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Italian Pages 333 [426] Year 2006
Un libro intenso, dedicato a una delle pagine più inquietanti della storia d’Italia e che offre una documentazione in gran parte inedita sui fatti dell’Istria. – Il Sole24Ore All’indomani del Trattato di pace del 10 febbraio 1947, in cui l’Istria e le isole quarnerine venivano annesse alla Jugoslavia, l’esercito di Tito iniziò un processo di epurazione politica che costrinse più di un quarto di milione di uomini, donne e bambini a fuggire dalle loro case e a cercare fortuna in Italia e oltreoceano. Dall’Istria e dalla Dalmazia, queste comunità italiane furono strappate a forza, quasi totalmente cancellate. Fu come se un pezzo d’Italia sprofondasse o non fosse mai esistito. Per più di vent’anni l’Esodo e le Foibe sono state un episodio dimenticato; Raoul Pupo ha riempito questo vuoto e ritracciato, per la prima volta in una prospettiva di lungo periodo, la storia di queste comunità: le persecuzioni fasciste con la conseguente emigrazione di croati e sloveni tra le due guerre, l’aggressione italiana della Jugoslavia nel 1941, gli orrori della guerra partigiana e della controguerriglia, le stragi delle Foibe nel 1943 e nel 1945, la interminabile "questione di Trieste" e l’ondata migratoria verso l’Australia alla fine degli anni Cinquanta. Un libro che accanto alla fredda documentazione storica pone la testimonianza semplice e autentica degli esuli, che danno voce al racconto vivido degli orrori e delle violenze, della loro tragica condizione di profughi e delle difficoltà di integrazione.
RAOUL PUPO insegna Storia contemporanea all’Università di Trieste. È stato uno dei principali promotori, alla fine degli anni Ottanta, degli studi sulla tragedia delle Foibe e dell’Esodo. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo (2000) e Foibe (2003).
RAOUL PUPO
IL LUNGO ESODO Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio
Proprietà letteraria riservata © 2005 RCS Libri S.p.A, Milano eISBN 978-88-58-65716-4
Prima edizione digitale 2013
In copertina: Esodo degli italiani da Pola, febbraio 1947 © Publifoto / Olycom Art Director: Francesca Leoneschi Progetto grafico: Emilio Ignozza / theWorldofDOT
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PERCHÉ Questo libro costituisce l’approdo naturale di un percorso iniziato molto tempo fa, alla metà degli anni Ottanta. A quell’epoca, di storici che si occupassero dell’Esodo dei giuliano-dalmati non ce n’erano proprio. Non che le pubblicazioni sull’argomento fossero del tutto assenti, ma il più delle volte provenivano e circolavano solo all’interno del mondo della diaspora istriana e nelle province dell’ex Venezia Giulia – Trieste e Gorizia – che messe insieme non contano mezzo milione di anime. Il discorso sull’Esodo che ne risultava era perciò inevitabilmente autoreferenziale e assolutamente periferico rispetto alle grandi questioni che appassionavano la storiografia italiana. Pareva invece, a me e a qualche amico impegnato nelle associazioni dei profughi istriani, che il tema meritasse un’attenzione ben maggiore. In fondo, un pezzo d’Italia era scomparso, come se si fosse inabissato nel mare, ma di questo gli italiani – anche quelli che, sempre più numerosi, avevano preso a frequentare le coste e le città dell’Istria divenuta jugoslava – sembravano assolutamente inconsapevoli. Il nostro interessamento dunque era venato di un sottofondo patriottico, un po’obsoleto nel clima di quegli anni, ma si nutriva anche di considerazioni legate allo spessore storico dell’Esodo. I nodi con i quali bisognava cominciare fare i conti non mancavano di certo: la crisi degli italiani di una regione di frontiera, dovuta non tanto all’instaurazione di una dominazione genericamente straniera – solo fino a pochi decenni prima gli stessi territori erano appartenuti all’impero asburgico –, quanto all’annessione alla Jugoslavia, percepita come la materializzazione statuale del «nemico storico» dell’italianità adriatica; l’istituzione di un regime comunista
in un’area attraversata da profondi antagonismi nazionali e sociali e nella quale l’esperienza del fascismo era stata particolarmente devastante; il destino di una società come quella italiana dell’Istria, di Fiume e di Zara, costretta a misurarsi con una catastrofe politica che ne comprometteva la stessa esistenza, fino a provocarne la dispersione, solo in certa misura seguita da forme di ricomposizione nell’esilio. Affrontare tali questioni era fondamentale anche perché studiare l’Esodo – parente stretto di altri fenomeni simili avvenuti nel cuore del continente europeo – poneva le vicende dell’area altoadriatica in collegamento diretto con alcune delle grandi e terribili trasformazioni che avevano segnato la storia del Novecento europeo. Rendersene conto permetteva di superare l’approccio localistico fino ad allora dominante, per fare dell’Esodo uno dei mattoni costitutivi di quel «laboratorio giuliano» di cui alcuni storici di frontiera cominciavano a parlare, intendendo con ciò una grande opportunità offerta dalla storia travagliata dei territori al confine orientale d’Italia: quella di analizzare a fondo alcuni dei processi più caratteristici e devastanti della contemporaneità nell’area centro-europea, che nella regione Giulia si produssero su scala ridotta ma con grande intensità. Riflessioni del genere le condividevo – più o meno vent’anni fa – con gli amici dell’Istituto regionale per la cultura istriana di Trieste, che da poco era stato fondato per impulso comune delle associazioni degli esuli, ed era presieduto da Arturo Vigini, della cui sensibilità e apertura mentale desidero qui rendere testimonianza. Da quelle discussioni sono nati progetti assai ambiziosi. Ci si proponeva – nientemeno – per un verso di superare la radicata, reciproca diffidenza tra gli ambienti degli esuli e quelli della ricerca storica professionale, specialmente accademica, e per l’altro di non arrendersi al fisiologico svanire della memoria dei profughi, che rischiava di
cancellare un patrimonio insostituibile di ricordi, sofferenze, tradizioni. Stranamente, vista la scarsità delle risorse accompagnata dall’elevatissimo tasso di litigiosità che distingue tutte le imprese tentate all’estremo lembo orientale della Patria, i progetti sono andati avanti. Così, altri studiosi del calibro di Marina Cattaruzza hanno cominciato a tematizzare l’Esodo non più come una vicenda di storia locale, bensì come un aspetto significativo ed emblematico – pur nelle sue ridotte dimensioni – della grande ondata di trasferimenti forzati di popolazione, che interessò nei due dopoguerra buona parte dell’Europa centro-orientale e balcanica. Su questo problema si riuscì alla fine degli anni Novanta a organizzare a Trieste un convegno che comparasse le situazioni prodottesi nell’Europa centrale, nella regione balcanico-egea e in quella istro-dalmata. Gli atti del convegno sono poi stati pubblicati in un volume curato da Marina Cattaruzza e Marco Dogo, oltre che da me. Contemporaneamente, il volume collettaneo Istria. Storia di una regione di frontiera, curato da Fulvio Salimbeni, proponeva un approccio complessivo alla storia istriana nel quale la rottura prodotta dall’Esodo risaltava in tutto il suo significato. Sul versante della memoria invece, il progetto «Voci dell’esodo» ha permesso di avviare la raccolta di una serie di «storie di vita» relative ad alcuni borghi rurali dell’Istria fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta. È nato così il bellissimo libro di Gloria Nemec Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio: Grisignana d’Istria 1930-1960, e la stessa Nemec ha proseguito poi le sue ricerche di storia sociale sulle comunità rurali istriane tra sradicamento e inserimento nella realtà italiana del secondo dopoguerra. Nel frattempo, tutto ha cominciato a muoversi. Alla fine degli anni Ottanta, i fermenti che scuotevano l’Est europeo sollecitarono un nuovo interesse per la storia della frontiera orientale d’Italia. L’attenzione si concentrò
prioritariamente su di un’altra delle tragedie italiane degli anni Quaranta, quella delle foibe, ma oramai tutta la storia giuliana stava uscendo dal cono d’ombra nel quale era a lungo rimasta. Studi sull’Esodo sono stati pubblicati su riviste storiche italiane e straniere, e anche il mondo della scuola ha scoperto il confine orientale, facendo letteralmente esplodere la richiesta di interventi e strumenti didattici. Intanto, alcuni dei primi progetti di ricerca si sono interrotti – ed è un peccato – ma altri ne sono stati avviati, anche in un’ottica di cooperazione internazionale. Altri studiosi – tra i quali ricordo Roberto Spazzali e Guido Rumici – hanno cominciato a occuparsi di temi legati all’Esodo e alla presenza italiana nei territori passati alla Jugoslavia. Anche i soggetti istituzionali hanno vissuto le loro trasformazioni e – insieme alle tradizionali organizzazioni degli esuli giuliano-dalmati – nuovi enti di ricerca hanno inserito nei loro programmi la storia dell’Esodo. Così è avvenuto, per esempio, per la rete degli Istituti per la storia del movimento di liberazione in Italia, soprattutto nelle realtà in cui più massiccio è stato l’insediamento di esuli istriani. Oltre – evidentemente – alla Venezia Giulia, è questo il caso del Piemonte e della Sardegna, dove sono stati avviati rilevanti progetti di raccolta di fonti, mentre iniziative analoghe sono state realizzate in Veneto, in Emilia e nelle Marche. Infine – ma di questo parleremo più diffusamente nel primo capitolo – anche la politica nella sua dimensione nazionale ha preso a occuparsi dell’Esodo, con le conseguenze facilmente prevedibili: una maggior visibilità, accompagnata però da ricorrenti tentazioni di uso politico della storia. Del resto, pensare di poter ottenere la prima senza correre il rischio del secondo sarebbe forse un po’ troppo ingenuo. Molte cose dunque sono cambiate nel corso degli anni, e mi è sembrato fosse arrivato il momento di tentare una prima sintesi – sempre provvisoria, s’intende, ché molto
rimane ancora da studiare – delle acquisizioni documentarie e interpretative maturate in una stagione di studi abbastanza vivace, in modo da proporne i contenuti a un pubblico più ampio rispetto ai tradizionali lettori appassionati di cose istriane. Il mio desiderio si è incontrato con la sensibilità dell’editore Rizzoli per il dramma del popolo istriano, e ne è venuto questo libro. Durante la stesura, e prima ancora nel corso delle ricerche che lo hanno reso possibile, ho contratto moltissimi debiti di gratitudine. Decisive sono state le discussioni con gli amici e i colleghi che ho già avuto modo di ricordare, e ai quali vorrei aggiungere Pio Nodari – le cui capacità di organizzazione degli studi hanno pure consentito di avviare alcuni progetti di grande prospettiva nel campo della catalogazione delle fonti e della collaborazione transfrontaliera –, Carlo Donato, studioso attento delle dinamiche demografiche e migratorie nell’area alto-adriatica, e Orietta Moscarda, cui si devono alcuni pionieristici contributi sul problema dell’epurazione. Assai stimolante è stato per me anche il confronto con alcuni studiosi sloveni particolarmente sensibili ai problemi dell’innovazione storiografica come Nevenka Troha e Aleksej Kalc. Ringrazio quest’ultimo anche per l’aiuto che mi ha offerto, con la consueta generosità, nell’individuare e tradurre le testimonianze relative all’emigrazione slovena, alcune delle quali sono pubblicate nel secondo capitolo. Del pari, il mio ringraziamento va anche a Elvira Udovich, per la traduzione delle testimonianze croate. Ovviamente, la mia ricerca non sarebbe stata possibile senza la collaborazione del personale degli archivi italiani e stranieri che ho frequentato, come pure del Centro di ricerche storiche di Rovigno, che qui ringrazio per la competenza e la disponibilità. Da ultimo, un ringraziamento assolutamente speciale va a mia moglie che, con incrollabile pazienza e feroce determinazione, ha letto la prima versione del mio scritto,
facendo strage di punti e virgola e due punti, gerundi, perifrasi contorte e periodi troppo lunghi e complicati. Spero che anche i lettori le siano altrettanto grati. Mia è comunque la responsabilità di eventuali errori e, naturalmente, dei giudizi storici contenuti nel libro.
CAPITOLO 1 Esodo e storia d’Italia L’Esodo dei giuliano-dalmati Tra il 1944 e la fine degli anni Cinquanta, alla frontiera orientale d’Italia più di 250.000 persone, in massima parte italiani, dovettero abbandonare le proprie sedi storiche di residenza, vale a dire le città di Zara e di Fiume, le isole del Quarnaro – Cherso e Lussino – e la penisola istriana, passate sotto il controllo jugoslavo. I giuliani dell’epoca chiamarono «Esodo», termine di evidente ascendenza biblica, tale massiccio spostamento, per sottolineare che un intero popolo, con le sue articolazioni sociali, le sue tradizioni e i suoi affetti, era stato cacciato dalla propria terra. Il termine si è poi consolidato, nella memoria e nella storiografia italiana, nella sua versione completa, l’Esodo dei giuliano-dalmati, o in quella più sintetica e diffusa seppur meno precisa, l’Esodo istriano. La maggioranza dei profughi si stabilì in Italia, e di questi alcune decine di migliaia si insediarono nei brandelli di Venezia Giulia rimasti sotto la sovranità italiana, vale a dire le residue porzioni delle province di Trieste e di Gorizia. Molti altri esuli invece non trovarono posto sul territorio nazionale, e presero la via dell’emigrazione, principalmente verso le Americhe, l’Australia e la Nuova Zelanda. Rispetto al complesso della popolazione italiana di allora – circa cinquanta milioni di abitanti –1 non si trattò evidentemente di un’ondata di grandi dimensioni, e questo se da un lato la rese quasi inavvertita fra le mille disgrazie del secondo dopoguerra, dall’altro facilitò l’inserimento dei profughi nella società italiana. Tuttavia, la dimensione assoluta del fenomeno può in questo caso risultare fuorviante al fine di intenderne il senso, perché ciò che realmente conta è che a scomparire fu pressoché l’intera componente nazionale italiana residente nei territori passati alla Jugoslavia, oltre
ad alcune aliquote di popolazione croata e slovena, trascinata via dalla partenza in massa degli italiani. Solo guardando il problema da questo punto di vista possiamo comprendere come le conseguenze dei mutamenti di frontiera avvenuti dopo la Seconda guerra mondiale abbiano costituito un momento di frattura nella storia dell’area alto-adriatica. A venir meno infatti è stata una presenza che risaliva all’epoca della romanizzazione e che non era stata intaccata dai precedenti cambi di sovranità vissuti dai territori unificati dalla storiografia italiana nella dizione di «Venezia Giulia»: vale a dire il passaggio della maggior parte dell’Istria dalla repubblica di Venezia all’impero austriaco alla fine del Settecento, e dell’intera regione al regno d’Italia dopo la Prima guerra mondiale.2 Nessuno di tali eventi ebbe sul popolamento effetti paragonabili a quelli dell’Esodo, cioè la cancellazione pressoché integrale di un gruppo nazionale – posto che la minoranza italiana rimasta in Jugoslavia, e poi nelle repubbliche indipendenti di Slovenia e Croazia appare oggi solo una reliquia dell’antica presenza – e la sua sostituzione con nuovi soggetti, largamente estranei al territorio. Alla popolazione autoctona slovena e croata risultò infatti impossibile colmare il vuoto lasciato dagli esuli, non solo sul piano demografico, data la scomparsa di circa la metà della popolazione complessiva, ma anche su quello sociale, dal momento che tutti i ceti più elevati avevano preso la via dell’esilio. Dietro di sé lasciarono una situazione catastrofica: cittadine ridotte ad abitati fantasma, uffici e botteghe vuote, gli orti mediterranei abbandonati, il paesaggio antropico regredito di secoli in pochi anni.3 Per far fronte allo spopolamento l’unica via percorribile era quella dell’immigrazione massiccia, spontanea e organizzata, non solo dalla Slovenia e dalla Croazia, ma anche da aree più lontane della Jugoslavia. Tant’è che più di trent’anni dopo, al momento della dissoluzione della repubblica federativa creata da Tito, l’Istria – e in particolare alcuni centri come Pola – sarebbe risultata una delle regioni più «jugoslave» dell’intero Paese e quindi attraversata meno di altre da fenomeni di radicalizzazione etnica.4 La sostituzione fisica degli italiani si accompagnò quindi alla costruzione di una nuova società, povera di legami con il passato, dal momento che ogni rapporto con la precedente civiltà a prevalente impronta italiana
veniva negato o rimosso. L’impegno delle nuove classi dirigenti croate e slovene, a Zara, come a Fiume o in Istria, si rivolse pertanto non solo alla costruzione del futuro secondo i canoni del socialismo jugoslavo, ma anche alla riscrittura di una storia da cui la presenza italiana doveva essere espunta o circoscritta a una mera parentesi «coloniale». Si è trattato di una classica operazione di «invenzione della tradizione», tutt’altro che infrequente nella contemporaneità, ma non per questo meno devastante. Naturalmente, se il nostro punto di osservazione si scosta dal tumulto dei fatti, l’immagine della frattura epocale muta e si restringe, senza però scomparire. Dilatando per esempio di alcuni secoli la spanna cronologica, si nota facilmente come fin dal tardo Medioevo la storia istriana sia stata segnata da oscillazioni demografiche di grandi proporzioni: vale a dire, da crisi di spopolamento che quasi cancellarono la presenza umana nella penisola e da conseguenti flussi migratori in entrata, anche da aree assai lontane, che determinarono un consistente ricambio della popolazione. Così, in più occasioni a partire almeno dalla seconda metà del Trecento, guerre, carestie ed epidemie dischiusero larghi vuoti nella popolazione istriana. Il fondo venne probabilmente toccato dopo la peste del 1630: l’Istria veneta non contava allora più di 30.000 abitanti – un terzo rispetto alle stime dei primi del Trecento –, Capodistria scese a 1800 abitanti rispetto ai 5000 dell’inizio del secolo, e Parenzo, sede vescovile, appena a una trentina.5 Per far fronte alle crisi ripetute e gravissime il governo veneziano intraprese numerose iniziative di ripopolamento, tentando dapprima di insediare gruppi di coloni provenienti dal Friuli e dal Veneto e poi, dopo il fallimento di tali esperimenti, offrendo rifugio in Istria a popolazioni slave, albanesi e greche in fuga dai Balcani a causa della conquista ottomana. In questo senso, quindi, appare legittimo dire che l’Esodo si inserisce in una tendenza di lungo periodo della storia istriana, rispetto alla quale però costituisce anche una novità rilevante. I precedenti flussi migratori erano avvenuti infatti in un’epoca prenazionale e nessun significato politico può essere attribuito al mutare degli equilibri tra l’elemento slavo – in parte già esistente fin dall’epoca delle ultime invasioni barbariche – e quello romanico addirittura anteriore, che seppe comunque mantenere la sua
presenza nei centri urbani e la sviluppò nuovamente nei secoli successivi. L’Esodo invece riguardò pressoché in toto una componente che si definiva su base nazionale e che proprio per questo (almeno come motivo principale) fu costretta ad abbandonare la propria terra, che venne a sua volta sottoposta a un processo di rinazionalizzazione alternativa. Se poi, lasciati i secoli più lontani, concentriamo il nostro sguardo sul Novecento, ci accorgiamo subito di come l’Esodo costituisca il picco, nettamente fuori scala, di una serie convulsa di movimenti migratori concentrati nei decenni tra il primo dopoguerra e gli anni Cinquanta, riguardanti tutte le componenti nazionali dell’area altoadriatica. Sono movimenti diversi per consistenza e composizione, ma che condividono la spinta fondamentale: vale a dire la crisi generata dalla dissoluzione dell’impero austro-ungarico e dalla sua sostituzione con lo Stato nazionale italiano e con quello di serbi, croati e sloveni, entrambi desiderosi di far coincidere confini dello Stato e della nazione. Questa osservazione mette immediatamente in rapporto le vicende alto-adriatiche con quelle tipiche di gran parte dei territori centroeuropei dopo la Prima guerra mondiale. Sappiamo bene, infatti, che nell’Europa centrale i trattati di pace successivi alla Grande Guerra rappresentarono per certi aspetti la trasformazione di un sogno in un incubo. Quello che doveva essere il sogno dell’Europa delle nazioni, il coronamento della grande utopia dei risorgimenti ottocenteschi, il rovesciamento del Congresso di Vienna e la fonte della pace perpetua, divenne la realtà delle «minoranze nazionali» ritrovatesi improvvisamente da quella che – con terribile espressione – cominciava a essere chiamata la «parte sbagliata della frontiera». Tali minoranze, dotate di una forte individualità nazionale, si ritrovavano non più all’interno di una compagine statuale plurinazionale – nella quale certo non erano mancate tensioni e conflitti, ma in cui la diversità era la regola –, bensì affogate in uno Stato che si proclamava nazionale, ma che dovremmo piuttosto chiamare «Stato per la nazione», perché concepito e voluto per diventare proprietà esclusiva di un gruppo nazionale a scapito degli altri.6 Qui dunque le «minoranze» venivano percepite come un limite, un ostacolo alla piena realizzazione della maggioranza nazionale
che aveva costruito lo Stato a propria misura, e destinate pertanto a divenire oggetto di politiche volte a rimuovere quel fastidioso inciampo, seguendo la via dell’assimilazione, della discriminazione o, nei casi limite, dell’espulsione. Tutto questo accadde anche nei territori alto-adriatici ex austriaci. Come nel resto d’Europa, i decenni precedenti lo scoppio della Prima guerra mondiale avevano visto lo svolgersi dei processi di nazionalizzazione di massa, che però avevano condotto alla formazione di società nazionali separate e antagoniste all’interno del medesimo Stato. Le diversità riguardavano l’idea stessa di nazione – volontarista per gli italiani, etnicista per gli slavi –, ma ciò nonostante i movimenti nazionali italiano, sloveno e croato concordavano su un punto cruciale, e cioè quello relativo al rapporto fra nazione e istituzioni, fra nazione e Stato.7 Italiani e slavi condividevano infatti la convinzione per cui un nucleo centrale della competizione politica stava nella conquista delle istituzioni, perché erano proprio queste a condizionare fortemente i processi di nazionalizzazione. Perciò, fino a quando resse l’impero asburgico, con il suo sistema di larghe autonomie, il conflitto nazionale fu essenzialmente lotta per il potere locale;8 poi, con il crollo della duplice monarchia, divenne lotta per l’inserimento in uno Stato nazionale esclusivista, disposto a gettare tutto il peso delle sue istituzioni in favore della propria «scheggia» nazionale redenta, schiacciando nel contempo gli «avversari storici». Questo riuscì agli italiani dopo la Prima guerra mondiale, e a sloveni e croati dopo la Seconda. Nell’area giuliana dunque, la fine della Grande Guerra segnò l’inizio di un dramma nel senso profondo del termine, cioè di una crisi senza alcuna possibilità di soluzione. Infatti, nel momento in cui ciascuno dei gruppi nazionali della regione ritenne che la salvaguardia della propria identità fosse possibile soltanto all’interno dello Stato nazionale di riferimento, il destino dell’intera area era segnato: la crisi avrebbe continuato ad avvitarsi fino a quando non si fosse realizzata la coincidenza dei confini dello Stato con quelli della nazione. Ciò avvenne solo nella seconda metà del secolo e la logica della guerra fredda stabilizzò poi il nuovo equilibrio, rendendolo permanente. Ma giungere a tale risultato fu possibile solo passando
attraverso la tragedia: quella di un’altra guerra mondiale, ancora peggiore della precedente, e quella dell’Esodo.
Storiografia e uso politico della storia Quella dell’Esodo e del contesto più generale in cui va inserito è una storia in parte ancora da scrivere, ma soprattutto da scoprire, dal momento che per decenni tanto la storiografia che l’opinione pubblica nel nostro Paese hanno mostrato un interesse assai blando per i drammi che coinvolsero la popolazione italiana dell’area giuliana negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. E così, anche gli studi realizzati in ambito locale, dove invece memorie e polemiche erano ben vive, assai difficilmente hanno trovato lettori a ovest dell’Isonzo.9 Tutto questo è avvenuto per molteplici ragioni, ma fra di esse una soprattutto è stata posta in luce con un certo clamore nel corso degli ultimi anni, vale a dire l’esistenza di robusti interessi politici che per alcuni decenni hanno sconsigliato di attribuire alle tragedie giuliane una portata nazionale. Sotto questo profilo, il caso più evidente, ma anche più semplice da intendere, è quello della cultura di sinistra d’ascendenza marxista, animata da un duplice ordine di preoccupazioni. La prima e più generale era quella di non dar fiato alle forze anticomuniste in Italia, cui la politica oppressiva del regime di Tito nei confronti degli italiani offriva abbondanti argomenti polemici. La seconda e più specifica era quella di stendere un velo d’ombra sui comportamenti quantomeno ambigui tenuti dal PCI sulla questione di Trieste nell’ultima fase della Resistenza e nei primi anni del dopoguerra.10 Non c’è dubbio che preoccupazioni di tal fatta abbiano contribuito a diffondere anche fra gli studiosi lo stereotipo secondo cui parlare dell’Esodo o delle foibe significava in qualche modo dare «oggettivamente» spazio alla propaganda nazionalista, anticomunista e antislava: un pericolo che andava scongiurato non parlandone affatto. Tuttavia, nel mezzo secolo successivo al termine della Seconda guerra mondiale, l’Italia non è stata retta da un regime comunista, bensì da un sistema liberal-democratico pienamente inserito nel mondo occidentale, e anche all’interno della
cultura storica italiana la pur robusta presenza marxista non è stata certo totalitaria. Non per questo le disgrazie del confine orientale hanno suscitato un interesse maggiore dopo il primo decennio del dopoguerra. La ragione sta nel mutamento subito dal ruolo della Jugoslavia, sulla scena internazionale e nei rapporti con l’Italia. Nei primi anni del dopoguerra la Jugoslavia costituiva apparentemente la più pericolosa fra le minacce esistenti per l’Italia: non solo tentava di ottenere una linea di confine che avrebbe lasciato il Paese «con le porte di casa spalancate» – così si espresse De Gasperi alla conferenza di pace –11 strappando alla madrepatria Trieste, simbolo del completamento dell’unità nazionale, ma combinava alle proprie rivendicazioni territoriali il proprio sostegno politico (e forse anche qualcosa di più) ai comunisti italiani.12 Per l’Italia che cercava la sua collocazione tra i Paesi dell’Occidente, la Jugoslavia costituiva quindi il «nemico assoluto». Dopo il 1948 però, anno in cui esplose la crisi fra Tito e Stalin, la Jugoslavia si allontanò rapidamente dal blocco sovietico, ottenendo un progressivo sostegno da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Nell’immediato questo non migliorò le relazioni con l’Italia, poiché permaneva irrisolto il problema di Trieste, ma dopo che il contenzioso di confine venne chiuso con il memorandum di Londra del 1954, la nuova collocazione della Jugoslavia non tardò a essere apprezzata anche dalla politica estera italiana. Confinare infatti con uno Stato non allineato, sufficientemente forte e assai determinato a difendere la propria autonomia, significava per l’Italia disporre di un cuscinetto strategico di inestimabile valore, che accresceva di molto la sicurezza del Paese consentendogli di mitigare significativamente gli oneri – politici, militari, finanziari – altrimenti connessi allo schieramento in prima linea sul fronte della guerra fredda. A questo si aggiunga il fatto che la Jugoslavia si rivelò un buon partner economico, ancor più appetibile mentre gli altri mercati dell’Europa centro-orientale restavano largamente sigillati dietro la cortina di ferro. Si comprende perciò facilmente come la Jugoslavia sia rapidamente divenuta un valore positivo per la politica estera dell’Italia, che finì per individuare nella repubblica federativa creata da Tito uno dei pilastri della stabilità in Europa e quindi degli stessi interessi nazionali italiani. In piena continuità con tale strategia,
condivisa dalla stragrande maggioranza delle forze politiche di governo e di opposizione, agli inizi degli anni Novanta l’Italia avrebbe disperatamente cercato di preservare la Jugoslavia dalla dissoluzione e si sarebbe poi per alcuni anni trovata gravemente spiazzata dall’esplosione della crisi balcanica.13 Mantenere buoni rapporti con la Jugoslavia significava però anche porre la sordina agli antichi motivi di contrasto e, finché durò, il regime comunista jugoslavo considerò sempre l’Esodo e le foibe non quali temi di confronto, ma come provocazioni politiche tali da compromettere seriamente le relazioni bilaterali. Da parte delle forze di governo italiane, quindi, non vi era alcuna ragione per considerare la storia travagliata del confine orientale un problema ancor vivo: esso non fu ignorato del tutto, ma rimase semplicemente relegato alla dimensione locale, vale a dire a Gorizia e soprattutto a Trieste. Qui effettivamente per decenni e senza soluzione di continuità, anche se in modo sempre più fiacco, le memorie dolenti degli anni Quaranta e Cinquanta hanno continuato a essere usate come armi nella competizione politica. Il legame tra politica e storia però non è automatico: quello italiano era un sistema aperto, e il disinteresse della politica non comportava di per sé un blocco della ricerca storica. Semplicemente, al di fuori della medesima area di frontiera l’ambiente era del tutto sfavorevole alla ricezione delle tematiche legate al confine orientale. E quando un problema non interessa a nessuna delle principali culture politiche nazionali, è piuttosto improbabile che incontri attenzione da parte dei mezzi di comunicazione, dell’editoria, e della stessa comunità degli storici. Maggior rilievo avrebbe forse potuto avere all’interno della cultura nazionalista italiana, se il nazionalismo non avesse commesso suicidio nella prima metà del secolo scorso, industriandosi a confondere l’amor di patria con la sopraffazione nazionale e il compimento del Risorgimento con le velleità imperiali, fino alla catastrofe della guerra d’aggressione combattuta al fianco della Germania nazista. Dopo un esito del genere, lo spazio per il nazionalismo italiano nel secondo dopoguerra si ridusse comprensibilmente, a meno di non inserirsi nel filone dell’atlantismo e dell’anticomunismo. Ma se questo nei confronti della Jugoslavia era possibile nell’immediato dopoguerra, dopo il 1948 non lo fu più.
Di fatto quindi, anche a destra l’attenzione per le tematiche di confine è rimasta a lungo circoscritta all’ambito giuliano, nonché ad alcuni circuiti particolari, come quello dei profughi istriani. Parallelamente, nel campo degli studi si può dire che nell’ultimo cinquantennio una storiografia nazionalista italiana semplicemente non è esistita, mentre la diffusione dei giudizi e degli stereotipi tipici del nazionalismo, anche per quanto riguarda i rapporti italo-jugoslavi, è stata delegata alla pubblicistica minore.14 Proiettate su tale sfondo, le ragioni della scomparsa della tragedia giuliana dall’orizzonte nazionale cominciano a delinearsi più precisamente. Se però ci fermassimo a questo punto, la nostra rappresentazione del problema sarebbe ancora incompleta. Basta infatti spingere oltre solo di poco lo sguardo, per accorgersi di come altre vicende, anch’esse drammatiche, legate alla storia del confine orientale italiano nel Novecento, siano rimaste negli ultimi cinquant’anni coperte da una nebbia sottile, che se non impedisce ad alcuni professionisti della ricerca storica di continuare a occuparsene, le cela efficacemente alla vista dei più. È il caso per esempio delle pratiche snazionalizzatrici attuate dal regime fascista nei confronti delle minoranze slovena e croata ritrovatesi nel regno d’Italia dopo la Prima guerra mondiale, ovvero delle politiche di occupazione italiane nell’area balcanica durante la Seconda. Viene dunque da pensare che la questione sia un po’ più complicata, e per aiutarci a comprenderla, può tornar utile ricordare una delle caratteristiche fondamentali della storia della frontiera giuliana, e cioè quella di aver favorito la creazione di miti politici, dalla funzione importante e trasversale, all’interno di molte fra le culture politiche italiane del Novecento, di destra e di sinistra. Pensiamo – primo fra tutti – al mito della «vittoria mutilata», che tanto contribuì all’affermazione del fascismo; e al mito dell’italiano occupante pietoso e solidale durante la Seconda guerra mondiale, divenuto stereotipo largamente diffuso tanto dalla memorialistica, quanto dai mezzi di comunicazione di massa, a cominciare dal cinema.15 D’altra parte, pensiamo anche al mito del movimento di liberazione jugoslavo, che a sinistra è stato a lungo considerato – e spesso rimpianto – come un esempio per tutti i movimenti resistenziali europei, o ancora al mito della Jugoslavia di Tito,
capace di scegliere, pur all’interno del campo socialista, una strada autonoma rispetto all’Unione Sovietica. Nello stesso tempo però, se viene investigata in maniera rigorosa, la stessa storia ci offre tutti gli elementi per mettere radicalmente in crisi quei medesimi miti, mostrandone la natura essenzialmente ideologica. Ora, è risaputo che costruire miti è un esercizio fondamentale per la creazione delle identità collettive, nazionali e politiche, mentre mostrare la fragilità di quei miti è un esercizio fondamentale per la ricerca storica. Ma quando molti di questi punti di collisione si condensano all’interno di una storia circoscritta, evidentemente il rischio di un black-out generale è assai elevato. Così è accaduto per la storia della frontiera orientale, tanto che, in luogo di una «congiura del silenzio» su una sua specifica parte, sarebbe più adeguato parlare di una micidiale combinazione di rimozioni reciproche e selettive, spesso accompagnata da un uso politico della storia giuliana, e soprattutto delle vicende più dolorose dell’italianità adriatica, a fini di legittimazione. Tale funzione legittimante per la classe politica italiana si è manifestata con una certa efficacia nell’immediato dopoguerra a favore delle forze politiche democratiche, e in particolare della DC di De Gasperi che, in quegli anni ancora gravati dal peso della sconfitta, si assunse il compito di difendere gli interessi nazionali al confine orientale. A maggior ragione, lo stesso avvenne a livello locale, dove la DC triestina guidata dal sindaco Gianni Bartoli divenne il punto di riferimento nella battaglia per la difesa dell’italianità della città.16 Si trattava naturalmente di una capacità legittimatrice del tutto legata a una particolare contingenza, che infatti nei decenni successivi venne meno in campo nazionale, per esaurirsi poi anche su scala locale quando – per la spinta dell’allora schieramento di centro-sinistra – la contrapposizione fra italiani e sloveni si attenuò, e fra i due Paesi si avviò un’intensa collaborazione transfrontaliera.17 L’uso politico della storia giuliana, e in particolare dei nodi drammatici costituiti dalle foibe e dall’Esodo, è ripreso in pieno negli anni Novanta del secolo scorso, in una dimensione non più periferica, ma centrale. La riscoperta della «storia negata» degli italiani di frontiera e della loro tragedia è stata infatti prescelta come uno degli strumenti di legittimazione nazionale, speculare ma
convergente, da parte delle forze politiche che da sinistra e da destra si candidavano alla successione alla DC, e che di legittimazione avevano un gran bisogno. Esse infatti, al di là dei cambi di denominazione, raccoglievano l’eredità di partiti – PCI e MSI – che erano rimasti esclusi per quasi un cinquantennio dall’area di governo, perché espressione di ideologie incompatibili con un sistema liberal-democratico. Uno dei momenti di massima visibilità di tale progetto si ebbe proprio a Trieste nel marzo del 1998, quando al Teatro Verdi – uno dei simboli della tradizione patriottica locale – venne organizzato un pubblico incontro tra l’allora presidente della Camera, Violante, e il segretario di AN, Fini, a suggello del disegno di reciproca legittimazione tra i partiti antagonisti. 18 Tutte le considerazioni svolte finora sembrano dunque confermare che l’invadenza della politica è stata una delle cause principali della distrazione della cultura e della pubblica opinione italiane nei confronti della storia del confine orientale. Peraltro, un’immagine del genere, tutta giocata sul bianco della storia e il nero della politica, sarebbe parziale e deformante. In alcune circostanze significative infatti, sono state proprio le scelte politiche a imprimere un robusto scossone alla ricerca storica, oltre che a richiamare l’attenzione della società nazionale sulle vicende giuliane. Possiamo ricordare, al riguardo, alcune date precise. Nel settembre del 1990 il consiglio comunale di Trieste approvò all’unanimità una mozione che invitava il governo a promuovere l’istituzione di una commissione mista italojugoslava incaricata di far luce sul dramma delle foibe.19 Di conseguenza, nell’autunno del 1993 vennero costituite due commissioni, una italo-slovena e una italo-croata (posto che nel frattempo la Jugoslavia si era dissolta), il cui mandato venne esteso allo studio di «tutti gli aspetti rilevanti delle relazioni politiche e culturali bilaterali» nel corso del Novecento. Nel luglio del 2000 la commissione italo-slovena ha concluso i suoi lavori con un rapporto finale congiunto, dopo sette anni nel corso dei quali l’apertura degli archivi e gli intensi scambi fra gli storici dei due Paesi hanno grandemente favorito l’avvio di una nuova stagione di ricerche.20 Tale impegno di studio potrà auspicabilmente consolidarsi grazie alla legislazione approvata in sede comunitaria in materia di collaborazione transfrontaliera, che favorisce l’avvio di progetti
comuni di ricerca, per il momento fra Italia e Slovenia, e in prospettiva anche con la Croazia.21 Infine, nel marzo del 2004, il parlamento italiano ha approvato l’istituzione di un giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’Esodo giuliano-dalmata e delle vicende del confine orientale, che dovrebbe rendere più agevole, oltre alla salvaguardia delle memorie offese, anche lo studio della storia di frontiera e la diffusione dei suoi risultati.22 Al di là comunque delle difficoltà incontrate nel suo studio, come pure dei buoni propositi per il futuro, quella del confine orientale italiano nel Novecento si presenta come una storia fortemente unitaria, le cui tappe si sono susseguite a ritmo incalzante e si richiamano strettamente l’una all’altra. Viene da sé che pretendere di spiegarne singoli segmenti slegati dal loro contesto rende fortissimo il rischio di fraintendimenti interpretativi anche clamorosi. Essere consapevoli di tale pericolo non obbliga però a cadere nella tentazione opposta, quella del determinismo storico, che pone meccanici legami di causa-effetto tra gli eventi che si sono succeduti nel tempo. È stato questo uno dei limiti principali dell’approccio a lungo adottato dalla storiografia jugoslava e da buona parte di quella italiana di sinistra: entrambe infatti applicarono volentieri allo studio del passato uno schema fondato sulla ricerca della «maledizione delle origini», vale a dire sull’individuazione del nazionalismo italiano e poi del fascismo come «causa prima», vuoi degli antagonismi nazionali, vuoi del dilagare della violenza nell’area giuliana. Rispetto a tale responsabilità storica, i successivi episodi di violenza e sopraffazione nazionale a danno degli italiani andrebbero perciò interpretati – anche se non per questo, ovviamente, giustificati – come fenomeni di reazione per le ingiustizie patite da sloveni e croati. La realtà è probabilmente assai più articolata: non vi è nessun dubbio che – in un quadro di antagonismi nazionali già scatenati – i comportamenti infami di chi per primo ebbe il potere al confine orientale dopo il 1918, e cioè i nazionalisti e i fascisti italiani, condizionarono pesantemente i successivi sviluppi della crisi giuliana. Lo stesso fecero nel 1941 l’aggressione perpetrata contro la Jugoslavia, l’annessione di mezza Slovenia e di territori croati, la durezza dell’occupazione. Anche altri fili si annodarono però fino al
punto da rendere la situazione degli italiani nei territori sotto controllo jugoslavo del tutto invivibile nel secondo dopoguerra: fili che rimandano all’esistenza di progetti autonomi, in cui si saldavano rivendicazioni nazionaliste, politica di potenza e radicalismo ideologico, nel contesto della fondazione dello Stato più stalinista dell’Europa orientale. Parlare dell’Esodo significa dunque cercare di dipanare uno dei nodi più aggrovigliati di quella storia di frontiera, se non ci si vuole fermare alla superficie dei fatti. E proprio per andare un po’ più in profondità, la strada prescelta da questo libro è quella di focalizzare l’attenzione sul fenomeno dell’Esodo senza trascurarne lo sfondo. La ricostruzione delle dinamiche dell’Esodo e la riflessione sulle sue motivazioni verranno perciò inserite in un ragionamento più generale riguardante gli spostamenti di popolazione avvenuti al confine orientale d’Italia nei due dopoguerra. Spostamenti che riguardarono in diversa misura tutte le componenti nazionali e alcuni nuclei di popolazione che – per quanto possa sembrare strano – alla metà degli anni Cinquanta erano poco disposti a lasciarsi comprendere in una delle identità nazionali prevalenti, preferendo ricollegarsi piuttosto alla tradizione municipalista e autonomista triestina. L’arco cronologico affrontato comprenderà quindi l’intero svolgersi della crisi giuliana, seppur inevitabilmente con diversa intensità di approfondimento, dalla dissoluzione dell’impero asburgico fino allo stabilirsi tra Italia e Jugoslavia di un equilibrio finale, che lasciò dalle due parti del confine soltanto minoranze assai ridotte e non più «pericolose» per la nazionalizzazione degli spazi di frontiera.
CAPITOLO 2 L’area giuliana fra le due guerre Popolamento italiano e popolamento slavo Come abbiamo visto, la storiografia italiana ha generalmente considerato l’Esodo come un momento periodizzante per la storia giuliana. Si tratta di un giudizio fondato, poiché la scomparsa della componente italiana determinò uno slittamento del confine linguistico tra comunità romaniche e non, sedimentatosi ormai da molti secoli. Ma è anche un giudizio limitato alla sola area istro-quarnerina, dal momento che in altre zone della Venezia Giulia gli insediamenti italiani di un qualche spessore risalivano appena agli anni successivi al 1918. Si trattava quasi esclusivamente di un velo di funzionari pubblici cui si sommava una consistente presenza militare, alla quale spettava anche il compito di accelerare i processi di integrazione della popolazione slovena e croata. Un ruolo da non sottovalutare infatti, all’interno del processo assimilatorio, svolgevano i matrimoni misti, resi possibili dal fatto che l’antislavismo italiano, pur raggiungendo nelle sue espressioni più esagitate toni francamente razzisti, era privo di contenuti biologici.1 Ciò spiega come lo Stato liberale prima, il regime fascista poi, e infine anche lo Stato democratico abbiano sempre attribuito alla presenza fisica dei quadri amministrativi e delle forze armate nelle terre di confine una funzione tutt’altro che marginale nell’integrazione delle minoranze etniche. Nuclei più numerosi di popolazione italiana si ebbero soltanto in un paio di centri, come Postumia e Villa del Nevoso, che videro tra le due guerre un sensibile sviluppo economico accompagnato da un rilevante incremento demografico, legato quasi esclusivamente alla crescita di tale componente.2 Nel complesso comunque, in buona parte delle province di Trieste, Gorizia e Fiume, quella italiana rimase una presenza superficiale – Carlo Schiffrer ha
suggestivamente parlato al riguardo di una «italianità avventizia» – 3 che per consolidarsi avrebbe richiesto tempi lunghi. Così invece non fu e dopo il 1945, e in parte già dopo l’8 settembre 1943, il riflusso fu rapido e totale. Si calcola infatti che nel secondo dopoguerra poco più di 21.000 persone residenti nelle province di Trieste e Gorizia optarono per la cittadinanza italiana e si trasferirono entro i nuovi confini.4 Certamente, da un punto di vista giuridico e statistico anche tale fenomeno rientra all’interno di quello più generale dell’Esodo dai territori passati alla Jugoslavia, ma da un punto di vista interpretativo sembra più corretto parlare in questo caso di un rimpatrio, tanto più che agli immigrati italiani dopo il 1918 era mancato il tempo di radicarsi sul territorio.5 Un discorso del tutto diverso va fatto invece per l’Istria, in relazione alle caratteristiche storicamente assunte dal popolamento in tale area. Per coglierne i caratteri peculiari, la storiografia italiana ha di solito fatto ricorso alle classiche dicotomie città/campagna e fascia costiera/territori interni della penisola, che in effetti descrivono piuttosto bene la distribuzione dei gruppi linguistici, rispettivamente italiano e sloveno-croato. Non possono infatti venir messe in dubbio né la prevalenza italiana nei centri urbani dislocati soprattutto lungo la costa occidentale della penisola, né quella slava nelle campagne dell’entroterra.6 Si tratta però, ed è bene non dimenticarlo, di criteri analitici di larga massima, rispetto ai quali non è difficile scorgere significative varianti. Così, alla concentrazione senza dubbio maggiore degli italiani lungo la fascia costiera da Trieste a Pola si accompagnava la discontinuità fra tali insediamenti e quelli dell’area friulana che si spingevano fino a Monfalcone, in quanto la striscia costiera tra Duino e i sobborghi di Trieste presentava un popolamento invero assai rado, ma compattamente sloveno. Per contro, l’esistenza in Istria di un’italianità rurale, non limitata al ceto dei grandi possidenti ma formata principalmente da piccoli e piccolissimi proprietari, costituiva un elemento essenziale nei rapporti, e nelle tensioni, fra i gruppi nazionali. Inoltre, nei centri maggiori e più «moderni», come Fiume e, soprattutto, Trieste, l’esaurirsi nella seconda metà dell’Ottocento del processo di assimilazione degli sloveni e dei croati aveva favorito la crescita di nuclei di borghesia urbana slava, capaci – almeno in prospettiva – di
sfidare l’egemonia della classe dirigente italiana, facendo compiere alle conflittualità nazionali un deciso salto di qualità.7 La competizione nazionale, insomma, si presentava largamente quale contrasto fra élite urbane che erano riuscite, nei decenni tra Ottocento e Novecento, a generalizzare il linguaggio nazionale a livello di massa, anche se – come vedremo – soprattutto nelle aree rurali tale processo non si era ancora compiuto del tutto.8 Al di là di tali precisazioni tuttavia, il fatto fondamentale era un altro: in Istria, nei primi decenni del Novecento, quella italiana era una società completa, ricca di articolazioni e autoctona, anche se naturalmente nel corso dei secoli si era arricchita grazie ad apporti esterni. Una società che era stata certo sottoposta ai processi di modernizzazione economica e politica, ma che nel suo insieme presentava ancora numerosi connotati tradizionali, specie nelle cittadine e nelle campagne dove i ritmi del cambiamento erano più lenti. Accanto a tale realtà italiana, e in qualche misura a essa intrecciata, stava rapidamente crescendo per dimensioni, status e consapevolezza culturale e politica, la società slava (slovena e croata), che agli inizi del secolo era ormai quantitativamente maggioritaria nella penisola. Si trattava di una tendenza ben delineata, anche se era ancora abbastanza evidente la differenza tra la situazione istriana e quella dalmata. I nuclei isolati di popolazione italiana, in genere di condizione elevata, sparsi lungo la costa della Dalmazia, già agli inizi del secolo soccombevano, non solo numericamente, di fronte a una società croata in forte espansione; in Istria invece la presenza italiana manteneva una larga base popolare e una vitalità che non lasciava presagire alcun sintomo di tracollo.9
Il difficile inserimento nello Stato italiano Uscita dall’impero asburgico, la Venezia Giulia si trovò a far parte del regno d’Italia, Stato nazionale poco esperto e poco attento ai problemi delle aree mistilingui, e per giunta assai presto trasformatosi in un regime autoritario, quello fascista, animato da un feroce antislavismo. Vi è una vasta convergenza tra gli storici in merito alle numerose difficoltà cui la società giuliana andò incontro a
seguito dell’inserimento nella compagine italiana, che, se da un lato coronava le aspirazioni irredentiste diffuse tra gli italiani, penalizzava specularmente le rivendicazioni nazionali slovene e croate. Furono difficoltà di ordine economico, stante la marginalità di tutti i territori giuliani rispetto agli interessi economici del Paese, e di ordine politico, legate soprattutto all’oppressione esercitata dal fascismo nei confronti degli slavi.10 Comunque, se ci si chiede quale tipo di trasformazioni la società locale subì in un quarto di secolo di amministrazione italiana, ci si accorge che esse non furono catastrofiche né rivoluzionarie. Tuttavia – o forse, almeno in parte, proprio per la scarsa radicalità dei loro esiti – furono tali da approfondire drammaticamente le pre-esistenti fratture di ordine nazionale e sociale e da accrescere quindi, anziché sedare, l’instabilità politica della regione. Inoltre, vale la pena di rimarcare che le trasformazioni più significative si produssero proprio nelle aree, come quella urbana di Trieste, che dopo il 1945 non sarebbero state interessate dall’Esodo. Ma ciò avvenne unicamente perché, nei grandi rivolgimenti del dopoguerra, il capoluogo giuliano finì per ritrovarsi piuttosto avventurosamente escluso dai territori sottoposti al controllo jugoslavo. Come vedremo, tale situazione senz’altro imprevista da parte jugoslava non fu priva di influenza sulla politica complessiva del regime di Tito nei confronti degli italiani. La quantità e la forza delle spinte che mossero l’Esodo, però, combinate alla traumaticità delle esperienze della primavera del 1945, fanno ragionevolmente supporre che, se il cambio di sovranità avesse coinvolto anche Trieste, le sue conseguenze non si sarebbero scostate da quelle – poniamo – registrate a Fiume, costretta in pochi anni a un ricambio quasi completo di popolazione. Per comprendere appieno il senso dei mutamenti avvenuti in tutta la Venezia Giulia, e particolarmente in Istria, negli anni Venti e Trenta è bene riconoscere che si trattò di un periodo di difficoltà prolungate, successivo a una fase assai più lunga in cui almeno le grandi aree urbane – Trieste innanzitutto, ma anche Fiume e Pola – avevano conosciuto invece un forte sviluppo. Un indicatore abbastanza significativo dell’avvenuta inversione di tendenza è costituito dall’andamento incostante della crescita demografica: nel primo decennio del Novecento, nell’area giuliana la popolazione era
cresciuta di oltre 250.000 unità, passando da 712.000 a 978.000, mentre dal 1921 al 1936 il suo aumento fu inferiore alle 50.000 unità, passando da 957.000 a poco più di un milione di abitanti. È ben noto che le cifre esposte dai censimenti si prestano a una quantità di precisazioni e rilievi, tuttavia nel loro insieme disegnano l’immagine di un ventennio di stasi, durante il quale, fra l’altro, i centri urbani sembravano aver in buona misura esaurito la loro capacità di accogliere la popolazione rurale, e la mobilità sociale verso l’alto era fortemente rallentata, dando anzi luogo, soprattutto nelle campagne, a fenomeni di declassamento. Vero è che tali processi interessavano l’intera popolazione, ma è altrettanto certo che essi colpivano selettivamente, anche se non in maniera esclusiva, i diversi gruppi nazionali, penalizzando maggiormente quelli più deboli, e cioè sloveni e croati. Quello fra le due guerre si presenta quindi come un ventennio di gravi incertezze economiche, che appaiono dipendere non tanto dalle politiche attuate dallo Stato italiano, quanto dal nuovo contesto in cui la realtà giuliana si trovò inserita dopo il 1918. Questo è particolarmente evidente nel caso di Trieste, la cui funzione economica venne semplicemente annullata dal nuovo assetto del retroterra centro-europeo. Si trattava, per l’emporio adriatico, di un destino annunciato. Già prima della Grande Guerra non era difficile prevedere che la fuoriuscita della città dal sistema imperiale austroungarico avrebbe cancellato le condizioni che avevano consentito il rapido sviluppo e la stessa nascita della moderna Trieste agli inizi del Settecento. Vale a dire, un retroterra economicamente unificato e retto da un potere statale che ne convogliava le risorse sul porto giuliano, e si assumeva l’onere degli investimenti per le infrastrutture e i provvedimenti tariffari che garantissero un flusso crescente di traffici.11 Di tale consapevolezza si nutrivano quanti, anche italiani, a Trieste si erano battuti per il mantenimento della sovranità asburgica. Le pagine del socialista Angelo Vivante ne sono una lucida espressione.12 Ma il problema aveva intrigato non poco anche gli esponenti dell’irredentismo. Per un verso infatti, gli irredentisti erano terrorizzati dalla prospettiva che le tradizionali autonomie municipali non bastassero più a salvaguardare il carattere italiano della città dalla crescita demografica e dall’ascesa economica e politica degli
slavi, e si erano risolti a cercare protezione non più nello Stato asburgico – troppo sensibile alle ragioni del «nemico» slavo – bensì in quello italiano. Per l’altro verso, pur affermando polemicamente di essere disposti a vedere Trieste trasformata in un «nido di pescatori» piuttosto che in una città slava, non potevano ignorare le ricadute che la scelta dell’annessione al regno d’Italia avrebbe avuto sull’economia della città. Era la manifestazione di un vero e proprio dramma, poiché nell’epoca della nazionalizzazione di massa – quando cioè l’appartenenza nazionale si faceva perno dell’identità personale e collettiva – le ragioni della politica e quelle dell’economia, vocazione nazionale e destino economico, a Trieste entravano in palese contraddizione. L’uscita da questo vicolo cieco era sembrata possibile con un ardito balzo in avanti, e cioè con il rovesciamento della tradizionale visione di Trieste quale artificio della politica commerciale austriaca nel nuovo ruolo di trampolino per l’imperialismo italiano verso i Balcani. L’operazione venne tentata dagli esponenti più radicali dell’irredentismo triestino, strettamente collegati agli ambienti nazionalisti italiani, e riuscì assai bene sul piano intellettuale. 13 Sul piano dei fatti, invece, le cose andarono in maniera ben diversa: i sogni imperiali si infransero e quando, nel 1938, dopo l’Anschluss e il patto di Monaco, il Terzo Reich si impadronì dell’intero hinterland asburgico, si ebbe la controprova della dipendenza delle sorti economiche della città da quelle dell’area danubiana. All’imprenditoria triestina e al ministero degli Esteri italiano non restò che elaborare una proposta di trasformazione dello scalo giuliano in porto franco a servizio della Germania. Era la resa quasi incondizionata dello Stato italiano, e della stessa classe dirigente nazionalista triestina, alla tanto vituperata logica che individuava nel porto alto-adriatico la finestra dell’Europa centrale sul Mediterraneo – con l’aggravante del pieno inserimento dell’emporio giuliano nel sistema economico della grande Germania. I rischi che l’egemonia tedesca avrebbe comportato per la stessa fisionomia nazionale di Trieste non venivano certo sottovalutati. In un appunto del novembre 1940, uno dei massimi esponenti dell’imprenditoria giuliana, Antonio Cosulich, scriveva:
Senza dubbio un certo pericolo esiste. Trieste è indubbiamente impoverita, [...] anemizzata, e l’afflusso di uomini, di iniziative, di capitali, di aziende, ecc. provenienti dalla Germania, potrebbe assumere gradualmente caratteristiche prevalenti. È necessario considerare al riguardo il fatto che gli uomini provenienti dalla Germania sarebbero dei pionieri, quasi dei missionari della grande Germania del Terzo Reich, forse scelti da Berlino con criteri organizzativi, e che in confronto la resistenza di Trieste, per sé stessa, potrebbe nel tempo manifestarsi insufficiente.14
Ma per Trieste, semplicemente, non vi era più scelta, pena l’affossamento di qualsiasi prospettiva economica: una possibilità, questa, che la classe dirigente locale, erede della grande tradizione emporiale giuliana, non era disposta ad accettare, pur nella consapevolezza dei pericoli che «la penetrazione germanica avrebbe rappresentato nell’ordine politico, etnico, nazionale, economico e sociale, per l’italianità di Trieste».15 Quanto all’Istria, il dibattito sulle sue condizioni negli anni Venti e Trenta è spesso oscillato fra due letture speculari. La prima – ormai decisamente datata – è tesa a magnificare le «opere del regime» nella penisola, in particolare quelle di bonifica della Valle del Quieto e del Lago d’Arsa. La seconda – condivisa dalla storiografia jugoslava e da parte di quella italiana degli anni Ottanta – è invece centrata sul concetto di «governo del sottosviluppo», vale a dire sull’incapacità del governo italiano di promuovere la crescita economica dell’area istriana.16 Non è affatto detto, in questo come in altri casi, che la verità debba per forza stare nel mezzo, tuttavia è evidente che la politica delle infrastrutture avviata dallo Stato italiano negli anni Trenta fosse diretta proprio ad aggredire i principali ostacoli che limitavano le possibilità di sviluppo dell’economia istriana, e cioè la mancanza di strade – che innalzava i costi di
trasporto, ponendo fuori mercato molte produzioni locali – e la carenza d’acqua, piaga secolare della regione. I risultati conseguiti furono tutt’altro che trascurabili, ma i tempi di realizzazione furono così dilatati che i benefici indotti prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale non risultarono mai decisivi, e talora non furono nemmeno apprezzabili. Beninteso, ciò non significa che alla vigilia della guerra l’Istria si trovasse sulla soglia di una stagione di grande sviluppo, abortita solo a causa dello scoppio delle ostilità. Semplicemente, in sede analitica non andrebbero sottovalutate le testimonianze riguardanti gli effetti positivi dei primi interventi su una realtà segnata da una diffusa penuria, e in cui era cominciata a diffondersi la sensazione di un possibile, a lungo atteso, miglioramento del tenore di vita nelle campagne.
La politica del fascismo nei confronti degli slavi Trieste, 13 luglio 1920: alle 18, circa duemila persone si radunarono nella centralissima piazza Grande, ribattezzata piazza dell’Unità d’Italia, convocate dal fascio locale, alla cui testa era stato da poco chiamato un avvocato fiorentino, Francesco Giunta, assai più svelto di parola e di mano dei primi e più compassati leader triestini, cresciuti sotto l’Austria e del tutto privi del dinamismo e dell’abilità retorica richiesti dai tempi nuovi.17 L’occasione era costituita dagli scontri avvenuti il giorno precedente a Spalato tra elementi croati e marinai italiani, che avevano causato un morto tra i dimostranti e due fra gli italiani: il comandante Tommaso Gulli e il macchinista Rossi. Gli oratori infiammarono la folla alla vendetta per l’eccidio perpetrato dagli slavi e, al culmine dell’eccitazione, due persone caddero pugnalate sulla piazza. Il primo era un giovane istriano che si stava recando al lavoro, reo – pare – di aver pronunciato qualche parola in slavo: venne portato all’ospedale, si salvò, e nessuno parlò più dell’accaduto. Il secondo invece era un cuoco, Giovanni Ninni, che rimase ucciso.18 Subito dal palco si incitò alla rappresaglia per il nuovo «delitto slavo», e circa cinquecento persone lasciarono la piazza dirigendosi verso una serie di obiettivi evidentemente prefissati: la sede del giornale socialista «Il Lavoratore», quella del
giornale sloveno «Edinost» e quella della delegazione jugoslava. I manifestanti però trovarono ovunque le forze dell’ordine già schierate e dovettero desistere. Un gruppetto puntò sul Narodni Dom (Casa della Nazione), il moderno edificio, tra i migliori realizzati dall’architetto Max Fabiani nel pieno centro della città, sede delle principali organizzazioni slave, oltre che dell’Hotel Balkan. Il Narodni Dom era forse il simbolo della presenza slava a Trieste più odiato dai nazionalisti italiani, perché testimoniava come gli slavi avessero ormai abbandonato le vesti dei contadini rozzi e incolti per affermarsi come borghesia ricca, istruita e multinazionale, in quanto composta da sloveni, croati, serbi e cechi. Questa forza sociale nascente si candidava alla guida del grande emporio giuliano, trasformato, secondo gli auspici del principe di Hohenlohe, uno degli ultimi governatori asburgici di Trieste, da città italiana a «città delle nazioni».19 Nel 1920, ovviamente, il «pericolo slavo» era rientrato, ma l’odio era ancora ben vivo e il Narodni Dom era un segno troppo visibile che contaminava l’immagine integralmente italiana della città, e perciò andava cancellato a tutti i costi. È difficile precisare con esattezza che cosa accadde verso le 19 davanti all’edificio. Secondo alcune testimonianze, prima ancora dell’arrivo della massa dei manifestanti, dal palazzo vennero lanciate due bombe che ferirono mortalmente un tenente dell’esercito, del quale non è ben chiaro il ruolo come parte del cordone protettivo posto davanti alle porte, oppure del gruppo degli assalitori. Altri testimoni sostengono che dall’edificio si aprì anche un nutrito fuoco di fucileria, che peraltro – caso strano – non ferì nessuno. Comunque, dimostranti e forze dell’ordine assaltarono insieme il palazzo, devastarono i circoli slavi e diedero alle fiamme l’intero edificio. Ai pompieri fu impedito di intervenire, e così andò a fuoco anche l’albergo. Due ospiti in preda al panico si gettarono dal terzo piano: un uomo morì sul colpo, la figlia rimase gravemente ferita. Oltre alle fiamme, divamparono ovviamente le polemiche. La versione ufficiale attribuì ogni responsabilità ad alcuni provocatori slavi che nell’edificio avrebbero nascosto armi e munizioni; i consoli delle grandi potenze presenti a Trieste incolparono invece le autorità locali, che avrebbero lasciato mano libera agli assalitori. Diversi autori hanno ipotizzato una connivenza tra i fascisti, utilizzati come
massa d’urto, e le frange più oltranziste delle autorità militari di Trieste, che avrebbero inteso influire sulle trattative in corso tra Italia e Jugoslavia, di lì a poco sfociate nel trattato di Rapallo.20 A Pola, del resto, il giorno successivo si ripeté il medesimo schema: davanti al locale Narodni Dom –copia assai più modesta di quello triestino – si raccolse una squadra fascista controllata dalle forze dell’ordine. Si gridò che un ardito presente tra i dimostranti era stato pugnalato dagli slavi, risuonarono alcuni spari, poi assalitori e militari fecero irruzione nell’edificio e lo incendiarono. Le somiglianze tra i due avvenimenti sono a dir poco curiose. È in questo modo dunque, all’insegna della violenza e della collusione con gli organi dello Stato, che nella Venezia Giulia si manifestò quello che la storiografia ha definito il «fascismo di confine», indicandone come carattere peculiare l’acceso antislavismo rivolto sia all’interno che all’esterno del Paese. In politica estera esso avrebbe costituito la spinta per una linea di netta ostilità nei confronti del nuovo regno jugoslavo, di cui auspicava la dissoluzione, e in politica interna avrebbe gettato le basi per la snazionalizzazione delle componenti slovene e croate presenti nei territori annessi all’Italia. Tratti distintivi di tale politica furono la radicalità dei propositi, la virulenza dei provvedimenti repressivi e la scarsa efficacia. Quest’ultimo giudizio non vuole naturalmente riferirsi al cumulo di sofferenze provocato da tale pratica di governo, né alle sue conseguenze di lungo periodo, bensì al fatto che l’obiettivo che essa si proponeva, e cioè la cancellazione dell’identità nazionale slovena e croata, non fu nemmeno lontanamente sfiorato. Alla fine degli anni Trenta infatti, la componente slava della popolazione giuliana risultava pressoché stabile dal punto di vista demografico rispetto ai livelli di vent’anni prima, anche se il suo profilo sociale era stato ridisegnato a forza mediante la decapitazione degli strati superiori e la dispersione dei ceti intellettuali.21 Quello delle politiche di snazionalizzazione fasciste è uno dei nodi della storia giuliana del Novecento maggiormente indagati dalla storiografia, in Italia come nell’ex Jugoslavia, e perciò sintetizzarne gli aspetti cruciali è piuttosto agevole. Pochi dubbi vi sono sulla meta che il fascismo si proponeva una volta ottenuto il potere: l’integrale e
rapida nazionalizzazione delle terre annesse dopo la Grande Guerra. Quanto alla strategia prescelta, l’idea era quella di riavviare a forza il processo di assimilazione degli slavi alla lingua e alla cultura italiana, che aveva dato ottimi frutti nei due secoli precedenti – quando le città giuliane, specie le più moderne come Trieste, si erano trasformate in vere e proprie «fabbriche di italiani» – ma che si era inceppato verso la fine dell’Ottocento, a seguito del formarsi delle identità di massa slovene e croate. Per far ciò, sembrava sufficiente disperdere la classe dirigente slava, portatrice dell’ideologia nazionale, ed eliminare tutti gli strumenti di cui le comunità slovene e croate si erano dotate nella seconda metà dell’Ottocento per affermare la loro identità. A quel punto, una società slava destrutturata e priva di punti di riferimento nazionalmente connotati, sarebbe stata – si pensava – facile preda del processo di italianizzazione, che avrebbe potuto avvalersi della forza combinata delle pubbliche istituzioni, a cominciare dalla scuola, delle pressioni ambientali e delle tendenze di lungo periodo, che sottolineavano la coincidenza tra cambio di nazionalità e promozione sociale. Per implementare una politica del genere, gli strumenti a disposizione del regime certo non mancavano. La legislazione liberticida applicata in tutto il Paese dopo il delitto Matteotti offriva già la possibilità di sciogliere tutte le organizzazioni legali delle minoranze slovena e croata: partiti politici, circoli culturali, associazioni sportive, giornali e riviste. E là dove non arrivava lo Stato, a «ripulire gli angolini» erano sempre pronti gli squadristi, tant’è che ancora nel 1936 a Gorizia si poteva morire per aver diretto un coro di Natale in lingua slovena.22 Sul versante educativo, la riforma Gentile approvata nel 1923, la cui applicazione venne significativamente accelerata negli anni successivi, consentiva di abolire l’insegnamento in lingue diverse dall’italiano: pertanto, dopo l’anno scolastico 1928-29 non esistettero più classi con insegnamento in lingua slovena e croata.23 Il risultato, come ha notato Angelo Ara, fu quello di condannare gli scolari dei gruppi minoritari a un «doppio analfabetismo», in quanto
[...] il sistema di inculcare sin dall’inizio l’italiano in bambini che non lo comprendono e hanno una conoscenza ancora esclusivamente orale della propria lingua materna sfocia in un fallimento. I bambini non imparano correttamente la loro lingua, a meno che non abbiano una famiglia in grado di sostituirsi alla scuola, ma apprendono in modo lacunosissimo anche l’italiano, che poi in molti casi dimenticano quasi completamente dopo la conclusione della scuola dell’obbligo. Il metodo non certo soffice usato in quello stesso periodo dal governo francese, per introdurre o reintrodurre il francese in Alsazia-Lorena, quello di partire dalla lingua materna, per affiancarla e quindi sostituirla con il francese, si dimostra più efficiente del metodo brutale e violento imposto da Mussolini.24
Le lingue slave continuavano tuttavia a venire usate nell’educazione religiosa e nell’attività pastorale in tutte le diocesi giuliane, oltre a venir insegnate clandestinamente nelle sacrestie, e questo suscitò duri scontri tra le autorità fasciste e la Chiesa locale. Ne sortirono profonde lacerazioni all’interno della stessa comunità ecclesiale e nel corso degli anni Trenta prima l’arcivescovo di Gorizia, lo sloveno Francesco Borgia Sedej, e poi il vescovo di Trieste, l’italiano Luigi Fogar, strenui difensori di quelli che consideravano i diritti nazionali dei loro fedeli slavi, furono costretti ad abbandonare la propria diocesi.25 Sul piano economico, il regime scompaginò l’intera rete cooperativistica e creditizia slava, che aveva conosciuto un notevole sviluppo nel periodo austriaco, favorendo all’epoca l’acquisto della terra da parte di un gran numero di coltivatori sloveni e croati. Rispetto alle speranze di riscatto sociale diffusesi nelle campagne all’inizio del secolo, l’ultimo scorcio degli anni Venti e gli anni Trenta segnarono perciò una brusca inversione di tendenza. L’effetto cumulativo della crisi agricola, dell’introduzione di un sistema fiscale più esoso di quello austriaco e della stretta creditizia operata dagli istituti italiani che avevano soppiantato le casse rurali condusse
infatti alla rovina gli elementi più deboli della piccola proprietà contadina. In Istria soprattutto, il numero delle aste giudiziarie aumentò vertiginosamente, perché i contadini, gravati da debiti cui non potevano in alcun modo far fronte, erano costretti a porre all’incanto terreni, edifici per uso agricolo e domestico, bestiame e arredamento. Naturalmente il dissesto colpì tutti i coltivatori istriani, aggravato anche dalle dimensioni spesso irrisorie delle proprietà, ma a farne le spese furono soprattutto gli agricoltori sloveni e croati, meno dotati di mezzi e privi di qualsiasi rete di protezione. La reazione a tale congiuntura fu duplice. Se da un lato le autorità locali esprimevano a più riprese la loro preoccupazione per fenomeni di impoverimento che rischiavano di condurre all’abbandono dei centri rurali e delle colture agricole,26 gli ambienti fascisti più estremisti colsero invece l’occasione per auspicare l’avvio di un’opera sistematica di colonizzazione delle campagne slave da parte di contadini italiani. I propositi erano invero assai radicali, ma i dettagliati progetti di espulsione degli abitanti slavi per far posto a coltivatori italiani, elaborati da personaggi come il segretario del fascio di Pola, Lino Relli, o il «consigliere speciale per le questioni slave» presso il governo, Italo Sauro, rimasero pure esercitazioni cartacee, alle quali la storiografia ha forse in passato attribuito eccessivo rilievo. 27 Non c’è infatti nessun legame attestato tra le velleità colonizzatrici e i comportamenti degli istituti di credito italiani, la cui politica sistematica di espropri nei confronti dei contadini istriani è riconducibile più che altro a finalità speculative, mentre alcuni tentativi di dar corso a una «colonizzazione italica» da parte del prefetto di Gorizia, e poi di Trieste, Carlo Tiengo, ex squadrista e perciò sensibile alle prospettive più estreme, non sortirono esito alcuno.28 Infine, ben consapevole che anche l’immagine talvolta è sostanza, il regime non lesinò gli sforzi per cancellare ogni traccia visibile della presenza slava nelle terre di confine. Sin dal 1923 venne avviata l’italianizzazione dei toponimi, mentre nel 1927 furono estese anche alla Venezia Giulia le disposizioni adottate nel 1926 per il Trentino in merito alla «restituzione alla forma italiana» dei cognomi che si supponeva fossero stati «abusivamente alterati durante la
dominazione straniera».29 Apparentemente, il provvedimento mirava a ripristinare le denominazioni che, secondo i nazionalisti italiani, erano state modificate nel corso dell’Ottocento dal clero sloveno e croato, alfiere dell’emancipazione nazionale, che non aveva esitato a slavizzare nei registri anagrafici delle campagne istriane un buon numero di cognomi originariamente italici. Inoltre, fin dal 1919 vi erano state, soprattutto a Trieste, parecchie richieste di italianizzazione, vuoi di patrioti che intendevano liberarsi dei propri cognomi d’origine tedesca o slava, vuoi di cittadini che, più semplicemente, ritenevano in tal modo di migliorare le proprie opportunità di inserimento nella società del dopoguerra.30 Di fatto però, le disposizioni di legge del 1927 avviarono un processo di italianizzazione a valanga dei patronimici slavi, poiché il ripristino dei cognomi italiani avveniva d’ufficio, per opera di commissioni che adottavano criteri assai estensivi nella ricerca dell’origine italica dei nomi. Inoltre, la legge prevedeva che anche i portatori di cognomi indubitabilmente stranieri potessero italianizzarli su richiesta, ed è facile immaginare la campagna di pressioni e autentiche intimidazioni che tale disposizione scatenò soprattutto nei piccoli centri rurali e nel settore del pubblico impiego. Valga per tutte la comunicazione che il prefetto di Pola inviò l’8 marzo del 1928 al provveditorato agli studi della Venezia Giulia, che a sua volta si attivò di conseguenza:
[...] è opportuno che la S.V., senza dare l’impressione di coercizione, si compiaccia di svolgere azione intensa e persuasiva perché gli addetti a codesto ufficio [...] che avessero, eventualmente, cognomi di origine straniera, mi facciano domanda [...] affinché questa provincia non figuri meno, né in ritardo, in questa affermazione che nelle altre terre ha preso forma di vero e proprio plebiscito di italianità.31
È naturale che, a subire gli effetti di tale campagna di italianizzazione furono i soggetti culturalmente e politicamente più deboli, mentre mantennero senza difficoltà le loro desinenze slave o tedesche le grandi famiglie triestine, che avevano dato all’Italia martiri dell’irredentismo, capitani d’industria e ministri dello Stato fascista, come gli Slataper, gli Stuparich, i Brunner, i Cosulich, i Suvich. A completare il quadro, le autorità si convinsero ben presto che anche i nomi di battesimo slavi – come Branko, Draga, Mate, Milica, Slavko, Stanka eccetera – suonavano così ripugnanti alle orecchie italiche da «offendere i sentimenti pubblici e la morale», e che pertanto la loro imposizione ai fanciulli poteva porre questi ultimi «in una posizione spiacevole, equivoca e pregiudizievole».32 Dopo una serie di cause giudiziarie, il problema venne drasticamente risolto nel 1928, con una nuova legge che proibiva di imporre ai neonati nomi considerati «ridicoli», «amorali» o tali da «oltraggiare l’opinione pubblica»: in tal modo si vietò ai genitori di dare ai propri figli nomi slavi e si aprì la strada al mutamento d’ufficio dei nomi di battesimo dei bambini in età scolare. Nel giro di pochi anni quindi, la Venezia Giulia si riempì di cognomi illustri: Mameli (già Mamilović), Millo (già Miloš), Micca, Colombo, Rossini, Fogazzaro, Puccini, Giusti, e così via. Non mancarono poi casi di fratelli che si ritrovarono con un cognome diverso, perché ogni commissione provinciale italianizzava a suo modo, così che i Sirk a Trieste diventavano Sirca, a Gorizia Sirtori e in Istria Serchi.33 Italianizzazione, del resto, significava toscanizzazione, e così nel mirino delle autorità si ritrovarono anche toponimi e cognomi friulani, anch’essi prontamente risciacquati in Arno: molti Buzziol divennero quindi Buzziolo, e anche alcuni Furlan dovettero chiamarsi Furlani. Ma al di là di questi aspetti, che rimandano alla faccia grottesca del regime, la realtà era che la popolazione slovena e croata aveva perduto il diritto a rendere riconoscibile in qualsiasi forma la propria identità. Certamente, lo Stato fascista non era in grado di impedire l’uso privato dei dialetti slavi, ma ogni tentativo, per quanto ingenuo, di estenderlo agli spazi connotati come pubblici o italiani, metteva capo a conseguenze pesantissime. Tutt’altro che infrequenti furono per esempio i casi di scolari espulsi «da tutte le scuole del Regno» per aver intonato canti popolari sloveni durante il tragitto in treno
dalle valli del Goriziano alla città. Quanto alla situazione di Trieste, ecco la testimonianza di una fioraia del popolare quartiere di San Giacomo:
Era una bella domenica mattina, bellissima. La piazza era viva e frequentata anche se si lavorava di meno a causa della guerra. Erano circa le 11 e alcuni fascisti in nero, con il gagliardetto, cantando a squarciagola stavano risalendo per la via del Rivo che sfociava nella piazza. Una donna che portava il latte, che conoscevo, mi chiede in sloveno: «A che prezzo vendi i garofani?» – «A 20 centesimi» rispondo sempre in sloveno. Non ho nemmeno finito la frase che i fascisti, avendo sentito che parlavamo in sloveno, si sono subito fermati con i loro gagliardetti e, come furie, si sono avventati sopra il banco dei fiori e hanno rovesciato tutto. Sapete cosa vuol dire tutto? E poi, non contenti, hanno cominciato a calpestare tutto quello che avevano appena buttato per terra, i garofani, tutti i fiori, i vasi, le assi di legno: tutto. Allora è intervenuto un uomo: «Ma non vi vergognate? Occorreva fare questo danno?». Per tutta risposta i fascisti lo hanno preso e lo hanno portato via.34
In tema di snazionalizzazione vi sarebbe sicuramente molto altro da dire, e ciò non è possibile nei limiti di un libro che ha per oggetto un altro problema. Tuttavia, ai fini del discorso condotto in queste pagine, vi è un aspetto specifico della questione sul quale vale la pena di soffermarsi: il confronto tra gli effetti delle politiche tanto dure quanto velleitarie attuate dal regime fascista e quelli delle politiche applicate invece nel secondo dopoguerra da parte dello Stato jugoslavo, che portarono alla scomparsa quasi totale del gruppo nazionale italiano. Già nell’enunciarla, ci si rende agevolmente conto di come tale comparazione si sia potuta immediatamente
trasformare in argomento di furibonde contese, polemicamente proposto dagli uni per far risaltare la maggior durezza del regime di Tito rispetto a quello di Mussolini, negato dagli altri come strumentale ai fini della demonizzazione dell’esperienza comunista jugoslava. Possiamo ben dire che entrambi gli atteggiamenti sembrano figli della medesima invasività della politica nelle riflessioni sulla storia. Considerato infatti il parallelismo delle situazioni e la diversità degli esiti, non si vede proprio come – in sede storiografica – ci si possa sottrarre a un confronto che nasce dagli avvenimenti stessi prima che dalla volontà degli studiosi. Molto dipende, però, da come il paragone viene istituito. Se la finalità è quella di esprimere giudizi di valore dai quali ricavare lezioni generali sulla natura intrinseca e più o meno perversa del fascismo e del comunismo, degli italiani e degli slavi, allora certo è meglio lasciar perdere. Diversa è la questione se ci si propone di comprendere meglio i meccanismi di funzionamento di due regimi, ciascuno dei quali esprimeva coscientemente ambizioni totalitarie. Il primo, nel caso specifico, parlava di «bonifica etnica» ma non riuscì ad attuarla, mentre il secondo proclamava la «fratellanza» tra i popoli e finì per espellere dalla sua terra di origine un gruppo nazionale quasi al completo. Posto in questi termini, il quesito diviene forse meno spendibile sul piano politico, ma decisamente più stimolante su quello delle conoscenze. Arrivare alla risposta, però, richiede un percorso piuttosto lungo, e non ancora compiutamente esplorato dagli storici. Per quanto concerne il regime di Tito e la sua capacità di insinuarsi in tutte le pieghe della società italiana dell’Istria, disarticolandola completamente fino alla sua distruzione, una volta verificata l’impossibilità di rimodellarla nei termini desiderati, avremo modo di parlarne più diffusamente nei capitoli seguenti. Quanto al regime fascista e all’impasse in cui esso incorse quando si trattò di passare dall’annientamento delle borghesie nazionali slovena e croata – in gran parte realizzato in ambito urbano – all’estirpazione dello slavismo rurale, per darsene ragione conviene esaminare diversi elementi. Innanzitutto, bisogna dire che non mancarono certo né la volontà, né la propensione a comportamenti violenti e odiosi, di cui anzi la
propaganda fascista in più occasioni menò vanto. Mancò invece il tempo. Quasi nessuno fra gli italiani dubitava che l’assetto di frontiera conquistato con la Grande Guerra sarebbe durato a lungo, tanto più che dopo la dissoluzione dell’Austria-Ungheria, a oriente e a settentrione l’Italia non confinava più con una grande potenza, bensì con uno Stato di rango minore – anche se nel volgere di due decenni l’avventurismo della politica estera fascista avrebbe compromesso tale condizione di vantaggio. Mancarono le risorse, tant’è che, mentre gli esponenti più radicali del fascismo giuliano elucubravano i loro piani di colonizzazione interna, alla fine degli anni Trenta di fatto era ben lungi dall’essere completata quella rete di strutture amministrative e culturali (scuole, ricreatori, case del fascio eccetera) sulle quali la presenza del regime nei territori etnicamente slavi avrebbe dovuto fondarsi.35 Probabilmente mancò anche la percezione della resistenza – fatta non solo di opposizione esplicita, ma anche di varie forme di adattamento alla pressione del regime – che comunità rurali abbastanza ben strutturate, anche se povere di mezzi, potevano opporre alla penetrazione italiana. In termini più generali, tuttavia, la sopravvalutazione delle capacità assimilatorie della civiltà italiana appariva frutto di un errore concettuale, non esclusivo del nazionalismo italico, che riteneva possibile costringere una comunità a ripercorrere a ritroso il cammino della nazionalizzazione, qualora essa fosse di costituzione recente e superficiale. Era questo il caso – secondo un’analisi largamente diffusa negli ambienti intellettuali italiani, e non solo in quelli più estremisti – degli sloveni e dei croati entrati a far parte del regno d’Italia. Anche un osservatore attento e poco incline alle esagerazioni nazionaliste come Francesco Luigi Ferrari36 alla fine del 1918 non aveva esitato a esprimersi in questi termini.
