 210, 212 Braidi, V., 11, 118n, 150n, 151n, 172n, 207, 212, 226 Braudel, F., 201 Bresche, Michael, d., notaio dell’Officium bladi, 93n Britnell, R.H., 6n, 212 Brizzi, G., 18n, 28n, 212, 218, 231 Brogiolo, G.P., 21n, 212 Burellis de, Manfredotto, notaio degli anziani e consoli, 122
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Brusacis de (Bruxatis de), Thebaldus, d., podestà, 93n Busati, G., 16 Cacia, D., 130n, 212 Caggese, R., 45n, 212 Callisto, ninfa amata da Zeus, 130 Calvia F., 142n, 194n, 212 Campanini, A., 9n, 11, 160n, 206, 212 Camporesi, P., 129n, 212 Çanis de, Andrea, debitore di Francischus q. Iohannis fornarius, 187 Capatti, A., 161n, 162n, 197n, 198n, 213 Capoferro Cencetti, A.M., 42n, 213 Carboni, M., 45n, 213 Carnevale Schianca E., 143n, 161n, 196n, 197n, 198n, 239 Carracci, A., pittore, 195, 199, 203, 225, 233 Carlo il Calvo, re dei Franchi occidentali, 135 Cartafogolis de, Arardus, d., appaltatore di pedaggio, 51 Caruso, 173n, 213 Casali, famiglia, 92 Casella, Giacomo (Caxella Iacobus), beccaio bolognese, 10n, 20, 152, 230, 231 Casini, L., 19n, 53n, 213 Castagnini, O., 183n, 213 Castelli Zanzucchi, M., 193n, 213 Catalano di Guido d’Ostia, podestà, 59 Caxadri de, Dinus, socio di Bonincontrus q. Baliani, 178 Cazzola, F., 5, 16, 173n, 209, 213, 218, 234, 238 Ceccarelli, F., 185n, 213 Cecchieri, S., 32n, 213 Cencetti, G., 23n, 58n, 101n, 102n, 213 Çençor miles, d., procuratore del comune, 144n
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Cerere, divinità italica e romana dei campi, 129, 130 Cerchi, famiglia, 37 Cervellati, P.L., 173n, 213 Checcoli, I., 39n, 213 Cherubini, G., 26n, 62n, 212, 213, 214, 237 Chiasera, C., 5n, 224 Ciaccio, L., 153n, 154n, 214 Cianciosi A., 16, 50n, 51n, 146n, 214 Cipolla, C.M., 26n, 37n, 43n, 71n, 159n, 192n, 214 Clavero, B., 7n, 214 Coates Stephens, R., 132n, 214 Cochetti Pratesi, L., 136n, 214 Codecasa de, Aymericus, notaio, 121n Coinci de, Gautier, monaco francese, 18, 209 Colforati (Culforatis), famiglia, 92, 104 Collodo, S., 45n, 214 Comba, R., 47n, 214, 216, 221, 228, 232 Coradinus q. Benvenuti, fornarius, 184 Coronedi Berti, C., 164n, 239 Corradi de, Giovanni, d., socio di d. Blancus Cosse, fornitore di grano del comune, 97 Corradinus q. Aymerici de Brixia, pistor, 144n Corrado II imperatore, detto il Salico, 135 Corritore, R.P., 8, 18n, 144n, 197n, 214 Cortonesi, A., 95n, 214, 221, 229, 232 Corvis de, Baldoynus, d., presidente dell’Officium bladi, 93n, 94, 98n, 104 Cosentino, S., 21n, 29n, 30n, 31n, 215 Coser, E., 20n, 53n, 152n, 206, 209 Cospis de, Paulus, d., fattore del marchese d’Este, 97, 99
