Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento 9788874612437

Mostra tenutasi presso Pinacoteca Bruno Molajoli nello Spedale di Santa Maria del Buon Gesù, in Fabriano, dal 26 luglio

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Italian Pages 310 Year 2014

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Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento
 9788874612437

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La mostra è posta sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana

Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento Fabriano, 26 luglio-30 novembre 2014 Sede espositiva Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli” nello Spedale di Santa Maria del Buon Gesù

Con il patrocinio di Presidenza del Consiglio dei Ministri

Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo

Enti promotori

Mostra a cura di Vittorio Sgarbi

Progetto luci Gianfranco Ruffini

Comitato di studio Mina Gregori Presidente Onorario Vittorio Sgarbi Presidente

Impianti elettrici e illuminazione iGuzzini

Fabio De Chirico Giampiero Donnini Liana Lippi Elvio Lunghi Alessandro Marchi Antonio Paolucci Stefano Papetti Angelo Tartuferi Maria Rosaria Valazzi Segreteria generale Fondazione CARIFAC Marco Boldrini Antonietta Ciculi Coordinamento organizzativo e direzione della mostra Liana Lippi

Comune di Fabriano

Segreteria organizzativa Alessandra Rossetti Giulia Lavagnoli Francesca Ferretti

con il sostegno di

Progetto espositivo e cura allestimento Liana Lippi Stefano Papetti Allestimento Guidobaldi Assistenza tecnica Lucia Palma in collaborazione con Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici delle Marche Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici dell’Umbria

Diocesi di Fabriano-Matelica

Comunità Montana Alte Valli Potenza e Esino

Comune di Cupramontana

Sponsor tecnici

Impianti di sicurezza BCB Electric S.r.l. Trasporti Montenovi Assicurazione Synkronos Italia S.r.l. Realizzazione audioguide Società Gestione Multiservizi S.r.l. Testi e voce di Vittorio Sgarbi Stefano Papetti Biglietteria Il Tulipano Soc. Coop. Sociale Onlus Accoglienza, guide e attività didattiche Il Tulipano Soc. Coop. Sociale Onlus Progetto grafico comunicazione Mandragora Comunicazione Dedalo Group Sito web Giovanni Spadavecchia Ufficio stampa L.R. Comunicazione - Laura Ruggieri

Itinerario urbano Chiesa di Sant’Agostino, Cappelle Giottesche Chiesa di San Domenico, Cappella di Sant’Orsola e Sala Capitolare Chiesa Cattedrale di San Venanzio, Cappelle di San Lorenzo e della Santa Croce Sede collegata Esanatoglia, Pinacoteca Civica “San Francesco” nella Corte dei Varano

CATALOGO a cura di Vittorio Sgarbi Giampiero Donnini Stefano Papetti Autori dei saggi Giordana Benazzi Ferdinando Campana Giampiero Donnini Alberto Lenza Elvio Lunghi Alessandro Marchi Ugo Paoli Stefano Papetti Vittorio Sgarbi Autori delle schede Arianna Bardelli Gabriele Barucca Giordana Benazzi Enzo Borsellino Claudia Caldari Emanuela Cecconelli Emanuela Daffra Giampiero Donnini Andreina Draghi Maria Falcone Alessandro Giovanardi Giulia Lavagnoli Alberto Lenza Maria Chiara Leonori Elvio Lunghi Alessandro Marchi Francesco Mariucci Mauro Minardi Benedetta Montevecchi Stefano Papetti Veruska Picchiarelli Ettore A. Sannipoli Vittorio Sgarbi Claudia Tempesta Maria Rosaria Valazzi Agnese Vastano Andrea Viozzi Federica Zalabra

numero verde 800 001 346

www.dagiottoagentile.it

Si ringraziano i Prestatori Soprintendenze Cristina Acidini, Soprintendente Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze Sandrina Bandera, Soprintendente per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le province di Milano, Bergamo, Como, Lecco, Lodi, Monza, Pavia, Sondrio, Varese e Direttore Pinacoteca di Brera Paola Raffaella David, Soprintendente per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le province di Pisa e Livorno Fabio De Chirico, Soprintendente per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici dell’Umbria e Direttore Galleria Nazionale dell’Umbria Luigi Ficacci, Soprintendente per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici di Bologna, Ferrara, Forlì-Cesena, Ravenna, Rimini Daniela Porro, Soprintendente Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Roma Maria Rosaria Valazzi, Soprintendente per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici delle Marche di Urbino e Direttore Galleria Nazionale delle Marche Direttori, Dirigenti e Responsabili Musei, Pinacoteche e Biblioteche Antonio Natali, Galleria degli Uffizi, Firenze Angelo Tartuferi, Galleria dell’Accademia, Firenze Dario Matteoni, Museo Nazionale di San Matteo, Pisa Andreina Draghi, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, Roma Cinzia Ammannato, Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini, Roma Emanuele Barletti, Ente Cassa di Risparmio di Firenze Stefano Papetti, Pinacoteca Civica e Raccolte Comunali, Ascoli Piceno Fr. Saul Tambini, Museo della Porziuncola, Assisi - Santa Maria degli Angeli (Pg) Fr. Carlo Bottero, Biblioteca Sacro Convento di San Francesco, Assisi (Pg) Francesco Santucci, Archivio Capitolare di San Rufino, Assisi (Pg) Rino Ciavaglia, Pinacoteca Comunale, Assisi (Pg) Giancarlo Postacchini, Beni Culturali Comune di Fermo Maria Chiara Leonori, Biblioteca Comunale “Romolo Spezioli”, Fermo Don Mirko Orsini, Museo Diocesano di Gubbio (Pg) Stefano Roffi, Museo Fondazione Magnani Rocca, Mamiano di Traversetolo (Pr) Don Piero Allegrini, Museo Piersanti, Matelica (Mc) Maurizio Tarantino, Biblioteca Comunale Augusta, Perugia Mons. Pietro Spernanzoni, Museo Diocesano, Recanati (Mc) Maurizio Biordi, Musei Comunali, Rimini Don Diego Casini, Pinacoteca Civica e Diocesana, Spello (Pg)

Eccellenze Mons. Giancarlo Vecerrica, Vescovo Diocesi di Fabriano-Matelica Mons. Giovanni Tani, Arcivescovo Arcidiocesi di Urbino-Urbania-Sant’Angelo in Vado Mons. Armando Trasarti, Vescovo Diocesi di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola Mons. Luigi Conti, Arcivescovo Metropolita Arcidiocesi di Fermo Mons. Francesco Giovanni Brugnaro, Arcivescovo Arcidiocesi di Camerino-San Severino Marche Mons. Domenico Sorrentino, Vescovo Diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino Mons. Gualtiero Sigismondi, Vescovo Diocesi di Foligno Mons. Mario Ceccobelli, Vescovo Diocesi di Gubbio Mons. Riccardo Fontana, Arcivescovo Diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro Ministri ecclesiastici, Priori e Abbadesse Fr. Marco Tasca, Ministro Generale Frati Minori Conventuali, Roma Fr. Bruno Ottavi, Ministro provinciale Provincia Serafica di San Francesco ofm, Assisi-Santa Maria degli Angeli (Pg) Don Cesare Provenzi, Priore Archivio Capitolare di San Rufino, Assisi (Pg) Suor Maria Rosaria Rodriguez, Abbadessa Monastero Clarisse Santa Maria Maddalena, Matelica (Mc) Parroci Don Pietro Fedeli, Parrocchia San Pietro Apostolo, Sassoferrato (An) Don Pierleopoldo Paloni, Parrocchia Santa Maria Sopraminerva, Castelletta di Fabriano (An) Don Alberto Castellani, Parrocchia Santi Biagio e Romualdo, Fabriano (An) Don Luigi Forotti, Parrocchia San Niccolò, Fabriano (An) Don Piero Pasquini, Parrocchia Santa Veronica Giuliani, Mercatello sul Metauro (PU) Mons.Enzo Buschi, Parroco Cattedrale San Giuliano, Macerata Don Alessandro Messina, Parrocchia San Giovanni Apostolo, Saltara (PU) Don Pierluigi Ciccarè, Parrocchia Santi Giovanni Battista e Nicolò, Montegiorgio (Fm) Direttori e Responsabili Beni Culturali Ecclesiastici Don Giovanni Chiavellini, Diocesi di Fabriano-Matelica Guido Ugolini, Diocesi di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola Mons. Vittorio Serafini, Diocesi di Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli-Treia Don Pietro Orazi, Arcidiocesi di Fermo Paolo Salciarini, Diocesi di Gubbio (Pg) Serena Nocentini, Diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro Alma Monelli, Arcidiocesi di Fermo

Sindaci e Commissari straordinari Nella Brambatti, Sindaco di Fermo Guido Castelli, Sindaco di Ascoli Piceno Andrea Gnassi, Sindaco di Rimini Salvatore Grillo, Commissario Prefettizio di Gualdo Tadino (Pg) Cesare Martini, Sindaco di San Severino Marche (Mc) Massimiliano Presciutti, Sindaco di Gualdo Tadino (Pg) Claudio Ricci, Sindaco di Assisi (Pg) Andrea Romizi, Sindaco di Perugia Ubaldo Scuppa, Sindaco di Apiro (Mc) Fondazioni, Enti e Collezionisti Privati Franco Gazzani, Presidente Fondazione Cassa di Risparmio della provincia di Macerata Massimo Pasquinelli, Presidente Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini Giancarlo Forestieri, Presidente Fondazione Magnani Rocca, Mamiano di Traversetolo (Pr) Giampiero Maracchi, Presidente Ente Cassa di Risparmio di Firenze Luigi Carlo Bennati, Camerlengo Pia Università dei Cartai, Fabriano (An) A.S.P. Catria e Nerone, Cagli (PU) Ten. Col. Fabio Cavallari, Scuola di Lingue Estere dell’Esercito (SLEE), Perugia Fabio De Michele, Milano Fabrizio Serafini Degli Abati Trinci, Palermo

Si ringraziano coloro che a vario titolo hanno contribuito alla realizzazione dell’evento Daniela Cecchini, Giuseppe Serafini Degli Abati Trinci, Federica Zalabra, Anna Maria Savini, Alberto Mazzacchera, Giovanni Luca De Logu, Luisa Ciammitti, Melissa Riccardi, Giuseppina Lacché, Roberto Stelluti, Claudio Mazzalupi, Ugo Pesciarelli, Barbara Mastrocola, Elisa Mori, Mario Liberati, Renato Gordini, Daniela Parenti, Cinzia Pedroni, Cristina Sabbatini, Massimo Stopponi, Elisa Polidori, Giuliana Forti, Francesca Giagni, Ilaria Bruno, Anna Stanzani, Emanuela Fiori, Settimio Novelli, Edgardo Rossi.

Restauratori CBR Restauri srl, Urbino (PU) COO.BEC., Spoleto (Pg) ESTIA srl - Restauro Beni Culturali, Bastia Umbria (Pg) Palma Lucia, Fermignano (PU) Nadia Innocentini, Restauro dipinti, Cortona (Ar) Maria Laura Passarini, Osimo (An) Crediti fotografici La campagna fotografica è stata realizzata, per la quasi totalità, da Claudio Ciabochi, Fabriano (An) Altri contributi fotografici Foto Scala, Firenze (cat. 55) Elvio Lunghi, Assisi (Pg) Paolo Pecorelli, Bastia Umbra (Pg) Roberto Sigismondi, Roma Studio fotografico Luca Carrà, Milano Studio Paritani, Rimini Si ringraziano gli archivi e i gabinetti fotografici che hanno fornito i materiali Pinacoteca di Brera-Soprintendenza BSAE di Milano Soprintendenza Speciale PSAE e per il Polo Museale della città di Firenze Soprintendenza Speciale PSAE e per il Polo Museale della città di Roma Soprintendenza BSAE di Bologna Soprintendenza BAPSAE per le province di Pisa e Livorno (foto Roberto Rossi) Soprintendenza BSAE dell’Umbria Soprintendenza BSAE delle Marche (foto Marco Fanelli) Soprintendenza BSAE dell’Umbria Ente Cassa di Risparmio di Firenze Ufficio Beni Culturali e Arte Sacra Diocesi di ArezzoCortona-Sansepolcro (foto Riccardo Mendicino) Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno Biblioteca Comunale Augusta di Perugia

© 2014 Mandragora. Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico,meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.

Mandragora s.r.l. piazza del Duomo 9, 50122 Firenze www.mandragora.it Redazione e impaginazione Marco Salucci, Paola Vannucchi, Maria Cecilia Del Freo con la collaborazione tecnica di Ylenia Cadeddu Immagini di copertina: Maestro di Campodonico, Annunciazione (intero e particolare). Fabriano, Chiesa della Maddalena. Foto Claudio Ciabochi, Fabriano.

Stampato in Italia isbn 978-88-7461-243-7

Da Giotto a Gentile pittura e scultura a fabriano fra due e trecento

a cura di

Vittorio Sgarbi Giampiero Donnini Stefano Papetti

Mandragora

Le Marche e Fabriano tornano protagoniste nel panorama italiano della cultura con quello che è già stato definito da critici ed esperti un appuntamento unico e straordinario. “Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento”, a cura di Vittorio Sgarbi, vanta circa cento opere delicate e preziose, concesse in prestito dai più prestigiosi musei italiani. Dipinti, pale d’altare, tavole, affreschi staccati, sculture, oreficerie rarissime, miniature, manoscritti e codici sono le tappe di un “viaggio nel tempo” di grande suggestione, raffinato ed elegante. L’allestimento, infatti, si distingue non solo per il suo valore intrinseco, ma anche per il percorso lungo il quale è stato ideato. La mostra è itinerante perché comprende, nel suo insieme, oltre alla Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”, anche la visita alle cappelle gotiche di Sant’Agostino, San Venanzio e San Domenico. L’evento si svolge non per caso a Fabriano, considerata uno dei simboli della bellezza e del fascino delle Marche grazie all’impianto urbanistico medievale, a monumenti come il grandioso Palazzo gotico del Podestà, i Chiavelli, l’imponente Fontana Sturinalto, l’Ospedale del Buon Gesù che ospita la Pinacoteca; la magnifica cattedrale, ricca di capolavori dal Trecento al Settecento; chiese e musei diffusi come il Museo della Carta e della Filigrana e, unico nel suo genere, il Museo del Pianoforte Storico e del Suono. Nel XIII secolo Fabriano, da libero comune, pullula di iniziative architettoniche e pittoriche. È allora che Gentile da Fabriano opera e porta il nome della sua città e il genio della sua arte nelle più importanti corti italiane. “Da Giotto a Gentile” fa rivivere quell’epoca di grande fermento e la mostra trova a Fabriano un humus ideale, la fusione perfetta tra opera d’arte e tessuto urbano. Un’iniziativa che mira a valorizzare uno smisurato patrimonio artistico in gran parte “sommerso” e inscindibile da un contesto paesaggistico e ambientale di straordinaria bellezza. Fabriano sta perseguendo da anni una politica di valorizzazione della propria identità storica e la riqualificazione delle infrastrutture culturali: dopo il riconoscimento UNESCO come città creativa, nella sezione Artigianato Arti e Tradizioni popolari, la città si è dotata del nuovo Polo bibliotecario e delle arti visive. Questa visione si pone in perfetta sintonia con la strategia che punta a fare della cultura, nel suo legame intrinseco con l’ambiente, la creatività, il territorio e il turismo, una nuova prospettiva di crescita per l’economia regionale. È stato avviato in questi anni un grande investimento per la valorizzazione e il recupero dei beni culturali delle Marche: borghi, mura medievali, centri storici, teatri, chiese. Un patrimonio che, oggi, è in grado di creare ricchezza, reddito, occupazione, a beneficio di tutta la comunità marchigiana e in particolare dei giovani. Eventi prestigiosi come la mostra “Da Giotto a Gentile” sostengono ed animano questo cammino verso un nuovo Rinascimento. Gian Mario Spacca Presidente Regione Marche

La Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana e il Comune di Fabriano hanno ritenuto di dover promuovere un momento culturale di grande importanza quale quello di una mostra che, partendo dalle radici storiche del nostro territorio vuole costituire uno strumento per ridare speranza ad una città e ad un territorio che soffre una crisi economica senza precedenti. La storia è una caratteristica essenziale della nostra cultura. Il divenire del tempo, il susseguirsi delle generazioni, tutto scorre attraverso un tramandarsi di valori, tradizioni, condivisioni, accadimenti ed opere che, se rese fruibili ai discendenti, può creare turismo culturale e generare nuove occasioni professionali e di conseguente sviluppo. La mostra vuole valorizzare essenzialmente un patrimonio culturale poco conosciuto, facendo rivivere un momento cruciale della storia e dell’arte che ha visto Fabriano al centro di un attivissimo crocevia tra le Marche e l’Umbria. Un crocevia dove si intersecavano le strade della fede, dei commerci, della carta, del nuovo verbo pittorico che Giotto aveva in Assisi rimutato “di greco in latino”. Il costante afflusso di costruttori lombardi, di lapicidi, di scultori del legno, di pittori umbri, toscani e romagnoli, di amanuensi e di miniatori diedero un impulso vitale alla città, che nel corso del Trecento assurse a centro di innovazione artistica tra i più attivi e originali del secolo. Alla bellezza e alla cultura si assegna da sempre il compito di salvare il mondo e questa è una possibilità in cui anche noi come Fondazione crediamo fermamente. Dove non c’è progresso culturale non vi può essere alcun altro tipo di progresso sociale; dove non c’è coscienza e salvaguardia della bellezza non vi può essere altra coscienza di sé e possibilità di salvaguardia dei diritti personali e sociali. Non si tratta di un mero problema di economia della cultura, ma è un problema di cultura in senso stretto: laddove non si tengono unite le ragioni della cultura con quelle del progresso socio-economico non si può parlare di un vero sviluppo. «La cultura costa – scriveva Federico Garcia Lorca – ma l’incultura costa di più». Questo evento eccezionale della mostra “Da Giotto a Gentile” sarà dunque l’occasione decisiva perché di Fabriano e del suo territorio si torni a parlare in modo nuovo. Per la carta, naturalmente, per l’industria del bianco, ma anche per il suo rilevante patrimonio artistico, foriero di nuove fonti di richiamo per l’accoglienza e per l’avvio di una industria turistica più moderna e dinamica. È doveroso un ringraziamento a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione della mostra stessa, dalle autorità istituzionali agli organi della Fondazione, da quelli economici al curatore e ai suoi collaboratori, dai funzionari della Fondazione a tutti gli operatori impegnati.

Guido Papiri Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana

La mostra “Da Giotto a Gentile”, illustrata nelle pagine che seguono, dà il dovuto rilievo a un patrimonio artistico immenso che merita di essere conosciuto e valorizzato. Attraverso questa operazione culturale di grande portata, Fabriano si rende epicentro di una visione più completa e articolata dell’arte del XIV secolo con una divulgazione pensata non solo per gli studiosi o gli appassionati, ma per un pubblico vasto ed eterogeneo. Per la Fondazione Veneto Banca sostenere iniziative come la mostra voluta dalla Fondazione Carifac è una vocazione ed un impegno preciso. Poiché è compito di una banca di territorio come quella di cui il nostro ente è espressione, accanto all’attività caratteristica, sostenere tutte quelle realtà che contribuiscono alla sviluppo e al benessere delle nostre comunità. Ogni momento storico, nella vita di un popolo, è l’anello di un percorso ininterrotto. Ogni opera d’arte si apre all’infinito e ci parla direttamente, facendoci riscoprire più consapevoli di far parte di una storia collettiva, spingendoci a fare del nostro meglio, ognuno con il proprio ruolo, con dedizione, etica e senso di responsabilità. Un vivo ringraziamento, da ultimo, a Vittorio Sgarbi ed a tutti gli altri studiosi e collaboratori che hanno prestato la loro opera con passione e competenza, rendendo possibile questa preziosa occasione di conoscenza. Franco Antiga Presidente Fondazione Veneto Banca

Con la mostra “Da Giotto a Gentile”, promossa dalla Fondazione Carifac, si offre alla città di Fabriano e alla Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli” una straordinaria occasione per la divulgazione e la valorizzazione di importanti artisti, forse non sempre noti al grande pubblico e a torto considerati minori che, ricontestualizzati in un percorso espositivo di notevole levatura scientifica in cui si ricostruiscono relazioni e rapporti con altri autori con i quali condividono la medesima cifra stilistica, si riappropriano del valore e dell’autorevolezza un tempo acclarati ed attribuiti a livello nazionale. L’iniziativa, fortemente sostenuta dall’Amministrazione Comunale, ha il duplice merito di presentare una mostra saldamente radicata nel territorio, grazie ad itinerari allargati ad altri monumenti cittadini e luoghi della cultura locali, e di proporre al contempo un nuovo percorso espositivo per la Pinacoteca, che consente di apprezzarne le opere più significative in un allestimento diverso dal consueto, ma ugualmente suggestivo e interessante. Ne scaturisce un evento che incontrerà sicuramente il favore sia del grande pubblico che degli appassionati d’arte, contribuendo all’inizio di quella che tutti quanti auspichiamo possa essere una nuova “fioritura” per la città di Fabriano. Un ringraziamento va quindi tributato alla Fondazione Carifac e a tutta la macchina organizzativa della mostra guidata da Vittorio Sgarbi e dai suoi collaboratori. Questo evento è il segno di una comunità che vuole cambiare innescando un nuovo processo culturale al quale tutti siamo chiamati a contribuire. Giancarlo Sagramola Sindaco di Fabriano

«… tre colori giocano sul turchino del fondo, oltre all’oro … il rosso … il verde ora alterato in cilestrino … il giallo». È Luigi Serra che, con queste parole (sinteticamente trascritte), nel 1928 descrive i colori, oggi perduti, della grande Crocifissione affrescata nella chiesa di San Biagio in Caprile a Campodonico. Il tempo, non clemente, ha condotto al distacco della pittura murale nel 1962, a causa del rapidissimo degrado, e alla sua collocazione nella Galleria Nazionale delle Marche. L’affresco costituisce, pur profondamente depauperato nella materia (è divenuto quasi monocromo), uno dei testi pittorici più importanti, ed emozionanti, della mostra “Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento”. La personalità artistica del Maestro di Campodonico, pittore ancora ignoto, così chiamato dall’importante ciclo pittorico di San Biagio, sembra riassumere in sé il convergere di mondi culturali diversi e il proprio linguaggio diventa rielaborazione di straordinaria autonomia e proiezione verso il futuro. Vi si esprimono le linee formali di artisti e prodotti dei quali viene riconosciuto nell’essere “di confine” il proprio patrimonio genetico. Perché il “confine”, talvolta labile, talvolta difficilmente valicabile, si manifesta quale luogo della mente, ma rappresenta anche, realmente, vaste porzioni di territorio e di vita. Sono connotati da creste montane e boschi apparentemente impenetrabili i confini tra Romagna e Marche e quelli tra Marche e Umbria, le terre ove, tra Due e Trecento, si svolsero incredibili contatti e scambi e si svilupparono linguaggi tra i più moderni e autonomi. I “giotteschi riminesi” esplicarono la loro attività lungo tutta la dorsale appenninica e la Valle del Metauro, da Mercatello, a Talamello, a Urbania, ma spingendosi anche fino a Sassoferrato; analogamente, e forse ancora più precocemente, Fabriano coltivò stretti rapporti con le maestranze umbre e assisiati. E l’inedita linea “riminese-fabrianese”, individuata da Cesare Brandi al tempo dell’importante mostra del 1935 sul giottismo riminese, sembra costituirsi quale cerniera, intorno alla quale e dalla quale prese vita la straordinaria fioritura delle arti a Fabriano, che culminerà nella figura-simbolo di Gentile. Pochi anni fa, nel 2006, sempre a Fabriano, un’importante mostra, curata da Laura Laureati e Lorenza Mochi Onori, fu dedicata a Gentile da Fabriano e l’altro Rinascimento. La mostra costituì un evento di grande portata per aver raccolto la gran parte della produzione pittorica di Gentile insieme a preziosissimi manufatti coevi, per illustrare un momento affascinante e ancora in parte ignoto quale fu il cosiddetto “gotico cortese”. La mostra “Da Giotto a Gentile” intende indagare il “prima”, individuare i nessi, le linee portanti, gli snodi che, dalla presenza di Giotto ad Assisi e Rimini – i punti, anche geografici, di riferimento –, portarono Fabriano ad essere centro vitale della produzione artistica in una vasta area che toccava terre, situazioni culturali e “politiche” di diverso segno. Certo ebbero il loro ruolo le fiorenti condizioni economiche e l’ampio ventaglio di relazioni con i maggiori fulcri produttivi, ma ciò non può spiegare fino in fondo il fiorire di artisti come Allegretto Nuzi, Puccio di Simone, Francescuccio di Cecco Ghissi e lo stesso Maestro di Campodonico. Sono questi gli artisti – e le congiunture politico-economiche che ne permisero l’esistenza – che, nella mostra di Fabriano, potranno divenire oggetto di interesse e di avventurosi percorsi da parte di un vasto pubblico. L’operazione costituirà anche un punto di non ritorno nel processo sempre più necessario da una parte di riappropriazione del proprio patrimonio culturale e dall’altra di valorizzazione dello stesso: non solo quindi la conoscenza come “antidoto” alla crisi, ma soprattutto “zoccolo duro” del proprio essere nel mondo.

L’operazione ha goduto della collaborazione delle istituzioni alle quali è delegata la cura del patrimonio artistico, come è ormai abitudine in terra marchigiana: a Fabriano tuttavia va sottolineato il particolare impegno di Vittorio Sgarbi, che ha ideato e curato l’iniziativa; di Liana Lippi, non solo strategica organizzatrice, ma anche intelligentemente attenta ai nessi culturali e artistici; di Guido Papiri, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana, il quale ha voluto, con fermezza e passione, il realizzarsi dell’evento. Non è possibile infine non rimarcare la qualità scientifica e il metodo rigoroso della ricerca storica. Maria Rosaria Valazzi Soprintendente per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici delle Marche

Una mostra a Fabriano dedicata all’arte tra il xiii e il xv secolo non poteva non rivolgersi all’Umbria per prestiti di grande importanza. La geografia non ha assegnato confini naturali rigidamente determinati all’area umbro-marchigiana e per questa ragione la zona è sempre stata interessata da complesse vicende di scambi artistici, da rapporti di dare e avere, che a partire dal cantiere assisiate si sono protratti per secoli. Sfruttando quei passi non elevati della dorsale appenninica, facilitati da importanti percorsi conosciuti fin da epoca remota, uomini e opere hanno viaggiato da una parte all’altra di questo spazio “aperto” che si è sempre più identificato come importante snodo di scambi in campo artistico. Prima come irradiazione dei linguaggi formulati ad Assisi, poi, di ritorno, con maestranze di alta qualità che dalle diverse zone marchigiane si sono spinte nell’entroterra umbro, attirate da committenti illuminati e da cantieri operosi, battendo quelle strade che prima di loro i commercianti avevano tracciato. Un’area, quella dell’Italia centrale, che oggi più che mai deve mantenere unità di intenti e operare in sinergia per valorizzare il proprio patrimonio culturale. A fondamento della mostra, infatti, si pone l’idea di “museo diffuso” che va comunicato ai diversi pubblici e va promosso e incentivato con eventi come questi, che insistono sul territorio e che dal territorio prendono vita. Del resto la caratteristica saliente del nostro patrimonio storico-artistico risiede principalmente nella capillarità con cui si è sedimentato nel tempo, in un intreccio indissolubile tra opere e contesti, tra arte e paesaggio. La mostra di Fabriano è l’occasione giusta per muoversi in questa direzione ed è con grande entusiasmo che la Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici dell’Umbria ha collaborato e sostenuto con grande determinazione l’iniziativa, concedendo quattro opere in prestito dalla Galleria Nazionale dell’Umbria – tra le quali spicca la Madonna col Bambino e angeli musicanti di Gentile da Fabriano – e affiancando quegli Enti ed istituti che hanno voluto concedere alla mostra opere di loro proprietà. In virtù di questa reciproca collaborazione, la Madonna del Rosario di Orazio Gentileschi, conservata presso la Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli” di Fabriano, arriverà a Perugia nelle sale della Galleria Nazionale a sancire un’unità di intenti, al fine di valorizzare questa terra, che – ieri come oggi e grazie all’operosità degli uomini – sa superare i confini regionali caratterizzandosi come spazio aperto agli scambi e alla cooperazione. La mostra diviene così opportunità irrinunciabile di attenta fruizione delle opere, con un riverbero tra Umbria e Marche che, nel suo sviluppo diacronico, sarà oggetto di nuovi approfondimenti scientifici e allo stesso tempo evidenzierà, nel presente, la continuità di contenuti irrinunciabili per la piena affermazione della nostra identità. Fabio De Chirico Soprintendente per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici dell’Umbria

La scuola di Fabriano e il “genio degli anonimi”

La scuola di Fabriano e il “genio degli anonimi” vittorio sgarbi

1-2 (supra). Maestro di Campodonico, Annunciazione (cat. 25; particolari). Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. 3. Maestro di Sant’Emiliano, Maestà, Madonna in trono allattante il Bambino con i santi Lucia, Caterina d’Alessandria ed Emiliano (cat. 13; particolare). Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”.

Da una mostra importante, e filologicamente ponderata, come questa, dal titolo tanto ambizioso quanto preciso, si aspetta una parola definitiva su una questione cruciale: che da Giotto, oltre a una scuola umbra e a una scuola riminese, entrambe conclamate e definite, esca una altrettanto significativa scuola marchigiana, e in particolare fabrianese, del xiv secolo, dai confini ben definiti. Un avviso certo, come accade a Firenze e a Pisa, sta nel nesso fra pittura e scultura, se è vero che, tra le testimonianze più cospicue dell’arte a Fabriano, vi sono le sculture a tutto tondo e a grandezza naturale del Maestro dei magi, in questa occasione riunite, almeno idealmente, con la Madonna col Bambino orfana del commovente San Giuseppe, seduto e pensoso. Già Giuseppe Marchini aveva ipotizzato un nesso con la pittura di Allegretto Nuzi,1 che porta però troppo avanti l’esecuzione delle sculture. E non è convincente l’identificazione del potente scultore con Fra’ Giovanni di Bartolomeo, che ne porterebbe ancora più avanti l’attività, ancorandolo a un documento del 1384 per un presepe scolpito in legno e dipinto, per il monastero di Santa Caterina di Monterubbiano, nell’Ascolano. Non esistendo più materialmente il presepe di Monterubbiano, la descrizione documentale non fornisce elementi sufficienti per collegarlo al gruppo già nella chiesa della Misericordia di Fabriano, vincolandolo a una cronologia troppo avanzata. Di Fra’ Giovanni, monaco scultore, sappiamo che si trasferì da Montefano alla chiesa di Santa Caterina de bocetis fuori Fabriano. Troppo poco rispetto all’evidenza di un rapporto non con Allegretto Nuzi, ma ben prima, con il potente e plastico Maestro di Campodonico (figg. 1-2). Le affinità formali tra il pittore e lo scultore consentono di arretrare la datazione del gruppo scultoreo di almeno tre decenni, intercettando i tempi, oltre alle forme, del grande pittore. L’evidenza naturalistica e antiretorica del Maestro dei magi di Fabriano ha una esplicita affinità con il gruppo dei dolenti del Maestro di Campodonico; e trova rinnovata conferma nella straordinaria apparizione di una inedita Sant’Elena di indiscutibile autografia (verso 1355-1360; fig. 7), assoluta novità della mostra. Se dunque, all’altezza del 1345, un artista a Fabriano, in rapporto con Pietro Lorenzetti, mostra una tale, vigorosa e autonoma personalità, che si riflette nel gruppo plastico dell’Epifania, i troppi indizi ci suggeriscono la conclusione annunciata. Fabriano, a partire dagli affreschi giotteschi delle cappelle di Sant’Agostino e di San Domenico, ha una civiltà figurativa distinta e originale. Infatti la langue riminese, pure evidente nel precoce Maestro di Sant’Emiliano, come si vede negli affreschi dell’abbazia di Sant’Emiliano in Congiuntoli a Scheggia (fig. 3), non è sufficiente a esaurire lo stile dello stesso maestro, manifestato anche negli affreschi delle due cappelle laterali nella chiesa di Sant’Agostino, assai precoci (1311). Il pittore, probabilmente nato a Fabriano, e certamente attivo in città e nel circondario, ha, come osserva Alessandro Marchi, «conosciuto l’arte riminese», ma «ha poi dato vita ad un linguaggio autonomo, a tratti fortemente sintetico, contrassegnato da un ductus caratteristico – o meglio da alcune cifre particolari, ad esempio, nei volti, le onnipresenti occhiaie a scodella – e da una resa delle pitture murali con paste compatte, colori chiari, per lo più a base di terre e di succhi vegetali».2 Se su questo artista, assai precoce e potentemente geometrizzante (si osservino le pieghe degli abiti di santa Lucia e di santa Caterina, ripetute nella Maddalena di Sant’Agostino), si innesta 17

vittorio sgarbi

la umanissima interpretazione sentimentale di Pietro Lorenzetti, di cui sono in mostra due importanti campioni, la croce sagomata di Cortona e la Madonna col Bambino già Serristori, non è difficile veder crescere a Fabriano una personalità originale come quella dell’impenetrabile Maestro di Campodonico. Vicino a un giottesco di rango, sottile e intellettuale, come Puccio Capanna (che ne fornisce una anticipazione nella serrata concezione dello spazio nel frammento con la Vergine Annunziata della Pinacoteca Comunale di Assisi, presente in mostra), il Maestro di Campodonico ha certamente tratto spunto, più che dallo stesso Giotto, proprio dai maestri senesi, Pietro e Ambrogio Lorenzetti e Simone Martini. Certamente la sua personalità non lascia dubbi sulla esistenza, peculiare e inconfondibile, di una vera e propria scuola di Fabriano, fin qui indiziaria. I suoi affreschi più notevoli, ora staccati, provengono dall’abbazia di San Biagio in Caprile, in prossimità di Campodonico (da cui la scelta del nome). Importante è che siano datati 1345, e che l’autore abbia una così straordinaria sintesi formale, come si vede nell’Annunciazione, che uno studioso di consumatissima esperienza come Bernard Berenson, poteva ritenerlo un artista del Quattrocento, attribuendone le opere all’abruzzese Andrea Delitio.3 La sua imponente Crocifissione sulle pareti dell’abbazia (fig. 4) è la prova di una libertà, di una forza espressiva (ed espressionistica) e di una autonomia da Giotto, da motivare le riflessioni di un altro studioso provveduto come Alessandro Marabottini: «[Il pittore] non fu un fiorentino, o un giottesco, né tanto meno un orcagnesco, e neppure un senese, nonostante i suoi molti contatti con Siena; bensì con tutta probabilità, un dottissimo marchigiano, fabrianese forse».4 Si arriverà a Roberto Longhi, che definisce l’affresco «uno dei più grandi capolavori del secolo».5 Il Maestro di Campodonico è plastico, potente e compatto nei volumi, capace di esprimere il dramma e la beatitudine. Non si fissa in schemi, e lo mostra nella seconda Annunciazione per la chiesa fabrianese della Maddalena, un’invenzione purissima, e non solo nell’equilibrio tra le due figure, ma nell’incredibile presenza determinata dalle pieghe dell’abito e dalle ali dell’angelo, il cui volto mostra un tre quarti che attende solo Piero della Francesca. Giustamente Giampiero Donnini osserva che il Maestro di Campodonico «dà luogo a effetti spaziali che trovano l’equivalente solo in Giotto e in Maso».6 Ma con una verità e una personalità senza precedenti ed estranea al razionalismo fiorentino, in favore di un espressionismo che investe il corpo, il suo peso nello spazio, in una rappresentazione drammatica che allude all’evidenza realistica dei Sacri monti. C’è, dentro il Maestro di Campodonico, implicito uno scultore. Ed è proprio la teatralità che lo evoca. Nei Sacri monti, pittori e scultori sono a fianco, quando non sono la stessa persona. E la rarità, per l’epoca, se non l’unicità, del Maestro dei magi è, ancora una volta, nella allusione teatrale, nella persuasione illusoria. Giotto e Maso sono esclusivamente pittori. Il Maestro di Campodonico è anche scultore. Per un approfondimento su questo grande maestro, e sulla sua avventurosa vicenda critica che non lo ha sottratto al mistero dell’anonimato, si rimanda al saggio di Alessandro Marchi in questo catalogo. Può sembrare singolare che il cuore di una mostra sulla pittura a Fabriano sia un maestro senza nome, ammiratissimo dalla critica quanto pressoché ignoto al pubblico. E ancor più che si regredisca all’anonimato lo scultore, Maestro dei magi, che aveva provvisoriamente trovato un nome. Ed è forse questo che, rispetto ai ben nominati artisti riminesi, spiega la sfortuna della scuola di Fabriano dominata da un pervicace “genio degli anonimi”. Senza nomi si comunica poco e non si stabilizza una realtà pure importante nella evidenza delle opere. Ma la mostra non è avara di nomi di maestri di altre scuole, per utili confronti e per indicare paralleli o precedenti. Tra questi Giuliano da Rimini con il Crocifisso per la chiesa di San Francesco a Sassoferrato, il Maestro dell’Incoronazione di Urbino con La Crocifissione, Pietro Lorenzetti con il Crocifisso sagomato e la sua affettuosa, umanissima Madonna col Bambino. In questa logica si incrociano anche grandi artisti defilati e oggi riconsiderati come Giovanni di Bonino, alias Maestro di Figline, il cui potente San Giovanni Battista (fig. 6), proveniente 18

4. Maestro di Campodonico, Crocefissione (cat. 24; particolare). Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

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dalla Pinacoteca di Ferrara, è stato messo in relazione con il Maestro di Campodonico per una comune deriva espressionistica (fig. 5). Questo gusto, che parte da Assisi intrecciandosi con le influenze senesi, coinvolge anche Mello da Gubbio, presente in mostra con la espressiva Madonna di Valdichiascio, e identifica «con caratteristiche analoghe e però varie, i percorsi di alcuni pittori della fascia appenninica tra Gubbio, Cagli e Fabriano, come il Maestro di Montemartello e il Maestro di Campodonico» come osservano Francesco Mariucci ed Ettore A. Sannipolis.7 Una simile e coerente caratterizzazione riguarda anche l’autore degli affreschi di Santa Maria della Misericordia a Cagli, studiato dal Donnini. A partire dalla seconda metà del secolo lo scenario di Fabriano sembra mutare, e lo scandisce l’arrivo dell’opera di un nuovo ordinatore fiorentino, Puccio di Simone che invia il Sant’Antonio

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5. Maestro di Campodonico, San Giovanni Battista e santa Caterina d’Alessandria (cat. 26; particolare). Porano (Tr), Castel Rubello, collezione Serafini. 6. Giovanni di Bonino, San Giovanni Battista (cat. 22; particolare). Ferrara, Pinacoteca Nazionale. 7. Maestro dei magi, Sant’Elena, madre di Costantino il Grande. Collezione privata.

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Abate fra i devoti (fig. 10), per il convento di Sant’Antonio Abate fuori Porta Pisana. Da questo rappel à l’ordre, dopo le sfrenatezze del Maestro di Campodonico, discende, come è evidente nel nesso tra il trittico di Puccio di Simone della Galleria Nazionale delle Marche e il trittico di Allegretto Nuzi per la cattedrale di San Giuliano a Macerata, il volto nuovo e universalmente riconosciuto della scuola di Fabriano. Compostezza, rigore, insistita e paradigmatica bidimensionalità, decorativismo. Così si manifesta Allegretto Nuzi nei dipinti conservati nella Pinacoteca di Fabriano (figg. 8-9) e nel polittico proveniente dalla chiesa di San Francesco ad Apiro, datato 1366. In questa visione irenica, pacificata, si misura anche Francescuccio Ghissi che ha concorde ispirazione con Allegretto Nuzi. Entrambi hanno avuto grande fortuna e, in forza dei loro nomi, riconosciuti e documentati, hanno diffuso un solo volto della scuola di Fabriano. Nessun dubbio che non vi sia continuità, bensì opposizione psicologica e formale, fra i due artisti della nuova generazione e il Maestro di Campodonico. Allegretto basta vederlo negli affreschi di San Domenico, sia nella Crocifissione ritualmente giottesca, sia nel Viaggio di sant’Orsola. Allegretto si compiace della tradizione senese con particolare attenzione per Ambrogio Lorenzetti, ma anche della affinità con Puccio di Simone. 22

8-9. Allegretto Nuzi, Madonna col Bambino tra i santi Maria Maddalena, Giovanni Evangelista, Bartolomeo e Venanzio (cat. 35; particolari). Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”. 10. Puccio di Simone (attribuito), Sant’Antonio Abate fra i devoti (cat. 33; particolare). Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”.

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La presenza monastica a Fabriano, un “castrum” appenninico tra Marche e Umbria

La presenza monastica a Fabriano, un castrum appenninico tra Marche e Umbria Ugo Paoli

1. L’abbazia di San Vittore delle Chiuse (Genga).

Nella seconda metà del secolo XIII il Comune di Fabriano è ormai una realtà consolidata a livello giuridico-istituzionale ed economico-sociale. Eppure si tratta di un insediamento relativamente giovane, che non vanta una tradizione romana come altre terre allineate alla dorsale appenninica umbro-marchigiana (Attidium, Tuficum, Sentinum, Nuceria, Tadinum), che dopo l’occupazione longobarda delle aree «in Appenninis Alpibus … per mediam Italiam pergentes»1 si trovano inserite nel ducato di Spoleto. Quando nel 1040 si ha la prima attestazione del toponimo «Fabriano»2 e nel 1041 quella del «castellum Fabriani»,3 il territorio fa parte del gastaldato di Castel Petroso (oggi Pierosara), documentato − tra l’altro − da tre diplomi imperiali: due di Ottone II (3 febbraio e 5 maggio 981) e l’altro di Ottone III (25 maggio 996).4 In una compravendita del 1065 Fabriano «non figura ancora come un raggruppamento insediativo organizzato»:5 nell’atto, infatti, si parla di semplice «locu qui dicitur Fabriani» compreso nel territorio di Castel Petroso, nel ducato di Spoleto.6 È necessario attendere un secolo per trovare nel castrum di Fabriano una comunità già formata e dotata di un proprio ordinamento politico: si tratta del regime consolare, rappresentato dai consoli Brunello e Ugolino che nel 1165 accettano la sottomissione dei fratelli Alberico e Rinaldo Chiavelli, figli del conte Rodolfo, e dei loro possessi di Attiggio e Santa Croce.7 Inizia così l’inurbamento della potente famiglia, che più di ogni altra inciderà sulla storia di Fabriano fino all’eccidio del 1435.8 Con i successivi patti di “sottomissione” o di “aggregazione” (dal 1165 al 1251 se ne contano settantuno) dei domini loci (= signori territoriali) di derivazione longobarda e franca e detentori di giurisdizioni locali, si realizza la “costruzione del territorio” fabrianese.9 Particolarmente significative sono le pattuizioni con le abbazie locali sorte all’inizio del secolo XI, che alla ricchezza spirituale avevano aggiunto, nel frattempo, potere politico e solidità economica: Santa Maria d’Appennino presso Cancelli ai piedi del valico di Fossato; San Biagio in Caprile vicino a Campodonico; Santa Croce dei Conti a Sassoferrato; Valdicastro alle pendici settentrionali del monte San Vicino; San Vittore delle Chiuse nel territorio di Genga presso le Grotte di Frasassi (fig. 1); il priorato di San Cassiano in Valbagnola a ovest di Fabriano.10 Nello stesso periodo la presenza monastica si rafforza anche nell’area limitrofa dell’Umbria.11 L’abbazia di Santa Maria d’Appennino, inizialmente collocata sulla sommità del monte a destra del valico per chi transita verso Fossato, realizza una notevole presenza di beni patrimoniali, di uomini, di chiese e castelli sia nella direzione di Nocera Umbra sia verso il Fabrianese, svolgendo una funzione di “cerniera” tra i due versanti dell’Appennino.12 Possedimenti e chiese su entrambe le aree hanno parimenti San Biagio in Caprile, San Cassiano in Valbagnola, Santa Croce o di Tripozzo di Sassoferrato (fig. 2), Valdicastro. Inoltre Santa Maria d’Appennino, San Biagio in Caprile e San Cassiano in Valbagnola fino al 1984 sono comprese nella diocesi di Nocera Umbra. È possibile, così, parlare di monachesimo dell’area appenninica umbro-marchigiana, che presenta caratteri originali e propri ed è veicolo di modelli istituzionali e architettonici, di pratiche di governo del territorio, di gestione fondiaria e di strutture documentarie, tanto da costituire quella che può definirsi una “civiltà appenninica”.13 L’età in cui sono fondate e si sviluppano le abbazie della zona appartiene alla grande stagione dell’arte romanica,14 da cui traspare il messaggio forte che la terra è solo un luogo di passaggio 27

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verso un’altra vita, quella eterna, alla quale deve essere rivolto costantemente il pensiero del monaco e del cristiano in generale. Nel secolo XII le fondazioni monastiche hanno acquisito anche importanza strategica, militare e politica: Santa Maria d’Appennino rappresenta lo “sbocco necessario” della via di collegamento tra le Marche e l’Umbria, tra Fabriano e Perugia; San Vittore delle Chiuse è diventato il centro attorno al quale continua a convergere dopo il secolo X quel che resta dell’antica organizzazione del gastaldato di Castel Petroso… Inoltre, attraverso le numerose dipendenze, castelli e chiese,15 le abbazie hanno in mano pressoché tutte le popolazioni rurali del territorio e stanno costituendo un ostacolo alla politica di espansione del Comune di Fabriano, che per riuscire a imporsi deve, dunque, eliminare o almeno indebolire i poteri presenti nel territorio. Nel 1170 l’abbazia di San Vittore delle Chiuse, diventata la più importante e maggiormente rappresentativa del monachesimo nell’area appenninica, preferisce non entrare in conflitto con il potente vicino e cede al “comunale”16 di Fabriano un vasto territorio lungo il fiume Castellano (oggi Giano), comprendente l’antico insediamento di Pietrafitta presso Moscano, i cui abitanti diventano castellani di Fabriano.17 Nel 1192 il priore dell’eremo di Fonte Avellana (allora in diocesi di Gubbio) pone sotto la protezione della “comunità di Fabriano” nella persona dei consoli Urgione e Fiorentino, gli uomini e i beni della villa di Lavenano (oggi Avenale nel comune di Genga) sottoposti all’eremo e nel 1199 sottomette alla universitas di Fabriano tutti gli uomini di Fonte Avellana nel territorio compreso fra il Sentino e Fabriano.18 Nel 1212 l’abbazia di San Vittore cede al console Todino il castello, gli uomini e il territorio di Pierosara: in cambio l’abate e i monaci sono trattati alla stregua dei boni homines di Fabriano e vengono esentati da ogni imposizione fiscale.19 Nel 1218 è Valdicastro a dover sottomettere alla comunantia di Fabriano gli uomini di Albacina e di Cerreto dipendenti dall’abbazia.20 Nel 1224 Santa Maria d’Appennino stipula un trattato con i consoli Gelfolino e Matteo: l’abate, con il consenso dei monaci, cede al Comune di Fabriano gli uomini dell’abbazia con i mansi e le terre che si trovano sul versante appenninico marchigiano («a summitate montium Appenini inversus Fabrianum»). In cambio il Comune si impegna ad assegnare a ogni capofamiglia una tavola di area edificabile (mq 44) fuori della Porta del Piano e tre tavole (mq 132) all’abbazia; a trattare l’abate alla stregua dei nobili fabrianesi; a difendere il monastero da eventuali usurpatori, fatta eccezione per i figli di Rinaldo di Rodolfo Chiavelli, ormai troppo potenti nel tessuto amministrativo per poter essere contrastati con qualche possibilità di successo.21 Nella prima metà del Duecento Fabriano conosce un rapido accrescimento urbanistico e demografico, favorendo le famiglie che accettano la sua politica di inurbamento con l’assegnazione gratuita di una piccola area edificabile.22 Le abbazie, che già hanno in mano la cura pastorale delle campagne, avendo acquisito anche la giurisdizione ecclesiastica delle pievi rurali,23 rivolgono ora la propria attenzione alle famiglie inurbate: San Vittore costruisce la chiesa di San Biagio per provvedere ai bisogni spirituali degli abitanti del nuovo borgo cresciuto fuori delle mura di Castelvecchio, Santa Croce di Sassoferrato entra in possesso della chiesa di San Nicolò, sorta «per i bisogni spirituali del borgo che da essa prese il nome»,24 Valdicastro ottiene la chiesa di Santa Maria in Campo di Fabriano dopo che era stata a lungo contesa tra San Vittore delle Chiuse e Santa Croce di Sassoferrato.25 Il secolo XIII è anche un periodo caratterizzato da sconvolgimenti politico-religiosi connessi alla lotta tra Papato e Impero. Nel 1228 le truppe di Federico II, sotto il comando del legato imperiale Rinaldo, duca titolare di Spoleto, invadono la Marca d’Ancona, spingendosi fino a Macerata, Recanati e Osimo. Due anni dopo, in seguito alla pace di San Germano (oggi Cassino), l’imperatore rinuncia ad ogni pretesa sui territori occupati e la Marca inizia ad essere governata stabilmente da un rettore, nominato dal papa. Si tratta, tuttavia, di una semplice tregua, perché Federico II ha sempre in animo di restituire Ancona e Spoleto all’autorità dell’Impero. Fabriano inizialmente non prende posizione, conservando un atteggiamento cauto e, talora, anche incerto, contrastata al suo interno dalle rivalità tra le opposte fazioni dei Fildesmidi (guel28

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fi) e dei Chiavelli (ghibellini). Ed è appunto nella speranza di sedare i contrasti tra le famiglie che nel 1234 il governo del Comune viene affidato a un podestà “forestiero”. Il primo podestà è Biagio da Todi.26 Nel frattempo Fabriano, in aperto contrasto con le ricche e potenti abbazie del contado per l’egemonia del territorio, favorisce invece l’insediamento di famiglie religiose che propugnano un ideale di vita ispirato alla semplicità e alla purezza evangeliche, maggiormente rispondenti alle esigenze spirituali e socio-economiche della società comunale: è il caso degli ordini mendicanti degli Agostiniani e dei Frati minori e dell’Ordine monastico dei Silvestrini. L’ingresso degli Agostiniani, all’epoca denominati Eremitani di sant’Agostino, secondo una tradizione probabilmente esatta ha luogo nel 1216 per interessamento di Gualtiero di Tommaso Chiavelli.27 Il convento agostiniano sarà «ampliato e incluso nella cinta muraria della città dal figlio Alberghetto I».28 La presenza dell’Ordine silvestrino nel territorio fabrianese inizia nel 1228 a Grottafucile presso Castelletta, dove il fondatore Silvestro si è ritirato in solitudine e in preghiera dopo aver lasciato il canonicato della cattedrale di Osimo. A Grottafucile Silvestro accoglie i primi discepoli sotto la Regola di san Benedetto, dando inizio a una nuova famiglia monastica. Nel 1231 Silvestro, lasciata una piccola comunità a Grottafucile, fonda l’eremo di San Benedetto di Montefano (oggi San Silvestro) su un terreno boschivo ricevuto in dono da alcuni cittadini di Fabriano e lo costituisce “capo e madre” del suo Ordine.29 Nel 1236 il Comune di Fabriano concede a “fra Silvestro” oltre novanta staia di terra con selva (circa quattro ettari) intorno all’eremo, precedentemente acquistate da vari proprietari.30 Pochi anni dopo inizia l’inserimento dei monaci silvestrini nel nucleo urbano: nel 1244 il podestà Tommaso da Spello, su mandato del consiglio generale e speciale del Comune, concede a “fra Silvestro, priore dell’eremo di Montefano”, quattro tavole (circa mq 176) di area edificabile nel Borgo Nuovo di Fabriano nelle adiacenze della piazza del Mercato o Mercatale (detta anche piazza Bassa, oggi piazza Garibaldi), dove Silvestro costruisce un piccolo monastero con annesso oratorio dedicato a san Benedetto. Dopo la morte del fondatore (26 novembre 1267) a Fabriano è costituita una comunità con priore e nel 1287 si dà inizio alla costruzione di una nuova chiesa, dove nel 1290 viene sepolto il monaco Giovanni dal Bastone da Paterno di Fabriano, uno dei primi discepoli di Silvestro, morto in concetto di santità.31

2. L’abbazia di Santa Croce di Tripozzo (Sassoferrato). 29

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La presenza francescana a Fabriano inizia nel 1234: alcuni nobili cedono a fra’ Pietro da Vercelli, provinciale dei Frati minori delle Marche, i loro diritti su un terreno nella contrada di Cantiro presso Serraloggia, per la costruzione di un convento. All’importante atto sono presenti Filippo, vescovo di Camerino, fra’ Silvestro, priore di Montefano, e Raniero, pievano di Civita presso Fabriano e già confessore di san Francesco.32 «Le due esperienze, dell’eremitismo monastico [di Silvestro] e del francescanesimo, si incrociano e si intrecciano. Con Francesco l’imitazione del Dio sofferente, del Dio che appare nella sua umanità, si affianca dunque alla contemplazione del Dio altissimo e pantocratore»: Silvestro «è l’erede» di «Romualdo33 in questa terra, il modello dei tentativi di riforma eremitica del vecchio monachesimo. Ma il suo intuito di uomo di Dio sembra quello di aver accolto … qualcosa delle nuove esigenze, della nuova spiritualità che si concentra nell’imitare l’umanità di Cristo. C’è in lui come il tentativo di innestare, nel vecchio tronco [benedettino], una novità francescana».34 Silvestro, al pari di Francesco, muove i primi passi della sua conversione nella solitudine, nella penitenza e nella contemplazione. I due fondatori intendono recuperare i valori della vita religiosa, smarriti o disattesi dalle comunità monastiche del territorio, incarnandoli in forme nuove, pur nella fedeltà al Vangelo e − per Silvestro − anche alla Regola di san Benedetto. Silvestro, che ha incontrato Francesco a Osimo prima di ritirarsi in solitudine a Grottafucile, rimanendone affascinato, conferisce un’intonazione pauperistica alla sua famiglia monastica, introducendo la pratica della questua, che sarà definitivamente abbandonata soltanto dopo le indicazioni del secondo concilio di Lione del 1274. Nel 1239, dopo l’invasione della Marca d’Ancona da parte di Enzo, figlio di Federico II, il partito filoimperiale prende il sopravvento a Fabriano, che nel 1240 incorre nella punizione ecclesiastica dell’interdetto. Anche i religiosi sono colpiti dal provvedimento papale e si vedono costretti a riconoscere l’autorità dell’imperatore oppure a lasciare la città. Alcuni ecclesiastici preferiscono prendere la via dell’esilio: è il caso del priore del capitolo della collegiata di San Venanzio e del fondatore di Montefano che, intendendo rimanere fedeli al papa, si rifugiano a Perugia. Solo in seguito alla sconfitta subìta da Federico II a Parma nel febbraio 1248, Fabriano ritorna sotto l’obbedienza del papa. Nella seconda metà del Duecento l’azione espansionistica sul territorio diventa ancora più decisa soprattutto nei confronti delle abbazie. In particolare il Comune di Fabriano favorisce il movimento di affrancazione, nel quale sono coinvolti servi e coloni dei centri monastici, ormai insofferenti di un regime che li vincola ancora ad obblighi onerosi o li ostacola nel progresso economico, appoggiando apertamente le rivendicazioni dei “rustici”, che intendono diventare uomini liberi pur a costo di grandi sacrifici.35 Contemporaneamente Fabriano incrementa le attività artigianali e mercantili, dando respiro ad un’economia finora prevalentemente agricola.36 A partire dal 1273 nel borgo del Piano è attestata la presenza di un convento dell’Ordine dei Frati predicatori o Domenicani, che nella seconda metà del Trecento, con l’apporto determinante dei Chiavelli, daranno vita all’attuale chiesa di Santa Lucia e all’annesso convento di San Domenico.37 Nelle lotte di fazione che agitano Fabriano alla fine del Duecento, i Chiavelli riescono ad avere il predominio sulle altre famiglie e «si avviano così ad essere i protagonisti quasi incontrastati della politica fabrianese».38 Sotto l’egida di Alberghetto I Chiavelli († 1304)39 sono costruite le nuove mura (fine secolo XIII) e probabilmente anche la fontana Sturinalto (1285 circa), vero «fiore di pietra nella città della carta», un «autentico gioiello architettonico» in stile romanico che «assurge a simbolo della egemonia signorile».40 Pochi anni prima, nel 1255, era stato edificato il palazzo del Comune o del Popolo (poi del Podestà), che «è il più antico tra i superstiti edifici civili del periodo gotico nelle Marche».41 Anche l’agglomerato urbano assume una fisionomia definitiva: quattro sono le porte (Pisana, Cervara, del Piano, del Borgo), quattro i quartieri (Castelvecchio, Poggio, San Biagio, San Giovanni o S. Venanzio), quattro i borghi (di San Nicolò, il più antico, del Piano o Borgo Nuovo, della Portella, della Cervara). 30

La presenza monastica a Fabriano, un “castrum” appenninico tra Marche e Umbria

Nel Trecento Fabriano raggiunge il pieno fulgore e produce artisti eccelsi come il Maestro di Campodonico, Allegretto Nuzi e Francescuccio di Cecco Ghissi. I Chiavelli, «famiglia di coraggiosi guerrieri e di intraprendenti uomini politici e di affari», prendono il «sopravvento su tutti»42 ed estendono la propria ingerenza anche alle istituzioni religiose.43 Nel 1308 Tommaso e Casaleta, figli di Alberghetto I, riescono a imporre come abate di San Vittore delle Chiuse il fratello Crescenzio, monaco dell’eremo di Montefano. D’ora in poi la ricca e potente abbazia di San Vittore sarà un feudo della famiglia Chiavelli: nel 1348 a Crescenzio, dimissionario, subentrerà nel governo abbaziale il pronipote Francesco Chiavelli, figlio di Alberghetto II. Fabriano, dopo le guerre contro Camerino (1306), Jesi (1308) e Fano (1316), partecipa alla ribellione contro il potere della Chiesa. Per contrastare le truppe ghibelline il rettore della Marca d’Ancona costituisce un esercito con armati forniti dalle città e dai comuni rimasti fedeli al pontefice, ma Fabriano, avendo rifiutato il proprio contributo, nel 1320 viene colpita da interdetto, esteso a tutto il territorio. Pochi anni dopo il Comune di Fabriano è coinvolto nell’ultimo grande “duello” tra Impero e Papato. Da una parte c’è il re di Germania Ludovico il Bavaro, pretendente alla corona imperiale, dall’altro il papa Giovanni XXII, che risiede in Avignone (Francia). L’8 ottobre 1323 Giovanni XXII minaccia il Bavaro di scomunica se non rinunzia entro tre mesi al titolo regio, assunto senza l’approvazione papale. Il Bavaro non si piega e, divenuto nel frattempo protettore dei Francescani spirituali, accusa il pontefice di eresia come denigratore della dottrina evangelica della povertà. Il 23 marzo 1324 Giovanni XXII scomunica il Bavaro insieme ai suoi fautori (i Visconti di Milano, la “città” di Fermo, la “terra” di Fabriano e Guido, vescovo di Arezzo). La sentenza di scomunica contro i Fermani e i “perfidi” Fabrianesi, ribelli a Dio e alla Chiesa, viene pubblicata il 12 aprile 1324 e nei mesi successivi proclamata nelle cattedrali e nelle chiese dei monasteri e dei conventi durante le celebrazioni liturgiche, nonché nelle pubbliche piazze e nei consigli comunali di città, terre e castelli fedeli alla Chiesa (Macerata, Sant’Elpidio, Tolentino, Camerino, Jesi, Sassoferrato, Corinaldo, Ascoli, abbazia di Farfa, Spoleto, Foligno, Assisi, Nocera, Gualdo, Gubbio, Spello, Trevi, Bevagna, Bettona ecc.).44 Negli anni a seguire lo scontro si inasprisce. Nel 1327 il Bavaro, invitato dai ghibellini, scende in Italia. Il 7 gennaio 1328 giunge a Roma: dieci giorni dopo si fa consacrare imperatore da due vescovi scomunicati, ricevendo la corona dalle mani di Sciarra Colonna, rappresentante del popolo. Il 12 maggio 1328 un’assemblea di laici ed ecclesiastici depone Giovanni XXII ed elegge papa (cioè antipapa) il frate minore Pietro Rainalducci da Corvaro (frazione del comune di Borgorose in provincia di Rieti), che prende il nome di Niccolò V. La fedeltà di Fabriano all’imperatore viene immediatamente premiata. Il 15 maggio 1328 Niccolò V nomina cardinale fra’ Nicolò di Pietro di Salvolo da Fabriano degli Eremitani di sant’Agostino, che sarà il braccio destro dell’antipapa. Il 5 novembre 1328 Niccolò V, che risiede a Viterbo, erige a cattedrale la chiesa di San Venanzio, elevando Fabriano a città e diocesi: alla nuova circoscrizione ecclesiastica assegna «ipsam terram Fabriani, muris circumdatam, cum omnibus burgis et suburbiis et cum omnibus castris et villis ipsi terre Fabriani subditis et toto territorio et districtu terre Fabriani» e alcune porzioni delle diocesi di Nocera Umbra, Camerino e Senigallia, in particolare i castelli e i distretti di Rocca Contrada e Serra San Quirico; costituisce, inoltre, la mensa vescovile con i beni dell’«eremo di San Benedetto di Montefano» e del «monastero di Valdicastro», deponendo i rispettivi superiori, il priore generale silvestrino Matteo da Esanatoglia e l’abate Ermanno da Cingoli, in quanto seguaci dell’eretico Giacomo di Cahors (il nome di battesimo di Giovanni XXII).45 Il 7 novembre 1328 Niccolò V nomina “fra Morico” vescovo della Chiesa di Fabriano, concedendogli la facoltà di ricevere la consacrazione dal cardinale fabrianese fra’ Nicolò, a causa della difficoltà di raggiungere la curia papale a Viterbo per i pericoli del viaggio; contemporaneamente l’antipapa comunica la nomina di «fra Morico» al clero, ai religiosi e a tutti i «diletti figli» della diocesi di Fabriano.46 31

UGO PAOLI

Il 12 dicembre 1328 l’antipapa concede importanti privilegi al Comune di Fabriano, a motivo della sua fedeltà alla Chiesa (cioè all’antipapa) e all’Impero: il diritto di battere moneta d’oro, d’argento e di rame; la facoltà di inviare soltanto tre cavalieri e dieci fanti in caso di precettazione per la guerra da parte del rettore della Marca d’Ancona; l’autorizzazione ai pubblici ufficiali di partecipare nelle festività alle funzioni religiose anche in caso di interdetto. Inoltre Nicolò V commina la pena dell’esilio a vita a più di cinquanta fabrianesi “ribelli” e “traditori”, tra cui Tommaso, Filippo e Armanno condam Fidesmidi militis, Chiavellino di Toso, Goroboldo olim Fidesmidi militis, Matteo e Carsedonio, figli Carsedonii militis.47 Dopo il ritorno del Bavaro in Germania, Niccolò V, rimasto senza protettore, abdica nel 1330. L’anno seguente i territori papali ritornano sotto l’obbedienza di Giovanni XXII e la nuova diocesi cessa di esistere.48 Intanto a Fabriano si afferma definitivamente il ruolo dei Chiavelli soprattutto con Alberghetto II di Tommaso, che fra il 1322 e il 1375, con alterne fortune, riesce ad avere il dominio della città.49 Anche il cardinale Egidio Albornoz, inviato dal papa avignonese Innocenzo VI a ristabilire l’ordine istituzionale nelle terre della Chiesa, pur ricevendo il giuramento di fedeltà di Alberghetto II nel 1354, in pratica ne riconosce la signoria su Fabriano. Difatti nella Descriptio Marchiae Anconitanae, composta tra il 1362 e il 1367, dove sono elencate le città, le terre, i castelli e le ville della Marca d’Ancona, è riportato: «Fabrianum et comitatus et castra tenentur per dominum Alberghectum de dicta terra».50 Dopo la morte di Alberghetto II (1376 circa), il figlio Guido – spesso indicato nei documenti come Guido Napolitano – prende saldamente in mano il potere, attribuendosi il titolo di defensor comunis et populi. Nel 1393 il papa Bonifacio IX nomina Guido Chiavelli vicario apostolico di Fabriano per dodici anni.51 Alla fine del Trecento un altro ordine monastico arriva a Fabriano: gli Olivetani. La nuova famiglia benedettina, sorta a Monte Oliveto presso Asciano (provincia di Siena) per iniziativa di Bernardo Tolomei (1272-1348, canonizzato il 26 aprile 2009), dopo aver ottenuto l’approvazione del vescovo di Arezzo nel 1319 e quella papale nel 1344, si era diffusa rapidamente in tutta la Penisola. Già presenti a Santa Maria Nuova di Camerino dal 1384/1386, nel 1397 gli Olivetani si insediano a Santa Caterina di Fabriano per volontà di Guido Napolitano e del figlio Chiavello con la moglie Lagia, «cara et devota de tutto l’Ordene … solicita quasi come fosse de tucti [= i monaci olivetani] madre».52 Nel 1404, dopo la morte di Guido Napolitano, Bonifacio IX conferma a vita il vicariato di Fabriano a Chiavello e al nipote Tommaso del fu Nolfo.53 Nel 1406 i Chiavelli ottengono dal papa Innocenzo VII che l’abbazia di San Vittore delle Chiuse, già da alcuni anni priva di monaci e fatiscente, sia incorporata a Santa Caterina di Fabriano. L’antico monachesimo, che ha conosciuto un grande sviluppo nell’età feudale, è ormai in piena decadenza. La prima metà del Quattrocento vede, infatti, il tramonto della maggior parte delle vetuste abbazie del territorio (Santa Maria d’Appennino, San Biagio in Caprile (fig. 3), Valdicastro, San Cassiano in Valbagnola): è la fine di un’epoca, è la conclusione di un monachesimo che ha scritto pagine gloriose nella storia religiosa del territorio, ma che nell’età comunale non ha compreso i movimenti sociali e le aspirazioni religiose dei nuovi tempi, non ha avvertito la necessità di rinnovarsi, di tentare nuove strade, di farsi interprete delle nuove esigenze e, soprattutto, si è chiuso all’azione riformatrice del papato per costruire una diversa e più pura immagine di Chiesa, rimanendo ancorato a sorpassati schemi politico-economici prettamente feudali.

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3. L’abbazia di San Biagio in Caprile nei pressi di Campodonico.

La presenza monastica a Fabriano, un “castrum” appenninico tra Marche e Umbria

1 Paolo Diacono, Historia Langobardorum, II, 18: «Nona denique provincia in Appenninis Alpibus conputatur … Hae Appenninae Alpes per mediam Italiam pergentes, Tusciam ab Emilia Umbriamque a Flamminia dividunt». Nuceria, sede di gastaldato, cui successe il comitatus dall’età dei Franchi, era il centro amministrativo e giudiziario di tutta l’area settentrionale del ducato di Spoleto (cfr. Sigismondi 1979, pp. 309-316). 2 AFA, Fondo Pergamene, 8. 3 US-Pru, Scheide Collection, box 98, n. 2614. 4 Cfr. Fiecconi 1996, pp. 193-194. Sulla successiva organizzazione distrettuale del territorio, confluito, nella seconda metà del secolo XI, nella Marca d’Ancona, si veda Bernacchia 2002, pp. 98, 107-113, 348-349 (Castellum Petrosum), 382-383 (Fabriano). 5 Lipparoni 1993, p. 97. 6 Cfr. Sassi 1962, p. 33, n. 51. Il documento è rogato «temporibus donno Gotefridu dux et marchio»: si tratta del duca e marchese Goffredo il Barbuto, per il quale si veda Gasparrini Leporace 1938, pp. 45-46. 7 Cfr. Il Libro rosso 1998, II, pp. 103-104, doc. 61. Rodolfo compare con il patronimico Clavelli nell’atto con cui nel marzo 1170 i figli Alberico e Rinaldo rinnovano la sottomissione fatta nel 1165 al Comune di Fabriano (ivi, pp. 102-103, doc. 60). Rodolfo, pertanto, può essere considerato il capostipite della famiglia. 8 La famiglia Chiavelli colloca la propria dimora accanto al Palazzo del Podestà. 9 Cfr. Bartoli Langeli 2001, pp. 14-15. 10 Più in generale cfr. Picasso 1982. 11 Cfr. Picasso 2001; Casagrande-Czortek 2006; D’Acunto 2012. 12 Cfr. Sassi 1929. 13 In particolare Attilio Bartoli Langeli riscontra nella scrittura dei notai fabrianesi del xii secolo, a partire dalla nota Carta di Fabriano del 1186, che contiene la più antica testimonianza in ambito documentario dell’uso del «volgare» nel territorio fabrianese, caratteristiche simili alla scrittura dei notai di Foligno, Assisi e Norcia, identificandola come «minuscola comune dell’area appenninica» (Bartoli Langeli 2001, pp. 16-17). 14 Si veda, in proposito, Piva 2012. 15 Nel periodo di maggior splendore Santa Maria d’Appennino ne possiede trentuno, San Vittore delle Chiuse quarantadue, Santa Croce dei Conti trentacinque, Valdicastro quarantasette (cfr. Abbazie e castelli 1990, pp. 234, 322, 366, 416). 16 Con i termini “comunale” o “comunanza” si intende una comunità costituita da maiores (boni homines) e minores (populares), i cui rapporti non sono ancora sanciti da uno statuto. La parola “comune” compare «negli atti fabrianesi soltanto a partire dal 1202» (Pirani 2003, p. 92). 17 Per il testo del documento si veda Il Libro rosso 1998, II, pp. 352-353, doc. 212. 18 Carte di Fonte Avellana 1977, pp. 272-273, 351-352, docc. 333, 368; Il Libro rosso 1998, II, pp. 86-87, 359-360, docc. 51, 219. 19 ASCFa, Fondo Diplomatico, I, 68. 20 Cfr. Il Libro rosso 1998, II, pp. 43-44, doc. 25. 21 Ivi, II, pp. 209-211, doc. 120. 22 Cfr. Pirani 2003, pp. 27-32. 23 Cfr. Paoli 1991. 24 Sassi 1961, p. 59. 25 Più tardi, nel 1323, anche l’Ordine silvestrino otterrà dal vescovo di Camerino la giurisdizione parrocchiale sul quartiere del Poggio (Le carte dell’Archivio 1990-2011, III, pp. 439-442, doc. 277). 26 Anche sulla base della «circolazione del personale politico tra i due versanti dell’Appennino» si può affermare che Fabriano appartenga alla «civiltà comunale appenninica» (Bartoli Langeli 2001, pp. 17-18). Più in generale sui rapporti di Fabriano con la parte umbra in epoca medievale si veda Morosin 2011.

27 Tommaso era figlio di Alberico e nipote di Rinaldo, i due fratelli che si erano sottomessi al Comune nel 1165. 28 Sassi 1961, p. 52. A cavallo dei secoli XIV-XV vi fiorirono i beati Pietro e Giovanni Becchetti, famosi teologi e predicatori. 29 Le carte dell’Archivio 1990-2011, I, pp. 3-8, docc. 1-3; III, pp. 4-7, docc. 2-3. 30 Ivi, I, pp. 10-22, docc. 5-12. 31 Cfr. La chiesa di San Benedetto a Fabriano 2013. Giovanni dal Bastone sarà proclamato “beato” dal papa Clemente XIV nel 1772. 32 ASCFa, Fondo Diplomatico, II, 104/1. 33 Grande testimone della spiritualità monastica nel secolo XI, Romualdo († 1027) aveva fondato le abbazie di Sant’Elena e di Valdicastro. 34 Leonardi 1982, pp. 1158-1159. 35 Dal movimento di affrancazione sono interessati in particolare i vassalli delle abbazie di San Biagio in Caprile, di Santa Maria d’Appennino e di San Vittore delle Chiuse (cfr. Abbazie e castelli 1990, pp. 312, 322, 367). 36 Cfr. Lipparoni 1986, pp. 123-131; Castagnari 1986, pp. 198-201. 37 Cfr. Le pergamene dell’archivio domenicano 1939, pp. 67-169. 38 Cfr. Villani 2002, pp. 172-180 (citazione a p. 179). Si veda pure Pirani 2003, pp. 151-152. 39 Alberghetto I era figlio di Gualtiero, che nel 1216 aveva favorito l’insediamento degli Agostiniani a Fabriano. 40 Castagnari 1994, p. 13. Si veda pure Dolciami Crinella 1994, pp. 35-36. Marcelli ritiene la fontana fabrianese una «editio minor della celebre fonte [di Perugia] pensata dal monaco silvestrino fra’ Bevignate e illustrata dalle sculture di Nicola e Giovanni Pisano nel 1278» (La Platea Magna 2002, p. 72). 41 Molajoli 1936, ed. 1990, p. 38. 42 Castagnari 1994, p. 14. 43 Dal 1356 al 1360 e dal 1378 al 1390 sono vescovi di Camerino, rispettivamente, Gioioso Chiavelli (figlio di Casaleta di Alberghetto I) e il nipote Benedetto Chiavelli (figlio di Amoroso di Casaleta). Sui due presuli, cfr. Falaschi 2002. 44 Paoli 2002, pp. 110-122, 133-145. 45 Mercati 1947, pp. 62-64. 46 Ivi, pp. 65-67. «Fra Morico» è Morico di Balinuccio, abate di San Biagio in Caprile (1306-1335). Sotto il governo del successore – Pietro di Bartoluccio da Serradica (1336-1349) – la chiesa abbaziale si arricchirà dei famosi affreschi del cosiddetto «Maestro di Campodonico» (cfr. Biocchi 1974, ed. 1989, pp. 368-392). 47 Mercati 1947, pp. 67-69. 48 Soltanto nel 1728 Benedetto XIII restituirà a Fabriano il titolo di città e la diocesi. 49 Su di lui, cfr. Falaschi Chiavelli, Alberghetto 1980. 50 ASVF, Camera Apostolica, Collectoriae, 203, c. 158r; pubblicato in Saracco Previdi 2010, p. 38, n. 930. 51 ASV, Reg. Vat., 314, cc. 116r-119v. Su Guido Chiavelli, cfr. Falaschi, Chiavelli, Guido 1980. 52 ASCFa, Fondo Zonghi-Moscatelli, 6, c. 15r. Su Chiavello Chiavelli, cfr. Falaschi, Chiavelli, Chiavello 1980. Il monastero di Santa Caterina, nel quartiere di Castelvecchio, era stato fondato nel 1382 da Giovanni di Bartolomeo, già monaco silvestrino. Nel 1385 si era aggregato alla comunità monastica, in qualità di oblato, Nicolò di Giovanni di Massio di Venutolo, padre del pittore Gentile da Fabriano (ASAn, Archivio Notarile di Fabriano, 36, notaio Agostino di Matteo Bene, I, c. 163v). 53 Nolfo era fratello di Chiavello. Dopo la scomparsa dello zio (7 agosto 1412), Tommaso regge la signoria fino all’eccidio consumato nella chiesa di San Venanzio di Fabriano il 26 maggio 1435, di cui rimane vittima insieme alla maggior parte dei membri della propria famiglia.

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Itinerari francescani nel territorio fabrianese

Itinerari francescani nel territorio fabrianese ferdinando campana

C’è in Assisi, la bella città di Francesco, una porta, una delle tante porte della città, rivolta non verso la valle spoletana ma verso il monte Subasio, che sull’arco interno contiene una lapide, una pietra medievale del 1199, quando il giovane brillante e promettente Giovanni, detto Francesco, aveva soltanto diciassette giovanili anni, in cui c’è scritto tra l’altro “Haec est porta qua itur in Marchiam”, ossia “Questa è la porta per la quale si va nella Marca”. E Francesco la varcò più volte, innanzitutto per andare verso Fabriano. Era il segno, per Assisi, che con la Marca si avevano relazioni, si scambiavano affari e si facevano operazioni di vario genere. Lo storico e sindaco della città di Assisi, Arnaldo Fortini, nel suo famoso studio su san Francesco, parla di una pergamena ritrovata nei fondi della biblioteca di Assisi1 che enumera un elenco di giovani originari di Fabriano, e sono più di una quarantina. Tra questi nomi, alcuni sono di grande importanza per ricostruire una pagina antica di storia francescana fabrianese, come tali Guelfolino da Fabriano, Fidesmido di Carsedonio, i fratelli Guiderto e Girardo e Todino, figli di Donna Maria, vedova di Alberico di Gentile. E tra i signori fabrianesi che donarono il terreno ai frati di san Francesco, nel 1234, soltanto otto anni dopo la sua morte, figura anche un certo Giraldo di donna Maria, una signora che ritroviamo anche in altre cronache delle origini francescane della città di Fabriano. Questa donna ospitò Francesco nella sua casa. C’è un altro personaggio che lega ancora la presenza di san Francesco a Fabriano, ed è il Venerabile, così è stato sempre chiamato, don Raniero, pievano di Civita. Raniero, come ci racconta il beato Francesco Venimbeni, fu più volte confessore di san Francesco: «L’anno del Signore 1268, quando io ero novizio – dice il beato Francesco nella sua cronaca – morì fra’ Raniero che fu pievano di Civita, dal quale S. Francesco si confessò più volte, quando era pievano. E al quale, ispirato da Dio, predisse: Tu sarai dei nostri. Fu un uomo santo e vero frate Minore».2 Il pievano Raniero, monaco del monastero di San Vittore alle Chiuse, fu tra i promotori della donazione del terreno per costruire il primo conventino dei frati a Fabriano nella zona di Cantiro, nelle vicinanza dell’attuale Colle Paganello verso Serraloggia. Ebbene, alcuni anni più tardi, la città della carta, dopo aver accolto Francesco, decise di donare un luogo per farvi abitare i suoi frati. Una pergamena del 1234, otto anni dopo la morte di san Francesco, di cm 12,7 × 6,5, giacente nell’archivio comunale di questa città, ci parla di un gruppo di signori della stessa città che, per donare un pezzo di terra, nella zona di Cantiro, «ad faciendum locum pro fratribus minoribus»,3 rinunciano al loro diritto di usufrutto in favore dei frati, pur continuando a pagare l’affitto ai proprietari monaci di San Vittore delle Chiuse. Nella zona di Fabriano, dunque, Francesco fece il suo primo viaggio come araldo e giullare di Dio, per comunicare con uno stile assolutamente nuovo e originale la gioia del Vangelo e la forza prorompente di una nuova maniera di testimoniare la fede, insieme al compagno frate Egidio, quando i seguaci del “Poverello” erano appena tre. Era l’Anno del Signore 1208. Ci narra la famosa Leggenda dei tre compagni:

1. Facciata della chiesa di San Francesco di Camporegie.

Francesco unitamente a Egidio andò nella Marca di Ancona, gli altri due si posero in cammino verso un’altra regione. Andando verso la Marca, esultavano giocondamente nel Signore. Francesco, a voce alta e chiara, cantava in francese le lodi del Signore, benedicendo e glorificando la bontà dell’Altissimo. Tanta era la loro gioia, che pareva avessero scoperto un magnifico tesoro nel podere evangelico 35

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della signora Povertà, per amore del quale si erano generosamente e spontaneamente sbarazzati di ogni avere materiale, considerandolo alla stregua di rifiuti … L’uomo di Dio non teneva ancora delle prediche al popolo ma, attraversando città e castelli, tutti esortava ad amare e temere Dio, a fare penitenza dei loro peccati. Egidio esortava gli uditori a credere nelle parole di Francesco, dicendo che dava ottimi consigli. … Percorsa che ebbero quella provincia, fecero ritorno al luogo di Santa Maria.4

Nel 1210 Francesco d’Assisi ritornò una seconda volta a Fabriano e in questa circostanza visitò l’eremo di Santa Maria di Val di Sasso (fig. 2). Della presenza “molteplice” (“più volte”) di san Francesco a Fabriano abbiamo la testimonianza preziosa della Cronaca del beato Francesco Venimbeni da Fabriano, che accenna alla sua venuta in modo indiretto ma tale da togliere ogni dubbio.5 Il passaggio di san Francesco a Fabriano lasciò tracce notevoli: troviamo, infatti, successivamente tre luoghi o conventi francescani in città e uno fuori: a Fabriano, la costruzione dei tre conventi successivi. Il primo fu Cantiro (1234), di cui abbiamo detto; poi quello presso Porta Cervara, il luogo che era chiamato San Francesco Vecchio, dove, nel 1266, i frati si trasferirono da fuori a dentro le mura della città, dal primitivo luogo di Cantiro. Infine passarono pochi anni e il 22 maggio 1282, per interessamento di Francesco Venimbeni, con l’aiuto del podestà Marzucco degli Scornigiani da Pisa, il nobile Torsello di Bonaccorso di Rambaldo cedette a modico prezzo cinquanta tavole di terreno, consistenti in case, torre, spiazzi, chiostro, giardino e botteghe, per poter costruire il terzo convento dei frati francescani a Fabriano. La prima pietra della chiesa fu posta l’8 maggio 1291, ma la costruzione fu completata soltanto un secolo dopo, la prima domenica di luglio del 1398, anche se durante il secolo XIV essa fu usata per le celebrazioni: è la monumentale chiesa di San Francesco, detta poi “delle Logge”, oggi purtroppo quasi completamente rovinata dalle disavventure delle soppressioni ottocentesche.6 Quanto al luogo visitato da San Francesco fuori le mura di Fabriano, ci riferiamo all’eremo di Valdisasso. Nel 1210, infatti, durante la sua seconda visita a Fabriano, san Francesco ebbe modo di visitare Santa Maria di Val di Sasso, oggi nei pressi di Valleremita, che dal luogo ha preso nome. Questo antico fortilizio dell’VIII secolo, appartenuto al nobile signore Sasso di Fabriano che ha dato il nome alla valle, donato dallo stesso e divenuto poi monastero di monache be-

2. L’eremo di Santa Maria di Val di Sasso in una foto del 1920. 36

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nedettine (secoli IX-XII), è collocato in luogo particolarmente meraviglioso per la natura che lo circonda e lo abbraccia, ricco di acqua e di vegetazione, di pace e di silenzio e divenne tanto caro non solo a san Francesco, ma pure ai suoi figli e seguaci. Se nel 1334 i frati di Fabriano richiesero al legato della Marca l’eremo di Val di Sasso «perché c’era stato S. Francesco, benché il luogo fosse posseduto dalle monache di S. Maria della Porta del Piano», ciò vuol dire che la memoria del passaggio del Santo era molto viva.7 Della venuta di san Francesco in questo luogo, parla uno degli storici dell’Ordine francescano più significativi, Luca Wadding, un irlandese vissuto nel XVII secolo, in riferimento a un episodio che aveva lasciato il segno da quelle parti: Avendo sentito dire che, a quattro miglia dalla città di Fabriano, alle radici dei monti Appennini, nella valle di Sasso, tra le alture dei colli, lontano dalla folla e in luogo solitario vi era una chiesa consacrata alla Beata Vergine Maria e accanto un monastero lasciato dalle Monache di san Benedetto, che a causa della guerra erano entrate dentro la città di Fabriano già da alcuni anni; sia per la grandissima devozione che aveva verso la Vergine Maria sia per l’incredibile amore per la solitudine, volle visitarlo per giudicare che se fosse stato adatto all’abitazione, lui lo potesse ottenere per i suoi frati, affinché non rimanesse un luogo senza il culto della Beata Vergine e perché in quel pio e solitario luogo i religiosi potessero più comodamente dedicarsi alla meditazione delle cose celesti.8

Francesco, ignaro della collocazione del sito, si imbatté in un contadino e dovette chiedergli aiuto. Mentre san Francesco si recava all’Eremita con un compagno e senz’altra guida ed entrambi erravano qua e là ignari della via, l’uomo santo chiese a un contadino, il quale stava arando un suo campo, che li accompagnasse guidandoli fino alla meta. Quegli adirato rispose: “Che? Io lascerò per voi l’aratro e consumerò nell’obbedire a voi il tempo che debbo occupare nella coltivazione?” Ma il santo Padre con carezzevole e pio discorso piegò quell’uomo promettendogli con la maggiore certezza possibile che non avrebbe speso alcun’ora invano e non avrebbe sofferto alcun danno per l’interruzione del lavoro agricolo. Guidati, dunque, i pii pellegrini al sito e ricevutane la benedizione, tornando al campo che nel partire aveva lasciato incolto, lo trovò già arato per intero.9

Questo campo si chiama Camporegio, o Camporese, o Camporege (fig. 1) e vicino ad esso si trova la chiesetta del XII secolo – una pergamena la colloca proprio nel 121510 – consacrata solennemente nel 1287, in onore della Santissima Trinità e dei santi Leonardo, Luca e Maria Maddalena. Dopo un periodo di abbandono essa fu poi di nuovo consacrata e dedicata a san Francesco nel 1927. Raggiunta la meta, Rimase, il santo Padre in quel luogo per alcuni giorni, sommamente soddisfatto, procurandosi il cibo dalle abitazioni sparse per i monti, esplorando luoghi vicini dai quali i frati che avessero in futuro abitato quel luogo potessero procurarsi più facilmente il cibo. Inoltre, avendo disposto con prudenza tutte le cose e ottenuto il monastero dalla nobile famiglia dei Sassi, procurò di collocarvi dei religiosi del suo istituto e volle che fosse chiamato eremo di Santa Maria di Valle Saxea, vuoi per la moltitudine di sassi del monte vicino, vuoi per la valle e la zona così nominata del suddetto Signore della famiglia Sassi.11

L’eremo di Santa Maria di Val di Sasso rimase nella storia dei Frati minori delle Marche uno dei luoghi più significativi e più cari all’Ordine e alla provincia. Durante il Duecento ed il Trecento i frati vi abitarono non stabilmente e regolarmente, provenendo dal locale convento di San Francesco di Fabriano, finché nel 1405, Chiavello Chiavelli, signore di Fabriano, acquistò il monastero e il bosco circostante, costruì il nuovo convento che donò ai frati francescani e commissionò il famoso e meraviglioso polittico di Gentile da Fabriano, denominato polittico di 37

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Valle Romita,12 raffigurante l’Incoronazione della Vergine, con la Trinità e con i santi Girolamo, Francesco, Domenico e Maria Maddalena, in basso; nelle formelle superiori, abbiamo i santi Giovanni Battista, Pietro da Verona, Antonio di Padova e Francesco che riceve le stimmate. Al centro nella cuspide superiore la Crocifissione con la Madonna e san Giovanni. L’originale si trova nella Pinacoteca di Brera a Milano, mentre attualmente nella chiesetta dell’eremo si trova una bellissima copia. Lo stesso Raffaello Sanzio volle salire all’eremo per ammirare la bellezza di questo capolavoro dell’arte italiana. Insieme al polittico la chiesetta dell’eremo custodiva una pala raffigurante la Madonna col Bambino in braccio, con i santi Caterina Vergine e Martire, Scolastica e Francesco d’Assisi, oggi purtroppo scomparsa.13 Fu per opera del beato Cecco (Francesco della Libera da Fabriano), che alla fine del Trecento aveva aderito alla riforma iniziata dal beato Paoluccio da Trinci nell’eremo di Brogliano, che l’eremo di Santa Maria ritrovò la sua vitalità, la sua importanza e la sua più caratteristica fisionomia. Questo frate, compagno di Paoluccio, aiutato dal beato Giovanni il Puro, fu il primo vicario dell’Osservanza nelle Marche e rese l’eremo la prima sede della Vicaria marchigiana, il suo punto di riferimento e di diffusione. In questo santo luogo abitarono san Bernardino da Siena, san Giacomo della Marca, san Giovanni da Capestrano, il beato Marco da Montegallo e tanti altri santi frati che lo resero tra i più importanti e ricchi di preghiera e di santità del mondo francescano. Nel 1660 il padre guardiano Angelo Maria Righi da Fabriano accrebbe i locali, aggiungendo due lati antistanti e laterali alla chiesetta, fino a raggiungere il numero di quaranta stanze. Nel 1810 i frati dovettero lasciare questo luogo a causa della soppressione napoleonica. Vi ritornarono nel 1816. Ma, purtroppo, di nuovo dovettero forzatamente e dolorosamente abbandonarlo nel 1865, a causa della soppressione italiana. Quella reggia così splendente e luminosa di santità, quel luogo così ammirevole di silenzio, di pace e di spiritualità, dovette subire i danni dell’abbandono e dell’incuria dei tempi. A partire dal 1938, gradatamente, anno dopo anno cadde in rovina: abitato dai pastori e dai carbonai del luogo, perdette a poco a poco la sua maestosità e la sua bellezza superba. Divenne sempre più umile e povero, fino a quando nel 1965 era ormai praticamente ridotto in macerie, salvo una parte della chiesetta e un lato del convento ad essa antistante. Nel 1966 il povero e silenzioso eremo ritornò a cantare e gli è stato così restituito di nuovo il sorriso dei figli di Francesco. Da allora il luogo sacro ospita una piccola comunità che ha permesso a quelle mura di ritrovare la loro originaria destinazione. Attualmente l’eremo, di proprietà della Regione Marche, è in totale restauro e ricostruzione, ripartendo proprio dalle mura e dalle dimensioni e caratteristiche originarie: proprio in questo anno, 2014, sarà riaperto con la possibilità di disporre non solo di ambienti destinati alla comunità dei frati ma anche di spazi adibiti alla foresteria e alle attività culturali. A Fabriano, dopo la costruzione dei tre conventi successivi all’eremo di Santa Maria di Val di Sasso, ossia Cantiro (1234), di cui abbiamo ricordato le origini, San Francesco Vecchio a Porta Cervara (1266), abitato per poco tempo e andato distrutto, ed infine San Francesco a Val Povera (1291), oggi San Francesco delle Logge, la presenza delle realtà legate a san Francesco ebbe altre profonde e radicate espressioni nella città della carta e della filigrana. Nel convento di san Francesco si realizzò una delle più belle chiese francescane della regione, lunga 56 metri, a tre navate, senza transetto, con abside poligonale e presbiterio rialzato. La chiesa fu danneggiata dal terremoto nel 1741, fu ristrutturata tra il 1781 e il 1788, subì le soppressioni napoleonica (1810) e italiana (1860-1865), venne in parte demolita nel 1864. In essa si custodivano opere d’arte di grande valore, cinque delle quali di Carlo Crivelli, tra cui la pala dell’Incoronazione della Vergine, attualmente alla Pinacoteca Brera di Milano e la Madonna in trono col Bambino, oggi alla National Gallery di Londra; inoltre si conservava un’altra Incoronazione della Vergine di Antonio da Fabriano, oggi a Vienna. Il convento, solo in piccola parte conservato, aveva chiostro e orti. Il loggiato fu realizzato nel XV secolo, ingrandito nel 1636 e ristrutturato alla fine del XVIII secolo: sarà la nuova sede della biblioteca comunale di Fabriano. 38

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La costruzione della chiesa e del convento dell’Eremita novella o Santa Maria delle Grazie o della Santissima Annunziata fu iniziata dai frati dell’Osservanza nel 1491, come sede vicina alla città per la loro famiglia religiosa. Nella chiesa si conservavano varie opere d’arte, di Filippo Bellini le più notevoli, la maggior parte disperse. A seguito della soppressione napoleonica fu abbandonato. In gran parte demolito nel 1820-1823, fu acquistato e adibito a casa privata nel 1905. Rimangono soltanto degli archi, delle lunette affrescate a ricordo dell’antica fisionomia. Cacciati dall’Annunziata e dall’eremo di Val di Sasso, i Francescani accettarono la chiesa e il convento degli Olivetani di Santa Caterina, dove ancora vivono, accanto all’attuale casa di riposo, che dai tempi della soppressione italiana ha acquisito gran parte dell’antico convento e il chiostro. L’ospedale Santa Maria del Buon Gesù (fig. 3) deve ai Francescani la sua origine. Nel 1456, per volere e suggerimento di san Giacomo della Marca, furono costruiti la chiesa e l’ospedale, per venire incontro alle tante esigenze di cura e assistenza sia dei bambini che degli infermi. Retto dai frati dell’Osservanza per più di quattro secoli, divenne un punto di riferimento per ogni calamità che opprimeva la città. Attualmente l’ex ospedale è sede della Pinacoteca comunale.