Nessuna tradizione ha la nazione slovena: nel suo passato essa non può vantare nessuna lotta, nessuna gloria, ma tutta la sua storia non è che la storia degli Asburgo, dei quali essa fu sempre serva fedele. La sua istessa lingua da pochi anni soltanto è divenuta lingua
letteraria e prima era considerata alla stregua di un qualsiasi dialetto parlato da popolazioni campagnuole. A ciò si aggiunga che da pochi anni soltanto ed esclusivamente tra gli elementi più colti si è incominciata a formare una coscienza nazionale slovena, mentre la grande massa del popolo non conosceva e non conosce che il verbo servire a un padrone, che ieri si chiamava Austria e domani potrà chiamarsi tanto Italia che Jugoslavia. 37
Siamo qui in presenza degli elementi fondamentali dello stereotipo dello slavo incolto e nazionalmente inconsapevole, facile oggetto di manipolazione da parte di pochi «agitatori» o del potere del momento. Per la verità, Ferrari poi articolava la sua analisi, riconoscendo per esempio la maggior robustezza dell’identità nazionale croata, specie tra le popolazioni del Golfo del Quarnaro. Tuttavia, nella sua versione più semplificata, il giudizio secondo il quale le «masse slave», una volta «ripulite dai sobillatori» – vale a dire private della loro classe dirigente –, avrebbero facilmente acquisito una nuova identità nazionale, costituì il fondamento della politica fascista. Mancò quindi del tutto la consapevolezza che le identità nazionali, una volta radicatesi, non si lasciano più sradicare facilmente, a meno di non sradicare anche le persone: ma questa sarebbe stata un’acquisizione del secondo dopoguerra. È verosimile però, che nel fallimento della snazionalizzazione delle campagne slave abbia avuto un ruolo anche il fatto che essa, per quanto desiderabile, non costituiva un’urgenza per il regime. La politica fascista era riuscita abbastanza rapidamente a bloccare quella tendenza all’espansione demografica e all’ascesa sociale delle componenti slovene e croate della Venezia Giulia, che prima della guerra tanto aveva allarmato i ceti dirigenti di sentimenti italiani, contribuendo potentemente a spingerli lungo la via dell’irredentismo. Il «pericolo slavo» quindi era ben che scomparso – nonostante quanto la propaganda nazionalista avrebbe continuato a sostenere fino alla vigilia dell’aggressione italiana alla Jugoslavia –38 e non
valeva la pena di affannarsi eccessivamente per raggiungere un obiettivo, l’assimilazione dei contadini slavi, che il tempo e le spinte impresse dall’apparato del regime avrebbero in ogni caso finito per conseguire. Abbastanza eloquenti in tal senso sono le indicazioni delle fonti a proposito di una zona nevralgica come quella di Pisino, considerata dagli slavi la culla della croaticità istriana e teatro in epoca asburgica di vivaci conflitti nazionali. 39 Nella seconda metà degli anni Trenta ripetute segnalazioni denunciavano l’assoluto disinteresse mostrato per gli abitanti croati delle campagne da parte delle organizzazioni fasciste, che si limitavano ad aggregare gli italiani residenti nel nucleo urbano, senza preoccuparsi minimamente dei sentimenti ostili diffusi fra la popolazione rurale.40 È prudente evitare di generalizzare situazioni locali, tuttavia atteggiamenti del genere sembrano la spia di tendenze che possono aver avuto buon gioco nel rallentamento del processo assimilatorio. D’altra parte, in una prospettiva più generale, non si può nemmeno trascurare il fatto che quello fascista fosse un regime socialmente conservatore, assai poco interessato a sradicare le tradizionali strutture sociali delle campagne e a minare dall’interno il tessuto delle comunità rurali, modificandone in profondità valori e consuetudini. Al contrario, uno degli obiettivi dichiarati della politica fascista era proprio il ripristino degli assetti del passato, nel tentativo di riassorbire gli effetti dei processi di modernizzazione sociale e politica avviatisi nei decenni precedenti, che rischiavano di compromettere l’egemonia italiana. Se ciò non poteva che penalizzare l’aspirazione al progresso materiale e all’affermazione nazionale delle popolazioni slovene e croate, il nocciolo duro della società contadina non ne usciva particolarmente intaccato. Il discorso a questo punto potrebbe ulteriormente allargarsi ad altre considerazioni. Ben nota e conclamata era l’aspirazione del regime a informare di sé tutti gli ambiti della vita sociale, ma nella realtà la situazione – non solo nella Venezia Giulia, si capisce – era abbastanza diversa. Non deve perciò stupire troppo l’osservazione, riguardante una comunità slovena scelta da alcuni ricercatori come campione per un’analisi in profondità, che «la vita quotidiana sotto il fascismo italiano, se si esclude l’oppressione nazionalista (linguistica), non subiva un sovraccarico ideologico»41 e ciò
consentiva all’interno della componente slava e in parte anche nelle relazioni con gli italiani, la conservazione di una rete di rapporti scarsamente influenzati dalla politica. In altre parole, esistevano molteplici spazi da cui il fascismo restava escluso e che permettevano in qualche modo di ammortizzare la pressione imposta dalle persecuzioni nazionali, favorendo la salvaguardia dell’identità comunitaria.
L’emigrazione slovena e croata Gli sconvolgimenti dovuti alla Grande Guerra e all’inserimento delle terre giuliane nel regno d’Italia suscitarono un robusto flusso migratorio, che coinvolse soprattutto sloveni e croati. Sulle reali dimensioni dell’emigrazione slava dalla Venezia Giulia fra le due guerre permangono, a tutt’oggi, molti dubbi. La stima proposta alla metà degli anni Trenta dalle associazioni degli emigrati sloveni e croati e poi generalmente ripresa dalla storiografia jugoslava, è di poco superiore alle 100.000 unità, e più precisamente di 70.000 profughi in Jugoslavia, 5000 in altri Paesi europei e 30.000 in America Latina.42 Tale valutazione ufficiale è stata peraltro rimessa in discussione in anni abbastanza vicini da alcuni studiosi di nuova generazione sloveni e italiani che, dopo un’analisi critica delle fonti, hanno osservato come queste ultime in gran parte dei casi semplicemente non consentano di determinare l’appartenenza nazionale degli emigranti.43 Naturalmente, il silenzio delle fonti può essere in parte interpretato dal buonsenso degli storici che, considerando le località di partenza – per esempio comuni rurali a forte prevalenza slava – ovvero quelle di destinazione – per esempio il regno jugoslavo – possono trarne utili indicazioni sulla nazionalità dei profughi. In ogni caso, però, arrivare a una quantificazione precisa sembra impossibile, e anche alla stima di circa 50.000 partenti, esclusi gli espatri clandestini, proposta di recente, viene attribuito un valore puramente congetturale.44 Riconoscere le forzature metodologiche in cui la storiografia è talvolta incorsa sull’onda della passione nazionale non autorizza però a liquidare semplicisticamente il problema come poco significativo. Al contrario,
è indubbio che fra le due guerre alcune decine di migliaia di sloveni e croati furono costretti ad abbandonare i territori annessi all’Italia, per un complesso di motivazioni politiche ed economiche fra loro strettamente intrecciate, dando origine a diverse ondate migratorie. La fase iniziale del movimento migratorio, relativa ai primi anni del dopoguerra, fu probabilmente la più tumultuosa, ma anche quella rispetto alla quale disponiamo di dati meno certi. Per esempio, se ci limitassimo a confrontare i dati dell’ultimo censimento austriaco del 1910 con quelli del primo censimento italiano del 1921, ne ricaveremmo l’immagine di una catastrofe etnica a danno degli slavi nelle principali città: a Trieste, gli slavi passarono da 59.319 a 18.150, a Gorizia da 24.402 a 17.133, a Pola da 19.941 a 5420, a Fiume da 15.687 a 6364.45 In realtà, lo scarto fu probabilmente minore di quanto le cifre non sembrino suggerire. I criteri utilizzati nelle rilevazioni – che misuravano la «lingua d’uso» degli abitanti – e le manipolazioni avvenute nella raccolta e nell’elaborazione dei dati lasciano ragionevolmente supporre che molti giuliani, registrati come slavi nel 1910, siano stati censiti come italiani nel 1921.46 In ogni caso, il ricambio di popolazione fu notevole, specie nei grandi centri urbani: che cosa era dunque successo? Già nel corso del conflitto molte decine di migliaia di civili avevano dovuto evacuare le aree contigue al fronte, come pure la base navale di Pola e il suo circondario, ed erano state sfollate in diverse località della monarchia.47 Anche Trieste, che non era stata toccata da tale evacuazione, aveva perso temporaneamente quasi 100.000 abitanti, perché la totale paralisi dell’economia aveva messo in fuga quasi metà della popolazione.48 Tra i profughi non mancavano gli sloveni e i croati, e di questi non pochi nel dopoguerra preferirono non fare ritorno nella Venezia Giulia ormai amministrata dagli italiani. Inoltre, subito dopo la fine delle ostilità abbandonò la regione quasi tutta la comunità di lingua tedesca, insieme ai dipendenti dell’amministrazione militare e civile asburgica originari di altre zone dell’impero. L’entità di tale gruppo non era certo irrilevante – si parlò di almeno 40.000 persone – e molti erano sloveni o croati immigrati in anni recenti e perciò considerati dai nazionalisti italiani come estranei, il cui arrivo a Trieste era stato percepito quale frutto di una manovra del governo austriaco per ridimensionare la presenza
italiana. Da parte loro, le autorità italiane di occupazione, nelle more della definizione del nuovo confine, che si trascinò fino all’autunno del 1920, e sobillate anche da elementi nazionalisti locali, assunsero un atteggiamento persecutorio nei confronti della classe dirigente slava, sospettata di tramare contro l’Italia: vi furono così arresti, internamenti ed espulsioni che colpirono soprattutto militanti politici e intellettuali.49 Contemporaneamente venne avviata un’energica epurazione di alcuni settori chiave della pubblica amministrazione, a cominciare dalle ferrovie, la cui valenza strategica era evidente – specie nel caso di un possibile conflitto con la Jugoslavia – e in cui la presenza slava era più massiccia: licenziamenti, trasferimenti ed espulsioni fuori dai confini del regno risolsero il problema in meno di un anno.50 Con la firma del trattato di Rapallo, il 12 novembre 1920, e la stabilizzazione dei rapporti con la Jugoslavia, la tensione si sarebbe potuta allentare, dal momento che nulla ormai minacciava il pieno dominio italiano; invece, le persecuzioni fasciste misero ancor più in crisi le comunità slovene e croate. I primi a essere colpiti furono nuovamente gli intellettuali e in particolare gli insegnanti, che la riforma Gentile lasciò senza lavoro, e poi dipendenti pubblici e professionisti, allontanati dagli impieghi e radiati dagli albi professionali con mille stratagemmi. E ancora studenti, dapprima costretti a recarsi clandestinamente in Jugoslavia per poter completare i propri studi, e poi impossibilitati a far ritorno nella Venezia Giulia a seguito dell’inasprirsi delle norme sull’espatrio clandestino, e insieme a loro sacerdoti e patrioti di ogni ceto. Emblematica al riguardo è la vicenda ricordata nella testimonianza che segue, relativa al paese di Antignana (Tinjan).
Ad Antignana il 13 marzo del 1921 doveva aver luogo la prima celebrazione dell’annessione [all’Italia, N.d.T.]. Questo è stato un giorno sconvolgente e triste per i patrioti croati. Il loro orgoglio e la loro rabbia li hanno dimostrati esponendo la bandiera croata, cosicché l’alba della domenica ad Antignana ha visto spuntare sui muri delle
case, sui gelsi e sui lodogni di Antignana un gran numero di tricolori croati. I fascisti sono andati in bestia e hanno ordinato di toglierli. Sono arrivati anche in casa di Zvane Defar [nonno del narratore, N.d.T.] e gli hanno ordinato di deporre la bandiera. Mio nonno ha risposto che se la tirino giù da soli e, in men che non si dica, è salito al primo piano, ha preso il fucile da caccia e dalla finestra ha difeso la bandiera. L’ultimo giorno di marzo sono arrivati ad Antignana i fascisti pisinesi per regolare i conti con il parroco Josip Kraljić, con il maestro Dragutin Lukež e con le famiglie di Jure Prelac e Zvanic Defar. Al parroco Kraljić hanno stracciato i libri parrocchiali e hanno buttato in strada tutto l’archivio; il parroco, per sua fortuna, non lo hanno trovato in casa, perché si trovava, insieme al curato Josip Grašic da Božo Milanović a Kringa per aiutarlo con le confessioni del periodo pasquale. Quando Marija Banko dal villaggio Grimani di Antignana ha visto cosa stava succedendo è andata di corsa a Kringa per avvertire il parroco. I carabinieri l’avevano notata, ma l’abile spiona è riuscita a passare di nascosto la Draga [il vallone di Canfanaro, N.d.T.], a sparire senza lasciar traccia, ad avvertire il suo parroco e, più tardi quella notte, a ritornare fortunatamente a casa. Il parroco Kraljić è comunque partito subito da Kringa in carrozza e a Sv. Petar u Šumi [San Pietro in Selve, N.d.T.] è saltato sul primo treno per la Croazia. Ancora, nell’inverno del 1921 era stato ferito un segretario dell’organizzazione fascista. Siccome Zvane Defar era cacciatore, e perciò odiatissimo dai banditi fascisti, lo hanno accusato di aver prestato il proprio fucile all’attentatore. Alla fine di marzo, solo due mesi e mezzo dopo il matrimonio del figlio Antun, mio padre, mentre i due sono assenti, i fascisti fanno irruzione in tutte e due le loro case nella piazza di Antignana: nella bottega di generi
vari distruggono le confezioni, riversano i generi alimentari e nella trattoria rompono tutto ciò che riescono ad afferrare, versano a terra le pietanze cucinate e con le baionette perforano il paiolo. Salgono nell’appartamento e, siccome non possono buttare fuori dalla finestra il piccolo pianoforte di Tone, abbattono il muro intorno al telaio della finestra e lo buttano fuori sul marciapiede davanti alla casa, dove si sfascia in mille pezzi, con i tasti sparsi dappertutto in strada. Lasciano un messaggio: «Se acchiappiamo Zvane, Janko e Tone li deporteremo in Calabria!». Voglio qui ricordare che uno dei figli di Zvane, Tone (mio padre) era stato dall’età di tredici anni un organista della chiesa, cosicché il pianoforte di casa era il suo grande e insostituibile amore di gioventù. [...] Comunque sia, la stessa notte i due membri della famiglia Defar, grazie ad amici fidati, arrivano a Ježenj, passano a piedi Učka [il Monte Maggiore, N.d.T.], arrivano a Sušak e vanno ancora più lontano, finché non raggiungono il loro nuovo luogo di residenza, a Bosanski Brod.51
Nella seconda metà degli anni Venti dovettero prendere la via dell’esilio i dirigenti politici e i quadri delle associazioni sciolte dal regime, come pure tutti coloro che si erano particolarmente esposti nella lotta contro il fascismo, insieme alle loro famiglie. Ricorda al riguardo una testimone:
Allora noi siamo andati a Belgrado. Abbiamo deciso così, perché mia sorella era fidanzata con Marušič [Fran Marušič condannato a morte al primo processo di Trieste, N.d.T.]. Anche lui era di Rozzol [rione periferico di Trieste, allora staccato ancora dal centro urbano e abitato da agricoltori, N.d.T.], abitava un po’ più in su di noi. Dopo il processo lei aveva parecchi problemi, veniva
continuamente importunata. Quando lui era in prigione a Regina Coeli, prima del processo, loro due si scrivevano e quindi era controllata dalla polizia. Ovviamente, pensavano che anche lei sapesse qualcosa. In verità, noi non sapevamo niente del movimento, mai neanche un minimo sospetto, tanto che eravamo stupiti quando furono presi e messi dentro. [...] Tutto venne fuori improvvisamente. Una domenica Marušič e mia sorella andarono a messa e là gli fu detto di fuggire. Allora andò a casa per prendere qualcosa, ma lo stavano già aspettando. Poi ci fu il processo. [...] Ancora a cose finite mia sorella continuava a essere chiamata in questura e interrogata. Anche se non avevano prove, perché lei era estranea all’attività del movimento, preferì andarsene e fuggì oltre confine, in Jugoslavia. A Lubiana c’era già un nostro parente, uno zio ingegnere, emigrato subito dopo la guerra, che la ospitò. Anche noi avevamo paura, perché i fascisti venivano a casa nostra, ci svegliavano la notte. Hanno anche appiccato il fuoco alla stalla che andò distrutta. Qualche mese più tardi, sempre nel 1931, emigrammo anche noi, io e i miei genitori, ma andammo a Belgrado, dove si erano stabiliti i nostri vicini, qui di Rozzol, con i quali eravamo molto amici. Allora ci recammo da loro e in breve ci raggiunse anche mia sorella. Lasciammo tutto, la casa, la mandria, perché eravamo mandrieri, al nostro aiutante che continuò ad abitarci e a coltivarla per conto suo. A Belgrado ci trovammo subito bene. Saremmo dovuti andare ad abitare a Paracinj, come coloni penso, ma papà non volle perché non era chiaro a cosa si andava incontro, e allora rimanemmo a Belgrado dove egli trovò un posto al comune come giardiniere. Io invece lavoravo in fabbrica. In un primo momento abitavamo a casa dei nostri amici di Rozzol. Loro erano abbastanza benestanti, a Trieste lavoravano alla banca ceca, la Zivnostenska banka. Poi prendemmo un’abitazione in affitto, fino a quando i miei non vendettero i terreni a Rozzol e con i soldi ricavati si
costruirono la casa. Ci siamo adattati bene, anche perché c’erano moltissimi altri sloveni di Trieste, del Carso, ma facemmo subito amicizia anche con la gente di Belgrado. Così ci rifacemmo una vita lì. Io però rimasi solamente quattro anni, perché avevo una simpatia a Trieste e nel 1935 ritornai per sposarmi.52
Nel frattempo, anche le difficoltà economiche cominciavano a porre parte della popolazione giuliana di fronte alla prospettiva dell’emigrazione, e in effetti in quegli anni è riscontrabile un sensibile flusso migratorio transoceanico, diretto principalmente verso l’Argentina. La cosa strana è che nel medesimo periodo la politica migratoria del regime era divenuta assai restrittiva: nel 1927 infatti il governo fascista aveva emanato una serie di disposizioni volte a mantenere la «potenza demografica della Nazione», che comportarono un blocco quasi completo dell’emigrazione non stagionale. Ciò nonostante, il flusso migratorio dalla Venezia Giulia non solo non si ridusse, ma si intensificò e le principali compagnie di navigazione italiana avviarono addirittura un’intensa campagna promozionale a favore dell’emigrazione in Argentina. Le reazioni della popolazione slava furono così positive che l’ispettore politico fascista per il Carso, Grazioli, intervenne per bloccare il flusso di partenti, ma fu invitato dalle autorità superiori a lasciar perdere. Come spiegare dunque comportamenti così contraddittori? La chiave di lettura sta in una circolare governativa emanata nell’ottobre del 1927, in cui si precisava che il governo non intendeva porre ostacoli all’emigrazione degli «allogeni» e che anzi si doveva in tutti i modi facilitarla, se necessario anche con provvedimenti straordinari. Un’ultima ondata di partenze avvenne infine nella seconda metà degli anni Trenta e riguardò soprattutto la componente giovanile, che intendeva, in tal modo sottrarsi alla chiamata alle armi evitando il coinvolgimento nelle avventure belliche del regime fascista, in Etiopia e in Spagna, o che addirittura disertava se già mobilitata. L’emigrazione in America Latina avvenne in genere secondo il collaudato modello della «catena migratoria» e diede vita ad alcune
importanti comunità, fra le quali spiccava quella di Buenos Aires, al cui interno vennero formate associazioni a carattere marcatamente antifascista. Una testimonianza dell’epoca disegna bene la situazione:
Io avevo due motivi per emigrare, uno economico e uno politico, ma direi che sono stato spinto soprattutto da quest’ultimo. Il lavoro, infatti, ce l’avevo, come sarto, ma se non accettavi di iscriverti al fascio, e io non lo volevo per nessuna ragione, c’era sempre il pericolo di perderlo. Perciò mi dissi, oggi o domani resterò senza impiego, allora tanto vale fare questo passo. C’era poi la questione politica, perché a Santa Croce [paesino in provincia di Trieste, N.d.T.] l’attività comunista e la vita politica in generale era sempre molto vivace e io vi partecipavo dall’età di 15 anni. La mia ragazza aveva invece un cugino fascista, una buon’anima comunque, che a un certo momento venne a dirmi che mi stavano sorvegliando, che le cose per me si mettevano male e mi suggerì egli stesso di cambiare aria. Molti compaesani erano stati già arrestati e a decine erano emigrati, chi per motivi politici chi per ragioni economiche, soprattutto in Jugoslavia, in Francia e in Argentina. Tra questi c’era anche il padre della mia ragazza, che lavorava presso una ditta di italiani a Buenos Aires. Gli scrissi dicendogli che avevo intenzione di venire giù. Accolse la mia proposta, ma a condizione che mi sposassi e che portassi anche sua figlia. Allora ci sposammo, il 9 febbraio 1929, e qualche settimana dopo partimmo. Avevo 22 anni. Per emigrare allora non c’erano problemi. La compagnia di navigazione Cosulich pensava a tutto, dai documenti per l’espatrio all’organizzazione del viaggio, e il fascismo aveva tutto l’interesse di sbarazzarsi di quanti più «alloglotti». Fatto sta che non ci fu nessun impedimento, a certi facevano storie, ma a noi no. Giungemmo in Argentina il 19 marzo dopo 24 giorni di
mare con il piroscafo Belvedere. C’erano anche altri emigranti di Trieste e molti sloveni del Litorale con i quali restammo in contatto anche in seguito. Era un inverno terribile, quello, e il gelo aveva fatto scoppiare le tubature dell’acqua dentro la nave. Le cabine di terza classe furono mezze allagate. Ricordo la valigia che galleggiava quando ci svegliammo la mattina a Napoli. Io avevo anche un grosso baule, perché mi portai dietro la macchina da cucire e quando lo stavano scaricando a Buenos Aires temetti che l’acqua avesse rovinato tutto e che il baule si sfasciasse. Quando attraccammo a Buenos Aires c’era mezza Santa Croce ad aspettarci sulla banchina. Davanti a tutti Franc Štoka, alto e grosso. Non feci in tempo a mettere piede a terra che già mi diedero della stampa operaia. Una settimana più tardi facevo già parte della cellula comunista di La Paternal e un mese dopo partecipai a un incredibile corteo di 1° maggio per le vie di Buenos Aires. Era il mio primo 1° maggio. Ricordo uno straordinario senso di libertà, credevo di essere in paradiso.53
Gli esuli in Jugoslavia si concentrarono invece in una prima fase in Slovenia e Croazia, e solo successivamente cominciarono a spostarsi in parte verso località meno prossime al confine. Alcune aliquote di profughi vennero pure utilizzate nell’ambito dei progetti di «ingegneria etnica» che anche il governo di Belgrado varò fra le due guerre, e che rispondevano alla medesima esigenza di nazionalizzazione dello spazio statuale che muoveva buona parte dei Paesi europei, Italia compresa. Coloni provenienti dalla Venezia Giulia vennero quindi inviati nel Prekmurje già ungherese, per rafforzarne la slovenità, nonché in Kosovo e Macedonia nell’ambito della politica di snazionalizzazione nei confronti degli albanesi e delle altre etnie non serbe. Ma il contributo dei Primorci (vale a dire degli abitanti del Litorale) alla saturazione degli spazi nazionali nei
territori entrati a far parte del regno degli slavi del Sud non si limitò alla partecipazione ai piani di colonizzazione interna. Strategico infatti risultò l’apporto dei profughi sloveni a Maribor, già Marburg, centro della Stiria meridionale annessa alla Jugoslavia nel dopoguerra e perciò abbandonata dalla popolazione tedesca, che prima del conflitto costituiva la maggioranza degli abitanti del centro urbano. Qui gli immigrati dal Litorale furono protagonisti della trasformazione della fisionomia nazionale della città, non limitandosi a ricoprire ruoli di primo piano nell’economia e nella pubblica amministrazione, ma dando vita a una fitta rete di istituzioni e associazioni culturali, fra le quali il teatro stabile e la società musicale, in buona parte composte da artisti provenienti dallo scomparso Narodni Dom di Trieste. Le prime ondate di profughi determinarono in Jugoslavia circostanze di vera emergenza, specie sotto il profilo abitativo. Particolarmente grave fu la situazione a Zagabria, dove si concentrarono circa 7000 emigrati dall’Istria, che vissero a lungo in condizioni di grande precarietà, come risulta per esempio dalla seguente testimonianza:
Mio padre, operaio dell’arsenale di Pola, se n’era andato a Zagabria in esilio con un gran numero di croati istriani alla fine del 1920, per sfuggire all’arresto, all’olio di ricino e al confino. Fin dall’inizio, nel gennaio del 1921 noi esiliati siamo stati spediti da Pola via Fiume a Sušak. Le madri potevano portarsi la roba in un fagotto. I carabinieri ci hanno caricato in un camion coperto. Un paio di giorni dopo ci hanno raggiunto i nostri padri. Da Sušak ci hanno portato a Zagabria. Lì ci hanno sistemati nelle baracche militari austroungariche, come alloggio di fortuna. Per più di dieci anni le baracche si trovavano nel centro di Zagabria, nelle vicinanze del ginnasio (oggi Museo Mimara), del Teatro Nazionale croato e del sanatorio, ed erano un vero obbrobrio; sono sparite nel 1933 e, in base a quelli che le abitavano, avevano preso il nome di
«baracche istriane». Gli istriani hanno avuto allora una nuova sistemazione, nelle «Case istriane» in via Moscenicka nella Trešnjevka. Alcune famiglie sono state sistemate nei vagoni merci dismessi su binari secondari tra la stazione Centrale e Occidentale e Culinac. In ogni vagone c’erano due famiglie e come divisori erano usate le lenzuola. L’acqua veniva portata con i secchi e non c’era il gabinetto. Tutt’intorno c’era una puzza! A causa della mancanza di alloggi c’erano famiglie che vivevano in catapecchie nella parte non ancora urbanizzata di Trešnjevka e Trnj, con la pompa per l’acqua e con vicino il pozzo nero della latrina.54
Dal punto di vista occupazionale invece, i primi contingenti migratori trovarono in genere soluzioni abbastanza soddisfacenti. Molti ex impiegati si inserirono con facilità nell’apparato amministrativo del nuovo Stato, che doveva colmare i vuoti lasciati dagli elementi tedeschi e ungheresi. Il forte sentimento nazionale jugoslavo degli immigrati favorì pure il loro impiego in settori delicati della pubblica amministrazione, come le forze di sicurezza, mentre parecchi membri della classe dirigente slovena e croata emigrata dal Litorale e dall’Istria proseguirono con successo la loro carriera politica nel regno jugoslavo. Anche la nascente industria jugoslava, e specialmente la cantieristica e le costruzioni ferroviarie, si giovò dell’apporto della manodopera specializzata proveniente dai grandi complessi giuliani. A parte dunque gli inevitabili disagi legati alla condizione di profughi, nel corso degli anni Venti gli esuli dalla Venezia Giulia riuscirono nel complesso a inserirsi piuttosto bene nella società jugoslava. Tutto cambiò all’inizio degli anni Trenta, quando il diffondersi della crisi economica rese critica la situazione di molti profughi, alcuni dei quali dovettero prendere nuovamente la via dell’emigrazione, mentre la competizione per gli scarsi posti di lavoro inasprì i rapporti tra gli esuli e la popolazione locale. Si arrivò al punto che in alcune zone i profughi venivano apostrofati con gli
epiteti di lah (dispregiativo per italiano) o di fašist e il termine Primorec valeva una bestemmia.55 Istituire un’analogia con alcune delle difficoltà che i profughi giuliano-dalmati avrebbero affrontato nel secondo dopoguerra in Italia viene a questo punto spontaneo.
Le associazioni degli emigranti e il movimento clandestino Gli emigrati dalla Venezia Giulia in Jugoslavia diedero vita a un’intensa attività associativa, peraltro largamente condizionata dai problematici rapporti tra il governo di Roma e quello di Belgrado, che nei confronti dei profughi alternò sostegno, utilizzo strumentale e controllo. Possiamo comunque distinguere tre fasi evolutive. La prima, corrispondente all’immediato dopoguerra, vide l’azione scoordinata di «comitati per gli esuli» e circoli culturali, guidati dalla piccola borghesia emigrata. La seconda ebbe inizio nel 1928 quando fu fondata l’ORJEM (Organizzazione degli emigranti jugoslavi), con sede centrale a Lubiana, e segnò una svolta verso la politicizzazione del movimento, che si diede un chiaro programma di lotta contro il fascismo e la sua politica di snazionalizzazione. A tal fine, l’ORJEM strinse i primi contatti con gli emigrati antifascisti italiani e promosse pubbliche campagne di denuncia dell’oppressione subita da sloveni e croati nella Venezia Giulia; questo provocò naturalmente l’irritazione delle autorità italiane, che esercitarono energiche pressioni su quelle jugoslave per ottenere lo scioglimento dell’associazione. Il governo di Belgrado acconsentì, anche perché l’organizzazione – guidata dagli elementi più giovani (mlada struja) e orientati a sinistra del composito mondo dell’emigrazione – non aveva lesinato critiche nei confronti del vecchio establishment della comunità degli emigrati e della stessa politica governativa, accusata di arrendevolezza nei confronti dell’Italia. Fatto ancor più importante, all’attivismo dell’ORJEM aveva fatto da contrappunto nella Venezia Giulia la nascita di un movimento clandestino armato, anch’esso espressione degli ambienti giovanili slavi, insofferenti nei
confronti della linea legalitaria fino ad allora seguita dalla tradizionale dirigenza slovena e croata di matrice liberale o cattolica. Qualche contatto tra estremisti slavi giuliani e organizzazioni clandestine armate d’oltre confine come l’irredentista ORJUNA – parafascista, fortemente jugoslavista e collegata ai servizi segreti di Belgrado – non era mancato a dire il vero neanche negli anni precedenti. Proprio appoggiandosi a una rete di collaboratori locali l’ORJUNA era stata in grado sia di svolgere le sue attività spionistiche, che di compiere una serie di azioni terroristiche e di sabotaggio sul territorio italiano. Si trattava tuttavia di un movimento «importato», mentre nell’autunno del 1927, dopo la soppressione di tutti i circoli e le istituzioni legali sloveni e croati, alcuni gruppi di giovani slavi della Venezia Giulia decisero di non rassegnarsi all’oppressione fascista e diedero vita a un’organizzazione segreta che assunse varie denominazioni. Nel Goriziano venne usata la sigla TIGR – dalle iniziali delle principali località della regione, Trst, Istra, Gorica e Rijeka (Fiume) –, a Trieste e in Istria invece il nome fu quello del giornale clandestino che divenne portavoce del movimento Borba, che significa «lotta». Il suo statuto prevedeva infatti la «lotta senza compromessi contro il fascismo e annessione del Litorale e dell’Istria alla Jugoslavia. La lotta contro il fascismo e le sue istituzioni sarà condotta con tutti i mezzi possibili fino alla finale sconfitta del fascismo».56 Sul piano operativo, le attività del movimento si posero in continuità e in parte si confusero con quelle già avviate dall’ORJUNA, dato che neppure la nuova organizzazione poteva prescindere dai legami con la Jugoslavia. Così, accanto alla raccolta di informazioni, venne avviata un’intensa campagna propagandistica e intimidatoria, che alla diffusione di stampa clandestina accompagnava l’incendio di asili, scuole e ricreatori italiani, considerati simbolo della politica di snazionalizzazione in area slava. La sottolineatura da parte del TIGR del proprio carattere di antifascismo armato gli consentì di intrecciare contatti anche con gli antifascisti italiani emigrati a Parigi, e in particolare con Giustizia e Libertà, che si rivelò decisamente sensibile al tema dell’oppressione delle minoranze nazionali, slave e tedesche, da parte del fascismo. Nel 1933 GL avrebbe intitolato Il fascismo e il martirio delle
minoranze un suo opuscolo, in cui la responsabilità prima degli atti di violenza registrati al confine orientale veniva fatta ricadere sulla cieca politica di snazionalizzazione fascista e non si nascondeva la simpatia per la capacità di resistenza mostrata dagli slavi, a differenza dei tedeschi dell’Alto Adige.57 Le strategie politiche di TIGR e Giustizia e Libertà rimanevano naturalmente diverse, poiché GL contrapponeva alla soluzione irredentista quella del riconoscimento dei diritti delle minoranze entro i confini del regno d’Italia. Negli anni successivi il chiarimento delle rispettive posizioni avrebbe portato a una rottura, ma nell’immediato la prospettiva della lotta armata contro il fascismo era condivisa da entrambi i movimenti. Prova ne sia che gli aderenti a GL progettarono in quegli anni una serie di attentati dimostrativi da compiere in Italia, che poi non ebbero luogo, mentre nell’ottobre del 1930 Fernando De Rosa, con l’aiuto di GL, avrebbe tentato a Bruxelles di uccidere il principe ereditario, Umberto di Savoia.58 L’organizzazione tigorista divenne quindi un canale di rilevante importanza per gli antifascisti italiani, che per suo tramite riuscirono a far espatriare numerosi militanti in pericolo, e a importare in Italia materiale propagandistico ed esplosivo. Quello che diede comunque maggior risonanza al movimento clandestino slavo fu una serie di atti terroristici volti a colpire soprattutto elementi sloveni che collaboravano con le autorità italiane, ma culminanti in un attentato al Faro della Vittoria a Trieste e in un altro alla sede del giornale fascista «Il Popolo di Trieste», 59 che provocò una vittima tra i redattori. Sul luogo dello scoppio vennero lasciati una copia della rivista «Svoboda» (libertà) in cui si affermava: «Noi ci atterremo ai mezzi rivoluzionari estremi come sono stati adoperati dalle masse proletarie dalla rivoluzione francese a oggi»; e un numero di «Giustizia e Libertà» del novembre 1929, che riproduceva un passo di Mussolini, dei tempi in cui era ancora socialista. Il duce del fascismo in quell’occasione aveva sostenuto: «Convengo senza discussione che le bombe non possono costituire, in tempi normali, un mezzo d’azione socialista. Ma quando un governo, sia repubblicano, sia monarchico, vi perseguita o vi getta fuori dalla legge e dall’umanità, oh, allora non bisognerebbe maledire la violenza che risponde alla violenza, anche se fa vittime innocenti».60
Dopo un’iniziale incertezza – le autorità di polizia temevano si fosse trattato di un regolamento di conti tra fascisti –61 l’attentato al «Popolo di Trieste» scatenò un’ondata repressiva che portò alla decapitazione della rete clandestina: dinanzi al Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato furono condotti sessanta membri dell’organizzazione e quattro di essi vennero condannati a morte e fucilati a Basovizza, nei pressi di Trieste, il 6 settembre del 1930.62 L’anno precedente il Tribunale speciale, riunito a Pola, aveva già processato un piccolo gruppo di membri della Borba di Pisino, che con una sparatoria aveva cercato di disturbare l’afflusso dei votanti al plebiscito del 1929: un contadino croato era rimasto ucciso, forse per errore, e il leader del nucleo armato, Vladimir Gortan venne condannato a morte e fucilato.63 A seguito della repressione la Borba cessò di esistere, mentre la direzione del TIGR si trasferì in Jugoslavia, dove successe all’allora disciolta ORJUNA e ne incorporò i membri, proseguendo fino al 1931 le azioni terroristiche in Italia. Cedendo dunque alle pressioni italiane, nel 1930 il governo di Belgrado sciolse l’ORJEM, ma già nel 1931 gli emigranti diedero vita a una nuova organizzazione, la Zveza jugoslovanskíh emigrantov iz Julijske krajine (Unione degli emigranti jugoslavi della Venezia Giulia), guidata questa volta dalla corrente conservatrice (stara struja), fedele al regime jugoslavo, poiché convinta che solo un governo forte e centralista potesse difendere adeguatamente le minoranze rimaste in Italia. In effetti esso sostenne la Zveza, che avviò un’incessante campagna propagandistica rivolta sia all’opinione pubblica jugoslava che a quella internazionale, pubblicando il settimanale «Istra» e diffondendo materiale propagandistico in varie lingue, fra cui il «libro bianco» sui soprusi subiti dalle minoranze slave in Italia, apparso in inglese nel 1936 e in francese nel ’38.64 Ben presto, all’interno dell’organizzazione prevalse la tematica irredentista: preparata già da numerosi interventi degli anni precedenti, la sanzione ufficiale alla nuova linea venne dal congresso di Maribor del 1934, quando migliaia di emigranti acclamarono una mozione che esigeva la «restituzione» alla Jugoslavia dei territori che le erano stati «tolti» a Rapallo, giurando di ricorrere, per ottenerla, anche a metodi di lotta
non pacifici. Le decisioni del congresso di Maribor segnarono la fine della collaborazione ufficiale tra l’emigrazione slovena e croata e quella antifascista italiana di matrice democratica, dal momento che Giustizia e Libertà precisò di non poter concepire la lotta antifascista insieme a un «raggruppamento irredentistico al servizio della dittatura jugoslava». 65 La Zveza proseguì nondimeno per la sua strada, ma l’appoggio governativo era condizionato all’altalena dei rapporti con l’Italia. Il via libera alla costituzione della Zveza era infatti arrivato, dopo molte incertezze, in una fase in cui le relazioni tra i due Paesi confinanti si erano fatte assai tese, per il mancato rinnovo nel 1929 del patto di amicizia firmato nel 1924. Più tardi invece, in occasione del riavvicinamento italo-jugoslavo avviato alla metà degli anni Trenta e culminato negli accordi Ciano-Stojadinovič del 1937, i due governi con l’articolo 4 del patto si impegnarono a impedire nei rispettivi territori qualsiasi attività diretta contro l’integrità statale dell’altro contraente. A seguito di ciò, il governo italiano bloccò le attività dei terroristi croati ustaša ospitati e addestrati in Italia, che nel 1934 si erano resi protagonisti dell’omicidio a Marsiglia del re Alessandro I di Jugoslavia e del ministro degli Esteri francese Louis Barthou, mentre da parte sua il governo di Belgrado decise di porre la sordina alle attività degli emigranti.66 Infine, il medesimo articolo fu invocato dall’Italia nel settembre del 1940 per chiedere lo scioglimento della Zveza, e il governo jugoslavo accettò, verosimilmente timoroso che l’Italia, ormai in guerra contro la Gran Bretagna, traesse pretesto dalle attività dei fuoriusciti per scatenare un attacco contro il regno confinante.67 Lo stesso atteggiamento ambivalente tenuto nei confronti delle associazioni degli emigranti venne adottato dal governo di Belgrado anche con il movimento clandestino, tanto più che i confini tra le due realtà erano di fatto assai labili. Emblematicamente Albert Rejec, l’uomo chiave del TIGR in Jugoslavia, fu a lungo segretario della Zveza e lo stesso presidente dell’associazione, Ivan Marija Čok, a differenza di altri rappresentanti degli emigranti si mostrò decisamente favorevole al movimento. Questo dunque poteva contare sull’appoggio di importanti settori dell’apparato statale, a cominciare da quelli militari, ma nello stesso tempo le autorità
desideravano mantenere il controllo della situazione evitando pericolose crisi con l’Italia. Così, dopo il 1931 anche il TIGR dovette sospendere l’attività terroristica e si concentrò sulla propaganda e sullo spionaggio. Quando poi gli accordi del 1937 sembrarono preludere a un riavvicinamento fra Italia e Jugoslavia, gli esponenti del TIGR decisero di cercare collegamenti più efficaci: a tal fine, si misero in contatto con i servizi segreti francesi e inglesi, e ne ottennero l’interessamento, scambiando informazioni militari con armi e materiali. La collaborazione si fece più stretta con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, senza attendere che l’Italia scendesse in campo: con l’appoggio britannico fu elaborato un piano sistematico di sabotaggi delle linee ferroviarie italo-tedesche e una serie di attentati venne effettivamente portata a termine fra la primavera e l’autunno del 1940 in Carinzia e in Italia.68 Di fronte alla ripresa terroristica, Italia e Germania esercitarono forti pressioni sul governo jugoslavo, e questo, minacciato da presso e privo di concrete possibilità di aiuto da parte della Gran Bretagna, proseguì nella politica di concessioni forzate che sarebbe culminata la primavera seguente nell’adesione al patto tripartito.69 Per intanto, alcuni membri del TIGR vennero processati, il ministro dell’Interno fu destituito insieme ad alcuni alti funzionari filobritannici e qualche agente inglese venne espulso dal Paese. Nel frattempo, la repressione colpì duramente sia in Austria che in Italia. A Klagenfurt tredici persone furono processate nel luglio del 1941, e di queste, sei furono condannate a morte e decapitate. Anche in Italia i nuclei tigoristi furono spazzati via: a partire dal marzo del 1940 si succedettero 299 arresti e vennero scoperti depositi di armi, la stazione radio, la stamperia clandestina. Sessanta persone vennero rinviate al Tribunale speciale, che si riunì per la seconda volta a Trieste nel dicembre del 1941. Il «secondo processo di Trieste», come viene chiamato dalla storiografia jugoslava per segnalare la continuità della repressione fascista, è più frequentemente ricordato da quella italiana come il processo Tomažič, dal nome del giovane leader comunista sloveno che rappresentò la figura di maggior spicco del movimento clandestino alla fine degli anni Trenta. L’appartenenza politica di Pino Tomažič, un intellettuale di estrazione borghese approdato al
comunismo, segnala già di per sé quanto in pochi anni fossero mutate le posizioni all’interno dell’antifascismo giuliano. All’inizio del decennio infatti, al di là dei collegamenti personali tra alcuni elementi comunisti e nazionalisti slavi, il PCI aveva preso duramente posizione contro il TIGR, ritenendo che la lotta per l’autodeterminazione – che implicava la separazione dall’Italia – non aveva senso se non abbinata a quella per la rivoluzione in entrambi i Paesi. Ne conseguiva, come scrisse Ivan Regent, che nelle condizioni dell’epoca non si poteva appoggiare «l’idea dell’unione della Venezia Giulia con la Jugoslavia [che] rappresenta gli interessi dell’imperialismo serbo».70 Ruggero Grieco dal canto suo così ammonì i quadri sloveni e croati, galvanizzati dalle prime esperienze di lotta armata: «Solo quando avremo purificato le nostre file dello “slovenismo” e del “tigorismo” [...] solo allora potremo vedere se c’è da marciare, e a quali condizioni, nella Venezia Giulia, per un certo tratto, su una piattaforma precisa, con i nazionalisti che vogliono battersi colle armi alla mano contro il fascismo».71 Naturalmente, giudizi così drastici erano in linea con le direttive di Stalin in merito ai rapporti con le altre formazioni antifasciste, e quando tali direttive cambiarono, nel senso di promuovere la costituzione di ampi fronti popolari, anche i comunisti giuliani si aprirono verso il movimento nazionale slavo. Così, nel 1934, in una dichiarazione comune i partiti comunisti jugoslavo, italiano e austriaco, si «dichiararono senza riserve per il diritto all’autodecisione», anche se poco dopo Regent osservò che tale diritto non doveva venire interpretato in maniera nazionalista, vale a dire «senza porre il problema del diritto di autodecisione anche per le nazionalità non slovene che formano, in alcuni casi, la maggioranza, in altri la totalità della popolazione, per esempio di alcune città costiere dell’Adriatico».72 Infine, nel 1936 il partito comunista italiano stipulò con il movimento nazionale rivoluzionario degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia, vicino al partito comunista jugoslavo, un patto d’azione in cui fra l’altro si affermava che «la federazione comunista della Venezia Giulia e il partito comunista italiano lottano e lotteranno in ogni momento, per il riconoscimento e l’applicazione del diritto di autodecisione delle popolazioni slave della Venezia Giulia, compreso quello della
separazione dallo Stato italiano».73 Non per questo ogni divergenza poteva considerarsi risolta, e anzi negli anni di guerra, di fronte ai successi e alle rivendicazioni del movimento partigiano jugoslavo, il problema di come interpretare il diritto di autodecisione, chiarendone soggetti, aree di applicazione e strumenti, avrebbe costituito una pietra d’inciampo per i rapporti fra i partiti comunisti italiano, sloveno e croato, per non parlare di quelli con le altre formazioni antifasciste italiane. A ogni modo, alla fine degli anni Trenta, alcuni gruppi giovanili sloveni che abbracciavano i principali orientamenti politici – liberalnazionali, cattolici e comunisti – avevano avviato preparativi comuni per la lotta armata e cominciarono a metterli in atto, pur mantenendo visioni diverse sul futuro delle terre giuliane e sulle relazioni con il regno jugoslavo. Tomažič per esempio proponeva di battersi non per l’annessione alla Jugoslavia, ma per la creazione di una repubblica sovietica slovena. L’azione investigativa e repressiva dell’OVRA, che combinava una buona capacità di infiltrazione negli ambienti sospetti con un largo uso della tortura,74 scompaginò in breve l’intero tessuto cospirativo, ma la celebrazione del processo venne ritardata di parecchi mesi, perché nel frattempo erano intervenute l’invasione della Jugoslavia e l’annessione della provincia di Lubiana.75 Le autorità italiane dunque preferivano non turbare con un processo agli irredentisti i rapporti con i nuovi sudditi, che si preannunciavano piuttosto buoni, dal momento che alla provincia di Lubiana era stata promessa una larga autonomia e, soprattutto, non vi veniva applicata la politica di snazionalizzazione precedentemente adottata nella Venezia Giulia. Sembrava quindi che il «problema slavo» fosse stato definitivamente risolto dall’Italia con la forza delle armi, e i primi tempi dell’occupazione parvero confortare tali speranze, tanto che alcune migliaia di sloveni abbandonarono i territori annessi al Terzo Reich – nei quali invece le autorità naziste adottarono immediatamente una politica di snazionalizzazione assai dura – per cercare rifugio in Italia. L’illusione durò però lo spazio di un mattino, perché l’attacco tedesco all’Unione Sovietica e la conseguente discesa in campo sul territorio jugoslavo di un fronte di liberazione a guida comunista avviarono rapidamente la spirale di azioni
partigiane e operazioni antiguerriglia, che avrebbe trasformato i territori occupati della ex Jugoslavia in un nuovo fronte di guerra. Con gli ex tigoristi il nuovo movimento partigiano non aveva in realtà niente a che fare: i pochi superstiti dei vecchi gruppi clandestini non vennero nemmeno invitati a far parte del fronte di liberazione, vuoi per i loro legami con i servizi segreti britannici e il governo di Belgrado, vuoi perché avrebbero legittimamente potuto rivendicare un ruolo di primogenitura nella lotta contro il fascismo e gli italiani. Tanto più che il primo scontro a fuoco con le truppe di occupazione nella provincia di Lubiana ebbe per protagonista non una formazione partigiana, ma uno dei leader storici del TIGR, Danilo Zelen, che rimase ucciso. Anche nei decenni successivi la storiografia di regime jugoslava avrebbe passato sotto silenzio l’episodio e, più in generale, l’intera azione svolta dal TIGR, che è stata invece ampiamente rivalutata dalla più recente storiografia slovena post-comunista.76 In ogni caso, nell’autunno del 1941, i segnali d’inquietudine provenienti dai territori annessi suggerirono alle autorità italiane di inviare un forte monito ai ribelli e alla popolazione slovena potenzialmente attratta dalla prospettiva della lotta di liberazione. Nel dicembre del medesimo anno, pertanto, a Trieste venne celebrato con il massimo della spettacolarità un processo dall’esito scontato: oltre e più che all’accertamento delle responsabilità personali degli imputati – che erano stati divisi in tre gruppi: intellettuali, comunisti e terroristi –, il procedimento mirava infatti a trascinare globalmente in giudizio la capacità della popolazione slava di resistere alle pressioni del potere fascista, mostrando l’inutilità di ogni forma di opposizione. La corte inflisse quindi complessivamente nove condanne a morte e 666 anni di detenzione. Mussolini tuttavia decise di accogliere selettivamente alcune delle domande di grazia, vale a dire quelle dei quattro «intellettuali», mentre gli altri cinque condannati vennero fucilati il 15 dicembre nel poligono di tiro di Opicina, nei pressi di Trieste, e i loro corpi seppelliti fuori regione, per evitare che le tombe divenissero meta di pellegrinaggi patriottici e antifascisti.77 In questo modo, la rete cospirativa era stata effettivamente quasi annichilita, mentre i provvedimenti di clemenza intendevano dimostrare alle componenti slovene più moderate che un modus
vivendi con l’Italia non era in fondo impossibile, a patto ovviamente di non mettere in discussione la nazionalizzazione integrale della Venezia Giulia e l’annessione e fascistizzazione della nuova provincia di Lubiana. L’evoluzione generale del conflitto e le sue ripercussioni sui territori balcanici occupati a vario titolo dall’Italia avrebbero invece ribaltato del tutto ogni prospettiva di dominio italiano; per questo la nostra attenzione deve ora spostarsi sugli anni di guerra.
CAPITOLO 3 La guerra e la sua violenza L’impatto della guerra sulla società giuliana È giudizio corrente nella storiografia che la società giuliana si sia presentata all’appuntamento con la guerra indebolita da profonde lacerazioni, dal momento che alle tradizionali fratture di ordine nazionale, aggravate dalla politica del regime, si erano sovrapposte alla fine degli anni Trenta quelle legate all’avvicinamento dell’Italia fascista al Reich nazista. Trieste infatti fu una delle città italiane in cui più devastanti furono gli effetti della legislazione antisemita sulla società locale e in particolare sulla sua élite economica, di cui la componente ebraica era un segmento assai influente. Si trattava inoltre di conseguenze misurabili in termini di spostamenti di potere all’interno dei ceti imprenditoriali ma anche di «inquinamento del vivere civile», secondo l’espressione di Elio Apih,1 testimoniato dalle epurazioni, dalle odiose discriminazioni, dalla corsa all’accaparramento di posti e beni, dai tentativi convulsi di arianizzazione, dai provvedimenti vessatori miranti a scorporare la comunità ebraica dal resto della cittadinanza, di fatto preparatori alla tragedia degli anni seguenti.2 Anche a Fiume del resto, seppur in misura minore, le ripercussioni delle leggi razziali si fecero sentire, soprattutto sul piano economico. Tuttavia, i processi di divaricazione già operanti all’interno della società giuliana, benché reali, impiegarono tempo per manifestarsi in tutta la loro portata e perciò l’impatto della guerra sulla realtà del confine orientale non fu inizialmente molto diverso da quello del resto del Paese. Numerosi studi hanno ormai consentito di tracciare una parabola dell’atteggiamento della popolazione giuliana verso il conflitto abbastanza simile a quella registrata in molte altre aree del Centro-nord d’Italia:3 la stessa altalena di sentimenti in merito alla
non belligeranza – con la speranza che la guerra non scoppiasse – seguita dall’illusione di poter dividere con i tedeschi i frutti della vittoria, senza dover partecipare veramente al conflitto. Nei mesi successivi predominò la sensazione di estraneità nei confronti di una guerra lontana non solo geograficamente, ma anche nella psicologia collettiva.
Non esiste un nemico per la gente [...]. Nessun entusiasmo, nessuna ansia, nessuna impazienza patriottica, come se la nazione non c’entrasse: come se il conflitto fosse una cosa limitata al Duce e al Führer da una parte e a tutti quelli che lottano contro il Duce e contro il Führer dall’altra.4
Dopo le prime, cocenti delusioni della campagna d’Africa e di quella di Grecia, un sussulto nell’opinione pubblica italiana della regione è ben percepibile nell’aprile del 1941. L’attacco italo-tedesco contro la Jugoslavia toccò infatti particolarmente nel vivo le popolazioni giuliane, non solo perché i territori di confine furono per pochi giorni teatro di operazioni (con conseguente temporaneo sgombero delle località di frontiera, Fiume inclusa),5 ma soprattutto per l’evidenza psicologica di un nemico immediatamente riconosciuto come tale. Se per gli italiani della Venezia Giulia francesi e inglesi erano rimasti nemici invisibili, gli slavi invece erano avvertiti come un nemico reale, con il quale saldare il conto una volta per tutte. Ce ne rendiamo conto grazie alle parole del questore di Trieste:
La guerra contro la Jugoslavia, altrettanto sentita dal popolo quanto quella del 1915 contro l’Austria, viene seguita con appassionato fervore. Gli italiani della Venezia Giulia in special modo, che, per diretta esperienza,
conoscono la mentalità e la psicologia slavo-balcanica, mentre non hanno mostrato meraviglia per il brusco mutamento di rotta del governo di Belgrado e, pur non giubilando all’idea di un nuovo, vicino fronte di guerra, sono tuttavia sereni e compresi della necessità del nostro intervento, diretto allo smembramento del confinante Stato, considerato in ogni tempo un pericolo per la pace europea. Una corrente più accesa, stimolata dall’odio che da generazioni si è andato accumulando contro gli allogeni sloveni, mette in rilievo la nuova prova di malafede data dal popolo jugoslavo, e non nasconde il suo entusiasmo, nella certezza che solo gli avvenimenti che si prospettano potranno risolvere radicalmente il problema dell’irredentismo slavo nella Venezia Giulia.6
Anche al di là delle esagerazioni tipiche della propaganda antijugoslava del regime, la primavera del 1941 rappresentò probabilmente per una parte significativa dell’opinione pubblica giuliana di sentimenti italiani l’unico momento in cui il conflitto suscitò più adesione che rassegnazione, in cui incontrò – si potrebbe dire – un certo consenso. Un consenso peraltro destinato a rendere ancora più profonda la crisi di una società nazionalmente spaccata, mentre anche le illusioni suscitate dalla vittoria di aprile sarebbero ben presto svanite, sostituite dal timore di un’«onda di ritorno» slava capace di travolgere le posizioni italiane nella regione. Il soprassalto della primavera del 1941 costituì quindi soltanto un episodio, dopodiché la parabola del consenso seguì nella Venezia Giulia quella del resto d’Italia: così fu per la progressiva crisi di fiducia nell’esito delle operazioni belliche e nella tenuta del regime fascista, e così fu anche per il lento ma inesorabile assottigliarsi della «distanza», materiale e psicologica, dalla guerra in corso. Da estraneo e lontano il conflitto si fece sempre più coinvolgente, man mano che allo stillicidio delle privazioni e delle informazioni dai fronti cominciarono a sommarsi gli effetti devastanti delle operazioni di guerra condotte sul suolo italiano, o anche soltanto il timore da esse
suscitato. Anche nella Venezia Giulia, che pure prima dell’armistizio non conobbe i bombardamenti che invece martoriarono alcuni dei principali centri del Paese, si assistette pertanto nel corso del 1943 a fenomeni di sfollamento delle popolazioni urbane alla ricerca di un più sicuro rifugio nelle campagne. Tuttavia, nelle terre alto-adriatiche ciò che effettivamente portò la guerra in casa non furono i velivoli anglo-americani, ma i partigiani jugoslavi. Fin dall’estate del 1941, nei territori ex jugoslavi annessi o semplicemente occupati dalle truppe dell’Asse si sviluppò un movimento resistenziale che ben presto impegnò severamente gli eserciti aggressori. La situazione jugoslava si rivelò però più complessa del mero scontro fra occupati e occupanti. La crisi seguita alla violenta dissoluzione dello Stato jugoslavo gettò infatti sanguinosamente l’una contro l’altra le diverse componenti etniche e politiche del Paese balcanico e ciò che ne seguì, oltre a una guerra di liberazione contro gli invasori italiani e tedeschi, fu una spaventosa guerra civile che vide come protagonisti, insieme al movimento partigiano progressivamente egemonizzato dai comunisti, ustaša croati, četnici serbi e domobrani sloveni. In ogni caso, a partire soprattutto dal 1942 (ma già nel 1941 la rivolta in Montenegro aveva fatto temporaneamente perdere agli italiani il controllo della regione),7 l’erompere della guerriglia partigiana innescò una rincorsa di azioni belliche, rappresaglie e ritorsioni che coinvolse in misura massiccia la popolazione civile. Per far fronte alla situazione, le autorità militari italiane condussero infatti una serie di cicli operativi che provocarono ampie distruzioni materiali e provocarono perdite assai elevate tra militari, partigiani e civili. Nel corso della lotta inoltre entrambi i contendenti compirono in numerose occasioni atti di estrema brutalità, che alimentarono e diffusero ovunque un clima di odio e di terrore. Nell’area di confine della Venezia Giulia, per esempio, vanno ricordati l’eccidio da parte italiana di una trentina di abitanti di piccoli villaggi presso Prem, nella zona di Villa del Nevoso, e la fucilazione per rappresaglia di un centinaio di abitanti del villaggio di Podhum, presso Fiume, per ordine del prefetto Testa.8 Il tentativo italiano di riprendere il controllo militare e politico passò anche attraverso la formazione di bande volontarie costituite da elementi slavi anticomunisti – che nella
provincia di Lubiana ottennero un discreto successo – e soprattutto attraverso la deportazione di nuclei consistenti di popolazione civile residente nelle zone a più alta densità partigiana, che si temeva potesse offrire appoggio ai «ribelli». Quest’ultimo provvedimento comportò la creazione in Italia di numerosi campi di internamento, nei quali vennero recluse più di 30.000 persone: i principali furono quelli di Gonars e dell’isola di Arbe, dove molti prigionieri morirono di stenti. Secondo alcuni autori, la mortalità media del campo di Arbe sembra sia stata superiore a quella del lager di Dachau.9 Dai territori annessi la guerriglia partigiana non tardò molto a debordare nel Carso, nelle valli dell’Isonzo e del Vipacco e nell’entroterra fiumano, trovando appoggio da parte della popolazione slava locale. Così, già a partire dalla seconda metà del 1942 le azioni partigiane avevano massicciamente investito la provincia di Fiume, ampliata dopo il 1941 con territori ex jugoslavi, mentre nel Goriziano le operazioni antiguerriglia non erano riuscite a bloccare lo sviluppo del ribellismo. Agli inizi del 1943 il questore fu costretto a riconoscere che «il pericolo comunista sovrasta purtroppo questa delicata provincia di confine», sottolineando come l’incremento dell’attività partigiana determinasse la fuga degli elementi italiani insediatisi fra le due guerre in alcune località rurali del territorio.10 Altrettanto intensa era l’attività partigiana nella provincia di Trieste, anche se sino alla fine del 1942 gli abitanti del capoluogo non ne erano stati particolarmente toccati. Tra il gennaio e il febbraio del 1943, dopo una serie di scontri a fuoco alla periferia della città, la decisione di sospendere l’oscuramento per far fronte alla crisi dell’ordine pubblico rivelò in pieno l’allarme delle autorità, suscitando ulteriore disorientamento fra i cittadini.11 La gravità della minaccia indusse le autorità a costituire speciali corpi anti-guerriglia, come l’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, che – come spesso e purtroppo accade in casi del genere – combinò una notevole efficacia nell’individuazione dei nuclei di «ribelli» a un largo ricorso ai maltrattamenti e alle torture nei confronti dei sospetti. Le scelleratezze compiute dai membri dell’Ispettorato speciale vennero invano denunciate dal vescovo di Trieste, monsignor Santin, e dopo l’8 settembre 1943 tale corpo «scelto» di polizia, meglio conosciuto come «banda Collotti»,
avrebbe proseguito la sua attività agli ordini dei tedeschi, perseguitando i resistenti italiani e slavi.12
L’Istria e le origini del movimento di liberazione croato Agli inizi del 1943 dunque, la Venezia Giulia costituiva l’unica regione d’Italia in cui, già prima dello sbarco alleato in Sicilia, le autorità avessero perduto il controllo del territorio, anche se la presenza dei ribelli e la percezione della minaccia partigiana risultavano piuttosto diversificate. A differenza infatti delle province di Trieste, Gorizia e Fiume, in Istria le caratteristiche del territorio, il reticolo viario relativamente fitto, la presenza di numerosi presidi e accantonamenti militari e l’intensa vigilanza di polizia non favorirono prima dell’8 settembre 1943 né la costituzione di formazioni partigiane locali, né l’afflusso di unità dalla Croazia. Consapevole di tali limiti, la dirigenza del partito comunista croato preferì puntare sulla costituzione di una fitta trama clandestina dedita principalmente alla propaganda politica, al proselitismo, alla raccolta di informazioni e di rifornimenti da inviare alle formazioni partigiane operanti in Croazia e, più tardi, al reclutamento di giovani da trasferire anch’essi in luoghi più sicuri. La minaccia recata al dominio italiano del territorio fu quindi a lungo assai modesta, mentre ben più rilevanti, sul lungo periodo, furono le conseguenze politiche del lavoro di preparazione condotto a partire dalla fine del 1941. Il motore dell’attività cospirativa fu infatti costituito da un nucleo di attivisti inviati in Istria da parte dei vertici del partito comunista croato e scelti in quanto loro stessi, o le loro famiglie, erano originari della penisola istriana, che avevano abbandonato a seguito dell’annessione all’Italia.13 Questo consentì loro di inserirsi con naturalezza nelle pieghe della società contadina croata dell’Istria, sfruttando adeguatamente il risentimento nazionale che la repressione fascista non aveva certo potuto cancellare con la facilità con cui ne impediva la pubblica manifestazione.