Cossa, Baldassarre (Giovanni XXIII), cardinale, antipapa, 137 Cosse, Blanchus, d., fornitore di grano del comune, 97 Costa, T., 108n, 190, 215 Çovençonibus de, Bonçagne, d., presidente dell’Officium bladi, 98 Çovençonibus de, Boniohannes d. Lanbertini, d., presidente dell’Officium bladi, 93n, 94, 98, 104 Çonvençonibus de, Lambertinus, d., presidente dell’Officium bladi, 94 Crescenzi, P. de’, agronomo bolognese, 14, 106, 192, 206, 237 Cristoforo da Bologna, pittore, 142, 194, 203 Croce, G. C., cantastorie e scrittore, 139, 193n, 199, 206, 227 Culforatis de, Michilinus, d., dominus bladi, 97 Culforatis de, Vincignete, d., fornitore di grano del comune, 97 Dallerba G., 173n, 213 Dal Pane L., 10, 19n, 31n, 37n, 53, 54n, 89n, 173n, 185n, 215 Da Polenta, Guido, signore di Ravenna, 117 Daremberg Ch., 130n, 132n, 239 D’Atri S., 5, 215 Davids K., 149n, 212 Davis J., 8, 215 De Gargino, famiglia, 92 Degrandi A., 166n, 215 Degrassi D., 48n, 134n, 136, 138n, 160n, 215 Del Negro P., 19n, 215 Demeglio P., 30n, 215 Demetra, divinità greca, 130 Deodatus, custos deveti del comune, 100 De Robertis F.M., 134n, 215 De Roover R., 6, 7n, 215, 216, 222 Desportes F., 95n, 162n, 216
Il mercato del pane
Di Cambio, Giuliano, dottore in legge, 102 Dini B., 37n, 216 Di Pipino, Senzanome, podestà, 75 Ditus, famulus di Iohannes q. Rustighelli fornarius, 187 Ditus q. Iohannis fornarius, 168 Dolce de Chusano, campsor, 97 Dolcini C., 19n, 216 Dominicus fornarius, 168 Donati, A., 27n, 28n, 212, 216, 225, 227, 235 Dondarini, R., 20n, 25n, 160n, 207, 216 Dondideus q. Bondi, fornarius, 187, 188 Dondus fornarius, 124 Dopsch, A., 71n, 216 Drendel, J., 2n, 210, 212 Du Cange, Ch., 65n, 67n, 95n, 100n, 131n, 132n, 133, 164n, 239 Duranti, T., 39n, 50n, 51n, 54n, 109n, 240 Dussaix, C., 21n, 172n, 216 Enrico V di Franconia, imperatore, 20, 22 Enrico VI di Svevia, imperatore, 47 Enzo di Svevia, re di Sardegna, figlio di Federico II di Svevia, 24, 39, 218, 225, 232, 235 Erioli, E., 16, 71n, 216 Ernout, A., 131n, 132n, 239 Erodoto, storico greco, 130, 207 Esiodo, poeta greco, 130n, 207 Este (Estensi), signori di Ferrara, 97, 98, 99, 116, 120, 144, 151, 220 Este d’, Azzo VIII, marchese di Ferrara, Modena, Reggio, 116, 150, 151, 169 Este d’, Niccolò, signore di Ferrara, 198 Facciolus, barberius, tabernarius, 124 Falletti, P.C., 40n, 216 Fanti, M., 11, 23n, 31n, 32n, 33n, 34n, 35n, 47n, 154n, 207, 213, 217, 224, 239
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Fasoli, G., 10, 23n, 25n, 31n, 47n, 48n, 52n, 58n, 60, 61n, 76n, 92, 93n, 101n, 136n, 137n, 140n, 141n, 150n, 167n, 168n, 209, 217, 219, 222, 226, 228, 238, 239 Faugeron, F., 2n, 6, 7n, 43n, 82n, 136n, 149n, 153n, 170n, 197n, 207, 217 Faustino, amico di Sant’Ambrogio, 30 Federico I Hohenstaufen, detto il Barbarossa, imperatore, 22, 56 Federico II Hohenstaufen, imperatore, 22, 24, 39, 54, 56 Fennel Mazzaoui, M., 54n, 217 Ferarii, Gerardus, notaio degli anziani e consoli, 121n Ferro de, Brunitus, d., fattore del marchese d’Este, 97, 99 Fioravanti L., medico, 129, 130, 207, 212 Fiumi, E., 45, 76n, 218 Flandrin, J.L., 71n, 218 Fletcher, J.M, 118n, 218 Florentinus, praepositus pistorum, 134 Florinus Noclerius, compratore