3. L’ex ospedale di Santa Maria del Buon Gesù a Fabriano. 39

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La chiesa e monastero di Sant’Onofrio fanno riferimento ad un’altra espressione del francescanesimo fabrianese. Nel 1407 un gruppo di terziarie francescane, dette le “Povere”, si insediò presso la chiesa di San Girolamo, aderendo alla riforma osservante. Nel 1478, chiesa e convento vennero ricostruiti e il titolo antico si cambiò in quello di Sant’Onofrio. Con la soppressione napoleonica le monache si unirono a quelle di Matelica ed il complesso, nel 1818, passò alla confraternita dei Sacconi. Nel 1913 vi fu portata la Scala Santa dalla distrutta chiesa di San Francesco. I Cappuccini a Fabriano ebbero fin dalle origini (1527) un particolare punto di riferimento. L’eremo dell’Acquarella, alle pendici del San Vicino, sopra Albacina, aveva costituito uno dei primitivi luoghi da essi abitati, dove vennero redatte le prime costituzioni dell’Ordine, dette appunto di Albacina (1539). In seguito, nei pressi della città di Fabriano essi ebbero tre diversi conventi: da quello di Santa Maria del Popolo, fondato nel 1538, passarono a Pretara, ossia Monte Calvario, sulla strada verso Collepaganello e, infine, a La Tomba, con la chiesa e il convento di San Giuseppe, inglobato nell’attuale Istituto Agrario.14 Quanto alle Clarisse c’è da ricordare che, oltre che nell’antico monastero di san Girolamo, poi Sant’Onofrio, esse si insediarono dapprima nel monastero di Santa Chiara, poi San Bartolomeo, vicino a Porta Cervara, poi adibito a carcere, quindi si trasferirono nell’antico monastero camaldolese di San Damiano, poi San Romualdo, dove attualmente si trovano, con l’antico nome di San Bartolomeo. Tra le istituzioni francescane più significative è infine da ricordare il Monte di Pietà, istituito nel 1470 dal beato Marco da Montegallo, guardiano del convento di Val di Sasso. San Francesco, in quell’anno 1210, proseguendo il suo viaggio di araldo del Vangelo, si inoltrò nella valle dell’Esino e visitò poi il luogo di Favete o Faete, nei pressi di Apiro, dove si conserva tutt’oggi una chiesetta a lui dedicata. Quindi proseguì per Staffolo, nella provincia di Ancona, dove fece scaturire una fonte di acqua prodigiosa (oggi Fonte di San Francesco). Attorno alla valle tracciata dal fiume Esino, si ergono diverse città o piccoli paesi, che raccontano una bella, gloriosa e lunga storia francescana. Matelica, antico sito piceno, municipio romano, sede episcopale, governata dai conti Ottoni fino alla fine del XVI secolo, passata poi sotto il dominio della Santa Sede, unita come diocesi a Fabriano nel 1785, è stata uno dei luoghi più ricchi di presenza francescana fin dalle origini. Occorre, infatti, risalire ai primordi dell’Ordine per ritrovare le tracce della presenza e dell’attività dei Francescani, sia dei Frati minori, sia delle Clarisse, sia dei laici, uomini e donne di penitenza e di vita comune. Nel 1256, come si rileva da una pergamena conservata nel monastero di Santa Maria Maddalena delle Clarisse di Matelica,15 alcune pie donne, che in quell’anno si riunirono insieme alle Clarisse nel monastero cittadino, precedentemente «dimoravano apud ecclesia sancti Francisci seu Claudi de Acquaviva, una volta luogo dei Frati Minori, nel distretto di Matelica».16 Queste pie donne, secondo il testo della pergamena, abitavano insieme ad altre cinque persone, uomini e donne, indicati come «familiari» ossia oblati, laici consacrati che «vivono senza regola o legame di obbedienza», e decisero di porsi sotto una regola ufficiale di vita, tanto più che questa regola era stata soltanto tre anni prima, nel 1253, approvata e confermata dal papa Innocenzo IV, proprio alla vigilia della morte di santa Chiara. «Assai probabilmente si tratta di frati e donne penitenti, ossia di laici che più tardi si chiameranno terziari francescani, che pur vivendo in famiglia o in piccole comunità, facevano a loro volta una scelta di vita ispirata all’ideale francescano. Non si spiega altrimenti come continuassero a chiamare il luogo S. Francesco».17 Dunque, alle pendici del monte San Vicino troviamo, agli esordi della vita francescana, una serie di comunità che ci testimoniano della presenza dei tre ordini di vita al seguito del Poverello. È evidente che, se nel 1256 le pie donne lasciarono il luogo che una volta era stato dei Frati minori, si può facilmente arguire che la loro presenza in questa sede risalga ai primi tempi della fondazione dell’Ordine. 40

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L’eremo di San Francesco di Acquaviva viene ancora oggi identificato con San Claudio di Acquaviva, nella zona vicino all’attuale borgo di Braccano, alle pendici del monte San Vicino che volge verso Matelica, assai vicino ad un altro luogo che poi, una cinquantina d’anni dopo il 1256, fu abitato dai frati francescani Clareni, ossia San Giovanni di Foro, oggi meglio conosciuto come San Giovannino de Fora, ovvero “di fuori”, per distinguerlo ovviamente da un San Giovanni dentro le mura cittadine.18 Questo versante della valle dell’Esino alle pendici del monte San Vicino è, in effetti, un sito di insediamenti monastico-religiosi di notevole importanza nella storia e nello sviluppo della vita religiosa non solo della città di Matelica, ma particolarmente del mondo benedettino e francescano della regione, al punto tale che lo storico francescano padre Giacinto Pagnani l’ha definito «una vera tebaide nel cuore delle Marche».19 Più in alto dei due siti francescani delle origini si trova, infatti, la famosa abbazia di Santa Maria de Rotis, oggi purtroppo in rovina e quasi completamente diroccata, che evidentemente presiedeva a tutti questi luoghi di vita religiosa della zona, insieme agli altri tre monasteri che circondano il monte San Vicino: San Salvatore di Val di Castro, Santissima Trinità e Santa Maria di Valfocina. Aveva avuto origine nel secolo VIII, ebbe un notevole sviluppo a partire dal XII secolo. All’inizio del XIII secolo comprende otto monaci, tra cui l’abate, un prevosto, un priore ed un converso.20 Le vecchie abbazie benedettine furono i primi luoghi di riferimento di san Francesco e dei suoi figli spirituali: i monaci diedero ben volentieri ai nuovi frati mendicanti molti dei luoghi di vita spirituale che altrimenti avrebbe subito abbandono e declino. Così, dopo l’eremo di San Claudio di Acquaviva, i frati francescani continuarono ad occupare in questo versante del monte San Vicino altri luoghi. San Giovanni de Fora fu abitato dai frati Clareni “ortodossi” o della “povera vita”, approvati dalla Chiesa e integrati nel grande Ordine francescano. Nel 1500, al tempo del papa Pio V si unirono al ramo dei Frati minori osservanti, che continuarono ad abitare nel conventino di campagna, uniti a quello di San Francesco della città, fino al 1810 prima e poi fino al 1861, quando dovettero subire dapprima la soppressione napoleonica e successivamente quella italiana.21 Il conventino è ancora in parte visibile, grazie al fatto che rimangono la chiesetta e il chiostro, con varie lunette affrescate con episodi della vita di san Giacomo della Marca. Certo, essendo adibito a civile abitazione, ha perso ormai la sua originaria destinazione d’uso, ma voglia Iddio che non

4. L’interno della chiesa di Santa Maria Maddalena o della Beata Mattia, Matelica. 41

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cada in rovina essendo testimone di una antica, gloriosa, umile e discreta presenza di frati che hanno cercato e trovato il tesoro della gioia e della pace nella preghiera e nel silenzio. San Giacomo di Braccano si trova più vicino degli altri al castello di Braccano, fu abitato dai frati Clareni, poi Osservanti. Nel 1454 vi si ritirò per condurre vita regolare francescana uno dei rampolli della nobile e potente famiglia matelicese degli Ottoni, Federico di Francesco, vi dettò il suo testamento e vi chiuse i suoi giorni. Nel 1525 vi dimorava frate Francesco da Cartoceto, che accolse nell’eremo frate Matteo da Bascio, iniziatore e promotore del nuovo Ordine dei frati cappuccini. L’eremo passò di fatto ai Cappuccini, i quali vi risedettero fino al 1578, quando si trasferirono più vicini alla città, nel convento nelle adiacenze alla stazione ferroviaria. Oggi, purtroppo, il luogo, da tempo trasformato in casa colonica, è quasi completamente distrutto. Anticamente esisteva in questa zona così ricca di vestigia sacre anche un terzo convento di frati di origine francescana, quello di San Lorenzo di Afrana, nella zona di Campamante di fuori, dove i frati erano dapprima sotto la regola del III Ordine di obbedienza vescovile, poi sotto la regole del I Ordine di obbedienza vicariale, e vi rimasero almeno fino al 1568.22 Fu abitato nel Trecento dai Fraticelli, un gruppo di frati che pur facendo riferimento alla Regola e allo stile di vita francescana, si erano però a poco a poco e in varie maniere resi autonomi. Ma, più in alto ancora, si trova la famosa Grotta di San Francesco al monte San Vicino. Questa grotta, vicina ad altre dette popolarmente “dei frati”, aveva anticamente a che fare con un insediamento eremitico, probabilmente dipendente da una delle antiche abbazie benedettine; i frati l’abitarono nel corso del Trecento e l’abbandonarono sicuramente nel 1434. Il capitolo XLII del libro dei Fioretti parla del beato Bentivoglio da San Severino che, assistendo un lebbroso nel convento di Pontelatrave, nel versante del fiume Chienti sotto Camerino, fu mandato dal provinciale di convento in quello del San Vicino e, per non lasciare solo il povero lebbroso, lo caricò sulle spalle e lo portò con sé nel nuovo luogo di destinazione, e percorse tutta la strada quasi volando, anzi «se egli fosse stato aquila non avrebbe potuto in così poco tempo volare» e coprire tutto il percorso. Sta di fatto che questa zona del monte San Vicino ha avuto questa grande fioritura di luoghi francescani, che hanno dato origine, poi, a quelli più ufficiali della città. Dalle pendici del monte San Vicino, i Francescani si trasferirono in città, fenomeno conosciuto di inurbamento, di avvicinamento alla gente e alla vita della gente. I frati che abitavano il conventino, o meglio l’eremo di San Francesco di Acquaviva, probabilmente negli anni trenta e quaranta del Duecento, come facevano anche altrove, lasciarono, almeno in parte, i luoghi antichi per trasferirsi accanto a quella gente che volevano profondamente evangelizzare, curare spiritualmente ed edificare con il loro stile di vita povero e fraterno. Scendendo in città, i frati si collocarono sul versante che dava direttamente verso gli antichi insediamenti, come a voler serbare una specie di legame storico e spirituale, anche perché gli stessi monaci dell’abbazia di Roti verosimilmente donarono loro quella prima dimora dentro le mura della città. Ciò è testimoniato da una tabella scolpita e collocata accanto alla porta di ingresso della chiesa, con l’immagine di un sacerdote o abate e i caratteri “S[ignum] Domini Lapi”, ossia l’abate di quel monastero di San Maria de Rotis che continuò a tenersi legato all’evoluzione e allo sviluppo di quei frati che avevano iniziato la loro primitiva presenza a Matelica alle pendici del monte San Vicino accanto al monastero benedettino. Lo storico Giovanni Battista Razzanti racconta di aver trovato una dissertazione nella quale si trova «che esso Convento fosse fondato dentro Matelica in tempo del Padre Pietro [da Vercelli] … che fu eletto Provinciale della Marca nel 1234».23 Appena dentro le mura, i frati costruirono la chiesa e il conventino, che ampliarono a poco a poco, secondo le esigenze di coloro che frequentavano il loro luogo di preghiera e di vita. I frati che avevano scelto di scendere in città e di stare più vicini alla gente furono chiamati “della comunità” e successivamente Conventuali. La loro chiesa divenne un punto di riferimento per gli abitanti di Matelica e la più frequentata, luogo di sepoltura per molti di loro, ospite di cappelle delle famiglie più notabili della città, edificio in cui «si rogavano atti notarili e si tenevano le adunanze delle corporazioni».24 42

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Fu resa sempre più bella, fino a diventare una vera e propria pinacoteca, uno scrigno di opere d’arte di eccezionale valore. Ne abbiamo preziose testimonianze ancora oggi totalmente o in parte visibili e tangibili. Della chiesa duecentesca primitiva rimane il portale romanico in marmo di Verona; nelle pareti dell’abside si conserva un ciclo di affreschi del Trecento, per la maggior parte nascosto sotto l’intonaco, attribuito ad Allegretto Nuzi, di cui emerge attualmente solo un intenso e raccolto volto di san Francesco che dona il mantello al povero e il Sogno di Innocenzo III, definito «il più antico ciclo agiografico francescano affrescato noto nelle Marche».25 È possibile solo immaginare, quindi, la bellezza di tutta la chiesa gotica trecentesca, interamente affrescata, come tante altre chiese contemporanee locali, dello steso stile e dello stesso Ordine. Del XV secolo abbiamo, nella cappella degli Ottoni, un trittico oggi individuato tra le prime opere dell’artista matelicese Luca di Paolo, con al centro la Madonna col Bambino, al suo lato sinistro San Bernardino da Siena, predicatore a Matelica il 12 settembre 1438 e al lato destro San Francesco. Quest’opera era probabilmente legata ad una grande pala vista dallo storico Sennen Bigiaretti all’inizio del Novecento.26 Nella stessa cappella si trovava uno dei capolavori di Carlo Crivelli, ossia la famosa Madonna della Rondine, tra i santi Girolamo e Michele, realizzata tra il 1491 e il 1494, su commissione dell’ammirabile frate Giorgio di Giacomo da Matelica, guardiano per cinquanta anni del convento matelicese e committente delle varie opere d’arte della chiesa: l’opera del Crivelli fu venduta, purtroppo, nel 1862 da un tale Luigi De Santis, che se ne riteneva autorizzato e proprietario, alla National Gallery di Londra, in cui si conserva ancora oggi. Del Cinquecento sono la maggior parte delle opere: una tavola del 1502, originariamente fatta per l’altare maggiore, di Marco Palmezzano, discepolo di Melozzo da Forlì (si firma, infatti come “Marchus de Melotius forolivensis faciebat al tempo de frate Zorzo guardianus”) che rappresenta la Madonna in trono col Bambino, con ai fianchi san Francesco e santa Caterina d’Alessandria, vari santi nei pilastrini laterali e nella base, la lunetta superiore rappresentante la Pietà, la Maddalena, san Giovanni e san Ludovico di Tolosa. Del XVI secolo sono pure alcune opere del pittore di Arcevia Ercole Ramazzani: sono da ricordare due tele, l’Immacolata concezione della Vergine, del 1573, nel contesto della Genesi, con l’albero del Bene e del Male, e l’altra, del 1574, l’Ascensione del Signore, con la Madonna e gli apostoli. Furono commissionate da donna Nicola, vedova del nobile Paolo Baglioni da Gualdo, che aveva fatto decorare la cappella. Del Ramazzani abbiamo anche una tela, del 1568, tra le sue opere più conosciute, per l’altare del suffragio, opera commissionata da Cesàrea Varano, moglie vedova di Anton Maria Ottoni, illustre famiglia di Matelica: si tratta della Liberazione delle anime dal Purgatorio, con i santi Gregorio Magno papa, il suo diacono san Pietro, san Francesco d’Assisi e santa Margherita da Cortona, più comunemente individuata come santa Camilla Battista da Varano, prozia di Cesàrea, con tratti molto diversi dall’iconografia tradizionale. Del pittore perugino Eusebio da San Giorgio, che si firma “Eusebius de schola Georgio Perusinus”, discepolo del Perugino e compagno di Raffaello, è presente fin dal 1512 una tavola, commissionata da Dionisio Periberti, raffigurante la Madonna col Bambino, con ai lati san Giovanni Evangelista e sant’Antonio di Padova a sinistra e con sant’Andrea Apostolo e san Nicola da Tolentino, a destra. Due altre grandi pale di altare sono opera dei maestri di Caldarola, Simone e Giovanni Francesco De Magistris, l’Adorazione dei magi (1566) e il Martirio di santo Stefano del 1569: sono due opere di notevole bellezza e ricchezza di particolari ed espressività, colori e scenografie. Di un altro artista originario di Caldarola, Durante Nobili, è la Crocifissione, del 1569. In un listello della pala è scritto: hoc pietrus simon curavit pingere arpae ex testamento fabrianensis opus con la firma del pittore de nobilibus a caldarola a.d. mdlxviiii durans pingebat. Il committente della pala risulta tal Pier Simone dell’Arpa, un calzolaio, originario di Fabriano, con bottega nei pressi della chiesa di Santa Maria, il quale in un testamento fatto il 17 ottobre 1567 dispone che «100 fiorini siano dati dal suo erede ai frati di S. Francesco di Matelica perché costruiscano un altare vicino a quello di Federico Rossetti e facciano dipingere per esso una tabula che dovrà comprendere le figure della Madonna e dei Santi Antonio da Padova e Nicola da Tolentino».27 43

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In un’altra cappella si trova, invece, la grandiosa tela della Madonna col Bambino e santi Giovanni Battista, Pietro, Paolo, Giuseppe e Diego, attribuita al pesarese Simone Cantarini. Dello stesso periodo, o giù di lì, sono le Stimmate di san Francesco di Lodovico Cardi, detto il Cigoli e il Gonfalone della Santissima Trinità (1634), dell’omonima confraternita. Una chiesa, dunque, tra le più ricche del grande patrimonio francescano della regione: tre secoli di particolare bellezza, con committenza da parte dei Conventuali, prima, e degli Osservanti, poi. Nel 1518, l’anno successivo alla divisione ufficiale tra i due rami dell’Ordine francescano, il convento passò, non senza tensioni e problemi, data la sua importanza storica e la sua ricchezza di beni artistici e di tradizioni spirituali, alla famiglia degli Osservanti, che avevano già rianimato il luogo antico di San Giovannino de Fora, e che ora si proponevano, sulla scia di san Bernardino da Siena e san Giacomo della Marca, di rievangelizzare l’Italia e l’Europa, cadute sotto una crisi di fede e di morale di immensa vastità e proporzione, con il sopraggiungere anche della divisione protestante. Il convento di San Francesco, così glorioso e così monumentale, in cui si conservano anche un Oratorio della passione, opera dei De Magistris e di Nobili del 156928 e un ciclo di lunette del chiostro del pittore Francesco Rossi da Orciano del 1690,29 assai mal ridotti per l’umidità, ha subito, purtroppo i danni del tempo e dell’abbandono; la chiesa necessita di lavori di restauro e di salvaguardia, data la sua particolare e singolare bellezza. Entrambi, nonostante la perdita dell’opera del Crivelli, sono ancora una preziosa reliquia di una grande storia, bisognosi di essere rivitalizzati certo, ma nello stesso tempo ancora custodi di un immenso amore che ha attraversato i secoli. La ricchezza delle presenze francescane in questa città è attestata e confermata dalle grandi figure di santi che sono usciti da questa terra, in modo particolare, alla fine del Duecento e agli inizi del Trecento: il beato Gentile, morto martire in Armenia nel 1340, e la beata Mattia, a cui la sua città è profondamente legata. Quest’ultima nacque nella prima metà del XIII secolo, da una famiglia ricca e nobile. Nonostante le resistenze di suo padre Guarniero, Mattia volle consacrarsi al Signore. Entrata in monastero, emise la professione nel 1271 e ne divenne presto abbadessa, conservando questo ufficio per tutta la vita. Pochi giorni dopo la morte, avvenuta il 28 dicembre 1320, il popolo di Matelica la volle onorare della sua venerazione, ponendola nella stessa chiesa, accanto all’altare maggiore. Nel 1765 il papa Clemente XIII ne confermò solennemente il culto. Per quanto riguarda il monastero delle Clarisse, è difficile ricostruire con dati storicamente certi la sua origine. Sappiamo che delle donne penitenti abitavano originariamente il monastero di Santa Maria degli Angeli, adiacente al Palazzo degli Ottoni. Nel 1230 il vescovo di Camerino emise una bolla, con cui concedeva un’indulgenza a quei fedeli che avessero contribuito con le loro offerte alla costruzione del monastero. Nel 1268 era stato costruito il monastero di Sant’Agata vicino a quello di Santa Maria Maddalena. Essendo le monache in numero esiguo e prive di mezzi furono unite a quello più grande e significativo di Santa Maria Maddalena nel 1286 (fig. 4).30 Nel 1520 le figlie di santa Chiara di Santa Maria degli Angeli furono trasferite in quello di Santa Maria Maddalena, che era stato alle origini monastero di donne penitenti sotto la Regola di san Benedetto.31 Nel 1755 la chiesa di Santa Maria Maddalena fu ammodernata fino a raggiungere le fattezze attuali. Molte le opere d’arte presenti nel monastero: tra cui una croce dipinta del XII secolo, due pale, una Madonna col Bambino del XIII secolo e una Madonna col Bambino nella culla del XV secolo del Maestro di Staffolo, e una Annunciazione con santa Maria Maddalena e la beata Mattia su tela attribuita a Lorenzo di Giovanni de Carris da Matelica, detto Giuda.32 La presenza a Matelica dei Cappuccini risale ai primissimi anni della loro storia. Infatti dapprima, grazie a padre Francesco da Cartoceto, a cui si unì padre Matteo da Bascio, essi trovarono il primitivo asilo nell’eremo di San Giacomo di Braccano (1525): i frati lo abbandonarono nel 1550. Richiesti della loro presenza in città, nel 1578 fu iniziata la costruzione di un vero e proprio convento, nella collina retrostante alla attuale stazione ferroviaria, denominata allora proprio il colle dei Cappuccini. La chiesa fu dedicata alla Santissima Trinità. I frati vi rimasero fino al 1866, quando forzatamente lo dovettero lasciare. Il convento venne giuridicamente chiuso nel 1874. Divenne col tempo casa colonica mentre la chiesa fienile. Ancora oggi, però, rimangono 44

Itinerari francescani nel territorio fabrianese

il chiostro e le arcate d’ingresso con strutture di chiara derivazione conventuale.33 La chiesa ed il convento non sono più adibiti a culto e le opere d’arte sono tutte state trasferite altrove.34 Concludiamo l’itinerario di san Francesco nella terra di Fabriano e dintorni con la visita e presentazione della presenza francescana nella città di Sassoferrato. Questo antico castello, situato a poca distanza dalla città romana di Sentinum, fu famoso per la battaglia del 295 a.C., dei Romani contro i Galli, gli Umbri e i Sanniti, che la assoggettò al potere di Roma. La prima memoria che lega la città alla vita di san Francesco è un giovane soldato che aiutò Assisi nella famosa battaglia del 1200 contro i perugini per respingere il ritorno dei nobili nella città, dopo che ne erano stati cacciati nel 1198, quando Francesco aveva solo diciotto anni. Tra quei compagni troviamo un tale «Ugo di Sassoferrato».35 Quanto al passaggio di san Francesco in questo luogo non abbiamo notizie storiche certe, anche se padre Candido Mariotti nella sua opera sull’Ordine minoritico nelle Marche36 vorrebbe darne qualche fondamento: abbiamo, però, una delle testimonianze più eclatanti e attendibili della vivacità di un germoglio e dello sviluppo di una radice, ossia due figure di santi frati che hanno segnato in maniera indelebile le origini della storia francescana di questa sede. Il primo è san Nicolò o Nicola, uno dei sette martiri di Ceuta in Marocco, altrimenti considerati in toto calabresi, che subirono il martirio il 13 ottobre 1221, ancora vivente san Francesco; il secondo è il beato Pietro che, insieme al beato Giovanni da Perugia, conseguì la vittoria del martirio a Valenza, in Spagna, allora sotto il potere dei Mori, il 20 agosto 1231. Di questi due santi locali rimane la memoria in una chiesetta, nel luogo in cui si dice che siano nati, recentemente restaurata, in zona Case Caggioni, vicino a Cabernardi. Il primo insediamento francescano a Sassoferrato, dunque, è quello dell’antica chiesa di San Marco, assegnata ai frati prima del 1248.37 In seguito la chiesa verrà ingrandita e consacrata a san Francesco (fig. 5). Essa ebbe varie indulgenze e donazioni, ma perdette la presenza dei frati nel 1653 a seguito della soppressione decretata dal papa Innocenzo X, che volle la chiusura di quei conventi non sufficientemente autonomi nelle rendite e nel numero dei religiosi. Fu una triste storia che non permetteva ad un luogo così significativo e ad una chiesa così ricca di opere d’arte, come vedremo, di sopravvivere alle vicende dei tempi. Vi subentrarono quattro sacerdoti e il convento fu poi trasformato in calzaturificio, oggi in ricovero per anziani. La chiesa si presenta ancora oggi nella sua tipica, semplice e lineare struttura francescana trecentesca, con la facciata a capanna, il portale gotico, l’abside quadrata e l’aula interna a una sola navata.

5. L’interno della chiesa di San Francesco a Sassoferrato. 45

ferdinando campana

Quanto alle opere d’arte presenti nella chiesa e nel convento sono da ricordare: la bella Croce dipinta attribuita dal Boskovits a Giovanni da Rimini e da altri al fratello Giuliano (siamo negli anni venti del Trecento). Si possono inoltre ammirare due frammenti di affreschi di scuola fabrianese del XIV secolo; un’opera d’olio su tela del pittore arceviese Ercole Ramazzani, Allegoria del cordone di san Francesco, del 1589; una pala di altare, dipinta ad olio, la Circoncisione di Gesù, di Giovan Francesco Guerrieri di Fossombrone, del 1615; una pala d’altare dell’Immacolata Concezione, attribuita a Pietro Paolo Agapiti di Sassoferrato, del 1514 circa; un monumento sepolcrale del XIV secolo, del beato Alessandro Vincioli, frate minore e vescovo di Nocera Umbra, morto a Sassoferrato nel 1363. Nel chiostro si notano le due finestre e la porta tipiche della sala capitolare e le lunette sono dei pittori Tarquinio e Francesco Salvi, della fine del Cinquecento. Accanto a questo primo convento francescano si insediarono a Sassoferrato le figlie di san Francesco e di santa Chiara, ovvero le Sorelle Povere o Clarisse (fig. 6).38 L’origine del monastero si fa risalire da alcune cronache settecentesche ad una cugina di santa Chiara originaria di Genga, che si ritirò a Sassoferrato per condurre vita di penitenza in un povero tugurio. Ben presto, edificate dal suo comportamento, alcune giovani si unirono a lei e fu loro affidata la chiesa dei Santi Nicolò e Agnese (XIV secolo). Cresciuto ancor più il numero delle monache, nel secolo XV si ebbe la necessità di costruire la chiesa e il monastero nelle adiacenze dell’antica chiesetta. Pur avendo sperimentato le soppressioni napoleonica e dell’Unità d’Italia, le antiche custodi di questo luogo di preghiera e di virtù riuscirono a mantenere la loro presenza e la sua custodia. La Madonna delle Grazie, conservata nell’omonima chiesetta adiacente a quella maggiore, è un’antica icona, che suscita grande devozione. Varie opere d’arte e di grande valore si conservano nella chiesa e nel monastero, recentemente assai ben restaurato dopo i danni del terremoto. Nella parete sinistra della chiesa si trovano due affreschi di Antonio da Pesaro, uno con la Natività ed un altro, distaccato, raffigurante l’Annunciazione. Tre opere di pregevole fattura del famoso artista Giovan Battista Salvi, detto il Sassoferrato, sono conservate e custodite all’interno del monastero: la Vergine orante (fig. 7), la Vergine addolorata e l’Annunciazione. Nell’altare maggiore una grande tela di Santa Chiara di Ugolini da Perugia. Nell’altare di sinistra un’Annunciazione di autore ignoto, del secolo XVII; ugualmente di autore ignoto, nell’altare di destra San Giacomo della Marca, santa Francesca Romana e santo Stefano; infine, in sagrestia, una tela con la Deposizione di Ezio Bartocci. Alla fine del Quattrocento vennero a stabilirsi in questo castello i Frati minori osservanti. Iniziarono dapprima col fondare nel paese il Monte di Pietà nel 1472, grazie alla predicazione di padre Giovanni da Fermo. La richiesta al provinciale fu fatta nel 1497 e nel 1499 si decise di edificarlo presso la cappella di Santa Maria della Pietà, nella zona di una collina vicina e prospiciente al castello, verso il borgo. La chiesa edificata a nuovo fu portata a termine e dedicata alla Madonna della Pace nel 1513, grazie al contributo di vari benefattori, tra cui spiccano le sorelle Cherubina e Alberica Adriani, e con l’approvazione di papa Giulio II, che con un breve autorizzava la costruzione del tempio. Contemporaneamente veniva edificato il convento, abitato dai frati a partire dal 1518. Nei secoli successivi i frati ampliarono il convento e abbellirono la chiesa. Anche questo sito conserva preziose opere d’arte sia del passato che dei nostri giorni: una tela del Ramazzani con la Madonna col Bambino e i santi Giuseppe, Francesco, Bernardino e Bonaventura; tre opere di artisti viventi o contemporanei: una tela di Bruno di Arcevia con la Madonna, san Giacomo della Marca e san Pacifico, san Nicolò e il beato Pietro da Sassoferrato; una pala di altare di S. Francesco di Alessandro Bruschetti e, dello stesso autore, una grande opera del Giudizio universale in astratto nella cappella interna del convento. Nel chiostro trecentesco si conservano sedici lunette affrescate di Tarquinio Salvi, padre e maestro di Gian Battista. Negli anni sessanta fu costruito il nuovo convento e seminario, demolendo in parte il vecchio. Nel 1500 arrivarono i Cappuccini.39 La costruzione della chiesa, dedicata a san Paolo apostolo, fu iniziata nel 1577. Il convento succedette di seguito. Dopo la soppressione del 1867 i frati dovettero dapprima limitare la loro presenza e attività; nel 1875 vi fu costruito il cimitero; nel 1884 46

6. Il monastero di Santa Chiara a Sassoferrato.

Itinerari francescani nel territorio fabrianese

forzatamente lo abbandonarono. Tra il 1950 e il 1960 tutto fu demolito per lo stato deplorevole in cui era ridotto. Oggi non rimane più nulla, solo la strada di accesso, via dei Cappuccini, che ne ricorda la storia e ne tramanda la memoria. Presenze francescane si possono ritrovare sia a Cupramontana, nell’antico convento di San Giacomo de La Romita, dove riposa il beato Giovanni Righi da Fabriano (1539) e nella chiesa del quale è conservata una terracotta invetriata della Madonna col Bambino attribuita a Pier Paolo Agapiti da Sassoferrato; sia in Apiro, con la chiesa di San Francesco del XIII secolo e il monastero delle Clarisse del 1500; sia a Genga, con il toponimo della grotta e del torrente San Francesco;40 sia a Cerreto d’Esi, con la memoria di un antico convento dei frati cappuccini. Ogni città o paese è contrassegnato da presenze altamente significative, da opere d’arte pregevoli, da espressioni ricche di vitalità e di carità: un patrimonio tanto prezioso che le vicende dei tempi hanno a volte cercato di seppellire e disperdere, ma che rimane, per chi sa guardare e capire, la traccia di un profondo legame tra Francesco d’Assisi ed il territorio fabrianese.

1 Cfr. Fortini 1926, p. 73; Pagnani 1962, p. 18. 2 Cit. in Pagnani, Frammenti 1959, p. 167; cfr. Marcelli 2010. 3 Cit. in Pagnani 1962, pp. 19-20; per uno studio recente del documento si veda Pirani 2003, pp. 131-133. 4 Fonti francescane 1990, p. 1091. 5 Pagnani 1962, p. 24; Pagnani, Frammenti 1959, p. 166: «Anno Domini mcclxviii quando ego eram novitius, obiit frater Raynerius qui fuit plebanus plebis Civitae, cui Sanctus Franciscus fuit pluries confessus qundo erat plebanus, et praedixit sibi in spiritu Dei dicens: “tu eris ex nostris”». 6 Oltre agli studi già citati ma datati sugli insediamenti francescani a Fabriano, recentemente vi si è dedicato Luca Marcelli con la tesi di laurea e poi Gli insediamenti 2005 e 2008. 7 Cfr. Pagnani, Assisi 1982, pp. 14-15. 8 Wadding, Annales Minorum, ed. 1931, p. 257: «Audiens autem Vir sanctus, quarto ab illo loco milliario ad Appenini montis radices in valle Saxi, inter altos colles remotus a turbis et asperum fuisse locum, inibique Ecclesiam Beatae Mariae consecratam, contiguumque Monasterium derelictum a Sanctimonialibus sancti Benedicti, quae, ingravescente bello, jam aliquot ante annis Fabrianum se receperunt; ob summam erga sacratissimam Virginem devotionem, incredibilemque solitudinis affectum, voluit illuc ire, ut si videretur idoneus ad habitandum locus, cum suis Fratribus obtineret, tum ut non esset Beatae Virginis aedes absque cultu, tum ut in pio et solitario loco commodius Religiosi coelestibus intenderet meditationibus»; cfr. Sassi, Per una tradizione 1928, p. 5. 9 Wadding, Annales Minorum, ed. 1931, p. 257: «Dum autem se se conferret cum Socio absque alio ductore, atque in itinere oberrarent, petiit a quodam agricolam, agellum arante, ut eos comitaretur, et eo usque vellet perducere. Ille autem indignabundus: Quid, inquit, ego aratrum propter vos deseram, tempusque agri culturae statutum vestro teram in obsequio? At sanctus Pater blando et pio sermone hominem flexit, certo certius ei promittens nihil temporis inaniter elapsurum, neque ipsum quidquam dispendii in agri culturae intermissione passurum. Ducens ergo pios exploratores ad locum, acceptaque benedictione rediens ad campum, quem incultum discedens reliquit, aratum jam totum invenit». 10 Pergamena dell’archivio capitolare di San Venanzio di Fabriano, citata in Sassi, Per una tradizione 1928, p. 5, nota 2. 11 Wadding, Annales Minorum, ed. 1931, p. 257: «Mansit autem sanctus Pater in praefato loco, summe sibi grata, per aliquot dies, ex sparsis per montes aedibus victum conquirens, exploransque loca vicina, ex quibus commodius Fratres locum inhabitaturi necessaria alimenta possent accipere. Tandem omnibus prudenter dispositis, et

obtento Monasterio a nobili saxorum Familia, coli curavit per transmissos illic sui Instituti viros religiosos, vocarique voluit Eremitorium sanctae Mariae de Valle Saxea; vel ut habet Gonzaga a saxorum moltitudine montis vicini; vel a vallis et regionis Domini supra nominatis Saxorum progenie ita nuncupata». 12 Cfr. Gentile da Fabriano 1993; De Marchi 1992. 13 Cfr. Talamonti 1937-1962, III (1941), p. 113. 14 Cfr. Lupi 2007, I, pp. 1064-1066. 15 Il testo della pergamena è pubblicato in Pagnani, Luoghi francescani 1982, pp. 167-168. 16 Cfr. Mariotti 1909, p. 10. 17 Pagnani, Luoghi francescani 1982, p. 168. 18 Si veda Bricchi 1986, p. 178, nota 10. 19 Pagnani, Luoghi francescani 1982, p. 162. 20 Cfr. Antonelli 1990. 21 Sancricca 2009, pp. 259, 293-294. 22 Ibid. 23 Bricchi 1986, p. 180. 24 Bartolini Salimbeni 2008, p. 380. 25 Paraventi 2008, p. 305. 26 Cfr. Bufali 2009, p. 692; si veda anche Sabattini 1979. 27 Si veda Antonelli 2010, con bibliografia precedente. Nella predella vengono rappresentate la Deposizione al centro, la Discesa agli inferi a destra e la Risurrezione a sinistra. Infine, a destra e sinistra della predella si trovano due personaggi non facilmente identificabili. 28 Sabattini 1969; Oratorio della Passio Christi 1999. 29 Sabattini 1979; Gli affreschi del chiostro 2000. 30 Cfr. Bricchi 1986, p. 28. 31 Cfr. Sensi 2010, I, part. pp. 471-474; Bartolacci 2012, part. pp. 136-138. 32 A. Delpriori, in I pittori del Rinascimento 2006, p. 108; Castellana 2010. 33 Cfr. Lupi 2007, I, pp. 1086-1087. 34 Un elenco lo si può trovare in Matelica segreta 2007, pp. 76-78. 35 Cfr. Fortini 1926, p. 73; Pagnani 1962, p. 18. 36 Mariotti 1903, pp. 19-21. 37 Secondo quanto ci dice il Wadding, Annales Minorum, ed. 1931, p. 274. 38 Si veda Diotallevi 1953. 39 Lupi 2007, I, pp. 1136-1137. 40 Cfr. S. Francesco in Diocesi 2010, pp. 100-101. 47

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UNA LUNGA STORIA DI PITTURA MEDIEVALE SCRITTA NELL’APPENNINO TRA UMBRIA E MARCHE

Una lunga storia di pittura medievale scritta nell’Appennino tra Umbria e Marche giampiero donnini, vittorio sgarbi

1. Rinaldo di Ranuccio, Croce dipinta (cat. 5; particolare). Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”.

Favorita dalla sua stessa posizione a ridosso dell’Umbria, posta su una delle vie di comunicazione e di fede più battute tra Roma e l’Adriatico, a poche ore di cammino da Assisi, Fabriano schiuse precocemente le sue porte al pregnante messaggio figurativo che, sin dalla seconda metà del Duecento, prese a irradiarsi dalle impareggiabili navate della Basilica francescana. Non è pertanto frutto di casualità che le prime testimonianze artistiche esistenti nel territorio risultino legate alla cultura formale dell’attigua regione. È da tenere nel debito conto, inoltre, che gran parte dell’area fabrianese apparteneva a quel tempo alla diocesi di Nocera Umbra e che pertanto deve essere considerata essa stessa Umbria a tutti gli effetti in virtù della stretta dipendenza con l’area di influenza longobarda, che vedeva in Spoleto la splendida capitale del Ducato. Gran parte dei primi prodotti artistici, risalenti alla seconda metà del Duecento, trova tutta una serie di dati positivi collegati all’Umbria. Aveva di sicuro varcato l’Appennino lo sconosciuto autore degli affreschi della Pinacoteca fabrianese, databili ai decenni finali del secolo, distaccati dall’ex-convento di Santa Maria Nova, in seguito dedicato a sant’Agostino (cat. 2-4).1 Le espressioni dei personaggi cedono alla mimica melodrammatica degli umbri e riportano alla mente la schiera degli artisti ruotanti attorno al perno espressivo del Maestro di San Francesco. Alla tematica di tale corrente si accostano non solo le partiture anatomiche ma anche episodi di contorno, che vanno dalla sintesi delle architetture al sentimento ornativo, da alcuni stilemi iconografici alla gamma cromatica di tono sobrio e accurato. Un più nobile ingegno ha dato forma alla bellissima Croce dipinta della Pinacoteca di Camerino (cat. 6), fino agli anni trenta del secolo scorso nella collezione del conte Fornari a Fabriano. A lungo oscillante tra alcune personalità umbre attive nell’orbita di Giunta Pisano, di recente l’autore è stato indicato nel Maestro dei crocifissi francescani e la sua provenienza dalla demolita chiesa di San Francesco, uno dei più importanti templi medievali della città.2 Il soggetto sviluppa il tema del Christus patiens, dal capo reclinato sulla spalla, il volto segnato da profonde scanalature d’ombra, l’espressione intensamente umana e dolorosa. La grande falcatura del corpo è tagliata in due dal perizoma violaceo, solcato da una fitta raggiera di pieghe minute, di inimitabile finezza. È proprio questa perizia formale e tecnica a conferire alla Croce un grado di singolare qualità e a porre il suo artefice al livello dei più colti e raffinati specialisti del tempo. Un’altra sicura presenza umbra è quella di Rinaldo di Ranuccio da Spoleto, che firma la Croce dipinta esposta in Pinacoteca, proveniente dalla chiesa della Madonna del Buon Gesù (fig. 1). Sviluppatosi da quella vivace fucina di produzione artistica rappresentata dalla scuola spoletina del secondo Duecento, anche Rinaldo rimedita sulla lezione giuntesca toccando esiti di singolare fattura, ove la filtrata combinazione di elementi umbri e toscani sfocia in un gergo ricco di originali inflessioni.3 Di tutt’altra inclinazione formale risultano gli affreschi visibili sotto il Voltone del Palazzo del Podestà. In essi è svolto un tema di grande rarità a queste latitudini, imperniato sulla descrizione di vicende collegate al mondo feudale e cavalleresco. Fanti e cavalieri si fronteggiano, ma i loro duelli d’arme assumono il sapore di un torneo e rispondono a un’esigenza di rappresentazione più prossima alla tematica araldica che a una drammatica annotazione di costume. In ogni caso, il tutto rientra in uno schema fresco e vivace di decorazione civile, con la Ruota della Fortuna che, sulla destra, sembra dettare il corso delle umane vicende e il loro insondabile governo. Il che, a ben guardare, si impone quale affermazione di squisito sapore laico, di certo promossa dalla rinnovata coscienza dell’uomo e delle libertà comunali. 49

giampiero donnini, vittorio sgarbi

Il primo Trecento Allo scadere del XIII secolo in quel grande sacrario d’arte e di fede rappresentato dalla Basilica francescana di Assisi, Giotto dava un nuovo volto alla pittura italiana rimutandola «di greco in latino»4 e conferendo una nuova dignità all’uomo stesso. Il rigore severo del pensiero giottesco attrasse in breve dalle regioni vicine gli artisti più dotati e aperti allo spirito dei tempi. È probabile che il messaggio giottesco si diffuse al di qua dell’Appennino per via riflessa, portato da maestranze per lo più forestiere richiamate dal fervore che animava i molti cenobi che scandivano le vie della fede. A partire dai primi anni del Trecento dilagò a macchia d’olio la severa lucidità del pensiero giottesco, a dimostrazione che i più antichi maestri umbri, marchigiani e romagnoli furono pronti a inserirsi nel vivo di quella rivoluzione radicale della coscienza espressiva che Giotto aveva portato a maturazione nei cicli pittorici della Basilica di Assisi. Tutti questi artisti derivano dalle conquiste stilistiche della prima attività di Giotto un’impronta profonda, atta a stabilire tradizioni culturali nuove e poeticamente autonome nei confronti della grande matrice originaria. È un maestro stilisticamente collegato ad Assisi e ai suoi derivati riminesi quello che esegue la grande Maestà nella Badia di Sant’Emiliano, oggi nella Pinacoteca di Fabriano (cat. 13). Si tratta dell’esempio più alto e intrigante del primo Trecento locale, che per le sue peculiarità formali ha reclamato il battesimo in favore di una paternità ben definita, denominata Maestro di Sant’Emiliano.5 Nella luminosità e nel nitore architettonico della Basilica superiore di San Francesco l’anonimo artista dovette soppesare la magistrale scansione ritmica del grande Fiorentino, il rigore assoluto dei suoi pensieri, il suo innato sentimento spaziale. E quanto fosse egli vicino a questo aspetto del classicismo giottesco è provato dall’impianto a “spina di pesce” sul quale imposta l’intelaiatura della sua Maestà. Dove il soffuso gioco delle ombre e i plastici risvolti delle stoffe tradiscono il puro insegnamento di Assisi. E così dicasi delle bianche architetture, voltate e ornate con la raffinata sobrietà del gusto cosmatesco. In una fase più avanzata del Maestro si inserisce la decorazione delle cappelle trecentesche che sorgono ai lati del coro della chiesa di Sant’Agostino.6 Dall’analisi della vasta rassegna emerge l’avvicendarsi di almeno

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2. Maestro dell’Incoronazione di Urbino, Crocifissione. Boston, Mass., Museum of Fine Arts. 3. Maestro dell’Incoronazione di Urbino, Annuncio a Zaccaria. Rochester, NY, Memorial Art Gallery.

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tre mani su quelle pareti, pur se l’ideazione dell’intero complesso dovrebbe rientrare sotto l’egida di un’unica mente coordinatrice. Al diretto intervento del Maestro di Sant’Emiliano spettano le lucide, eleganti Storie della Maddalena, dove affiora il persistente ricordo di Assisi. Ad un più ampio gruppo di lavoro parrebbero spettare le Storie di sant’Agostino. Di gusto più corrivo e aneddotico, esse sono caratterizzate da una più accentuata tipizzazione dei tratti. Per una datazione indicativa del complesso parietale, parrebbero calzare gli anni fra il secondo e il terzo decennio del secolo. Di cultura più tarda, ma sempre scaturita dalla costola giottesca, si qualifica un altro anonimo autore, per il quale Mario Salmi propose il nome del Maestro dell’Incoronazione di Urbino. Di lui la chiesa di San Giovanni Battista conservava sino al secolo scorso un importante ciclo di affreschi illustranti episodi della Vita di san Giovanni Battista. Distaccati e dispersi sul mercato antiquario, tre dei soggetti del ciclo sono stati in seguito rintracciati da Zeri in istituti dall’eccentrica ubicazione: la Nascita del Battista nel Museo di Palazzo Venezia a Roma; la Crocifissione nel Museum of Fine Arts di Boston (fig. 2), l’Annuncio a Zaccaria nella Memorial Art Gallery dell’Università di Rochester, NY (fig. 3).7 In questi temi balza all’occhio la forte componente espressiva che sostiene la mano dell’artista, la vena apertamente umoresca che gli serpeggia nel sangue, la vivacità della linea che insegue la forma con eleganza e puntiglio. Nella Crocifissione prevale un senso allusivo della narrazione dal ritmo lento e pausato, che si vivacizza nel gruppo di Longino e dei manigoldi che si contendono la tunica di Cristo. L’atmosfera di calda e affettuosa umanità integra di feriali cadenze il rigore formale della lezione giottesca, il cui dettato si stempera sotto l’incalzare di un’espressività di maniera, dai toni sottilmente caricaturali. È questo, a nostro avviso, un prodotto che non oltrepassa il quarto-quinto decennio del Trecento e che ha avuto un ascendente notevole sulla formazione di Allegretto Nuzi, al tempo delle sue ricerche giovanili tra le mura di casa. Il Maestro di Campodonico Tra il quarto e il quinto decennio del XIV secolo, irrompe sulla ribalta artistica fabrianese un altro protagonista senza nome, il più grande di tutti, autore degli affreschi nella chiesa della Badia di San Biagio in Caprile, presso Campodonico, oggi esposti nella Galleria Nazionale di Urbino. Sul ruolo e sulla rilevanza storica di questo altissimo autore, convenzionalmente chiamato Maestro di Campodonico, è stato scritto molto, dopo che Federico Zeri ne aveva tracciato un fondamentale profilo.8 Da quella acuta analisi la figura artistica dell’anonimo artefice è venuta via via emergendo al di sopra delle personalità attive nelle Marche nei decenni centrali del Trecento. Anche l’interpretazione della sua sigla espressiva è giunta ormai a soddisfare i conoscitori, sempre ansiosi di scoprire riferimenti e intrecci di cultura ancora inavvertiti, specie tra le pieghe delle opere che nascondono, e forse in parte sempre nasconderanno, gli enigmi più oscuri. Non sappiamo se il poderoso artefice giunse a Campodonico in traccia di qualche Ordine monastico o se fu ingaggiato da un committente che già ne conosceva i meriti formali. Fatto sta che se le sue plastiche figurazioni dettero grande lustro alle pareti di San Biagio in Caprile, parte del merito va riconosciuto anche a chi quelle pareti gli mise a disposizione. Entra qui in gioco un altro personaggio di sicuro spessore, il cui nome ci era stato tramandato dal pittore stesso quando lo segnò sullo zoccolo della grande Crocifissione, avvolgendolo però nel mistero di una semplice, ermetica sigla: l’abate P. Accanto ad esso, la data 1345. Dunque in quell’anno, sotto il voltone a botte della chiesa dei Benedettini, si compie una congiunzione astrale di favore straordinario, che vede uniti il grande artista e il suo altrettanto grande committente. Se il primo rimane ancora anonimo, le puntigliose ricerche d’archivio di Stefano Felicetti hanno gettato sul secondo uno squarcio di luce rintracciandone il nome in un documento: Pietro di Bartolomeo da Serradica.9 L’abate P., appunto. Tornando al Maestro, la sua conoscenza è a tutt’oggi affidata, oltre che al ciclo eponimo (cat. 24, 25), ai due affreschi dell’oratorio di Santa Maria Maddalena a Fabriano (cat. 23-a) e a quelli di proprietà Serafini, già nella Badia di Santa Maria d’Appennino (cat. 26). In più ci sarebbe un dossale conservato nel Museo di La Valletta a Malta, riferitogli da Zeri, sul quale abbiamo già espresso tutte le nostre perplessità.10 Chi fu il Maestro di Campodonico? Un umbro o un mar51

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chigiano? Oppure un romagnolo che il tirocinio assisiate riuscì a plasmare così vigorosamente? La linea e la fisicità di impronta lorenzettiana che egli immette nel proprio testo fu l’esito di una contaminazione linguistica verificatasi in Umbria, oppure la naturale conseguenza delle sue origini toscane? L’ipotesi che meglio si attaglia, a nostro avviso, alla sua misteriosa persona è quella che vedrebbe in lui un umbro. Che egli fosse del resto un provinciale lo attestano gli sbandamenti linguistici leggibili nelle sue creazioni. La sua cultura, infatti, rappresenta uno stratificarsi e fondersi di impressioni figurative, dedotte talora da motivi antitetici, le quali, seppur ricondotte entro la sfera di un rigoroso denominatore stilistico, gli fanno associare con disinvoltura invenzioni brucianti a brani di mero repertorio. Il pathos sovraccarico degli umbri dovette sinceramente commuoverlo, ma dopo quelle basilari frequentazioni è nei Lorenzetti, in Pietro ma soprattutto in Ambrogio, che egli troverà la condizione per accordare con essi le proprie intuizioni plastiche e spaziali. Nella grande, devastata Crocifissione di San Biagio in Caprile (cat. 24) il Maestro dispone sulla scena le rare figure secondo un soppesato calcolo spaziale, quasi in ossequio ai luoghi deputati di una sacra rappresentazione. Per vigoria plastica e rigore figurativo attira l’attenzione il gruppo petroso delle pie donne, col volto della Vergine reso di sguancio con tale acutezza da far pensare a Berenson all’intervento di un fiorentino del Quattrocento. Sulle rocce schistose del Golgota si erge, immenso e imponente, Cristo crocifisso, dalla profilatura netta come metallo, stagliata sul fondo senza tempo del cielo. Il richiamo all’analogo tema che Giotto dipinse nella Basilica inferiore è immediato, ma è qui un ritmo e una calligrafia troppo goticamente affinati per poterlo considerare supino dipendente di quel grande modello. Più pertinente ci appare la relazione dell’artista con gli esponenti più evoluti della nuova generazione assisiate, ruotanti nell’orbita di Puccio Capanna. Gli affreschi di Santa Maria d’Appennino, di proprietà Serafini, parrebbero spettare a una fase ulteriore del Maestro. Databili dopo la metà del secolo, queste figure emanano un’arcana possanza sacramentale che le accosta allo spirito di un Maestro di Figline, ma è un tono irsuto e aggressivo suggellare la loro umanità schietta e primordiale. Risolti con forti aggetti plastici che esaltano le volumetrie dei piani, essi si impongono come espressione di una mente e di una personalità in cui l’alto voltaggio di forze psichiche sfocia nella stesura di un’idea profondamente mistica. Allegretto Nuzi Non possiamo certo affermare che il Maestro di Campodonico abbia avuto un ruolo primario sulla formazione e sul primo sviluppo della cultura artistica fabrianese. Troppo singolare appariva la sua identità linguistica e troppo arduo era seguirne l’indirizzo sul metro della sua vocazione espressionistica e delle acute intuizioni spaziali. Più costanti segni del suo influsso emergono semmai nella terra di Gubbio e di Cagli (fig. 4) al punto da far pensare ad una sua frequentazione di quei luoghi, dai quali oggi è scomparsa ogni traccia del suo passaggio. La posizione isolata del Maestro viene dal fatto che le prime testimonianze del giovane Allegretto Nuzi mostrano solo legami superficiali con la sua opera. Non a caso il caposcuola fabrianese è documentato nel 1346 a Firenze, proveniente de Senis. Come dipingesse Allegretto prima del suo apprendistato toscano non è dato sapere. Si sa però che dipingeva. Lo stesso abate Scevolini ricordava di lui due pale d’altare in San Domenico, firmate e rispettivamente datate 1345 e 1349, poste «dall’una e dall’altra banda della cappella maggiore».11 Cadendo a cavaliere della sua trasferta quelle pale d’altare ci avrebbero indicato con certezza la temperie stilistica e culturale del pittore “prima” e “dopo” Firenze. E fu una perdita grave, come si può capire, che la ricostruzione del suo pur cospicuo catalogo non è riuscita a risarcire. In base alla conoscenza del suo attuale catalogo, attorno alla metà del secolo ruotano alcune prove dove si conferma la posizione stilistica e poetica dell’artista, nella quale si persegue l’amalgama tra le preziosità cromatiche e la sintesi formale dei fiorentini e le tenuità sentimentali dei senesi. Dovrebbero cadere in quegli anni la bellissima Madonna col Bambino già Moretti,12 la Maestà del Petit Palais di Avignone, il trittichetto di Berna, il polittico della Johnson Collection di Filadelfia (fig. 5), riferito al Nuzi da Angelo Tartuferi.13 Nonché la Crocifissione affrescata in San Francesco di Rovereto (cat. 36), presso Saltara, e il polittico della Pinacoteca fabrianese (cat. 35), di ampio e spiegato respiro. In quest’ultimo affiora il preciso 52

4. Maestro di Montemartello, Santa martire (particolare). Montemartello (Cagli), santuario di Santa Maria delle Stelle.

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5. Allegretto Nuzi, Madonna col Bambino, santa Maria Maddalena, san Giacomo Maggiore, santo Stefano e un santo vescovo. Filadelfia, Pa., Philadelphia Museum of Art, John G. Johnson Collection.

ricordo di accenti senesi, alla Ambrogio Lorenzetti, che toccano l’apice nella bellissima, profana Maddalena, intrisa di toni caldi e smaltati sui quali l’autore ha disteso morbidi sfocamenti d’ombra e il canto cristallino di una trionfante umanità. Una figura, questa, che lo stesso Gentile dovette non poco ammirare. A tale produzione su tavola dovranno affiancarsi alcune prove ad affresco dove si palesano componenti culturali di timbro più strettamente locale, non spiegabili con il semplice schermo degli aiuti ma con il riaffiorare di una educazione più antica. Quando nel 1950 il Marabottini, riferendosi all’ambiente fabrianese, affermava che «inutilmente cercheremo in questa zona artistica le sorgenti di ispirazione per un pittore come Allegretto Nuzi», egli fondava il proprio assunto sulla situazione critica che a quel tempo definiva la temperie artistica locale.14 Oggi, grazie al lento ma inarrestabile progresso conoscitivo, siamo in grado di conferire al caposcuola fabrianese una più profonda connessione espressiva con le correnti di stile che il flusso costante di maestranze artistiche aveva diffuso nel territorio sin dall’avvio del Trecento, a conferma della vitalità di una cultura indigena preesistente al Nuzi stesso e sulla quale egli potrà accordare le proprie iniziali esercitazioni. È quanto emerge da alcune pitture condotte nella sala capitolare del convento di San Domenico. Nei temi che impegnano i due lunettoni ai lati della porta d’ingresso, specie in quello che propone il tema della Madonna col Bambino, l’intenso rapporto affettivo che unisce le due persone si allenta di colpo nella definizione grafica della veste di Maria, segnata da profonde e lunghe pieghe piramidali, sul tipo di quelle diffuse dal Maestro di Sant’Emiliano e dal Maestro dell’Incoronazione di Urbino nelle cappelle di Sant’Agostino. Nella Crocifissione che illustra la parete di fondo la disposizione scenica risponde a un preciso calcolo registico, per il quale Allegretto ha tenuto a mente l’equilibrio compositivo di San Biagio in Caprile. Sull’idea ispiratrice del Maestro di Campodonico si conforma anche il fervido espressionismo che segna i gesti e il cieco dolore della Vergine e dell’evangelista in primo piano. Ma è dal Maestro dell’Incoronazione di Urbino che si riflettono le forme del Cristo crocifisso che domina il soggetto, indagato sul volto, sul torso e nel perizoma con una finezza ed una intenzionalità descrittiva insolite nel pittore fabrianese.15 La prima data certa dello svolgimento del Nuzi è il 1354 segnato sia sullo zoccolo dell’edicola già in via San Filippo a Fabriano che nel trittico della National Gallery di Washington, dipinto per la locale chiesa di Sant’Antonio fuori Porta Pisana. Quest’ultima è un’opera condotta in collaborazione con Puccio di Simone. La presenza a Fabriano di questo autore fiorentino assume un rilievo essenziale per la delucidazione del primo tempo del nostro 53

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artista, il quale dovette entrare in diretto rapporto con lui nel corso della sua permanenza a Firenze. Nel trittico di Washington solo il pannello sinistro, raffigurante sant’Antonio Abate, spetta al Nuzi, mentre la tavola mediana con la Madonna in trono col Bambino e quella laterale destra con san Venanzio appartengono a Puccio di Simone, in un curioso ma non raro esempio di collaborazione e due mani. Nel Sant’Antonio Abate di Allegretto si rinvengono i segni della sua partecipazione all’ambiente toscano, senza riflessi evidenti della tradizione locale. E ciò forse in ossequio allo stesso Puccio di Simone e alla necessità di dover assumere nella sua immagine una posizione stilistica coerente con quelle che stava delineando il collega. La cui prolungata presenza a Fabriano è confermata dal totemico Sant’Antonio Abate tra devoti (cat. 33), datato 1353, visibile nella locale Pinacoteca Molajoli. Nell’affresco dell’edicola di via San Filippo, del solo Nuzi, si discopre una cifra linguistica da cui affiorano sia le esperienze fiorentine che il ricordo del Maestro di Campodonico. Ad un attento esame non sfuggirà il richiamo che già Alessandro Marabottini aveva individuato, relativo alla connessione di alcuni passaggi figurativi con l’opera del grande anonimo.16 È il caso della santa a destra del trono, che nel gesto e nel tipo fisico e fisionomico ricalca la figura del Longino che presenzia la Crocifissione di San Biagio in Caprile. Gli anni sessanta del XIV secolo sono quelli della piena affermazione del Nuzi in ambito locale. A lui ricorreranno i Chiavelli, signori della città, eleggendolo a livello di pittore di corte. A lui saranno commissionati i grandi cicli parietali che decorano le più importanti chiese della città, e attorno alla sua persona si eserciteranno i primi innesti della scuola fabrianese, che sarà attiva con una sua indipendenza inventiva per tutto il secolo e che vedrà in Francescuccio Ghissi il suo più fedele interprete. Di questa impegnativa stagione rimangono a testimonianza la cappella di San Lorenzo in cattedrale e quella di Sant’Orsola in San Domenico. Datato 1365 è il trittico della Pinacoteca Vaticana, commissionato ad Allegretto dalla famiglia Santi per la stessa chiesa domenicana. Le precise concordanze di stile con gli affreschi di Sant’Orsola hanno fatto giustamente supporre a Filippo Todini la stretta connessione temporale con essi.17 Nel corso della sua parentesi finale l’artista perviene ad una sempre più marcata astrazione del dato figurativo, cui contribuiscono gli smaglianti broccati trapunti d’oro, le loro fantasiose decorazioni e l’uso magistrale del bulino. Si spiegano in tal senso la Madonna dell’Umiltà della Pinacoteca di San Severino Marche, datata 1366 (cat. 38); quella di Ascoli Piceno;18 l’altra, finissima e gracile, della Pinacoteca Vaticana; i due laterali di un grande polittico smembrato eseguito per la Badia di Santa Maria d’Appennino, oggi nella Pinacoteca di Fabriano (cat. 39, 40). Nel trittico del Duomo di Macerata (1366; cat. 41) il Nuzi ripropone, a tanti anni di distanza, lo stesso schema ideato con Puccio di Simone nel dipinto di Washington. Vi si legge anche il nome del donatore: frater johannes clericus preceptor tolentini, probabilmente lo stesso del 1354. Se il polittico del Municipio di Apiro (cat. 37), datato 1366, diverge da questo cifrato linguaggio espressivo, rientrano nel processo di cristallizzazione formale perseguito dal pittore il gigantesco trittico di Southampton realizzato in collaborazione col Ghissi, e il prezioso trittico della Pinacoteca di Fabriano, raffigurante san Nicola, sant’Agostino e santo Stefano (cat. 42). Con la Madonna in trono col Bambino della Galleria Nazionale di Urbino (1372), un tempo facente parte della raccolta Fornari, si chiude l’intensa e feconda parabola del Maestro. Il 26 settembre 1373, non ancora provato dagli anni, Allegretto Nuzi detta il proprio testamento in favore della moglie Catalina. Francescuccio Ghissi La traccia figurativa segnata dal Nuzi è percorsa da alcuni suoi immediati seguaci, i quali, oltre ad alleviare gli impegni del caposcuola, ne perpetuarono i modi sino allo scader del XIV secolo. Di alcuni di loro non ci resta che il nome (Angelo di Meo, Agnolello, Filippo di Cicco) senza il supporto di lavori sicuri. L’unico a fare eccezione è Francescuccio di Cecco Ghissi. Per decenni la posizione storica del piccolo maestro è rimasta imbrigliata negli angusti spazi entro i quali la critica l’aveva confinata. L’equivoco della sua posizione consisteva nel vedersi assegnata la restrittiva facoltà di sviluppare un unico tema figurativo, quello della Madonna dell’Umiltà, che egli avrebbe elaborato con poche varianti per tutto l’arco del suo percorso. 54

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In seguito, grazie alle aperture di Federico Zeri, è stato possibile assegnargli un ruolo più ampio e adeguato ai suoi meriti. Lo studioso individuava una stretta collaborazione tra Nuzi e Ghissi nel grande trittico oggi nell’Art Gallery del Civic Centre di Southampton, e nei due pannelli del Museum of Fine Arts di Houston, che facevano parte di un medesimo polittico eseguito per la chiesa fabrianese di San Francesco.19 A queste prove vanno aggiunti i sette pannelli del dossale di san Giovanni, che alla fine dell’Ottocento il Cavalcaselle poteva ancora ammirare nella chiesa di San Niccolò. Smembrato all’atto della sua dispersione, il complesso è suddiviso tra la National Gallery di Washington, l’Art Institute di Chicago e la Murray-Crane Collection di New York.20 Queste gracili Storie di san Giovanni Evangelista denunciano un lessico venato di accenti peculiari del pittore: dall’ingenuità del racconto figurativo alla meccanicità delle pose alla ricerca di tipizzazione somatica, che trova l’apice caratteristico negli occhi a mandorla molto allungati e rilevati da palpebre gonfie e pesanti.21 Spetta senz’altro alla sua mano il polittico della Pinacoteca di Fabriano, che si fregiava di una generica attribuzione a “scuola di Allegretto Nuzi”.22 Eseguita per la Badia di Santa Maria d’Appennino l’opera mostra la Madonna col Bambino tra san Nicola, san Giovanni Evangelista, san Giovanni Battista e san Venanzio (cat. 43). Nelle mezze figure del san Nicola e dell’irsuto Battista parrebbe cogliere l’eco di più arcaiche suggestioni, dove affiorano riflessi del Maestro di Campodonico, che conferiscono alle immagini un quoziente di verità oggettiva e di fisicità del tutto inusuale nel Ghissi. E chissà, forse l’aver condotto il polittico per la stessa Badia che ospitava gli affreschi di quel grande anonimo, poté suggestionare Francescuccio al punto da indurlo a riproporne alcuni passaggi esteriori. Il retaggio di uno stretto ascendente nuziano, che fa pensare a una fase giovanile del pittore, ci sembra prevalere nella Madonna dell’Umiltà, datata 1359 (cat. 44), dipinta in origine per la chiesa di San Domenico e oggi esposta nella Pinacoteca fabrianese, e nella graziosa tavoletta della Pinacoteca Vaticana, coi temi sovrapposti di Cristo in pietà tra due angeli e della Natività. Datata 1374 è la Madonna dell’Umiltà della chiesa di Sant’Andrea a Montegiorgio (cat. 45), e prossimo ad essa parrebbe lo smagliante esemplare della Pinacoteca di Fermo. Anche se pesantemente decurtato lungo i lati esso lascia immaginare le sue reali dimensioni: una pala di notevole ampiezza, che dall’altare diffondeva la suggestione del proprio lussuoso e accattivante misticismo. Quasi che Francescuccio abbia inteso stupire i riguardanti con l’abilità dei suoi rabeschi d’oro, in un disporsi di racemi, palmette e pavoni sino a comporre un horror vacui di inquietante e stupefacente bellezza. Conclude il percorso ufficiale del Ghissi la Madonna dell’Umiltà già nella raccolta Carminati a Milano, datata 1394, troppo di maniera e ormai priva di vigore espressivo. Ma non va esclusa la sua partecipazione alla stesura di affreschi nelle chiese cittadine, non solo in qualità di collaboratore alle imprese del Nuzi, bensì nel ruolo di artista autonomo. Lo provano, a nostro avviso, il frammentario Cristo crocifisso affrescato nell’atrio della chiesa di San Niccolò, il lunettone con la Dormitio Virginis della sala capitolare della chiesa di San Domenico, sempre a Fabriano, e gli affreschi in San Domenico e in Sant’Agostino di Perugia.



1 Si vedano Zampetti 1988, p. 107; Zampetti-Donnini 1992, p. 15. 2 Si veda E. Zappasodi, in Dal visibile all’indicibile 2012, pp. 137-146, n. 3. 3 Si veda Todini 1986. 4 Cennini, Il libro dell’arte, ed. Brunello 1971, cap. I, p. 5. 5 Si veda Zampetti-Donnini 1992, p. 16. 6 Si vedano Volpe 1965, pp. 51, 60; Rossi 1967, pp. 71-73; Neri Lusanna 1986, p. 416. 7 Si veda Cleri 2006, pp. 9 sgg. 8 Zeri 1950, p. 37; si veda anche Zeri 1963, pp. 325 sgg. 9 Felicetti, Documenti 1998, pp. 210 sgg. 10 Donnini 1972, pp. 326 sgg. 11 Scevolini 1627, c. 93.



12 Si veda Tartuferi, Madonna col Bambino 2005. 13 Ivi, p. 29. 14 Marabottini 1951-1952, p. 26. 15 Si veda Donnini, La sala capitolare 2006, pp. 107 sgg. 16 Marabottini 1951-1952, pp. 25-26. 17 Todini 1977. 18 Si veda Zeri 1975, pp. 3-7. 19 Ivi, p. 6. 20 Si veda Zeri 1949, pp. 21-22. 21 Si veda Donnini 1996. 22 Si veda Molajoli 1936, ed. 1968, pp. 57-58. 55

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Il pittore delle Abbazie. Il Maestro di Campodonico

Il pittore delle abbazie. Il Maestro di Campodonico alessandro marchi

L’abbazia di San Biagio in Caprile (fig. 1), nelle vicinanze di Campodonico, è stretta fra i monti di una piccola valle, confluente nella più ampia Valle di Salmaregia o Somaregia, su un pianoro del fosso detto delle Rotelle. Conserva le forme di una fortezza, piuttosto che quelle di un monastero, e la chiesa è nascosta, mimetizzata nel corpo più alto dell’edifico, segnata in esterno da una croce minuta incisa nel colmo dell’ogiva del piccolo portale. All’interno un’aula scabra voltata a sesto acuto, resecata sui muri laterali da due nicchioni. Sino il 1962 era impreziosita dai due affreschi, già fortemente ammalorati, la cui salvezza poteva affidarsi unicamente allo stacco che venne effettuato e i dipinti acquistati dallo Stato furono destinati alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino. L’abbazia vanta una storia ricca ed antichissima: venne fondata come eremo benedettino tra il 1035 ed il 10601 ed ebbe un forte sviluppo durante il secolo XIII. I monaci erano pochi, ma assai attivi, e tra il 1336-1337 ed il 1349 ne fu abate Pietro di Bartoluccio da Serradica,2 ed è lui il committente degli affreschi, indicato con la sola iniziale del nome nella bellissima iscrizione – concepita come una finta scultura – in calce alla grande Crocifissione: hock ōp fact¯ fuit tēpoē .di. .p. ab. an¯o .di. m. iii. vl. [hock op(us) fact(um) fuit te(m)po( r )e d(omin)i p(etri) ab(atis) an(n)o d(omini) m ccc vl]. Gli affreschi vennero riscoperti agli albori del Novecento e ne dette notizia per primo Lionello Venturi nella sua pionieristica esplorazione artistica della regione marchigiana: Oltre le produzioni della scuola riminese, le opere di arte direttamente e prevalentemente giottesca conservate nelle Marche sono rare. Ricordo principalmente, per la meravigliosa potenza drammatica, una Crocifissione, un’Annunziazione e santi, affrescati nell’ex Badia di San Biagio in Caprile, a Campodonico presso Fabriano, datati 1345, ove le figure per lo straordinario rilievo e per la vivacità espressiva sembrano di arte prettamente fiorentina, prossima ad Andrea Orcagna.3

Tra il 1914 ed il 1918, i dipinti furono oggetto di una campagna fotografica per cura del Gabinetto Fotografico Nazionale, che produsse sei immagini in bianco e nero che determinarono la conoscenza e l’apprezzamento del ciclo non solo fra gli studiosi (figg. 2-5).4 Inizia da qui una folta di ipotesi ed una fortuna storiografica che costellerà tutto il Novecento, portando l’ignoto Maestro di Campodonico ai vertici della pittura trecentesca non solo del centro Italia. Nell’ultima nota del suo articolo – uscito nel 1922 – sugli esordi di Allegretto Nuzi, Bernard Berenson si sofferma sulla Crocifissione di Campodonico (cat. 24): Disgraziatamente esso è in uno stato di grave rovina, ma ne rimane abbastanza per mostrare che si tratta di una composizione molto drammatica, ricca di poesia e originalissima. Il Padre Eterno in mezzo agli angeli stende le braccia sulla scena. Ogni personaggio sta sopra una roccia frastagliata. Se potesse accertarsi che anche quest’opera è di Allegretto, non soltanto la carriera di Allegretto sarebbe prolungata di dieci anni, ma risulterebbe assai più importante.5 1. L’abbazia di San Biagio in Caprile nei pressi di Campodonico (Foto GFN, 1914-1918).

Senza evidenziarlo, Berenson coglie uno degli aspetti iconografici più originali del grande tabellone murale: la presenza, sopra la Crocifissione (coi dolenti e pochi astanti), del Padre Eterno 57

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2. Maestro di Campodonico, Crocifissione. Campodonico, abbazia di san Biagio in Caprile (foto GFN prima dello stacco). 3-5. Maestro di Campodonico, Crocifissione (particolari). Campodonico, abbazia di san Biagio in Caprile (foto GFN prima dello stacco).

racchiuso in un circolo celeste, con le mani tese ad affidare a due gruppi di angeli simmetrici il mandato di assistere Gesù nel trapasso. Si tratta di una citazione della figura affrescata nelle Storie dell’Antico Testamento ad Assisi (Basilica superiore, lato nord, prima campata ovest, registro alto), nella Creazione del Mondo ad opera di Jacopo Torriti all’altezza del 1288-1290 circa, dove il Padre Eterno a mezzo busto è posizionato entro il clipeo delle sfere celesti accanto alle schiere angeliche. L’immagine assume nel nostro affresco l’ufficio di inaugurare con la Creazione la storia della Salvezza, che troverà compimento appunto nell’immolazione del Cristo sulla croce. A monte di una sintesi così estrema e indubbiamente efficace, fu certamente un dotto pensatore, un teologo assai sofisticato, coadiuvato da un artista particolarmente colto e versato all’espressività con pochi termini linguistici – vale a dire figurativi – ben assestati. 58

Il pittore delle Abbazie. Il Maestro di Campodonico

Nel settembre 1924 esce un importante articolo di Romualdo Sassi, che raccoglie le sparse notizie documentarie relative ai pittori fabrianesi, non si fa cenno al pittore di Campodonico, ma l’autore, sulla scorta di notizie affidate alla stampa da illustri eruditi precedenti, rammenta gli affreschi nella chiesa suburbana dedicata alla Maddalena (nel tramezzo?) con la figurazione del Cristo fra gli apostoli, firmati da Francesco di Bocco e datati 1306 o 1307: in quella medesima chiesa in cui anni dopo verranno scoperti due bellissimi murali del nostro anonimo.6 La fine del terzo decennio registra gli interventi di Luigi Serra: in San Biagio in Caprile egli ravvisa la più alta espressione della tradizione giottesca in ambito marchigiano. La Crocifissione «sulla piatta parete di fondo», l’Annunciazione (cat. 26), «sul muro d’ambito a destra dell’ingresso, ai lati di una finestra», appaiono «molto danneggiate, ed un restauro eseguito durante l’autunno del 1927 per cura della Sovrintendenza regionale, non ha potuto far altro che consolidare quanto di esse è rimasto». Serra è profondamente colpito dall’organismo compositivo delle scene, e ne offre una descrizione entusiastica, sino al vertice del gruppo con lo svenimento della Vergine «che per prestanza drammatica e plastica è da ritenersi fra le più belle cose che la pittura del Trecento abbia create». Così i colori puntualmente catalogati: il turchino «or cresciuto e svalutato del fondo»; l’oro dei nimbi; il rosso chiaro dell’alone dell’Eterno; i contrapposti di rosso e verde-cilestrino nelle vesti e nelle ali degli angeli; il giallo dell’abito della Vergine, della tunica dell’Eterno e nell’armigero. Insomma «una personalità artistica che se da Giotto ha tratto impulsi validi, aveva pertanto in sé, a differenza della maggior parte degli scolari, aiuti ed imitatori di lui, fermenti e qualità realizzatrici di primo ordine». L’esame si ripete sull’Annunciazione 59

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e sulle figure del sottarco (Pietro e Paolo) per negare però l’autografia per la Flagellazione, la Madonna e i Santi Biagio e Antonio Abate (?) sottostanti, men nobili nelle fattezze e di qualche decennio posteriori.7 La recensione del libro di Serra esce un anno dopo a firma di Mario Salmi, che si sofferma lungamente sul problema Campodonico. Lo studioso aretino nota negli affreschi «precoci influssi senesi» ed «impeti di popolaresco realismo». Nelle figure, il volume e «la loro forza drammatica potrebbero condurci genericamente a Giotto; ma il Cristo con la testa allungata è seneseggiante e lo è il san Longino che arieggia Simone Martini e riproduce un tipo che Allegretto avrà poi caro». Il gruppo con lo svenimento è poi ricalcato su quello della Crocifissione di Pietro Lorenzetti nella Basilica inferiore d’Assisi (e Salmi lo riproduce); così, seneseggiante è pure l’Annunciazione: documenti tutti insieme, dunque, del raggio d’influenza precoce dell’arte senese, e dell’esistenza di «una pittura fabrianese con caratteri che discendono nel Nuzi».8 A sorpresa, nonostante il parere precedentemente espresso, e nonostante non sia stata messa in dubbio la lettura della data 1345, Berenson inserisce gli affreschi di Campodonico nella lista delle opere di Andrea De Licio (Delitio), il pittore abruzzese attivo in pieno Quattrocento (per lo studioso è sconcertante la concezione vitalistica e spaziale del nostro anonimo, giustificabile soltanto con la mentalità – prospettica – del Rinascimento).9 Nel 1932, nella chiesa dedicata alla Maddalena avviene il ritrovamento sulla parete di destra, in una sorta d’intercapedine, di tre scomparti affrescati con la figura di san Giovanni, una Crocifissione con i soli dolenti ed un’Annunciazione (cat. 23-ab); Bruno Molajoli li pubblica 60

6. Maestro di Campodonico, Annunciazione. Campodonico, abbazia di san Biagio in Caprile (foto GFN prima dello stacco).

Il pittore delle Abbazie. Il Maestro di Campodonico

innanzi i restauri, ravvisando nella sola Annunciazione (fig. 6) i tratti e quindi la mano dell’anonimo di San Biagio in Caprile. I confronti morelliani non lasciano adito a dubbi; si aggiunge il fatto che nella base dell’edicola entro cui si erge diritta l’Annunziata è graffita rozzamente un’iscrizione: adi … xbre 1336, la quale desta qualche perplessità, ma la si può ritenere ripresa da un’attestazione genuina, effettivamente antica e probante.10 Molajoli si soffermerà con dovizia di notizie sul pittore e le sue imprese nella propria guida artistica alla città.11 Qui segnala il fatto che la chiesa della Maddalena era sorta lungo la direttrice viaria che conduce in Umbria, nel luogo ove era un ospedale – un hospitium – condotto dai monaci di Santo Spirito (che facevano capo a Santo Spirito in Sassia a Roma), in seguito retto dai frati appartenenti all’Ordine agostiniano,12 il che sembra ribadire il carattere “monastico” delle committenze del pittore di Campodonico. In una situazione locale marchigiana, o meglio di storia dell’arte marchigiana, che viene man mano a configurarsi ad opera della critica e della storiografia più avvertita, l’anonimo “fabrianese” acquista sempre maggior sostanza, pur rimanendo nel suo tragico e misterioso isolamento. Nel 1946-1947 è oggetto di una tesi di laurea, presentata da una signorina Pucci, relatore Lionello Venturi, col titolo Il Maestro di San Biagio in Caprile ed Allegretto Nuzi, di cui fa cenno Alessandro Marabottini Marabotti, contestando l’isolamento in cui la giovane laureanda (forse facendosi portavoce di un pensiero del Venturi) ritiene l’affresco della chiesa della Maddalena, considerato il prototipo più arcaico tanto per Campodonico che per l’opera di Allegretto Nuzi, in forza della sua data 1336. Marabottini, che utilizza anche lui il nome “Maestro di San Biagio in Caprile”, ne traccia quindi un ritratto assai suggestivo: «Colpisce – nella Crocifissione – l’originale sentimento dello spazio, che una incandescente intuizione devasta e sommove, … ci conduce in un clima spirituale ardente e agitato, un clima di esaltazione e di disperazione mistica, come si può respirare in una lauda dugentesca». Per finire, affermando che il pittore «non fu un fiorentino, o un giottesco, né tanto meno un orcagnesco, e neppure un senese, nonostante i suoi molti contatti con Siena; bensì con tutta probabilità, un dottissimo marchigiano, fabrianese forse, che andò evolvendosi secondo la via accennata».13 La fortuna compositiva della Crocifissione di Campodonico è palesemente esemplata in una tavola di primo Quattrocento, conservata nella Pinacoteca di Fabriano proveniente dalla chiesa di San Niccolò; Federico Zeri ravvisa altresì un «accenno sfocatissimo» nella Crocifissione di Allegretto conservata all’Art Institut di Chicago: Accenno che si risolve in superficie, e con risultati che sono i meno felici di Allegretto Nuzi, il quale scade irrimediabilmente nell’impossibile assunto di conciliare la poetica spaziale di Maso con l’incandescente intuizione del Maestro di Campodonico.14

Pietro Toesca consacra il name-piece Maestro di Campodonico e ne traccia, per la prima volta, un profilo assai articolato: Sembra educato ai maggiori insegnamenti di Assisi, fiorentini e senesi, ma ne trae una sua maniera in cui il potente rilievo, che altrimenti si dovrebbe dire giottesco, ha semplificazioni lineari che hanno precedenti soprattutto nell’arte di Ambrogio Lorenzetti. Nei suoi affreschi gli ornati stessi e le forme epigrafiche sono tracciate da un fine calligrafo; il disegno è nervoso; il colorito ha tanta sensibilità alla luce da uguagliare i maggiori seguaci di Giotto. … Con tratto iconografico insolito alla pittura fiorentina e alla senese, al di sopra della croce si sporge dalle sfere celesti l’Eterno tra Angeli impetuosamente imploranti: e come discende da Giotto il vigore corporeo di queste figure investite di viva luce così anche la delicata forma del crocifisso, … elementi fiorentini e senesi sono fusi dall’artista in un proprio modo: le leni cadenze senesi sono sostituite da un contornare energico e tortuoso, il rilievo appreso da Ambrogio Lorenzetti e dai fiorentini acquista durezza da levigature di piani, da sbattimenti di luce.15 61

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Toesca compie un’aggiunta assai significativa al catalogo del pittore: due pannelli con affreschi frammentari staccati dall’abbazia di Santa Maria d’Appenino (allora in Palazzo Serafini a Fabriano);16 dunque una ulteriore commessa abbaziale.17 Roberto Longhi cita più volte, quasi di sfuggita, ma non senza grandissima ammirazione, la Crocifissione di Campodonico, una prima volta a confronto di Cola Petruccioli,18 quindi con una punta polemica riguardo la scarsa considerazione attribuita al dipinto da altri studiosi dopo la “celebrazione” di Toesca nel suo Trecento;19 infine proclamando l’affresco «uno dei più grandi capolavori del secolo».20 Nel 1963 esce l’importantissimo saggio di Federico Zeri, in cui si avanza la proposta di attribuzione al Maestro di una tavola cuspidata, con il Giudizio Universale, la Flagellazione e santi conservata al National Museum of Fine Arts di La Valletta (Malta). Zeri adduce considerazioni e confronti stilistici di notevole suggestione, soprattutto col murale della Crocifissione (riproducendo la serie di particolari del GFN); la tavola maltese è una tempera non comune, e costituiva in origine l’emblema o l’insegna (processionale) di una confraternita, che contempla la raffigurazione rarissima della Vergine con le pie donne che assistono alla Flagellazione oltre l’uscio del Pretorio (il Pianto delle Marie?). L’inquadramento stilistico dell’anonimo, proposto da Zeri, è tutto sbilanciato in favore di Pietro Lorenzetti (escludendo Ambrogio); lo studioso propone di ravvisare i precedenti del maestro fra le fonti giottesche più vicine, da identificare nei pittori riminesi, soprattutto il gruppo di artisti impegnati nell’impresa di decorazione della chiesa di Sant’Agostino in Rimini, il Giudizio Universale e le Storie di san Giovanni: «non è punto azzardato prospettare un’origine in chiave puramente riminese del Maestro di Campodonico».21 Nel 1962 Giuseppe Rosi, per conto della Soprintendenza urbinate, procede allo stacco della Crocifissione di San Biagio in Caprile; se ne dà conto due anni dopo quando il dipinto restaurato viene esposto alla “Mostra di affreschi staccati” con un breve commento di Giuseppe Marchini che non manca di sottolineare una sintesi personalissima in cui si colgono straordinarie finezze, quasi miniatorie, e pur grandiosità di concezione; acute percezioni spaziali e intensità drammatica; con qualche accento idiomatico da arcaizzante, ma saporoso provinciale.22

L’anno dopo viene presentato il restauro dell’Annunciazione e di altre figure frammentarie, a loro volta staccate e restaurate da Rosi; le commenta Filippa Maria Aliberti, che ripropone in sintesi le osservazioni critiche di Zeri; Marchini, nella brevissima nota di restauro afferma: «L’affresco è stato distaccato e riportato su superfici esattamente modellate come le originali. Nelle parti meglio conservate la pittura si è rivelata di una grande solidità e di una grande integrità».23 Al maestro di Fabriano dedica una densa nota Carlo Volpe nel suo fondamentale libro sulla pittura riminese. Certo, la croce di Pietro da Rimini ad Urbania è forse da “premettere mentalmente” al nostro; in realtà la interpretazione della cultura di questo grandissimo pittore è ancora lontana dal soddisfare i conoscitori ansiosi di scoprire riferimenti ancora innavertiti, soprattutto fra le pieghe delle opere che nascondono, e forse nasconderanno sempre, i più oscuri enigmi.

Volpe rifiuta l’ipotesi di una origine riminese del pittore, per Rimini e per Campodonico è comune il riferimento alla cultura prodotta in Assisi. Basti rammentare, in Assisi, la personalità troppo trascurata … che dipinse una Crocifissione nello stesso archivolto dove figurano gli altri due affreschi con Storie di san Stanislao di “Stefano fiorentino” [in realtà Puccio Capanna], nella chiesa inferiore, che costituisce il punto di massimo avvicinamento alla cultura ed alla stessa personalità del maestro marchigiano fra tutta la pittura post-giottesca che in qualche modo lo interessa. 62

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Quanto al rapporto coi Lorenzetti, Volpe ribadisce il portato di Ambrogio (escluso da Zeri) ed imposta un confronto con l’Incoronazione della Vergine affrescata da Ambrogio in Sant’Agostino a Montefalco, che poteva ben aver sollecitato «la tensione vitale che sembrerà in anticipo … sull’organicità vitalistica del Quattrocento» (la stessa che aveva tratto in inganno il Berenson).24 La fama del nostro maestro approda intanto alla più vasta divulgazione (peraltro condotta ad altissimi livelli, in cui la sintesi è affidata a studiosi eccellenti); Luciano Bellosi accompagna le prime riproduzioni a colori degli affreschi di Campodonico con un intenso profilo del pittore, che classifica fra i «rielaboratori giotteschi», parallelo a Maso e ad Ambrogio Lorenzetti: «Le ripetute infiltrazioni di cultura pittorica riminese nelle Marche e la probabile conoscenza degli affreschi di Assisi spiegano il sapore intensamente giottesco di questo pittore; ma in realtà si tratta di una rielaborazione così personale ed autoctona da inaugurare una arte marchigiana con un proprio filo conduttore fino al Quattrocento pieno … Un plasticismo mordente marca la figurazione, con risultati vivaci ed icastici e una caratterizzazione espressionistica che rimarrà una costante della pittura marchigiana». Figure «sode come bozzi di sasso», contorni «recisi a filo di rasoio», con l’apice drammatico nella Crocifissione connotata addirittura di una «violenza aggressiva» con gli astanti arrancati ognuno sul proprio scoglio di roccia: «il San Giovanni stride appollaiato sul suo scheggione roccioso».25 Nel 1967 vengono presentati all’annuale mostra di restauri urbinati gli affreschi della chiesa della Maddalena, a loro volta staccati per preservarli dalle «cattive condizioni del muro e per la scialbatura che ancora in parte li imprigionava». Li commenta Giuseppe Marchini che annota la perdita di «certe campiture come quella dello sfondo della Vergine, che erano a tempera e che appaiono oggi d’intonaco nudo». Così «la finezza disegnativa e il colorito puro nel formato molto ridotto delle scene gli conferma il sospetto di miniatore»: si aggiungono il «disegno tormentato», il «basso chiaroscuro», o l’espressionismo che sottendono più forti legami col mondo umbro e quindi «un’origine bolognesizzante di quel suo acuto puntualizzare che è uno degli aspetti suoi più tipici». Marchini sgombera il campo anche riguardo l’autenticità del graffito che rilegge precisamente «adi I de xbri 1556» cioè “addì 1° dicembre 1556”.26 Nel referto di Marchini credo sia espressa un’idea notevole, che la critica ha quasi completamente trascurato: il fatto probabile che il Maestro di Campodonico sia stato un miniatore, applicatosi solo sporadicamente alla pittura murale.27 Lo proverebbe la cura estrema con cui ha dipinto l’iscrizione in calce alla Crocifissione di Caprile. Prescindendo dal suo aspetto evidente di imitazione di una iscrizione a rilievo – di un rilievo tutto plastico e scultoreo, assai differente però dalle forme lapidarie delle iscrizioni monumentali –, colpiscono le fogge gotiche delle lettere, quasi tutte maiuscole, tutte iniziali precisamente impaginate (sull’intonaco sono ancora ben evidenti le incisioni, cioè la rigatura entro cui dovevano essere campite le lettere). La prima H è una minuscola, tracciata in nesso con la O, che si presenta alta, rastremata e insieme fortemente panciuta; la C esibisce i due vertici arricciati uniti da un bastoncino con bottone centrale; così a seguire tutte le lettere oltre il corpo principale “ben pasciuto”, ma sempre aggraziatamente gotico, sono farcite di filetti ed infiorettature prettamente grafiche, per non parlare delle abbreviazioni, variate e stilate con code e segni avvinghiati alle lettere sottostanti: insomma un’iscrizione eseguita da un paziente calligrafo, assolutamente originale ed inusuale nel contesto di un dipinto ad affresco (come peraltro brillantemente intuito già da Toesca). Si tratta insomma delle forme caratteristiche – ampie e quadrate – che assumono le iniziali normalmente campite nell’economia della pagina, approntate per la decorazione fogliacea o per contenere immagini e scene miniate. Del pari, ad una nuda pagina di pergamena potrebbe esser assimilato il fondale neutro (risparmiato utilizzando il bianco ambrato dell’intonaco liscio) dell’Annunciazione nella chiesa della Maddalena, a meno che non si rinvenissero tracce di una sua originaria stesura a secco. Il colore della pergamena, o meglio, il colore della pagina pulita, ovvero il bianco, è un elemento essenziale per il nostro anonimo, un elemento non solo cromatico, ma organico; si osservi infatti come l’impaginazione degli affreschi di Campodonico sia organizzata in un reticolo di ampie fasce bianche, che delimitano “architettonicamente” gli spazi e i luoghi destinati alle decorazioni ve63

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getali, all’iscrizione e alla figurazione vera e propria (così nello scomparto maggiore quanto nella nicchia strombata oggi a Urbino, ma anche nei due altri cicli autografi), come se il pittore si trovasse a dover riempire appunto una pagina monumentale (più grande di una Bibbia atlantica). Ora però, ad una primitiva indagine nel campo della miniatura trecentesca centro-italiana, non sono – per il momento – emersi dei riscontri precisi e probanti, e l’ipotesi che il maestro fosse un miniatore dovrà rimanere nel dubbio, accanto a quella di un suo possibile stato monacale. Nel 1967 esce il primo di una serie di interventi critici di Giampiero Donnini; lo studioso contrasta l’attribuzione di Zeri riguardo il dipinto de La Valletta, ove è propenso a ravvisare una qualità più alta ed una maniera più congeniale all’ambiente padano-veneto, una vicinanza cioè ai modi di Giusto de’ Menabuoi. Donnini contesta le qualità spaziali del maestro: le ali in prospettiva degli angeli contornanti l’Eterno nella Crocifissione, con le piume convergenti verso un unico punto di vista, gli sembrano frutto della casualità; basti confrontare le architetture del maestro, semplici, arrangiate, provvisorie, rispondenti ad un puro pretesto scenico. Il Maestro di Campodonico usa il verdaccio quale elemento di preparazione per il chiaroscuro degli incarnati, il che appare come una caratteristica che accomuna tutti i giotteschi. Ebbe a conoscere, quasi sicuramente, anche le imprese padovane; non è sicuro sia stato un fabrianese – un indigeno –, tanto più che non appartengono alla sua mano gli affreschi staccati nell’abbazia di Santa Maria d’Appennino.28 Pochi anni dopo, il Donnini ebbe a rivedere sensibilmente le sue posizioni e, pur escludendo dal catalogo la tavola di Malta, ebbe a riconsiderare le qualità spaziose dell’anonimo, rileggendo puntualmente l’edicola dell’Annunciata alla Maddalena: «Nel pur angusto metraggio delle architetture, dove il serrato intersecarsi degli archi e delle vele della crociera allontana in profondità le pareti, dà luogo a effetti spaziali che trovano l’equivalente solo in Giotto e in Maso». Accanto alla riproposizione della conoscenza dell’opera di Giotto a Padova, il nostro esibisce riferimenti precisi a Giovanni da Rimini ed agli affreschi della chiesa riminese agostiniana. In lui v’è una fusione stilistica non bene amalgamata di elementi riminesi, senesi e giotteschi, quasi che egli abbia riassunto taluni episodi di quelle correnti osservandone la problematica e vivendone le peculiarità dal di fuori, come partecipando al loro svolgimento in forma riservata.29

Donnini recupera poi l’attribuzione degli affreschi di Palazzo Serafini, sia il lacerto con le raffigurazioni dei santi Giovanni Battista e Caterina d’Alessandria, che quello con la Madonna del Latte. Intanto, nel 1968, il tabellone con la Crocifissione è inviato a rappresentare la pittura marchigiana alla mostra di Parigi sul gotico in Europa fra il XII e il XIV secolo.30 Da parte sua Pietro Zampetti, nella prima monografia dedicata alla pittura marchigiana del Quattrocento, ravvisa nel Maestro di Campodonico un artista autentico, fra i primi a rappresentare energicamente la scuola di Fabriano.31 Il 1971 conosce una nuova esposizione dei murali della Maddalena, questa volta a Fabriano; nel catalogo è ristampata la scheda di Marchini,32 che sollecita un pronto commento di Donnini: l’autore fabrianese sottolinea «la stupenda resa volumetrica del corpulento angiolone», la tecnica raffinata di «origini miniatorie», le «stupefacenti intuizioni spaziali espletate nell’angusto metraggio delle architetture» in cui è incastonata la Vergine ritrosa, da considerarsi «tra le pagine più sublimi della storia pittorica del nostro Trecento».33 Donnini precisa le sue nuove opinioni in una sintesi dedicata alla pittura fabrianese,34 assestando il percorso cronologico che trova il suo nucleo centrale negli affreschi del 1345, anticipati dai murali della Maddalena – ascrivibili al decennio precedente – e seguiti dai più tardi lacerti da Santa Maria in Appennino. Lo studioso avanza poi timidamente la proposta di attribuzione di una Madonna in trono – ancora un affresco (frammentario) nella parrocchiale di San Pellegrino a Gualdo Tadino – che pubblicherà più avanti con un suggestivo confronto con le opere di Palazzo Serafini.35 La centralità di Campodonico nella cultura figurativa della zona montana, appenninica viene poi sottolineata attraverso le influenze che manifesta in area eugubina, in 64

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Guido Palmerucci e nel Maestro di Montemartello, riconosciuto a Santa Maria delle Stelle presso Cagli.36 La possibile identificazione di una vera e propria koinè appenninica o meglio di una cultura appenninica, formata e sviluppata nel triangolo montano racchiuso fra le città di Gubbio, Cagli e Fabriano, è avanzata dal Donnini in ulteriori studi e ricerche37 che, nonostante qualche timido tentativo,38 non hanno conosciuto i necessari approfondimenti a causa della relativa scarsità di materiali pittorici accompagnata dalla mancanza di dati storici sicuri (per non parlare di referti documentari). Un profilo riassuntivo del Maestro di Campodonico è offerto da Enrica Neri Lusanna, nella sintesi dedicata alle Marche all’interno di una vasta panoramica sulla pittura in Italia; pur issato fra le personalità più significative ed insieme sfuggenti della pittura italiana, egli è «l’arsi della civiltà gotica marchigiana».39 Il suo catalogo è quello consolidato dalla critica, compresa la tavola maltese, che può giustificarsi con la conoscenza della cultura adriatica-veneziana. I rimandi sono riminesi (più di tutti il Pietro d’Urbania ma anche il Maestro di Verucchio), accanto ai giotteschi assisiati con l’apice in Puccio Capanna, accanto i senesi Lorenzetti (Ambrogio è un parallelo dell’anonimo), accanto gli eugubini, Mello soprattutto e dunque il Maestro di Montemartello.40 Nel settembre 1987 viene organizzato a Mercatello sul Metauro un importante convegno sulla pittura fra Romagna e Marche nella prima metà del Trecento: nonostante il titolo sottolinei “gli apporti di Rimini e Fabriano”,41 la parte marchigiana rimane un po’ sottotono rispetto alle emergenze riminesi, e a nuove, inedite interpretazioni delle personalità di Giovanni e Pietro da Rimini, operate da Miklós Boskovits42 e da Anna Tambini.43 Del maestro fabrianese si occupa Roberto Budassi,44 che offre una sintesi compilativa della fortuna critica del pittore, mentre Maria Rosaria Valazzi45 raccoglie le preziose testimonianze relative allo stacco e restauro degli affreschi di Campodonico. Dei materiali raccolti durante il convegno e delle precedenti acquisizioni storico-critiche si avvale anche Pietro Zampetti nella sua vasta sintesi storica sulla pittura marchigiana.46 Giampiero Donnini coltiva una lunga e ripetuta frequentazione dei problemi critici riguardanti il Maestro di Campodonico,47 nonostante questi sfugga ad un rigido inquadramento in una scuola, si vengono man mano a focalizzare sempre meglio i rapporti intrattenuti con la cultura figurativa dell’Umbria, in particolare l’autore delle Crocifissioni della sala capitolare del sacro convento e dell’oratorio di San Rufinuccio in Assisi, vale a dire Puccio Capanna (figg. 7-8); le fragili e rare architetture del maestro conoscono poi i loro precedenti nell’opera del fabrianese Maestro di Sant’Emiliano; mentre l’irsuto, selvatico Battista (cat. 26) – già nell’abbazia d’Appennino – è accostabile allo spirito di un Maestro di Figline.48 In un successivo contributo Donnini riabilita la data 1336 graffita alla Maddalena, come se l’ignoto grafomane avesse inteso «fissare una memoria che il tempo stava cancellando»; nel medesimo contesto identifica nell’abate Pietro di Bartoluccio da Serradica – documentato almeno dal 1336 al 1347-1349 –, il committente dell’impresa di San Biagio in Caprile.49 Secondo la Neri Lusanna, la presenza della figura di san Pietro nel sottarco della nicchia già a Campodonico comprova il ruolo dell’abate Pietro che «certamente fu l’ispiratore dell’opera e il committente»; la grandezza del maestro non oltrepassa però l’area appenninica, non dà vita ad un seguito, tranne il già segnalato Maestro di Montemartello.50 Una sintesi dedicata al Trecento nelle Marche, compilata da chi scrive per il catalogo della mostra della pittura riminese trecentesca, offre poche righe di circostanza; non manca però di segnalare «fra gli sviluppi più seducenti della poetica dell’anonimo di Campodonico» l’affrescatura di una cappella nella chiesa di San Francesco a Tolentino ove, in calce alla Crocifissione, è la data 1363.51 In un articolo uscito nel 1996, Pietro Scarpellini si cimenta nella ricostruzione dell’ambiente assisiate in cui il Maestro di Campodonico ebbe ad approdare tra quarto e quinto decennio del Trecento. Una città uscita da sconfitte militari (1322) e da un tentativo di dittatura (1319), «oppressa da una gravissima crisi materiale e morale» e però teatro di un’arte nuova fortemente sol65

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lecitata dall’usanza delle sacre rappresentazioni e dalla forma calcatamente espressiva delle laudi religiose drammatiche, magistralmente espresse in pittura da Puccio Capanna. Nonostante la mano del maestro di Fabriano non sia riconoscibile in nessuna delle pitture assisiati conosciute, è comunque assai probabile una sua comunione d’intenti appunto con il suddetto Puccio. Così Scarpellini giustifica anche i rapporti istituibili fra le Crocifissioni del Capanna e il medesimo tema trattato da Allegretto Nuzi nella sagrestia di San Domenico (o Santa Lucia di Fabriano), che lo studioso ritiene sia la sua opera più antica, anch’essa direttamente sollecitata dal murale di Caprile: come in San Rufinuccio ad Assisi «con i protagonisti in posa, in atteggiamenti pausati e simmetrici. Disposizione che … si deve spiegare con la particolare funzione di queste Crocifissioni, collegate con la recita delle Laudi drammatiche».52 Contemporaneamente sulle pagine dei nuovi «Commentari d’arte» esce un saggio del giovane Fabio Marcelli in cui per la prima volta si tenta di dare un nome al Maestro di Campodonico. Marcelli procede con una serie di induzioni concatenate, iniziando dalla riproposizione dell’attribuzione al maestro della tavola di Malta (da più studiosi negata alla sua mano53); l’assunto è dettato dalla peculiarità maggiore del dipinto: intanto l’iconografia, l’episodio a destra della Flagellazione, con la Vergine protesa in avanti col busto, verso la porta sbarrata del Pretorio (anzi la serratura, per cercare di interpretare i rumori, i gemiti che provengono dall’interno), affiancata dalla Maddalena seduta in terra, scomposta e sconvolta, confortata dalle pie donne. La stravaganza iconografica era già stata spiegata da Zeri con il legame con le sacre rappresentazioni messe in strada dalle compagnie di Disciplinati, e Marcelli ha ritrovato un riscontro letterario nella

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7. Puccio Capanna, Crocifissione. Assisi, Basilica di San Francesco, sala capitolare. 8. Puccio Capanna, Crocifissione. Assisi, Museo capitolare, già oratorio di San Rufinuccio.

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9. Anonimo assisiate (allievo di Puccio Capanna), Crocifissione. Assisi, Basilica inferiore di San Francesco, cantoria.

lamentatio contenuta nel laudario della confraternita assisiate di Santo Stefano, in cui la Vergine declama il suo dolore maggiorato dalla costrizione ad udire i lamenti del Figlio ante fores templi, proprio come nel dipinto. Ora il laudario era conosciuto anche a Fabriano, ove i disciplinati facevano capo alla confraternita di Santa Maria del Mercato, presso la quale il culto per la Flagellazione venne più tardi dimostrato dalla commissione al Signorelli del noto stendardo oggi a Brera.54 Fra gli affiliati alla compagnia di Santa Maria del Mercato, tra il 1342 e il 1345, è un pittore dal nome Bartoluccio da Fabriano, il quale aveva contatti anche con l’abbazia di Santa Maria d’Appennino (e questa era storicamente legata a San Biagio in Caprile), mentre la confraternita del Mercato potrebbe aver controllato – alla dipartita dei frati ospitalieri di Santo Spirito – anche il nosocomio della Maddalena in una trama che collega suggestivamente tutti i luoghi in cui sono opere del nostro anonimo. Appare pertanto credibile che egli fosse appunto Bartoluccio, la cui frequentazione di Assisi è efficacemente sottolineata dalla vicinanza stilistica con le opere di Puccio Capanna, tanto più che nella Crocifissione (fig. 9), segnalata già da Carlo Volpe, nella Basilica inferiore – a detta del Marcelli – è forse da «individuare l’anello di congiunzione tra il momento della formazione e quello della produzione autonoma del Maestro di Campodonico».55 67

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Esce nel frattempo una importante voce biografica, a firma di Neri Lusanna, nell’Enciclopedia dell’Arte Medievale,56 in cui la studiosa riordina le considerazioni precedentemente espresse; vi si fa cenno all’ipotesi di identificazione senza però prendere posizione (è noto che l’autrice non accetta l’attribuzione della tavola de La Valletta). Le considerazioni di Marcelli sono riprese nella monografia a più voci coordinata dallo studioso,57 che intende contestualizzare da più versanti la parabola artistica del nostro pittore. Esse vertono principalmente nell’esplorazione dell’ambiente assisiate intorno a Puccio Capanna, dove poteva esser avvenuta la formazione dell’anonimo di Campodonico; la sua identificazione col pittore Bartoluccio da Fabriano – documentato tra il 1339 e il 1348 – è ipoteticamente sorretta dai riscontri stilistici fra il “tabellone” de La Valletta e lo stendardo di Signorelli, tanto più che anche la tavola più antica potrebbe provenire da Santa Maria del Mercato. Marcelli quindi, in forza dell’attribuzione ad Allegretto Nuzi della figura di san Giovanni Evangelista (cat. 23-b), contigua ai due pannelli del pittore di San Biagio nella chiesa della Maddalena, propone una condizione di alunnato giovanile di Allegretto presso il Maestro di Campodonico. Nella miscellanea del 1998 si distingue il saggio di Andrea De Marchi che approfondisce le affinità fra il maestro fabrianese e l’assisiate Pace di Bartolo, così i paralleli con Mello da Gubbio, sino la ricostruzione del pittore che nel 1361 ha dipinto una cappella nella chiesa di San Francesco a Tolentino, certamente un seguace del Maestro di Campodonico che De Marchi – in forza delle spiccate somiglianze con gli affreschi già in San Francesco a San Severino, oggi in Pinacoteca – propone di identificare con Diotallevi d’Angeluccio di Esanatoglia.58 La monografia sostituisce una mostra che si voleva dedicare al pittore, impedita dal terribile terremoto del 1997, che, in forma ridotta ma con la presenza della preziosa tavola di Malta, verrà comunque realizzata nel 1999.59 Lo studio de visu della oramai celebre tavola maltese offre a De Marchi la possibilità di scoprirne il vero artefice che non è purtroppo il Maestro di Campodonico, ma un anonimo pittore ligure, autore di una piccola tavola devozionale con figurata una Madonna col Bambino e quattro angeli, conservata nella chiesetta di San Giorgio a Tellaro, nel Golfo dei Poeti (oggi a Lerici, Santa Maria Stella Maris). I dati dello stile non lasciano adito a dubbi, si tratta dello stesso pittore «tra giottismo riformato lombardo e gli inizi di Barnaba da Modena», come peraltro parzialmente intuito da Miklós Boskovits e indipendentemente proposto da Gianni Romano.60

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Il pittore delle Abbazie. Il Maestro di Campodonico

1 Cfr. Paoli 1990, pp. 311-313. 2 Cfr. Biocchi 1974, ed. 1989, pp. 383-392. 3 Venturi 1915, p. 8. 4 Rispettivamente: Neg. N. C 7905, l’edifico abbaziale in esterno; C 7906, Annunciazione; C. 7907, Crocifissione intero; C 7908, angeli alla destra del P.E.; C 7909, Maddalena; C 7910, svenimento della Vergine. La datazione della campagna è riferita in La Fototeca Nazionale, Roma 1986, cit. in Valazzi 1988, part. p. 114 e nota 48. 5 Berenson 1921-1922, p. 309, nota 7. 6 Sassi 1924; l’autore rimanda a Ricci 1834, I, pp. 86 e 108, nota 41; Lanzi, Storia pittorica, ed. 1968, I, p. 266. Ramelli 1852, p. 12; Scevolini 1627, c. 93r; Colasanti 1906, p. 265. 7 Serra 1927-1928, pp. 82-86; Serra 1929, pp. 261-263. 8 Salmi 1930, pp. 305-308. 9 Berenson 1932, p. 13. 10 Molajoli 1932, pp. 167-174. 11 Molajoli 1936. 12 Molajoli 1936, ed. 1990, pp. 130-131. 13 Marabottini 1951-1952, pp. 25-30, part. 27. 14 Zeri 1949, pp. 21-22, ora in Zeri, Diario marchigiano, ed. 2000, pp. 56-59. 15 Toesca 1951, pp. 674-676. 16 Toesca segnala anche un frammento d’affresco, da San Biagio in Caprile, nei depositi del Museo Fogg di Cambridge (Mass.); si tratta in realtà della testa della Maddalena di Francesco da Rimini, staccata dalla Crocifissione affrescata nel refettorio di San Francesco a Bologna, cfr. Marchi 1993, p. 87, nota 12; (l’equivoco attributivo si dimostra di un certo rilievo a sottendere comunque un qualche rapporto fra il nostro anonimo e la scuola riminese trecentesca). 17 Cfr. Paoli 1990, pp. 321-324. 18 Longhi 1962, ed. 1974, p. 142. 19 Longhi 1963, ed. 1974, p. 165. 20 Longhi 1966, ed. 1974, p. 152. 21 Zeri 1963, p. 330. 22 G. Marchini, in Mostra di affreschi staccati 1964, pp. 10-11, n. 9. 23 G. Marchini, in Mostra di opere d’arte restaurate 1965, p. 13; F.M. Aliberti, ivi, pp. 12-13, n. 2. 24 Volpe 1965, pp. 37, 59-60, nota 54. 25 Bellosi, La pittura 1966, s.p., tavv. 29-31 a colori. 26 G. Marchini, in Mostra di opere d’arte restaurate 1967, pp. 9-10, n. 1. 27 Cfr. comunque il breve articolo di Giampiero Donnini, Era un miniatore?, in L’Azione, 27 maggio 1995; dove partendo dall’affermazione di Marchini si esprimono alcune considerazioni sulle qualità miniatorie dello stile del maestro, senza però portare riscontri decisivi o prove autentiche che sorreggano la supposizione; vi si esprime anche l’ipotesi che il nostro fosse un monaco, e perciò impossibilitato, per i dettami della regola, a firmare le sue opere, tanto più che le professioni di monaco e miniatore erano, nel Medioevo, concomitanti. 28 Donnini 1967. 29 Donnini, Nuove osservazioni 1971, p. 330. 30 M. Beaulieu, in L’Europe Gothique 1968, p. 195, n. 313. 31 Il libro di Pietro Zampetti, La Pittura Marchigiana del ’400, esce una prima volta sotto l’auspicio dell’Istituto di Credito Fondiario della Regione Marchigiana, in 3000

esemplari numerati fuori commercio, per i tipi di Electa Editrice, senza luogo né data di edizione, ma stampato a Venezia 1969; l’anno dopo viene stampata un’edizione in commercio con il titolo La Pittura Marchigiana da Gentile a Raffaello, s.d. ma 1970; cfr. alle pp. 25-26. 32 G. Marchini, in Mostra di antichi affreschi 1971, pp. 23-25, n. 1. 33 Donnini, recensione 1971. 34 Donnini 1982, pp. 389-392. 35 Donnini, Schede di pittura 1986, pp. 12-14. 36 Il Maestro di Montemartello (una sorta di alter ego di Mello da Gubbio) è una creatura di Giampiero Donnini (1974). 37 Donnini, La pittura 1986, pp. 106-107. 38 Mi riferisco al mio saggio esplorativo: Marchi 2007, pp. 64-66. 39 Neri Lusanna 1986, p. 415 (il saggio sulle Marche non è compreso nella prima redazione del volume, pubblicato nel 1985 sotto gli auspici della Banca Nazionale dell’Agricoltura). 40 Ivi, pp. 416-418; si veda anche Ricci 1986, pp. 618-619. 41 Il titolo originale del convegno: La Pittura fra Romagna e Marche nella prima metà del Trecento. Gli apporti di Rimini e Fabriano rimane nel piccolo catalogo della mostra fotografica, affidato alle cure di Roberto Budassi Piergiorgio Pasini, senza luogo di stampa, ma 1987. 42 Boskovits 1988. 43 Tambini 1988. 44 Budassi 1988. 45 Valazzi 1988, part. 114 e nota 48. 46 Zampetti 1988, pp. 118-119, figg. 36-40. 47 Donnini, San Biagio 1990; Donnini, S. Maria d’Apennino 1990. 48 Zampetti-Donnini 1992, pp. 18-20. 49 Donnini-Parisi Presicce 1994, pp. 49-50. 50 Neri Lusanna 1995, p. 172. 51 Marchi 1995, p. 123, nota 39. La connessione fra Campodonico e Tolentino è notata da Miklós Boskovits (in Tolentino 1988, pp. 96-99). 52 Scarpellini 1996, pp. 14-15. 53 Si è già segnalata l’opinione del Donnini, in favore dell’ambiente padovano intorno Giusto de’ Menabuoi; va aggiunta la proposta di Andrea De Marchi (Per un riesame 1987, p. 64, n. 99): «sull’area problematica tra Carlo[da Camerino] e il giovane Arcangelo[di Cola]». Successivamente lo studioso ha pensato ad «una cauta ipotesi di lavoro, per rintracciare una storia tutta marchigiana di Arcangelo» (De Marchi 1990, p. 197, nota 16). 54 Cfr. la recente scheda dedicata al dipinto di Emanuela Daffra, in La città ideale 2012, pp. 226-227, n. 5.5. 55 Marcelli 1996, p. 24. 56 Neri Lusanna 1997. 57 Marcelli, Il Maestro di Campodonico 1998. 58 De Marchi 1998. 59 Il Maestro di Campodonico 1998. 60 De Marchi 2001, pp. 70, 76.

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Allegretto Nuzi e la pittura fiorentina prima e dopo la “morte nera”

Allegretto Nuzi e la pittura fiorentina prima e dopo la “morte nera” alberto lenza

1. Allegretto Nuzi, Sant’Agostino tra san Nicola da Tolentino e santo Stefano (cat. 42; particolare). Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”.