Il fatto politico centrale della costruzione del movimento clandestino in Istria fu perciò costituito dall’incontro tra i «rivoluzionari di professione» e i narodnjaki, vale a dire gli esponenti del nazionalismo tradizionale croato. I primi offrirono ai nazionalisti una prospettiva di lotta che, assai dubbia nel periodo immediatamente successivo alla dissoluzione della Jugoslavia sotto l’attacco dell’Asse, prese poi sempre più corpo, in parallelo all’affermarsi del movimento partigiano di Tito e alla progressiva crisi bellica dell’Italia. I narodnjaki misero a disposizione dei cospiratori comunisti una rete di relazioni e di protezione indispensabile per qualsiasi tipo di azione e, dato forse anche più importante, legittimarono il loro operato inserendolo nel solco delle rivendicazioni nazionali dei croati contro gli italiani. Il movimento clandestino assunse quindi fin dalle sue origini caratteri marcatamente «risorgimentali» in senso croato; fu su tale base che ottenne crescenti adesioni tra la popolazione e in tale clima politico si formarono i suoi quadri. Non stupisce perciò che questi aspetti fondanti dell’organizzazione politica destinata ad assumere il potere in Istria abbiano avuto riflessi di grande rilievo sia sugli sviluppi della lotta partigiana sia, ancora più in là, sui rapporti che si sarebbero instaurati fra le autorità del nuovo Stato jugoslavo nato dalla lotta di liberazione e le diverse componenti nazionali presenti nella penisola. Tanto per intenderci, da parte dei quadri comunisti croati dell’Istria la costruzione del socialismo sarebbe equivalsa alla distruzione delle basi materiali della storica prevalenza degli italiani, mentre la lotta per la conquista del potere e l’edificazione della società socialista avrebbe assunto i connotati di una conquista delle città da parte della campagna. Di tale intenso lavorio e soprattutto del clima che respirava la popolazione croata dell’Istria, le autorità italiane ebbero una percezione limitata. Per un verso infatti alcune riuscite operazioni di polizia inflissero duri colpi all’organizzazione clandestina, per l’altro l’assenza di agguerrite formazioni partigiane non innescò in Istria una spirale di violenze simile a quella che si stava accendendo nei territori contermini. Che qualcosa si stesse muovendo nella società locale sembrava dunque probabile, ma le valutazioni sull’effettiva portata delle attività cospirative apparivano contraddittorie. Così, nel
gennaio del 1943 il prefetto di Pola dipingeva un quadro a tinte assai fosche della situazione, dal quale emergeva come i ribelli avessero «mano libera in vaste zone del territorio della provincia» al punto da mettere seriamente a repentaglio le comunicazioni con l’interno della penisola.14 Si trattava probabilmente di un giudizio troppo allarmistico, considerata l’effettiva capacità di azione sviluppata in quei mesi dal movimento clandestino, quasi completamente privo di armi e non impegnato in attività militari. Anche l’unica formazione combattente costituita nella primavera del 1942 nelle zone più impervie del Monte Maggiore, la cosiddetta «Prima compagnia partigiana istriana», i cui effettivi non avevano mai raggiunto le venti unità, era stata dispersa senza troppi problemi già agli inizi di dicembre del medesimo anno. Assai più ottimista era invece la valutazione della locale questura, che ancora nel giugno del 1943 riteneva di avere il pieno controllo della situazione, sia per l’efficacia delle misure repressive adottate, sia per un supposto scarso radicamento del movimento partigiano in Istria, che faceva temere soltanto eventuali incursioni delle unità ribelli attive nella vicina provincia di Fiume. Segnali tranquillizzanti venivano anche dai podestà dell’Istria interna, che fino al luglio del 1943 non rilevavano particolari circostanze di pericolo. 15 In ogni caso, dalla minaccia incombente dello slavismo tentò di trarre profitto il fascismo morente: lo si vide bene nella campagna di stampa e nelle manifestazioni organizzate un po’ dovunque in Istria nel mese di giugno in risposta a una presunta dichiarazione dell’ex ministro degli Esteri sovietico, Litvinov, prefigurante l’annessione dell’intera Venezia Giulia a una futura Jugoslavia socialista.16 Ma le possibilità di utilizzare il «pericolo slavobolscevico» per un «serrate le fila» dell’ultima ora attorno al regime erano ormai nulle, e il 25 luglio il fascismo venne messo da parte, qui come nel resto d’Italia, senza che ciò suscitasse alcuna reazione. Il problema della difesa dell’italianità però rimase, e divenne anzi uno dei nodi cruciali della competizione politica negli anni seguenti. Se infatti ovunque in Italia il crollo del regime, al di là dell’immediata e spontanea soddisfazione per la fine della dittatura, fu seguito da un periodo di grande disorientamento, alla frontiera orientale la crisi assunse anche un’altra dimensione, dal momento che la scomparsa del fascismo
privò di riferimento immediato tutte quelle realtà che percepivano come prioritaria la difesa dell’identità nazionale. Non si trattava soltanto di piccoli gruppi di potere e di segmenti di classe dirigente, ma di gran parte della popolazione di lingua italiana residente nelle aree rivendicate da parte slovena e croata. Di conseguenza tutta la lunga fase successiva al 25 luglio e, più ancora, all’8 settembre, venne attraversata dalla ricerca di un nuovo punto di riferimento, di un nuovo difensore di un’identità nazionale italiana che si vedeva pericolosamente esposta a una minaccia mortale. Dopo il 25 luglio comunque, in Istria il flusso dei giovani croati desiderosi di raggiungere l’esercito popolare di liberazione passando per la via del Monte Maggiore si fece così intenso da mettere in serie difficoltà le strutture organizzative del movimento clandestino istriano. La sua direzione politica decise di avviare una serie di iniziative militari, nonostante fossero rimasti senza risposta gli appelli rivolti al comitato centrale del partito comunista croato affinché inviasse nella regione armi e nuclei partigiani già strutturati.17 Nel corso dell’estate si registrarono così alcuni episodi di sabotaggio su larga scala – interruzioni stradali e ferroviarie, abbattimento di pali telegrafici – che avrebbero dovuto costituire un campanello d’allarme per il rapido deteriorarsi dell’ordine pubblico. Tuttavia, il generale disorientamento delle istituzioni dopo la caduta del fascismo e la consolidata convinzione che non fosse da considerare ad alto rischio una realtà istriana rimasta sostanzialmente ai margini dell’attività partigiana, sembra abbiano impedito il diffondersi, tra le autorità come fra la popolazione italiana, del sentore di un’emergenza incombente. Entrambe quindi – autorità e popolazione italiana – vennero colte completamente di sorpresa, all’indomani dell’8 settembre, sia dalla capacità del movimento clandestino di assumere rapidamente il controllo del territorio, che dalla carica di violenza sprigionatasi nel corso dell’operazione. Una violenza che agli occhi degli italiani appariva inspiegabile, data la mancanza di quei precedenti, fatti di sanguinosi episodi di guerriglia e di ancor più sanguinose rappresaglie, che avevano già elevato al massimo grado la tensione negli altri territori del regno in cui vivevano sloveni e croati.
L’8 settembre La stagione inopinatamente apertasi con l’armistizio rappresentò dunque per gli italiani un brusco risveglio sulla realtà dei rapporti fra i gruppi nazionali in Istria, in quanto nelle settimane successive all’8 settembre si intrecciarono nella regione due ordini di avvenimenti che avrebbero influito in maniera rilevante sulla sorte della penisola: i proclami di annessione alla Jugoslavia e un’ondata di violenze a danno degli italiani. Quelli più densi di significato si collocano senz’altro sul versante politico-istituzionale e sono rappresentati dai proclami di annessione dell’Istria alla Croazia approvati a Pisino dal CPL dell’Istria il 13 settembre e dalla Dieta istriana il 25 settembre, ribaditi a Otocac dallo ZAVNOH (Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia) il 20 settembre e fatti propri a Jajce dall’AVNOJ (Consiglio antifascista popolare di liberazione della Jugoslavia) il 30 novembre 1943. Parallelamente, ad Aidussina, non lontano da Gorizia, un’altra assemblea popolare proclamò l’annessione del Litorale sloveno alla Slovenia. Tali proclami non facevano riferimento a specifiche linee di confine, in modo da offrire ai rappresentanti del fronte di liberazione sufficienti margini tattici nell’eventualità di future trattative, e quindi qualche dubbio sulle intenzioni dei loro estensori poteva sussistere non tanto per l’Istria, quanto per la collocazione dei confini occidentali dei territori da annettere alla Slovenia. Negli anni precedenti tuttavia, l’OF (Fronte di liberazione) aveva elaborato con sufficiente chiarezza il proprio programma annessionista e ne aveva fatto la base per la ricerca di consenso presso l’opinione pubblica slovena. Già in occasione del processo Tomazic, nel dicembre del 1941, l’OF aveva diffuso un manifesto nel quale si leggeva «Evviva la Slovenia libera e indipendente, con Trieste, Gorizia, Celje, Maribor e Murska Sobota»,18 e nel medesimo periodo venne istituita una commissione scientifica che fece immediatamente proprio il concetto di «territorio etnico», elaborato dal movimento nazionale sloveno nella seconda metà dell’Ottocento. Coerentemente con un’ideologia di stampo etnicista e ruralista, il «territorio etnico» veniva identificato con l’area abitata da popolazione rurale slovena ed esteso fino a
dove essa non venisse del tutto soppiantata da insediamenti compatti di popolazione austro-tedesca, italiana, friulana, croata o magiara. Riproponendo una metafora diffusissima in tutta l’Europa centrale, in cui spesso città e campagna erano abitate da etnie diverse, gli alfieri del movimento nazionale sloveno avevano definito i centri urbani italiani presenti sul «territorio etnico» slavo, come «isole nel mare», destinate fatalmente a venire sommerse. Gli intellettuali mobilitati dall’OF si affrettarono ad appropriarsi dell’immagine, sottolineando che anche Trieste, nonostante la sua alta concentrazione di popolazione italiana, avrebbe dovuto seguire le sorti della circostante campagna, abitata compattamente, anche se in maniera assai rada, da contadini sloveni. La categoria del «confine etnico» era però estranea alla cultura politica italiana, e questo negli anni successivi avrebbe favorito non pochi equivoci a discapito della chiarezza nelle trattative tra i due movimenti di liberazione. Nelle loro discussioni con i rappresentanti dell’OF per esempio, gli esponenti della Resistenza italiana – comunista e non – sarebbero partiti dal convincimento che nella Venezia Giulia era possibile distinguere alcuni territori in cui il popolamento era compattamente slavo da altri a indiscutibile prevalenza italiana, mentre solo alcune aree potevano venir considerate miste. Troppo tardi si sarebbero accorti che, secondo i loro interlocutori, di insediamenti compatti italiani a est dell’Isonzo non ce n’era invece nessuno, e che i territori misti, la cui sorte bisognava negoziare, erano proprio le città italiane della costa istriana, a cominciare da Trieste. Anche sulla natura dei proclami di annessione dell’autunno 1943 vi fu all’epoca qualche fraintendimento, che talvolta si è riflesso in sede di analisi storica. È bene perciò chiarire che – nell’ottica dei partigiani sloveni e croati – non si trattò soltanto dell’espressione, per quanto solenne, di un pacchetto di rivendicazioni da conquistare con la lotta militare e politica, ma di effettivi provvedimenti di legge emanati dall’unico organo cui gli aderenti al movimento di liberazione jugoslavo riconoscevano autorità, l’AVNOJ appunto. Con tali decreti quindi, l’annessione non rappresentava un obiettivo, bensì una realtà già in atto da difendere con le armi e la diplomazia, e che in Istria, a Fiume e nel Litorale sloveno identificava negli organi creati dal
medesimo movimento di liberazione gli unici legittimi detentori del potere. Proprio a partire da tale fatto compiuto va letta anche la complessa pagina dei rapporti tra il movimento di liberazione jugoslavo e quello italiano nei territori che le autorità popolari e i partiti comunisti sloveno e croato consideravano già appartenenti al nuovo Stato jugoslavo, che si stava creando attraverso la lotta partigiana. L’esplorazione puntuale di tale nodo esula dai limiti del nostro discorso, ma è essenziale tenerne presente i fondamenti per capire la continuità della strategia sviluppata dal movimento popolare di liberazione. Coerentemente con le sue premesse, essa prevedeva per l’Istria «la sostituzione del partito comunista croato a quello italiano come struttura di riferimento per i militanti istriani e il passaggio delle unità partigiane italiane che vennero via via costituite, sotto il comando dell’esercito di liberazione jugoslavo»19 e per il Litorale sloveno l’assunzione dell’egemonia sul PCI e le formazioni militari da esso dipendenti. È stato ormai sufficientemente appurato dalla storiografia che tale linea non escludeva arretramenti tattici in funzione dei rapporti di forza esistenti sul territorio e, soprattutto, dell’esigenza di riconoscimento internazionale del movimento guidato da Tito. Ma appunto solo di questo si trattava, ché l’obiettivo di fondo rimase sempre quello del consolidamento dell’annessione, che venne perseguito agendo su due piani. Il primo era quello del controllo del territorio e, ancor più importante, delle forze che al suo interno si battevano contro i nazifascisti. Al potere tedesco – feroce ma votato prima o poi all’estinzione – doveva infatti opporsi un solo contropotere, creato attraverso la mobilitazione e la lotta da parte del movimento di liberazione sloveno e croato. A esso potevano associarsi gli elementi antifascisti italiani, la cui collaborazione venne cercata e sollecitata, purché accettassero il ruolo di comprimari privi di qualsiasi autonomia. L’altro piano era quello diplomatico, volto a ottenere il riconoscimento internazionale delle decisioni dell’AVNOJ prima della conclusione del conflitto. Attorno a tale nodo ruotò per esempio il negoziato condotto nella primavera-estate del 1944 dai rappresentanti del fronte di liberazione sloveno con i vertici della Resistenza italiana, in una fase in cui l’andamento delle operazioni
belliche e le indicazioni di Mosca suggerivano di trovare un modus vivendi con le organizzazioni resistenziali italiane presenti nelle zone occidentali della Venezia Giulia in cui operava l’OF. Significativamente invece, nella maggior parte dell’Istria, dove gli italiani non riuscirono più a creare proprie strutture clandestine, il problema della mobilitazione controllata e del consenso politico delle masse italiane venne risolto con molta semplicità, inglobando le strutture politiche e militari comuniste di lingua italiana all’interno di quelle croate. Dal negoziato dunque, che di fatto avrebbe riguardato solo Trieste e le cittadine costiere limitrofe, i vertici dell’OF si attendevano un assenso, quantomeno di principio, alle deliberazioni dell’AVNOJ, che permettesse di superarne il carattere di unilateralità confermandone la sostanza senza rinviare tutta la materia al dopoguerra, vale a dire alle incognite di una conferenza di pace. La dirigenza jugoslava temeva infatti che in quella sede l’Italia, interlocutore scomparso dopo l’armistizio, avrebbe potuto rimontare lo svantaggio e magari ottenere il ricorso a procedure di consultazione popolare con monitoraggio internazionale, come per esempio un plebiscito, che non rientravano affatto nella prassi rivoluzionaria. Anzi, strumenti del genere potevano rivelarsi incontrollabili per i poteri popolari e aprire per giunta qualche sgradito spiraglio a interferenze estranee alla situazione jugoslava. La leadership comunista jugoslava non aveva evidentemente alcuna intenzione di mettere a rischio i risultati ottenuti sul campo subordinandoli a patteggiamenti con poteri forti non tanto interni – ché ogni possibile alternativa alla sua egemonia era stata drasticamente eliminata nel corso della guerra – quanto esterni, vale a dire le grandi potenze, in particolare la Gran Bretagna. Tale risultato fondamentale venne raggiunto, nell’estate del 1944, con la sanzione britannica e sovietica del ruolo conquistato da Tito sulla scena politica jugoslava. Perse così importanza l’esigenza di un accordo con gli italiani che, per reggersi, avrebbe dovuto comportare quantomeno una sospensione dell’applicabilità dei decreti di annessione. Una simile tattica compromissoria a partire dalla tarda estate del 1944 cominciò ad apparire non solo inutile, ma
controproducente, e venne pertanto sostituita dalla ricerca esplicita del «fatto compiuto».
Le foibe istriane La valenza politica dei proclami di Pisino è rimasta in qualche modo oscurata dall’estrema visibilità degli altri avvenimenti prodottisi in Istria all’indomani dell’armistizio, e generalmente conosciuti con il nome di foibe istriane.20 Di questa dolorosa pagina di storia, ciò che importa ai fini del nostro ragionamento non è tanto la ricostruzione di una sequenza di eventi, invero piuttosto confusi, quanto l’individuazione delle logiche che sottostavano a un’esplosione di violenza che in poche settimane fece tra le 500 e le 700 vittime, e soprattutto delle conseguenze che la crisi dell’autunno del 1943 sventagliò per più di un decennio. Affrontare il nodo delle foibe istriane significa quindi parlare sia di progetti che di percezioni, non necessariamente coincidenti, con l’avvertenza che le seconde furono decisamente più importanti dei primi. Quanto ai progetti, c’è chi nega che mai ve ne siano stati. Così, fin dall’estate del 1944 il rappresentante dell’OF presso il CLNAI (Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia), Anton Vratuša, affermava ufficialmente che «le singole irregolarità verificatesi nei giorni del settembre 1943 [...] sono fenomeni marginali, dovuti in maggioranza a singoli elementi locali irresponsabili, venuti nelle file dell’OF nei giorni dopo il crollo dell’esercito italiano». 21 Giudizi assai simili furono in seguito più volte ripresi in tono giustificazionista da parte della storiografia jugoslava. Il carattere spontaneo e reattivo degli episodi di sangue, frutto dell’esasperazione della popolazione slava per l’oppressione fascista, ha costituito inoltre la chiave di lettura preferita da molti storici italiani, pur fermi nella condanna agli eccessi cui gli insorti si abbandonarono e propensi a imputarli al particolare legame – di cui si è già detto – tra il movimento di liberazione e gli elementi nazionalisti croati, pronti a cogliere l’occasione offerta dal dissolversi dell’apparato statale italiano per una tragica «resa dei conti» con il gruppo nazionale storicamente dominante in Istria. Valutazioni di tal fatta appaiono tipiche della
storiografia degli anni Settanta-Ottanta, ma anche in tempi più recenti, e pur all’interno di una complessiva rivisitazione di quegli assunti ormai canonici, i fatti dell’autunno 1943 sono stati volentieri liquidati come frutto di un «ribellismo, di una pressione a lungo accumulata che trova rapidamente una via di sfogo», senza che in essi sembri possibile individuare una «sostanza politica» o le tracce di un qualsivoglia progetto.22 In questo modo, a venir posto in luce è stato soprattutto il nesso esistente tra la foga insurrezionale e la precedente oppressione, nazionale e sociale, subita dalla popolazione slava dell’Istria, ben testimoniato dal fatto che a cadere furono in primo luogo le figure simbolo vuoi del partito, vuoi dello Stato, due entità che la prassi fascista aveva reso fra loro indistinguibili. Venne perciò colpito un ampio ventaglio di bersagli, che andava dai dirigenti del PNF, dai carabinieri e dalle guardie campestri, dai podestà e dai segretari comunali, fino ai maestri, ai farmacisti, ai postini. Altrettanto significativo è apparso il contesto di rivolta contadina in cui vanno inseriti le aggressioni contro i possidenti italiani, l’incendio dei catasti e anche alcuni degli episodi più foschi del periodo, come le violenze a ragazze italiane, seguite dalla loro uccisione.23 Parallelamente, in alcune aree come quella dell’Albonese, in cui fin dagli anni Venti la conflittualità sociale era stata particolarmente elevata – nel 1921 si tentò addirittura di costituirvi una repubblica ispirata a quella dei soviet –24 più visibili risultano i connotati di lotta di classe presenti nella rivolta, anche se, a dire il vero, proprio nel bacino minerario dell’Arsa alcuni operai vennero uccisi solo perché si trattava di sardi trasferiti in Istria dalle miniere di Carbonia. All’interno di tale modello di spiegazione si inseriscono senza particolari difficoltà molti episodi politicamente meno significativi, che pure si registrarono in quei giorni, e che appaiono maggiormente legati a rivalse individuali e ai conflitti d’interesse presenti nella società rurale istriana. Quello che invece suscita oggi qualche perplessità in sede interpretativa è il fatto che l’insistenza sulla spontaneità dell’insurrezione, e delle violenze che ne furono il portato, lascia in ombra alcuni aspetti che puntano in un’altra direzione. Non è infatti da credere – come lascerebbe intendere l’immagine della jacquerie, tante volte evocata – che la
maggioranza delle vittime sia stata trucidata nel corso della lotta per la conquista del dominio militare e politico del territorio istriano: dato infatti lo scompaginamento delle istituzioni italiane, il passaggio dei poteri era avvenuto quasi senza incontrare resistenza. Vero è invece che le autorità popolari appena costituite diedero l’avvio a una serie di arresti a tappeto, provvidero al concentramento dei prigionieri in alcune località specifiche – in primo luogo Pisino – ove venne costituito un tribunale rivoluzionario, celebrarono processi sommari ed eseguirono gran parte delle uccisioni di massa. Elementi di organizzazione, potremmo dire di centralizzazione della violenza, sono dunque facilmente individuabili, anche se è innegabile il clima di generale confusione, organizzativa e politica, che segnò gli avvenimenti del settembre-ottobre 1943, rendendo spesso assai labili i confini tra scontro politico e contesa privata, tra mobilitazione antifascista e aggressività nazionalista. Maggior importanza, sul piano interpretativo, va attribuita alle indicazioni provenienti dalle fonti croate, che spiegano con una certa chiarezza come uno dei compiti prioritari affidati ai nuovi poteri in Istria fosse proprio quello di ripulire il territorio dai nemici del popolo. Tale dizione rinvia immediatamente all’esempio rivoluzionario sovietico, proprio come al modello delle purghe staliniane rimanda la formula prescelta per la repressione, articolata sulla combinazione di campi di lavoro – che non si fece in tempo a realizzare – e sulla pena capitale, che venne invece comminata con larghezza.25 Com’è noto, nell’esperienza resistenziale jugoslava la voluta indeterminatezza della categoria di nemici del popolo si prestava a comprendere fra gli avversari da eliminare tutti coloro che non collaboravano attivamente al movimento di liberazione. È evidente perciò che, fondato su tali premesse, lo spettro della repressione in Istria poteva dilatarsi a piacimento, e si spianava strutturalmente la strada a ogni sorta di abusi e deviazioni. In questo contesto di radicalismo estremo, la decisione di eliminare tutti i prigionieri in attesa di giudizio – assunta dalle autorità popolari ai primi di ottobre di fronte a una poderosa offensiva tedesca volta a recuperare il pieno controllo della regione – si collocava a cavallo tra la volontà di condurre una guerra a oltranza, senza spazio per la pietà, e la criminalità politica.
Il quadro che si offre all’analisi storica è dunque decisamente articolato, perché nei fatti dell’autunno del 1943 sembrano intrecciarsi più logiche: giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e faide paesane, oltre a un disegno di sradicamento del potere italiano – attraverso la decimazione e l’intimidazione della classe dirigente – come precondizione per spianare la via a un contropotere partigiano che si presentasse in primo luogo come vendicatore dei torti, individuali e storici, subiti dai croati dell’Istria. Assai più semplice e univoca fu invece la percezione degli eventi da parte della popolazione italiana. Le fonti della memoria ce ne restituiscono con grande efficacia la sorpresa e lo stupore – oltre che, evidentemente, il terrore. Sorpresa per la rivolta in un’area che, come abbiamo visto, le autorità avevano giudicato poco esposta al pericolo partigiano; stupore e terrore per la ferocia dimostrata dagli insorti, che mandava in pezzi l’immagine patriarcale dei contadini slavi sottomessi e innocui.26 Simbolo eloquente del ribaltamento di valori tipico di un’emergenza rivoluzionaria è in queste testimonianze il mutamento di ruolo delle donne: non più dispensatrici, secondo le abitudini, di uova, latte e carezze ai bimbi italiani, ma le più scatenate nell’aizzare gli insorti al linciaggio e alla tortura dei possidenti italiani e dei loro familiari. Soprattutto nell’entroterra istriano dunque, la crisi politica innescata dall’armistizio assunse connotati più profondi, perché – come è stato ben colto dalle ricerche più recenti –27 la situazione determinatasi fra il settembre e l’ottobre del ’43 appariva agli italiani come una sorta di «mondo alla rovescia», in cui tutto diveniva angosciosamente possibile. Così, lo spazio politico delle cittadine italiane poteva essere invaso dagli abitanti della campagna slava, che con le loro insegne varcavano trionfanti quelle mura che fino ad allora erano state simbolo tangibile di distinzione e superiorità del centro urbano rispetto al contado, e con i loro balli in piazza marcavano il territorio conquistato. Così, chi era stato superiore e rispettato poteva, da un momento all’altro, venir gettato nel fondo di un abisso carsico, e perdersi per sempre, lasciando ai sopravvissuti solo interrogativi senza risposta e ricerche senza fine.
Il trauma di quelle settimane si fissò nella memoria collettiva accanto alla sua spiegazione più semplice: gli slavi uccidevano gli italiani, non appena ne avevano la possibilità. La forza di tale lettura dei fatti venne moltiplicata nel tempo non solo dall’uso propagandistico che le autorità della RSI fecero delle foibe istriane, ma anche dalle infinite brutalità del biennio 1943-45, segnato dal duro scontro fra partigiani – croati, ma anche italiani – e nazifascisti, che contribuirono a consolidare una generale percezione di sbandamento e di precarietà dell’esistenza. Non deve stupire perciò che l’esito ultimo di un simile processo di sedimentazione della paura – proseguito senza soluzione di continuità nello stillicidio di intimidazioni, scomparse e uccisioni che punteggiò il lungo dopoguerra istriano – sia stato una sorta di condensazione della memoria, che ha concentrato episodi lontani fra loro anche una decina d’anni, picchi di violenza di massa e routine d’insofferenza e terrore, nell’immagine di un unico disegno volto a distruggere materialmente l’italianità giuliana. Un’immagine del genere è oggi difficilmente proponibile in sede di ricostruzione critica, ma rappresenta un dato storico rilevante, perché tale percezione influì in misura considerevole sui giudizi e sulle scelte compiute dagli italiani tra la metà degli anni Quaranta e quella degli anni Cinquanta. Infatti, anche se la storiografia ha talvolta stretto troppo il nesso tra foibe ed Esodo, lasciando in ombra – come vedremo – dimensioni diverse e più profonde rispetto a quella della paura, sembra legittimo vedere nell’autunno del ’43 l’inizio di un processo di dissoluzione degli assetti e della capacità di reazione delle comunità italiane dell’Istria, al termine del quale si colloca la realtà dell’Esodo.
La distruzione di Zara e i primi profughi Le vicende del settembre-ottobre 1943, oltre a influire negativamente sulla partecipazione degli istriani di sentimenti italiani alla Resistenza, generarono il timore che una nuova occupazione jugoslava della regione avrebbe provocato il ripetersi di violenze su larga scala a danno degli italiani. Preoccupazioni di tal fatta vennero naturalmente amplificate dalla propaganda della RSI, ma trovarono
ampio ascolto anche presso il governo del Sud, tanto che il ministero degli Esteri pose proprio la necessità di evitare un prevedibile bagno di sangue alla base di molte delle istanze rivolte agli anglo-americani affinché occupassero, nella fase finale della guerra, tutta l’area giuliana.28 Nel frattempo, a Trieste e in altre località del Nord Italia cominciavano ad affluire i primi esuli. La maggior parte di essi proveniva dalla Dalmazia, sia dalla zona annessa nel 1941, sia dall’unica città incorporata nel regno d’Italia dopo la Prima guerra mondiale, Zara. Si trattava soprattutto di pubblici dipendenti inviati nelle località annesse dopo lo smembramento della Jugoslavia, che dopo l’instaurazione del potere ustaša si erano trovati del tutto privi di mezzi di sussistenza: dopo lunghe peripezie la maggior parte di loro riuscì a raggiungere Pola e Trieste via mare.29 Quanto a Zara, la sua vicenda fu completamente diversa. Anche se le partenze dalla città dalmata cominciarono già nel 1942 – per la prossimità del fronte partigiano che determinò una psicosi di paura e fuga –, la spinta principale venne dai bombardamenti aerei alleati. Fra il 2 novembre 1943 e il 31 ottobre 1944, cinquantaquattro incursioni colpirono la città, uccidendo circa 2000 dei suoi 22.000 abitanti.30 Particolarmente disastrosi furono i bombardamenti del 2 e del 28 novembre, che colsero gli zaratini completamente di sorpresa e provocarono centinaia di vittime. Gli attacchi successivi furono meno sanguinosi, perché ormai il centro storico era stato largamente sgomberato, ma non meno devastanti: il 20 dicembre, secondo valutazioni della prefettura, il 40 per cento delle abitazioni era stato ridotto in macerie, e delle rimanenti il 90 per cento era inagibile. Le incursioni proseguirono anche nei mesi successivi, ma Zara era una città fantasma. Come scrisse un sacerdote locale, don Giovanni Lovrovich, a proposito del bombardamento del 23 febbraio 1945: «Sono ritornati verso mezzodì i bombardieri a uccidere un corpo morto, questa mia povera città [...] sono tornati a smuovere le macerie».31 Dopo i primi attacchi la popolazione si era riversata nelle campagne, poi cominciò a sfollare a Venezia e Trieste. Il 24 maggio 1944, il comando di piazza tedesco, temendo un possibile sbarco alleato, diramò l’ordine di evacuazione della città, riguardante un migliaio di persone che ancora cercavano di sopravvivere tra le
rovine del centro abitato. Alla fine del mese tuttavia, anche l’ultimo piroscafo che assicurava i collegamenti tra la città dalmata e il capoluogo giuliano venne affondato al largo di Lussinpiccolo, e abbandonare Zara divenne difficilissimo. La maggior parte degli zaratini che non erano riusciti a raggiungere l’Italia e avevano trovato precario rifugio nei dintorni, abbandonò ciò che restava della città dopo l’ingresso delle truppe jugoslave nell’autunno del 1944, mentre i pochi rimasti, passati attraverso le violenze che accompagnarono la presa del potere jugoslava, avrebbero incontrato il divieto di lasciare Zara posto dalle nuove autorità e sarebbero riusciti a esodare con grande difficoltà solo alcuni anni dopo. Il principale interrogativo sollevato dalla vicenda di Zara riguarda le ragioni dell’accanimento dei bombardieri alleati, dal momento che non risulta chiara la logica militare sottesa alla loro azione, anche se ipotesi più recenti suggeriscono di collocarla all’interno delle iniziative di «diversione strategica» attraverso le quali gli Alleati cercavano di ingannare i tedeschi circa le loro autentiche intenzioni.32 Già durante la guerra quindi e nei mesi successivi, fra gli italiani si diffuse la convinzione – poi consolidatasi negli ambienti degli esuli dalmati – che i bombardamenti fossero stati sollecitati dal movimento di liberazione jugoslavo al fine di distruggere il principale insediamento italiano della costa dalmata.33 Se in merito alle sollecitazioni di parte jugoslava esiste una certa documentazione, assai meno chiari sono invece i loro effetti sul processo decisionale alleato, nella cui composizione intervennero verosimilmente anche altri motivi. La questione pertanto rimane in certa misura aperta. Nel corso del 1944 e nei primi mesi del 1945, il flusso di persone fu a due direzioni: a Trieste e in alcune località del Friuli giunsero anche alcuni nuclei di sfollati polesani, mentre dal resto dell’Istria entro la fine della guerra ad andarsene furono soprattutto gli esponenti più in vista del fascismo locale.34 Al riguardo si è parlato spesso di un «Esodo nero», iniziato subito dopo l’8 settembre, quando numerosi gerarchi ritennero prudente abbandonare l’Istria, troppo esposta al rischio partigiano slavo, ma il termine può risultare fuorviante, poiché evoca un fenomeno di grande portata che invece non vi fu. A porsi in salvo furono infatti soprattutto i caporioni dello squadrismo istriano, noti per la loro brutalità e il loro accanimento
antislavo, insieme ai federali, ai generali della RSI e ad altri elementi particolarmente esposti per i ruoli politico-istituzionali ricoperti personalmente o dai propri familiari all’interno del regime. Rimasero invece, in genere, i quadri inferiori del partito e dell’apparato repressivo fascista, come pure la maggior parte dei militari della RSI, la cui presenza nella zona di operazioni Litorale adriatico era stata autorizzata dai tedeschi: soggetti che sarebbero stati presi immediatamente di mira dalle rappresaglie jugoslave, scattate al momento dell’occupazione della Venezia Giulia.35 La fuga dei fascisti rimase comunque un fenomeno quantitativamente circoscritto e facilmente inquadrabile nelle sue motivazioni. Complessivamente, nonostante i diffusi timori di cui si è detto, nella primavera del 1945 l’avvicinarsi dell’esercito jugoslavo non suscitò nella popolazione italiana della regione reazioni simili a quelle prodottesi in altre situazioni che la storiografia italiana ha spesso accostato a quella giuliana – come quella della Prussia orientale, che vide i tedeschi in fuga davanti all’armata rossa e, ancor prima, quella degli insediamenti greci lungo la costa anatolica, abbandonati nel 1922 per l’incombere delle truppe di Mustafa Kemal.36 Dai territori giuliani non si registrò infatti alcun esodo preventivo di grandi dimensioni, e ciò per una concomitanza di motivi. Si trattava in primo luogo di ragioni pratiche, dal momento che nella zona di operazioni Litorale adriatico, direttamente amministrata dai tedeschi, non esisteva alcuna autorità intenzionata a gestire uno spostamento cospicuo di popolazioni, né capace di farlo, nelle ultime, convulse fasi del conflitto.37 Altrettanto importanti erano poi le ragioni politiche, di diversa natura. Per un verso, tanto i giuliani di sentimenti italiani quanto il governo di Roma, che ne condivideva le preoccupazioni, coltivarono fino alla fine la speranza che a liberare la regione fossero le forze armate anglo-americane e non quelle jugoslave. D’altra parte, anche nella popolazione italiana esisteva un nucleo, circoscritto ma significativo, che nell’esercito popolare di liberazione non vedeva affatto un pericolo, bensì il portatore di prospettive di libertà e di riscatto sociale fino a poco tempo prima impensabili. Infatti, anche se attraverso sentieri piuttosto tortuosi, nel corso degli ultimi due anni di guerra la maggior parte della classe
operaia giuliana di lingua italiana si era orientata in favore dell’annessione della regione alla Jugoslavia. Questo ovviamente non per motivazioni d’ordine nazionale ma, al contrario, internazionalista, in quanto il nuovo Stato creato da Tito appariva come il portatore di quella soluzione socialista che invece in Italia sembrava d’improbabile realizzazione, vista la presenza nella penisola di due armate anglo-americane. 38
La «svolta d’autunno» Un momento di svolta in tal senso si ebbe nell’autunno del 1944. Nel corso dell’estate, erano sembrate prossime alla soluzione le frizioni esistenti già da tempo tra le organizzazioni della Resistenza italiane e quelle slovene operanti nell’area giuliana. A monte dei reciproci malintesi stava una serie di diffidenze difficili da superare. Le componenti non comuniste dei CLN costituitisi a Trieste, a Gorizia e in alcune cittadine costiere del Golfo di Trieste non facevano mistero delle loro preoccupazioni in merito alle rivendicazioni territoriali espresse dall’OF e che riguardavano, come si è visto, l’intera Venezia Giulia. Da parte loro invece, gli esponenti dell’OF non riuscivano a scorgere una sostanziale differenza tra le posizioni degli antifascisti moderati italiani e quelle dei fascisti, posto che a proposito del nodo cruciale dei confini entrambi concordavano – seppur con contenuti assai diversi – sul mantenimento della sovranità italiana sulla regione. Una funzione ponte tra i due movimenti resistenziali era stata quindi svolta fino all’estate del 1944 dai comunisti italiani – gli unici a disporre di significative unità partigiane operanti nell’entroterra carsico e istriano – aperti alle richieste jugoslave di autodeterminazione, ma al contempo convinti della necessità di distinguere la sorte delle città italiane da quella dei territori compattamente slavi. Anche tra i gruppi dirigenti dei due partiti comunisti – a livello di base prevalevano in generale le solidarietà nate nella lotta – non mancavano però le divergenze di opinione, correntemente interpretate dalla storiografia italiana alla luce della polarità fra l’internazionalismo, distintivo del PCI, e il nazionalismo, che avrebbe
invece segnato pesantemente linea e comportamenti dei comunisti sloveni e croati. Speculare a questa è stata la lettura dei fatti offerta tradizionalmente dagli storici jugoslavi che, riprendendo i termini di un contrasto avviatosi fin dall’epoca resistenziale, hanno giudicato quale residuo di una mentalità nazionalista i dubbi inizialmente espressi da molti comunisti italiani nei confronti dell’annessione delle città italiane allo Stato socialista jugoslavo. Al di là degli schematismi, inaspriti dalle successive, accese polemiche tra cominformisti e sostenitori di Tito, possiamo oggi rilevare come all’interno del partito comunista italiano e di quello jugoslavo fossero operanti due diverse concezioni dell’internazionalismo, o meglio della strategia da seguire per la diffusione del socialismo in Europa. Per il PCI l’ancoraggio politico fondamentale rimase sempre costituito dalla «grande alleanza» antinazista, secondo una formula giudicata valida sia nella sua dimensione generale – la collaborazione tra le grandi potenze – che nella sua proiezione nazionale, rappresentata dall’intesa tra le forze del CLN. È ancora apertissimo fra gli storici il dibattito sugli autentici significati da attribuire a tale scelta, ma nonostante ciò Togliatti vi rimase fedele dalla svolta di Salerno fino al 1947. La costruzione di una salda egemonia sulle altre componenti resistenziali costituiva invece la strada battuta dai comunisti jugoslavi, secondo un indirizzo che si collegava alla visione fortemente antagonistica dei rapporti internazionali. Questo, fin dall’estate del 1944 individuava negli Stati Uniti il nemico da battere e rinviava esplicitamente a un orizzonte politico che – anticipando una linea che l’Unione Sovietica avrebbe assunto solo qualche anno più tardi – non era più quello della collaborazione tra le forze antifasciste, ma dello scontro tra blocchi contrapposti.39 Nell’ambito di tale linea, i risultati conseguiti nella vittoria sulla Germania nazista e i suoi alleati andavano sfruttati fino in fondo, anche in termini di vantaggi territoriali, a favore del mondo comunista, in modo da poterli spendere adeguatamente nel successivo, e inevitabile, scontro con il mondo imperialista. Concezioni così diverse non erano state certo elaborate nel mondo delle idee, bensì nel vissuto concreto delle esperienze storiche dei due movimenti. E l’interpretazione jugoslava dell’internazionalismo, con la sua sottolineatura del ruolo «oggettivamente» progressivo
della lotta dei popoli oppressi, si prestava ottimamente a esprimere sia le rivendicazioni nazionali che la volontà di potenza del nuovo Stato che stava sorgendo, con grandi ambizioni e grandi sofferenze, dalla lotta partigiana. Pur nella diversità delle situazioni tuttavia, la forza di suggestione del radicalismo jugoslavo, sorretta anche dai prestigiosi successi ottenuti dal movimento di liberazione contro i tedeschi, si rivelò assai intensa anche presso i quadri e i dirigenti comunisti italiani, al punto da condurli – almeno nelle zone di frontiera – a un drammatico cambiamento di linea. Tutto avvenne nel giro di pochi mesi. Fra il luglio e l’agosto del 1944, una serie di colloqui svoltisi a Milano tra il CLNAI e i delegati dell’OF sembrava aver condotto questi ultimi, pur senza ripudiare le rivendicazioni espresse fin dal 1941, a concordare sull’opportunità di rinviare al dopoguerra la discussione sui futuri confini e di concentrare invece ogni energia nella lotta comune contro i nazifascisti. Per la verità, gli accordi siglati il 4 settembre mantenevano alcuni margini di ambiguità di non poco conto, dal momento che, all’ultimo istante, la loro parte politica non fu firmata dai rappresentanti dell’OF, ma sembravano comunque indicare una precisa direzione di marcia: invece, erano nati già morti.40 Infatti negli stessi giorni in cui a Milano i delegati italiani e sloveni negoziavano faticosamente un’intesa, in Slovenia il comitato centrale del KPS (partito comunista sloveno) decideva di mutare linea. Che cos’era successo? Il 16 giugno 1944 a Lissa, Tito e Šubašić, inviato del governo regio in esilio, avevano firmato un accordo che riconosceva il ruolo politico del leader comunista, il quale avrebbe di lì a poco, il 12 e 13 agosto, incassato anche l’approvazione di Churchill. Le ragioni tattiche che avevano consigliato la dirigenza del movimento di liberazione jugoslavo di aprire una trattativa con l’organo supremo della Resistenza italiana erano dunque venute meno: i vertici comunisti sloveni, che a malincuore si erano rassegnati alla logica del compromesso, cominciarono a fare marcia indietro fin dai primi di luglio, anche se non fino al punto di bloccare le trattative di Milano. Alla fine di agosto comunque, il comitato centrale del KPS decise inequivocabilmente di accantonare ogni remora ed esplicitò in termini di assoluta intransigenza le proprie rivendicazioni su tutto il
Litorale sloveno, comprese le città miste, avviando piani concreti per la presa del potere nelle principali città considerate slovene: Lubiana, Gorizia, Trieste e Klagenfurt.41 Nelle settimane successive la nuova linea jugoslava venne resa pubblica sia da Tito che dal commissario agli Esteri del governo partigiano, Josip Smodlaka,42 e il patto appena siglato con il CLNAI venne rigettato.43 Ma ancor più dei passi diplomatici, cruciali risultarono gli sforzi compiuti dai comunisti sloveni per «epurare [il PCI della Venezia Giulia e in particolare quello di Trieste] dallo sciovinismo e opportunismo e condurlo alla lotta», 44 vale a dire, per convincere i comunisti giuliani ad accettare la linea dell’annessione alla Jugoslavia. Per far questo, il punto debole fu individuato in Vincenzo Bianco (nome di battaglia, Vittorio), che agli inizi di settembre del 1944 era stato inviato presso i vertici dell’oF dalla direzione del PCI per l’Alta Italia, proprio per aiutare i comunisti italiani a reggere la pressione cui erano sottoposti da parte slovena. Nonostante i suoi fieri propositi iniziali però, Bianco si lasciò rapidamente convincere, fino a sottoscrivere il 24 settembre una circolare «riservatissima», nella quale le tesi annessionistiche jugoslave venivano nella sostanza accettate, e che venne largamente diffusa tra i quadri comunisti giuliani, suscitando largo sconcerto.45 Sulle motivazioni della scelta compiuta da Vittorio, come pure sugli altri intricatissimi passaggi personali e politici della sua missione, il confronto interpretativo è tutt’altro che concluso.46 Tuttavia sembra abbastanza evidente che Bianco – figura non certo di secondo piano e convinto di trovarsi in sintonia con gli altri dirigenti del partito italiano – aveva fatto propria la visione strategica espressa dai comunisti jugoslavi. Essa sosteneva la necessità di guadagnare posizioni in vista del futuro confronto con le potenze capitaliste e sembrava schiudere ai comunisti italiani – qualora parte della penisola fosse stata occupata dalle truppe di Tito – la possibilità di superare le limitazioni politiche altrimenti imposte dalla presenza anglo-americana. Era insomma una prospettiva di lotta assai radicale, che incontrava sensibilità diffuse, anche al massimo livello, tra i comunisti operanti nell’Italia occupata, i quali potevano trovare il modello jugoslavo decisamente più allettante di quello proposto da Togliatti o, perlomeno, essere tentati di interpretare la linea togliattiana alla luce dell’esperienza
jugoslava.47 A riprova di ciò, Bianco, tornato in Italia, dovette subire i rimbrotti di Secchia e Longo, non tanto per i contenuti della «riservatissima», ma soltanto per averla indebitamente e imprudentemente firmata a nome del comitato centrale del PC d’Italia: dopodiché, venne rispedito dagli sloveni con il ruolo di rappresentante ufficiale del partito presso l’OF. Nel frattempo, un Saluto ai nostri amici e alleati jugoslavi, fatto pubblicare su «La nostra lotta» – organo della direzione del Nord – tentava di offrire una lettura riduttiva delle direttive impartite da Bianco, invitando i comunisti giuliani ad accogliere gli jugoslavi come liberatori e sottolineando che i territori da essi liberati non sarebbero stati soggetti alle condizioni armistiziali, evitando però ogni riferimento al problema dei confini.48 L’accelerazione impressa dai comunisti jugoslavi al confronto politico sul problema della frontiera giuliana, spiazzò dunque completamente il PCI. A livello nazionale, Togliatti si trovò in grave imbarazzo: le difficoltà incontrate nel far accogliere alla dirigenza del partito la propria strategia dell’unità nazionale, emerse con una certa durezza proprio nell’autunno del 1944,49 si aggiungevano alle forti pressioni dei comunisti jugoslavi, che inserivano le loro rivendicazioni territoriali – la cui fondatezza era stata riconosciuta anche da parte sovietica – nell’ambito di una più generale contestazione della «blanda» condotta del PCI nella guerra di liberazione. D’altra parte, per un partito di governo impegnato ad accreditarsi quale difensore efficace degli interessi nazionali, accettare semplicemente le richieste jugoslave era fuori discussione, perché avrebbe distrutto la sua stessa credibilità e quella della sua leadership. Così, quando si giunse al momento della verità, vale a dire al colloquio chiarificatore tra il segretario del PCI e i principali esponenti sloveni, Edvard Kardelj e Milovan Gilas, Togliatti si trovò in un angolo. Dell’incontro avvenuto il 16 ottobre 1944 possediamo solo il resoconto, decisamente trionfalistico, lasciatoci da Kardelj: «Egli [Togliatti] non mette in discussione che Trieste spetti alla Jugoslavia», mentre una versione togliattiana, curiosamente, non è conservata.50 Pur mettendo in conto quindi una certa propensione dei dirigenti sloveni a forzare il senso delle opinioni espresse dai loro
interlocutori, viene da pensare che, quantomeno, nel confronto diretto con gli esponenti jugoslavi Togliatti non fosse riuscito a esprimere una netta e inequivocabile opposizione alle tesi annessionistiche. In cambio, Togliatti inviò a Bianco nuove direttive, nelle quali fece ricorso a una distinzione tra l’occupazione jugoslava dei territori giuliani – che andava in ogni modo favorita – e la loro annessione, di cui invece non faceva parola. Era un modo per garantire agli jugoslavi l’appoggio di cui avevano bisogno per realizzare il loro primo obiettivo – vale a dire il controllo del territorio, che si sarebbe potuto facilmente consolidare in annessione – ma al tempo stesso per lasciarsi aperta la possibilità di un’eventuale presa di distanza, qualora si fosse positivamente sciolta quella che per Togliatti rappresentava l’incognita maggiore di tutta la vicenda, il tipo di sostegno che Stalin avrebbe chiesto al PCI di offrire a Tito.51 Per fortuna dei comunisti italiani, le richieste di Mosca non furono troppo insistenti e Togliatti riuscì quindi ad aggirarle fino a che, attraverso passaggi non ancora del tutto noti, alla fine di aprile del 1945 il leader del PCI si rese conto che Stalin non aveva intenzione di spingere a fondo su Trieste, e poté quindi, nel maggio 1945, condannare ufficialmente, come membro del governo, l’occupazione jugoslava di Trieste, «città indiscutibilmente italiana».52 Dunque, nel suo rapporto con i comunisti jugoslavi il PCI aveva scontato le proprie contraddizioni in merito agli sbocchi politici da offrire alla lotta di liberazione in Italia, ma soprattutto lo scarto esistente fra la propria condizione di partito costretto a misurarsi con altri competitori nell’agone politico, sotto l’attento controllo angloamericano, e quello jugoslavo, che si stava invece facendo Stato. Ma se in campo nazionale la capacità di manovra di Togliatti riuscì a scansare guai peggiori, nella Venezia Giulia ai comunisti italiani, sottoposti alle implacabili pressioni slovene esercitate con l’avallo di Bianco, le sottili distinzioni proposte da Togliatti e la sua reticenza erano di assai poco aiuto, e finirono anzi per accrescere il disorientamento. A compromettere del tutto la situazione contribuì tra l’agosto e il novembre del ’44 un’ondata di arresti con la quale le forze di polizia nazifasciste di Trieste riuscirono a decapitare la dirigenza della locale federazione del PCI, i cui principali esponenti – Luigi Frausin e Vincenzo Gigante – si erano mostrati irriducibilmente
contrari sia alla fusione tra il partito italiano e quello sloveno, che alla creazione di organizzazioni di massa diverse dal CLN, come richiesto invece dagli sloveni.53 Rimasto acefalo, il partito italiano si allineò rapidamente alle posizioni di quello sloveno, fino a uscire di fatto dal CLN giuliano. Contemporaneamente, gli sloveni strinsero la presa anche sulle formazioni partigiane italiane operanti alle spalle di Trieste e nel Friuli orientale. Da un lato, la brigata Garibaldi-Trieste interruppe i suoi rapporti con il CLN per aderire in pieno alla linea annessionista. Dall’altro, si moltiplicarono le pressioni sulla divisione unificata Garibaldi-Osoppo (formata da due brigate Garibaldi-Natisone e da una brigata Osoppo, di orientamento politico democristiano e azionista) che presidiava la zona libera orientale del Friuli, affinché si ponesse agli ordini del IX corpo d’armata partigiano sloveno. Il problema non era operativo, ma politico, perché accettare la dipendenza militare significava riconoscere la giurisdizione dell’EPLJ (esercito popolare di liberazione jugoslavo) non solo su tutta la Venezia Giulia, ma anche sulle valli del Natisone – cuore della zona libera e parte dell’Italia fin dal 1866, ma abitate da popolazione slovena e comprese perciò tra le rivendicazioni territoriali jugoslave. Complice la grave crisi militare in cui la Resistenza in Friuli precipitò nel corso dell’autunno a seguito di una poderosa offensiva tedesca, ai primi di novembre i garibaldini finirono per accettare le richieste slovene, ancora una volta sostenute da Bianco, e si posero alle dipendenze operative del IX corpo, interrompendo di fatto i rapporti e la dipendenza dal CLNAI. Gli osovani invece non aderirono e rimasero, seppur solo con un velo di forze, nel territorio conteso. Lo strappo compiuto dalla Garibaldi-Natisone ebbe conseguenze assai pesanti per la Resistenza in Friuli, che ne uscì indebolita mentre crebbero le tensioni politiche e nazionali. In particolare, tra gli osovani, decisi a resistere alle pretese slovene nelle valli del Natisone, e alcuni gruppi garibaldini, che sospettavano l’Osoppo di collusione con ambienti della RSI, si incrociarono roventi accuse di tradimento. Tutto ciò preparò il terreno all’unico episodio di guerra civile avvenuto all’interno della Resistenza italiana, quando il 7 febbraio 1945 una formazione gappista, con il probabile assenso
della federazione del PCI di Udine, massacrò il comando della brigata Osoppo alle malghe di Porzûs.54 Entro la fine del 1944 quindi, i comunisti sloveni avevano ormai ottenuto il controllo delle strutture politiche e militari del PCI. Non si deve credere però che un tale risultato fosse il prodotto esclusivo di azioni di vertice o di atti di forza: presso la base operaia infatti, soprattutto a Trieste e a Monfalcone, la possibilità che i grandi centri industriali della regione entrassero a far parte della Jugoslavia era guardata con favore. A orientare tale evoluzione giocavano vari fattori: le tradizioni internazionaliste del movimento operaio giuliano, che in epoca asburgica aveva dato vita all’unica forza politica dichiaratamente non nazionale del Litorale, e cioè la sezione adriatica del partito socialista austriaco; 55 le pessime esperienze vissute durante l’amministrazione italiana, in termini sia di oppressione politica che di sfruttamento di classe; da ultimo, il mito della Jugoslavia socialista che si stava costruendo nella lotta contro il nazifascismo e si presentava come la proiezione tangibile e ravvicinata del mito sovietico. Se a ciò si aggiunge la consapevolezza che il PCI non intendeva affatto tentare l’avventura rivoluzionaria e che comunque nel dopoguerra l’Italia sarebbe verosimilmente rimasta nell’area capitalista, si può comprendere con facilità come per buona parte del proletariato giuliano la prospettiva di entrare a far parte di uno Stato plurinazionale e socialista – così si presentava la Jugoslavia di Tito –, lungi dal suscitare timore, potesse accendere molte speranze. Al momento del crollo tedesco dunque, la società giuliana si presentava frammentata lungo linee di forza che non coincidevano in pieno con le divisioni nazionali, e i suoi diversi segmenti attendevano ciascuno i propri liberatori. Sul campo le due liberazioni si incrociarono e si sovrapposero l’una all’altra, mentre fra tutte le città della regione soltanto a Trieste gli antifascisti riuscirono ad assumere un’autonoma, per quanto atipica, iniziativa di lotta.
La crisi del maggio 1945
Alle 5.20 del 30 aprile 1945 a Trieste le sirene della contraerea diedero il segnale dell’insurrezione della città contro i tedeschi. Nelle giornate e nelle ore precedenti, convulse trattative avevano coinvolto tutte le forze in campo fino a sfociare in due distinte insurrezioni contemporanee. Le autorità collaborazioniste, con in testa il prefetto Coceani, avevano proposto la creazione di un unico fronte italiano in cui reparti della RSI, la guardia civica di Trieste e formazioni del CLN si sarebbero battute contro gli slavi in città (in realtà, si sarebbe trattato di opporsi alle formazioni comuniste italiane presenti nelle fabbriche e nei quartieri operai), mentre i tedeschi, con le spalle coperte, avrebbero cercato di fermare le truppe di Tito. Anche i responsabili del fascio triestino avanzarono una proposta simile, ma si accorsero ben presto di non avere alcuno spazio di manovra: i tedeschi diffidavano di loro, gli antifascisti li consideravano ovviamente avversari e il prefetto, esponente della grande imprenditoria triestina, intendeva semplicemente usarli come carne da cannone per garantire un trapasso indolore all’auspicata occupazione alleata. Perciò, rapidamente si sbandarono. Quanto ai leader del CLN, dopo alcune incertezze legate al timore di un’occupazione jugoslava, compresero che legarsi all’ultimo istante ai nemici sconfitti sarebbe stato un suicidio politico. Il grande piano di Coceani non aveva alcuna possibilità di realizzarsi, perché non solo le forze della RSI si stavano dissolvendo, ma le principali unità germaniche stavano abbandonando tempestivamente la città, con alla testa le massime autorità della zona di operazioni, per cercare scampo in Austria, lasciando poche truppe a coprir loro le spalle. Aderire al grande fronte auspicato dal prefetto avrebbe quindi significato soltanto avvalorare la propaganda jugoslava, secondo la quale tutti coloro che non militavano agli ordini del fronte di liberazione sloveno erano nient’altro che fascisti. Nello stesso tempo però, si negoziava anche tra CLN e OF. La decisione del fronte di liberazione sloveno di discutere con il CLN le modalità della gestione del potere a Trieste dopo la cacciata dei tedeschi, non derivava da una particolare considerazione delle capacità militari del Corpo Volontari della Libertà (CVL), obiettivamente modeste, ma dalla corretta comprensione che il suo ruolo politico era assai maggiore della sua forza. Il CLN era il
granello di sabbia capace di bloccare il meccanismo del monopolio comunista filojugoslavo sull’antifascismo italiano, e poteva quindi costituire un punto di riferimento essenziale sia per la maggioranza italiana della popolazione che per gli anglo-americani. È per questo suo ruolo potenziale che il CLN giuliano nelle ultime settimane di guerra divenne oggetto dei tentativi di cattura politica condotti specularmente sia dal movimento di liberazione sloveno che dai leader collaborazionisti triestini: seppur con qualche affanno, riuscì a sventarli entrambi. Se il prefetto chiedeva semplicemente di combattere ai suoi ordini, lasciando a lui tutta l’iniziativa politica, gli jugoslavi da parte loro proponevano la costituzione di un comitato antifascista italo-sloveno composto da undici membri, tre sloveni e otto italiani. Degli otto italiani, solo tre sarebbero stati designati dal CLN, gli altri da varie organizzazioni italiane controllate dai comunisti sloveni. In questo modo, la funzione del CLN sarebbe stata solo quella di fungere da copertura di un organismo politico e di governo saldamente guidato da una maggioranza filojugoslava. Svanita dunque ogni possibilità d’intesa, restava da decidere che cosa fare. La situazione, in verità, era estremamente problematica. Il presidente del CLN, il sacerdote capodistriano don Edoardo Marzari, si trovava in carcere, sottoposto a tremende torture da parte del commissario Gaetano Collotti, principale aguzzino dell’ispettorato speciale di pubblica sicurezza. I tedeschi rimasti in città sembravano intenzionati a resistere a oltranza e minacciavano di far saltare il porto, il vescovo invitava alla calma e a non prendere iniziative precipitose; gli Alleati non si sapeva bene dove si trovassero nella loro marcia di avvicinamento, mentre gli jugoslavi erano sicuramente alle porte della città. Per alcuni giorni le riunioni si successero frenetiche: tutti trattavano con tutti, mentre la città era teatro dei primi incidenti. Sia le formazioni del CVL che quelle dipendenti dal comando di città del IX corpo d’armata partigiano jugoslavo e organizzate nella struttura denominata Unità Operaia, si preparavano alla battaglia finale aspettando il momento giusto per dare inizio alla lotta: attaccare troppo presto infatti avrebbe significato rischiare il bagno di sangue. In questo senso, il comando del IX corpo partigiano cercò di sedare le impazienze insurrezionali del suo stesso comando di città, suscitando peraltro l’impressione,
tra i medesimi comunisti sloveni, di preferire di gran lunga una liberazione dall’esterno, portata dalle baionette dell’armata popolare, a una conquistata dai triestini, sia pure filojugoslavi.56 In ogni caso, le indicazioni provenienti da Lubiana sul comportamento da tenere nei confronti del CLN e delle sue truppe, qualora non si fosse riusciti a ottenerne la guida, erano assolutamente esplicite:
Tutte le unità non tedesche e l’intero apparato amministrativo e di polizia a Trieste vanno considerati nemici e occupatori. Impedite che si proclami qualsiasi potere che si definisca come antitedesco. Tutti gli elementi italiani di questo tipo possono soltanto consegnarsi e capitolare all’armata jugoslava di liberazione. Tutto ciò che agisca contro di essa è esercito di occupazione e in questo senso la vostra linea (mobilitazione di masse italiane) è corretta. [...] Smascherate ogni insurrezione che non si fondi sul ruolo guida della Jugoslavia di Tito contro l’occupatore nel Litorale, sul Comando di città, sulla cooperazione fra italiani e sloveni, consideratela un sostegno all’occupatore e un inizio di guerra civile.57
Decisiva fu la notte del 29 aprile. Un gruppo di partigiani italiani riuscì a liberare dal carcere don Marzari, che intuì immediatamente la necessità di non tergiversare e impartì al CVL l’ordine di insurrezione. Poche ore dopo, scesero in campo anche le formazioni di Unità Operaia: le due iniziative erano evidentemente concorrenziali, anche se non esplicitamente antagoniste ma, di fatto, gli insorti delle due parti finirono in alcuni casi per combattere insieme contro i tedeschi. La loro azione congiunta ottenne alcuni risultati significativi, come la salvezza delle installazioni portuali, ma i tedeschi mantennero alcuni capisaldi e non fu possibile farli sloggiare.