di grano del comune, 99 Folengo T., poeta, 197, 198 Forcellini, E., 100n, 131n, 132n, 239 Foscherari, famiglia, 88, 92, 97, 104 Foschi, P., 11, 22n, 28n, 38n, 39n, 41n, 140n, 173n, 218, 227n, 235 Foscardi, famiglia, 88 Franchini, V., 56n, 90n, 218, 219 Francischus, ufficiale preposto all’Officium garnariorum, 122 Francischus de Rasuriis, d., fideiussore di Acolbene Clarii fornarius, 124 Francischus fornarius, 186 Francischus q. Iohannis, fornarius, 182, 183, 187 Francischus q. Iohannis de Cento, d., ufficiale preposto all’Officium ad garnaria, 121, 122
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Francesca Pucci Donati
Frati, L., 58n, 59n, 76, 92, 206, 208, 217, 219 Freedman, P., 71n, 219 Frescobaldi, famiglia, 37 Frescura Nepoti, S., 22n, 50n, 55n, 69n, 102n, 103n, 108n, 173n, 219 Fujisawa, A., 134n, 219 Fumagalli, V., 30n, 219 Fusiraga de, Antonius, d., podestà, 121n Gabusi, V., 16 Galetti, P., 21n, 173n, 216, 218, 219, 223 Galvani G., 194n, 219, 240 García Marsilla, V., 40n, 44n, 219 Gardini de, Bitinus, d., proprietario fondiario, 98 Garzoni, T., 129, 130, 207 Gaudenzi, A., 9, 10, 23n, 24n, 36n, 61n, 140, 141n, 208, 219, 220 Gaufrido, poeta, 18, 19, 207 Gaulin, J.L, 10n, 20n, 53n, 180n, 220 Gelichi, S., 21n, 212 Geradelli, Gerardus, tabernarius, 124 Gerardinus q. Ghibertini, fornarius, 188 Gerardus filius q. d. Scoti, d., 108n Gerardus fornarius, 168 Geremei, famiglia, 24, 88, 91, 101, 102, 229 Geremek, B., 76n, 160n, 220 Gerli, L., 62n, 220 Gervasius, d., appaltatore di pedaggio, 51 Ghirardacci, C., storico, 40n, 82n, 207 Giansante, M., 20n, 22n, 23n, 39n, 47n, 53n, 54n, 148n, 152n, 168n, 184n, 206, 209, 215, 220, 228, 229, 232 Gibertus q. Redulfi de Bubet de Ferraria, pistor, 144n Ginatempo, M., 45n, 149n, 220 Giovanni castagnaro, 111 Giraldus Cambrensis, mercante, 37
Girardus q. Iacobini qui fuit de Hesto, pistor, 144n Gorreta, A., 150n, 169n, 220 Gozzadini, famiglia, 92, 97, 104, 152 Gracianus fornarius, 186 Gracietus abburattator, 187 Grappe, Y., 180n, 221 Gras, M., 44n, 95n, 133n, 233 Greci, R., 10n, 20n, 21n, 23n, 30n, 37n, 42n, 47n, 53n, 54n, 55n, 56n, 58n, 71n, 87n, 101n, 134n, 140n, 144n, 160n, 171n, 175n, 185n, 188n, 221, 230, 233, 237 Gregorio VII papa, santo, 32 Grenier, Y., 6n, 221, 225 Grieco, A.J., 180n, 220 Grohmann, A., 26n, 31n, 37n, 46n, 53n, 221 Gualandi, E., 143n, 221 Guasparinus fornarius, 175, 184 Guastavillani, famiglia, 10n, 20, 53n, 152, 206, 209, 220 Guenzi, A., 5, 9, 11, 138n, 144n, 164n, 222 Guerreau, A., 7n, 222 Guglielmo da Sesso, podestà, 59 Guicardini, famiglia, 92 Guidetus fornarius, 168 Guidicini, G., erudito, 40n, 207 Guido I da Montefeltro, signore della contea di Montefeltro, 91 Guidonus scriptor, 187 Guidus de Riolo, titolare di un contratto di soccida con Theobaldinus q. Iohannis fornarius, 179 Guidus filius de Andrea de Zitto, notaio, 33n Guirardus fornarius, 176, 178 Guisilla, proprietaria di 11 pecudes in soccida a Guirardus fornarius, 178 Heer, J., 41n, 222