Firenze nei decenni centrali del Trecento era una città ricca e vivace che non si lasciò abbattere da disastri economici (il fallimento dei banchieri Bardi e Peruzzi), crisi politiche (la tirannia del Duca d’Atene), cataclismi naturali (l’alluvione del 1333) o epidemie (la peste del 1348). La sua grande vitalità culturale, le leggi meno restrittive che permettevano di lavorare anche ai forestieri e i numerosi cantieri aperti (il Duomo, Santa Croce, Santa Maria Novella, Orsanmichele) attrassero molti artisti “stranieri” provenienti dai diversi stati della Penisola italiana o da nazioni d’Oltralpe. Tra questi vi fu Allegretto Nuzi, documentato per la prima volta nella città gigliata nel 1346 quando si iscrisse alla compagnia di San Luca; sempre nello stesso anno figura come “Allegrettus Nucci de Senis” nell’elenco dei membri forestieri dell’Arte dei Medici e Speziali di Firenze, corporazione che accoglieva anche i pittori.1 La sua origine senese si spiega col fatto che l’artista dovette trascorrere qualche tempo in questa città dove ebbe modo di conoscere le opere dei fratelli Lorenzetti che influenzarono profondamente la sua produzione giovanile. Ma quale era il panorama artistico che si presentava agli occhi di Allegretto al suo arrivo a Firenze? Se Giotto aveva dominato incontrastato la scena artistica fiorentina, rinnovando la visione pittorica del tempo e orientando i caratteri fondamentali della pittura non solo locale ma anche di gran parte della Penisola, dopo la sua morte, avvenuta nel 1337, nessuno era stato in grado di assumere il ruolo di leader. La fase successiva alla scomparsa del grande caposcuola venne a lungo interpretata come un’epoca di ineluttabile decadenza, causata o dalla crisi economica e sociale della città o dalla terribile peste nera del 1348 e dominata dall’arte accademica e glaciale dell’Orcagna e dei suoi seguaci.2 Solo alla fine del secolo ci sarà un modesto e faticoso risveglio che si manifestò nel recupero di temi formali e iconografici di ispirazione giottesca. Studi più recenti hanno invece dimostrato che i decenni a cavallo della metà del secolo furono un periodo di grande effervescenza artistica.3 Ciascuno dei pittori attivi in quegli anni, infatti, cercò di interpretare a modo suo uno o più aspetti della lunghissima e varia carriera del grande Maestro: prevalsero la tendenza più narrativa e ortodossa di Taddeo Gaddi e quella naturalistica e mimetica di Stefano e Giottino mentre quella intellettuale di Maso, che sfocerà nella rigidità iconica dell’Orcagna, non avrà largo seguito ma diventerà tappa intermedia e fondamentale del passaggio dal giottismo alla pittura rinascimentale. L’“erede” legittimo del grande Maestro era Taddeo Gaddi, uno dei più anziani pittori attivi e il più autorevole dei suoi allievi.4 Egli raccolse l’eredità di Giotto in senso imprenditoriale, infatti, tramite un’organizzata bottega che coinvolse i figli Giovanni e Agnolo, fu capace di far fronte a notevoli commissioni sia di dipinti su tavola che di affreschi. Dopo le aperture gotiche degli affreschi della cappella Baroncelli caratterizzati dal fluente linearismo dei contorni e da un cromatismo luminoso e non privo di cangiantismi, negli anni trenta, parallelamente a quando avveniva nelle opere di Maso di Banco e Bernardo Daddi, l’artista si indirizza verso ritmi formali più pacati e ampi e si muove in cerca di una maggiore chiarezza spaziale ed equilibrio compositivo. Alla metà del secolo, morti a causa della peste i suoi principali concorrenti (Daddi, Maso e i Lorenzetti) assurse a pittore più importante nella sua città. La sua leadership è sancita da un documento redatto dagli operai di San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia intorno al 1349 dove viene considerato l’artista più prestigioso tra quelli più noti allora a Firenze e non solo e a lui viene assegnata la commissione del polittico per l’altare maggiore della chiesa.5 A partire 71

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dagli anni cinquanta torna a ripetere modelli giovanili e mostra anche di risentire dell’influenza della severità formale orcagnesca. Taddeo sarà guardato con reverenza dagli artisti dell’ultimo trentennio del secolo (Spinello Aretino e Niccolò di Pietro Gerini) che, tramite le sue ricerche spaziali e cromatiche, riscopriranno Giotto. Maso di Banco è considerato dalla critica moderna il vero erede morale di Giotto e il trait d’union con gli artisti della generazione dell’Orcagna. Scarne sono le notizie biografiche e il suo catalogo, privo di opere firmate, è stato ricostruito dall’Offner intorno al ciclo di San Silvestro in Santa Croce a Firenze6 ed è limitato a pochi numeri cui ultimamente si è aggiunta un piccola tavoletta raffigurante san Domenico in collezione privata, probabilmente un’opera giovanile.7 La sua pittura “abbreviata”, che probabilmente affonda le radici nel Giotto estremo della cappella Bardi, procede per larghe stesure di colori vivi e dall’impasto morbido che danno un aspetto lucente sia alle architetture che alle figure; i personaggi si muovono sempre con gesti solenni e di studiata lentezza e sono avvolti in vesti ampie che creano pieghe profonde. Durante il quarto decennio la sua bottega fu in costante contatto con quella di Bernardo Daddi come dimostrano non solo i dati tecnici (l’uso degli stessi punzoni), ma anche le reciproche influenze stilistiche evidenti, ad esempio, nella Madonna col Bambino della Gemäldegalerie di Berlino (fig. 2) venata da un forte riflesso daddesco. 72

2. Bernardo Daddi, Madonna col Bambino. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.

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3. Stefano Fiorentino, Santi Giovanni Battista e Paolo. Newark, Del., Alana Collection.

Il ruolo di Maso come leader della pittura fiorentina post giottesca è stato a volte esaltato proprio a discapito di Bernardo Daddi che, dopo la scomparsa di Giotto, fu capace di accaparrarsi le più prestigiose commissioni cittadine. La sua produzione, specializzata in pittura su tavola, è contraddistinta da un cromatismo luminoso, vistosi effetti decorativi e una resa narrativa sobria e pacata, ma anche attenta a cogliere la partecipazione sentimentale dei personaggi. L’arte del Daddi emerge nel panorama pittorico fiorentino della prima metà del Trecento come una personale interpretazione dell’eredità giottesca filtrata attraverso la visione della cosiddetta “tendenza miniaturistica” della pittura locale e il lirismo della pittura senese e costituì un modello molto seguito dai pittori fiorentini dei decenni centrali del XIV secolo. Egli riscosse un enorme successo presso i contemporanei, testimoniato dalle decine e decine di dipinti prodotti nella sua attivissima bottega e conservati presso musei e collezioni pubbliche e private di tutto il mondo; tuttavia presso la critica moderna ha goduto di scarsa fortuna e soltanto gli studi capillari di Richard Offner e, in tempi più recenti, di Miklós Boskovits gli hanno restituito il giusto ruolo all’interno della pittura fiorentina della prima metà del Trecento.8 Nel già citato documento pistoiese, subito dopo Taddeo Gaddi, è menzionato Maestro Stefano, presumibilmente Stefano fiorentino. Il recupero della fisionomia artistica di questo grande artista, celebrato già dai contemporanei come uno dei maggiori pittori del suo tempo e definito dalle fonti antiche “scimmia della natura” per l’acutezza delle sue osservazioni naturalistiche, rimane ancora un problema aperto ed è uno dei temi più affascinanti della pittura italiana del Trecento. Tutte le opere assegnategli dalle fonti sono andate perdute (per ultimo l’affresco con l’Assunzione della Vergine del Camposanto di Pisa). Il suo ristrettissimo catalogo, che comprendeva solo la Glorificazione della Vergine di Chiaravalle milanese, è stato recentemente arricchito da Boskovits con un affresco frammentario sulla parete sinistra della chiesa fiorentina di San Pietro in Palco raffigurante san Biagio con due devoti e una storia della sua leggenda e la metà superiore del volto di san Giovanni Battista e il laterale di un polittico con i santi Giovanni Battista e Paolo (Newark, Del., Alana Collection; fig. 3).9 Recenti indagini archivistiche hanno dimostrato che egli non era il nipote di Giotto e probabilmente questa parentela era stata creata dal Baldinucci in una sorta di glorificazione della discendenza, di un DNA giottesco che arrivava fino al figlio Giotto di Maestro Stefano detto Giottino, artista che non è citato nel documento pistoiese perché probabilmente ancora alle prime armi.10 I suoi capolavori (il tabernacolo di via del Leone, e la successiva Pietà di San Remigio) risalgono infatti al sesto decennio e mostrano le sue indubbie qualità di appassionato osservatore della realtà non solo nelle puntuali notazioni delle acconciature e dei costumi, aggiornati alla moda del tempo, ma anche nella capacità di rendere con estrema cura l’epidermide delle cose attraverso un modellato denso e sfumato che risalta la differente consistenza delle superfici.11 In questa lista non compare nemmeno Giovanni da Milano documentato per la prima volta a Firenze nel 1346. L’artista arrivò nel capoluogo toscano ancora molto giovane e plasmabile e probabilmente frequentò la bottega di Bernardo Daddi dove venne a contatto con Puccio di Simone e il Maestro della Misericordia. Le sue opere eseguite negli anni cinquanta sono infatti improntate su modelli iconografici e compositivi e tipologie tipiche della pittura fiorentina del quarto e quinto decennio del XIV secolo, segno che il suo soggiorno in questa città dovette essere stato abbastanza lungo.12 Pittore, scultore, architetto, Andrea di Cione detto l’Orcagna, ricordato al terzo posto nel documento pistoiese, è l’unico artista “universale” del Trecento fiorentino. Apprezzatissimo dai contemporanei, è stato invece additato dalla critica moderna come capostipite di quella tendenza antinaturalistica e trascendente, denominata con spregio “orcagnesca”, che fu responsabile di aver corrotto gran parte della pittura fiorentina della seconda metà del secolo. La sua opera è stata riconsiderata grazie agli studi di pochi conoscitori fra i quali risaltano gli interventi di Offner e Boskovits.13 L’Orcagna è il primo artefice del recupero del “giottismo classico” con molto anticipo rispetto alla tendenza neogiottesca di fine secolo: egli organizza le composizioni attraverso un rigoroso bilanciamento simmetrico, predilige profili di taglio classico e concepisce figure in solide masse plastiche. Ancora incerta e dibattuta è la questione della sua formazione che av73

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venne probabilmente a contatto con Maso e con Bernardo Daddi e fu segnata da una profonda riflessione sulla produzione estrema di Giotto. La Maestà di San Giorgio a Ruballa datata 1336 e gli affreschi della cappella dell’Annunciazione nel chiostrino dei Morti a Santa Maria Novella (figg. 4-6), infatti, lo mostrano un appassionato seguace di questi artisti come si nota nella preferenza accordata alle ampie distese del colore, nelle forme cesellate da delicati passaggi tonali e nella volontà di evidenziare la figura umana che nelle sue opere più tarde progressivamente si isola nell’azione. In seguito, probabilmente influenzato dalla sua attività di scultore, l’artista si mostra più interessato ad una marcata resa plastica delle masse corporee ritagliate sul fondo oro da contorni nitidi e fortemente incisi e sperimenta nuovi modelli di tavole d’altare con soluzioni volte a coinvolgere in maniera illusionistica anche la carpenteria. Nella Pala Strozzi del 1357 (fig. 7) uniformando la superficie pittorica supera il principio additivo del polittico tradizionale e inventa così la versione moderna della pala d’altare. L’etichetta “orcagnesco” viene genericamente riferita a molti pittori, come Giovanni Bonsi, Niccolò di Tommaso, Matteo di Pacino, Andrea Bonaiuti, Giovanni del Biondo e Giovanni di Bartolomeo Cristiani che invece subirono il forte influsso del fratello Nardo di Cione, anch’egli citato nel documento pistoiese perché probabilmente teneva un’altra bottega.14 Ancora sfuggono i contorni della fase iniziale della sua carriera cui dovrebbero risalire i lacerti superstiti delle decorazioni della cappella Giochi-Bastari e Covoni nella chiesa di Badia a Firenze, forse realizzate ancora prima della metà del secolo e dove emerge la sua formazione avvenuta probabilmente tra il terzo e il quarto decennio a contatto col tardo Giotto e presso Stefano e Maso, del quale fu tramite anche il fratello Orcagna. Ma le figure monumentali di stampo masesco sono ingentilite da un modellato tenero e una luminosità diffusa e l’artista coniuga felicemente il rigore compositivo e la maestosità dell’impianto spaziale tipici della tradizione giottesca ad un naturalismo epidermico e inquieto che lo rendono a pieno titolo uno dei primi seguaci della tendenza pittorica definita del “dipingere dolcissimo e tanto unito”.15 Gli affreschi della cappella Strozzi 74

4. Andrea di Cione, Natività (particolare). Firenze, convento di Santa Maria Novella, chiostrino dei Morti. 5. Andrea di Cione, Annunzio ai pastori (particolare). Firenze, convento di Santa Maria Novella, chiostrino dei Morti. 6. Andrea di Cione, Crocifissione (particolare). Firenze, convento di Santa Maria Novella, chiostrino dei Morti.

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(figg. 8-9) terminati probabilmente prima del 1357 sono popolati da personaggi modellati con delicati passaggi chiaroscurali e capaci di esprimere emozioni intense. La figura umana viene per la prima volta indagata a fondo non solo nei suoi aspetti di evidenza plastica e di presenza fisica ma anche in quelli emotivi. Nelle opere della fase conclusiva della sua carriera, pur mantenendo la grazia e la delicatezza poetica, l’artista ricerca i marcati effetti plastici e il rigore compositivo tipici di Andrea di Cione.16 La pittura orcagnesca ebbe un enorme successo a Firenze, fu tramandata fino alle soglie del secolo successivo da Jacopo di Cione,17 il più giovane dei fratelli, probabilmente attivo già dal

7. Andrea di Cione, Polittico Strozzi (particolare). Firenze, chiesa di Santa Maria Novella, cappella Strozzi. 75

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sesto decennio e capo di una strutturata e fiorente bottega dove lavorarono molti artisti tra cui il suo fedele collaboratore, il Maestro della Predella dell’Ashmolean Museum che credo possa identificarsi con Tuccio Vanni.18 Un altro artista citato nel documento pistoiese è «maestro Franciescho, lo quale istae in botegha dell’Andrea»,19 ancora sconosciuto alla critica moderna e per il quale Boskovits ne ha proposto l’identificazione col Maestro di San Lucchese, pittore formatosi in ambito masesco e a stretto contatto con la bottega orcagnesca, ma che invece di ispirarsi alla monumentalità e ai marcati effetti di rilievo delle opere di Andrea di Cione cerca di dare alle sue opere toni più intimistici e preziosi.20 Nella lista compare anche Puccio di Simone, artista di livello, ma che certo non può considerarsi tra le personalità trainanti della pittura fiorentina del metà del Trecento.21 La sua produzione si contraddistingue per il suo timbro originale e multiforme che la rende difficilmente classificabile in una delle tendenze stilistiche del tempo quindi la seriazione cronologica delle sue opere resta un problema tutt’ora aperto. Puccio, infatti, matura un linguaggio assai personale con riprese di accenti stilistici delle fasi precedenti, arcaismi e richiami ai grandi Maestri del passato, pertanto può considerarsi uno dei più originali artisti attivi a Firenze nei decenni centrali del Trecento. La sua formazione è stata giustamente individuata dal Boskovits all’inter76

8-9. Nardo di Cione, Giudizio Universale (particolari). Firenze, chiesa di Santa Maria Novella, cappella Strozzi.

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no dell’attivissima officina di Bernardo Daddi col quale continuò a collaborare anche in seguito dipingendo la figura della Maddalena nel polittico ricomposto della Galleria dell’Accademia (inv. nn. 443 e 6140) e i laterali del trittico Ghent-Berlin e dopo la morte del maestro ne rilevò le sorti della bottega.22 Durante il suo soggiorno fiorentino Allegretto frequentò le botteghe dell’Orcagna e di Maso come suggeriscono i caratteri stilistici dei suoi dipinti riconducibili alla seconda metà del quinto decennio. Quando scoppiò la peste nera l’artista probabilmente tornò in patria dove è documentato nel 1348.23 Purtroppo la perdita delle due opere ricordate dalle fonti nella chiesa di San Domenico a Fabriano e datate 1345 e 1349 non ci aiuta a comprendere lo sviluppo del suo linguaggio pittorico prima e dopo il soggiorno fiorentino.24 Pochi anni dopo venne raggiunto nella città marchigiana da Puccio, forse su invito del fabrianese stesso che presumibilmente aveva avuto modo di conoscerlo a Firenze o su richiesta degli Antoniani che gli commissionarono per l’altare maggiore della loro chiesa di Sant’Antonio Abate fuori porta Pisana un trittico datato 1354 e oggi conservato nella National Gallery di Washington (fig. 10).25 Il complesso è la prima opera datata dei due artisti e mostra aspetti insoliti nella pittura trecentesca: colpisce, infatti, non solo il contrasto tra lo scomparto centrale, popolato da figure numerose e di piccole dimensioni e i laterali dove sono raffigurati santi singoli più grandi rispetto alla Madonna in trono del registro principale, ma anche il fatto, molto raro, che sant’Antonio Abate viene rappresentato due volte, sia nella tavola centrale che nel laterale a sinistra. Inoltre, se l’esecuzione di un dipinto da parte di due pittori non era insolita nel Trecento, non comune invece era la realizzazione di una tavola d’altare da parte di due artisti di formazione e origine diversa. A Puccio spetta la progettazione generale dell’opera che nello scomparto centrale sembra la versione ingrandita di uno di quei trittichetti portatili usciti dalla bottega del Daddi, così come anche i punzoni e i motivi ornamentali delle stoffe sono tipicamente fiorentini: la veste quasi esibita con ostentazione da san Venanzio è ornata da fiori, uccelli e tartarughe sgraffite sull’oro, un motivo decorativo presente, con varianti, in alcuni dipinti realizzati nella bottega dell’Orcagna. Si tratta di una delle stoffe dalla decorazione più vistosa e complessa raffigurate nei dipinti della metà del XIV secolo e probabilmente piacque molto ai fabrianesi perché verrà riproposta da Allegretto in diverse sue opere della fase matura.26 La schietta comunicatività dei personaggi di Puccio, dai tratti individuali sempre più caratterizzati, mostra che l’artista, a partire dall’inizio del sesto decennio, si era ormai distaccato dalla visione daddesca e, influenzato dalle ricerche naturalistiche di Stefano di Ricco e del Maestro di San Lucchese, si avviava sempre più alla ricerca di realismo pittorico, attraverso un meticoloso scrutinio dell’epidermide e un chiaroscuro che modella morbidamente le forme. Anche la figura severa e solenne del Sant’Antonio Abate, forse ripetuta nel laterale sinistro per darle maggior risalto, fa parte del suo repertorio e sarà riproposta dal pittore nel polittico di Petrognano e in posizione invertita in un trittico già in collezione De Carlo. Ma un’umanità diversa contraddistingue questo personaggio: il suo sguardo fermo con gli occhi a mandorla e i tratti del volto non segnati da rughe tradiscono, infatti, la mano di Allegretto.27 Ancora ignote sono le ragioni, le modalità e i tempi di questa collaborazione tra i due artisti. Tuttavia le anomalie tecniche fanno pensare a un ripensamento o a un cambiamento di programma nel laterale sinistro, forse realizzato dal Nuzi su un disegno di Puccio di Simone, dopo che questi forse dovette lasciare la città marchigiana per un improvviso ritorno in patria.28 Del resto il numero esiguo di dipinti eseguiti a Fabriano da Puccio in un breve lasso di tempo e destinati, tra l’altro, alla stessa chiesa (oltre al trittico di Washington anche il Sant’Antonio Abate venerato da un gruppo di fedeli del 1353; cat. 33) e il fatto che le influenze reciproche tra i due pittori sono limitate, perché entrambi avevano un lessico artistico già formato, suggeriscono che essi probabilmente non si unirono in una vera e propria “chompagnia” ma che l’artista fiorentino fosse stato chiamato dagli Antoniani per dipingere queste due opere e qui si appoggiò alla bottega del collega e amico. Ma non è da escludere che Puccio successivamente sia andato altre volte nelle Marche da dove, come ha ipotizzato Boskovits, forse proviene anche il trittico del Museo di Cleveland, stilisticamente prossimo alla Madonna dell’Umiltà del 1360 (Newark, Del., Alana Collection).29 Ed è probabile che anche Allegretto sia tornato a Firenze: le sue opere 77

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tarde, caratterizzate da un modellato dalla durezza quasi metallica, l’uso abbondante di stoffe con vistosi motivi decorativi e un graduale irrigidimento degli schemi compositivi, infatti, lo mostrano aggiornato sulla produzione contemporanea di Andrea e Jacopo di Cione.

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10. Puccio di Simone e Allegretto Nuzi, Madonna col Bambino, angeli e santi (particolare). Washington, D.C., National Gallery of Art, A.W. Mellon Collection.

Allegretto Nuzi e la pittura fiorentina prima e dopo la “morte nera”

1 Cfr. Procacci 1962, p. 65 per il primo documento e Gualandi 1844, p. 176 per il secondo. 2 Bernard Berenson (1948, p. 346) dichiara che «la storia dell’arte ha a che fare con capolavori» e questi, secondo il parere di molti, scarseggiavano nella seconda metà del XIV secolo. In quel periodo, scrive Pietro Toesca (1929, pp. 50-51), mancò il «genio creatore e furono invece moltitudine gli artefici minori», lo studio dei quali non servirebbe a «seguire le forze vive della pittura fiorentina». «La stanchezza ch’essi ingenerano», aggiunge lo studioso con velata polemica verso i colleghi anglosassoni, «potrebbe essere compensata soltanto dalla curiosità di classificarne le opere». La definitiva stroncatura di questa stagione artistica avverrà ad opera di Roberto Longhi nel famoso articolo su Taddeo Gaddi del 1959. 3 Per un bilancio critico aggiornato degli studi sulla pittura fiorentina dopo la morte di Giotto cfr. L’eredità di Giotto 2008. 4 Per un profilo aggiornato dell’artista si vedano Chiodo 2005; Tripps 2007; Il polittico di Taddeo Gaddi 2008; A. Labriola, in The Alana Collection 2009, pp. 199-204, n. 35. 5 ASPt, Patrimonio ecclesiastico, C449 (San Giovanni Fuoricivitas, “Entrata e uscita, 1320-1376”, c. 1; cfr. Chiappelli 1900, p. 2). 6 Offner 1929. 7 Sull’artista cfr. Neri Lusanna 2008, mentre sull’ultima aggiunta al catalogo cfr. De Marchi 2013. 8 Lo studioso americano gli dedicò ben quattro volumi del Corpus of Florentine Painting (1930, 1934, 1947 e 1958); si veda anche Offner 1930, ed. Boskovits 1984; Offner 1930, ed. Boskovits 1989. Per un profilo recente cfr. Dal Duecento 2001, pp. 48-83 e A. Tartuferi, in Da Bernardo Daddi 2005, pp. 70-76. 9 Su Stefano cfr. Boskovits 2003; Tartuferi 2008, pp. 21-26; M. Boskovits, in L’eredità di Giotto 2008, pp. 124-125, n. 15; F. Pasut, in The Alana Collection 2009, pp. 192-198, n. 34; Gregori 2010; Bandera 2010, pp. 46-47. 10 Suo padre Ricco infatti non era quel Ricco di Lapo marito di Caterina, figlia di Giotto (cfr. Lenza 2008). 11 Su Giottino cfr. Labriola 2000, pp. 423-427; Bellosi 2001, pp. 19-40; Boskovits 2003, p. 175; Parenti 2005, pp. 26-27. 12 Per un bilancio aggiornato degli studi sull’artista si veda Giovanni da Milano 2008. 13 Cfr. Offner 1962; Boskovits, Pittura 1975, pp. 21-25. Per un riepilogo sull’Orcagna si rinvia alla monografia di Gert Kreytenberg (2000) e alle relative recensioni di Roberto Bartalini (2000) e Daniela Parenti (2001) nonché a A. Labriola, in The Alana Collection 2009, pp. 16-22, n. 4. 14 Su Giovanni Bonsi cfr. Pasquinucci-Deimling 2000; su Niccolò di Tommaso cfr. A. Labriola in The Alana Collection 2009, pp. 143-147, n. 25; Feraci 2008/2009; Feraci 2010; Feraci-Fenelli 2012, pp. 81-119. Su Matteo di Pacino cfr. Lenza, Alcune novità 2005 e Chiodo 2011, con proposte critiche diverse ed è forse per questo motivo che nel testo più recente non viene affatto citata la tesi di laurea del primo (discussa nel 2004), con oggetto proprio questo pittore, che la studiosa ha avuto modo di consultare in quanto assistente del relatore. Su Andrea Bonaiuti cfr. Tripps 1996 e A. Lenza, in The Middle Ages 2011, pp. 38-41, n. 3; su Giovanni del Biondo cfr. Parenti 2000; Lenza 2007, pp. 530-534 e Il tardo Trecento 2010, pp. 42-63; su Giovanni di Bartolomeo Cristiani cfr. Labriola 2007, pp. 519-521.

15 Cfr. Vasari 1568, ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, II, p. 136. 16 La cronologia del piuttosto apparentemente breve percorso stilistico di Nardo è ancora un problema aperto e, dopo i tentativi di Offner (1960), ben pochi studiosi hanno voluto affrontarlo. Per un profilo aggiornato sull’artista cfr. Tartuferi, Dal Duecento 2001, pp. 53-73 e Parenti 2012. 17 Sul pittore cfr. Tartuferi 2004. 18 Questo artista è spesso citato nei documenti, ignorati dalla critica, relativi al Polittico eseguito per l’altare maggiore della chiesa fiorentina di San Pier Maggiore da Jacopo di Cione e dalla sua bottega, tra cui anche l’anonimo pittore, e terminato nel 1371; questo tema sarà affrontato da una prossima pubblicazione a cura dello scrivente. 19 ASPt, Patrimonio ecclesiastico, C449 (San Giovanni Fuoricivitas, “Entrata e uscita, 1320-1376”, c. 1). 20 Per un profilo aggiornato cfr. Boskovits 2003, p. 176; A. Tartuferi, in Da Bernardo Daddi 2005, pp. 125-127, n. 27; A. Labriola, in The Alana Collection 2009, pp. 110-116, n. 20. Sul pittore è stata fatta una tesi di laurea da Manuela Tronci sotto la guida di Boskovits, discussa nel 2006. 21 Per un profilo aggiornato sull’artista cfr. Tartuferi, Puccio di Simone 2005, e Lenza, Alcune note 2005 per i dati documentari. 22 Per il primo dipinto cfr. A. Tartuferi, in Dal Duecento 2001, pp. 79-83, n. 12 e per il secondo cfr. Offner 1947, ed. Boskovits 2001, pp. 421-429. 23 Cfr. Felicetti 1998, p. 215. 24 Cfr. Ricci 1834, 1, pp. 88, 109, nota 49. 25 Cfr. Offner 1947, ed. Boskovits 2001, pp. 391-402. 26 Questo motivo si ritrova nella copia maceratese del trittico di Washington del 1369, anch’essa eseguita su commissione degli Antoniani (cfr. Offner 1947, ed. Boskovits 2001, p. 398), nella tavola del Musée du Petit Palais di Avignone (cfr. Marcelli 2004, p. 71), nel Trittico con sant’Agostino tra san Nicola e santo Stefano (Fabriano, Pinacoteca Civica), nello scomparto col “San Venanzio” del trittico di Santa Maria d’Appennino del 1372 (ivi, p. 113) e nel manto dipinto di una scultura che raffigura la Madonna col Bambino in braccio, che si trovava nella chiesa di San Biagio in Caprile a Campodonico e oggi in collezione privata (cfr. E. Neri Lusanna, in L’eredità 2008, pp. 132-133, n. 19). 27 La figura del sant’Antonio Abate sarà riproposta in maniera simile nella posa e nella tipologia fisiognomica da Allegretto oltre che nel Trittico di Macerata anche nel laterale di un trittico che si trova nella Pinacoteca di Fabriano (cfr. Marcelli 2004, p. 137). 28 Già Shapley (1979, I, p. 384) ha rilevato l’anomalia della linea di contorno incisa sul fondo oro nel laterale sinistro mentre Skaug (1994, I, p. 141 e II, p. 538) ha notato un modo diverso di realizzare l’aureola del santo rispetto a quelle degli altri scomparti. Pertanto entrambi gli studiosi hanno tratto la conclusione che la tavola sinistra del complesso dovette essere rielaborata. 29 Boskovits (cfr. Offner 1947, ed. Boskovits 2001, pp. 522-527) ha ipotizzato che questo trittico, che all’inizio del XX secolo si trovava a Roma nella collezione del reverendo Nevin, come molte altre opere di questa raccolta abbia una provenienza marchigiana. Per il dipinto del 1360 cfr. A. Labriola, in The Alana Collection 2009, p. 173, n. 30.

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«Vergine Madre … umile ed alta piu’ che creatura». La Madonna dell’Umiltà nell’arte marchigiana tra XIV e XV secolo

«Vergine Madre … umile ed alta piu’ che creatura». La Madonna dell’Umiltà nell’arte marchigiana tra XIV e XV secolo stefano papetti

1. Francescuccio di Cecco Ghissi, Madonna dell’Umiltà (cat. 45; particolare). Montegiorgio (Fermo), chiesa di Sant’Andrea.

Nell’ambito della radicata devozione mariana fiorita nel Medioevo, gli ordini mendicanti svolsero un’importante azione di diffusione e di elaborazione di nuovi modelli iconografici volti a esaltare la figura della Vergine. Fra le immagini di recente conio più legate al contesto culturale degli Agostiniani compare nel XIV secolo quella della Madonna dell’Umiltà, seduta a terra nell’atto di allattare il Figlio. Un’iconografia che, in consonanza con le dottrine diffuse anche dai teologi agostiniani, esaltava la humilitas, virtù principale, radice di tutte le altre,1 circa la cui etimologia i dotti uomini di Chiesa non mancavano di sottolineare il legame con la parola humus, la terra.2 La raffigurazione in questione nasce ad Avignone intorno al 1340, come attesta la lunetta del portale centrale della cattedrale affrescato da Simone Martini, e secondo Alessandro Parronchi l’ispiratore della nuova iconografia sarebbe stato l’agostiniano Agostino Trionfi (Ancona, 1243-Napoli, 1328) che nel Summa de potestate ecclesiastica sosteneva il primato dell’umiltà del cuore sulla esteriore paupertas, spesso esibita con compiacimento ma senza il sostegno della vera e profonda consapevolezza. Tale convinzione si giustifica nel momento in cui la Cattedra di Pietro si schiera contro le correnti pauperistiche ereticali, sostenendo il primato della vera humilitas e dell’obbedienza quali elementi caratterizzanti una grande armonia interiore.3 Nelle Marche la diffusione della Madonna dell’Umiltà è un evento da collegare all’opera degli Agostiniani. Infatti, delle sei immagini superstiti di questo tipo, ben quattro provengono dalle chiese dell’Ordine: la più antica sembra essere la Madonna dell’Umiltà eseguita nel 1372 da Andrea da Bologna per uno degli altari della nuova chiesa conventuale fatta erigere a Corridonia nel 1370. Nel 1369 lo stesso maestro Andrea aveva dipinto il polittico per la chiesa fermana di Santa Caterina e durante il suo soggiorno marchigiano aveva operato presso altre istituzioni agostiniane, tanto da lasciare presupporre una sua familiarità con qualche illustre esponente dell’Ordine stesso che ne avrebbe guidato le scelte iconografiche.4 La tavola di Corridonia, caratterizzata dal preziosismo espresso dalla ricchezza delle stoffe e del drappo auroserico che chiude la composizione, rivela una stretta dipendenza iconografica dall’Apocalisse di Giovanni, come manifesta l’iscrizione posta sul primo gradino del basamento: mulier amicta sole et luna sub pedibus et in capite corona stellarium. Il sole ricamato che splende al centro del petto della Vergine, la falce di luna posta ai suoi piedi e la sontuosa corona cimata da dodici stelle danno consistenza visiva al passo giovanneo che l’artista interpreta conferendo alla Madre e al Figlio un atteggiamento molto umano, quasi a voler rendere accessibile anche ai devoti più semplici la comprensione del valore simbolico di questa immagine.5 I richiami all’Apocalisse (12,1) e soprattutto l’esaltazione di Maria come Regina Coeli, sembrano di segno opposto rispetto alla volontà di esaltare l’umiltà della Vergine, ma secondo Chiara Frugoni questa apparente contraddizione si spiega nel quadro di quel «principio di polarità così pervasivo del pensiero cristiano».6 Legate invece al contesto pittorico fabrianese sono le tavole riproducenti la Madonna dell’Umiltà conservate nelle chiese agostiniane di Montegiorgio (fig. 1) e di Ascoli Piceno (fig.2), attribuite entrambe a Francescuccio di Cecco Ghissi anche se la qualità di quella ascolana autorizza a spendere il nome ben più autorevole di Allegretto Nuzi, autore anch’egli di una Madonna del Latte oggi conservata presso la Pinacoteca di Fabriano: l’affermarsi nel centro dell’entroterra 81

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marchigiano di questo soggetto è collegato da Emma Simi Varanelli alla presenza dei due illustri predicatori agostiniani di origine fabrianese, i beati Giovanni e Pietro Becchetti, anche se la destinazione di queste tavole per centri assai lontani da Fabriano induce piuttosto a credere che esse siano state il risultato di una richiesta non circoscritta al contesto locale ma estesa a tutta la provincia agostiniana adriatica. L’indisponibilità al prestito della tavola ascolana per pretestuose ragioni di conservazione purtroppo non consentirà, in occasione di questa irripetibile mostra, di effettuare un confronto diretto con le opere autografe del Nuzi. Sin dal 1853 Giambattista Carducci aveva comunque riferito l’esecuzione della Madonna del latte della chiesa di Sant’Agostino ad Ascoli Piceno al capofila della pittura gotica fabrianese:7 solo negli interventi successivi veniva tirato in ballo il nome di Francescuccio Ghissi, anche se alcuni autorevoli studiosi, come Federico Zeri, avevano riproposto il nome del Nuzi. Un intervento di restauro, realizzato tre lustri orsono, ha eliminato la sporcizia e le ridipinture che compromettevano la leggibilità della tavola, mettendo in evidenza l’altissima qualità del dipinto, purtroppo celato dietro l’artistica inferriata settecentesca del Tartufoli che ne impedisce una buona visione. La Vergine, assisa a terra su un prezioso cuscino auroserico, indossa un lungo manto azzurro soppannato di vaio, decorato da motivi 82

2. Allegretto Nuzi (attribuito), Madonna della Pace. Ascoli Piceno, chiesa di Sant’Agostino.

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dorati in forma di stelle stilizzate, che copre una raffinata tunica di seta bianca, percorsa da decorazioni floreali e bordata da alte guarnizioni auree. Il Bambino sugge avidamente il latte dal seno materno e volge lo sguardo vivace e curioso verso il fedele, in direzione del quale si appuntano anche gli occhi di Maria, disposta quanto il Figlio a prestare attenzione alle preghiere loro rivolte, «zelante verso tutti, anche verso i peccatori perché spinta dalla sua umiltà misericordiosa».8 Alla scena assistono due angeli che vestono ampie tuniche rosa rimborsate in vita, secondo una foggia caratteristica che compare anche tra i lapidatori del Martirio di santo Stefano affrescato da Allegretto nella chiesa di San Domenico a Fabriano: le vesti sono inoltre decorate da applicazioni ricamate in oro. I due guardano intensamente la Vergine ed esprimono nella concentrazione del volto e nella postura deferente una grande partecipazione emotiva. L’attenta distribuzione delle luci, il disegno costruttivo che definisce le immagini, l’adeguarsi dei panneggi alla posizione dei corpi esprimono il magistero di un artista sicuro ed affermato, memore dei metodi appresi grazie ad un lungo soggiorno in Toscana. La consapevolezza spaziale che innerva le immagini dipinte dal Nuzi si manifesta anche nei dettagli, come rivela la sicura rotazione compiuta dalla Vergine nel clipeo superiore destro, raffigurata nell’atto di ricevere l’annuncio recatole dall’angelo che si affaccia dal lato opposto. Confrontando la tavola di Ascoli Piceno con quella firmata da Francescuccio nel 1374 per la chiesa di Sant’Agostino a Montegiorgio, si evidenzia nella prima una più consapevole capacità di dominio dello spazio, tanto da farla ritenere un modello che l’allievo declina in modo ripetitivo, puntando più sulla qualità dei dettagli e sulla profusione dell’oro che sulla sintesi formale. L’angelo, che nella tavola di Montegiorgio si volge verso Maria con un atteggiamento impacciato, esibisce una preziosa tunica tramata d’oro ed ha il capo coronato di rose bianche e rosse, ma tale eccesso di preziosismo non risulta sufficiente a mantenere viva la tensione spirituale che invece caratterizza le immagini nuziane. Da parte di Francescuccio, l’incapacità di gestire i campi visivi si ravvisa anche nell’Annunciazione che completa i due clipei superiori (figg. 3-4); all’atteggiamento timido dell’angelo corrisponde a destra la posizione innaturale e inadeguata della Vergine che nemmeno si avvede della sua presenza. Una delle ultime testimonianze in ordine di tempo della fortuna della Madonna dell’Umiltà presso le comunità eremitiche è rappresentata dalla tavola un tempo riferita a Carlo da Camerino e oggi attribuita a Olivuccio di Ciccarello del Museum of Art di Cleveland (fig. 5); opera che lo stemma della famiglia Rogeroli consente di ipotizzare come proveniente dalla chiesa di Sant’Agostino di Fermo per la quale Agostino Rogeroli aveva commissionato il prezioso Reliquiario della Sacra Spina. Rispetto agli esemplari trecenteschi, la tavola di Olivuccio si arricchisce di nuovi valori simbolici adombrati dalla presenza di Eva tentata dal serpente, effigiata nella zona inferiore della raffinata composizione, e tuttavia non trascura di rappresentare i consueti attributi collegati alla Madonna dell’Umiltà, la corona di stelle, il sole e la falce di luna posta ai piedi della Vergine.9

3-4. Francescuccio di Cecco Ghissi, Madonna dell’Umiltà (cat. 45; particolari dei clipei). Montegiorgio (Fermo), chiesa di Sant’Andrea. 83

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L’enfasi con la quale gli artisti della seconda metà del Trecento hanno rappresentato il momento in cui Maria è intenta ad allattare il Figlio lascia presumere che si volesse esaltare l’importanza dell’allattamento al seno materno, un tema caro tanto ai teologi quanto ai medici medievali. Infatti l’uso diffuso presso i ceti più abbienti di affidare i figli a balie che li portavano a vivere nelle proprie modeste dimore esponeva gli infanti ai rischi connessi con le pessime condizioni di igiene, accrescendo così la probabilità di una precoce mortalità. Si era infatti ben consapevoli che il latte materno garantisse un maggiore apporto proteico e fortificasse maggiormente i bambini: mostrare che anche Maria si era sottoposta a questa pratica poteva dunque essere uno strumento utile a convincere le madri a percorrere la stessa strada, rinunciando al baliaggio. Inoltre l’allattamento rappresentava nel Medioevo l’unico metodo contraccettivo accettato tacitamente dalle gerarchie ecclesiastiche in quanto medici e naturalisti esortavano le donne che allattavano ad astenersi dall’avere rapporti sessuali per non infettare la purezza del latte e per non pregiudicarne la qualità.10 In un contesto stilistico ormai decisamente orientato verso le più sofisticate soluzioni del gotico fiorito, il tema della Madonna dell’Umiltà viene affrontato anche da Lorenzo Salimbeni in un affresco strappato dalla chiesa settempedana di Santa Maria della Pieve, oggi conservato presso la Pinacoteca Civica della cittadina maceratese. Nella sua attenta ricostruzione del ciclo pittorico realizzato nel primo decennio del XV secolo da Lorenzo Salimbeni, Mauro Minardi colloca questo brano nella parte centrale dell’abside, fiancheggiato da due piccole monofore: purtroppo i danni provocati dall’umidità della chiesa che hanno consigliato lo strappo degli af84

5. Olivuccio di Ciccarello, Madonna dell’Umiltà. Cleveland, Oh., Cleveland Museum of Art. 6. Pietro di Domenico da Montepulciano, Madonna col Bambino in trono, angeli e santi (pannello centrale del polittico). Recanati, Pinacoteca Civica.

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freschi salimbeniani, non hanno risparmiato la Madonna dell’Umiltà, segnata da abrasioni e da integrazioni pittoriche che ne penalizzano la lettura: meglio conservate appaiono invece le immagini dei due angeli adoranti disposti araldicamente ai lati dell’immagine mariana. Le figure avviluppate in un vorticare di sete cangianti e le ali multicolori rafforzano quel tono di eleganza cortese che connota l’intera scena: della humilitas che caratterizzava le più antiche immagini di questo soggetto non resta che un generico riferimento, lasciando prevalere l’aristocratico distacco che impronta il volto severo e compunto della Vergine.11 A partire dal secondo decennio del XV secolo l’iconografia della Madonna dell’Umiltà subisce nell’arte marchigiana una mutazione di non scarso rilievo: scompare infatti la scena dell’allattamento del Bambino al seno materno e prevale l’idea di rappresentare la Vergine seduta a terra, spesso non in un interno ma all’aperto. In questo nuovo contesto Maria è raffigurata assisa su un variopinto prato fiorito e il suo manto azzurro si raccoglie in pieghe eleganti che poggiano sulle piante, descritte con grande perizia botanica. Nel contesto marchigiano questa soluzione iconografica è accolta da Pietro di Domenico da Montepulciano nel pannello centrale del polittico (fig. 6) dipinto nel 1422 per la chiesa di San Vito a Recanati, modello seguito dal suo allievo Giacomo di Nicola da Recanati che, per l’ancona commissionatagli nel 1443 dal vescovo Niccolò dell’Aste per la cattedrale, riprese il soggetto della tavola centrale: anch’egli rappresenta Maria seduta a terra nell’atto di sostenere il Bambino che le stringe il pollice e guarda verso i devoti, mentre la Madre concentra la propria attenzione verso il Figlio. È questo il motivo che anche Gentile da Fabriano aveva a sua volta rappresentato nella tavola oggi a Pisa (fig. 7), certamente destinata alla devozione privata. Sembra insomma che nel XV secolo un soggetto nato con l’intento di celebrare il ruolo mariano sulla base di una precisa trama di riferimenti dottrinali fosse ormai decaduto al ruolo di un piacevole divertissement, in grado di dare agio al pittore di esprimere quel tono cortese tanto caro alla committenza del tempo. 7. Gentile da Fabriano, Madonna dell’Umiltà (cat. 56; particolare). Pisa, Museo Nazionale di San Matteo.

1 Si veda Le abbazie delle Marche 1992, pp. 72-73. 2 Si veda Meiss 1951, p. 149. 3 Parronchi 1964, pp. 123-126. 4 Andrea da Bologna è infatti l’autore degli affreschi raffiguranti l’Incoronazione della Vergine e il Giudizio universale per il convento agostiniano e avrebbe anche eseguito la fascia decorativa recentemente riportata alla luce nella sala capitolare del convento di Tolentino (cfr. Tolentino 1988, p. 109), opera che però sembra appartenere a un periodo leggermente più tardo e che appare improntata a una caratterizzazione espressiva di matrice umbra piuttosto che emiliana.



5 Si veda Pascucci 2003. 6 Frugoni 2010, p. 242. 7 Carducci 1853, p. 153. 8 Frugoni 2010, p. 242. 9 Si veda De Marchi 1999, pp. 48-49. 10 Si veda Storia della maternità 1997, pp. 164-169. 11 Minardi 2008, pp. 153-158.

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Fra’ Giovanni di Bartolomeo. Maestro «de lignamine laborato et depicto»

Fra’ Giovanni di Bartolomeo. Maestro «de lignamine laborato et depicto» giampiero donnini

1. Fra’ Giovanni di Bartolomeo (Maestro dei magi di Fabriano), San Giacomo Maggiore (cat. 67; particolare). Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”.

Nel corso della seconda metà del Trecento, in parallelo con la fioritura della scuola pittorica locale imperniata sulla figura carismatica di Allegretto Nuzi, la città di Fabriano ha coltivato e sviluppato una corrente di scultura lignea di grande vitalità e autonomia creativa. Anzi, a volere ancora approfondire, ci si avvedrebbe che in Italia si contano sulle dita le sedi in cui le scuole di pittura stilisticamente evolute sono riuscite a dar vita a una corrente figurativa parallela con autori e botteghe specializzate nella produzione plastica. La città marchigiana viene dunque a iscriversi in questo raro ed elitario contesto, forte di un patrimonio artistico di assoluto rilievo che vede i rispettivi capostipiti in Allegretto Nuzi pittore e in fra’ Giovanni di Bartolomeo scultore. Se la dovizia di opere a fresco e su tavola giunte sino a noi ha consentito una ricostruzione esauriente del percorso espressivo del Nuzi, ampie zone d’ombra nascondono ancora la visione della parentesi civile e artistica di Giovanni di Bartolomeo. Basti pensare che, a rigor di logica, di lui non potremmo far conto neanche sul nome, dal momento che se le fonti attestano la sua peculiare specializzazione nell’intaglio di presepi «de lignamine laborato et depicto»1, non siamo ancora in grado di produrre un attestato plastico che gli si possa con certezza restituire. Di Giovanni di Bartolomeo si sa che era un frate olivetano e che aveva allestito la sua bottega nel convento di Santa Caterina, da dove inviava i suoi gruppi lignei persino in località dell’Ascolano, segno palese che la notorietà dei suoi manufatti aveva travalicato il mero fatto locale. A lui fa capo un documento dove si accenna a un presepe ligneo dipinto commissionato a «Fratel Giovanni di Bartolomeo da parte di Vanne di Minardo da Monterubbiano, da eseguire a partire dal 15 febbraio 1384 fino alle calende di settembre» dello stesso anno. Tale presepe si intendeva animato dalle figure della «Beata Vergine partoriente col Figlio, S. Giuseppe e due angeli, un bue, un asino, un pastore con due pecore e un cane». Tutto questo per la cospicua somma di cinquanta fiorini d’oro, «di cui 25 ne ebbe in acconto subito e la rimanenza Vanne promise darglieli ad opera compiuta».2 Del gruppo ligneo di Monterubbiano non resta più traccia, ma rimane pur sempre a Fabriano uno straordinario gruppo dell’Epifania, dislocata in origine nella chiesa della Misericordia e oggi accolta nella Pinacoteca Civica “Molajoli” (figg. 2-3). Com’è noto, essa si compone della figura genuflessa di san Giuseppe e dei re magi, mentre manca il perno centrale della sacra rappresentazione costituito dal gruppo della Madonna col Bambino. Quest’ultimo soggetto, andato disperso nel corso degli anni cinquanta del secolo scorso, è stato di recente individuato dalla Neri Lusanna presso un antiquario fiorentino.3 A nostro modo di vedere, solo il rigore ascetico e gli scrupoli esagerati che sovente attanagliano gli storici dell’arte sono riusciti a tener lontana sin qui la paternità dell’Epifania fabrianese dal nome di fra’ Giovanni di Bartolomeo. Non è pensabile, infatti, che in una piccola seppur vivace realtà sociale come Fabriano abbia potuto in quegli stessi anni svilupparsi l’attività di un secondo, eccellente artefice specializzato anch’egli nell’intaglio di manufatti lignei!4 Negli esemplari che testimoniano il suo passaggio, Giovanni di Bartolomeo mostra apertamente i segni di una scoperta attrazione formale per le correnti di cultura figurativa manifestatesi fra la Toscana e Orvieto per l’intensa attività svoltavi da Andrea e, soprattutto, da Nino Pisano. Questo rapporto col grande cantiere orvietano, probabilmente diretto, ha maturato nel nostro artefice la definizione di un lessico che, sulla base di etimi talvolta toscani, talvolta umbri, 87

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talvolta locali, acquistava una inusitata duttilità sino ad esprimere contenuti del tutto originali. Non può sorprendere, pertanto, che fra’ Giovanni di Bartolomeo si sia rivolto anche a quegli esempi figurativi che si imponevano, per eleganza esecutiva e suggestione cromatica, dalle pareti e dagli altari delle chiese fabrianesi per mano del Nuzi e della sua bottega. L’educazione classicheggiante che lo scultore aveva assorbito dalla frequentazione di maestranze toscane, si scioglie in una rinnovata attenzione al quotidiano e molteplice manifestarsi dell’uomo, al dato naturalistico che ad esso si accompagna e che insinua più umane valenze nella sacralità del tema liturgico. Nascono così fisionomie pensose come quella del san Giuseppe, elaborati sviluppi di finiture e di pieghe tessili che si snodano e si riannodano attorno agli arti composti dei magi e degli altri santi fabrianesi con precisa intenzionalità descrittiva. A questo punto occorrerà soffermarci sulla radice linguistica del monaco scultore, con l’intento di chiarire il più possibile le diverse problematiche connesse alla sua genesi e al suo sviluppo creativo. Spetta a Giuseppe Marchini l’aver per primo richiamato l’attenzione sull’alto magistero tecnico e figurativo dell’Epifania fabrianese.5 Nel presentare il gruppo ligneo a restauro avvenuto, lo studioso sottolineava la stretta contiguità stilistica riscontrabile tra quei plastici protagonisti e l’opera pittorica di Allegretto Nuzi. Ipotesi ricca di fascino e non priva di una sua speciosa giustificazione, sol che si voglia attentamente confrontare i magi scolpiti con le immagini dipinte dal Nuzi sia nei suoi affreschi che in alcune prove su tavola. Fanno testo, in particolare, il san Martino dipinto nel polittico di Apiro (1366; cat. 37) e il san Giuliano visibile nel trittico del Duomo di Macerata (1369; cat. 41). L’acuta apertura di Marchini in favore di una ipotetica autografia nuziana del gruppo dei magi si spegne tuttavia in se stessa, proprio per l’assenza documentaria di qualsiasi addentellato del caposcuola pittorico locale con l’attività lignaria. Anche se il terreno operativo di un artista del Trecento abbracciava attività che oscillavano con disinvoltura da un settore all’altro della creatività e dell’artigianato, nel caso del Nuzi è assai improbabile che egli abbia potuto sconfinare nella disciplina plastica a livelli così elevati senza il benché minimo riscontro delle fonti. Risulta assai più credibile che Allegretto possa aver trasmesso a fra’ Giovanni la suggestione irresistibile delle sue figurazioni eleganti e composte, inducendolo a uno stretto parallelismo linguistico, a una sorta di variante plastica delle sue creazioni, stimolata ulteriormente dalla comune intenzionalità decorativa. Ciò è quanto si ricava dall’esame del gruppo epifanico della Sant’Anatolia del Museo Diocesano di Camerino (fig. 4), dei due magi del Museo del Palazzo di Venezia a Roma (cat. 66) e degli altri esemplari fabrianesi.6 Già Marchini, pur riconoscendo a questi numeri una sostanziale omogeneità e una parentesi temporale alquanto concentrata, aveva riscontrato discontinuità di impostazione delle figure. E ciò andrebbe ricondotto, a suo dire, «alla mancanza basilare di un indirizzo sicuro quale normalmente si forma nell’ambito di una scuola consolidata».7 L’interferenza di modelli eterogenei nel tessuto connettivo della scultura tende, infatti, a conferire a questi prodotti una patente di “derivato”, anche se ad alto livello artigianesco e tecnico. Un “derivato” che dipana i suoi fili genetici dalla grande tradizione toscana, per tempo diffusasi nelle Marche e approdata in area fabrianese alla metà del secolo, grazie anche alle matrici daddesche che vi avevano divulgato il Nuzi e Puccio di Simone. Ne consegue che l’intensa relazione con la cultura figurativa di quella evoluta regione e col cantiere orvietano abbia alfine sortite conseguenze rilevanti anche nel campo della scultura. Nell’Epifania di Fabriano rifulge la dignità estetica e la ricca decorazione di superficie dei magi in posizione stante, fissati nel gesto di incedere con stupefatta naturalezza verso l’evento divino. A questi simulacri Enrica Neri Lusanna ha aggiunto le statue di altri due magi, in tutto repliche di quelli fabrianesi, conservati nel Museo del Palazzo di Venezia a Roma, e una Madonna col Bambino del Museo Nazionale di Budapest, assai vicina all’intaglio di fra’ Giovanni.8 Per quanto riguarda la Madonna col Bambino di New York, che si qualifica come parte integrante di un gruppo diverso da quello fabrianese,9 si osservi come i volti dei due protagonisti non presentano traccia di fissità iconica ma volgano ad una attenzione naturalistica che ormai prelude al gotico di corte. A questo canone espressivo converge anche l’incisivo partito delle 88

2. Fra’ Giovanni di Bartolomeo (Maestro dei magi di Fabriano), Re Gaspare (cat. 65; particolare). Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”.

Fra’ Giovanni di Bartolomeo. Maestro «de lignamine laborato et depicto»

3. Fra’ Giovanni di Bartolomeo (Maestro dei magi di Fabriano), San Giuseppe (cat. 62; particolare). Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”.

pieghe che armonizzano gli ampi ricaschi del manto di Maria, con effetti pittorici ricchi di suggestione. Da sottolineare anche la vita interna espressa dalle sante persone, la sintetica e caratterizzata modellazione dei visi, la grazia dei gesti. Rispetto al gruppo similare individuato dalla Neri Lusanna sul mercato antiquario fiorentino,10 la scultura americana tocca effetti di più pronunciato pittoricismo, anche per l’assenza dell’incamottatura dalla sua superficie, che libera il segno della sgorbia dagli appiattimenti che la preparazione distesa sul manufatto produce. Ma c’è anche una diversa dinamica dei ritmi e delle forme, che consente al gruppo americano di imporsi come una creazione plastica di più pronunciato aggetto, dove il profondo insinuarsi dell’ombra disegna i piani con forte modellato. Al di là delle varianti di condotta plastica, le due sculture si apparentano fortemente per una serie nutrita di analogie di fattura e 89

giampiero donnini

di impostazione figurativa, in ossequio ad un concetto di “replica” assai diffuso nelle botteghe lignee medievali. Tornando all’Epifania fabrianese, in essa risalta, s’è detto, la dignità estetica dei manufatti e la ricca e minuta decorazione della pellicola pittorica, giunta a noi nella sua quasi totale integrità. È curioso come la sapienza del partito plastico abbia consentito alla ritmica e al decorativismo gotici di ritrovare una norma arcana di classicità. C’è un senso di misura quasi aristocratico nel vigore dell’intaglio, e la pausata scansione dei piani contribuisce ad accrescere l’effetto insinuante dell’ombra. Si ammiri con quale abilità lo scultore conduce il gioco delle pieghe che ravvivano i brani tessili, mossi da risvolti e da aperture che l’apporto cromatico esalta in modo determinante. Nei due Magi dall’impostazione stante il collo forte e tornito e i lineamenti allungati dei volti assorti riportano alla produzione di Andrea e Nino Pisano. E il loro compagno genuflesso, di posa rigida per la necessità di uniformarsi alla forma cilindrica del tronco d’albero dal quale venne ricavato, denuncia una compattezza di linee e di piani degni di un intagliatore di vaglia.11 90

4. Fra’ Giovanni di Bartolomeo (Maestro dei magi di Fabriano), Sant’Anatolia con il modello di Esanatoglia (cat. 68; particolare). Camerino, Museo Diocesano. 5. Fra’ Giovanni di Bartolomeo (Maestro dei magi di Fabriano), San Nicola da Bari (cat. 69; particolare). Fabriano, chiesa di San Niccolò.

Fra’ Giovanni di Bartolomeo. Maestro «de lignamine laborato et depicto»

Nati come imitazioni del vero, unitamente alle Deposizioni e alle più rare Natività, questi gruppi hanno costituito una presenza essenziale all’attività liturgica, sia nei complessi sacri delle città che nelle pievi sparse del contado e dei più remoti agglomerati montani. Se oggi siamo in grado di constatarne una più diffusa presenza in questi ultimi è solo perché, oltre al ruolo di severa tutela operato dalla devozione, il rinnovamento decorativo dei luoghi “periferici” è stato meno sistematico e brutale che non nei centri urbani. Ciò ha consentito a una materia fragile e soggetta a forte usura come il legno di giungere sino a noi, sovente corredata dal suo ricco apparato ornamentale e pittorico. È anche grazie al suo prezioso elaborato cromatico che la scultura lignea raggiunse quella mimesi del reale fortemente perseguita dalla cultura medievale che l’aveva ideata e prodotta. Una sacra rappresentazione nella quale gli immobili protagonisti fanno calare, per suggestione, lo stesso spettatore. Egli finisce così per identificarsi in quelle espressioni umane, in quei gesti naturali di pathos, in quelle pose devote non per caso ricreate a grandezza naturale. Tra le figure stanti scolpite singolarmente da fra’ Giovanni di Bartolomeo (intendiamo riferirci al San Nicola da Bari (fig. 5) e al San Giacomo Maggiore (fig. 1) di Fabriano e alla Sant’Anatolia di Camerino) è dato ravvisare un effettivo scatto plastico più eletto e autorevole rispetto ai soggetti che compongono i temi epifanici. Il che potrebbe trovare una sua giustificazione in una fase di particolare acutezza creativa dell’autore, il raggiungimento di un vertice di felice espressività da lui di rado toccato a simili voltaggi. Ma c’è da considerare anche un ulteriore aspetto del quesito, tutt’altro che secondario. Ed è il diverso approccio dell’artista nei confronti del pezzo unico, alla cui realizzazione egli avrà di certo riguardato con ben più attento e libero processo mentale rispetto all’intrapresa di figure a tema. Le quali, proprio perché seriali, potevano rientrare in un più ordinario piano di “repliche”, alle cui fogge lo scultore giungeva per via di consuetudine figurativa. Da sempre considerata la sorella povera della pittura, la scultura, specie quella lignea, ha subìto, oltre agli inevitabili affronti del tempo, lo scarto di qualità tributatogli in generale dalla critica rispetto ai manufatti in pietra e in bronzo. Ma alla nostra sensibilità di moderni il legno comunica il fascino prepotente e insondabile del tempo, la commovente fragilità della materia, il suo irresistibile calore emotivo. E ridà a queste figurazioni il loro ruolo originario, sospeso tra finzione e realtà.



1 Si veda Sassi 1955, p. 44. 2 Ivi, pp. 43-46. 3 Neri Lusanna 1992, p. 47. 4 Donnini, Una bottega 1994, pp. 38-39. 5 G. Marchini, in Mostra di opere d’arte restaurate 1966, pp. 11-14. 6 Si vedano Neri Lusanna 2002, p. 219; Fachechi 2011, pp. 79-80.



7 G. Marchini, in Mostra di opere d’arte restaurate 1966, p. 14. 8 Neri Lusanna 1992, p. 45, fig. 5. 9 Kreytenberg 2004, pp. 6-12. 10 Neri Lusanna 1992, p. 45, fig. 5. 11 Donnini 1993, pp. 243-244. 91

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OLTRE L’APPENNINO

Oltre l’Appennino Elvio Lunghi

1. Giunta Pisano, Crocifisso. Assisi, Museo della Porziuncola.

Tutte le strade conducono ad Assisi A Santa Maria degli Angeli nella valle di Assisi una mano vandalica graffiò con incerta grafia il proprio nome e la patria di origine sopra un intonaco dipinto sulla parete esterna della Porziuncola: 1534 hic fuit pelegr[inus] pitore et la sua dona de udine d[el] friulle p.p. Quel che oggi passerebbe per un atto d’inciviltà era un tempo ritenuto normale, cioè lasciare un segno del proprio passaggio in un luogo: le immagini sacre sulle pareti delle chiese traboccano di graffiti con preghiere e invocazioni pro pietate. È naturale che questo Pellegrino, di nome e di fatto, proveniente dalla lontana città di Udine non potesse passare inosservato per la qualifica di pittore che lo distingueva. Una volta letto il graffito, il pittore fu identificato da Giustino Cristofani in Martino da Udine, altrimenti chiamato Pellegrino da San Daniele da Giorgio Vasari, e se ne collegò il pellegrinaggio alla Porziuncola in compagnia della moglie Elena per la sua devozione verso l’indulgenza del Perdono di Assisi all’anno 1534.1 È possibile dubitare che un pittore di vaglia abbia ignorato i dipinti antichi e moderni che decoravano le pareti del santuario e non sia salito alla chiesa di San Francesco sul colle di Assisi per pregare sulla tomba del santo e per ammirare gli affreschi di quella magnifica chiesa? Intanto volle graffire il proprio nome sopra un’immagine sacra, e a sua insaputa adocchiò come vittima il dipinto di un pittore anch’esso in trasferta, ma per motivi di lavoro: la Madonna tra i santi Antonio e Bernardino deturpata da Pellegrino è stata attribuita a un pittore di Camerino del secondo Quattrocento, incerto tra Giovanni Angelo di Antonio e Giovanni Boccati.2 Nella sua casualità, la traccia lasciata da Pellegrino da San Daniele alla Porziuncola di Assisi ha una sua logica. È una spia che si accende su scenari apparentemente marginali. Una chiesa sperduta nella campagna umbra che aveva dato ospitalità a una comunità di penitenti fuori di ogni regola. Verosimilmente decorata in origine dalle immagini di un Crocifisso triumphans e dalla statua lignea di una Madonna, come se ne trovavano in quel tempo in cappelle rurali che seguivano la regola di san Benedetto nelle regioni circostanti Roma. Divenuta la culla di una Religione destinata a diffondersi in ogni angolo della terra e di conseguenza ad attrarre pellegrini per ogni dove. Provvista d’immagini richieste a pittori e scultori eccellenti, coinvolti da committenti prestigiosi e portatori di iconografie innovative, che si moltiplicarono per numero e per importanza in seguito alla fondazione sul colle sovrastante di una chiesa monumentale voluta dal pontefice Gregorio IX e destinata ad accogliere le reliquie del santo di Assisi. Non sembri paradossale il coinvolgimento di Santa Maria degli Angeli nella nostra storia, perché è questo luogo a restituirci la più antica immagine di un Christus patiens di cui si abbia notizia nei paesi occidentali: il Crocifisso firmato da Rainaldetto da Spoleto che apre la mostra di Fabriano (cat. 5) è una replica del Crocifisso firmato da Giunta Pisano che si conserva nel Museo della Porziuncola (fig. 1). Quest’ultimo fu a sua volta una replica della grande Croce che era un tempo esposta nella navata della Basilica papale di San Francesco, con il ritratto del donatore fra’ Elia ai piedi del Cristo, accanto al nome del pittore Giunta Pisano e all’anno di esecuzione 1236. Come la religione dei Frati minori nata dall’intuizione di san Francesco d’Assisi e la Religione sorella delle Damianite nata per volontà di santa Chiara crebbero e si moltiplicarono aprendo comunità in ogni angolo della terra, costruendo chiese e conventi via via sempre più grandi, così si moltiplicarono anche le immagini dei Crocifissi patiens che seguivano le novità della “Maniera greca”, introdotte da Giunta Pisano nel Crocifisso della Porziuncola e in quello perduto di Assisi.3 93

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Non fu una innovazione senza contrasti. I Crocifissi triumphantes della “Maniera romana” continuarono a dominare le navate delle chiese cattedrali e dei monasteri che seguivano la regola di san Benedetto da Norcia, fin quando non furono rimossi dai visitatori apostolici in attuazione della riforma tridentina: in mostra a Fabriano è esposto il Crocifisso triumphans della collezione Piersanti di Matelica (cat. 57); nelle valli appenniniche non lontano da Fabriano ne troviamo ancora uno splendido esempio nel castello di Esanatoglia. E anche all’interno della famiglia francescana vi fu chi si mantenne fedele ai modelli visibili ai tempi di san Francesco. Per una “Domina Benedicta” che trasferì all’interno del monastero delle Clarisse di Assisi il Crocifisso triumphans davanti al quale pregò il giovane Francesco nella chiesa di San Damiano – Chiara lo pregò per tutta la vita! – ma collocò sotto le volte della chiesa di Santa Chiara un Christus patiens con il proprio ritratto ai piedi del Crocifisso, seguendo il precedente del ritratto di fra’ Elia nel Crocifisso un tempo esposto nella chiesa superiore di San Francesco,4 abbiamo le religiose del monastero di Santa Maria in Vallegloria a Spello che restarono fedeli al Crocifisso triumphans romanico, e altrettanto fecero le religiose del monastero della Beata Mattia a Matelica. Il caso più sorprendente è offerto da queste ultime – il Crocifisso di Spello è verosimilmente più antico del Crocifisso alla Porziuncola di Giunta Pisano – che da una parte adottarono nella figura del Cristo l’antiquata iconografia triumphans e dall’altra accolsero in chiesa una icona della Madonna con il ritratto del donatore vestito del saio dei Frati minori. È la linea che risale il colle di Assisi cucendo il ritratto di fra’ Elia con quello della badessa Benedetta, per poi ridiscendere a San Damiano dove si conserva una icona della Madonna con un ritratto del donatore fra’ Corrado da Offida. È la linea che fu seguita dagli “Spirituali”: che non furono ostili alle immagini di devozione, con o senza il ritratto del donatore in bella vista, ma guardarono oltre i modelli iconografici tradizionali, che affondavano le loro radici in terreni dissodati prima che san Francesco ad Assisi sperimentasse un’esperienza di vita cristiana in netta discontinuità con le esperienze del passato. Da Assisi all’Emilia passando per Fabriano Per le strade di Assisi passò anche il pittore che dipinse il Crocifisso prestato alla mostra dalla Pinacoteca Civica di Camerino (cat. 6). È un ritorno a casa perché la Croce di Camerino ha raggiunto l’attuale destinazione su deposito della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata, che l’aveva a sua volta acquistata negli anni trenta del Novecento alla dispersione di un’importante collezione di dipinti primitivi riunita nella prima metà del xix secolo dal fabrianese Romualdo Fornari, profittando della soppressione napoleonica delle corporazioni religiose. Eppure non si sa da chi Fornari avesse acquistato il Crocifisso: non lo dice l’autore di uno studio dedicato alla collezione nel 1867; c’è chi dice che fosse nella chiesa del castello di Belvedere in Salmaregia dipendente dall’abbazia silvestrina di Santa Maria di Campodonico, e chi ipotizza che la sede più idonea fosse la chiesa dei Frati minori di Fabriano abbattuta nel 1864.5 Il collegamento con Assisi si deve all’acume di una studiosa inglese perdutamente innamorata dell’Italia, Evelyn Sandberg Vavalà, che attribuì per prima la croce Fornari all’anonimo autore di un gruppo di crocifissi conservati nelle chiese dei Frati minori di Assisi, di Bologna e di Faenza, noto agli studiosi sotto lo pseudonimo di Maestro dei crocifissi francescani, o anche detto Maestro dei crocifissi blu per la predilezione dimostrata verso questo colore.6 Su questo pittore non sappiamo praticamente nulla, sebbene lo si sia indicato come il più originale interprete delle novità introdotte da Giunta Pisano tra l’Umbria e l’Emilia e «uno dei pittori più affascinanti e raffinati del Duecento italiano» prima dell’ingresso in campo di Cimabue.7 Miklós Boskovits, che del Duecento italiano è stato uno dei più fini conoscitori, nel catalogo di una mostra dedicata al Duecento bolognese credette bene, per giustificarne l’attività al servizio di comunità francescane di differenti province, che dovesse essere anch’esso un frate.8 Boskovits era uomo di spirito: nel 1994 pubblicò a epigrafe di una sua raccolta di saggi il detto popolare: «Chi fa falla, e chi non fa sfarfalla», quasi a chiedere scusa ai lettori per quella «raccolta di fiori appassiti».9 Probabilmente avrebbe sorriso se gli avessi contestato l’idea bislacca di aver fatto indossare il saio dei frati al Maestro dei crocifissi francescani: un po’ come dire che anche Giunta 94

OLTRE L’APPENNINO

Pisano, Cimabue o Giotto, pur di poter lavorare per l’Ordine di san Francesco, fossero anch’essi costretti a pronunciare i voti! In quella scheda di catalogo, riepilogando la bibliografia di un Crocifisso della Pinacoteca di Bologna, Boskovits riferì l’opinione mia e di Filippo Todini che non ci fosse alcun legame tra le croci di Assisi e quelle presenti in Emilia e in Romagna.10 In realtà Todini aveva esposto alcune idee brillanti intorno a un «pittore di temperamento molto raffinato, che stabilisce un punto di contatto tra l’Umbria e l’Emilia negli anni in cui il grande Oderisi da Gubbio è operoso a Bologna … [e che rappresenta] un indubbio parallelo della corrente più intensamente bizantineggiante della miniatura emiliana», ampliandone il catalogo alle croci della Pinacoteca di Faenza e di Camerino;11 mentre personalmente mi ero limitato a riepilogare in una scheda le contraddittorie opinioni della letteratura artistica.12 A tre decenni di distanza più che di punto di contatto scriverei di un diretto coinvolgimento tra l’anonimo pittore e Oderisi da Gubbio, perché sembra francamente impossibile che l’autore di tante opere possa essere svanito nel nulla senza lasciare tracce dei suoi spostamenti tra l’Umbria e l’Emilia. In realtà una traccia esiste – ne ho già scritto in altra sede13 – e investe uno dei quesiti più intricati della storia dell’arte medievale: l’identità del misterioso Oderisi da Gubbio al quale Dante, nel canto XI del Purgatorio (vv. 79-99), affidò il celebre confronto tra le arti sorelle: tra Cimabue e Giotto, tra Guinizelli e Cavalcanti, con la visione finale di Dante stesso nell’empireo dei poeti. Che Oderisi non sia stato un personaggio d’invenzione ma un uomo in carne e ossa lo sappiamo grazie alla documentazione rintracciata negli archivi di Bologna, che lo dimostra attivo in città negli anni 12681271, impegnato nella produzione di codici giuridici destinati al mercato parigino, o per aver decorato con lettere «de penello de bono azurro» le pagine di un antifonario. Nelle carte, Oderisi è accompagnato dalla qualifica di “miniatore”, mentre con quella di “pittore” è indicato il padre Guidone di Pietro «de Gubio», documentato accanto al figlio nell’agosto 1268 e già morto nel marzo 1271. Questa chiara distinzione dei ruoli lascia credere che Oderisi si sia limitato a decorare a penna o a pennello le pagine scritte dal notaio Paolo di Iacopino dell’Avvocato – altro nome ritrovato nei documenti – e che il padre Guidone sia stato coinvolto per la loro eventuale decorazione figurata.14 Posto così il problema, «l’onor d’Agobbio» (Purg. XI, v. 80) celebrato nella Commedia dantesca e tradizionalmente additato come il campione nella miniatura duecentesca contemporanea di Cimabue sarebbe stato il padre Guidone. Documenti d’archivio provano che il vero Oderisi avrebbe svolto in realtà la professione di miniatore, impegnato nell’editing del libro all’interno di un sistema culturale complesso quale era allora il polo universitario di Bologna. Fu questo ruolo di editore a metterlo in contatto con Dante Alighieri, il quale da intellettuale doveva per forza frequentare l’ambiente. Di Guidone sappiano che svolse l’attività di pittore, che era originario di Gubbio e che fu attivo a Bologna negli anni sessanta del Duecento. Non se ne conoscono opere firmate o documentate, eppure luoghi e date coincidono singolarmente con il percorso del Maestro dei crocifissi francescani. Quel che resta dell’attività umbra di questo pittore ne fa un contemporaneo del Maestro di San Francesco e suo probabile collaboratore negli affreschi della navata della Basilica inferiore di Assisi, negli anni cinquanta del Duecento. Un comprimario del Maestro di San Francesco si riconosce nei malconci affreschi nelle cappelle absidali del San Francesco di Gubbio, ma sono talmente ridipinti da impedirne un corretto esame. Comunque c’è sempre il Crocifisso Fornari a provare l’attività del Maestro dei crocifissi francescani nei dintorni di Gubbio. Che poi questo anonimo pittore si sia cimentato anche nella decorazione libraria lo prova il messale che è stato prestato per la mostra dalla biblioteca del Sacro Convento di Assisi (cat. 77) e che può essere utilmente confrontato con la croce bifacciale nel Museo del Tesoro nella stessa città. Mi si contesterà che è questa una tesi indimostrabile in assenza di prove. Rispondo che si tratta di una «attribuzione geostilistica»,15 che si fonda sulla contemporanea presenza di opere e pittori negli stessi luoghi. Tipico caso di attribuzione ambientale: come sorprendere il ladro con la refurtiva nel sacco! In mostra è presente anche un secondo esempio della sovrapposizione tra pittori e miniatori in manoscritti del xiii secolo, dove le carte abbiano le dimensioni e le caratteristiche di una 95

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tavoletta. È un messale dell’Archivio capitolare di Assisi decorato al Te Igitur da una grande Crocifissione (cat. 78). Posto a confronto con un Crocifisso conservato nella Galleria Nazionale dell’Umbria, si rivelano entrambi opere dello stesso pittore, riconoscibile nell’anonimo pittore che rivestì di affreschi la sala capitolare dell’abbazia di Montelabate, lungo la strada che attraversa il contado perugino in direzione di Gubbio. Giotto ad Assisi e altrove La vecchia Maniera greca sparì di scena con l’ingresso di Giotto nel palcoscenico di Assisi, anche se non fu ad Assisi che Giotto «rimutò l’arte del dipingere di greco in latino e ridusse al moderno ed ebbe l’arte più compiuta che avessi mai più nessuno».16 Anzi non fu neppure Giotto a dare inizio ad Assisi all’arte nuova: fu Jacopo Torriti il primo a mettere in ombra lo splendido spettacolo che Cimabue aveva inscenato nel transetto per Niccolò III Orsini – prima che l’ossidazione delle biacche facesse il resto, trasformando la luce in tenebre – introducendo nella parte alta della navata una nuova tecnica esecutiva, il buon fresco, e una nuova tecnica compositiva ispirata alla Roma tardoantica e paleocristiana. Nei primi tempi Giotto, che era stato scoperto dai Frati predicatori a Firenze, nella quale città aveva dipinto per la chiesa di Santa Maria Novella un grande Crocifisso a competizione con quello di Cimabue per Santa Croce – da qui il confronto proposto da Dante – fu uno tra i tanti pittori coinvolti nella conclusione dell’impresa voluta da Niccolò IV nella navata, dopo che il papa aveva richiamato Torriti a Roma. Quando poi i Frati minori notarono la geniale versatilità di Giotto e la sua straordinaria abilità nell’inventare nuove formule iconografiche e nuove figure, nel saper essere sempre diverso e sempre riconoscibile, se lo contesero in tutte le città della Penisola dove avevano aperto le loro comunità – a Roma, Pisa, Rimini, Padova, Firenze, Bologna, Napoli ecc. – e gli offrirono l’opportunità di stupire il pubblico borghese che affollava chiese ogni volta più grandi con un variopinto mondo d’immagini, che parlava lo stesso linguaggio semplice e realistico, a tutti comprensibile, della lingua in volgare umbro del Cantico di frate Sole. Assisi fu il luogo dove Giotto tornò più volte: dai tempi di Niccolò IV (1288-1292) a quelli di Clemente V (1305-1314). Cominciò con le Storie della vita di san Francesco nella navata della chiesa superiore. Seguirono le Storie di san Nicola nella cappella fatta costruire dal cardinale Napoleone Orsini per il fratello Giovanni Gaetano. Le Storie della Maddalena nella cappella del vescovo Teobaldo Pontano. Infine le Storie dell’infanzia di Cristo nel transetto settentrionale, le Virtù francescane nella crociera e la perduta Allegoria delle Stimmate nel catino absidale della chiesa inferiore. L’uscita di scena di Giotto aprì le porte all’ingresso ad Assisi di Pietro Lorenzetti – voluto dallo stesso Napoleone Orsini – e di Simone Martini – voluto dal cardinale Gentile Partino da Montefiore: una straordinaria parata di artisti al servizio di grandissimi mecenati. Ma era stato Giotto a introdurre per primo la regola di épater le bourgeois, mostrando ogni volta cose meravigliose e nuove, anche se le figure dipinte più tardi dai Lorenzetti e da Simone saranno più belle ancora. L’idea di progresso e di continua innovazione sarà accolta nel mondo sofisticato dell’arte – teste Dante per bocca di Oderisi: «Credette Cimabue nella pittura | tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido | si che la fama di colui è scura» (Purg. XI, vv. 94-96) – dominato in quei tempi da raffinate figure di aristocratici: come i due cardinali Colonna, che proteggeranno poeti del rango di uno Jacopone da Todi; o come il cardinale Napoleone Orsini, che avrà al suo servizio Giotto e Pietro Lorenzetti, si farà ritrarre da Simone Martini, ma si circonderà di intellettuali “spirituali” come Ubertino da Casale, e proteggerà grandi figure di mistiche e di mulieres religiosae: Chiara da Montefalco, Angela da Foligno, Margherita da Cortona.17 Non ci fosse stato il fenomeno di Giotto ad Assisi e altrove, come avremmo spiegato le due cappelle superstiti all’interno della chiesa degli Agostiniani di Fabriano? Dove troviamo all’opera due differenti pittori uniti da una cultura comune, che utilizzano gli stessi impianti compositivi ma con differenti cornici divisorie, attingendo a risultati conseguiti dal maestro di culto in tempi differenti: un po’ come era avvenuto nel transetto della Basilica inferiore di Assisi, dove Pietro Lorenzetti portò a termine la decorazione non finita da Giotto per la sua partenza improvvisa, utilizzando le stesse cornici divisorie ma inserendovi un repertorio di figure e 96

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di ornamenti assai differenti. Da dove vengono i modelli giotteschi riproposti a Fabriano nelle storie della cappella della Maddalena: Assisi, Padova o Rimini? Nei suoi spostamenti da una città all’altra, fin quando non disporrà di una bottega in proprio, Giotto si avvarrà del soccorso dei pittori del posto: saranno questi ultimi a tradurne i disegni in pittura e a divulgarne i risultati nella regione circostante, una volta allontanatosi il maestro. A Fabriano, a quanto pare, ci troviamo di fronte a pittori che guardarono ai precedenti riminesi: come distinguerli dai pittori umbri che salirono sui palchi della Basilica di Assisi? I risultati parziali conseguiti da Giotto nel corso di una lunga carriera li troveremo tutti insieme in gioiosa confusione ad Assisi, nell’aspetto contraddittorio dovuto a una gestazione frammentaria o all’intervento di differenti collaboratori: risultato stigmatizzato dai moderni storici dell’arte che s’impegneranno a dividerne le spoglie tra “giotteschi” e “parenti”; a ridurre l’intervento di Giotto alle sole Storie d’Isacco o alle sole Storie della vita di san Francesco; a ridurre il problema delle origini della pittura moderna al solo confronto tra Cimabue e Giotto. Come se Giotto non fosse documentato ad Assisi l’anno 1309, quando i suoi concorrenti si chiamavano Pietro Lorenzetti e Simone Martini. Come se il problema delle origini si fosse limitato al “Big Bang” iniziale: senza uno sviluppo, una storia che si dipana, una pasta che cresce fermentata dal lievito. Giotteschi e senesi per il Maestro di Campodonico Dopo Giotto il “giottismo” terrà il grido tra «le genti | del bel paese là dove ‘l sì suona» (Inf. XXXIII, vv. 79-80). Naturalmente Giotto non vincerà da solo la battaglia per l’affermazione della “maniera moderna” e sarà preceduto dall’imitazione dell’antico di Nicola Pisano, dalla solidità gotica di Arnolfo, dal realismo lirico di Giovani Pisano, dallo straziante espressionismo dei Crocifissi transalpini. Nella generale crisi della vecchia Maniera greca la carta vincente di Giotto consisterà nel saper cambiare continuamente posizione – come Picasso nel xx secolo! – rimanendo un passo avanti alla linea occupata dai “giotteschi”, come saranno chiamati nella prima metà del xx secolo i pittori che abbandoneranno il simbolismo ipertrofico della Maniera greca, imitando – sull’esempio di Giotto – chi la natura, chi il reale, chi la deformazione espressiva, il linearismo, la luce o il colore. Usualmente si tende a misurare il successo conseguito dal giottismo nelle Marche con la fortuna incontrata dalle nuove iconografie della vita di san Francesco o della vita di Cristo messe in campo ad Assisi: personalmente preferisco parlare di cornici divisorie, di spazi, di organizzazione del cantiere, di proporzioni fisiche, nuove tecniche esecutive o nuove soluzioni compositive. I giotteschi di Assisi sono rappresentati a Fabriano da due dipinti di Puccio Capanna (cat. 20, 21): il Maestro colorista di Assisi che fu segnalato da Giorgio Vasari tra i seguaci di Giotto18 e che sarà riscoperto nella seconda metà del xx secolo per il rinnovato interesse verso i pittori primitivi attivi nei centri minori della Penisola,19 che va ascritto a merito di Roberto Longhi, anche se Longhi credette di riconoscervi il misterioso Stefano Fiorentino,20 mentre il legame con Puccio Capanna fu indicato da Luisa Marcucci.21 Il primo dipinto è un affresco frammentario che è riemerso ad Assisi dal naufragio della pittura medievale con la rimozione di un pavimento all’interno di una abitazione danneggiata dal sisma nel 1997. Dallo stesso ambiente viene anche un frammento di Pace di Bartolo – non presente in mostra – che andò a coprire una storia non finita da Puccio Capanna. La selezione dei giotteschi umbri è largamente incompleta, ma in Puccio e in Pace sono stati indicati i modelli ai quali avrebbe guardato il Maestro di Campodonico.22 Francamente non lo credo, perché il Maestro di Campodonico lavorò negli stessi anni di Puccio Capanna e addirittura prima di Pace di Bartolo: piuttosto che precedenti, sono compagni di strada. Il secondo dipinto di Puccio Capanna presente in mostra è una tavoletta proveniente dalla Galleria Nazionale di Perugia. Nel suo piccolo ricorda le pareti di una chiesa, con le Storie di Cristo ambientate all’interno di una cornice con busti di santi affacciati a guardare, simili all’impianto ideato da Giotto nel transetto della Basilica inferiore di Assisi. In pochi centimetri quadrati c’è tutto un mondo, compresa la tabella della croce che spicca davanti a una modanatura a dire chi è davanti e chi dietro. 97

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Dovessi indicare un precedente assisiate, diverso da Giotto, per il Maestro di Campodonico lo cercherei nel catalogo del Maestro di Figline, da identificare nel giottesco Giovanni di Bonino da Assisi, documentato a Orvieto e a Perugia tra il 1325 e il 1347 e a quanto pare attivo anche a Gubbio, dove era conservata nel xix secolo la Pietà Fogg che ha dato il nome al pittore nei paesi anglosassoni. In una tavola della Pinacoteca di Ferrara (cat. 22), la figura pesante di un san Giovanni Battista ha le articolazioni gonfie per l’artrite e l’espressione grossolana dei due santi irsuti di proprietà Serafini provenienti dall’abbazia di Santa Maria dell’Appennino. I legami con Gubbio coinvolgono anche il Mello, che firmò una tavola ora nel Museo Diocesano, o la Madonna di Valdichiascio (cat. 28) in mostra a Fabriano, che lasciano pensare più ad Ambrogio Lorenzetti che agli affreschi di Assisi di Pietro citati nella Crocifissione di Campodonico. Il quale Ambrogio doveva aver lasciato qualcosa d’importante in Umbria, rimasto senza memoria salvo i ricordi nei pittori perugini ed eugubini di metà secolo. O forse più dipinti, se è di Ambrogio l’affresco che gli attribuì Carlo Volpe nel Sant’Agostino di Montefalco.23 Ma se è di Simone Martini – come pare – la Crocifissione nel San Fortunato di Todi che gli propone Marcello Castrichini,24 e se è di Jacopo di Mino del Pellicciaio in compagnia con Bartolo di Fredi la Maestà di Magione che gli propongo io,25 dovremmo concludere che i pittori senesi dovessero essere di casa nelle valli dell’Umbria e che contesero il campo a fiorentini mordaci come il Buffalmacco protagonista a Perugia di un racconto di Franco Sacchetti. Non ci si limitò a importare da Siena le tavole che si vedono ancor oggi nelle sale della Galleria perugina. A Fossato di Vico, nella chiesa di San Benedetto, c’è un affresco curiosamente inedito: una Madonna e uno Sposalizio mistico di santa Caterina (fig. 2), che per trovarsi in un triangolo di strade tra Campodonico, Santa Maria dell’Appennino e Fabriano avrebbe le carte in regola per essere aggregato ai dipinti che si vedevano un tempo nelle altre due chiese. Se non fosse che una delle due Madonne – una ragazza di campagna bene in carne, come la santa Caterina della collezione Serafini – sfoggia un sorriso che si direbbe aggraziato rispetto ai volti stanchi e addolorati delle pie donne ai piedi della croce a Campodonico. Io dico che il dipinto è dello stesso pittore. Giampiero Donnini – con il quale mi sono confrontato – dice di no. In chiesa c’è un secondo Sposalizio mistico di santa Caterina che si direbbe di Mello da Gubbio, e altri dipinti ancora di pittori eugubini e fabrianesi. La presenza di almeno tre sante Caterine lascia pensare che i monaci spendessero il loro tempo nello studio e che invitassero i mercanti e gli eserciti di passaggio nel valico di Fossato a sostare e a meditare senza fare troppi danni. San Benedetto di Fossato e san Biagio di Campodonico appartennero alla stessa congregazione Silvestrina fondata a Fabriano da san Silvestro Guzzolini († 1267). Nulla di meglio che i monaci si fossero passati il nome del pittore, rimasto a noi ignoto,26 e che magari gli avessero chiesto di fare il bravo almeno una volta. Removeatur ac combureatur Dover parlare di soli affreschi è quasi mortificante: in queste regioni montuose la mano dei vescovi fu particolarmente pesante nell’applicare le norme relative alle sacre immagini previste dal Concilio tridentino, quando ci si fosse trovati di fronte a tavole dipinte o a statue lignee danneggiate dal tempo o troppo antiche per il gusto corrente. Usualmente se ne ordinava la rimozione e il trasferimento in un altare secondario. Nei casi estremi era prevista la distruzione nel fuoco e la deposizione delle ceneri nel sacrario. Le immagini alle pareti le si copriva con una mano di bianco di calce e sopra si tornavano a dipingere Crocifissi.27 Il tratto appenninico che separa l’Umbria e le Marche – sul versante adriatico Fabriano, sul versante tirrenico Gualdo Tadino – era un tempo sotto la giurisdizione del vescovo di Nocera Umbra. Nel settembre 1573 la diocesi di Nocera fu percorsa dal vescovo Pietro Camaiani, il visitatore apostolico inviato da Gregorio XIII per controllare a tappeto l’aspetto degli edifici e la preparazione del clero nelle diocesi umbre. La primavera precedente le chiese della diocesi nocerina erano state preventivamente esaminate dal vescovo Girolamo Mannelli per togliere gli abusi più vistosi in attesa della visita apostolica.28 La relazione di monsignor Camaiani è preziosa perché ci dà modo di sondare quante sculture lignee e quante tavole furono mandate al 98

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2. Pittore anonimo del xiv secolo, Sposalizio mistico di santa Caterina. Fossato di Vico (Pg), chiesa di San Benedetto.

rogo e in quale altare erano un tempo esposti i dipinti e le statue superstiti. Per quanto sia una magra consolazione, dal verbale che ne fu fatto sappiamo che l’abbazia silvestrina di San Biagio in Caprile aveva numerose immagini alle pareti che non si potevano restaurare e che dovevano essere coperte di bianco, salvo la Crocifissione «satis vetusta ac decoram» dell’altare maggiore che poteva facilmente «illustrari et resarciri manu pictoris». In chiesa c’era anche una seconda immagine, grande, molto antica e dall’aspetto deforme, che doveva essere gettata nel fuoco per poi riporne le ceneri nel sacrario – «altera magne nimis vetusta ac deformi igni consumanda huiusque cineres in sacrario inijciendo».29 Camaiani non ne indicò il soggetto ma è probabile che si trattasse della statua della Madonna in collezione Miliani. Il 16 novembre 1583 la statua era ancora in chiesa quando la vide il vicario del vescovo Mannelli, che la trovò vecchia e brutta e ordinò che fosse bruciata: «Item una madonna col suo figliolo in braccio di legno vecchia et brutta, propterea mandavit Idem dictus Vicarius uri et cineres poni in sacrario».30 Fortunatamente l’ordine non fu eseguito e la statua esiste ancora. 99

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La stessa situazione si ripeté in gran parte delle chiese montane del Serrasanta, molte delle quali erano appartenute ai monaci silvestrini di Montefano e di norma erano provviste di un’immagine del Crocifisso e di un altare della Madonna. Nell’abbazia di Santa Maria dell’Appennino fu trovata una vecchia «imago quedam beate Virginis».31 In San Cassiano presso il castello di Bastia furono rimosse «quasdam imagines nimis deformes» dalla cripta.32 Nel castello di San Donato a San Ghironte furono bruciate «quedam imagines indecore ac deformes nimisque vetustae» trovate in chiesa. 33 È possibile che l’ordine non avesse immediatamente un seguito e che incontrasse la resistenza della popolazione locale per le forme di devozione che circondavano queste immagini, ma il vescovo di Nocera Girolamo Mannelli tornò più volte nelle chiese della sua diocesi per rimuoverne gli abusi: prima o poi l’immagine oggetto di censura fu rimossa dagli altari e bruciata, o finì dimenticata in un magazzino per essere riscoperta in tempi migliori, finire in un museo o in una abitazione privata. Quasi in ogni chiesa monsignor Camaiani fece dipingere l’immagine del Crocifisso e dove trovò crocifissi lignei «vetusta ac deformis» li fece rimuovere e bruciare: a Santo Stefano di Morello, a Santa Croce di Casalvento, a San Facondino di Gualdo Tadino.34 Si spiega l’isolamento dell’orribile e sublime Crocifisso della chiesa di Sant’Onofrio di Fabriano, legata ai Frati minori, e dell’altrettanto orribile Crocifisso che è stato concesso per la mostra dalla Pinacoteca di Gualdo Tadino (cat. 61), collocato in origine nella locale chiesa di Sant’Agostino: ultimi superstiti di una categoria di macchine teatrali che si esponevano nelle cerimonie paraliturgiche della Settimana Santa, per suscitare il pianto e la commozione dei fedeli che assistevano alla recita delle laude in memoria della passione di Cristo: fenomeno iniziato nel 1260 a Perugia con il movimento dei Flagellanti.35 Le immagini più tremende furono scolpite da scultori transalpini contemporanei di Giotto: avendo alle spalle comunità di frati non sottoposte all’ordinario diocesano e per le forme di devozione che le circondò riuscirono a scampare ai roghi. Le imitazioni affidate a scultori locali erano più semplici e irrealistiche, ma questo non bastò a salvarle dall’ansia di rinnovamento di una Chiesa uscita frastornata dal Concilio di Trento. Cola Petruccioli e Gentile da Fabriano a Perugia Messe così le cose, Fabriano non sorse in una landa deserta ma nel percorso della strada principale che collega Roma all’Adriatico dai tempi del console Flaminio (220 a.C.), al centro di una 100

3. Cola Petruccioli, Autoritratto del pittore. Perugia, chiesa di San Domenico.

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macroregione che conta città ad alta concentrazione artistica: Assisi e Foligno, Perugia e Gubbio, ma anche Urbino e Fano, Ancona e Rimini. In questo contesto Gentile da Fabriano non fu un fiore sbocciato nel deserto ma il risultato di una fitta rete di scambi che vide convenire a Perugia tra Tre e Quattrocento un gran numero di pittori richiamati dalle più diverse regioni d’Italia nel cantiere del nuovo San Domenico, con le sue enormi cappelle in attesa delle vetrate del fiorentino Mariotto di Nardo e degli affreschi dell’orvietano Cola Petruccioli, del fabrianese Allegretto Nuzi, il senese Benedetto di Bindo, insieme a tanti altri pittori di cui ignoriamo l’esistenza per la perdita pressoché totale delle decorazioni, salvo i pochi frammenti che ce ne fanno riconoscere gli autori.36 Di seguito incontreremo a Perugia Ottaviano Nelli da Gubbio, i fratelli Salimbeni da San Severino e lo stesso Gentile da Fabriano, richiamati dalla vivacità dell’ambiente. Non vedo per quale ragione dovremmo ipotizzare un viaggio di formazione di Gentile fino a Pavia,37 se a Perugia sullo scorcio del Trecento poteva trovare in Cola Petruccioli e in Matteo di Ser Cambio i modelli ai quali guardare per i suoi primi dipinti.38 Dell’attività di Cola Petruccioli († 1401) in San Domenico di Perugia resta una storia del Martirio di san Pietro da Verona e un piccolo frammento delle Storie di Maria che decoravano le vastissime pareti della tribuna absidale, con la cornice che chiudeva in basso la storia dell’Annunciazione: il mezzo busto di un frate predicatore, l’autoritratto del pittore e il busto di un profeta (fig. 3). Non conosco figure più prossime a queste della tavola giovanile di Gentile conservata nella Gemäldegalerie di Berlino, forse un tempo nella chiesa di Santa Caterina in Castelvecchio di Fabriano. Non conosco ponte più saldo che conduca Gentile a Orvieto, per ammirarvi i ritratti di vescovi dipinti dal senese Simone Martini nei polittici di San Francesco, San Domenico, i Servi.

1 Cristofani 1912, pp. 200-201. Giorgio Vasari ne fa notizia nella seconda edizione delle Vite, 1568, ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, IV, p. 426. 2 Per un riepilogo della letteratura critica recente fiorita su questo importante dipinto si veda Marcelli, Maestro 2002, pp. 188-193, 201. 3 Cfr. Lunghi 1995; Lunghi 2008. 4 Cfr. Lunghi, La decorazione 1994, pp. 140-164. 5 Il catalogo della raccolta è di Oreste Marcoaldi 1867, s.p. La provenienza del Crocifisso dalla chiesa di Sant’Ilario nel castello di Belvedere in Val Salmaregia è stata ipotizzata da Romualdo Sassi (1924, p. 477). Di una provenienza dalla chiesa di San Francesco a Fabriano ha scritto recentemente Emanuele Zappasodi, in Dal visibile all’indicibile 2012, pp. 137-146, n. 3: p. 142. 6 Sandberg Vavalà 1929, p. 851. 7 Tartuferi 1991, pp. 27-28, citaz. a p. 27. 8 M. Boskovits, in Duecento 2000, p. 186. 9 Boskovits 1994, p. vii. 10 M. Boskovits, in Duecento 2000, p. 194. 11 Todini 1986, p. 376. 12 E. Lunghi, in La pittura in Italia 1986, II, p. 596. 13 Della Porta-Lunghi 2006, pp. 122-130; E. Lunghi, in Dal visibile all’indicibile 2012, pp. 179-186, n. 7. 14 Cfr. Filippini-Zucchini 1947, pp. 183-185. 15 Toscano 1992. 16 Cennini, Il libro dell’arte, ed. Brunello 1971, pp. 4-5. 17 Lunghi 2012, pp. 9-23. 18 Vasari 1568, ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, II, pp. 117-119. 19 Sulla vicenda critica di Puccio Capanna si veda Lunghi, Puccio 1989. Lo pseudonimo di “Maestro colorista di Assisi” fu coniato da Coletti 1950.

20 Longhi 1951. 21 Marcucci 1963, p. 26. 22 Cfr. Marcelli, Il Maestro di Campodonico 1998. 23 Volpe, Ambrogio Lorenzetti 1951, p. 51. 24 Castrichini 2012. 25 Lunghi, Pittori senesi 2011. 26 Per una diversa opinione si veda Marcellli 1996, che identifica il pittore in un altrimenti ignoto Bartoluccio da Fabriano. 27 Lunghi, La scultura 2011. 28 In seguito al sisma del settembre 1997, le visite pastorali dell’antica diocesi di Nocera Umbra sono conservate in un apposito fondo presso l’Archivio di Stato di Perugia. 29 ASPg, Archivio Diocesano Nocera Umbra, Summarium visitationis apostolicae anni 1573, n. 288, c. 58v. 30 ASPg, Archivio Diocesano Nocera Umbra, Visita della Diocesi di Nocera fatta da Monsignor Mannelli nell’anno 1580, n. 545, c. 104v. 31 ASPg, Archivio Diocesano Nocera Umbra, Summarium visitationis apostolicae anni 1573, n. 288, c. 65v. 32 Ivi, c. 67v. 33 Ivi, c. 72r. 34 Ivi, cc. 109r, 122r, 168r. 35 Cfr. Lunghi 2000. 36 Cfr. Benazzi 2006. 37 Cfr. De Marchi 1992, pp. 11-45. 38 Cfr. Lunghi 1996, pp. 31-34.

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sculture dipinte tra marche e umbria. centri di produzione e aree di diffusione

Sculture dipinte tra Marche e Umbria. Centri di produzione e aree di diffusione giordana benazzi E s’io ho potuto ritrovar opere affatto sconosciute di questo gruppo, lo debbo in gran parte ai mezzi ed all’informazioni di cui ho potuto disporre alla Soprintendenza all’opere d’arte dell’Umbria, in un periodo in cui l’attenzione mia e dei miei compagni d’ufficio era rivolta soprattutto alla ricerca e allo studio di quel che ancora vi fosse di sconosciuto e celato nei piccoli luoghi della regione. Giorgio Castelfranco (1929-1930, p. 768)

1. Scultore umbro-marchigiano, Madonna col Bambino (cat. 58; particolare). Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”.