Nell’immediato dunque, l’iniziativa insurrezionale del CLN si concluse con un fallimento. Appena giunte in città le unità regolari dell’armata jugoslava, nella mattinata del 1° maggio, cominciò il disarmo delle formazioni del CVL che, visto l’atteggiamento sempre meno amichevole dei militari jugoslavi e degli stessi aderenti a Unità Operaia, ritornarono in clandestinità, nascondendo le armi. Anche le autorità nominate dal CLN, un nuovo podestà e un nuovo prefetto, non vennero riconosciute dagli jugoslavi, che assunsero il pieno controllo di Trieste, né dalle sopravvenute unità anglo-americane, che stettero a guardare. Pure, il significato politico dell’azione fu rilevante, e lo compresero bene le autorità jugoslave, che si diedero a perseguitare il CLN con uno zelo forse superiore a quello riservato ai caporioni fascisti. Prendendo autonomamente le armi contro i tedeschi, gli antifascisti democratici italiani avevano dimostrato che la pretesa delle organizzazioni comuniste di rappresentare tutto l’antifascismo era palesemente infondata; in questo modo, quando gli anglo-americani avessero deciso che Trieste doveva rimanere in Occidente, avrebbero saputo a chi rivolgersi per rifondare il sistema democratico nei territori sotto il loro controllo.58 Infine, ed è forse l’aspetto più importante, l’esperienza di lotta del CLN avrebbe consentito di rilegittimare in senso democratico la battaglia per l’italianità di Trieste, che sarebbe durata ancora quasi dieci anni. Al terribile isolamento in cui si era trovato dopo la defezione dei comunisti, il CLN aveva saputo reagire attingendo alla propria ispirazione risorgimentale, che poteva certo parere anacronistica, ma che nelle particolarissime condizioni della frontiera orientale italiana era ancora in grado di sprigionare virtù civili che le precedenti catastrofi sembrava avessero travolto. Così, quando don Edoardo Marzari apostrofava il commissario Collotti, suo torturatore, «manifestandogli lo spirito di alto sentire umano, cristiano e italiano della nostra azione e rimproverandolo per l’infamia che attirava sul nome italiano coi suoi procedimenti»,59 testimoniava come la concezione del sentimento nazionale quale fonte di valori civili fosse divenuta un fondamento condiviso di moralità politica per i nuclei della nuova classe dirigente giuliana. Nuclei che erano sicuramente ancora assai gracili, ma decisi ad attuare a proprio rischio la riconciliazione fra quelle grandi idealità risorgimentali di patria e
libertà che nazionalismo e fascismo avevano reso fra loro antitetiche. Ed era sempre nell’ispirazione risorgimentale che gli uomini del CLN avevano trovato la forza di reagire alle suggestioni dell’attendismo, per affermare le quasi disperate ragioni dell’antifascismo giuliano non comunista, impegnato a coniugare la lotta contro il nazifascismo con la difesa dell’identità nazionale italiana. Così aveva scritto Gabriele Foschiatti, che avrebbe trovato la morte a Dachau il 20 novembre 1944:
Perché vi affannate tanto – ci dicono essi – posto che il destino di queste terre non dipende punto da voi, da noi? Il destino di Trieste, o è già stato deciso, a quest’ora, o sarà deciso domani dagli Alleati. Sarà quel che sarà... Andate a dormire. [...] Noi invece siamo di tutt’altro parere. Noi vogliamo vegliare e vigilare e tenere gli occhi bene aperti e i pugni bene stretti sulla nostra sorte: la quale non è affatto vero che sarà quella che sarà, ma sarà o con l’Italia o via dall’Italia. [...] Non l’Italia contraffatta dei Savoia o di Mussolini, ma l’Italia degli italiani, nascente oggi dal sangue di un popolo martire che nella lotta contro tedeschi e fascisti compie il suo secondo Risorgimento.60
Le liberazioni dai tedeschi dunque, nella Venezia Giulia arrivarono da est e da ovest, portate dalla IV armata jugoslava e dall’VIII armata britannica. I due eserciti però si muovevano seguendo presupposti assai diversi. A partire infatti dall’autunno del 1944, quando risultò chiaro che le armate anglo-americane provenienti dall’Italia meridionale non sarebbero riuscite a sfondare le difese tedesche sull’Appennino e a riversarsi nella pianura padana, mettendo fine alla campagna d’Italia, da parte jugoslava era stata avviata la pianificazione politica e militare diretta a consentire l’occupazione della Venezia Giulia. L’obiettivo era considerato della massima priorità e pertanto fu deciso di produrre ogni sforzo per
raggiungere nel più breve tempo possibile la linea dell’Isonzo, anche a costo di rinviare la liberazione di parti significative del territorio jugoslavo, comprese le città di Zagabria e Lubiana. Inoltre, per sottolineare il carattere nazionale dell’operazione e per garantire il completo controllo militare e politico del territorio giuliano, venne deciso di non impiegare le unità partigiane garibaldine già operanti nella Venezia Giulia o in prossimità di essa, nonostante esse dipendessero già da mesi dai comandi jugoslavi.61 L’offensiva finale jugoslava contro le unità di occupazione germaniche ebbe inizio il 20 marzo con l’attacco a Bihac e un mese dopo l’esercito popolare di liberazione giungeva alle porte di Fiume. Da qui, con un’azione spericolata che mostrava i rischi che i comandi jugoslavi erano disposti a correre pur di giungere per tempo sull’Isonzo, le unità della IV armata puntarono su Trieste e Gorizia, raggiungendole il 1° maggio e anticipando così di un giorno i reparti dell’VIII armata britannica provenienti da ovest. L’ultima, convulsa fase della duplice avanzata jugoslava e angloamericana verso la Venezia Giulia viene solitamente ricordata come la «corsa per Trieste», secondo una definizione che sottolinea il carattere competitivo dell’azione dei due eserciti.62 In realtà, sin quasi alla fine di aprile si trattò di una corsa assai particolare, con un solo concorrente. Infatti, se è vero che l’occupazione del territorio giuliano costituiva una meta strategica per gli jugoslavi, non lo era in alcun modo per gli anglo-americani. Per i comandi alleati l’obiettivo da raggiungere era la distruzione delle forze tedesche nell’Italia settentrionale e l’occupazione di Trieste aveva la sola valenza di garantire la prosecuzione delle operazioni verso l’Austria. Inoltre, sia gli inglesi che gli americani erano decisamente preoccupati della possibilità che nell’area giuliana si potessero creare tensioni fra le unità alleate e quelle jugoslave, come conseguenza del mancato accordo sulle rispettive zone di occupazione: tentativi di intesa in tal senso erano stati compiuti nei mesi precedenti, ma senza alcun esito. Ancor più preoccupante, però, era l’eventualità che nella regione potesse accendersi un conflitto tra unità partigiane jugoslave e italiane, perché ciò avrebbe inevitabilmente coinvolto anche le truppe alleate in una crisi assai simile a quella che gli inglesi avevano pochi mesi prima sperimentato in Grecia, dove si erano
ritrovati nel bel mezzo di una guerra civile tra forze filo e anticomuniste. Per scongiurare tale rischio, venne deciso di non impiegare nell’avanzata verso est i reparti italiani dipendenti dall’VIII armata britannica e di frapporre le unità anglo-americane tra quelle jugoslave e le formazioni partigiane italiane non comuniste attive nel Friuli orientale. Pertanto, con uno sprint finale le avanguardie della II divisione neozelandese raggiunsero Trieste e Gorizia il 2 maggio, quando i combattimenti non erano ancora cessati, in tempo per accogliere la resa dei reparti tedeschi asserragliati nel centro del capoluogo giuliano. Gli Alleati dunque erano riusciti, per dirla con Churchill, a «infilare un piede nella porta», ma i comandi jugoslavi protestarono energicamente per quella che consideravano un’intromissione indebita nella loro area di operazioni e instaurarono su tutto il territorio la propria amministrazione militare. La conseguente sovrapposizione non concordata di aree di occupazione determinò fra Stati Uniti e Gran Bretagna da un lato e Jugoslavia dall’altro una crisi diplomatica, conosciuta come la crisi per Trieste del maggio 1945, che rappresentò certamente uno dei momenti chiave della storia del confine orientale italiano dopo il secondo conflitto mondiale. Ciò è abbastanza evidente sul piano politico-diplomatico, non solo per il rilievo internazionale assunto dalla crisi, la prima del dopoguerra europeo, ma anche perché fu proprio in quel passaggio cruciale fra guerra e pace che si fissò sul terreno una situazione che si sarebbe rivelata poi sostanzialmente immodificabile, a meno di non ripercorrere la medesima sequenza: una guerra, un vincitore, un occupante. È stata questa però una prospettiva che tutti i protagonisti della contesa hanno voluto o dovuto sempre rifiutare, perché le sue conseguenze sarebbero state intollerabili per l’assetto del continente, sia che si ragionasse in termini di conflitto Est-Ovest, oppure – agli albori degli anni Novanta quando la Jugoslavia andò in pezzi – di coinvolgimento dell’Italia in una logica esplosiva di tipo balcanico. La centralità delle vicende della primavera del 1945 risalta comunque anche da altri punti di vista. Le esperienze politicoistituzionali avviate in quei giorni nella Venezia Giulia dopo la sua
integrale occupazione da parte dell’esercito popolare di liberazione jugoslavo, e interrotte poco più di un mese dopo nei grandi centri urbani passati – a eccezione di Fiume – sotto il controllo angloamericano, rappresentarono infatti il punto di arrivo di un processo articolato e conflittuale: quello relativo ai rapporti fra Resistenza italiana e movimento di liberazione jugoslavo, che dopo aver alternato momenti di collaborazione, di fraternità d’armi e di grave tensione, approdava a un esito dirompente. Non solo infatti i poteri popolari creati dal movimento di liberazione jugoslavo posero fra i punti qualificanti della propria strategia la criminalizzazione e la persecuzione del CLN. Fatto ancor più grave, una componente fondamentale della stessa Resistenza italiana, quella di orientamento comunista, si espresse in favore dell’annessione alla Jugoslavia e con tale decisione si collocò su posizioni antagoniste nei confronti delle altre forze della Resistenza italiana, si pose in una situazione assai delicata con gli organi nazionali del PCI, e aprì a Trieste una «frattura storica», che sarebbe stata riassorbita solo in tempi pluridecennali. Ancora, le modalità concrete di gestione del potere nei territori sottoposti all’amministrazione jugoslava, specialmente nella prima decade di maggio, ebbero effetti assolutamente traumatici sulla popolazione di sentimenti italiani. Anche se tali comportamenti e le loro ripercussioni risultarono sostanzialmente ininfluenti sulla definizione della vertenza in sede diplomatica, le loro conseguenze si consolidarono nella memoria storica in sede locale, finendo – in prospettiva – per pesare anche sulle relazioni fra Italia e Jugoslavia come pure successivamente, in qualche misura, fra l’Italia e la repubblica di Slovenia. Quanto dunque al significato internazionale della crisi di maggio, la storiografia ha ormai superato la consolidata tradizione interpretativa che vedeva in essa il primo confronto del dopoguerra fra Est e Ovest, se non addirittura un’anticipazione della guerra fredda. Era questa una lettura che traeva alimento anche dalla tendenza di alcuni protagonisti del tempo – a cominciare dal presidente americano Truman – a rileggere le vicende della primavera-estate del 1945 alla luce dei successivi sviluppi del conflitto con l’Unione Sovietica, e che avrebbe continuato a ispirare alcuni contributi apparsi fino alla soglia degli anni Novanta.63
Oggi invece si preferisce inserire le vicende della primavera del 1945 nell’intersezione fra il dissolvimento delle speranze britanniche di mantenere forme di influenza significative sulla Jugoslavia di Tito e l’assunzione di responsabilità degli Stati Uniti nell’Europa sudorientale. In questo ambito, la gestione della crisi è apparsa così espressione della fase di transizione attraversata, senza fratture sostanziali, dalla politica estera americana, fra l’eredità rooseveltiana e il maturare di nuove priorità. Una transizione che si esprimeva – per rifarsi a una formulazione ormai classica – in un equilibrio instabile fra schemi di analisi e di risposta alle iniziative sovietiche ispirati rispettivamente all’«assioma di Jalta» (che riteneva Stalin sostanzialmente disposto alla trattativa) o all’«assioma di Riga» (che considerava invece l’URSS sistematicamente dedita al disegno di espansione del comunismo).64 L’orizzonte interpretativo della guerra fredda si è dunque allontanato dalla crisi di maggio, per essere sostituito dal riferimento prioritario alle strategie messe in atto da parte sovietica e americana per colmare i vuoti di potere che il crollo tedesco lasciava in Europa. A sua volta, l’immagine conflittuale delle grandi potenze impegnate a mostrare i muscoli nella prima sfida del dopoguerra ha lasciato il posto a quella dei tre grandi alleati appena usciti vittoriosi da una guerra comune e impegnati a fronteggiare i problemi delicatissimi della pace. In questo senso, la crisi giuliana costituì certamente un segnale che l’impresa sarebbe stata piuttosto ardua, ma non certo impossibile, dal momento che le grandi potenze si mossero chiaramente nella logica di un’intesa, anche se con sensibilità differenziate. Mentre infatti il governo britannico continuava a ragionare nei termini delle sfere d’influenza e dell’equilibrio delle forze in Europa – elementi entrambi che l’iniziativa di Tito pareva rimettere in discussione –, l’amministrazione americana sembrò preoccuparsi piuttosto che la crisi giuliana finisse per compromettere quell’approccio multilaterale ai problemi del dopoguerra, fondato sull’accordo tra i vincitori, che era emerso dalla conferenza di Jalta. In tale direzione vanno lette sia l’insistenza con cui Truman, resistendo alle pressioni di Churchill, ricercò il coinvolgimento di Stalin, sia la lezione di ottimismo sulle prospettive della futura cooperazione internazionale che lo stesso Truman ricavò dalla posizione conciliante del Cremlino, il quale – esprimendosi in
favore della divisione della regione in due aree sottoposte alle amministrazioni militari rispettivamente anglo-americana e jugoslava – rese di fatto impossibile il mantenimento del controllo jugoslavo su Trieste e Gorizia. Denominatore comune del comportamento delle grandi potenze durante l’intera durata della crisi appare dunque la prudenza. Prudenza degli inglesi, la cui preoccupazione fondamentale venne ben espressa da Harold MacMillan, a quel tempo ministro residente britannico presso il comando militare alleato nel Mediterraneo: «Se non si stava attenti ci sarebbe stata un’altra Grecia, con noi a cavare le castagne dal fuoco», 65 ancora una volta, senza l’appoggio degli Stati Uniti. Prudenza degli americani, che a lungo temettero di ritrovarsi coinvolti in quelle che consideravano «complicazioni balcaniche» da evitare con cura, e che mostrarono una grande riluttanza a fronteggiare in armi gli jugoslavi, «fino a che l’atteggiamento cooperativo di Stalin non li convinse che ciò avrebbe comportato un passo avanti, piuttosto che uno indietro verso la costruzione di un nuovo sistema internazionale fondato sul consenso», secondo l’impostazione rooseveltiana.66 E prudenza infine anche dei sovietici, che non mostravano alcun entusiasmo di farsi trascinare in situazioni di crisi periferiche rispetto ai loro interessi. È ben vero che a un certo punto gli anglo-americani optarono per una linea dura nei confronti di Tito, affiancando alle pressioni diplomatiche alcune dimostrazioni militari, anche e soprattutto per mandare un preciso segnale a Mosca. Così si espresse il vicesegretario di Stato, Grew, in un decisivo memorandum del 10 maggio:
[...] non si tratta di schierarsi nella disputa fra Italia e Jugoslavia o di venir coinvolti nella politica interna balcanica. Il problema è fondamentalmente uno: decidere se il governo sovietico, che decide direttamente sulle sistemazioni territoriali nel caso della Polonia (che si trova nel teatro di operazioni sovietico) agisca attraverso il suo
satellite, la Jugoslavia, per stabilire quali Stati e confini risultino migliori ai fini del futuro potere dell’URSS. L’occupazione jugoslava (russa) di Trieste, che è lo sbocco vitale di vaste zone del Centro Europa, avrebbe conseguenze di una portata che va molto al di là dei territori direttamente interessati. [...] Nel momento in cui abbiamo infine portato a termine la vittoria militare in Europa e abbiamo su tale continente una forza di milioni di uomini in armi, noi dobbiamo decidere se ci sottometteremo all’azione di forza unilaterale come metodo per delineare i confini dell’Europa Occidentale.67
Pertanto, quando l’11 maggio Truman prese la decisione chiave di tutta la crisi, quella di «sbattere gli jugoslavi fuori da Trieste», 68 ciò avvenne sulla base di un ragionamento di ampio respiro – che dal confronto emblematico fra il caso triestino e quello polacco muoveva per bloccare le spinte unilateraliste già rilevabili nella politica estera sovietica. Si trattava comunque di un segnale che partiva dal presupposto che l’Unione Sovietica fosse disponibile al ripristino di un equilibrio indebitamente alterato. Nella Venezia Giulia infatti, vale a dire all’interno del teatro di operazioni anglo-americano, Tito – considerato longa manus dell’URSS – non solo contestava il diritto degli Alleati di disporre a proprio piacimento dell’amministrazione del territorio, ma sembrava in tal modo voler accendere anche una robusta ipoteca sul destino finale di un’area di elevato valore geopolitico, in palese contrasto con quanto avveniva invece in Polonia, dove la presenza militare dell’armata rossa sembrava costituire una delle fondamentali garanzie affinché gli interessi strategici sovietici trovassero piena soddisfazione. Premiando le aspettative di Truman, il Cremlino accettò senza particolari difficoltà la correzione dell’«asimmetria» (per usare la simbologia prediletta dalla letteratura degli ultimi anni) che si era prodotta a Trieste. A tale riguardo, molto si è discusso sul comportamento di Stalin e, soprattutto ai tempi della crisi del Cominform ma anche più tardi, la storiografia di regime jugoslava
rimproverò sovente all’autocrate sovietico di non aver appoggiato Tito nella fase decisiva della controversia. In alternativa alla tradizionale immagine di Tito seduto in attesa di una chiamata dal Cremlino davanti a un telefono che non squillò mai, la ricostruzione puntuale dello scambio diplomatico non solo ha rivelato l’intensità dei contatti fra la diplomazia jugoslava e quella sovietica lungo tutto il corso della crisi, ma ci consente anche di fare luce su alcuni nodi interpretativi di fondo. Innanzitutto, possiamo notare – e la cosa certo non ci stupisce – che nel corso del primo semestre del 1945 Stalin aveva già espresso più volte il suo consenso nei confronti delle aspirazioni di Tito sulla Venezia Giulia, anche se risultava abbastanza avvertibile la sua preoccupazione per una politica jugoslava di rivendicazioni territoriali a 360 gradi nei confronti dei Paesi vicini. Nello stesso periodo infatti il governo di Belgrado stava avanzando pretese nei confronti dell’Austria, dell’Ungheria, della Romania, della Grecia e della Bulgaria, mentre puntava a integrare direttamente l’Albania nella federazione jugoslava.69 Il fulcro di tutta la questione però sta nel grado di appoggio che l’Unione Sovietica era effettivamente disposta a prestare alla Jugoslavia, e rispetto al quale si verificò un sostanziale fraintendimento tra la dirigenza di Belgrado e quella di Mosca. Da parte jugoslava, vi era la tendenza a dare per scontato l’appoggio sovietico a una strategia «estremista», nell’ambito della quale la Jugoslavia giocava il ruolo di avanguardia del socialismo, cercando di spostarne i confini verso Occidente anche con atti unilaterali. L’Unione Sovietica invece era fermamente intenzionata a dirigere in prima persona l’evoluzione dei rapporti con inglesi e americani, tastandone ogni tanto le reazioni – e in questo senso il dinamismo di Tito poteva tornare utile – ma senza farsi condizionare dai troppo zelanti jugoslavi. Alle richieste di aiuto di Tito, Stalin rispose perciò in maniera molto significativa, sottolineando che gli jugoslavi disponevano già sul campo di tutto ciò che potevano desiderare per conquistare il potere, vale a dire l’esercito e le autorità civili, e che quindi non restava loro che trattare con gli angloamericani – dal momento che anche questi ultimi potevano contare sul fattore decisivo costituito dalla presenza militare in loco – per un compromesso diplomatico che sanzionasse il più possibile la
situazione di fatto.70 Se poi quel «più possibile» non corrispondeva alle aspirazioni massime di Belgrado, pazienza. La logica jugoslava invece era ben diversa: potremmo chiamarla una logica dell’imprudenza. Era una logica che i comunisti seguivano in politica interna, tenendo conto solo parzialmente degli inviti alla cautela provenienti da Mosca in merito ai rapporti con il governo del re in esilio. Ed era una logica applicata anche in politica estera, dove la Jugoslavia aspirava a svolgere quel ruolo di «secondo polo» del mondo socialista che avrebbe finito per porla in linea di collisione con la stessa Unione Sovietica. Come abbiamo visto, alla base di una linea così radicale stava un’interpretazione fortemente antagonista dei rapporti internazionali, che rifiutava sin dal primo momento la possibilità di una collaborazione di lungo periodo con il mondo capitalista.71 È forse il caso di precisare, però, che a distinguere la posizione degli jugoslavi non era l’originalità delle analisi compiute, posto che – per limitarsi all’aspetto più clamoroso – valutazioni non dissimili dalle loro in merito alla campagna aerea condotta dagli americani sulla Germania, vista come un tentativo di distruggere l’economia europea, erano state espresse, sempre nel secondo semestre del 1944, dallo stesso Stalin.72 Quello che invece marcava l’approccio jugoslavo era la scelta di trarre dall’analisi del quadro internazionale, in modo immediato e autonomo rispetto alle valutazioni di Mosca, le conseguenze più radicali, in quanto funzionali al conseguimento degli obiettivi strategici che il movimento di liberazione si proponeva. L’estremismo ideologico si rivelava infatti essere il supporto più adeguato per una lotta di liberazione nazionale che ambiva a trasformarsi, per un verso in rivoluzione, per l’altro in politica di potenza: ma applicare tale strategia ai rapporti internazionali senza curarsi troppo di rispettare i tempi e i modi fissati da Mosca, rischiava di condurre il governo di Belgrado su posizioni troppo esposte e, alla fine, insostenibili. Dopo più di un mese di incertezza, quindi, la crisi si concluse con l’accordo di Belgrado del 9 giugno 1945, in virtù del quale la Venezia Giulia risultò divisa in due zone di occupazione. All’amministrazione militare anglo-americana venne affidata la zona A, costituita da una fascia di territorio che da Trieste raggiungeva il confine austriaco lungo la valle dell’Isonzo, cui venne aggiunta – come enclave non
collegata via terra – la base navale di Pola, situata nella punta meridionale della penisola istriana; all’amministrazione militare jugoslava venne invece consegnata la zona B, comprendente tutto il resto della regione.73
La repressione jugoslava Gli jugoslavi pertanto arrivarono nella Venezia Giulia con un progetto ben preciso, a differenza degli anglo-americani, che vi giunsero principalmente sull’onda di valutazioni di ordine militare. Era un progetto che saldava in maniera inestricabile motivazioni nazionali e ideologiche; era compiutamente totalitario, perché ambiva a controllare tutti gli aspetti della realtà locale, ed era rivoluzionario. Fu questo progetto a costituire la base dei comportamenti repressivi tenuti dalle autorità jugoslave nella primavera – estate del 1945 nell’area giuliana, per designare i quali, come per le stragi dell’autunno 1943, viene comunemente usata l’espressione «foibe». Una dizione questa, non va dimenticato, da intendersi principalmente nel suo significato simbolico, dal momento che buona parte delle vittime delle uccisioni di massa (probabilmente alcune migliaia) non trovò la morte nelle cavità carsiche, ma in circostanze diverse o durante la prigionia. L’ondata di violenze coprì tutta la regione, e in Istria apparve come una brutale ripresa della logica di sangue interrotta nell’ottobre del 1943. Tuttavia, arresti e uccisioni si concentrarono questa volta soprattutto nei centri urbani, che due anni prima ne erano rimasti immuni in quanto prontamente occupati dai tedeschi, e in particolare a Trieste e nel Goriziano. Quanto ai fatti, basterà qui ricordare che appena cessarono i combattimenti tra le truppe jugoslave e quelle nazifasciste, centinaia di militari della RSI caduti prigionieri dei soldati di Tito furono passati per le armi (lo stesso accadde anche ai tedeschi) e migliaia di altri furono avviati verso i campi di prigionia, dove fame, violenze e malattie mieterono un gran numero di vittime.74 Contemporaneamente, le autorità jugoslave diedero il via a un’ondata di arresti che seminò il panico nella popolazione italiana. Parte degli arrestati venne subito eliminata, molti di più vennero
deportati in campi diversi da quelli in cui venivano concentrati i militari, ma in cui il trattamento non era certo migliore. Obiettivo delle violenze furono le persone più diverse, accomunate dal fatto di costituire una minaccia per il potere. Furono colpiti membri dell’apparato repressivo nazifascista, quadri del fascismo e in particolare dello squadrismo giuliano, elementi collaborazionisti (italiani e slavi), ma anche partigiani italiani che non accettavano l’egemonia del movimento di liberazione jugoslavo e alcuni esponenti del CLN giuliano, insieme a sloveni anticomunisti e a molti cittadini privi di particolari ruoli politici ma di chiaro orientamento filoitaliano e anticomunista. A parte i casi evidenti di giustizia sommaria, sia gli arresti che le eliminazioni non avvennero tanto sulla base delle responsabilità personali quanto dell’appartenenza, mirando, più che a punire colpevoli, a mettere in condizioni di non nuocere intere categorie di persone considerate pericolose. La repressione quindi, più che giudiziaria fu politica, una sorta di «epurazione preventiva» diretta a eliminare tutti gli oppositori, anche solo potenziali, al progetto del nuovo potere: un progetto che era al tempo stesso nazionale e politico, dal momento che consisteva nell’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia comunista. Nel 1945 dunque, nei grandi centri urbani come Trieste, Gorizia, Pola e Fiume non si ebbero in genere forme di «violenza spontanea» da parte della popolazione slava contro quella italiana, bensì una repressione dall’alto, anche se essa si verificò in un clima di «resa dei conti» per le violenze del fascismo e della lotta antipartigiana. Ancora una volta, più confusa invece fu la situazione in Istria. In ogni caso, protagonista dell’azione di sangue fu un movimento rivoluzionario che si affermava con i modi propri delle rivoluzioni e che, nel momento in cui conquistava il potere, si trasformava in un regime di tipo stalinista, convertendo in violenza di Stato l’animosità nazionale e ideologica diffusa nei quadri partigiani. Allargando a questo punto lo sguardo, per cogliere meglio il significato delle foibe giuliane del 1945 – spesso celato dall’invadenza di interpretazioni di taglio polemico-politico, talvolta ancora oggi riproposte a più di mezzo secolo dagli eventi –75 possiamo dire che sia il disegno complessivo di cui i comunisti jugoslavi erano portatori (e cioè la presa del potere), che gli
strumenti utilizzati per realizzarlo (la violenza rivoluzionaria) non differivano sostanzialmente da quelli messi in atto nel resto della Jugoslavia. Il significato però che essi assunsero nella Venezia Giulia fu ovviamente in parte diverso, perché si trattava di un’area a nazionalità mista, appartenente ad altro Stato e oggetto di rivendicazione. Nell’Istria come a Fiume, a Trieste come a Gorizia, nella primavera del 1945 per le autorità jugoslave il problema principale non era quello di eliminare sic et simpliciter gli italiani, ma di «ripulire» il territorio da tutti i soggetti che potevano mettere in discussione la saldezza del nuovo dominio e incrinare l’immagine di compattezza della partecipazione popolare agli obiettivi dei nuovi poteri. Tale preoccupazione per la monoliticità del consenso, almeno fra le componenti antifasciste, che condusse diritta alla criminalizzazione e alla persecuzione del CLN giuliano – il quale si opponeva all’annessione alla Jugoslavia – non era rivolta solo agli anglo-americani, ma anche ai sovietici. Nel gennaio del 1945, durante un incontro a Mosca, Stalin aveva ammonito i suoi interlocutori jugoslavi che le annessioni richieste non potevano fondarsi solo sull’occupazione militare, bensì su argomentazioni sostenibili alla conferenza di pace e sulla richiesta esplicita delle popolazioni coinvolte.76 Era un modo per ribadire che l’espansionismo jugoslavo non poteva basarsi sul puro esercizio della forza, sul «fatto compiuto» teorizzato fin dal 1944, ma doveva inserirsi nel quadro di una soluzione concordata fra i Paesi impegnati nella lotta contro il nazifascismo. Ciò non toglie che, quanto al modo di ottenere il consenso degli abitanti delle regioni «liberate», ci potevano essere delle scorciatoie. Dice il verbale dell’incontro che quando gli jugoslavi ammisero che a Trieste e a Fiume c’erano «gruppetti autonomisti» contrari all’annessione, affrettandosi però a precisare che la loro consistenza era del tutto irrilevante, Stalin replicò scherzosamente: «Allora buttateli in mare». L’umorismo di Stalin era talvolta un po’ gelido, ma i comunisti jugoslavi certo ne condividevano lo spirito. Essi dunque, che conoscevano bene la prassi utilizzata da Stalin per eliminare preventivamente ogni possibile nucleo di contropotere, nella Venezia Giulia applicarono con grande energia un modello repressivo di consolidata efficacia.77 Peraltro, ciò non significa che la
dimensione nazionale fosse del tutto secondaria all’interno dell’ondata di violenze della primavera del 1945, come si potrebbe credere leggendo in maniera ingenua le parole di Kardelj, che nell’aprile del medesimo anno aveva indicato come criterio guida della repressione quello di colpire non su base etnica, ma politica.78 È vero infatti che sloveni e croati non vennero trattati meglio degli italiani, quando si trovarono sospettati di non aderire al nuovo ordine; ma il punto è che gli italiani accusati di tale crimine, e quindi perseguitati e, assai spesso, «liquidati», furono nell’area giuliana infinitamente di più. Ciò avvenne per molteplici ragioni, ma soprattutto per una motivazione strutturale: fra gli sloveni e i croati le parole d’ordine annessioniste fatte proprie dal movimento di liberazione jugoslavo avevano consentito di superare in larga misura la diffidenza nei confronti dei comunisti che in altre zone aveva invece alimentato copiosamente il movimento domobran e quello ustaša.79 Al contrario, il rifiuto delle rivendicazioni territoriali jugoslave, che riproponevano in toto le tradizionali richieste del nazionalismo sloveno e croato, era patrimonio comune della popolazione italiana, comprese le forze antifasciste, a esclusione – non senza qualche perplessità – della componente comunista. Dal punto di vista dei nuovi poteri quindi, nei confronti della popolazione non slava la pulizia doveva essere assai più larga, dal momento che, se anche essere etnicamente italiani di per sé non veniva considerato una colpa, essere politicamente filoitaliani lo era senz’altro. Possiamo dire quindi che per una serie di ragioni storiche e politiche riguardanti il passato (ossia le colpe del fascismo), il presente (cioè l’opposizione alle rivendicazioni slovene e croate) e anche il futuro (vale a dire la permanenza, data per scontata, dell’Italia nel mondo capitalista) da parte della dirigenza jugoslava il gruppo nazionale italiano della Venezia Giulia era ritenuto nella sua globalità, se non automaticamente nemico, perlomeno altamente sospetto, a meno che i suoi membri non fossero in grado di dimostrare il contrario con la militanza nel movimento di liberazione jugoslavo. A livello poi dei quadri inferiori, quelli cui in genere era di fatto affidata la repressione, le distinzioni tendevano a sfumare pericolosamente.
CAPITOLO 4 Gli obiettivi jugoslavi e il trattato di pace La «fratellanza italo-slava» Agli occhi degli italiani la violenza costituiva certo l’espressione più immediatamente percepibile e drammatica della presenza jugoslava nell’area giuliana. Essa però era soltanto un aspetto di una strategia complessiva che presentava anche altri elementi portanti: la creazione sul campo di un rapporto di forze tale da rendere irreversibile il dominio acquisito, il consolidamento delle strutture di base del regime, e l’avvio della trasformazione della società in senso socialista. Tutto ciò a conferma dell’intreccio strettissimo fra gli aspetti nazional-risorgimentali e quelli rivoluzionari-classisti, tipico della lotta di liberazione slovena e croata. Nella ponderazione dei rispettivi pesi, la storiografia che si è dedicata all’analisi della presa del potere jugoslava nella Venezia Giulia ha nel corso dei decenni oscillato largamente, sottolineando ora la preminenza dei connotati nazionalisti di tipo tradizionale – rispetto ai quali l’ideologia marxista avrebbe svolto un mero ruolo di copertura e supporto –, ora quella dei contenuti rivoluzionari, che avrebbero assorbito strumentalmente al loro interno rivendicazioni e spinte aggressive di stampo nazionalista. Non sembra dubbio, tuttavia, che nell’immediato la priorità andasse all’obiettivo dell’annessione, secondo una scelta che di per sé non poteva venir letta in termini esclusivi di nazionalismo e revanscismo. Infatti l’aggregazione alla Jugoslavia rappresentava la condizione essenziale per la costruzione del socialismo, come i comunisti di lingua italiana sostenevano con grande vigore, anche se, per la radicalità con cui venne interpretata, finì per polarizzare il dibattito politico, riconducendo ossessivamente ogni altra tematica alla
battaglia fondamentale per l’appartenenza statuale dei territori contesi. Si trattava di un terreno di scontro che magnificava le contrapposizioni nazionali e finiva quindi per erodere gli spazi disponibili per una politica che si presentava invece come diretta, da parte jugoslava, a realizzare la «fratellanza italo-slava» in nome dell’internazionalismo proletario e in antitesi al nazionalismo borghese. La progressiva crisi di credibilità di tale politica – assai più rapida nella zona B, dove la popolazione italiana sperimentava l’amministrazione jugoslava, rispetto alla zona A, dove invece la maggioranza della classe operaia continuò a farvi riferimento per almeno un biennio – non deve far pensare che essa fosse soltanto un costrutto propagandistico. Il dibattito sull’atteggiamento da tenere nei confronti degli italiani infatti, aveva attraversato tutta la lotta di liberazione slovena e croata, e non poche voci al suo interno si erano levate a invocare soluzioni drastiche, che sfruttassero i nuovi rapporti di forza tra le etnie per porre fine al pluridecennale contrasto con gli italiani, soggiogandoli e disperdendoli. Così, un memoriale redatto nel luglio del 1944 dalla Tržaška Sredina, gruppo di centro di ispirazione cattolica, criticava severamente la politica della collaborazione con gli italiani intrapresa dall’OF e contestava la possibilità di distinguere fra responsabilità degli italiani e del fascismo. Inoltre chiedeva provvedimenti radicali che, oltre a garantire l’annessione di Trieste alla Jugoslavia, facessero materialmente pagare i danni di guerra subiti dalle popolazioni del Litorale ai triestini, che si consideravano italiani e che, in quanto tali, «troppo a lungo ci hanno mangiato il pane e si sono arricchiti con i nostri calli».1 Da parte loro, alcuni esponenti di primo piano della cultura slovena, come Fran Zwitter, Lavo Čermelj e Bogo Grafenauer, in un documento redatto alla fine del 1944 dall’istituto scientifico collegato all’esecutivo dell’OF, si erano espressi decisamente in favore dell’espulsione degli italiani dalla Slovenia.2 Allo stato attuale delle fonti non risulta che una decisione ufficiale in tal senso sia mai stata assunta, ma il fatto stesso che la questione fosse stata discussa ai massimi livelli dell’OF segnala quanto fosse difficile, per i vertici del movimento di liberazione e del partito comunista sloveno e croato, trovare una risposta accettabile agli
interrogativi riguardanti la presenza di una minoranza storicamente invisa a due dei popoli costituenti il nuovo Stato, nato proprio dalla lotta contro l’occupatore italiano oltre che tedesco. Considerato in questi termini, il problema assomigliava molto a quello posto in molte altre zone dell’Europa centrale, luogo di storici insediamenti tedeschi, dove la politica di occupazione del Terzo Reich aveva a tal punto esasperato le precedenti conflittualità nazionali da suscitare nel corso della guerra di liberazione un largo consenso sulla necessità di espellere i tedeschi dai ricostituiti Stati slavi.3 Anche in Jugoslavia esisteva una sparuta minoranza germanica, e anche nei suoi riguardi venne decisa l’espulsione in blocco. La condizione degli italiani era però parzialmente diversa. In una prima approssimazione, si potrebbe pensare che tale diversità fosse dovuta al fatto che dopo l’8 settembre alcune aliquote della popolazione avevano imbracciato le armi per combattere fianco a fianco dei partigiani sloveni e croati contro i nazifascisti. In effetti, anche dai piani di espulsione dei tedeschi dalla Slovenia, le autorità jugoslave avevano giudicato opportuno escludere singoli esponenti della minoranza che avevano partecipato alla Resistenza: a maggior ragione quindi, un simile trattamento poteva essere riservato anche agli italiani, il cui coinvolgimento nella lotta di liberazione era stato certo assai più ampio. Non è questo però l’aspetto centrale della questione, tant’è che la fraternità d’armi non impedì agli esponenti comunisti jugoslavi – e men che meno ai quadri partigiani – di considerare quali avversari di cui disfarsi al momento opportuno tutti gli aderenti ai gruppi antifascisti italiani considerati «reazionari», quelli cioè che, oltre a non condividere gli obiettivi rivoluzionari, non riconoscevano la guida del movimento di liberazione sloveno e croato, né accettavano il suo programma annessionista. Il punto, piuttosto, era un altro. Come si è visto, la grande maggioranza della classe operaia di lingua italiana della regione era pronta ad accogliere l’annessione alla Jugoslavia come l’unica opportunità storicamente possibile per cominciare una nuova vita all’interno di uno Stato socialista. Certo, si trattava comunque di una parte fortemente minoritaria della complessiva popolazione italiana, ma tutt’altro che trascurabile: basti pensare che, quando venne elaborata la linea della «fratellanza», gli esponenti jugoslavi
nutrivano ancora piena fiducia nella possibilità di comprendere entro i nuovi confini anche Trieste e Monfalcone, con le loro grandi concentrazioni di proletariato industriale – classe sociale numericamente scarsa in Jugoslavia – determinate a battersi per l’inclusione nello Stato comunista di Tito. Tutto ciò comportava alcune conseguenze piuttosto importanti. In primo luogo, significava che nella Venezia Giulia i poteri generati dalla lotta di liberazione jugoslava potevano trovare nella componente italiana un interlocutore affidabile e influente, che per la sua composizione e le sue tradizioni di lotta poteva giocare un ruolo strategico, sia nella trasformazione della società jugoslava in senso socialista che nell’espansione della rivoluzione verso occidente. Quando Kardelj nel febbraio del 1944 aveva scritto «Trieste nostra = Trieste sovietica», aveva certo condensato in una formula un ragionamento geo-politico, ma probabilmente aveva anche scorto la funzione determinante che la classe operaia giuliana poteva avere nella diffusione del «contagio» rivoluzionario al proletariato dell’Italia settentrionale.4 In secondo luogo, l’esperienza e le scelte compiute dai comunisti giuliani consentivano di proporre a tutta la popolazione italiana della regione un modello di identità positivo nel quale riconoscersi, ripudiando il modello «fascista», sostanzialmente imperniato sulla supremazia degli italiani nei confronti degli slavi. In questo modo, si può dire che agli italiani veniva offerta una sorta di seconda possibilità per redimersi dalle colpe storiche del nazionalismo italiano e riannodare su basi del tutto diverse i rapporti con gli sloveni e i croati presenti sul medesimo territorio. Muovendo da tali basi, i leader comunisti jugoslavi concepirono una politica che prevedesse il mantenimento di una minoranza nazionale italiana – ben distinta quindi dai popoli slavi cui spettava il ruolo costituente del nuovo Stato – alla quale, secondo un’assai citata espressione di Kardelj, andava riconosciuto «il massimo grado di diritti nazionali».5 Per capire peraltro l’autentico significato di tali parole, scansando equivoci interpretativi tanto clamorosi quanto frequenti, non va dimenticato che nella realtà di uno Stato comunista il soggetto di questi diritti era il gruppo nazionale nel suo complesso – che trovava espressione nelle organizzazioni previste dal regime – e non i suoi singoli membri, privi invece di qualsiasi protezione nei
confronti delle autorità. In ogni caso, nell’architettura del nuovo Stato sembrava esserci posto anche per gli italiani. Tuttavia, la linea della «fratellanza», indicando una via per accettare in Jugoslavia una certa quota di italiani, fissava anche in maniera piuttosto esigente le condizioni alle quali l’integrazione sarebbe stata possibile. Il nuovo e «rivoluzionario» modello identitario, cui agli italiani veniva chiesto di conformarsi, conduceva infatti diritto alla divisione della popolazione italiana in due grandi categorie. La prima era quella che potremmo definire degli «onesti antifascisti» o «italiani onesti e buoni», secondo la terminologia delle fonti del tempo. Per appartenervi era preferibile essere stati combattenti contro i nazifascisti, ed era indispensabile mostrarsi impegnati nella costruzione del socialismo, amici dell’Unione Sovietica, nemici dell’imperialismo americano e nemici anche dell’Italia. Questa infatti, non solo era incapace di avviarsi verso il socialismo, e anzi si legava sempre più alle potenze occidentali, ma – cosa ancor più grave – pretendeva di conservare la sovranità sui territori giuliani, collocandosi così agli occhi dei dirigenti jugoslavi in perfetta continuità con la politica fascista. La seconda categoria – speculare alla precedente, perché nel clima del dopoguerra non vi era spazio per i grigi – era quella dei «reazionari» o «nemici del popolo». Come abbiamo già visto, tali termini, correnti nell’esperienza resistenziale jugoslava, nel dopoguerra designavano tutti coloro che per qualsiasi ragione si rifiutavano, o anche soltanto si mostravano refrattari, a mobilitarsi per l’affermazione del regime. A costoro non spettava alcuno dei diritti previsti dalla normativa di tutela delle minoranze e anzi, essi costituivano i bersagli privilegiati per ondate repressive dipendenti dalle contingenze più diverse.6 Fra i due gruppi, lo squilibrio era evidente in partenza: se nel primo rientravano con una certa facilità i membri della classe operaia e i nuclei di intellettuali di estrazione marxista, difficilmente potevano farvi parte i componenti degli alti strati della società giuliana. Per la verità, qualche tentativo di sondare la disponibilità dell’alta borghesia triestina a legarsi al nuovo regime era stato compiuto nel corso del 1944. Alcuni iniziali e ambigui riscontri avevano suscitato grandi quanto immotivate illusioni presso autorevoli ambienti dell’OF,
tanto che Kardelj aveva potuto scrivere a Tito alla fine di settembre: «A Trieste sono schierati per la Jugoslavia la grande borghesia e il proletariato, mentre con l’Italia stanno il partito comunista e gli intellettuali».7 Per capire il senso di un giudizio apparentemente così strano, bisogna ricordare che in quel periodo alcuni dirigenti del movimento di liberazione sloveno si erano convinti di essere sul punto di ottenere un’effettiva egemonia politica sulla realtà triestina. Non solo infatti il rappresentante del PCI, Vincenzo Bianco, si era piegato a sottoscrivere la «riservatissima» che accoglieva la linea politica slovena, ma anche personaggi influenti del campo opposto sembravano pronti a scendere a patti con l’OF. Rappresentanti sloveni avevano avuto contatti giudicati positivi sia con il podestà Pagnini che con il leader dell’imprenditoria giuliana, Antonio Cosulich, e anche alcuni ufficiali fascisti avevano cercato contatti con l’OF.8 Alla fine però, dal tentativo di aggancio dell’alta borghesia e dell’intellighenzia triestina di lingua italiana – per qualche tempo si sperò di poter coinvolgere un personaggio di punta del mondo accademico, Giorgio Roletto –9 erano scaturite soltanto cocenti delusioni e profonde spaccature nella dirigenza dello stesso fronte di liberazione, culminate nella temporanea espulsione dal partito di Branko Babič, reo di non aver creduto affatto alla praticabilità di tale spericolato approccio.10 Il tentativo era stato tuttavia ripetuto nei primi giorni del dopoguerra, facendo leva sulle opportunità di sviluppo che l’inserimento nella compagine jugoslava avrebbe potuto dischiudere per l’economia della città, ma non ebbe alcun esito.11 Tale risultato negativo sarebbe in parte da addebitare alla rapidità con cui venne meno l’amministrazione jugoslava a Trieste. Ma il fatto che simili approcci non siano stati proposti nel contesto fiumano – simile a quello triestino, ma dove la dominazione jugoslava risultava fin dal primo momento indiscussa – conduce piuttosto ad attribuire alle avance verso l’imprenditoria triestina un valore prevalentemente tattico, in un’area dall’incerto destino dove la politica di occupazione oscillava contraddittoriamente fra repressione brutale e 12 spregiudicata ricerca di consenso. Quanto alla piccola e media borghesia urbana – formata da commercianti, artigiani, impiegati, liberi professionisti –, si trattava
dei ceti che più avevano da perdere dalla trasformazione in senso socialista dell’economia e che nel contempo formavano il nerbo dell’italianità giuliana. All’interno di tali gruppi infatti le parole d’ordine dell’amor di patria, dell’irredentismo e dell’affermazione nazionale avevano incontrato un larghissimo consenso, finendo per costituire i fondamenti di una cultura politica sostanzialmente condivisa anche da chi non ne aveva fatto proprie le punte di estremismo, rifuggendo la militanza nazionalista o fascista. Tale cultura politica era diffusa anche tra i ceti popolari delle cittadine istriane, dove la presenza operaia era – con poche eccezioni – piuttosto ridotta, a fronte di occupazioni più tradizionali, come la pesca. Era dunque assai difficile che tutti costoro potessero non soltanto rinunciare a opporsi al nuovo ordine, ma convertirsi anche in suoi attivi sostenitori, così come richiesto per acquistare la legittimità a svolgere un ruolo nella società jugoslava del dopoguerra. Più aperta sembrava la partita riguardante i contadini: a parte pochi grandi possidenti, la condizione di gran lunga prevalente fra gli italiani era quella di piccoli e micro-proprietari, che si sarebbero forse potuti associare a un disegno di rilancio dell’agricoltura istriana, a patto che ciò non mettesse in discussione il loro legame con la terra. La politica della «fratellanza» comportava quindi in partenza una spaccatura manichea della componente italiana, destinata ad aggravarsi come prodotto delle conflittualità politiche del dopoguerra. Ciò premesso, non bisogna però commettere l’errore di credere che i requisiti politici fossero condizione sufficiente e necessaria per garantire ai giuliani di lingua italiana i propri diritti nazionali oltre a quello, elementare, di rimanere insediati sul loro territorio. A entrare pesantemente in gioco nella determinazione delle politiche da tenere nei confronti degli italiani, infatti, accanto all’appartenenza di classe, alla militanza ideologica e alla fedeltà istituzionale, era comunque anche la dimensione etnica. Per rendersene conto, basta esaminare il censimento compiuto nell’ottobre 1945 dal centro di studi adriatici di Sušak,13 i cui risultati furono duramente contestati da parte italiana e non vennero accettati come base di discussione alla conferenza di pace, per gli evidenti sospetti di manipolazione. Ma quel che ci interessa non è la disinvoltura metodologica, bensì i criteri che la ispiravano. Il
censimento infatti offriva un’immagine fedele dei rapporti tra le etnie così come veniva concepita a quel tempo dalla leadership intellettuale e politica slovena e croata. Il connotato essenziale di tale immagine era costituito da un drastico calo della componente italiana rispetto ai censimenti eseguiti durante il periodo di appartenenza della regione all’Italia, e anche all’ultimo censimento austriaco del 1910, tanto che gli italiani riconosciuti come tali si riducevano al solo 24,32 per cento della popolazione totale, a fronte del 45,3 per cento d’anteguerra.14 Il sistema utilizzato per arrivare a un risultato del genere – al di là delle forzature plateali – applicava un diverso criterio di rilevamento, fondato non più sulla lingua d’uso, com’era stata prassi comune dei censimenti austriaci e di quelli italiani, bensì sulla lingua materna. A sua volta, tale scelta presupponeva una concezione della nazione di stampo etnicista, che rifiutava gli esiti storici del plurisecolare processo di assimilazione cui erano state sottoposte le comunità rurali slovene e croate della regione. L’effetto di tale impostazione, esemplificato dalla cifra di 73.521 italiani contro i 147.416 censiti nel 1910, era elementare ma ricco di implicazioni politiche. Dal momento che una componente significativa della popolazione italiana della Venezia Giulia risultava in realtà frutto di assimilazione, cioè di snazionalizzazione, nei suoi confronti non solo non c’era alcun bisogno di applicare la normativa di tutela prevista per gli italiani ma, al contrario, andavano indirizzati specifici provvedimenti volti al ripristino della «naturale» fisionomia etnica, stravolta dagli errori della storia. Il ridimensionamento della presenza italiana ottenuto grazie a tali operazioni di ingegneria etnica era piuttosto manifesto, ma ancora insufficiente. La reale consistenza della componente italiana cui le autorità popolari intendevano fare riferimento nell’applicazione della politica della «fratellanza» si assottigliava ulteriormente: agli italiani considerati etnicamente tali bisognava sottrarre quelli non «autoctoni», cioè insediatisi nella Venezia Giulia dopo il 1918. Quello dell’espulsione degli immigrati appare un tema centrale nelle riflessioni compiute in seno al movimento di liberazione sloveno e croato fin dalla primavera del 1944, quando presso la presidenza del consiglio sloveno di liberazione nazionale (SNOS) fu costituito un istituto scientifico diretto dallo storico Fran Zwitter, con l’incarico di
affrontare la delicata questione dei confini italo-jugoslavi.15 In quella sede venne dibattuto il problema del trattamento da riservare ai «fascisti italiani e regnicoli»16 e nel corso dell’autunno venne formalizzata la proposta, poi sottoposta all’approvazione della presidenza dello SNOS, di espellere tutti gli immigrati insediatisi dopo il 3 novembre 1918: i cosiddetti «regnicoli», appunto, comprese le loro famiglie, che si trovavano ancora sul territorio da annettere, come pure tutti quelli che «presero parte all’azione di italianizzazione degli sloveni. I loro beni, qualora considerati dall’autorità popolare d’interesse generale dello Stato, venivano confiscati». A giustificazione della scelta veniva precisato che «un precedente di tale trattamento fu fornito dagli stessi italiani con il trasferimento dei tedeschi e degli sloveni dalla Val Canale. Le autorità fasciste si dedicarono nuovamente al problema del trasferimento degli sloveni dal Litorale, e fu solo grazie al carattere carsico della nostra terra che gli sloveni del Litorale non furono trasferiti o deportati già prima dello scoppio della guerra».17 Il problema del «rimpatrio degli immigrati» non rimase confinato ai dibattiti accademici, ma divenne fin dai primissimi giorni del dopoguerra oggetto di numerosi interventi politici. Così nel maggio del 1945 i giovani dello SKOJ (Fronte della gioventù comunista di Jugoslavia) di Trieste proponevano «di trasferire tutti gli abitanti di Trieste che provengano dall’Italia meridionale o centrale, e che per qualche motivo sono giunti a Trieste. Dichiarano che sono loro il maggior impedimento per l’amore per la Patria, per questo è necessario che la questione si risolva al più presto».18 Si trattava di una presa di posizione che non era certo frutto di estremismo giovanile, bensì espressione di un largo sentire, prevalente anche rispetto alla solidarietà di classe. Se ne sarebbero accorti i comunisti italiani in Istria, che scoprirono non senza sconcerto che molti dirigenti del partito croato erano propensi a espellere tutti i cittadini originari del regno d’Italia, compresi – come scrisse esterrefatto un comunista di Pola – «molti operai che avevano collaborato con tutti i mezzi con il movimento di liberazione».19 Per tirare le fila del ragionamento svolto finora, si può dire che la, politica della «fratellanza» fin dalle sue origini selezionava un nucleo ristretto, con cui le nuove autorità credevano di poter intrattenere un
rapporto positivo, dalla maggioranza della popolazione italiana, che per varie ragioni – di classe, di sentimenti nazionali, di orientamento anticomunista – molto difficilmente si sarebbe integrata nel nuovo Stato socialista jugoslavo. In tale politica quindi esistevano in nuce le premesse per il disfacimento delle comunità italiane e per l’allontanamento di buona parte dei loro membri, anche se non si può parlare della pre-esistenza di un progetto generale di espulsione. Di fatto, le cose andarono anche peggio. Innanzitutto, l’area effettivamente rimasta sotto il controllo jugoslavo risultò nell’estate del 1945 meno estesa rispetto alle previsioni: non di molto, certo, ma quanto bastava perché non vi facessero parte Trieste, Gorizia e Monfalcone, vale a dire proprio i territori in cui si concentrava la componente comunista più radicalmente, e combattivamente, filojugoslava. Ciò non significa che nuclei di proletariato industriale e quadri comunisti di lingua italiana fossero assenti dai territori ad amministrazione jugoslava – si pensi soltanto alle concentrazioni operaie di Fiume e Pola e, anche se in misura nettamente inferiore, di Rovigno –, ma il ruolo strategico della componente italiana ne usciva senza dubbio assai ridimensionato. In secondo luogo, la fase della presa del potere esaltò la dimensione della politica di forza ed esasperò le conflittualità già presenti, scavando solchi e determinando fra gli italiani veri e propri traumi. Le violenze di massa del maggio-giugno 1945 – che in Istria si proposero in parte come continuazione dell’ondata repressiva dell’autunno del 1943 – contribuirono poderosamente a fissare quell’immagine antagonista e terribile dei nuovi poteri, che solo un’attenta politica di «normalizzazione» avrebbe potuto faticosamente dissolvere. Accadde invece il contrario. Il prolungarsi del contenzioso diplomatico sulla nuova frontiera italo-jugoslava favorì infatti il radicalizzarsi dello scontro politico attorno al problema dell’annessione, contribuendo così a perpetuare nella regione una situazione di emergenza. I contrasti nazionali ne venivano esasperati e i poteri popolari sollecitati a spingere le «masse italiane» a una continua mobilitazione politica, circostanza che acuiva le tensioni esistenti tra la popolazione e le nuove autorità.
La conferenza di pace Sotto questo profilo, il 1946 fu un anno decisivo, nel corso del quale la conferenza di Parigi fissò le clausole del trattato di pace con l’Italia. Al riguardo, sia le forze politiche di governo che gli italiani della Venezia Giulia nutrivano pericolose illusioni. Gli italiani dell’Istria, soprattutto i residenti nei centri urbani in cui la presenza slava era modesta o nulla, non riuscivano a immaginare come territori indubitabilmente italiani potessero venire strappati alla madrepatria. La loro conoscenza della situazione internazionale era modesta e filtrata secondo schemi semplificati: il divario abissale fra la civiltà italiana e la barbarie slava; la contrapposizione fra comunismo e anticomunismo che, ben percepibile nelle terre adriatiche, non era però ancora divenuta il perno delle relazioni fra le grandi potenze; la conseguente tendenza a considerare gli Alleati – e soprattutto gli americani – come amici della nuova Italia, e perciò tenuti a difenderne diritti e interessi. A livello nazionale, nei partiti antifascisti era forte la tentazione di sopravvalutare l’importanza che i vincitori avrebbero attribuito allo sforzo compiuto dall’Italia per guadagnarsi il «biglietto di ritorno» attraverso la cobelligeranza e la Resistenza. Tale sopravvalutazione costituiva uno degli aspetti di una difficoltà più generale a intendere la reale portata della sconfitta subita dall’Italia in termini di ridimensionamento definitivo del proprio status internazionale. Difficoltà che si ritrovava non solo nei corpi dello Stato – come la diplomazia o le forze armate – custodi della sua continuità, o nei segmenti più conservatori della classe politica, ma anche in molti soggetti che durante il fascismo avevano sofferto e si erano battuti per la liberazione del Paese. Aveva così preso corpo nei centri di produzione della politica estera italiana un disegno volto a ristabilire – seppur con ovvie attenuazioni e necessari ridimensionamenti – il ruolo dell’Italia in un contesto tradizionale di relazioni fra le potenze europee.20 Fondamenti territoriali di tale ruolo avrebbero dovuto essere il mantenimento di qualche forma di presenza coloniale in Africa e la conservazione dei più importanti tra i frutti della Grande Guerra, vale a dire la linea del Brennero a Nord, e a Est un tracciato confinario il più possibile vicino a quello suggerito da Wilson nel primo dopoguerra, evitando la
cessione dei principali nuclei urbani abitati da italiani, a eccezione di Fiume, chiaramente indifendibile. Le cose sarebbero forse andate così se il trattato di pace fosse stato quello che il governo italiano si aspettava, vale a dire lo strumento attraverso cui realizzare il reinserimento dell’Italia, redenta dagli errori del passato, sulla scena internazionale. Ma così non fu e il trattato rappresentò, al contrario, la «conclusione della sconfitta», il momento cioè in cui la débâcle diplomatica suggellò la catastrofica avventura iniziata con la guerra fascista. Con progressivo sgomento quindi, la delegazione italiana a Parigi, il governo e, gradualmente, le forze politiche compresero che l’Italia – soggetto di politica estera scomparso dopo l’8 settembre del 1943 – continuava a non esistere sul piano internazionale, e pertanto nessun negoziato con i vincitori sarebbe stato possibile, dal momento che il governo di Roma nulla poteva offrire, poiché nulla possedeva.21 La determinazione delle condizioni di pace avvenne quindi in ragione esclusiva degli equilibri tra le potenze vincitrici in una sede, come quella della conferenza di pace, ormai residuale rispetto all’evoluzione dei rapporti tra i grandi. Mentre infatti le relazioni tra Washington e Londra da una parte e Mosca dall’altra, scivolavano sempre più da una logica di appeasement verso quella del containment, a Parigi venne celebrato l’ultimo atto dell’alleanza di guerra, fondata sulla solidarietà tra i componenti della grande coalizione antinazista. Da una situazione del genere gli sconfitti, come l’Italia, non potevano che uscire stritolati e anche i tentativi compiuti dai leader italiani – De Gasperi, Togliatti e Nenni – di avviare un rapporto privilegiato con le potenze più affini – rispettivamente gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e la Gran Bretagna laburista – non sortirono effetto alcuno. Quanto alla necessità di tracciare il nuovo confine italo-jugoslavo, i grandi partirono dall’indicazione di una linea che separasse in modo ottimale italiani e slavi, ma presto si accorsero che disegnare nella Venezia Giulia una «linea etnica» era semplicemente impossibile, vuoi per la collocazione dei gruppi nazionali sul territorio, vuoi per i diversi, possibili modi di intendere l’appartenenza nazionale di singoli e comunità. A risolvere il problema, provò una commissione di esperti nominata dal consiglio dei ministri degli Esteri delle grandi potenze, che nella primavera del 1946 venne inviata nella Venezia
Giulia (ma non a Fiume) ed ebbe numerosi incontri con autorità e cittadini.22 Il risultato fu alquanto paradossale, ma non certo imprevedibile. Ogni esperto propose una diversa linea e le quattro ipotesi coprivano un ventaglio di possibilità che andava dal mantenimento alla sovranità italiana di tutta l’Istria occidentale e meridionale (linea americana), fino all’annessione alla Jugoslavia di tutti i territori a est dell’Isonzo, e anche un po’ oltre (linea sovietica). Sul campo, la presenza della commissione portò a un’impennata dei conflitti politico-nazionali e, nei territori sotto il controllo jugoslavo, a una recrudescenza della repressione contro gli italiani. La questione fu quindi nuovamente rinviata ai ministri degli Esteri, che nel corso dell’estate ne vennero a capo grazie a una classica soluzione di compromesso. A prescindere da qualsiasi valutazione sul merito, la maggior parte dei territori rivendicati dal governo jugoslavo venne effettivamente assegnata alla sovranità della Jugoslavia, Paese vincitore e vittima dell’aggressione italiana del 1941. Solamente i lembi occidentali della Venezia Giulia, con Gorizia e Monfalcone, vennero lasciati all’Italia, mentre per quella che veniva considerata dalle diplomazie alleate la «perla» della regione, la città-simbolo di Trieste, l’accordo si rivelò impossibile e si procedette all’internazionalizzazione. Si trattava di un escamotage che agli occhi dei negoziatori americani, inglesi e francesi presentava numerosi vantaggi: non solo consentiva l’uscita da un vicolo cieco, ma salvaguardava quello che da parte occidentale era considerato l’obiettivo principale da conseguire, vale a dire evitare che un centro di grande rilievo strategico come Trieste cadesse in mano della Jugoslavia comunista, considerata longa manus dell’Unione Sovietica. Sotto questo profilo, la costituzione di un Territorio Libero di Trieste, che avrebbe compreso una stretta fascia costiera da Duino sino al fiume Quieto e che sarebbe stato posto sotto la diretta amministrazione delle Nazioni Unite, poteva sembrare addirittura preferibile rispetto alla conservazione della sovranità italiana sulla città. La tutela internazionale infatti avrebbe offerto maggiori garanzie agli interessi occidentali di quanto non potesse fare l’Italia che, debole e isolata, non avrebbe certo potuto difendere Trieste da eventuali pressioni jugoslave.
Né l’Italia né la Jugoslavia si mostrarono – anche se per motivi opposti – particolarmente entusiaste dell’idea del TLT, ma non erano in grado di opporvisi in maniera efficace. Ci provò Palmiro Togliatti nell’ambito di una manovra di politica estera che avrebbe dovuto approfittare delle difficoltà in cui si dibatteva il governo De Gasperi di fronte alla durezza delle condizioni di pace, per ridare respiro alla posizione del PCI, che si stava facendo assai precaria. Togliatti infatti era ben consapevole che la progressiva divisione dell’Europa in due blocchi minava alle fondamenta la possibilità per i comunisti di rimanere al governo in Italia. Inoltre, il pieno appoggio dei sovietici alle rivendicazioni jugoslave in sede di conferenza di pace, perfettamente in linea con il realismo staliniano – secondo il quale non vi era ragione di favorire un Paese la cui appartenenza all’Occidente veniva data per scontata –, aveva fortemente danneggiato la credibilità del PCI come difensore degli interessi nazionali. Un’intesa diretta italo-jugoslava che chiudesse la crisi al confine orientale, salvando Trieste all’Italia, avrebbe quindi potuto rilanciare la funzione del PCI, e in questo senso Togliatti si adoperò nel corso dell’autunno del 1946, con il sostegno sovietico, riuscendo ai primi di novembre a ottenere un incontro con Tito. Nel faccia a faccia tra i due leader comunisti si formulò una proposta comune che prevedeva l’assenso jugoslavo al mantenimento della sovranità italiana su Trieste, e quindi la non costituzione del TLT, in cambio della cessione di Gorizia, che invece il trattato di pace aveva assegnato all’Italia. Per Togliatti, che sulla mossa a sorpresa aveva investito parecchio, fu un boomerang clamoroso. In Italia, la proposta di cedere Gorizia, ormai salva, per ottenere Trieste, la cui sorte non poteva considerarsi perduta, venne accolta con generale riprovazione e stigmatizzata come «infame baratto». Americani e inglesi manifestarono immediatamente la loro contrarietà, mentre pochi giorni dopo la diplomazia jugoslava fece intendere che l’assenso di Tito al mantenimento della sovranità italiana su Trieste riguardava la sola città, e non la striscia costiera, lunga circa venti chilometri, di collegamento fra il centro urbano e il confine italiano: Trieste quindi sarebbe rimasta isolata nel mezzo del territorio jugoslavo. Che Tito avesse giocato fin dall’inizio sull’equivoco, approfittando
dell’inesperienza diplomatica di Togliatti, o che avesse rivisto la propria posizione date le reazioni negative del governo italiano, è ancora materia di discussione fra gli storici. Resta il fatto che Togliatti rimase con il cerino in mano e, su un piano più sostanziale, la distanza fra le contrapposte aspettative ed esigenze dei governi di Roma e Belgrado si confermava tale da rendere impraticabile qualsiasi ipotesi di negoziato diretto.
La questione del plebiscito Nelle decisioni della conferenza di pace, dunque, l’Italia non ebbe alcuna voce in capitolo e la sua azione diplomatica risultò sostanzialmente inutile, perché mancavano le condizioni minime per renderla efficace. Tale constatazione – sulla quale la storiografia largamente concorda ma che risulta assai meno scontata nella coscienza storica comune – mette bene in luce la reale insignificanza di un dibattito che pure appassionò e divise l’opinione pubblica e la classe politica giuliana e che trovò lunghe eco anche nella pubblicistica italiana: la questione del plebiscito. Di un plebiscito quale via democratica per consentire alle popolazioni giuliane di scegliere la loro appartenenza statale si era già parlato durante la Resistenza. Come si è visto nei precedenti capitoli, gli esponenti sloveni e croati avevano manifestato un’immediata e netta ostilità verso tale ipotesi, sia per l’incertezza dei risultati che per il rifiuto di adottare procedure elettorali «borghesi», del tutto incompatibili con il regime rivoluzionario della Jugoslavia postbellica, e aggravate magari dalla previsione di eventuali forme di controllo internazionale. Al plebiscito elettorale quindi la dirigenza partigiana slovena e croata aveva contrapposto la formula del «plebiscito di sangue». Muovendo dalla premessa che ai fascisti e ai loro collaboratori non poteva essere riconosciuto il diritto di decidere la sorte delle terre giuliane, con tale truculenta espressione si intendeva che la maggior parte degli antifascisti aveva partecipato alla lotta guidata dal movimento di liberazione sloveno e croato, condividendone il programma politico, che prevedeva appunto l’annessione della Venezia Giulia alla
Jugoslavia. Non vi era pertanto alcun bisogno di altre consultazioni popolari perché le masse antifasciste si erano già espresse nel modo più eloquente ed efficace possibile, cacciando dalla regione con le armi, e con il loro sacrificio, nazisti e fascisti. Tale linea venne naturalmente mantenuta da parte jugoslava anche in sede di conferenza di pace, ma nemmeno da parte italiana la tesi del plebiscito venne sostenuta con grande convinzione. Gli esperti giuliani aggregati alla delegazione italiana si divisero: favorevoli quelli provenienti dall’Istria meridionale, soprattutto quando si cominciò a temere che Pola sarebbe stata assegnata alla Jugoslavia, perplessi gli altri. Quanto al governo, è noto che De Gasperi non nutriva grande entusiasmo nei confronti di una procedura che, una volta chiesta ufficialmente per la Venezia Giulia, sarebbe stata probabilmente applicata anche per l’Alto Adige. Questo non significa però, come spesso si è scritto – talvolta per ingenuità, comprensibile in chi vedeva svanire anche l’ultima seppur labile speranza di salvare la propria terra, talaltra per mera polemica di fazione –, che il capo del governo italiano fosse disponibile a uno scambio tra l’Istria e il Tirolo meridionale. In realtà, i responsabili della politica estera italiana non erano per nulla sicuri dell’esito di un plebiscito. Certo, sui tavoli dei delegati alla conferenza di pace i diplomatici italiani rovesciavano indefessamente chili di carte tese a dimostrare, statistiche alla mano, che la popolazione dei territori contesi era nella sua maggioranza indubitabilmente italiana, ma chi del Paese portava la responsabilità non poteva permettersi l’errore di credere ciecamente alla propria propaganda. A un osservatore accorto, infatti, non potevano sfuggire almeno due motivi di preoccupazione. In primo luogo, i dati dei censimenti etnici compiuti durante il periodo di amministrazione italiana non costituivano una base inoppugnabile di riferimento, sia perché quelli relativi alla componente italiana potevano essere stati gonfiati, sia perché, per la loro stessa natura, semplificavano una situazione in realtà molto complessa. Il punto era stato lucidamente colto da Ernesto Sestan, cui nell’autunno del 1944 fu commissionato dal ministero degli Esteri un documento sulla situazione al confine orientale che contenesse le linee guida per rispondere alle rivendicazioni jugoslave, così come
erano state pubblicamente espresse nell’estate del medesimo anno dal ministro per gli Affari esteri del comitato nazionale di liberazione della Jugoslavia Josip Smodlaka. A proposito della composizione etnica delle terre di confine, Sestan partì da un’affermazione perentoria e, verosimilmente, piuttosto traumatica per il suo committente: «Non c’è funambolismo sofistico che valga, bisogna ammetterlo: gli slavi sono, nella Venezia Giulia, la maggioranza». Il discorso avrebbe potuto anche finire qui, Sestan invece proseguì nel suo ragionamento, mostrando come, al fine specifico di un ipotetico plebiscito, i dati statistici contassero solo fino a un certo punto. Mettendo radicalmente in discussione l’attendibilità dei censimenti etnici, Sestan descrisse le gravi difficoltà che si frapponevano all’accertamento della nazionalità in una regione mistilingue e sottolineò come, negli strati inferiori e meno acculturati della popolazione istriana, l’uso di un codice linguistico non potesse venir considerato testimonianza sufficiente di una coscienza nazionale. Sestan concluse il suo discorso con una serie di osservazioni che, per la loro lucidità e pregnanza, vale la pena riportare:
L’accertamento della nazionalità in questa regione non si presenta univoco, né oggettivamente né soggettivamente; vale a dire, né da parte di chi fa il censimento né da parte di chi ne è l’oggetto. La nozione della nazionalità non è un fatto così certo, così indiscusso, di immediata e indubitabile consapevolezza come può credere la persona di cultura ignara tuttavia della situazione tutta peculiare alle regioni mistilingue. In molte parti della provincia di Pola le due nazionalità sono concresciute insieme, l’una si insinua e si confonde nel territorio dell’altra. [...] Frammisti da secoli gli uni con gli altri, questa gente di popolo non ha la percezione immediata della propria nazionalità, come avviene invece di fronte a chi parla lingua diversa in zone linguistiche omogenee; sentono piuttosto l’appartenenza allo Stato che alla nazione. Interrogati, prima dell’altra guerra, sulla loro nazionalità, rispondevano moltissimi di
essere di nazionalità austriaca, cioè di una nazionalità inesistente. Ciò spiega le incertezze ed oscillazioni nei censimenti, le differenze sorprendenti anche a breve distanza d’anni, che non sono dovute soltanto a manipolazioni delle autorità preposte ai censimenti, ma anche a questa incertezza subiettiva di molti dei censiti. La nazionalità, nelle classi più basse di questa terra mistilingue, non è sempre un dato inequivocabile di natura, ma spesso un atto di elezione. Non bisogna credere che, nel caso di un plebiscito, le masse slave (cioè quelle che, esteriormente esaminate, appaiono come indubitabilmente slave, per la lingua più comunemente e nativamente usata) voterebbero per la Jugoslavia, e quelle italiane per l’Italia. Elementi che, nel 1920, si sarebbero forse dichiarati italiani e disposti a votare per l’Italia, ora, forse, voterebbero per la Jugoslavia. In questa loro incerta, crepuscolare consapevolezza dell’appartenenza a questa o a quella nazionalità, divengono poi determinanti, nel decidersi, elementi che nulla hanno a che vedere con il censimento nazionale: l’interesse o il supposto interesse materiale, il risentimento di classe, gli antagonismi di campanile e parrocchia, l’adesione supina a qualche agitatore politico, lo spirito di gregge e di imitazione. Nella pratica, moltissimi di questi elementi delle masse slave (ma anche, se pur in minor misura, delle masse italiane), non si domanderebbero: sono slavo o sono italiano, ma: sotto chi starò meglio, sotto l’Italia o sotto la Jugoslavia? Questo diventa il criterio determinante, anche se poi quella preferenza può riserbare amare delusioni. [...] Tutto questo si è detto per mettere in rilievo che la ripartizione numerica fra italiani e slavi nella Venezia Giulia, anche quando i censimenti la esprimano con ogni possibile esattezza (ciò che non fanno), non si identifica con la volontà di appartenenza all’Italia o alla Jugoslavia: non può quindi essere assunta come criterio assoluto per le pretese dell’una o dell’altra parte, come non si può addurre la prevalenza numerica dei tedeschi d’Alsazia
come argomento per le pretese annessionistiche della Germania. Questa incertezza nazionale ha giocato, in passato, piuttosto a favore degli italiani: ora, probabilmente, piuttosto a favore degli jugoslavi.23
Se dunque, a parere del più autorevole esperto di cui il governo italiano potesse disporre, l’ipotesi di un plebiscito si dimostrava strutturalmente assai ardua, l’evoluzione politica degli anni successivi la rese ancor più aleatoria. I comunisti giuliani di lingua italiana si schierarono infatti apertamente a favore della Jugoslavia, al punto di non riconoscersi più parte del PCI. Invitato a partecipare alla Consulta Nazionale, il 21 settembre 1945 Giorgio Jaksetich, uno dei principali dirigenti comunisti giuliani, rispose: «Ho appreso dai giornali la mia nomina a membro della Consulta italiana. Faccio sapere di non poter accettare tale nomina in quanto la maggioranza della popolazione della Regione Giulia che io dovrei rappresentare ha manifestato in diverse occasioni la sua volontà di unirsi alla Jugoslavia democratica federativa». 24 Non era dato naturalmente sapere quanti tra i comunisti italiani della regione avrebbero seguito fino in fondo la linea annessionista – tanto più che, come vedremo, nella primavera del 1946 si stavano già manifestando nei territori occupati dagli jugoslavi le prime incrinature nel consenso operaio nei confronti del nuovo regime –, ma la combattività filojugoslava dimostrata nel medesimo periodo dalle masse operaie di Trieste e Monfalcone non lasciava certo ben sperare. In condizioni del genere, il plebiscito disperatamente invocato da molti istriani avrebbe costituito un vero azzardo. Naturalmente, l’Italia avrebbe potuto chiedere che la consultazione non riguardasse l’intera regione, ma solo i territori compresi fra le due linee estreme proposte da americani e sovietici, che assegnavano comunque alla Jugoslavia i territori dell’alta Valle dell’Isonzo e del Carso abitati compattamente da sloveni, e l’Istria interna a maggioranza croata; tuttavia non si vede perché Jugoslavia e Unione Sovietica avrebbero dovuto accettare una soluzione ritagliata sulle esigenze italiane. Di conseguenza, vincolare la politica estera italiana alla logica del
plebiscito avrebbe significato scontare una catastrofe certa in Alto Adige in cambio di un risultato incerto nella Venezia Giulia: uno scenario questo, che non solo un presidente del consiglio trentino, ma qualsiasi capo del governo dotato di buon senso non avrebbe potuto far altro che respingere. L’Italia, pertanto, sul plebiscito traccheggiò; ma anche se avesse insistito le sue possibilità di farsi ascoltare, come abbiamo visto, erano pressoché inesistenti. A seguito del trattato di pace quindi, la maggior parte dell’Istria venne assegnata alla Jugoslavia. Secondo alcuni calcoli eseguiti da parte italiana, nei territori ceduti abitavano 225.000 italiani e 320.000 slavi o di altre nazionalità.25 Al di là dell’attendibilità delle cifre, alle quali – con la massima buona volontà – si può riconoscere solo un valore indicativo, divenivano jugoslavi alcuni centri urbani di notevoli dimensioni, come Fiume e Pola, che contavano anche le maggiori concentrazioni di italiani. E fu proprio da tali città che mossero le prime imponenti ondate di esuli.