Il mercato del pane
Henrigitus de Falsa q. Bonçoanis, fornarius, 181 Hessel, A., 22n, 23n, 24n, 31n, 36n, 37n, 47n, 49n, 51n, 52n, 55n, 56n, 62n, 68n, 75n, 87n, 88n, 90n, 92n, 94n, 140n, 142n, 143n, 144n, 146n, 173n, 178n, 185n, 187n, 188n, 222 Hetolus q. Aspectati, fornarius, 178 Hocquet, C., 31n, 51n, 60n, 222 Iacobinus de Çacharie de Basacomatre, d., miles, procuratore del comune, 51 Iacobinus Michaelis, fornarius, 177 Iacobus Albertini, portator, 122, 124 Iacobus q. Bonaveris, fornarius, 177 Iacobus q. Çamboni, fornarius, 184 Iacobus de Gambolago, trasporatore di grano, 96 Iacobus Sohibanarius, notaio, 187 Iohannes q. Bernardi, fornarius, 186 Iohannes q. Bonagratie, fornarius, 176, 177 Iohannes q. Martini Cristiani, notaio dei presidenti dell’Officium bladi, 86 Iohannes q. Rodulfi, portator frumenti, 114 Iohannes q. Rustighelli, fornarius, 187 Iohannes q. Ugolini, fornarius, 180, 181 Irnerio, giurista e glossatore, 19, 235 Janssens, P., 149n, 212 Kaplan, L., 2n, 8, 61n, 62n, 144n, 222 Kirshner, J., 7n, 216, 222 Labat, J.B., missionario domenicano, 18, 207 Laçarinus q. Benedicti, fornarius, 181 Lambertazzi, famiglia, 24, 25, 58, 88, 101, 91, 150, 168, 229, 232 Lambertini, famiglia, 21, 39, 226 Lambertinis de, Gaçius, d., proprietario di una casa nel Ferrarese dove venivano vistati i quantitativi di biado diretti a Bologna, 96 Lamberto, vescovo, 32
247
Landogna F., 135n, 222 Langholm, O., 6n, 222 Lapucci, C., 19n, 240 La Roncière, Ch.M. de, 3n, 65n, 82n, 133n, 156n, 223 Laurenti, famiglia, 92 Laurioux, B., 71n, 223 Lazzari T., 16, 22n, 31n, 57n, 58n, 68n, 178n, 187n, 212, 223, 226 Leicht P.S., 60n, 134n, 135n, 136n, 223 Lenzi, Domenico, detto il Biadaiolo, scrittore, 9n, 208 Lettieri E., 148n, 223 Liutprando, re dei Longobardi, 134 Maggio S., 134n, 135n, 223 Mainoni, P., 5, 223 Malfitano, A., 19n, 21n, 36n, 223 Malowist, M., 48n, 223 Manaresi, F., 21n, 224 Maltraversi, famiglia, 152 Mancassola, N., 21n, 224 Marchi, F., 47n, 224 Martinat M., 8, 224 Martini, A., 65n, 106n, 107n, 156n, 177n, 240 Martinus q. Alberti, pistor, 182, 183 Martinus q. Iohannis Blanci, pistor qui fuit de Ferraria, 144n Martinus q. Marchi, pistor, 179 Mastrelli, A., 133n, 224 Matteo da Correggio, podestà, 59 Matassoni, I., 154n, 224 Mattozzi, I., 5, 224 Medica, M., 32n, 136n Meillet, A., 131n, 132n, 224, 231 Menant, F., 2, 210, 212, 224, 233 Menjot, D., 6n, 224 Messedaglia, L., 62n, 144n, 197n, 198n, 225 Messisbugo, C., scalco alla corte estense di Ferrara, 197, 198, 206
248
Francesca Pucci Donati