Indagini territoriali, metodi di ricerca, ritrovamenti Negli anni passati, specialmente tra il 1980 e il 1995, buona parte del mio lavoro in Soprintendenza si è identificato con l’indagine diretta e capillare del territorio regionale dell’Umbria, in particolare di quelle parti marginali e in buona parte ignorate della regione appenninica caratterizzate da percorsi di montagna non ancora toccati dal turismo, utilizzando, ora che ci penso, metodi e mezzi non molto dissimili da quelli che, nell’Ottocento, dovettero usare il Cavalcaselle, il Guardabassi o il Morelli, quando, all’indomani dell’Unità nazionale, si recavano con scomode carrozze a censire e catalogare l’immenso patrimonio d’arte confluito nel nuovo Regno d’Italia. Alle spalle mie e dei colleghi (c’erano fra loro Corrado Fratini ed Elvio Lunghi, che molto impegno hanno dedicato poi allo studio della scultura medievale) che insieme a me, con molto entusiasmo e spirito pionieristico, percorrevano le strade di questa straordinaria regione, c’erano però gli studi e il lavoro di chi aveva saputo discernere, al di là dei manufatti artistici di più conclamata rilevanza e di più evidente interesse, tipologie di opere d’arte da poco approdate all’attenzione degli studi e della tutela, anche se purtroppo già da tempo ben note agli ambienti del collezionismo e dell’antiquariato: affreschi votivi affastellati su muri sconnessi e dipinti su tela di epoche poco apprezzate, sculture in legno o in altri materiali di poco pregio, mobilio, manufatti tessili e suppellettili dismesse dall’uso liturgico. La periegesi di Lionello Venturi,1 le catalogazioni delle Soprintendenze, l’acuta erudizione di alcuni studiosi locali, l’operato di alcuni lungimiranti addetti alla tutela, il desiderio da parte di alcuni giovani professori, spesso formati dal magistero longhiano, di percorrere, in parallelo con lo studio dei “primitivi”, strade alternative in cerca di settori ancora da esplorare, avevano dotato la storia dell’arte, in particolare quella del Medioevo, di una bibliografia ormai sufficiente a creare stimoli, a indicare metodi, a tracciare nuove strade per la ricerca. Quello della scultura lignea è stato forse il campo più fertile in cui sondare e mettere in pratica questo esercizio. Erano dalla nostra parte, in Umbria, alcuni studi ormai datati, ricchi di indicazioni da sviluppare (condotti tra gli anni venti e gli anni quaranta del Novecento da Géza de Francovich e da Giorgio Castelfranco2), c’erano alcune guide che invitavano, almeno in alcune parti dell’Umbria sudorientale e in particolare in Valnerina, a sbirciare nelle canoniche e negli armadi delle sacrestie perché redatte da preti eruditi come don Ansano Fabbi, c’era la lezione di metodo di Giovanni Previtali che, per la scultura lignea medievale, aveva fissato, a partire dagli anni sessanta, i primi punti fermi e le linee guida di cui ancora ci serviamo: la suddivisione territoriale in aree linguistiche indicate come “sinistra e destra del Tevere”, l’individuazione di botteghe dedite a produzioni seriali, la diffusione di manufatti in aree culturalmente unitarie − le diocesi − o comunque collegate da percorsi ricostruibili, la possibilità di comparare i caratteri stilistici che caratterizzano l’attività pittorica in un determinato ambito territoriale con quelli che si possono riscontrare nelle sculture policrome.3 103

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La scultura dipinta ha, rispetto alla pittura, qualcosa che può sembrare “di troppo”, quasi un eccesso di fisicità: la tridimensionalità unita al colore fa percepire l’oggetto non tanto come opera d’arte quanto come simulacro, più che un’immagine una “statua” che palpita di una sua vita quasi carnale, che evoca rappresentazioni di teatro e suscita un impatto emotivo che richiama l’antica “passione degli Umbri”. Marco Collareta ha proposto qualche tempo fa un’utile riflessione sul significato cultuale dell’immagine scolpita e dipinta che, attraverso un processo plurisecolare, venne a sostituire nell’Occidente cristiano l’immagine bidimensiomale, e non è un caso se fu dopo la definitiva separazione dell’Oriente greco ortodosso dal cattolicesimo latino (1054) che per noi ebbe inizio la storia della statuaria medievale.4 Tuttavia il naturalismo delle statue dipinte, diffusosi soprattutto dopo che Giotto ebbe avvicinato ed equiparato le due arti sorelle, pittura e scultura, e ancor più a partire dal primo Quattrocento, quando l’uso della creta e di altri impasti aveva reso possibile la produzione seriale attraverso i calchi, finì col suscitare, sia negli ambienti riformati che in quelli controriformati, diffidenze e sospetti che non rimasero senza conseguenze. Non è un caso se in Germania sia il grande Tilman Riemenschneider, sedotto dal vento nuovo della Riforma luterana, che il cattolico Veit Stoss preferirono in linea di massima la scultura monocroma, che imitava il marmo o il bronzo, e si astennero, salvo che in pochi casi, dal praticare ingessature e coloriture sulle statue lignee che scolpirono nella loro produttiva carriera. Uno degli scritti più recenti sulle sculture di legno nell’Umbria del Duecento lo dobbiamo a Elvio Lunghi, che già in passato aveva affrontato lo studio della statuaria lignea, in particolare dei crocifissi diffusamente presenti in Valle Umbra, e cioè in quella parte della regione più direttamente investita dal fenomeno del francescanesimo, collegandoli con la religiosità accesa e drammatica di alcune figure di mistiche come Angela da Foligno o Margherita da Cortona e con quella “santa follia” che non doveva essere manifestazione rara nell’Umbria medievale.5 L’autore, osservando quanto rimane della scultura duecentesca in legno, affronta la storia della distruzione della statuaria di soggetto religioso e lo fa attraverso la lettura di alcune visite pastorali post tridentine, in particolare quella di Pietro de Lunel, vescovo di Gaeta, nella diocesi di Spoleto (1571) e quelle di Pietro Camaiani, vescovo di Ascoli Piceno, nelle diocesi di Assisi, Foligno e Todi (1574-1575). Incredibile il numero di crocifissi, Madonne, spesso vestite e ornate di gioielli, croci dipinte (Crux tabulacea), Cristi tunicati che i due vescovi giudicarono vetustate consumpti e che ordinarono di bruciare («iussit comburi, amoveatur et combureatur»6) per conservarne magari le ceneri in un sacrario. Dunque, stando a queste illuminanti informazioni, avrà ancora un ragionevole significato valutare la densità di statue oggi ancora presenti in un determinato territorio come indizio di una fitta produzione locale, o non sarà piuttosto segno che alcuni vescovi furono più tolleranti, o più disattenti di altri? Tuttavia i lavori di Géza de Francovich e di Giorgio Castelfranco, di Fernanda De Maffei e di Giovanni Previtali, di Enrica Neri Lusanna e di Corrado Fratini, di Elvio Lunghi e di Fabio Marcelli, di Mirko Santanicchia e di Alessandro Delpriori, oltre ai periodici convegni di Pergola, a quelli di Mercatello e di Foligno, alle ricerche condotte d’intesa tra le Università di Perugia e di Urbino specie per l’impulso dato a questi studi da Pietro Scarpellini e da Ranieri Varese, alle mostre di Matelica e di Camerino curate da Maria Giannatiempo hanno fatto affiorare moltissime sculture che non erano note agli studi e che corrispondono ad altrettante nuove bandierine da piantare, dopo quelle già issate dal Previtali sul crinale umbro marchigiano a segnalare reciproci interscambi, inediti rapporti, comuni indirizzi. Poiché lo scopo primario della mia ricerca territoriale era essenzialmente di carattere conservativo, il primo esercizio da compiere era il riconoscimento dell’interesse e della presumibile datazione dell’opera al di sotto di rifacimenti e di ridipinture che spesso, nel corso del tempo, ne avevano modificato la veste originaria tanto pesantemente da fare assumere alle sculture aspetti improbabili e grotteschi, con vistose alterazioni sia dell’aspetto plastico, sottoposto ad applicazioni di tela gessata, a scalpellature devastanti, a trasformazioni in manichini da vestire, sia di quello cromatico e decorativo, ricoperto da molteplici strati di ridipinture. Insomma se l’uso devozionale delle sculture le aveva in molti casi preservate dalla totale perdita, tuttavia le 104

2. Anonimo scultore del XV secolo, Madonna col Bambino. Già Riofreddo di Visso, chiesa di San Lorenzo.

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3. Maestro di Cesi (?), Madonna col Bambino. Spoleto, Museo Nazionale del Ducato. 4. Scultore della metà del Trecento, Madonna col Bambino (particolare). Castiglion Fosco (Pg), chiesa di Santa Croce.

aveva spesso mascherate a tal punto che nulla si poteva dire di esse se non dopo un accurato restauro. Quello di avere potuto condurre vere e proprie campagne di restauro su manufatti ancora relegati in un campo di interesse limitato e marginale è stato forse il massimo risultato raggiunto grazie all’impiego oculato e libero da condizionamenti dei finanziamenti, sia pure esigui, riservati alle zone colpite dal terremoto del 1979. Oggi, con ogni probabilità, non lo si potrebbe più fare. Dobbiamo ricordare un altro segnale positivo, che sembra essere frutto del rinato interesse per una tipologia artistica entrata con pieni diritti nel campo degli studi. Mentre tra gli anni cinquanta e gli anni settanta del secolo passato le sculture lignee hanno toccato il livello più negativo di dispersione dovuta a furti, alienazioni illecite, vendite incontrollate, da alcuni anni sembra esserci stata una vera e propria inversione di tendenza. È di questi giorni la notizia della restituzione di una Madonna (fig. 2) scomparsa nel 1980 da Riofreddo, una piccola frazione di Visso (la scultura era ricordata nelle visite pastorali del Sei e Settecento), recuperata dai carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico presso una bottega antiquaria di Venezia. Anni fa, nel 1998, faceva ritorno a Piedipaterno, ancora una volta in Valnerina, un’altra Madonna col Bambino rubata nel 1973. Acquistata invece nel 2006 dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali la Madonna di Belfiore, un raro pezzo folignate di primo Trecento, che era stata venduta per quattro soldi dal parroco nel 1947, in tempi difficili, dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Ora è stata collocata nel Museo del Ducato presso la Rocca Albornoziana di Spoleto (fig. 3). Non molto tempo prima, grazie al riconoscimento compiuto da una studiosa, Laura Teza, era rientrata a Castiglion Fosco, piccola località tra Perugia e Città della Pieve, una scultura anch’essa trecentesca di Madonna col Bambino, utilissima per ricostruire la conoscenza del patrimonio originario in un’area purtroppo molto depauperata (fig. 4).7 105

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Scultori itineranti, centri di produzione, famiglie di opere Raramente si è potuta attribuire un’identità certa agli scultori, considerata la mancanza di significativi documenti e la rarità di opere firmate, e tuttavia si sono potute creare alcune “famiglie” di manufatti, dove la consanguineità era il più delle volte certificata dalla veste pittorica, ma non solo, perché utile indizio si rivelava anche il modo di lavorare il legno, talvolta “levando” e tornendo il pezzo con vivo senso della plasticità, talaltra assemblando molteplici elementi, anche semplici tavolette e assicelle, fino a raggiungere l’effetto volumetrico desiderato, e poi stendendo strati successivi di tela e di mestica con granulometrie diverse per creare una base di preparazione idonea ad accogliere il colore. Ho sempre pensato che, oltre a individuare dei probabili centri di produzione ben organizzati e in grado di esportare i propri prodotti, lavorati con ogni probabilità all’interno di botteghe politecniche − come dovette accadere a Firenze almeno a partire dalla metà del Trecento − gli scultori del legno potessero essere artisti itineranti, alla stessa maniera dei lapicidi delle cattedrali romaniche o delle compagnie di frescanti che si spostavano tra centri anche relativamente distanti per soddisfare la domanda dei più disparati committenti. Non saprei dire dunque se alcuni fenomeni come quello della diffusione di sculture visibilmente opera di uno stesso autore o di autori connotati da una formazione comune in territori assai lontani e diversi per tradizioni e cultura (si pensi al caso del Maestro del Crocifisso di Visso, che tendiamo a ritenere spoletino, rintracciato da Previtali anche in San Gregorio Armeno a Napoli) non siano frutto dell’itineranza di artisti forestieri specializzati in prodotti alla moda e di sicuro successo commerciale, come fu nel Quattrocento per i plasticatori di Vesperbielder o, per rimanere ai crocifissi, come avvenne per i vari theutonicus presenti dalle Prealpi (Pordenone) all’Adriatico (Rimini, Pesaro) all’Appennino (Perugia, Norcia, L’Aquila ecc.). C’è un’osservazione di Enrico Castelnuovo, in margine ai viaggi degli artisti, che merita di essere tenuta presente non solo per quanto riguarda il caso dei pittori che operarono “fuori casa” (come fu per Giotto ad Assisi, Rimini, Padova, Roma, Napoli, o per Matteo Giovannetti ad Avignone, per i senesi chiamati a Orvieto e a Perugia o per lo stesso Allegretto Nuzi, di cui ci occupiamo in questa mostra, migrato a Firenze) ma che potrebbe essere applicata agli scultori girovaghi. Dice Castelnuovo: «Il caso dell’artista itinerante, dell’artista emigrato, può dunque costituire un capitolo cruciale di quella geografia dinamica che senza alcun pericolo di esiti deterministici varrebbe la pena di accogliere nella storia dell’arte».8 Fra Toscana meridionale e Umbria, ad esempio, esistono alcune Madonne col Bambino note per essere tra le più antiche sculture in legno, che, per il fatto di venire rappresentate su elaborati troni che richiamano la magnificenza del biblico trono di Salomone, si è soliti indicare come Sedes Sapientiae (in gremio matris fulget sapientia patris). Il prototipo di queste Madonne è un esemplare la cui notorietà è dovuta al fatto di recare iscritto il nome del suo artefice, “presbiter Martinus”, e la data 1199, che si leggono sul basamento, sotto il suppedaneo, oltre che al fatto di essere stato acquistato alla fine dell’Ottocento, dopo la misteriosa sparizione dal Duomo di Sansepolcro, da Wilhelm Bode, che la destinò al Kaiser Friedrich Museum, l’attuale Staatliche Museen di Berlino. Altre due statue affini a questa si conservano nella chiesa tuderte di Santa Maria in Camuccia e in quella folignate di Santa Maria Infraportas (ora nel Museo Diocesano). Credo che potesse avere ragione Francesco Santi quando, occupandosi della Madonna di Todi negli anni cinquanta del Novecento e presentandone nel 1963 il restauro, ne sottolineava le caratteristiche francesizzanti, forse alverniati, tanto più che il probabile luogo di provenienza della scultura era l’abbazia premostratense di San Leucio, nei pressi di Todi.9 Anche la Madonna di prete Martino e quella di Foligno, indiscutibilmente apparentate tra loro e unite dalla comune prerogativa di essere le più “romaniche” tra le sculture lignee rimaste, parlano una lingua romanza che è però quella francese, discendente dai preziosi reliquiari alverniati di età carolingia, per cui si potrebbe dire che le prime sculture di legno che si possono rintracciare in Umbria imitano il modellato metallico dei reliquiari e vedono un diffuso impiego di lamine di stagno e d’argento, oltre che di mecche (resine colorate) per simulare effetti simili a quelli dei metalli preziosi. 106

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Anche i crocifissi gotici “dolorosi” realizzati tra XIII e XIV secolo, diffusamente presenti fra Toscana, Umbria e Marche e indissolubilmente legati a scritti mistici come il Lignum vitae di san Bonaventura o alle Meditationes vitae Christi, redatte anch’esse in ambiente francescano, nell’accentuazione della maschera deforme dei volti, nell’allungamento innaturale dei corpi, nel debordare del sangue dalle fessure ampie e profonde delle ferite, segnalano l’itineranza di maestranze artigiane tedesche o francesi (molti crocifissi di questo tipo sono stati rintracciati nella regione del Massiccio Centrale) e forse anche inglesi, non solo attraverso tutta l’Italia, ma addirittura, come già aveva segnalato nel lontano 1938 Géza de Francovich, lungo le strade di più di mezza Europa.10 Cristi dolorosi sono in Croazia, in Catalogna e in Belgio e non ci deve dunque sorprendere se a Bevagna, a Orvieto e a Gualdo Tadino in Umbria, a Fabriano e a Tolentino nelle Marche ne troviamo alcuni esempi che, se pure con alcune varianti e adattamenti di gusto, perpetuano un’immagine devozionale “senza tempo” che, esordita forse in funzione antiereticale fin dal XII secolo, grazie al suo marcato espressionismo viene oggi a combaciare con il gusto contemporaneo. Un altro raggruppamento di sculture ben noto al mondo degli studi sulla statuaria del Medioevo è quello che comprende la bellissima Madonna col Bambino del Duomo di Spoleto e almeno altri quattro esemplari dello stesso soggetto di cui tre in terra abruzzese: la cosiddetta Madonna della Vittoria di Scurcola Marsicana (L’Aquila), quella che si trovava nella chiesa di San Silvestro all’Aquila e la celebre Madonna di Fossa, racchiusa nel suo tabernacolo dipinto, dalla chiesa di Santa Maria ad Cryptas. Giovanni Previtali, che ne fece oggetto di un suo studio nel 1965, era convinto che questi bellissimi esemplari, tutti da datare nei primi decenni del XIV secolo, tra i più ragguardevoli per la qualità dell’intaglio e la raffinatezza delle decorazioni pittoriche, inizialmente riuniti sotto l’etichetta di “Madonne abruzzesi francesizzanti” dietro indicazione di Raffaello Causa che ne giustificava l’ascendente francese mettendole in rapporto con la cultura angioina del Regno di Napoli, dovessero invece segnalare influssi francesi nella scultura umbra, o per l’influenza esercitata dalla miniatura e dalle statuette eburnee che facilmente viaggiavano al di qua delle Alpi, o, come tenderei a credere, per la diffusa presenza in area centroitaliana di maestranze transalpine (si pensi ai maestri vetrieri attivi nel cantiere di Assisi).11 Ecco dunque che un artista come il Maestro di Fossa, tradizionalmente conteso tra Spoleto e l’Abruzzo, poteva benissimo essere un itinerante attivo in diversi centri della dorsale appenninica. Nella tradizione più marcatamente romanica e nei territori di confine tra l’Umbria e le attuali Marche rientrano alcune sculture di Madonna col Bambino prese in considerazione dal Castelfranco nel suo fondamentale lavoro del 1929-1930. Si tratta di alcuni esemplari, in particolare due, di cui uno nelle raccolte civiche di Gubbio, l’altro, proveniente da Fematre, nel Museo di Visso (ma ve n’è un altro a San Felice di Narco, ora nel Museo Diocesano di Spoleto, uno a Giappiedi presso Cascia, ora al Museo della Castellina, oltre che in collezioni private di Spoleto e di Milano) appartenenti a quella tipologia che, per l’espressione del volto della Vergine, siamo soliti chiamare “Madonne sorridenti”. Il riferimento tipologico per le sculture di questo gruppo è stato individuato in una Madonna col Bambino in legno policromo che si trova nei depositi del Louvre a Parigi, proveniente dalla collezione Campana, che reca un’iscrizione con la data 1294 e il nome di Jacopetto di Paolo da Spoleto, che lo Gnoli identificò con una iscrizione letta «a piedi la figura d’una Madonna antica» nella chiesa di Sant’Agostino a Gubbio riportata in un codice manoscritto,12 che consentirebbe di identificare la Madonna del Louvre come proveniente anch’essa da Gubbio. Anche se la Madonna ora a Parigi suscita seri dubbi sulla sua autenticità13 e nonostante si debba ancora sciogliere, anche in relazione all’iscrizione, il quesito se si tratti di un originale o di una copia ricavata da un originale non noto, rimane certo che la distribuzione delle opere appartenenti a questo gruppo rimanda a una diffusa presenza della tipologia delle “Madonne sorridenti” lungo il crinale appenninico umbro-marchigiano, di cui Gubbio rappresenta il punto più settentrionale. Inoltre sembra di potere ipotizzare, sia in base alla concentrazione di queste Madonne nel territorio diocesano spoletino, sia sulla base dell’iscrizione del Louvre, che gli artefici gravitassero nell’area delle produttive officine artistiche di 107

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Spoleto ed operassero in stretta contiguità con pittori la cui produzione ci è nota attraverso vari dipinti, come Simeone, Machilone e Rainaldetto. Anche la datazione di questi esemplari viene dunque a collocarsi dalla metà del Duecento alla fine del secolo, fino agli inizi del Trecento. Il ruolo di Fabriano nel panorama della scultura medievale marchigiana Tornando ai pochi riferimenti cronologici che ci offrono alcune sculture diffusamente presenti nella regione appenninica e continuando a prendere in considerazione quella che insieme ai Crocifissi è certamente l’iconografia più diffusa, cioè la rappresentazione della Madonna col Bambino, non possiamo prescindere dal fare qualche valutazione intorno a quello che è forse il gruppo più consistente e qualitativamente più alto che ha per protagoniste la Madonna col Bambino di Poggioprimocaso, ora nel Museo di Palazzo Santi a Cascia, quella del Museo di Spello (privata di recente del Bambino a seguito di un malaugurato e più che evitabile furto), quella di Sant’Antimo, la meglio conservata del gruppo, nei dintorni di Montalcino e quindi, in area toscana, quella della collegiata di Visso, denominata Madonna Bruna, oggetto ancora oggi di una accesa devozione, quella di una collezione privata romana e quella resa nota di recente della collegiata di Otricoli, infine quella del Museo dell’Aquila, proveniente da Bugnara.14 È quest’ultima che ci consegna la data 1262, un termine cronologico molto utile, sia per la relazione in cui si pone con alcune opere pittoriche appartenenti al settimo decennio del Duecento, sia per verificare alcune assonanze con i gruppi delle Deposizioni, oggetto non molti anni fa, di un corposo studio seguito a una mostra e a un convegno con sede a Montone.15 Su questo gruppo di Madonne molto si è discusso, rilevandone le divergenze e focalizzando gli elementi che le collegano: visi ovali con sopracciglia sottili, nasi stretti e lunghi, dita delle mani affilate e rigide, complesse decorazioni dei troni, laddove questi si sono conservati, policromia carica, sovrabbondante di argenti meccati, anche se in molti casi quasi del tutto perduta. La statua della Madonna in trono col Bambino, forse in assoluto l’iconografia più diffusa nelle chiese di ogni tipo e in ogni luogo, rappresenta l’istintiva tendenza popolare e devozionale a trascrivere plasticamente le immagini bidimensionali che la tradizione bizantina aveva sovraccaricato di formule e di regole per accostarle al sentimento religioso e all’uso cultuale. Questa sorta di metamorfosi da pittura a scultura sembra a volte non essersi compiuta per intero e mostra esiti ibridi di grandissimo interesse che evidenziano la fedeltà a modelli iconografici ormai ampiamente superati, ma ancora ben vivi nella tradizione del territorio, specie in alcuni edifici religiosi marginali o eccentrici. Inoltre la convivenza di pittura e scultura è l’elemento che meglio ci indica la derivazione da oggetti d’uso come reliquiari, teche, coperte di evangeliari. È il caso di una scultura di primo Trecento, ora nel Duomo di Todi ma proveniente dalla chiesa di Santa Maria a Pian di Porto, nei pressi della città: una Madonna col Bambino dipinta su una tavola come fosse inclusa in una scatola, schiacciata contro il fondo come uno smalto in cui il colore, vivace e ben profilato, attribuisce dignità alla malcerta esecuzione della scultura.16 Sulla tradizione di queste teste a rilievo emergenti da fondi dipinti sarebbe il caso di sviluppare qualche approfondimento a partire dalle teste nimbate realizzate in stucco e altri materiali da Alberto Sotio nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo a Spoleto, esatto corrispettivo dei dischi lignei rilevati contenenti il volto di Cristo presenti nelle grandi croci dipinte spoletine di età romanica.17 Va a un’opera della vicina Matelica il primato dell’affermazione, nel campo della scultura lignea, di quella caratteristica che ci è parsa fondamentale per capire le grandi croci dipinte che caratterizzano in Italia la pittura romanica. Quello straordinario lavoro di monumentalizzazione sembra avere avuto di fatto un’origine comune, e non tanto per essersi ispirato alle sculture antelamiche, come si è spesso voluto credere,18 ma più per avere avuto a modello l’arte bizantina, già tradotta in quel tempo su grande scala nei mosaici della corte normanna. Così il gigantesco crocifisso un tempo nella chiesa di Sant’Eutizio, ci appare come un ingrandimento di preziose croci carolingio-ottoniane realizzate con materiali metallici. Nella mostra di Fabriano viene presentata un’opera ancora poco nota, appunto una Madonna col Bambino (fig. 5) riemersa dai magazzini comunali una ventina d’anni fa e oggetto di un lungo e complesso restauro presso l’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione di Ro108

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5. Scultore della fine del XIII secolo, Madonna col Bambino (cat. 58; particolare). Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”.

ma. Forse le scelte operate in materia di ripresentazione estetica dell’opera non sono state le più felici e il trattamento della preparazione adottato (un abbassamento di tono vagamente “salmonato”) può trarre in inganno rispetto al complessivo aspetto cromatico che la scultura doveva presentare in origine. Tuttavia rimane fondamentale il recupero di un’altra raffinata immagine mariana da includere tra quelle che non sfiorano ancora la soglia del Trecento, apparentata con esempi di figure della Vergine appartenenti a Deposizioni duecentesche. L’approccio con la scultura lignea dipinta ha dato, credo, in questi ultimi trent’anni una grande lezione di metodo. Pur operando, noi delle Soprintendenze, con il condizionamento e con i limiti dei confini amministrativi moderni, abbiamo imparato che questi confini devono essere radicalmente abbattuti se si vogliono capire con qualche probabilità di successo le dinamiche storiche e geografiche che presiedettero alla produzione e diffusione delle sculture. Si dirà che lo stesso vale per la pittura e per le altre discipline artistiche, ma aggiungerei che per la scultura vale ancora di più. La dicitura “umbro-marchigiano” ha preso piede nelle didascalie dei musei e nei cataloghi delle aste non solo per mascherare la scarsa conoscenza degli effettivi luoghi di produzione, ma anche per sottolineare il fatto che i confini di oggi non rispettano quasi mai quelli storici, che potrebbero identificarsi con i confini di entità politiche come il Ducato di Spoleto o delle antiche diocesi, dove Visso e Fematre, oggi marchigiane, facevano capo a Spoleto e Fabriano a Nocera. Va ricordato che Raimond van Marle dava al capitolo sull’arte del Duecento nell’Italia di mezzo della sua voluminosa Storia delle Scuole pittoriche in Italia il titolo “nell’Umbria, a Fabriano e in altri luoghi” dove Fabriano è da considerare parte integrante e centro guida dell’Umbria. L’altro confine che deve essere abbattuto è quello tra le diverse arti, perché dopo molte incertezze e contrapposizioni tra chi propendeva per l’identificazione tra pittori e scultori e chi al contrario ne vedeva l’operare disgiunto e circoscritto a una propria ben definita area di specializzazione, si è potuto capire che il più delle volte le sculture policrome sono frutto del lavoro di botteghe in cui scultori e pittori collaboravano all’esecuzione del prodotto finito, e se a capo poteva esserci un pittore, non per questo l’intagliatore doveva essere una figura di secondo piano. È vero che esistono documenti, fonti letterarie e opere che ci fanno conoscere l’esistenza di figure specializzate, destinate a entrare in campo solo in una ben precisa fase dell’esecuzione di un’opera, ad esempio quella del “dipintore di crocifissi” ricordata in una novella del Sacchetti, tanto che ci è capitato di rintracciare qualche pezzo incompiuto, o meglio fermo alla prima fase della sua lavorazione e privo quindi della veste pittorica, come è nel caso di un crocifisso che si conserva in un piccolo ambiente del Duomo di Spoleto, appartenente al gruppo del Maestro del Crocifisso di Visso creato a suo tempo dal Previtali (1982) poi ampliato e meglio definito dagli studi di Enrica Neri Lusanna (1992).19 La studiosa, che pone la serie dei crocifissi in questione in stretta relazione con la Natività della Basilica di San Nicola a Tolentino, mette in evidenza la comune resa del modellato, sodo e senza asprezze, che vive, anche se privato della policromia, di una comune logica figurativa e formale riscontrabile in particolare nei caratteri dei volti dagli ovali allungati, occhi tirati e labbra tenui. Ciò non toglie ovviamente validità al già più volte proposto confronto tra i caratteri della superficie dipinta di queste sculture e l’opera di diversi pittori attivi tra Spoleto, la valle umbro marchigiana del Nera e l’Abruzzo nella prima metà del Trecento (il Maestro di Cesi, il Primo Maestro di Santa Chiara da Montefalco alias Maestro di Monteleone di Spoleto, il Maestro di Fossa) e tuttavia restituisce all’ars sculpendi, che in Leon Battista Alberti tornerà ad occupare il gradino più alto perché più prossimo alla matematica e alla geometria, quell’autonoma area di espressione che il magistero giottesco provvederà a consacrare. La splendida Madonna di Campodonico, purtroppo assente da questa esposizione, ma restaurata di recente ed esposta nella mostra fiorentina dedicata all’eredità di Giotto è la più evidente riprova di come la grande lezione impartita dall’operare del maestro e dei suoi seguaci si ripercuota non solo nella vivace cromia e nell’elaborato disegno del tessuto del manto che la riconduce all’attività di Allegretto Nuzi, ma anche e soprattutto nella plasticità volumetrica e nell’autorevolezza del modellato. Fabriano dovette diventare intorno alla metà del Trecento uno dei maggiori centri di produzione della scultura lignea dipinta, subentrando in tale ruolo a capitali artistiche indiscutibil109

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mente di grande importanza, come dovette essere Spoleto, capitale del Ducato di fondazione longobarda, che godette di larga autonomia fino al ristabilimento del controllo pontificio segnato dalla costruzione della rocca albornoziana, e proponendosi come alternativa all’immissione di maestri forestieri, toscani e soprattutto senesi, come avvenne a Orvieto e a Perugia. L’Umbria del Nord è indubbiamente meno ricca di sculture lignee dipinte rispetto alla Valle Umbra, allo Spoletino e alla Valnerina, dove si contano gli esemplari più numerosi e più ragguardevoli di una produzione autoctona che consente di ipotizzare la presenza di vere e proprie botteghe familiari come forse dovevano configurarsi quelle di Machilone e figlio, di Jacobetto di Paolo e fratello (spoletini tutti quanti) dello stesso Allegretto Nuzi e soci. Nel territorio diocesano di Perugia una recente mostra ha segnalato la presenza di interessanti sculture, come una colorata e sorridente Madonna col Bambino, recuperata dopo un furto a Castigion Fosco, nei pressi di Tavernelle, che sa di modi fiorentini tradotti in un linguaggio popolare e schiettamente paesano e che ben si adatta a un piccolo centro tra Perugia e Città della Pieve, o come una Santa Caterina rintracciata in un ex monastero alle porte di Perugia (figg. 6-7), che, al di sotto di manomissioni e trasformazioni, rivela una decorazione trecentesca della veste non molto dissimile da quelle che si dipingevano a Fabriano nella bottega di Allegretto.20 Se agli Agostiniani di Tolentino va riconosciuto il merito di avere introdotto il tema della Natività nella scultura lignea sull’onda dei modelli arnolfiani, Fabriano, grazie alla rara presenza del gruppo dell’Epifania (cat. 62-65), si qualifica come detentrice di questa particolare iconografia di cui sopravvivono in Italia pochi altri esemplari (nel Museo di Palazzo Venezia a Roma e a Bologna, nella chiesa di Santo Stefano). Dunque, dopo lo straordinario exploit della Madonna di Campodonico, fulgido esemplare ove si sommano la lezione di Giotto e la vocazione 110

6-7. Scultore fabrianese del secondo Trecento, con interventi successivi, Santa Caterina (particolari). Perugia, ex chiesa di Santa Caterina Vecchia.

sculture dipinte tra marche e umbria. centri di produzione e aree di diffusione

decorativa presaga del genio di Gentile, sembra prevalere un tipo di scultura narrativa, erede delle rappresentazioni di cui nel XIII secolo erano stati protagonisti i gruppi delle Deposizioni e anticipatrice delle festose messinscene dei Presepi in terracotta che saranno prerogativa di un’area dell’Italia di mezzo tra l’Umbria meridionale, la Sabina e l’Abruzzo, ancora poco noti agli studi, ma indubitabilmente frutto di derivazione popolare e di continuità con il grande racconto medievale dove pittura e scultura si confondono.

1 Venturi 1916. 2 De Francovich 1928-1929; De Francovich, Una scuola 1935-1936; De Francovich, Crocifissi 1935-1936; De Francovich 1938; De Francovich 1943; Castelfranco 1930. 3 I vari scritti pubblicati tra gli anni sessanta e anni ottanta sono stati raccolti in Previtali 1991. 4 Collareta 1995. 5 Lunghi, La passione 2000. 6 L’ordine di distruggere con il fuoco (combureatur) immagini lignee dipinte o scolpite ritenute “indecenti” o per il loro cattivo stato o, soprattutto, perché non rispondenti ai nuovi dettami relativi alle immagini devozionali è ripetutamente presente nelle visite pastorali post-tridentine. Una dettagliata esposizione per quanto riguarda l’Umbria è in Lunghi, La scultura 2000. 7 La scultura di Belfiore di Foligno è stata pubblicata, dopo l’acquisizione da parte della Soprintendenza per i Beni Artistici, Storici e Etnoantropologici dell’Umbria, da Alessandro Delpriori (2010). La Madonna di Castiglion Fosco, dopo il ritrovamento, è

stata presentata in una mostra curata da Corrado Fratini per cui si veda: Fratini 2009, pp. 25-26; C. Betti-C. Basta, in All’ombra di Sant’Ercolano 2009, pp. 92-94, n. 3. 8 Castelnuovo 2000, p. 322. 9 F. Santi, in Mostra di opere d’arte restaurate 1963, p. 5, n. 1. 10 De Francovich 1938. 11 Previtali 1986. 12 Gnoli 1923, p. 23. 13 Cfr. Gaborit 1994, p. 107. 14 Fratini 2001. 15 La Deposizione 2004. 16 Cfr. E. Lunghi, in Verso un museo 1982, pp. 202-203. n. VII.3.3. 17 Cfr. Benazzi 1984. 18 Cfr. Carli 1960. 19 Previtali 1986; Neri Lusanna 1992. 20 Cfr. Fratini 2009, p. 32, nota 30; C. Betti, in All’ombra di Sant’Ercolano 2009, pp. 118-120, n. 13. 111

Catalogo

1. Cimabue, attribuito (Cenni di Pepo; Firenze, notizie 1272-1301) Ritratto di san Francesco 1279? tempera su tavola; cm 107 × 57 Assisi, Museo della Porziuncola Intervento conservativo eseguito in occasione della mostra da COO.BEC., a cura della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana

Bibliografia. Bini 1721, p. 31; Fea 1820, pp. ix, xvii; Carattoli 1861; Faloci Pulignani 1921; Toesca 1927, II, p. 1054; Longhi 1948, p. 46; Bologna 1962, p. 109; Battisti 1963, p. 109; Sindona 1975, p. 118; Bellosi 1998, pp. 233236; B. Zanardi, in Arnolfo di Cambio 2005, p. 242.

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Nel Museo della Porziuncola a Santa Maria degli Angeli è conservato un dipinto su tavola che ritrae san Francesco a figura intera con un libro stretto tra le mani. La figura del santo è quasi identica – salvo le dimensioni – al celebre ritratto di san Francesco che compare in piedi alla sinistra della Vergine con il Bambino in trono sulla parete sopra l’altare dell’Immacolata nel transetto nord della Basilica inferiore di San Francesco. L’attribuzione di quest’ultimo alla mano di Cimabue ha coinvolto anche il dipinto del Museo della Porziuncola, che prima fu segnalato in una nota nel Medioevo di Pietro Toesca tra le opere che «riflettono in vario grado la maniera di Cimabue» (1927, II, p. 1054), e poi fu pubblicato come opera perfettamente autografa benché troppo dimenticata del pittore fiorentino nella recensione di Roberto Longhi (1948, p. 46) alla “Mostra giottesca” di Firenze del 1937. L’influenza esercitata da Longhi nel panorama degli studi storico-artistici del secondo Novecento ha fatto sì che la tavola della Porziuncola sia stata presentata come opera autografa di Cimabue o a lui attribuita in tutti o quasi gli studi dedicati alla pittura delle origini nell’ultimo mezzo secolo o nei volumi monografici sul pittore (Bologna 1962, pp. 109-110; Bellosi 1998, pp. 233-236); pur non essendo mancate le voci critiche, come quella di Eugenio Battisti (1963, p. 109) che la disse «una mediocre derivazione» o l’altra di Enio Sindona (1975, p. 118) che la definì una «maldestra imitazione». I dubbi sulla autenticità del dipinto sono stati posti in chiaro da Bruno Zanardi (in Arnolfo di Cambio 2005, p. 242), osservando come fu eseguito «direttamente sul legno di pioppo della tavola e con uno strato di colore molto sottile che lascia in vista, appunto, il legno sottostante. Questo contrasta con il fatto che, fino al primo Cinquecento, i dipinti su tavola recano – sempre – un’incamottatura in tela (in genere di lino) e una consistente preparazione a gesso e colla, mentre la pellicola pittorica è realizzata – di nuovo sempre – con una tempera all’uovo, conseguendo perciò un tipico aspetto smaltato e assolutamente non trasparente». Questo non vieta di trovarsi di fronte a un’opera autografa di Cimabue, essendo possibile riconoscere in questa tavola «un rarissimo “modello esecutivo”. Vale a dire uno di quegli strumenti di lavoro fondamentali nei cantieri e nelle botteghe – senza distinzione tra pittura, vetrate, scultura e architettura – e tuttavia nella quasi totalità dei casi andati distrutti per il loro essere meri strumenti di lavoro». La prima notizia a stampa del quadro compare in una storia dei santuari di Assisi che fu scritta da Pompeo Bini (1721, p. 31), in relazione con la cassa che conservò il santo corpo di san Francesco una volta traslato dalla Porziuncola alla chiesa di San Giorgio,

«il cui preteso coperchio si conserva ancora dalla nobil famiglia Giacopina d’Assisi». Nel 1820 era «in casa del sig. Pietro Bini presso il vescovado di Assisi», dove la vide Carlo Fea (1820, p. xvii) che ricordò per primo l’immagine di san Francesco sopra il coperchio, dicendola opera di Giunta Pisano. All’estinzione della famiglia Giacobini, il quadro fu ereditato dalla famiglia Bini Cima di Assisi, dalla quale l’acquistò il pittore e antiquario Luigi Carattoli, che ne fornì un’accurata descrizione a stampa (1861). Dopo il 1882 fu acquistata dai frati del convento di Santa Maria degli Angeli (Faloci Pulignani 1921), che la esposero in un primo tempo sulla parete esterna della cappella del Transito e più tardi nel piccolo museo della Basilica. Benché conosca sin da ragazzo questo dipinto, continua a restare ai miei occhi inspiegabile il collegamento tra il suo aspetto materiale e la sua destinazione antica. Luciano Bellosi (1998, p. 235), che avallò l’opinione tradizionale di un uso come coperchio di bara, giustificò l’assenza di una preparazione in gesso e colla per la condizione di «reliquia, e come tale non poteva essere sottoposta al normale processo di preparazione artigianale in uso per le semplici tavole destinate a essere dipinte»: cosa non vera perché una preparazione compare anche nel ritratto di san Francesco che fu dipinto alla Porziuncola da un anonimo maestro sulla tavola che il santo era solito utilizzare in vita come letto e sopra la quale i frati ne acconceranno il cadavere scoprendovi le ferite delle stimmate. Altrettanto incerta è l’ipotesi, suggerita da Bruno Zanardi (in Arnolfo di Cambio 2005, p. 242), di un «modello esecutivo» per il ritratto del santo: non coincidono le misure con l’affresco sopra l’altare dell’Immacolata e non si giustifica l’ineguale lunghezza del mantello, che, se copre il piede destro, lascia scoperto il piede sinistro: al tempo di Cimabue non era così forte la polemica tra “conventuali” e “spirituali” sulla lunghezza del saio. Eppure non può essere negato il carattere marcatamente “primitivo” del dipinto, che guarda in direzione di Cimabue e non trova confronti all’interno della produzione di “vere icone” di san Francesco in età tridentina, gran parte delle quali furono eseguite ad Assisi dal ben noto Francesco Providoni. Nel 1973 Giuseppe Palumbo suggerì per lettera una plausibile soluzione a Enio Sindona (1975, p. 118), sostenendo che il quadro era una copia eseguita dal pittore – Guido da Gubbio – che restaurò nel 1587 la Maestà di Cimabue. Le orecchie a sventola nel quadro della Porziuncola sono infatti identiche agli estesi rifacimenti cinquecenteschi che deturpano il volto del San Francesco di Cimabue: piuttosto che un modello per l’originale si direbbe una replica del ritocco. Elvio Lunghi

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Maestro di Sant’Agostino (attivo nella seconda metà del XIII secolo) 2. Crocifissione cm 232,2 × 299

3. San Guglielmo da Malavalle cm 292 × 219,9

4. Sant’Agostino consegna la Regola agli Eremiti cm 238 × 290 ultimo quarto del xiii secolo affreschi staccati riportati su tela Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”

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I tre affreschi sono stati staccati nel 1901 dal convento fabrianese di Santa Maria Nova, altrimenti detto di Sant’Agostino. Stando alla tradizione, il complesso venne fondato nel 1216 da Gualtiero Chiavelli, che lo intitolò alla Vergine Assunta e lo concesse agli Eremiti di sant’Agostino (Sassi 1961, pp. 51-53; Donnini 1995, pp. 29-32; Cleri 2006, pp. 9-11). La costituzione dell’Ordine eremitano si svolse in due tappe nei decenni centrali del Duecento (Rano 1973; Bellini 2004). Nel 1244 Innocenzo IV promosse la Piccola Unione, raccogliendo in un’unica congregazione, che prese il nome di Eremiti della Tuscia, varie comunità eremitiche sottoposte alla Regola agostiniana, sorte tra xii e xiii secolo in Toscana, Alto Lazio, Umbria e Marche. Nel 1256 Alessandro IV unì agli Eremiti della Tuscia altri gruppi eremitici di Regola agostiniana o benedettina (Giamboniti, Eremiti di Monte Favale, Brettinesi e Guglielmiti), sancendo – con la così detta Grande Unione – la nascita ufficiale dell’Ordine mendicante degli Eremiti di sant’Agostino.

Le origini del convento di Santa Maria Nova si collocano in questa fase di grande fermento. La mancanza di documenti non consente di chiarire quando vi si insediarono i monaci, ma è assai probabile che il loro ingresso sia avvenuto prima della Grande Unione, poiché Gualtiero Chiavelli morì nel 1258. È da stabilire, pertanto, a quale comunità eremitica – poi accorpata nel nuovo ordine religioso – appartenessero i primi abitanti del complesso fabrianese. Un importante contributo all’analisi della questione giunge proprio dagli affreschi in esame, che si trovavano in origine in un ambiente del complesso identificato da Amico Ricci (1834, I, p. 87) con il refettorio, ma corrispondente più probabilmente all’antica sala capitolare. La decorazione doveva occupare la parete di fondo, con la Crocifissione al centro, e le altre due scene ai lati. Giovanni Battista Cavalcaselle e Joseph Archer Crowe (1887, p. 22) ricordano nello stesso vano alcuni frammenti con Storie della Passione, di cui non si hanno altre notizie.

La corretta esegesi dei soggetti si deve a un’intuizione di Miklós Boskovits (1990, pp. 129, 139, nota 43), che ha identificato nell’eremita san Guglielmo da Malavalle, grazie alla lettura dell’iscrizione frammentaria visibile a destra del suo volto ([…]E[…]MUS). La biografia del santo ci è stata tramandata dalla Vita Sancti Guilelmi, redatta tra il 1238 e il 1271 da Teobaldo (Figara 2009); questi dichiara a sua volta di desumerla da un libello scritto da Alberto, primo compagno e discepolo dell’eremita. Stando alla tradizione, Guglielmo nacque in una nobile famiglia francese e trascorse la giovinezza nella licenziosità delle armi. Grazie ad un incontro con Bernardo di Chiaravalle, intraprese un percorso di conversione, segnato da pellegrinaggi a Gerusalemme, Compostela e Roma. Il desiderio di espiazione lo condusse nelle insalubri paludi della Maremma, dove si sottopose ad aspre forme di mortificazione, vegliando, digiunando e facendosi perfino saldare sulla nuda carne alcune parti della sua armatura da cavaliere. La dura penitenza lo portò presto alla morte, avvenuta il 10 febbraio 1157 a Malavalle, presso Castiglion della Pescaia. Sebbene Guglielmo sfuggisse ogni contatto umano, la fama della sua santità e dei suoi miracoli si estese e condusse presso il suo eremo dei discepoli, da cui avrebbe preso vita la congregazione dei Guglielmiti. La canonizzazione del santo, avvenuta nel 1202, segnò il definitivo affermarsi del suo culto – specialmente in Toscana – e della sua iconografia, che ha nell’affresco in esame il più antico esempio ad oggi conosciuto. Guglielmo è ritratto stante all’interno di un’elaborata struttura architettonica e indossa il rozzo saio degli Eremiti. L’ambiente che lo circonda è caratterizzato da pochi elementi, che concorrono comunque a definire con efficacia l’insalubre Malavalle, luogo disabitato e immerso nella vegetazione, come indicato dai due alberelli di diversa specie botanica. La mano chiodata rivolta verso il suo volto simboleggia un mistico colloquio avuto con il Cristo, di cui si narra nella Vita di Teobaldo (Marcelli, Devozione 1998, p. 177, nota 13). Tra le mani Guglielmo stringe un oggetto, identificato finora con un libro (Marcelli 1997, p. 44; Corsi 2004, p. 92). Per la forma svasata e per la decorazione a fasce e racemi policromi su fondo color terracotta è però evidente che si tratta di una brocca. Questo dettaglio, sinora sfuggito, si rivela prezioso e consente di effettuare importanti riflessioni sulle fonti che ispirarono l’iconografia dell’affresco. La brocca, infatti, è collegata ad uno dei numerosi miracoli attribuiti al penitente, che è tramandato in parte dalle fonti agiografiche, e in parte da una radicata tradizione popolare, ancora viva nelle terre di Maremma in cui egli condusse il suo eremitaggio (Masetti 2004). Stando a Teobaldo, il santo, ritiratosi presso Buriano nella località di Monte Pruno, fu sorpreso nelle prime ore della notte dall’improvvisa comparsa di alcuni demoni, che prima lo tentarono e poi lo percossero. I diavoli furono messi in fuga da un’apparizione della Vergine, che curò poi le ferite riportate dall’eremita nello scontro. Nel Burianese la devozione popolare vuole che nelle ore successive due ragazze si recassero ad

una fonte, sita presso l’antro di Guglielmo, per attingere l’acqua con alcune brocche. Qui si imbatterono con grande spavento nel penitente che giaceva a terra stremato. Egli le rassicurò e, come prova dell’approvazione divina verso il suo operato, riempì le brocche e le caricò capovolte sul dorso dei giumenti, senza che ne uscisse una goccia d’acqua. Le ragazze tornarono a Buriano e mostrarono il miracolo alla popolazione, che accorse all’eremo di Guglielmo per venerarlo. La raffigurazione della brocca fa dell’affresco fabrianese un unicum, perché non compare in nessun’altra delle rappresentazioni note di Guglielmo da Malavalle. Segnala poi che la sua effige dovette essere dipinta facendo riferimento non solo a fonti scritte, ma anche ad una tradizione orale, nata nei piccoli centri della Maremma in cui erano sorte le prime comunità eremitiche ispirate dall’esempio del penitente.

Tali considerazioni aggiungono un ulteriore tassello ai molti indizi che fanno presupporre un legame tra il convento di Santa Maria Nova e l’Ordine dei Guglielmiti (Marcelli, Devozione 1998, pp. 164-168), istituito dopo la morte del santo dai suoi primi discepoli e approvato nel 1211 da Innocenzo III (Novelli 1977). Nel 1237, con l’avallo di Gregorio IX, gli Eremiti abbandonarono i rigidi Statuta S. Guilelmi in favore della più mite Regula di san Benedetto, dando inizio ad una fase di notevole espansione delle loro fondazioni, che interessò prevalentemente la Toscana, il Lazio e le Marche. A seguito della convocazione di Alessandro IV, essi aderirono in un primo momento alla Grande Unione, sancita il 9 aprile 1256. Presto, tuttavia, emersero nell’Ordine dubbi e malumori, legati alla difficoltà di combinare uno stile di vita votato alla contemplazione con le cure pastorali imposte dalla Regola 117

Bibliografia. Ricci 1834, I, p. 87; Molajoli 1936, ed. 1968, pp. 87-89; Donnini 1982, pp. 385-386; Boskovits 1990, pp. 129, 139, nota 43; Blume-Hansen 1992, pp. 7778; Donnini-Parisi Presicce 1994, pp. 38-39; Scarpellini 1996, pp. 9-10; Marcelli 1997, pp. 40-45 (con bibliografia precedente); Marcelli, Devozione 1998, pp. 164-168; Marcelli, Appunti 2000; Marcelli, Il Deserto 2000, pp. 135-136; Corsi 2004, p. 92.

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agostiniana. A causa delle forti pressioni, nell’agosto successivo il papa dimise quindi i Guglielmiti dall’Unione. Non tutte le fondazioni accettarono però la ritrattazione: molte, specialmente in Germania, Boemia e Ungheria, preferirono l’annessione agli Eremitani; altre vissero una lunga fase di contrasti interni, che si concluse nel 1266 con un compromesso faticosamente raggiunto (Elm 1962). Tali difficoltà interessarono in maniera minore le case italiane, le quali, stando alle testimonianze invero scarse che si conservano, rifiutarono l’Unione, mantenendo le proprie prerogative. Potrebbero esserci però delle eccezioni non ben documentate, tra le quali rientra forse anche il caso di Fabriano. Nelle Marche, d’altronde, anche gli eremi di Monte Favale (Pesaro) e Torre di Palme (Fermo) avevano adottato transitoriamente l’ordinamento dei Guglielmiti nella prima metà del Duecento (Elm 1975). La probabile discendenza guglielmita del convento fabrianese andrebbe ad arricchire il messaggio politico trasmesso dall’affresco con la Consegna della Regola. La scena è solenne: sant’Agostino, in ricchi paramenti vescovili, benedice un gruppo di dodici eremiti, a cui porge il libro con i suoi precetti. Assistono all’evento otto frati agostiniani, che indossano la sopravveste bianca da cerimonia sopra la “cuculla nigra cum zona cincta”, divenuta con la Grande Unione l’abito ufficiale dell’Ordine. Un simile soggetto si adatta alle necessità di un gruppo di Guglielmiti “dissidenti”, intenzionati a giustificarsi agli occhi dei vecchi confratelli per aver abbandonato la via del penitente di Maremma in favore della Regola di Agostino. La diffusione del tema iconografico – di cui il dipinto in esame costituisce il primo esempio noto – si inserisce inoltre in una fase delicata della storia degli Eremitani, che all’indomani dell’istituzione entrarono in conflitto con i canonici regolari (Blume-Hansen 1992, pp. 77-78). Questi ultimi, creati nell’xi secolo sulla base delle lettere di sant’Agostino, rifiutavano di riconoscere al nuovo Ordine la fondazione primigenia da parte del Dottore della Chiesa. La disputa trovò soluzione solo nel 1327, con la presa di posizione di Giovanni XXII contro questa tesi. Gli affreschi fabrianesi, pertanto, divengono una sorta di manifesto programmatico. I frati, da un lato, celebrano il loro passato eremitico nella figura di san Guglielmo; dall’altro, legittimano la scelta di confluire nella Grande Unione in nome del carisma di Agostino e dell’adesione ad una più vasta fraternità spirituale, nella quale i “nuovi” e i “vecchi figli” del santo vescovo erano posti sullo stesso piano. I tre dipinti, databili all’ultimo quarto del Duecento, furono attribuiti da Ricci a Francesco di Bocco,

pittore fabrianese documentato nel 1306 e non altrimenti noto (Sassi 1924, pp. 476-477). Anche Bruno Molajoli (1936, ed. 1968) li riconosce ad un maestro locale, mentre la storiografia coeva (Van Marle 1923, p. 409; Toesca 1927, I, p. 1019; Venturi 1907, p. 18) opta per un’origine umbra del suo autore. Tale ipotesi è stata poi sviluppata da Enrica Neri Lusanna (1986, p. 414) e Giampiero Donnini (1982, pp. 385-386), che inquadrano la formazione del cosiddetto Maestro di Sant’Agostino nell’ambito del Maestro di Montelabate, attivo in Umbria nella seconda metà del xiii secolo. Pietro Scarpellini (1996) e Fabio Marcelli (1997, pp. 40-45) accostano invece il pittore all’area abruzzese e laziale, in virtù dell’affinità tra gli affreschi in esame e quelli degli oratori di San Pellegrino a Bominaco (post 1263) e di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati a Roma. Nel linguaggio dell’anonimo, in effetti, si combinano apporti culturali riconducibili a varie correnti di gusto presenti all’epoca nelle regioni dell’Italia centrale, con particolare riferimento proprio alle fasce più meridionali dei territori appenninici, caratterizzate da una produzione figurativa di marcata impronta classicheggiante. Il background classico del Maestro di Sant’Agostino si manifesta nella modellazione dei panneggi, nell’uso misurato della linea decorativa e nella precoce volontà di perseguire effetti plastici, che giunge a risultati sorprendenti nel legno della croce, dove la tridimensionalità è suggerita dalla giustapposizione di tre fasce in diverse gradazioni di marrone. Ulteriori indizi del “classicismo” del pittore sono forniti dalle singolari inquadrature poste a sfondo delle composizioni. I bellissimi racemi vegetali nei bordi superiori ricordano le decorazioni delle coeve pagine miniate. Le specchiature bordate da un esile arabesco, contro cui si stagliano i personaggi nella Crocifissione e nella Consegna della Regola, divengono una sorta di cornice nella cornice e rappresentano una soluzione rara, che accentua la portata scenica del racconto. Il maldestro scorcio prospettico delle mensole e dei capitelli, che delimitano l’architettura entro cui si svolge la Consegna della Regola, sembra citare i cicli cimabueschi della Basilica superiore di Assisi, a conferma della datazione entro l’inizio degli ottanta del Duecento proposta per i tre affreschi da Boskovits (1990, p. 129). Come tanti pittori centro-italiani, l’anonimo attivo a Fabriano è affascinato dall’opera del fiorentino nel santuario francescano, ma non ne riesce a cogliere appieno l’apporto innovativo e si limita a captarne alcuni aspetti “epidermici”, probabilmente perché il suo linguaggio era all’epoca già definito e strutturato da tempo. Veruska Picchiarelli

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5. Rinaldo di Ranuccio (notizie 1265) Croce dipinta 1250-1260 tempera su tavola; cm 140 × 119,5 Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli” Iscrizioni: ego sum rex re[gum] | populum qui de | morte redemi (in alto); [rai]naldictus [ra] | nuci de spol[eto] | [p]insit ho[c opus] (in basso)

BIBLIOGRAFIA. Venturi 1915, pp. 1-4; Gnoli 1923 p. 314; Sandberg Vavalà 1929, pp. 741-743; Garrison 1949, pp. 26, 211, 213; Severi/Ragghianti 1962, p. 49; F.M. Aliberti Gaudioso, in Mostra di opere d’arte restaurate 1969, pp. 13-16; G. Alleva, in Restauri nelle Marche 1973, pp. 36-38; A. Marchi, in Sacri legni 2006, pp. 59-63, n. 3; De Marchi 2009, pp. 608-661; A. Delpriori, in Dal visibile all’indicibile 2012, pp. 197-208, n. 9. 120

La croce ci tramanda, insieme a un’altra conservata nella Pinacoteca di Bologna, il nome del pittore spoletino Rinaldo (o Rainaldetto) di Ranuccio. Approdata all’interesse degli studi con un errore di lettura da parte di Lionello Venturi (1915, p. 3) che, male interpretando la parte lacunosa del nome, vi lesse “Benaidictus”, dovette essere ospitata per qualche tempo nell’Ospedale del Buon Gesù con altre opere provenienti dalle demaniazioni postunitarie, ma nulla di più sappiamo circa la sua originaria collocazione, che dovrebbe con ogni probabilità essere ricercata in ambiente francescano fabrianese, considerato il palese riferimento alle croci giuntesche di Assisi. Anche per la croce di Bologna, appartenuta alla collezione Volpi e per diverso tempo esposta a Firenze in Palazzo Davanzati, è stata proposta la provenienza da Santa Chiara di Assisi, dove al momento della consacrazione, nel 1265, potrebbe avere svolto il ruolo di crux de medio ecclesiae abbinata al tabernacolo mariano della Madonna dei Crociati, attribuito allo stesso autore, in attesa di venire sostituiti dalle tre grandi tavole commissionate dalla badessa Benedetta (De Marchi 2009). A Rainaldetto il Venturi avvicina anche uno degli affreschi staccati della Pinacoteca fabrianese e tenta di leggere un’affinità stilistica, oltre che iconografica, dell’opera dello spoletino con altre importanti croci umbre: quella del Maestro di San Francesco datata 1272 della Galleria Nazionale dell’Umbria, quella del Maestro dei crocifissi francescani nella chiesa di San Francesco a Gualdo Tadino e un’altra, perduta, nel Duomo di Ancona (Venturi 1915, p. 4). Umberto Gnoli (1923, p. 314) ridimensionerà il ruolo di divulgatore del giuntismo svolto da Rinaldo a favore di altri maestri, che nel repertorio di Edward B. Garrison (1949) troveranno posto tra i North Umbrian, diffusori di un linguaggio ibrido – la cosiddetta “lingua franca” – denso di elementi bizantini, locali e gotici, nettamente diverso dalla parlata umbra cui rimasero fedeli gli spoletini. Rainaldetto ha in realtà un suo modo di dipingere ben riconoscibile, almeno per quanto riguarda le croci che, dal punto di vista tipologico, adottano la massima restrizione degli elementi figurativi, considerato che in entrambe quelle di attribuzione certa la tavola centrale presenta il solo ricamo geometrico del tappeto mentre i dolenti, Vergine e san Giovanni, vengono relegati nei tabelloni del braccio orizzontale. Sarà questa stirpe di semplificate croci umbre a trasformarsi, poco più tardi, nel tipo comune a Cimabue e a Giotto. Colore piatto e tenue, rilievo scarsissimo, sfondo occupato dal ricco tappeto, forte espansione del nimbo, postura delle mani distese con il medio e l’anulare uniti alla maniera di Giunta e soprattutto povertà cromatica che riduce la descrizione anatomica al minimo, confidando più nel disegno che nel colore. Tutti caratteri che sembrano contraddire la tradizione romanica spoletina caratterizzata da una tavolozza ricca di colori saturi, preziosissimi e raffinati in Sotio, più rozzamente espressivi nelle successive generazioni (Petrus, Simeone e Machilone). La bellissima croce n. 17 della Pinacoteca di Spoleto, studiata di recente

in occasione della mostra “Dal visibile all’indicibile” (A. Delpriori, in Dal visibile all’indicibile 2012, pp. 197-208, n. 9), affollata da eleganti figure allungate e scaldata da toni di colore intensi e vigorosi, realizzata anch’essa probabilmente nel settimo decennio del Duecento, sembra segnare una sorta di divaricazione all’interno delle botteghe spoletine, destinate peraltro ad affrontare in quel tempo la crisi provocata dal cantiere di Assisi: da una parte la continuità con le smaltate e perfette geometrie di Alberto, dall’altra l’esigenza di adeguare velocemente la produzione al gusto giuntesco dominante negli ambienti francescani, le cui richieste dovevano essersi fatte pressanti. Lungo questa via potremo incontrare Rainaldetto e altri suoi epigoni che si erano fatti carico di diffondere la lezione del maestro pisano. Una croce, di dimensioni analoghe a quella fabrianese, in origine nella chiesa di Santa Maria della Selvetta a Castel Ritaldi, ora nel Museo di San Francesco a Montefalco, attribuita a Rainaldetto con varie incertezze (Garrison 1949, p. 213) a mio avviso dovrebbe essergli riconfermata con decisione, così come nelle Marche meridionali, un frammento di Crocifissione in un convento francescano di Massa Fermana (F.M. Aliberti Gaudioso, in Mostra di opere d’arte restaurate 1969) e una croce molto deteriorata nel monastero di Santa Chiara a Montalto Marche (G. Alleva, in Restauri nelle Marche 1973; A. Marchi, in Sacri legni 2006), opere che mostrano in alcuni dettagli decorativi un forte legame con la tradizione spoletina, rimandano a Rainaldetto e fanno ipotizzare che i pittori della capitale del Ducato fossero divenuti maestri itineranti disponibili a utilizzare vari tipi di linguaggio secondo le richieste della committenza. Insomma un ruolo di veri e propri imitatori che giustifica ampiamente l’idea di Evelyn Sandberg Vavalà (1929) che attribuiva a Rainaldetto un ruolo servile nei confronti di Giunta. A questo proposito va sottolineato che l’occasione della mostra mette a diretto confronto la croce spoletina di Fabriano con il tabernacolo e la croce della Beata Mattia a Matelica (cat. 7-8), attribuiti allo stesso Rainaldetto da Andrea De Marchi (2009) sulla base della derivazione dei pezzi matelicesi dal trittico figurato detto la Madonna dei Crociati delle Clarisse di Assisi. La proposta, che non mi sembra accettabile per quanto riguarda la croce, può invece essere presa in considerazione per quanto attiene al tabernacolo, una vera e propria replica di quello in Santa Chiara, ma va anche tenuto presente che molte congiunture rimangono ancora da chiarire intorno a quanto dovette accadere tra Umbria e Marche dopo il 1260, tra l’avvio dei cantieri pittorici di Assisi e la crisi delle botteghe spoletine. Alcuni precoci arrivi di pittura senese, elementi bizantini di cultura tardo comnena (si pensi, nel caso di Perugia, a episodi come quelli di San Bevignate e di San Matteo degli Armeni o più ancora a un capolavoro come il trittico Marzolini), esperienze tratte dall’arte miniatoria di ambiente bolognese e romagnolo, lasciano capire che le compagne della beata Mattia avevano probabilmente più di un indirizzo a cui rivolgersi. giordana benazzi

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6. Maestro dei crocifissi francescani (Guido di Pietro da Gubbio?; Bologna, notizie dal 1268-1271) Croce dipinta 1250 circa tempera su tavola; cm 236 × 175 Camerino (Mc), Pinacoteca Civica

Bibliografia. Marcoaldi 1867, s.n.; Venturi 1915, p. 4; Sirén 1922, pp. 217-218; Sassi 1924, p. 477; Sandberg Vavalà 1929, p. 851; Garrison 1949, p. 231, n. 568; M. Boskovits in Duecento 2000, pp. 186, 192-200; E. Zappasodi, in Dal visibile all’indicibile 2012, pp. 137-146, n. 3.

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Dalla Pinacoteca di Camerino è stato prestato per la mostra di Fabriano un Crocifisso che ha raggiunto l’attuale destinazione su deposito della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata, che l’aveva a sua volta acquistato alla dispersione della collezione Fornari avvenuta nel 1938. Nel 1858 la Croce era a Fabriano nella collezione di Romualdo Fornari, il quale ne era entrato in possesso in seguito alla soppressione napoleonica delle corporazioni religiose. Purtroppo non si hanno notizie sulla sua originaria collocazione. Se ne è proposta una provenienza dalla chiesa di Sant’Ilario nel castello di Belvedere non lontano da Campodonico in val Salmaregia (Sassi 1924, p. 477), o dalla chiesa di San Francesco a Fabriano (E. Zappasodi, in Dal visibile all’indicibile 2012, p. 142). La prima ipotesi sembra del tutto improbabile, perché nel secolo XIII le fondazioni benedettine si attenevano all’iconografia romanica del Christus triumphans, mentre il Crocifisso di Camerino segue il modello bizantino del Christus patiens, adottato nel secolo XIII dai nuovi ordini mendicanti. Questo rende più plausibile ma difficilmente dimostrabile la seconda ipotesi, perché la cronologia del dipinto sembrerebbe addirsi alla seconda sede dei frati in San Francesco di Porta Cervara, fondata nel 1267, o addirittura alla prima sede in San Francesco di Cantiro, fondata nel 1234, piuttosto che alla sede definitiva in San Francesco delle Logge, fondata nel 1282. In teoria avrebbe potuto trovarsi in una qualsiasi delle tante chiese medievali di Fabriano, nessuna delle quali ha conservato la primitiva immagine del Crocifisso; salvo la Croce firmata da Rainaldetto da Spoleto della Pinacoteca di Fabriano (cat. 5), della quale resta però ignota l’originaria collocazione. Le dimensioni, la forma e l’iconografia del Crocifisso corrispondono alle caratteristiche delle croci trionfali che erano solite esporsi in medio ecclesie, cioè sopra il tramezzo che divideva il coro dei frati dalla chiesa del popolo, come viene spiegato nel Rationale divinorum officiorum di Guglielmo Durando (XIII secolo) e com’è mostrato nell’episodio del Presepe di Greccio nella leggenda francescana di Assisi. Quando era ancora nella collezione Fornari, il Crocifisso passava sotto il nome del pittore fabrianese Francesco Bocco, autore dall’incerta fisionomia, documentato nel 1307 per aver dipinto un Crocifisso destinato alla chiesa di Sant’Ilario a Belvedere (Marcoaldi 1867, s.p.). Fu poi attribuito a Rainaldetto di Ranuccio da Spoleto (Venturi 1915, p. 4), all’autore del Crocifisso di Gualdo Tadino (Sirén 1922, pp. 217-218) e infine a un Maestro delle croci bolognesi (Sandberg Vavalà 1929, p. 851). È questo uno stretto seguace di Giunta Pisano – tanto stretto da essere stato addirittura confuso con il pittore pisano – la cui personalità fu ravvisata per primo dallo storico dell’arte finlandese Osvald Sirén (1922, pp. 219-225) sotto lo pseudonimo di Maestro delle croci francescane, nella cui collezione erano i due frammenti di una croce dipinta con le fi-

gure dei dolenti poi entrati nella National Gallery of Art di Washington. Sirén riconobbe la stessa mano in una croce bifacciale conservata nel Sacro Convento di Assisi e in due tavole dello stesso soggetto nel San Francesco di Bologna. Poco dopo Evelyn Sandberg Vavalà ampliò il catalogo ad altre quattro croci: due conservate a Bologna, nella Pinacoteca Nazionale e nel Museo Civico Medievale, una nella Pinacoteca di Faenza, e infine il Crocifisso della collezione Fornari a Fabriano. Nel 1949 Edward Garrison (passim) divise il gruppo in due parti: le croci emiliane erano di un Maestro del crocifisso di Borgo e quelle umbre di un Maestro dei crocifissi blu, entrambi discepoli di Giunta Pisano a Bologna e ad Assisi. Nei cinque decenni seguiti al repertorio di Garrison si è continuato a studiare queste croci come due corpi estranei, segnalando altri numeri nei rispettivi cataloghi e discettando sulla precedenza cronologica dell’uno sull’altro. Il tutto si è risolto con l’autorevole intervento di Miklós Boskovits nel catalogo di una grande mostra dedicata al Duecento bolognese, che ha messo tutti d’accordo dimostrando l’inconsistenza della divisione e concludendo che «i due nomi convenzionali sono da tralasciare soprattutto perché vi sono motivi per ritenere che i dipinti riuniti dal Sirén e dalla Sandberg Vavalà (e alcune altre tavole successivamente aggiunte al gruppo) in realtà spettino ad un unico artista di notevole spicco, che diffonde con grande eleganza formale i potenti valori espressivi introdotti nella pittura italiana da Giunta» (in Duecento 2000, p. 137). La cospicua letteratura fiorita intorno a questo Maestro dei crocifissi francescani (sulla Croce di Camerino si rimanda a E. Zappasodi, in Dal visibile all’indicibile 2012,) si è limitata a discutere le singole opere sotto l’aspetto stilistico e iconografico, senza arrivare a una datazione condivisa dei dipinti, che discende dalla discussa cronologia dell’attività di Giunta Pisano, e senza avanzare proposte di identificazione. A mio parere una plausibile soluzione discende dal confronto tra i luoghi frequentati da questo anonimo pittore – l’Umbria, l’Emilia – e i luoghi visitati dalla figura storica di Guido di Pietro da Gubbio, pittore originario di Gubbio e documentato a Bologna negli anni 1268-1271 in compagnia del figlio Oderisi, «l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte ch’alluminar chiamata è in Parisi» evocato da Dante nel girone dei superbi (Purg. XI, vv. 80-81). Documenti bolognesi su Guido ne provano l’attività di pittore, mentre di Oderisi se ne parla come miniatore, cioè di decoratore di libri nella sola parte ornamentale. Non se ne conoscono opere certe, ma i tempi e i luoghi ne fanno il principale indiziato per risalire all’identità di uno dei più significativi interpreti della “Maniera greca” prima dell’avvento dello «stil novo» (Purg. XXIV, v. 57) di Giotto, evocato dal racconto di Oderisi nel canto XI del Purgatorio. Elvio Lunghi

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7. Anonimo pittore umbro-marchigiano (metà xiii secolo) Croce dipinta 1230-1260 tempera su tavola; cm 143 × 119 Matelica (Mc), Monastero Clarisse, Santa Maria Maddalena Restauro eseguito in occasione della mostra da Maria Laura Passarini, a cura della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana

La croce si trova tutt’oggi nel suo luogo di origine, il coro delle monache della Beata Mattia a Matelica, primo insediamento delle Clarisse nelle Marche. Con ogni probabilità fu voluta dalle Damianite di Matelica poco dopo la fondazione del monastero (1235) e ciò ha suggerito che venisse concepita quale duplicato della più significativa icona del francescanesimo delle origini, la croce di San Damiano che nel 1206 aveva parlato a san Francesco. Alla morte di Chiara in San Damiano ad Assisi (1253), la croce aveva seguito il suo corpo nella nuova chiesa a lei intitolata diventando fin da quel tempo l’immagine privilegiata nella preghiera delle Clarisse di Assisi. L’esemplare di Matelica, pur attenendosi alla rappresentazione del Cristo triumphans secondo il modello allora dominante emanato da Roma e diffuso ovunque (le datazioni più antiche sono quelle di Nola e di Sarzana), presenta numerose varianti sia di forma che di iconografia rispetto alla croce di San Damiano (minore ricchezza cromatica, riduzione del numero dei personaggi nel tabellone centrale, solo due piccoli angeli a figura intera nelle espansioni del braccio orizzontale) e ciò induce a pensare che il pittore avesse piuttosto come modelli di riferimento altre croci di area spoletina tra cui, in primis, il capolavoro di Alberto Sotio. Il legame con il tipo iconografico spoletino della fine del xii e degli inizi del xiii secolo fa dunque assumere alla croce delle Clarisse di Matelica non tanto il significato di “copia” del modello assisiate, ma piuttosto la inserisce in quel vasto fenomeno di fedeltà all’immagine che determinò soprattutto nelle aree montane e periferiche della diocesi di Spoleto, ma anche al di fuori di questa, il perdurare dell’antica iconografia addirittura oltre le soglie dell’età moderna (Benazzi 1983, p. 6). L’opera si presenta come una croce romanica di medie dimensioni costruita secondo le modalità tradizionali, ma senza quelle eccellenze esecutive che caratterizzano i capolavori spoletini, utilizzando cinque elementi lignei accuratamente preparati per accogliere il colore con l’applicazione di impannature in tela in corrispondenza delle giunzioni delle tavole e la stesura di uno strato di preparazione. Raffigura il Cristo vivo, con gli occhi aperti, il corpo leggermente flesso, i piedi disgiunti confitti da due chiodi, i due dolenti a figura intera nell’ampliamento del braccio verticale, due piccole figure di angeli nei BIBLIOGRAFIA. Sandberg Vavalà 1929, pp. 651-653; Serra 1929, pp. 157-158; Garrison 1949, p. 187; G. Vitalini Sacconi, in Pittura nel Maceratese 1971, pp. 38-40, n. 3; Zampetti 1988, p. 63; De Marchi 2009, p. 610. 124

tabelloni terminali del braccio orizzontale. Il bordo geometrico che fa da decorazione lungo i due bracci della croce corre su un solo lato di questi, forse con l’intento di creare un effetto prospettico secondo un espediente non inusuale nelle croci spoletine (si veda la celebre croce di Petrus, 1242, ora nella Castellina di Norcia, richiamata anche per la soluzione del fondo in argento meccato e la definizione a fettucce dei capelli). Nel corso del restauro è stata rimessa in luce anche una semplice decorazione geometrica che decora lo spessore della croce. Adattata all’interno di una nicchia dopo la trasformazione settecentesca del monastero, ha subito la decurtazione del braccio verticale e il taglio in forma sagomata delle terminazioni del braccio orizzontale dove sono raffigurati due angeli. Esposta alla mostra “Pittura nel Maceratese dal Duecento al tardo gotico” (1971) viene descritta in quella occasione «offuscata da una densa patina che impedisce una migliore indagine dei valori cromatici» (Vitalini Sacconi 1971, p. 40). Il dipinto era in condizioni ancora peggiori alla vigilia dell’attuale esposizione, con vistosi sollevamenti della preparazione e del colore, per cui si è deciso di procedere a un restauro a cura di Laura Passarini sotto la direzione di Gabriele Barucca. Restauro che, motivato da necessità di carattere prevalentemente conservativo, si sta comunque rivelando di grande utilità per la complessiva valutazione dell’opera. Luigi Serra (1927, p. 157), pubblicando la croce ne sottolinea la posizione «fra le due tendenze, del Cristo trionfante e del Cristo sofferente»; Evelyn Sandberg Vavalà (1929, p. 653), pur giudicandola mediocre «opera di un modesto pittorello locale non anteriore al 1250», ne coglie da un lato interessanti affinità con Petrus (il disegno della chioma e della barba) per un altro con le croci giuntesche umbre (specie quelle del Maestro dei crocifissi francescani a cui rimandano la fattura del perizoma e il gesto del san Giovanni; cat. 6). Garrison (1949, p. 187) qualifica la croce «marchigiana» e la ascrive al terzo quarto del xiii secolo. Giuseppe Vitalini Sacconi (in Pittura nel Maceratese 1971) vi scorge elementi giunteschi e ritiene che l’anonimo pittore, operoso a suo avviso nel penultimo quarto del Duecento, sia ispirato dalla conoscenza delle numerose croci spoletine distribuite

lungo le valli del Nera e del Chienti, di cui tende a operare una sintesi in chiave linearistica. Il carattere per alcuni versi ambiguo di questa croce è forse determinato dalla presenza di elementi eterogenei, frutto di un’impostazione arcaica coniugata con un vago sentore giuntesco, come si trattasse dell’opera di un artista appartenente a una generazione “di mezzo” che ha forse solo intravisto Giunta, ma che continua a operare nel solco della tradizione. Quanto poi all’appartenenza al filone spoletino, anche di questo c’è da dubitare, visto che, pur rientrando in un arco temporale che potrebbe aggirarsi intorno alla metà del secolo, la croce non evoca né la cultura di Simeone e Machilone, né quella del Maestro di San Felice di Giano, né quella di Rainaldetto, ma si presenta come un’opera di transizione genericamente riferibile a un Maestro di seconda fila operante tra Umbria e Marche se non piuttosto in Toscana. L’insolita alveolatura che incornicia l’ampio nimbo ricorda infatti diverse croci fiorentine (Berlinghiero, Maestro di Greve, Maestro della Croce 434 degli Uffizi, Coppo di Marcovaldo), ma ancor più richiama per la tipologia del Cristo vivo parzialmente modificata dall’influsso giuntesco, le croci del Maestro del Bigallo, in particolare quella conservata a Roma in Palazzo Barberini, che è stata datata tra 1235 e 1245 (Tartuferi 1990, p. 72). La croce della Beata Mattia condivide l’originaria appartenenza all’antico insediamento femminile francescano di Matelica con un tabernacolo raffigurante la Vergine Odigitria col Bambino, anch’esso duecentesco (cat. 8). Convinto che l’esecuzione delle due tavole matelicesi, tabernacolo e croce, vada interpretata come realizzazione di vere e proprie copie delle venerate reliquie assisane del tabernacolo dei Crociati e della croce di San Damiano, e che la loro esecuzione sia avvenuta nello stesso tempo e per opera dello stesso pittore, Andrea De Marchi (2009) ritiene Rinaldo di Ranuccio autore di entrambe le tavole. Il restauro ancora in corso sembra tuttavia fare emergere caratteri stilistici che non consentono di assimilare la croce alle opere note, in particolare alle due croci firmate, del pittore spoletino, per cui chi scrive ritiene utile accettare la generica attribuzione a un “pittore marchigiano” operante tra quarto e sesto decennio del Duecento. giordana benazzi

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8. Rinaldo di Ranuccio (notizie 1265) Madonna col Bambino 1275 circa tempera su tavola; cm 150 × 59 Matelica (Mc), Monastero Clarisse, Santa Maria Maddalena

BIBLIOGRAFIA. Serra 1929, p. 176; Sandberg Vavalà 1934, pp. 35-36; G. Vitalini Sacconi, in Pittura nel Maceratese 1971, pp. 47-49, n. 6; M. Nanni, in Restauri nelle Marche 1973, pp. 23-26, n. 3; Todini 1989, p. 133, figg. 30-34; Gard­ner 1995; Angelelli 2007; De Marchi 2009, pp. 610611; Fratini 2011, pp. 287-288.

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Dopo la segnalazione di Luigi Serra (1929) la tavola, che è parte centrale di un tabernacolo a sportelli come si evince dall’esame della cornice, è stata pubblicata da Evelyn Sandberg Vavalà (1934, pp. 35-36) nel suo studio dedicato all’iconografia della Madonna col Bambino nella pittura italiana del Duecento, dove viene classificata sotto il tipo «variante b del puro tipo dell’Odigitria» (p. 35), caratterizzato dalla posa frontale della Madonna che, con la destra a dita divaricate, indica il figlio. Un prototipo può essere individuato nei mosaici di Monreale, ma gli esempi sono numerosi e diffusi tra Toscana, Lazio, Marche e Perugia, dove si segnala la tavola di Vigoroso da Siena del 1269. Si può dire che il dipinto, nonostante la radicale trasformazione settecentesca della chiesa e del complesso monastico di Santa Maria Maddalena, dove visse tra il 1270 e il 1319 la beata Mattia Nazzarei, si trovi nel luogo originario di collocazione e cioè nel coro delle monache, il che consente una valutazione relativa al ruolo che dovette svolgere nel contesto conventuale femminile (Gardner 1995). Inoltre l’esistenza, nello stesso ambiente che ospita il tabernacolo, di una croce dipinta (cat. 7) dove il Cristo è rappresentato vivo, con occhi aperti, corpo eretto e piedi disgiunti, apre un’interessante questione che mette in rapporto stretto e diretto il monastero matelicese, primo insediamento delle Clarisse nelle Marche, con il monastero assisiate di Santa Chiara e il suo corredo duecentesco di tavole dipinte. Notoriamente questo comprende le tre celebri opere che si è soliti riferire a un maestro, forse locale, denominato Maestro della Santa Chiara, attivo tra settimo e nono decennio del Duecento (con la croce della badessa Benedetta, la Maestà mariana e la tavola della Santa Chiara del 1283), e inoltre le due più preziose testimonianze del francescanesimo che le monache riservarono alla propria fruizione privilegiata nello spazio tra il transetto e il coro, in una collocazione che consentiva loro l’osservazione attraverso una grata: la croce che aveva parlato a Francesco, nota come Croce di San Damiano, e il tabernacolo mariano denominato Tabernacolo dei Crociati. Il trittico narrativo di Assisi, che negli sportelli ospita otto storie cristologiche secondo uno schema consueto nella pittura umbra, fu non solo il modello di riferimento per quello di Matelica, ma ebbe negli insediamenti monastici femminili un successo straordinario e largamente diffuso (si pensi al trittico Marzolini dal monastero di Sant’Agnese a Perugia, a quello del Maestro di Cesi dal Monastero della Stella a Spoleto ecc.; De Marchi 2009, p. 611) Il tabernacolo di Santa Chiara è stato attribuito a Rinaldo di Ranuccio da Demetrio Severi, pseudonimo di Carlo Ludovico Ragghianti (1962, p. 49) insieme a due parti di un paliotto d’altare della collezione romana Schiff Giorgini, di provenienza abruzzese. Sono le filettature tipiche dei margini delle figure, le puntinature intorno alle aureole, l’attacco tra le sopracciglia perfettamente semicircolari e la forcella rilevata dei nasi a convincere che si tratta sempre

del pittore spoletino, anche se la verve narrativa del tabernacolo di Assisi, di matrice più schiettamente umbra, sembra prevalere nell’insieme sulla secchezza cromatica della croce, di ispirazione più severamente giuntesca. Miklós Boskovits (1981, p. 25, nota 31) accettando l’attribuzione del tabernacolo di Santa Chiara a Rainaldetto, ne colloca la datazione intorno al 1272 per le affinità di accentuazione patetica con la croce perugina del Maestro di San Francesco e ciò indurrebbe a datare il trittico matelicese a poco dopo. La tavola di Matelica, alla cui valutazione gioverebbe la rimozione delle vernici e delle cere alterate utilizzate durante il restauro realizzato nel 1970 da Martino e Anna Oberto a seguito del quale il dipinto venne esposto prima alla mostra “Pittura nel Maceratese dal Duecento al tardo gotico” (G. Vitalini Sacconi, in Pittura nel Maceratese 1971) e poco dopo a quella di Urbino “Restauri nelle Marche” (M. Nanni, in Restauri nelle Marche 1973), è priva degli sportelli, ma replica anche nelle dimensioni quella di Assisi e sembra essere in realtà una vera e propria seconda redazione di questa, realizzata dallo stesso autore (De Marchi 2009) o da un suo stretto seguace (Fratini 2011) forse non moltissimi anni più tardi con la variante iconografica della piccola figura del donatore – un frate – inserita ai piedi della Vergine. Tuttavia la folta presenza di questa tipologia di tabernacoli mariani anche nell’area della Toscana meridionale (nel senese molti oggetti di questo tipo, forse su ispirazione di quelli umbri, furono richiesti dalle stesse monache clarisse) ha indotto alcuni studiosi a valutare meglio i possibili interscambi al limite dell’imitazione tra artisti senesi e artisti dell’Umbria meridionale. Così nel vasto repertorio della pittura medievale umbra redatto da Filippo Todini (1989) la tavola di Matelica figura nell’esiguo catalogo di un pittore, forse senese, denominato Maestro del Dossale di San Giovanni Battista, in effetti non molto lontano dalla maniera degli ultimi spoletini del Duecento. Più di recente Walter Angelelli (2007) ha proposto all’attenzione degli studi una Maestà duecentesca conservata nel Musée des Beaux Arts di Bruxelles con un generico riferimento a scuola senese. Si tratta anche in questo caso della parte centrale di un tabernacolo a sportelli di soggetto mariano e dall’immagine riprodotta, sia pure di piccola dimensione e di non grande qualità, se ne evince la stringente somiglianza con la tavola di Matelica, per cui l’autore invita a fare miglior luce sulla fitta trama di relazioni tra Toscana e Umbria nella pittura duecentesca. Infine va ricordato che anche in terra umbra, anzi, proprio nel cuore di Assisi, un piccolo affresco dipinto a guisa di tabernacolo stradale sotto l’arco di Santa Rosa potrebbe essere messo in relazione con i trittici francescani di cui ripropone il soggetto mariano e fornire qualche utile indicazione in merito. Su segnalazione di Elvio Lunghi lo pubblica Fratini (2011) rivendicando ai pittori autoctoni, in particolare agli spoletini, una strenua e solida resistenza nei confronti della penetrazione di artisti forestieri. giordana benazzi

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9. Giotto di Bondone (Firenze, 1265 circa-1337) San Francesco San Giovanni Battista 1315 circa tempera su tavola; cm 11,5 × 11 (ciascuna) Firenze, collezione Ente Cassa di Risparmio di Firenze

Bibliografia. Boskovits 2000, p. 413; Tartuferi, I dipinti 2001, p. 35; C. D’Alberto, in Giotto e il Trecento 2009, p. 171, n. 12 (con bibliografia precedente).

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Le due tavolette in origine dovevano far parte di una predella formata da altre figure di santi a mezzo busto con al centro Cristo in Pietà come nel polittico della Pinacoteca Nazionale di Bologna (cfr. Previtali 1967, pp. 286-287, tav. LXIII): subito sulla sua destra c’era il San Giovanni Battista mentre il San Francesco probabilmente si trovava sull’estrema sinistra con un’alternanza simmetrica di rosso scuro, verde scuro, blu, verde scuro e rosso scuro. Data l’importanza del loro autore, nel 2004 esse sono state sottoposte ad un intervento di restauro durante il quale è emerso che il supporto ligneo originale è stato sostituito con due tavolette in abete di piccolo spessore, la superficie pittorica è stata pulita e le lacune sono state riprese con ritocchi ormai alterati. I dipinti furono importati dall’Inghilterra in Italia da un restauratore romano che li ha venduti al celebre antiquario Carlo De Carlo nel 1978 (cfr. nota manoscritta sul retro della fotografia n. 13165 del San Francesco conservata nella Fototeca Zeri); nel 2007 vennero acquisiti dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze. Ignoti alla letteratura artistica, sono pubblicati per la prima volta da Luciano Bellosi (1997, pp. 3542) che li riferisce a Giotto. Lo studioso ipotizza che il polittico di appartenenza dovesse essere largo circa 150 cm, nota strette somiglianze fisiognomiche con i personaggi degli affreschi della cappella degli Scrovegni, ma in base alla vivacità cromatica più evoluta, li colloca a metà strada tra gli affreschi della cappella Peruzzi e le pitture murali della cappella Bardi, con una datazione intorno al 1320. La paternità giottesca è accolta da Carlo Volpe (comunicazione orale a Bellosi), Federico Zeri che li accosta al polittico di Bologna e li data nella prima metà del terzo decennio (cfr. la perizia dattiloscritta F. 98 dell’11 aprile 1996 conservata presso la Fototeca Zeri) e dalla cri-

tica successiva (Boskovits 2000, p. 413, che colloca l’esecuzione intorno alla metà del secondo decennio; Flores d’Arcais 2001, p. 2; Tartuferi, I dipinti 2001, p. 35; Ciatti-Bracco 2004; Barletti 2007, p. 44; G. Ragionieri, in Mugello 2008, pp. 110-113, nn. 5-6; C. D’Alberto, in Giotto e il Trecento 2009). Le figure, tagliate a mezzo busto e con le mani semi nascoste dalla cornice, si muovono con tale libertà e disinvoltura all’interno dei clipei che sembrano quasi affacciarsi da due oblò. La grandiosità di concezione e la sintesi plastica con le quali sono concepite, nonostante le piccole dimensioni, insieme al fare largo, al nitore formale della linea di contorno e alla grandiosità strutturante dei corpi fanno pensare al Giotto “spazioso” della cappella Peruzzi e soprattutto del Polittico di Raleigh, collocabili nella prima metà degli anni dieci. Tuttavia la finezza di modellato delle figure, delineate da pennellate dense e lanose, il chiaroscuro vibrante, l’indagine intimistica degli sguardi e soprattutto una nuova sensibilità cromatica (si noti ad esempio il manto del Battista, che vira tra il grigio, il viola e il rosa o lo splendido cangiantismo del suo cartiglio che diventa azzurrino nelle parti in ombra) sembrano preludere agli affreschi del transetto destro e delle vele della Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi, cominciati probabilmente poco dopo la metà del secondo e forse già terminati nel 1317, che segnano il momento più “gotico” della carriera di Giotto. Pertanto in base a tali considerazioni è possibile che le due tavolette siano state eseguite intorno al 1315 per un polittico di committenza francescana dipinto da Giotto durante un suo soggiorno fiorentino (la presenza del Battista, patrono di questa città, giustificherebbe tale destinazione), prima del suo impegno assisiate. Alberto Lenza

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10. Giotto di Bondone (Firenze, 1265 circa-1337) Testa di pastore e armenti 1330-1335 frammento di affresco staccato e collocato su un supporto in duralluminio; cm 252,5 × 132 Firenze, Galleria dell’Accademia

Bibliografia. A. Tartuferi, in Dal Duecento 2001, pp. 85-88, n. 13 (con bibliografia precedente); F. Baldini, in Giotto e il Trecento 2009, p. 173, n. 15; F. Martusciello, in L’incanto dell’affresco 2014, pp. 252-253, n. 83.

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Le Storie della Vergine della cappella maggiore nella Badia fiorentina (chiesa di Santa Maria Assunta) vennero riferite a Giotto da Ghiberti, da tutte le fonti prevasariane (Billi, Il libro, ed. 1891, p. 318; Il Codice Magliabechiano, ed. Frey 1892, p. 52; Gelli, Vite, ed. 1896, p. 120) e dal Vasari stesso (1568, ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, II, p. 97-98) che si soffermò in particolare a descrivere la scena dell’Annunciazione, mostrando grandissima ammirazione per l’interpretazione grandiosa e drammatica della figura della Vergine, colta da grande timore per l’arrivo dell’angelo. Probabilmente per questo motivo, quando il ciclo venne coperto e in parte distrutto dalle pareti della nuova cappella maggiore durante i lavori di rinnovamento architettonico che interessarono la chiesa tra il 1625 e il 1627, si tentò con i mezzi dell’epoca di staccare la testa della Vergine annunciata e dell’angelo, purtroppo in maniera disastrosa. I frammenti superstiti, di cui era stata scoperta l’esistenza nel 1940, vennero riportati alla luce soltanto nel 1958 e l’anno successivo furono staccati dal restauratore Dino Dini che li collocò su un supporto in duralluminio. Oltre all’Annunciazione sono stati ritrovati una vasta porzione della Presentazione della Vergine al Tempio (cm 420 × 150) e la base del costolone della volta, immediatamente contiguo al frammento qui discusso che doveva far parte della scena di Gioacchino tra i pastori affrescata proprio sotto la volta. Riferiti alla bottega di Giotto da Luciano Bellosi (Bellosi, Affreschi 1966, pp. 76-77) e da Giovanni Previtali (1967, pp. 318-319) e poi ingiustamente trascurati dalla critica successiva nonostante la straordinaria invenzione compositiva di ciò che rimane dell’Annunciazione o del pastore del frammento qui esposto, questi frammenti sono tornati alla ribalta

soltanto in occasione della mostra giottesca del 2000 grazie agli interventi di Angelo Tartuferi e Miklós Boskovits che non solo hanno sottolineato la loro importanza storica, ma hanno ribadito fortemente la totale autografia del maestro fiorentino. Sono però divergenti i pareri dei due studiosi sulla cronologia: il primo, infatti, colloca l’esecuzione a cavallo tra secondo e terzo decennio, tra la decorazione della cappella Peruzzi e gli affreschi della cappella Bardi, mentre per il Boskovits si tratta di un prodotto della sua attività estrema. Se il momento della formazione di Giotto come pure la fase goticheggiante intorno al decennio 1315-1325 sono ancora avvolti in dubbi, anche sugli orientamenti stilistici del Maestro negli ultimi anni di vita rimangono molte incertezze causate dalla perdita di molte opere chiave di questo periodo. Gli affreschi superstiti della Badia mostrano strette affinità stilistiche con quelli della cappella Bardi in Santa Croce, eseguiti probabilmente poco dopo il rientro in patria dal soggiorno napoletano, sia nei particolari secondari come le sobrie fasce decorative di gusto classicheggiante che contornano le scene ma soprattutto nell’immediata schiettezza delle espressioni, nella condotta pittorica libera e pastosa e nella definizione delle masse attraverso una marcata linea scura del contorno. Giotto negli ultimi anni non solo recupera l’essenzialità della fase giovanile, ma da grande artista continua a sperimentare raggiungendo risultati straordinari che purtroppo soltanto il ciclo della cappella Bardi può testimoniare; e credo non sia azzardato supporre che la stesura vibrante e i colori luminosi e vellutati delle sue opere estreme non abbiano lasciato indifferente Maso di Banco. alberto lenza

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11. Giuliano da Rimini (Giuliano di Martino; Rimini, notizie dal 1307 al 1323) Incoronazione della Vergine, santi e scene della Passione 1312-1320 circa tempera e oro su tavola; cm 190,5 × 205,5 Rimini, Fondazione Cassa di Risparmio, in deposito presso il Museo della Città

Bibliografia. Boskovits 1992, pp. 127-128; Boskovits 1993, pp. 100-101; A. Tambini, in Il Trecento Riminese 1995, pp. 186-189, n. 18; Rimondini-Tambini 1997; Ragionieri 2002, pp. 44-45; Volpe 2002, pp. 138-144; Giovanardi 2004; Volpe 2004; Dal Trecento 2005, pp. 1621; Giovanardi 2005; Giovanardi 2006, pp. 127-128; D. Ferrara, in Giovanni Baronzio 2008, pp. 98-101, n. 8; F. Massaccesi, in Giotto e il Trecento 2009, II, pp. 218-219, n. 63; Giovanardi 2011, pp. 247-248; Valdameri 2013; Giovanardi 2013.

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Finissima tessitura di elementi giotteschi, bizantini e gotici, il polittico è stato riconosciuto al riminese Giuliano da Miklós Boskovits nel 1992 quando ancora si trovava a Carlton Towers, proprietà del duca di Norfolk, raccogliendo l’unanime consenso della critica. Acquistato nel 1996 dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini, è stato sottoposto a un lungo e accurato risanamento, terminato nell’estate del 2003. Malgrado l’attuale fondo oro, il fogliame neogotico, le colonnine tortili e parte della cornice siano da attribuire a ricostruzioni ottocentesche, il restauro ha restituito una sostanziale autenticità del manufatto insieme a una strepitosa ricchezza di valori cromatici, formali e simbolici. Misteriosa e dibattuta la provenienza originaria, l’opera è uscita nel xix secolo da una collezione riminese per compiere una lunga odissea prima del suo ritorno. Costituita da tre tavole di legno di noce accostate, e un tempo unite da incastri a farfalla, le parti laterali mostrano coi loro scassi la possibilità di un ampliamento e alimentano il sospetto dell’esistenza originaria di altre due tavole. Il trittico è una sofisticata evoluzione linguistica del dossale custodito a Boston, all’Isabella Stewart Gardner Museum, firmato e datato nel 1307 da Giuliano ed è considerato una pietra miliare della scuola riminese del Trecento. Nel registro inferiore, al centro del polittico, è rappresentato, su un ricco drappo sostenuto dagli angeli, il Cristo nell’atto d’incoronare la Madre: iconografia romana, ma di probabile ascendenza francese, in cui culmina la sequenza che segue idealmente la Dormitio e l’Assunzione di Maria: nel nostro dipinto due tondi ospitano l’Annunciazione, a segnare i due punti estremi della glorificazione della Vergine quale Tempio dell’Altissimo. Nei due pannelli laterali, secondo il modello della deesis (o “intercessione”), procedono verso la scena centrale i santi Caterina d’Alessandria (?) e Giovanni Battista a sinistra e, a destra, Giovanni apostolo e Andrea. I due Giovanni riprendono – seppur in modo rovesciato – la posizione assunta nel trecentesco affresco absidale della chiesa di Sant’Agostino a Rimini, dove affiancano il Cristo in trono. Anche nel trittico il Battista indica il Salvatore come Agnus Dei, e così recita il cartiglio, mentre l’Apostolo regge il libro del proprio Vangelo,

qui tenuto semichiuso, a ricordare certo l’incipit «In principio era il Verbo» (Gv 1,1) ma a raccomandare, al contempo, il silenzio. I due Giovanni, rammemorati rispettivamente il 24 giugno e il 27 dicembre, insieme a Gesù, nato il 25 dicembre, rimandano alla simbologia solstiziale, riferita al sole di Cristo, assai diffusa in Occidente e riportata negli scritti di Agostino d’Ippona e Iacopo da Varazze. Sopra la “processione immobile” dei santi si aprono sei tondi che ospitano i busti di altri cinque beati (tra cui alcuni in veste monastica) e un profeta (in abito, a dir così, da rabbī ebreo). Nella parte superiore si dipanano tre scene della Passione: il Cristo deriso e incoronato di spine, a sinistra, la Crocifissione, al centro, e il Compianto sul Cristo morto, a destra. La scena centrale, quasi paradigmatica rispetto alle similari della scuola riminese, ha un ovvio significato eucaristico sottolineato dall’angelo che raccoglie il sangue del Salvatore in un calice. Il Compianto risulta di particolare interesse perché, pur non privo di assonanze giottesche (si pensi solo alla Maddalena che richiama i gesti del Lamento funebre degli Scrovegni), deriva chiaramente dai threnos bizantini e balcanici del xii-xiii secolo. I doppi monti che incorniciano la scena sono, come abbiamo sottolineato più volte, una chiara derivazione della simbologia pasquale ortodossa finemente lumeggiata nei saggi di John Lindsay Opie (I sensi esoterici 1975; Il significato 1975). Emblemi arcaici che, presenti almeno dalla miniatura bolognese del Duecento, significano, nella loro drammatica apertura, lo sconvolgimento del creato successivo alla morte del Redentore, testimoniato dal Vangelo e da moltissimi brani della liturgia bizantina e latina, indicando il duplice, opposto passaggio sia verso la morte e l’Ade, sia verso la Resurrezione e l’Ascensione. Qui il Cristo, destinato a restare «tre giorni e tre notti nel cuore della terra» è identificato col profeta Giona, inghiottito dal mostro marino (Mt 12,40), scaraventato nel «profondo degli inferi», «gettato nell’abisso», disceso «alle radici dei monti» (Gn 2,27). Elementi che declinano l’influenza di Giotto in una colta narrazione liturgica, modellata sul lessico orientale e adriatico. Alessandro Giovanardi

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12. Giuliano da Rimini (Giuliano di Martino; Rimini, notizie dal 1307 al 1323) Crocifisso 1320 circa tempera su tavola; cm 321 × 238 Sassoferrato (An), Chiesa di San Francesco Iscrizioni: ihc naza | ren rex | iudeor Restauro eseguito in occasione della mostra da CBR di Romeo Bigini, a cura della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana

Bibliografia. Venturi 1915, p. 11; Serra 1929, pp. 275276; Brandi 1935, p. xxxii; Salmi 1935, p. 115; Van Marle 1935, pp. 18-19; Brandi 1937, p. 197; Martini 1955, p. 63; Volpe 1965, pp. 34-35, 78; A. Corbara, in Restauri nelle Marche 1973, pp. 57-59; Boskovits 1988, pp. 40-41; Tambini 1988, pp. 51-57; Boskovits 1993, pp. 98-103; Benati 1995, pp. 35-36, 42; Marchi 1995, p. 113; Marchi 1998, pp. 45, 53; De Marchi 2003, pp. 16-23; Volpe 2004, pp. 16-33.

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Una croce monumentale, dimensionata accuratamente all’arcone trionfale della grande chiesa gotica di Sassoferrato; appesa oggi davanti la crociera decorata da preziosi affreschi duecenteschi, che costituiscono forse la più alta testimonianza della pittura avanti Giotto nelle Marche (e potrebbero essere attribuibili ad una maestranza assisiate se non alla bottega del Maestro di San Francesco). È l’opera autenticamente riminese, più addentrata nel territorio marchigiano, quasi a sfiorare Fabriano, ove giunse un più tardo epigono dei pittori di Rimini, quel Maestro dell’Incoronazione d’Urbino, che si ha ragione di ritenere un marchigiano e insieme un creato di Giuliano da Rimini e di Giovanni Baronzio. Il crocifisso risponde alla carpenteria tradizionale riminese, inaugurata da Giotto con il dipinto del Tempio Malatestiano, codificata da Giovanni da Rimini con la croce del 1309 a Mercatello sul Metauro. Qui abbiamo però la variante dei tabelloni stellati in luogo di quelli quadrilobati, e tuttavia sussistono gli inserti curvilinei di raccordo fra i bracci verticale e orizzontale e con il tabellone centrale. Una sorta di grammatica tipologica che i maestri riminesi seguono più o meno alla lettera, ma che sostanzialmente non deflette sulle proporzioni. Queste, pur variando le misure, non transigono sulla preminenza assoluta del braccio verticale e sulla presenza del grande tabellone centrale – decorato ad intarsi o a simulazione di tessuti ricamati – che non scende mai oltre i piedi del Martire. La carpenteria delle croci dipinte non è pertanto un elemento accessorio, ma determina stilisticamente le soluzioni disegnative, così che i crocifissi riminesi si assomigliano un po’ tutti nella ripetizione del modulo giottesco, pubblicato a Rimini forse nel fatidico anno santo 1300. Le qualità sublimi di codesta tempera permangono nonostante i guasti ed alcune significative lacune, a cui si è tentato di porre rimedio negli interventi di restauro e manutenzione. Risalta la compostezza scultorea del corpo di Gesù, l’anatomia accarezzata dalla luce, la trasparenza del perizoma eppure accomodato in piccole pieghe ritmate e precise. Commuove l’espressione del volto, ripreso nell’attimo del trapasso con le palpebre non completamente abbassate, e la bocca semiaperta a rivelare la chiostra dei denti. Tutto è però trasfigu-

rato come da un senso di calma apparente, che nemmeno il pianto esibito dai Dolenti negli scomparti laterali, e tanto meno l’imperturbabilità ieratica del Redentore nella cimasa, riescono a sconvolgere. Da un punto di vista più strettamente formale, ciò che innalza codesta tempera fra le più autorevoli rappresentazioni del Crocifisso è l’impiego dell’oro, che allaga in maniera straripante la zona superiore, creando uno stacco assoluto fra immagini e fondale. La marca, diremmo oggi, di quest’oro in foglia è assai pregiata (la foglia doveva essere ben più spessa dei pochi millimetri usuali), così che le figure e soprattutto il volto del Cristo sono circondati da un bagliore che ne accentua il distacco mistico. Dalla sua segnalazione nel 1915 da parte di Lionello Venturi, il dipinto vanta una fortuna critica assai vasta ed articolata, sino al pieno riconoscimento delle sue qualità dopo il radicale restauro operato da Martino ed Anna Oberto innanzi il 1973. Ad una rilettura dei più recenti ed autorevoli referti di Miklós Boskovits ed Anna Tambini, in merito alla proposta di ascrivere il dipinto alla mano di Giovanni (Boskovits 1988) piuttosto che al di lui fratello carnale Giuliano (Tambini 1988), siamo propensi per quest’ultimo, alla luce di alcuni particolari tecnici eloquenti come la lavorazione dei fondi graffiti (che risponde ad una mentalità più tradizionale, quasi arcaica; come ad esempio dimostrato nel dossale firmato Giuliano da Rimini e datato 1307 già ad Urbania). Altresì ci convince l’incedere più grafico del pennello, ad esempio nei capelli e nella barba della bellissima testa di Cristo, che enfatizzano il più forte tormento di quest’immagine, un sentimento che non ci sembra di poter cogliere nelle pittura di Giovanni, più calma e solenne e per certi aspetti più vicina a Giotto, presso il quale, nel cantiere della chiesa dei Francescani a Rimini, si ha ragione di ritenere sia avvenuta la formazione dei più antichi pittori riminesi. La datazione del dipinto, sorretta dalla lettura dei caratteri dello stile, soprattutto dal confronto con la Crocifissione affrescata nell’abside della chiesa francescana di San Marco a Jesi, può attestarsi intorno al 1320 (la data è comunque in armonia tanto con lo sviluppo della personalità pittorica tanto di Giuliano che di Giovanni da Rimini). Alessandro Marchi

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13. Maestro di Sant’Emiliano (Fabriano, prima metà del XIV secolo) Maestà, Madonna in trono allattante il Bambino con i santi Lucia, Caterina d’Alessandria ed Emiliano secondo decennio del xiv secolo affresco staccato; cm 349 × 346 Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli” Iscrizioni: s. lucia s. chaterina s. milianus

Bibliografia. Van Marle 1924, p. 351; Van Marle 1925, pp. 128-129; Serra 1929, p. 277; Salmi 1931-1932, I, pp. 240-242; Molajoli 1934, p. 332; Brandi 1935, pp. 42-45; Molajoli 1936, ed. 1968, pp. 83-84, ed. 1990, pp. 49-51; Coletti 1947, p. lxviii; Zeri 1950; Toesca 1951, p. 674; Marabottini 1951-1952, p. 29; Gioseffi 1961, pp. 20-21; Volpe 1965, p. 50; Rossi 1967, pp. 71-73; Donnini 1982, pp. 386-389; Neri Lusanna 1986, p. 416; Tambini 1988, pp. 59-61; Zampetti 1988, p. 116; Zampetti-Donnini 1992, pp. 16-18; Boskovits 1993, pp. 172-174; Donnini-Parisi Presicce 1994, pp. 37-38; Marchi 1995, pp. 114-115; Scarpellini 1996, pp. 9-10; Marabottini 1997, p. 14; Marcelli 1997, pp. 46-47; Marchi 1998, pp. 61-63.

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Circa il 1907 dalla parete absidale piatta della chiesa dell’abbazia di Sant’Emiliano in Congiuntoli (nei pressi di Scheggia, oggi in territorio umbro) è stato staccato il grande affresco, per scongiurarne la rovina (nella chiesa recentemente restaurata è visibile l’arriccio con le sagome della raffigurazione). L’operazione di stacco ha prodotto due lacerti, separando dalla Maestà la figura di un quarto santo – rimontato su un pannello a sé – documentato da uno scatto del Gabinetto Fotografico Nazionale (neg. N. C 7894), già nei depositi del Museo di Palazzo Venezia a Roma (già segnalato in Marchi 1998, p. 63, ma di cui non è stato possibile reperire alcuna traccia). L’immagine si caratterizza per l’impaginazione monumentale racchiusa da ampie cornici: una fascia cosmatesca in basso, una colonna spiralata con intarsi cosmateschi in alto. Codesto elemento architettonico, largamente impiegato nelle decorazioni murali trecentesche, è qui stravolto nella sua essenza di sostegno, e diviene un elemento decorativo, passando dalla condizione verticale a quella orizzontale. Ora, questa colonna-nastro diminuita e accessoria è rintracciabile anche nella pittura riminese trecentesca, ad esempio sull’arco d’ingresso al coro della ex chiesa di Santa Chiara a Ravenna, spettante alla mano di Pietro da Rimini. Ma è lo stesso pittore a ripeterla in più combinazioni negli affreschi delle cappelle della chiesa di Sant’Agostino a Fabriano. Tornando alla composizione, vi emerge il ruolo primario dell’architettura dipinta: l’edificio alle spalle dei protagonisti, chiaramente esemplato su quello dipinto nel Risanamento di Giovanni da Ylerda nella Basilica superiore d’Assisi, da Giotto coadiuvato dalla bottega, dal Maestro della Santa Cecilia circa il 1292. A Fabriano però l’architettura subisce una forte accelerazione in senso gotico. Intanto si presenta come il fronte di un edificio composito, in cui le tre altane digradanti sono sorrette da un muro – forato da un arco – in esterno e da due mensoloni in interno. Le altane laterali si convertono in due attici, coperti da una tettoia, mentre dietro la testa della Madonna si palesa una vera e propria abside semicircolare, introdotta da un arco rialzato trilobato all’interno. Il lato a vista di tutti i vari congegni architettonici è rivestito di intarsi lapidei alla cosmatesca, variati nei disegni e nelle colorazioni. L’enfasi spaziale, così ottenuta, amplifica la monumentalità della figure, parate innanzi come grandi idoli statuari. Così i santi altissimi e colonnari, del pari la Vergine, una vera gigantessa al loro confronto. Seduta è comunque più alta dei santi di tutta la testa, nonostante essi siano disposti in un piano avanzato, più vicini allo spettatore. S’intende bene come le dimensioni gerarchiche vogliano enfatizzare il ruolo di Maria, peraltro iconograficamente rappresentata insieme come Maestà e Virgo lactans, cioè

madre di Cristo e madre della Chiesa. In tale assetto è riservata un’enfasi particolare all’assetto del trono, assai grande conformato alla maniera architettonica ed anch’esso intarsiato, ma con lo schienale coperto da un drappo d’onore sorretto da due angeli con le ali spiegate (a mezzo volo). Il tratto culminante del dipinto è poi costituito dall’impostazione cromatica, che oggi però siamo costretti a giudicare a seguito di notevoli perdite, soprattutto delle stesure a secco. L’immagine si presenta quasi monocorde, totalmente impostata sui toni delle terre ocracee e rosate; risultano però fortemente ambrati i bianchi, ed esautorati nella loro densità i verdi ed il blu del fondale. Dunque un’immagine come depurata dai contrasti e dalla vivacità consueta ai murali trecenteschi. Lo stile di codesto dipinto ha suscitato notevoli apprezzamenti nella critica. Intanto per la forte connotazione giottesca assisiate. Quindi per la possibile vicinanza con la pittura riminese, soprattutto con l’arte di Giuliano da Rimini (ma anche di Giovanni e degli altri protagonisti del Trecento riminese). Si è parlato di una corrente riminese-marchigiana o più propriamente riminese-fabrianese, e come tale è stato presentato alla “Mostra della pittura riminese del Trecento” nel 1935 (cfr. Brandi 1935, pp. 42-45). Del resto la fortuna critica del dipinto è ben cospicua e per certi aspetti assai vivace. Più appropriatamente è il caso di parlare di un Maestro di Sant’Emiliano, appunto una personalità autonoma, quasi certamente di nascita, ma propriamente di attività a Fabriano e nel suo immediato circondario. Maestro il cui catalogo è certamente composto, oltre all’opera in parola, degli affreschi delle due cappelle laterali della chiesa di Sant’Agostino (per cui sussiste un ancoraggio cronologico al 1311, ma di cui altri tratterà a parte) e dei murali della cappella laterale della chiesa francescana di San Marco a Jesi. Un pittore che ha certamente conosciuto l’arte riminese – e ciò è ben evidente nella cappella con le storie di Sant’Agostino – ma che ha poi dato vita ad un linguaggio autonomo, a tratti fortemente sintetico, contrassegnato da un ductus caratteristico – o meglio da alcune cifre particolari, ad esempio, nei volti, le onnipresenti occhiaie a scodella – e da una resa delle pitture murali con paste compatte, colori chiari, per lo più a base di terre e di succhi vegetali. Un artista di cui sono rintracciabili dei seguaci, ad esempio nei murali della Badia di Sant’Urbano all’Esinate nei pressi di Apiro, o nella parrocchiale di San Paterniano a Domo di Serra San Quirico. Data la stretta attinenza a fatti giotteschi assai precoci, è proponibile una datazione del murale entro il secondo decennio del Trecento. Alessandro Marchi

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14. Maestro del Polittico di Ascoli Madonna col Bambino e sei storie della Vergine 1330 circa tempera su tavola; cm 123 × 218 Ascoli Piceno, Pinacoteca Civica

Bibliografia. Orsini 1790, p. 46; Serra 1919, p. 10; Zeri 1950, p. 36; Cardarelli-Ercolani 1954, p. 49 Volpe 1965, p. 52; Boskovits, Osservazioni 1975, p. 10; Crocetti 1982, p. 236; Bologna-Leone De Castris 1984, p. 288; Neri Lusanna 1985, pp. 415-416; Gagliardi 1988, pp. 23, 61; Papetti 1988 pp. 140-141; Zampetti 1988, p. 118; Ferriani 1994, p. 2; Marchi 1995, pp. 118-119; A. Volpe, in Fioritura 1998, pp. 60-61; Marchi 2003; Papetti 2012, p. 60.