CAPITOLO 5 La prima ondata: Fiume, Pola e i territori ceduti nel 1947 Fiume Anche a Fiume il momento della presa del potere risultò decisamente traumatico. Fortemente provato dal conflitto, ulteriormente danneggiato dai combattimenti degli ultimi giorni di guerra, con le attrezzature portuali completamente distrutte dai tedeschi in ritirata, subito dopo la Liberazione il capoluogo quarnerino dovette subire anche numerosi episodi di saccheggio da parte delle truppe jugoslave entrate in città nella notte fra il 2 e il 3 maggio 1945 (fra l’altro, scomparve la cassa dell’ospedale e il direttore del nosocomio venne ucciso).1 Ancor più gravi però degli strascichi della barbara logica del conflitto – anche se questi finirono per connotare in certa misura anche la prassi dei primi tempi dell’occupazione jugoslava –2 furono i provvedimenti repressivi presto attuati dalle nuove autorità: una serie di uccisioni di cui caddero vittima alcuni fra i più noti personaggi della città. Alcuni di questi, come il senatore Riccardo Gigante, avevano occupato ruoli di rilievo nel regime fascista, ma molti altri erano conosciuti per il loro antifascismo. Tra questi vi erano aderenti al CLN e soprattutto un gruppo di esponenti del movimento autonomista fiumano: Mario Blasich, Giuseppe Sincich e Nevio Skull. Non si trattava di scelte casuali: è indubbio infatti che bersaglio primario dell’ondata repressiva fossero proprio gli autonomisti, che presentavano caratteristiche politiche tali da renderli assolutamente invisi al nuovo potere. Essi infatti potevano vantare trascorsi antifascisti (rappresentavano la tradizione di quel movimento autonomista che nel primo dopoguerra si era opposto a D’Annunzio e aveva dato vita al breve esperimento di Stato libero travolto dal colpo di Stato
fascista del 1922), avevano largo seguito in città specialmente fra i ceti borghesi ma anche fra i lavoratori –, e non accettavano la linea politica e la guida del movimento di liberazione croato. Per il loro rifiuto di riconoscere l’egemonia del partito comunista croato – e quindi anche di far proprie le parole d’ordine annessioniste – gli autonomisti erano già stati presi di mira da un’intensa campagna denigratoria durante l’occupazione tedesca, e dopo l’instaurazione del nuovo regime vennero esplicitamente indicati come il peggior nemico da combattere. «Il fascismo è morto solo di nome» proclamava la «Voce del Popolo» «i suoi seguaci, non potendo continuare nella loro opera sotto l’antico nome, si camuffano ora nelle più varie maniere [...] a Fiume il neofascismo si chiama autonomismo.»3 Con tali premesse, il destino degli autonomisti era tristemente segnato, e anche la modalità delle esecuzioni dei primi di maggio – i corpi rimasero esposti alla vista dei cittadini, piantonati da guardie dell’OZNA – esprimeva la chiara volontà dei nuovi poteri di imprimere fin dal primo momento nella mente dei fiumani la convinzione che nulla sarebbe stato tollerato al di fuori dell’adesione piena e totale alle direttive del regime. D’altra parte, agli occhi di una dirigenza politica «estremista» uscita dall’esperienza partigiana jugoslava, che sappiamo ferreamente determinata nel perseguire l’obiettivo dell’annessione e impregnata di una volontà di controllo totale sui processi politici in corso sul territorio, il movimento autonomista non poteva che apparire il concorrente più pericoloso. Resta da chiedersi però se quella del suo annichilimento fisico fosse l’unica strada percorribile. A tale riguardo, un documento elaborato nel 1945 all’interno del movimento di liberazione, e che verosimilmente esprimeva opinioni diffuse presso i quadri comunisti italiani, sottolineava come l’orientamento autonomista fosse patrimonio comune della maggioranza della popolazione, perché collegato «alla speranza di una vita migliore, sotto l’aspetto economico, sociale e politiconazionale». Esso non doveva per forza assumere una valenza reazionaria, ma si prestava invece a incanalare anche fasce significative della piccola borghesia e dell’intellighenzia all’interno di un «movimento democratico, volto a vincolare alla cornice della democratica, federativa Jugoslavia, la soluzione di ogni questione
concernente Fiume».4 Una prospettiva del genere poteva forse suonare un po’ ingenua e astratta alle orecchie della leadership croata del tempo, desiderosa di bruciare le tappe, ma la strategia alternativa che venne preferita, e cioè quella della jugoslavizzazione accelerata, produsse effetti assolutamente devastanti. La transizione verso la nuova realtà si svolse infatti senza alcuna gradualità e senza la preoccupazione, potremmo dire, di mediare cambiamenti di portata, sotto tutti gli aspetti, rivoluzionaria, in modo da farli metabolizzare da una popolazione in buona misura diffidente e sconcertata. Entro un anno Fiume divenne dal punto di vista politico-amministrativo una città jugoslava e lettera morta rimasero le dichiarazioni formali del presidente del governo della Croazia, Bakarić, in merito alla concessione a Fiume di una non meglio precisata autonomia municipale, dichiarazioni che a più riprese erano state rilasciate fra l’estate e l’autunno del 1945 all’evidente scopo di intercettare sul piano propagandistico gli orientamenti autonomisti diffusi presso l’opinione pubblica italiana.5 Contemporaneamente, sul piano dei fatti e dell’immagine si procedeva a un’opera di intensa croatizzazione della città. Così, mentre a est si poneva mano con urgenza alla costruzione di nuovi ponti che la unissero a Sušak, a ovest si erigeva una barriera doganale provvisoria, a metà strada tra Abbazia e Fiume, a sottolineare l’ineluttabilità dell’assorbimento della città quarnerina da parte della Croazia, a prescindere da quanto sarebbe accaduto dell’Istria. A questo si accompagnava lo sforzo di enfatizzare ogni traccia della presenza croata in città, dall’istruzione, alla cultura, alla toponomastica. L’intento di ripristinare una visibilità nazionale cancellata a forza dal fascismo si trasformava così in un palese sovradimensionamento del ruolo dei croati nella vita cittadina. Ma ben più significativo di tali atti simbolici era l’insediamento di elementi croati ai vertici dei nuovi poteri popolari, mentre agli italiani, pur di estrazione comunista, veniva riservato un ruolo del tutto marginale. 6 Beninteso, tutto ciò non significava necessariamente l’avvio di un’opera complessiva e sistematica di snazionalizzazione. Tuttavia l’accento posto sulla croatizzazione, più che un generico disagio, trasmetteva agli italiani la precisa impressione che il potere, tutto il potere, non fosse stato assunto da un’autorità intenzionata e
capace di mediare, almeno in certa misura, i conflitti etnici, bensì dal loro tradizionale antagonista nazionale, deciso a rimodellare l’immagine della città e la sua società, secondo i propri fini. Un potere largamente non condiviso, dunque, quello instaurato dal nuovo regime, tanto più che l’esclusione nazionale si accompagnava all’esclusione di classe. Essa infatti non riguardava solo i ceti borghesi ma anche – così pare da alcune fonti, ma riscontri più ampi sarebbero opportuni – quelle frange di intellettuali che pure avrebbero di buon grado giocato un ruolo attivo nell’edificazione della nuova società. Un potere irrefrenabile, in cui la componente poliziesca aveva mano libera, ma anche sostanzialmente inefficiente di fronte ai problemi più pressanti della sussistenza. Il profondo scoramento in cui precipitò ben presto la popolazione fiumana non può infatti essere realmente compreso se l’asprezza della situazione politica non viene calata nel contesto della crisi economica che nei primi anni del dopoguerra attanagliò la città. Ritardi nell’avvio della ricostruzione, paralisi produttiva, blocco del commercio, difficoltà finanziarie e, soprattutto, gravissima penuria di generi alimentari contraddistinsero gli esordi dell’amministrazione jugoslava, i cui quadri dirigenti – reclutati sulla base dell’affidabilità politica – sfoggiavano un’inesperienza e un’incompetenza notevoli, che finivano per aggravare i contorni di un’emergenza legata in buona parte a fattori oggettivi, come la carenza di capitali e di materie prime. Quello dell’incapacità del personale jugoslavo è ovviamente uno dei motivi ricorrenti sia nelle fonti che nelle ricostruzioni di parte italiana, che riproducono lo sconcerto per l’estromissione da un ruolo tradizionalmente riservato agli italiani dei ceti superiori. Anche fonti interne ai poteri popolari confermano però che nel delineare la composizione del CPC (Comitato popolare cittadino) vennero privilegiate nettamente le finalità annessionistiche rispetto a quelle amministrative e gestionali. Una relazione sulla situazione fiumana redatta nel 1948 riferiva per esempio che:
[...] nel 1946, causa la situazione politica in città, il CP assomigliava più a una dirigenza politica che a un organo
del potere. Tale carattere venne dato anche alle elezioni [amministrative del 1946, N.d.A.], per cui si elessero quelle persone che rappresentavano e collegavano tutte le organizzazioni in città, non pensando alla capacità operativa di tale comitato. Vale a dire che era ancora attuale la lotta per l’annessione di Fiume e dell’Istria alla RPFJ.7
Con il passare del tempo la crisi non si allentava, anzi, tendeva a inasprirsi, perché su una condizione occupazionale già pesantissima si scaricarono anche gli effetti dell’epurazione, che colpì in profondità la società locale. L’importanza rivestita dal tema dell’epurazione nel contesto istriano era già stata ben colta dalla storiografia italiana dei primi anni Ottanta, ma il rinnovamento degli studi legato alle nuove acquisizioni documentarie della fine degli anni Novanta, oltre ad arricchire il quadro di importanti dettagli, ha consentito di cogliere fino in fondo la valenza strategica delle politiche di epurazione. In Jugoslavia, come negli altri Paesi comunisti dell’Est europeo, esse costituirono uno degli strumenti privilegiati per il consolidamento dei nuovi regimi.8 A un esame più attento, è possibile riconoscere stili diversi di applicazione di tali politiche epurative all’interno della stessa area istro-quarnerina, ma la sua finalizzazione politica alla liquidazione di persone e gruppi che interferivano con il radicamento del nuovo potere rappresenta il terreno comune delle diverse esperienze. Nel caso fiumano, riusciamo a distinguere varie fasi, collegate fra loro dai criteri fondamentali cui si ispirarono costantemente le autorità preposte ad applicare la «giustizia del popolo», che fondava la sua legittimità unicamente sulla lotta di liberazione e che attribuiva perciò alle nuove leggi un valore «rivoluzionario» di «armi micidiali nelle mani delle masse popolari».9 Tale impianto ideologico, comune a tutta la realtà jugoslava del dopoguerra, dovette però fare i conti con la necessità – da cui non si poté prescindere fino all’annessione formale di Fiume alla Jugoslavia – di non cancellare l’ordinamento giuridico precedente. Il problema venne risolto impegnando i giudici
popolari ad attenersi «alle leggi vigenti, in quanto queste non contrastino con lo spirito e gli interessi del movimento popolare di liberazione. In tali casi, essi giudicheranno in base al principio dell’equità».10 Ciò implicava ovviamente il più completo arbitrio nell’amministrazione della giustizia, in conformità alle esigenze politiche del momento. Come ha ricordato Erio Franchi, giudice popolare a Fiume negli anni 1945-46: «Il partito richiedeva di seguire una linea, tutto il resto veniva piegato alle necessità politiche. Si trovava il modo, velocemente anche, di rintracciare tra le maglie della legge la soluzione più o meno presentabile, più o meno decente, che consentisse di salvare la forma».11 In tale contesto, negli anni 1946 e 1947 si concentrò la maggior parte dei provvedimenti di sequestro e confisca dei beni per reati di collaborazionismo e attività contro il popolo, ovvero contro cittadini considerati «fuggiti».12 La valenza esclusivamente politica attribuita al reato di «collaborazionismo economico», i cui estremi non vennero mai specificati, appare piuttosto trasparente. Primi bersagli dell’ondata epurativa furono infatti i proprietari, azionisti o rappresentanti legali delle maggiori imprese e società fiumane, colpiti anche nei casi in cui si riconobbe, con una sentenza, che non era stato possibile accertare se gli accusati avessero avuto «altro tipo di rapporti con i tedeschi, eccetto quelli necessari», come nei casi in cui risultò provato che gli imputati avevano «sostenuto la lotta popolare di liberazione fornendo denaro e altri sussidi materiali».13 Si trattava semplicemente di lotta di classe, e si avviava quel processo di «espropriazione degli espropriatori» che nel giro di tre anni avrebbe condotto a una drastica trasformazione dell’articolata società fiumana, attraverso la dispersione non solo della borghesia industriale, ma anche del ceto medio.14 I contenuti classisti dei provvedimenti contro i «collaborazionisti» presentavano peraltro altre ricadute, assai gradite al nuovo potere, in quanto favorivano la decapitazione della classe dirigente italiana. Un aspetto, questo, sottolineato pure dalla normativa che colpiva con il sequestro dei beni anche gli «assenti», vale a dire tutti i cittadini che all’inizio del dopoguerra avevano abbandonato la città, sia perché compromessi con i tedeschi, sia perché oppositori del nuovo regime (come numerosi autonomisti ed esponenti del CLN sfuggiti alle uccisioni
della primavera-estate del 1945, e successivamente costretti a riparare in Italia) o ancora perché intimoriti dalla durezza dell’amministrazione jugoslava. Tutti costoro, dichiarati per via amministrativa «nemici del popolo», venivano privati dei mezzi di sussistenza, in modo da rendere inevitabile e irreversibile il loro allontanamento da Fiume. In simili condizioni di indigenza si ritrovò anche un gran numero di dirigenti e impiegati pubblici e privati, licenziati a seguito dell’avanzare dell’epurazione, che nell’inverno del 1945-46 investì anche i lavoratori delle fabbriche, suscitando – sembra – vivaci quanto impotenti malumori tra i comunisti di lingua italiana.15 Miseria materiale e oppressione politica scavarono dunque assai rapidamente un solco fra i poteri popolari e la maggior parte della popolazione italiana. In alcuni casi si andò anche oltre, e la memorialistica della diaspora fiumana è ricca di notizie in merito all’attività di un movimento di resistenza facente capo al CLN, nel quale erano confluiti anche gli autonomisti, particolarmente presente nelle scuole e nelle fabbriche.16 Un confronto più attento fra le varie testimonianze non conduce a porre in dubbio né l’ampiezza delle reazioni negative suscitate dalla nuova politica, né l’esistenza di strutture clandestine di opposizione. Da rivedere, piuttosto, è l’immagine di un movimento resistenziale dotato di chiarezza di obiettivi e di capacità di coordinare sul territorio una vera e propria lotta contro l’amministrazione jugoslava, che accompagnasse l’azione politica e propagandistica condotta in Italia e in sede internazionale per evitare l’annessione di Fiume alla Jugoslavia. Sembra più adeguato parlare di azioni dimostrative e di iniziative di protesta, spesso spontanee ma talvolta anche coordinate, che ebbero il loro epicentro nelle scuole superiori, e del tentativo di utilizzare i pertugi involontariamente concessi dal regime soprattutto in campo sindacale, per testimoniare l’esistenza di orientamenti alternativi rispetto a quelli da esso imposti.17 La reale capacità di tali iniziative di scalfire la presa delle autorità jugoslave sulla città era ovviamente minima, ma le azioni repressive che esse scatenarono furono tali da far intendere che a Fiume nemmeno il più piccolo spazio sarebbe stato concesso a voci dissonanti rispetto a quelle ufficiali, e men che meno ad atteggiamenti non allineati. Così,
eliminati fin dall’estate del 1945 gli esponenti comunisti italiani che rifiutavano l’incorporazione nel partito croato, nel corso dell’autunno vennero uccisi alcuni dirigenti del CLN che erano riusciti a farsi eleggere nei comitati sindacali aziendali, come Matteo Blasich e Angelo Adam, da pochi mesi tornato dal lager di Dachau.18 Una nuova ondata di arresti e condanne colpì gli autonomisti superstiti e un drastico giro di vite fu imposto nelle scuole mentre, più in generale, il controllo capillare esercitato dalla polizia politica, con continui fermi, interrogatori e perquisizioni, diffuse in città un clima di paura e intimidazione. Nell’estate del 1946 la situazione si presentava dunque assai critica. Il «lavoro politico» condotto con grande impegno dagli attivisti delle organizzazioni di massa del regime non aveva affatto contribuito ad accrescere il consenso attorno alle nuove autorità, anzi, insistendo senza posa sui temi dell’annessione e della liquidazione dei «residui del fascismo», aveva consolidato il rifiuto della maggior parte della popolazione italiana nei confronti dei poteri popolari. L’effetto cumulativo di una situazione economica pesantissima – in città si pativa davvero la fame – e senza prospettive di miglioramento, della sensazione di trovarsi in balia di un potere arbitrario e teso a stravolgere i fondamenti nazionali e di classe della società locale, generò assai presto una sorta di disperazione collettiva, che si manifestò in una serie di segnali inequivocabili. Così, la partecipazione di massa alla processione del Corpus Domini del 22 giugno 1946, nonostante le minacce degli attivisti dell’UAIS (Unione antifascista italo-slava), palesava quanto la popolazione fiumana si riconoscesse in un punto di riferimento completamente alternativo rispetto a quelli proposti dal regime. Il significato politico di tale aggregazione antagonista – anche se, ovviamente, del tutto episodica e pacifica – era sottolineato dalla partecipazione alla cerimonia religiosa anche di buona parte delle maestranze dei principali stabilimenti fiumani, a testimonianza dell’insofferenza che la politica del partito comunista croato cominciava a suscitare anche all’interno della classe operaia di lingua italiana. Su un altro versante si collocano le prime partenze dalla città, che assunsero ben presto una portata rilevante, tanto che nel gennaio del 1946 più di ventimila persone, gran parte delle quali
presumibilmente cittadini fiumani, avevano già lasciato la provincia. Si trattava di un flusso composito in cui, oltre agli esuli politici di cui si è già detto, c’erano impiegati, commercianti e artigiani impoveriti. Diverse famiglie inoltre si preoccupavano di mandare «al sicuro» in Italia i propri figli, sia per sottrarli ai rischi dell’incandescente atmosfera scolastica fiumana, sia per porre in salvo la parte più importante del proprio futuro, nell’eventualità tutt’altro che improbabile, che la situazione a Fiume precipitasse e che ogni successiva possibilità di fuga venisse meno. La reazione delle autorità a questa prima ondata di partenze fu ambigua, secondo uno schema di comportamento che si sarebbe più volte ripetuto in altre zone negli anni successivi. Contro quanti manifestavano l’intenzione di abbandonare la città venne lanciata una violenta campagna di stampa e, più concretamente, furono applicate norme durissime che di fatto imponevano ai partenti di rinunciare a tutti i loro beni, mentre la burocrazia rallentava ad arte le pratiche per la concessione dei lasciapassare. Nello stesso tempo però, nulla venne fatto per attenuare, se non rimuovere, le cause di malessere che spingevano all’Esodo. Alla base di tale comportamento apparentemente dissociato, stava un’analisi del fenomeno che si negava alla radice la possibilità di capirlo e quindi di intervenire in maniera efficace per arrestarlo. Qualche tempo dopo, Giusto Massarotto, uno dei personaggi più in vista tra i comunisti di lingua italiana inseriti nei poteri popolari, avrebbe scritto con efficacia:
Non desideriamo che da noi rimangano coloro che intendono fare dell’irredentismo o dello sciovinismo, che non sono sinceramente democratici, che oggi si vendono come servi e spioni all’imperialismo, o che hanno comunque altre cattive intenzioni, e diciamo a questi che li perseguiteremo nella maniera più energica. D’altra parte non desideriamo che a causa della propaganda avversaria vadano via onesti cittadini che non hanno intenzione di diventare strumenti dell’imperialismo.19
La stessa struttura dicotomica su cui si imperniava la politica della «fratellanza» offriva dunque a chi non intendeva o non riusciva a conformarsi integralmente alla nuova realtà, soltanto l’alternativa fra persecuzione ed esilio, mentre il fatto che la scelta dell’Esodo venisse compiuta sempre più massicciamente anche da quanti si era sperato potessero costituire una base di consenso per il regime, veniva addebitato unicamente all’azione della propaganda «reazionaria». Del tutto assente era qualsiasi disponibilità a rimettere in discussione la strategia e i comportamenti concreti che avevano condotto al punto di rottura i rapporti tra autorità e popolazione e, al tempo stesso, mancava la percezione che gli atteggiamenti vessatori nei confronti dei partenti, lungi dal demotivarli, li rafforzavano nella determinazione a fuggire da una realtà di quotidiana oppressione. È stato più volte notato dalla storiografia che nell’autunno del 1946 l’assegnazione ufficiale di Fiume alla Jugoslavia in forza delle decisioni – peraltro largamente previste – della conferenza di pace, trasformò un flusso di partenze già significativo in un vero e proprio Esodo di massa, capace di svuotare pressoché totalmente la città dai suoi originari abitanti di lingua italiana, che si avvalsero del diritto di opzione a favore della cittadinanza italiana, previsto dal trattato di pace, per lasciare legalmente il capoluogo quarnerino.20 Si tratta di una concatenazione reale e importante, ma non esclusiva. Per cogliere appieno le ragioni dell’abbandono della città, le motivazioni di ordine internazionale vanno infatti abbinate a quelle legate agli sviluppi della politica di epurazione, che nel corso del 1947 e – definitivamente – del 1948, si accanì contro i piccoli commercianti e artigiani, sui quali si abbatté la responsabilità del dissesto economico e soprattutto della mancanza di generi di prima necessità che ancora affliggeva la popolazione fiumana. Bollati come «residui del fascismo» e di una classe borghese profittatrice, i proprietari di esercizi commerciali e officine artigianali vennero colpiti da perquisizioni, multe e sequestri a raffica. Il momento conclusivo di tale processo di espropriazione giunse agli inizi del 1948, quando in
tutta la Jugoslavia scattò la seconda fase della nazionalizzazione, diretta a colpire le poche attività private che erano riuscite a scampare alle vessazioni degli anni precedenti. Sistematiche confische dei prodotti e poi anche degli esercizi portarono in breve al definitivo tracollo del settore terziario, completando la distruzione delle basi economiche di quel ceto medio urbano che aveva per lungo tempo costituito il nocciolo duro dell’italianità fiumana.
Un «controesodo»? L’Esodo degli italiani da Fiume proseguì dunque per tutto il 1948, nonostante le difficoltà frapposte dalle autorità jugoslave all’esercizio del diritto di opzione, intersecandosi con altri fenomeni che concorsero a mutare radicalmente la composizione etnica della città. Il primo e più duraturo era costituito dal massiccio afflusso in città di elementi slavi, provenienti sia dai vicini territori croati, che da più lontane località della Jugoslavia. I nuovi arrivati, che assumevano spesso atteggiamenti da colonizzatori ed erano portatori di stili di vita diversi, colmarono nel corso del tempo i vuoti lasciati dai partenti e fecero di Fiume una città interamente jugoslava.21 Il secondo fenomeno, di dimensioni assai minori e per di più circoscritto nel tempo, fu rappresentato da un’ondata migratoria che si muoveva in senso inverso: cittadini italiani si trasferivano in Jugoslavia. Al riguardo si è spesso parlato di un «controesodo», in riferimento non solo alla direzione, ma anche alle motivazioni dei migranti, legate alla volontà di lasciare un’Italia sempre più strettamente inserita nel mondo occidentale e capitalista, per contribuire alla costruzione del socialismo in Jugoslavia. Il termine però è del tutto fuorviante e non fa che riprendere i temi della propaganda politica del tempo. Il flusso di italiani decisi a insediarsi in Jugoslavia contava infatti solo alcune migliaia di persone, e il suo nucleo più consistente era costituito da un gruppo di lavoratori dei cantieri di Monfalcone, espressione cioè di quelle fasce particolarmente agguerrite di proletariato giuliano che si erano invano battute per l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito dando vita anche ad alcuni episodi clamorosi.
Il 30 giugno 1946 per esempio, a Pieris, poco oltre il ponte sull’Isonzo, i militanti del PCRG (partito comunista della regione Giulia) avevano interrotto con lanci di pietre una tappa del Giro d’Italia che si sarebbe dovuta concludere a Trieste; ne era seguito un crescendo di violenze di segno opposto, cui i sindacati unici (SU) – comunisti e filojugoslavi – avevano risposto con uno sciopero generale, dichiarato però illegale dal GMA (governo militare alleato). Di conseguenza, l’intero comitato di sciopero era dovuto riparare in zona B, dove trovarono rifugio anche altri esponenti comunisti ricercati dalle autorità alleate o italiane, come il comandante partigiano Mario Toffanin detto Giacca, responsabile della strage di Porzûs. Per una classe operaia che aveva lottato con durezza in favore della soluzione socialista jugoslava, ritrovarsi dunque all’indomani della firma del trattato di pace nuovamente sotto l’amministrazione italiana, ed esposta a pesanti ritorsioni politiche ed economiche, era una prospettiva tutt’altro che confortante.22 D’altra parte, il massimalismo cui era stata improntata l’azione politica della dirigenza del PCRG, che non prevedeva alcuna alternativa all’annessione alla Jugoslavia, conduceva logicamente alla conclusione, altrettanto estrema, secondo cui, posto che il territorio sarebbe rimasto all’Italia, toccava agli operai trasferirsi oltre il nuovo confine per costruire il comunismo. Coerentemente con tale impostazione, partì dunque dai vertici del partito e del sindacato una massiccia campagna in favore dell’emigrazione in Jugoslavia: attraverso la stampa e le assemblee popolari i comunisti isontini furono esortati a «mettere le ruote» alle case, per spostarsi nella vicina repubblica.23 Gli. appelli dei dirigenti del PCRG e dei su erano certo animati anche da un intento propagandistico: contrapporre al massiccio Esodo degli italiani che si stava profilando in particolare da Pola, e che suscitava vasta eco sulla stampa anticomunista, un «controesodo» di opposto segno politico. Esplicite erano al riguardo le affermazioni del periodico in lingua italiana del PCRG «Il Lavoratore», del 19 marzo 1947:
Le manovre per indurre i cittadini di Pola ad abbandonare la città sono ormai note. [...] La reazione sa bene le attrattive che una città italiana come Pola, col suo rapido sviluppo economico, con le forze del lavoro protette da una legislazione, la più democratica dell’Europa, dopo quella dell’Unione Sovietica, eserciterebbe sulle forze del lavoro italiane della penisola. La reazione non potrebbe più speculare sul sentimento nazionale. Al contrario, i lavoratori italiani farebbero di tutto per raggiungere le stesse condizioni dei loro fratelli di Pola. Quindi, esodo, esodo ad ogni costo. Non importa se la penisola non ha pane per sfamare i propri figli, non importa se gli esuli dormiranno come bestie nei bunker o nelle cantine. Esodo! Quanto diverso si presenta il quadro dei lavoratori italiani del Monfalconese che emigrano nel Paese amico di tutti i lavoratori: la nuova Jugoslavia di Tito. [...] L’accoglienza che i lavoratori di Monfalcone hanno ricevuto è davvero degna di un Paese che ha superato ogni preconcetto razziale, dove i calli dei lavoratori non hanno nazionalità. [...] Quando i lavoratori devono attendere qualche giorno per formare i gruppi delle varie specializzazioni, sono ospitati nei migliori alberghi di Abbazia, Cerkvenica, Novi, dove un tempo erano ospitati i grandi magnati dell’industria e del commercio o della decrepita aristocrazia, con le loro bagascie. Non si può fare a meno di fare il confronto con le miserevoli condizioni degli ingannati cittadini di Pola.24
Ma dietro alle motivazioni strumentali stava la realtà di una Jugoslavia con l’economia a pezzi, afflitta da una disperata mancanza di tecnici e operai qualificati, ulteriormente aggravata
dalle partenze degli italiani di Fiume e di Pola, principali centri dell’attività cantieristica. Gli esponenti di vertice del partito giuliano lo dissero chiaramente, replicando alle perplessità di un dirigente del PCI, Giordano Pratolongo, che nel gennaio del 1947, di fronte alla vera e propria «evacuazione» degli operai del Monfalconese, aveva sottolineato il rischio che la zona rimanesse sguarnita di quadri e attivisti.25 «Loro pur convenendo con me su questo aspetto politico» riferì Pratolongo alla direzione nazionale del PCI «affermano però che i bisogni della ricostruzione e del piano economico della Jugoslavia subordinano la considerazione politica da me fatta.»26 A Fiume pertanto si trasferirono fra i 2000 e i 2500 operai isontini, che occuparono i posti di maggior responsabilità nelle officine del silurificio, della Torpedo e della raffineria abbandonati dai lavoratori locali, ma non furono i soli italiani a giungere in città: nel medesimo periodo fece infatti il suo arrivo anche un buon numero di intellettuali «regnicoli», provenienti cioè da varie parti d’Italia, con una forte percentuale di meridionali. Erano insegnanti, giornalisti, attori e artisti d’ogni genere, tanto che nel 1948 a Fiume l’intera orchestra dell’Opera, buona parte dei cantanti, attori e registi del Teatro del Popolo, quasi tutti i giornalisti del quotidiano «la Voce del Popolo» e delle altre pubblicazioni in lingua italiana, molti maestri e insegnanti di scuola media erano immigrati non giuliani. 27 Per qualche momento insomma, a Fiume si costituì una nuova, singolare comunità italiana, non autoctona, giustapposta a quel che restava di una società locale in via di rapida sparizione, le cui logiche e passioni risultavano incomprensibili per i nuovi arrivati, al di là del disagio dovuto alle sempre più serrate partenze che dall’oggi al domani troncavano rapporti appena allacciati e mutavano il volto della città. Quasi accampata in una Fiume ormai largamente jugoslavizzata e terribilmente immiserita, questa nuova comunità italiana era assai variegata per composizione, ma unita nell’entusiasmo di chi voleva costruirsi una vita nuova in un mondo che avrebbe dovuto consentire la realizzazione degli ideali socialisti e internazionalisti. In questo senso, anche se solo per pochi mesi, Fiume rappresentò per quel grappolo di italiani respinti dalla storia del loro Paese, una sorta di luogo dell’utopia, o meglio, dell’illusione. La durezza della politica del dopoguerra, l’intollerante rigidità dei rapporti gerarchici nel mondo
comunista dominato dall’Unione Sovietica e l’altrettanto intollerante fermezza del regime stalinista jugoslavo stroncarono rapidamente quella breve stagione. Quando la risoluzione del Cominform del 28 giugno 1948 «scomunicò» il partito comunista jugoslavo invitando gli «elementi sani» a destituire i propri dirigenti, i monfalconesi vennero a trovarsi in una situazione impossibile. I comunisti italiani si riconobbero immediatamente nelle critiche che la risoluzione rivolgeva al partito jugoslavo: prevalenza degli elementi nazionalisti, scarsa democrazia interna, metodi militari di direzione, incapacità di rifornire di generi alimentari la popolazione urbana eccetera. Erano rilievi che esprimevano al meglio le perplessità che gli operai isontini avevano già maturato nei mesi trascorsi a contatto con la dirigenza croata, e che facevano riferimento soprattutto alla predominanza degli elementi croati e all’emarginazione di quelli italiani, all’insufficienza dei quadri di partito – spesso accusati pure di trascorsi fascisti -, alla scarsa partecipazione operaia alla vita sindacale e di fabbrica, allo «sciovinismo» cui il partito jugoslavo aveva lasciato ampio spazio.28 Ma se anche così non fosse stato, la fedeltà dei comunisti giuliani a Stalin era indiscussa ed essi, con incredibile ingenuità, la manifestarono in maniera esplicita e clamorosa. A centinaia, i monfalconesi parteciparono a riunioni e comizi pro Cominform e, quando la dirigenza comunista jugoslava convocò un’assemblea in un teatro cittadino, per spiegare le ragioni di Tito, accadde l’irreparabile: i relatori ufficiali furono sommersi dai fischi, mentre i monfalconesi prendevano la parola attaccando la politica del partito a Fiume. Alla fine, il loro leader, Ferdinando Marega, intonò l’Internazionale e tutti i presenti si unirono al canto, abbandonarono la riunione e formarono un corteo che sfilò per le vie della città.29 A dire il vero la repressione non fu immediata. La dirigenza jugoslava organizzò con gli esponenti monfalconesi una serie di riunioni che misero però maggiormente in luce l’abisso politico che si stava aprendo: alle accuse di «deviazionismo» rivolte al partito jugoslavo, i monfalconesi si sentirono rispondere che «la patria si ama anche quando non è socialista».30 Ma quella patria non era la loro, non era riuscita a diventarlo, e l’Italia del resto non lo era più, perché era stata rifiutata. La portata del dramma perciò fu ben più
ampia di quanto non lasci intendere il numero di quanti furono colpiti dai più gravi provvedimenti di polizia: solo una quarantina di monfalconesi subirono la deportazione nel campo di «rieducazione» di Goli Otok – l’inferno attraverso il quale il regime cercava di piegare i cominformisti –, cui vanno aggiunti i membri di una cellula clandestina di militanti italiani, costituitasi a Fiume indipendentemente dalle vicende dei monfalconesi al fine specifico di contribuire al rovesciamento di Tito, ma ben presto individuata dall’UDBA, la polizia politica.31 Al di là però della sorte terribile di una cinquantina di elementi più esposti, l’intera esperienza delle migliaia di lavoratori italiani emigrati in Jugoslavia perse di colpo ogni senso. Il clima era cambiato, l’esistenza stessa del socialismo nel Paese di elezione era messa radicalmente in dubbio, i comunisti italiani erano divenuti complessivamente sospetti e sottoposti a licenziamenti, angherie, isolamento. Alla spicciolata quindi, piegati dalla delusione, cominciarono a tornare in un’Italia che li accolse tutt’altro che volentieri, ritrovandosi senza lavoro e spesso senza casa. «Quel marchio della Jugoslavia ce lo portiamo ancora sulle spalle, perché siamo tornati con la coda fra le gambe, ce la siamo cavata solo grazie alla tenacia»32 ha raccontato un testimone, ma la tenacia non bastò per tutti, e molti, senza patria e senza risorse, dovettero emigrare nuovamente, in Francia, in Svizzera, in Svezia. Ancor peggio, se possibile, andò agli oppositori più convinti del regime di Tito: liberati alla metà degli anni Cinquanta dopo una durissima detenzione, tornarono in Italia quando ormai si era avviato il processo di destalinizzazione e i rapporti fra Tito e il PCUS stavano migliorando. Il ricordo perciò della loro lotta e delle loro sofferenze divenne scomodo e fu cacciato anch’esso nel grande armadio delle memorie dimenticate del Novecento, colmo di spezzoni di vite bruciate, di drammi ignorati, di terre perdute e di ideali infranti, che solo negli anni Novanta ha cominciato a schiudere le sue ante.33
Pola L’Esodo da Fiume si svolse in sordina, considerata la condizione di quasi assoluto isolamento dall’Italia e dall’Occidente in cui il
capoluogo quarnerino aveva vissuto fin dall’immediato dopoguerra. Sotto gli occhi dell’opinione pubblica italiana, e in parte anche di quella internazionale, si snodò invece la vicenda di Pola, che in prima battuta presenta caratteri molto diversi, quasi speculari, a quelli che caratterizzarono la situazione fiumana. Sottoposta anch’essa a una dura occupazione jugoslava nella primavera del 1945, Pola vide la sua sorte ribaltarsi con l’accordo di Belgrado del 9 giugno, in forza del quale le formazioni jugoslave dovettero allontanarsi e i poteri popolari vennero sostituiti da un governo militare alleato, che resse la città fino a quando il trattato di pace ne stabilì la cessione alla Jugoslavia. Fu proprio tale decisione a far scattare l’Esodo di massa, che ebbe quindi carattere preventivo rispetto all’avvento definitivo dell’amministrazione jugoslava. A un’analisi più attenta delle forze in gioco e delle reazioni della popolazione italiana, però, entrambi i casi di Fiume e di Pola finiscono per presentare alcuni elementi costitutivi assai simili. Identico per esempio fu il percorso compiuto nelle due città dalla classe operaia di lingua italiana, inizialmente ben disposta nei confronti dell’annessione, ma che finì poi per ribaltare la sua posizione. A Pola il momento di svolta nell’atteggiamento del proletariato viene normalmente collocato nella manifestazione filoitaliana organizzata il 22 marzo 1946 in occasione della visita in città della commissione alleata per la definizione dei confini, e in cui si ebbe un massiccio concorso di operai che inalberavano la bandiera rossa. Si trattava peraltro soltanto della conclusione di un processo di più lungo periodo, di cui ignoriamo l’esatta sequenza dei passaggi, anche se numerose testimonianze concordano nel segnalare una prima incrinatura della fiducia delle masse operaie nei confronti della dirigenza comunista croata già al momento del subentro dell’amministrazione anglo-americana, quando l’abbandono della città da parte delle truppe jugoslave venne preceduto dalla sistematica rimozione e dal trasferimento oltre la linea Morgan delle attrezzature industriali sopravvissute agli eventi bellici. Altre fonti di matrice comunista italiana suggeriscono la «prevalenza di elementi croati impregnati di nazionalismo» all’interno delle organizzazioni comuniste locali, ed elencano gli «errori degli slavi», che avrebbero sviato «la classe lavoratrice dal giusto
obiettivo della lotta di classe e del Fronte unico di tutte le forze sinceramente democratiche e antifasciste». Riferiscono poi delle fortissime pressioni esercitate sui quadri italiani per farli esprimere in modo individuale e formale in favore dell’annessione – tagliandoli fuori, in caso contrario, dalla possibilità di compiere un reale lavoro politico – e denunciano la tracotanza dei dirigenti croati, propensi alla derisione nei confronti del PCI e dell’esperienza resistenziale italiana. Si tratta, allo stato attuale della ricerca, soltanto di indizi frammentari, che però nel loro insieme convergono nel sottolineare come anche gli ambienti italiani più aperti alle istanze del movimento di liberazione jugoslavo non riuscissero più ad assorbire le spinte nazionaliste prevalenti negli atteggiamenti politici dei leader comunisti croati alla guida del partito in città.34 Ma oltre ai percorsi interni alla classe operaia, vi è un dato più generale che lega strettamente le vicende di Pola a quelle degli altri territori della regione. Anche qui, la presa del potere jugoslava nella primavera del 1945 ebbe sulla popolazione italiana l’effetto di un trauma. Naturalmente questo fu in primo luogo dovuto all’ondata di violenze attraverso la quale i poteri popolari – nel capoluogo istriano come altrove – si prefiggevano il duplice obiettivo di attuare un’epurazione preventiva della società polesana non solo dai fascisti rimasti in città ma anche da possibili elementi di disturbo, nonché di intimidire gli incerti e i riottosi nei confronti dell’annessione della città alla Jugoslavia socialista. Ma contò pure la strategia concepita dalle autorità per gestire una situazione locale della cui difficoltà si era ben consapevoli. Come è già stato da tempo rilevato in sede storiografica, tale strategia si imperniava su un rapporto di rigida dipendenza delle masse dalla dirigenza del movimento di liberazione, considerata l’unica depositaria e interprete della linea politica da applicare in condizioni di emergenza, com’erano quelle dell’immediato dopoguerra. 35 Ciò significava ovviamente autoritarismo, se necessario pugno di ferro, e comunque tendenza a leggere ogni istanza che si discostasse dalle direttive ufficiali in termini di «resistenza» da eliminare instaurando una maggior disciplina. Lo disse con chiarezza un documento predisposto alla vigilia della Liberazione: «[...] noi dovremo sospingere il popolo anche con metodi bruschi pur di creargli, in un domani molto
prossimo, il reale benessere tanto desiderato».36 Viste tali premesse, non c’è da stupirsi se la percezione dell’amministrazione jugoslava da parte della grande maggioranza della popolazione polesana fu decisamente negativa, e resa ancor più sgradevole dal fatto che essa sembrava inserirsi alla perfezione, offrendone una controprova concreta, nel tessuto di pregiudizi antislavi da tempo diffusi fra gli italiani dell’Istria. Così, la durezza repressiva, lo sfogo delle pulsioni di rivincita nazionalista, accompagnati da aspetti e comportamenti dotati di fortissima carica simbolica – come la visione dell’«esercito in papuze», le lacere formazioni partigiane, o il kolo, la tipica danza balcanica ballata senza sosta nelle piazze, segno evidente di una volontà di appropriazione degli spazi connotativi dell’italianità urbana – offrivano agli italiani l’immagine scostante di un potere assolutamente estraneo e nemico, dal quale difendersi e sperare di liberarsi, e con cui era impensabile riuscire a convivere. Si trattava quindi di un pessimo esordio, ma ciò non vuol dire che nell’estate del 1945 tutti i giochi fossero ormai fatti. Al contrario, va rilevato come sia stata proprio l’asprezza dello scontro politico accesosi in città nei mesi successivi, in concomitanza della visita della commissione alleata e delle trattative di Parigi, a polarizzare i due orientamenti – quello filoitaliano e quello filojugoslavo – trasformandoli in fronti tra loro assolutamente non comunicanti. Vennero così progressivamente a ridursi gli spazi per i tentativi di dialogo condotti da alcune frange dello schieramento italiano – come il giornale «L’Arena di Pola» che sotto la direzione di Guido Miglia perseguì per alcuni mesi una politica della mano tesa verso gli avversari – e la cittadinanza si spaccò con una radicalità che non lasciava ai perdenti alcun margine di accettazione della soluzione avversa. All’interno di questo quadro, rimangono tuttavia aperti numerosi interrogativi sul massimalismo della linea tenuta dalle forze filojugoslave, imperniata su un’analisi eccessivamente semplificata delle forze in campo – o si era sostenitori dell’annessione alla Jugoslavia o nemici del popolo – e priva, anche solo sul piano tattico, di ogni appiglio che consentisse di allentare la contrapposizione tra i fautori della causa jugoslava e una cittadinanza evidentemente schierata, nella sua larghissima maggioranza, per la soluzione italiana. L’impressione offerta dalle
fonti – che peraltro dovrebbero venire sostanzialmente integrate dai materiali d’archivio croati, ancora inesplorati – non si scosta molto da quella riguardante gli altri territori occupati o rivendicati dagli jugoslavi. La preminenza ossessiva attribuita all’obiettivo dell’annessione, eretto a unico criterio di valutazione delle scelte politiche, relegava del tutto in secondo piano il problema del consenso, della sua ricerca e, vice-versa, del suo convertirsi in un dissenso capace di prendere la forma del rifiuto assoluto, cioè dell’Esodo. Su questo nodo quindi vi è ancora molto da scavare, mentre più agevole appare il discorso relativo alla componente italiana. Complessivamente, anche a Pola la popolazione italiana finì per ritrovarsi di fronte a un’alternativa: o rimanere nella propria città in balia di un potere che non offriva alcuna garanzia sul piano della sicurezza personale, né su quello della libera espressione del proprio sentire nazionale e politico, oppure abbandonare tutto per prendere una via dell’esilio che appariva assai incerta, mancando ancora una politica di accoglienza da parte del governo italiano. La decisione fu quella di partire, ma i meccanismi che la produssero sono ancora in parte da indagare. Per farlo le sole categorie della storia politica sono probabilmente insufficienti, perché esse vanno integrate da una molteplicità di altri fattori, anche di natura psicologica, che pesarono in quel piccolo mondo chiuso e assediato che era la città istriana tra il 1945 e il 1947. Così, le notizie trapelate alla metà di maggio del 1946 in merito all’orientarsi delle grandi potenze sulla linea francese – che escludeva Pola – come nuovo confine tra Italia e Jugoslavia rappresentarono un autentico fulmine a ciel sereno, dal momento che nei mesi precedenti in città si era diffuso il convincimento che il compromesso fra le grandi potenze sarebbe avvenuto sulla linea americana o su quella inglese, che conservavano entrambe Pola all’Italia. Ancora il 13 maggio infatti uno dei membri della delegazione italiana a Parigi aveva ottimisticamente dichiarato: «Le mie impressioni sono le seguenti: in questi mesi abbiamo sfiorato un abisso, ma tale pericolo è ormai sorpassato».37 Il giorno dopo, la notizia della cessione alla Jugoslavia si abbatté dunque su una popolazione che si era nel frattempo ricompattata attorno alla parola d’ordine della difesa dell’italianità,
dietro la quale si celavano contenuti molto diversi secondo le appartenenze sociali e gli orientamenti ideologici: il timore della distruzione dell’identità italiana da parte del nazionalismo croato, la paura alimentata dal ricordo dei «quaranta giorni» di occupazione jugoslava e delle continue notizie di violenze provenienti dalla circostante zona B, l’anticomunismo dei ceti medi e la delusione operaia per la versione croata del socialismo. Ma tutti i più disparati motivi convergevano ormai a formare una piattaforma comune, unificata dal rifiuto della dominazione jugoslava. I successivi avvenimenti dell’estate diedero prova che, dopo le divisioni e gli scontri dei mesi precedenti, i cittadini di Pola avevano ormai trovato una disperata coesione nel rigettare le decisioni della conferenza di Parigi. Il 25 giugno la camera del lavoro – che raggruppava i sindacati filoitaliani – proclamò uno sciopero generale di protesta contro l’andamento delle trattative di pace, cui si affiancò una serrata voluta congiuntamente dalle associazioni degli industriali e dei commercianti: l’adesione fu larghissima, anche fra gli operai dell’industria, dove i sindacati unici – filojugoslavi – furono in grado di controllare soltanto alcune roccheforti. Il 3 luglio si costituì un «Comitato Esodo di Pola», che il 12 luglio cominciò la raccolta delle dichiarazioni dei cittadini che intendevano lasciare la città nel caso della sua cessione alla Jugoslavia; due settimane più tardi l’operazione era conclusa e il 28 luglio i dati rivelarono che su 31.700 polesani, 28.058 avevano scelto l’esilio.38 Tatto è stato in genere interpretato come un tentativo di pressione sugli Alleati a sostegno della richiesta di plebiscito, ma ebbe anche un significato assai più profondo e periodizzante. Come ha efficacemente notato Liliana Ferrari: «l’Esodo si era trasformato nella maggior parte della popolazione da reazione istintiva in fatto concreto, che acquistava via via uno spessore organizzativo e iniziava a incidere sulla vita quotidiana degli abitanti».39 Nell’estate del 1946 dunque, a Pola l’Esodo era già una realtà in cammino, ma a far precipitare gli eventi contribuì una catastrofe collettiva: domenica 18 agosto una trentina di mine, residuato bellico, accatastate sulla spiaggia di Vergarolla, esplose improvvisamente mentre l’arenile era affollato di bagnanti. Lo scoppio – avvenuto per ragioni mai del tutto chiarite, ma che gli
italiani addebitarono immediatamente a un attentato jugoslavo – costò la vita ad alcune decine di persone, ferendone e mutilandone moltissime altre, e colpì duramente un’opinione pubblica già prostrata da una sensazione di generale abbandono, diffondendo la psicosi di una sorta di congiura a danno degli italiani. Nella memoria collettiva perciò, il ricordo della tragedia di Vergarolla si è sedimentato come un momento di svolta, in cui anche gli incerti si sarebbero convinti che la permanenza in città, partiti gli Alleati, sarebbe stata impossibile e insensata:
[...] lo scoppio fece abbassare il volume alla città. A quel punto si operò lo scollamento decisivo, inesorabile. L’impalpabile nevrosi della catastrofe vicina era già diffusa nell’aria e fra la gente. Lì, a quel funerale, dilagò il senso dell’ineluttabile e della sua accettazione, lì ci furono scene drammatiche, scelte di fuga da un luogo di morte. [...] L’esodo a quel punto si fece visibile, massiccio, collettivo. Vergarolla aveva modificato radicalmente le sorti della città.40
Si tratta, evidentemente, di passaggi psicologici delicati, che memorialistica e letteratura ci aiutano oggi a capire meglio, confermandoci come i percorsi che condussero alla scelta dell’Esodo presero le mosse dalla società civile prima che dalle forze politiche. La stessa cosa del resto era già accaduta nella primavera del 1946, quando la pubblica manifestazione degli orientamenti filoitaliani della maggioranza dei polesani aveva quasi colto di sorpresa il comitato di liberazione nazionale, che coordinava l’azione dei gruppi politici favorevoli al mantenimento della sovranità italiana. Quando poi si riseppero le decisioni della conferenza di pace, l’orientamento plebiscitario in favore dell’Esodo apparve più come la reazione spontanea e disperata di una popolazione le cui illusioni erano andate inopinatamente in frantumi, piuttosto che il frutto di
un’azione di convincimento da parte delle formazioni politiche italiane, che organizzarono il trasferimento in massa dei cittadini. Compito difficile, anche perché – come meglio si vedrà in seguito – almeno fino all’autunno del 1946, nelle more degli ultimi tentativi compiuti per mitigare le clausole del trattato di pace, il governo di Roma era tutt’altro che incline a favorire l’abbandono in blocco della città da parte degli italiani. Tale atteggiamento mutò solo quando venne meno anche la speranza di un rinvio nell’esecuzione del trattato e di fronte alle reiterate pressioni dei polesani, preoccupati che alla firma italiana del trattato, prevista per gli inizi di febbraio del 1947, succedesse immediatamente l’instaurazione della sovranità jugoslava.41 Così non fu, dal momento che l’entrata in vigore dello stesso venne poi fissata al 15 settembre 1947, ma intanto, in assenza di notizie certe, verso la fine dell’anno il clima di inquietudine a Pola si fece pesantissimo. Il 21 dicembre il vescovo, monsignor Radossi, dichiarò:
Alla conferenza di New York hanno stabilito che il trattato con l’Italia sia firmato il giorno 10 febbraio. Si vede che i signori che hanno fissato quella data non sono democratici, perché il democratico sa che in questi mesi la gente ha freddo e che i poveri stanno particolarmente male, e il saggio diplomatico non può non prevedere la possibilità di un esodo in queste circostanze.42
Di fronte al panico crescente in città, il CLN dichiarò dunque aperto l’Esodo il 23 dicembre 1946, quando ancora i mezzi erano insufficienti e i piani di sistemazione non ultimati. I polesani così cominciarono ad abbandonare la città in pieno inverno, su due piccole motonavi che facevano la spola tra Pola e Trieste e su motovelieri e pescherecci diretti ai porti italiani dell’Alto Adriatico; solo ai primi di febbraio a essi si unì il piroscafo Toscana, messo a disposizione dal governo italiano, che sino al 20 marzo trasportò a
Venezia e Ancona migliaia di cittadini, insieme a circa 5000 abitanti della zona B che intendevano anch’essi prendere la via dell’esilio. Dopo quella data, rimasero in città soltanto alcuni elementi «indispensabili» delle pubbliche amministrazioni, che sarebbero partiti insieme alle truppe alleate al momento della consegna dei poteri, e circa 3500 persone che avevano invece deciso di provare a vivere sotto il nuovo regime. Ma non se ne andarono soltanto i vivi. Chi partiva non voleva lasciar nulla nella terra divenuta nemica. Pola non stava più lì, ma nell’esilio, e molti polesani portarono con sé, nelle bare dissotterrate in fretta, anche i propri morti.
I territori ceduti nel 1947 Oltre a Fiume e a Pola, l’ondata di esodi legata alle decisioni della conferenza di pace coinvolse tutti gli altri territori italiani passati sotto la sovranità jugoslava, vale a dire la maggior parte dell’Istria, eccettuata la piccola area destinata a concorrere, insieme a una fetta della zona A in mano anglo-americana, alla formazione del Territorio Libero di Trieste. Le situazioni locali si presentavano qui assai variegate, e non è possibile descriverle nel dettaglio: si tenga comunque presente che nel caso delle campagne e dei borghi dell’Istria centro-meridionale si trattava di realtà per molti versi ancora premoderne, con la sola parziale eccezione di Rovigno. In tali ambiti perciò, la dominazione jugoslava, oltre a mostrare gli aspetti già descritti per quanto riguarda il rapporto tra le autorità e la popolazione, che rappresentarono una costante delle vicende istriane del dopoguerra, attivò anche un processo di distruzione dei valori tradizionali – sul piano religioso e sociale, nel rapporto con la terra e con il lavoro – che sconvolse le comunità italiane e il cui peso va attentamente valutato, insieme alle spinte di natura più immediatamente politica, nel discutere sulle ragioni dell’Esodo. Un ruolo tutt’altro che secondario venne svolto poi da alcune iniziative, tipiche del clima di «comunismo di guerra» presente in quegli anni nella penisola istriana, e che – come ha efficacemente notato Darko Dukovski – «si riduceva più a uniformare la povertà che a garantire le necessità minime dei singoli e delle famiglie». 43
Secondo quanto affermato da una commissione di inchiesta creata nel 1951 dal partito comunista jugoslavo al fine di «verificare le ingiustizie commesse nei confronti della popolazione», che avevano poderosamente contribuito a spingere alla fuga buona parte degli istriani, uno dei motivi scatenanti l’Esodo andrebbe individuato nei criteri di reclutamento della manodopera necessaria alla costruzione della ferrovia Lupogliano-Stallie, definita dalla stessa commissione «la Siberia istriana». Ma al «lavoro volontario», cioè in massima parte coatto secondo il modello sovietico, si fece largamente ricorso anche per risollevare la produzione delle miniere di carbone e delle cave di bauxite, trasformate – secondo la medesima fonte – «in veri e propri lager». 44 Tali comportamenti, usuali nella Jugoslavia del tempo, suscitarono anche in Istria disagio e risentimento nella popolazione, italiana o croata che fosse, mentre nei territori annessi in forza del trattato di pace l’insoddisfazione degli abitanti per la durezza delle politiche cui erano sottoposti trovò inopinatamente una valvola di sfogo che rischiò di far collassare l’intera società locale. Infatti, l’articolo 19 del trattato prevedeva al paragrafo 2 la possibilità per gli istriani rimasti nelle aree passate alla sovranità jugoslava, di optare per la cittadinanza italiana e di trasferirsi quindi in Italia, riservando peraltro tale diritto alle sole persone che avessero l’italiano come lingua d’uso. In Istria fu il caos. Dopo un avvio abbastanza lento, nel corso della tarda primavera del 1948 il ritmo delle domande di opzione si impennò bruscamente, fino a diventare una vera e propria valanga. Aspetto ancor più importante, le richieste di abbandonare il Paese non provenivano soltanto dagli abitanti delle cittadine costiere, la cui fisionomia quasi integralmente italiana era ben nota, ma interessavano anche una larga porzione dell’entroterra istriano, dove la situazione agli occhi delle autorità jugoslave appariva ben diversa. L’italianità dei centri dell’Istria interna infatti non era mai stata riconosciuta dagli jugoslavi, che – anche in sede di discussione dei nuovi confini – avevano qualificato la presenza italiana nel cuore rurale della regione come frutto di processi di snazionalizzazione di lungo periodo, accelerati dalla politica fascista. Ora, una percentuale di domande di opzione che in località come Pisino – il cui valore simbolico per la croaticità istriana è già stato altrove ricordato –
superava il 90 per cento degli abitanti, per raggiungere il 99 per cento a Montona e Pinguente, non solo contraddiceva clamorosamente tale assunto, ma segnalava l’estrema fragilità dell’impianto ideologico su cui si reggeva da parte jugoslava il giudizio sulla composizione etnica della Venezia Giulia.45 Esso si fondava su di una concezione fortemente etnicista della nazione, che rifiutava in quanto innaturali i processi di assimilazione e considerava senz’altro slavi tutti i soggetti mistilingui: di conseguenza tutti i conteggi, per esempio quelli dei censimenti austriaco e italiano, eseguiti sulla base della lingua d’uso in luogo della lingua materna, venivano considerati distorti e inaffidabili.46 Posta però esplicitamente di fronte alla scelta – experimentum crucis dell’appartenenza nazionale –, larga parte della popolazione, compresi numerosi elementi di sicure origini croate, si era pronunciata per la cittadinanza italiana. Si rivelava, insomma, perfettamente operante quel meccanismo descritto tre anni prima da Ernesto Sestan, cui abbiamo già accennato, in base al quale in un’area mistilingue l’appartenenza nazionale risultava «non dato di natura ma atto di elezione» fortemente influenzato dalle condizioni politiche del momento. E questo anche se, a differenza delle pessimistiche previsioni di Sestan, la durezza della dominazione jugoslava era riuscita là dove la propaganda italiana nulla avrebbe potuto, tanto che le fasce di popolazione nazionalmente incerte si dichiararono comunque italiane. Come si ricorderà, nello svolgere il suo ragionamento Sestan aveva in mente l’eventualità di un plebiscito e non di un Esodo, ma nell’Istria del 1948 la piena delle domande d’opzione assumeva quasi il valore di un plebiscito a posteriori, e ciò difficilmente poteva venir accettato senza batter ciglio dalle autorità jugoslave, perché il suo significato era ben chiaro: fra la Jugoslavia di Tito e l’Italia di De Gasperi, gli istriani preferivano la seconda. All’interno dei gruppi dirigenti e intellettuali slavi la sorpresa dovette essere notevole, e se ne ritrova traccia ancora oggi, in certa storiografia post-jugoslava di stampo etnicista, che – paradossalmente – è arrivata a parlare dell’Esodo come di «un grande momento di snazionalizzazione» degli sloveni e dei croati dell’Istria.47 Affermazioni del genere costituiscono la conferma dei limiti culturali di un approccio etnicista alla storia di un’area plurale,
in cui i processi di nazionalizzazione hanno seguito itinerari ben più complessi. A ogni modo, per le autorità non si trattava solo di una sconfitta politica – che fra l’altro segnava il fallimento della linea della «fratellanza», dal momento che a chiedere di partire erano quasi tutti gli italiani, compresi gli «onesti antifascisti» –, ma di un possibile disastro di più ampie proporzioni. Già l’allontanamento in blocco della componente italiana avrebbe di per sé comportato una perdita di competenze nel campo dell’agricoltura specializzata, del commercio, dell’artigianato e della pesca, di cui la popolazione croata autoctona era quasi completamente priva. Il grande vuoto che così veniva a determinarsi rischiava però di attirare porzioni consistenti della stessa componente croata, certo non sottoposta a persecuzione nazionale, ma che condivideva con gli italiani il peso dell’invasività del regime e rischiava di ritrovarsi a vivere in una terra vuota, la cui economia sarebbe stata completamente sconvolta e, per molti versi, azzerata. È di fronte a tale prospettiva che, verosimilmente, scattò nelle autorità jugoslave la decisione di riprendere quel controllo della situazione che era loro così clamorosamente sfuggito, avviando una politica di contenimento dell’Esodo. Un’importanza senz’altro minore sembrano invece aver avuto le preoccupazioni di Belgrado per le ripercussioni internazionali dell’Esodo. Certo, l’abbandono in massa dei territori ceduti alla Jugoslavia da parte della popolazione locale mostrava quanto poco il regime incontrasse il gradimento dei suoi nuovi cittadini. Negli anni precedenti tuttavia l’Europa aveva visto trasferimenti forzati di popoli di proporzioni incomparabilmente maggiori e, anche nello specifico del problema giuliano, l’ipotesi di uno scambio tra popolazioni che si sarebbero venute a trovare «dalla parte sbagliata del confine» era stata più volte presa in considerazione da parte britannica.48 Comunque, una volta deciso di arrestare l’emorragia di abitanti determinata dall’opzione, la strada percorsa dalle autorità confermò nuovamente quelle caratteristiche fondamentali su cui si è già avuto modo di richiamare più volte l’attenzione: l’assoluta indisponibilità a rimettere in discussione non solo le scelte strategiche ma anche i comportamenti quotidiani che continuavano a generare tensioni fra i
poteri popolari e la gente istriana. Negata quindi alla radice ogni correzione di rotta che sgravasse almeno un po’ i cittadini dal peso dell’oppressione, non restava che battere la via degli impedimenti posti all’esercizio del diritto di opzione. La casistica in proposito è molto ampia e va dal semplice rifiuto di accettare le domande di opzione al loro accoglimento selettivo – il che creava situazioni familiari impossibili, perché il diritto di opzione veniva concesso a uno solo dei coniugi o negato ai familiari di chi era già partito, come per esempio alle mogli dei marittimi di Cherso, Lussino e Albona –, e ancora dalle limitazioni poste al trasferimento dei beni in Italia, alle minacce, ai richiami alle armi, e così via.49 In ogni caso, si trattava di provvedimenti tesi a impedire coattivamente il manifestarsi delle conseguenze di un fenomeno, il rifiuto della politica del regime, sulle cui cause non si intendeva intervenire. In prima battuta, la politica di rallentamento dell’Esodo funzionò, nel senso che molti nuclei familiari furono costretti a sospendere le partenze già programmate, ma l’effetto intimidatorio mancò del tutto. Al contrario, le nuove angherie non fecero che esasperare nella popolazione l’antagonismo verso il potere che le compiva, diffondendo fra i richiedenti – man mano che si avvicinava la scadenza dei termini previsti per l’esercizio del diritto di opzione, inizialmente fissati al 16 novembre 1948 e successivamente prorogati al 16 febbraio 1949 – il terrore di rimanere bloccati in Jugoslavia e rafforzando perciò la loro volontà di andarsene appena possibile. La pressione esercitata nei confronti degli optanti riuscì dunque a modificare i ritmi, ma non la proporzione dell’Esodo: la presentazione infatti di un gran numero di ricorsi da parte di quanti si erano visti respingere la domanda di opzione finì per condurre Italia e Jugoslavia a negoziare una riapertura dei termini per la consegna delle istanze. Si arrivò così all’accordo italo-jugoslavo del 23 dicembre 1950, secondo il quale gli aventi diritto già residenti in Italia potevano presentare la richiesta fino al 23 marzo 1951, mentre per coloro che risiedevano ancora nei territori assegnati alla Jugoslavia o la cui precedente domanda era stata respinta, i termini decorrevano dall’11 gennaio all’11 marzo del medesimo anno. Dal punto di vista italiano, si trattava di un’intesa assai soddisfacente, perché non solo concedeva una seconda possibilità agli italiani
rimasti bloccati in Jugoslavia, ma sottraeva anche la delicatissima materia all’esclusiva competenza jugoslava sancita dal trattato di pace, per farne oggetto di accordi bilaterali.50 All’atto pratico, tuttavia, le difficoltà non mancarono: alla riapertura dei termini seguì un’altra ondata di richieste, che coinvolse con molta probabilità anche molti soggetti la cui lingua abituale non era l’italiano, suscitando nelle autorità la consueta irritazione, tanto che sul tavolo del ministero degli Esteri si accumularono lunghi elenchi di dichiarazioni di opzione respinte anche per la terza volta. I nuovi inciampi vennero superati solo nell’autunno del 1951 quando il ministero calcolò che circa 200.000 persone avevano optato per la cittadinanza italiana, a fronte di circa 650 residenti nei territori conservati alla sovranità italiana, che avevano invece scelto la cittadinanza jugoslava.51 Tale andamento suscita non pochi interrogativi, che a loro volta rimandano ad alcuni dei nodi interpretativi fondamentali, non ancora risolti in maniera soddisfacente, riguardanti l’atteggiamento tenuto nel corso di tutto il dopoguerra dalle autorità jugoslave nei confronti degli italiani. Che senso aveva infatti da un lato riaprire il rubinetto delle opzioni, che avrebbe senza dubbio fatto prorompere copiosamente il flusso interrotto in precedenza, e dall’altro riprendere su vasta scala le azioni di boicottaggio e intimidazione degli optanti? E che senso avevano poi i pubblici appelli volti a trattenere gli italiani, e rafforzati dalle severe condanne inflitte a numerosi «fomentatori dell’Esodo», se nel contempo si moltiplicavano – come largamente riportato dalle testimonianze coeve – gli atti di insofferenza da parte delle autorità e degli attivisti di partito nei confronti dei medesimi italiani, frequentemente esortati a «tornarsene a casa»? Parlare di semplici smagliature nel funzionamento della macchina del regime sarebbe certamente riduttivo, come pure ricondurre comportamenti tanto divergenti a un semplice gioco delle parti. Le contraddizioni sembrano evidenti, ma ciò che ci manca, per comprenderne il senso, è la conoscenza delle articolazioni del processo decisionale jugoslavo. Gli studi al riguardo, infatti, sono a tutt’oggi appena nella fase d’impostazione iniziale e le difficoltà, non solo di ordine archivistico, con cui la ricerca deve fare i conti sono molteplici. D’altra parte, risposte adeguate potranno venire quando disporremo di tutto il materiale riguardante il
trattamento delle domande d’opzione da parte delle autorità croate, e soprattutto quando sapremo ricostruire l’intreccio di rapporti, spinte e condizionamenti reciproci esistente a tre livelli: federale, repubblicano e locale. Limitarsi a prevedere un aumento dell’intolleranza nazionale in proporzione alla vicinanza al territorio – posto che i quadri locali del regime si mostrarono i più determinati nel perseguitare gli italiani – equivarrebbe probabilmente a formulare un’ipotesi ragionevole ma troppo semplicistica, perché molti segnali ci inducono a pensare che la partita fu in realtà più complessa. Al riguardo, si è talvolta supposto che un ruolo significativo nella decisione di arginare l’Esodo fosse stato svolto dai comunisti di lingua italiana, che in alcune località costiere ove più forti erano le tradizioni operaie e socialiste – come a Rovigno – erano largamente presenti nelle amministrazioni, e temevano che la dissoluzione della componente italiana finisse per privarli di qualsiasi legittimazione politica.52 Ricerche più recenti non sembrano confortare tale ipotesi, rilevando per un verso come le direttive politiche giungessero sul campo per via rigidamente gerarchica (da Zagabria tramite il CP regionale), e per l’altro come gli elementi italiani con elevate responsabilità nelle istituzioni e nel partito tendessero ad assumere posizioni più radicali dei comunisti croati, anche al fine di consolidare la propria posizione.53 In ogni caso, la speranza di salvaguardare in un modo o nell’altro le basi minime della politica della «fratellanza» cozzò assai rapidamente con le conseguenze della crisi del Cominform, che intaccarono in maniera sostanziale e irreversibile la fedeltà dei comunisti italiani nei confronti del regime di Tito. Ne seguì un deciso rovesciamento del ruolo degli italiani di orientamento comunista, che – con alcune eccezioni, si capisce – da interlocutori privilegiati dei nuovi poteri ne diventarono i peggiori nemici, soggetti a intimidazioni e persecuzioni che li spinsero ad abbandonare in gran numero i territori passati alla sovranità jugoslava. Il flusso di profughi direttamente legato al conflitto tra cominformisti e titini non fu in verità notevole sotto il profilo quantitativo, ma assai più significativo sotto quello politico. Da questo punto di vista infatti, non a caso nella storiografia jugoslava e soprattutto nelle letture
dell’Esodo proposte dalle organizzazioni del gruppo nazionale italiano in Istria – eredi dei ristretti nuclei comunisti di lingua italiana rimasti agganciati al regime di Tito – la crisi del Cominform è stata e in parte viene tutt’ora considerata come uno degli elementi decisivi per spiegare il fenomeno dell’Esodo. Il giudizio sembrerebbe a prima vista assolutamente peregrino, dal momento che le scelte della grande maggioranza dei profughi nulla ebbero a che vedere con i contrasti interni al movimento comunista internazionale. Esso costituisce invece una spia piuttosto esplicita dell’ottica in cui la dirigenza comunista jugoslava – di nazionalità italiana, slovena o croata che fosse – guardava alla componente italiana della popolazione istriana. Un’ottica, lo si è già rilevato, in cui a venir preso realmente in considerazione era soltanto un segmento ben circoscritto del gruppo nazionale italiano, limitato agli strati sociali da coinvolgere nell’edificazione del socialismo. Erano questi – il proletariato industriale, le frange intellettuali e, forse, qualche elemento rurale – gli unici interlocutori di cui ai poteri popolari importasse veramente qualcosa, pur con tutte le riserve e le contraddizioni già più volte riscontrate. E limitatamente a tali ambiti, la crisi del Cominform segnò davvero un punto di non ritorno, rendendo impossibile il consolidamento di quel nucleo di italiani jugoslavizzati cui mirava in sostanza la politica della «fratellanza». Tale politica pertanto con la fine degli anni Quaranta venne di fatto abbandonata, e se ciò ebbe effetti contenuti sull’Esodo già massicciamente in corso nei territori passati alla sovranità jugoslava, in parte diversa fu la situazione nella zona B del Territorio Libero di Trieste, dove fino alla metà del decennio successivo la maggior parte della popolazione rimase nelle proprie località d’insediamento storico.