Michael q. Nichole, fornarius, 175, 182 Michael Redulfi de Imola, pistor, 144n Micheletti, D., 22n, 225 Milani, G., 20n, 25n, 140n, 141n, 150n, 175n, 225 Miletus de Griffis, capitano del popolo di Bologna (1295), 119 Minarini, L., 27n, 225 Mitelli, G.M., pittore e incisore, 64n, 138, 195, 196, 204, 215, 225, 233, 239 Molho, A., 149n, 225 Molinari Pradelli A., 138n 195n, 225 Montanari M., VII, 12n, 16, 17n, 18n, 19n, 20n, 21n, 31n, 33n, 35n, 38n, 42n, 48n, 62n, 64n, 70n, 71n, 95n, 118n, 130n, 134n, 135n, 161n, 162n, 167n, 180n, 191n, 192n, 193n, 194n, 196n, 197n, 198n, 199n, 212, 213, 217, 218, 221, 225, 226, 227, 232 Montemagno da Pistoia da, Corrado, capitano del popolo, 109, 110 Mucciarelli, R., 20n, 25n, 45n, 47n, 101n, 226, 229 Muzzarelli, M.G., 23n, 184n, 226 Nada Patrone M., 62n, 199n, 227 Neri, V., 30n, 227 Nicholaus d. Guidoctis de Borromeis, d., depositario dei domini bladi, 93n, 94, 95 Nicholaus filius Martini, fornarius, 168 Nicolini, S., 194n, 227 Nigro, G., 162n, 227 Nikolajević, I., 33n, 227 Omero, poeta greco, 130, 208 Orlandelli, G., 39n, 60n, 69n, 140n, 170n, 227, 240 Orsini, Bertoldo, podestà, 169 Ortalli, J., 21n, 27n, 28n, 29n, 206, 218, 227, 235
Ottabuoni, Marcasino, mercante, 36 Ottokar, N., 45, 227 Pax q. d. Vachitini, merçarius, d., 99 Pacibus de, Pax, d., dottore in legge, 169 Padovani, A., 57n, 227 Palermo L., 2, 3n, 4n, 6n, 14n, 16, 43n, 44n, 45n, 46n, 155n, 228 Palmatius, Gerardus, d., appaltatore di pedaggio, 51 Palmieri, A., 37n, 228 Panero, F., 47n, 48n, 214, 228, 232 Paolini, L., 31n, 32n, 207, 228 Pasquali, G., 48n, 199, 229 Pasquini, L., 167n, 194n, 226 Passeggeri de’, Rolandino, giurista, 24, 101, 102, 150, 185, 232, 236 Patitucci Uggeri, S., 94n, 229 Pegolettis de, Gardinus, d., depositario del comune e ufficiale del biado, 110 Pegolotti, famiglia, 92, 97, 104 Pellegrini, F., 101n, 229 Pepoli, famiglia, 88, 92, 104, 152, 159 Pepoli, Romeo, figura di spicco del guelfismo bolognese, 92, 104, 120, 125, 148, 152, 220, 223, 228 Pepoli, Taddeo, signore di Bologna, 92, 157, 159, 209 Pepone, giurista, 19 Pérez Samper, A., 44n, 95n, 133n, 233 Periandro di Corinto, tiranno, 130 Peruzzi, famiglia, 37 Peruzzi, L., 195n Pesci, G., 49n, 108n, 173n, 174n, 222, 229 Petrus, d., proprietario di un mulino nella terra di Maçolino, 115 Petrus de Granarolo, mercante di grano, 121 Petrus Ugolini Roxe, fornarius, 177 Peyer, H. C., 4, 54n, 56n, 69n, 76n, 88n, 106n, 107n, 108n, 116n, 117n, 119n, 121n, 146n, 229
Il mercato del pane
Philippus q.d. Iacobi, fornarius, 183, 186 Piantavigne, famiglia, 110, 183 Piantavigne, Dondiego, frate gaudente, 183, 213 Piccinni, G., 20n, 45n, 46n, 47n, 48n, 53n, 73n, 96n, 226, 228, 229 Piçolpassi, famiglia, 92 Pietro di Erro, notaio, 57 Pietro, vescovo, 31 Pinelli, P., 121n, 229 Pini I. A., 10, 11, 12, 18n, 19n, 20n, 21n, 22n, 23n, 24n, 31n, 32n, 33n, 35n, 37n, 42n, 47n, 48n, 50n, 53n, 54n, 55n, 56n, 57n, 58n, 59n, 61n, 69n, 71n, 75n, 76n, 88n, 89n, 90n, 101n, 110n, 132n, 133n, 136n, 137n, 141n, 148n, 152n, 154n, 160n, 163n, 166n, 168n, 170n, 172n, 173n, 174n, 175n, 179n, 180, 184n, 188n, 218, 225, 230, 231, 232 Pinto G., 2n, 4, 5n 6, 9n, 16, 20n, 23n, 25n, 26n, 45, 46n, 47n, 48n, 54n, 62n, 64n, 69n, 