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La notizia, tradizionalmente tramandata, che il pentittico provenga dalla chiesa di Santa Maria della Rocca ad Offida risulta priva di fondamento in quanto l’opera si trovava ab antiquo presso la chiesa di San Domenico ad Ascoli Piceno, dove è ricordata dall’Orsini (1790, p. 46): nel marzo del 1863 veniva trasferita nei locali della Pinacoteca Civica in piazza Arringo dove è inventariata come una «tavola in cinque scomparti con diverse storie della vita di Nostro Signore» (Gagliardi 1988, p. 61) segno evidente del fatto che a quella data le due tavole poste all’estremità destra e sinistra del polittico, raffiguranti rispettivamente l’Annunciazione e la Dormitio Virginis fossero ormai separate, come in effetti sono ancora oggi, dal corpo principale. Nel corso dei rimaneggiamenti che l’opera ha subito nel tempo, perdendo gran parte della cornice originale, della quale sopravvivono soltanto quattro colonnine, è stata modificata anche la disposizione delle tavole cuspidate che formavano il secondo registro del polittico: i quattro evangelisti che sovrastavano le scene della vita di Maria sono slittati al centro, dove in origine doveva invece essere collocata una tavola perduta raffigurante forse la Crocifissione: analogamente disperse sono andate anche due cuspidi che completavano la parte superiore dell’imponente struttura, concepita per una chiesa importante e di grandi dimensioni. Il fatto che per molti anni il polittico fosse stato erroneamente collegato alla chiesa di Santa Maria della Rocca ad Offida ha indotto vari studiosi del passato ad attribuirne l’esecuzione all’autore degli affreschi trecenteschi che decorano vaste porzioni della prepositura farfense: Adolfo Venturi, in occasione di una sua visita alla Pinacoteca nel 1909, lo attribuì ad Andrea da Bologna, mentre Luigi Serra (Le Gallerie [1925], p. 71), confermando il collegamento con gli affreschi offidani, lo riferiva allo stes-

so Maestro di Offida. Una più precisa collocazione critica del dipinto si deve a Carlo Volpe (1965, p. 52) che ne sottolineò la matrice giottesco-riminese, notandone la affinità con l’affresco raffigurante il Compianto sul corpo di Cristo della chiesa di San Francesco a Camerino al quale Miklós Boskovits ha collegato in seguito una Madonna adorata da un vescovo dipinta nella stessa chiesa (Osservazioni 1975). Come scriveva nel 1998 Alessandro Volpe (in Fioritura 1998, p. 60) «solo per brevi accenni la critica si è soffermata su questo impareggiabile dipinto, testimone di una elevatissima cultura figurativa picena già sul finire del secondo decennio del secolo, in significativo rapporto sia con i capolavori giotteschi della più recente produzione ad affresco di Assisi, sia con i maestri umbri che di quei modelli non tardavano a produrre traduzioni dialettali di grande pregio»: nota in particolare la trascrizione letterale della Adorazione dei magi del transetto destro della Basilica inferiore del supposto Stefano Fiorentino e la derivazione della tavola centrale dalla Madonna col Bambino del trittico Orsini, affrescata sul fondo della assisiate cappella di San Nicola. Il catalogo del Maestro del Polittico di Ascoli è andato ampliandosi negli ultimi anni grazie alla proposte del Boskovits e di Alessandro Marchi che gli attribuiscono lo Sposalizio della Vergine affrescato nella chiesa di Sant’Agostino a Fermo e una Crocifissione recentemente recuperata nel corso di lavori effettuati presso la cattedrale di Ascoli Piceno, a riprova di una presenza dell’artista nel capoluogo piceno dove le sue opere non passarono certo inosservate agli occhi del Maestro di Offida che ne derivò l’intonazione feriale e cordiale nel raccontare gli episodi sacri nonché la cura nella descrizione di alcuni particolari delle vesti e delle architetture. Stefano Papetti

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Maestro dell’Incoronazione di Urbino (secondo quarto del xiv secolo) 15. L’Incoronazione della Vergine e due sante martiri; nelle cuspidi: Santa Chiara e San Francesco?; nei clipei: due angeli e un santo (frammentario)

cm 140 × 138

16. La Crocifissione cm 91 × 64 1340-1345 circa tempera su tavola Urbino, Galleria Nazionale delle Marche

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Nel corso del restauro della chiesa di San Francesco di Rovereto presso Saltara, compiuto negli anni novanta del Novecento, fu scoperto un alloggiamento – che era stato murato – nella parete dell’arco trionfale, a sinistra dell’altare. La parete di fondo di tale vano è pervenuta pressoché intatta: in essa è tracciata, su un fondale a finto marmo, tipico delle formule decorative locali del XVII-XVIII secolo, una sagoma assai particolare: è stato riconosciuto in essa il profilo inconfondibile della cuspide lobata con la Crocifissione e dei vertici laterali triangolari del polittico nella cui scena centrale è raffigurata l’Incoronazione della Vergine, opere oggi ambedue nelle collezioni della Galleria Nazionale delle Marche. Il ritrovamento ha reso possibile confermare quella che era stata fino ad allora un’ipotesi, sia pure assai credibile (D. Ferrara, in Giovanni Baronzio 2008; Zeri 1950; Boskovits 1993), e cioè che i due dipinti fossero pertinenti a un medesimo complesso pittorico. Il percorso attraverso il quale le opere giunsero nella sede attuale ha seguito canali diversi. Il polittico si trovava infatti già dal 1864 nel Palazzo Ducale di Urbino, pervenutovi con la grande quantità di opere provenienti dai conventi soppressi a seguito delle leggi Valerio. Lo Stato italiano invece acquistò la cuspide nel 1926 dal Municipio di Saltara, nella cui sede era conservata, destinandola alla Galleria Nazionale delle Marche (Dal Poggetto 2003, p. 87). È da ricordare incidentalmente che le decorazioni pittoriche della chiesa di San Francesco di Rovereto, pertinente a un complesso conventuale che ebbe particolare rilevanza nell’evoluzione cultuale francescana, costituiscono una sorta di antologia, in cui, dai testi trecenteschi di Allegretto Nuzi e del Maestro dell’Incoronazione, si giunge alla prova di grande forza che Giovanni Antonio da Pesaro realizzò, nel secolo successivo, nell’abside. Vi è identificabile una linea culturale che, trasversalmente, va da Rimini a Fabriano e che sembra coincidere con il percorso dell’attività dell’artista il cui name-piece deriva dall’opera urbinate, per aver rappresentato quest’ultima il punto di ancoraggio della vicenda critica, cui si sono aggiunte le successive acquisizioni. Tappe salienti sono da considerarsi la lunetta affrescata con la Madonna col Bambino, santi e un committente nella chiesa di San Domenico a Fano e il ciclo fabrianese disperso dalla chiesa di San Domenico (affreschi staccati sono conservati a Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini;

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Bibliografia. Brandi 1935, pp. 120-123; Marchi 1995; A. Marchi, in Il Trecento Riminese 1995, pp. 274-275 (con bibliografia precedente); Dal Poggetto 2003, pp. 82, 87; D. Ferrara, in Giovanni Baronzio 2008, pp. 116-117 (con bibliografia precedente).

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Rochester, Memorial Art Gallery; Boston, Museum of Fine Arts). La personalità del pittore si esplica pienamente nella redazione delle pitture murali, cui dà una “larghezza” spaziale e un’apertura intellettuale che conduce verso riferimenti non soltanto riminesi – evidenti quelli a Giuliano e Pietro da Rimini – ma anche bolognesi, e ad accostamenti agli umbri e toscani (Marchi 1995). Si adatta particolarmente alla figura del Maestro, per i luoghi che frequenta – Saltara, Fano, Fabriano – e per le derive stilistiche che raggiunge, l’ipotesi che Cesare Brandi formulò nell’impostare la “capitale” mostra del 1935 sui trecentisti riminesi, e cioè sulla presenza di uno specifico ramo riminese-fabrianese tra i giotteschi, ipotesi allora appena tratteggiata e poi pienamente confermata dagli studi successivi (1935, pp. 120-123). La matrice riminese del Maestro dell’Incoronazione viene sottolineata nel rapporto con le opere di Giovanni Baronzio, del quale potrebbe essere stato allievo, ma con il quale potrebbe aver avuto piuttosto una vicenda in parallelo (Marchi 1995). Anche Daniele Ferrara (in Giovanni Baronzio 2008) rileva, soprattutto nel registro superiore con la Crocifissione, la vicinanza con il polittico di Baronzio, oggi esposto anch’esso nella Galleria Nazionale delle Marche, datato 1345 e proveniente dal convento dei Frati minori conventuali di Macerata Feltria, località di confine tra Marche e Romagna (Dal Poggetto 2003, p. 82). Vicina sembra essere anche la cronologia: Miklós Boskovits suggerisce, per il polittico dell’Incoronazione, gli anni tra il 1340 e il 1345 confrontando la foggia degli abiti nei due dipinti. Le due sante dei pannelli laterali (per le quali Brandi aveva proposto l’identificazione con Agnese e Caterina d’Alessandria) del Maestro dell’Incoronazione presentano vesti con scollature meno ampie e “manicottoli” meno sviluppati (Boskovits 1993, p. 180, nota 72). Strette contiguità riminesi appaiono evidenti anche nella gamma coloristica, nella raffinata orchestrazione dei particolari decorativi (le filettature delle pieghe, i bordi delle vesti, l’oro dei fondi) e nelle notazioni di minuta osservazione della realtà, nonché nell’adesione emotiva all’evento. Interessante al riguardo il confronto tra la piccola Crocifissione urbinate e l’affresco, del medesimo soggetto, al Museum of Fine Arts di Boston (dalla chiesa di San Domenico a Fabriano): la differenza di scala non annulla il costituirsi comune dell’immagine, dalle radici francescane dell’iconografia (D. Ferrara, in Giovanni Baronzio 2008), al forte patetismo che connota la scena. Il polittico è giunto ampiamente manomesso: evidentemente decurtato alle estremità, colonnine tortili e clipei risultano resecati (A. Marchi, in Il Trecento Riminese 1995). Le cornici sono mancanti. Maria Rosaria Valazzi

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17. Maestro dell’Incoronazione di Urbino (secondo quarto del xiv secolo) Nascita di san Giovanni Battista 1340-1350 affresco staccato riportato su tela; cm 146 × 152 Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini

Bibliografia. Catalogo degli oggetti d’arte 1889, pp. 93-94, nn. 550-551; Salmi 1931-1932, pp. 238-242; Longhi 1934-1935, ed. 1973, p. 70; Brandi 1935, p. 124; Santangelo 1947, pp. 6-7; Zeri 1950; Volpe 1965, pp. 50-52, 88, n. 108; Zampetti-Donnini 1992, p. 18; Boskovits 1993, p. 174; Marchi 1995, pp. 116-117; Marchi 1998, pp. 58-63; Cleri 2006, p. 68; Mochi Onori-Vodret 2008, p. 254; D. Ferrara, in Giovanni Baronzio 2008, p. 118, n. 13; Borsellino 2012.

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Sulla Nascita di san Giovanni Battista della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma, facente parte di un ciclo sulla vita del santo, un mio contributo del 2012 ha reso noti nuovi ed interessanti dati: non fu venduto al museo nel 1895 ma fu donato nel 1889 e non proviene dalla chiesa di Santa Lucia a Fabriano, come ritenuto finora, ma forse da un’altra piccola chiesa di Fabriano dedicata al Battista demolita nella seconda metà del XIX secolo. Il principe Biagio Licata di Baucina lo aveva acquistato a Roma insieme ad un secondo affresco con un’altra storia del Battista (l’Annuncio a Zaccaria) nel corso dell’asta del 1889 in cui fu dispersa la collezione Pirri. Nel catalogo d’asta gli affreschi si ritenevano provenienti da Arezzo ed erano attribuiti a Pietro Lorenzetti. Il nobile siciliano donò la Nascita di san Giovanni Battista in cambio di poter trasferire a Palermo senza pagare le tasse di esportazione l’Annuncio a Zaccaria, che, finito poi sul mercato privato, è oggi nella Memorial Art Gallery dell’Università di Rochester, NY. Solo agli inizi degli anni trenta del Novecento, per primo Roberto Longhi (1934-1935) considerò la Nascita di san Giovanni Battista tra le opere marchigiane che più risentivano degli esiti della scuola riminese del Trecento sviluppatasi dopo la presenza di Giotto nella città romagnola e irradiatasi anche nelle Marche. Sempre a Longhi spetta il merito, come ricorda Santangelo, di aver collegato alla Nascita di san Giovanni Battista una Crocifissione proveniente dallo stesso ciclo disperso e già nota a Mario Salmi (19311932) e a Cesare Brandi (1935). Oggi è conservata nel Museum of Fine Arts di Boston. Federico Zeri nel 1950 aggiunse a questi due frammenti l’allora inedito Annuncio a Zaccaria, prima citato, e tracciò dei tre affreschi un pionieristico inquadramento nella produzione marchigiana verso la metà del Trecento, avanzando per tutti l’attribuzione al Maestro dell’Incoronazione di Urbino, anonimo artista operante nelle Marche individuato da Salmi e così detto da un’opera di tal soggetto conservata nella Galleria Nazionale di Urbino. Zeri propose per i tre affreschi una datazione al settimo decennio del XIV secolo perché la ricostruzione della chiesa di Santa Lucia di Fabriano era documentata al 1365. Volpe (1965), riprendendo un’intuizione di Salmi, riscontrò nelle opere del Maestro dell’Incoronazione influssi della scuola di Camerino. Poiché, dunque, gli affreschi non provengono da Santa Lucia, si potrebbero anticipare per via stilisti-

ca agli anni 1340-1350, anche se Miklós Boskovits (1993) li arretra al 1325-1335, proponendo di fondere in un’unica figura, come aveva fatto già Zeri – non seguiti però da Alessandro Marchi (1998), Bonita Cleri (2006) e Daniele Ferrara (in Giovanni Baronzio 2008) – il nostro Maestro con il fabrianese Maestro di Sant’Emiliano, autore di una Maestà e santi oggi nella Pinacoteca Civica di Fabriano (cat. 13). Questo altrettanto anonimo artista sembra aver lavorato anche in Sant’Agostino a Fabriano, specie nella cappella della Maddalena la cui decorazione, se da un lato è connessa stilisticamente alla Maestà e santi (si veda la Santa Maria Maddalena che converte i provenzali), deve aver dato linfa vitale al Maestro dell’Incoronazione: la grazia delle acconciature sulle fronti delle donne che assistono Maria ed Elisabetta, ma soprattutto la pelle avvizzita del viso e del collo di quest’ultima sembrano chiaramente ispirate al gruppo delle donne della Santa Maria Maddalena. Nell’affresco di Palazzo Barberini è evidente l’intento del nostro Maestro di caratterizzare realisticamente la scena ma di evocare con «espressività di maniera» (Zampetti-Donnini 1992, p. 18) l’ambientazione del miracoloso evento della nascita dell’ultimo precursore di Cristo. L’episodio è narrato secondo la tradizionale iconografia: oltre alla scena del parto compare quella di Zaccaria che sta scrivendo su un cartiglio il nome da dare al figlio davanti a uno scriba con ricca veste purpurea, purtroppo assai lacunoso. L’unica libertà iconografica rispetto al testo evangelico (Lc 1,5-80) è la presenza della figura che si sporge da una porta laterale. Nella Nascita del Battista è stato rilevato dal Marchi (1995) e dalla critica successiva già citata quanto l’anonimo artista sia informato da un lato della pittura di Pietro da Rimini (si veda il Cappellone di San Nicola a Tolentino, 1330 circa) e dall’altro di quella di Giovanni Baronzio (attivo verso la prima metà del XIV secolo) con le quali è venuto di certo a contatto. Nella Nascita del Battista di Washington del Baronzio, in particolare, sono presenti lo stesso compiacimento veristico della cassapanca lignea e la stessa figura che si sporge da una porta laterale, prova dello scambio tra gli artisti attivi nelle Marche nella prima metà del XIV secolo. All’affresco, restaurato nel 1982, sono state tolte le ridipinture integrative, sostituite con campiture di colore neutro forse troppo dissonanti cromaticamente. enzo borsellino

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18. Pietro Lorenzetti (Siena, 1280 circa, notizie dal 1306-1348) Crocifisso sagomato 1320 circa tempera su tavola; cm 125 × 91 Cortona (Ar), Museo Diocesano Restauro eseguito in occasione della mostra da Nadia Innocentini, a cura della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana

Bibliografia. Volpe, Pietro Lorenzetti, ed. 1989, pp. 149-150 (con bibliografia precedente).

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Il dipinto risponde ad una tipologia caratteristica di croce processionale di cui sono sopravvissuti pochissimi esemplari, proprio a causa dell’usura e dei guasti che i manufatti subivano in grazia del loro specifico ufficio. Pertanto l’immagine è nata così sagomata, per renderla più leggera e trasportabile, e fors’anche per utilizzarla come elemento scenico durante le sacre rappresentazioni. In forza di questa sua originalità il dipinto viene ad essere un’opera estremamente affascinante, dato anche il fatto che la qualità esecutiva non deflette rispetto agli standard del grandissimo maestro senese. E credo ne possa evocare suggestivamente la figura ed il valore, non potendo, ovviamente, segare dalle pareti della Basilica inferiore il grandioso murale con la Crocifissione che tanto peso ha avuto nelle vicende della pittura del Trecento a Fabriano (leggi Maestro di Campodonico). In verità penso che il Crocifisso in predicato possa ancor meglio, ad esempio, del Crocifisso grande conservato nel medesimo museo e proveniente dalla chiesa di San Marco di Cortona richiamare le forme della figura del Cristo affrescata ad Assisi. Ne ripropone, infatti, in maniera quasi pedissequa la posa, con la testa fortemente incassata fra le braccia distese ad angolo, la banda dei capelli pendente a lato del volto, e quindi le gambe fortemente angolate in avanti, che però nell’affresco sono parzialmente lacunose. Corrispondono entrambi alla cosiddetta tipologia del Crocifisso gotico doloroso, in cui l’immagine è rivolta a suscitare il massimo della commozione nel riguardante. Quindi un sentimento che avrà largo seguito nella cultura umbro-marchigiana, dando vita ad immagini dipinte e scolpite che proprio alla luce della loro espressività calcata – per pizzicare le corde del sentimento – indurranno Roberto Longhi a classificare le correnti figurative tardo medievali nella regione sotto la suggestiva definizione di «passione degli umbri» (1966, ed. 1974, p. 158). Dagli affreschi assisiati, fatte salve le differenze imposte dalla tecnica, deriva anche l’impostazione cromatica del dipinto (tranne purtroppo il blu

profondissimo dei fondali negli affreschi, che tanto dovette impressionare il Maestro di Campodonico, durante il suo possibile passaggio in Assisi, forse nel quarto decennio del Trecento). Il dipinto è stato ritrovato nel 1945 in un armadio della chiesa inferiore del Gesù, la medesima che ospita oggi il Museo Diocesano; nonostante la sua natura di croce processionale (manifestata dal fatto che la croce appare sagomata sin dall’origine), e nonostante la sua provenienza originaria non sia conosciuta, è tuttavia ipotizzabile che appartenesse, sin dalle origini, ad una confraternita in qualche maniera collegata agli ordini mendicanti. Da subito emerse fra gli studiosi, oltre l’appartenenza alla mano di Pietro Lorenzetti – a volte con qualche riserva in merito alla piena autografia –, la diretta filiazione dagli affreschi di Assisi, e di conseguenza una datazione altalenante tra secondo e terzo decennio del Trecento. È risaputo che i murali della Basilica inferiore, oltre a costituire il più vasto capolavoro di Pietro Lorenzetti, hanno suscitato numerose discussioni nella critica; da parte nostra ci sembrano assai pregnanti e risolutorie le motivazioni portate da Carlo Volpe (Proposte 1951; 1960), che si è occupato ripetutamente dell’impresa, imbastite su un fine ragionamento che intreccia le motivazioni propriamente attinenti i caratteri peculiari dello stile, agli eventi storici che coinvolsero la città di Assisi tra il 1319 ed il 1322. Quest’ultimo termine corrisponde al momento in cui Assisi cede all’assedio guelfo e subisce un feroce interdetto che sarà tolto solo otto anni dopo. Per cui le imprese pittoriche nella Basilica debbono essere contenute appunto in questo fatidico anno 1322, dato che l’interdetto ha certamente colpito anche i pittori che non potevano più circolare dentro e fuori le mura della città francescana. Ne consegue che anche il nostro piccolo crocifisso debba ricadere in quegli anni, forse prima del 1320 come vuole una recente rilettura della parabola artistica dei Lorenzetti pubblicata da Miklós Boskovits (1986, p. 3). Alessandro Marchi

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19. Pietro Lorenzetti (Siena, 1280 circa, notizie dal 1306-1348) Madonna col Bambino 1335-1340 tempera su tavola; cm 72 × 38 Milano, collezione privata

Bibliografia. Volpe, Pietro Lorenzetti, ed. 1989, pp. 204-205, n. A10 (con bibliografia precedente); Skaug 1994, I, p. 226.

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La tavola, in origine probabilmente destinata alla devozione privata, si trovava a Firenze nella celebre raccolta di Umberto Serristori (1861-1941; su questo personaggio cfr. Berretti 2010); ereditata dalla moglie Hortense, venne venduta all’asta nel 1977 (lot. 56). L’opera è stata riferita a Pietro Lorenzetti da Bernard Berenson (1909, p. 188) che la considerava un prodotto della sua attività giovanile. Ernest Theodore DeWald (1929, p. 149) la accostava stilisticamente alla Madonna del 1342 (Firenze, Galleria degli Uffizi), per Pietro Toesca (1951, p. 560) è stata dipinta prima del polittico di Arezzo, mentre Max Seidel (1981 pp. 137140) ed Erling Skaug (1994, I, p. 226) collocano l’esecuzione all’interno del quarto decennio del xiv secolo. Nel corso della prima metà del Trecento furono i due fratelli Lorenzetti a esplorare in molti modi e con maggiore convinzione le potenzialità espressive del soggetto iconografico della “Madonna affettuosa”, differenziandosi dalle interpretazioni più liriche e cortesi offerte da Simone Martini e dai suoi seguaci. Se le opere giovanili di Pietro, come la tavola di Monticchiello, erano caratterizzate da grande vivacità e schiettezza nel rapporto umano tra la Madre e il Figlio, affidato soprattutto alla veemenza dei moti, nei dipinti della tarda maturità si assiste quasi ad un ripiegamento intimistico che declina in inflessioni affettive più pacate come nella Maestà dipinta per la chiesa di San Francesco a Pistoia (oggi nella Galleria degli Uffizi), la cui data, pervenutaci frammentaria, è variamente letta anche se i dati dello stile confermerebbero un’esecuzione intorno o poco dopo il 1340. Infatti, se alla base delle opere dipinte da Pietro nel terzo decennio del xiv secolo c’erano il respiro monumentale e il rigore costruttivo di Giotto, unito a una forte carica espressiva derivata dalla scultura di Giovanni Pisano, negli anni trenta si assiste ad una svolta all’interno del suo percorso stilistico che

si indirizza verso una maggiore eleganza formale. Probabilmente quest’ultima fu stimolata dalle continue collaborazioni col fratello col quale eseguì gli affreschi, oggi perduti, della facciata dell’Ospedale di Santa Maria della Scala a Siena, firmati da entrambi e datati nel 1335 e dipinse un dittico, oggi diviso tra i musei di Berlino e Cambridge, Mass. (Pietro realizzò la Madonna col Bambino e Ambrogio la Crocifissione). Un’inflessione affettiva più pacata si nota anche nel dipinto qui discusso, incentrato sull’amorevole colloquio della Vergine col Bambino e caratterizzato anche da una maggiore attenzione alla delicatezza del modellato. Nei volti, infatti, non c’è più traccia della durezza espressiva di derivazione duccesca ancora visibile nei tre Santi della Pinacoteca Nazionale di Siena (nn. 79, 81, 82) datati 1332, ma le forme sono delicatamente arrotondate da un morbido chiaroscuro. Tuttavia ancora manca quell’attenzione alla sottigliezza epidermica degli incarnati e alla resa anatomica dei corpi e l’uso abbondante della decorazione punzonata che invece caratterizzano la produzione estrema del pittore senese. La figura della Vergine, abbigliata con vesti pesanti che cadono appiombo gettando poche pieghe che a mala pena lasciano intravedere il corpo sottostante, è delineata da una linea di contorno semplice ed è concepita come un massiccio blocco espanso che occupa quasi tutto lo spazio pittorico disponibile. Forme e soluzioni simili mostrano anche la Pala della beata Umiltà (Galleria degli Uffizi), probabilmente eseguita nella seconda metà degli anni trenta, e in particolare la già citata Maestà di Pistoia, con la quale si notano anche strette somiglianze fisiognomiche. Pertanto si potrebbe proporre per quest’opera, che anticipa i caratteri della produzione tarda di Pietro, una datazione verso la fine del quarto decennio del xiv secolo. Alberto Lenza

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20. Puccio Capanna (Assisi, notizie 1341-1347) Vergine Annunziata post 1341 affresco staccato; cm 123 × 175,5 Assisi, Pinacoteca Comunale

Sullo scorcio del 2004, nel corso dei lavori di consolidamento sismico di un edificio privato in via Bernardo da Quintavalle ad Assisi, nel rimuovere la pavimentazione di un ambiente furono ritrovati alle pareti alcuni affreschi frammentari che ritraevano una Annunciazione e figure di santi forse appartenuti a una Tebaide. Un restauratore mi mostrò le foto degli affreschi e nella figura dell’angelo ravvisai la maniera di Pace di Bartolo, allievo di Giotto rammentato nelle Vite di Vasari (1568, ed. Bettarini-Barocchi 19661987, II, p. 119) e riconosciuto in un gruppo di dipinti presenti in chiese di Assisi. Poco dopo visitai il cantiere in compagnia di Francesca Cristoferi, funzionario della Soprintendenza dell’Umbria, che riconobbe nella figura della Vergine la mano di Puccio Capanna, altro allievo di Giotto anch’esso rammentato da Vasari e noto grazie alla sua attività assisana (ivi, II, pp. 117-119). Generosamente il proprietario dell’edificio consentì che i dipinti ritrovati fossero staccati dalle pareti, per l’interesse dimostrato dal sindaco del Comune di Assisi, Giorgio Bartolini, e ne fece dono alla locale Pinacoteca Comunale. L’abitazione al cui interno era avvenuto il ritrovamento è ubicata a ridosso della chiesa di San Gregorio, a breve distanza dalla porta urbica che dava inizio al cardo della città romana: un modesto edificio di aspetto medievale che viene nominato nel 1198 tra le pertinenze della mensa vescovile. Già sede di parrocchia, nel 1325 il vescovo Teobaldo Pontano ne cedette l’uso alla fraternita di San Gregorio. In precedenza la fraternita aveva la sua sede nella via chiamata Portica, dove disponeva di un oratorio intitolato al Crocifisso, affrontato a una casa preceduta da una loggia e un tempo decorata da affreschi che attirarono l’attenzione di Giorgio Vasari, il quale li ricordò per essere opera di «Puccio Capanna fiorentino … discepolo di Giotto» (ivi, II, pp. 117-118): «Vedesi ancora, a mezza la strada nominata Pòrtica, un Cristo alla colonna, et in un quadro la Nostra Donna e Santa Caterina e Santa Chiara che la mettono in mezzo» (ivi, II, p. 119). Qualche tempo dopo gli stessi dipinti furono segnalati sotto il nome di «Puccio Cappanna de Assisi, discipulo de Giotto» in una guida delle opere d’arte di Assisi lasciata manoscritta da un frate del Sacro Convento (Ludovico da Pietralunga, Descrizione della basilica di S. Francesco, ed. Scarpellini 1982, p. 48): «Ancora in una facciata de una casa quale he nella strada per andare da San

Bibliografia. Vasari 1568, ed. Bettarini-Barocchi 19661987, II, pp. 117-119; Ludovico da Pietralunga, Descrizione della basilica di S. Francesco, ed. Scarpellini 1982, pp. 6365; Longhi 1951; Lunghi 1993; Lunghi 2012, p. 284. 150

Francesco et la piazza, fra le doi fonte, a man sinistra, nella strada dicta Portica, gli [è] nella facciata una fenestra della casa della fraternita di S. Gregorio, dove che a man dextra gli è un Christo alla collonna che lo flagellano, sopra uno altro quadro con un crucifixo. Dal man sinistra gli è una Madonna a sedere con il figliolo in braci; il qual putto ha una testa che par vivo et che non li manchi excepto il parlare, tanto sta ben facto. Dal man dextra della Madonna gli è una S. Chaterina et alla sinistra una S. Chiara» (ivi, p. 65). Una volta trasferitasi nella chiesa di San Gregorio, la confraternita ebbe a disposizione anche la casa confinante, che diventò la sede per le riunioni e fu anch’essa decorata con dipinti di soggetto religioso. Oltre a quelli depositati in Pinacoteca, se ne vedono ancora alcuni frammenti all’interno degli appartamenti moderni risultati dalle divisioni del primitivo edificio in seguito alla soppressione napoleonica delle corporazioni religiose avvenuta nel 1810. La storia dell’Annunciazione era stata dipinta sulla parete di un ambiente che era nato con un soffitto piano e fu poi rinnovato con una volta a crociera. I due spicchi superstiti ritraggono a sinistra un’abitazione preceduta da una loggia, sotto la quale Maria ha interrotto la lettura e osserva con sconcerto la figura dell’angelo, entrato da destra a braccia conserte. Per tecnica e per stile i due frammenti sono profondamente differenti. L’autore della Vergine ha dedicato una notevole attenzione all’architettura, rendendo l’illusione di uno spazio profondo. L’autore dell’angelo si è limitato a tinteggiare di azzurro un fondo preparato con un bolo rosso. D’altra parte, quest’ultimo ha insistito nel contornare a tratto il volto dell’angelo, mentre l’autore della Vergine ha lasciato la figura allo stadio di abbozzo colorato, e addirittura ha strofinato ripetutamente il pennello sulla veste di Maria, interrompendo bruscamente il lavoro senza completare la metà inferiore dell’affresco. Le scalfitture visibili sul volto grondante di colore della Vergine e sull’architettura del fondo rivelano che la scena fu ricoperta da un sottile strato d’intonaco, destinato ad assorbire un nuovo affresco e caduto con la costruzione della volta. È questa una situazione che s’incontra altre volte nel catalogo di Puccio Capanna, il maggiore pittore di Assisi nel secolo di Giotto e una delle personalità più affascinanti dell’intero Trecento. Ma anche un

pittore di cui si conoscono numerosi dipinti rimasti allo stadio di abbozzo all’interno di un catalogo non foltissimo e quasi tutto concentrato ad Assisi, come se il “non finito” fosse una caratteristica della sua personalità e una firma per risalire all’autografia: dall’Incoronazione della Vergine nella cantoria della Basilica inferiore di San Francesco alla Crocifissione nella sala capitolare della stessa chiesa, alle Storie della Passione nell’oratorio della fraternita di San Rufinuccio, agli affreschi nel coro di Sant’Apollinare. Negli ultimi due casi il lavoro lasciato interrotto da Puccio fu ripreso e ultimato da Pace di Bartolo: cioè proprio la situazione visibile negli affreschi delle case di San Gregorio. C’è un ultimo argomento – caratteri stilistici a parte – che parla in favore di un’attività di Puccio Capanna per la fraternita di San Gregorio. Alcuni anni fa, pubblicai la notizia di un lascito testamentario eseguito in favore di questa fraternita da Jolo Soldani (Lunghi 1993), un ricco mercante che aveva intrattenuto rapporti con Puccio Capanna come dimostra la presenza dello stemma Soldani negli affreschi della cantoria in San Francesco, e in una tomba a colonnette purtroppo priva di decorazione all’interno della chiesa di San Pietro. Poiché Soldani morì nel 1337, nel 1993 ipotizzai che Puccio Capanna potesse aver lavorato dopo questa data anche per la fraternita di San Gregorio, e in quella occasione puntai l’indice su una Maestà estesamente ridipinta che decora una nicchia sulla fronte esterna della chiesa. Il fortunoso ritrovamento della figura dell’Annunziata coinvolge nell’attività di Puccio Capanna anche la casa della fraternita e porta un ulteriore tassello alla conoscenza di un pittore assai raro, la cui fama è affidata a un magistrale saggio di Roberto Longhi (1951) che volle identificare nell’attività del “Maestro colorista di Assisi” il quasi mitico Stefano Fiorentino, prima che una fortunata scoperta documentaria consentisse di restituire a Puccio Capanna gli affreschi di Assisi. Anche se non ci sono prove che il Maestro di Campodonico abbia conosciuto questi dipinti, è notevole il debito dell’Annunciazione nella chiesa di Santa Maria Maddalena a Fabriano (cat. 23-a) da questa Annunciazione di Assisi: sia per la chiave coloristica ascrivibile a Puccio Capanna, sia per la “linea funzionale” sperimentata da Pace di Bartolo. Elvio Lunghi

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21. Puccio Capanna (Assisi, notizie 1341-1347) Madonna col Bambino e angeli Crocifissione 1340 circa tempera su pergamena incollata su tavola; cm 34 × 49 Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria

Bibliografia. Longhi 1951, ed. 1974, p. 78; Salmi 1956, pp. 30-31; Bellosi, La pittura 1966; Scarpellini 1981, pp. 52-55; E. Lunghi, in Galleria Nazionale 1994, pp. 150-152, n. 31; P. Nottiani, in Galleria Nazionale 1994, p. 152.

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Dalla Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia è stata prestata per la mostra una pergamena incollata a una tavoletta, decorata da una Madonna col Bambino e da una Crocifissione in mezzo a un gran numero di sante e di santi, che ha l’apparenza della parete di una chiesa rivestita di affreschi con la vita del Cristo o di qualche santo famoso piuttosto che l’aspetto della carta di un libro tagliata via con un rasoio. È l’alternativa che fu posta tra un già anziano Mario Salmi (1956, pp. 30-31), che ne scrisse nel contesto della miniatura umbra trecentesca e vi riconobbe l’influsso della pittura senese e del giottesco Maestro di Figline, e un ancor giovane Luciano Bellosi (La pittura 1966), che dalle pagine di un testo destinato all’ampia divulgazione vi indicò uno dei risultati più alti della pittura perugina gotica, sulla scia degli esempi giotteschi di Assisi, soprattutto del transetto destro della Basilica Inferiore. Tra chi vi riconosceva la pagina di un libro e chi un dipinto su tavola, la contesa fu risolta da Piero Nottiani (in Galleria Nazionale 1994, p. 152) in una scheda tecnica che ne spiegava il restauro, dando ragione al secondo coll’osservare che la pellicola pittorica presentava problemi di usura dovuti alla fessurazione del supporto ligneo originario, e che «la tecnica di esecuzione di quest’opera [è] da dipinto su tavola e non da miniatura come la pergamena potrebbe suggerire, [e che] la pergamena è assimilabile ad una incamottatura che, per le sue caratteristiche, si presta a ricevere direttamente una pittura a tempera tipica del Trecento e cioè all’uovo». Eppure non è alle ante di un dittico o di un altarolo che lascia pensare l’impaginazione della parte figurata, nella quale una Vergine in Maestà e una Crocifissione sono incastonate all’interno di una cornice architettonica che alterna quadri, compassi e listelli occupati da figure e mezzi busti di santi. Nonostante le dimensioni miniaturistiche, il pittore si dilunga sulla rappresentazione illusionistica di uno spazio tridimensionale e ottiene risultati monumentali, come la tabella della croce che si sovrappone alla cornicetta superiore, o gli sporti sagomati che aggettano come terrazzini per fare spazio agli angeli ai piedi del trono, o ancora le figurette dei santi che si affacciano come viaggiatori dai finestrini di un treno. Più che una immagine di devozione – si prega male quando si è colpiti da tante distrazioni! – si ha piuttosto l’impressione di trovarsi di fronte a un disegno acquerellato, che presenti in scala ridotta un insieme monumentale di figure e di storie destinate a decorare un interno architettonico, seguendo «el modo e l’ordine del disegnare in carta pecorina e ‘n bambagina, e aombrare d’acquerelle» che fu descritto da Cennino Cennini per spiegare «se per ventura

t’avenisse, quando disegnassi o ritraessi in cappelle» (Il libro dell’arte, ed. Brunello 1982, cap. X). Non si ha notizia della collocazione originaria del dipinto, salvo che entrò a far parte della quadreria dell’Accademia di Belle Arti in seguito alla demaniazione napoleonica del 1810. Il rilievo assegnato ai tre principali santi dell’Ordine – Francesco d’Assisi, Antonio di Padova e Ludovico di Tolosa – ne indica una provenienza da un convento francescano maschile. Il modello imitato sono gli affreschi di Giotto nel transetto settentrionale della Basilica inferiore di Assisi, che originarono la moda delle cornici architettoniche popolate da santi a mezzo busto. Pietro Scarpellini (1981, pp. 52-55) parlò di un pittore perugino attivo intorno al 1330, e vi ravvisò l’opera più antica del così detto Maestro di Monte del Lago, autore di una impressionante Crocifissione nella chiesa di Sant’Andrea di Monte del Lago e di pochi altri dipinti su tavola dipendenti da modelli assisiati e influenzati dall’attività perugina del Maestro di Figline. Per quanto mi riguarda, nel 1994 attribuii la pergamena a Puccio Capanna di Assisi (in Galleria Nazionale 1994, pp. 150-152), discepolo di Giotto segnalato nelle Vite di Vasari (1568, ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, II, pp. 117-118) e identificato in un gruppo di affreschi, tutti ad Assisi, che fanno capo a una Maestà commissionata a Puccio Capanna e al socio Cecce di Saraceno nel novembre 1341 e conservata presso la Pinacoteca Comunale di Assisi. A vent’anni di distanza, l’attribuzione a Puccio Capanna ci sembra ancora convincente, soprattutto per il confronto con i busti di santi che si affacciano dagli specchi della cornice nella monumentale Crocifissione della sala capitolare di San Francesco ad Assisi, o per l’impressionante somiglianza del Bambino in braccio alla Vergine con «il Bimbo che guarda il Santo da quel suo capino tondo, tutto aggirato d’impasto, e di una densità di materia da quasi antivedere Antonello» (Longhi 1951, ed. 1974, p. 78) della Maestà documentata nel 1341. Ma indipendentemente dall’identificazione del pittore, e dalla possibilità che il Maestro di Campodonico conoscesse l’attività di Puccio Capanna, l’interesse per il nostro discorso è nelle caratteristiche da bozzetto preparatorio della tavoletta: situazione questa che non doveva essere ignota in un’epoca contrassegnata dalla richiesta di programmi iconografici complessi per numero di figure e per varietà di ornamenti, resi popolari dall’attività di Giotto per le chiese dei Frati minori della Penisola. Se questo è il caso, il bozzetto poteva essere rimasto in mano a un eventuale committente come progetto esecutivo di una pittura monumentale, come avverrà in età tridentina quando i bozzetti preparatori diventeranno oggetto di un fenomeno di collezionismo. Elvio Lunghi

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22. Giovanni di Bonino (Assisi, notizie 1325-1347) San Giovanni Battista primo quarto del xiv secolo tempera su tavola; cm 100 × 67,5 Ferrara, Pinacoteca Nazionale

Il dipinto fu acquistato nel 1983 dalla collezione Massari-Ricasoli di Voghenza, presso Portomaggiore (Ferrara). In precedenza, una foto ne era stata pubblicata da Richard Offner (1956, p. 94) con la corretta attribuzione al Maestro della Pietà Fogg: pittore eccentrico fiorentino attivo nei decenni centrali del Trecento, che lo storico dell’arte statunitense aveva studiato nel 1926 collegando una tavoletta con la Pietà approdata nelle collezioni dell’Università di Harvard in Massachusetts a un gruppo di dipinti su tavola in chiese italiane e in musei stranieri: il grande Crocifisso nella chiesa di Santa Croce a Firenze, una tavola nella collegiata di Figline Valdarno, due pannelli di polittico con i santi Francesco e Filippo a Worcester (Mass.), una cuspide a Rennes e altre tavolette minori. Nel 1937 la Pietà del Fogg Museum di Harvard e la Maestà di Figline furono esposte a Firenze all’interno di una grande mostra dedicata alle origini dell’arte toscana (Pittura italiana 1937, pp. 553, 563), che dette il via a un’intensa stagione di studi su Giotto e i pittori giotteschi, nonostante la guerra imminente dilazionasse la pubblicazione dei risultati. Alberto Graziani pubblicò due importanti affreschi inediti riconoscendovi l’inconfondibile maniera del Maestro di Figline, come fu chiamato il pittore dagli studiosi italiani: una Madonna tra i santi Francesco e Chiara nascosta dietro a un tramezzo nella sacrestia inferiore di San Francesco ad Assisi, «opera fiorentina, anche se non di un fiorentino», di un contemporaneo di Pacino di Bonaguida e del Maestro di Santa Cecilia; l’Assunzione della Vergine sopra l’ingresso della cappella Tosinghi-Spinelli in Santa Croce a Firenze, che faceva il paio con le Stimmate di san Francesco di Giotto sulla fronte esterna della cappella Bardi (1939, p. 69). L’importanza di queste scoperte rilanciò l’interesse verso questo pittore attivo tra l’Umbria e la Toscana. La conta non si limitò alla pittura murale e ai dipinti su tavola, ma gli fu riconosciuta anche un’attività come pittore di vetrate: prima in Santa Croce di Firenze, nei finestroni delle cappelle Bardi e Tosinghi-Spinelli (Bologna 1956,

Bibliografia. Offner 1926; Pittura italiana 1937, pp. 553, 563; Graziani 1943; Bologna 1956; Offner 1956, p. 94; Marchini 1969, pp. 298-299; Scarpellini 1969, pp. 215-225; Marchini 1971; Marchini 1973, pp. 167-170; Volpe 1973; Bellosi 1980; G. Ragionieri, in Il Maestro di Figline 1980, p. 30, n. 3; Todini 1986, p. 395; Offner 1930, ed. Boskovits 1984, pp. 60-68; Offner 1930, ed. Boskovits 1986, pp. 122161; A. Cicinelli, in Galleria Nazionale 1994, pp. 148-149, n. 30; Marcelli, Il Maestro di Campodonico 1998, p. 124. 154

pp. 193-196), poi in San Francesco di Assisi, nelle vetrate delle cappelle nella navata inferiore (Marchini 1969, pp. 298-299), infine nel finestrone absidale del Duomo di Orvieto e in una vetrata della Galleria Nazionale dell’Umbria proveniente dalla sacrestia di Sant’Agostino a Perugia (Marchini 1973, pp. 167-170; A. Cicinelli, in Galleria Nazionale 1994). In Umbria fu individuato anche un secondo dipinto murale in una chiesa del contado, a Rocca Sant’Angelo nei dintorni di Assisi (Scarpellini 1969, pp. 215-225), che portò nuova linfa alla proposta d’identificazione in Giovanni di Bonino d’Assisi sostenuta da Giuseppe Marchini (1971): pittore di vetrate documentato tra Orvieto e Perugia tra il 1325 e il 1347. Come era da attendersi, la divisione per aree di appartenenza della ricerca storica italiana ha ingessato l’indagine sulle origini del pittore, tra sostenitori della scuola fiorentina e sostenitori della scuola umbra. Tra un Luciano Bellosi (1980) che si dichiarò favorevole a una giustificazione esclusivamente fiorentina della cultura di questo giottesco “eccentrico”, e un Filippo Todini che divulgava la notizia della presenza a Gubbio nel xix secolo del «grande polittico scomposto e disperso in varie collezioni di cui facevano parte i due Santi del Museo di Worcester (Mass.) e la Pietà del Museo Fogg» (1986, p. 395), avallando la probabile identificazione del pittore in Giovanni di Bonino. Per un resoconto del dibattito si rimanda al catalogo di una mostra che si è tenuta a Figline Valdarno nel 1980 e alle pagine dedicate al pittore nell’edizione ampliata del Corpus of Florentine Painting di Richard Offner, curata da Miklós Boskovits (Offner 1930, ed. Boskovits 1984, pp. 6068; Offner 1930, ed. Boskovits 1986, pp. 122-161). Nel 1973 Carlo Volpe ipotizzò una provenienza fiorentina del San Giovanni Battista nella collezione Massari, proponendo il confronto con una tavoletta della cerchia del Maestro di Santa Cecilia databile al 1314, e soprattutto con opere giovanili di Giotto come la tavola con le Stimmate di san Francesco nel Museo del Louvre, che consentivano di anticiparne

l’esecuzione entro il primo decennio del Trecento: cronologia confermata anche dalla punzonatura arcaica del fondo oro. Altrettanto plausibile potrebbe essere un’origine umbra del dipinto qualora lo si metta a confronto con le storie della Leggenda francescana di Assisi – ad esempio: la forma degli alberi e delle rocce – dalle quali fu ricavato il modello per la forma esotica del trono presente nella pala di Figline. Recenti restauri hanno riportato alla luce la sinopia di un’Annunciazione alle pareti della chiesa di Santa Maria a Rocca Sant’Angelo, accanto al frammento già noto con la storia delle stimmate, e lasciano sperare che si possano scoprire in futuro altri dipinti di questo pittore sulle pareti di qualche chiesa umbra senza dovere per questo attendere la ricostruzione seguita a un sisma com’è avvenuto in numerosi casi per edifici religiosi nelle città dell’Umbria devastata dai terremoti del 1997. Si potrebbe partire riconsiderando le affinità con il Maestro di Figline degli affreschi con le Storie dell’infanzia di Cristo nella tribuna absidale della chiesa di Rocca Sant’Angelo, o il Santo Stefano nella Pinacoteca di Assisi che Fabio Marcelli (Il Maestro di Campodonico 1998, p. 124) mise in relazione con il Maestro di Campodonico pubblicandolo sotto il nome di Pace di Bartolo. La presenza del San Giovanni Massari alla mostra di Fabriano ci dà modo di constatare l’influenza che questo pittore esercitò sulla formazione del Maestro di Campodonico – la provenienza più plausibile del polittico francescano riunito da Carlo Volpe è la chiesa di San Francesco a Gubbio! – che ne imitò la grinta feroce e le caratteristiche ciocche di pelo a coni nella tunica nel San Giovanni strappato dalle pareti dell’abbazia di Santa Maria dell’Appennino (cat. 26), nella strada che da Fabriano conduce a Gubbio, ricavandone l’impressione di una pittura violenta, insieme dolce e amara, che predilige forme pesanti piuttosto che il filo di ferro di cui son fatte le larve guizzanti del gotico d’Oltralpe. Figure grandi e trasparenti, come vetri dipinti fatti della stessa sostanza delle nuvole. Elvio Lunghi

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23-a. Maestro di Campodonico (attivo alla metà del XIV secolo, notizie dal 1345) Annunciazione, Crocifissione 1330 circa affresco staccato; cm 153 × 148 (Annunciazione), cm 153 × 152 (Crocifissione) Fabriano, Chiesa della Maddalena Restauro eseguito in occasione della mostra da Lucia Palma, a cura della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana

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La scoperta degli affreschi, in una sorta di intercapedine della parete laterale sinistra, nella chiesa della Maddalena di Fabriano avvenne circa nel 1932. Ne diede immediata notizia Bruno Molajoli (1932, pp. 167-173) che ebbe a pubblicare la sola Annunciazione con l’attribuzione al Maestro di San Biagio in Caprile. Emerse da subito la loro importanza, intanto per la qualità assai alta, quindi poiché aggiungevano un fondamentale tassello al mosaico delle ipotesi critiche relative all’origine del misterioso pittore, che ora vantava qualche buona ragione per potersi ritenere locale, cioè fabrianese. Nella base dell’edicola che alberga l’Annunziata era poi ben visibile un graffito, tracciato rozzamente, ma interpretabile come: adi … xbre 1336, che, seppure fortemente in dubbio in quanto all’originalità (tale appariva ad un esame paleografico dei caratteri), poteva ben essere memoria di un’iscrizione autentica e già presente e pertanto preoccupata di registrare il giorno ed il mese d’esecuzione del murale. La possibilità che la data corrisponda all’effettiva realizzazione degli affreschi – giudicati stilisticamente precedenti al ciclo di Campodonico – emerge ciclicamente nei pensieri della critica, anche dopo il restauro del 1967 quando Giuseppe Marchini (in Mostra di opere d’arte restaurate 1967, p. 10) afferma apoditticamente: «una scritta grafica la quale risulta oggi con tutta evidenza annotare invece, in lettere capitali: adi i de xbri 1556 (cioè: addì 1° dicembre 1556)».

Ora, sulla parete della Maddalena si succedono tre scomparti. Del primo con una figura giovanile di san Giovanni Evangelista si discute in una scheda a parte (cat. 23-b). Quello centrale raffigura una Crocifissione concentrata sui tre maggiori protagonisti, a cui si affianca l’Annunciazione. L’immagine centrale è evidenziata dalle cornici cosmatesche verticali che le assicurano una presenza in primo piano, tanto più che la raffigurazione è posizionata oltre una leggera strombatura modanata, resa intuitivamente in prospettiva. Anche i personaggi sono scalati all’interno del riquadro: Giovanni in primo piano, l’Addolorata un poco più indietro, quindi la croce, più in altro sul margine del Calvario roccioso. Le posizioni, come anche nella Crocifissione di Campodonico, sono evidenziate dalle misure dei nimbi. Il nostro maestro adotta una tipologia di nimbo sempre uguale, appena rilevato sull’intonaco, con la razzatura appena fuori la circonferenza delle teste, racchiusa fra uno o più circoli sia all’interno che all’esterno, la distanza fra i circoli varia e così l’ampiezza del nimbo, che diviene un indicatore spaziale (i nimbi dei personaggi più vicini allo spettatore sono i più grandi, rimpiccioliscono man mano in lontananza). Oltre alle fisionomie ingentilite dei personaggi (che hanno insinuato dei dubbi in merito all’autografia), il pregio maggiore dell’affresco – nonostante lo stato frammentario e manchevole – è tutto nel colore, un colore chiaro e smaltato, disteso in maniera

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compatta, di inusitata freschezza nonostante i secoli trascorsi. La radice poi dei colori è veramente unica, così la scelta e gli accostamenti: il blu violaceo del manto dell’Addolorata accostato al marrone-rossastro della veste, il carnato color avorio anticato del Cristo, accostato al biondo fulvo dei capelli, il rosa confetto del manto di san Giovanni accostato al soppanno verde e alla veste viola chiaro. Tutti distesi come in uno smalto traslucido contro il blu profondo del fondale. La scena dell’Annunciazione è delimitata a destra da una bordura fogliacea, accostabile ai bordi della Crocifissione di Campodonico (cat. 24) e, come quella, certamente ispirata ai modelli assisiati. Essa ripete un cliché già noto, appunto quello di San Biagio in Caprile, così l’arcangelo Gabriele, che

Bibliografia. Molajoli 1932; Berenson 1936, p. 12; Molajoli 1936, ed. 1990, pp. 131, 169-171; Marabottini 19511952, pp. 24-30; Toesca 1951, pp. 674-677; Zeri 1963; G. Marchini, in Mostra di affreschi staccati 1964, pp. 10-11; F.M. Aliberti, in Mostra di opere d’arte restaurate 1965, pp. 12-13; Volpe 1965, pp. 37, 59-60, nota 54; Bellosi, La pittura 1966, n.n.; Donnini 1967; G. Marchini, in Mostra di opere d’arte restaurate 1967, pp. 9-10; Zampetti [1969?], ed. [1970], pp. 25-26; Donnini, Nuove Osservazioni 1971; Donnini, recensione 1971; G. Marchini, in Mostra di antichi affreschi 1971, pp. 23-25; Donnini 1982, pp. 389-392; Donnini, Schede di pittura 1986, pp. 12-14; Neri Lusanna 1986, pp. 416-418; Ricci 1986; Budassi 1988; Valazzi 1988, pp. 112-114; Zampetti 1988, pp. 118-119; Donnini, San Biagio 1990; Zampetti-Donnini 1992, pp. 18-20; Donnini-Parisi Presicce 1994, pp. 49-50; Marchi 1995, pp. 122123; Neri Lusanna 1995, p. 172; Marcelli 1996; Scarpellini 1996, pp. 14-15; Neri Lusanna 1997; Marcelli, Il Maestro di Campodonico 1998. 158

sembra realizzato con l’utilizzo di un medesimo patrone, anche se poi, all’interno della sagoma, è ben differente l’andamento dei panneggi e l’articolazione del gesto “inquisitorio”. Diversa la Vergine, raffigurata in piedi nel portico della sua casa, immaginata come un ambiente differenziato dalla volta a crociera descritta dalle ombre precise, nonostante una tenda agganciata con fili alle colonne del portico ne nasconda gli arredi. La figura di Maria è bellissima, composta in un gesto di sorpresa, mentre con la destra raccoglie la sopraveste giallo-oro, descrivendo un festone di pieghe taglienti, contrapposte all’altro lato dove il panno scende diritto per frangersi sul pavimento. Si è sottolineato come anche quest’angelo appartenga alla stirpe dei giganti, io credo però che le sue proporzioni siano

dovute alla collocazione in primo piano, intuitivamente distante dall’Annunziata. Ancor qui merita sottolineare la bellezza e purezza dei colori, accentuata dall’ultimo, sapiente intervento di manutenzione. Singolare poi, nel riquadro, la presenza dei gran nuvoloni sulla testa dell’angelo, che forse avevano in origine una precisa funzione iconografica (e come nell’Annunciazione della cimasa del polittico di Pietro Lorenzetti ad Arezzo, 1320, esser ricetto per la dextera Dei da cui parte in volo la colomba mistica), e che ora si stagliano sul quel fondale biancastro che non sappiamo se corrisponda ad un intento preciso o indichi piuttosto una fase d’incompletezza. Alessandro MARCHI

23-b. Allegretto Nuzi (notizie dal 1345-morto tra il 1373 e il 1374) San Giovanni Evangelista 1330 circa affresco staccato; cm 153,5 × 64,5 Fabriano, Chiesa della Maddalena Restauro eseguito in occasione della mostra da Lucia Palma, a cura della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana

La figura dell’Evangelista si stacca nettamente rispetto alle restanti immagini, scoperte nella chiesa della Maddalena, circa il 1932. Intanto nell’impostazione a figura intera di proporzioni assai cospicue, tipica delle immagini devozionali, quindi nello stile che stacca profondamente imponendo una nuova e diversa personalità. Non è però senza significato che l’immagine sia contigua – sul medesimo strato d’intonaco – della Crocifissione. Il dato tecnico ha così indotto una serie di considerazioni riguardo ai rapporti che l’autore di codesta immagine possa aver intrattenuto col Maestro di Campodonico. Il dipinto è da considerare quale primizia dell’arte di Allegretto Nuzi, probabilmente la sua più antica opera conosciuta, in rapporto con l’arte del Maestro di Campodonico di cui Nuzi potrebbe esser stato collaboratore e addirittura allievo. L’ipotesi è stata avanzata da Fabio Marcelli, in base ad un accenno di Alessandro Marabottini (1951-1952, p. 52) che ritiene il San Giovanni ispirato all’arte di Allegretto. «Il volto di san Giovanni, nonostante i danni patiti durante lo stacco, mostra la fisionomia tipica dei personaggi dipinti da Allegretto: il modellato del viso, la bocca carnosa e ben definita, la linea allungata degli occhi, caratterizzati da quelle palpebre carnose che il giovane Allegretto ebbe modo di ammirare negli occhi gonfi di pianto descritti dal Maestro di Campodonico nelle sue due Crocifissioni note, ci guidano verso il riconoscimento dell’autografia nuziana. Ma accanto alle tangenze con il Maestro di Campodonico, il giovane Allegretto in quest’opera sembra mostrare anche delle intonazioni differenti, che diventeranno una cifra peculiare negli altri affreschi nuziani. Si osservi, in quest’ottica, la linea pastosa e leggera del disegno preparatorio lasciato a vista nella figura di san Giovanni Evangelista, che diverge chiaramente dalla magistrale capacità del Maestro di Campodonico nel definire le figure attraverso una linea più incisa e sottile, dentro la quale far narrare quel trionfo d’ombre e colori, che lo hanno reso uno dei più geniali interpreti della lezione giottesca. Appartengono invece alla lezione di quest’ultimo le ampie campiture di colore, battute dalla luce digradante che s’increspa sulle pieghe lanuginose della veste di san Giovanni, colorata di un rosso ormai sbiadito» (Marcelli 2004, p. 30). Per lo studioso, l’appiglio cronologico 1336 – pur riferito ad un’iscrizione apocrifa – è da ritenersi valido per datare il dipinto, pertanto in anticipo di quasi un decennio sulla prima data documentata di Allegretto, il 1345. Alessandro MARCHI

Bibliografia. Molajoli 1932, p. 167; Marabottini 19511952, p. 52; Marcelli, Il Maestro di Campodonico 1998, pp. 135-136, tav. XVI, fig. 19; Marcelli 2004, pp. 11, 24-28. 159

24. Maestro di Campodonico (attivo alla metà del XIV secolo, notizie dal 1345) Crocifissione 1345 affresco staccato, rimontato su due pannelli uniti a formare una centina; cm 450 × 398 Urbino, Galleria Nazionale delle Marche Iscrizioni: hock ōp fact¯ fuit tēpoē .di. .p. ab. an¯o .di. m. iii. vl. [hock op(us) fact(um) fuit te(m)po(r)e d(omin)i p(etri) ab(atis) an(n)o d(omini) m ccc vl]

Bibliografia. Venturi 1915, p. 8; Berenson 1921-1922, p. 309; Serra 1927-1928, pp. 81-87; Serra 1929, pp. 262-264, figg. 435-436; Salmi 1930, pp. 304-308; Berenson 1932, p. 13; Molajoli 1932, pp. 167-174; Berenson 1932, trad. it. 1936, p. 12; Molajoli 1936, ed. 1990, pp. 131, 169-171; Marabottini 1951-1952, pp. 24-30; Toesca 1951, pp. 674677; Zeri 1963; G. Marchini, in Mostra di affreschi staccati 1964, pp. 10-11; F.M. Aliberti Mostra di opere d’arte restaurate 1965, pp. 12-13; Volpe 1965, pp. 37, 59-60, nota 54; Bellosi, La pittura 1966, n.n.; Donnini 1967; G. Marchini, in Mostra di opere d’arte restaurate 1967, pp. 9-10; M. Beaulieu, in L’Europe Gothique 1968, p. 195, n. 313; Zampetti [1969?], ed. [1970], pp. 25-26; Donnini, Nuove Osservazioni 1971; Donnini, recensione 1971; G. Marchini, in Mostra di antichi affreschi 1971, pp. 23-25; Donnini 1982, pp. 389-392; Donnini, Schede di pittura 1986, pp. 12-14; Neri Lusanna 1986, pp. 416-418; Ricci 1986; Budassi 1988; Valazzi 1988, pp. 112-114; Zampetti 1988, pp. 118-119; Donnini, San Biagio 1990; Zampetti-Donnini 1992, pp. 18-20; Donnini-Parisi Presicce 1994, pp. 49-50; Marchi 1995, pp. 122-123; Neri Lusanna 1995, p. 172; Marcelli 1996; Scarpellini 1996, pp. 14-15; Neri Lusanna 1997; Marcelli, Il Maestro di Campodonico 1998. 160

Il grande affresco è stato staccato dalla parete absidale piatta della chiesa dell’abbazia di San Biagio in Caprile, nei pressi di Campodonico, da Giuseppe Rosi nel 1962; restaurato e acquistato dallo Stato Italiano, è esposto nella Galleria Nazionale delle Marche di Urbino dal 1964. Lo stato del dipinto nella sede originaria è documentato da una serie di fotografie in nero del Gabinetto Fotografico Nazionale, scattate tra il 1914 ed il 1918. Nel generale (neg. C 7907) appare già gravemente ammalorato, soprattutto nella zona superiore, a causa d’infiltrazioni d’umidità, altresì attraversato da crepe profonde dovute a dissesti murari e, in basso, martoriato dall’inserimento di alcuni mensoloni lignei, funzionali a qualche altare “moderno”. Fra le porzioni meglio conservate emerge la grande iscrizione lapidaria, a grandi capitali dipinte in forte rilievo in due fasce puntute che ai lati di una losanga simulano una cornice architettonica. In bella evidenza, al centro della losanga è una D in nesso con una I, a significare Dominus, in posizione coincidente e sottostante il Calvario dove è issata la croce: così da costituire un sofisticato richiamo appunto con Nostro Signore Gesù Cristo immolato per la salvezza dell’umanità. Il ductus raffinatissimo dell’iscrizione, oltre le uniche notizie storiche sul dipinto, induce in alcune osservazioni, già annotate dalla critica più avvertita: «le forme epigrafiche sono tracciate da un fine calligrafo» (Toesca 1951, p. 675). Le lettere sono tracciate con una perizia inusuale, con singolari variazioni nella tipologia (la F di factum è diversa dalla F di fuit; così la A di Abatis rispetto quella di Anno), con riccioli ed infiorettature squisitamente grafici che, oltre le notevoli libertà nei segni di abbreviazione, possono far pensare ad un calligrafo esperto. Così la tipologia gotica elegantissima delle medesime, allungate ma con i corpi ampi e pronunciati, ricorda quelle caratteristiche delle iniziali approntate per la miniatura nei codici membranacei (in netta differenza con le forme grafiche utilizzate normalmente nelle iscrizioni dipinte, anche quando vogliono simulare l’epigrafia monumentale lapidaria). Codesti ed altri indizi, come la precisione nei particolari figurativi o «la finezza disegnativa e il colorito puro nel formato ridotto gli conferma il

sospetto di miniatore» (G. Marchini, in Mostra di opere d’arte restaurate 1967, pp. 9-10, già in Mostra di affreschi staccati 1964, pp. 10-11). Altri indizi, come l’uso del bianco, o la densità stessa delle tinte, quindi la destinazione prevalentemente monastica delle rare opere rimaste, depongono a favore della tesi che il Maestro di Campodonico fosse un miniatore (magari nella condizione di monaco benedettino). Una traccia in tal senso sembrava perseguibile avvalendosi dell’ipotesi che il pittore fosse da identificare con Bartoluccio da Fabriano, documentato dal 1339 al 1348 (Marcelli 1996; Marcelli, Il Maestro di Campodonico 1998). Esiste infatti nella Biblioteca Comunale di Fermo un corale firmato da un tale Bartolo da Fabriano (Fachechi 2004, p. 51); ad una verifica sul manoscritto (segnato Corale 2), è risultato che la firma – nel bas de page a c. 107v – rubricata in grandi capitali rosse è la seguente: «fr(ater) bartolus d(e) fabr(iano) miniavi | h(oc) lib(r)um d(e) pen(n) a». Si tratta dunque del miniatore di penna che ha rubricato in rosso e blu numerose iniziali del codice, mentre le quattro iniziali figurate con santo Sefano (c. 110v), san Giovanni Evangelista (c. 126v) la Strage degli innocenti (c. 142r) e san Paolo (c. 193r) denunciano una fattura abbastanza vigorosa ma assai lontana dallo stile impetuoso e originale dell’anonimo di Campodonico. L’iscrizione di Campodonico consacra anche l’unico dato storico-cronologico dell’affresco. La P. seguita da AB. è da interpretare infatti come iniziale del nome Pietro e cioè Pietro di Bartuluccio da Serradica, nel 1336 eletto abate di San Biagio dai monaci e benedetto dal vescovo di Nocera senza però il viatico della Santa Sede, così che è costretto a recarsi ad Avignone per ottenere la ratifica della nomina, che papa Benedetto XII promulga con bolla del 17 maggio 1337 (conservata nell’Archivio Comunale di Fabriano). Giampiero Donnini sottende un’intrigante connessione tra il probabile viaggio dell’abate Pietro ad Avignone e l’arrivo a Fabriano del Maestro di Campodonico (Donnini-Parisi Presicce 1994, p. 50). L’ultimo documento in cui appare l’abate è datato 24 giugno 1347; il 31 agosto 1349 papa Clemente VI nomina il monaco D. Giovanni da Fabriano nuovo abate di San Biagio (Biocchi 1974, ed. 1989, pp. 383-391).

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Il grande murale qui commentato risponde ad una partizione compositiva estremamente razionale, con una netta divisione della centina in più campi, delimitati organicamente dalle evidenti fasce bianche (quelle stesse che fanno pensare al colore di un foglio, una grande pagina di pergamena pronta per la miniatura). Le zone circoscritte da tali fasce sono tre: la base architettonica con l’iscrizione, l’arcata decorata a losanghe e specchi fogliacei, la scena centrale introdotta da una strombatura modanata. L’aspetto più esaltante della scena della Crocifissione è costituito dalla sua grandiosità, amplificata dalle distanze fra i rari personaggi. Così l’idea originalissima del Padre Eterno nella mandorla attorniato da due gruppi di angeli issati su cuscini di nubi sfrangiate. Il primo ad accorgersi che si tratta di un hapax iconografico è stato il Toesca, per i più, il “particolare”, è passato inosservato. A noi appare spiegabile con il ricorso alla figura affrescata nelle Storie dell’Antico Testamento ad Assisi, nella Creazione del mondo ad opera di Jacopo Torriti all’altezza del 1288-1290 circa, dove il Padre Eterno a mezzo busto è posizionato entro il clipeo delle sfere celesti accanto alle schiere angeliche. L’immagine assume nel nostro affresco l’ufficio di inaugurare con la Creazione la storia della Salvezza, che troverà compimento appunto nell’immolazione del Cristo sulla croce. Preme sottolineare la sofisticatezza di una tale concezione, dovuta ad una personalità non comune (si intende il suggeritore di tale iconografia, forse da identificare con il committente; intendo altresì il pittore decisamente all’altezza di una richiesta così originale). Tanto è intensa e spirituale la scena superiore, quanto è drammatica e terrena la scena inferiore

della Crocifissione. Il Calvario è concepito come un insieme di scogliere frastagliate e isolate da profondi crepacci, come la prora ultima di una montagna oltre la quale è un vuoto profondissimo e notturno. L’ultima spiaggia per un’umanità affranta e sconsolata che confida nel sacrificio del Cristo come ultima possibilità di salvezza. I rimandi iconografici e di stile sono per la maggior parte ravvisabili in Assisi nei murali superbi della Basilica francescana. Così lo svenimento della Vergine e le bandiere (oggi più intuibili che visibili) issate contro il blu del fondale che rimandano alla monumentale Crocifissione di Pietro Lorenzetti (ante 1322). La tipologia del Cristo magro, con la testa fortemente incassata nelle spalle e i capelli scuri disposti a cuffia intorno al volto, rimanda al modello giottesco, alla Crocifissione con santi francescani ancora nella Basilica inferiore. Ma si avvicina fortemente alle composizioni di Puccio Capanna, più di tutte alla Crocifissione della cantoria nella navata della stessa chiesa, attribuita ad un seguace del pittore d’Assisi, che potrebbe essere anche il nostro maestro in un tempo più acerbo, di formazione, quando ancora non è maturata la sua energia aspra quasi violenta. Ma i prestiti sono poco più che iconografici, trasfigurati nello stile personalissimo dell’anonimo. Servono a dar voce ad una interpretazione inedita – così il ricorso al tema autonomo del Padre Eterno – vorrei dire all’avanguardia e isolata, dove si dà compimento e forma al mistero della Crocifissione assemblando momenti specifici del racconto evangelico, trattati come capitoli a sé stanti o performance di piccoli gruppi o di singoli: così lo svenimento, l’abbraccio alla croce della Maddalena, il pianto di san Giovanni, il riconoscimento di Longino (aureolato), gli Ebrei (i sommi sacerdoti) che si

accorgono del turpe misfatto; c’era lo spazio per una crocifissione affollata, ma il nostro pittore racconta un momento successivo più intimo e drammatico. In una tale concezione c’è spazio per notazioni originali, così la rotazione della spalla sinistra del Martire, dovuta al fatto che lo schianto del trapasso ha inferto uno spostamento del corpo verso sinistra, quasi volesse oltrepassare il braccio verticale della croce: un movimento sottolineato dalla piegatura delle gambe a sinistra in contrapposto agli svolazzi trasparenti del perizoma a destra. Le idee prospettiche dell’insieme raggiungono vertici impressionanti, così la profondità con cui sono disposte le nubi, macchiate di ombre profonde nella parte verso terra, come in un Masaccio al Carmine o in un Piero della Francesca (le si guardino nelle foto GFN C 7907 e 7908). Così le ali degli angeli raccolte all’indietro, sottili come lancette in «sfuggente prospettiva» (Zeri 1963, p. 329), per di più attaccate a corpi possenti di angeloni ben in carne, vestiti di tuniche attillate tagliate e confezionate con stoffe leggere e un poco elastiche (possiamo ben comprendere il disorientamento di Berenson che arrivò a pensare la data falsificata, e ad una primizia del quattrocentista abruzzese Andrea Delitio, cfr. Berenson 1932, p. 13). Peccato per lo stato di conservazione, che ci fa gustare ormai il dipinto solo nei dettagli in miglior condizione: ma ciò che oggi non vediamo più, possiamo intuirlo e, sforzandoci un poco, comprendere che siamo di fronte ad una delle più alte pagine che il Trecento pittorico italiano ha innalzato. Alessandro MARCHI

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L’affresco è stato staccato da un’arcata della parete laterale della chiesa dell’abbazia di San Biagio in Caprile, nei pressi di Campodonico da Giuseppe Rosi nel 1962; restaurato e acquistato dallo Stato Italiano, è esposto nella Galleria Nazionale delle Marche di Urbino dal 1965. Il reticolo spaziale improntato sulle fasce bianche è qui ancora più evidente che nella Crocifissione (cat. 24), dovendo articolare una composizione assemblata dalla collocazione architettonica della nicchia, ma improntata a singoli capitoli di un racconto puramente devozionale. Lo dimostra la presenza di tre scene indipendenti, accanto quattro ritratti di santi adattati agli spazi della strombatura. Sembra quasi che l’ordito sia unicamente dettato dagli spazi fisici dell’architettura, senza un programma predefinito, a meno che le scene non si legassero ad un ciclo i cui passaggi più ampi sono andati irrimediabilmente perduti. Così oggi noi abbiamo solo un campione di immagini devozionali. S’inizia con l’Annunciazione composta dalle figure singole dell’arcangelo Gabriele e della Vergine ai lati di una finestra. L’arcangelo appartiene alla medesima stirpe di giganti assiepati ai lati dell’Eterno nella Crocifissione. Se si alzasse in piedi sconvolgerebbe lo spazio destinatogli. È di profilo ed articola il suo parlare

mediante le mani che sembrano pizzicare un’arpa trasparente, non c’è segno di gigli o di un bacolo, e le sue ali sembrano sganciate dalla schiena ed appese in bella mostra al fondale; si tratta di ali dipinte alla maniera arcaica in forma di lunghe squame astratte di colore graduato, come si usava comunemente nella seconda metà del Duecento. Le ali naturalistiche, con il piumaggio esemplato su quello degli uccelli, verranno usate da Giotto nella cappella degli Scrovegni, ma conviveranno con quelle di tipo duecentesco, anche nell’ambito della bottega, così nella Madonna d’Ognissanti come nelle vele della Basilica inferiore (mentre nel polittico Stefaneschi vi sono soltanto ali naturalistiche). Il Maestro di Campodonico utilizzerà esclusivamente ali del tipo più arcaico. La Vergine è inginocchiata anch’essa, nel portico di una casa torre, indossa una sopraveste chiara bordata di verde, da cui spuntano due ampie maniche rosse. Il volto di tre quarti è incorniciato da una capigliatura bionda acconciata in una lunga treccia che si ricongiunge in cima alla testa (secondo una foggia largamente impiegata nella prima metà del Trecento). Nonostante compongano un’unica scena, le due figure appaiono concepite singolarmente, così la loro contestualizzazione: ad esempio la linea del pavimento non combacia, e l’architettura è talmente astratta da costituire un semplice pretesto narrativo. Quello che preme al pittore è sottolineare, anche nei tratti somatici fortemente caricati, l’ineluttabilità del racconto, il significato profondamente religioso, il dogma soprannaturale del divino concepimento. Nel riquadro sottostante, concepito in due scene raccordate da una fascia verde chiaro, sono raffigurate la Flagellazione ed una Madonna in trono, purtroppo fortemente lacunose. Riusciamo a leggere pochi frammenti, ma intuiamo una forza espressiva d’impatto grandioso. Intan-

Bibliografia. Venturi 1915, p. 8; Berenson 1921-1922, p. 309; Serra 1927-1928, pp. 81-87; Serra 1929, pp. 262-264, figg. 435-436; Salmi 1930, pp. 304-308; Berenson 1932, p. 13; Molajoli 1932, pp. 167-174; Berenson 1932, trad. it. 1936; Molajoli 1936, ed. 1990, pp. 131, 169-171; Marabottini 1951-1952, pp. 24-30; Toesca 1951, pp. 674-677; Zeri 1963; G. Marchini, in Mostra di affreschi staccati 1964, pp. 10-11; F.M. Aliberti Mostra di opere d’arte restaurate 1965, pp. 12-13; Volpe 1965, pp. 37, 59-60, nota 54; Bellosi, La pittura 1966, n.n.; Donnini 1967; G. Marchini, in Mostra di opere d’arte restaurate 1967, pp. 9-10; Zampetti [1969?], ed. [1970], pp. 25-26; Donnini, Nuove Osservazioni 1971; Donnini, recensione 1971; G. Marchini, in Mostra di antichi affreschi 1971, pp. 23-25; Donnini 1982, pp. 389-392; Donnini, Schede di pittura 1986, pp. 12-14; Neri Lusanna 1986, pp. 416-418; Ricci 1986; Budassi 1988; Valazzi 1988, pp. 112-114; Zampetti 1988, pp. 118-119; Donnini, San Biagio 1990; Zampetti-Donnini 1992, pp. 18-20; Donnini-Parisi Presicce 1994, pp. 49-50; Marchi 1995, pp. 122123; Neri Lusanna 1995, p. 172; Marcelli 1996; Scarpellini 1996, pp. 14-15; Neri Lusanna 1997; Marcelli, Il Maestro di Campodonico 1998.

Santi Paolo, Pietro, Biagio e Benedetto, particolari dello strombo.

25. Maestro di Campodonico (attivo alla metà del XIV secolo, notizie dal 1345) Annunciazione, Flagellazione, Madonna in trono; nell’intradosso: San Biagio, San Paolo, San Pietro, San Benedetto 1345 affresco staccato, in forma di nicchia centinata; cm 339 × 249 × 61 Urbino, Galleria Nazionale delle Marche

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to la Flagellazione è composta da tre figure in movimento, con osservazioni naturalistiche decisamente vigorose nei carnati e nei panneggi sopravvissuti al guasto. Vi ha luogo anche un episodio singolare rappresentato dalla minuscola figura sulla sinistra che sembra cavalcare un asino e fuggire con un secondo asino ed un altro animale (un cane?). Della Vergine in trono rimane solo la testa di tre quarti incastonata nell’aureola che sembra bilicare sul profilo arcuato e tagliente del trono, concepito come una grande esedra. Sulla fascia verde, che delimita l’immagine da quella adiacente, sopravvive una H minuscola tracciata in bianco che costituiva l’inizio di un’iscrizione (di cui ci rammarica la perdita). Veniamo ora ai ritratti. I santi Pietro e Paolo sono figurati in due quadrilobi, nella strombatura della centina, in una preziosa decorazione a finti marmi dipinti con una libertà e freschezza assolutamente moderne. Trattasi di figure a tre quarti, emergenti nei quadrilobi con una prestanza fisica inusuale, tanto il san Pietro immaginato frontale, quanto il san Paolo, arcigno, di tre quarti. Così le figure in piedi nei piedritti della nicchia, interpretate come immagini di san Biagio e san Benedetto. Un vescovo, l’uno, anziano, col volto reticolato da una fitta peluria filiforme bianca, mite e bonario. Un monaco, l’altro, già iscritto fra i ritratti più potenti di tutto il Trecento: un viso incappucciato, di un uomo possente, ancor giovanile ma solcato da rughe profonde, iscurite dal sole e indurite dall’intemperie di una vita eremitica all’aperto. Dunque un’antologia di figure che raccontano un pittore unico nel suo genere, provvisto di umanità e di capacità mimetiche che ci fanno rimpiangere di non conoscere qualcosa di più sulla sua enigmatica personalità. Alessandro MARCHI

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26. Maestro di Campodonico (attivo alla metà del XIV secolo, notizie dal 1345) San Giovanni Battista e santa Caterina d’Alessandria 1350 circa affresco staccato; cm 84 × 156 Porano (Tr), Castel Rubello, collezione Serafini Restauro eseguito in occasione della mostra da ESTIA di Paolo Pecorelli, a cura della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana

Bibliografia. Molajoli 1936, ed. 1990, p. 147, tav. IL; Toesca 1951, p. 676; Zeri 1963, p. 331, fig. 8; Donnini, Nuove osservazioni 1971, p. 332, fig. 6; Donnini, Schede di pittura 1986, p. 13, fig. 2; Budassi 1988, p. 121, fig. 4; Zampetti 1988, p. 158, fig. 34; Donnini, S. Maria d’Apennino 1990, pp. 326-327; Marcelli, Il Maestro di Campodonico 1998, pp. 126, 138, tav. XVIII, 140, fig. 29.

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«Di un’ulteriore fase dello stesso pittore sembrano i frammenti di affreschi della badia di S. Maria d’Appennino (Fabriano Palazzo Serafini) in cui la sua maniera si fa goticamente violenta, e quasi rustica» (Toesca 1951, p. 676). Il pur breve referto di Pietro Toesca, oltre a costituire la prima segnalazione a stampa dei dipinti in predicato, ne rileva i caratteri precipui di stile, più avanzato e più carico rispetto al ristretto catalogo del nostro anonimo. Non abbiamo notizie precise sullo stacco degli affreschi, le prime immagini che li ritraggono sono due fotografie in nero del Gabinetto Fotografico Nazionale (neg. C 2584, i santi, neg. C 2583 la Madonna). L’abbazia in seguito alle soppressioni del 1861 venne indemaniata e venduta a privati, quindi trasformata in casa colonica e magazzino agricolo. Al suo interno, specialmente nell’edificio ecclesiale che presentava una pianta irregolare a due navate, erano altri affreschi di varie epoche purtroppo quasi tutti distrutti nel crollo dell’edificio il 30 dicembre 1982 (alcune immagini, realizzate da Roberto Stelluti, sono pubblicate in Marcelli, Il Maestro di Campodonico 1998, pp. 126-128, figg. 10-11, 15-16). Federico Zeri ritiene autografo del Maestro di Campodonico soltanto il presente lacerto: «l’accentuazione plastica e la strapotente vitalità vi si mostrano ormai declinate secondo un caratterismo tipologico, che conferisce al Battista un aspetto aggressivo, quasi animalesco, dove (a contrasto dei piedi che afferrano il terreno, più che poggiarvisi sopra) i riccioli della capigliatura e del vello ubbidiscono ad una rimatura che fa parte di una lingua pienamente “gotica”» (1963, p. 331). Colpisce nel riquadro il ricorso all’escamotage prospettico della modanatura strombata all’interno della cornice, che finisce con una fascia verde (simile a quella presente in basso nella Crocifissione di

Campodonico a Urbino; cat. 24), prima del terreno che sfugge verso un fondale blu scurissimo, notturno che precipita in avanti le due figure dei santi. Anche loro, come più volte rilevato, appartengono alla stirpe dei giganti, la più congegnale all’indole isolata e genuina del nostro maestro anonimo. Si tratta di due figure massicce, truculente quasi selvatiche piuttosto che selvagge (con quel tanto di carica dialettale in più che suggerisce il primo aggettivo). I colori sono quelli smaltati e ricchi di materia a cui ci ha abituato il pittore qui, nonostante i guasti, brillanti e felici come sempre. San Giovanni è presentato mentre si volta a sinistra col busto ed accompagna il movimento con un gesto quasi di pudore, alzando il manto con la destra per coprire l’orrida pelliccia che ne riveste quasi completamente il corpo. Il profilo irsuto è compresso da una barba foltissima, e dalla capigliatura fluente coi riccioli che scendono inanellati come trucioli di segatura durante la piallatura di un legno ben stagionato. Caterina, possente come una matrona, appare come fosse un guerriero pronto a menar di spada. L’ampia scollatura di forma quadrata della sopraveste bianca, bordata di giallo, stando alle acquisizioni cronologiche indotte dalla moda, suggerisce una datazione oltre la metà del secolo, forse alla fine del sesto decennio del Trecento. Ma la corona che indossa sull’acconciatura a trecce è ancora di fattura arcaica, bizantina come in un mosaico ravennate. Di notevole presenza è poi il fregio della cornice superiore che, conformata a bande puntute ai lati di una losanga (come lo spazio di base dell’iscrizione nel murale di Campodonico; cfr. cat. 24), è scompartita in due colori, il rosso e il blu, su cui è dipinto un tralcio vegetale di foglie, bacche e infiorescenze che coniuga forme astratte a forme più realistiche e vagamente riconoscibili in natura. Alessandro MARCHI

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27. Giovanni Baronzio (notizie a Rimini e nelle Marche dal 1343-morto ante 1362) Madonna col Bambino in trono e angeli tra i santi Caterina d’Alessandria, Paolo, Ludovico da Tolosa, Pietro, Giovanni Evangelista, Francesco, Michele Arcangelo, Chiara 1345-1350 circa tempera e oro su tavola; cm 100 × 255 Mercatello sul Metauro (PU), Museo Civico Ecclesiastico di San Francesco Iscrizioni: [s(ancta) ca]terina; s(anctus) paulus; s(anctus) lodovicu(s); s(anctus) petrus; s(ancta) maria virgo virginum; [s(anctus) iohannes]; [s(anctus)] francissc(us); s(anctus) mic(h)ael; s(ancta) clar[a] (sotto ciascuna tavola)

Bibliografia. Venturi 1915, pp. 4-5, 11, fig. 7; Sirén 1916, p. 314; Van Marle 1924, p. 328; Metaurenses 1926, pp. 68-70; Romiti 1928, pp. 218-219; Serra 1929, p. 270, fig. 444; Berenson 1932, p. 43; Salmi 1932-1933, p. 181, fig. 48; Brandi 1935, pp. xxviii, xxxi-xxxii, 94-97; Brandi 1937, p. 198, fig. 13; Coletti 1947, p. xiv, tav. 16; Toesca 1951, p. 730; Bonicatti 1963, p. 79, fig. 52; Guglielmi Faldi 1964, p. 483; Volpe 1965, pp. 43, 83, n. 79, figg. 206-207; Berenson, Italian Pictures of the Renaissance, ed. 19571968, III/1 (1968), p. 363; A. Rossi, in Mostra di opere d’arte restaurate 1970, pp. 24-26; Padovani 1972, p. 362; Bacchi 1986; Donnini, La pittura 1986, p. 105; Neri Lusanna 1986, p. 418; La pittura 1987, p. 34, n. 16; Zampetti 1988, p. 115, figg. 16-17; Pasini 1990, pp. 128, 140; Benati 1992, p. 120; Boskovits 1993, p. 170; Hornig 1993; Benati 1995; Ragionieri 2002, p. 81, fig. 26; Muccioli 2005, pp. 11, 49, 50, 61, 216; Marchi 2007, pp. 64, 68; Benati 2008, p. 34, fig. 15; Massaccesi 2008, pp. 16, 23, nota 36. 168

Restaurato nel 1914 (Muccioli 2005), quindi nel 1970 (A. Rossi, in Mostra di opere d’arte restaurate 1970), il polittico consta di nove scomparti, privati della carpenteria originale. Quelli a lato del pannello centrale sono stati resecati in alto, eliminando la terminazione cuspidata, al di là della superficie dipinta, che risulta integra su questo lato, mentre ha subito alcune perdite in basso. Tali manomissioni risalgono probabilmente alla metà del xvii secolo, quando il complesso venne rimosso dall’altare maggiore per fungere da balaustra all’organo posto nella parete destra della tribuna (Metaurenses 1926). Tra Otto e primo Novecento esso fu quindi relegato, con la croce dipinta da Giovanni da Rimini (1309?), nella controfacciata dell’edificio, come documentano le foto d’epoca (Muccioli 2005). Le fonti, già a partire dal tardo XVI secolo, situano la fondazione del convento e della chiesa francescana di Mercatello tra il 1230 e il 1245 circa, mentre la consacrazione avvenne nel 1318 (per una sintesi di tali vicende, cfr. Metaurenses 1926; Muccioli 2005, pp. 10-19). Giovanni Baronzio fu particolarmente legato ai Minori, come rivelano il dossale, firmato e datato 1345, già nella chiesa di San Francesco a Macerata Feltria (oggi a Urbino, Galleria Nazionale delle Marche), gli affreschi della cappella polentana in San Francesco a Ravenna (Massaccesi 2008, pp. 13-18) e la sua sepoltura nell’omonima chiesa di Rimini, come risulta da un atto del 1362. Un trittichetto di collezione privata (Boskovits 1993, p. 168) include la raffigurazione delle Stimmate di san Francesco; esso potrebbe essere stato commissionato da un laico, devoto al santo di Assisi, come da un esponente dell’Ordine. Come nel dossale già a Macerata Feltria, san Ludovico da Tolosa compare alla nostra sinistra e speculare a san Francesco, ma in questo caso cede il posto d’onore alla destra di Maria a san Pietro: ciò non a caso, poiché Mercatello si trova nella Massa Trabaria, ossia “Massa Sancti Petri”, direttamente soggetta alla Santa Sede. Il culto del vescovo angioino, così come di santa Caterina d’Alessandria, è invece testimoniato da un affresco tardo quattrocentesco nella parete destra della navata, probabilmente coincidente con un antico altare, che li raffigura entrambi a lato della Vergine, mentre nella pressoché coeva lunetta sopra il portale di accesso alla chiesa la martire d’Alessandria è affiancata da san Francesco. Il drappo d’onore, che riveste il trono ove siede la Vergine, è trattenuto da due coppie di angeli e, cosa abbastanza insolita, dal Redentore, posto dietro e al sommo, in funzione analoga ad un’immagine autonoma inserita in una cimasa. La devozione per Maria, cara ai Francescani, è ribadita dall’affresco tardo trecentesco con l’Incoronazione che sovrastava l’arcone di accesso alla cappella maggiore (staccato ed attualmente esposto nell’attiguo museo) e sul lato sinistro della stessa parete si scorgono le tracce residue di un affresco, opera della stessa mano, con la Dormitio Virginis; elementi che fanno dunque pensare all’esistenza di un piccolo ciclo mariano intorno alla tribuna. Il polittico venne reso noto da Lionello Venturi (1915) insieme alla Croce dell’omonimo Giovanni nel-

la stessa chiesa, artista che lo studioso riteneva una sola persona con il Baronzio. Sebbene esso gli apparisse di qualità minore rispetto all’altra opera, in cui leggeva la data 1344, egli le considerava ambedue coeve. Questa lettura, che poneva in risalto le manchevolezze a livello plastico e la maggiore apprezzabilità delle decorazioni, influenzò a fondo i giudizi resi nei decenni seguenti (Sirén 1916; Romiti 1928), tanto che si giunse anche ad addebitare il dipinto del Baronzio ad uno «of his faithful pupils» (Van Marle 1924, p. 328), o ad un suo «imitatore» (Serra 1929, p. 270). L’autografia venne ristabilita da Mario Salmi (19321933), che evidenziò l’influenza esercitata da Pietro da Rimini nelle proporzioni slanciate dei santi. Dopo la mostra riminese del 1935 (cfr. Brandi 1935), la distinzione operata da Cesare Brandi (1937) tra i due Giovanni condusse ad un netto affievolimento del giudizio complessivo sul Baronzio, che qui come nel dossale del 1345 dimostra la propria «aridità meccanica» (Brandi 1937, p. 198). L’intervento della bottega venne poi suggerito da Pietro Toesca (1951), come da Carla Guglielmi Faldi (1964), e con qualche dubbio l’autografia fu accettata da Carlo Volpe (1965), che considerava l’opera «un prodotto di adulta tecnica e di stanco respiro, inutilmente condotto con strenua insistenza fino ad un limite di petrigna e inanimata incisività» (cfr. A. Rossi, in Mostra di opere d’arte restaurate 1970, per un giudizio analogo). Per Daniele Benati sia questo che il complesso oggi a Urbino «contengono i segni di una leggera involuzione, anche se si tratta di prodotti sempre inattaccabili sotto il profilo tecnico» (1995). Effettivamente, la cura conferita alla lavorazione del fondo dorato e alla decorazione degli abiti e dei tessuti travalica la mera diligenza tecnica. Alcuni punzoni utilizzati nei nimbi ricompaiono in altri dipinti (il motivo a triangoli, ad esempio, nel Cristo in pietà di Avignone), al pari dell’agemina nel manto di Maria, un altro leitmotiv della produzione del Baronzio, che questi profonde nella volontà di assimilare la tavola dipinta ad un prodotto suntuario e prezioso (Salmi 1932-1933). Per quanto attiene alla tipologia del manufatto, è singolare che un complesso di nove scomparti sia privo di un registro superiore, in grado di bilanciarne l’estensione. La sagoma mistilinea delle cèntine, in luogo della più diffusa forma trilobata, ha un precedente nella cimasa del trittico di Giuliano oggi esposto nel Museo della Città a Rimini e nella foggia del trono dell’Incoronazione della Vergine affrescata dallo stesso pittore in San Francesco a Fermo. Credo sia nel giusto Pier Giorgio Pasini (1990) ad indicarne l’origine nel disegno dei terminali delle croci dipinte, a cominciare dal prototipo riminese di Giotto e da quello di Giovanni nella stessa chiesa mercatellese. La conoscenza dello stile maturo di Pietro da Rimini, rimarcata da Pasini (1990), è sia nella snellezza dei personaggi sia nei panneggi ampiamente falcati e increspati: una figura come quella dell’evangelista Giovanni si pone in linea con gli apostoli della pieve di San Pietro in Sylvis a Bagnacavallo. Tali soluzioni, insieme all’azione della linea incisiva (Boskovits 1993), sono elementi comuni alla tavola del 1345 (si

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veda, ad esempio, l’identico rigonfiamento della pelle sotto gli occhi); e così una non ininfluente caratteristica del costume quale l’ampiezza degli scolli femminili: essa risulta più contenuta nei gruppi stilistici già denominati Maestro dell’Adorazione Parry e Pseudo-Baronzio (ovvero fasi precedenti dell’itinerario artistico del Baronzio), prossima invece a questo momento nelle Storie del Battista divise in varie sedi e nelle Storie di santa Colomba (Milano, Pinacoteca di Brera), comunque di esecuzione anteriore. La datazione dell’opera ha quindi risentito della 170

contiguità formale con quella di Macerata Feltria: l’hanno ritenuta precedente Livia Romiti (1928) e Salmi (1932-1933); posteriore Guglielmi Faldi (1964), Volpe (1965), Rossi (in Mostra di opere d’arte restaurate 1970), Giampiero Donnini (La pittura 1986) e Alessandro Marchi (2007); di esiti accosti parla, negli ultimi decenni, il resto della critica. Considerata anche la distanza non estesa che separa l’insediamento francescano mercatellese da quello di Macerata Feltria, non è improbabile che la nostra commissione possa essere nata quale conseguenza dell’altra, in vir-

tù dell’appartenenza dei due conventi alla medesima custodia, quella feretrana. Non è improbabile la partecipazione di un collaboratore nell’esecuzione dell’opera, che Fabio Massaccesi (2008) ha ipotizzato di identificare nel Maestro di Montefiore (cfr. Benati 2008); se così pertanto agli esordi del suo percorso. La cronologia del polittico non travalica infatti, con verosimiglianza, il 1348, l’anno della peste nera, che potrebbe aver falcidiato la vita dell’artista. Mauro Minardi

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28. Mello da Gubbio (nato intorno al primo decennio del XIV secolo) Madonna col Bambino 1350 circa tempera su tavola; cm 94,5 × 58,5 Gubbio, Museo Diocesano

Bibliografia. Del Commoda 1960, p. 37; Donnini 1974, pp. 7-8; V. Tiberia, in Restauri in Umbria 1976, pp. 9-10; P. Nottiani, in Restauri in Umbria 1976, pp. 10-11; Neri Lusanna 1977, p. 38, nota 52; Santi 1979; V. Garibaldi, in Arte sacra 1981, pp. 44-49, n. 4; Sannipoli 1987; Todini 1989, I, p. 221; Santanicchia 1998, pp. 79-80.

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Sebbene l’impostazione generale dell’opera riveli un tema più volte elaborato da Mello (Neri Lusanna 1977, p. 24, fig. 18a), nel novero delle opere eugubine del xiv secolo la tavola si segnala per l’originalissima soluzione iconografica del Bambino che stringe il nastro del manto della Madonna, variante al motivo del gioco del figlio con il velo della madre che alcuni leggono in rapporto a un episodio della passione di Cristo e alla letteratura religiosa tardo medioevale (Boskovits 2012, p. 19; V.M. Schmidt, in Duccio. Alle origini della pittura senese 2003, pp. 198-199, n. 30). L’elegante manto della Vergine, contrappuntato da pelliccia di vaio, esibisce una fitta e distesa ornamentazione fitomorfa e geometrica realizzata con oro a missione. Altre decorazioni sono riprese nella rovinata veste di Maria, specie nel polsino e nel largo scollo, mentre Gesù indossa una morbida sottoveste e una tunica, cinta in vita, le cui increspature del panneggio sono rese con complicate e lineari crisografie purtroppo alquanto consunte. I fori per i cavicchi negli spessori laterali della tavola suggeriscono con forza che il dipinto fosse in origine il pannello centrale di un polittico (P. Nottiani, in Restauri in Umbria 1976). Anche l’iconografia del Bambino, rivolto a sinistra, come nella Madonna Kress del Fogg Art Museum di Cambridge (Neri Lusanna 1977, p. 21, fig. 15a), in una sorta di colloquio, dunque, con un’altra figura, sembra incoraggiare quest’ipotesi. Il coronamento trilobato, a tutto sesto, inscritto in una tavola rettangolare, trova un precedente nel polittico con la Madonna col Bambino e i santi protettori di Gubbio della Pinacoteca Comunale di Gubbio, che dovrebbe proprio corrispondere al «quadro di legno dorato antico all’altare» documentato nel Seicento presso la cappella del Palazzo dei Consoli (SASG, Fondo Comunale, Riformanze, 82, c. 160v). La Madonna di Valdichiascio è attestata, a quanto pare, nella piccola chiesa di Santa Maria di Valdichiascio dalla seconda metà del Settecento, quando è computata una serie di spese per la sistemazione dell’unico altare tra cui, nel 1782, la doratura della «cornige al quadro della Madonna» (AVG, Parrocchie rurali, 26/53, b, v. 2, 1, c.s.), arredo descritto, nel 1794, come «un bel quadro rappresentante Maria Santissima con il Bambino in braccio, sua cornige di legno dorata con una cattiva tendina tutta mangiata e rosa da sorci con alcuni voti» (ASSG, busta III, scheda 5, n. 3, 1794-1854, c.s.). I rimandi alla cultura senese, che fa capo a Pietro e ad Ambrogio Lorenzetti, sono davvero numerosi e si misurano non solo sul versante delle consonanze stilistiche, ma anche sui tanti parallelismi iconografici e perfino tecnici, dato che appare assai probabile che l’artista eugubino «abbia lavorato con i due senesi e con pittori del loro segui-

to» (Neri Lusanna 2012, p. 164). L’acconciatura della Vergine, ad esempio, con i capelli elegantemente raccolti, rifiniti da una treccia, stretti da un nastrino calato sulla fronte e con l’orecchio in bella vista, si ritrova nelle opere di Pietro, negli affreschi del transetto meridionale della Basilica inferiore di Assisi – con vasto campionario di ritratti –, nella Maestà del Museo Diocesano di Cortona e nella Madonna col Bambino della Collezione Johnson di Filadelfia. La fitta decorazione del manto, invece, che fatalmente appiattisce ogni volumetria del panneggio, al pari dell’«ossessivo capriccio decorativo» con cui Mello insiste nella pala d’Agnano (Neri Lusanna 1985, p. 38), sembra proprio ispirarsi alla passione di Pietro per i tessuti raffinati, come nelle figure della pala del Carmine, in quelle del polittico della pieve di Santa Maria di Arezzo e della citata tavola di Filadelfia. La soluzione, poi, del manto che fascia, stringendolo, il gomito e una parte dell’avambraccio, già in Simone Martini e in Pietro, sembra invece mediata, pur con molte varianti nella gestione del drappeggio, dall’opera di Ambrogio che ne fa uso, tra l’altro, nel Polittico di Santa Petronilla della Pinacoteca Nazionale di Siena (Schmidt 2006). Proprio questo dettaglio iconografico, che Mello elabora anche nella Santa Caterina d’Alessandria del Duomo di Gubbio (Sannipoli 1987), è utilizzato inoltre dai protagonisti fiorentini degli anni trenta e quaranta del Trecento, dagli “eredi” di Giotto, come Bernardo Daddi e Maso di Banco (A. Tartuferi, in L’eredità di Giotto 2008, pp. 103, 110-111, nn. 6, 10), e prontamente recepito dai pittori forestieri orbitanti a Firenze tra i quali, per l’appunto, il fabrianese Allegretto Nuzi (Marcelli 2004, p. 64, fig. 80). Tuttavia, la sintesi volumetrica della nostra Madonna, caricata nelle figure di sodi e densi «aggetti chiaroscurali» (Donnini 1974, p. 8), non è solo il risultato di molteplici interferenze e commistioni culturali captate, in prossimità della metà del xiv secolo, direttamente o indirettamente, da Siena e da Firenze, ma è soprattutto il tratto distintivo, in chiave icastica, umorale ed espressiva, del vernacolo personale del pittore, attento al quotidiano, attratto dalla realtà circostante. Questa vena naturalistica, alla base, per esempio, dello straordinario dettaglio realistico del ramo di fico nella pala d’Agnano (M. Santanicchia, in Giotto e il Trecento 2009, II, pp. 211-212, n. 56) e forse del delicato gioco del Figlio con il nastro del manto della Madre nella Madonna di Valdichiascio, ci sembra che accomuni, con caratteristiche analoghe e però varie, i percorsi di alcuni pittori della fascia appenninica tra Gubbio, Cagli e Fabriano, come il Maestro di Montemartello e il Maestro di Campodonico. Francesco Mariucci, Ettore A. Sannipoli

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Anonimo pittore umbro-marchigiano (metà del xiv secolo) 29. Crocifissione cm 284 × 241

30. Deposizione cm 186 × 234

31. Santo domenicano cm 80,5 × 91,5 1350 circa affreschi staccati Cagli (PU), Chiesa di Santa Maria della Misericordia

Bibliografia. Santanicchia 1998, p. 80; Donnini 1974; Marchi 1995. 174

I tre affreschi, distaccati per motivi di tutela dalle stesse pareti e rintelati, sono stati riferiti alla mano del Maestro di Montemartello, accomunandoli ad altri frammenti figurativi conservati nella sacrestia del medesimo tempio. Ma il riferimento, se resta valido per questi ultimi, viene a decadere invece nei confronti dei soggetti maggiori. Il divario di stile e di cultura formale, che scava una netta cesura tra il repertorio figurativo del Maestro e la vocazione espressionistica e grafica dello sconosciuto autore delle opere considerate, esclude la loro iscrizione sotto il segno di un’unica etichetta. Negli affreschi eponimi del santuario di Santa Maria delle Stelle a Montemartello, ad esempio, predomina una componente eugubina difficilmente confutabile e per gran parte assente nella cultura sfoggiata dal pittore di Cagli. Dalla quale latita anche il supporto di stilemi e modelli desunti dall’inconfondibile campionario che Siena aveva divulgato in Assisi, che invece dà tono e consistenza plastica ai protagonisti di Montemartello. Nel soggetto della Crocifissione inquietante è la figura di Cristo dalla disarticolata anatomia, quasi tornita in un legno

chiaro e leggero, che si addensa di verde nel definire la botte del torace, il ventre prominente, il profilo degli arti, come se l’autore avesse la mente rivolta ad un crocifisso intagliato da qualche grande artigiano. E parrebbe di intendere che ricerche di così insolito orientamento affondino nella oscurità storica di quella stessa zona di originali fermenti pittorici dalla quale era sorto il grande Maestro di Campodonico, e dunque di un’area di avventurosa diffusione della cultura assisiate. Un’area che potrebbe essere indistintamente indicata all’Umbria o alle Marche, anche se l’adozione di convenzioni espressionistiche e mimiche da parte dello sconosciuto autore parrebbe orientare la sua genesi figurativa nella regione francescana. Inoltre, i profili puntigliosi, delineati con tratti secchi e affilati, i volti trasfigurati dal dolore, l’urlo incontenibile della Maddalena indicano in lui un pittore non del tutto disposto verso il rinnovamento giottesco ma ancora vincolato, così ci sembra, ad un programma espressivo sostenuto dalle riserve mentali proprie della cultura figurativa riminese. Giampiero Donnini

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32. Bernardo Daddi (Firenze, notizie dal 1320 al 1348) Madonna col Bambino in trono tra i santi Pietro e Paolo e angeli 1334 tempera su tavola; cm 55 × 25 Firenze, Galleria degli Uffizi Iscrizioni: nomine bernardvs de flore[n]tia pi[n]xit h[oc] op[vs] mcccxiiii (sullo zoccolo)

Bibliografia. Offner 1930, ed. Boskovits 1989, pp. 166169 (con bibliografia precedente); F. Baldini, in Giotto e il Trecento 2009, I, p. 195, n. 38.