CAPITOLO 6 La zona B del Territorio Libero di Trieste Popolazione e poteri popolari Sarebbe del tutto fuori strada chi volesse interpretare la maggior capacità di resistenza degli italiani della zona B del TLT rispetto agli altri istriani come sintomo di un diverso trattamento da parte delle autorità locali: anche qui la pressione fu sensibile e generò un flusso quasi ininterrotto di fughe da parte di chi si sentiva direttamente minacciato dai poteri popolari, per i suoi trascorsi, il suo sentire politico o anche semplicemente per il rifiuto di collaborare con il nuovo regime. Ricorda al riguardo un testimone:
Le domande [da parte di un agente dell’OZNA, N.d.A.] erano queste: «Se vuole, Lei può fare una carriera grande, aperta. Lei, vede, non è direttore ma è come se lo fosse; da noi può aspirare addirittura alla carica... al nuovo parlamento della regione, ma però Lei deve collaborare, deve lavorare con noi. A noi interessa sapere, per esempio, di che idea è... [...] Lei pensa che sia uno di quegli ideatori di quel giornale [il «Grido dell’Istria»], di quelle palle [palline di vernice usate per rendere invisibili le scritte murali del regime, N.d.A.] che vengono...? Lei pensa che?». E loro, generalmente, io ne avevo già sentito parlare, ti interrogavano: «Ma, veramente, ho sentito una volta dire...» delle mezze ammissioni, ma dette come ipotesi, senza voler fare delle delazioni: loro scrivevano in slavo e ti facevano firmare. Tu lo slavo non lo sapevi, non sapevi quello che avevano scritto loro, tu
avevi parlato. Poi, dopo un po’ ti chiamavano sotto un altro nominativo e tu ti rifiutavi di firmare, pensavi... «Ma no, guardi, Lei ha detto questo e questo.» «Ma no, io veramente non...» In conclusione, ti facevano firmare due, tre, quattro verbali, poi ti lasciavano andare a casa. Poi, dopo due, tre, quattro volte, [...] facevano sparire gli accusati e facevano sparire anche te.1
Per chi, una volta preso di mira, non era disposto a entrare nel meccanismo repressivo, l’unica via di scampo era la fuga, spesso rocambolesca:
Vado verso il piroscafo e vedo [...] che stanno massacrando di botte una povera donnetta e io m’infiltro e vado a bordo della nave. Quella «povera donnetta» era un tizio ricercato da loro che si era travestito e aveva tentato di imbarcarsi a Capodistria. Era stato riconosciuto, pestato e riportato a terra. [...] Quando le macchine sono partite avanti, e io ho sentito che la barca va, che andava verso la libertà [...] mi sono trovato con le scarpe piene di sudore, neanche mi avessero buttato un secchio di acqua addosso! Finché è passato un certo K [...], mi vede, dice: «Cosa fa qua?». «Vado a Trieste.» «No, che lei non può imbarcarsi, dove si è imbarcato?» «Mi sono imbarcato a Capodistria.» «Ahhh, io non l’ho vista, perché lei...» e tira fuori un foglietto, guarda, avevano una lista...[...] Allora questo qui se ne va e dopo un poco ritorna e mi dice: «Il comandante prega se vuole salire sul ponte di comando che deve parlarle». Io ho capito, già era successo altre volte che lo pigliavano dal comandante, gli davano una botta in testa e lo riportavano indietro. Allora io invece di andar su, sono andato giù a poppa, dove c’era la prima classe, in mezzo alla gente, dico: «Guadagno tempo, mi
metto a parlare con qualcuno, quando sono nel Golfo di Trieste, salgo, mi tuffo in mare e buona notte». [...] A me interessava arrivare nel Golfo, e invece siamo arrivati a Trieste! Vedo la gente che si alza, che comincia a salire. Allora anch’io m’incanalai, stetti per ultimo perché... E quando arrivai sulla scaletta, che ormai dietro c’era solo questo K, io ho fatto finta di allacciarmi una scarpa [...]. Allora quando ho visto che la fiancata era libera, che si vedeva il molo, ho dato un gran calcio dietro, ho preso K, l’ho scaraventato giù dalle scale, ho fatto quel pezzo lì, un balzo a pesce e sono arrivato sul molo. [...] E ho cominciato a chiamare: «Cerini! Cerini!». Difatti c’erano i cerini2 che pattugliavano [...] mi hanno preso, mi hanno dato due tartassoni perché non volevano essere chiamati cerini, per loro era un’offesa. E io c’ho detto: «Ragazzi, portatemi dentro!». Quando sono stato dentro, [...] io mi sono scusato, ho detto che li ho chiamati cerini perché volevo richiamare la loro attenzione. [...] Cosicché arrivai a Trieste dove rimasi due giorni. Mio suocero, poveretto, veniva su tutti i giorni con tre paia di calze, tre canottiere, tre paia di mutande addosso. E dopo si spogliava e rientrava con le scarpe e senza calze per portarmi su un po’ di roba.3
Se dunque nelle aree più vicine a Trieste gli italiani rimasero complessivamente saldi sulla loro terra fino ai primi anni Cinquanta, ciò avvenne fondamentalmente per la speranza che la dominazione jugoslava avesse, prima o poi, fine, dal momento che quell’unico, piccolo, lembo dell’Istria nord-occidentale non era stato assegnato dalla conferenza di pace alla sovranità jugoslava. A rafforzare la capacità di resistenza degli istriani concorsero peraltro anche altri motivi. Nelle aree destinate a far parte del Territorio Libero di Trieste, per esempio, la legislazione jugoslava fu introdotta solo gradualmente e l’amministrazione militare diede in più occasioni l’impressione di voler mantenere un certo distacco nei confronti delle
rivalità nazionali che attraversavano la società locale.4 Inoltre, l’adiacenza con la zona A sottoposta al governo militare alleato, di cui Trieste costituiva – in termini ideali e materiali – il centro di irradiazione dell’italianità giuliana, attenuava sensibilmente quel senso di isolamento che tanto pesava invece agli italiani del resto dell’Istria. 5 Peraltro, il ruolo politico del governo militare era assai circoscritto e il potere reale era affidato alle autorità civili, i cui rapporti con la popolazione italiana furono assai tesi fin dai primi tempi dell’occupazione jugoslava, nell’immediato dopoguerra, soprattutto in relazione all’enfasi posta dal regime sull’obiettivo dell’annessione.6 Un segnale assai chiaro al riguardo è costituito dalla crisi scoppiata nel Capodistriano nell’ottobre del 1945 a seguito dell’introduzione nella zona di una nuova valuta, la jugolira, che penalizzava fortemente l’economia locale, ostacolandone in particolare i rapporti con la zona A.7 Come reazione al provvedimento, infatti, il 30 ottobre a Capodistria fu proclamato lo sciopero generale, che coinvolse tutti gli strati sociali e probabilmente anche i quadri italiani locali del PCRG. Ma più ancora della compattezza della dimostrazione, è significativa la risposta delle autorità jugoslave. Presa alla sprovvista e perso il controllo della situazione, dopo aver per un attimo pensato di richiedere l’intervento dell’esercito – ipotesi poi scartata perché avrebbe conferito visibilità internazionale alla crisi –, la dirigenza comunista slovena decise di mobilitare contro i capodistriani gli abitanti sloveni del contado, che affluirono in città per spezzare nella violenza la resistenza degli scioperanti. Ecco il testo dell’appello lanciato dal comitato cittadino dell’UAIS di Isola d’Istria:
Con il pretesto dell’emissione della nuova moneta, i resti del fascismo e della reazione capodistriana hanno organizzato uno sciopero ingannando gli stessi operai. Con questo i residui del fascismo hanno insultato ed attentato al nostro potere popolare, frutto del sangue sparso dai nostri figli migliori nella lotta di liberazione e delle nostre sofferenze di tanti anni. Mentre noi lottiamo
per affratellare operai, contadini, intellettuali italiani e slavi, onde poter più efficacemente procedere nella ricostruzione e creare un migliore avvenire, questi parassiti fascisti sabotano il nostro lavoro. Essi non vogliono il potere popolare, essi vogliono che ritorni lo stato di cose di prima, cioè mettere nuovamente il popolo lavoratore sotto la loro pressione; oggi insultano la Jugoslavia perché è democratica, domani insulteranno l’Italia quando sarà ugualmente democratica. Operai, contadini e intellettuali, tuteliamo i diritti che ci siamo conquistati con la dura lotta di quattro anni. Oggi, alle ore 14, tutti a Capodistria a disprezzare i fascisti. Morte al fascismo! Libertà ai popoli!8
Posti di fronte a un’emergenza, i leader sloveni avevano compiuto così una scelta che simboleggiava nella maniera più drammatica – perché vi furono due morti e numerosi feriti – quella polarità fra città e campagna che, come si è già avuto modo di notare, in Istria si sovrapponeva spesso alla contrapposizione nazionale. Una polarità che il potere popolare mostrava di voler assumere come propria, e che lo rendeva così espressione esclusiva di una sola delle componenti nazionali della società istriana. Al di là comunque della repressione immediata, gli avvenimenti di Capodistria misero in risalto la fragilità politica del dominio jugoslavo e anche le forti reazioni suscitate presso tutti gli strati della popolazione italiana dall’oltranzismo annessionista. Di fatto poi indussero le autorità a adottare una serie di misure volte a migliorare la capacità di controllare una società riottosa. Un primo problema era costituito dai quadri italiani del PCRG, che dominavano le sezioni cittadine della zona e si mostravano intenzionati a svolgervi una politica in qualche modo autonoma, che ai dirigenti sloveni appariva contrassegnata da «estremismo di sinistra» e dall’incomprensione del valore e dei presupposti della lotta di liberazione del popolo sloveno.9 Già nel mese di agosto la «purga» del partito era stata posta come una priorità nel Capodistriano, ma i risultati non
dovevano essere stati brillanti, dal momento che i comunisti italiani avevano di fatto sostenuto lo sciopero del 30 ottobre.10 Nei mesi successivi, pertanto, la pulizia fu più accurata e culminò nello scioglimento delle sezioni di Pirano, Capodistria e Buie, che permise l’espulsione dal partito degli elementi che si opponevano alla politica di annessione. Le reazioni a tale atto di forza furono piuttosto vivaci, come attesta una lettera che alcuni comunisti piranesi fecero pervenire clandestinamente a Togliatti. La missiva descriveva una situazione di acuta tensione fra cittadini e autorità: «Si esasperano i nazionalismi, si crea uno stato di cose tale, da far nascere una condizione analoga a quella creata da fascisti e nazisti in Jugoslavia e che portò tutto il popolo contro gli oppressori», e poneva sotto accusa la politica dei dirigenti sloveni: «Gerarchi e gerarchetti slavi, infatuati dal loro Partito di quadri, contrario alle esigenze della nostra zona, sempre tracotanti, settari, sempre più invisi ai compagni e alle masse, che negli slavi non vedono più fratelli comunisti, ma nazionalisti». Clamorose erano le conclusioni che i comunisti di Pirano traevano da tali considerazioni. Alla direzione nazionale del partito veniva infatti richiesto: I) Appoggio, anche solo morale, alla costituzione del partito comunista italiano cospirativo, e ciò non tanto in antitesi a quello giuliano, quanto perché, in caso di una soluzione italiana, noi soli potremmo salvare le sorti del partito che si è tanto compromesso nella questione nazionale. II) Ci autorizzate a costituire il CLN cospirativo, assieme a rappresentanti di altri partiti, altrimenti rimarremmo miseramente schiacciati. III) Costituzione di un Comitato gioventù antifascista italiana, pure cospirativo, che ci permetterà domani di sottrarre la gran parte della gioventù, che altrimenti sarà massa di manovra di altri partiti contro di noi.11 Naturalmente, Togliatti non rispose, e proteste del genere certo non costituivano una minaccia diretta per il regime; esse però ponevano in luce come il sostegno sul quale i poteri popolari potevano contare anche presso la componente operaia locale fosse tutt’altro che
monolitico e scontato. Una prima riprova, del resto, la si era avuta già al momento della raccolta di firme in favore dell’annessione alla Jugoslavia, promossa dalle autorità tra l’agosto e il settembre 1945, che avrebbe dovuto evidenziare la plebiscitaria volontà di tutti gli istriani, italiani e slavi, di entrare a far parte del nuovo Stato guidato da Tito. Nonostante le forti pressioni esercitate sulla popolazione e al di là di quanto ufficialmente proclamato, l’esito era stato piuttosto deludente e il segretario del PCRG di Trieste Boris Kraigher aveva dovuto comunicare al comitato centrale del partito comunista sloveno, riferendosi agli italiani: «Diciamo che non sottoscrisse nessuno, neppure i membri del partito».12 I fatti di ottobre confermarono perciò quanto il problema del consenso fosse assolutamente delicato, tanto che a Capodistria e Pirano le autorità ritennero opportuno rinunciare a svolgere le elezioni per i comitati popolari cittadini e distrettuali, nonché per l’assemblea popolare regionale per l’Istria, che nel resto della penisola si tennero il 25 novembre, in un clima di pressioni, intimidazioni e violenze. Nel contempo fu avviata sistematicamente la politica di epurazione, che fino a quel momento aveva segnato il passo, salvo gli arresti compiuti nei giorni convulsi del dopoguerra, che però rientravano ancora nella logica del conflitto e della conquista del potere. Come si è già notato parlando di Fiume, le norme sull’epurazione erano congegnate in modo da poter colpire ogni forma di non allineamento alle direttive del regime: fascisti infatti erano considerati anche tutti coloro «che hanno operato contro il popolo svolgendo attività culturale, economica o di qualsiasi altro genere».13 Una tale formulazione – lo si è rilevato assai spesso – conferiva un ampio margine di discrezionalità ai membri delle commissioni, e in effetti l’ordinanza venne interpretata in maniera abbastanza diversa nei singoli contesti locali. A Capodistria, per esempio, bersagli principali dell’epurazione furono gli esponenti dei ceti medi e del settore commerciale, che si erano distinti nella protesta contro la jugolira, ma vennero colpiti duramente anche gli insegnanti, nell’ambito di un disegno di rinnovamento totale dell’istituzione scolastica. A Isola d’Istria invece la preoccupazione maggiore sembra sia stata quella di consolidare la presa delle organizzazioni politiche e sindacali filojugoslave tra le maestranze
delle industrie più importanti, e si contarono perciò numerosi licenziamenti fra gli impiegati e gli stessi operai, a prescindere dai loro precedenti democratici. Ancora diversa fu la linea seguita a Pirano, dove a venir puniti furono in primo luogo diversi esponenti del fascismo delle origini, mentre in una realtà particolare come quella delle saline di San Bortolo il criterio prescelto fu semplicemente quello di sostituire con disoccupati i lavoratori che disponevano di altre forme di reddito. Nell’Istria nord-occidentale come altrove, l’indeterminatezza dei criteri identificativi degli epurandi e l’arbitrarietà delle procedure sanzionatrici fece dell’epurazione uno strumento prezioso per scremare la società locale dagli elementi ritenuti ostili o infidi. Ma la valenza di snazionalizzazione di tali provvedimenti non va sopravvalutata: le commissioni vennero organizzate separatamente nell’ambito dei rispettivi gruppi nazionali – cioè a giudicare gli italiani furono solo gli italiani – e l’appartenenza etnica non sembra aver giocato un ruolo rilevante nella vicenda. Ben più importanti furono le valutazioni di tipo politico, legate sia al passato – i precedenti fascisti – che al presente, vale a dire la refrattarietà ad accettare la situazione originatasi nella zona: in questo senso, se appartenere all’etnia italiana non comportava di per sé l’esposizione al rischio di epurazione, venir sospettati di atteggiamenti filoitaliani poteva invece procurare guai molto seri. Anche nel Capodistriano e nel Buiese, come in altre zone dell’Istria, l’arrivo della commissione alleata per la delimitazione dei confini contribuì nella primavera del 1946 a polarizzare ed esasperare lo scontro politico. La campagna propagandistica per l’annessione infatti raggiunse il culmine, trascinando con sé la martellante riproposizione dell’analisi ipersemplificata della situazione giuliana, che si imperniava sulla contrapposizione tra veri democratici, sostenitori dell’annessione alla Jugoslavia, e fascisti.
E ora vogliono tornare all’attacco [...] četnici, ustaša, belogardisti, domobranzi, fascisti, resti sconfitti e dispersi degli eserciti criminali fascisti si sono dati la mano e
vogliono sfogare in qualche modo il loro odio. [...] la reazione internazionale li arma. [...] Gli esponenti del nazionalismo esasperato suonano per loro gli strumenti del falso sentimentalismo per preparare loro il terreno. Ma di fronte a essi stanno vigili le masse dell’antifascismo. Senza mosse disordinate, senza nervosismi, il popolo della Regione Giulia attende. Aspetta la commissione alleata per far sentire la sua volontà di vita e di libertà. E aspetta anche che la vipera fascista tenti di rialzare il capo per schiacciarglielo. [...] Non permetteremo nessuna provocazione, ma siamo animati dallo stesso spirito di conseguente antifascismo, come davanti alle ss e ai carri armati tedeschi.14
La lotta era ovviamente squilibrata, dal momento che alla componente filoitaliana era impedita la manifestazione pubblica dei propri sentimenti nazionali, e comunque i poteri popolari vi si impegnarono a fondo, convinti, come scrisse Boris Kidrič che «Capodistria e Pirano sono chiaramente contro di noi, e il peggio sta nel fatto che il circondario sloveno non è abitato in maniera uniforme», il che avrebbe favorito gli italiani nel tracciato di un’ipotetica «linea etnica continua».15 Dai giudizi espressi dall’esponente sloveno traspare la consapevolezza che la rottura tra autorità e popolazione italiana era compiuta, e che ad aggravarla aveva contribuito l’incapacità del regime a soddisfare «gli interessi più elementari» dei cittadini, ma emerge anche la presa d’atto che sul versante del consenso «non era più possibile cambiare niente». Kidrič tuttavia indicava la necessità di «non ripiegare sul terrore», come veniva evidentemente proposto dai quadri locali del partito, e di puntare invece sulle manifestazioni di massa, che vennero in effetti puntualmente organizzate al momento dell’arrivo della commissione, aggiungendovi però anche nuove forme di pressione nei confronti degli italiani. Nelle piazze principali delle cittadine costiere cominciò così a comparire una serie di altoparlanti – la cosiddetta «radio piria» –16 che nel corso degli anni sarebbero stati
utilizzati non solo per la diffusione di slogan e comunicati, ma anche per denunciare pubblicamente i nemici del popolo di cui le autorità intendevano liberarsi: a chi veniva preso di mira da tale forma di intimidazione non restava che fuggire rapidamente oltre la linea Morgan, pena la scomparsa senza ritorno. Quanto ai metodi usati dagli italiani per farsi comunque notare dagli esperti della commissione alleata, le testimonianze offrono una ricca casistica, simile per tutti i territori occupati, che va dal tricolore disegnato sul palmo delle mani ai suggerimenti anonimi di visitare i cimiteri, muta testimonianza della prevalenza italiana, e così via. Ciò che maggiormente colpì gli osservatori sloveni del tempo fu che molti abitanti della cosiddetta «costa rossa», alle previste invocazioni alla Jugoslavia sostituirono slogan comunisti, non passibili di esplicita repressione, ma che assumevano in quel contesto un evidente, fortissimo significato di contrarietà all’annessione.17 A consolidare il rifiuto della dominazione jugoslava da parte degli italiani, fino a coinvolgervi anche le componenti sociali che in un primo momento avevano mostrato qualche apertura verso il nuovo regime, contribuirono non poco anche le misure predisposte per trasformare l’economia della zona. In particolare, il settore agricolo venne investito da ondate successive di provvedimenti che mostravano grande incertezza nelle strategie adottate al duplice scopo di aumentare la produzione ed estendere il consenso nelle campagne, ma che andavano in primo luogo ad accrescere fortemente l’ingerenza e il controllo dello Stato sulla gestione della terra. Le reazioni furono in genere negative, anche da parte di coloro che avrebbero dovuto beneficiare delle assegnazioni di lotti previste dalla riforma agraria, ma che trovavano le innovazioni introdotte innaturali e lesive del diritto elementare di ogni contadino di rimanere sulla terra da lui lavorata, come risulta per esempio dalla testimonianza di un agricoltore di Materada:
Ma i ga fato una riforma agraria... no iera una riforma agraria, per dir che iera una riforma agraria politica (Hanno fatto una riforma agraria che
non era una riforma agraria, era una riforma agraria politica). [...] Un giorno mi hanno detto: «Venite tu e i tuoi fratelli domani con me. Venite a Cittanova o a Salvore e scegliete quella terra che volete». Ha detto: «Noi andiamo: scegliamo la terra che vogliamo». Ma io ho risposto: «Ascolta. Date la terra a quelli a cui avreste dato la roba mia, perché tu sai come abbiamo fatto noi, noi gavemo fato quela tera a son de lavor (abbiamo fatto quella terra a suon di lavoro)». «Ma lo so, capisco, mi ha detto l’altro, ma se voi venite a Cittanova o a Salvore vinì compromessi e cusì... (siete compromessi, e così...).» E invece non era vero niente. Quelli che hanno preso la roba sono andati via e quelli che non hanno preso niente sono andati via lo stesso.18
Non meno pesante si fece la situazione nel settore della pesca, dove gli spazi per il libero mercato si vennero progressivamente riducendo, mentre nel corso del 1947 la crisi dell’industria conserviera privò i pescatori locali della principale possibilità di smercio dei loro prodotti. A loro volta, le difficoltà in cui si dibattevano le industrie locali, che condussero al licenziamento di un gran numero di operai, oltre che alla generale precarietà dell’economia della zona erano riconducibili alla scelta compiuta dalle autorità di smontare e trasferire in Jugoslavia gran parte dei macchinari, in previsione della costituzione del Territorio Libero di Trieste. Come abbiamo già avuto modo di notare, si trattava di una soluzione sistematicamente adottata da parte jugoslava in situazioni analoghe – a Trieste nel giugno del 1945, al momento del ritiro jugoslavo solo l’intervento di alcuni autorevoli leader del partito comunista sloveno preoccupati del possibile danno di immagine aveva evitato l’asportazione dei tram dalla città – e trovava la sua ragion d’essere nella necessità di non rinunciare ad alcuna delle scarse risorse disponibili per la ricostruzione della disastrata economia jugoslava. In ogni caso, comportamenti del genere ebbero effetti traumatici sulla locale classe operaia, che vedeva i propri
interessi clamorosamente subordinati a quelli di ordine statualnazionale. In questo modo, anche gli ultimi nuclei di proletariato italiano che avrebbero dovuto essere i protagonisti della linea della «fratellanza» venivano sospinti verso una posizione fortemente critica nei confronti della strategia attuata dalla dirigenza politica jugoslava. Questo costituì – come è stato più volte notato -19 una delle premesse indispensabili per comprendere la rapidità con cui i comunisti italiani del Capodistriano e del Buiese si schierarono dalla parte dell’URSS all’esplodere della crisi del Cominform. In particolare la cittadina di Isola d’Istria, centro della lavorazione industriale del pesce, che nell’estate del 1945 rappresentava l’unico punto di appoggio su cui i poteri popolari ritenevano di poter contare lungo la costa del Golfo di Trieste, si trasformò in breve nel nucleo di una compatta opposizione alla linea del partito jugoslavo.
La strana sorte del TLT Negli anni successivi, l’incomunicabilità fra poteri popolari e popolazione italiana si cronicizzò, mentre anche tra gli abitanti delle campagne slovene e croate montava l’insofferenza nei confronti del regime e del suo asfissiante controllo su ogni aspetto della società civile.20 I frequenti inciampi posti dalle autorità jugoslave al transito oltre la linea Morgan penalizzavano infatti tutti gli abitanti della zona B le cui attività gravitavano su Trieste, e le reazioni furono spesso drammatiche. Così, nella primavera del 1947 alcune contadine slovene cui era stato impedito di andare a vendere le loro uova al mercato cittadino minacciarono clamorosamente il suicidio,21 e nel villaggio sloveno di Gason (Gazon) di fronte al segretario dell’UAIS un paesano esasperato sbottò dicendo: «[...] i vostri comitati non ci saranno più, arriveranno i cerini e calpesteranno questi sporchi maiali, che sono negli uffici».22 La prospettiva che le autorità «popolari» dovessero ritirarsi dal potere si fece però con il passare del tempo sempre più remota, perché intanto il quadro internazionale era andato mutando. Nell’estate del 1946 la conferenza di pace aveva deliberato la creazione di uno Stato cuscinetto fra Italia e Jugoslavia, che avrebbe
dovuto comprendere Trieste e una fascia costiera a nord e a sud della città, da Duino sino al fiume Quieto. Di fatto però, il TLT non venne mai costituito e l’area di sua competenza continuò a rimanere divisa in due zone: la zona A, comprendente Trieste, Muggia e uno stretto corridoio di collegamento con l’Italia, amministrata da un governo militare alleato (GMA), e la zona B, comprendente le cittadine di Capodistria, Isola, Pirano, Umago e Cittanova insieme al loro immediato entroterra, amministrato da un governo militare jugoslavo (VUJA). Le ragioni della mancata costituzione dello staterello giuliano vanno individuate nell’evoluzione subita dalla situazione internazionale fra l’estate del 1946 e l’autunno del 1947, momento in cui l’entrata in vigore delle clausole del trattato di pace avrebbe dovuto condurre anche alla creazione del Territorio Libero. In tale periodo si intersecarono due processi: nell’ambito delle relazioni EstOvest, la guerra fredda ebbe effettivamente inizio, con l’adozione della politica del containment da parte del governo americano; a livello locale, inglesi e americani si resero conto che il TLT non sarebbe stato una creatura vitale, mentre ferma restava la determinazione jugoslava a impossessarsene, ribadita da un tentativo – subito bloccato – di infiltrazione militare a Trieste compiuto nella notte fra il 15 e il 16 settembre 1947, data dell’entrata in vigore del trattato di pace.23 Molteplici erano gli elementi dai quali le diplomazie di Londra e Washington trassero la convinzione che il TLT avrebbe avuto vita breve: le lacerazioni politiche destinate ad approfondirsi attraverso lo scontro senza quartiere fra i rispettivi irredentismi, la disparità di condizioni fra le due zone separate ormai da più di due anni, le sconfortanti prospettive economiche e la capacità organizzativa degli slavocomunisti, cui gli italiani neanche a Trieste sembravano in grado di contrapporre un’azione efficace. Pertanto «se soltanto Tito fosse stato sufficientemente accorto e paziente, Trieste in un breve arco di tempo sarebbe caduta nelle sue mani come un frutto troppo maturo».24 Tale prospettiva era però del tutto inaccettabile per il governo americano come per quello britannico, ormai convinti dell’importanza strategica di Trieste come «baluardo» della politica del contenimento in Europa, e decisi quindi a mantenere la loro presenza militare nell’area. Pertanto, alla fine del
1947 Stati Uniti e Gran Bretagna, in nome della medesima logica che nell’estate del 1946 li aveva spinti a proporre l’internazionalizzazione di Trieste per evitare che cadesse sotto il controllo dell’URSS, decisero di bloccare la costituzione di un Territorio Libero troppo esposto al rischio di trasformarsi in avamposto sovietico. Si mostrava più che mai opportuno dunque il mantenimento dello status quo che, se lasciava la zona B sotto l’amministrazione militare jugoslava, consentiva di trattenere nella zona A quelle truppe anglo-americane che Foreign Office e Dipartimento di Stato consideravano l’unica barriera efficace contro le infiltrazioni comuniste jugoslave verso la pianura padana. La soluzione adottata per «congelare» il TLT fu quella di rendere impossibile la nomina del suo governatore da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’intera operazione, che rispondeva in via esclusiva agli interessi di politica estera dei due governi alleati, fu condotta evitando accuratamente di portare il governo italiano a conoscenza del mutamento di rotta. Se De Gasperi e Sforza ignoravano le intenzioni anglo-americane, gli italiani dell’Istria non avevano motivo nemmeno di sospettare che la prospettiva del Territorio Libero fosse rapidamente abortita: essi pertanto continuarono ad attendere l’internazionalizzazione dell’area, che avrebbe avuto come prima conseguenza il ritiro delle truppe jugoslave e, verosimilmente, la sostituzione dei poteri popolari con amministrazioni più libere. Ciò è quanto speravano gli italiani della zona B ed è anche ciò che credevano gli abitanti delle località passate alla Jugoslavia. Si avviò così un flusso di clandestini che varcavano il Quieto nell’illusione di sfuggire alla morsa del regime jugoslavo; ma in alcuni casi il loro sogno si convertì in tragedia, come accadde a un gruppo di giovani di Cerreto (Cerovlje), non lontano da Pisino, che nel 1949 tentarono di passare la linea di demarcazione nei pressi di Piemonte d’Istria. Ma ad attenderli trovarono le mitragliatrici jugoslave, e dodici di loro rimasero sul terreno. Nella primavera del 1948, un altro gesto diplomatico, questa volta non più condotto nella riservatezza delle cancellerie, anzi gestito con il massimo clamore, diede l’impressione che la sorte della zona B potesse mutare radicalmente. Il 20 marzo, i governi di Francia, Gran
Bretagna e Stati Uniti emanarono una dichiarazione tripartita in cui proponevano il ritorno del Territorio Libero di Trieste sotto la sovranità italiana. La mossa aveva diverse finalità: la prima era senza dubbio di natura propagandistico-elettorale, volta cioè ad appoggiare i partiti di governo in Italia nell’imminenza delle consultazioni del 18 aprile, e in tal senso si inseriva nell’ambito di una vasta gamma di iniziative predisposte dal governo di Washington e di Londra.25 Tra queste, rientrava anche la necessità di dare qualche soddisfazione all’Italia almeno su di una delle grandi ferite lasciate aperte dal trattato di pace, vale a dire la questione delle colonie e quella di Trieste. Posto che in materia coloniale la rigidità britannica non consentiva alcuno spazio di manovra, l’azione alleata si concentrò sul problema giuliano e produsse un atto – la Nota Tripartita appunto – che presentava il duplice vantaggio di mostrare all’Italia il pronto schieramento delle potenze occidentali a sostegno degli interessi italiani, e di aggirare il rischio di un effettivo ritiro delle truppe da Trieste, dal momento che sicuramente l’Unione Sovietica avrebbe respinto la proposta. Nulla così sarebbe di fatto cambiato ma, al di là del successo propagandistico, le potenze occidentali, richiedendo concordi la soluzione massima, si sarebbero collocate in posizione migliore – e in questo stava la valenza diplomatica della lotta – nella prospettiva di quel negoziato sulla spartizione del TLT che sembrava ormai inevitabile. Dal punto di vista dell’Italia i vantaggi erano ancora maggiori, e investivano sia i rapporti con la controparte jugoslava, sia quelli con gli stessi Alleati. Da un lato infatti, i contenuti della Nota rafforzavano la posizione negoziale dell’Italia mettendo al riparo Trieste e accendendo la speranza di ottenere qualcosa di più della linea Morgan. Sull’altro versante, l’esplicito e solenne riconoscimento della legittimità delle aspirazioni italiane sembrava prefigurare quell’impegno anglo-americano a vincolarsi politicamente alla difesa delle posizioni italiane, che non era stato ottenuto durante le trattative di pace, con il disastro che ne era seguito. In tale prospettiva, la Nota Tripartita assumeva naturalmente anche un significato che andava al di là della vertenza di confine, per proiettarsi verso lo scenario, agognato dalla politica estera italiana, della revisione del trattato di pace. Lo sottolineava chiaramente
Gastone Guidotti – all’epoca capo della rappresentanza diplomatica a Trieste – quando commentava: «La dichiarazione alleata rappresenta la revisione in atto».26 Tale giudizio interpretava magari più i sogni che la realtà, ma lascia bene intendere quale fosse l’animus con cui la mossa occidentale venne accolta da parte della diplomazia italiana. Di tutto il complesso lavorio diplomatico legato alla Nota Tripartita nulla ovviamente intuì la popolazione giuliana, e gli italiani della zona B colsero soltanto quello che sembrava il significato più evidente del passo anglo-franco-americano del 20 marzo, vale a dire il riconoscimento della fondatezza delle rivendicazioni italiane sull’intero TLT, compresa la zona sottoposta all’amministrazione provvisoria jugoslava. Si accese così la speranza che – presto o tardi – l’Italia si sarebbe riappropriata delle cittadine della costa istriana, consolidando la determinazione dei nostri connazionali a resistere sul loro territorio, nonostante la dura oppressione cui erano sottoposti.
La crisi del Cominform e le sue conseguenze Le cose invece andarono in maniera del tutto imprevista. La crisi intervenuta nel 1948 nei rapporti fra Belgrado e Mosca cancellò infatti il timore di una minaccia sovietica sulla frontiera italiana e aprì prospettive completamente diverse per gli equilibri strategici nell’Europa centro-meridionale. Di conseguenza, l’evoluzione della politica americana e britannica verso la Jugoslavia – dall’iniziale decisione di «tenere a galla Tito» fino al più tardo disegno di integrare il Paese nel sistema di sicurezza militare dell’Occidente – si accompagnò alla progressiva modifica dell’atteggiamento alleato sulla questione del Territorio Libero. Esemplare da questo punto di vista appare un documento redatto dal Dipartimento di Stato americano nel giugno del 1949, secondo il quale qualsiasi accordo sulla sorte del TLT avrebbe dovuto prioritariamente rispondere all’esigenza di «salvare la faccia» a Tito, senza il cui consenso gli Stati Uniti non sarebbero stati disposti a restituire la zona A all’Italia nemmeno in presenza di un consenso sovietico.27 Un’affermazione,
questa, che rendeva evidente il completo rovesciamento di posizioni rispetto alla logica che poco più di un anno prima aveva ispirato la Nota Tripartita. Ne seguì una lunga fase di staticità della vertenza. Da parte americana infatti non vi era un’urgenza pressante di comporre una contesa che in realtà non comprometteva la ristrutturazione della politica di sicurezza europea, né il processo di avvicinamento – prima politico, e poi anche militare – del governo di Belgrado all’Occidente. Da parte britannica invece, le crescenti preoccupazioni per i costi della presenza alleata a Trieste non si accompagnavano alla delineazione di una strategia alternativa, che conducesse in tempi brevi al ritiro della guarnigione posta a presidio della zona A. Il clima di attesa riguardava anche i soggetti statuali nazionali, Italia e Jugoslavia, che a cavallo degli anni Cinquanta recuperarono il loro ruolo di protagonisti nella gestione del contrasto diplomatico per Trieste, dal momento che la marginalizzazione della crisi giuliana rispetto alla conflittualità Est-Ovest ne aveva ricondotto in primo piano la dimensione bilaterale. Il governo di Roma rimase così senza una vera politica relativa al problema giuliano: difatti, anche se la Nota Tripartita si rivelava sempre più inconsistente come ancoraggio diplomatico, il suo esplicito abbandono, oltre a privare il governo italiano di qualsiasi carta negoziale, avrebbe clamorosamente smentito quella solidarietà anglo-americana alle rivendicazioni italiane, che aveva rappresentato una delle motivazioni per cui il 18 aprile 1948 all’elettorato italiano era stato chiesto di compiere la scelta per l’Occidente. Ulteriori seri motivi di imbarazzo venivano dalla concomitanza dell’affievolirsi dell’appoggio alleato alle tesi italiane con lo stringersi di formali legami di alleanza fra l’Italia e le potenze occidentali. Ne uscirono evidentemente incrinate le speranze italiane di collegare la partecipazione al Patto Atlantico alla revisione delle clausole del trattato di pace più lesive dell’orgoglio nazionale e, in seguito, la stessa valorizzazione di fronte al Paese dei benefici concreti dell’alleanza risultò meno agevole. Non a caso, a partire dall’estate del 1952 il motivo del «broncio atlantico» cominciò a diffondersi all’interno degli ambienti diplomatici, anche se ovviamente, al di là dei mugugni, non accadde nulla, perché non potevano darsi mutamenti sostanziali nei presupposti politici,
economici e strategici su cui si reggeva il rapporto con gli Stati Uniti.28 Tutto quello che l’Italia poteva fare era cercare di consolidare la propria posizione nella zona A, anche per compensare l’azione jugoslava nella zona B. Le due situazioni però erano profondamente diverse, dal momento che il governo di Belgrado si trovava nella posizione privilegiata di controllare il territorio conteso, anche se dietro il paravento della VUJA, mentre l’amministrazione della zona A era gelosamente gestita dagli anglo-americani che – per quanto ormai alleati dell’Italia – si servivano del loro potere di condizionamento per spingere l’Italia a una politica di conciliazione con la Jugoslavia. Con il passare degli anni quindi, nella zona B la condizione degli italiani peggiorò. Dal punto di vista politico infatti, dissoltosi ormai anche ogni vincolo di solidarietà ideologica con i comunisti di lingua italiana, all’interno del regime jugoslavo non trovarono più alcun ostacolo le spinte preesistenti verso l’allontanamento dall’Istria di un gruppo nazionale che nella sua globalità rifiutava di farsi «jugoslavizzare». La permanenza della popolazione italiana divenne quindi, dalla fine degli anni Quaranta, una variabile dipendente in maniera esclusiva dalle esigenze del negoziato sulla sorte del Territorio Libero. Infatti gli anni successivi furono caratterizzati da un alternarsi di inasprimenti repressivi, che generavano ondate di profughi, e di momenti di allentamento della tensione, corrispondenti all’evoluzione dei rapporti italo-jugoslavi. Nel frattempo, il fossato tra le due zone si allargava, anche perché la politica jugoslava mirava esplicitamente a interrompere i legami che univano la zona B a Trieste, suo tradizionale centro di gravitazione economica. Una raffica di provvedimenti marcò sempre più la divisione tra le due zone: l’introduzione del dinaro quale moneta unica nel luglio del 1949, l’abolizione delle barriere doganali fra zona B e Jugoslavia nel marzo del 1950, la progressiva estensione della legislazione federale jugoslava, e, soprattutto, il blocco a singhiozzo dei transiti di persone verso la zona A. L’esistenza degli abitanti della zona B ne era profondamente condizionata, al punto che molti di loro finirono per trovarsi di fronte alla brutale alternativa fra l’abbandono delle proprie occupazioni e la
più nera indigenza, ovvero la rinuncia alla propria terra, dove era tollerato solo chi mostrava di aver troncato ogni rapporto con Trieste. All’interno di questo quadro si colloca anche la crisi legata alle elezioni per i comitati distrettuali di Capodistria e Buie, convocate da parte jugoslava per il 16 aprile 1950. La consultazione, tecnicamente amministrativa ma dall’evidente contenuto politico, si inseriva nell’ambito del processo di legittimazione concorrenziale ma fortemente asimmetrica delle posizioni italiane in zona A e jugoslave in zona B. Nel settembre del 1948 infatti il GMA si era risolto a convocare per la primavera successiva le prime libere consultazioni del dopoguerra nei territori giuliani sottoposti all’amministrazione anglo-americana, procedendo all’elezione dei consigli comunali di Trieste e di altri cinque comuni della zona. Si trattava di una mossa a lungo rinviata, sia perché le autorità militari alleate – che a Trieste avevano applicato il modello del direct rule – non erano affatto entusiaste dell’idea di doversi confrontare con dei consigli comunali che, pur limitatissimi nelle loro competenze, avrebbero comunque tratto forza dal consenso popolare, sia – soprattutto – per il timore che le forze comuniste filojugoslave ottenessero un successo tale da mettere in crisi il GMA. Nell’autunno del 1948 però la situazione si presentava ben diversa. A Trieste l’applicazione della politica americana del contenimento aveva fatto sentire i suoi effetti, ridimensionando sostanzialmente la posizione egemonica conquistata dalle organizzazioni comuniste nei primi anni del dopoguerra. I partiti filoitaliani da parte loro, ormai ben sostenuti attraverso vari canali dal governo italiano, potevano contare su una presenza capillare nella società locale, e su una capacità di mobilitazione confrontabile con quella dei loro avversari. Inoltre, il trauma provocato tra le file comuniste dal precipitare del contrasto fra Tito e Stalin, la frattura del partito comunista del TLT con l’espulsione della componente titina e la conseguente esistenza di più partiti comunisti, impegnati in una reciproca, feroce polemica, costituivano un’occasione irripetibile per costringere gli avversari al confronto elettorale nel momento di massima debolezza.29 La valenza politica delle elezioni era indubbia: inglesi e americani non avevano ancora mutato strategia nei confronti della Jugoslavia e la loro politica per Trieste continuava a fondarsi sulla Nota Tripartita del
20 marzo del medesimo anno. Anzi, secondo le valutazioni del GMA il ricorso alle urne avrebbe dovuto «consentire alla schiacciante maggioranza italiana di manifestare la propria volontà per mezzo di una libera elezione popolare» in modo da «giustificare la politica che sta alla base della dichiarazione del 20 marzo».30 Era una valutazione sulla quale il governo italiano ovviamente concordava in pieno, e ciò lo spinse a mobilitarsi, sul piano organizzativo e finanziario, per ottenere dagli elettori triestini un vero «plebiscito di italianità».31 I risultati furono pari alle attese e nel giugno del 1949 i partiti filoitaliani conseguirono a Trieste la maggioranza assoluta dei suffragi.
1. Il Narodni Dom (Casa della Nazione) di Trieste in fiamme (Trieste, 1920).
2. Proclama degli squadristi di Dignano (vicino a Pola).
3. Emigranti croati davanti alle «baracche istriane» di Zagabria.
4. Bambini jugoslavi nel campo di internamento di Arbe (isola della Dalmazia). 1942.
5. Recupero di cadaveri nella foiba di Vines (Istria meridionale) nel 1943.
6. Recupero di reperti umani nelle foibe carsiche da parte di una squadra del CAI di Trieste nell’estate del 1945.
7. Panoramica di Zara distrutta dai bombardamenti. 1944.
8. Militari e civili arrestati dagli jugoslavi a Trieste nel maggio del 1945.
9. Una bambina istriana parte per l’esilio.
10. L’Esodo da Pola nel 1947: una famiglia.
11. L’Esodo da Pola nel 1947: si caricano anche le bare.
12. Esuli in fila per mangiare nel campo profughi di Brescia, 1949.
13. Un box nel campo profughi di La Spezia, 1947.
14. Dopo il Memorandum di Londra del 1954 si abbandonano anche gli ultimi territori passati sotto l’amministrazione jugoslava.
15. La nave Flaminia in partenza per l’Australia (Trieste, agosto 1956).
16. Istria abbandonata: la desolazione del paese ancora vuoto dopo cinquant’anni (Portole ďIstria, 1998).
La reazione jugoslava non fu immediata, perché il governo di Belgrado – in piena rottura con Mosca e non ancora appoggiato da Washington e Londra –stava attraversando il suo momento più critico di isolamento, ma si concretò dopo il rafforzamento della posizione di Tito. Già la scarsa reazione inglese e americana alle misure adottate dagli jugoslavi nella zona B agli inizi del 1950 aveva lasciato intendere che i due governi alleati non avevano più sostanziali obiezioni da muovere al processo di «annessione fredda» della zona alla Jugoslavia, visto che andava nella nuova direzione auspicata dal Foreign Office e dal Dipartimento di Stato, quella cioè di una spartizione del TLT fra Italia e Jugoslavia lungo la linea Morgan. Esistevano quindi le condizioni per tentare un salto di qualità del processo di legittimazione del potere jugoslavo sulla zona B, quale poteva uscire da un esito elettorale adeguatamente plebiscitario. Per ottenerlo, i poteri popolari non lasciarono nulla di intentato. Inizialmente, gli attivisti filojugoslavi si lanciarono in una
campagna capillare di mobilitazione politica, che però si scontrò con la crescente indifferenza della popolazione: se quindi in una prima fase autorità e dirigenti di partito si erano illusi di poter rimontare con un intenso «lavoro politico» il consenso perduto negli anni precedenti, dovettero ben presto ricredersi. Di fronte al sempre più netto fallimento della campagna elettorale, i tentativi di convincimento degradarono progressivamente nell’intimidazione e nella costrizione. Cominciarono gli interrogatori sistematici di alcune categorie di lavoratori, a partire dagli insegnanti, per verificare la loro disponibilità a partecipare alle elezioni, e i soggetti considerati «non sicuri» vennero allontanati dalla zona; la radio avviò una martellante campagna contro l’astensionismo, considerato «propaganda reazionaria» e la difesa popolare batté i villaggi minacciando chiunque si mostrasse riluttante a votare. Non furono usate solo le parole; fra le tante, ecco una testimonianza significativa riguardo l’atmosfera di terrore di quel periodo:
Mentre stavo lavorando in campagna con mio fratello, due attivisti vennero a trovarmi (era la terza volta) e mi minacciarono accusandomi di essere un propagandista dell’astensione, perché mi ero rifiutato, a un precedente invito, di partecipare alle elezioni, avvertendomi che sarei stato responsabile delle eventuali assenze dalle elezioni degli abitanti della mia frazione. «Pagherai per tutto» mi dissero prima di andarsene. La sera del 14 ritornarono in cinque e, dopo aver abbattuto la porta di casa, mi saltarono addosso e mi bastonarono duramente. Alla domenica mattina (il giorno delle elezioni) tornarono ancora e costrinsero i miei familiari a votare e a me, che ero a letto per le bastonature ricevute, fecero firmare una delega con la quale mio padre avrebbe dovuto votare a nome mio. [...] Nella stessa giornata ci venne comunicata la nostra espulsione dalla zona B.32
In questo clima si arrivò al 16 aprile, giorno delle elezioni. Nel corso della mattinata, gli osservatori della stampa occidentale notarono le cittadine pressoché deserte e l’affluenza ai seggi quasi nulla; nonostante le intimidazioni, la maggior parte della popolazione aveva deciso di manifestare il suo dissenso nei confronti dell’amministrazione jugoslava nell’unico modo possibile, non recandosi al voto. Ecco una dichiarazione al riguardo:
Io non volevo votare, mi ero nascosto, ma ho votato all’ultimo momento perché la mia mamma si era messa in ginocchio. [...] Alla mattina mio padre è venuto da me e mi ha detto: «Non vai?». «No, non vado, mi secca, non me la sento.» È arrivata dalle parti di casa mia subito una squadra: «Com’è qua? Siete andati tutti a votare?». «No, andremo» ha detto mia mamma; mio papà ha detto: «Io c’ero». E in quel momento mia mamma si è buttata in ginocchio. Ma io le ho detto: «No me la sento, no me la sento e bon».33
Nelle ore successive poi, numerosi giornalisti inglesi e italiani vennero aggrediti in diverse località della zona e per protesta tutti i rappresentanti della stampa decisero di rientrare a Trieste. A quel punto, al riparo da qualsiasi sguardo indiscreto, si scatenò la caccia all’elettore. Le testimonianze al riguardo sono copiosissime, più o meno tutte del tenore delle seguenti:
Mio fratello si era già nascosto in soffitta, perché erano andati da mio fratello prima, alla mattina; un certo L. [...] conosceva mio fratello e va da lui con una squadra: «Ciò, io sono andato a votare, tu non eri a votare?». E mio fratello disse: «Cosa, è obbligatorio andare a votare?». E
allora gli hanno detto: «Ancora così dici, adesso veniamo su». E allora hanno spaccato la porta e mio fratello è scappato per i tetti ed è riuscito a venire a casa nostra, che stavamo dall’altra parte di Capodistria, e si è nascosto in soffitta [...]. Perché là a casa sua hanno spaccato tutto, hanno rotto i mobili, tutto.34
C’erano squadre che andavano proprio a pestare perché la gente non andava a votare. Io però, siccome non avevo l’età del voto, facevo il bullo, giravo per il paese e mi dicevano: «Eri a votare?». E io «No» e ancora dicevo «no» con la bocca grande e tiravo fuori la carta di identità. [...] Però con quelle elezioni mio fratello è cascato giù per le scale. Sono venuti a battere il portone: «Aprite». Mio papà è venuto giù con lui a cavalcioni che era piccolo, è nato nel 1949; mio papà aveva sempre lavorato come un cane e non so come, quando ha visto sta masnada che viene dentro [...] non ha saputo come prendersi al rastrel delle scale e lo ha mollato giù, e lui ha urlato ed è stato tanto tempo col collo così; poi a mio papà gli ha preso uno scato de mato e disse: «Se non andate via vi spacco la testa con la manera [ascia] a tutti», e quelli hanno messo la coda tra le gambe e sono andati via, però la sera dopo lo hanno bastonato e lo hanno lasciato mezzo morto per terra. Da quella volta mio papà è venuto a Trieste e non è venuto più giù».35
Alla fine dunque gli istriani andarono a votare e i poteri popolari ottennero formalmente il risultato voluto, grazie anche al prolungamento fino a tarda notte dell’apertura delle urne. Il significato politico della consultazione fu però ben diverso da quello delle elezioni tenutesi l’anno prima nella zona A: l’astensionismo di massa degli italiani, spezzato solo dal ricorso a un’ondata di
violenze, confermò come nella zona B la dialettica politica fra popolazione e autorità fosse irrimediabilmente bloccata al binomio rifiuto-repressione. Al tempo stesso, la determinazione mostrata dal regime nel piegare a ogni costo la volontà degli italiani dimostrò l’impossibilità di forme di resistenza passiva, quali erano state auspicate dal CLN dell’Istria ed effettivamente tentate su larga scala dalla popolazione. Conseguenza diretta dell’inasprirsi della tensione fu un’ondata di fughe che coinvolse almeno un migliaio di persone. Anche se il flusso poi si attenuò, non si modificò invece quella che si rivelava ormai come una vera e propria politica di snazionalizzazione, il cui elemento strategico era l’immissione nella zona di consistenti porzioni di popolazione provenienti dall’entroterra jugoslavo. L’immigrazione slava infatti modificava visibilmente l’assetto etnico del territorio, la cui prevalente fisionomia italiana si era fino a quel momento conservata, nonostante le crescenti difficoltà, almeno nei centri principali. Tutto ciò, sommandosi alle trasformazioni economiche, sociali e culturali che avevano radicalmente cambiato il modo di vivere degli abitanti, favorì tra gli istriani il diffondersi di una sensazione di estraneità nei confronti della propria stessa terra, divenuta nel corso degli anni sempre più irriconoscibile, fatto questo che preparò in molti casi il terreno alla scelta dell’Esodo. Nel frattempo, sul piano politico si arrivò alla resa dei conti per due categorie che costituivano un tradizionale punto di riferimento per la popolazione italiana: gli insegnanti e il clero. Va detto che polemiche e provvedimenti repressivi non erano mancati nemmeno in precedenza, in particolare nei confronti dei sacerdoti, dal momento che l’aggressività nazionalista si inseriva nell’alveo più ampio della persecuzione di regime contro la Chiesa cattolica. A dire il vero, nella Venezia Giulia alcuni esponenti del clero sloveno e croato nei primissimi tempi del dopoguerra avevano manifestato una certa disponibilità verso le autorità popolari, dal momento che esse – pur ispirandosi a un’ideologia assolutamente riprovevole come il comunismo – sembravano comunque realizzare quell’unificazione nazionale per la quale anche molti di loro si erano battuti. Il 10 febbraio 1946, per esempio, un gruppo di sacerdoti sloveni e croati aveva inviato alla Commissione alleata per la
delimitazione dei confini un memoriale in cui l’analisi della politica condotta dall’Italia nei confronti degli slavi conduceva ad affermare che «gli italiani non sono capaci di risolvere la questione nazionale con spirito cristiano, perché sono per natura portati a un’assimilazione violenta o artificiosa. Perciò hanno perso il diritto di amministrare ancora queste terre». Unendo a tali riflessioni altre considerazioni di natura economica, il memoriale era giunto alla conclusione che «il Litorale tutto intero va annesso alla Jugoslavia Federativa». Con lo stesso spirito, alcuni sacerdoti sloveni dei dintorni di Trieste avevano partecipato alla delegazione jugoslava che si era recata a Parigi per la conferenza di pace.36 Anche costoro però compresero ben presto che le benemerenze patriottiche non ponevano il clero slavo della regione al riparo dalla persecuzione religiosa, e fra il 1946 e il 1947 tutti i territori passati sotto il controllo jugoslavo videro il moltiplicarsi degli episodi di violenza. Tra i sacerdoti, italiani e slavi, si contarono così numerosi martiri. Nel settembre del 1946, in Istria, nei pressi di Grisignana, era stato ucciso in oscure circostanze don Francesco Bonifacio, e nello stesso mese, nel Goriziano, veniva massacrato il parroco di Salona d’Isonzo, don Izidor Zavadlav.37 Nell’agosto del 1947, durante la celebrazione della cresima – che, per la sua dimensione pubblica e la vasta partecipazione di fedeli, costituiva una delle occasioni di maggiore frizione fra autorità politiche e religiose –a Lanischie, nei pressi di Pisino, era stato ferocemente scannato don Miro Bulešić, ed era stato gravemente ferito monsignor Jacob Ukmar, già designato amministratore apostolico per la parte della diocesi di Trieste e Gorizia destinata a passare alla Jugoslavia.38 Ai fatti di sangue si erano aggiunti altri episodi clamorosi. Nell’agosto del 1947, a conclusione di un crescendo di intimidazioni e spoliazioni iniziato già l’anno precedente, furono arrestati i monaci benedettini del convento di Daila, nei pressi di Cittanova d’Istria, assai noto sia per la sua attività religiosa, sia perché titolare di due aziende agricole piuttosto moderne. I monaci furono accusati di una caterva di reati, che andavano dal collaborazionismo alla propaganda sovversiva, dall’esportazione clandestina di viveri in zona A e di somme in denaro versate alla casa madre di Praglia, al «sabotaggio economico» per la mancata consegna di alcuni
quantitativi di cereali all’ammasso. Il processo si svolse a Buie tra il febbraio e il marzo del 1948 e si concluse con la condanna dei monaci ai lavori forzati e la confisca dei beni del monastero. La sentenza rifletteva la duplice motivazione dell’azione penale avviata contro i monaci: eliminare una presenza religiosa e politica sgradita (ai benedettini venne tra l’altro contestato di aver ospitato riunioni illegali dell’azione cattolica) e mostrare, con un gesto di grande impatto sulla pubblica opinione, la determinazione con cui i poteri popolari intendevano procedere lungo la via della riforma agraria.39 Ancor più scalpore aveva fatto, nel giugno del 1947, l’aggressione subita a Capodistria dal vescovo monsignor Santin, fortemente inviso ai militanti filojugoslavi e comunisti, perché accusato di aver tenuto poco conto nella sua attività pastorale dei diritti nazionali dei fedeli sloveni e croati, e soprattutto perché negli anni del dopoguerra era divenuto a Trieste il principale punto di riferimento per tutte le forze, non solo cattoliche, ostili alla dominazione jugoslava e al comunismo. Monsignor Santin era perciò già stato oggetto, oltre che di aspre polemiche sulla stampa, di numerose intimidazioni: nel giugno del 1946 per esempio, contro di lui era stata organizzata una sassaiola nei dintorni di Trieste e, nello stesso mese, di fronte alla dichiarazione delle autorità jugoslave di non poter garantire la sua incolumità, il presule era stato costretto a rinunciare a una visita a Capodistria in occasione dei festeggiamenti per il patrono san Nazario. L’anno successivo, nella medesima occasione, il problema si ripropose e il vescovo – uomo di grande carattere –decise di recarsi nella cittadina istriana, anche al fine di esortare i sacerdoti, sottoposti a dure pressioni, a rimanere sul posto. La VUJA garantì che l’ordine pubblico sarebbe stato assicurato e il vescovo si recò a Capodistria via mare, in modo da aggirare eventuali blocchi stradali. Lo sbarco avvenne senza inconvenienti, ma quando monsignor Santin giunse in seminario, l’edificio venne assalito da una folla inferocita proveniente dai paesi limitrofi e da alcuni rioni di Trieste. La difesa popolare rimase a guardare mentre il presule veniva percosso a sangue, e si risolse a intervenire solo quando fu chiaro che si trovava in pericolo di vita: se infatti la violenza esercitata contro il vescovo poteva svolgere una poderosa funzione intimidatoria nei confronti del clero, il suo omicidio, consumato sotto
gli occhi delle autorità militari incaricate di amministrare provvisoriamente la zona B, avrebbe avuto ricadute internazionali decisamente sgradevoli per il governo di Belgrado.40 Aggredire dunque monsignor Santin significava colpire al contempo uno dei simboli dell’identità nazionale e religiosa degli italiani dell’Istria e uno dei protagonisti della lotta politica a Trieste. Dopo pochi mesi però, al momento dell’entrata in vigore del trattato di pace, un altro episodio segnalò che la volontà repressiva del regime si esercitava con uguale intensità anche contro gli esponenti slavi della Chiesa, considerata nel suo complesso un avversario da distruggere. Lo dimostrò l’aggressione – non meno grave di quella di cui era caduto vittima il vescovo di Trieste, ma di cui fra gli italiani non si parlò quasi per nulla – perpetrata ai danni di monsignor Frane Močnik, nominato amministratore apostolico della porzione delle diocesi di Gorizia e di Parenzo-Pola trasferite alla sovranità jugoslava. Monsignor Močnik pose la sua sede a Salcano –rione periferico di Gorizia attorno al quale nei decenni successivi sarebbe sorta la città di Nova Gorica –, ma il 19 settembre, pochi giorni dopo il suo insediamento, venne prelevato dalla canonica e costretto a suon di percosse a correre sino al confine, dove venne sollevato e gettato di peso oltre il filo spinato, sul territorio italiano. Non bastò. Monsignor Mocnik rientrò in Jugoslavia, ma solo per venirvi nuovamente prelevato, a nemmeno un mese dalla prima aggressione, dal santuario di Monte Santo dove aveva cercato invano rifugio. Ancora una volta l’amministratore apostolico fu costretto a correre da Salcano al confine, per esservi di nuovo, e definitivamente, gettato oltre.41 Nell’ambito dunque della persecuzione condotta dal regime comunista contro la Chiesa cattolica, la pressione esercitata sul clero italiano dell’Istria agli inizi degli anni Cinquanta assunse un carattere particolare. Il suo obiettivo infatti era assai specifico, perché le autorità si proponevano di favorire la scissione della diocesi di Capodistria da quella di Trieste, secondo un disegno che rientrava nella politica di separazione totale fra le due zone. La nuova ondata di violenze – il cui episodio più grave fu costituito dall’aggressione subita il 12 novembre 1951 da monsignor Giorgio Bruni, parroco di Capodistria, assalito e percosso a sangue mentre
si recava a impartire la cresima nel villaggio di Carcase – pose quindi i sacerdoti di fronte all’alternativa fra il rifiuto dell’obbedienza al loro vescovo e l’abbandono del territorio sottoposto all’amministrazione jugoslava.42 Di fatto, ciò portò in larga misura all’eliminazione del clero italiano. Nello stesso periodo i poteri popolari strinsero i freni anche nei confronti dei docenti italiani, che nella loro maggioranza si erano mostrati assai poco disponibili a trasformare l’insegnamento in uno strumento privilegiato degli orientamenti ideologici e nazionali del regime. Così, negli anni scolastici dal 1950 al 1953 numerose scuole italiane vennero chiuse, anche perché le autorità – in piena applicazione dei princìpi del «nazionalismo etnico» – cercarono di dirottare sulle scuole slovene e croate tutti gli studenti i cui cognomi avessero rivelato un’origine slava.43 Di fronte a un crescendo di procedimenti giudiziari e di intimidazioni, centododici fra maestri e professori furono costretti ad abbandonare la zona nell’anno 195152, imitati l’anno seguente da altri trentadue. Ecco quanto dichiarò nell’aprile del 1952 un gruppo di insegnanti che si trasferirono a seguito delle minacce ricevute dopo che due loro colleghi erano stati condannati per aver ricevuto sussidi da parte del governo italiano:
Noi sottoscritti insegnanti italiani delle scuole elementari e d’avviamento professionale del Comune di Isola d’Istria dichiariamo quanto segue: Le autorità jugoslave del Comune di Isola d’Istria ci hanno posto come condizione ultimativa per la continuazione della nostra attività in seno alle scuole italiane e per la nostra stessa permanenza in zona B la firma di un documento in cui noi insegnanti avremmo dovuto dichiarare individualmente: a) di approvare senza riserve il processo contro i colleghi dott. Amatore Degrassi, Tarcisio Benedetti e Silvana
Pettemer, e di deplorare la mitezza delle condanne loro inflitte dal tribunale militare di Capodistria in data 29 marzo 1952; b) di riconoscere d’aver svolto opera nefasta nei confronti della scuola italiana della zona B; c) di rompere ogni rapporto con il CLN dell’Istria o con altri enti in collegamento con il governo italiano; d) di uniformarci a tutte le disposizioni delle autorità popolari e di abbracciare l’ideologia comunista titina; e) di prendere atto che, in caso di mancata accettazione della firma di tale documento, il nostro comportamento avrebbe potuto provocare l’ira popolare (il sig. Nerino Gobbo, presidente del Comitato Popolare di Isola d’Istria ci disse le seguenti testuali parole: «La mano del popolo graverà sulle vostre teste, tenete presente che quando il popolo si mette egli è brutale»). Di fronte a questo ultimatum che poneva condizioni assolutamente inaccettabili alla nostra dignità di italiani, di uomini liberi e di educatori coscienti, e che, se accettato, significava un atto assurdo di autolesionismo, abbiamo deciso di abbandonare la zona B, per sottrarci alle rappresaglie jugoslave. Dichiariamo ancora di aver proposto alle autorità jugoslave di Isola d’Istria il rilascio di una dichiarazione meno compromettente e meno lesiva della nostra dignità, che è stata però respinta.44
A seguito di tale complesso di provvedimenti dunque, le comunità italiane si presentarono fortemente indebolite e destrutturate all’appuntamento con la crisi finale, legata alla soluzione della questione di Trieste, che ebbe inizio nella seconda metà del 1953, quando la situazione di stallo in cui la vertenza sembrava essersi avvitata, ebbe bruscamente termine, inaugurando alcuni mesi convulsi e drammatici.