73n, 76n, 95n, 102n, 105n, 106n, 119n, 149n, 191n, 208, 212, 214, 226, 228, 229, 232, 233, 237 Piovan, F., 19n, 233 Pippa, moglie di Marcasino Ottabuoni mercante, 36 Pirillo, P., 154n, 163n, 170n, 233 Plantavignis de, Chaxinus, d., proprietario di un forno, 183, 186 Plantavignis de, Thomasinus d., depositario del comune, 110 Plinio il Vecchio, scrittore latino, 27n, 131n, 133, 208 Polibio, storico greco, 27n Pomponio Mela, geografo latino, 28 Predieri, P., 57n, 74n, 89n, 118n, 233 Principi, famiglia, 10n, 20, 221 Principi, Tommasino, esponente dei Ramisani, 55
249
Pucci Donati, F., 23n, 35n, 36n, 51n, 60n, 143n, 233 Pult Quaglia, A.M., 6n, 24n, 144n, 162n, 233 Racine, P., 21n, 173n, 219 Rainerius, ufficiale preposto all’Officium garnariorum, 122 Rainerius pistor, 39, 40 Rambertis, Bonrecuprus, fornarius, 182, 183 Ramisani, consorzio di famiglie bolognesi, 55, 173 Rangoni, famiglia, 150 Rangoni da Modena, Giacomino, podestà, 144 Raveggi, S., 169n, 233 Recevotus q. Passavantis, fornarius, 187 Riccardus di Argenta, d., mercante di grano, 96 Riccobaldo da Ferrara, cronachista, 94n, 208 Riera Melis, A., 3n, 44n, 95n, 133n, 233 Rinaldi, R., 9n, 11, 16, 22n, 31n, 33n, 40n, 48n, 60n, 62n, 143n, 160n, 166n, 172n, 173n, 180n, 206, 212, 213, 214, 223, 233, 234 Ritio de, Thomaxinus, d., depositario dei domini bladi, 98 Rizzi, A, 194n, 227 Rolandino di Canossa, podestà, 169 Romano, G., 136n, 234 Romançiis de, Scanabichus, d., presidente dell’Officium bladi, 93n, 94, 98n, 104 Romixii, Suçus, d., notaio dell’Officium bladi, 93n Roncagli, G., 40n, 234 Rosa, E., 31n, 50n, 108n, 111n, 234 Rossi, G.C., 137n, 138n, 234 Roversi, G., 11, 18n, 22n, 23n, 40n, 60n, 206, 211, 213, 234
250
Francesca Pucci Donati
Roversi Monaco, F., 19n, 215, 235 Rovisi, famiglia, 92 Rovixius merçarius, d., presidente del l’Officium bladi, 86 Rubeiis de, Ugolinus, d., podestà, 93n Rudolfinus, trafficante di biado, 100 Sabadino degli Arienti, scrittore bolognese, 36, 208 Sabbioni, D., 5n, 224 Salvatico, A., 3n, 235 Salomoni, C., 173n, 213 Salvemini, G., 6n, 45, 235 Sandrus, fratello di Thomas Ughipti fornarius, 115 Sanglio, Edm., 130n, 132n, 239 Sapori, A., 7n, 37n, 235 Sardelli de, Maglolinus, d., depositario dell’Officium bladi, 98 Sassatelli, G., 27n, 212, 225, 227, 235 Savioli Fontana Castelli, L.V., poeta e storico bolognese, 32n, 208 Savonarola, M., medico, 164n, 198, 208 Scacchesi, famiglia, 152 Scannavini, R., 32n, 33n, 38n, 211, 227, 235 Scappi, B., cuoco, 197, 198, 199, 208 Sella, P., 62n, 64n, 65n, 67n, 78n, 83n, 87n, 92, 100n, 105n, 107n, 108n, 112n, 114n, 150n 187n, 188n, 209, 235, 240 Sicari, D., 17n, 235 Sighinolfi, L., 154n, 239 Sitran Rea, L., 19n, 233 Smith, A., 7n, 215 Smurra, R., 22n, 33n, 38n, 41n, 169n, 235 Socis de, Iohannes, d., procuratore del comune, 144n Solavita, Petriçolus, d., appaltatore di pedaggio, 51 Solmi, A., 135n, 236