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L’opera, sottoposta più volte a interventi di restauro (nel 1892, 1935, 1954 ed infine nel 1994), fu acquistata presso un rigattiere dal conte Giovanni Giovio di Como che il 27 gennaio 1853 la cedette, in cambio di un altro dipinto, alle Gallerie Fiorentine. Destinata alla Galleria dell’Accademia, nel 1911 fu trasferita alla Galleria degli Uffizi; durante la guerra è stata ricoverata nei rifugi bellici della Villa medicea di Poggio a Caiano (20 giugno 1940) e poi nel castello di Poppi (25 ottobre 1940). Trafugata dall’esercito tedesco che, insieme ad altre opere, la portò in Alto Adige, alla fine del conflitto la tavola fece ritorno a Firenze dove venne depositata temporaneamente presso il Museo degli Argenti il 22 luglio 1945, per poi tornare alla Galleria degli Uffizi il 24 giugno 1948. Firmata in basso e datata 1334, la piccola e preziosa ancona cuspidata è uno dei numerosi altaroli destinati alla devozione privata uscito dall’attivissima bottega di Bernardo Daddi, tra la fine del terzo decennio e gli inizi del successivo, per far fronte a una sempre crescente richiesta dovuta anche all’assenza da Firenze di Giotto che era impegnato a Napoli. Se il trittico della chiesa di Ognissanti (Firenze, Galleria degli Uffizi), datato 1328, la Madonna in trono col Bambino tra quattro santi (Parma, Galleria Nazionale) e gli affreschi della cappella Pulci Berardi in Santa Croce, eseguiti alla fine degli anni venti, sono caratterizzati da un vigoroso plasticismo di stampo giottesco e decisi contrasti chiaroscurali, all’inizio del nuovo decennio l’artista si mostra sempre più attento a cogliere le novità goticheggianti della pittura senese, in particolare dei fratelli Lorenzetti, in quegli anni frequentemente attivi a Firenze, nonché di scultori quali Tino di Camaino e Andrea Pisano. Questa

nuova fase del percorso stilistico del Daddi, inaugurata nell’altarolo del Museo del Bigallo del 1333, opera che propone una nuova considerazione dello spazio e che avrà un profondo influsso in Maso di Banco e Taddeo Gaddi, è ben rappresentata dall’anconetta qui discussa. Se la composizione, organizzata attraverso un rigoroso bilanciamento compositivo, con le figure che si dispongono in file ordinate attorno al trono, è di chiara ispirazione giottesca, tuttavia l’artista anima la severità e solennità del modello attraverso piccole trovate che mostrano la sua indole narrativa dotata di freschezza e senso lirico. Egli popola il dipinto con figure dall’umanità cordiale e bonaria che si esprime con una gestualità schietta e spontanea: gli angeli, infatti, sono raffigurati mentre chiacchierano l’uno con l’altro, quelli più prossimi al trono appoggiano con nonchalance la mano su di esso, quasi non curanti della sua sacralità e uno di loro sta dialogando col Bambino che si è girato di scatto per rispondergli mentre con la mano destra, con gesto tenero ma deciso, sta tirando via il velo bianco dal capo della Madre. L’opera colpisce per la gamma cromatica morbida e luminosa e la preziosità di alcuni dettagli come la vistosa decorazione punzonata lungo il margine interno della tavola e la stessa struttura del trono, simile a un tabernacolo gotico, con lo schienale coperto da un ricco drappo blu ornato da motivi geometrici alternati ad altri zoomorfi nei quali è possibile riconoscere la fenice (cfr. Klesse 1967, p. 312, n. 232a), e conclusa da una cuspide triangolare, decorata con gattoni e diafani pennacchi e perfettamente incuneata nel profilo cuspidato della tavola. Alberto lenza

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33. Puccio di Simone, attribuito (Firenze, notizie dal 1335 al 1360) Sant’Antonio Abate fra i devoti 1353 tempera su tavola; cm 195,2 × 106 Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli” Iscrizioni: s(an)c(tu)s antonius de viena rom (nell’aureola); mcccliii ques … (frammento in basso)

Bibliografia. Ricci 1834, I, pp. 88, 109; Offner 1947, p. 141; Longhi 1959, p. 9; Marcelli 1997, p. 51.

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«Sulla traccia dell’alta poetica masesca … e probabilmente uscito dallo studio del Daddi stesso, giacché la sua formula ch’egli sembra condurre, ma più acutamente recettivo ed efficiente non trascurò neppure qualche approccio verso altre novità ora sopraggiunte a Firenze.» È Roberto Longhi (1959, p. 9) che con queste parole segna, come fossero veloci tratti grafici, il profilo di Puccio di Simone a cui affida, per assonanze stilistiche, la realizzazione della tavola di Sant’Antonio Abate, oggi presso la Pinacoteca Civica di Fabriano, ma eseguita per l’omonimo convento della città. Variamente assegnata dalla critica precedente ad Allegretto Nuzi e al Maestro dell’altare di Fabriano, figura artistica la cui personalità viene costruita da Richard Offner (1947, p. 141) sull’impronta di riflessioni tratte dall’osservazione dell’opera e che successivamente verrà identificata da Longhi stesso con Puccio. Menzionata da Amico Ricci (1834) che la vede presso l’originaria sede, il convento di Sant’Antonio, collocata presso la sacrestia, la tavola cuspidata ospita al centro, imponente, a tutta figura, in un assetto prospettico ben impostato, il santo, la cui diffusa venerazione sviluppatasi in età medievale, promossa ad opera dell’Ordine degli Ospedalieri Antoniani, occuperà nell’ambito dell’arte sacra un posto centrale, con la conseguente vasta produzione di immagini votive. Effigiato in età avanzata, porta gli attributi iconografici che lo contraddistinguono: il bastone da pellegrino, il libro delle Sacre Scritture, i maiali dai quali si era usi ricavare gli unguenti per le piaghe a sottolineare il suo potere di taumaturgo oltre a rappresentare il suo ruolo di protettore degli animali. Ai suoi piedi, posti a latere, due ali di astanti in preghiera; attento e puntuale lo studio dei costumi, in particolare quello dell’armigero a sinistra, così come la resa dei preziosi e colorati tessuti a righe, fiori e fronde, secondo i canoni del tempo, con i quali sono realizzati gli abiti che indossano le due donne genuflesse a destra, uno spaccato documentario significativo per lo studio della moda dell’epoca. La giovinetta in primo piano si apparenta, per caratteri stilistici, alla santa ai piedi della Madonna del polittico di Certaldo. Un brano di delicato lirismo è dato dai piccoli volatili in atto di beccare, posti sulla vegetazione e le rocce che fungono da quinta al santo, elemento quello delle rocce che compare pressoché identico nel sant’Onofrio del polittico delle Gallerie

dell’Accademia a Firenze, opera autografa del pittore. Nell’aureola è riportato il nome di Antonio e la citazione della località, Saint Antoine de Vienne, in Francia dove furono traslate le sue reliquie provenienti da Costantinopoli. La perizia esecutiva e l’alta poesia dell’arte di Puccio, sottolineata da Longhi e ben delineata, grazie ai nuovi strumenti di lettura scaturiti nell’ambito della mostra sul pittore tenutasi a Firenze nel 2006, ci offrono lo spaccato artistico di una delle figure fra le più importanti operanti in questa città, personalità vissuta e formatasi nell’ambito più stretto di uno dei seguaci di Giotto, Bernardo Daddi. Impronta, quella di Puccio, codificata, tra l’altro, dal celebre documento pistoiese, databile attorno alla metà del Trecento, in cui viene ricordato come uno dei maggiori pittori fra quelli attivi in città. Città che abbandona, presumibilmente, per un breve lasso di tempo compreso tra il 1353, anno in cui data la nostra tavola, e il 1354, per la committenza marchigiana in quel di Fabriano e dove si pone in atto il felice connubio con Allegretto Nuzi. Prodotto della breve apparizione di Puccio nelle Marche, il dipinto fabrianese rimanda a quella vena artistica del tutto originale che caratterizza il suo linguaggio pittorico fatto di arcaismi di lontana memoria e brani di assoluta “modernità”, motivo che accompagnerà il percorso della sua produzione, un percorso segnato dall’impronta durevole del Daddi, una sorta di filo conduttore della sua poetica, elevandosi, tuttavia, con pagine di assoluta qualità come quella del Sant’Antonio Abate. Nel nostro dipinto echi di Giovanni da Milano, al quale Puccio guarda precocemente desumendo dalla sua arte la sfumatura fulgida della gamma cromatica preziosa e lucente, si fondono con palesi accenti senesi mutuati dall’adesione ai modi di Allegretto e dello stesso Maso. Seppure il primo impatto visivo potrebbe fuorviare dall’ormai consolidata attribuzione all’artista fiorentino, un ulteriore dato interessante lo accomuna al corpus codificato, la grafica dei caratteri gotici della scritta che compare nell’aureola del santo e quelle che titolano i santi e l’autografia del pittore del già citato polittico dell’Accademia, sicuramente scaturite dalla medesima mano e nell’ambito della stessa bottega. Agnese Vastano

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34. Puccio di Simone, attribuito (Firenze, notizie dal 1335 al 1360) Madonna col Bambino e i santi Benedetto, Caterina d’Alessandria, Romualdo e Ludovico da Tolosa sesto decennio del xiv secolo tempera su tavola; cm 108 × 56 (pannello centrale), cm 97 × 47 (pannelli laterali) Urbino, Galleria Nazionale delle Marche

Bibliografia. Offner 1947, pp. 231-233; Longhi 1959; Fremantle 1975, pp. 85-94; R. Valazzi, in Capolavori per Urbino 1988, pp. 47-48; Dal Poggetto 2003, p. 88.

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Il trittico reso noto da Richard Offner (1947, pp. 231-233), indicato come prodotto del pennello di un seguace del cosiddetto “Maestro di Fabriano”, entità costruita principalmente attorno alle due opere fabrianesi, identificata poi da Roberto Longhi (1959) con il pittore fiorentino Puccio di Simone, viene assegnato a quest’ultimo da Richard Fremantle (1975, pp. 85-94). Perduto il suo assetto originario e mutila, nelle tre tavole, delle cuspidi terminali, sacrificate per accoglierle in una cornice rettangolare, l’opera giunge alla Galleria Nazionale delle Marche grazie all’acquisto da parte dello Stato Italiano nel 1987 dall’allora proprietaria Ylda Guglielmi Cini, alla quale era pervenuta nel 1963 dopo essere passata, nel 1926, in proprietà Giuliana Ricasoli e successivamente collezione Corsini di Firenze. Vicissitudini attraverso le quali, tuttavia, non ci è permesso di giungere e conoscere l’originaria collocazione e la committenza, da ricercarsi probabilmente nell’Ordine camaldolese, vista la presenza dei santi Romualdo e Benedetto. Attestabile ai tardi anni cinquanta del Trecento, datazione supportata da quanto asserito dall’Offner (1947, pp. 231-233) che vede strettamente desunto da Andrea Orcagna e dalla Pala Strozzi, datata 1357, l’assetto appaiato delle figure dei santi delle tavole laterali, il trittico ci rimanda l’identità di un artista non solo ben inserito nelle vicende pittoriche fiorentine, ma attento ed aggiornato sugli sviluppi e apporti delle vicende della pittura a Firenze nel Trecento. La poetica pittorica di Puccio, da sempre lega-

ta all’impronta fondamentale derivata dalla lezione del Daddi, mutuata attraverso l’operato di Maso, risentirà lungo il cammino degli apporti figurativi e stilistici di quanto proposto da Nardo di Cione e Andrea Orcagna, di cui sembra maggiormente permeato il trittico urbinate. Nell’osservazione dell’assetto d’insieme dell’opera la mano di Puccio appare spinta dal fare degli Orcagneschi, pur se a echi di Maso ci riconducono i volumi dilatati ed una più movimentata vivacità della posa del Bambino fra le braccia di Maria, chiaramente tratta dalla Madonna delle Grazie di Orsanmichele dipinta dal Daddi. Da non trascurare in questo brano pittorico, una certa matrice “adriatica” che si inserisce in un ambito artistico del tutto fiorentino, esprimendosi con caratteri precisi: una più ricca ricerca di preziosità materica e un più ricco uso dell’oro, la ricerca di ornati raffinati e stoffe pregiate, un appiattimento dei volumi, una linearità più definita. Non possiamo a riguardo non ricordare il soggiorno, seppur breve, di Puccio nelle Marche e gli stretti rapporti creatisi con Allegretto Nuzi, già partecipe della cultura fiorentina, con il quale il nostro viene spesso identificato, in un trasmigrare di opere dal corpus dell’uno all’altro, passando per il Maestro di Fabriano. La critica recente ha oggi sancito l’indipendenza artistica fra i due pittori e acceso l’attenzione sul fulcro creato dal loro connubio nell’ambito della pittura trecentesca e il suo svilupparsi in territorio marchigiano. Agnese Vastano

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35. Allegretto Nuzi (notizie dal 1345-morto tra il 1373 e il 1374) Madonna col Bambino tra i santi Maria Maddalena, Giovanni Evangelista, Bartolomeo e Venanzio; nelle cuspidi: Cristo crocifisso (al centro), Sant’Antonio Abate, la Vergine, san Giovanni Evangelista e santa Caterina (ai lati) 1350 circa tempera su tavola; cm 202 × 113 Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli” Restauro eseguito da Lucia Biondi, a cura del Rotary Club Fabriano

Bibliografia. Serra 1929, p. 285; Marabottini 1951-1952, p. 43; Zampetti-Donnini 1992, p. 23; Donnini-Parisi Presicce 1994, p. 30; Tartuferi, Madonna col Bambino 2005, p. 30.

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Nei cinque scomparti lignei sono effigiati a mezzo busto santa Maria Maddalena, san Giovanni Evangelista, la Madonna col Bambino, san Bartolomeo e san Venanzio. La cornice originale è suddivisa in cinque tabelle nelle cui cuspidi sono rappresentati al centro Cristo crocifisso e ai lati sant’Antonio Abate, la Vergine, san Giovanni Evangelista e santa Caterina. Di proprietà del capitolo della cattedrale, l’opera si qualifica, per eleganza cromatica e finezza esecutiva, come uno dei più alti raggiungimenti del caposcuola fabrianese. Portato a compimento per l’abbazia benedettina di Santa Maria d’Appennino, il polittico mostra di appartenere a una fase di lucida ispirazione del pittore, sotto l’influsso ancor fresco dei suoi trascorsi toscani, fiorentini e senesi, databile attorno al 1350. Il racconto figurativo vi si snoda con un andante piano e commosso, tradotto con una sintassi venata di dolci e suadenti cadenze. È questa una delle prerogative salienti del gergo creativo del Nuzi, grazie al quale le sue creazioni assumono un sapore particolare e inconfondibile. Tale connotato della sua parlata ha agito da sicuro coagulante sulle diverse inflessioni che la sua mente aveva registrato nel corso della lunga militanza toscana. Al punto che gli imprestiti desunti dal repertorio formale di Bernardo Daddi, di Maso di Banco e di Ambrogio Lorenzetti ne risultavano filtrati e riproposti secondo i canoni di un’ottica cromatica e sentimentale assolutamente personale. Oltre che nel gruppo centrale, il ricordo di accenti senesi tocca l’apice nella figura di santa Maria Maddalena, intrisa di toni caldi e vibranti, quasi profani, sulla quale Allegretto ha disteso morbidi sfocamenti d’ombra e il canto cristallino di una trionfante umanità. Una figura che non dovette passare inosservata all’ammirazione di Gentile. giampiero donnini

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36. Allegretto Nuzi (notizie dal 1345-morto tra il 1373 e il 1374) Crocifissione seconda metà del xiv secolo affresco staccato; cm 260 × 240 Saltara (PU), Chiesa di San Francesco in Rovereto

Bibliografia. Romagnoli 1927, pp. 78-82; Toesca 1951, pp. 118-120; Belogi-Finauri 1995, pp. 15-54, 69-70; Marcelli 2004, pp. 44-45, 72-76.

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L’affresco proviene dalla chiesa di San Francesco in Rovereto di Saltara e costituisce una delle opere più pregevoli di Allegretto Nuzi. Sembra che nel primitivo nucleo della chiesa, riedificata ed ampliata nel xv secolo, fosse passato san Francesco d’Assisi che, tra il 1211 e il 1217, compì una serie di pellegrinaggi in terra marchigiana. L’affresco in oggetto, da collocare nella seconda metà del Trecento, è l’opera più antica della chiesa e, originariamente, era posto proprio nella cappella in cui, secondo la tradizione, san Francesco si sarebbe fermato a pregare. Quel nucleo primitivo dell’edificio sacro costituisce oggi una cappella laterale della grande chiesa, della quale, oltre alla già citata riedificazione, si ricordano modifiche e ristrutturazioni seguite ai danni arrecati da un terremoto nel 1740. Inoltre, a partire dal piccolo gruppo di capanne dei frati, adiacente alla chiesa, si è sviluppato poi un convento, che è ricordato come uno dei primi dell’ordine religioso nelle Marche. Il dipinto murale è stato staccato con la tecnica dello strappo, sottoposto a restauro e provvisoriamente collocato nella chiesa parrocchiale di Saltara. Allegretto Nuzi, dopo le fondamentali esperienze a Firenze e a Siena, che gli permisero di conoscere da vicino l’arte di Giotto e dei suoi allievi, e di Bernardo Daddi, decise di compiere un viaggio nelle terre della Valle del Metauro per soddisfare una nuova committenza dei Francescani, subito evidente, ad una rapida analisi dell’affresco, grazie alla figura, purtroppo in buona parte danneggiata, di san Francesco, inginocchiato sul lato sinistro ai piedi del Crocifisso. Il santo è in proporzioni nettamente minori rispetto ai personaggi protagonisti dell’opera. Allegretto, inoltre, realizza l’affresco probabilmente dopo il suo possibile viaggio ad Assisi, intrapreso per ammirare le storie francescane. Nonostante le notevoli cadute di colore, la scena è chiaramente identificabile: Cristo crocifisso al centro,

la Madonna addolorata a sinistra, san Giovanni a destra e il già citato san Francesco prostrato ai piedi della croce, quasi a volersi immedesimare nel sacrificio ad espiazione dei peccati di tutta l’umanità. L’affresco di Saltara si caratterizza per la tecnica diligente ed accurata, e per un disegno esecutivo degno di nota. L’artista fabrianese esprime la sua grande perizia ed un elegante sentimento coloristico. Il volto e il corpo di Cristo sono realizzati con una attenta e precisa definizione cromatica. Gesù, con il consueto atteggiamento del crocifisso trecentesco, ha il capo reclinato a destra, la fronte serena, finemente lumeggiata, e la bocca leggermente contratta, espressione quest’ultima di un dolore che non si manifesta altrimenti. L’affresco, soprattutto per la caratterizzazione di Cristo, è in stretta analogia, qualitativamente e cronologicamente, con la Crocifissione e Santa Caterina d’Alessandria, anch’essa opera del Nuzi, realizzata nella cattedrale di San Venanzio a Fabriano. Nell’opera di Saltara bellissimo è anche il viso della Vergine Maria, raggelato nel dolore, quasi una maschera. Lo sguardo della Madonna è rivolto verso lo spettatore, le braccia si muovono in direzione di Gesù. Il viso della Vergine addolorata e la sua postura sembrano l’ideale riedizione in pittura di una statua lignea. Maria ha un abito marrone ed un manto scuro con cappuccio, che lascia comunque vedere i suoi lunghi capelli biondi. Dall’altra parte della croce san Giovanni, di cui rimangono solo il volto e la parte superiore del busto, volge il capo verso Gesù crocifisso e lo contempla intensamente; la veste del santo è bordata da un fregio dorato, altro aspetto che indica la attenta esecuzione tecnica dell’artista. La scena risulta semplice e, al tempo stesso, elegante e solenne, arricchita da una raffinata sensibilità cromatica. Colpiscono, infine, la profondità di espressione degli astanti addolorati e la serenità interiore di Gesù Cristo nel dramma della croce. arianna bardelli

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37. Allegretto Nuzi (notizie dal 1345-morto tra il 1373 e il 1374) Madonna col Bambino in trono tra i santi Caterina d’Alessandria, Francesco, Martino e Lucia; Santi Elisabetta d’Ungheria, Antonio da Padova, Ludovico da Tolosa, Chiara e Cristo crocifisso (nelle cuspidi) 1366 tempera e oro su tavola; cm 131,8 × 152,3 Apiro (Mc), Palazzo Comunale Iscrizioni: hoc opus fecit fieri frater ofredutius gualterutij sub anno domini m ccc lxvi; al[le] grit[us] de fab[r]iano me pinx[it] (lungo il basamento del trono)

Il doveroso risanamento conservativo, compiuto prima nel 1920 da Riccardo de Bacci Venuti (Romagnoli 1927), poi intorno al 1970, ha restituito una buona leggibilità all’opera, in precedenza caratterizzata da varie piccole cadute di colore. Il polittico proviene dalla chiesa di San Francesco ad Apiro, per la quale fu commissionato, come recita l’iscrizione ai piedi della Vergine, da frate Offreduccio di Gualteruccio, probabilmente il padre guardiano della comunità conventuale, l’unico a noi noto tra i committenti del Nuzi appartenenti all’Ordine dei Minori. La localizzazione iniziale è con verosimiglianza l’altare maggiore, che il complesso lasciò nel 1576 allorché venne posto nella sagrestia (tale è la testimonianza, nel XVIII secolo, dell’apirese Ottavio Turchi, riportata in Bevilacqua 1999), finché nel 1865, dopo l’acquisto dell’edificio da parte dell’amministrazione municipale, esso fu trasferito nel Palazzo Comunale. Apiro risulta citata tra le terrae parvae nelle Costituzioni Egidiane del 1357. La chiesa di San Francesco era inizialmente dedicata a san Martino e alla Vergine assunta, come testimonia un atto del 1249; mutò titolo a favore di quello attuale nel 1359 e venne quindi consacrata nel 1381 (Bevilacqua 1999, pp. 84, 167, 193198). Si ricorda un leggendario passaggio del poverello

Bibliografia. Servanzi Collio 1845; Cavalcaselle-Crowe 1864-1866, II, p. 198; Cavalcaselle-Crowe 1887, p. 24; Colasanti 1906, p. 274; Mason Perkins 1906, p. 51, nota 2; Bombe 1907, p. 306; Venturi 1907, pp. 839, 842; Berenson 1909, p. 131; Van Marle 1925, p. 156, figg. 95-97; Romagnoli 1927, pp. 47-49, tav. IIIa; Serra 1929, pp. 284285, fig. 468; Berenson 1932, p. 399; Toesca 1951, p. 677, nota 198; Marabottini 1951-1952, pp. 44, 46, 50; Marabottini 1960, p. 477; Kaftal 1965, col. 380, fig. 429; Berenson, Italian Pictures of the Renaissance, ed. 1957-1968, III/1, p. 302, tav. 208; Donnini, Commento alla mostra 1971, pp. 61-62; A. Rossi, in Pittura nel Maceratese 1971, pp. 60-61; Donnini, Allegretto 1986, pp. 181, 182; Zampetti 1988, p. 121, fig. 75; Ghisalberti 1991, p. 400; Zampetti-Donnini 1992, p. 23, figg. 39-40; Bevilacqua 1999, pp. 197-198; Marcelli 2004, p. 79, figg. 81, 110, 130; ‘Dotti amici’ 2007, pp. 395, 398-399. 188

di Assisi nella piccola località appenninica, confermato da san Bonaventura, così come di sant’Antonio da Padova (ivi, pp. 185-186). La comunità francescana era presente sin dal Duecento e la chiesa era la maggiore del territorio apirese; qui venivano ospitate le riunioni dei consigli comunali, a conferma del rilievo assunto dal luogo nel tardo Medioevo (ivi, p. 193). Tali fatti costituiscono lo sfondo della commissione rivolta al Nuzi, in anni di poco successivi alla nuova dedicazione a san Francesco. L’assetto iconografico è perfettamente coerente con tale contesto d’origine: il santo serafico è collocato in posto d’onore alla destra della Vergine, fronteggiato da san Martino, mentre le martiri Caterina d’Alessandria e Lucia chiudono la sequenza del registro principale. Le cuspidi completano l’iconografia francescana, anche in questo caso con due esponenti maschili dell’Ordine in posizione privilegiata (Antonio da Padova e Ludovico da Tolosa) e due consorelle ai lati (Elisabetta d’Ungheria e Chiara). Le Clarisse avevano una loro sede ad Apiro, intitolata alla loro fondatrice; la santa a sinistra, già identificata ipoteticamente in sant’Elisabetta del Portogallo (Servanzi Collio 1845), è stata riconosciuta nell’omonima santa ungherese, di cui esibisce la caratteristica corona di fiori nel grembo, da George Kaftal (1965). Mi sembra sintomatica, a fianco dell’omaggio reso alla casata angioina, la presenza di tutti questi personaggi dell’Ordine nel più vasto pentittico, con l’Incoronazione della Vergine e santi, oggi diviso tra la City Art Gallery di Southampton (UK) e il Museum of Fine Arts di Houston, per il quale Federico Zeri (1975), nel discuterne la paternità condivisa tra Allegretto Nuzi e Francescuccio Ghissi, ha suggerito la verosimile provenienza dall’altare maggiore della chiesa di San Francesco a Fabriano. Si può qui rammentare come Amico Ricci (1834, p. 91) ricordasse in tale convento un trittico che attribuiva al Ghissi, che potrebbe ravvisarsi in parte di quest’opera. Il Nuzi lavorò per altri luoghi dei Frati minori nelle Marche, anche come frescante: a Matelica e a Rovereto a Saltara. La raffigurazione di Cristo crocifisso al colmo dello scomparto principale compare anche nel pentittico della Pinacoteca Civica di Fabriano (cat. 35), in quel caso adeguatamente abbinata, sul piano iconografico, alle immagini dei due dolenti nelle cuspidi adiacenti, ma qui sostituite, per esigenze specifiche, dai santi francescani. Altrove, come nel trittico di Puccio di Simone ed Allegretto Nuzi nella National Gallery of Art di Washington (1354) e in quello del Nuzi nel Duomo di Macerata (1369; cat. 41), figurano invece a fianco di Cristo in croce l’Angelo annunciante e la Vergine annunciata. Questa tipologia di pentittico ha inoltre quale precedente in Puccio di Simone il complesso del Museo d’Arte Sacra di Certaldo. L’opera, priva di un considerevole panorama critico, venne illustrata per la prima volta da Severino Servanzi Collio (1845). In una precedente lettera indirizzata al Ricci, datata 24 agosto 1837, l’erudito settempedano aveva dato notizia dell’opera (‘Dotti amici’ 2007), ampliando così il profilo del Nuzi delineato nelle Memorie storiche edite nel 1834. Alla missiva il Servanzi Collio allegava un disegno con lo schema del

polittico, realizzato grazie all’aiuto di «un mio amico di colà» e contenente «le Memorie» (ivi, p. 395), ossia una minuziosa descrizione dei vari santi di cui egli tentava l’identificazione. Dopo la menzione da parte di Joseph Archer Crowe e Giovanni Battista Cavalcaselle (1864-1866; 1887), nel nuovo secolo si segnala l’apprezzamento reso da Arduino Colasanti (1906) e da Raimond van Marle (1925, p. 25), che definì il complesso «the masterpiece of Allegretto’s second manner», ossia di quella fase in cui il pittore avrebbe risentito soprattutto dell’influenza di Jacopo di Cione. Fernanda Romagnoli (1927) sottolineò invece il riferimento a Bernardo Daddi, mentre per Alessandro Marabottini (1951-1952) apparivano preponderanti le relazioni con l’arte di Andrea e Jacopo di Cione (cfr. Donnini, Commento alla mostra 1971), nonché, per quanto riguarda la Madonna in trono, con lo stile di Giovanni da Milano e di Nardo di Cione. A prescindere dalla soluzione attributiva, qualora risulti positivo il collegamento operato da Zeri tra il polittico di Southampton e Houston con la comunità dei Minori a Fabriano, è evidente come alla differenza di importanza tra le due città e, si può pensare, i relativi insediamenti francescani (la chiesa di San Francesco era, prima della demolizione, la più grande di Fabriano) si accompagni un pari dislivello nell’impegno delle commissioni legate all’arredo dell’altare maggiore. Il trittico della Pinacoteca Vaticana, licenziato appena un anno prima, probabilmente proveniente dalla chiesa di Santa Lucia a Fabriano, appare egualmente intriso di una maggiore raffinatezza, soprattutto nella presentazione dei santi. Si può quindi affermare che con risultati come questo del 1366 prenda avvio quella parabola che porta il Nuzi ad una decisa semplificazione dei volumi, a favore di figure ritagliate entro sagome prossime alla geometria, come possiamo altresì notare nel sopra citato pentittico di Fabriano, pure pertinente alla seconda metà del settimo decennio. Queste opere, al pari del trittico vaticano del 1365, non esibiscono ancora, se non in alcuni dettagli quali il drappo d’onore alle spalle di Maria, quel sontuoso paludamento decorativo degli esiti estremi del percorso nuziano, verso il 1370: i trittici di Macerata (1369) e Fabriano (cat. 41, 42), i quattro Santi della Pinacoteca di Fabriano (cat. 39, 40), la Madonna di Urbino (1372). Degno di nota è invece, qui come in altre opere tarde, la persistenza, notata da Alberto Rossi (in Pittura nel Maceratese 1971), dei ricordi lorenzettiani, in direzione di Ambrogio, visibili nei profili a rasoio della coppia di sante martiri, ma anche di formule desunte da Bernardo Daddi, fedeli a modelli di oltre un ventennio prima. Gli anni sessanta rappresentarono un momento di alacre operosità per la bottega del Nuzi: oltre ad alcune tavole qui già menzionate, si segnala l’attività del maestro per San Severino (1366; cat. 38) e soprattutto la responsabilità di più cantieri, come quello della cappella di San Lorenzo nella cattedrale di San Venanzio e la cappella di Sant’Orsola in Santa Lucia a Fabriano, i cui cicli di affreschi mostrano diverse corrispondenze sul piano morfologico con il polittico di Apiro. Mauro Minardi

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38. Allegretto Nuzi (notizie dal 1345-morto tra il 1373 e il 1374) Madonna dell’Umiltà 1365-1366 tempera e oro su tavola; cm 164,5 × 125,2 San Severino Marche (Mc), Pinacoteca Comunale Iscrizioni: a[l]egrett[us de fa]b[r]iano me pinxit an(n)o d[(omi)ni mccc]lxv[i?]

Le cadute della pellicola pittorica, concentrate soprattutto nel manto di Maria e lungo i bordi superiore e inferiore, sono state probabilmente provocate dalla rigida parchettatura che, sino al restauro del 1965, bloccava sul retro le assi verticali del legno e che era stata in precedenza applicata (forse con l’intervento di Guglielmo Filippini, menzionato in Romagnoli 1927) per ovviare al forte imbarcamento del supporto (F.M. Aliberti, in Mostra di opere d’arte restaurate 1965). Malgrado ciò, la tavola, che esibisce la cornice originale, si presenta in condizioni abbastanza buone. Accanto ad altre versioni del tema realizzate dal fabrianese Francescuccio Ghissi, essa costituisce un esempio del formato “monumentale” dell’iconografia della Madonna dell’Umiltà, destinata all’arredo di un altare. Le dimensioni sono infatti notevoli per questo soggetto per lo più connesso a dipinti di piccolo o medio formato o, a partire dall’ultimo quarto del Trecento, allo scomparto centrale di polittici. Si tratta dell’unica testimonianza oggi nota di tal genere nella produzione di Allegretto Nuzi (escludendo quindi i dipinti devozionali), mentre, come detto, ne restano almeno tre del Ghissi: la tavola della Pinacoteca Civica di Fabriano (1359; cat. 44), quella della Pinacoteca Civica di Fermo (cat. 46), una terza in Sant’Agostino ad Ascoli Piceno (talvolta riferita, a mio avviso non giustamente, anche al Nuzi; cfr. Marcelli 2004, p. 65) ed infine quella in Sant’Andrea a Montegiorgio (1374; cat. 45). Queste ultime due si caratterizzano per la presenza di uno o due angeli, nonché dell’epiBibliografia. Ranaldi 1820-1839, c. 88r; Servanzi Collio 1850, p. 11; Valentini 1868, pp. 106, 173-174, nota 69; Aleandri 1889, pp. 127-128; Aleandri. 1898, pp. 91-92; Colasanti 1906, p. 276; Mason Perkins 1906, p. 51, nota 2; Venturi 1907, p. 848; Venturi 1915, p. 14; Allgemeines Lexikon 1907-1950, XIII (1920), p. 572; Serra 1923, pp. 459-460; Van Marle 1925, p. 156; Romagnoli 1927, pp. 4647, tav. IIb; Serra 1929, p. 284, fig. 467; Berenson 1932, p. 400; Meiss 1951, trad. it. 1982, p. 210, fig. 137; Marabottini 1951-1952, pp. 44, 46; F.M. Aliberti, in Mostra di opere d’arte restaurate 1965, pp. 14-15; Klesse 1967, pp. 297, n. 207, 417, n. 410a; Berenson, Italian Pictures of the Renaissance, ed. 1957-1968, III/1, p. 304; Donnini, Commento alla mostra 1971, p. 62; A. Rossi, in Pittura nel Maceratese 1971, pp. 57-59; Gubinelli 1975, pp. 59-60; Donnini, Allegretto 1986, pp. 181-182; Ghisalberti 1991, p. 400; Moretti-Zampetti 1992, p. 84, n. 29; Zampetti-Donnini 1992, p. 23; Simi Varanelli 1994, p. 80, fig. 9; A. Paolinelli, in Tecniche di pittura murale 1998, p. 170, n. 29; Marcelli 2004, fig. 44; ‘Dotti amici’ 2007, p. 421. 190

sodio dell’Annunciazione nei pennacchi, ma la posa dei protagonisti, così come la peculiare connotazione dell’iconografia quale Madonna dell’Apocalisse (la falce di luna, le dodici stelle intorno al capo di Maria) e Madonna del Latte, risulta la medesima. In tal modo la nostra Madonna dell’Umiltà si confà ad alcune tra le prime prove su tavola dell’iconografia in Italia: i noti dipinti di Bartolomeo di Camogli (1346) a Palermo, di Roberto di Oderisio e del Maestro delle tempere francescane nel Museo di Capodimonte a Napoli. Le due opere napoletane provengono dalla chiesa di San Domenico maggiore ed un contesto domenicano concerne, oltre il nostro dipinto, anche quelli sopra citati del Ghissi a Fabriano e Montegiorgio. Meiss (1951, ed. 1982) ha infatti messo in rilievo il collegamento tra la diffusione del tema e la sua promozione da parte dell’Ordine dei Predicatori; e, per restare alle Marche, si può aggiungere la Madonna del Latte del cosiddetto Maestro di Bellpuig (o Maestro della Croce di Mombaroccio) a Urbino, la più antica della serie, la cui provenienza dalla locale chiesa San Domenico mi riservo di trattare in altra sede. Mi sembra a tal proposito indicativo che nella sua tavola fermana il Ghissi abbia inscritto nel nimbo della Vergine “Mater ordinis Praedicatorum”. Nella regione anche gli Agostiniani commissionarono fra Trecento e primo Quattrocento varie Madonne dell’Umiltà (egualmente proposte quali Madonna del Latte e dell’Apocalisse), tra cui le due del Ghissi ad Ascoli Piceno e Montegiorgio, quelle di Andrea de’ Bruni a Corridonia e di Olivuccio di Ceccarello a Cleveland (da Fermo). Sulla base delle ricerche sull’argomento dell’ultima metà di secolo è da rivedere l’idea del Meiss secondo cui il soggetto della Mater omnium sia comparso in terra marchigiana solo a cominciare dal Nuzi, ma è a mio avviso da sottoscrivere l’opinione relativa all’esistenza di un prototipo nuziano a monte della Madonna fabrianese del Ghissi del 1359, piuttosto che addebitarne a quest’ultimo (così Donnini, Commento alla mostra 1971) o a Puccio di Simone (così Marabottini 1951-1952, p. 38; F.M. Aliberti, in Mostra di opere d’arte restaurate 1965) la paternità. La prima menzione a stampa della “tavola antichissima” si deve a Severino Servanzi Collio (1850), che la vedeva nella cappella della Neve, la prima a destra della chiesa di San Domenico, o Santa Maria del Mercato, a San Severino. Nell’evidente difficoltà di leggerne la data e la firma, l’erudito la attribuiva al Ghissi; e così faceva Domenico Valentini (1868), collegandone l’esecuzione al 1361 (così poi Aleandri 1889 e Gubinelli 1975), sulla base di un diploma rivolto da Marco, vescovo di Camerino, alla chiesa (trascritta in Turchi 1762, pp. cxxvii-cxxviii, doc. lxxxviii), in cui si faceva esplicito riferimento all’immagine della Vergine «que est in introitu predicte Ecclesie ex parte dextra», in un altare specifico, per la quale si concedevano quaranta giorni di indulgenze. Benché frammentaria, l’iscrizione tuttavia non lascia dubbi circa una gestazione posteriore ed è quindi chiaro come il documento si colleghi ad una diversa opera, che la nostra potrebbe aver sostituito pochi anni più tardi. Bisogna anche tenere presente che la chiesa venne

rammodernata in epoca tardobarocca, con conseguenti alterazioni nell’arredo dei suoi altari. Ma il dipinto era già noto agli eruditi marchigiani: in un significativo appunto dell’aprile 1831 Giuseppe Ranaldi (c. 88r) annotava come il signor Romeo Valentini gli avesse comunicato come esso spettasse ad «Allegretto Nucci maestro di Gentile da Fabbriano» (sic!), mentre con una lettera del 22 ottobre 1837 Camillo Ramelli informava Amico Ricci dell’attribuzione al Ghissi formulata da Raffaele e Gaetano De Minicis (‘Dotti amici’ 2007). Tale riferimento rimase inalterato sino all’intervento di Lionello Venturi (1915), che poteva vedere l’opera nella Pinacoteca e, forse grazie alla rimozione di cornici posticce, leggerne l’iscrizione che ne chiariva la paternità. Lo studioso, come poi Luigi Serra (1923), riusciva altresì a leggere l’ultima cifra della data, relativa ad un’unità, con la conseguente datazione del dipinto al 1366. In seguito solo Zampetti (Moretti-Zampetti 1992), sulla base dell’illeggibilità di tale cifra, ha arretrato la cronologia di un anno, mentre Alessandro Paolinelli (in Tecniche di pittura murale 1998) ha ritenuto valida la lettura del Venturi. Dopo il contributo di quest’ultimo sono stati effettuati due restauri sul dipinto ed oggi la pittura risulta lacunosa al termine della banda con l’iscrizione: sulla base dello spazio residuo sino al limite della tavola, vi è spazio per un’unità al massimo. Con l’eccezione della voce di Alessandro Marabottini (1951-1952), che collegava questo momento del percorso nuziano ad Andrea Orcagna e a Jacopo di Cione, e di quella di Alberto Rossi (in Pittura nel Maceratese 1971), che rilevava le forti corrispondenze con il linguaggio del Ghissi, sono mancate indicazioni specifiche sullo stile dell’opera. La critica ha ovviamente associato ad essa il pentittico di Apiro del 1366 (cat. 37), che dimostra medesime inflessioni sul piano delle morfologie (si veda il viso di tre quarti della Vergine in relazione a quello di santa Lucia) e di una sintetica regolarizzazione dei volumi. Il pattern formato da foglie di vite e grappoli, allusivo alla passione di Cristo e stampato sul manto di Maria, è riproposto con poche varianti nella Madonna col Bambino in trono della Pinacoteca Civica di Fabriano (Klesse 1967), anche cronologicamente non molto distante dalla nostra tavola, così come nella Madonna dell’Umiltà di Fermo del Ghissi. In coerenza con altri dipinti del Nuzi (cfr. cat. 41), motivi di questo genere sono diffusi in ambito fiorentino e si possono citare in tal senso alcune tavole di Jacopo del Casentino (ivi, p. 416, n. 409). Quanto alla decorazione a punzone del fondo oro, si potrà notare come la cornicetta formata da fiori a sei petali e da archetti trilobati, che corre lungo il perimetro della tavola, sia altresì presente nel trittico della Pinacoteca Vaticana (1365), proveniente verosimilmente da Santa Lucia a Fabriano. È in tale frangente, ovvero nella seconda metà degli anni sessanta, che la bottega del Nuzi operò in questa chiesa domenicana, affrescandone la cappella di Sant’Orsola e l’ex sala capitolare dell’annesso convento. È plausibile che esistessero contatti tra l’insediamento fabrianese e quello sanseverinate, atti a favorire la commissione della nostra Madonna. Mauro Minardi

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Allegretto Nuzi (notizie dal 1345-morto tra il 1373 e il 1374) 39. Sant’Antonio Abate, San Giovanni Evangelista cm 153,7 × 95,3

40. San Giovanni Battista, San Venanzio cm 154 × 95,9 settimo decennio del XIV secolo tempera su tavola Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”

Bibliografia. Molajoli 1936, ed. 1968, pp. 67-68; Marcelli 2004, p. 51.

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Le due tavole costituivano in origine gli scomparti laterali di un grande trittico smembrato, che Allegretto Nuzi eseguì per l’abbazia di Santa Maria d’Appennino. Di questa imponente macchina d’altare è stata riconosciuta la predella, in parte custodita nella Kunsthaus di Zurigo e parte presso il Museo di Strasburgo. La tavola centrale, raffigurante la Madonna in trono col Bambino, è stata di recente indicata, a ragione, in quella esposta alla Galleria Nazionale delle Marche in Urbino (Marcelli 2004, p. 151). Come in tutti i numeri riconducibili alla sua parentesi finale, il maestro fabrianese addiviene a una sempre più marcata astrazione formale, cui offre un ampio contributo l’uso apertamente ornativo degli splendidi broccati trapunti d’oro e il lusso smagliante dei fondori operati. Colto ormai da tempo il più alto frutto del suo meditato accordo fra declinazioni toscane e tradizione giottesca, Allegretto convergeva verso sigle espressive prive di quell’intenso e assorto lirismo che aveva così nobilmente improntato le prove della sua piena maturità. Giampiero Donnini

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41. Allegretto Nuzi (notizie dal 1345-morto tra il 1373 e il 1374) Madonna in trono col Bambino e santi Antonio Abate e Giuliano 1369 tempera su tavola; cm 121 × 51 (pannello centrale); cm 110 × 48 (pannelli laterali, ciascuno) Macerata, Cattedrale di San Giuliano Iscrizioni: istam tabulam fecit fieri fra | ter ioannes clericus preceptor | tolentini anno domini mccclxviiii (sul soppedaneo); allegrittus de fabriano me pinxit mccclviiii (nella cornice)

Bibliografia. Ricci 1834, I, pp. 89-90, 110; Anselmi 1893; Berenson 1921-1922; Marabottini 1951-1952; Rossi 1971; Donnini, Commento alla mostra 1971; Boskovits 1973, pp. 18-19; Zeri 1975; Vitalini Sacconi, Macerata 1985, pp. 28-29; Neri Lusanna 1986, p. 418; Zampetti-Donnini 1992, p. 23; Friedman 1996; Marcelli 2004, pp. 34, 37; Blasio 2010, p. 55.

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L’opera, oggi conservata nella Sacrestia dei canonici della cattedrale di san Giuliano a Macerata, proviene dalla chiesa di Sant’Antonio Abate: dopo la sua soppressione, il canonico Francesco Compagnoni Floriani fece trasferire il trittico nel luogo attuale (Ricci 1834, I, pp. 89-90). Sul soppedaneo dove poggia i piedi la Vergine compare l’iscrizione con il nome del donatore e l’anno di committenza (1369), riportata con qualche imprecisione da Amico Ricci (ivi, p. 110, nota 53). Bernard Berenson (1921-1922), Pietro Zampetti e Giampiero Donnini (1992) avevano già ipotizzato che il «frater Ioannes» fosse lo stesso mandatario che aveva commissionato al pittore il trittico con Madonna e santi, realizzato a quattro mani con il fiorentino Puccio di Simone per un’altra chiesa fabrianese (1354), oggi conservato alla National Gallery di Washington. Nella cornice compare la firma del Nuzi e la data di esecuzione, il 1369. Allegretto ripropone, spinto probabilmente dal committente compiaciuto dall’esito della tavola realizzata quindici anni prima, il medesimo schema con la speranza di dimostrarsi degno del suo primo modello: al centro è rappresentata la Madonna col Bambino in trono, con ai lati in primo piano i santi Antonio Abate, Rosa, Benedetto e Caterina d’Alessandria; figure di angeli sono poste in tre ordini sovrapposti. Nei pannelli laterali compaiono a sinistra sant’Antonio Abate e a destra san Giuliano. Nella cuspide centrale si trova il Crocifisso tra i santi Elia e Mosè e in quelle laterali, entro quadrilobi, rispettivamente la Vergine annunciata e l’arcangelo Gabriele. La tavola maceratese, rispetto al trittico Hamilton di Washington, presenta un appiattimento e una maggiore rigidità dei volumi, e una astrazione formale caratterizzata da un ricorso eccessivo alle sete trapunte d’oro, ad incisioni e punzonature a bulino con le quali decora con estrema perizia i nimbi dei santi e il fondo della tavola, secondo un uso tipico dell’ultima fase dell’attività del Nuzi (Rossi 1971, pp. 53-55) caratterizzata da un insistito decorativismo. Se la figura di sant’Antonio Abate, titolare della chiesa per la quale il trittico venne eseguito, è da collegare all’importanza che questo santo eremita ha rivestito per tutta la società rurale fin dall’viii secolo, la figura di san Giuliano Ospitaliere, rappresentato dal Nuzi come un cavaliere abbigliato con un elegante abito trapunto d’oro ispirato al repertorio delle sete lucchesi, invece è strettamente collegata

alla diocesi di Macerata, di cui è il patrono. La prima testimonianza del culto di san Giuliano a Macerata si riferisce al ministerium S. Juliani del 1022 la cui pieve, di cui rimane solo un capitello marmoreo preromanico con una decorazione incisa che nel 1931 monsignor Pietro Scarponi ritrovò incassato come architrave in una volta dei sotterranei dell’attuale chiesa, oggi conservato nel Museo della Basilica della Misericordia, sorgeva sul luogo dell’attuale cattedrale sotto la giurisdizione dell’arcivescovo di Fermo. Fin dalle sue prime apparizioni, nel xiv secolo, l’iconografia maceratese di san Giuliano presenta caratteri ambivalenti: sono infatti proposte due tipologie diverse che rimandano a due tradizioni e a due santi diversi: da un lato vi è l’elegante figura di un giovane che regge un gonfalone e tiene nella mano sinistra una palma, come appare nel trittico del Nuzi, dall’altro vi è la figura di un armato a cavallo che più tardi si caratterizzerà come un soldato la cui spada sostituirà la palma del martirio. Nel 1320 monsignor Federico Sanguigni da Recanati, primo vescovo di Macerata, deciderà di porre nel proprio stemma un cavaliere a cavallo e qualche anno più tardi anche il Comune farà incidere sulla facciata della Fonte Maggiore, costruita nel 1326 dai fratelli mastri di origine maceratese Domenico e Marabeo, la figura di un santo cavaliere, oggi conservata nella Biblioteca comunale. L’iconografia corrisponde a quella di san Giuliano l’Ospedaliere, un santo la cui origine è molto controversa perché il suo nome non figura in alcun martirologio ma solo in qualche Libro d’Ore del xv secolo. La tradizione parla di un benestante mercante fiammingo dal carattere duro e vendicativo che un giorno, partito per la caccia, non esita ad uccidere il padre e la madre coricati nel suo letto credendoli la moglie e il suo presunto amante. Dopo questo fatto decide di cambiare vita e di vagare per l’Europa in cerca dei bisognosi, conducendo una vita di preghiera e di espiazione. Dopo anni di pellegrinaggio arriva sulle rive del fiume Potenza dove traghetta da una parte all’altra pellegrini e malati di lebbra. La leggenda vuole che un giorno un lebbroso stesse cadendo dalla sua barca e lui non si sia tirato indietro dal dargli la mano salvandolo dalle acque; quell’uomo secondo tradizione era il Signore che con quel gesto voleva vedere se Giuliano si fosse realmente convertito. Il sincero pentimento, la reale voglia di espiazione e la vita dedicata alla preghiera e ai poveri bisognosi malati lo consacrarono santo. Andrea Viozzi

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42. Allegretto Nuzi (notizie dal 1345-morto tra il 1373 e il 1374) Sant’Agostino tra san Nicola da Tolentino e santo Stefano 1371-1373 circa tempera e oro su tavola; cm 117,5 × 137 Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli” Iscrizioni: Ante omnia fra | tres k(arissi)mi diliga | tur deus deinde pro | ximus quia ista p(rae) | cepta sunt principa | liter nobis data. | Totum cor meum | flamma tui am | oris accendit et ni | chil in me relinqua | tur michi nequo re || spitiam ad me ipsum set (sic!) | totus in te est. Cum totus | in te ardeam totus diliga(m) | te tanquam inflammat | us abste. Confitebor tibi | domine in toto co(r)de meo. | Super ps(alm)o cxxxvii. | aug(ustin)e lux doctor(um) firma | m(en)tu(m) ecc(lesia)e malleus | he(re)ticoru(m) sum(m)us vas sci(entiae)e | p(ro) tuis fid(e)lib(us) roga d(eu)m q(uae sumus)s (sul libro di Sant’Agostino); s(anctus) stefanus martir (sotto Santo Stefano)

Bibliografia. Ricci 1834, I, p. 89; Cavalcaselle-Crowe 1864-1866, I, p. 196; Cavalcaselle-Crowe 1887, p. 27; Esposizione 1905, p. 34, n. 14; Colasanti 1906, pp. 269, 274-275; Mason Perkins 1906, p. 51; Catalogo della mostra 1907, p. 27, n. 3; Venturi 1907, pp. 845-848, figg. 673-675; Berenson 1909, p. 131; Berenson 1921-1922, p. 305; Van Marle 1925, pp. 158-160, fig. 99; Romagnoli 1927, pp. 57, 65-66, tav. VIIb; Serra 1929, p. 288, fig. 476; Berenson 1932, p. 399; Marabottini 1951-1952, pp. 44, 48-49, fig. 11; Marabottini 1960, p. 477; Kaftal 1965, coll. 128, 821, 1057, fig. 1229; Klesse 1967, pp. 135, 335, n. 271c; Berenson, Italian Pictures of the Renaissance, ed. 1957-1968, III/1, p. 303; Zeri 1975, p. 5; Donnini, Allegretto 1986, p. 182; Neri Lusanna 1986, p. 420, fig. 634; Terraroli 1986; Zampetti 1988, p. 121; Molajoli 1936, ed. 1990, pp. 60-61, tav. VII; Zampetti-Donnini 1992, p. 23, fig. 38; Friedman 1996, p. 323; Marcelli 1997, pp. 56-57; S. Chiodo, in Fioritura 1998, p. 64, n. 3; F. Marcelli, in San Nicola da Tolentino 1999, p. 68, n. 2; Morelli, I taccuini, ed. 2000, p. 137, fig. 271; Marcelli 2004, p. 115, figg. 120, 141-142; Nucera 2004, pp. 123, 124, 126, figg. 4, 7-8, 26, 31, 40, 57, 68, 78, 88-89; M. Minardi, in Immagine e mistero 2005, pp. 28-29, n. 1; G. Pittiglio, in Cosma et al. 2011, pp. 242-243. 196

Le tracce di iscrizioni che permettono di riconoscere santo Stefano continuavano, prima della decurtazione del supporto sul lato inferiore, in corrispondenza degli altri santi. Tracce chiare ma quasi illeggibili di quella sotto sant’Agostino sono infatti ancora ben visibili. Quest’ultimo campeggia in una quasi iconica frontalità al centro e con le loro pose di tre quarti i due santi a lato sembrano rendere omaggio a tale autorità. Il volume include l’incipit della Regula ad servos Dei di sant’Agostino, il commento del santo al salmo 137 (Sermo ad plebem), ossia al canto di ringraziamento di Davide al Signore per la sua misericordia e il suo aiuto nella sventura, ed infine la richiesta di intercessione rivolta al vescovo di Ippona dai suoi fedeli. Sotto l’aspetto del messaggio comunicato attraverso la parola scritta, si tratta di una delle immagini più dense nell’iconografia agostiniana del Trecento marchigiano. L’opera proviene infatti dalla chiesa agostiniana di Santa Maria Nuova a Fabriano, ove si trovava nel XIX secolo (la prima testimonianza è di Amico Ricci 1834), una sede che già nel Duecento si era distinta per la singolarità delle scelte iconografiche in seno alla decorazione murale della sala capitolare del convento (Marcelli, Devozione 1998). Il trittico del Nuzi si pone in continuità con l’affresco raffigurante sant’Agostino che dona la Regola agli Eremiti (cat. 4), rinnovandone in qualche maniera dopo un secolo il significato, a circa un decennio di distanza dalla consacrazione dei primi cinque altari della chiesa, avvenuta nel 1360 (Sassi 1961, p. 52; Molajoli 1936, ed. 1990, p. 157). La posizione frontale del santo e l’ostentazione del volume minuziosamente decorato sottolineano l’intenzione di offrire un’immagine fortemente dogmatica del fondatore dell’Ordine. Una simile impostazione si collega all’iconografia della Consegna della Regola e di sant’Agostino quale “maestro dell’Ordine”, quale si può cogliere in varie raffigurazioni trecentesche (cfr. Kaftal 1952, col. 101; Kaftal 1978, col. 96), non ultima quella in Sant’Agostino a Montalcino, attribuita a Bartolo di Fredi, in cui è posto in enfasi anche il ruolo del santo quale avversario degli eretici (Blume-Hansen 1992); un riferimento, quest’ultimo, qui presente anche nella parte finale dell’iscrizione nel libro. Un’opera di questo tenore, oggi privata della cornice originaria, deve aver avuto una posizione di rilievo nella chiesa di origine, prima del suo passaggio in sagrestia, ove la ricordano Giovanni Morelli nel 1861 (I taccuini, ed. 2000) e Joseph Archer Crowe e Giovan Battista Cavalcaselle (1864-1866), quindi nella Pinacoteca Civica (Cavalcaselle-Crowe 1887). Visti i significati messi in evidenza, si può pensare all’altare maggiore, sebbene le misure siano più idonee ad un altare secondario, entro una cappella o in corrispondenza del tramezzo. Accanto a san Nicola da Tolentino, la presenza di santo Stefano si collega alla funzione svolta da Agostino nella diffusione in Occidente del culto del giovane martire (G. Pittiglio, in Cosma et al. 2011) ed infatti la Lapidazione del santo compare nella decorazione, opera del Maestro di Sant’Emiliano, della cappella alla sinistra di quella maggiore, a fianco delle Storie della Madda-

lena, mentre nella cappella gentilizia sull’altro lato, affrescata dal medesimo artista, si svolgono episodi della vita del vescovo di Ippona. Tra questi figura un riquadro già interpretato come il Transito di san Nicola da Tolentino e, più di recente, come il Transito di Ugo da Fontaines (Marcelli, Devozione 1998, p. 172), accanto ad un altro, assai frammentario, con Sant’Agostino in cattedra, che rinnova il desiderio da parte dei committenti di porre in evidenza l’autorità dottrinale del fondatore. Non sarebbe quindi inverosimile l’originaria collocazione del trittico sull’altare di questa cappella. Il riferimento al Nuzi fu espresso dal Ricci (1834) e da Crowe e Cavalcaselle (1864-1866). Il Colasanti (1906) ne mise in luce quella sontuosità di soluzioni decorative che già aveva attratto l’attenzione di Morelli (I taccuini, ed. 2000) e che la critica avrebbe poi ripetutamente ritenuto tra le componenti formali precipue dell’opera, così come dell’attività finale del pittore. In parallelo, Frederick Mason Perkins (1906, p. 51) ne sottolineò i debiti verso la pittura fiorentina, «in particolar modo di Bernardo Daddi», mentre il Van Marle (1925) faceva piuttosto il nome di Jacopo di Cione. La critica ha poi posto l’accento sul venir meno dei valori spaziali e della vitalità espressiva, comune alle opere tarde del maestro (Serra 1929), che fanno di questo trittico un capolavoro di «freddo splendore» (Marabottini 1951-1952, p. 49). La cronologia dell’opera si è quindi polarizzata tra il 1366 circa, data del pentittico di Apiro (cat. 37; Colasanti 1906; Van Marle 1925), e il 1372-1373, quando l’artista licenziò la Madonna di Urbino, poco prima della sua scomparsa (Marabottini 1951-1952; Terraroli 1986; Zampetti-Donnini 1992; Friedman 1996; S. Chiodo, in Fioritura 1998 F. Marcelli, in San Nicola da Tolentino 1999; Marcelli 2004). A questo proposito, Romualdo Sassi (1924, p. 478) fissò la data di morte dell’artista tra il 26 settembre 1373, data del testamento di quest’ultimo, e il successivo 20 novembre, quando egli dice sorsero le prime controversie tra gli eredi. Ma quest’ultimo documento non viene più citato negli studi monografici recenti, ove si dà invece valore ad un atto del 28 settembre 1374, relativo alla divisione dell’eredità (Felicetti 1998, p. 216, n. 65; Marcelli 2004, p. 10). A partire da Federico Zeri (1975), che suggerì la partecipazione nell’esecuzione di Francescuccio di Cecco Ghissi, alcuni studiosi hanno altresì proposto la presenza di collaboratori per giustificare la rigidezza dei santi (Zampetti 1988; Marcelli 1997). Nel commentare l’opera alcuni anni fa (in Immagine e mistero 2005), ho segnalato che tale problema investe con maggiore evidenza altre opere della fase tarda del Nuzi, mentre tavole quali la Madonna di Avignone rivelano piuttosto la mano del Ghissi (cfr. Laclotte-Moench 2005, con menzione di altri pareri concordi). Si può aggiungere che la trasformazione della pedana in un tessuto vermiglio finemente trapuntato eguaglia il trittico di Macerata (1369; cat. 41) e i quattro Santi della Pinacoteca Civica di Fabriano (cat. 39, 40), essendo così un elemento aggiuntivo per una datazione da porsi intorno o poco oltre il 1370. Il pattern della dalmatica di santo Stefano e

della tunica di san Venanzio nella tavola fabrianese, in cui si intrecciano racemi vegetali, tartarughe e pappagalli affrontati, ricompare nella veste di san Giuliano del trittico di Macerata e fa la sua comparsa nel trittico di Washington di Puccio di Simone (1354; Klesse 1967), proveniente da Fabriano, opera in cui collaborò lo stesso Nuzi. Tale sfarzo esornativo difficilmente si può addebitare all’influenza esercitata dalle tavole veneziane scese nelle Marche (così suppose per primo Marabottini 1951-1952, seguito da vari studiosi), poiché le soluzioni ornamentali nella

resa dei tessuti trovano piuttosto rispondenza nella produzione fiorentina del secondo Trecento (cfr. Klesse 1967, pp. 336-337, nn. 272-273; Monnas 1990, speciatim p. 53). Si vedano, ad esempio, le coeve Incoronazioni della Vergine di Jacopo di Cione, Nicolò di Tommaso (?) e Simone di Lapo (1372-73; Firenze, Galleria dell’Accademia) e di Giovanni del Biondo (1372; già Richmond, collezione Cook). Agli orientamenti del filone orcagnesco si adegua la presentazione iconica dei santi, con l’importante modello della Pala Strozzi (1354-1357) di Andrea di Cione. Queste

varie corrispondenze invitano pertanto a considerare l’opportunità avuta dal Nuzi di compiere continui aggiornamenti nell’ambito fiorentino, probabilmente anche dopo il 1360. Il pittore mostrò di adeguarsi a queste tendenze, dedicando un’attenzione costante nei suoi ultimi anni di attività anche alla lavorazione delle superfici dorate variamente operate (incise, punzonate, puntinate), come rivelano vari dettagli preziosi delle tavole qui esaminate. Mauro Minardi 197

43. Francescuccio di Cecco Ghissi (Fabriano, notizie dal 1345 al 1374) Madonna col Bambino tra santi Nicola di Bari, Giovanni Evangelista, Giovanni Battista, Venanzio seconda metà del xiv secolo tempera su tavola cuspidata; cm 122 × 173 Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”

Bibliografia. Molajoli 1936, ed. 1968, pp. 57-58; Re-Montironi-Mozzoni 1987, p. 184; Zampetti 1988, p. 120; Di Giannantonio 1990, pp. 24-25; Zampetti-Donnini 1992, p. 24; Uncini 1995, p. 14; Zucconi Galli Fonseca 2009, p. 32.

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L’opera, oggi conservata nelle sale della Pinacoteca Civica di Fabriano, proviene dall’abbazia di Santa Maria d’Appennino ed è di proprietà del capitolo della cattedrale (Molajoli 1936, ed. 1968, pp. 5758). Il cenobio fu fondato nel X secolo per opera dei monaci benedettini, probabilmente dallo stesso san Romualdo intorno al 950. È il primo monastero dell’Appennino dell’Alta Umbria, probabilmente anteriore anche all’abbazia di Fonte Avellana e sorge sulla valle a ridosso del monte Maggio e ai piedi della sorgente del fiume Giano. Nel 1156 papa Adriano IV pose il cenobio sotto la sua protezione, riconoscendogli il possesso di ben trentadue chiese. Nel 1236 l’abbazia fu assoggettata al Comune di Fabriano e nel 1441, in seguito ad una bolla di papa Eugenio IV, fu unificata alla mensa capitolare di San Venanzio. L’importanza del monastero è testimoniata anche dal fatto che a decorarlo vennero chiamati alcuni fra i più importanti pittori fabrianesi come il Maestro di Campodonico e Allegretto Nuzi. Il 30 dicembre 1982 un’abbondante nevicata causò il crollo di gran parte della struttura dell’abbazia; restano ancora visibili solo il cenobio con la volta a botte ed alcuni portali romanico-ogivali in pietra. Il pentittico è stato per molti anni attribuito genericamente alla scuola di Allegretto Nuzi (ivi, p. 57) richiamando nella tipologia e nelle decorazioni i modelli del Maestro, mentre l’incertezza del segno e la grossezza del modellato facevano presagire ad un lavoro di bottega. Gli studi di Donnini e Zampetti (1992) alla fine del XX secolo sui pittori fabrianesi hanno permesso di inserire il pentittico nel catalogo del Ghissi, riconoscendo la sua sigla soprattutto nei tratti del viso della Vergine, caratterizzato dagli occhi a mandorla fortemente allungati e rilevati da palpebre gonfie e pesanti, e nella figura del Bambino che mostra una certa familiarità con i fratellini di Montegiorgio e di Fermo (cat. 45, 46). Purtroppo il cattivo stato di conservazione della tavola, che presenta molte cadute di colore in diversi punti della pannellatura lignea, non permette di poter ammirare nella sua interezza l’abilità, ereditata dal Nuzi, suo maestro, con la quale il Ghissi faceva uso dei punzoni e dei bulini per decorare le sue tavole. Le figure a mezzo busto di san Nicola e di san Giovanni Battista sembrerebbero evidenziare invece un accenno di naturalezza e di verità oggettiva

insolito per l’autore; forse rimase così colpito dagli affreschi dell’abbazia di Santa Maria d’Appennino, realizzati anni prima dall’ignoto Maestro di Campodonico (cat. 26), che cercò di emularne alcuni passaggi formali. Nello scomparto centrale del pentittico viene raffigurata a mezzo busto la Vergine col Bambino in braccio a cui stringe teneramente la manina destra; più imponente degli altri santi raffigurati negli scomparti laterali, Maria indossa una tunica rossa con ornati bianchi e trapunta in oro e un manto verdastro, purtroppo con molte cadute di colore, foderato di vaio e decorato con motivi a girali e pampini bianchi. Negli scomparti laterali, ugualmente a mezza figura, vengono rappresentati alla destra della Vergine san Giovanni Evangelista, che sorregge con ambo le mani un libro ornato da pastiglie aure che simulano castoni di pietre dorate, e san Nicola di Bari in abiti vescovili che benedice con la mano destra e regge il pastorale con l’altra; alla sinistra dello scomparto centrale vengono raffigurati i due santi più importanti per la comunità religiosa fabrianese: il santo patrono Giovanni Battista e san Venanzio di Camerino a cui è intitolata la cattedrale di Fabriano dal 1253, anno in cui il vescovo Guglielmo vi trasferiva il battistero erigendo così il luogo a chiesa madre della città. Il Battista è l’unico fra i santi effigiati che volge lo sguardo al gruppo centrale, dando vita ad una sacra conversazione con la coppia celeste; attira, infatti, la loro attenzione alzando due dita della mano destra, nel gesto della invocazione, mentre con la sinistra sorregge il cartiglio con il celebre versetto del Vangelo: Ecce agnus Dei qui tollit peccata mundi (Gv 1,29). San Venanzio viene invece raffigurato nel consueto aspetto di un giovinetto con il caschetto biondo; indossa una veste rosea con la scollatura grigia e il mantello lungo di colore rosso e sorregge a due mani l’asta della bandiera con i colori della città di Camerino (Zucconi Galli Fonseca 2009, p. 32). Nelle cuspidi esterne sono dipinte due mezze figure di santi: santa Caterina d’Alessandria a sinistra, particolarmente venerata dalle comunità monastiche fabrianesi, e sant’Antonio Abate a destra; ai lati della cuspide centrale, dove la rappresentazione del Crocifisso è quasi totalmente perduta, appaiono invece due figure angeliche rivolte in preghiera verso il Cristo. Andrea Viozzi

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44. Francescuccio di Cecco Ghissi (Fabriano, notizie dal 1345 al 1374) Madonna dell’Umiltà 1359 tempera su tavola; cm 147 × 111 Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli” Iscrizioni: nostra d(omi)na de umilitate anno d(omi)ni mccclviiii | francisscutius cicchi fecit hoc opus

Bibliografia. Scevolini 1627, c. 947; Ricci 1834, I, pp. 90-91, 110, n. 59; Milani 1883, p. 68; Colasanti 1906, p. 276; Mason Perkins 1906, p. 51; Venturi 1907, p. 848; Lorenzetti 1928, p. 77; Molajoli 1928, p. 17; Serra 1929, p. 292, fig. 485; Berenson 1932, p. 228; Molajoli 1936, p. 20; Sassi 1961, pp. 36-38; Klesse 1967, pp. 368, 384, nn. 323, 354; Molajoli 1936, ed. 1968, pp. 31, 130; Donnini 1973, p. 29; Zeri 1975, p. 5; Zampetti-Donnini 1992, pp. 2425; Simi Varanelli 1995, p. 377; Cleri 1997, pp. 16-19; S. Chiodo, in Fioritura 1998, pp. 66-67, n. 4.

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Il dipinto, oggi conservato per motivi di sicurezza presso i locali della Pinacoteca Civica di Fabriano, proviene dalla chiesa fabrianese di Santa Lucia Novella, nota anche con il titolo di San Domenico. Nel 1300, infatti, il cardinale Orsini la concesse ai padri domenicani che, nel corso del XIV secolo, dovettero provvedere ad una sostanziale ricostruzione e ampliamento dell’edificio con la conseguente annessione del convento. L’importanza della chiesa per la comunità fabrianese è testimoniata dal fatto che ad aiutare i padri predicatori nelle spese di ristrutturazione sostenute tra il 1363 e il 1365 furono direttamente i Chiavelli, signori di Fabriano. La tavola, firmata e datata 1359, rappresenta la prima opera conosciuta di Francescuccio di Cecco Ghissi; in basso a destra è visibile infatti l’iscrizione che ne attesta la paternità e la datazione. Ad un restauro effettuato nel 1674 si deve, invece, la scritta che compare sul verso: de a(nno) 1674 rest(aurat)a fuit a io(h)a(nn)e bapt(ist)a de magistris p.s.d. L’opera costituisce uno dei più antichi esempi di Madonna del Latte conservato nelle Marche e il primo di una lunga serie realizzata dallo stesso Francescuccio nel territorio regionale. Tale iconografia aveva anche un nome latino ben definito: Madonna lactans o Virgo lactans, a cui spesso si aggiungeva monstra te esse matrem, ovvero “mostrati madre di tutti”, che non è null’altro che un passaggio della preghiera Ave Maris Stella. Si tratta di un inno della liturgia delle ore molto popolare, che può essere datato al IX secolo, dato che lo si trova nel Codex Sangallensis, un manoscritto onciale diglotto greco-latino di quel periodo, ora conservato presso il monastero svizzero di San Gallo. A Fabriano, inoltre, tale tesi viene rafforzata anche dalla presenza nel XIV secolo dei beati Giovanni e

Pietro Becchetti sacerdoti dell’Ordine degli Eremiti di sant’Agostino. La Vergine, seduta su un cuscino irradiante di luce, stringe tra le sue braccia il Figlio che sugge dal suo seno il latte. È avvolta in eleganti vesti decorate con motivi geometrici, vegetali ed animali dipinti in oro. Il mantello blu, simbolo della trascendenza e del mistero della vita divina della quale la Madre di Dio è profusa, è ornato da losanghe dorate e decorate con motivi floreali, mentre la tunica rossa sottostante simboleggia la futura passione del Figlio, come attestano le decorazioni in oro raffiguranti dei cardellini posati su tralci di vite e grappoli d’uva. Lo stilobate marmoreo che separa la scena del fondo, lo zendado bianco sorretto da tre nastrini rossi appeso dietro le spalle di Maria, il pavimento rialzato e il cielo azzurrino sono elementi aggiunti in una ridipintura di gusto crivellesco del XV secolo. Uscito dalla bottega di Allegretto Nuzi, che affiancò nell’esecuzione di molti dipinti, il Ghissi sembra compiere il suo esordio come “pictor” proprio con la Virgo lactans di Fabriano. La tavola, nonostante il segno non del tutto fluido e i tratti del modellato ancora duri, rivela tutti gli elementi caratteristici della sua pittura: la tenerezza sentimentale, l’attenzione riposta nelle decorazioni e quell’aria effimera che trasforma il gruppo divino in una «crisalide trapunta d’oro» (Donnini 1973, p. 29), pronta a compiere il disegno celeste. L’opera è stata oggetto di grande venerazione a Fabriano nel corso del XVI secolo; nel 1519, infatti, pregando dinanzi ad essa la beata Bianca da Fabriano e la beata Ruffina di Ascoli Piceno ottennero la grazia della liberazione della città dalle invasioni delle milizie di papa Leone X e la vittoria delle truppe cittadine, comandate da Battista Zobicco e da Tebaldo di Pietrangelo Guerrieri, contro l’esercito avversario. Andrea Viozzi

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45. Francescuccio di Cecco Ghissi (Fabriano, notizie dal 1345 al 1374) Madonna dell’Umiltà 1374 tempera su tavola; cm 167 × 149 Montegiorgio (Fm), Chiesa di Sant’Andrea Iscrizioni: hoc opus fecit et dipinsit franciscutius ghissi de fabrianio sub anno domini mccclxxiv

Bibliografia. Parronchi 1964, pp. 124-128; Zampetti 1988, p. 121; Zampetti-Donnini 1992, pp. 25, 66; Simi Varanelli 1995, p. 378; Marcelli, Botteghe 1998, pp. 148-150; F. Marcelli, in Il Gotico internazionale a Fermo e nel Fermano 1999, pp. 72-73, n. 1; S. Papetti, in Gli Agostiniani nelle Marche 2004, pp. 72-74, n. 40; Pinacoteca comunale di Fermo 2012, p. 80.

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La preziosa tavola di forma rettangolare, oggi conservata presso la chiesa di Sant’Andrea, proviene dalla chiesa di Sant’Agostino di Montegiorgio oggi non più esistente. Gli Eremiti di Sant’Agostino della congregazione dei Brettinesi nel 1265 si insediarono in località Cisterna di Montegiorgio, quando la chiesa di San Salvatore rimase abbandonata; ultimati i lavori di ristrutturazione nel 1268 vi aggiunsero il titolo di Sant’Agostino. Il convento venne soppresso nel 1808 e i beni furono incamerati nel demanio napoleonico; nel 1812, crollato completamente il tetto con gran parte delle mura laterali, la chiesa di Sant’Agostino venne definitivamente chiusa e il titolo parrocchiale trasferito nella chiesa di Sant’Andrea già di pertinenza del soppresso Ordine delle monache Clarisse. A sottolineare l’importanza architettonica della chiesa agostiniana rimangono oggi il portale archiacuto, frammenti di affreschi quattrocenteschi che lasciano intravedere figurazioni più antiche e, all’interno, la sacrestia con volta a crociera costolonata decorata con affreschi del XV secolo. Per l’Ordine agostiniano di Montegiorgio Francescuccio Ghissi firma e data l’opera nel 1374. L’iconografia della Madonna lactans o Virgo lactans si sviluppa proprio nell’antica città papale di Avignone intorno al 1340, come testimonia la decorazione ad affresco della lunetta del portale centrale della cattedrale di Notre-Dame des Doms, commissionato nel 1336 dal cardinale Jacopo Caetani degli Stefaneschi a Simone Martini. La Madonna di Montegiorgio, avvolta entro un manto arabescato, sotto un cielo dorato cosparso di

stelle, viene rappresentata sotto un arco seduta su un cuscino mentre stringe al petto il Bambino intento a suggere il latte dal seno materno. Accanto a lei posto in secondo piano appare un angelo adorante inginocchiato, motivo che rinviene anche negli angeli della Madonna dell’Umiltà di Ascoli Piceno, colto in un atteggiamento impacciato, con le mani conserte al seno ed una corona di fiori; sfoggia una preziosa tunica ordita d’oro ed ha il capo cinto di rose bianche e rosse. Sopra il capo della Vergine, rappresentata come donna dell’Apocalisse, si staglia una corona di dodici stelle e ai suoi piedi è raffigurata una mezza luna (Ap 12,1). In alto entro due clipei, dipinti a mezzo busto, con movenze innaturali e rappresentati con una secchezza del modellato, segno di una rigidità figurale propria dell’arte di Francescuccio, compaiono l’arcangelo Gabriele e Maria mentre la celebre frase di saluto del messaggero divino, Ave gratia plena, viene incisa sull’aureola della Madonna del Latte. Il mistero dell’incarnazione congiunto a quello dell’umanità di Cristo, che sugge il latte da sua Madre, sono appunto fra i dogmi più importanti per l’Ordine agostiniano. Nella tavola compare anche la celebre scritta Pulchra est ut luna; si tratta del motto mariano con il quale san Tommaso d’Aquino nella sua Opera omnia descrive la Vergine, bella come la luna; Cristo, infatti, viene definito il sole di giustizia, sorgente unica di luce; la Chiesa come la luna e, come la Madonna dell’Umiltà, riceve da lui, ad ogni istante, tutto il suo splendore. Andrea Viozzi

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46. Francescuccio di Cecco Ghissi (Fabriano, notizie dal 1345 al 1374) Madonna dell’Umiltà ottavo decennio del xiv secolo tempera su tavola; cm 177 × 95 Fermo, Pinacoteca Comunale

Bibliografia. Ricci 1834, I, p. 90; Raffaelli 1889, p. 13; Trebbi-Filoni Guerrieri 1890, p. 134; Cavalcaselle-Morelli 1896, p. 201; Colasanti 1906, pp. 263-264; Gnoli 19211922, p. 578; Pellati 1922, p. 253; Serra, Le Gallerie [1925], p. 99, n. 14; Molajoli-Rotondi-Serra 1936, p. 247; Parronchi 1964, pp. 124-128; Dania 1967, pp. 24-25; Pupilli-Costanzi 1990, p. 199, n. 675; Zampetti-Donnini 1992, pp. 25, 66, fig. 50; Simi Varanelli 1995, p. 378; F. Marcelli, in Il gotico internazionale a Fermo e nel Fermano 1999, pp. 7273, n. 1; Mazzocchi 2004, pp. 54-55; Pinacoteca comunale di Fermo 2012, pp. 21, 80.

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L’opera, conservata dal 24 settembre 1913 presso i locali della Pinacoteca Comunale di Fermo, proviene dalla chiesa concattedrale di San Domenico (Pinacoteca comunale di Fermo 2012, pp. 21, 91). I due pionieri della Storia dell’arte italiana postunitaria, Giovanni Battista Cavalcaselle e Giovanni Morelli, nel loro inventario di opere d’arte disseminate in Umbria e nelle Marche, territori dello Stato della Chiesa da poco annessi al Regno d’Italia, nel 1896 descrivono «dietro l’altar maggiore, in coro» una Madonna «opera della scuola di Fabriano» (p. 201). Filippo Raffaelli, tre anni più tardi, attribuendola alla maniera di Gentile da Fabriano, documenta che il «frammento di bellissima tavola», con la Madonna dell’Umiltà, era collocato «entro barocca cornice seicentistica a grandi fogliami dorati» (1889, p. 13). La cornice, eliminata al momento dell’ingresso nella Pinacoteca, probabilmente venne inserita nei secoli XVII o XVIII, quando il dipinto venne tagliato su quattro lati riducendo la figurazione al solo gruppo divino, a seguito dei lavori di realizzazione della grande cantoria nell’abside della chiesa (Pinacoteca comunale di Fermo 2012, p. 80). Riprendendo quanto affermato dal Raffaelli anche Francesco Trebbi e Gabriele Filoni Guerrieri (1890) la inseriscono nel registro di Gentile, mentre ai modi del pittore recanatese del XV secolo Giacomo di Nicola l’avvicina Umberto Gnoli (1921-1922). Sarà Luigi Serra (Le Gallerie [1925]), dopo un iniziale accostamento alla maniera del pittore fabrianese Francesco di Gentile attivo nelle Marche tra il sesto e l’ultimo decennio del XV secolo, a stabilirne la paternità a Francescuccio di Cecco Ghissi (Molajoli-Rotondi-Serra 1936, p. 247). Il modello della Madonna dell’Umiltà, Madonna lactans o Virgo lactans, conobbe grande diffusione nel Trecento anche grazie all’azione compiuta dagli ordini mendicanti nel voler esaltare la figura di Maria, coniando nuovi modelli iconografici che fossero pervasi anche di valori dottrinali. La Madonna dell’Umiltà seduta a terra (il termine humilitas deriva proprio dalla parola latina humus, “terra”) incarna uno dei cardini più importanti per la Regola mendicante, che prevedeva appunto l’umiltà come la prima e indispensabile virtù, l’unica in grado di perfezionare ogni altra.

Nelle Marche del XIV secolo l’Ordine agostiniano fu certamente quello più stimolato a diffondere questa iconografia mariana, anche perché alla formazione della figura della Madonna dell’Umiltà hanno contribuito gli scritti In salutationem et annunciationem e In canticum deiparae Mariae Virginis redatti dall’agostiniano Agostino Trionfi (Ancona, 1243-Napoli, 1328) nella corte papale di Avignone intorno al 1328 e poi diffusi in tutta Europa (Parronchi 1964, p. 124). La datazione della tavola fermana è prossima all’esemplare conservato nella chiesa agostiniana di Sant’Andrea di Montegiorgio (1374; cat. 45), anche se il segno più sicuro, il tratto più maturo del modellato e la stupefacente declinazione formale delle decorazioni ornative, la lascia supporre successiva di qualche anno (Zampetti-Donnini 1992, p. 25). Maria, seduta a terra e non su un trono, come una madre amorosa è intenta ad allattare il suo bambino; entrambi rivolgono il loro sguardo verso il fedele e la leggera smorfia che si coglie nel volto della Madre richiama l’attenzione sul fatto che il Figlio che sta nutrendo sarà a breve nutrimento per l’umanità intera (Pinacoteca comunale di Fermo 2012, p. 80). Al sacrificio eucaristico alludono, infatti, i meravigliosi grappoli d’uva dorati che campeggiano lungo il manto blu lapislazzuli della Vergine, mentre le fenici auree sulla tunica rosso porpora raccontano della successiva resurrezione di Cristo. Se l’impostazione di Maria seduta su un cuscino a terra sottintende la sua umiltà, la ricchezza del suo abbigliamento, l’abito trapuntato, il manto blu foderato di vaio, le dita inanellate, il velo finemente dorato che avvolge Gesù Bambino simboleggiano la sua regalità. L’essersi fatta l’ultima fra i figli di Dio non sminuisce infatti la sua dignità regale di Mater Dei. Nella tradizione iconografica sono gli stessi angeli che coprono con un manto d’oro, segno della trascendenza divina, il mistero dell’Incarnazione. La Vergine, donna dell’Apocalisse vestita di sole con le dodici stelle in capo, è dunque povera e regale allo stesso tempo; umile in apparenza, ma in realtà ricchissima perché il Bambino che stringe forte a sé rappresenta uno straordinario tesoro per l’umanità. A tal motivo volge lo sguardo al fedele, inducendolo ad accogliere questo mysterium fidei che per lei fin dall’annuncio dell’angelo diventò Verità e Vita. Andrea Viozzi

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47. Francescuccio di Cecco Ghissi, attribuito (Fabriano, notizie dal 1345 al 1374) Angelo di san Matteo 1350 circa affresco staccato e incollato su tavola; ø cm 107 Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria Restauro eseguito in occasione della mostra da COO.BEC., a cura della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana

Bibliografia. Salmi 1921-1922; Santi 1969, pp. 81-82 (con bibliografia precedente); Boskovits 1973, pp. 18-19; Donnini 1996; Marcelli 2004; Benazzi 2006, pp. 317-318; Donnini, La presenza 2006.

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L’affresco è registrato nell’inventario della Galleria Nazionale dell’Umbria del 1918 come proveniente dalla chiesa di San Domenico Vecchio di Perugia. Venne staccato dalla volta della cappella a destra dell’altare maggiore, detta di San Nicola e forse mausoleo della famiglia Guidalotti, ed era contenuto nel tondo sottostante l’evangelista Marco ancora conservato in situ dopo la distruzione della volta secentesca (1956) che obliterava la copertura originale. Dalla stessa cappella proviene anche il frammento con il Creatore (Galleria Nazionale dell’Umbria, inv. 43) facente parte della decorazione della lunetta sinistra rappresentante la Creazione di Eva, che fece il suo ingresso in Galleria molti anni prima, nel 1878, come registrato dall’inventario di quell’anno. Quest’ultimo affresco venne sottoposto a restauro da Arnaldo Blasetti nel 1954 e ancora, nel 1958, quando il restauratore intervenne per consolidare la pellicola pittorica e realizzare una pesante reintegrazione a tratteggio anche sull’Angelo. Nel 1925 Raimond van Marle (pp. 58-59) riferì l’intero ciclo di San Domenico a un pittore umbro della seconda metà del Trecento e più tardi Francesco Santi (1969, pp. 81-82) pubblicò l’affresco come di pittore di stretta osservanza giottesca della metà del Trecento. Nel 1973 era esposto alla Galleria Nazionale dell’Umbria sotto tale attribuzione e fu Miklós Boskovits (1973, p. 18) il primo a rintracciare nella «tenerezza con cui il pittore definisce le forme» e nei tratti fisionomici

delle figure un artista che aveva mantenuto rapporti con la Toscana ma che si era formato altrove, e propose il nome di Allegretto Nuzi la cui presenza a Perugia è segnalata nella chiesa di Sant’Agostino. Collegando tra loro diverse opere, dalla Crocifissione nella cappella sinistra del coro della cattedrale agli affreschi della sacrestia della chiesa domenicana di Fabriano, per passare al polittico del palazzo Municipale di Apiro (cat. 37), ricostruì un corpus che pensò di poter attagliare alla produzione più antica del Nuzi, prima del suo viaggio a Firenze del 1346. Nel nostro affresco rimandano al pittore fabrianese il modo di panneggiare la figura, la tipologia del volto con guance gonfie e il collo cilindrico, ma gli esiti più morbidi e leggermente avanzati fanno pensare ad un artista più giovane per il quale si è proposto il nome di Francescuccio di Cecco Ghissi. Questi, riscoperto dalla critica dell’ultimo quarto del secolo scorso, collabora a partire dal 1345 con Allegretto e sarà attivo diversi anni dopo la morte del maestro, nel 1373. La sua pittura si caratterizza per una delicata interpretazione della lezione daddesca e orcagnesca, sulla scia del maestro. Questo Angelo risarcito pesantemente dall’intervento di restauro del 1958 mostra la capacità di saper reinterpretare alla luce di una cultura autoctona le imperanti formule fiorentine, mescolando elementi arcaici con stilemi più aggiornati e rappresenta uno dei rarissimi documenti esistenti della corrente giottesca a Perugia. Federica Zalabra

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48. Bottega di Allegretto Nuzi Quattro Profeti seconda metà del XIV secolo affresco staccato, trasportato su telaio; cm 34 × 34 Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”

Bibliografia. Serra, Le Gallerie [1925], p. 90; Molajoli 1936, ed. 1968, p. 91; Heimann 1965; Zampetti 1988, p. 120.

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I dipinti a fresco, oggi di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana, sono stati staccati dalla chiesa fabrianese di San Giovanni del Cantone e sono conservati nelle sale della Pinacoteca Civica di Fabriano. Non privo di interesse storico e artistico, l’edificio sacro per necessità edilizie venne demolito nel 1902 per costruire un fabbricato che poi divenne il palazzo della Fondazione Carifac. Luigi Serra (Le Gallerie [1925], p. 90) cataloga i quattro clipei come scuola fabrianese del XIV secolo, mentre Bruno Molajoli (1936, ed. 1968, p. 91), pur condividendo l’attribuzione del Serra, ravvisa in essi i consueti caratteri stilistici di derivazione dall’arte di Allegretto Nuzi. La mano del maestro potrebbe essere colta soprattutto nei due profeti del registro inferiore, proprio in quegli elementi che sono alla base del suo linguaggio stilistico: la costruzione volumetrica delle figure avvolte da pesanti vesti, la delicatezza dei toni e dei gesti, la trasparenza dei colori, gli occhi a mandorla dei profeti, i loro visi allungati e taglienti, le palpebre gonfie e pesanti. L’intervento di bottega, più evidente nei due profeti coronati, ci spinge a ipotizzare il Nuzi avanti negli anni, collocando i frammenti d’affresco di san Giovanni prossimi agli affreschi di sant’Orsola nella chiesa di San Domenico di Fabriano (1365), i cui echi nei clipei sono evidenti maggiormente nel taglio allungato degli occhi e nella delicatezza con la quale il maestro foggia le ondulature dei capelli dei personaggi. Sia Serra che Molajoli identificano solo la figura a mezzo busto del profeta Davide nel primo clipeo in alto a sinistra, con la corona di re d’Israele. Il più giovane dei sette figli di Iesse fu infatti unto da Dio per guidare il suo popolo, fondando una dinastia che regnò per quattro secoli sul regno di Giuda, dalla quale discende anche san Giuseppe, posto dall’evangelista Matteo come ultimo anello della lunga genealogia della casata di Davide che apre il Vangelo (Mt 1,1-16). Nell’affresco viene raffigurato come un imperatore orientale, nel pieno rispetto dei canoni iconografici dell’arte paleocristiana e bizantina: cinto con corona, tunica e clamide con tablíon in oro, con in mano il libro e lo scettro del potere.

Negli scritti teologici, infatti, egli ricopre un ruolo di rilievo, presentando caratteri contraddittori: semplice pastore e glorioso sovrano, nell’antitesi humilitas e sublimitas (Heimman 1965). Nel clipeo a fianco compare un altro profeta incoronato, raffigurato di profilo con lo sguardo rivolto verso Davide; si tratta probabilmente del re Salomone suo figlio e successore al trono d’Israele, raffigurato nella consueta iconografia con la barba e sontuosamente vestito alla maniera dei re bizantini; nel cartiglio che sorregge con la mano sinistra compare un’iscrizione in cirillico, proprio come nelle icone bizantine. Un prezioso manoscritto greco del VI secolo potrebbe essere l’incipit per i nostri clipei. Probabilmente noto nella seconda metà del XIV secolo ai copisti e ai pittori fabrianesi, il prezioso Codex purpureus Rossanensis contiene parte di un tetravangelo e alcune splendide miniature. Conservato nel Museo Diocesano di Rossano Calabro, è uno dei cinque manoscritti purpurei scritti in greco onciale conservati fino ai nostri giorni. Esso comprende quindici illustrazioni decorative, superstiti immagini di un più ampio corredo iconografico, aventi per soggetto fatti, avvenimenti, parabole riguardanti la vita e la predicazione di Gesù Cristo. Di esse, dieci presentano la medesima impostazione visiva e grafica: la parte superiore è occupata dalla scena evangelica ed è separata da una sottile linea blu dalla scena inferiore, che è riservata, nella parte centrale, agli stessi quattro profeti del nostro affresco, dipinti a mezzo busto con il braccio destro alzato e con l’aureola, mentre Davide e Salomone indossano anche la corona regia; al di sotto dei profeti, che con la mano destra indicano l’avverarsi delle loro profezie nella scena superiore, ci sono infine le loro citazioni in cartigli o rotoli. Probabilmente i quattro clipei decoravano la parte sottostante di un affresco ben più ampio nella chiesa di San Giovanni al Cantone, raffigurante una scena della vita di Cristo, forse una descritta in una delle quindici pagine miniate del codex; le scene con le didascalie, indicando il soggetto o riportando parole pronunziate da qualche personaggio, e le figure dei profeti con passi delle loro profezie mirano a segnare la concordanza tra il Vecchio e il Nuovo Testamento. Andrea Viozzi

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49. Anonimo maestro Crocifissione xiv secolo affresco staccato; cm 210 × 190 Sassoferrato (An), Chiesa di San Pietro

Bibliografia. Serra 1929, pp. 279-296; Pagnani, Storia di Sassoferrato 1959, pp. 236-241; Donnini-Parisi Presicce 1994, pp. 82-83, 143-145.

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L’affresco è conservato nella prima cappella di sinistra, denominata “Altare del Crocifisso” (ex cappella del Sacramento), della chiesa di San Pietro di Sassoferrato. Non risultano purtroppo documenti d’archivio riguardanti autore e storia dell’opera; la comunità locale dà testimonianza del fatto che, in origine, si trovava nella chiesetta di San Michele Arcangelo, edificio di epoca romanica, parrocchia e priorato benedettino appartenente all’abbazia di Nonantola. La chiesa, sconsacrata e adibita ad uso profano già dal 1910 circa, attualmente oggetto di lavori di restauro, ospitava l’affresco con la Crocifissione nel lato nord. La comunità di Sassoferrato, inoltre, ricorda che, a metà degli anni sessanta del Novecento, l’affresco fu staccato, con la tecnica dello strappo, e trasferito nella chiesa di San Pietro, nella sua collocazione attuale. Una conferma di quanto tramandato dalla memoria locale è costituita dall’Inventario effettuato nella chiesa di S. Pietro e di S. Francesco in occasione della presa di possesso avvenuta il 10/10/1976, redatto dal parroco della chiesa di San Pietro, don Domenico Becchetti: nell’inventario, al punto 19, in cui inizia l’elenco delle opere del lato sinistro dell’edificio sacro, risulta effettivamente una «Crocifissione con Cristo». L’affresco, nella didascalia in San Pietro, è attribuito alla «Scuola fabrianese A. Nuzi 1300»; ad un attento esame l’opera risulta risalire certamente al xiv secolo e deve essere stata realizzata da un pittore marchigiano, che al momento, però, rimane ancora ignoto. Al centro c’è Gesù crocifisso, con il volto reclinato, gli occhi socchiusi e un’espressione di dolore, accentuata soprattutto dalla bocca leggermente contratta; il suo capo è cinto da una serie di piccole macchioline rosse, memoria della corona di spine; il corpo è lungo e scheletrico, con il ventre in evidenza e la ferita aperta del costato. Da qui esce il sangue, le cui gocce scendono sotto il perizoma, fino alla gamba destra. In alto, ai lati della croce, due piccoli angeli

in volo, con le vesti rossicce, si dolgono e tengono le mani sul petto. A sinistra la Vergine Maria osserva intensamente, scossa dal dolore, il figlio morente; a destra san Giovanni, con le mani in preghiera, si volta verso il lato opposto a quello di Gesù, anche lui con una profonda espressione di dolore, evidente principalmente nella smorfia della bocca. Il Crocifisso si staglia su un fondo blu, che risulta molto danneggiato. L’affresco ha subìto purtroppo numerose cadute di colore, soprattutto nelle vesti dei due astanti e nella parte superiore, dove originariamente era presente una cornice ad arco, di cui rimane una piccola traccia sopra l’angelo di destra. L’intonazione cromatica è fresca e vivace, la scena semplice e schematica, il gruppo è inteso con eleganza misurata e grazia delicata. San Giovanni indossa una veste gialla e un mantello rosso, che richiama nella cromia l’abbigliamento degli angeli; la Vergine Maria ha un abito marrone, con mantello del medesimo colore e lunghissimi capelli biondi ondulati, caratteristiche che suggerirebbero un’identificazione del personaggio con santa Maria Maddalena. L’autore mostra una propensione a caratterizzare le forme in maniera plastica, sia nella mimica dei gesti sia nell’espressione fisiognomica. L’immagine, per quanto riguarda le scelte stilistiche, è certamente da porre in stretto collegamento con l’affresco posto a decorazione della tomba del vescovo Vincioli (morto nel 1365) nella chiesa di San Francesco di Sassoferrato, soprattutto per i due angioletti che poggiano la mitra sul capo del vescovo benedicente. Infine, un dettaglio significativo da sottolineare è rappresentato dai piedi di Gesù, trafitti dal chiodo e dilaniati fino ad essere scarnificati: questo aspetto, nell’opinione di chi scrive, richiama fortemente il crocifisso in legno della chiesa di Sant’Onofrio a Fabriano, che si caratterizza per la stessa tormentata anatomia, derivante da un’iconografia di origine tedesca. Arianna bardelli

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50. Maestro di Esanatoglia (Diotallevi di Angeluccio da Esanatoglia?; notizie nella seconda metà del XIV secolo) Madonna della Misericordia (recto), Cristo portacroce tra i santi Anatolia e Cataldo (verso) 1399-1400 circa tempera e oro su tavola; cm 120 × 75 Camerino (Mc), Museo Diocesano

Questo stendardo processionale, uno tra i vari esempi di un genere che conobbe particolare fortuna nella pittura marchigiana fra Tre e Quattrocento (cfr. Schmidt 2003), venne commissionato da una confraternita di Battuti bianchi, raffigurati sotto il manto della Mater misericordiae. Tale compagnia si può verosimilmente indicare in quella di Santa Maria a Esanatoglia, documentata dal 1414 e menzionata nei catasti quattrocenteschi (Mazzalupi 1996), la quale, se la proposta coglie nel segno, dovette essere fondata in tempi anteriori. Tale sodalizio è citato anche nelle visite pastorali seicentesche, periodo in cui all’oratorio risulta annesso un ospedale (ivi). La tavola bifacciale – la cui funzione, a giudicare dall’iconografia, dovette essere particolarmente consona alla liturgia della Settimana santa – venne quindi trasferita nella chiesa di Santa Maria del Gonfalone a Esanatoglia, così detta in omaggio al dipinto che si trovò ad ospitare, e ornata con una sontuosa cornice barocca (cfr. la riproduzione in G. Vitalini Sacconi, in Pittura nel Maceratese 1971; Zeri 1961 indica altresì la sua collocazione nella chiesa di Sant’Agostino, altrimenti detta di Santa Maria). Dopo un periodo di permanenza presso il Museo Piersanti a Matelica, è stata quindi condotta al Museo Diocesano di Camerino. Sul verso Cristo portacroce, raffigurato sul bordo di una pedana scarlatta, è affiancato da due santi inginocchiati e oranti: la santa sulla sinistra, munita di corona e di vessillo a bande bianche e rosse, si può identificare in santa Anatolia (G. Vitalini Sacconi, Pittura nel Maceratese 1971), la nobile e martire romana del III secolo che si ritirò in un luogo solitario della zona di Camerino, vivendo in penitenza ed eremitaggio, dando così il nome alla piccola località marchigiana. Allo stesso modo si deve alla sorella Vittoria il toponimo di Santa Vittoria in Matenano, ove,

Bibliografia. Anselmi 1907, p. 22; Zeri 1961, p. 50, nota 2; Vitalini Sacconi 1969, p. 243, figg. 12-13; Donnini, Commento alla mostra 1971, p. 62, fig. 3; G. Vitalini Sacconi, in Pittura nel Maceratese 1971, pp. 80-82, n. 17; Vitalini Sacconi 1974, p. 82, figg. 16-17; Vitalini Sacconi, I dipinti 1985, pp. 5, 11-12, figg. 10-11; Vitalini Sacconi, Macerata 1985, p. 34; Bittarelli 1996, pp. 171-172, 178-179; Mazzalupi 1996, pp. 58, 63; Minardi 1999, pp. 45, 47, 50; Partsch 2000; M. Paraventi, in I da Varano e le arti a Camerino 2003, pp. 221, 253; Schmidt 2003, pp. 557, 567, nota 14; Delpriori 2008, p. 104; Minardi in c.d.s. 212

dopo il martirio, fu portato il suo corpo (Jacobilli 1647-1661, II, pp. 14-19; cfr. Kaftal 1965, col. 57). Anatolia è altrove raffigurata con il modellino della città tra le mani, come nella scultura lignea del Maestro dei magi (cat. 68) proveniente dalla stessa Esanatoglia (per la medesima iconografia cfr. Bittarelli 1996, pp. 187, 189), o con uno stiletto, simbolo della sua passione: così nell’affresco dell’edicola di Fontebianca nella chiesa del cimitero, opera dello stesso Maestro di Esanatoglia, e in una tela seicentesca di Giovan Francesco Benigni da Pralboino della Pinacoteca Civica. Come ricorda Vittorio Emanuele Aleandri (1900, p. 112), un’immagine ad affresco della santa, perduta, campeggiava anche a lato della Crocifissione trecentesca (ma rispetto a quest’ultima, oggi in una cappella del cimitero di Busto Arsizio, di altra mano) nella chiesa di Santa Caterina. Il santo vescovo sull’altro lato deve invece identificarsi in Cataldo (Anselmi 1907), di cui si conservavano alcune reliquie nella pieve di Santa Anatolia e che risulta titolare di una chiesa a Esanatoglia (Mazzalupi 1996, pp. 51, 88-89). Lo “stendardello” venne citato da Anselmo Anselmi (1907) su segnalazione del canonico Sennen Bigiaretti, che lo considerava opera di Diotallevi di Angeluccio da Esanatoglia, misteriosa personalità nota per aver realizzato nel 1372 la decorazione, andata perduta, nella cappella fondata da Smeduccio Smeducci nel Duomo di San Severino (Ricci 1834, I, p. 91) e altri affreschi, datati 1381 ma pure periti, nel sepolcro di Feliciano di Vannuccio in Santa Maria delle Scale ad Ancona, di cui dava notizia lo stesso Anselmi. Questi prometteva infine un futuro intervento, in verità mai dato alle stampe, sulla tavola in esame, che più tardi Federico Zeri (1961) attribuì alla stessa mano, quella a suo avviso di un pittore umbro-marchigiano della seconda metà del Quattrocento, del polittico di Sant’Eutizio della Pinacoteca di Spoleto (poi riconosciuto a Nicola di Ulisse da Siena). Spetta a Giuseppe Vitalini Sacconi (1969; in Pittura nel Maceratese 1971; 1974) il più pertinente collegamento dell’opera con altri dipinti conservati tra Esanatoglia, Matelica, Gagliole e San Severino: lo studioso creava in tal modo la personalità del Maestro di Esanatoglia, operosa nell’ultimo quarto del Trecento nel solco di Allegretto Nuzi e Francescuccio Ghissi e a suo avviso probabilmente identificabile nel “pittore senza opere” Diotallevi di Angeluccio. L’opera in predicato, caratterizzata da una smagliante vivezza cromatica di fonte nuziana, si poneva quale unica testimonianza della produzione su tavola dell’anonimo, nella fase ultima del suo operato, ormai alla fine del secolo: «both the striving towards elegance and the graceful flexibility of the figure seem to proclaim the last flowering of

Gothic» (Vitalini Sacconi 1974, p. 82). Tale ricostruzione è stata accettata da più studiosi (per una più ampia disamina, cfr. Minardi in c.d.s.): il nome di Diotallevi viene senz’altro pronunciato da Angelo Antonio Bittarelli (1996), Claudio Mazzalupi (1996) e Marta Paraventi (in I da Varano e le arti a Camerino 2003), mentre l’etichetta di Maestro di Esanatoglia è stata mantenuta da chi scrive (1999) e da Delpriori (2008). Tale riserva non pregiudica comunque a mio giudizio la forte verosimiglianza del riconoscimento proposto dal Vitalini Sacconi, in virtù di varie ragioni inerenti la geografia coperta dal pittore e il peculiare linguaggio figurativo di quest’ultimo; ragioni che vorrei analizzare in una sede più idonea di questa. La condivisibile datazione tarda dell’opera nell’itinerario seguito dal pittore si misura sulle convergenze con l’affresco staccato del Museo Piersanti a Matelica e con gli affreschi della torre campanaria della chiesa di San Domenico a San Severino (cfr. la tavola di confronti in Minardi 1999): sia, ad esempio, per quanto riguarda il modulo facciale della Vergine, sia per la contrazione espressiva del viso doloroso di Cristo, che si apparenta al volto rugoso della madre di santa Caterina nel primo episodio del ciclo settempedano, quello in cui la giovane principessa viene condotta dall’eremita. I dipinti chiamati a confronto esibiscono, inoltre, elementi del costume propri delle tendenze in auge sul finire del Trecento. Con quest’attenzione nuova conferita, anche se solo per frammenti, all’espressività delle figure, che al di là di ciò mantengono sempre una certa fissità iconica, il maestro va oltre la cifra sempre un po’ astratta, il riserbo assoluto che fino a questo punto avevano caratterizzano i suoi personaggi, secondo la lezione del Nuzi. E ciò anche in un’opera come questa ove non vengono meno i ricordi da quell’artista: la ferma posizione del Cristo a gambe e piedi divaricati si rifà a vari esempi del caposcuola, quali il Battista raffigurato accanto a san Venanzio in una tavola della Pinacoteca Civica di Fabriano, ma anche la banda dorata e punzonata che delimita il manto di Maria è un elemento tratto dal repertorio nuziano. È possibile che l’interesse per un più marcato risalto espressivo sia conseguente alle diramate influenze emiliane che nell’ultimo quarto del secolo, soprattutto grazie all’attività costiera di Andrea de’ Bruni, serpeggiano nella pittura marchigiana. Ciò si può leggere anche nello sguardo interrogativo e sornione lanciato dal piccolo Gesù in direzione dello spettatore, che richiama curiosamente esiti pressappoco coevi di Olivuccio di Ciccarello, quali la tavola del Municipio di Mondavio datata 1400. Mauro Minardi

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51. Cola Petruccioli (Orvieto, notizie 1372-Perugia 1401) Crocifissione, Angelo Annunziante; Incoronazione della Vergine, Vergine Annunziata 1391 tempera su tavola; cm 64 × 27 (ciascun scomparto) Spello (Pg), Pinacoteca Comunale Iscrizioni: a° · [d · m° · ccc · lx]xxxi hoc · opus · factum · fuit · tempore · domini · g(uadagni) · prioris · ecclesie · sancte marie · de spello · co[l]aus · pitru[ccioli d]e urbeveteri · pinxit

Bibliografia. Catalogo della mostra 1907, p. 19; Cristofani 1907; Berenson 1918; Longhi 1962; Fratini 1978, pp. 67-70; Padovani 1982; M. Ceino 1995, in Pinacoteca comunale 1995, pp. 44-45, n. 4.