La fase finale della crisi e il «grande Esodo» Nella notte del 29 agosto 1953, l’esercito italiano, per la prima volta dalla fine del secondo conflitto mondiale, venne posto sul piede di guerra. L’emergenza riguardò solo alcuni reparti e durò pochi giorni, ma fu non di meno assai acuta, ben più di quanto le ricostruzioni non abbiano saputo cogliere, fino a tempi recentissimi. 45 Tutto cominciò il 28 agosto, quando un dispaccio della United Press, che rielaborava un originale della Jugopress, affermò che la Jugoslavia aveva «perduto la pazienza» con l’Italia per quanto concerneva la questione di Trieste e che, come risposta all’annessione fredda della zona A all’Italia, stava pensando di annettere la zona B. La dichiarazione ufficiale della Jugopress era in realtà più moderata e non faceva parola dell’annessione, tuttavia la mossa si inquadrava piuttosto bene in un’escalation di interventi da parte di esponenti jugoslavi, la cui logica era abbastanza trasparente. A seguito dei risultati deludenti delle elezioni politiche del giugno del 1953, De Gasperi era stato costretto ad abbandonare il potere, e in Italia si era aperta un fase di instabilità politica. Come sempre accade, la crisi interna aveva indebolito fortemente la posizione internazionale dell’Italia, e il governo di Belgrado aveva cercato di trarne immediato profitto, alzando il tiro delle sue rivendicazioni: diede per scontata l’acquisizione della zona B e tentò di porsi nella condizione migliore per un negoziato sulla zona A, ancora in mano anglo-americana. La reazione italiana ai comunicati stampa – accompagnati dalla previsione di una grande manifestazione che si sarebbe tenuta alla presenza di Tito a pochi chilometri dal confine italiano – fu sorprendente. Il 29 agosto il nuovo presidente del consiglio Pella non
si limitò ad avviare un’intensa attività diplomatica per scongiurare l’eventuale annessione della zona B da parte jugoslava, ma fece sapere che qualora il governo di Belgrado avesse tirato diritto, l’Italia avrebbe occupato la zona A. Inoltre, per dimostrare che il governo di Roma non stava affatto scherzando, ordinò ad alcune unità militari di muoversi verso il confine. La risposta italiana a quella che in fondo era solo un’ufficiosa indiscrezione, un ballon d’essai jugoslavo, parve decisamente eccessiva, ma il suo significato politico andava ben oltre, come gli americani compresero quasi subito. Il governo italiano stava rovesciando la sua politica su Trieste, e aveva bisogno di drammatizzare la situazione, vuoi per collocarsi in una posizione negoziale più forte, vuoi per stendere una cortina fumogena sulle sue finalità ultime. La questione, in realtà, era piuttosto semplice. Di una spartizione del TLT lungo la linea Morgan si parlava da tempo, ma De Gasperi vi si era sempre opposto, convinto che avrebbe provocato un ulteriore esodo di tutti gli italiani dalla zona B, il che poi puntualmente si verificò. La linea di De Gasperi non era però affatto condivisa dagli ambienti diplomatici italiani, persuasi che per la zona B non vi fosse più nulla da fare, mentre il mantenimento dell’amministrazione anglo-americana nella zona A avrebbe potuto erodere gravemente le posizioni italiane a Trieste. Nel capoluogo giuliano infatti, i partiti filoitaliani incontravano difficoltà crescenti nel fronteggiare non più tanto i comunisti, bensì una composita galassia indipendentista, cementata dalle condizioni di privilegio in cui la città si trovava a vivere sotto il governo militare alleato, che non lesinava le spese per mantenere la pace sociale. Secondo la valutazione del segretario generale del ministero degli Esteri, Zoppi, Trieste rischiava di fare la fine di Tangeri, balcanizzandosi in pochi anni.46 Si trattava di timori forse eccessivi, ma il nuovo presidente del consiglio, Pella, li condivideva. Pertanto, Pella decise in primo luogo di mandare a Tito – e anche agli anglo-americani – un segnale clamoroso, capace di invertire la china discendente della capacità negoziale italiana, e cioè il ricorso allo strumento militare. La portata di tale scelta è stata in genere sottovalutata dalla storiografia, che l’ha interpretata come un gesto puramente simbolico, diretto vuoi a fini di «mobilitazione interna»,
dal momento che il governo si reggeva sui voti della destra, vuoi a camuffare le proporzioni della svolta. In realtà, non si trattava affatto di un atto meramente dimostrativo: il governo italiano aveva preso terribilmente sul serio la possibilità che gli jugoslavi procedessero all’annessione della zona B, magari in concomitanza con il discorso di Tito a Okroglica, nei pressi di Gorizia, previsto per il 6 settembre, e aveva deciso di prepararsi a occupare la zona A prescindendo dal consenso alleato. Il 29 agosto quindi, venne avviata l’operazione Delta, tesa all’occupazione di sorpresa della zona A. L’incognita principale dell’azione era naturalmente costituita dall’atteggiamento alleato, e al riguardo il capo di stato maggiore della Difesa, generale Marras, inviò il 30 agosto ai capi di stato maggiore dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica, le seguenti direttive:
Contro i reparti anglo-americani che si opponessero non si farà uso della forza. Si tratta perciò di sfruttare la sorpresa, infiltrarsi attraverso i reparti alleati e mettere piede nella zona mediante sbarchi navali e paracadutisti.47
Anche altre disposizioni risultano piuttosto interessanti, soprattutto là dove si afferma che
[...] le operazioni contro le eventuali forze jugoslave che fossero penetrate nella zona A dovranno limitarsi al loro rigetto oltre confine. Le forze di polizia della zona dovranno essere messe subito in condizione di non nuocere. Dovrà essere evitato tutto quanto possa favorire disordini e conseguenti repressioni violente da parte delle autorità alleate.48
Quello predisposto dallo stato maggiore non era affatto, quindi, un piano di routine per un’improbabile emergenza, ma la base di un’azione che il governo desiderava essere in grado di far scattare con un preavviso minimo. Un’azione che aveva come «ipotesi fondamentale» quella che la Jugoslavia non si sarebbe opposta all’occupazione italiana della zona A, ma avrebbe potuto approfittare dell’occasione per cercare di impossessarsi di talune limitate posizioni, allo scopo di stringere Trieste più da vicino. Da parte loro, gli Alleati, non consenzienti, avrebbero dovuto venir paralizzati da un’operazione fulminea e senza spargimento di sangue, ma volta in ogni caso a sottrarre immediatamente al loro controllo le forze di polizia. Dunque, i timori espressi dal comandante del GMA, il generale inglese Winterton, in merito a un eventuale colpo di mano italiano, e sui quali la storiografia (compreso chi scrive) ha in passato volentieri ironizzato, non erano poi del tutto infondati. Che poi il piano Delta fosse effettivamente attuabile, è tutto da verificare. Come i vertici militari, piuttosto inquieti, fecero immediatamente notare, la condizione fondamentale per il successo dell’operazione, vale a dire la sorpresa, era venuta meno quasi subito, dal momento che inglesi e americani erano stati ampiamente allertati dalle bellicose dichiarazioni dello stesso Pella. Lo scenario che si delineava quindi era alquanto agghiacciante, come emerse il 2 settembre nel corso di una riunione tra i capi di stato maggiore delle tre Armi e il comandante del V corpo d’armata, cui sarebbe spettato il compito di conquistare Trieste:
[...] da parte jugoslava prevedibili pronti sconfinamenti, per respingere i quali si esporrebbero le nostre forze, all’inizio molto inferiori e non sostenute, a un quasi sicuro insuccesso di fronte a quelle jugoslave, che possono essere sostenute anche da forze rilevanti; prevedibile intervento successivo degli Alleati che, impedendo un conflitto, pongano l’Italia nelle condizioni di aver subìto un insuccesso senza poter reagire.49
Le preoccupazioni dei militari, unite alla conferma che il governo di Belgrado non intendeva procedere ad alcuna annessione, nonché all’espressione della volontà anglo-americana di difendere l’integrità della zona A proteggendola «contro qualsiasi aggressione da qualsiasi parte», condussero dunque alla cancellazione dell’operazione Delta, con visibile sollievo dei capi di stato maggiore e del comandante sul campo. Ma l’opzione militare, per quanto reale, rappresentava soltanto la parte minore dell’azione avviata da Pella. Contestualmente infatti, il presidente del consiglio abbandonò la strategia degasperiana per puntare a una diversa e più rapida soluzione della vertenza: il recupero nel più breve tempo possibile della zona A, anche se ciò avrebbe inevitabilmente cancellato le ultime speranze di riacquisire almeno parte della zona B. L’obiettivo dell’azione diplomatica italiana era piuttosto evidente: ottenere a breve termine dagli angloamericani il trasferimento dell’amministrazione della zona A. Ciò avrebbe posto il governo italiano nella medesima posizione di quello jugoslavo, che già controllava la zona B, modificando quindi radicalmente le condizioni di un eventuale negoziato diretto. Questo sarebbe stato per l’Italia lo scenario ideale, in quanto le avrebbe consentito di non rinunciare alle proprie rivendicazioni oltre la linea Morgan. Se invece Tito avesse reagito all’affidamento della zona A all’Italia annettendo la zona B, il governo di Roma avrebbe protestato, ma avrebbe a sua volta potuto annettere la zona A e chiudere così la partita, liberando finalmente la politica estera italiana dal peso paralizzante della questione di Trieste. Al di là quindi delle mosse d’apertura, come le manovre militari e la successiva richiesta di un plebiscito da tenersi nell’intero TLT sull’alternativa secca Italia o Jugoslavia,50 il nuovo dinamismo impresso da Pella alla vertenza giuliana costituiva nella sostanza una sollecitazione rivolta agli anglo-americani a muoversi nella direzione della spartizione lungo la linea Morgan. Sollecitazione che venne accolta perché la direzione verso cui puntava era la medesima in cui gli anglo-americani stessi volevano andare. Nessuno dei governi alleati, e soprattutto quello di Washington,
desiderava infatti di meglio se non porre fine alla lunga vertenza italo-jugoslava, il cui protrarsi era ormai incompatibile con gli obiettivi generali della politica americana in Europa, così come erano stati ridefiniti agli inizi del 1953 dalla nuova amministrazione Eisenhower. Nel quadro del new look della concezione della sicurezza americana diveniva essenziale eliminare qualsiasi equivoco o soluzione di continuità nella linea del contenimento sul continente: il suo superamento da parte sovietica avrebbe fatto scattare una «rappresaglia massiccia» che non escludeva il ricorso alle armi nucleari. In questa prospettiva, se l’Unione Sovietica avesse deciso di invadere la Jugoslavia, non ne sarebbe seguita una guerra limitata, bensì un conflitto che avrebbe impegnato l’intero potenziale della NATO. Dal nuovo approccio strategico derivava una conseguenza immediata: la precedente politica anglo-americana volta a «puntellare la capacità jugoslava di resistere a un’aggressione da Oriente», grazie agli aiuti economici e alle forniture militari, non bastava più. La Jugoslavia doveva essere integrata nel sistema di difesa occidentale. Il governo di Tito sembrava non chiedere di meglio, ma rimaneva un problema, che il segretario di Stato, Foster Dulles, espresse con grande chiarezza: «Siamo convinti che le nostre relazioni militari con la Jugoslavia sono arrivate al punto che, per consentire ulteriori progressi nella programmazione e pianificazione, è imperativo che la questione di Trieste sia stabilizzata».51 Dunque, gli americani e i loro alleati britannici si decisero a intervenire direttamente nella contesa italojugoslava, posto che ogni tentativo di spingere i due Paesi al tavolo delle trattative si era rivelato infruttuoso. Del resto, nell’autunno del 1953 le condizioni sembravano favorevoli all’iniziativa diretta. Già un anno prima, nel settembre del 1952, il primo ministro inglese Eden si era convinto, nel corso di una visita a Belgrado, che i dirigenti jugoslavi avrebbero accettato la spartizione del TLT lungo il confine di zona, purché tale soluzione avesse avuto carattere di definitività e non fosse apparsa come un’iniziativa jugoslava, ma imposta dalle circostanze.52 Quanto all’Italia, la nuova politica di Pella, per quanto un po’ contorta, sembrava aprire la strada a una rapida composizione della vertenza. La difficoltà residua era costituita dalle modalità di presentazione di una soluzione della
quale nessuno dei due contendenti voleva assumersi la paternità e che avrebbe dovuto venir confezionata in modo che entrambe le pubbliche opinioni la percepissero come un successo o, per lo meno, come il male minore. A tal fine, il Dipartimento di Stato previde un complesso meccanismo, articolato su di una dichiarazione pubblica di disimpegno anglo-americano dalla zona A, accompagnata dal contestuale trasferimento della sua amministrazione all’Italia. Prima però andavano effettuati due sondaggi, da compiere simultaneamente a Roma e a Belgrado, per verificare da un lato la disponibilità italiana ad accettare l’amministrazione della zona A anche nell’eventualità che la Jugoslavia annettesse la zona B, dall’altro la disponibilità jugoslava a limitare al piano diplomatico le sue inevitabili proteste. In particolare, al fine di convincere Tito che la soluzione proposta, anche se apparentemente solo de facto come richiesto dall’Italia, era in realtà definitiva come richiesto dalla Jugoslavia, il governo di Belgrado sarebbe stato informato che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non avrebbero protestato nel caso di una sua annessione della zona B. Per ribadire il concetto, nelle note segrete per Tito e per Pella che avrebbero dovuto accompagnare la dichiarazione pubblica, venne espressa «l’intenzione dei due governi [inglese e americano, N.d.A.] che l’accordo de facto divenisse definitivo». In corso d’opera però, la serrata sequenza prevista dagli americani andò all’aria: dapprima il comandante del GMA, Winterton, ossessionato dal problema del mantenimento dell’ordine pubblico a Trieste e profondamente diffidente nei confronti degli italiani, si oppose categoricamente alla simultaneità fra l’annuncio del piano anglo-americano e il ritiro delle truppe dalla zona A, come pure all’ingresso delle forze armate italiane a Trieste mentre ancora vi permanevano quelle alleate. In secondo luogo, il Foreign Office si disse contrario ai sondaggi preliminari, giudicando «intollerabile» la possibilità che a Tito fosse concessa l’opportunità di «prendersi gioco delle due maggiori potenze [occidentali, N.d.A.]». Londra e Washington avrebbero dovuto perciò limitarsi a notificare alle due parti il piano di spartizione del Territorio Libero, presentandolo come una decisione già unilateralmente presa dagli anglo-americani, e poi renderne pubblica la sostanza senza attendere i commenti italiani e
jugoslavi. In questo modo Eden desiderava esprimere la «determinazione [alleata] ad andare fino in fondo» e, concretamente, evitare il rischio di vedersi fermare a metà strada da Tito. A ben vedere però, il responsabile del Foreign Office non faceva altro che spostare il problema, accentuando il carattere di diktat della manovra diplomatica – il che avrebbe potuto indispettire gli jugoslavi, dei quali era ben nota la volontà di non farsi trattare come meri oggetti della politica delle grandi potenze – senza peraltro che gli inglesi e gli americani fossero pronti a sostanziare tale connotazione con atti concreti. È vero infatti che al leader jugoslavo i rappresentanti angloamericani avrebbero dovuto dichiarare di ritenere «essenziale che qualunque reazione da parte sua non giung[esse] ad azioni militari contro l’Italia o la zona A, poiché ciò [avrebbe compromesso] le politiche che noi abbiamo seguito verso la Jugoslavia e che siamo ansiosi di continuare». Ma si trattava solo di un bluff, in quanto i governi delle potenze atlantiche avevano tassativamente escluso la possibilità di minacciare la sospensione degli aiuti economici alla Jugoslavia in caso di mancata accettazione del piano. La decisione era perfettamente coerente con l’obiettivo strategico di evitare a qualsiasi costo il ritorno di Tito all’obbedienza sovietica, ma privava l’azione alleata di uno degli ingredienti indispensabili per il successo di un’iniziativa diplomatica così delicata: prospettare cioè al destinatario i vantaggi del consenso e i rischi del rifiuto. Infatti, a tali condizioni la Jugoslavia non rischiava nulla a respingere il piano, così come dalla sua accettazione non avrebbe tratto alcun beneficio, dal momento che già possedeva la zona B, e l’unilateralità della decisione anglo-americana la privava della possibilità di negoziare il suo consenso alla cessione della zona A all’Italia. Le conseguenze della situazione in cui le diplomazie alleate si erano cacciate furono chiare subito dopo l’8 ottobre 1953, quando il governo di Washington e quello di Londra comunicarono con una Nota Bipartita la decisione congiunta di «porre termine al governo militare alleato, di ritirare le loro truppe e, tenuto conto del carattere predominante italiano della zona A, di rimettere l’amministrazione di quella zona al governo italiano».53 Il governo di Roma esultò, rendendo così fin troppo evidente che l’applicazione sic et simpliciter della Nota, pur configurando una
soluzione di per sé accettabile anche per il governo di Belgrado, avrebbe segnato una sconfitta diplomatica per la Jugoslavia. Lo smacco doveva essere particolarmente bruciante per gli esponenti sloveni, il cui desiderio di ottenere uno sbocco emporiale sull’Adriatico risultava frustrato dalla forzata rinuncia a ogni forma di presenza all’interno del porto di Trieste – richiesta con insistenza nelle precedenti tornate negoziali –54 accompagnata dall’impossibilità, per mancanza di capitali, di riconvertire a tale funzione le cittadine italiane della zona B. Per la diplomazia di Belgrado inoltre, il boccone era reso più amaro dalle ambiguità presenti nella Nota sul tema cruciale della definitività. Al fine infatti di ottenere l’accettazione italiana, i rappresentanti anglo-americani non si limitarono a esprimere a Pella e a Tito l’intenzione alleata che l’«assetto de facto divenisse definitivo», ma precisarono che «tuttavia non verrà richiesto né al governo italiano né a quello jugoslavo di aderire formalmente a questa interpretazione». Ciò inevitabilmente consentì all’Italia di enfatizzare gli aspetti di provvisorietà della soluzione de facto, tanto più che l’ambasciatore americano a Roma, Clare Luce, aggiunse di sua iniziativa nel colloquio con il presidente del consiglio italiano, che «la proposta non era esplicitamente provvisoria né esplicitamente non provvisoria, ma sarebbe stata soggetta a interpretazione». 55 Il consenso jugoslavo al piano alleato rischiava dunque di apparire come una capitolazione di fronte alle pressioni italiane, senza alcun compenso da parte alleata. Una reazione era quindi prevedibile e l’eliminazione dei sondaggi preliminari non toglieva affatto a Tito la possibilità di bloccare il piano, se solo avesse avuto il coraggio di verificare sino in fondo, rischiando la crisi internazionale, la determinazione anglo-americana. Tito lo fece, e il progetto alleato s’impantanò. Non siamo ancora in grado di ricostruire il processo decisionale interno al gruppo dirigente jugoslavo che lo condusse alla decisione di opporsi con estrema fermezza alla cessione all’Italia dell’amministrazione della zona A, e quindi molti interrogativi rimangono aperti in merito al ruolo giocato dalle diverse componenti politiche e nazionali del regime. Di fatto però, la reazione jugoslava superò ogni aspettativa: mentre sul piano diplomatico il governo di
Belgrado dichiarò di non accettare la consegna della zona A all’Italia e minacciò il ricorso alle armi per impedirla, nella capitale jugoslava e a Zagabria vi furono violente manifestazioni di piazza, con attacchi alle sedi diplomatiche e culturali italiane, britanniche e americane. In Istria, una nuova ondata persecutoria si abbatté sugli italiani, ma non se ne ebbe immediata notizia, perché la chiusura dei posti di blocco terrestri e marittimi fra le due zone isolò completamente la zona B da Trieste. Nelle settimane successive tuttavia, gruppi consistenti di profughi cominciarono ad affluire oltre la linea Morgan, e il CLN dell’Istria raccolse un gran numero di testimonianze giurate su quanto accaduto nel Capodistriano e nel Buiese.56 Risulta così che fin dalla sera dell’8 ottobre, in un clima di grande eccitazione acuito il giorno successivo dall’arrivo di alcuni reparti corazzati, le autorità locali avevano organizzato manifestazioni pubbliche di protesta contro la Nota alleata, aventi non solo lo scopo di «mobilitare le masse» a sostegno della politica di Belgrado, ma anche di intimidire la popolazione italiana e di verificare la sua rispondenza alla chiamata del regime. Contemporaneamente, gruppi di attivisti dell’UAIS avevano preso a entrare nelle abitazioni di numerosi cittadini italiani minacciandoli di rappresaglia qualora non avessero abbandonato la zona. Le intimidazioni continuarono in varie forme nei giorni successivi, concludendosi sempre nel medesimo modo: l’invito perentorio a partire. Ecco al riguardo una testimonianza esemplare:
Sabato 10 c.m. [ottobre, N.d.A.] di sera verso le 22 mi fu comunicato da un conoscente [...] che a Momiano [...] dove egli si era recato per suoi affari era stato informato da un impiegato del Comitato popolare cittadino [...] che in seduta segreta l’esecutivo della locale sezione del partito comunista aveva deciso di deportarmi in Bosnia insieme a mia cugina Jolanda e che pertanto era meglio che abbandonassi la zona. Per evitare di essere fatta oggetto di rappresaglie, preferii quella sera rifugiarmi nel fienile. All’indomani mattina si presentarono nell’abitazione della
famiglia vicina due militi della difesa popolare, i quali chiesero informazioni sul mio conto ponendo diverse domande: se ero stata alle manifestazioni organizzate contro la decisione alleata del 9 ottobre, se avevo sempre partecipato alle conferenze politiche indette dal partito comunista, come vivevo, che cosa facevo, se per caso ricevessi denaro o pacchi dalla «democrazia cristiana» di Trieste, con quali persone di Trieste ero in contatto e se per caso «aspettassi De Gasperi». Il pomeriggio giunse in paese da Momiano un altro milite della difesa popolare il quale, incontrata una signora di Trieste, colà provvisoriamente abitante presso dei parenti, le comunicò che «due persone di Berda e precisamente Cecilia e Jolanda avrebbero dovuto partire dalla zona fino a che erano in tempo». Il lunedì mattina mia cugina Jolanda mi informò che era venuta da lei una maestra croata che insegna nel nostro paese e che era andata a Momiano, la quale le aveva comunicato di aver inteso parlare sul nostro conto in un’osteria di Momiano e che «sarebbe stato meglio per noi partire subito». Il giorno dopo mi recai insieme alla cugina a Momiano e trovato I.S. impiegato al Comitato popolare locale, gli feci presente che non potevo vivere in queste condizioni di spirito e sotto tali minacce. Egli si recò allora dal comando della difesa popolare ritornando poco dopo insieme a un milite. Mi invitarono a entrare nell’ufficio del Comitato popolare locale e colà mi consegnarono una «carta di emigrazione» per andarmene dalla zona B e [mi dissero] di partire al più presto. Così feci insieme a mia cugina Jolanda.57
Sembra di capire, da numerose testimonianze convergenti, che fra attivisti e poteri popolari fosse operante un gioco delle parti che riprendeva uno schema già collaudato in precedenti occasioni: le autorità non assumevano iniziative dirette contro i cittadini accusati di sentimenti filoitaliani, e anzi, ostentavano imbarazzo di fronte alle
domande, se non di protezione – alla quale, ormai, nessuno più credeva – almeno di chiarimento, loro rivolte dai minacciati, salvo poi dichiarare di «non potersi opporre alla volontà del popolo» e consegnare agli italiani, debitamente terrorizzati, le «carte di emigrazione». A seguito dunque di tali comportamenti, alcuni gruppi di italiani furono costretti a esodare in gran fretta, creando un discreto allarme nella zona A; il ritmo delle partenze si attenuò poi alla fine di ottobre, quando fu chiaro che gli Alleati avevano rinunciato ad applicare la Nota Bipartita, ma i tragici incidenti avvenuti a Trieste ai primi di novembre determinarono una nuova crisi. Il capoluogo giuliano stava vivendo infatti una fase di estrema tensione, in cui l’incertezza obiettiva della situazione, la politica ondeggiante dei governi alleati, la speranza, subito sfumata, di un rapido ritorno dell’amministrazione italiana costituivano una miscela esplosiva di cui il GMA era ben consapevole e a cui intendeva far fronte con qualsiasi mezzo. L’innesco –peraltro largamente previsto – fu costituito dalle manifestazioni patriottiche organizzate dalle forze filoitaliane in occasione delle celebrazioni del 3 novembre (anniversario dell’entrata delle truppe italiane a Trieste nel 1918) e del 4 novembre (festa della vittoria nella Grande Guerra). Per comprendere la rigidità dell’atteggiamento tenuto nell’occasione dal GMA e la durezza della repressione, va tenuto presente che il comandante del governo militare alleato, che abbiamo già visto diffidare profondamente degli italiani, si convinse di trovarsi in presenza di un preordinato tentativo italiano di minare la sua autorità, al fine di giustificare l’ingresso delle truppe italiane come unica garanzia per il mantenimento dell’ordine pubblico.58 Così probabilmente non era, ma la presunzione di una minaccia superiore alla realtà portò a stroncare con le armi i tumulti che, iniziati il giorno 4, proseguirono il giorno 5 con una serie di manifestazioni studentesche che la «polizia civile», agli ordini di ufficiali britannici, disperse aprendo il fuoco sulla folla. Si ebbero così i primi due morti, e ciò non fece che aggravare la situazione. Il giorno successivo, 6 novembre, le dimostrazioni presero la forma di una vera e propria guerriglia urbana culminata nel lancio di bombe contro le forze di
polizia, che a loro volta aprirono ripetutamente il fuoco uccidendo altre quattro persone.59 Gli incidenti di Trieste non ebbero in realtà alcun effetto sul prosieguo dello scambio diplomatico finendo anzi per rallentare – e non per accelerare, contrariamente a quanto creduto dalla pubblica opinione – la ricerca di una soluzione all’impasse in cui si era arenata la trattativa per la spartizione del TLT. In zona B invece si riprodusse la situazione del mese precedente, con una nuova ondata di pressioni sugli italiani che permise in molti casi di condurre a termine quanto era stato cominciato nella prima settimana di ottobre, come risulta con una certa chiarezza dalla seguente testimonianza, relativa a Isola d’Istria.
Il 10 ottobre i dirigenti locali dell’UAIS promuovevano una riunione politica alla quale venivano invitati tutti i capifamiglia del posto. [...] La seduta venne aperta da un attivista del partito jugoslavo [...] evidentemente mandato sul posto per l’occasione. L’attivista teneva in mano una lista contenente i cognomi di tutte le persone convocate alla seduta [...]. Complessivamente erano 23. Quindi dichiarò testualmente: «Queste famiglie si sono vendute a Trieste per sole 100 lire. Non siete dunque degni di rimanere qui. È meglio per voi che ve ne andiate al più presto dalla Zona». Molti degli «incriminati» protestarono, respingendo la ridicola accusa. A un certo punto uno degli attivisti si rivolse a mio marito Francesco contestandogli l’italianità del suo cognome: «Tu ti fai chiamare Gregoretti, ma in realtà sei Gregorich». Al che mio marito rispose che egli era nato italiano, che continuava a considerarsi tale e che da italiano voleva morire. Al che gli fu detto: «Bene, allora vai in Italia, va’ a Trieste, vedrai come ti troverai bene». [...] Verso il 18 novembre, una sera, due attivisti jugoslavi passarono davanti alla porta della mia abitazione e, battendo contro la stessa, mi invitarono ad aprire. Mi rifiutai naturalmente di aderire al loro invito, anche perché
l’ora era tarda e non conoscevo le loro intenzioni. [...] Quindi, accortisi dell’inutilità della loro richiesta, vollero sapere se avevo già fatto la domanda per partire e dove la tenessi. [...] Risposi loro che la domanda era in corso di esame e che non sarei partita fino a che tutti i documenti non fossero completi. Uno degli attivisti mi avvertì che una volta ricevuta l’autorizzazione scritta per lasciare il paese avrei dovuto consegnarla a loro «perché questo è l’ordine del comandante la Difesa Popolare». Misi apertamente in dubbio tale affermazione dichiarando che non avevo ricevuto alcuna disposizione del genere della parte della Difesa Popolare e del Comitato al quale avevo presentato la domanda. Il colloquio, uno strano colloquio fatto senza che potessimo vederci, finì lì. Il giorno dopo partii insieme a mio marito e ai due figli.60
L’ondata repressiva si placò nel mese di dicembre, ma ormai nell’arco di un trimestre almeno 2750 persone erano state costrette ad abbandonare la zona B, segno che la capacità di resistenza della popolazione italiana stava venendo meno, complice anche l’aggravamento delle condizioni economiche determinato dalla drastica interruzione dei rapporti con la zona A e dal pressoché completo riorientamento della stessa zona B verso la Jugoslavia. Non più solo i pendolari, ma anche i pescatori impossibilitati a collocare la merce sul mercato triestino, gli operai –le cui retribuzioni vennero adeguate a quelle jugoslave, con una diminuzione media del 30 per cento – e gli artigiani colpiti dall’aumento della pressione fiscale, non riuscivano più a reggere la situazione di generale immiserimento. Su tale insieme di fattori di crisi si innestò nel primo semestre del 1954 la progressiva convinzione che la spartizione del TLT sarebbe avvenuta lungo il confine di zona, lasciando quindi in Jugoslavia l’intera zona B. Fu questo il colpo finale per la popolazione italiana, e l’Esodo si allargò a macchia d’olio, coinvolgendo anche strati sociali, come i contadini, che fino a quel momento erano rimasti aggrappati
alla loro terra. L’Esodo divenne quindi fenomeno di massa –il «grande Esodo», come viene correntemente definito dalla storiografia italiana –ancor prima che le diplomazie ponessero la parola fine alla lunga contesa italo-jugoslava. Ciò avvenne infatti solo nell’autunno del 1954, con la parafatura a Londra, il 5 ottobre, di un Memorandum d’intesa fra Italia e Jugoslavia.61 Non si trattava di un vero e proprio trattato internazionale, ma di un accordo pratico, che non prevedeva né l’annessione della zona A all’Italia, né quella della zona B alla Jugoslavia, ma il semplice passaggio dell’amministrazione della zona A dal GMA al governo italiano e di quella della zona B dalla VUJA al governo jugoslavo. Optando per tale soluzione, si consentiva al governo italiano di affermare che non era stata compiuta alcuna rinuncia alle rivendicazioni in zona B, ma si trattava di una concessione puramente formale. Non solo infatti, nel rendere pubblico l’accordo, il governo americano e quello britannico, seguiti poi da quello francese, annunciarono che non avrebbero appoggiato ulteriori rivendicazioni dell’Italia e della Jugoslavia su territori posti sotto la rispettiva sovranità o amministrazione, ma nel corso delle trattative condotte nei mesi precedenti i rappresentanti jugoslavi avevano ottenuto tutte le possibili garanzie che il nuovo assetto del confine sarebbe stato definitivo. Rispetto alla soluzione adombrata dunque l’anno precedente con la Nota Bipartita, e rifiutata dal governo di Belgrado, la sostanza non mutava di molto, e l’ambiguità fra provvisorietà e definitività non era del tutto sciolta; questa volta però non si trattava di un’ambiguità imposta, ma concordata attraverso un intenso scambio diplomatico di cui gli jugoslavi erano stati protagonisti e gli italiani spettatori.62 I contenuti essenziali del Memorandum erano stati infatti preventivamente definiti con un negoziato segreto che aveva riunito nei primi mesi dell’anno a Londra i delegati delle tre potenze occupanti il TLT, vale a dire Stati Uniti, Gran Bretagna e Jugoslavia. In questo modo, rovesciando completamente lo schema che aveva portato alla Nota dell’8 ottobre 1953, gli jugoslavi avevano potuto esplorare fino in fondo le alternative alla divisione lungo la linea Morgan –rinunciandovi perché non convenienti –e guadagnare inoltre qualche rettifica di frontiera, ottenere dagli anglo-americani
ogni possibile assicurazione sull’inalterabilità del nuovo confine, e integrare infine la soluzione territoriale con elementi tutt’altro che secondari. È questo il caso delle garanzie ottenute per la comunità slovena destinata a rimanere in Italia, e dei finanziamenti da destinare al rilancio economico della zona B e, soprattutto, alla costruzione del porto di Capodistria – destinato a svolgere quella funzione di terminale marittimo che la Slovenia aveva fino all’ultimo momento sperato di vedere assolvere da Trieste o, quantomeno, da una Nova Trst da realizzare all’interno della stessa area portuale della città giuliana.63 A questo punto, il 1° giugno 1954, inglesi e americani avevano presentato i risultati della trattativa con la Jugoslavia agli italiani, specificando che si trattava di un «pacchetto» sostanzialmente non modificabile. Pur protestando quindi, il governo di Roma, completamente isolato, non aveva potuto far altro che sottoscrivere l’impostazione dell’accordo, riuscendo soltanto a ottenere qualche modifica di minor conto. Per la verità, alcune delle clausole previste dal Memorandum avrebbero teoricamente dovuto favorire la permanenza nella loro terra di origine degli istriani di nazionalità italiana. Infatti, l’articolo 7 dell’accordo contemplava una seppur parziale ripresa del traffico locale di frontiera; e, fatto ancor più importante, lo Statuto speciale allegato al Memorandum conteneva una serie di norme specificatamente rivolte alla protezione delle minoranze nazionali rimaste nelle due zone. Ci si poteva quindi attendere che la loro applicazione creasse nella zona B condizioni di vita più favorevoli per gli italiani, ma così non fu: i movimenti tra le due zone rimasero difficili e le autorità jugoslave non mutarono affatto quell’atteggiamento vessatorio nei confronti dei nostri connazionali, che – aggiungendosi alle profonde trasformazioni introdotte in dieci anni di occupazione – aveva finito per suscitare un senso di estraneità degli istriani verso la loro stessa terra. Inoltre, il termine di un anno concesso dal Memorandum di Londra per l’esercizio del diritto di opzione e il conseguente trasferimento in Italia degli optanti con i loro beni mobili, acuì probabilmente il timore degli italiani di trovarsi definitivamente bloccati in Jugoslavia una volta superata la data prevista dall’accordo, e ciò rafforzò la loro decisione di partire. Una successiva, breve, proroga non mutò la situazione e le partenze
si succedettero a valanga, coinvolgendo anche gli abitanti in maggior parte di origine slovena, ma anti-titini, di alcune località nei pressi di Muggia (e Albaro Vescovà, Ceroi, Crevatini, Elleri), già appartenenti alla zona A, che il Memorandum aveva trasferito all’amministrazione jugoslava.
CAPITOLO 7 I nodi interpretativi Le dimensioni dell’Esodo Il «grande Esodo» si concluse nell’aprile del 1956, anche se nuovi arrivi di profughi istriani in Italia continuarono a essere segnalati negli anni immediatamente successivi. A proposito di queste code dell’Esodo una certa prudenza è d’obbligo. Il fenomeno è reale, in quanto alcuni elementi italiani, che per varie ragioni non avevano voluto o potuto esercitare il diritto di opzione, continuarono ad abbandonare la Jugoslavia anche dopo quella data, utilizzando altri strumenti giuridici, oppure in forma clandestina. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, peraltro, si verificò anche un consistente flusso di espatri, anch’essi clandestini, dall’Istria, che invece con l’Esodo non aveva nulla a che vedere: si trattava infatti di persone provenienti dalle più svariate regioni della federazione jugoslava, e che avevano preso temporanea dimora nelle località dell’Istria prossime al confine, al preciso scopo di utilizzarle come basi per la fuga in Occidente.1 Tale circostanza, di per sé non particolarmente rilevante, costituisce però un utile campanello di allarme che ci segnala quanta attenzione vada posta nel problema della quantificazione dell’Esodo, rispetto al quale la carenza di fonti ha spalancato la strada a proposte interpretative così scopertamente legate a valutazioni di ordine politico da renderle di fatto inutilizzabili in sede scientifica. Certo, il problema dei conteggi «militanti» non riguarda unicamente l’Esodo istriano: chiunque si sia occupato di fenomeni simili, o più in generale di quantificazione relativa a stragi, deportazioni e così via, sa bene come le cifre fornite da associazioni, rappresentanti politici e anche studiosi solidali con la sensibilità e la memoria delle vittime di quegli episodi di violenza, risultino in genere più elevate di quelle
proposte da storici indipendenti. Il fenomeno ovviamente è tanto più marcato quando i numeri vengono utilizzati come prove d’accusa, o testimonianze a discolpa, per l’attribuzione di responsabilità penali, politiche o anche soltanto morali, dei danni sofferti dalle popolazioni oggetto dei provvedimenti repressivi. Senza andare molto lontano, abbiamo già visto come un fenomeno del genere si sia prodotto in riferimento alle dimensioni dell’emigrazione slovena e croata fra le due guerre, trovando espressione nella cifra, tutta politica, dei «centomila» emigrati. Alla stessa categoria dei conteggi «militanti» appartiene il calcolo dei 350.000 esuli eseguito dalle associazioni dei profughi istriani e al quale oggi in Italia si fa correntemente riferimento nell’ambito del discorso pubblico sull’Esodo, anche se con un significativo slittamento di significato. La stima delle organizzazioni dei profughi parla infatti genericamente di «esuli dai territori passati alla Jugoslavia», senza entrare nel merito della loro appartenenza nazionale; nel linguaggio della politica e dell’informazione invece, i 350.000 sono diventati sic et simpliciter, tutti italiani.2 Ciò premesso, bisogna ammettere che proporre una quantificazione precisa e incontrovertibile dell’Esodo istriano è oggi un obiettivo al di fuori della nostra portata. Un censimento dei profughi provenienti dai territori italiani passati sotto la sovranità o l’amministrazione jugoslava non è mai stato compiuto – a una proposta avanzata in tal senso da Carlo Schiffrer in occasione del censimento del 1951 non venne dato corso a seguito di un palleggiamento di responsabilità burocratiche.3 E questo fa sì che tutto ciò su cui possiamo discutere sia comunque e soltanto una serie di stime, più o meno rigorose, delle proporzioni dell’Esodo. Pur con questi limiti, i dati di cui disponiamo ci consentono un’approssimazione sufficiente ai fini dell’interpretazione dell’accaduto; cerchiamo perciò di esaminarli insieme. A Esodo appena concluso, il ministero degli Esteri italiano stimava in circa 270.000 il numero complessivo dei profughi, ma riteneva opportuno procedere al riguardo a una ricognizione più rigorosa, che oltre a fornire una quantificazione complessiva del fenomeno, offrisse anche indicazioni utili per l’assistenza agli esuli e per il loro inserimento nel tessuto sociale del Paese.4 La strada prescelta fu
quella di agganciarsi, sostenendola anche finanziariamente, a un’ampia indagine promossa già nel 1953 dall’Opera per l’Assistenza ai profughi giuliani e dalmati e affidata a un’équipe guidata da Amedeo Colella. Anche se i risultati di tale lavoro furono pubblicati solo nel 1958, la situazione cui fanno riferimento è in linea di massima quella del biennio 1954-55, periodo in cui vennero eseguiti i sondaggi sul campo, e di ciò va tenuto conto nel considerare i dati finali, posto che l’Esodo continuò, pur con connotati ormai residuali, ancora per qualche anno.5 Nel corso della ricerca fu inoltre possibile appurare che parte dei profughi sfuggiva inevitabilmente alle possibilità di rilevazione, per la semplice ragione che molti soggetti, soprattutto nei primissimi anni del dopoguerra, erano emigrati oltremare senza entrare in rapporto né con le istituzioni italiane né con il CLN dell’Istria, avente sede a Trieste, e di essi perciò si era persa ogni traccia. Colella pertanto, dopo aver accertato l’esistenza di circa 201.000 profughi, stimava che essi rappresentassero l’80 per cento del numero complessivo degli esuli, che sarebbe perciò risultato pari a circa 250.000. Solo in tempi recentissimi è stato possibile acquisire l’enorme mole di materiale raccolta dai ricercatori dell’Opera per avviarvi nuove indagini, che consentano di mettere a fuoco anche tematiche diverse dalla quantificazione, come per esempio quelle relative alla composizione sociale dei profughi, ai ritmi dell’Esodo in rapporto alle condizioni economiche e alle aree di provenienza, alle strategie familiari perseguite nel corso del fenomeno migratorio, e così via.6 Tuttavia, anche se le ricerche in atto potranno verificare e forse in qualche misura correggere i dati forniti da Colella, la rilevazione compiuta dall’Opera rappresenta ancora oggi la base più solida da cui partire per valutare le dimensioni dell’Esodo, anche perché essi vengono confortati sia dall’analisi dei censimenti che dalle prime indicazioni sul numero degli optanti fornite dagli studiosi sloveni e croati. Quanto ai censimenti, gli unici cui possiamo fare riferimento sono quello italiano del 1936 e quello jugoslavo del 1961: l’intervallo di un quarto di secolo fra l’uno e l’altro rende il confronto decisamente problematico. Inoltre, il censimento del 1936 non comprendeva la rilevazione della lingua d’uso, dal momento che si voleva restituire un’immagine compattamente monolinguistica del Paese. Tuttavia,
pochi anni dopo, nel 1939, il regime fascista sentì la necessità di disporre di un quadro attendibile della distribuzione dei gruppi linguistici nei territori di frontiera e fece perciò eseguire un «censimento riservato degli alloglotti» fondandosi non sulle dichiarazioni dei cittadini bensì sulle informazioni trasmesse dai pubblici ufficiali.7 Molto vi sarebbe da dire sull’attendibilità dei dati ottenuti secondo tali procedure; in ogni caso essi offrono una panoramica di massima della situazione esistente nella Venezia Giulia alla vigilia della crisi bellica. Secondo il censimento riservato dunque, nelle province di Pola, Fiume e Zara risiedevano complessivamente 241.186 italiani: che la cifra sia esatta ha un’importanza relativa, mentre rilevante è l’ordine di grandezza della popolazione italiana nei territori dai quali sarebbe partito l’Esodo. Non sembra probabile che tale situazione si sia modificata sensibilmente prima del 1943 e pertanto la quota di circa 250.000 unità, cui vanno aggiunti i poco più di 20.000 italiani residenti nei territori delle province di Trieste e Gorizia passati alla Jugoslavia, costituisce in linea di massima la base di partenza per valutare le dimensioni dell’Esodo degli italiani. I dati del censimento jugoslavo del 1961 non ci aiutano molto: essi indicano che – a Esodo finito – erano rimasti in Jugoslavia 25.615 italiani. La cifra però è da considerare con grande cautela sia perché, da un lato, potrebbe sottostimare il numero degli italiani residui – a quel tempo assai poco invogliati a dichiarare la loro appartenenza nazionale – sia perché, dall’altro, essa comprende anche un’aliquota di italiani non originari della regione trasferitisi in Jugoslavia nel dopoguerra per motivazioni politiche, come si è già avuto modo di dire nei capitoli precedenti. 8 Un confronto meccanico tra i due censimenti è ovviamente improponibile, tuttavia il giudizio corrente secondo il quale a prendere la via dell’esilio fu circa il 90 per cento della popolazione italiana di Fiume e dell’Istria risulta compatibile con quanto da essi esposto, suggerendo le 250.000 unità come una stima realistica del flusso migratorio degli italiani dai territori passati alla Jugoslavia. Da parte loro, gli studi condotti in Slovenia e Croazia sulla scorta dei dati sulle opzioni parlano di circa 190.000 persone che avrebbero abbandonato i territori istriani e dalmati. Un incrocio con i dati italiani
sulle opzioni non è al momento possibile, perché i fondi documentari conservati presso il ministero degli Esteri non consentono un’esatta quantificazione, tuttavia queste prime cifre sembrano nel complesso confermare i dati forniti da Colella sui profughi accertati, mentre ovviamente assai più aleatorio rimane il discorso per quanto riguarda gli esuli della prima ora e l’emigrazione clandestina. Inoltre, va sempre tenuto presente che l’abbandono dei territori istriani riguardò anche un’aliquota di popolazione che nelle rilevazioni italiane d’anteguerra risultava probabilmente di lingua d’uso slovena e croata. Recensendo nel 1958 il volume di Colella, Carlo Schiffrer concordava nel proporre come valore di riferimento per l’Esodo quello di un quarto di milione di persone: si tratta di una valutazione che potrà sperabilmente venir resa più accurata e forse integrata – elaborazioni più recenti giungono a stimare complessivamente circa 270.000 profughi –,9 ma scostamenti anche di un paio di decine di migliaia di unità non comporterebbero sostanziali variazioni né dell’ordine di grandezza complessivo del fenomeno, né del suo significato storico. Ciò che conta infatti a tal fine, non è tanto la cifra assoluta degli italiani esodati – dipendente dalle dimensioni della popolazione residente – quanto il fatto incontrovertibile che a venir travolto dall’Esodo fu un intero gruppo nazionale, al completo delle sue articolazioni sociali. È solo a partire da questa realtà che ha senso anche affrontare il problema delle interpretazioni dell’Esodo.
Un Esodo o più esodi? Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, l’Esodo dei giulianodalmati non fu una fiammata improvvisa, ma un fenomeno dislocato su un periodo piuttosto lungo, superiore ai dieci anni. Proprio l’ampiezza di tale arco temporale ha indotto alcuni storici a preferire il plurale «esodi», per distinguere la specificità delle crisi che – viste a posteriori – si compongono come fasi di un unico fenomeno migratorio.10 Se ne potrebbe anche dedurre che ciò che noi chiamiamo Esodo istriano è in certo modo un’illusione ottica, derivante dall’uso ideologico di una categoria interpretativa – quella
dell’«Esodo» appunto – che unifica con una certa arbitrarietà episodi diversi. Le cose non stanno così. La specificità delle singole ondate è un dato reale, ma al tempo stesso l’esame analitico dei diversi contesti pone in luce la sostanziale unità delle spinte che furono alla base della decisione di abbandonare la propria terra presa complessivamente da circa la metà della popolazione residente nella regione istro-quarnerina. Sinteticamente, possiamo dire che le partenze di massa appaiono tutte collegate a una situazione ben precisa, e cioè all’affermarsi presso la popolazione italiana del convincimento che la dominazione jugoslava era divenuta definitiva. Poiché ciò accadde in momenti diversi, scanditi dai tempi lunghi della «questione di Trieste», anche i ritmi dell’Esodo variarono da zona a zona. Sarà meglio quindi parlare piuttosto di un Esodo «a tappe», in modo da sottolineare adeguatamente l’unitarietà del fenomeno, segnalando anche come esso, a differenza di altri processi di trasferimento forzato di popolazioni verificatisi nel corso del dopoguerra, non sia avvenuto come conseguenza di provvedimenti formali emanati a caldo dalle nuove autorità insediatesi sul territorio, bensì a seguito di pressioni ambientali protratte nel tempo. È proprio in riferimento a tale diversa modalità di attuazione che si colloca il dibattito sulla natura dell’Esodo istriano, e per darne conto nei suoi termini essenziali converrà distinguere le motivazioni del potere da quelle delle vittime, anche se evidentemente nella realtà le diverse spinte si intrecciarono fra loro.
Le motivazioni del potere Per quanto riguarda il potere, e cioè, concretamente, lo Stato jugoslavo, il primo interrogativo riguarda la questione dell’intenzionalità, vale a dire, l’esistenza o meno di un disegno preventivo di «pulizia etnica» degli italiani residenti nell’area istroquarnerina. A distanza di mezzo secolo dai fatti le discussioni in merito sono tutt’altro che sopite e si condensano attorno a tre ipotesi interpretative di fondo: riproponendo quindi un’articolazione
formulata in riferimento a un altro e assai più terribile contesto, quello della shoah, possiamo distinguere un approccio negazionista, un approccio intenzionalista e uno funzionalista. Parlare di negazionismo nei riguardi di un fenomeno macroscopico come l’Esodo può sembrare strano, ma non lo è affatto. La storiografia slovena e quella croata per esempio, per decenni hanno semplicemente ignorato l’accaduto e, nei pochi casi in cui hanno fatto cenno alle trasformazioni demografiche, nazionali e sociali avvenute nel Litorale sloveno e in Istria, hanno più che altro badato a circoscriverne la portata, depurandola di ogni valenza politica. Una spia evidente di tale intento ci viene offerta dalla stessa terminologia: durante l’epoca jugoslava, e in alcuni casi anche dopo, gli storici sloveni e croati hanno accuratamente evitato anche soltanto di nominare l’Esodo e gli esuli, preferendo parlare di optanti ed emigranti. In questo caso la scelta lessicale ha svolto una duplice funzione: rifiutare a priori i termini in cui la questione degli spostamenti di popolazione del dopoguerra era stata posta dalla storiografia e dall’uso politico in Italia, e sottolineare la «normalità» delle partenze degli italiani, ridotte sul piano formale al libero esercizio di un diritto di scelta garantito dal trattato di pace e dal Memorandum, e su quello sostanziale alle dinamiche di un comune fenomeno migratorio. Secondo la versione classica cui storiografia e politica si sono attenute nella ex Jugoslavia infatti, la scomparsa degli italiani dall’Istria non sarebbe altro che il prodotto di un flusso migratorio di natura prevalentemente economica, che vide per protagonisti nuclei consistenti di istriani di tutte e tre le nazionalità (italiana, slovena e croata), incapaci di sopportare le dure condizioni di vita del dopoguerra e perciò trasferitisi in Italia nella speranza di trovarvi maggior benessere. A rendere massiccia tale scelta avrebbe contribuito pure, e in misura rilevante, l’azione politica del governo italiano, accusato di aver condotto una sistematica propaganda in favore dell’Esodo, in funzione antijugoslava e anticomunista. Questo nucleo interpretativo di fondo si è poi variamente articolato negli anni, pur mantenendo ferma la negazione, o quantomeno il silenzio, sul ruolo svolto dall’oppressione nazionale come uno dei principali fattori scatenanti dell’Esodo. Inoltre si è arricchito di ulteriori
considerazioni riguardanti l’atteggiamento pregiudiziale degli italiani – specie di estrazione «borghese» – nei confronti dei poteri popolari, i «residui di nazionalismo» presenti tra i quadri comunisti di lingua italiana e, più in generale, l’«incapacità» anche degli strati popolari di comprendere il senso delle trasformazioni rivoluzionarie in atto in Jugoslavia. Che si tratti di una proposta di lettura dell’Esodo estremamente fragile non è difficile capirlo, e non soltanto per la sua caratterizzazione prevalentemente ideologica. Il punto è che un’interpretazione del genere non regge al vaglio delle fonti. Per esempio – e lo abbiamo visto – non c’è dubbio che la grave crisi economica del dopoguerra abbia indebolito la capacità di resistenza degli italiani, ma l’Italia in cui i giuliano-dalmati decisero di fuggire era anch’essa un Paese prostrato dalla guerra e dalle occupazioni. Se dunque alcune categorie di esuli, come i pubblici dipendenti, potevano almeno sperare di mantenere il loro posto di lavoro, per la maggior parte dei profughi, specie quelli delle prime ondate, le partenze avvennero «al buio», senza alcuna prospettiva concreta di inserimento nella nuova realtà. Di fronte a ciò sta la messe enorme di testimonianze, relative a momenti e ambiti territoriali diversi, concordi nell’affermare che furono le motivazioni di natura politica a giocare un ruolo prevalente nella decisione di esodare. Del resto, parte almeno del disagio economico in cui versavano molti italiani a Fiume e in Istria era conseguenza diretta delle politiche adottate dalle autorità, sia per ragioni di ordine generale, connesse alla costruzione del comunismo, che allo scopo più specifico di punire fasce di popolazione recalcitranti a inserirsi nella realtà jugoslava, come nel caso dei provvedimenti mirati a interrompere i rapporti economici fra l’Istria nord-occidentale e Trieste, suo naturale centro di gravitazione. Quanto al fatto che gli italiani spesso stentassero a comprendere la logica che ispirava le singole decisioni delle autorità popolari, anche per le scarse capacità e l’improvvisazione che mostravano,11 esso è innegabile, ma il senso profondo dei cambiamenti in atto nella società istriana era nondimeno sufficientemente chiaro. Si stava producendo un ribaltamento di egemonia e gli italiani di ogni estrazione ne sperimentavano quotidianamente l’impatto a loro danno.
Per quanto riguarda, infine, l’atteggiamento del governo italiano, non si può assolutamente dire che abbia favorito l’Esodo. È vero il contrario: come è già stato appurato dalle ricerche svolte agli inizi degli anni Ottanta,12 la linea di De Gasperi fu sempre quella di cercare di trattenere il maggior numero possibile di italiani sui territori sottoposti a occupazione jugoslava, nella consapevolezza che altrimenti qualsiasi rivendicazione italiana, nell’immediato e in prospettiva, sarebbe divenuta impossibile. Tale atteggiamento non mutò nemmeno dopo che il trattato di pace ebbe disegnato i nuovi confini, e se ne ritrova traccia nelle perplessità espresse da De Gasperi sull’opportunità dello sgombero di Pola, tanto che gli esponenti del CLN locale faticarono a convincere il presidente del consiglio che una misura così estrema fosse inevitabile. Ancora nell’inverno del 1947, a operazioni di sgombero già iniziate, di fronte alla richiesta di assicurazione, rivoltagli da un esponente polesano, che la crisi di governo apertasi in Italia non avrebbe bloccato le procedure di trasferimento di uomini e masserizie, De Gasperi sbottò: «Ma volete davvero venir via tutti da Pola?» e solo poi fornì al suo sconcertato interlocutore le assicurazioni richieste.13 A maggior ragione, il governo italiano cercò di sostenere la presenza italiana nella zona B del TLT, che De Gasperi fino all’ultimo sperò di poter recuperare almeno in parte all’Italia. Nello stesso modo si comportò il CLN dell’Istria, il quale – su mandato del governo – forniva clandestinamente sussidi ad alcune categorie chiave di italiani, come gli insegnanti, al fine specifico di evitare che abbandonassero la zona, mettendo in crisi la capacità di resistenza delle loro comunità. Addirittura, fino al 1950 il CLNI cercò di disincentivare le partenze dal Capodistriano e dal Buiese rendendo noto che alle persone provenienti dalla zona B non sarebbe stato rilasciato il certificato di profugo.14 L’interpretazione negazionista, o quantomeno riduzionista, dell’Esodo degli italiani non ha costituito solo la versione ufficiale della storiografia di regime jugoslava, ma si è diffusa anche in alcuni ambienti della sinistra italiana, attenti in passato più a denunciare l’uso politico che dei profughi veniva fatto, soprattutto nella Venezia Giulia, che non a comprendere le ragioni di un fenomeno così sconvolgente. Oggi quei tempi sono lontani, almeno in Italia, e anche
nelle repubbliche vicine non mancano i segnali di una nuova sensibilità. Così, studiosi sloveni hanno avviato importanti ricerche sull’atteggiamento dei poteri popolari e sul suo impatto sulla popolazione italiana, e la Commissione storico-culturale italoslovena operante dal 1994 al 2000 nel suo rapporto finale ha scritto fra l’altro:
[Nella zona B] le autorità jugoslave, in contrasto con il mandato di provvedere alla sola amministrazione provvisoria della zona occupata, senza pregiudizio della sua destinazione statuale, cercarono di forzare l’annessione con una politica di fatti compiuti. Così, oltre a provvedere al riconoscimento dei diritti degli sloveni, fino ad allora negati, tentarono di costringere gli italiani a aderire alla soluzione jugoslava, facendo anche uso dell’intimidazione e della violenza. [...] Fra le ragioni dell’Esodo vanno tenute soprattutto presenti l’oppressione esercitata da un regime la cui natura totalitaria impediva anche la libera espressione dell’identità nazionale, il rigetto dei mutamenti nell’egemonia nazionale e sociale nell’area, nonché la ripulsa nei confronti delle radicali trasformazioni introdotte nell’economia. [...] In definitiva, le comunità italiane furono condotte a riconoscere l’impossibilità di mantenere la loro identità nazionale [...] nelle condizioni concretamente offerte dallo Stato jugoslavo e la loro decisione venne vissuta come una scelta di libertà.15
Qualche apertura si registra anche all’interno della storiografia croata, che comincia a problematizzare gli stereotipi interpretativi tradizionali e soprattutto a condurre un lavoro di scavo su di alcuni blocchi di fonti prodotte dalle autorità jugoslave del tempo, divenuti ora accessibili agli studiosi.16
Opposta alla precedente è l’interpretazione intenzionalista dell’Esodo, secondo la quale l’espulsione in blocco dei giulianodalmati di nazionalità italiana non avrebbe costituito altro che l’atto finale di un disegno di lungo periodo covato dallo slavismo ai danni dell’italianità adriatica, e di cui la Jugoslavia di Tito si fece strumento cosciente e zelante. Ragionando in questo modo, diventa abbastanza naturale sottolineare la fortissima continuità esistente tra il dramma delle foibe e quello dell’Esodo, che andrebbero considerati come tappe successive del medesimo percorso di eliminazione della presenza italiana dall’area alto-adriatica. Com’è evidente, l’approccio intenzionalista riproduce fedelmente la memoria di chi dovette abbandonare la sua terra e, al tempo stesso, il giudizio espresso a caldo dalla maggior parte delle forze politiche italiane di fronte a quella catastrofe. Si tratta di un’interpretazione che presenta alcuni punti forti: in primo luogo, la miriade di testimonianze esistente sui comportamenti antitaliani e sulle sollecitazioni all’Esodo prodotte dai quadri del regime jugoslavo a contatto con la popolazione italiana; inoltre, l’esistenza di alcune testimonianze di esponenti autorevoli del regime, come Milovan Djilas, che nel 1991 fece la seguente dichiarazione:
Ricordo che io e Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda antitaliana. Si trattava di dimostrare alle autorità alleate che quelle terre erano jugoslave e non italiane. Certo che non era vero. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto.17
La tesi del «disegno preordinato di espulsione» rivela però anche alcuni punti deboli. Innanzitutto, la contraddizione abbastanza palese tra l’assunto generale e i tentativi di frenare l’Esodo, compiuti sia dopo il 1947 sia dopo il 1954 da parte delle autorità jugoslave, che viceversa si attivarono per trasferire in Jugoslavia, dopo il trattato di
pace, quei gruppi di lavoratori comunisti italiani del Monfalconese che invano si erano battuti per l’annessione dell’intera Venezia Giulia alla federazione jugoslava. In secondo luogo, la limitata attendibilità di testimonianze come quella di Gilas, rilasciate in un momento di forte polemica con il regime di Tito e che quindi, seppur interessanti, vanno considerate con una certa cautela. Nessuna di queste obiezioni potrebbe naturalmente scalfire le convinzioni di chi ha avuto la sfortuna di provare sulla propria pelle la durezza della politica jugoslava nei territori occupati e annessi, ma in sede di ricostruzione storica, cioè critica, certezza morale e memoria offesa non sono sufficienti a validare un’ipotesi interpretativa. Proprio questo però – e cioè verificare le effettive intenzioni delle autorità jugoslave – è quanto oggi non siamo in grado di fare. Come abbiamo già detto, la nostra conoscenza del processo decisionale jugoslavo dopo la fine del conflitto è ancora a uno stadio embrionale. Buona parte delle fonti è tuttora inaccessibile, e lo studio di altre è appena cominciato. Alcuni spunti presenti nella documentazione sondata più di recente sono veramente interessanti, come per esempio quelli riguardanti la conflittualità che si produsse in Istria nell’immediato dopoguerra tra i CPL distrettuali, formati esclusivamente da croati, e quelli delle città italiane, a danno ovviamente dei secondi e a conferma di come la polarità cittàcampagna, equivalente a quella nazionale, continuasse a manifestarsi anche all’interno delle strutture del nuovo regime.18 Siamo però solo agli inizi, e proprio di fronte a queste difficoltà, nel corso degli ultimi anni ha cominciato a farsi strada tra gli storici italiani un approccio nuovo – possiamo chiamarlo funzionalista – che evita di esaurirsi nel processo alle intenzioni e preferisce concentrarsi sull’analisi di quella politica della «fratellanza italoslava» che non solo rappresentò la linea ufficiale elaborata dai gruppi dirigenti comunisti sloveni e croati, ma alla quale vi è ragione di credere che i poteri popolari si siano effettivamente ispirati almeno nei primi tempi del dopoguerra. Come abbiamo visto più dettagliatamente nel quarto capitolo, le informazioni che si possono ricavare da un’operazione del genere non sono da trascurare, poiché bastano già a delineare una progettualità politica in cui l’Esodo poteva essere implicito, anche se attraverso un’evoluzione
non necessariamente prevedibile a priori. Quella della «fratellanza» si è rivelata infatti come una politica che fin dall’inizio individuava quale interlocutore una parte fortemente minoritaria della popolazione italiana, riconoscendo a essa soltanto la legittimità della permanenza nella propria terra. Riprendendo ora, anche soltanto come spunto di riflessione, il confronto suggerito nel secondo capitolo tra la politica del fascismo nei confronti della minoranza slovena e croata in Italia e quella del regime di Tito nei confronti degli italiani della Venezia Giulia, è possibile scoprire alcuni parallelismi generalmente trascurati. A ben vedere, in entrambi i casi ci troviamo di fronte a strategie di integrazione selettiva, che puntavano a eliminare in vario modo una parte della popolazione minoritaria, quale premessa per poter trasformare e quindi assorbire la parte rimanente. Fra i due contesti però, è ben visibile una forte asimmetria, legata vuoi ai presupposti ideologici dei due regimi, vuoi alla struttura sociale delle componenti rispettivamente slava e italiana. Il fascismo mirava a distruggere la classe dirigente slovena e croata, di formazione abbastanza recente, in modo che le masse destrutturate divenissero facile preda del processo di italianizzazione: il primo passo riuscì, il secondo no, e di conseguenza sloveni e croati non scomparvero dalla Venezia Giulia. Al contrario, il regime di Tito pretendeva di enucleare all’interno della componente italiana una minoranza, e cioè la classe operaia di orientamento comunista e disponibile all’annessione, per farne il soggetto di una forma di integrazione subordinata. Quanto ai «residui del fascismo», vale a dire a tutti gli altri strati urbani, che rappresentavano il nerbo dell’italianità giuliana e costituivano il nemico storico e di classe del movimento di liberazione sloveno e croato, con tutta evidenza per loro non c’era alcuno spazio nella nuova Jugoslavia. Anche per quelle che l’ideologia ufficiale considerava «masse popolari» di lingua italiana, le condizioni dell’integrazione risultarono però troppo dure. Per i contadini istriani le innovazioni introdotte nell’economia agricola si rivelarono ben lungi dal compensare il costo derivante dall’oppressione nazionale e politica, e finirono anzi per esasperare l’antagonismo con il regime. Da parte loro, anche i nuclei operai ideologicamente più motivati
sperimentarono ben presto una sorta di «delusione storica» nei confronti delle politiche attuate dai partiti comunisti sloveno e croato, tant’è che in buona misura si distaccarono dal regime ancor prima del 1948. Viene perciò da pensare che in questo senso la crisi del Cominform, più che costituire un vero e proprio momento di svolta, come spesso è stato affermato, si sia limitata a porre la pietra tombale su di una politica, quella della «fratellanza» appunto, che aveva ormai esaurito le sue potenzialità.
Le motivazioni degli esuli A ogni modo, se l’analisi delle strategie prescelte da parte jugoslava presenta ancora larghe zone d’ombra, relativamente più semplice appare il discorso riguardante le motivazioni soggettive che si cumularono tra loro fino a spingere gli istriani ad abbandonare la loro terra. Assolutamente preponderante in tutte le testimonianze, sia coeve che posteriori, appare il ruolo svolto dalla paura. In realtà, nel corso del dopoguerra non si ebbero in Istria stragi paragonabili a quelle dell’autunno del 1943 e della primavera del 1945, ma vi fu un continuo stillicidio di violenze che pesava di per sé, e ancor più perché veniva letto alla luce degli esempi «pedagogici» degli anni precedenti, rammentando a ogni istante il destino latente di una comunità che si sentiva costantemente sull’orlo della cancellazione violenta. «Bastava poco» è l’espressione che più di frequente ricorre nelle testimonianze, a segnare l’incerto confine che nella terra istriana correva tra i comportamenti ammessi e quelli che, spesso in maniera non intelligibile, facevano scattare il meccanismo delle intimidazioni e delle persecuzioni. Si trattava non soltanto – e neanche principalmente – di atti di opposizione al regime, ma piuttosto di segni di insofferenza verso le innovazioni introdotte nell’economia e nella vita sociale, di insufficiente partecipazione alle «riunioni popolari», accompagnata magari dalla frequentazione invece delle funzioni religiose, e di manifestazioni esteriori di legami con il mondo borghese, denunciati per esempio dall’abbigliamento. E ancora, di rapporti familiari o professionali con individui in qualche modo invisi
alle autorità, e del rifiuto di farsi coinvolgere nelle logiche del regime accettando incarichi o entrando nel meccanismo perverso delle delazioni, utilizzato su larga scala dalla polizia politica, e che risultava così efficace nel suo potere deterrente, da impedire anche solo di dare il suo vero nome alla violenza. Ricorda una testimone di famiglia contadina di Orsera, all’epoca bimba di pochi anni:
Nelle nostre case il ritratto del nuovo capo del governo doveva avere un posto di riguardo. Tito ci guardava, ci controllava, regolava le nostre vite. Mio padre non si rassegnava, la sera quando tornava a casa, stanco del lavoro, imprecava, bestemmiava (così bonariamente come solo i veneti riescono a fare), buttava la foto per terra, ma non doveva urlare, perché gli altri potevano sentire e fare la spia. Una sera, come tante, aspettavamo che mio padre rientrasse, ma i muli, uno il Moro, l’altro di cui non ricordo il nome, tornarono soli. Mio padre non c’era. La mamma con sgomento ci disse: «La notte lo ga portà via».19
Quella della paura dunque era la dimensione perenne di un’esistenza intessuta di sospetto e di minaccia, in balia dell’arbitrio di poteri ostili.20 La colse bene Gianni Rodari, inviato in Istria dalla redazione di «Il Lavoratore», quale osservatore in occasione delle elezioni del 1950:
L’impressione che ogni gesto di ogni singolo cittadino, che ogni suo movimento ed ogni sua parola, potevano essere seguiti, analizzati, interpretati, riportati negli uffici di polizia e nelle sedi dei comitati locali, era un’impressione fisica, una certezza fisica. Quando si parla di atmosfera, di clima di terrore, si può essere indotti a pensare a un fatto
psicologico, alla generalizzazione di un sentimento vago. La paura in zona B non ha il volto vago e confuso di un fatto psicologico. Ha il volto concreto e fisico, la divisa dell’agente, il passo dei reparti militari croati che sfilano cantando nelle piazze, lo sguardo fisso e penetrante del poliziotto in borghese.21
Non si trattava, beninteso, di un’esclusiva istriana: quella sperimentata nella regione era la prassi corrente di un regime stalinista, che non solo si confrontava duramente con una società notoriamente ostile e che non accettava di venir «normalizzata», ma che ambiva anche a estendere il proprio controllo a tutti gli aspetti della vita quotidiana, compresi quelli che le vittime percepivano come del tutto estranei alla sfera politica. In ogni caso, in Istria si provava una condizione di oppressione che interveniva dopo la lunga e traumatica esperienza della guerra, quando l’aspettativa generale era ormai quella di tirare il fiato: e ciò non faceva che rendere ancora più insopportabile una situazione rispetto alla quale una via di fuga esisteva, ed era quella della partenza. Una soluzione del genere presentava certamente molti problemi, dalla difficoltà nel troncare i legami con la propria realtà all’incertezza della destinazione e dell’accoglienza in Italia, alla necessità di rifarsi una nuova vita, ma rappresentava comunque un’uscita dall’incubo. Da questo punto di vista perciò, l’esistenza stessa dello Stato italiano, raggiungibile anche se a costi molto alti, rappresentava di per sé un fattore oggettivo di attrazione per gli italiani perseguitati e impauriti. La paura dunque, intesa in questo significato largo, costituì senza dubbio una spinta importante e spesso decisiva per l’Esodo, ma non fu la sola: in questa direzione vi è stato piuttosto uno sbilanciamento della memoria istriana e delle ricostruzioni che si sono limitate a riprodurne i contenuti, mentre il problema presenta dimensioni più ampie, in buona misura connesse ai cambiamenti sostanziali, di natura cioè rivoluzionaria, registrati dalla società istriana nel dopoguerra. Pur con le molte varianti legate alla diversità dei contesti, i processi cui le comunità italiane furono sottoposti
presentano infatti tratti marcatamente comuni: l’impoverimento generale, la scrematura politica, il sovvertimento delle tradizionali gerarchie – a un tempo nazionali e sociali – che avevano visto gli italiani storicamente egemoni in Istria, e il ribaltamento dei rapporti di potere fra città e campagna. Ma accanto a tali elementi, riferibili alla sfera dell’economia e della politica, ve ne erano altri, che coinvolgevano la quotidianità dell’esistenza e davano la misura di una trasformazione che finiva per venir percepita come un rivolgimento dell’ordine naturale delle cose. I valori cardine della società venivano messi radicalmente in discussione, le abitudini consolidate da generazioni dovevano essere abbandonate, tutte le certezze scomparivano e le nuove regole (dalla necessità di imparare la lingua di popoli da sempre considerati senza cultura, al tentativo di forzare la terra ai ritmi di una pianificazione irrispettosa dei tempi della natura e della tradizione, all’imposizione di nuovi criteri di misura del lavoro e del prestigio sociale) apparivano frutto di una volontà insensata e malevola, alla fine insondabile. Ancor più nere erano le prospettive per il futuro, e le sofferenze del presente si sommavano all’angoscia per il destino dei figli. In alcuni casi, fu proprio la preoccupazione per il modo in cui le nuove generazioni sarebbero cresciute nelle maglie del regime a far pendere la bilancia verso l’Esodo. Così un’esule descrive la scelta compiuta dal padre, sintetizzando nella sua rievocazione il clima angoscioso in cui maturò in tante famiglie la decisione di partire:
Si era persino detto più di una volta che forse avrebbe potuto continuare a vivere lì, in mezzo agli slavi, comandato dai titini; d’altronde lui non aveva mai fatto politica. Forse sarebbe riuscito ad imparare il croato e avrebbe accettato che Marisa [la figlia minore] iniziasse a imparare a leggere e scrivere esclusivamente in quella lingua straniera per loro [...] forse avrebbe potuto accettare con umiltà che una parte del raccolto gli fosse preteso; che le sue terre venissero requisite perché tutto doveva essere di tutti, ma gli sarebbe costato qualche
travaso di bile perché lui non poteva lavorare dall’alba al tramonto e poi spartire con i vagabondi, con i magna pan de bando; forse sarebbe stato zitto, soffocando la rabbia nel vedere le chiese profanate dall’orda degli invasori che ballavano, ballavano, ballavano la loro danza anche in quei luoghi sacri; forse si sarebbe abituato a tirar dritto per strada senza scambiare do ciacole con i pochi paesani rimasti; forse avrebbe fatto l’abitudine a non sentire più le belle cantade in dialetto uscire dalle osterie e invadere ogni contrada; quelle contrade ormai cupe per i sorrisi mancanti, vuote di bambini gioiosi, tristi e spente in quanto prive della musicalità, dell’espansività della sua gente, ma dove si dava fuoco ai libri italiani; forse si sarebbe piegato a non festeggiare più il vero significato del Natale e della Pasqua, a non partecipare più a processioni e feste patronali. [...] Forse sarebbe riuscito a vincere la paura, trovandosi a cospetto di un druse e avrebbe rigettato l’immagine della foiba che stava per ingoiare anche lui come tanti altri italiani, dimenticando il buio pronto ad accoglierlo, e avrebbe trovato persino la forza di sollevare il braccio brandendo il pugno chiuso e avrebbe ascoltato il moto sprezzante rivolto al suo tricolore: «bianco, rosso e verde, il color delle tre merde». [...] Nora [la figlia maggiore] però aveva compiuto quindici anni e lui era venuto a sapere che sarebbe stata prelevata dalla famiglia e inviata lontano da casa, destinata al lavoro volontario in qualche fabbrica o addirittura sarebbe stata sfruttata per ricostruire le linee ferroviarie o altro. Quando, oltre alle fatiche fisiche, cui sua figlia non era di certo abituata, immaginò anche la promiscuità dell’ambiente; quando la vide costretta a dormire in camerini che accoglievano sia uomini che donne; quando già la vide che sarebbe tornata drugariza;22 quando ipotizzò che anche Marisa crescendo non avrebbe più avuto il loro credo religioso, non avrebbe parlato più il loro bel dialetto, non avrebbe più rispettato le loro idee e avrebbe cercato magari di plagiarli con quelle dei vincitori ormai fatte
proprie, non avrebbe più ostentato la finezza e la sensibilità della loro stirpe e non avrebbe più custodito nel suo intimo né tradizioni né identità italiani, allora aveva alzato il capo e preso la decisione più gravosa: bisognava andar via!23
Per gli italiani quindi il cambiamento era totale, e si trovarono a dover vivere un passaggio così traumatico nelle peggiori condizioni possibili: isolati, impotenti, e progressivamente privati dei loro usuali punti di riferimento, a seguito dell’eliminazione della classe dirigente, della scomparsa dei soggetti sociali più rappresentativi e dell’allontanamento delle figure chiave della società locale. I religiosi e gli insegnanti vennero infatti sostituiti dalle organizzazioni del regime e da un sistema formativo che anche quando si svolgeva in lingua italiana (ma a molti, come s’è detto, fu negato l’accesso, al fine di restituirli a quella che veniva considerata la loro nazionalità «originaria») era comunque orientato verso l’attenuazione dei legami del gruppo nazionale italiano con la madrepatria e verso la denigrazione dell’Italia, considerata irrimediabilmente fascista e imperialista. Ecco allora che per gli italiani dell’Istria i mutamenti, generalmente in negativo, delle loro condizioni di vita costituivano soltanto uno degli aspetti di un profondo disagio, che prese la forma di una vera e propria crisi collettiva di identità. È su quest’ultimo aspetto che la storiografia più recente ha insistito con particolare attenzione, allargando significativamente il campo delle fonti attraverso il recupero di quelle della memoria, dalla memorialistica tradizionale alla scrittura popolare, dalle elaborazioni letterarie al patrimonio di ricordi e riflessioni portato alla luce dalle raccolte di storie di vita. Seguendo tale percorso si è arrivati a leggere l’Esodo come il rifiuto collettivo, espresso con una scelta estrema, di un processo di modernizzazione accelerata e violenta condotto dal potere statale comunista.24 Si tratta di un giudizio che certamente coglie una delle dimensioni centrali del rapporto traumatico instauratosi fra il regime, e la popolazione residente, soprattutto nelle aree rurali o nelle
cittadine istriane dove il tempo della storia scorreva lento, ma che non pare assolutamente generalizzabile a tutta l’Istria. Una regione, come si è visto, assai variegata, entro la quale situazioni che per certi aspetti potremmo definire premoderne, convivevano con la realtà di centri come Fiume e Pola – la seconda, addirittura, creazione artificiale della politica asburgica tardo-ottocentesca – che pure vennero massicciamente coinvolti dal fenomeno dell’Esodo. Più produttiva invece si sta rivelando la categoria dello «spaesamento», che è divenuta la chiave interpretativa privilegiata cui far ricorso per comprendere l’atmosfera in cui furono costretti a vivere gli istriani di lingua, cultura e sentimenti italiani, i quali, anche quando resistettero più a lungo alle ondate repressive e alle pressioni politiche del regime, finirono per ritrovarsi in una terra diversa, dove altre presenze, altri costumi, altri meccanismi di integrazione sociale, altri orizzonti di vita facevano sì che quella medesima terra, in cui pure erano nati, non sembrasse più la loro.25 Sentirsi «stranieri in patria» – secondo un’espressione ricorrente nelle fonti – è una condizione lacerante, che getta le fondamenta psicologiche per la scelta dell’abbandono. Una scelta che si rafforza perché accanto alla crescente estraneità nei confronti del luogo d’origine –divenuto luogo del dolore, dell’umiliazione e dell’incomprensione – prende corpo l’immagine alternativa di una patria interiorizzata e idealizzata, lontana dalla comunità reale, ormai stravolta e irriconoscibile. Era l’immagine di un’Italia che forse non esisteva, ma che costituiva il possibile altrove, in cui era legittimo sperare di realizzare quanto nella realtà dell’Istria jugoslava era stato irreversibilmente negato. La scelta dell’Esodo pertanto, che – a parte le fughe individuali legate a situazioni di emergenza – fu in genere scelta collettiva, capace di svuotare interi paesi o addirittura intere città come Pola, si pose come punto di arrivo di un lungo processo di destrutturazione e di atomizzazione delle comunità italiane. Attraverso una molteplicità di itinerari e di sofferenze esse furono condotte a riconoscere l’impossibilità di mantenere la loro identità nazionale – intesa nel suo senso forte, come complesso di modi di vivere e di sentire secolarmente sedimentati, ben al di là della sola dimensione politicoideologica – nelle condizioni proposte dallo Stato jugoslavo.