Sorbelli, A., 18n, 68n, 126, 206, 208, 236 Spillari, famiglia, 92 Spinabelli, famiglia, 92 Spinelli, famiglia, 92 Stephanus Iacobini, notaio, 181 Stoldo di Iacop de Rossi, podestà, 169 Storti Storchi, C., 160n, 236 Stouff, L., 9n, 131n, 133n, 162n, 170n, 197n, 199n, 236 Strabone, storico e geografo greco, 27n Strangio, D., 3n, 228 Symon fornarius, 168 Tabarroni, G., 22n, 236 Tamba, G., 41n, 60n, 63n, 92n, 93n, 98n, 101n, 103n, 119n, 157n, 232, 236 Tanara, V., 199, 209 Teodosio II, imperatore romano d’Oriente, 134n Tettalasini, famiglia, 88 Theobaldinus q. Iohannis, fornarius, 176, 178, 179, 188 Thompson, E.P., 7, 237 Todeschini, G., 7, 8n, 185n, 233, 237 Tomaso da Fogliano, 57 Tonsis de, Bellettus, frate, massaro e depositario del comune, 122 Torre, A., 57n, 75n, 89n, 90n, 237 Toschanus, debitore di Recevotus q. Passavantis fornarius, 187 Toschi, società dei, corporazione di toscani inurbati a Bologna, 36 Toschi, Giuseppe, mercante, 23, 140 Traiano, Marco Ulpio Nerva, imperatore romano, 134 Travaini, L., 142n, 237 Trifone d’Alessandria, grammatico greco, 130 Trombetti Budriesi, A.M., 24n, 39n, 50n, 51n, 54n, 109n, 157n, 160n, 207, 218, 226, 132, 237, 240
Il mercato del pane
Tucci, U., 44n, 237 Tuliani, M., 32n, 68n, 110n, 146n, 237 Turellus q. Gerardi, portator frumenti, 114 Ubaldinus pistor, d., 168 Ughipti, Thomas, fornarius, 114, 115 Ugolini C., 49n, 108n, 173n, 174n, 222, 229 Ugolinus laborator, 100 Ugolinus d. Martini de Funi, d., procuratore del comune, 51 Ugolinus q. Ubaldini, proprietario di un terreno nella curia di Pragatto, 34 Ugulinus q. Redulfi de Imola, pistor, 144n Usepus filius q. Marchisini, fornarius, 179 Usodimare, Lanfranco, podestà, 51 Vandi, Iacobinus, proprietario di terre nella curia di Argelato con Franicischus q. Iohannis fornarius, 183 Varriano, J., 195n, 199n, 237 Vasina, A., 20n, 22n, 25n, 53n, 56n, 90n, 102n, 136n, 150n, 153n, 187n, 212, 223, 231, 237, 238 Vecchiato, F., 5n, 238 Venturi, G., 49n, 108n, 173n, 174n, 229 Vianelli, A., 32n, 213
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Vidale q. Ghibertini, fornarius, 181 Villani, G., cronachista, 73, 74n, 209, 228 Vinciguerra, famiglia, 92 Visconti, signori di Milano, 41, 159 Visconti, A., 134n, 238 Visconti, Giovanni, signore di Milano, 126, 159, 160, 236 Visconti, Matteo I, capitano del popolo di Milano (1287), 150 Vitale, V., 24n, 101n, 238 Vitale fornarius, 168 Vitali, D., 27n, 28n, 238 Ytilini, Vinentius, creditore di Gerardinus q. Ghibertini fornarius, 188 Zaccagnini, G., 19n, 238 Zacarie, famiglia, 92 Zagonello fornarius, 124 Zanarini, M., 22n, 238 Zanella, G., 18n, 208, 239 Zanetti, D., 5n, 235, 239 Zanoboni, M.P., 160n, 239 Zanotti, A., 21n, 172n, 239 Zeno (Geno) da Venezia, Andrea, podestà, 143, 144, 146 Zeus, divinità greca, 130 Zovenzoni (Çovençonis), famiglia, 88, 92, 97, 104 Zupko, R.E., 65n, 239
Finito di stampare nel mese di dicembre 2014 presso Global Print - Gorgonzola (MI)