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Nella Pinacoteca Comunale di Spello è conservato un minuscolo, prezioso dittico che per la firma del pittore e la data che vi si legge ha rappresentato un punto di svolta negli studi sui pittori “primitivi” umbri. Nel 1907 il dittico fu esposto a Perugia nella prima grande mostra dedicata all’antica arte umbra, dove la parte del leone era affidata a Nicolò Alunno e ai pittori della generazione precedente la “maniera dolce” di Pietro Perugino. Nel catalogo della mostra (Catalogo della mostra 1907, p. 19) fu letta con qualche errore l’iscrizione presente sotto il trono dell’Incoronazione della Vergine, con il nome del pittore Cola Petruccioli da Orvieto e la data 1385: nome e data divulgati da Giustino Cristofani in un articolo pubblicato in una rivista perugina (1907). In precedenza c’era chi aveva creduto il dipinto dello stesso Giotto o di un suo allievo e chi lo aveva ritenuto di scuola senese. Una volta decifrata l’iscrizione, dal dittico di Spello partì la ricostruzione del catalogo di Cola Petruccioli, pittore già noto per una documentata attività accanto a Ugolino di Prete Ilario nella tribuna del Duomo di Orvieto e per la firma presente sotto una Crocifissione nella cripta dello stesso edificio, ma pressoché sconosciuto all’esterno di Orvieto. Da notizia locale la scoperta acquistò un rilievo internazionale grazie a un articolo di Bernard Berenson uscito in Art in America (1918), dove si proponeva un’opzione orvietana per un gruppo di dipinti in collezioni statunitensi che erano stati assegnati a pittori senesi dalla connoisseurship cosmopolita. Ne seguì un numero crescente di studi pubblicati da conoscitori d’arte e da ricercatori d’archivio italiani e stranieri (Venturi, Gnoli, Perkins, Bombe), che portarono alla ribalta una miriade di pittori primitivi umbri poco noti o del tutto sconosciuti. Passata la novità del momento, il dittico di Spello tornò nel suo cono d’ombra e non lasciò più l’attuale sede, nonostante le nuove acquisizioni al catalogo del pittore e una nuova lettura dell’iscrizione. Nella seconda metà del Novecento l’apertura di Roberto Longhi sui trecentisti umbri (1962) suscitò un rinnovato interesse verso la figura storica di Cola Petruccioli, che abbandonò la posizione d’imitatore e antagonista provinciale dei pittori senesi per diventare uno dei principali attori della scuola pittorica orvietana, iniziata con Ugolino di Prete Ilario e in compagnia del già noto Piero di Puccio: una delle vie maestre che condurranno i “giotteschi” presenti nelle regioni centrali della Penisola ad aderire allo stile ornato del Gotico internazionale. L’apertura di Longhi sollecitò le nuove ricerche di Enzo Carli, Giovanni Previtali, Pier Paolo Donati, Miklós Boskovits, Federico Zeri, Pietro Scarpellini, Enrica Neri Lusanna,

Corrado Fratini, Filippo Todini, che ne leggeranno la firma o ne riconosceranno la maniera in piccoli dittici su tavola in collezioni private italiane e straniere, o in cicli più o meno frammentari di affreschi dispersi in una vasta area tra Orvieto, Todi, Belverde, Perugia, Assisi, Spello e Foligno. Cola Petruccioli ne risulterà il pittore più importante e prolifico attivo nell’ultimo quarto del Trecento nei maggiori centri della regione. Per l’esame della vicenda critica si rimanda alla voce scritta da Serena Padovani nel Dizionario Biografico degli Italiani (1982) e alla scheda nel catalogo di Spello di Maddalena Ceino (1995). Nel 1978 Corrado Fratini pubblicò una nuova lettura dell’iscrizione presente nel dittico di Spello, dalla quale risultava che l’altarolo era stato dipinto da Cola di Petrucciolo da Orvieto l’anno 1391, essendo Guadagno priore della chiesa di Santa Maria di Spello, cioè dell’odierna chiesa collegiata di Santa Maria Assunta. Alla luce della nuova cronologia ne consegue che «il dipinto spellano non rappresenta più una tappa intermedia dell’attività di Cola negli anni ottanta, ma segna il punto finale di evoluzione di quello stile ricco e fiorito cui mano a mano si andò sostituendo, nella fase più matura dell’artista, un modo di dipingere più solido e spazioso, sotto molti aspetti già prerinascimentale, testimoniato dalle opere che la critica ha individuato come prodotti dell’ultimo decennio del xiv secolo» (Fratini 1978, p. 68). E poiché a Spello Cola Petruccioli non si limitò a dipingere un minuscolo per quanto delizioso dittichetto, destinato a soddisfare la devozione privata di un canonico, ma decorò con affreschi la tribuna absidale della chiesa collegiata di Santa Maria e l’intera lunghezza della navata della chiesa di San Claudio con le immagini dei santi patroni delle dodici “Societates” in cui era divisa la popolazione, lo si potrebbe paragonare per l’ambizione del programma al ruolo svolto esattamente un secolo prima da Giotto con le storie della vita del santo patrono Francesco alle pareti della navata della chiesa superiore di Assisi. Cola Petruccioli vi si dimostra abilissimo nel mantenere lo stesso registro qualitativo sia nel piccolo che nel grande formato: il tappeto ornato da gigli angioini nella scena dell’Incoronazione è diventato un litostrato multicolore nella casa della Vergine a Nazareth in quel che resta della tribuna absidale nel San Domenico di Perugia: sola scena superstite di una grandiosa decorazione dalla quale trasse linfa l’inattesa fioritura in Umbria del Gotico internazionale, che vedrà protagonisti Ottaviano Nelli a Gubbio, Lorenzo Salimbeni a San Severino, Gentile a Fabriano. Elvio Lunghi

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52. Cola Petruccioli (Orvieto, notizie 1372-Perugia 1401) Santa Giuliana di Cornillon o di Liegi ultimo decennio del XIV secolo affresco staccato; cm 237 × 155 Perugia, Monastero di Santa Giuliana

Bibliografia. U.V. 1917; Ricci 1929, p. 123; Kaftal 1965, coll. 1168-1169; Todini 1989, I, p. 359; Lunghi 1996, p. 46; Del Giudice-Monacchia 2000, passim; Staccioli-Zanzotti 2010, pp. 26, 136.

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Il dipinto è tornato alla luce nel 1917 nel corso delle indagini effettuate dall’architetto Ugo Tarchi in vista del recupero dell’aspetto originario della chiesa cistercense di Santa Giuliana di Perugia. Nel corso dei lavori, alle pareti del coro furono liberate dallo scialbo alcune immagini risalenti al periodo precedente i rifacimenti tridentini dell’interno monastico: un san Cristoforo, una Madonna col Bambino, la figura isolata di una santa monaca. Quest’ultima fu ritrovata in due pezzi sulla parete sinistra: da una parte la figura della santa, dall’altra quella del donatore ai suoi piedi. Il ritrovamento fu annunciato da un articolo uscito anonimo nel Bollettino della Deputazione della Storia patria per l’Umbria: «La prima opera rimessa alla luce è dell’epoca migliore del Rinascimento, e rappresenta una Santa, finemente dipinta, bella di volto, con manto ampio, mantellina e velo nero su camice bianco. Porta nella mano sinistra un libro, e nella destra la disciplina. Trovasi sulla parete sinistra del tempio, in rispondenza del fianco del coretto, dietro il presbiterio. Di seguito si rinvenne al di sotto del coretto la prosecuzione del quadro, che risulta contornato da una bella cornice di variati ornamenti, attorno alla quale si librano, con motivo molto originale, delle figure graziosissime; in basso si scorge una figura genuflessa e con le mani giunte in preghiera, si legge la scritta … (f )ecit fieri Nicolaus de porta de Fe… [A] D. 1460. È facile rilevare da un attento esame del dipinto ch’esso si sovrappone ad altro più antico» (U.V. 1917, pp. 353-354). Pochi anni dopo l’affresco fu nuovamente segnalato da Ettore Ricci (1929, p. 123), che lo disse «bellissimo», identificò il personaggio in una santa dell’Ordine cistercense e ne anticipò l’esecuzione alla fine del xiv secolo. Poi un silenzio durato più di quattro decenni. Nel 1965 George Kaftal (coll. 1168-1169) ne pubblicò tre foto all’interno del suo corpus iconografico sulla pittura dell’Italia centro-meridionale, come «Umbrian School xiv-xvth Century». L’affresco era stato staccato e in basso era stato aggiunto il nome “S. Fedora de Januas”, forse identificabile in una santa Teodora altrimenti sconosciuta. Identità – “Teodora da Genova” – e cronologia furono confermate da Filippo Todini, che parlò di un «pittore perugino di tendenze neogiottesche, influenzato dalla pittura orvietana» (1989, I, p. 359). Un decennio più tardi pubblicai una foto a colori della “Santa Teodora” (Lunghi 1996, p. 46) identificandone l’autore nel pittore orvietano Cola Petruccioli. Infine, seri dubbi sull’identità della santa sono stati espressi da Augusto Staccioli in un volume illustrativo sul monumento (Staccioli-Zanzotti 2010, p. 26). Il monastero femminile di Santa Giuliana di Perugia era stato fondato nel 1253 al tempo del soggiorno

perugino di papa Innocenzo IV per interessamento del suo medico curante Giovanni da Toledo, monaco inglese dell’Ordine cistercense. La dedicazione a Santa Giuliana era quella di una villa nei dintorni dell’abbazia di San Salvatore di Monte Corona nell’alta Valle del Tevere, di dove erano originarie le prime donne che indossarono l’abito cistercense a Perugia. Santa Giuliana era una pagana di Nicomedia, nell’odierna Turchia, che subì il martirio nel 305 per essersi convertita al cristianesimo. Le sue reliquie furono portate a Cuma in Italia, dove restarono fino al 1207 quando passarono a Napoli. Soltanto nel 1376 le monache di Santa Giuliana ottennero dai frati predicatori di Perugia una reliquia della santa e la fecero ritrarre in numerose opere d’arte. Il soggetto del dipinto ha il capo circondato da raggi che la identificano per beata. Veste l’abito bianco con la cocolla nera che la identifica per cistercense. Ha il cingolo emblema della purezza annodato intorno al collo. Tiene con la mano destra un flagello per invitare alla penitenza e stringe nella mano sinistra un libro dalla coperta rossa a indicare la Regola monastica. La cornice frammentaria che circonda l’immagine conserva due episodi miracolosi: naviganti in pericolo di naufragio che invocano aiuto, un povero in abito da pellegrino ai piedi di una monaca vestita di bianco. L’insieme di questi elementi me ne fa proporre l’identificazione in Giuliana da Liegi (1192-1258), agostiniana nel monastero di Mont-Cornillon in Belgio, passata alla Regola cistercense per le contestazioni alla severità della disciplina imposta alle consorelle. In seguito a una visione, Giuliana si adoperò per diffondere la devozione verso il sacramento eucaristico all’interno della diocesi di Liegi e nel 1240 ne comporrà l’ufficio. Nel 1264 Urbano IV proclamerà a Orvieto la festa del Corpus Domini, in seguito a un miracolo avvenuto l’anno precedente a Bolsena, e ne estenderà il culto alla Chiesa universale. Negli anni finali del xiv secolo è documentato a Perugia un Dompnus Benedictus de Urbeveteri, rettore della chiesa di Sant’Antonino e collettore apostolico della Curia papale, in frequenti rapporti con le monache del monastero di Santa Giuliana di Perugia (Del Giudice-Monacchia 2000, passim): attraverso questi canali può trovare una giustificazione la devozione verso una beata belga antesignana del culto eucaristico proclamato dogma in seguito al miracolo di Bolsena. Di Orvieto era originario Cola Petruccioli, che eseguì l’affresco sullo scorcio del Trecento al tempo del suo documentato soggiorno perugino. Non si conosce la sorte del ritratto del donatore che figurava nella metà inferiore del dipinto. Elvio Lunghi

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53. Gentile da Fabriano (Gentile di Niccolò di Giovanni di Massio; Fabriano 1370 circa-Roma 1427) Crocifissione 1410-1412 tempera e oro su tavola di pioppo; cm 60 × 40,5 Milano, Pinacoteca di Brera

Bibliografia. Sansovino 1581, ed. 1663; Ricci 1834, I, pp. 152-153; Vasari 1568, ed. Venturi 1896, p. 22; Le pergamene dell’archivio domenicano 1939, p. 120; Longhi 1940, p. 190, nota 29; Falaschi Chiavelli, Chiavello 1980; Christiansen 1982, pp. 14-16, 87-91; De Marchi, Michele di Matteo 1987, p. 24; Lucco 1989, I, pp. 21-28; De Marchi 1992, pp. 90-91; Aldrovandi et al. 1993, pp. 70-77; Gentile da Fabriano 1993; Ceriana-Daffra 2006; Gentile da Fabriano 2006; Gentile da Fabriano. Studi 2006; Pizzati 2006; Merkel 2012.

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La piccola tavola comparve nel 1991 sul mercato antiquario londinese (Philips, Londra, 10 dicembre 1991, lotto 78) con l’attribuzione a Ugolino di Nerio, ma subito dopo la pulitura fu riconosciuta opera di Gentile da Fabriano e come tale avvicinata al ricordo di Amico Ricci (1834, I, p. 152) del dipinto di identico soggetto che coronava il polittico di Valle Romita e che «fu venduto ad un orientale che il condusse fuori della nostra penisola» (ivi, p. 153; Christiansen 1992, p. 132; De Marchi 1992, pp. 90-91; Gentile da Fabriano 1993). La nota di possesso sul retro “from Cardinal fra(n) zu(n)ios Collection 1729” suggerisce che l’opera sia appartenuta al genovese Giacomo Franzoni che fu vescovo di Camerino dal 1666 al 1693 e appoggiò attivamente i frati di Valle Romita in questioni patrimoniali con altri ordini monastici (De Marchi 1992, nota 59), e avvalora l’ipotesi di una provenienza da quel territorio. Nel 1994 il dipinto fu acquistato dallo Stato italiano per la Pinacoteca di Brera che già conserva le altre tavole provenienti dall’eremo fabrianese e commissionate da Chiavello Chiavelli per ornare la chiesa del romitorio che lui stesso rilevò per i Francescani osservanti di Paoluccio Trinci e nella quale volle essere sepolto (Wadding, Annales Minorum, ed. 1932, IX, pp. 107-108; Jacobilli 1647-1661, II, p. 263; Montani 1922 pp. 93-94; Ceriana-Daffra 2006). Oltre all’ipotetica provenienza marchigiana depone a favore di questa identificazione l’analogia strutturale dei pannelli, di spessore affine e pensati per essere inseriti in una cornice alla quale era affidato il compito di rilegarli e stringerli in unità secondo un modello lagunare diffuso anche nelle Marche. Tuttavia si devono anche sottolineare alcune differenze. Questa tavola è conclusa da una centina rialzata che non reca traccia, a differenza degli altri scomparti, di archetti polilobati (Aldrovandi et al. 1993, p. 76). Nella Crocifissione la decorazione dei nimbi non solo è tipologicamente diversa (una fila di perline realizzata con un sottile punzone puntiforme racchiusa tra linee incise orla il campo interno movimentato da raggi contenuti in un profilo lobato che, nel nimbo di Cristo, contiene anche la croce) ma il disegno è meno nitido e gli ornati sono eseguiti in modo incerto se paragonati all’eccelsa lavorazione a stilo che caratterizza le lamine metalliche degli altri scomparti. Si tratta di scarti che non necessariamente implicano una appartenenza a complessi diversi: nella Madonna di Gentile conservata a Perugia, per esempio, parti assai curate come la scritta nel nimbo della Vergine convivono con la fattura più imprecisa dell’aureola del Bambino.

Ciò che induce alla prudenza nell’accostamento è però soprattutto il leggero divario di stile. Nella Crocifissione l’eletto calligrafismo del polittico si allenta, una morbida tornitura dei volumi fa percepire, al di sotto delle cascate di pieghe, la presenza dei corpi, lo spazio si dilata attorno agli impercettibili movimenti dei protagonisti. Il fondo oro è infatti usato qui esattamente come un cielo luminoso che fa risaltare le minime allusioni spaziali. Il terreno brullo e roccioso è delicatamente modulato fino a raggiungere il massimo scuro proprio verso il fondo. Allo stesso modo la torsione dell’esile Cristo è messa in risalto dalle ripetute ombreggiature perimetrali; l’addensarsi delle ombre ed il rialzarsi delle luci fanno percepire il leggero chinarsi in avanti, contratto, di san Giovanni Evangelista. Tutto ciò indurrebbe a ipotizzare un’esecuzione leggermente posteriore rispetto al polittico di Valle Romita, da collocarsi comunque nel corso del soggiorno veneziano di Gentile. Le fonti antiche rammentano solo due opere realizzate dal fabrianese in laguna: una “ancona” commissionata da Francesco Amadi nel 1408 (si veda Pizzati 2006; Merkel 2012 per una ipotesi, non del tutto convincente, di identificazione) e una “palla” dipinta per la famiglia Sandei in santa Sofia (Sansovino 1581, ed. 1663, p. 54). Proprio con gli esigui frammenti fino ad ora identificati come appartenenti a quest’ultima, quattro santi divisi tra la Pinacoteca Nazionale di Bologna e la collezione Berenson a Settignano (The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies, Villa i Tatti) provenienti dalla cornice ed il frammento con la testa del San Paolo primo eremita (San Francisco, collezione privata) si possono istituire i raffronti più convincenti per la cresciuta naturalezza con la quale le figure si muovono nel breve spazio dorato, per la luminosa morbidezza del colore. Non siamo lontani, per quanto è possibile giudicare, dalla rovinatissima Madonna col Bambino in trono e angeli del Metropolitan Museum che Keith Christiansen (in Gentile da Fabriano 2006, pp. 144146) candida con molta cautela a pannello centrale della pala della cappella Sandei, pensando però ad una esecuzione anteriore rispetto al polittico di Valle Romita. Queste incertezze perduranti non tolgono nulla alla qualità dell’immagine, della quale si apprezzano gli accordi cromatici rari delle vesti, blu e melanzana per la Vergine, zafferano e rosa intenso per san Giovanni, l’espressività composta, con cui è riattualizzato l’antico repertorio dei gesti di dolore, la finezza pittorica grazie alla quale Gentile sa rendere la fragile fisicità di Cristo. EMANUELA DAFFRA

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54. Gentile da Fabriano (Gentile di Niccolò di Giovanni di Massio; Fabriano 1370 circa-Roma 1427) Madonna col Bambino e angeli musicanti 1411-1412 tempera su tavola; cm 97 × 70 Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria

Bibliografia. Santi 1969, pp. 113-115 (con bibliografia precedente); Christiansen 1982, pp. 115-116; De Marchi 1992, pp. 49-53; Testa 1994; Marcelli 2005, pp. 49-64; De Marchi 2006; G. Garibaldi, in Gentile da Fabriano 2006, pp. 96-99, n. II.1; Silvestrelli 2008; A. De Marchi, in Da Jacopo 2010, p. 196, n. C.7.

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La tavola venne demaniata nel 1863 dal noviziato del convento di San Domenico in Perugia e fece il suo ingresso nell’allora Pinacoteca Civica, oggi Galleria Nazionale dell’Umbria. Da quanto si evince dagli inventari di demaniazione, al momento del suo ritrovamento la Madonna col Bambino era sprovvista di cornice. Più tardi gli inventari della Pinacoteca del 1878 e del 1918 ne registrarono una a sesto acuto, che va quindi considerata un’aggiunta posticcia. L’opera ha subito diversi restauri (1907, 1921, 1948, 1989-1993) e in epoca remota fu risegata in alto per creare una terminazione a tutto sesto. Il fondo oro tradisce però una originale chiusura a cornice trilobata con arco centrale più grande. Resta invece un mistero la presenza o meno di pannelli laterali che i bordi rifilati della tavola non possono più ricordare. La Madonna col Bambino (Londra, Victoria and Albert Museum, inv 6559&A-1860) dipinta nel 1428 dal seguace di Gentile, Giovanni Pellegrino, ripropone esattamente il gruppo sacro e fa propendere per un’unica tavola. Nonostante sia ricordata da Vasari in San Domenico come «una tavola molto bella» (1550, ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, III, p. 366), i documenti antichi non la menzionano nella chiesa domenicana che tra il 1304, anno di fondazione, e il 1459, anno di consacrazione, quando l’edificio si arricchisce di numerosi paramenti liturgici, monumenti funebri e opere d’arte a testimoniare la ricchezza e il forte legame dell’Ordine con la nobiltà perugina. La commissione a Gentile sottolinea i legami militari e commerciali stabiliti tra Perugia e Fabriano nei primi anni del Quattrocento e ricorda i vincoli parentali e politici che legavano il pittore all’ambiente perugino e all’Ordine domenicano (Benazzi 2006, p. 331, nota 30). La complessa

iconografia che vede la sovrapposizione di temi quali l’Incoronazione della Vergine e la Madonna dell’Umiltà viene ribadita dalle numerose lodi a Maria incise sulla tavola: dall’Ave Maria dell’aureola, alle invocazioni presenti sul bordo del mantello, all’antifona mariana pasquale sul tetragramma sorretto dagli angeli. Il sorprendente trono attaccato da una lussureggiante vegetazione che ne mette in discussione la natura architettonica riporta poi al tema nordico dell’hortus conclusus (A. De Marchi, in Da Jacopo 2010). Collocata cronologicamente in stretta connessione con il polittico di Valle Romita mostra la conoscenza di stilemi di impronta veneziana: il motivo a squame lobate dell’abito, la spilla in stucco dorato a chiusura del manto, le filettature dorate a simulare riflessi di luce sui capelli. Indice della conoscenza di oreficeria non solo veneziana ma boema e renana e prova della raffinata tecnica che Gentile raggiunge in questi anni è la granatura scelta per delineare le figure di sei angeli in volo che incoronano la Vergine e che rendono il fondo oro vibrante di luce. Il ritrovamento del settecentesco Taccuino Coltellini (Lametti 2001, pp. 427-428), che riporta la notizia di due quietanze datate 1411 e 1412 rilasciate da Gentile ad Ugolino Trinci per la decorazione del Palazzo di Foligno, precisa meglio l’attività dell’artista, che in questi anni può aver realizzato anche la tavola di Perugia. È stato fatto il nome del ricco cambiatore e “operarius” della chiesa domenicana, Matteo di Pietro Graziani, quale possibile committente. Il Graziani avrebbe commissionato il vasto programma decorativo della zona absidale, compresa la cappella di San Giacomo, che potrebbe essere stata ab antiquo il sito per la Madonna col Bambino e angeli musicanti (Silvestrelli 2008). Federica Zalabra

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55. Gentile da Fabriano (Gentile di Niccolò di Giovanni di Massio; Fabriano 1370 circa-Roma 1427) Stimmate di san Francesco 1415 tempera grassa (all’uovo) su tavola; cm 89 × 65 Mamiano di Traversetolo (Pr), Fondazione Magnani Rocca Iscrizioni: franciscus (nell’aureola, in lettere gotiche)

Bibliografia. Ricci 1829, p. 18; Eastlake 1858, p. 200; Passavant 1860, I, p. 389, trad. it. 1882-1891, I, p. 291; Cavalcaselle-Crowe 1864-1866, III, p. 106; Marcoaldi 1867, p. 8, n. A; Marcoaldi 1873, p. 239, n. 181; Colasanti 1907; Colasanti 1909, pp. 54-55, fig. 116; Venturi 1911, pp. 194195; Kreplin 1920; Sassi, La famiglia 1923; Molajoli 1927, pp. 117-118; Van Marle 1927, VIII, pp. 14, 318, fig. 9; IX, p. 451, nota 2; Longhi 1928, p. 75; Serra 1934, pp. 224, 227, fig. 283; Grassi 1953, pp. 15, 56, 60-61, 67-68; Arslan 1962, p. 110; Castelfranchi Vegas 1966, pp. 21, 41, fig. 71; Bellosi, La pittura 1966, tav. IV; Berenson, Italian Pictures of the Renaissance, ed. 1957-1968, III/1, p. 164; Zampetti [1969?], pp. 32, 34; Boskovits 1973, pp. 24, 43, nota 134; Rossi, Gentile di Nicolò Masi 1974; Micheletti 1976, p. 86, fig. 12, tav. XIII; Fahy 1978; Christiansen 1982, pp. 93-96, figg. 20-21, tav. B.; V. Sgarbi, in Fondazione Magnani-Rocca 1984, pp. 37-41; Battistini 1987, p. 390; Frulli 1987; Hills 1987, pp. 115-116; Zampetti 1988, pp. 277, 281; Tosini Pizzetti 1990, p. 8 (ripr.); De Marchi 1992, pp. 104-105, 109, nota 53, 112-113, 127-128, 129-130, note 4-7, 161, 192, nota 133, tav. 32; Zampetti-Donnini 1992, pp. 98-99, 107, nota 46, ripr. a pp. 127-128; Bellosi 1993, p. 15, ripr. a p. 19; Bertelli 1993, p. 64; Wohl 1996, p. 229; Cleri 1997, pp. 50-52 (ripr. a p. 51), 72, 118; F. Marcelli, in Cleri 1997, pp. 20, 182, nota 30; A. De Marchi, in Fioritura 1998, pp. 196197, n. 68; Bellosi 2000; Marcelli 2005; Minardi 2005; Gentile da Fabriano 2006; Sgarbi 2009; Sgarbi 2013. 222

In antico il San Francesco era unito, non a dittico, ma a doppia faccia, con l’Incoronazione della Vergine ora nel J. Paul Getty Museum di Malibu. La storia esterna del dipinto, dettagliatamente ricostruita da Keith Christiansen nella sua monografia del 1982 su Gentile da Fabriano, si può così ricapitolare: il San Francesco, con il dipinto compagno, è ricordato nel 1827 in un manoscritto del pittore fabrianese Vincenzo Liberati, pubblicato dal Molajoli nel 1927: «Due quadri da cavalletto esistono presso questo nostro V. Seminario, raffiguranti l’uno la Coronazione di Maria Vergine e l’altro San Francesco che riceve le stimmate; questi sono in fondo d’oro d’un lavoro eccellente; tali quadri furono ceduti in dono dai PP. Francescani ai PP. Filippini, e ora, soppressi questi, sono passati in dominio del V. Seminario» (pp. 117118). Considerando che la Congregazione di san Filippo Neri fu istituita a Fabriano nel 1628 e che il manoscritto indica i dipinti, in un tempo precedente, presso i padri francescani, è legittimo presumere che essi, anche in considerazione del soggetto con il fondatore dell’Ordine, fossero fin dall’origine stati concepiti per il convento francescano di Fabriano. Un’altra mano più tardi aggiunge al manoscritto che una copia del doppio dipinto, riferita ad Antonio da Fabriano, era in casa Bufera a Fabriano. Vide questa copia, ritenendola di Gentile, Johann David Passavant, che confermò il radicato rapporto devozionale fra la comunità di Fabriano e il doppio dipinto, da lui descritto come uno stendardo professionale: «Un’altra Incoronazione della Vergine, dipinta su campo aurato, e un San Francesco che riceve le stimmate, colorito sul rovescio della tela, erano tenuti in grandissima venerazione appresso i Fabrianesi; i quali, in occasione di feste, li portavano a processione. Nel 1835 furono da noi veduti a Fabriano in casa de’ Bufera» (1860, trad. it. 1882-1891, I, p. 291). A partire dal 1858 risultano separati. E già nel 1853 essi erano passati in casa Morichi; qui, concordemente, Charles Locke Eastlake e Giovan Battista Cavalcaselle lessero sulla copia del San Francesco l’iscrizione: ano domini 1452, die 25 de martio. Una data che naturalmente non corrisponde all’attività di Gentile da Fabriano, ma conviene alla replica di cui conosciamo lo scomparto con l’Incoronazione ora all’Akademie der Bildenden Künste di Vienna (sulla cui attribuzione si vedano Grassi 1953 e Christiansen 1982, che confermano il nome di Antonio da Fabriano, mentre Roberto Longhi, 1928, p. 75, pensa a un artista umbro, «nel genere del Bonfigli»). L’equivoco del Passavant risale ad Amico Ricci, che, nel 1829, chiama i due dipinti con il nome di Gentile. Questa tendenza è seguita dal Marcoaldi che vide le due repliche in casa Morichi e il San Francesco originale in casa di Romualdo Fornari, del quale descrive la raccolta di quadri di pittori fabrianesi (1867). Il San Francesco era giunto nella collezione Fornari prima del 1858, anno in cui lo vide Eastlake. Frattanto la sua replica, non ancora divisa dall’Incoronazione (per le cui vicende si veda Christiansen 1982), era passata, nel 1873, in casa Rotondi a Fabriano; nel 1899 è elencata tra le opere della collezione di Filippo Pirri a Roma e nel 1892 viene offerta da Erne-

sto Aurelio al British Museum. Oggi se ne sono perse le tracce. L’equivoco pirandelliano di queste doppie repliche culmina in Raimond van Marle che fonde i due dipinti con l’Incoronazione, identificando l’originale, che era allora conservato nella collezione Heugel, con la copia di Vienna: «The panel of the Coronation of the Virgin once in the Heugel collection, now in the Art Academy, Vienna» (su tutta la questione si veda Grassi 1953, pp. 22, 60-61, 67-68). Il San Francesco originale era ancora presso Gustavo Fornari a Roma nel 1927. Tornò quindi a Fabriano presso un istituto bancario ed entrò a far parte, nel dopoguerra, della raccolta Carminati di Crenna di Gallarate, con altre opere della collezione Fornari. Nel 1978 fu acquistato da Luigi Magnani che già aveva creato la Fondazione Magnani Rocca. Fu Cavalcaselle per primo a considerare i due dipinti come elementi di uno stendardo: l’Incoronazione «was in former times the front of a standard, on the obverse of which a S. Francis receiving the stigmata, of the same size and form, was depicted» (Cavalcaselle-Crowe 1864-1866, III, p. 106). Ma la ricostruzione del grande critico (che di fronte alla copia del San Francesco non mancava di avvertire comunque: «Related as to style with the Coronation, though of ruder aspect, it may be of a later date and by some pupil», ibid.) tiene conto probabilmente dell’indicazione del Passavant, che peraltro parla di un «San Francesco che riceve le stimate, colorito sul rovescio della tela» (1860, trad. it. 1882-1891, I, p. 291): tela e non tavola, che è da intendere più probabilmente come un’unica tela dipinta da entrambe le parti. Nessuna fonte antica ci testimonia l’originaria composizione dei due elementi, che lo stesso Liberati non ricorda uniti e che comunque dovette arbitrariamente essere compiuta in tempi relativamente recenti, se è vero che le misure del San Francesco corrispondono al supporto originario, mentre quelle dell’Incoronazione sono ottenute con resecazioni della tavola in alto e ai lati. Un adattamento successivo di due elementi, dunque, non nati insieme e il cui rapporto non sembra neppure trovare giustificazione sul piano iconografico. Il San Francesco fu pubblicato, la prima volta, da Arduino Colasanti nel 1907, come testimonianza «di un tempo assai vicino al polittico di Valle Romita». Lo stesso studioso, poco dopo (1909), pubblicò, nella sua monografia sull’artista, un’altra versione del San Francesco stigmatizzato sempre nella raccolta Fornari di Fabriano e da lui attribuita a Giovanni di Paolo. Un’ulteriore replica, dunque, anche se il Grassi ritiene più opportuno pensare senza sufficienti argomenti che si tratti del rovescio della copia citata in casa Bufera, di cui si sono perse le tracce (tra l’altro non sembra recare la data letta da Cavalcaselle). Il Longhi, per parte sua, propose che l’Incoronazione Heugel, ora al Getty Museum, fosse il centro di un polittico smembrato del tipo di quello di Valle Romita, di cui uno scomparto laterale poteva essere il San Michele della raccolta Stoclet, da lui reso noto (sulla questione si veda Micheletti 1976, p. 88). Anche sulla datazione del San Francesco sono state fatte le proposte più disparate. Per il Colasanti, il Molajo-

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li, il Serra, il Grassi, il Van Marle e la Castelfranchi Vegas, il San Francesco va posto agli inizi del secolo e precede l’Incoronazione. Per Miklós Boskovits non sta entro il primo decennio, ma nella prima metà degli anni dieci del Quattrocento. Per Adolfo Venturi forse tra il 1420 e il 1421, in un momento «comunque anteriore al periodo in cui l’artista si svolse in Toscana» (1911, pp. 194-195). Per Luciano Bellosi (La pittura 1966, p. 3) il San Francesco è «una versione assai più matura e intensa dello stesso soggetto che si vedeva nel Polittico di Valle Romita … probabilmente in vicinanza del soggiorno bresciano, che cade tra il 1414 e il 1419, perché certe notazioni di densità, di materia fanno già pensare al Foppa, nato appunto nella città lombarda». Emma Micheletti (1976) sembra seguire il Grassi nel pensare che il dipinto preceda la partenza di Gentile per Venezia «non prima o non molto dopo il 1405». Sul fronte opposto è il Christiansen (1982) che non vede divergenze stilistiche tra il San Francesco e l’Incoronazione e che se mai sente leggermente più tardo il San Francesco. Per lui le differenze sono dovute «to the contrasting nature of the subject-matter … and … to the intervention of an assistant in the Coronation». Per lo studioso l’opera cade sul 1420; egli inoltre suggerisce che «the iconography of Christ simultaneously blessing and crowning the seated Vergin, however, is extremely rare outside Florence. This fact, as well as relations of style to Jacopo di Cione’s altar-piece at the National Gallery, London, points to its execution in Florence, where Gentile is securely documented in the autumn of 1420». Christiansen concorda con il Grassi nel ritenere che la parte superiore dell’Incoronazione fosse costituita da un busto del Padre Eterno, ma nega che la tavola sia stata privata di una parte del suo sviluppo, non risultando perdite del colore, e propone che in origine, con il San Francesco sul retro, appartenesse al tipo da lui esemplificato con uno stendardo processionale attribuito a Francesco di Gentile da Fabriano: sopra i due pannelli vi sarebbe stata cioè una cuspide col Padre Eterno. In realtà il San Francesco è un’opera chiave nel percorso di Gentile e va certamente avanzata rispetto all’orientamento più frequente, non forse fino al 1420 del Christiansen, ma, in accordo col Boskovits, verso il 1415, dopo il polittico di Valle Romita, di più radicale irrealismo, con anticipazioni delle morbidezze negli incarnati e perfino nei panneggi che culmineranno nell’Adorazione degli Uffizi. Una piena acquisizione del reale in quest’episodio di mitologia cristiana si ha non nella concezione dello spazio, di dimensione ancora medievale, e neppure nel naturalismo della vegetazione in cui riconosciamo il leccio con le ghiande, il miosotis, i trifogli, ma in quella sorprendente apparizione dell’ombra del corpo del frate sull’erba, che distingue il dipinto di Gentile dal prototipo iconografico ancora giottesco (si ricordi il Taddeo Gaddi del Fogg Art Museum di Cambridge). Di questa nuova situazione mentale ha dato forse la più limpida lettura il Bellosi: «Il naturalismo analitico che ormai conosciamo si indugia a ricostruire un affresco duecentesco con l’Annunciazione sulla facciata della cappellina; ma si raddensa per l’invenzio-

ne tutta nuova e luministica del Crocefísso-serafino che manda raggi di luce materiata, ne bagna il fianco roccioso del monte, fa più intensa l’oscurità dietro il santo sugli arbusti che diventano come grumosi, e al di qua del fraticello seduto sull’erba getta una sagoma d’ombra nitidissima, che per essere forse il primo effetto di tal genere nella storia della nostra pittura, non finisce di meravigliarci come le anime del Purgatorio nel vedere “il lume che era rotto” dietro la figura di Dante. Un anticipo puntuale degli straordinari effetti luministici che si vedono nelle miniature francesi assai più tarde del “Livre du Coeur d’amour épris”. E come la faccia crepuscolare e notturna di quel naturalismo gotico di cui i fratelli Limbourg erano gli interpreti più squisiti, ma offrendone una versione limpida e mattinale» (La pittura 1966, p. 3). vittorio sgarbi

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56. Gentile da Fabriano (Gentile di Niccolò di Giovanni di Massio; Fabriano 1370 circa-Roma 1427) Madonna dell’Umiltà 1420-1422 tempera su tavola; cm 60 × 45 Pisa, Museo Nazionale di San Matteo

Bibliografia. Cavalcaselle-Crowe 1864-1866, III, p. 106; Colasanti 1909, pp. 18, 53-54, 58, 60-61; Carli 1950; Huter 1971, p. 27; Carli 1974, pp. 67-68; Christiansen 1982, pp. 37-38, 99; M. Burresi, in Imago Mariae 1988, pp. 106-107, n. 55; M. Burresi, in Nel secolo di Lorenzo 1992, pp. 72-75, n. 11; De Marchi 1992, pp. 168-172, 191, note 94-97; Zampetti-Donnini 1992, pp. 99, 130; Bernacchioni 2006, p. 122; E. Daffra, in Gentile da Fabriano 2006, pp. 182-185, n. IV.1; C. Frosinini, in Gentile da Fabriano 2006, pp. 248-251, n. IV.1; Grassi 2008, pp. 39-40; A. De Marchi, in Da Jacopo 2010, pp. 196-197, n. C.7; De Marchi 2012, pp. 64-65; A. Delpriori, in Mestres do Renascimento 2013, p. 42. 226

Quest’opera, senza firma, né data, fu avvistata nel 1866 da Cavalcaselle presso la Pia Casa di Misericordia di Pisa (Cavalcaselle-Crowe 1864-1866, III, p. 106). Richiesta da Supino nel 1893 (deposito del 18/06/1894, si veda Burresi 1988, p. 106) affinché arricchisse il Museo Civico, è conservata al Museo Nazionale dal 1949 (Carli 1950; Carli 1974). Nel 1909 entrò a far parte definitivamente del catalogo delle opere di Gentile da Fabriano nella monografia di Colasanti la prima dedicata al pittore. La datazione ha subito oscillazioni dal periodo bresciano, della cui celebrata impresa al Broletto non restano che esigui frammenti d’affresco (si veda la bibliografia in Christiansen 1982), al breve passaggio a Fabriano, documentato nella primavera del 1420 (fra il 1419-1420 in Zampetti-Donnini 1992, p. 99) al soggiorno a Firenze, nell’arco temporale dal 1420 al 1425, che trova concorde la più parte della critica (Christiansen 1982, con bibliografia precedente; M. Burresi, in Imago Mariae 1988; M. Burresi, in Nel secolo di Lorenzo 1992; vicino alla Pala Strozzi in De Marchi 1992, p. 169; 1420-1421 in De Marchi 2012, p. 64; 1420-1423 in A. Delpriori, in Mestres do Renascimento 2013, p. 42). A collocare la tavoletta in un contesto toscano concorrono infatti vari indizi. Studiando la peculiarità di questa iconografia di Madonna dell’Umiltà assisa in un’alcova e non su un verde prato, Carl Huter (1971, p. 27) vi ha visto un’originale alternativa alla Virgo lactans di martiniana memoria e il superamento di quella di matrice veneziana col Bimbo adagiato in grembo alla Madre. Una straordinaria contaminazione, questo connubio fra l’umiltà della Vergine e la sua esaltazione – raffigurata con le braccia incrociate sul petto, ubbidiente come nell’Annunciazione (e infatti lungo il bordo del manto si legge la salutazione evangelica in minuscola gotica), adorante il Figlio come nella Natività e umile come fosse incoronata – che sarà recepita fedelmente dal solo Angelico nel dipinto oggi alla National Gallery di Washington (Christiansen 1982, p. 40). Scartata l’eventualità che due pagamenti a Gentile del 1418 per un dipinto dall’intaglio ricco e complesso destinato a Carlo Malatesta possano riferirsi a questa anconetta dalla sobria cornice originale (A. De Marchi, in Da Jacopo 2010), è il colorato commesso marmoreo finto sul retro, che si inserisce perfettamente nella tradizione rappresentata dalla Madonna col Bambino in trono di Lippo Memmi o dal dittico di Pietro Lorenzetti del Lindenau-Museum di Altenburg, a denunciare il gusto toscano della committenza. La netta profilatura dei listelli e degli specchi del disegno, troppo marcata perché sia solamente l’incisione preparatoria sulla mestica, potenziano il senso di verità dell’intarsio. La tavoletta, restaurata nel 1958 (Christiansen 1982, p. 99), nel 1963-1964 da Nicola Carusi e nel 1981 da Eleonora Rossi (M. Burresi, in Imago Mariae 1988, p. 106) mostrerebbe i segni delle cerniere su entrambi i lati come lo scomparto centrale di un trittico per

la devozione domestica (Burresi 1988; M. Burresi, in Nel secolo di Lorenzo 1992, p. 74). Ma gli spigoli della cornice del recto, martoriati in più punti, non mi hanno permesso di confermare questa lettura (concorde il restauratore Pierluigi Nieri, che ringrazio per il parere). Il marmo verde dipinto sull’intero spessore sembra del resto conferire all’anconetta un aspetto di compiutezza e pure le sue dimensioni (cm 60 × 45) non sono troppo esigue da pretendere due sportelli. La suggestiva proposta che fosse destinata al fiorentino Alamanno Adimari, cardinale di Pisa dal 3 novembre 1406 (Pàsztor 1960; M. Burresi, in Imago Mariae 1988; M. Burresi, in Nel secolo di Lorenzo 1992; poco stringente per Bernacchioni 2006, p. 122) per la cui tomba nella chiesa di Santa Maria Nuova, a Roma, come ricorda Vasari (1568, ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, II, p. 366), Gentile avrebbe dipinto l’arcosolio nel 1427, ha contribuito a rinserrare la datazione al settembre del 1422, quando morì l’altro prelato, data da intendere come terminus ante quem per l’opera (C. Frosinini, in Gentile da Fabriano 2006). La presenza di scritte in caratteri cufici, creduta peculiare del periodo fiorentino di Gentile, ha concorso ad orientare la datazione del dipinto. Per un riepilogo sui numerosi dispareri riguardo la loro leggibilità ed interpretazione, rimando all’articolo di Vincenza Grassi (2008), che nella Shahāda sul nimbo della Vergine decripta l’invocazione “Ave Maria” laddove Emilio Teza (1907) credette di leggere a specchio la firma dell’artista. L’inesauribile variazione degli ori – a missione, bulinati, sgraffiti, punzonati – nel pavimento, nel drappo d’onore, nei cuscini e nelle stoffe preziose, e le nuove avvisaglie spaziose di questo dipinto sono il necessario preludio alla pala per la cappella Strozzi in Santa Trinita, a Firenze. Se la trasparenza del velo che ricopre il Bambino rimanda alla descrizione della Madonna dei Banchetti di Siena di Bartolomeo Facio, il risvolto del manto che copre la testa della Madonna di Pisa, sgraffito sull’oro e laccato di verde come uno smalto traslucido, evoca ancora fortemente alla memoria la manica del Cristo dell’Incoronazione della Vergine della chiesa di San Francesco a Fabriano (ora al Getty Museum di Los Angeles; De Marchi 1992, pp. 169-172; A. De Marchi, in Da Jacopo 2010; E. Daffra, in Gentile da Fabriano 2006, p. 184): un capolavoro assoluto sul quale si misurerà un compatriota di Gentile ancora a distanza di più di trent’anni, vale a dire Antonio da Fabriano, Antonello nelle carte genovesi (Alizeri 1870-1880, I, pp. 268-269, 446), il cui soggiorno nella Superba adesso può essere protratto fino all’aprile del 1449 grazie ad un inedito documento, un non molestatur, cioè poco meno di un salvacondotto (ASG, AS 735, 15 gennaio 1449, c. 31), rilasciatogli dal doge Ludovico Campofregoso all’inizio di quell’anno. Maria Falcone

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57. Anonimo scultore (seconda metà del XII secolo) Crocifisso seconda metà del XII secolo legno policromo; cm 237 × 210 Matelica (Mc), Museo Piersanti

L’opera matelicese, straordinaria per dimensioni e per datazione riconosciuta da quasi tutti gli studiosi non molto lontana dalla metà del XII secolo, rappresenta un’apertura d’eccezione sulla scultura lignea nell’area fabrianese. In occasione della mostra “La cultura lignea nelle alte valli del Potenza e dell’Esino” venne esposta quale primo e più importante esemplare delle rappresentazioni scultoree del Christus triumphans, avendo in comune con altre sculture e con le croci dipinte su tavola di età romanica le connotazioni del Cristo vivo con il corpo eretto, piedi paralleli trafitti da due chiodi, occhi aperti (Massa 1993; M. Massa, in La cultura lignea 1999). Ospitata nel Duomo di Matelica già nel primo Ottocento (Acquacotta 1838-1839, I, p. 72), ma proveniente dalla perduta chiesa priorale benedettina di Sant’Eutizio (Sant’Eutizio in arborata ricordata dallo stesso Acquacotta come già demolita nel Settecento), fu destinata al Museo Piersanti (Bigiaretti 1917) su segnalazione di Lionello Venturi, che l’aveva notata durante la sua attenta perlustrazione del territorio marchigiano. La croce cui il corpo del Cristo è appeso, caratterizzata da un trattamento a finto legno su fondo azzurro su cui domina il cartiglio con l’iscrizione i·n·r·i in caratteri gotici è stata probabilmente realizzata in occasione del trasferimento del crocifisso in Duomo. Nel 1961 fu inviata a Santiago de Compostela alla mostra “El Arte Romànico”. L’ultimo restauro risale ai primi anni settanta dello scorso secolo, è stato realizzato da Silvestro Castellani e seguito dall’esposizione dell’opera alla mostra urbinate del 1973 (G. Alleva, in Restauri nelle Marche 1973). È il giudizio del Venturi (1916) a sottolineare per la prima volta l’eccezionalità della scultura, che trova confronti in area marchigiana, per le sue grandi dimensioni, con altri esemplari come quelli del Duomo di Camerino, della chiesa di San Martino a Esanatoglia e di quella del Santissimo Crocifisso a Numana. La figura di Cristo emana una particolare sensazione di forza in virtù della lavorazione cilindrica del tronco, del collo, delle gambe, delle mani gros-

BIBLIOGRAFIA. Acquacotta 1838-1839, I, p. 72; Venturi 1916, pp. 25-26; Bigiaretti 1917, p. 24; Toesca 1927, II, p. 866, nota 60; F. Bologna, in Sculture lignee 1950, pp. 44-45; Mostra di sculture 1957, pp. 7-43; Carli 1960, pp. 10-13; G. Alleva, in Restauri nelle Marche 1973, pp. 17-20; Peroni 1986; Massa 1993, pp. 187-188; M. Massa, in La cultura lignea 1999, pp. 34-35, n. 1; Fachechi 2001, pp. 1015; Maetzke 2002, pp. 17-19; Ulianich 2007; Vitolo 2007; De Marchi 2009, pp. 610-611. 228

se e tozze oltre che della piegatura delle lunghissime braccia, che evoca quella di rami d’albero, tanto che l’intero corpo, descritto attraverso astrazioni geometriche, si presenta con la grandiosità di un tronco. «Bronzo e basalto avevano altrettanta forza quando usciron levigati dallo scultore egiziano. Per caso, in antitesi con tutto lo stile romanico, in questo ignoto artista d’eccezione perduto tra le foreste dell’antica Marca, l’arte egiziana rivive» (ivi, p. 26). La descrizione di grande suggestione guida verso una lettura del Crocifisso in senso decisamente romanico e nordico sottolineandone il timbro tardo-ottoniano e lascia intendere che in area marchigiana potesse aggirarsi qualche settentrionale, forse anche oltremontano, vissuto in ambiente antelamico o comunque molto influenzato dall’operato dell’Antelami. Il giudizio di Pietro Toesca (1927, II, p. 866, nota 60), che ritiene il Crocifisso di Matelica «della più sommaria e solida plastica lombarda del secolo XII», influenza anche la lettura stilistica di altri crocifissi lignei di dimensioni monumentali dell’Italia meridionale, come quello dei Gerolamini di Napoli o quello «di sconvolgente pathos» di Mirabella Eclano, in Irpinia (F. Bologna, in Sculture lignee 1950, p. 44). Gli studi successivi di Fernanda de Maffei (Mostra di sculture 1957, p. 35) e di Enzo Carli (1960, p. 10), pur ridimensionando il peso di presunti influssi lombardi, riconducono il grande Crocifisso di Matelica a un ruolo di mediazione tra una tradizione derivata dalla conoscenza dell’oggettistica preziosa di età ottoniana (dittici eburnei, croci gemmate, reliquiari) e l’esigenza di monumentalizzare la rappresentazione del Crocifisso, sentita sia in ambito urbano, come nel caso delle “staurite” sorte nel XII secolo a Napoli in relazione con le celebrazioni pasquali (Vitolo 2007), sia negli insediamenti benedettini, dove, più o meno in contemporanea, cominciano a comparire, spesso con la funzione di stauroteche, le prime grandi croci dipinte su tavola, come quella di Fondi, forse l’esemplare più antico tra quelli che conosciamo (Ulianich 2007). Il recente restauro di un crocifisso monumentale stilisticamente vicino a quello di Matelica, appartenente alla collegiata di San Giovanni Decollato a Camaggiore in Mugello, ha rivelato la presenza, all’interno di una sede ricavata nella testa, di due sacchetti portareliquie. Le opinioni espresse intorno al Crocifisso di Matelica da Mario Salmi, Emilio Lavagnino, Federico Hermanin, Luigi Serra, Géza de Francovich alimentarono una vera e propria “questione matelicese”,

ora ben illustrata dall’accurata ricostruzione della vicenda critica compiuta da Grazia Maria Fachechi (2001, pp. 10-12) cui rimandiamo per la densa bibliografia. In pratica, l’interesse sollevato dal Venturi, che dichiarava quest’opera «sommamente rara e pregevole» (citaz. in Bigiaretti 1917, ed. 1997, p. 32) aveva orientato l’interpretazione critica della plastica medievale centroitaliana del XII e XIII secolo verso una dipendenza dalla vasta produzione monumentale preantelamica e antelamica, individuando due diverse vie di penetrazione: una attraverso la Toscana, l’altra attraverso le Marche. Ancora oggi alcuni grandi crocifissi lignei che connotano gli interni di cattedrali e di abbazie offrono una rara esemplificazione del rapporto che si era instaurato tra la spazialità delle architetture romaniche e la devozione verso l’imago Crucis (si vedano i casi Sant’Antimo presso Montalcino o di Santa Maria a Pie’ del Chienti nel Maceratese). Un utile confronto può essere riconosciuto a Collevecchio, piccolo centro del Reatino non lontano da Magliano Sabina, dove la collegiata locale ospita un grande crocifisso che nella lavorazione schematica e “cilindrica” si avvicina non poco ai modi di quello di Matelica. In questo crocifisso, che non ha mai subito restauri, risulta molto evidente il diverso grado di finitezza del trattamento dell’incarnato del volto e del collo rispetto a quello del costato, che lascia pensare a un possibile rivestimento in lamina metallica. Questa tecnica, osservata anche in un crocifisso della cattedrale di Arezzo (Maetzke 2002), testimonia l’intrigante rapporto tra oreficeria e scultura monumentale diffusamente presente nel XII secolo, specie nell’Europa del Nord, riscontrabile anche in Italia, in area piemontese (Vercelli, Casale Monferrato) e lombarda (Pavia), ma anche in Toscana, Lazio e Campania (Peroni 1986). Non siamo in possesso di elementi che possano indirizzarci meglio alla comprensione dei motivi che condussero alla realizzazione, a partire da un certo momento, di numerosi crocifissi di grande dimensione – tra cui anche i Cristi tunicati, noti come Volto Santo, di Lucca e di Sansepolcro – ma è da notare che la loro diffusione, da riferirsi quasi sempre alla metà del XII secolo, prelude al successo che riscuoteranno non molto tempo più avanti i gruppi delle Deposizioni, così da confermare il probabile uso processionale dei grandi crocifissi lignei, legato, come quello delle Deposizioni, alle celebrazioni della Settimana santa. GIORDANA BENAZZI

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58. Anonimo scultore umbro-marchigiano (seconda metà del xiii secolo) Madonna col Bambino seconda metà del XIII secolo legno policromo; cm 144 × 43 × 44 Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”

La scultura è riemersa solo nei primi anni ottanta del Novecento per merito di Roberto Stelluti, che l’aveva notata tra i rifiuti del demolendo brefotrofio. Pervenuta probabilmente dalle demaniazioni postunitarie agli istituti di carità cittadini, nulla sappiamo a tutt’oggi della sua originaria collocazione. Pesantemente alterata sia nel modellato che nel trattamento della superficie, è stata restaurata a Roma presso l’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro, che vi ha operato tra il 1999 e il 2012 con il coordinamento della restauratrice Marisol Valenzuela e la direzione scientifica della dottoressa Daila Radeglia. Il completamento del laborioso e problematico restauro e la fase conclusiva della reintegrazione pittorica sono stati realizzati dalla ditta Fabrica Conservazione e Restauro s.c.p.l. di Roma. Alla restituzione dell’opera alla Pinacoteca fabrianese è seguita una giornata di studio (24 novembre 2012) di cui, proprio in questi giorni, vedono la luce gli atti con ampio resoconto e documentazione del restauro (2014). Dell’acquisizione alle raccolte fabrianesi di questa inedita Maestà, giudicata di fattura spoletina e messa in relazione con la Croce di Rainaldetto (cat. 5) a testimoniare i frequenti rapporti artistici che dovettero legare Fabriano e la capitale del ducato longobardo nel Medioevo, aveva dato recentemente notizia Giampiero Donnini (2013). Si premettono queste informazioni per chiarire che il giudizio sull’opera, come può essere formulato in questo momento, è di necessità lacunoso e parziale e per certi versi condizionato dalle scelte operate nel corso del restauro stesso, restauro quanto mai problematico e delicato che ha inteso riproporre l’integrità volumetrica della scultura riportando tutta la superficie al livello della preparazione, trattata poi con abbassamenti di tono differenziati. Gli innaturali toni “pastello” che dominano oggi l’insieme costringono a una lettura che deve giovarsi dei pochi brani di policromia conservatisi e dei pochi frammenti di preparazione originale visibile per ricostruire mentalmente sia le caratteristiche costruttive del manufatto sia l’aspetto che esso doveva avere prima delle gravi manomissioni e perdite. C’è da sperare che per assonanza con i due esemplari più prossimi al nostro – la “Madonna rosa” di Poggio Primocaso e la “Madonna bruna” di Visso – la scultura di Fabriano non debba essere ricordata come la “Madonna color salmone”.

Bibliografia. Venanzangeli 1984, pp. 200-204; Delpriori 2010, pp. 17-26; Donnini 2013; Marcelli 2014, pp. 6062; Radeglia 2014; Valenzuela-Conti-Tocci 2014. 230

L’immagine della Vergine col Bambino è soggetto trattato molto diffusamente dalla scultura due e trecentesca di area centro italiana, in particolare umbra e marchigiana (ma molti esemplari si possono rintracciare anche nella Toscana meridionale e in Abruzzo) tanto che la bibliografia, dagli studi di Géza De Francovich e di Giorgio Castelfranco risalenti agli anni venti e trenta del Novecento, a quelli di Carli, alle ormai classiche ricerche di Previtali, fino ai più recenti contributi di Neri Lusanna, Lunghi, Fratini, Fachechi, Marcelli, Delpriori offre un ampio materiale di confronto per una prima collocazione del nuovo ritrovamento. Scolpita in un unico blocco cavo e richiusa sul retro da un coperchio, la postura frontale ma con il Bambino decentrato, le tracce di un basso trono a sgabello con cuscino, la mancanza di postergale e di suppedaneo, l’atteggiamento delle braccia, il delicato ripiegarsi del mantello sul ginocchio destro della Vergine, l’andamento arrotondato dei volumi e l’aspetto dolce e levigato del volto rimandano con decisione ad alcuni esemplari ben noti: la Madonna delle Concanelle, da Bugnara in Abruzzo ora all’Aquila, la Madonna rosa di Poggio Primocaso, ora nel Museo Civico di Palazzo Santi a Cascia, e soprattutto la Madonna bruna della collegiata di Visso. Dunque sculture importanti per qualità e datazione, ascritte alla metà del Duecento o poco oltre, la prima delle quali, datata 1262, è capofila di un gruppo diffuso tra Umbria, Toscana e Abruzzo. Con le sculture indicate quali sue consanguinee la Madonna di Fabriano condivide anche alcuni aspetti di tecnica esecutiva che andranno meglio confrontati sulla base della documentazione di restauro: presenza di successivi strati di ingessatura di cui i primi di granulometria molto grossolana e di colorito grigiastro per la presenza di inerti scuri (polvere di carbone?); arricchimento del modellato con un raffinatissimo trattamento pittorico che sul manto della Vergine e sulle vesti sia della Vergine che del Bambino prevede l’uso di lamina metallica (argento e stagno) trattata poi con pigmenti trasparenti (lacche) e rifiniture eseguite con altre lamine metalliche applicate a missione per le sottili decorazioni delle vesti. L’abito della Vergine, violaceo, alterna infatti motivi a orbicoli e a losanghe (si pensi alla Santa Cristina di Caso attribuita al Maestro di Cesi, Delpriori 2010), il manto, che ha l’interno

rosso (come le scarpe puntute della Vergine e del Bambino) e l’esterno rifinito da un bordo finemente decorato, esibisce nella parte posteriore, dove si è in larga parte conservata, una elaborata decorazione floreale ottenuta creando una trama di fiori bianchi che legano anelli azzurri e neri su un fondo rosso. Né le lamine meccate della Madonna bruna di Visso né la policromia in eccellente condizione della Madonna dell’abbazia di Sant’Antimo, gemella di quella di Cascia, mostrano una simile ricchezza decorativa, che trova riscontro solo nel trattamento di alcuni postergali. Quello che sembra richiamare particolarmente da vicino la decorazione della Madonna di Fabriano lo possiamo osservare in un altro esemplare marchigiano, la Madonna col Bambino in deposito presso il Museo Diocesano di Camerino, proveniente dalla chiesa di Santa Maria aquae imbricis di Colle d’Altino, cui va attribuita una datazione tardo duecentesca. L’appartenenza all’antica diocesi di Spoleto della più parte degli esemplari chiamati in causa per le evidenti similitudini avvalora l’appartenenza della bella Madonna recuperata a Fabriano alla produzione delle botteghe spoletine tanto che, sulla base della lettura dell’iscrizione che compare sull’esemplare di Bugnara, si è già voluto proporre come suo artefice Machilone con i suoi collaboratori (Marcelli 2014, p. 61). Sarebbe tuttavia opportuno, a nostro avviso, intendersi meglio sul termine “spoletino”, che dalla pittura è transitato alla scultura in virtù di una motivata supervalutazione dell’aspetto pittorico che connota buona parte della produzione plastica di quest’area, e supporre comunque che la montagna appenninica umbro marchigiana avesse diversi centri di produzione e di smistamento, e soprattutto un sistema di utilizzazione di artisti semi-itineranti di cui ci auguriamo che in futuro si possano tracciare meglio gli spostamenti e le relazioni. A questo proposito va ricordata la leggenda che circonda la Madonna bruna. Si suppone che questa fosse stata portata a Visso da un pellegrino il quale «la facìa vedere et baciare, et la Madonna facìa grazia et miracoli a tutti et fu portata nella chiesa, ma quando la volse ripiglià, non la potette movere … et ita restò con nui et lu pellegrinu mortus est lu dì dopo» (Venanzangeli 1984, p. 203). Traiamone qualche opportuna considerazione. giordana benazzi

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59. Officina umbro-toscana (da modelli transalpini) Croce astile prima metà del xiii secolo rame inciso a bulino e dorato, bronzo fuso, già dorato; cm 48 × 26 Fabriano, loc. Castelletta, Chiesa parrocchiale di Santa Maria Sopraminerva

Retro della Croce.

BIBLIOGRAFIA. Serra, Elenco 1925, p. 379; Molajoli 1932, pp. 174-178; De Francovich 1935, pp. 9-10; Molajoli 1936, ed. 1968, pp. 179-180. 232

Nell’antico borgo di Castelletta, poco lontano da Fabriano, la parrocchiale di Santa Maria Sopraminerva, il cui nome denuncia la probabile origine romana del primo nucleo abitato, conserva una importante croce astile romanica. La croce, in rame inciso e dorato, a bracci patenti con estremità introflesse, forse in origine concluse da piccole sfere, è ornata lungo il perimetro da una semplice marginatura a motivo ondulante e puntinato. Sul recto, cui aderisce mediante tre chiodi il Crocifisso, sono incisi la croce, sormontata dal titolo in caratteri greci e infissa su una stilizzata balza rocciosa allusiva al Golgota, e i tre simboli alati degli evangelisti Luca, Matteo e Marco (manca Giovanni, presente sul verso, come uno dei due dolenti). Il Cristo, rappresentato vivo, nell’iconografia del Christus triumphans, è una preziosa microscultura, in bronzo fuso con tracce di doratura. Alla nobile fisionomia del volto disposto assialmente e appena reclinato, dai tratti finemente cesellati e incorniciato dai capelli divisi nel mezzo e ricadenti sulle spalle, corrispondono le eleganti forme anatomiche con il torace inarcato e ben definito, le braccia spalancate e leggermente flesse come le gambe accostate, i fianchi cinti dal lungo perizoma a rigide pieghe verticali, stretto in vita da un lungo cingolo chiuso da un nodo complesso, con lembi pendenti. Sul verso è nuovamente incisa la croce, sormontata dal titolo e infissa sul Golgota, con il Crocifisso, rappresentato morto, col capo nimbato e chino sul braccio destro, il corpo affusolato e leggermente arcuato, coperto dal lungo perizoma drappeggiato, le gambe sovrapposte e i piedi divaricati sul suppedaneo. Alle estremità del braccio orizzontale sono incise le mezze figure della Vergine che tende la mano destra verso il Figlio, e di san Giovanni che nasconde il volto con un lembo del mantello; in alto, un angelo ad ali spiegate sorregge il volume dei vangeli con le mani velate. La croce, già catalogata da Luigi Serra (Elenco 1925, p. 379), è commentata da Bruno Molajoli (1932, pp. 174-178) e da Géza de Francovich (1935, pp. 9-10). Il primo parla di «rara ed eletta manifestazione d’arte»

(p. 178) soprattutto in riferimento alla microscultura del Crocifisso, accostabile alle piccole suppellettili bronzee prodotte nelle scuole monastiche tedesche tra XII e XIII secolo, poi imitate anche in Italia. A questo proposito, l’autore suggerisce una strettissima somiglianza con un piccolo crocifisso dei Musei di Berlino, rispetto al quale, tuttavia, l’esemplare di Castelletta «si addolcisce in una pacata eleganza di modellatura» (ibid.) che conferisce un più morbido plasticismo alle membra e alla grafica scansione del perizoma, e al volto una più raccolta e intensa espressione. Più generico il commento di De Francovich che, pur accostando il piccolo crocifisso fabrianese a quello di Berlino e ad un analogo esemplare del Bargello, ritiene l’opera di produzione locale, accorpandola ad un gruppo di manufatti simili che copiano, più o meno fedelmente, modelli d’Oltralpe. A tali considerazioni, in linea di massima condivisibili, andrà anche aggiunto l’evidente divario stilistico tra il supporto e il Crocifisso, caratteristica comune peraltro ad una nutrita serie di croci duecentesche centro-italiane che in alcuni casi ha fatto ipotizzare la possibilità di discrepanze, anche cronologiche, nell’ambito di uno stesso manufatto (Peroni 2006, pp. 33-41). Il Crocifisso di Castelletta, una sorta di “miniaturizzazione” della solenne monumentalità dei crocifissi di area renano-mosana, resta peraltro quasi un unicum che non trova effettivi riscontri, tra manufatti simili, come invece avviene per la croce di supporto. Confronti si possono infatti istituire con vari manufatti di produzione centro-italiana: una significativa affinità è riscontrabile, per esempio, tra le incisioni della croce di Castelletta e quelle della croce di Castellina in Chianti (C. Alessi, in Oreficeria sacra 1985, pp. 29-31), sia per quanto riguarda le corsive figurine delle terminazioni, sia per quanto attiene all’immagine del Crocifisso, desunta dalla pittura contemporanea. Nella croce di Castelletta quell’immagine è delineata con una particolare sensibilità, che conferma la derivazione iconografica dalle croci dipinte duecentesche umbro-toscane come quella, per restare in zona, dello spoletino Rainaldo di Ranuccio nella Pinacoteca di Fabriano. Benedetta Montevecchi

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60. Anonimo scultore tedesco (prima metà del xiv secolo) Cristo doloroso prima metà del xiv secolo legno policromo; altezza cm 110 Fabriano, Chiesa di Sant’Onofrio

BIBLIOGRAFIA. Serra 1929, p. 259; Molajoli 1936, ed. 1968, p. 158; De Francovich 1938, pp. 152, 230; Donnini-Parisi Presicce 1994, p. 67. 234

Il grande crocifisso ligneo sovrasta l’altare della chiesa fabrianese di Sant’Onofrio, detta anche della Scala Santa. Già Bruno Molajoli aveva sottolineato l’estraneità del manufatto rispetto agli esemplari esistenti in area umbro-marchigiana: «È stato ritenuto» scrive lo studioso «opera della seconda metà del secolo xiv, e derivazione d’arte tedesca; ma possono vedersi a Sulmona (Cattedrale) e in qualche chiesa di Puglia (Andria, ecc.), esemplari assai somiglianti che sembrano derivare, con questo, da una tradizione popolare di origine spagnola» (1936, ed. 1968, p. 158). L’intenso e impressionante elaborato rientra, in effetti, nel vasto e diramato filone del cosiddetto Cristo gotico doloroso, delineato con acume da Géza De Francovich nel 1938. Si tratta di una particolare iconografia di origine tedesca, attraverso la quale si è inteso rappresentare «con immediatezza terrificante un’immagine di pietà e di sofferenza estrema» (1938, p. 152). Simili creazioni ebbero larga fortuna in Europa, dalla Germania alla Francia, dalla Spagna all’Italia, a partire dalla seconda metà del Duecento e per tutto il secolo seguente. Sulla posizione cronologica del Cristo doloroso di Sant’Onofrio esiste una disparità di giudizio che vede De Francovich proporre una data assai alta, quasi alle soglie del Quattrocento (ivi, p. 230). Per Luigi Serra (1929, p. 259) e Molajoli (1936, ed. 1968, p. 158), invece, la scultura spetterebbe alla seconda metà del secolo. Il quesito non si presta a facile chiusura dato il carattere di assoluta peculiarità del prodotto, la cui diffusione ha dato luogo a una replica fedele dei più antichi prototipi sin oltre il terzo quarto del Trecento, sull’onda di una popolarità che, ad onta dell’aspetto rabbrividente, dovette risultare assai vasta. Nel caso specifico, se ne conosce la provenienza dalla demolita chiesa di San

Francesco di Fabriano e la tradizione devota vuole che sia appartenuto al beato Francesco Venimbeni, morto nel 1322. In effetti i suoi caratteri stilistici e figurativi parrebbero procedere verso tale riferimento temporale, più prossimo all’inizio che non alla metà del secolo. E potrebbe anche trattarsi del frutto di una maestranza di intagliatori nordici attestati nelle Marche, come tenderebbe a confermare per via indiretta il crocifisso della chiesa di San Catervo a Tolentino. Da qui le croci si sarebbero diffuse in Abruzzo e in Dalmazia, dove nel Duomo di Spalato si può ammirare un esemplare del tutto analogo a quello qui esposto. Privo di alcuni attributi originali di non trascurabile peso, quali la larga corona a cordoni intrecciati che ne cingeva il capo e la croce a ipsilon, il Cristo doloroso di Sant’Onofrio mostra accenti tormentati nell’intelaiatura del bel corpo slanciato e nell’espressione dolente del viso. Un senso di tristezza grave si sprigiona dal personaggio. Sporgono con inaudita forza plastica i volumi del ventre e del torace rudemente squadrati, in aperto contrasto col panneggio ricercato e forbito del perizoma. Impressionante l’orrenda ferita che squarcia il costato, e ancor di più quella che dilania i piedi inchiodati sino a scarnificarli. Giampiero Donnini

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61. Anonimo scultore del primo Trecento Crocifisso primo quarto del xiv secolo legno policromo; cm 180 × 170 Gualdo Tadino (Pg), Museo di Rocca Flea

BIBLIOGRAFIA. Guerrieri 1933, passim; De Francovich 1938; Santi 1966, pp. 56-57; R. Casciaro, in Museo Civico 2000, pp. 139-140, n. 70; Casciaro 2002.

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Dal Museo Civico di Gualdo Tadino è stato prestato per la mostra di Fabriano un grande Crocifisso riconducibile al filone iconografico del “Cristo gotico doloroso”, una iconografia della passione di Cristo particolarmente cruenta ed espressiva che incontrò una notevole fortuna nell’Europa cristiana tra la seconda metà del xiii e la prima metà del xiv secolo, sostenuta dalle nuove forme di predicazione degli ordini religiosi mendicanti e funzionale alle cerimonie paraliturgiche delle fraternite laicali a questi collegate. Questo modello iconografico fu oggetto nel 1938 di un celebre studio di Géza de Francovich, che partendo dal Crocifisso della chiesa di Santa Maria in Campidoglio a Colonia sondò la fortuna incontrata da questi crocifissi dolorosi nel contesto europeo. L’introduzione nella Penisola di questa iconografia drammatizzata della Passione fu una conseguenza della situazione politica del xiii secolo, che vide la successione nel Regno di Napoli di monarchi svevi e angioini e l’ascesa al soglio di Pietro di pontefici francofoni, con la conseguente circolazione di artisti ultralpini nella Penisola e il fenomeno dell’imitazione di modelli gotici da parte di maestranze latine. Un’altra circostanza fu l’apertura in importanti città del Nord Europa di Studia generalia frequentati da chierici affiliati alle nuove religioni mendicanti che si trovarono in contatto con iconografie estranee alla circolazione più ristretta delle famiglie che seguivano la Regola di san Benedetto. È curioso come il Crocifisso di Gualdo Tadino non abbia trovato un proprio spazio all’interno di questo orizzonte, pur rientrando a pieno titolo nel fenomeno. Addirittura, la prima notizia a stampa sulla croce, che c’informa della provenienza dal convento dei frati agostiniani di Gualdo Tadino, ne posticipava l’esecuzione al xv secolo (Santi 1966, pp. 5657). La datazione fu anticipata all’ultimo ventennio del Trecento nella scheda di catalogo della raccolta (R. Casciaro, in Museo Civico 2000), all’interno della quale si dava conto del fenomeno del Cristo gotico doloroso, ma si finiva per legarne l’esecuzione al Maestro dei Beati Becchetti, cioè all’autore di un gruppo di sculture lignee della Pinacoteca di Fabriano che decoravano un oratorio fatto costruire dai frati agostiniani Pietro e Giovanni Becchetti in seguito a un pellegrinaggio in Terrasanta compiuto nel 1393 (cat. 72, 73). Questo collegamento va de-

cisamente respinto in quanto lo scultore coinvolto dagli Agostiniani di Fabriano è ancora condizionato da una rivisitazione dei precedenti romanici presenti nella regione, mentre lo scultore al servizio degli Agostiniani di Gualdo Tadino rivela una cultura figurativa decisamente estranea alla scultura lignea nota nell’area appenninica. Il solo confronto possibile a livello locale è con il Cristo gotico doloroso della chiesa di Sant’Onofrio a Fabriano (cat. 60), ma si limita all’aspetto iconografico perché dal punto di vista esecutivo sono sensibili le differenze tra i due manufatti. Precedente comune a entrambi è un Crocifisso in Santa Margherita di Cortona, legato ai Francescani di Cortona e alla memoria di santa Margherita, davanti al quale erano soliti cantare le loro laude i Disciplinati della città toscana. Purtroppo un restauro antico – uno dei tipici interventi invocati dai visitatori apostolici in visita alle chiese della Penisola per accertarne la congruità alle esigenze di decoro imposte dal Concilio di Trento – ha sostituito le braccia e ha ricoperto sotto una spessa policromia l’intaglio del capo e del torace, che risultano del tutto ingiudicabili. Le sole parti relativamente ben conservate sono la forma del perizoma e dei piedi trafitti da un unico chiodo, anche se vi è meno accentuata la deformazione grottesca usuale nei prototipi dell’Europa settentrionale. La datazione più verosimile non dovrebbe allontanarsi dal primo quarto del Trecento, a quando risale anche il Crocifisso di Fabriano, tradizionalmente collegato alla memoria del beato Francesco Venimbeni († 1322). La presenza dei frati agostiniani a Gualdo Tadino è documentata dal 1288 (Guerrieri 1933, passim). Nel 1583 il vescovo di Nocera Umbra, Girolamo Mannelli, segnalò in chiesa un’immagine del Crocifisso sopra l’omonimo altare, presso il quale si riuniva una fraternita di laici. Quest’ultima disponeva di un oratorio nel perimetro del chiostro conventuale, sopra il quale non avevano alcun diritto gli Agostiniani. Benché non se ne abbiano notizie prima del 1534, sembra improbabile che la fraternita fosse stata fondata in una data successiva l’esecuzione del Crocifisso. È verosimile che davanti a questa immagine si cantassero laude drammatizzate alla maniera dei Disciplinati: costume tuttora seguito a Gualdo Tadino nei giorni della Settimana santa. Elvio Lunghi

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Fra’ Giovanni di Bartolomeo (già Maestro dei magi di Fabriano, notizie dal 1365-Fabriano 1399) 62. San Giuseppe cm 103 × 50 × 68

63. Re Melchiorre cm 101,4 × 46 × 90 64. Re Baldassarre cm 173,2 × 45 × 33

65. Re Gaspare cm 175,9 × 46 × 36 ottavo-nono decennio del xiv secolo legno policromo e dorato Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”

Bibliografia. Anselmi 1889; Lugano 1925; Naselli 1954; Sassi 1954; Sassi 1955; Sassi 1961, p. 17; G. Marchini, in Mostra di opere d’arte restaurate 1966, pp. 1-14, n. 2; Pulcinelli 1968; A. Rossi, in Mostra di opere d’arte restaurate 1970, pp. 27-29; Neri Lusanna 1992; Donnini 1993, pp. 243 sgg.; Donnini, Una bottega 1994; Neri Lusanna 1994; Neri Lusanna 2002; Kreytenberg 2004; Marcelli 2004; Fachechi 2011, pp. 79-80. 238

Questo straordinario “racconto” dell’Epifania è rappresentato da sculture a tutto tondo, a grandezza d’uomo, che ha come attori i tre re magi e san Giuseppe, e si completa idealmente con la Madonna col Bambino, di ubicazione ignota, resa nota da Enrica Neri Lusanna (1992), alla quale si deve il nome di comodo di “Maestro dei magi di Fabriano”. La disposizione delle figure si può ipotizzare seguendo il percorso degli sguardi. Tali sculture lignee, già nella chiesa confraternale della Misericordia, ora sconsacrata, sono ricordate da Bruno Molajoli (1936, ed. 1968, p. 170) e da Romualdo Sassi (1955, p. 45) che le descrive «non dipinte» e propone come autore fra’ Giovanni di Bartolomeo, in base ad un contratto per un presepe intagliato e dipinto. Il San Giuseppe, seduto e con il capo poggiato sulla mano in espressivo atteggiamento di meditazione, è un volume compatto, sul quale la luce scorre per incunearsi nella profonda piega della veste tra le ginocchia. Al suo fianco era, forse, la Madonna in rappresentazione frontale, mentre il Bambino si volge con mossa vivace verso il san Giuseppe con in mano il dono appena ricevuto da Melchiorre, il re più anziano, inginocchiato, con le braccia al petto in segno di adorazione. La preziosa stoffa dell’abito a mazzetti di fiori dorati su fondo rosso, con bordi in oro e blu, sottolinea nell’eleganza del panneggio la posizione chinata in avanti del re. Il re Baldassarre è uomo maturo, barbato, con espressione intensa. Con la mano destra regge il dono e il mantello le cui pieghe si aprono a ventaglio, mettendo in risalto la preziosità della stoffa con il medesimo schema decorativo del precedente personaggio, mentre un motivo romboidale costituito da minute foglie dorate orna la tunica blu. Il mago indica con il dito della mano sinistra la cometa, verso la quale il re Gaspare, il più giovane, guarda con aria sognante; il suo sfarzoso mantello rosso dai risvolti in vaio è retto da fibbia quadrata in pastiglia e si apre su una corta tunica rossa e oro. Dopo il restauro Giuseppe Marchini (in Mostra di opere d’arte restaurate 1966, p. 11) ha messo in relazione tali superbi manufatti con la cultura figurativa di Allegretto Nuzi, ipotizzando, all’interno della bottega del maestro, una produzione di sculture lignee dipinte, di probabile destinazione devozionale, ma non prive di un impatto artistico sostenuto, produzione della quale i re magi potrebbero essere un esempio. Dato il silenzio dei documenti e delle fonti su questa attività della bottega fabrianese di Allegretto, tale ipotesi ha avuto scarso seguito. La maggior parte degli studiosi concorda tuttavia nel ritenere l’artefice delle sculture fortemente influenzato dalle immagini del pittore, tanto da definirle una «variante plastica delle sue creazioni» (Donnini 1993, p. 244) e notano l’attenzione dello scultore all’opera di Andrea Pisano, per il senso di robusta eleganza che filtrava appunto dalla lezione del maestro e di suo figlio Nino, diffusa dal cantiere del Duomo di Orvieto. Elementi della plastica senese e fiorentina sono presenti nel senso di misura e di ricerca, all’interno di volumetrie chiare, di fluida scioltezza, nonostante la sovrabbondante decorazione (Neri Lusanna 1992, p. 45; Neri Lusan-

na 2002, p. 218). Il nesso tra le sculture lignee dipinte e le immagini nuziane è evidentissimo come nel caso della Madonna della Badia di San Biagio in Caprile (Fabriano, collezione privata) dove il mantello della Vergine ha una stoffa con il motivo di fiori a otto petali in rosso e blu, su fondo chiaro, o con le tartarughe e gli uccelli intrecciati a motivi vegetali come si trova in molti dipinti di Allegretto (Marcelli 2004, per confronti fotografici). Proprio dal paragone con questa opera, che Molajoli vede come robusta interpretazione provinciale della plastica di Giovanni Pisano (1936, ed. 1968, p. 177), il gruppo dei magi rivela la più modesta caratura artistica, in cambio tuttavia di un patetismo devozionale proprio dell’intento dell’esecutore. Non mancano confronti stretti tra i magi e le figure di Allegretto come per esempio il re Gaspare e il San Martino del polittico nel Municipio di Apiro (cat. 37), o il San Giuliano nel trittico del Duomo di Macerata (cat. 41). Si rintracciano caratteri comuni al Maestro dei magi in alcune opere lignee di area fabrianese che vengono a costituire un corpus di tutto rilievo da scalare tra il settimo e il nono decennio del xiv secolo: oltre alla Madonna di Campodonico riferita a un Maestro autonomo, detto “della Madonna di Campodonico” (Neri Lusanna 1994, p. 26), si ricordano i due re magi del Museo Nazionale del Palazzo di Venezia (cat. 66), la Natività di Tolentino (Museo della Basilica di San Nicola), la Sant’Anatolia di Esanatoglia (Camerino, Museo Diocesano; cat. 68), il San Giacomo (Fabriano, Pinacoteca “Bruno Molajoli”; cat. 67), il San Nicola, i Crocifissi in San Silvestro e in San Venanzio a Fabriano (Neri Lusanna 1992, p. 45; Donnini 1993, p. 246; Donnini, Una bottega 1994, p. 38; Marcelli 2004, p. 116). Riprendendo la proposta di Sassi (1955, p. 43) circa la presenza nel monastero di Santa Caterina di un monaco scultore, Bernardino Pulcinelli (1968, p. 18) trascrive nuovamente e traduce il contratto (Archivio Notarile di Fabriano,, rogito di Agostino di Matteo, I, anni vari, c. 85) stipulato a febbraio del 1384 nel monastero tra Vanni da Monterubbiano e fra’ Giovanni di Bartolomeo per l’esecuzione di un presepe scolpito in legno e dipinto con la beata Vergine, san Giuseppe, due angeli, un bue, un asino un pastore con due pecore e un cagnolino da fare «ad morem bonj magistrj» per un compenso di cinquanta fiorini. Il contratto era già stato pubblicato da Anselmo Anselmi (1889, p. 109) e di nuovo reso noto da Carmelina Naselli (1954, p. 17), ma la dispersione del presepe di Monterubbiano vanifica il possibile collegamento tra manufatto ed esecutore, sul quale è utile riunire le scarse notizie. Fra’ Giovanni era un monaco benedettino silvestrino che, lasciata l’abbazia di Montefano, nel 1365 si trasferì nella piccola chiesa di Santa Caterina de bocetis, appena fuori l’abitato di Fabriano (Sassi 1961, p. 17). Probabilmente la sua attività di scultore e la sua condotta di vita attirarono alcuni potenti come la contessa Curradi, vedova di Ugo degli Atti, che donò al frate una proprietà in Castelvecchio. La chiesa e il monastero crebbero con le donazioni e il sostegno di Alberghetto II e di Guido Napoletano Chiavelli (1378 e 1383). In questa vivace comunità

monastica il padre di Gentile da Fabriano rese l’oblazione proprio nelle mani di fra’ Giovanni, priore, nel 1385. Si ricorda anche la presenza di due miniatori Andrea da Ischia e Giovanni da Montepulciano, segno che l’attività artistica era una componente significativa della vita monastica (Lugano 1925, p. 305; Sassi 1954, p. 21; Sassi 1961, p. 17). Si può ipotizzare che Allegretto Nuzi, e in particolare la sua bottega, costituisse parte integrante del panorama in cui operava l’officina monastica che usava formulari in cir-

colazione. La fitta decorazione in oro delle stoffe dei re magi potrebbe essere stata realizzata da un miniatore, tale è la delicatezza della mano che delinea i motivi decorativi, ma non li inventa, ottenendo l’effetto sorprendente del lusso per soddisfare il desiderio pio, e conforme alla moda, di confraternite e fedeli. Altro intento dell’officina monastica è l’aspetto della devozione che richiede concretezza nel racconto evangelico, secondo gli apporti immaginativi stratificati nel tempo sullo scarno racconto di Mat-

teo (2,1-12) e sui vangeli apocrifi, concretezza nella quale l’opulenta società fabrianese del tramonto del Medioevo si rappresentava. Il legame con il presepe vivente di Greccio era spezzato, ma rimaneva il desiderio della messa in scena per raccontare, ricordare e partecipare. Forse a queste sculture si univano figuranti per arricchire il colpo d’occhio e rendere più impressionante la manifestazione del divino e muovere alla preghiera devota. Alle scarne notizie sulla vita del monastero – nel 1390 fra’ Giovanni di Barto239

lomeo e fra’ Niccolò di Giovanni di Massio, padre di Gentile, ricevono un legato di indumenti e ornamenti; il rogito per il presepe di Monterrubbiano – si aggiungono le notizie che riguardano la realizzazione del desiderio lungimirante di fra’ Giovanni di ottenere l’aggregazione del suo monastero a quello di Monteoliveto – dove si recò più volte – per assicurarne la continuità, come fu. La nomina nel 1398 di fra’ Duccio d’Arezzo a priore e a vicario del nostro fra’ Giovanni da Fabriano sancisce l’avvenuto insediamento olivetano. Fra’ Giovanni morì poco dopo nel 1399. Nel necrologio monastico non c’è alcun cenno alla attività di scultore, si ricordano piuttosto i meriti di fra’ Giovanni «olim prior monasterium S. Catrina de Fabriano qui se et suos monacos et di240

ctum monasterium Ordu nostro tradidit» (Lugano 1925, p. 321). Quindi fra’ Giovanni non è solo un devoto e provinciale scultore di presepi, ma uomo di iniziativa, in relazione con personaggi influenti, in particolare i Chiavelli, che scelsero la chiesa di Santa Caterina per la sepoltura. A lui, già scultore, spetterebbe aver avviato una bottega aperta, per la rifinitura pittorica, anche agli aiuti di Allegretto. A cominciare da Francescuccio Ghissi, il cui schema decorativo delle stoffe, impostato sulla ripetizione di piccoli elementi manca di un disegno complesso, proprio come nelle stoffe dei magi. Sono molti i “pittori senza opere” attivi con Allegretto: Angelo di Meo Cartaiolo, Angiolelo, Bartoluccio, Filippo di Cicco, Franceschino di Cecco. Tutto ciò non risolve

il dilemma, forse capzioso, di identificare in fra’ Giovanni il Maestro dei magi di Fabriano, ma forse getta nuova luce sui motivi di una produzione artistica preziosa e popolare. Una produzione che vede la luce in Fabriano e che ben rappresenta un momento felice della vita economica e imprenditoriale in ascesa del borgo, grazie alla presenza dei Chiavelli i quali con i loro rapporti con i Visconti, la corte d’Ungheria e gli Angiò aprirono la città ad una sensibilità che, attraversando le differenti inflessioni della rappresentazione artistica del Trecento sulla scia dell’eredità di Giotto e della lezione gotica della plastica toscana, preparò la straordinaria ascesa di Gentile da Fabriano. Claudia Tempesta

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66. Fra’ Giovanni di Bartolomeo (già Maestro dei magi di Fabriano, notizie dal 1365-Fabriano 1399) Re Gaspare 1365-1399 legno policromo e dorato; cm 174 × 52 × 33 Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia

Bibliografia. Ferrari 1906, p. 30; Neri Lusanna 1992, pp. 45, 49-51; Neri Lusanna 1994, p. 35; Donnini, Una bottega 1994, pp. 38-45; Neri Lusanna 2002; Kreytenberg 2004, p. 11; G.M. Fachechi, in Il Natale 2008, pp. 16-17, n. 7; Fachechi 2011, pp. 79-80, nn. 6-7.

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Il Re Gaspare, insieme alla scultura lignea raffigurante Baldassarre – analogamente conservata nel Museo Nazionale del Palazzo di Venezia (PV 14035) –, documenta in modo egregio la raffinatezza delle collezioni riunite nel Museo Artistico Industriale, fondato nel 1874 per «dotare la Capitale di un degno Museo d’Arte detto industriale e di una scuola ove quest’arte fosse insegnata» (Ferrari 1906, p. 9). Le due opere sono registrate nel catalogo del museo, redatto da Giulio Ferrari nel 1906, con una indicazione generica: «Statua dipinta di un Santo» (nn. 5-6 MAI 1391); alla fine degli anni cinquanta, con la soppressione dell’Istituto, furono trasferite nella Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini da dove, nel 1976, pervennero nelle collezioni del Museo del Palazzo di Venezia. La figura del re Gaspare è presentata frontalmente: imponente, il bellissimo viso dall’espressione assorta e dai volumi dilatati, le mani raccolte a sostenere il vasetto, oggi frammentario. Le spalle sono coperte da un manto di colore azzurro che, avvolto sul braccio destro, scende con classica compostezza lungo il corpo, determinando una caduta a piombo delle pieghe che sul retro dell’immagine si giustappongono alle increspature trasversali della stoffa. La realizzazione delle due sculture, a tutto tondo e in un unico blocco di legno pieno, lascia supporre che in origine fossero parte di una Sacra rappresentazione. Nel 1992 Enrica Neri Lusanna accostò, sulla base delle strette affinità stilistiche, i magi del Palazzo di Venezia al gruppo ligneo conservato a Fabriano, nella Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli” e proveniente dalla chiesa di Santa Maria della Misericordia (cat. 6265). «Non è difficile rendersi conto di come queste figure siano repliche fedelissime anche se meno connotate, dei due Re magi stanti di Fabriano di cui ripetono proporzioni, posizioni, gesti, soluzioni di modellato, panneggi.» Successivamente, nel 2002, la studiosa modificò il giudizio stilistico di una dipendenza delle opere romane da quelle marchigiane, riconoscendo la grande eleganza delle sculture del Palazzo di Venezia, tradotta nel gruppo di Fabriano in un insieme più convenzionale, dal modellato meno incisivo (Neri Lusanna 2002, p. 223). Con molta probabilità la Sacra rappresentazione romana era costituita da cinque elementi: i tre re magi, di cui sono pervenuti Gaspare e Baldassarre, san Giuseppe; la Vergine con il Bambino. Quest’ultima è stata identificata con una scultura conservata a Firenze in collezione privata, raffigurante una Madonna in trono col Bambino, rappresentato con una leggera torsione del busto, nell’atto di sostenere nella mano il dono offertogli (ibid.).

L’opera fiorentina è stata riconosciuta come l’elemento centrale della Sacra rappresentazione del Palazzo di Venezia per le profonde quanto evidenti analogie stilistiche: simile la risoluzione plastica dei panneggi, la relazione fra gli stessi e l’anatomia dei corpi, l’espressività dei volti. Successivamente, nel 2004, Gert Kreytenberg ha avvicinato ai magi romani la Madonna in trono col Bambino delle Salander-O’Reilly Galleries di New York. Molto più sfumata è invece l’ identificazione della scultura raffigurante san Giuseppe, individuato da Neri Lusanna, forse, in un’opera di ubicazione ignota (1992, p. 65). La produzione indicata documenta l’esistenza di un artista e di una bottega molto fiorente nella seconda metà del Trecento, e il cui raggio di azione travalicava l’area di Fabriano. A questa data risulta operoso Giovanni di Bartolomeo, monaco olivetano del convento di Santa Caterina, attivo dal 1365 al 1399. È documentato come scultore, specializzato nella realizzazione di presepi e con una committenza geograficamente estesa, come attesta l’esecuzione del gruppo ligneo a lui commissionato nel 1384 per Vanni di Minarolo da Monterubbiano, vicino Ascoli (Neri Lusanna 1992, p. 46; Donnini, Una bottega 1994, p. 38). Se allo stato attuale degli studi non è possibile identificare con certezza Giovanni di Bartolomeo con il Maestro dei magi, è pur vero che il catalogo di quest’ultimo è stato ampliato con altre opere quali Santa Sofia o Santa Anatolia (Camerino, Museo Diocesano; cat. 68), San Giacomo Maggiore (Fabriano, Pinacoteca Civica; cat. 67), San Nicola da Bari (Fabriano, chiesa di San Nicolò; cat. 69). È un artista connotato da un linguaggio complesso, in cui l’elegante compostezza dei volumi si unisce a un’espressività sempre misurata, raffinata. Presenta una cultura che risente dei modi di Allegretto Nuzi e del Maestro di Campodonico, con una riflessione, tuttavia, molto più meditata sugli esempi toscani, particolarmente di Andrea e Nino Pisano: il volto del Re Gaspare mostra una profonda assonanza con gli angeli rappresentati nel Monumento funebre a Simone Saltarelli, nella chiesa pisana di Santa Caterina. Il Maestro dei magi può avere conosciuto i due artisti direttamente, operando tra Siena e Firenze, o, molto più probabilmente, tramite il cantiere del Duomo di Orvieto, crogiolo di artisti e culture diverse e di cui erano stati capimastri gli stessi Andrea Pisano e successivamente il figlio Nino. Gran parte della policromia che connotava le vesti del Re Gaspare è perduta; frammentari risultano il naso e il vasetto che reca nelle mani. Andreina Draghi

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67. Fra’ Giovanni di Bartolomeo (già Maestro dei magi di Fabriano, notizie dal 1365-Fabriano 1399) San Giacomo Maggiore 1370-1380 legno policromo; cm 181,3 × 62 × 52 Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”

Bibliografia. Molajoli 1936, ed. 1968, p. 135; Neri Lusanna 1992.

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Ad un tempo verosimilmente coevo a quello che vide la realizzazione dell’Epifania sembra spettare anche l’elegante statua di san Giacomo Maggiore, esposta ab antiquo sull’altare dell’omonimo oratorio fabrianese. La data di costruzione dell’edificio (1359) potrebbe prestarsi per spingere la datazione del manufatto al settimo decennio del secolo. Questo tempo è in accordo con la modellazione che nobilita questa prova di altissima abilità esecutiva di fra’ Giovanni di una nobiltà di impianto e di fattura da tenere saldamente il confronto coi prodotti similari dell’Umbria e della Toscana. Il fascino della statua si concentra in special modo nella espressività immediata del volto pensoso e bonario, dai tratti geometrizzanti. Perfettamente ovale per forma e per volume, esso presenta il naso nobile e regolare, le arcate sopracciliari ben modellate, le labbra carnose e profilate, in linea con gli esempi più nobili della plastica lignea toscana. Come già affermato nel saggio (pp. 85-89), e in accordo con quanto di recente divulgato, è con ogni probabilità da ricercare nel ruolo assunto dal grande cantiere sviluppatosi attorno al Duomo di Orvieto la genesi culturale e stilistica del monaco scultore. Sin dagli inizi del xiv secolo la città umbra aveva richiamato un manipolo di maestri senesi di altissimo livello e uno stuolo di scultori, lapicidi e mestieranti dai territori finitimi per le grandi opportunità di lavoro e di emancipazione formale che la fabbrica prospettava. Tant’è che dallo specifico scacchiere orvietano-senese ci sembrano illuminati taluni esiti connessi alla fioritura di statue e di gruppi lignei diffusi in area appenninica tra Fabriano, Tolentino e Camerino nel secondo Trecento, della quale fra’ Giovanni di Bartolomeo rappresenta la più avanzata espressione. Giampiero Donnini

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68. Fra’ Giovanni di Bartolomeo (già Maestro dei magi di Fabriano, notizie dal 1365-Fabriano 1399) Sant’Anatolia con il modello di Esanatoglia 1380 circa legno policromo; cm 174 × 54 × 38 Camerino (Mc), Museo Diocesano

Bibliografia. G. Marchini, in Restauri nelle Marche 1973, II, pp. 752-753, n. 187; Neri Lusanna 1992; Donnini, Una bottega 1994, pp. 43-44; Neri Lusanna 1994, p. 28; E. Neri Lusanna, in La cultura lignea 1999, pp. 76-77, n. 34; C. Caldari, in Sacri legni 2006, pp. 74-77, n. 7.

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Un evocativo simbolismo è racchiuso nella suggestiva scultura destinata un tempo alla chiesa di San Sebastiano a Esanatoglia e nella raffigurazione del modello della città cui la santa martire offre sostegno: immagine emblematica di una configurazione urbana fortificata e turrita, sintesi di quel concetto di articolata euritmia e venustà parimenti espresso dalla compostezza iconica e solenne della sua protettrice. Il tradizionale riferimento linguistico al “Maestro dei magi” (convenzionalmente proposto da Enrica Neri Lusanna, 1992, pp. 46, 49) palesa un rapporto formale stringente con gli esemplari circolanti in area appenninica, in particolare con le statue da presepe di Fabriano (originariamente eseguite per la chiesa di Santa Maria della Misericordia, poi passate in Vescovado e quindi nella locale Pinacoteca Civica), con i Re magi del Museo romano di Palazzo Venezia (cat. 66), repliche delle precedenti, e con la Vergine assisa col Bambino, oggi in collezione privata, dei quali condensa la diligente finezza della linea e del segno, con riscontri stilistici e figurativi «come lo squadro sintetico dei visi e delle mani» (G. Marchini, in Restauri nelle Marche 1973, II, p. 752) che affondano il ricordo negli anni più intensi della cultura lignea fabrianese, di cui la Sant’Anatolia costituisce un momento più evoluto per maggiore maturità creativa e più marcata sintesi formale nell’architettura del corpo, singolarmente regale e levigato dalla luce. L’intensa forza plastica, consegnata da una fisicità rilevata e dalla tornitura di un viso immoto, compendia il prestigio e la fama di una bottega specializzata nell’intaglio ligneo, attiva a Fabriano sullo scorcio del Trecento, la cui operosità è documentata nel convento di Santa Caterina (Anselmi 1889, p. 108; Sassi 1955; Pulcinelli 1968), in particolare tra il 1365 e il 1399 (Donnini, Una bottega 1994, p. 38), e contraddistinta dall’ancor poco indagata figura artistica di un monaco silvestrino, divenuto poi olivetano, Giovanni di Bartolomeo, qualificato in immagini da presepe (A. Rossi, in Mostra di antichi affreschi 1971, pp. 55, 59), che solo la mancanza di opere comprovate non consente di ritenere autore dei manufatti. Nel vasto filone devozionale della plastica trecentesca circolante tra Marche e Umbria, il potente e lirico testo figurativo permette di analizzare la trama del dialogo culturale tessuto tra scultura e pittura, in una linea di intrinseca organicità espressiva tra i due

linguaggi, a riprova della complementarietà, più volte indagata, tra definizione plastica e rifinitura pittorica realizzate nelle botteghe specializzate già nel corso del XIV secolo. Nell’assenza di documentazione e di ancoraggi cronologici, l’interazione con la coeva pittura – delineata da Giuseppe Marchini (in Mostra di opere d’arte restaurate 1966, pp. 11-14, n. 2) e sottolineata dalla Neri Lusanna (1981; 1992; 1994, p. 26) – contribuisce a fornire probanti elementi di valutazione che fissano lo spettro temporale intorno all’incipiente nono decennio del secolo, in stretta contiguità con il manifestarsi della forbita produzione locale del Nuzi, preziosa e misurata. Il volume aggraziato ma essenziale e la luminosità che promana dalla viva cromia rappresentano infatti un degno corrispettivo della parallela vicenda pittorica del versatile artista fabrianese, con precisi seppur ridimensionati richiami alla preziosità decorativa delle stoffe e al dispiegamento del colore nell’assetto proporzionale dell’avvolgente modellato del manto, a larghe pieghe punteggiate di decorazioni rifinite in oro: affinità creative che trovano ampie possibilità di confronto con gli esemplari nuziani delle Storie di sant’Orsola della chiesa fabrianese di San Domenico, con l’efebico San Giovanni Evangelista del pentittico e con quello della tavola cuspidata della Pinacoteca cittadina, entrambi ascrivibili all’ultima fase produttiva di Allegretto. La «materializzazione di una visione pittorica» (G. Marchini, in Mostra di opere d’arte restaurate 1966, p. 13) è sostenuta, nella condotta plastica della Sant’Anatolia, così come negli altri attestati riconducibili all’anonimo Maestro, da valenze espressive di radice toscana, vicine al mondo raffinato e immaginifico di Bernardo Daddi (lo stesso Nuzi si formò a Firenze alla scuola del pittore), con più riflessiva adesione ai prototipi fiorentini, dalle misurate proporzioni, di Andrea Pisano e ricettive della grande diffusione nel centro Italia e in area fabrianese delle maestranze senesi dalla metà del secolo, sebbene non si possano ravvisare dipendenze dirette, in campo scultoreo, da precisi segmenti di quella civiltà. La plastica di Esanatoglia, dalla manifesta omogeneità realizzativa, afferma tuttavia una propria specificità di sintassi nell’austera dignità stilistica e nell’organica ma più corriva ricercatezza, in cui la riserva della memoria gotica è ormai proiettata verso impulsi rinascimentali. Claudia Caldari

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69. Fra’ Giovanni di Bartolomeo (già Maestro dei magi di Fabriano, notizie dal 1365-Fabriano 1399) San Nicola da Bari 1370-1380 legno policromo; altezza cm 200 Fabriano, Chiesa di San Niccolò

Bibliografia. Molajoli 1936, ed. 1968, p. 150; Marcelli 2004, p. 116.

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Il santo è raffigurato in abiti vescovili e manca delle mani, problema assai comune a tutti gli esemplari che ne richiedevano la lavorazione a parte e l’applicazione agli omeri mediante chiodi o innesti lignei. Il vistoso piviale rosso è attraversato per tutta la sua lunghezza da una stola ornata con motivi floreali dipinti in blu con applicazioni d’oro. La testa è priva della mitria che in origine la copriva ed è sul viso che si accentra l’interesse del riguardante, attratto dall’atteggiamento severo e dalle fattezze prognate e rurali. L’autore ha sfruttato con grande modernità la possanza del tronco muovendone le superfici con l’intenzione di affidare il risultato della sua opera alle forme plastiche offerte dal legno, trattate in profondità dall’intaglio di un panneggio massiccio e con lo scavo di rigide pieghe tubolari. La testa è intensamente “ritrattistica”, tanto è accurata la ricerca di una precisa fisionomia che ha condotto l’autore a delineare con estrema volontà descrittiva i tratti del volto pensoso, attraversato dal taglio profondo e a spiovente della bocca atteggiata all’eloquio. Il modo di panneggiare è assai caratteristico e le pieghe, evidenziate in tutto il loro turgore, si inseguono lungo l’ampio piviale con un andante poderoso. Il San Nicola da Bari di fra’ Giovanni si avvicina sensibilmente ad un manufatto ligneo raffigurante san Savino, esposto nel Museo dell’Opera del Duomo di Siena ed eseguito anch’esso da un altro frate scultore colà attivo, un certosino documentato fra il 1390 e il 1395. Epoca climaterica che corrisponde agli anni conclusivi del percorso del monaco olivetano fabrianese. Le concomitanze stilistiche dei due intagliatori potrebbero spingere, in via del tutto ipotetica, ad assegnare un ruolo più ampio e diversificato alla diffusione di modelli senesi nell’ambito della cultura figurativa marchigiana. Giampiero Donnini

La statua nella nicchia con integrazioni di mani, mitria e pastorale.

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70. Anonimo scultore umbro-marchigiano (xiv secolo) Cristo crocifisso metà del xiv secolo legno policromo; cm 145 × 115 × 28 Fabriano, Cattedrale di San Venanzio

Bibliografia. Marcelli 2004, p. 117. 250

Esposto sull’altar maggiore della cattedrale di Fabriano, il Cristo crocifisso si presenta nella sua pellicola pittorica originale, di un rosa spento, intriso di biacca e di giallo, segnato dal sangue che sgorga dalle ferite. A questa tonalità si accompagna con eleganza un perizoma di un bianco eburneo, dalle bordure dorate e ornato di gracili fregi trattati con l’oro a punta di pennello. Ne risulta un’immagine sobria e composta, che sotto l’aprirsi smisurato delle braccia sviluppa in verticale un corpo snello e slanciato, appena mosso dal lieve arcuarsi dei fianchi e dal nodo del perizoma. Sulle superfici tornite con lievità la luce scivola fluida, rilevando con ombre leggere le pieghe del panno e le asperità anatomiche della cassa toracica. Il viso del Cristo ha tratti meno eletti e la smorfia amara della bocca trasmette ancora un’eco della sofferenza del martirio. La figura non ha più niente di eroico e l’anatomia, ricca di dettagli “veristici”, non ha niente di “scientifico”, scevra da ogni canone di bellezza. Le braccia sono gracili e nodose, le gambe tozze, sotto la pelle affiorano vistosamente le costole. Il perizoma è lungo, drappeggiato con semplicità e aderisce piattamente alle ginocchia. Tipico di tali figurazioni pietistiche è il modo con cui lo scultore realizza l’inclinazione patetica del capo, innestandolo su un collo magro e corto, coi capelli trattati a massa che ricadono lungo il volto. La foggia allungata del viso e il rude sbozzo dei tratti fisionomici non consente di avvicinare la scultura a fra’ Giovanni di Bartolomeo, anche se essa si eleva, per qualità, al di sopra delle analoghe figurazioni sfuggite alle insidie del tempo e riconducibili, come questa, attorno alla metà del Trecento. È pensabile che l’autore del nobile reperto possa aver frequentato, più che la bottega fabrianese del frate olivetano, qualche centro di produzione spoletino per le sorprendenti analogie del volto di Cristo con quello dell’esemplare esistente nella chiesa di San Domenico di Spoleto, che la critica fa rientrare nella sfera di influenza del cosiddetto Maestro del Crocifisso di Visso. Giampiero Donnini

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71. Maestro della Madonna di Sant’Agostino Madonna col Bambino metà del XIV secolo legno policromo; cm 100 × 40 Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria

Bibliografia. Siepi 1822, I, p. 190; Gnoli 1923, p. 137; Carli 1960; Santi 1969, pp. 147-148 (con bibliografia precedente); Previtali 1983; Lunghi, Ambrogio Maitani 1994; P. Mercurelli Salari, in Arnolfo di Cambio 2005, p. 258, n. 50 (con bibliografia precedente).

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Definita «la più notevole statua lignea della regione» (Carli 1960, p. 64) la Madonna col Bambino della Galleria Nazionale dell’Umbria stupisce per la straordinaria policromia originale. La scoperta della cromia antica perfettamente intatta avvenne nel 1929 quando il restauratore Giuseppe Colarieti Tosti si risolse ad asportare le ridipinture che avevano ottuso la superficie. In particolar modo venne rimosso il colore nero che copriva i volti, steso per avvicinare quest’immagine a quella della Madonna di Loreto e farne oggetto di fervente devozione popolare nella chiesa di Sant’Agostino a Perugia, sua sede di provenienza. Nel 1958 la statua fece il suo ingresso nella Galleria Nazionale dell’Umbria a seguito del deposito dei padri agostiniani. Stando al manoscritto conservato nell’archivio della chiesa e redatto da padre Giacomo Giappesi (AcsAP, Liber diversorum, pp. 319-349) nei primi anni del XVIII secolo la statua era posta in una nicchia tra il pilastro della tribuna e l’altare di San Martino nel transetto meridionale. Da qui venne trasportata nei pressi della cappella delle campane e le venne costruita intorno una complessa macchina d’altare composta da tre tavole rappresentanti il Padre Eterno ed angeli quella in alto, san Pietro e san Paolo stanti e santa Barbara e santa Maria Maddalena inginocchiate nelle tavole laterali. Queste tavole vennero attribuite dal Giappesi a Domenico Alfani soltanto perché il pittore perugino era ricordato in un pagamento del 1539 di «lire 35 per il resto della pittura della tavola della Madonna» (AcsAP, 1539, Lib. E, c. 63). Da allora la critica ha sempre ripetuto il nome dell’Alfani non considerando che il pittore aveva realizzato una tavola con la Madonna e santi per una cappella della chiesa nel 1524 (oggi in Galleria Nazionale dell’Umbria, inv. 354) e che ricevette pagamenti per questo lavoro fino al 1541. Riteniamo dunque che il pagamento del 1539 sia relativo a questa commissione. Probabilmente il pittore che realizzò le tavole di cui parla Giappesi fu Giannicola di Paolo che nel 1522 fornì il disegno per

tutta la cornice (Gnoli 1923, p. 137) e che aveva già realizzato una simile composizione per i Domenicani di Perugia (Galleria Nazionale dell’Umbria, inv. 308, 324). Sempre il Giappesi ricorda che nel 1682 le tavole vennero coperte da tele dipinte con le immagini di altri santi (sant’Agostino e santa Monica) e purtroppo oggi risultano perdute. Il cronachista settecentesco scrisse anche che la scultura esisteva già ai tempi di Benedetto XI, morto nel 1304. La data troppo alta spinse Santi (1969, pp. 147-149) ad ipotizzare una sostituzione della statua più antica con quella in predicato che va collocata alla metà del XIV secolo. Pur mantenendo una sua autonomia stilistica che non trova sul territorio opere che ne possano eguagliare la raffinatezza di esecuzione, viene inserita in un gruppo abbastanza omogeneo di sculture che vanno dalle Madonne di Berlino e Londra, alle statue dei Santi patroni del portale di Palazzo dei Priori di Perugia (oggi Galleria Nazionale dell’Umbria, inv. nn. 6444, 6445, 6446), considerando anche il Santo Vescovo e la Madonna del Bargello di Firenze. Elvio Lunghi (Ambrogio Maitani 1994) ha suggerito di avvicinare questo gruppo alla tomba di Benedetto XI in San Domenico a Perugia facendo il nome di Ambrogio Maitani, fratello del più famoso Lorenzo e al lavoro come magister nel Palazzo dei Priori dal 1317 al 1346, anche se nessun documento certifica la sua attività come scultore. Il Maestro della Madonna di Sant’Agostino considerato perugino da parte della critica sembra provenire da un ambiente dove influenze senesi e locali (intendendo con questo Perugia ma anche Orvieto) si mescolano creando interessanti commistioni, come nel cantiere del Duomo di Orvieto. La sua cultura composita che prende in considerazione i Pisano e poi i Lorenzetti non prescinde da uno studio attento di oggetti “transnazionali” come gli avori francesi e ne fa il più interessante scultore attivo in città alla metà del secolo. Federica Zalabra

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Maestro dei Beati Becchetti (seconda metà del xiv secolo) 72. Crocifissione cm 208 × 130 × 51

73. San Giovanni Evangelista cm 170 × 49 × 34 seconda metà del xiv secolo legno policromo Fabriano, Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”

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Adiacente alla chiesa fabrianese di Sant’Agostino e al chiostro dell’attiguo complesso conventuale, l’Oratorio dei Beati Becchetti deve la sua costruzione all’iniziativa devota di due monaci agostiniani fabrianesi – i beati Pietro e Giovanni Becchetti, l’uno filosofo, l’altro valente predicatore, entrambi sommi teologi dello Studium Agustinianum – a seguito di un pellegrinaggio in Terra Santa intorno al 1393. Secondo la testimonianza dei biografi secenteschi Herrera e Torelli, riportata dallo storico fabrianese Romualdo Sassi (I BB. Pietro e Giovanni 1923, p. 12), nel piccolo sacello vennero eretti cinque altari consacrati al Crocifisso, alla valle di Giosafat, alla Madonna del Pianto e alla Vergine delle Grazie; il quinto, più tardo, custodì i corpi dei due fondatori. Il tempietto, di semplici ma decorose forme ogivali tardo-trecentesche, sensibilmente modificate nel tempo, ospita l’elaborata lacunosa raffigurazione ad affresco dell’Arbor o Lignum Vitae, tema abbastanza raro nell’arte marchigiana, dal carattere allegorico e devozionale e di gusto caro al gotico fiorito nel calligrafismo delle figurazioni con Profeti e Dottori della Chiesa assegnabili con ogni probabilità a Lorenzo Salimbeni. L’Oratorio conservava in origine le commoventi sculture lignee improntate al tema della Passione o, più propriamente, del Calvario, la cui ricostruzione – nell’attuale esposizione museale – vuol evocare l’antico schema compositivo e riproporre il significato storico e simbolico di un corredo da annoverare tra i più interessanti esempi di statuaria lignea tardo trecentesca nelle Marche. Elemento significativo dell’arredo liturgico dell’Oratorio, il gruppo della Crocifissione, con il Cristo Crocifisso, la Vergine e san Giovanni, era collocato sull’altare titolato al monte Calvario, mentre la Pietà ornava l’altare dedicato al pianto di Maria. Dell’apparato scultoreo originario, sicuramente più numeroso, si conservano anche le immagini di Cristo e della Vergine morti, in origine esposti su catafalchi alla venerazione dei fedeli nella cappella del Sepolcro. Le sculture superstiti sembrano osservare le regole di quella matematica sacra medioevale, ove la disposizione, la simmetria, il numero, l’orientamento hanno un singolare rilievo. Sembra lecito pertanto pensare che, alla base della realizzazione del Santo Sepolcro, ci sia stato un disegno unitario il cui intendimento, oltre alla celebrazione e riproposizione dei luoghi santi, sia stato quello di offrire una visione teologica della scuola agostiniana, della quale i Becchetti erano cultori, mettendo in luce la spiritualità dell’Ordine e i caratteri fondamentali della Chiesa; così va intesa anche la scelta di un tema, quello del Lignum Vitae, che va letto ugualmente in chiave ecclesiologica. L’esame del testo scultoreo permette ulteriormente di far luce su una produzione che travalica gli angusti confini di una statuaria di provincia, denotando una composizione organica, carica di espressività ed efficacia, dalla notevole consistenza volumetrica. Così il Cristo Crocifisso, colto nell’attimo di estrema tensione emotiva, esibisce una incisiva e sobria de-

scrizione anatomica, appena rotta dalla leziosità del bianco perizoma, impreziosito da filettature azzurre e lumeggiature in oro che segnano il bordo e in diagonale le pieghe schiacciate del tessuto. O l’Evangelista, dal costrutto solido e rilevato; o la più composta Vergine, dalla sintassi scultorea ed esecutiva fortemente intensa e dolcemente emotiva fino al particolare delle lacrime realizzate in resina, che il restauro ha preservato ed esaltato. Nell’impianto scenico e nella seduzione della materia le figure si presentano delineate secondo un modulo formale segnato da aspra vena narrativa e improntato da solenne severità. La compostezza dell’atteggiamento, nella ricerca di un’espressione misurata e contemplativa del dolore, il modellato energico dei lineamenti, dalla forte schematizzazione e geometrizzazione anatomica, comuni al Cristo crocifisso, alla Pietà e all’Addolorata, la stessa ritmica del panneggiare a pieghe insistite e parallele che scavano rigidamente le vesti della Vergine e di San Giovanni sembrano rispondere a una sintesi stilistica organica, netta, quasi architettonica e «sottolineano volumi nitidi e fermi» (Casciaro 2002, p. 32). Queste precise connotazioni di «un’austerità che trascende la materia inanimata per farsi vita spirituale e stilistica» inducono Luigi Serra (1928, p. 258; 1934, pp. 257258), seguito su tale linea da Bruno Molajoli (1936, ed. 1968, pp. 59-60), a considerare le sculture del Cristo e della Vergine morti come prodotti derivati dall’arte tedesca della seconda metà del XIV secolo, la cui diffusione è specificamente legata, come quella dei crocifissi gotici di area germanica, all’attestazione dell’iconografia patetica del soggetto, affermatasi in Italia, almeno in pittura, principalmente in rapporto alla predicazione francescana, incentrata sull’identificazione del credente nel mistero del tema passionistico. La resa plastica ne risulta intensa, con effetti di vivace arcaismo, ancor più evidente in questi ultimi due manufatti, per la mancanza di buona parte della policromia e della preparazione a gesso dei volti, causata, con ogni probabilità, dalla lunga collocazione nei locali sotterranei dell’Oratorio. Ed è proprio l’aspetto arcaizzante a orientare verso un filone culturale nel quale l’anonimo artista, convenzionalmente chiamato “Maestro dei Beati Becchetti”, affonda le proprie radici, in una fase di primo gotico anziché in un momento ormai vicino allo svolgimento cortese. Contrapposto agli esiti di tenero naturalismo del “Maestro dei magi”, artista saldamente radicato nella cultura figurativa marchigiana, attivo anch’egli a Fabriano nella seconda metà del Trecento – che nel gruppo dell’Epifania del Vescovado fabrianese (cat. 62-65) mostra notevoli affinità con l’opera pittorica di Allegretto Nuzi specie nella quieta eleganza delle forme plastiche e nel gusto decorativo dell’ornamentazione – il Maestro dei Beati Becchetti ha una personalità più aspra e drammatica, caratterizzata dalla rigidità dell’impianto compositivo e da un intenso patetismo espressivo. L’attività di questi artefici di sacre rappresentazioni, assai vigorose e pur così uniformi, rappresenta un esempio emblematico della vivacità artistica dell’entroterra sub-appenninico apparentemente isolato

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Bibliografia. Sassi, I BB. Pietro e Giovanni 1923, p. 12; Sassi 1924; Serra 1928, pp. 254-258; Serra 1934, pp. 257-258; Molajoli 1936, ed. 1968, p. 165; Sassi 1955; Neri Lusanna 1992; Donnini, Oratorio 1994; Marcelli 1999; Casciaro 2002; Caldari 2008.

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dal flusso delle correnti figurative che, nel corso del Medioevo e del Rinascimento, si diffondono nelle regioni centro italiane, in costante rapporto con la Toscana, l’Umbria e il Veneto. La ripetitività di uno schema figurativo se da un canto finisce per soddisfare le esigenze devozionali di un vasto pubblico, dall’altro crea una sorta di specializzazione per temi dei gruppi lignei. Così il complesso fabrianese del Calvario si richiama a prodotti affini rintracciabili tra l’Umbria e la Toscana per il gusto spiccatamente espressionistico e il modellato vigorosamente plastico, in un’area geografica molto più legata, sul finire del Trecento, alle antiche diocesi che agli attuali confini regionali, in un territorio artisticamente omogeneo. La riflessione proposta da Enrica Neri Lusanna (1992) in merito alla ridefinizione di aree geografico-culturali non coincidenti con la moderna topografia indaga, nel caso della scultura tardomedioevale, sull’uso di replicare quasi contemporaneamente sculture o gruppi scultorei che abbiano riscosso particolare successo sul piano fideistico presso determinate cittadine come Fabriano. La ripetitività dei soggetti e la serialità di un’iconografia di sicura riuscita, giustificate dal fine devozionale, garantiscono tuttavia l’originalità di ogni opera, che si distingue dagli altri soggetti replicati non foss’altro per un diverso apparato cromatico. Per questa ragione strettissime somiglianze tecniche e figurative si possono rintracciare in centri posti al di qua e al di là della dorsale appenninica. E proprio con l’arte umbra e in particolare con l’area assisiate è possibile stabilire interessanti correlazioni stilistiche, soprattutto nella fisionomia dei volti, con opere come la Crocifissione della sala capitolare del Sacro Convento di San Francesco attribuita a Puccio Capanna e appartenente alla prima metà del XIV secolo. Il parallelismo tra scultura e pittura nella scuola fabrianese anche successiva, delineato dal Marchini e più volte sottolineato dalla Neri Lusanna, è del resto un fatto assodato e particolarmente frequente nei piccoli centri artisticamente più attivi delle Marche. L’interazione e la complementarietà tra le due attività tecniche, che vedono collaborare su un piano paritetico pittori e scultori nel raggiungimento di esiti qualitativamente euritmici, perdura per tutto il Trecento, assumendo nel tempo

connotazioni differenti. In tal modo il già ricordato gruppo plastico fabrianese dell’Epifania compendia il prestigio e la fama di una bottega lignea attiva a Fabriano sullo scorcio del secolo, in stretta contiguità con l’estrinsecarsi della coeva scuola pittorica locale. Nel Camerinese non è difficile ravvisare sculture policrome dell’ultimo quarto del XV secolo che, tramite Girolamo di Giovanni, sono improntate ad un rigore formale pierfrancescano. I diversi riscontri evidenziati da Fabio Marcelli nei vari contributi sulla scultura lignea fabrianese connotano la vicinanza del gruppo Becchetti all’arte dei primi giotteschi assisiati, alla stregua di un recupero di natura arcaizzante, seppur lontano dall’accettazione di quel termine post quem, il 1393, che segna la consacrazione dell’Oratorio. E alla tradizione giottesca del ciclo pittorico conservato nel Cappellone tolentinate di San Nicola, anch’esso di committenza agostiniana, il Maestro dei Beati Becchetti è ugualmente connesso. A comprovare il legame con maestranze umbre è un intrigante documento, riportato dal Sassi (1924), che cita un tale Maestro Senso di Assisi, attivo a Fabriano nel 1396 nella realizzazione di un intaglio ligneo per la confraternita laicale di Santa Maria del Mercato. I caratteri di una produzione locale, non convalidata tuttavia da attendibili notizie documentarie, costituiscono inoltre un’altra ipotetica congettura che permetterebbe di datare il gruppo agli anni immediatamente successivi alla dedicazione dell’Oratorio, in concomitanza con la permanenza a Fabriano, fino al 1399, di un altro autore di presepi e gruppi «de lignamine laborato et depicto», Giovanni di Bartolomeo, priore della congregazione olivetana del locale monastero di Santa Caterina (Sassi 1955). Dalle ricerche archivistiche di Anselmo Anselmi (1889, p. 108) e Bernardino Pulcinelli (1968) risulta inconfutabile la notorietà di questo artista, cui sarebbero state commissionate opere scultoree anche nel comprensorio ascolano. Del 1384 è infatti un contratto firmato dallo scultore fabrianese per un presepe ligneo destinato alla città di Monterubbiano. È ipotizzabile tuttavia che il tramite sia rappresentato dalla bottega di Allegretto Nuzi, già attiva in quel territorio, con la quale Giovanni di Bartolomeo certamente interagiva. Claudia Caldari

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74. Oreficeria senese Reliquiario fine del xiv secolo-inizio del xv secolo rame dorato, smalto champlevé, smalto traslucido; cm 39 × 14,7 Sant’Angelo in Vado (PU), Museo Civico Ecclesiastico di Santa Maria Extra Muros

Bibliografia. Montevecchi 2006; Montevecchi 2007, pp. 265-267.

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Il reliquiario, di tipo “architettonico”, è realizzato in rame, dorato a fuoco e decorato con smalti. Sulla base esagonale a lati concavi, con inciso un delicato motivo a foglioline trilobate, si innesta il fusto, su ogni faccia del quale sono motivi vegetali stilizzati “risparmiati” su smalto opaco blu e rosso, interrotto al centro da un nodo rigonfio e molto schiacciato. Lo stelo sostiene il tempietto a pianta esagonale contenente la reliquia, chiusa entro un vasetto in ceramica avvolto in un tessuto di seta rosso. La piccola struttura è ripartita da sei pilastrini angolari, aperti da una monofora alta e stretta, sopra la quale sono disposti minuti motivi incisi. I lati sono costituiti da una bifora, ad archetti tripartiti, sormontati da un oculo cruciforme aperto sulla superficie tratteggiata a bulino. Il reliquiario termina con una cuspide piramidale, con piccola croce apicale, suddivisa in spicchi allungati e separati da bordi crestati, decorati con delicate volute vegetali decrescenti verso l’alto, in smalto opaco rosso e blu e smalto traslucido lilla. L’elegante sobrietà della slanciata struttura di gusto tardogotico e la raffinata disposizione e tipologia degli ornati in smalto permettono di accostarne la fattura a quella di analoghi manufatti di area senese databili tra il tardo Trecento e i primi decenni del Quattrocento, con i quali si possono istituire precisi raffronti morfologici, stilistici e decorativi. Il reliquiario si evidenzia per la struttura particolarmente sottile, slanciata e semplificata dell’edicola e per la presenza del delicatissimo decoro in smalto ad eleganti racemi disposti in modo da riempire interamente le piccole specchiature triangolari, rastremandosi verso l’alto. Questo ornato vegetale, con un tralcio ondulante che include o da cui si distaccano elementi foliacei trilobati, è ricorrente nell’oreficeria gotica, rientrando in una tipologia ornamentale mediata dalla produzione miniata, in particolare da quella d’Oltralpe: è peraltro ampiamente nota l’influenza della cultura figurativa oltremontana sulle botteghe orafe senesi dall’inizio del Trecento (Taburet-Delahaye 1994). La raffinata scelta decorativa che accosta un motivo

stilizzato a quello, più naturalistico, del tralcio ondulato in cui la bicromia rosso/blu dello smalto opaco si arricchisce della imprevista nota di smalto traslucido lilla è particolarmente interessante proprio per la presenza di quest’ultimo materiale, più moderno e delicato dell’altro, tuttavia adatto alla resa di effetti pittorici di maggiore qualità. Il motivo della presenza del reliquiario in un contesto estraneo al suo luogo di origine si collega alla donazione effettuata, negli anni 1659-1660, dal vescovo Prospero Fagnani Boni, di cui si ha notizia nella documentazione dell’Archivio diocesano vadese (Montevecchi 2006, pp. 111-112). Importante prelato e giurista, nato a Sant’Angelo in Vado nel 1588 e morto a Roma nel 1678, il vescovo ricoprì alte cariche sotto vari pontefici. Al tempo del pontificato di Alessandro VII (1655-1667), nel cimitero romano di Ciriaco erano stati rinvenuti i corpi di san Giacinto con un compagno e un vaso di sangue. Come si apprende da una lettera di autentica di reliquie rilasciata il 20 aprile 1836 dal vescovo Lorenzo Parigini e conservata presso il citato Archivio diocesano, per ordine di Alessandro VII i resti di san Giacinto vennero consegnati a monsignor Fagnani che ne avrebbe fatto dono alla città natale. Di questo lascito non troviamo cenno nel testamento del prelato, che destina invece all’altare di San Giovanni Battista, nel Duomo di Sant’Angelo in Vado, due reliquiari, ma d’argento. Già nella visita pastorale del 1689 (Archivio diocesano, stanza A, scaffale 4.IX), quindi pochi anni dopo la morte di Prospero Fagnani, il vescovo Pietro Barugi annotava tuttavia che «all’altare di San Giovanni Battista c’è il Corpo di S. Giacinto col sangue in un’ampolla gotica», definizione che bene si adatta al nostro oggetto che torna poi, meglio definito, in altre citazioni documentarie ottocentesche. È pertanto ipotizzabile che, oltre alle reliquie di san Giacinto, monsignor Fagnani, noto e raffinato collezionista, abbia avuto in dono anche il prezioso contenitore, magari dallo stesso papa, senese, Alessandro VII Chigi. Benedetta Montevecchi

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75. Arte umbra Crocifissione primo ventennio del XIV secolo vetro dorato e graffito; cm 15 × 20 Recanati, Museo Diocesano

Bibliografia. Serra 1929, pp. 320-321; Pettenati 1978, pp. xxx-xxxii; Pettenati 1986, p. 6; Castelfranchi Vegas 1998, p. 37; Radeglia et al. 2006, part. pp. 73-77; Barucca 2010, pp. 191-193.

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La tabella rettangolare raffigura la Crocifissione entro un campo cuspidato; nei triangoli superiori entro medaglioni circolari figurano a sinistra una santa martire caratterizzata dalla palma del martirio, un vessillo e una veste foderata di vaio forse da identificare con sant’Orsola, a destra san Pietro con chiavi e libro in mano. La campitura del fondo intorno ai medaglioni è rossa e decorata con cespi di foglie a oro che occupano interamente la superficie. Lo sfondo della scena della Crocifissione è scuro e impreziosito da una serie di margherite a otto petali. Al di sopra del cartiglio col titolo, al vertice del montante della croce, è un rosone dorato mentre ai lati sono le figurazioni del sole e della luna. Ai piedi della croce, a sinistra è il gruppo delle pie donne che sorreggono la Vergine svenuta, a destra san Giovanni Evangelista che con gesto espressivo si torce le mani. I piedi di Cristo sono fissati alla croce da un unico chiodo e dalle ferite sgorga il sangue che tinge di rosso il braccio della croce e il terreno sottostante. La tabella con la Crocifissione fa parte di un nucleo di vetri a foglia d’oro graffita trecenteschi di grande qualità ora nel Museo Diocesano di Recanati, comprendente oltre al pezzo in questione un dittico con la Natività e la Crocefissione e un tondo con la Natività. I vetri, appartenenti ab antiquo al Tesoro della cattedrale di San Flaviano, erano stati montati entro teche lignee di gusto neogotico fissate sulle pareti del Sancta sanctorum, un piccolo sacello costruito nel 1794 tra il presbiterio della chiesa e gli ambienti della sagrestia e destinato a custodire il tesoro di reliquie del Duomo recanatese. Nel corso dell’attento restauro dei vetri, condotto dal 2003 al 2005 nei laboratori dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma, gli stessi sono stati rimossi dalle teche non pertinenti che li racchiudevano consentendo di presentarli in modo indipendente nonché di esaminarne approfonditamente la tecnica esecutiva:

tecnica dei vetri a foglia d’oro graffita che è peraltro descritta in tutte le fasi del procedimento esecutivo, secondo un metodo sintetico e rigoroso, da Cennino Cennini di Colle Val d’Elsa, allievo di Agnolo Gaddi, nel suo Libro dell’arte, scritto a Padova alla fine del Trecento (ed. Brunello 1971, pp. 181-182). La tabella insieme agli altri vetri recanatesi, dopo essere stata pubblicata da Luigi Serra (1929, pp. 320321) con una datazione verso la metà del Trecento, è citata brevemente da Silvana Pettenati dapprima in relazione ad altre opere ascritte agli ultimi decenni del XIV secolo o all’inizio del XV e in seguito con una datazione anticipata entro la prima metà del Trecento (1978, pp. xxx-xxxii; 1986, p. 6). Una più approfondita analisi è proposta da Liana Castelfranchi Vegas che connette con certezza i vetri recanatesi al cantiere assisiate, attribuendo in particolare la Crocifissione ai maestri che si muovono intorno alla Basilica inferiore di San Francesco nel primo ventennio del Trecento. Da ultimo, alla fine del recente restauro dei vetri, è stato pubblicato un puntuale studio che accanto all’analisi storico critica dei manufatti, affidata a Daila Radeglia, affronta le complesse questioni della tecnica esecutiva anche a seguito delle sofisticate analisi scientifiche dei materiali costitutivi che hanno supportato l’intervento conservativo (Radeglia et al. 2006). La presenza di questi vetri a foglia d’oro graffita trecenteschi nel tesoro della cattedrale di San Flaviano attesta la fortuna e l’ampio raggio di diffusione di questa tipologia di oggetti la cui produzione è ascrivibile all’ambiente dei conventi francescani umbri, dove nel corso del XIV secolo ne venivano realizzati in notevole numero per essere impiegati in «anconette o vero in adornamento d’orliquie», come attesta Cennino Cennini (fine del XIV secolo), per lo più destinate alla devozione privata (Il libro dell’arte, ed. Brunello 1971, p. 181). Gabriele Barucca

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76. Arte umbra Natività, Crocifissione primo quarto del XIV secolo vetro dorato e graffito; lastre cm 14,5 × 9,6, cuspidi cm 7,5 × 5 Recanati, Museo Diocesano

Bibliografia. Serra 1929, pp. 320-321; Pettenati 1978, pp. xxx-xxxii; Pettenati 1986, p. 6; Castelfranchi Vegas 1998, p. 37; Radeglia et al. 2006, part. pp. 73-77; Barucca 2010, pp. 191-193. 262

Il dittico raffigura nelle due valve rispettivamente la Natività e la Crocifissione, sormontate dall’Annunciazione nelle cuspidi, di cui si conserva solo il vetro con la Vergine. Le due valve sono in legno scavate ciascuna in un’unica tavoletta a definire l’incorniciatura delle lastrine vitree. Le cornici presentano frammenti dell’originaria decorazione a girali a rilievo bassissimo. La raffigurazione della Natività, nel pannello rettangolare incassato nella valva sinistra, prevede anche la scena dell’annuncio ai pastori in primo piano. La disposizione delle figure entro lo spazio circoscritto da un’elegante incorniciatura trilobata, costituita da elementi geometrici e fitomorfi, è caratterizzata da una vivace vena narrativa in cui i vari elementi, appartenenti al consueto repertorio presente in questo genere di oggetti suntuari di provenienza umbro-marchigiana, sono assemblati con elegante ed equilibrato gusto compositivo. L’iconografia della Natività prevede nel vetro recanatese la figura di san Giuseppe in primo piano seduto a terra, alle sue spalle è la Madonna, seduta su un insolito letto con cuscino, che stringe il Bambino strettamente fasciato accanto alla mangiatoia a colonnine. Originale è la figura elegante del pastore in piedi in primo piano a destra che sotto un esile alberello si ripara con una mano la vista rivolta verso il cielo dove un angelo gli indica la scena della Natività; il motivo dei capri affrontati al centro della fascia inferiore compare anche in un vetro del Victoria and Albert Museum di Londra. Nella valva destra, purtroppo mancante di una vasta porzione nella parte inferiore destra, la scena della Crocifissione, a cui assistono due angeli piangenti ai lati del Cristo, la Vergine addolorata e san Giovanni ai piedi della croce, è al pari inquadrata da una incorniciatura triloba costituita però da elementi vegetali e geometrici di foggia diversa rispetto a quelli della valva sinistra. Sopra il pannello rettangolare con la Crocifissione è posto nella cuspide il vetrino con la Vergine Annunziata raffigurata in piedi accanto al leggio. Il dittico in questione fa parte di un nucleo di vetri a foglia d’oro graffita trecenteschi di elevata qualità ora nel Museo Diocesano di Recanati. I vetri, appartenenti al Tesoro della cattedrale di San Flaviano, erano stati racchiusi entro teche lignee di gusto neogotico fissate sulle pareti del Sancta sanctorum, un piccolo sacello destinato nel 1794 a custodire il

Tesoro di reliquie del Duomo recanatese, posto tra il presbiterio della chiesa e gli ambienti della sagrestia. Nel corso dell’accurato restauro dei vetri, condotto dal 2003 al 2005 nei laboratori dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro di Roma, gli stessi sono stati rimossi dalle teche non pertinenti che li racchiudevano, consentendo di esporli in modo indipendente nonché di esaminarne approfonditamente la tecnica esecutiva: tecnica dei vetri a foglia d’oro graffita che viene peraltro descritta in tutte le fasi del procedimento esecutivo, secondo un metodo sintetico e rigoroso, da Cennino Cennini di Colle Val d’Elsa, allievo di Agnolo Gaddi, nel suo Libro dell’Arte, scritto a Padova alla fine del Trecento (ed. Brunello 1971, pp. 181-182). Il dittico insieme agli altri vetri recanatesi, dopo essere stato pubblicato da Luigi Serra con una datazione verso la metà del Trecento (1929, pp. 320-321), è citato brevemente da Silvana Pettenati dapprima in relazione ad altre opere ascritte agli ultimi decenni del XIV secolo o all’inizio del XV e in seguito con una datazione anticipata entro la prima metà del Trecento (1978, pp. xxx-xxxii; 1986, p. 6). Una più puntuale analisi è proposta da Liana Castelfranchi Vegas che connette con sicurezza i vetri recanatesi al cantiere assisiate, attribuendo in particolare il dittico a un artista umbro «non scarso … all’opera entro una data abbastanza precoce del Trecento» (1998, p. 37). Da ultimo, alla fine del recente restauro dei vetri, è stato pubblicato un puntuale studio che accanto all’analisi storico critica dei manufatti, affidata a Daila Radeglia, affronta le complesse questioni della tecnica esecutiva anche a seguito delle sofisticate analisi scientifiche dei materiali costitutivi che hanno supportato l’intervento conservativo (Radeglia et al. 2006). La presenza ab antiquo di questi vetri a foglia d’oro graffita trecenteschi nel Tesoro della cattedrale di San Flaviano attesta la fortuna e l’ampio raggio di diffusione di questi oggetti la cui produzione presenta strette relazioni con i conventi francescani umbri, dove nel corso del XIV secolo ne venivano realizzati in notevole numero per essere impiegati in «anconette, o vero in adornamento di orliquie», come dice Cennino Cennini (fine del XIV secolo), per lo più destinate alla devozione privata (Il libro dell’arte, ed. Brunello 1971, p. 181). Gabriele Barucca

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77. Maestro dei crocifissi francescani (Guido di Pietro da Gubbio?; Bologna, notizie dal 1268-1271) Te Igitur, Crocifissione 1254 messale romano; manoscritto membranaceo tempera su pergamena; mm 325 × 240 Assisi, Biblioteca del Sacro Convento di San Francesco, ms. 262, c. 144r

Bibliografia. Sesti 1982, pp. 367, 369; Todini 1982, p. 162; Marques 1987, p. 175; Lunghi, Una “copia” antica 1989, p. 20; Sesti 1990, pp. 98-103; E. Lunghi, in Dal visibile all’indicibile 2012, pp. 183-184, n. 7.

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A fronte della vastissima estensione dei cicli murali e dei nomi strabilianti dei loro autori, San Francesco di Assisi conserva un numero risibile di dipinti su tavola di età medievale e rinascimentale e poco o nulla della primitiva dotazione liturgica: messali e libri corali precedenti la Riforma tridentina. Cioè ne conserva, ma in quantità assolutamente sproporzionata a paragone del numero di religiosi e dell’attività di due cori, l’uno sulla tomba di san Francesco, l’altro nell’aula papale superiore: appena tre antifonari mutili risalenti agli anni ottanta del Duecento, nessun libro da coro dei secoli xiv, xv e xvi. Si ha notizia che al tempo dell’occupazione francese si decise di nascondere i libri più preziosi in alcune parrocchie di montagna, da dove non tornarono o tornarono gravemente taglieggiati. Ma poiché neanche le altre chiese francescane dell’Umbria hanno conservato la loro originaria dotazione liturgica, o l’hanno conservata in minima parte, c’è da chiedersi quanti manoscritti presenti nel Fondo Antico della biblioteca del Sacro Convento siano stati scritti per il servizio dei frati di Assisi, e quanti siano stati raccolti salvando il salvabile in altri conventi della provincia. È la domanda che mi sono posto scorrendo il calendario liturgico del ms. 262 conservato nel Fondo Antico della biblioteca di Assisi: un messale francescano che commemora i santi patroni di Perugia Costanzo e Ercolano, i santi patroni di Spoleto Brizio, Ponziano e Savino, il martire Pietro Parenzo di Orvieto, ma non i santi patroni di Assisi Rufino e Vittorino; che ricorda senza grande enfasi la «nativitas sancti Francisci confessoris», ma aggiunge con altra grafia, a margine dei santi Urbano e Eleuterio, il ricordo della traslazione delle reliquie di san Francesco avvenuta il 25 maggio 1230; ricorda i «dies natalis» di sant’Antonio «de ordine minorum», di san Domenico «confessoris», di san Pietro martire «de ordine predicatorum» e di santa Elisabetta di Ungheria, ma omette il ricordo di santa Chiara di Assisi per non rubare spazio alla festa doppia di san Lorenzo. Se aggiungiamo che a c. 144v una diversa grafia invita il lettore a pregare «pro domino Egidio card. Apostolice sedis legato» [Egidio Albornoz, † 1367] e «pro Andrea de Florenxia que istum librum donavit», e che vi manca il signum tabellionis segnato a margine dei libri della biblioteca da fra’ Giovanni di Iolo l’anno 1381, si può tranquillamente concludere che questo messale fu scritto per una città dell’Umbria diversa da Assisi. La notizia più importante è la mancata menzione della fondatrice dell’Ordine della Damianite, che ne colloca l’esecuzione tra la canonizzazione di san Pietro da Verona (24 marzo 1253) e quella di santa Chiara di Assisi (15 agosto 1255), anti-

cipando di conseguenza a una data a questa prossima la decorazione del messale, rispetto alla data «1280 circa» che è proposta nel catalogo della raccolta (Sesti 1990, p. 98). Il codice contiene un’unica iniziale figurata a c. 144r, una minuscola Crocifissione nella prece eucaristica al Te Igitur, alta mm 56 e larga 60, intorno alla quale si è scritto di «precisi rimandi alla pittura romana» (Todini 1982, p. 162), o anche di un miniatore umbro «notevolmente influenzato dalla lezione cimabuesca» attivo negli anni 1280-1290 (Sesti 1982, p. 369), da cercare nella cerchia del Maestro degli antifonari di San Domenico di Spoleto (Marques 1987, p. 175), o da restituire al Maestro dei messali di Deruta-Salerno (Lunghi, Una “copia” antica 1989, p. 120). A distanza di tempo, la proposta più convincente mi sembra un’osservazione marginale di Emanuela Sesti; la quale, dopo avere evocato un confronto con tutti i principali pittori umbri della seconda metà del Duecento, dai precedenti “giunteschi” del Maestro del trittico Marzolini e del Maestro di Montelabate, alla lezione “cimabuesca“ del Maestro dei messali di Deruta-Salerno, invitò a non «dimenticare inoltre l’affinità con un altro artista giuntesco, il “Blue Crucifix Master” che nella croce del Tesoro del S. Francesco di Assisi mostra un modello a cui può essersi rifatto il nostro miniatore, specie nell’iconografia del Cristo e del S. Giovanni» (1990, p. 102). Nel 2012 ho ritenuto di poter affermare che «la Crocifissione nel ms. 262 nella Biblioteca del Sacro Convento di Assisi sembra davvero identica al Crocifisso del Maestro dei crocifissi francescani nel Museo del Tesoro di Assisi, anche se resta per ora un numero isolato» (E. Lunghi, in Dal visibile all’indicibile 2012, pp. 183-184). L’identità di mano mi sembra ancor più convincente alla luce della nuova datazione che qui si propone, soprattutto a tener conto dell’assenza nella croce del Museo del Tesoro dell’immagine di san Francesco ai piedi di Cristo, divenuta moneta corrente nelle chiese francescane dell’Umbria a partire dal Crocifisso che la badessa Benedetta fece dipingere per la chiesa costruita in onore di santa Chiara nella città di Assisi. Come ho proposto in altra sede (ivi, pp. 180-184) e ripetuto in questo catalogo (cat. 6), il percorso del Maestro dei crocifissi francescani coincide singolarmente con le notizie che abbiamo su Guido di Pietro da Gubbio: pittore documentato a Bologna negli anni 1268-1271 in compagnia del figlio “miniatore” Oderisi, «l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte ch’alluminar chiamata è in Parisi» evocato da Dante nel girone dei superbi del Purgatorio (XI, vv. 79-81). Elvio Lunghi

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78. Maestro di Montelabate (Umbria, secolo XIII) Te igitur, Crocifissione 1273 messale romano; manoscritto membranaceo tempera su pergamena; mm 375 × 245 Assisi, Archivio Capitolare, ms. 8, p. 236

Bibliografia. Boskovits 1973, pp. 9-11, 32-33; Lunghi 1981, p. 61; Todini 1982, pp. 171, 174; L.B. Kanter-P. Palladino, in The Treasury 1999, p. 140, n. 38. 266

Dall’Archivio capitolare di Assisi è stato prestato per la mostra un messale romano che fu commissionato per la cattedrale di San Rufino ad Assisi, come si ricava dalla presenza nel calendario liturgico di santi venerati localmente. L’interesse verso questo codice è nella decorazione figurata e nella sua data di esecuzione. La decorazione consiste in una grande Crocifissione a tutta pagina e in tre piccoli capilettera con l’Angelo di san Matteo, il Leone di san Marco e il Toro di san Luca. La data di esecuzione del codice è legata all’anno d’incarnazione 1273 che viene premesso a p. 605 alla “Tabula Lamberti”, con il calcolo per risalire alla festa mobile della Pasqua dovuto a Lamberto di Liegi († 1177). Questa data non è contraddetta dalle caratteristiche stilistiche e iconografiche della Crocifissione e offre un importante punto di riferimento per l’evoluzione della “Maniera greca” in Umbria, dopo il successo iniziale ottenuto dai due Crocifissi dipinti da Giunta Pisano per le chiese dei Frati minori di Assisi. È questa la seconda volta che il ms. 8 esce dagli armadi dell’Archivio Capitolare di Assisi per essere presentato all’attenzione del grande pubblico. La prima volta avvenne nel 1982, nella ricorrenza dell’ottavo centenario della nascita di san Francesco, quando la città di Foligno ospitò un’importante mostra dedicata alla miniatura in Umbria nei secoli XIII e XIV, curata da Mina Gregori e da Maria Grazia Ciardi Dupré dal Poggetto. Il messale fu studiato da Filippo Todini (1982, p. 171) all’interno di una sezione dedicata ai codici duecenteschi del Duomo di Assisi, che esponeva «tre codici di grande importanza per la conoscenza della miniatura umbra del Duecento, finora completamente sfuggiti all’attenzione della critica». In particolare, il ms. 8 era stato «miniato da un maestro di grande autorevolezza, che reca la preziosa data 1273. La Crocifissione a piena pagina all’inizio del canone si rivela un’opera di eccezionale importanza, e una eccelsa testimonianza dell’alto grado di modernità espressiva raggiunto dalla pittura umbra assai prima del soggiorno assisiate di Cimabue. Essa inoltre conferma la precocità del Maestro del Trittico Marzolini, a cui l’illustratore di questo manoscritto fa palese riferimento, in parallelo al suo più dotato seguace, il cosiddetto Maestro di Montelabate». Esattamente un anno prima della mostra folignate avevo pubblicato una foto della Crocifissione sotto il nome del Maestro di Montelabate nelle pagine di un articolo dedicato alla primitiva decorazione del Duomo di Assisi eseguita dal Maestro della Santa Chiara (Lunghi 1981, p. 61). A distanza di tre decenni dalla mostra di Foligno non possiamo che ribadire l’attribuzione della decorazione del ms. 8 all’autore degli affreschi nella sala capitolare dell’abbazia benedettina di Santa Maria di Valdiponte, in località Montelabate nei dintorni di Perugia: avvalendomi del conforto generale della letteratura critica e fondandomi sul confronto tra la

figura dell’angelo dolente nella Crocifissione con quella dell’Angelo nell’ufficio della Passione di san Matteo a p. 136, o della inusuale forma dei piedi dei due san Giovanni ai piedi della croce. A loro volta, l’anatomia e il perizoma del Cristo tornano identici in un Crocifisso della Pinacoteca di Perugia (n. 15) e in quello del Philadelphia Museum of Art, nei quali Miklós Boskovits (1973, pp. 9-11) riconobbe lo stesso pittore. L’anno 1273 che si legge nel messale di Assisi è la sola notizia certa che abbiamo sul maestro, salvo l’ipotetica data 1285 che si è voluto collegare agli affreschi di Montelabate. È plausibile che l’anonimo pittore abbia assorbito l’influenza esercitata nell’ambiente perugino dal Maestro del Trittico di Perugia, autore di un trittico della Galleria Nazionale dell’Umbria (n. 877), pittore di origine esotica da cercare all’interno della comunità monastica armena insediatasi a Perugia nella chiesa di San Matteo degli Armeni, probabile luogo di origine del trittico menzionato. E che ne abbia divulgato il linguaggio aspro e manierato usuale nell’ambiente armeno suscitando l’interesse di una committenza benedettina rimasta sino ad allora impermeabile alle novità francescane. La presenza nella mostra fabrianese del messale di Assisi è giustificata dalle dimensioni della Crocifissione al Te igitur, che corrispondono alle misure di una icona utilizzata per la benedizione dei fedeli. Oltre a questa del Maestro di Montelabate, si conoscono altre Crocifissioni su pergamena di pittori umbri del XIII secolo. Come i due messali attribuiti a un Maestro del messale di Deruta: uno conservato nella Pinacoteca di Deruta e proveniente dalla locale chiesa di San Francesco, l’altro nella cattedrale di Salerno. O come il foglio con una Crocifissione recentemente scoperto in una collezione privata e correttamente attribuito al Maestro di San Francesco (L.B. Kanter-P. Palladino, in The Treasury 1999). L’abilità dimostrata da questi pittori nel passare senza difficoltà dalla pittura murale, a quella su tavola, alle pagine dei libri, accentua l’importanza esercitata da questi manufatti assai maneggevoli nella diffusione di nuove soluzioni iconografiche e stilistiche, potendo essere facilmente trasportati da una chiesa all’altra anche a notevoli distanze. È noto come fosse costume in quel tempo di lasciare in dono alle chiese le suppellettili liturgiche utilizzate dai prelati che ne avevano consacrato gli altari. Fu per il tramite di queste suppellettili, minori per dimensioni ma non per significato, che trovarono una diffusione anche in località periferiche i modelli immaginati nei centri maggiori dalla fantasia degli artisti moderni, ben accolti in un’epoca caratterizzata da profondi mutamenti nella struttura sociale e nella spiritualità religiosa. Attraverso gli stessi canali passarono sia il classicismo visionario della “Maniera greca” seguita dal Maestro di Montelabate, sia la scoperta del reale del gotico d’Oltralpe. Elvio Lunghi

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79. Antifonario prima metà del xiv secolo manoscritto membranaceo, inchiostro nero, tempera; mm 550 × 370 Fermo, Biblioteca civica “Romolo Spezioli”, Fondo Corali, N 2, c. 127v

Negli anni immediatamente post unitari la Biblioteca Civica di Fermo, con la soppressione degli ordini religiosi a seguito del decreto Valerio 3 gennaio 1861, si trovò ad incamerare le biblioteche claustrali della città e del circondario. Tra i conventi cittadini spogliati, insieme a quello dei Minori Osservanti, degli Agostiniani Scalzi e dei Filippini, vi fu la casa religiosa dei Domenicani. Da questa pervengono dodici imponenti corali membranacei, in scrittura gotica, databili tra la metà del xiv e la fine del xvi secolo. Tra questi, l’Antifonario N 2 reca due riferimenti testuali espliciti all’Ordine domenicano: a c. 1r il titolo rubricato: «In festo sancte catherine de senis ordinis predicatorum», con il quale si apre il testo, e, a c. 1v, il nome in minuscoli caratteri con andamento circolare di un «frater Michael Angelus» di Fermo, dell’Ordine dei Predicatori. Il manoscritto è databile alla metà del xiv secolo in virtù dell’aspetto paleografico e del riferimento esplicito a Bartolo da Fabriano miniatore che, rubricato in grandi caratteri capitali, occupa l’intero margine inferiore della c. 108v. Il codice è membranaceo, non omogeneo (le prime 33 carte costituiscono una unità a se stante), intero ma non completo, mancando di alcune carte. Si compone di I + 209 + I carte superstiti. La fascicolazione, non segnata, è irregolare nelle prime 33 carte; complessivamente consta di 24 fascicoli, per lo più quinioni. La legatura, coeva, è in legno e cuoio. La numerazione è triplice: 1) coeva, in lettere minuscole da «a» a «ij» nelle prime 33 carte, posta a destra nel margine inferiore del recto delle carte; 2) successiva, in numeri arabi, ad inchiostro, al centro del margine esterno del recto; 3) moderna, in numeri arabi a matita, a sinistra nel margine inferiore del recto. I richiami, nel verso dell’ultima carta dei fascicoli, si trovano saltuariamente: nelle prime 33 carte sono verticali, all’estrema destra nel margine inferiore; nelle altre carte sono orizzontali, a principiare dalla metà destra del margine inferiore; in molti casi sono rifilati e si distingue soltanto la sommità delle lettere che li compongono a filo taglio inferiore. Il codice misura mm 550 × 370, rapporto h/l: 1,48; l’impaginazione è a piena pagina; la tecnica di rigatu-

Bibliografia. Molajoli-Rotondi-Serra 1936, pp. 253254; Prete 1960, p. xii; Vannoni 2000/2001, pp. 33-47. 268

ra è mista, a matita, a inchiostro e a secco; lo schema di rigatura differisce tra le prime 33 carte e le restanti; lo specchio scrittorio misura nelle prime mm 470 × 285, nelle restanti 410 × 250, con le linee rettrici di testa e di piede che vanno da margine sinistro a margine destro e le righe verticali – che delimitano lo specchio – si estendono da margine superiore a margine inferiore, tutte a filo tagli. Qui le righe tracciate sono 12, a coppie di due, intervallate dallo spazio utile ad accogliere il tetragramma; l’interlinea è di 12 mm, pari al modulo delle lettere escluso lo sviluppo delle aste; lo spazio per il tetragramma misura 58 mm, la distanza tra i righi musicali equivale all’interlinea. La foratura non è visibile, presumibilmente per un intervento di rifilatura dei tagli, già evidente dallo stato dei richiami nei margini inferiori. Il codice non presenta glosse e non è annotato, tranne rari e minimi interventi nelle prime 33 carte. La scrittura è una gotica nera, con rubricature. L’ornamentazione consiste prevalentemente in iniziali rosse e azzurre, in gran parte filigranate in rosso o viola, alcune delle quali eccedono lo specchio e si espandono nel margine interno o sforano i righi del tetragramma superiore o inferiore. Le prime 33 carte conservano inoltre, alle carte 19r, 29r e 33r, tre belle iniziali ad inchiostro nero, di ottima fattura, a motivi geometrici, fitomorfi e zoomorfi, oltre ad una iniziale V, a c. 6r, di non eccelsa fattura, che tuttavia ospita un piccolo, raffinato ritratto ad inchiostro di santa Caterina da Siena in abito da suora, nimbato, con i tradizionali attributi: il Crocifisso, il ramo d’ulivo ed il libro. Il codice conserva infine 4 miniature superstiti: si tratta di 4 iniziali abitate, a pennello con foglia d’oro, tematicamente legate nell’Antifonario alla parte liturgica che introducono: c. 111v, lettera S, con santo Stefano, ad introduzione dell’antifona alla festa del santo, ritratto con la dalmatica rossa diaconale ed il libro; c. 127v, lettera V con san Giovanni Evangelista; c. 143r, lettera S con soldato che uccide con la spada un neonato, ad introduzione dell’antifona della festa dei santi innocenti; c. 194r, lettera P con san Paolo, ad introduzione dell’antifona alla festa del santo, ritratto in tunica rossa e mantello verde, con il libro e la spada, secondo l’iconografia tradizionale. La miniatura che rappresenta san Giovanni è di grande finezza: la lettera V («Valde honorandus») che ospita il ritratto, a conchiglia sul lato sinistro e verticale a destra, si staglia in arancio e ocra punti-

Particolare della c. 108v.

Iniziale miniata, Santo Stefano, c. 111v, particolare.

nato su un fondo celeste ed è impreziosita, sull’asta verticale, da una serie di globi; questo stesso modulo decorativo è utilizzato come nodo dal quale si diparte, dall’angolo inferiore sinistro del campo azzurro di sfondo, una lunga foglia verde, rosa e blu che si estende verticalmente nel margine interno lambendo due tetragrammi sottostanti. Altre tre foglie, di minori dimensioni, scaturiscono dai globi dell’asta e si diramano a coronamento del campo azzurro. Il santo, coronato di aureola a foglia d’oro, indossa una tunica rossa ed un mantello blu, drappeggiato; reca nella mano sinistra il libro, sorretto verticalmente come l’iconografia propone tradizionalmente il Vangelo. Quanto allo stile miniaturistico, Grazia Maria Fachechi (2004) ha ricondotto i caratteri stilistici di Bartolo da Fabriano a modelli riminesi e centro italiani di ascendenza bolognese e, nelle Marche, ha evidenziato le analogie con un corpus di corali miniati della metà del xiv secolo, rara testimonianza della miniatura gotica marchigiana. maria chiara leonori

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80. Anonimo pittore tardogotico (Gentile da Fabriano?) O beate, San Bartolomeo 1400 circa antifonario santorale; manoscritto membranaceo; segnato O tempera su pergamena; mm 650 × 410 Perugia, Biblioteca Comunale Augusta, ms. 2800, c. 216v

Bibliografia. Lunghi 1984, p. 157; Lunghi 1996, p. 48; F. Grauso-E. Lunghi, in Canto e colore 2006, p. 178. 270

Antifonario santorale con il comune e il proprio dei santi. Fu trovato nella chiesa di San Domenico di Perugia con la soppressione dei beni ecclesiastici seguita all’annessione dello Stato della Chiesa da parte del Regno sabaudo (1860). Nella sacrestia di San Domenico furono rinvenuti numerosi libri corali risalenti a tre epoche distinte. Il ms. 2800 era parte di un ciclo di 14 libri corali che furono verosimilmente commissionati per il servizio dei frati Predicatori al tempo in cui papa Benedetto XI stabilì la propria residenza nel convento di Perugia, dove morì l’anno 1304. Non si hanno notizie sulla data di ultimazione di questi libri, ma si sa che furono scritti prima del 1321 per l’assenza nel testo originale dell’ufficio del Corpus Domini. Le iniziali figurate del ciclo di antifonari furono eseguite da due maestri principali, appartenenti a due diverse generazioni seppure attivi all’interno di un atelier comune. È probabile che fossero genitore e figlio: Elemosina di Forte e Marino di Elemosina. Il maestro più anziano, noto sotto lo pseudonimo di Primo miniatore perugino, rivela una prima formazione nell’ambito della “Maniera greca” umbra influenzata dall’attività di Cimabue ad Assisi, che arricchì con numerose citazioni dalle Storie della vita di San Francesco nella Basilica superiore di Assisi. Il Secondo miniatore perugino conosce bene la maniera moderna di Giotto e attinge a piene mani alle Storie dell’infanzia di Cristo nella Basilica inferiore di Assisi. Il ms. 2800 è decorato da moltissime iniziali vegetali a pennello. In tre soli casi si affacciano volti umani dai tralci vegetali, nei quali è riconoscibile la maniera del Primo miniatore perugino. In fondo al codice è stato aggiunto un fascicolo contenente l’ufficio di san Bartolomeo, che dovrebbe risalire a un’epoca compresa tra la fine del xiv e gli inizi del xv secolo sulla base dell’unica iniziale figurata presente a c. 216v: una semplicissima iniziale calligrafica a penna rossa e azzurra che è decorata nell’occhiello da un minuscolo san Bartolomeo, ritratto a mezza figura, vestito all’apostolica con tunica e manto, con in mano un coltello insanguinato e un libro. Una scheda descrittiva del corale è presente nel catalogo della mostra “Canto e colore” (F. Grauso-E. Lunghi, in Canto e colore 2006). Nel pubblicare l’iniziale sottolineai il contrasto tra la tipologia abbastanza comune di alcune lettere a pennello presenti nel fascicolo, che possono essere confrontate con la rara miniatura perugina di primo

Quattrocento, e l’insularità dell’unica iniziale figurata nel contesto della locale decorazione libraria nota (Lunghi 1984, p. 157). Al contrario molto forti sono i legami con la pittura monumentale di gusto tardogotico, che guardano in direzione del polittico di Valle Romita di Gentile da Fabriano e alle opere lasciate a Perugia dai fratelli Salimbeni, con i quali condivide l’attenzione verso mode correnti nelle corti dell’Italia settentrionale, come l’inconfondibile capigliatura a caschetto del san Bartolomeo. Tornando sull’argomento, sottolineai l’interesse della «finezza di certi particolari a paragone con la povertà della lettera – il profilo sinuoso del mantello, le parti rilevate che grondano luce, i riflessi argentei nei capelli e nella barba, l’effetto di spazio reale suggerito dall’aureola tagliata – [che] sono propri di un pittore monumentale impegnato nel piccolo formato piuttosto che di un miniatore abituato a semplificare i dettagli in elementi decorati. Si potrebbe pensare a una prova occasionale lasciata nei libri corali conservati nella sacrestia del San Domenico Nuovo da uno dei pittori impegnati nella decorazione della chiesa all’apertura del xv secolo» (Lunghi 1996, p. 48). Il problema è capire quale di questi pittori possa avere eseguito questa prova su richiesta dei frati Predicatori di Perugia. In passato, per un eccesso di prudenza, mi ero limitato a un generico riferimento a un «Pittore tardogotico perugino?», con il punto interrogativo finale (ibid.). Intorno all’anno 1400 furono attivi in San Domenico l’orvietano Cola di Petrucciolo, il fiorentino Mariotto di Nardo, il senese Benedetto di Bindo, Gentile da Fabriano, seguiti a ruota dal perugino Pellegrino di Giovanni e da altri non precisati pittori che riempirono di affreschi votivi le cappelle minori. Esclusi Mariotto e Benedetto, i maggiori indiziati restano Cola e Gentile, anche se la mia preferenza va al secondo, che dipinse una tavola per la sacrestia di San Domenico. Quel che più ricorda Gentile sono le folte sopracciglia che compaiono pressoché identiche nel san Girolamo del polittico di Valle Romita, o le morbide pieghe del manto confrontabili con le vesti indossate da santa Caterina nella stessa opera. La presenza del manoscritto nella mostra fabrianese è una buona opportunità per sollecitare altri studiosi a esprimersi su una plausibile prova iniziale di Gentile nel campo della decorazione libraria. Elvio Lunghi

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Itinerari

Le “cappelle giottesche” di Sant’Agostino a Fabriano Veruska Picchiarelli

1. Maria Maddalena converte i Provenzali, particolare.

Bibliografia. Molajoli 1934; Molajoli 1936, ed. 1968, pp. 164-169; Volpe, 1965, pp. 50-51, 60, nota 75; Donnini 1982, pp. 386-388; Boskovits 1993, pp. 172-174, 181, nota 82; Donnini-Parisi Presicce 1994, pp. 37-38; Donnini 1995, pp. 50-52; Marchi 1995, pp. 114-115; Marcelli, Devozione 1998, pp. 168-178 (con bibliografia precedente); Marchi 1998, pp. 61-63; Cleri 2006, pp. 9-60 (con bibliografia precedente).

Nei primi decenni del Trecento gli Eremiti agostiniani del convento fabrianese di Santa Maria Nova, poi detto di Sant’Agostino, provvedevano a dotare di una decorazione adeguata la loro chiesa. Dopo la ricostruzione a cui l’interno dell’edificio fu sottoposto nel 1758, a testimonianza del suo primitivo rivestimento pittorico restano solo due consunti cicli di affreschi (restaurati nel 1933 e nel 2006) in quelle che erano in origine le cappelle ai lati del coro, tagliate fuori dal corpo della chiesa nuova. Nella cappella a cornu evangelii sono raffigurate Storie della Maddalena tratte dalla Legenda aurea (Cena in casa di Simone il Fariseo, Resurrezione di Lazzaro, Conversione dei Provenzali, Estasi, Ultima Comunione), alle quali si aggiungono altri soggetti sacri: nella volta Santa Caterina d’Alessandria, Sant’Agostino (?) e altri due personaggi non riconoscibili; nelle lunette della parete sinistra e della parete d’altare l’Incredulità di san Tommaso e la Lapidazione di santo Stefano; sopra la perduta mensa una Crocifissione tra Sant’Elena e San Giacomo apostolo a sinistra, e una Madonna col Bambino e Santa Margherita di Antiochia a destra. Questi ultimi riquadri sono scanditi da un architrave in finto marmo, dove – entro losanghe – sono ritratti un laico elegantemente vestito e un monaco agostiniano, privi di aureola e in atteggiamento orante. Tenendo conto dell’attenzione prestata dagli Eremitani ai piani iconografici delle loro fondazioni, è da escludere che gli episodi non pertinenti alla vicenda della Maddalena siano giustificati da mere esigenze devozionali. La corretta chiave di lettura dei contenuti teologici attribuiti agli affreschi dall’inventor – da identificare con il monaco ritratto nella parete d’altare – si evince dall’analisi dei soggetti meno diffusi nei cicli organici dedicati alla santa: quello relativo alla Conversione dei Provenzali e quello dell’Estasi, dove compare un dettaglio sinora sfuggito, che conferisce alla scena ulteriori accezioni di significato. Nel primo è rappresentata la Maddalena che, giunta miracolosamente in Provenza su una nave priva di timone, predica di fronte al tempio di Marsiglia e converte al cristianesimo molti pagani, tra i quali il governatore e sua moglie (Marcelli, Devozione 1998, p. 170), qualificati dalle insegne del potere (è da no-

tare la gestualità della santa, che con la mano sinistra computa gli argomenti da esporre). Nell’altro, molto frammentario, la penitente è in estasi entro una mandorla sorretta da angeli, immagine che sintetizza l’eremitaggio in cui ella trascorse gli ultimi anni di vita, soccorsa nei bisogni quotidiani da messi divini, i quali, alle sette ore canoniche, la elevano in aria per saziarla con “banchetti celesti”. Nell’angolo in basso a destra si nota il lembo inferiore di un abito nero, in cui Fabio Marcelli riconosce il saio di un agostiniano, ritenuto pertinente ad un ritratto del monaco committente (ivi, p. 169). Il personaggio va in realtà identificato con un sacerdote, il quale, stando alla Legenda aurea, si era ritirato nei pressi dell’antro della Maddalena per condurre “una vita solitaria”. Per intervento divino, all’eremita fu concesso di assistere ad una delle estasi della santa. Stupito, egli cercò di avvicinarsi per indagare la natura del prodigio, ma, giunto a breve distanza, fu colto da un’improvvisa debolezza e non poté proseguire. «Capì dunque», afferma Jacopo da Varazze, che «si trattava di un mistero celeste, al quale l’esperienza umana non poteva accedere» (Legenda aurea, ed. Maggioni 2007, I, p. 713). Nel contesto del ciclo, la scena affronta per la seconda volta – dopo l’Incredulità di san Tommaso – il tema della necessità, da parte del cristiano, di accogliere per fede i misteri più insondabili della religione, e crea una contrapposizione tra l’atteggiamento scettico dell’apostolo e il fiducioso abbandono del sacerdote, che sarà poi premiato dalla Maddalena con la rivelazione della sua identità. Tale concetto fu particolarmente caro proprio ad Agostino, che ne trattò più volte nei suoi scritti, tanto da favorire la nascita del delizioso aneddoto del suo incontro con il bambino che voleva svuotare il mare con un cucchiaio per travasarlo in una buca, chiara metafora dell’incapacità della mente umana – persino della più eccelsa – di comprendere razionalmente dogmi inesplicabili. Alla luce di tali riflessioni, sembra essere proprio questo il filo conduttore dell’intera decorazione, composta da episodi relativi a santi diversi, ma legati da un comune denominatore: l’esemplarità nel raccontare un percorso di conversione in cui il credente matura una fede incrollabile, che non vacilla 275

né di fronte ai misteri divini più imperscrutabili, né di fronte alla minaccia della persecuzione fisica, divenendo strumento di remissione dei peccati e viatico della redenzione dell’anima. Si spiega in questo senso la presenza della Lapidazione di santo Stefano, che fu il primo a sacrificare la vita per testimoniare la propria fede, o quella dei Santi Giacomo e Elena, che rappresentano i luoghi di pellegrinaggio più importanti della cristianità (Compostela, Roma e Gerusalemme), strettamente connessi ai percorsi di conversione ed espiazione, poiché vi si otteneva l’indulgenza plenaria. È però nella vicenda della santa penitente che si evidenzia maggiormente l’esaltazione della forza della fede. La prostituta convertita trasforma in modo 276

radicale la sua vita, diviene essa stessa strumento di conversione e abbandona infine il mondo per la solitudine del deserto, prefigurando il modus vivendi perseguito dagli ordini eremitici. La scelta di dedicare la cappella alla Maddalena, dunque, rispondeva di certo alle esigenze devozionali del committente laico, ma era anche in linea con gli ideali ascetici degli Eremiti di sant’Agostino. Con ogni probabilità furono eseguite con il concorso di committenti esterni alla comunità agostiniana anche le decorazioni della cappella a cornu epistolae della chiesa fabrianese. Nelle partiture ornamentali, infatti, si ripete uno stemma gentilizio, che non è stato possibile identificare. Anche in questo caso dovette esserci una profonda sinergia tra i patro-

2. Sant’Elena, Crocifissione, Madonna col Bambino. 3. Ritratti dei committenti.

4. Stemma gentilizio.

ni dell’altare e i frati, poiché le scelte iconografiche esprimono contenuti strettamente legati all’ideologia dell’ordine. Gli affreschi rappresentano Storie di sant’Agostino, con fatti compiuti dal santo in vita che si alternano ad episodi postumi (Guarigione di due giovani indemoniati, Guarigione di un bambino affetto da calcoli, Sant’Agostino nomina il successore Eraclio (?), Transito di sant’Agostino, Transito del beato Ugo da Fontenay, Liberazione del prigioniero dei Malaspina). La scena della morte del santo e del trasporto della sua anima da parte degli angeli, nel registro inferiore della parete sinistra, è messa in rapporto con l’antistante Ascensione di Cristo, affiancata ad una Madonna col Bambino. Nelle vele della volta sono ritratti i Dottori della Chiesa; nella parete d’altare sono infine dipinte una Crocifissione, una Madonna col Bambino, Santa Caterina d’Alessandria e altre due Sante non riconoscibili, perché molto frammentarie. I dipinti compongono il più antico ciclo organico dedicato al vescovo di Ippona che si conservi in Italia (Fratini 1991). La fonte di riferimento è ancora una volta la Legenda aurea, dalla quale vengono selezionati episodi che insistono sulle proprietà taumaturgiche del santo, forse in risposta alla venerazione di cui godevano in tal senso i fondatori degli ordini che più contendevano agli Eremitani devoti e prestigio: Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman. Gli autori del programma, che operano senza fare

riferimento ad una tradizione figurativa consolidata, selezionano episodi rari nell’iconografia agostiniana, quali il Transito del beato Ugo da Fontenay, o l’affresco generalmente interpretato come la Scuola di sant’Agostino, in cui invece – sulla scorta di Iacopo da Varazze (Legenda aurea, ed. Maggioni 2007, II, p. 969) – si può riconoscere il vescovo di Ippona che nomina suo successore Eraclio, per poter interamente dedicare gli ultimi anni di vita allo studio. È di scarsa diffusione anche la Liberazione del prigioniero dei Malaspina, ovvero il miracoloso intervento postumo di Agostino nei confronti di un suo devoto, che era stato incarcerato dai signori di Pavia perché appartenente ad una fazione avversa. La presenza di questo soggetto ha indotto Marcelli (Devozione 1998, pp. 172-176) a leggere nel ciclo una forte connotazione politica, anche alla luce dei tumultuosi eventi di cui Fabriano era teatro nei primi decenni del Trecento, quando lo scontro tra papato e impero coinvolgeva a pieno titolo e con alterne fortune le istituzioni e le nobili famiglie della città, fino alla definitiva affermazione dei ghibellini Chiavelli. Le “cappelle gotiche” sono state inserite da Bruno Molajoli (1934) nel catalogo del Maestro di Sant’Emiliano, pittore attivo proprio in questo arco cronologico, a cui vengono riconosciuti gli affreschi della cappella a destra del coro in San Marco a Jesi e l’opera eponima, la Maestà della Pinacoteca di Fabriano staccata dall’abbazia di Sant’Emiliano in Congiun-

5. Madonna col Bambino, Crocifissione, Santa. 277

toli (cat. 13). L’interpretazione della cifra stilistica del maestro non è univoca. Le posizioni più divergenti sono quella di Decio Gioseffi (1962, pp. 20-21), che lo ricollega al contesto riminese, al punto da proporne l’identificazione con Giuliano da Rimini, e quelle di Carlo Volpe (1965, pp. 50-51) e Pietro Scarpellini (1996, pp. 10-14), che vi riconoscono invece uno dei componenti dell’entourage protogiottesco di Assisi. Federico Zeri (1950) e Miklós Boskovits (1993, pp. 172-174) ritengono che l’etichetta individui l’attività più antica del Maestro dell’Incoronazione di Urbino. Alessandro Marchi (1995; 1998) non accoglie tale sovrapposizione, ma concorda con Boskovits nell’identificare l’anonimo con un pittore marchigiano, probabilmente fabrianese, il quale, anche in virtù della posizione geografica, guardò negli anni della formazione sia verso Assisi, che verso Rimini, confrontandosi con l’opera di Giotto e dei suoi più diretti seguaci. Quest’ultima lettura è quella che riscontra oggi maggiori consensi (Cleri 2006, con bibliografia precedente) e trova fondamento nell’esistenza di documenti che ricordano a Fabriano numerosi pittori attivi nei primi decenni del Trecento (Sassi 1924). La cronologia specifica delle Storie della Maddalena e delle Storie di sant’Agostino è un problema ancora aperto, sebbene la critica, sin da Volpe (1965, p. 60, nota 75), ne ricolleghi l’esecuzione a un documento del 1311, che attesta come gli Agostiniani di Fabriano avessero venduto un casa per pagare i «maestris qui pingunt ipsam ecclesiam» (Sassi 1924, p. 476). Non è scontato, in realtà, che tale testimonianza sia pertinente agli affreschi in esame, soprattutto tenendo conto del fatto che è andata perduta la decorazione del coro della chiesa fabrianese (Marcelli, Devozione 1998, pp. 173-176). Come provato dalla presenza del ritratto maschile e dello stemma descritti in precedenza, inoltre, le due cappelle avevano di certo dei patroni laici. È da chiedersi, pertanto, se i monaci avessero necessità di alienare un edificio per provvedere all’ornamentazione di questi altari, o se il documento non sia da riferire piuttosto ad uno spazio della chiesa interamente posto sotto la loro giurisdizione, come appunto la cappella maggiore. Un altro aspetto da valutare riguarda la presunta contemporaneità dei cicli, già messa in dubbio da Boskovits (1993, p. 173), che riteneva la cappella a cornu epistolae leggermente posteriore, per «le proporzioni allungate dei personaggi, … il più accentuato gioco chiaroscurale», e una «ricerca, prima assente, di espressioni drammatiche». Tali considerazioni trovano riscontro nelle Crocifissioni dipinte sui due altari, le quali, poste a confronto, consentono una valutazione immediata della connotazione più marcatamente “gotica” degli affreschi di tema agostiniano. Al fine di distanziare un poco nel tempo l’esecuzione delle due campagne decorative, un altro dato significativo è rappresentato dall’inquadratura scenica in cui i soggetti sono inseriti. Le partiture ornamentali delle due cappelle presentano infatti elementi simili (colonne tortili, modanature in finto marmo, paraste decorate da tarsie alla cosmatesca), che nella cappella di Sant’Agostino sono resi però in 278

versione più ricca ed elaborata negli ornati e nella veste cromatica. Alla luce di queste riflessioni, una datazione intorno al 1310 – e dunque in concomitanza del citato documento – è plausibile per le Storie della Maddalena, per i palesi rapporti con il linguaggio maturato da Giotto e dai suoi epigoni assisiati e riminesi nella prima decade del Trecento, con particolare riferimento alle cappelle di San Nicola e della Maddalena nella Basilica inferiore di Assisi. Sono invece da posticipare di almeno un decennio le Storie di sant’Agostino, che sembrano piuttosto in relazione con opere della seconda decade del secolo, quali la decorazione del transetto destro e delle vele della Basilica inferiore di Assisi, la Crocifissione di Giovanni da Rimini in San Marco a Jesi, o gli affreschi nel coro di Sant’Agostino a Rimini, databili entro il 1318. Lo scarto cronologico giustifica le differenze formali riscontrabili nei cicli in esame, e porta a non escludere che la loro esecuzione sia dovuta alla stessa bottega, guidata evidentemente da un maestro attento alle novità e capace di aggiornarsi. Una conseguenza non trascurabile di una datazione delle Storie di sant’Agostino compresa tra il secondo e il terzo decennio del Trecento è legata alle circostanze che fecero da sfondo alla loro esecuzione. L’analisi più complessa in tal senso è proposta da Marcelli (Devozione 1998, pp. 168-178), che interpreta la decorazione in senso strettamente antighibellino, leggendovi una presa di posizione della comunità agostiniana contro i Chiavelli, e una prova della sua fedeltà al pontefice. Il contesto socio-politico fabrianese, in particolare negli anni venti del Trecento (Sassi 1930), invita però a valutare con prudenza queste riflessioni. A quei tempi, infatti, il più illustre figlio del convento di Santa Maria Nova era fra Niccolò di Pietro di Salvolo, che fu ardente ghibellino e sostenitore dell’antipapa Niccolò V, da cui ricevette la nomina a cardinale. A questo si aggiunga che la chiesa agostiniana era stata fondata da Gualtiero Chiavelli, lì sepolto, e che il suo discendente Alberghetto, agli inizi del Trecento, aveva incluso il convento nella nuova cinta urbica di Fabriano (Donnini 1995, pp. 29-32). Se vi furono intenzioni politiche nella commissione del ciclo, pertanto, non necessariamente dovettero essere in chiave antighibellina. Lo scopo di chi ideò il piano iconografico sembra essere stato piuttosto quello di promuovere l’immagine di sant’Agostino e degli Eremitani, negli anni in cui essi ottenevano il primo santo del loro ordine (Nicola da Tolentino, canonizzato nel 1325) e vincevano un’annosa disputa contro i Canonici regolari, vedendosi riconosciuta da Giovanni XXII, nel 1327, la dignità di proclamarsi diretti “figli” di Agostino da Tagaste.

6. Liberazione del prigioniero dei Malaspina.

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Gli affreschi di Allegretto Nuzi nella chiesa di San Domenico a Fabriano emanuela cecconelli

1. Allegretto Nuzi, Il viaggio di Sant’Orsola. 2. Allegretto Nuzi, San Michele Arcangelo, particolare.

Tra il 1363 e il 1365 i Domenicani di Fabriano fecero eseguire nella loro chiesa importanti lavori di ristrutturazione, comprendenti l’apertura di due cappelle laterali al presbiterio (Sassi, Chiese artistiche 1928, pp. 13-19). La decorazione pittorica della cappella a cornu evangelii, scoperta nel 1890, viene attribuita ad Allegretto Nuzi, che per i Predicatori aveva già dipinto due tavole datate 1345 e 1349 (Scevolini 1627, c. 93v); gli affreschi furono eseguiti intorno al 1365, anno riportato, insieme alla firma del noto pittore fabrianese, nel trittico che doveva ornare l’altare della cappella, oggi esposto nella Pinacoteca Vaticana. Il dipinto fu portato a Roma nella chiesa dei Santi Leonardo e Romualdo alla Lungara dalla famiglia Santi (Todini 1977), forse prima del 1618, anno in cui i due “quadrari” e “colorari” Leonardo e Romualdo Santi di Fabriano figurano già residenti nell’Urbe (Calenne 2013, pp. 92-94). Il polittico della Vaticana ci offre

quindi un ritratto di coloro che commissionarono gli affreschi ad Allegretto. La dettagliata immagine della famiglia Santi – otto piccole figure oranti tra cui forse quel Nofrio di Santa che nel 1383 risulta possedere un altare nella chiesa domenicana – si rivela un chiaro atto di orgoglio, legato al prestigio del patronato: va ricordato che la cappella a cornu epistolae, cioè quella parallela alla cappella Santi, apparteneva alla famiglia magnatizia dei Chiavelli, che nel 1369 elesse la propria sepoltura all’interno della chiesa. Lungo le pareti le effigi dei santi titolari, Michele Arcangelo e Orsola, vengono accostate a diversi soggetti iconografici che costituiscono una serie variegata di exempla morali e comportamentali. San Michele campeggia da protagonista nel ruolo di pesatore di anime sulla parete d’altare (che si trova a destra dell’attuale porta di accesso alla cappella; per la descrizione faccio riferimento all’ingresso origina-

Bibliografia. Marabottini 1951-1952, pp. 39-40; Molajoli 1968, pp. 130-134; Donnini 1975, pp. 536-537; Donnini 1982, pp. 392-398; Zampetti-Donnini 1992, pp. 2122; Donnini 1996, pp. 18-19; Scarpellini 1996, pp. 15-17; Begotti 1998; Marcelli, La sagrestia 1998; Marcelli 2004, pp. 96, 115 (con bibliografia precedente); Faranda 2005, p. 17; Delpriori 2006; Donnini, La sala capitolare 2006. 281

rio) ed è ritratto, sulle pareti laterali, in due immagini che evidenziano il suo specifico potere contro le forze maligne: nel libro di Daniele (12,1) è narrata la sua vittoria contro l’Anticristo, mentre l’Apocalisse (12,7) ricorda la lotta contro i diavoli. Orsola compare, oltre che nel tondo della parete d’altare (accanto a quelli con l’Ecce Homo e con Sant’Agnese), all’interno di tre scene tratte dalla sua leggenda, sulla parete destra. Stando alle testimonianze iconografiche, il culto tributato a Orsola – la santa di Colonia martirizzata, con undicimila compagne, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma, insieme a papa Ciriaco – conosce in Italia un particolare impulso nella seconda metà del XIV secolo (Begotti 1998). Raffigurazioni della santa risalenti alla seconda metà del Trecento sono conservate nella chiesa domenicana di Gubbio e nella collegiata di San Salvatore a Foligno, nella quale si individuano due immagini di Orsola pressoché coeve agli affreschi di Allegretto (Picchiarelli in c.d.s.). Il rilievo assegnato al tema del viaggio presente nel ciclo pittorico fabrianese può essere inteso come un rimando implicito, voluto dalla famiglia Santi, ad una delle pratiche di espiazione dei peccati più diffuse nel Medioevo, il pellegrinaggio: da qui l’elemento figurativo della nave, che si unisce agli attributi iconografici di Orsola (la corona, il vessillo crociato e la freccia) e che ne esalta il suo ruolo di pellegrina e di martire. Nella cappella il riferimento al martirio, quale metafora del sacrificio in nome della fede, è ribadito, nelle lunette delle pareti laterali, con la Strage degli innocenti, cioè di quei bambini onorati come emblemi di tutti coloro che hanno versato il loro sangue per Dio, e con il Martirio di santo Stefano, il primo vero e proprio martire cristiano. L’Annuncio a Zaccaria sulla parete sinistra è invece un probabile riferimento alla figura di Giovanni Battista, scelto dalla comunità fabrianese come protettore della città accanto a Venanzio. La decorazione della cappella di San Domenico presenta una marcata eterogeneità dal punto di vista qualitativo. Alcune scene – come il grande San Michele e i tre tondi sulla parete d’altare – sono probabilmente autografe di Allegretto, in quanto affini ai pressoché coevi affreschi da lui eseguiti nella cattedrale di Fabriano, dove si apprezza l’accurata resa dei particolari, specie nelle fisionomie dei personaggi. A riguardo si veda l’affinità fra l’immagine di sant’Agnese e la figura di Maria dolente nella cappella di San Giovanni Evangelista del Duomo. Altri soggetti invece si distinguono per una tecnica più frettolosa e approssimativa, nelle linee di contorno e nella stilizzazione delle fattezze delle figure; si può pertanto parlare di un consistente intervento di collaboratori, che si riscontra soprattutto nelle tre scene del ciclo di Orsola. Fra questi aiuti va annoverato Francescuccio Ghissi, probabile autore della Strage degli innocenti e della Dormitio Virginis (quest’ultima nella lunetta superiore della parete d’altare), scene accomunate dai forti contrasti cromatici e dalle pose rigidamente impostate. In ogni caso si tratta di affreschi che riflettono una fase piuttosto avanzata del percorso di Allegretto, nella quale, per dirla con Berenson (19211922, p. 305), l’artista «diventa più stilizzato, più 282

3. Allegretto Nuzi, Martirio di santo Stefano, San Michele Arcangelo sconfigge l’Anticristo, Miracolo di san Nicola.

piatto, come se le sue figure fossero state addirittura strette fra due pietre lisce». La scena del Miracolo di san Nicola sulla parete sinistra ricorda nell’impianto compositivo una tavoletta eseguita nella seconda metà del Trecento e attribuita al senese Bartolo di Fredi (nel 1968 segnalata da Zeri sul mercato antiquario a Bergamo, come documentato nella Fototeca della Fondazione Federico Zeri dell’Università di Bologna). Interessanti anche le affinità con le Scene della leggenda di san Michele Arcangelo eseguite nel 1368 nella chiesa di San Michele Arcangelo di Civitella Paganico da un altro senese, Biagio di Goro Ghezzi (Freuler 1981); qui il tipo di elmo, la decorazione dell’armatura e lo strano scudo a ventaglio con cui è ritratto il santo ricordano dettagli analoghi presenti negli affreschi della nostra cappella e nel trittico della Vaticana. Queste osservazioni spingono a considerare con maggiore attenzione la componente senese nella formazione di Allegretto: come è noto, Nuzi è rintracciato nell’elenco dei membri della Compagnia di San Luca di Firenze, dove nel 1346 viene citato come Allegrettus Nuccii de Senis (Moreni 1824, p. 227; Donnini, Allegretto Nuzi 1986), definizione interpretata come un probabile soggiorno dell’artista a Siena prima di approdare a Firenze. Da qui i richiami al linguaggio e alle tecniche dei grandi pittori senesi della prima metà del Trecento, come l’utilizzo dei punzoni presi

a modello da Pietro Lorenzetti (Frinta 1998, p. 806). L’attuale sacrestia di San Domenico presenta caratteristiche che denunciano la sua originaria funzione di sala capitolare. Sulla parete orientale campeggia un affresco raffigurante la Crocifissione, scoperto nel 1844 insieme a gran parte della decorazione. In questo dipinto, riferibile ad Allegretto Nuzi, il sacrificio di Cristo viene raccontato alla stregua di una sacra rappresentazione del Venerdì santo, come sottolineano le due figure di Longino e di Nicodemo, quest’ultimo ritratto mentre mostra con gesto teatrale il martello e i chiodi (Marcelli, La sagrestia 1998). Ai piedi della croce stanno accasciati Maria e Giovanni, dai volti trasfigurati in potenti maschere di dolore. In origine la scena della Crocifissione era affiancata da altri due episodi, infatti a destra rimane un piccolo frammento di immagine: all’interno di un antro compare la parte superiore di un’aureola, nella quale è iscritta una croce patente rossa; si tratta dunque di Gesù, probabilmente nella scena della Resurrezione. Pertanto sulla parete d’altare trovava posto un piccolo ciclo cristologico, come si osserva in molte sale capitolari domenicane. Al di sotto della Crocifissione è rappresentato l’Incontro di Gesù con la Samaritana, spettante a un collaboratore del Nuzi, probabilmente Francescuccio Ghissi (Donnini, La sala capitolare 2006), che qui si rivela dotato di un’efficace vena narrativa. Il brano evangelico (Gv

4. Allegretto Nuzi, Sant’Agnese. 5. Allegretto Nuzi, Crocifissione.

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4,1-41) brilla per l’agile dialettica che si crea tra i due protagonisti, per cui il pittore sceglie di inserire accanto alla bocca di Gesù un “fumetto” contenente l’incipit del dialogo: Mulier, da mihi bibere. Secondo sant’Agostino la Samaritana è simbolo dell’umanità inizialmente schiava della superstizione pagana, ma in grado di accogliere e diffondere la rivelazione di Gesù. Il successivo intervento degli apostoli, che nell’affresco occupano un posto di rilievo, ribadisce l’importanza – fondamentale per i Domenicani – della predicazione evangelica. Sulla parete sinistra accanto alla Crocifissione è dipinta, a mio giudizio dallo stesso Francescuccio Ghissi, Babilonia, la donna descritta nell’Apocalisse (17,3-4) che cavalca la bestia dalle sette teste e dieci corna, associate nell’affresco alle iscrizioni dei peccati capitali. In alto si legge babilon magna mate(r) habomi | nationum terre; le onde sommariamente tracciate nella fascia inferiore alludono alla scomparsa della città nelle profondità marine. Il richiamo a Babilonia è presente in diversi testi di ambito domenicano, come I frutti della lingua di Domenico Cavalca, dove – citando il De civitate Dei di sant’Agostino – viene riportata la contrapposizione tra l’amore per se stessi che ha creato Babilonia (cioè l’inferno) e l’amore di Dio che ha creato la Gerusalemme celeste, alla quale si giunge tramite il Crocifisso. La raffigurazione di Babilonia spiega due particolari iconografici presenti nella Crocifissione, forse aggiunti in un secondo momento: un edificio diroccato e un demone che fugge, rappresentanti la caduta della città peccatrice e la disfatta dei suoi immondi abitanti. Qualche frate domenicano – memore delle immagini raffiguranti il Trionfo della Chiesa sulla Sinagoga in cui quest’ultima è ritratta, in modo assai simile a Babilonia, come una giovane donna 284

incoronata e sontuosamente vestita che cavalca un capro acefalo – ha ordinato di scrivere sulla casa semidistrutta il nome “sinagoga”, interpretando la scena in chiave antigiudaica. Come è noto, brani della tradizione evangelica potevano assumere connotati antiebraici su esplicita richiesta della committenza. Nella lunetta opposta a quella occupata da Babilonia c’è un altro affresco attribuibile a Francescuccio Ghissi, raffigurante la Tebaide, che racconta episodi della vita condotta dagli anacoreti del deserto basandosi su un altro testo di Domenico Cavalca, il volgarizzamento delle Vitae Patrum, il corpus dell’agiografia monastica del VI secolo. Il tema suggerisce preziosi esempi di virtù, in chiara contrapposizione alla raffigurazione dei sette vizi capitali, e si articola secondo dei veri e propri topoi iconografici (si veda a riguardo la Tebaide del Camposanto di Pisa). La scena principale è la koimesis (dormizione) di un santo eremita, Arsenio, barone alla corte di Teodosio che abbracciò una vita solitaria e schiva, comportandosi con estrema umiltà sebbene fosse «dotto in scientia in lingua greca e latina» (Cavalca, Vite dei santi Padri, ed. 2009, I, p. 934). Vicino si vede un monaco che, all’interno di un carro trainato da un compagno, è immerso nella lettura, a ricordare l’importanza della cultura per l’Ordine dei Domenicani. Sant’Agostino – ricorda il Cavalca nella Disciplina degli spirituali – traccia il percorso dell’ascesi come una scala su cui salire per gradini successivi: leggere, meditare, orare, contemplare. L’amore per la vita anacoretica emerge nei testi dei predicatori domenicani e tradisce un sofferto contrasto tra l’aspirazione per la solitudine e l’attività apostolica vissuta nei centri urbani. Accanto a Babilonia è ritratta una delicata Madonna col Bambino, assegnabile all’intervento diretto di Allegretto Nuzi; l’immagine spicca per l’accuratezza

dello sfumato che tornisce i volti, l’eleganza delle pieghe tubolari che fasciano il corpo affusolato di Maria e la scelta felice di uno schema compositivo inusuale e fresco (il Bambino che si protende verso un albero di ciliegie). Il tema mariano è ribadito nella scena di fronte, una Dormitio Virginis che si avvicina molto a quelle eseguite da Francescuccio Ghissi nella cappella dei Santi Michele Arcangelo e Orsola e nella chiesa di Sant’Agostino di Perugia: stessa secchezza del tratto, che rende le figure rigide e inerti, e stesso disinteresse verso la rappresentazione dello spazio. La peculiarità della Dormitio della sala capitolare è più che altro legata alla presenza di due dettagli che si riallacciano alla menzionata polemica antigiudaica: il personaggio raffigurato in basso a sinistra, da identificare con il giudeo che tentò di rovesciare il cataletto di Maria, e la veste pontificale con la quale è ritratto san Pietro, che rafforza il suo ruolo di legittimo capo della Chiesa. Accanto all’ingresso delle sale capitolari compare spesso l’immagine del santo fondatore: non fa eccezione il capitolo dei Domenicani di Fabriano, che conserva un affresco, riferibile ad Allegretto Nuzi, con un grande san Domenico; in mano ha un ramo di gigli e, sopra di essi, si vede la sagoma di una corona, elemento iconografico inconsueto che si spiega forse in relazione a una delle due tipologie fondamentali dello stemma dell’Ordine domenicano: qui il giglio è simbolo di integrità, la palma (che forse nell’affresco Domenico teneva con la mano destra oggi perduta) simboleggia il martirio come immagine di eroismo nella fede, mentre la corona araldica allude al premio di queste due virtù (Bascapè-Del Piazzo 1983, p. 357). La figura di Domenico rappresenta quindi l’ideale completamento di un programma iconografico in cui si armonizzano temi cristologici e mariani, scene bibliche con messaggi moraleggianti e immagini relative alle attività dell’Ordine.

6. Francescuccio di Cecco Ghissi, Babilonia. 7. Allegretto Nuzi, Madonna col Bambino. 8. Allegretto Nuzi, San Domenico. 9. Francescuccio di Cecco Ghissi, Tebaide, particolare. 10. Francescuccio di Cecco Ghissi, Dormitio Virginis. 285

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La cappella di San Lorenzo nella chiesa cattedrale di San Venanzio di Fabriano Giulia Lavagnoli

1. Allegretto Nuzi, Ultimo supplizio di san Lorenzo sulla graticola, particolare. 2. Allegretto Nuzi, Madonna col Bambino e san Venanzio.

Risparmiata nella ricostruzione post-tridentina della cattedrale, che portò alla demolizione di gran parte della vecchia chiesa, nonostante la perdita totale del lato destro, in cui fu aperta una porta d’accesso, e quella parziale della parete sinistra, tagliata dall’inserzione del muro dell’abside seicentesca, la cappella di San Lorenzo, unitamente a quella della Santa Croce, collocata nei locali contrapposti, costituisce l’unica cospicua presenza dell’antica fabbrica medievale. Scoperti nel 1906, dopo secoli di oblio, nel vano alla destra del coro da Icilio Bocci che per primo pro-

pone il nome di Allegretto Nuzi, unanimemente accettato da tutta la critica successiva, gli affreschi rappresentano nei dodici soggetti rimasti le Storie della vita di san Lorenzo, secondo il racconto datone da Jacopo da Varagine nella Legenda aurea, con alcuni scostamenti dalla narrazione ufficiale. In alto, nel primo lunettone, si osserva San Lorenzo che distribuisce ai poveri i tesori della Chiesa; nei riquadri sottostanti San Lorenzo presenta i poveri all’imperatore Decio, la Madonna col Bambino in trono tra san Venanzio e un altro santo e una Santa ad-

Bibliografia. Bocci 1907, pp. 11-12, nota 1; Sassi 1925, pp. 16-18; Van Marle 1925, pp. 144-148; Molajoli 1928, pp. 16-17; Serra 1928, pp. 142-144; Serra 1929, pp. 289290; Molajoli 1936, pp. 97-99; Marabottini 1951-1952, pp. 40-44; Sassi 1961, p. 80; Boskovits 1973, p. 39, nota 98; Donnini 1981, pp. 10, 36-42; Zampetti 1988, p. 120; Zampetti-Donnini 1992, p. 22; Felicetti, Regesti 1998, p. 216, doc. 61; Donnini 2003; Falaschini 2003, pp. 67, 70; Marcelli 2003, pp. 12-13; Mariano 2003, p. 24; Rossi 2003, pp. 14, 16; Marcelli 2004, pp. 76-79; Donnini, La sala capitolare 2006, pp. 107-108. 287

dolorata, forse santa Maria Maddalena. Nella parete centrale l’affresco del lunettone è irrimediabilmente perduto, salvo che per poche tracce. Al di sotto, a sinistra della monofora, è visibile la Prima flagellazione del santo alla colonna e il Santo davanti all’imperatore Valeriano che lo esorta ad abiurare e ad adorare la statua di Giove. Di fianco San Lorenzo che battezza il prefetto Ippolito e al di sopra San Lorenzo sottoposto al supplizio degli aculei. Nel lunettone della parete destra è rappresentato il Santo che battezza il cieco Lucillo dopo avergli restituito la vista; nei riquadri sottostanti la Seconda flagellazione del santo e l’Ultimo supplizio del santo sulla graticola. Della decorazione della volta a crociera rimane integra soltanto la mezza figura di San Bartolomeo, inserita entro una cornice circolare polilobata. In virtù dei puntuali rimandi ai modi stilistici di Allegretto e soprattutto della presenza di opere già eseguite per la cattedrale, quali il polittico oggi nella Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli” e la frammentaria Crocifissione affrescata in un locale attiguo alla cappella della Santa Croce, gli affreschi sono da sempre considerati opera certa del caposcuola fabrianese e il più compiuto risultato lasciato nella città natale. Realizzato probabilmente con l’aiuto di qualche seguace, il ciclo, non databile con esattezza, è da collocare nel settimo decennio del secolo. Termine post quem potrebbe essere considerato il 1365, anno del documento del 27 gennaio nel quale si afferma che Maestro Franceschino da Firenze rilascia quietanza ad Ambrogio di Bonaventura di Fabriano, sindaco della chiesa di San Venanzio, per aver ricevuto 490 fiorini d’oro per la costruzione e la conciatura delle pietre delle pareti e della volta della tribuna della chiesa, che pare al tempo fosse articolata da cappelle radiali. Non è dunque difficile ipotizzare che agli interventi di muratura siano seguiti quelli pittorici. Non manca, tuttavia, chi, non ritenendo utile il documento, propone una collocazione cronologica antecedente. Luigi Serra, seguito da Bruno Molajoli (1936, p. 99), Miklós Boskovits (1973, p. 39) e Giampiero Donnini (1981, p. 37), giudica la data troppo tarda per gli affreschi che, sotto l’aspetto stilistico, fanno pensare «ad un periodo in cui il Nuzi guardava ancora ai valori essenziali, benché non più giovanile» (Serra 1928, p. 142). La critica più recente, come già Alessandro Marabottini (1951-1952, p. 40) che notava notevoli rapporti con il trittico vaticano datato 1365, giudica l’intervento in San Venanzio prodotto della piena maturità dell’artista e ancora la datazione alla metà degli anni sessanta del Trecento. Sono gli anni in cui Allegretto, godendo del favore della potente famiglia gentilizia dei Chiavelli, che aveva dato impulso al rinnovamento architettonico di Fabriano, diviene la personalità artistica più rappresentativa tra le maestranze locali. Impregnato del linguaggio della cultura artistica toscana post-giottesca, che aveva avuto modo di seguire nel soggiorno fiorentino, Nuzi, accentuando il tono pacato della narrazione, concentra nelle Storie della vita di san Lorenzo la sua ormai consolidata cifra stilistica, caratterizzata dalla sobrietà delle forme e dall’elegante partito cromatico, ancora immune 288

3. Allegretto Nuzi, San Lorenzo presenta i poveri all’imperatore Decio. 4. Allegretto Nuzi, San Lorenzo battezza il prefetto Ippolito. 5. Allegretto Nuzi, San Lorenzo battezza il cieco Lucillo.

dal decorativismo delle opere dell’ultimo decennio. Rispetto alla produzione su tavola si avverte il tentativo di maggior caratterizzazione fisiognomica ed espressiva dei personaggi che popolano le scene, prive di qualsiasi accentuazione drammatica. Esiti di alta qualità sono raggiunti nella definizione dei morbidi incarnati e in alcuni dettagli come le vesti, le capigliature e le barbe, mentre appare più impacciata la collocazione delle figure nello spazio spesso definito da architetture troppo esili, come nel riquadro con San Lorenzo che distribuisce ai poveri i tesori della Chiesa, animato da un’umanità composta e silente. L’impostazione in due gruppi giustapposti della scena con San Lorenzo che presenta i poveri all’imperatore Decio, dominata dalla figura del santo in tunica rossa, memore nel volto leggermente scostato di alcuni esiti di Ambrogio Lorenzetti, è recuperata da composizioni studiate a Firenze e in particolare da Bernardo Daddi, citato nello scomparto di predella con Santa Caterina al cospetto dell’imperatore della collezione Griggs di New York.

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6. Allegretto Nuzi, Seconda flagellazione di san Lorenzo. 7. Allegretto Nuzi, Ultimo supplizio di san Lorenzo sulla graticola.

Insistenti richiami lorenzettiani tornano nel dilatato trono della Madonna col Bambino in trono tra san Venanzio e un altro santo dove si anticipa la nuova tendenza di Allegretto ad appiattire le forme entro netti e semplificati contorni e dove si concretizza quel particolare tipo femminile con occhi allungati, sopracciglia sottili e collo leggermente piegato che tornerà costante nei successivi dipinti su tavola. Verrà riproposto anche il modello figurativo di san Venanzio, derivato dal prototipo di Puccio di Simone nel trittico di Washington. Risultati più originali si ritrovano nei temi spiccatamente narrativi come nel San Lorenzo che battezza il prefetto Ippolito e nel San Lorenzo che battezza il cieco Lucillo dopo avergli restituito la vista, mirabile

per la sintetica soluzione dell’inferriata a contrasto con la tenera nudità di Lucillo e per la pacatezza del santo. Chiudono il ciclo parietale la Seconda flagellazione del santo, che colpisce per la studiata ricerca mimica e il ritmo concitato delle pose, e l’Ultimo supplizio del santo sulla graticola, dove il personaggio che istiga il supplizio è evidente citazione da alcuni personaggi degli affreschi in Santa Croce di Maso di Banco, senza dubbio gli episodi più alti dell’intera rassegna.

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La cappella della Santa Croce nella chiesa cattedrale di San Venanzio di Fabriano Giulia Lavagnoli

1-2. Giovanni di Corraduccio, Crocefissione, particolare e intero.

Insieme a quella affrescata nella metà degli anni sessanta del Trecento da Allegretto Nuzi con le Storie della vita di san Lorenzo, la cappella della Santa Croce, situata a sinistra del coro, costituisce importante testimonianza della fabbrica medioevale di San Venanzio, interessata nei primi decenni del XVII secolo da profondi interventi di ricostruzione che causarono la perdita di gran parte delle pitture murali delle cappelle radiali. Della decorazione originaria rimangono, piuttosto frammentarie, la Crocifissione con san Giovanni Evangelista, il soldato Longino e la Maddalena genufluessa a destra e due donne dolenti che sorreggono la Vergine svenuta a sinistra e, nella parete di fondo, episodi della Leggenda della Sacra Croce: a sinistra, di fronte ad un edificio di esili arcate, sta sant’Elena con gli attributi regali che venera la Croce; di fronte a lei un personaggio – probabilmente san Ciriaco – che sostiene la Croce; accanto s’intravede un’altra figura mutila di santo.

Fu Adamo Rossi (1873, p. 81) a scoprire il nome del pittore folignate Giovanni di Corraduccio, quando rinvenne il contratto stipulato a Fabriano il 6 aprile 1415 tra Gregorio di Nicoluccio e l’artista, che si impegnava a dipingere la cappella in Duomo entro tre mesi, ritenendo, tuttavia, che i dipinti fossero irrimediabilmente perduti, forse perché ancora coperti dallo scialbo. Dopo Mario Salmi (1919, p. 172), che ricorda l’attività fabrianese del pittore ipotizzandolo autore degli affreschi di Palazzi Trinci a Foligno, e Raimond van Marle (1925, p. 176), che mostra di aver visto la Crocifissione, ma, non conoscendo il documento pubblicato da Rossi, non ne ravvisa l’autore, è Bruno Molajoli (1930, p. 33) il primo a mettere in relazione gli affreschi con quelli citati nel contratto, aggiungendo la notizia, trascritta da Francesco Carlo Graziosi (ASCFa, Fondo Zonghi-Moscatelli, 7, c. 67), che il pagamento sarebbe stato compiuto nel 1416 (Molajoli 1930, p. 37). In realtà, stando al documento pub-

Bibliografia. Rossi 1873, p. 81; Rossi 1883, p. 65; Salmi 1919, p. 172; Gnoli 1921; Gnoli 1923, p. 152; Van Marle 1925, p. 176; Molajoli 1930, pp. 33-37; Serra 1931, pp. 279280; Serra 1934, p. 344; Molajoli 1936, p. 100; Sassi 1961, p. 80; Longhi 1962, p. 14; G. Vitalini Sacconi, in Pittura nel maceratese 1971, p. 225; Rossi, Qualche considerazione 1974, pp. 22-24; Giovanni di Corraduccio 1976, pp. 13, 15-16, 18, 25-26, 30-31, 34-35, 81-83, 121, doc. 7; Boskovits 1977, pp. 40-41; Donnini 1981, pp. 31, 33; Zampetti 1988, p. 121; Donnini 1989, pp. 5, 13-14; Todini 1989, I, p. 82; Felicetti, Regesti 1998, p. 218, doc. 124; Cicetti 2003, pp. 79-85; Falaschini 2003, pp. 65, 67; Marcelli 2003, p. 9; Rossi 2003, pp. 14, 16, 18, nota 10. 293

blicato da Stefano Felicetti (1998, p. 218, doc. 124), l’opera risulta consegnata agli eredi di Ciucciarello di Bonaventura, che ne avevano il giuspatronato, già il 28 giugno 1415 quando l’artista rilascia quietanza di pagamento per i 30 ducati d’oro pattuiti nel contratto di pochi mesi prima. Attorno ai lacerti fabrianesi, unico punto fermo, si è via via ricostruita l’attività dell’artista umbro. Proprio sulla base delle analogie stilistiche che riscontrava con i frammenti in Santa Croce, Roberto Longhi (1962, p. 14) gli riconosce il trittico di Trevi e gli affreschi di San Francesco in Montefalco, mentre Miklós Boskovits (1977, pp. 40-44), che ha il merito di aver sottolineato per primo i proficui rapporti con i centri marchigiani, lo vuole collaboratore di Carlo da Camerino – che oggi ha cessato di esistere a favore di Olivuccio di Ciccarello – nella Madonna col Bambino di Mondavio e autore della Crocifissione nel convento di Santa Chiara a Camerino, oltre che di opere a Visso, Treia e Massa Fermana, tutte precedenti all’intervento fabrianese. Anche Pietro Scarpellini (Giovanni di Corraduccio 1976, p. 26) e Giampiero Donnini (1981; 1989, p. 6) confermano gli importanti contatti con Camerino e con il più vivace artista locale durante un operoso soggiorno nelle Marche, ma, ribaltando il rapporto di tendenza, ritengono che sia il camerte ad essere debitore nei confronti del folignate. Gli affreschi fabrianesi segnano il culmine della carriera di Giovanni, maturata attraverso l’esperienza artistica marchigiana, qualificandolo come artista di spessore, chiamato a riempire il vuoto lasciato a Fabriano dalla partenza di Gentile per Venezia, e sicuro protagonista tra quanti operarono nella fase di trapasso tra il gotico e la corrente internazionale.

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Rispetto alla più antica Crocifissione di Camerino, ispirata al modello di Pietro Lorenzetti in Assisi e nutrita di stilemi ancora arcaici, in quella affrescata in Santa Croce l’artista mostra un salto qualitativo e l’evoluzione della sua personalità. Pur nella similarità della schema compositivo e di alcuni dettagli, come la figura di Longino, la composizione appare più fluente e l’assemblaggio delle pie donne più compatto e meglio articolato. La figurazione rimane comunque tenacemente ancorata ai modelli tardo trecenteschi, sebbene si intuisca già, nei bordi delle vesti e del perizoma di Cristo, un accostamento alle estrosità espressive del linguaggio tardo gotico. Meno canonica la sintassi compositiva dello scomparto con sant’Elena, stagliata su un elegante gioco di partiture architettoniche, che, nei tratti realistici del volto e nelle vezzose maniche a campana, ha lasciato scorgere un contatto con i Salimbeni e Ottaviano Nelli. Peculiari del pittore i personaggi pacatamente malinconici e le stesure pastose del colore, accordato su toni caldi e terrosi che conferiscono morbidezza, e insieme rilievo, alle vesti, sulle quali spicca il timbro energico dell’abito nero della Madonna. Il risultato di equilibrata discorsività raggiunto nell’intervento fabrianese e precedentemente nelle altre opere lasciate nelle Marche costituì senza dubbio per alcune personalità artistiche operanti dal secondo decennio del secolo una valida alternativa alla temperie del tardo gotico internazionale. In particolare l’influenza del folignate si avverte non secondaria nella formazione e nello sviluppo di artisti quali Arcangelo di Cola e Pietro di Domenico. 3-4. Giovanni di Corraduccio, Sant’Elena venera la croce e San Ciriaco sostiene la croce, intero e particolare.

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Abbreviazioni ACCSRA = Archivio Capitolare della Cattedrale di San Ruffino di Assisi AcsAP = Archivio del Convento di Sant’Agostino di Perugia AFA = Archivio del monastero di Fonte Avellana ASAn = Archivio di Stato di Ancona ASCFa = Archivio Storico Comunale Fabriano ASPg = Archivio di Stato di Perugia

ASPt = Archivio di Stato di Pistoia ASSG = Archivio San Secondo Gubbio ASV= Archivio Segreto Vaticano AVG = Archivio Vescovile Gubbio SASG = Sezione dell’Archivio di Stato di Gubbio US-Pru = Princeton, University Library

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Indice Presentazioni Gian Mario Spacca Guido Papiri Franco Antiga Giancarlo Sagramola maria rosaria valazzi fabio de chirico

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La scuola di Fabriano e il “genio degli anonimi” vittorio sgarbi

17

La presenza monastica a Fabriano, un castrum appenninico tra Marche e Umbria ugo paoli

27

Itinerari francescani nel territorio fabrianese ferdinando campana

35

Una lunga storia di pittura medievale scritta nell’Appennino tra Umbria e Marche giampiero donnini, vittorio sgarbi

49

Il pittore delle abbazie. Il Maestro di Campodonico alessandro marchi

57

Allegretto Nuzi e la pittura fiorentina prima e dopo la “morte nera” alberto lenza

71

«Vergine Madre … umile ed alta piu’ che creatura». La Madonna dell’Umiltà nell’arte marchigiana tra xiv e xv secolo stefano papetti

81

Fra’ Giovanni di Bartolomeo. Maestro «de lignamine laborato et depicto» giampiero donnini

87

Oltre l’Appennino Elvio Lunghi

93

Sculture dipinte tra Marche e Umbria. Centri di produzione e aree di diffusione giordana benazzi

103

catalogo 113 itinerari 273 Abbreviazioni 297 Abbreviazioni bibliografiche 297

Finito di stampare nel luglio 2014 presso Varigrafica, Roma su carta Symbol Freelife Satin delle cartiere Fedrigoni.