È solo muovendo da tale conclusione che ha senso porsi in maniera non astratta il problema dell’effettiva libertà di scelta di cui poterono disporre gli italiani di Fiume e dell’Istria, al di là del riconoscimento formale del diritto di opzione. Il punto infatti è costituito dalla valutazione delle alternative concrete a disposizione di chi, in una situazione specifica, era restio a prendere la via dell’esilio, e in questo senso con grande chiarezza si è espresso nel 1967 Theodor Veiter:
La fuga degli italiani secondo il moderno diritto dei profughi è da considerare un’espulsione di massa. È vero che tale fuga si configura come un atto apparentemente volontario, ma già l’opzione pressoché completa dei sudtirolesi per il trasferimento nel Reich germanico dopo il 1939 mostra come dietro la volontarietà possa esserci una costrizione assoluta e ineludibile. Colui che, rifiutandosi di optare o non fuggendo dalla propria terra, si troverebbe esposto a persecuzioni di natura personale, politica, etnica, religiosa o economica, o verrebbe costretto a vivere in un regime che lo rende senza patria nella propria patria di origine, non compie volontariamente la scelta dell’emigrazione, ma è da considerarsi espulso dal proprio Paese.26
CAPITOLO 8 I problemi dell’insediamento Un’accoglienza difficile In meno di quindici anni dunque, più di un quarto di milione di persone abbandonò i territori passati a vario titolo sotto il controllo jugoslavo: per andare dove? La meta istintiva degli esuli era naturalmente l’Italia, ma ciò non sempre si rivelò possibile, per una serie di difficoltà legate sia alle scelte politiche delle autorità di governo che alle condizioni materiali del Paese. All’uscita dalla guerra infatti la penisola italiana era una terra largamente devastata, in cui le comunicazioni erano pressoché impossibili e le risorse disponibili inferiori alle necessità primarie della popolazione. Per diverso tempo il Paese fu attraverso da flussi di prigionieri in rientro e di rifugiati provenienti da ogni dove, mentre gli stessi residenti faticavano spesso a trovare possibilità di ricovero, oltre che di lavoro, adeguate. I primi arrivi di profughi, alla spicciolata, finirono così per confondersi nel grande marasma del dopoguerra: gli esuli vennero considerati alla stregua di tutti gli altri sinistrati di guerra – cui tentava di provvedere il ministero per l’Assistenza postbellica – e, constatata la precarietà della situazione, presero in certa misura la via dell’emigrazione. La prima presa di coscienza, da parte delle autorità italiane, della specificità dell’Esodo istriano e della necessità di provvedervi avvenne solo all’inizio del 1946, con la costituzione presso il ministero dell’Interno dell’ufficio per la Venezia Giulia, con compiti di coordinamento dell’assistenza ai profughi.1 Si trattò tuttavia di una soluzione provvisoria, perché ben presto la mole di problemi accumulatisi sulla questione del confine orientale divenne insostenibile, al punto che poco dopo venne creata una nuova struttura, l’ufficio per le zone di confine. Questo fu posto alle dirette dipendenze della presidenza del consiglio, e dotato di possibilità di
intervento e di funzioni assai vaste, quali il coordinamento generale dell’azione dello Stato nelle regioni di confine. 2 Le ragioni di tale trasformazione non erano solo funzionali ma anche politiche: era infatti evidente che De Gasperi intendeva avocare a sé, tramite uomini di sua fiducia – primi fra tutti il prefetto Innocenti e il sottosegretario Andreotti –, la gestione di quello che si stava sempre più delineando come un problema cruciale della politica estera italiana, denso di contraccolpi anche sul quadro politico interno. Lo stesso tema degli interventi a favore dei profughi che cominciavano ad affluire sempre più numerosi, anche se nel 1946 non si poteva ancora parlare di un fenomeno di massa, costituiva già motivo di differenziazione all’interno delle forze di governo. Studiando il carteggio intercorso nell’ottobre del 1946 tra il ministro dell’Assistenza postbellica, il comunista Sereni, e lo stesso presidente del consiglio, la storiografia italiana ha evidenziato come dietro l’intendimento di sospendere le misure assistenziali in favore dei profughi, espresso da Sereni per bloccare nuovi arrivi di istriani, stessero in larga misura le pregiudiziali politiche diffuse fra i quadri e la dirigenza del PCI, i quali vedevano nei profughi della Jugoslavia comunista solo degli elementi nazionalisti, se non fascisti tout court, in fuga dal socialismo e pronti a fungere da massa di manovra per la reazione in Italia.3 Si trattava degli stessi pregiudizi che avrebbero portato l’anno seguente a clamorosi atti di ostilità da parte di militanti comunisti nei confronti dei profughi di Pola al momento del loro sbarco a Venezia e Ancona o del loro insediamento in alcune regioni del Nord. Alla stazione di Bologna, per esempio, un treno di profughi rimase bloccato per ore sui binari per le proteste di alcuni ferrovieri che non permisero lo svolgimento delle operazioni di soccorso e approvvigionamento. Ricorda una testimone:
C’era gente che faceva il pugno chiuso così e ci diceva fascisti e non si poteva neanche scendere dal treno, ma noi avevamo bisogno di bere un po’ d’acqua e non ci lasciavano scendere. Allora mia madre mi ha detto: «Ma vai tu che forse, visto che sei bambina ti fanno andare», e
infatti mi ha accompagnato anche un ragazzino e ci han lasciato venire con l’acqua sul treno. Ci hanno fermato una notte intera, avevamo fame e sete e gli uomini adulti non li lasciavano scendere, è stata una cosa tremenda.4
Episodi del genere si impressero nella memoria istriana, rinvigoriti di continuo dalla pubblicistica della diaspora, e contribuirono in larga misura a esasperare gli orientamenti anticomunisti degli esuli, già robustamente cresciuti nell’impatto con il regime jugoslavo. 5 È singolare notare, al riguardo, che la consapevolezza dei danni che sarebbero potuti derivare al partito dall’ostilità nei confronti dei profughi istriani non era affatto assente ai vertici del PCI. Una circolare inviata nel febbraio del 1947 a tutte le federazioni del partito, pur denunciando la «speculazione politica» legata all’Esodo, esortava infatti a «non gettare fra le braccia della reazione» gli istriani in fuga, affermando fra l’altro che «il nostro partito e le organizzazioni democratiche di massa non possono disinteressarsi di questi nostri connazionali» perché si trattava in maggioranza non di fascisti, bensì di persone in buona fede.6 Seguiva una serie di indicazioni concrete sul lavoro politico da svolgere per evitare che le esigenze dei profughi entrassero in conflitto con quelle di altre categorie di bisognosi, quali disoccupati e senza tetto. È tuttavia evidente che direttive di tal fatta, pur lungimiranti, arrivavano assai in ritardo per poter incrinare quell’immagine dell’esule-fascista che la stessa stampa comunista aveva contribuito a diffondere, come risulta per esempio in maniera piuttosto eloquente da un articolo pubblicato sull’«Unità» del 30 novembre 1946. Nel testo, dopo un riferimento alla «gara di solidarietà» a suo tempo suscitata dai profughi veneti e friulani dopo Caporetto, si poteva leggere:
Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito
di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che già sono così scarsi. [...] Nel novero di questi indesiderabili, debbono essere collocati coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici. [...] Aiutare e proteggere costoro non significa essere solidali, bensì farci complici. Ma dalle città italiane ancora in discussione, non giungono a noi soltanto i criminali, che non vogliono pagare il fio dei delitti commessi, arrivano a migliaia e migliaia italiani onesti, veri fratelli nostri e la loro tragedia ci commuove e ci fa riflettere. Vittime della infame politica fascista, pagliuzze sbalestrate nel vortice dei rancori che questa ha scatenato, essi sono indotti a fuggire, incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste e che viene agitato per speculazione di parte.
L’articolo proseguiva contrapponendo alla «stupida politica dello sciovinismo» la via dell’intesa diretta fra Italia e Jugoslavia, sulle orme dell’iniziativa avviata all’inizio del mese da Togliatti nel suo incontro con Tito.
Per questa strada si difende l’italianità delle città contestate rimanendo sul posto e non facendo il vuoto davanti agli slavi, trattando con loro per ottenere ampie autonomie linguistiche, culturali, amministrative. Non si
difende sbavando calunnie da Roma o da Milano e impiantandovi a spese del popolo italiano losche centrali di artificiosi irredentismi e di pazzesche rivincite. Così noi vediamo la soluzione di questo problema non nell’Esodo artificiosamente sollecitato con spauracchi inconsistenti e con promesse inattuabili, così noi pensiamo si tutelino realmente gli interessi dei dalmati italiani e dell’intera Nazione. [...] Seguendo la via che noi indichiamo, la libertà e il tranquillo lavoro e la cultura italiana potranno fiorire e agli italiani di laggiù sarà data la possibilità di conservare la loro casa e il loro lavoro. Non è necessario dunque sia acuita la crisi delle città colpite dalla guerra dove già scarsi sono il pane, il lavoro e l’alloggio per migliaia di famiglie, che non devono esserne private senza plausibile motivo.7
Da parte italiana dunque, una vera e propria politica di accoglienza dei profughi istriani venne approntata piuttosto tardi: il momento chiave infatti può essere considerato l’Esodo da Pola del 1947, che per la prima volta pose le autorità italiane di fronte alla realtà di un Esodo massiccio, concentrato nel tempo e dotato di grande visibilità presso l’opinione pubblica. Si è già avuto modo di accennare che il governo di Roma cercò di scongiurare o perlomeno di procrastinare la partenza in massa dei polesani, viste le forti perplessità di De Gasperi sull’opportunità di cancellare la presenza italiana nel capoluogo istriano,8 e tali incertezze probabilmente condizionarono il lento avvio della complessa macchina necessaria per trasferire in Italia, nel giro di pochi mesi, i quasi 30.000 abitanti di Pola insieme ai loro beni. Di fronte alle difficoltà organizzative venne anche a cadere l’ipotesi della creazione di una «Nuova Pola», che alcuni ambienti cittadini avevano ventilato. Così, se lo sgombero si svolse in maniera tutto sommato abbastanza ordinata, la sistemazione dei profughi si rivelò complessa e laboriosa. La comunità venne smembrata in diversi campi profughi e la permanenza in situazioni precarie si protrasse spesso per anni, così come accadde ai profughi provenienti dagli altri territori istriani passati sotto la sovranità
jugoslava. Complessivamente, in Italia furono allestiti centoventi campi, ricavati da campi di concentramento smantellati, caserme abbandonate e talvolta in rovina, stabilimenti industriali dismessi, chiese e altri ricoveri di fortuna in cui trovarono rifugio, oltre agli esuli giuliani, anche quelli provenienti dalle ex colonie africane, dal Dodecaneso, profughi di guerra e sinistrati. La permanenza non fu breve, tant’è che ancora nell’estate del 1963, 8.493 esuli giulianodalmati risultavano ospitati in quindici campi profughi dislocati su tutto il territorio nazionale.9 Le fonti di cui disponiamo concordano in genere nel descrivere il terribile impatto degli esuli con la realtà dei campi, fatta di miseria, privazioni, carenze igieniche, assoluta mancanza di intimità. Ricorda per esempio una testimone ospitata per qualche tempo in un campo nei pressi di Bergamo:
Il campo era un ex manicomio. Si era divisi solo dalle coperte. Puzzolente, che quell’odore l’ho avuto per anni nel naso. E la povera gente [...] Allora, quando siamo arrivati, era con noi anche la zia A. di R, ho aperto. «Signora, quanti siete?» Ho detto: «Mi pare 32». «Oddio, altri 32 disgraziati. È tanto brutto signora, non vede?» Con le coperte, chi urla di notte, chi piange, è una roba... E il mangiare era una cosa orribile, peggio delle bestie. È venuto il sindaco e questa signora è andata con la gamela fin sotto al naso: «Provi a mangiarlo Lei signor sindaco, questo mangiare, lo mangi!». [...] Vicino a me era un bambino slavo, pieno di pidocchi, tutta la notte sopra di me.10
Simili furono le condizioni che i fuggiaschi trovarono nel campo di Laterina, definito «un insulto al genere umano» da un esule che ricorda:
Questo infame campo era situato in una vallata a fianco del fiume Arno [e noi] dovevamo accontentarci di vivere in casematte usate per i prigionieri di guerra, con una coperta militare e un sacco di paglia. Il cibo era razionato e gli abitanti della zona ci trattavano peggio dei delinquenti.11
Per i profughi delle prime ondate l’Esodo comportò talvolta incredibili e fino a oggi pressoché sconosciute peripezie, come l’avventuroso viaggio di tredici pescherecci istriani che, dopo aver trovato temporaneo asilo a Chioggia, nella primavera del 1948 decisero di raggiungere Fertilia, nei pressi di Alghero, dove l’ultima delle città di fondazione del fascismo, rimasta incompiuta e abbandonata, avrebbe dovuto accogliere un consistente nucleo di esuli istriani. Dopo aver compiuto in venti giorni il periplo della penisola, le motobarche doppiarono finalmente Capo Caccia e puntarono sul villaggio di Calic. Ecco che cosa ricorda il comandante della spedizione, un pescatore di Rovigno:
Arrivammo a un piccolo porto-canale sulla foce di una peschiera, attraversato da un ponte stradale e dai resti di un ponte semidistrutto. Attraccammo e non trovammo nessuno ad attenderci. Era una desolazione. Solo poche case incompiute. Niente strade, solo fossi ed erbacce. Trascorremmo la prima giornata nella più nera desolazione. Poi, volemmo provare a pescare.12
In ogni caso, anche a prescindere dalle esperienze limite, nei primi anni del dopoguerra per gli istriani prendere la via dell’esilio
significava iniziare spesso una lunga odissea fra centri di accoglienza sparsi in tutta Italia. Ricorda un’esule da Fiume:
Partimmo da Fiume nel ’51. [...] Arrivammo a Trieste dove siamo stati «accolti» in un silos. Cameroni enormi, al posto delle pareti c’erano dei pagliericci e da una stanza all’altra si sentiva tutto. Sicuramente, non era un luogo in cui potersi sentire a nostro agio. Per fortuna, dei nostri amici erano a conoscenza del nostro arrivo e ci ospitarono nella loro casa. Poi ci portarono a Udine, in un campo di smistamento. Qui in due cameroni stavano gli uomini e nell’altro le donne. Finalmente ci misero a scegliere se volevamo andare a Torino o a Gaeta. Mio marito Otto aveva una gran passione per il mare e così decidemmo per Gaeta. [...] Il campo in realtà era un antico convento. Anche questo era diviso in cameroni, che a loro volta erano divisi con le tele dei pagliericci per garantire lo spazio e l’intimità delle famiglie. [...] L’ultima tappa fu il trasferimento in Sardegna.13
Nei campi gli esuli si sentirono talvolta più reclusi che assistiti, e la sensazione si acuì nel 1949, quando il ministro dell’Interno, Scelba, dispose che a tutti i profughi che chiedevano il rinnovo della carta di identità venissero prese le impronte digitali. Di fronte all’ondata di proteste che ne seguì il provvedimento fu rapidamente revocato, ma il ricordo dell’offesa è rimasto nella memoria come simbolo delle incomprensioni con cui dovettero scontrarsi gli esuli, fuggiti dalla loro terra per rimanere italiani e in alcuni casi dalla madrepatria trattati quasi come malfattori. Anche i rapporti tra gli esuli e gli abitanti dei luoghi in cui erano stati aperti i campi non furono sempre facili, specie se si trattava di centri di piccole dimensioni, chiusi nelle loro tradizioni e diffidenze, istintivamente timorosi dell’irregolarità connessa alla condizione dei
profughi e pronti a giudicare con severità comportamenti che erano loro estranei. «Le donne istriane e dalmate erano guardate con diffidenza» ricorda un’esule da Zara sbalestrata ad Alghero. «Eravamo giovani, allegre e disinvolte. Andavamo in bicicletta e gli uomini del posto avevano scambiato la nostra allegria per superficialità.»14 Quelli immediatamente successivi alla fuga dalla terra natale furono dunque per i profughi anni durissimi, non privi però di qualche luce. Gli episodi di rifiuto in nome di pregiudiziali politiche furono clamorosi ma limitati; più spesso l’arrivo degli esuli – si trattasse di grandi città come Torino o di centri più piccoli come La Spezia o Gaeta – suscitò gare di solidarietà fra le pubbliche amministrazioni, settori influenti della società civile e semplici cittadini. Anche all’interno dei campi, prevalsero in genere le logiche della solidarietà e i ragazzi trovarono spesso un clima di libertà e di avventura che avrebbero ricordato a lungo. Così ne parlano due profughi da Cherso, che trascorsero lunghi anni nel campo di Tortona:
Devi capir questo: che quando si è ragazzi... per noi era un gioco questo, si stava bene lì: i genitori avevano i pensieri gravi, cosa faremo, dove andremo, i ragazzi giocavano, correvano...15
Gli anni che ho passato nel campo, nonostante la mancanza di soldi, la mancanza di vita agiata, sono stati gli anni più belli della mia vita [...] la comunità, la fratellanza che c’era fra di noi, perché uno aiutava l’altro.16
Assai simile è il ricordo della prima bambina nata nella caserma Ugo Botti di La Spezia, che alcuni anni dopo scrisse:
Sono una ragazza di quindici anni, figlia di profughi istriani, nata a La Spezia nella caserma Ugo Botti che si trova nella frazione di Muggiano. Qui vi abitai per dieci anni che per me trascorsero felici e sereni in mezzo a gente affratellata dall’esodo perché figli della stessa terra. [...] All’entrata v’era un grande cancello che s’apriva dinanzi a una strada fiancheggiata da alberi; a sinistra una casetta e un campo sportivo e a destra un prato dove i bimbi giocavano e le donne si sedevano a fare la calza e chiacchierare. La caserma internamente sembrava un labirinto; era percorsa da bambini nei lunghi corridoi dove per noi bambini era molto comodo giocare nei giorni lunghi e piovosi dell’inverno. Ricordo che avevo molte amiche e giocavamo sempre insieme, ma spesse volte le donne ci brontolavano perché le disturbavamo nei loro lavori. [...] Io la caserma la ricordo così, piena di gente che viveva insieme come una grande famiglia, e ne avrò sempre un caro ricordo. Entro le sue mura che hanno offerto a tanti profughi ospitalità ho passato dieci anni della mia vita.17
Fu nell’esilio che maturò una comune identità istriana capace di travalicare le precedenti appartenenze, e rivalità, municipali. Identità che sarebbe stata rafforzata e perpetuata dalla rete dell’associazionismo della diaspora, impegnata non solo nella tutela dei diritti dei profughi attraverso un’azione di lobbying nei confronti delle forze di governo talora assai efficace, ma anche nella conservazione dei valori e delle tradizioni per la cui difesa le comunità istriane si erano risolte ad abbandonare la loro terra. Nel frattempo, prendevano corpo le strutture che nel corso dei successivi decenni avrebbero affrontato con continuità i problemi di natura sia assistenziale che politica legati all’esplodere dell’Esodo. Così, l’ufficio per le zone di confine avrebbe curato direttamente tutte le questioni politiche riguardanti non solo i profughi giuliano-dalmati,
ma anche la situazione esistente nei territori sottoposti all’amministrazione militare alleata, divenendo – più ancora che la rappresentanza istituita dal ministero degli Esteri – il vero braccio del governo italiano a Trieste. Inoltre, nel febbraio del 1947 venne costituito un comitato nazionale per i rifugiati italiani, di natura privata ma dotato di un esplicito carattere di ufficialità, posto che il presidente onorario era lo stesso De Gasperi e tra i membri più illustri figuravano gli ex presidenti del consiglio Orlando, Nitti, Bonomi e Parri. Nel comitato generale inoltre comparivano personalità quali Croce, Saragat, Sturzo, Marzotto, Pirelli e Valletta. Il carattere ufficiale dell’organizzazione era inoltre accentuato dal fatto che i comitati del CNRI formatisi in varie città italiane erano spesso presieduti dai prefetti e dai presidenti delle province. In capo a un paio d’anni il comitato creò una rete organizzativa estesa a tutto il territorio nazionale, e ricevette dal governo deleghe assai ampie in materia di inserimento dei profughi nella società italiana.18 Nel 1948 il comitato si trasformò nell’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati, che nel 1949 sarebbe stata costituita come ente morale e dieci anni dopo sarebbe stata riconosciuta quale ente pubblico di assistenza e beneficenza. L’Opera, che venne a lungo guidata da un personaggio del calibro di Oscar Sinigaglia e che fu dotata di larghi finanziamenti, dispiegò un’intensissima attività affrontando tutte le problematiche legate all’inserimento dei profughi nella realtà italiana: dall’edilizia popolare – per un totale di oltre 7000 alloggi distribuiti in trentanove province, talvolta concentrati in insediamenti di grandi dimensioni, come il quartiere giuliano-dalmata di Roma -19 ai convitti, dai preventori alle chiese, dai ricreatori alle case di riposo. Nel complesso si trattò di un intervento imponente, portato a termine con efficienza e coronato da un largo successo. Dopo le difficoltà iniziali quindi, il massiccio insieme di provvidenze e facilitazioni messo a punto dalle autorità italiane e – elemento forse ancor più decisivo – le nuove opportunità offerte dalla grande stagione di sviluppo vissuta dall’economia italiana nel corso degli anni Cinquanta, fecero sì che l’integrazione degli esuli nel tessuto del Paese si compisse con una certa celerità. Chi rimase in Italia e non prese la via dell’emigrazione trovò infatti una sistemazione dignitosa e talvolta anche assai soddisfacente nella società del
boom economico. Molti istriani, dalmati, fiumani e quarnerini di Cherso riuscirono a sfruttare al meglio la loro capacità di lavoro unita alla forza d’animo che li aveva sorretti nelle traversie della profuganza, e alcuni di loro divennero imprenditori, affermati dirigenti d’azienda, stilisti di grido. Il dramma dell’Esodo non creò dunque sacche di emarginazione sociale, e anche tale circostanza favorì la rimozione dell’accaduto dalla memoria degli italiani. Rimase invece negli esuli, al di là delle fortune personali, la convinzione che la loro tragedia non era stata sufficientemente avvertita dal resto della comunità nazionale, e ciò rese più amaro l’esilio.
Gli esuli a Trieste L’apparato logistico e assistenziale creato in Italia nel 1948 e successivamente sviluppato e perfezionato assorbì dunque il grosso del flusso migratorio proveniente da Fiume e dall’Istria, che sfiorò soltanto Trieste, città simbolo della contesa di confine con la Jugoslavia e il cui destino era ancora incerto. Nella città giuliana infatti le autorità alleate si opposero all’insediamento di nuclei consistenti di profughi, che avrebbero reso ancora più esplosiva la situazione politica della zona. Il GMA rifiutò fermamente di fare di Trieste una delle mete dell’esodo da Pola organizzato dal governo italiano, anche se in città affluirono alcune migliaia di polesani che avevano in precedenza abbandonato individualmente il capoluogo istriano. Del resto, le possibilità di assorbimento di quote significative di immigrati da parte del tessuto economico della zona A erano pressoché nulle, e le stesse organizzazioni istriane consigliavano i profughi di cercare altre mete: i polesani arrivati a Trieste furono perciò in buona misura costretti a spostarsi nuovamente, anche se non di molto, visto che riuscirono a trovare ospitalità e opportunità di inserimento lavorativo nella provincia di Gorizia. Alcune migliaia di esuli istriani rimasero in ogni caso a Trieste e, di questi, quelli giunti in città entro il 15 settembre 1947, data dell’entrata in vigore del trattato di pace, poterono regolarizzare la loro posizione e vennero inseriti negli elenchi della popolazione stabile della zona A.20 Una circostanza questa, che permise loro
anche di venire iscritti nelle liste elettorali e di partecipare quindi alle elezioni amministrative del 1949, in forza di una decisione del GMA volta evidentemente a favorire i partiti filoitaliani nella prima consultazione del dopoguerra. A quell’epoca infatti, il governo italiano e le autorità alleate condividevano l’obiettivo di ottenere dalle urne un risultato – il cosiddetto «plebiscito di italianità» – che dimostrasse inequivocabilmente il supporto della popolazione alla linea espressa dalla dichiarazione Tripartita del 20 marzo 1948, con la quale i governi di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia avevano invitato quello sovietico a un negoziato che sancisse la restituzione all’Italia dell’intero TLT. Nella medesima occasione peraltro, venne respinta la richiesta italiana – giudicata decisamente eccessiva – di ammettere al voto anche gli esuli affluiti in città dopo il settembre del 1947.21 A partire dal 1948 poi, Trieste fu coinvolta dall’Esodo degli istriani che avevano esercitato il diritto di opzione, ma anche in questo caso si trattò principalmente di un flusso di transito verso i centri di raccolta allestiti in Italia. Ben diversa fu la situazione dei profughi dalla zona B: come abbiamo già visto, essi gravitavano direttamente su Trieste, che divenne la meta naturale delle fughe che si susseguivano dal Capodistriano e dal Buiese in concomitanza con i ricorrenti picchi delle difficoltà economiche e delle politiche repressive. Di fronte alla crescita del fenomeno e alla previsione di un suo verosimile aumento il GMA modificò infine il suo atteggiamento, dato che la frattura tra le due zone si approfondiva ogni giorno di più, e prendeva sempre più corpo l’ipotesi che almeno parte della zona B sarebbe rimasta alla Jugoslavia. La primavera del 1950 fece da spartiacque. Come sappiamo, le violenze legate alle elezioni tenutesi in aprile nella parte del TLT controllata dagli jugoslavi, avevano lanciato in pochi mesi verso Trieste un’ondata di un migliaio di profughi. Fatto ancor più importante, la durezza della repressione convinse molti esponenti del CLNI che ormai tentare di dissuadere gli italiani dall’abbandonare la zona B fosse non solo inutile, ma pericoloso per la loro stessa sopravvivenza. La gravità della situazione e l’angoscia dei rappresentanti istriani traspaiono bene dalla lettera che i segretari
delle sezioni della DC della zona B (operanti a Trieste), inviarono il 4 giugno 1950 a De Gasperi:
Il nostro compito di segretari sezionali della Democrazia Cristiana della zona B da tempo è ormai in conflitto con la nostra coscienza di uomini e di cristiani. Non possiamo ulteriormente pascere di parole illusorie intere popolazioni che oltre a soffrire da cinque anni di privazioni materiali superiori a quelle dei più tristi anni di guerra sono ormai in grave tentazione di dover rinnegare la propria fede religiosa, la propria nazionalità e gli stessi elementari diritti della personalità umana allo scopo di poter assicurarsi la pura e semplice sopravvivenza materiale. Ormai è evidente che il problema nazionale e politico è superato da quello umano, e che urgono: o sufficienti garanzie per coloro che si assumono il rischio di rimanere; o un minimo di soccorsi materiali – case o almeno baracche – per coloro che non sentendosi più di vivere una vita di schiavi e di figli di nessuno, abbandonano la terra dei loro padri per raggiungere Trieste o Monfalcone. [...] Si chiede che coloro a cui è affidato l’ingrato compito di rappresentare l’idea democratico-cristiana e quella della solidarietà nazionale in queste sventurate terre abbiano un minimo di direttive e di assistenza per poter liquidare con onore una situazione ormai insostenibile.22
Tutto lasciava intendere dunque che bisognava prepararsi a un Esodo di grandi dimensioni, e ciò non poteva che comportare un profondo ripensamento delle politiche di intervento messe in atto sino a quel momento. Per far fronte alle necessità assistenziali derivanti dall’afflusso dei rifugiati dall’Istria, già nel luglio del 1946 aveva iniziato a operare un comitato per l’assistenza agli esuli giuliani e dalmati, diretto dal presidente di zona Gino Palutan –
correntemente conosciuto proprio come «Comitato Palutan» –, dotato di fondi provenienti dalla presidenza del consiglio, ed è proprio alla presidenza di zona che anche negli anni successivi avrebbero continuato a fare capo gli interventi, via via più massicci, decisi a favore degli esuli istriani. A seguito infatti di uno specifico accordo tra il GMA e il governo italiano, a partire dal luglio del 1949 tutte le attività assistenziali vennero concentrate nelle mani del neocostituito ufficio di zona per l’assistenza postbellica, guidato ovviamente dal presidente di zona. La valenza politica di tale linea d’intervento non va sottovalutata: fin dai primi tempi del dopoguerra la presidenza di zona era l’unica carica di un certo rilievo, per funzione e competenze, in mano agli italiani di Trieste. A fronte della scarsità di attribuzioni delle amministrazioni comunali, fino al 1949 per giunta prive di legittimazione popolare, essa svolse un ruolo chiave – in genere sottovalutato dalla storiografia – di raccordo fra il GMA e il governo italiano. Inoltre, la progressiva concentrazione nelle sue mani delle responsabilità riguardanti un settore chiave come quello dell’assistenza – in cui l’emergenza postbellica si saldò senza soluzione di continuità a quella indotta dall’arrivo dei profughi – consentiva alla presidenza di zona, e quindi ai partiti che l’esprimevano, di intervenire sui bisogni cruciali di fasce significative della popolazione.23 Tutto ciò offriva una leva importante ai partiti dello schieramento filoitaliano, ai quali la politica del GMA aveva sottratto il controllo di quegli strumenti di intervento economico che in Italia avevano invece consentito alle forze di governo di stabilire profondi legami con gli interessi presenti nel corpo sociale.24 Nel giugno del 1950 dunque, nel corso di una riunione tra presidente di zona, funzionari del GMA e rappresentanti del governo italiano, venne deciso che i profughi dalla zona B sarebbero rimasti nella zona A. Per far fronte alle esigenze derivanti da tale scelta politica, venne stabilito che le spese per l’assistenza sociale, sanitaria e alimentare sarebbero state assunte dal ministero dell’Interno per il tramite dell’ufficio assistenza postbellica della presidenza di zona, mentre il GMA avrebbe dovuto in un primo momento assicurare alloggi temporanei ai profughi non in grado reperire autonomamente un’abitazione, e in seguito alloggi «di natura più duratura», attraverso la costruzione nei sei comuni della
zona A di «semplici casette», il cui costo sarebbe stato a carico del governo italiano.25 Sul piano normativo quindi, il GMA riaprì i termini per la concessione della residenza stabile nella zona, che costituiva il requisito indispensabile per ottenere il libretto di lavoro.26 Contemporaneamente l’ufficio zone di confine e il CLNI predisposero i primi progetti del piano edilizio per i profughi, che trovò immediata copertura finanziaria, tanto che nel novembre 1951 era stata completata una settantina di alloggi d’emergenza ed erano stati avviati i lavori di costruzione sia di alcuni grandi palazzi alla periferia di Trieste, che di un primo lotto di casette nel comune di DuinoAurisina. Tali primi interventi delineavano già i tratti fondamentali della strategia insediativa dei profughi prescelta dalle autorità italiane: realizzare una serie di «capisaldi di italianità»27 nelle zone periferiche del centro urbano, dove più forte era la presenza comunista, e soprattutto nella fascia critica di collegamento tra la città e il Monfalconese, in modo da realizzare la «bonifica nazionale» 28 dell’area fra Barcola (sobborgo occidentale di Trieste) e Duino. L’importanza di tale decisione non può sfuggire, quando si pensi che era proprio l’assenza di insediamenti italiani fra Trieste e la pianura friulana a rendere impossibile il tracciato di una «linea etnica continua» che comprendesse tutti i centri costieri a larga prevalenza italiana del TLT. La derivante soluzione di continuità nel popolamento italiano finiva così per facilitare il gioco della diplomazia jugoslava che, pur non opponendosi in linea di principio alla restituzione di Trieste all’Italia, intendeva far pagare al governo di Roma un prezzo carissimo – vale a dire l’intera zona B – per concedere il proprio assenso al recupero del «corridoio» indispensabile per congiungere il capoluogo giuliano al resto del Paese. Se dunque le motivazioni strategiche giocavano un ruolo prioritario negli orientamenti del governo italiano, su un piano assai diverso, ma di fatto complementare al primo, si collocavano le valutazioni degli esponenti del CLNI. Per loro infatti la scelta di concentrare gli esuli in località ben definite era in primo luogo diretta a evitare la rapida estinzione del patrimonio di usi e tradizioni dei profughi, che avrebbe inevitabilmente fatto seguito alla loro dispersione sul territorio. Possiamo forse dire che proprio nella misura in cui la
scelta dell’Esodo era stata anche testimonianza di una forte volontà di conservazione della propria identità minacciata, la medesima spinta conduceva il CLNI a proporre modalità di insediamento nella provincia di Trieste che favorissero il più possibile il mantenimento dell’identità istriana. Presero corpo così i «borghi» istriani, dotati dei servizi essenziali – negozi, esercizi artigianali, locali di ritrovo – che consentivano ai loro abitanti, se non di ricostruire l’atmosfera delle loro realtà perdute, almeno di attenuare in qualche misura il loro spaesamento. Decisamente marginale invece sembra sia stato ogni intento di snazionalizzazione del territorio da parte di chi per conto del CLNI formulò i piani di insediamento dei profughi, mentre gli stessi esuli – stando alle testimonianze disponibili – riluttarono non poco ad accettare gli alloggi costruiti nei comuni sloveni, preferendo in molti casi prolungare la permanenza in situazioni critiche, come le cantine e le soffitte della Cittavecchia.29 Gli interventi predisposti agli inizi degli anni Cinquanta dunque miravano a stabilizzare la presenza dei profughi istriani a Trieste, togliendoli da una degradante condizione di precarietà; tali iniziative però non erano assolutamente in grado di far fronte all’impennata di arrivi che si registrò a partire dall’autunno del 1953, a seguito cioè dell’ondata di violenze e pressioni scatenatasi – come abbiamo già visto – nella zona B dopo la Nota Bipartita dell’8 ottobre. Di fronte all’emergenza, le opinioni si divisero. Le autorità italiane propendevano per lo «sventagliamento» dei profughi su tutto il territorio nazionale, viste le già pesantissime condizioni della zona A, sovraffollata e priva di occasioni di lavoro. Da parte loro gli esponenti del CLNI, facendosi interpreti del comune sentire dei profughi, insistevano invece per il mantenimento degli esuli a Trieste o, in subordine e come soluzione provvisoria, nel trasferimento di alcune aliquote nell’adiacente provincia di Gorizia. Era, quella dei rappresentanti dei profughi, una linea apparentemente irrazionale, dal momento che la volontà di mantenere a tutti i costi gli esuli a Trieste avrebbe verosimilmente allungato i tempi dell’emergenza e, soprattutto, dell’inserimento lavorativo. Alle sue spalle però stava una serie di motivazioni che ancora una volta rimandano alla volontà degli istriani di mantenere quella compattezza di insediamento e di destino che sola – si pensava – avrebbe consentito ai fuggitivi dalla
zona B di conservare un minimo di coesione. Pesava in questo l’esperienza negativa vissuta in precedenza dalle decine di migliaia di esuli dai territori passati alla Jugoslavia dopo il 1947, delle cui traversie abbiamo già avuto modo di parlare: un’esperienza che rafforzava la determinazione a mantenere unito ciò che restava della popolazione italiana dell’Istria, anche a costo di immediati disagi, per poter ottenere in tempi rapidi dal governo una soluzione del problema che fosse complessiva e rispettosa delle caratteristiche sociali degli esuli. Si trattava infatti non solo di trovare un tetto per i profughi, ma anche di offrire loro prospettive di lavoro e di vita comunitaria capaci di evitare quei fenomeni di degrado che spesso si accompagnano ai processi di sradicamento e trasferimento forzato di comunità in contesti completamente diversi da quelli di origine. Per usare le eloquenti parole di un documento del CLNI, bisognava evitare che «un popolo pacifico di agricoltori e pescatori si trasformasse in un inquieto proletariato», e per far ciò si prevedeva di collocare parte almeno dei contadini provenienti dalla zona B nel Monfalconese, avviandovi anche una serie di lavori di bonifica, di realizzare una specifica struttura per i pescatori – il Villaggio del pescatore, appunto – e di favorire la ripresa del piccolo commercio all’interno dei «borghi» da costruire.30 In tal senso il CLNI si mosse con grande decisione tra la fine del 1953 e la prima metà del 1954, prospettando alle autorità un piano di interventi assai articolato, anche in previsione dell’ondata di profughi che si sarebbe riversata su Trieste dopo la conclusione della vertenza con la Jugoslavia, che nella primavera del 1954 sembrava ormai scontata. A tale riguardo, è interessante notare che nella documentazione prodotta dal CLNI ci si premurava di sottolineare come eventuali ritardi, o anche soltanto una certa gradualità nell’attuazione degli interventi previsti, non sarebbero affatto serviti a frenare l’Esodo, ma avrebbero avuto come unica conseguenza quella di gettare nella disperazione gli istriani da entrambe le parti della linea Morgan.31 Una notazione, questa, evidentemente diretta verso quegli ambienti di governo che avrebbero preferito conservare una significativa presenza italiana nella zona B – e ciò suona a ulteriore conferma delle osservazioni già proposte in merito all’inconsistenza delle tesi di chi ha voluto vedere nel governo
italiano un promotore dell’Esodo – e che potevano pertanto essere tentati di modulare le politiche di accoglienza al fine di scoraggiare le partenze in massa. Le indicazioni del CLNI furono in buona parte accolte e si può dire che costituirono le linee-guida dell’intervento pubblico a favore dei profughi istriani nelle province di Trieste e Gorizia; un intervento che, visto a posteriori e confrontato con tante altre occasioni in cui la macchina dello Stato italiano non brillò certo per solerzia né per trasparenza, appare singolarmente rapido ed efficace. Certo, per alcuni anni l’emergenza abitativa fu dura. Oltre che nei campi profughi si dormiva un po’ dovunque, nei retrobottega per esempio, in condizioni igieniche precarie.
Allora quaggiù [...] c’era un gruppo di case e c’era uno che cucinava le trippe [...]. Andava a prendere le trippe sporche, no? E là le puliva, le lavava e dopo le cucinavano e dopo gliele davano alle macellerie, no? E noi dormivamo... io avevo chiuso un pezzo coi cartoni e dormivamo in tripperia, dove cucinavano le trippe.32
E si cercava riparo perfino nelle barche da pesca, spostandosi da un’imbarcazione all’altra ogni volta che la flottiglia usciva in mare. Ma l’emergenza venne superata, i diffusi timori che la permanenza a Trieste di una gran massa di esuli avrebbe favorito la creazione di sacche di malcontento sociale e di tensione politica si rivelarono infondati e il programma di integrazione degli istriani nella società triestina e isontina, sintetizzato nella parola d’ordine «da profughi a cittadini», trovò nel corso degli anni completa realizzazione.33 Tale valutazione sintetica, essenziale per esprimere un giudizio storico complessivo sulla questione dell’inserimento degli esuli nella realtà locale, non deve però far dimenticare la fatica e i passaggi dolorosi che gli istriani trovarono lungo il cammino dell’integrazione. Qualcuno, semplicemente, non ce la fece a reggere il trauma dello
sradicamento, come risulta da questa testimonianza di un operatore psichiatrico:
Ho conosciuto Giovanni al reparto P, nel camerone, mentre come al solito negli ultimi vent’anni lavorava a rifare i letti. [...] Giovanni periodicamente mi scriveva una lettera con allegate lire 500, dove con linguaggio frammentario e a tratti incomprensibile, mi chiedeva un pezzo di terra in ospedale, e se era il tempo della semina per seminare il grano, e se era il tempo delle patate per poter zappare le patate.34
Ma anche al di là dei casi estremi, numerosissime sono le testimonianze in merito alle difficoltà di adattamento dei nuovi venuti a mestieri e abitudini estranee, come pure sui rapporti delicati che si instaurarono fra i cittadini e gli esuli, oggetto questi ultimi di provvidenze speciali e facilitazioni, soprattutto nei pubblici impieghi, e portatori di una mentalità lavorativa – forgiata spesso dalla fatica senza orario della giornata trascorsa nei campi – che li rendeva disponibili a forzare senza troppi problemi i ritmi del lavoro di fabbrica contrattati dalle lotte sindacali.35 Tuttavia – e questo è un segnale decisivo di un processo in fondo poco traumatico – gelosie e malumori nei confronti dei nuovi arrivati non presero la forma della rabbia collettiva, bensì quella del sarcasmo, espresso dal fiorire di cicli di barzellette sugli istriani, che stemperava i risentimenti nei confronti di coloro che in breve sarebbero divenuti cittadini come gli altri.36 Nonostante le sue dimensioni quindi, l’inserimento dei profughi non costituì un vero elemento di rottura per la realtà triestina, come talvolta si è sostenuto. Sul piano dei comportamenti e degli ideali infatti, è vero che l’onda dell’Esodo diffuse in città una realtà popolare, che trovava nella condivisione dei valori religiosi uno dei nuclei fondanti la propria identità collettiva, e che pertanto risultava
del tutto inedita rispetto alla prevalente fisionomia culturale di una Trieste permeata – nella componente borghese come in quella proletaria – di laicismo e di indifferentismo religioso. Ma l’efficacia persuasiva del modello di vita urbano scompaginò velocemente gli assetti tradizionali: com’è stato notato in maniera assai pertinente, «l’esperienza dei campi costituì un importante momento di rottura delle consuetudini, dell’ordine domestico-patriarcale e paesano. Ne uscirono nuclei familiari ridefiniti sulla base delle opportunità abitative e occupazionali che la città offriva, sulle capacità lavorative della coppia e non più su redditi collettivi. Agli anziani, prima al vertice delle strategie familiari, spettava un riconoscimento sempre più formale, ma di fatto venivano esautorati dalla gestione dei bilanci e scomparivano dall’orizzonte decisionale».37 Mutò rapidamente anche il ruolo delle donne, alle quali le esperienze lavorative fuori della cerchia domestica dischiusero orizzonti impensabili: si trovarono improvvisamente a confronto con modelli di femminilità cittadina – il trucco, i balli, il cinema, gli acquisti – per un verso percepiti come incompatibili con la loro tradizionale concezione di «onestà» della donna, e per l’altro fortemente seducenti e costituenti un passaggio obbligato verso la cittadinanza sociale. Marisa Madieri, moglie scomparsa di Claudio Magris, ha intitolato Verde acqua il suo romanzo di memorie sull’Esodo, dal colore del primo pullover che la fece sentire una ragazza triestina, come le altre.38 A partire poi dagli anni Sessanta, la spinta omologatrice della società dei consumi accelerò ulteriormente il cammino dell’integrazione, tanto che nell’arco di una generazione il processo di omogeneizzazione venne completato. I figli dei profughi furono triestini a tutti gli effetti, indistinguibili dagli altri giovani con cui condividevano le speranze dell’età insieme ai molti problemi di una stanca comunità postindustriale, e interessati non più degli altri ai ricordi e alle novità della terra d’origine. Sul piano politico poi, l’ingresso degli esuli dall’Istria nel sistema politico locale avvenne sostanzialmente, com’è piuttosto ovvio, sul terreno della difesa nazionale, e fini quindi per rafforzare i meccanismi già avviatisi prima dei massicci spostamenti di popolazione e imperniati sulla contrapposizione tra i partiti filoitaliani, egemonizzati dalla DC, e quelli considerati antitaliani, come i
comunisti e gli indipendentisti. In particolare, a giovarsi dell’apporto istriano fu proprio la democrazia cristiana. Il fenomeno non presenta particolari incognite interpretative, dal momento che la comunanza dei valori, la contiguità fra il tessuto organizzativo degli esuli e quello del partito, insieme al ruolo chiave ricoperto dalla DC nelle istituzioni locali e nazionali, sono largamente sufficienti a spiegare come la formazione politica guidata a Trieste dagli istriani Gianni Bartoli e Redento Romano divenne il referente privilegiato per i profughi istriani. Alcune precisazioni tuttavia risultano opportune, per evitare giudizi troppo generici. La funzione di primo piano svolta da personaggi di origine istriana nella costruzione del sistema politico triestino del dopoguerra sembra fuori discussione: oltre a Bartoli e Romano, basti pensare al vescovo monsignor Antonio Santin, rovignese, e al capodistriano monsignor Edoardo Marzari, ultimo presidente del CLN giuliano, fondatore e animatore della DC e delle organizzazioni cattoliche nei primi anni del dopoguerra.39 Tutti costoro però con l’Esodo non c’entrano nulla, perché la loro presenza a Trieste risaliva al periodo precedente il dopoguerrra e si legava alla normale gravitazione attorno alla città giuliana di molti ambienti istriani. Quanto al consenso, l’Esodo mise effettivamente a disposizione dei nuovi gruppi dirigenti democratico-cristiani quella base di massa, capace di esprimere un’adesione di appartenenza al partito dei cattolici, che l’esperienza triestina non aveva mai conosciuto. Tuttavia nel 1949, in occasione delle prime elezioni del dopoguerra, i voti degli esuli furono certamente importanti per determinare il successo delle forze filoitaliane, ma non furono essi a fissare i caratteri del sistema politico locale. Infatti il risultato favorevole conseguito dal partito democratico-cristiano dipese in primo luogo dalla sua capacità di venir riconosciuto come principale difensore degli interessi nazionali di tutti i cittadini di sentimenti italiani. Certo la DC, oltre alla rappresentanza ideale dei profughi, seppe assumersi anche la cura dei loro interessi materiali e integrare al suo interno la classe dirigente istriana. Al riguardo può essere interessante notare come in tutto l’arco di tempo che va dal 1949 al 1956, mentre la presenza di rappresentanti dei profughi è largamente attestata tra i componenti democristiani dei consigli
elettivi locali, non fu lo stesso tra i consiglieri del MSI, che pure ottenne nello stesso periodo un notevole successo elettorale in chiave anticomunista e antislava.40 Un simile assetto dei gruppi consiliari missini – formati in prevalenza da personale politico originario di comuni italiani non appartenenti alla Venezia Giulia, se non addirittura delle colonie –41 sembra indicare che il processo di radicamento a Trieste dei profughi istriani, che pure avevano fatto concreta esperienza di una persecuzione nazionale, abbia coinvolto solo marginalmente il partito che del nazionalismo più esasperato si faceva portabandiera. Esso pare piuttosto aver raccolto prevalentemente i propri consensi nei tradizionali ambienti nazionalisti triestini, bene innervati dall’apporto degli italiani immigrati nella Venezia Giulia dopo la Grande Guerra. A partire dunque dalla fine degli anni Quaranta e per circa un trentennio, la DC divenne il punto di riferimento quasi esclusivo per gli esuli che stavano tentando di ricostruire la loro vita a Trieste, e ai quadri dirigenti democristiani, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, i profughi dall’Istria offrirono un apporto significativo e, al tempo stesso, non necessariamente univoco quanto a strategie politiche. Al mondo dell’Esodo infatti faceva largo riferimento il gruppo di giovani che dopo il 1955 conquistò la segreteria provinciale del partito (che, non a caso, si denominava «di Trieste e dell’Istria») e che era guidato da un esule di Dignano, Corrado Belci, mentre un altro esule, questa volta dalla zona B, Giacomo Bologna, risultò il primo dei deputati eletti a Trieste nelle elezioni politiche del 1958.42 Nelle successive tornate per il rinnovo del parlamento tale tendenza si rafforzò, e la camera dei deputati vide per alcune legislature sui suoi scranni la presenza stabile di entrambi gli esponenti istriani, Belci e Bologna, collocati peraltro in posizione sempre più conflittuale. Dopo la prima fase del ricambio generazionale infatti, il nuovo nucleo dirigente si era frammentato e così pure il mondo istriano gravitante attorno alla DC. Al di là delle affiliazioni correntizie nazionali – morotea o fanfaniana – trovavano così espressione sensibilità diverse in merito alla strategia del centrosinistra, che a Trieste aveva tra i suoi punti qualificanti la normalizzazione dei rapporti con la Jugoslavia e la collaborazione in città fra italiani e sloveni anticomunisti. Di un certo rilievo, anche se
ancora quasi completamente insondato, fu l’apporto degli esuli anche alla vita politica dell’Isontino: la traccia più evidente che ne rimane è l’esperienza di sindaco di Gorizia vissuta nel corso degli anni Sessanta da Pasquale De Simone, già esponente del CLN di Pola.
CAPITOLO 9 L’emigrazione in Australia La madre torna, i figli partono La madre torna, i figli partono. Dal 1954 in poi, questa battuta, ora amara, ora irata, cominciò a circolare sempre più spesso a Trieste, nei bar, per le vie, ma soprattutto per le rive, prospicienti il cuore della città – piazza dell’Unità d’Italia – di fronte alla stazione marittima, dalla quale ogni settimana salpavano le bianche motonavi Castelverde, Fairsea, Flaminia, e la vecchia Toscana, che già qualche anno prima aveva tratto in salvo i profughi da Pola. Ora però la Toscana e le altre navi partivano per una meta assai più lontana, l’Australia, e partivano cariche di emigranti giuliani. Quasi ogni settimana si ripeteva il rituale degli addii. Talvolta i partenti ostentavano sicurezza e disprezzo per chi, secondo loro, li aveva costretti ad andar via. Così un ex finanziere del GMA ricorda quei momenti:
Avevamo la bandiera con l’alabarda a prua sulla nave, avevamo il nostro trombettiere che dava dalla nave l’addio alla città di Trieste. Ci eravamo riforniti di monetine che buttavamo dalla nave, perché in fin dei conti erano loro [polizia e carabinieri italiani, N.d.A.] che erano venuti a casa nostra e non il contrario.1
Più spesso a dominare erano la tristezza e la disperazione. Così rammenta il giorno della partenza una donna imbarcatasi nel 1955 per raggiungere il marito già emigrato:
Sono andata via da casa piangendo e già da allora dovevo capire che non sarei mai dovuta partire. Mi ero fatta mandare da qualcuno le valigie (quelle di cartone dell’UPIM) con la macchina mentre io andavo a piedi da via Pasquale Revoltella dove abitavo, perché dicevo che sarebbe stata l’ultima volta che vedevo la mia Trieste.2
Sulla banchina, la città partecipava commossa al dramma che si consumava. Alla penna dello scrittore triestino Giani Stuparich dobbiamo la descrizione più toccante della scena di una partenza:
Tutto il cuore della città era là, in quei saluti, in quelle raccomandazioni, in quegli addii: tutto il temperamento del popolo triestino si esprimeva in quelle manifestazioni del popolo che sa essere spiritoso anche tra le lacrime, vivace pur nella disgrazia. «I va, i va e noi restemo; anche se imbarchemo tuta la zità... sempre alegri e mai passion» diceva un giovane operaio con l’occhio lucido e la bocca amara. «Andè, andè fioi, feghe onor a Trieste!» raccomandava un altro operaio anziano. E una vecchia nonna! Era là, sorretta dai parenti, e continuamente chiedeva se Rico fosse a bordo, e dove fosse, se avesse la sua sciarpa rossa, se salutava, se sorrideva, e se la traversata fin laggiù sarebbe stata buona; non volle muoversi di là neanche quando la nave si staccò e girò al largo; la gente cominciò a sfollare fra
commenti e rimpianti: «Nonina, su, la se movi!». Ma la vecchia non si decideva e, col volto rigato di lacrime, andava ripetendo: «Cossa che me toca veder!».3
Più semplicemente, ma con toni simili, un emigrato partito nell’aprile del 1954 ha segnato così nel suo diario il momento del distacco:
Martedì. Ore 15 e 10. Imbarco sulla motonave Toscana. Distacco molto doloroso. Tempo piovoso. Alle 19 e 20 la folla irrompe alla stazione marittima rompendo i cordoni di polizia. Saluto del popolo triestino ai suoi figli che partono con la speranza di migliorare. Alle 19 e 30 tra fischi di sirena e altri clamori la nave si stacca lentamente. Addio Trieste.4
Che cosa stava succedendo? La risposta più ovvia si sentiva già allora passare di bocca in bocca in città ed è stata ripetuta volentieri anche in seguito: Trieste stava affondando, sotto il peso del ritorno dell’amministrazione italiana e dell’ondata di profughi in arrivo dalla zona B, e non pochi tra i suoi cittadini cercavano scampo altrove, specie in quel mondo anglosassone che avevano imparato a conoscere durante gli anni, da molti considerati felici, dell’occupazione alleata. Le risposte semplici hanno il grande pregio di venir facilmente comprese; non sempre però sono vere, e anche nel nostro caso la realtà è un po’ più complicata di quanto non lascino intendere gli slogan del tempo. Certamente, fra il 1954 e il 1958 si assistette a Trieste a un rilevante movimento migratorio in uscita, diretto principalmente verso l’Australia, che in quegli anni raggiunse almeno le 16.000 partenze, ma che proseguì anche in seguito, seppur con ritmi più lenti, fino a superare largamente le 20.000 unità.5 Era una massa imponente di
persone che abbandonava la città e che sottolineava come la soluzione data alla vertenza di confine con la Jugoslavia, oltre a innescare la fuga degli italiani dalla zona B, fosse tutt’altro che priva di costi per lo stesso capoluogo giuliano. A ben vedere però, le partenze erano iniziate già nel marzo del 1954, vigente ancora il governo militare alleato, e ben prima che l’onda dell’Esodo dalla zona B si rovesciasse sulla città. Anche negli anni precedenti, del resto, l’emigrazione dalla zona A era stata assai elevata: se ci limitassimo a considerare le cifre assolute, dovremmo notare che i flussi in partenza risultarono addirittura più elevati nel periodo del GMA di quanto non siano stati dopo il ritorno dell’amministrazione italiana. Nel primo caso però buona parte degli emigranti era verosimilmente costituita da esuli istriani fermatisi solo per breve tempo a Trieste, mentre dal 1954 in poi ad andarsene furono soprattutto i triestini. Durante tutto il periodo dell’amministrazione anglo-americana comunque il bilancio migratorio della zona A aveva presentato non poche stranezze, come per esempio l’esistenza di una significativa immigrazione di lavoratori specializzati, grazie a particolari permessi concessi dal GMA alle imprese triestine, proprio mentre la zona era caratterizzata da un’elevata disoccupazione e da forti spinte all’emigrazione.6 In linea generale, possiamo dire che alcuni dei meccanismi che avrebbero prodotto il picco delle partenze nel periodo 1954-58 erano già operanti negli ultimi tempi dell’amministrazione alleata. Il punto è che all’economia giuliana il GMA non offriva in realtà alcuna prospettiva, perché esso stesso non ne possedeva. Dietro quindi i flussi finanziari utilizzati per mantenere sotto controllo la situazione dell’ordine pubblico, la ricostruzione dell’apparato produttivo giuliano era stata condotta prescindendo completamente da quella che sarebbe potuta essere la funzione di Trieste nella realtà italiana del dopoguerra. Si trattava perciò di un’economia che, pur non priva di rapporti con quella italiana, mai del tutto interrotti, presentava caratteristiche strutturali di grande fragilità, destinate inevitabilmente a emergere quando l’artificio del TLT – cui gli anglo-americani erano in fondo i primi a non credere – fosse stato sul punto di scomparire.7 Ciò accadde, come sappiamo, nella seconda metà del 1953, quando divenne chiaro a tutti che la presenza alleata a Trieste stava
volgendo al termine. Vennero meno così le illusioni delle fasce di popolazione, tutt’altro che trascurabili, che dall’occupazione angloamericana avevano tratto alimento: si trattava di migliaia di triestini che per ragioni materiali, ma anche per la difficoltà di riconoscersi totalmente nelle due identità nazionali in competizione, avevano costituito la base di un movimento indipendentista – favorevole cioè all’effettiva costituzione del TLT, che in città aveva incontrato significativi consensi. Nel dar corpo all’indipendentismo triestino, un ruolo determinante era stato ovviamente giocato dalla volontà di tutelare e, possibilmente, di espandere il coacervo di interessi indotti dalla presenza anglo-americana. Le stesse autorità alleate del resto, non avevano esitato ad appoggiare i movimenti indipendentisti: certo non perché puntassero davvero sul TLT, ma semplicemente quale strumento di pressione sul governo italiano nella fase finale della questione di Trieste, per convincerlo – come abbiamo visto, con successo – ad accettare la spartizione lungo il confine di zona. Appoggi finanziari a tali movimenti erano venuti anche da Belgrado, sempre in funzione antitaliana. Ma al di là di questo, non va dimenticato che un robusto filone autonomista era da tempo presente nella cultura politica locale, erede dei modi stessi in cui si era creata la Trieste moderna e dello status particolare, fondato proprio su una larghissima autonomia, di cui aveva goduto in epoca asburgica. Questo tipo di sensibilità non era affatto scomparsa dopo l’annessione al regno d’Italia, e si era anzi ulteriormente alimentata dei sentimenti di delusione diffusi in molti strati sociali per la scarsa attenzione ai problemi locali e le inefficienze spesso mostrate dall’amministrazione italiana. Si trattava dunque di una componente autonomista di lungo periodo e dalle molteplici facce che, perciò, era suscettibile di venire attivata da progetti politici di segno fra loro anche molto diverso, quando non contraddittorio. All’interno di tale bacino d’insoddisfazione avevano cercato di attingere i tedeschi durante l’esperienza della zona d’occupazione del Litorale adriatico, trovando inopinatamente una sponda presso ambienti e personaggi pur legati alla tradizione nazionalista italiana. Forti erano i connotati autonomisti all’interno del movimento operaio, che dopo la crisi del Cominform e la rottura dei comunisti giuliani con
Tito trovarono anch’essi espressione nel sostegno all’ipotesi del Territorio Libero. Molto tempo dopo, negli anni Settanta, l’animus autonomista avrebbe costituito una delle spinte e dei collanti di quel fenomeno politicamente assai composito, ma di grande successo, che sarebbe stata la lista per Trieste. Nei primi anni Cinquanta dunque, vi erano tutte le condizioni perché le propensioni autonomiste diffuse all’interno di diversi strati della società locale si condensassero attorno alla loro versione politica più radicale, e cioè quella indipendentista, che in effetti ottenne buoni risultati nelle elezioni amministrative del 1949 e soprattutto in quelle del 1952, quando raggiunse complessivamente il 15 per cento dei voti. Con la fine del GMA, tutto ciò stava per venir meno e si poneva con urgenza il problema del reinserimento di Trieste nel contesto statuale ed economico italiano. Si può affermare con una certa tranquillità che la classe dirigente locale si presentò decisamente impreparata all’appuntamento pur tanto desiderato: e se va tenuto conto che il ceto politico era stato largamente assorbito dalla battaglia per l’appartenenza statuale, l’élite economica dal canto suo si mostrò divisa e incapace di proporre al governo nazionale un progetto credibile che muovesse da una chiara individuazione del ruolo che Trieste avrebbe potuto svolgere in Italia. Ciò risultò evidente fin dal dicembre del 1953, quando a Portogruaro il sottosegretario al Bilancio Ferrari Aggradi convocò i vertici delle organizzazioni economiche triestine.8 L’unico punto di convergenza fra le istanze delle rappresentanze economiche giuliane presenti alla riunione fu la richiesta di provvedimenti straordinari, quali esenzioni o dilazioni fiscali, e agevolazioni eccezionali soprattutto per il settore del commercio e della piccola industria, vale a dire proprio ciò che il governo, propenso agli interventi strutturali, non era disposto a concedere. Negli anni successivi, la situazione non migliorò molto, e il simbolo più eloquente delle incertezze che attraversarono tanto le forze politiche quanto le categorie economiche, può forse venire individuato nella parabola della richiesta di istituire a Trieste una zona franca. Richiesta che alla fine del 1954 registrò praticamente l’unanimità di consensi, ma che ciò nonostante nel giro di un paio d’anni venne lasciata cadere. È questo un tema che solo in tempi
recentissimi la storiografia ha messo a fuoco9 e che può consentirci di capire meglio il senso di una fase di transizione in cui non erano ben chiari né gli orientamenti strategici da assumere, né i soggetti politici che li avrebbero governati. 10 Così, l’iniziale, larghissima adesione all’ipotesi zonafranchista da parte di pressoché tutti i partiti esprimeva soltanto il diffuso e confuso desiderio di un intervento governativo che, a fronte dell’eccezionalità della situazione triestina, si concretasse in provvedimenti altrettanto eccezionali. In questo senso, la rivendicazione della zona franca, che non arrivò mai a una definizione operativa, non era una vera scelta, ma costituiva una sorta di grande contenitore unificante, che poteva riempirsi di significati variabili a seconda di chi l’avanzava e si prestava pure benissimo come strumento negoziale per ottenere vantaggi particolaristici, celando la diversità di obiettivi dietro al recupero del popolarissimo mito del porto franco. Di conseguenza, l’iniziale unanimismo di facciata andò in pezzi non appena i diversi segmenti dell’imprenditoria e della classe politica cominciarono a mettere meglio a fuoco vuoi i propri interessi, vuoi i percorsi che appariva necessario intraprendere per ottenere dal governo un pacchetto di iniziative a favore della dissestata economia triestina. Ne sortì un conflitto fra le diverse categorie economiche – commercianti contro industriali, piccoli contro grandi imprenditori – nel quale si inserì pure la competizione per la successione ai rappresentanti della tradizionale élite giuliana nel controllo dei principali enti economici della zona, a cominciare dalla camera di commercio. Nel giro di un paio d’anni quindi, la proposta della zona franca si ridusse a un guscio vuoto, dal quale quasi tutti i sostenitori, ad alta voce o di fatto, prendevano le distanze: il caso più clamoroso di mero tatticismo fu costituito dall’approvazione all’unanimità da parte del consiglio comunale di Trieste di una mozione in favore della zona franca il 4 ottobre 1956, quando ormai era risaputo l’orientamento contrario del governo.11 Nel frattempo, la linea di intervento statale che stava prendendo corpo era radicalmente diversa da quella prospettata all’indomani del Memorandum d’intesa. Dopo i primi provvedimenti tampone del 1954 (prestito nazionale di 30 miliardi) e del 1955 (istituzione del
fondo di rotazione per il potenziamento dell’economia triestina e goriziana), l’articolato e a tratti vivacissimo dibattito di quegli anni – si arrivò addirittura allo scontro frontale tra il presidente della camera di commercio, Luzzato Fegiz, e il sottosegretario Spallino –12 avrebbe infatti trovato sbocco nel 1958 con la legge cosiddetta «dei 45 miliardi». Rispetto alle discussioni degli anni precedenti, la novità della legge stava sia nei contenuti, tutti centrati sugli interventi infrastrutturali (moli, strade, ferrovie), che nei passaggi politici attraverso i quali era maturata. La legge infatti non era nata dal confronto fra le autorità di governo e le rappresentanze economiche locali, secondo lo schema avviato fin dal dicembre del 1953, bensì dal lavoro preparatorio compiuto pressoché integralmente all’interno della democrazia cristiana, partito di maggioranza relativa a Trieste e di governo a Roma, che dimostrava così di rappresentare l’unico canale di mediazione efficace tra interessi locali e potere centrale. In questo modo, la DC conquistava a Trieste, con quasi quindici anni di ritardo rispetto al resto del Paese, quel ruolo decisivo nella gestione dell’economia locale che l’esistenza del GMA le aveva in precedenza impedito di svolgere.13 Dopo il subentro dell’amministrazione italiana quindi, quattro anni erano stati necessari per uscire dall’incertezza e abbozzare un disegno di rilancio economico, ma nel frattempo il tessuto occupazionale della provincia non aveva retto e – elemento altrettanto importante, specie quando si parla di spinte migratorie – la popolazione triestina aveva attraversato una gravissima crisi di fiducia nelle prospettive della città. È in questo contesto economico e psicologico che si inserisce il fenomeno migratorio della seconda metà degli anni Cinquanta, nel quale confluirono motivazioni diverse. In primo luogo, il venir meno dell’amministrazione militare alleata lasciò senza occupazione frange di personale non reinseribile nei quadri dell’apparato statale italiano, perché espostosi troppo in senso antinazionale. Nell’occhio del ciclone si trovò soprattutto la polizia civile, accusata di aver manifestato eccessivo zelo nella repressione delle manifestazioni filoitaliane del novembre 1953, costate sei morti ai manifestanti. Quaranta-quattro cerini accusati di aver partecipato alle sparatorie lasciarono pertanto la città insieme alle truppe alleate già il 24 ottobre 1954, due giorni prima
dell’insediamento dell’amministrazione italiana, e poi dall’Inghilterra emigrarono in Australia, dove giunsero nel febbraio del 1955. Alcuni di loro avrebbero desiderato continuare a fare i poliziotti, ma dovettero cercarsi un altro mestiere. Il caso era urgente – le rappresaglie italiane sarebbero state inevitabili – e il GAMA si diede quindi da fare per portare in salvo i suoi fedeli servitori, ma anche altri agenti della polizia civile presero la via dell’oltremare. Ricorda un emigrato in Australia:
Il colonnello Richardson, che comandava la polizia civile di Trieste agli ordini del generale Winterton, ci radunò nel piazzale della caserma Beleno e ci disse: «Ragazzi, noi ce ne andiamo, chi vuole seguirci è benvenuto a emigrare da Trieste in uno dei possedimenti del Commonwealth». 14
Parecchi accolsero l’invito, ma va anche detto che numerosi altri agenti e ufficiali della polizia civile rimasero a Trieste e si integrarono assai bene nelle forze di sicurezza italiane, dove portarono competenze tecniche che si sarebbero rivelate preziose. Comunque, anche al di là del caso estremo dei poliziotti, la preoccupazione si diffuse largamente fra gli ex dipendenti del GMA, il cui mantenimento in servizio appariva tutt’altro che sicuro, anche se alla fine i timori si rivelarono infondati e la maggior parte di essi venne riassorbita nell’amministrazione italiana. Si trattava in ogni caso di molte migliaia di persone che per anni dovettero convivere con lo spettro di un imminente licenziamento o di un trasferimento in chissà quale località della penisola. Altrettanto critica si fece la posizione di una miriade di piccoli esercenti, il cui reddito dipendeva dai consumi dei circa diecimila militari alleati di stanza nella zona A, ben provvisti, specie gli americani, di valuta forte: è stato calcolato che la loro partenza procurò all’economia cittadina una perdita di 25 milioni al giorno. 15 Più difficile invece è farsi un’idea di quale fosse l’effettiva situazione del mercato del lavoro prima della fine del GMA,
perché le statistiche di cui disponiamo risultano solo limitatamente attendibili: a detta infatti dei loro stessi redattori, piuttosto elevata era l’incidenza della «disoccupazione fittizia», gonfiata da casalinghe e soggetti desiderosi di poter beneficiare dei provvedimenti speciali o dei sussidi istituiti a favore dei senza occupazione. Di conseguenza, anche le stime sulla disoccupazione reale nei primi anni Cinquanta divergono sensibilmente, oscillando tra le 10.000 e le 20.000 unità.16 Le partenze in massa peraltro non riguardarono soltanto i disoccupati o quanti temevano di diventarlo, anzi, alcuni autori ritengono che più della metà dei partenti abbia abbandonato il proprio lavoro, secondo una tendenza che si era comunque già manifestata ai tempi del governo militare alleato.17 Il trend si rafforzò dopo il 1954, sottolineando come il disagio economico costituisse soltanto una delle molle dell’emigrazione: si può forse dire che il pessimismo nel futuro individuale e collettivo pesò nella decisione di trasferirsi oltremare almeno quanto la precarietà del presente, e il succedersi delle partenze, che lasciava attoniti i cittadini, finì per alimentare ulteriormente lo scoramento generale. Annotò nel suo diario Vittorio Vidali: «Abbiamo la sensazione di una catastrofe, e la Calstelverde, così bianca, appare come un sepolcro che inghiotte la nostra gente. [...] Trieste va in Australia. Chi poteva immaginarlo?».18 L’intensità della reazione del leader comunista muggesano si spiega anche con il fatto che l’emigrazione coinvolse frange consistenti di quella classe operaia giuliana, altamente specializzata e combattiva, che si era gettata nelle battaglie politiche del decennio precedente e che subiva anch’essa i contraccolpi della «normalizzazione». Un processo questo che agli occhi del proletariato triestino combinava alla crisi economica il disagio per il reinserimento in una compagine statuale, quella italiana, che era stata a lungo additata – per i suoi connotati di classe e per il suo regime politico – come modello deteriore da cui rifuggire, in un primo tempo a vantaggio della soluzione jugoslava, e poi di quella indipendentista. Se si esamina così la composizione professionale degli emigranti verso l’Australia, è possibile notare come il 47 per cento dei partenti fosse costituito da lavoratori specializzati, a fronte di un 52,6 per
cento di generici, fra i quali erano conteggiati anche gli agricoltori, per la maggior parte provenienti dall’Istria.19 Gli stessi profughi istriani, come si vede, contribuirono in misura significativa al fenomeno migratorio, che sarebbe errato considerare unicamente triestino e goriziano. Proprio per far fronte all’ondata di profughi successiva al Memorandum, per esempio, l’episcopato cattolico americano ottenne l’approvazione di una legge che aumentava di 60.000 unità il contingente di immigrati dall’Italia, e ciò consentì a circa duemila istriani di raggiungere gli Stati Uniti, mentre altri milletrecento circa, sempre grazie all’interessamento di organizzazioni assistenziali cattoliche, poterono stabilirsi in Canada fra il 1957 e il 1959.20
Il nuovo mondo Quanto alle mete dell’ondata migratoria, la scelta che andò per la maggiore fu quella per i Paesi anglosassoni: una decisione evidentemente connessa ai legami creatisi durante il periodo del GMA, unita all’assenza, almeno per i triestini, di una tradizione di emigrazione continentale. Nella stragrande maggioranza dei casi comunque, un ruolo decisivo nella determinazione dei Paesi d’arrivo venne svolto dai canali preferenziali predisposti dalle organizzazioni internazionali che operavano in quegli anni a favore dei profughi e dei migranti, come l’IRO (International Refugee Organization), il CIME (Comitato Intergovernativo per le Migrazioni Europee) e il Catholic Relief Service. Scaglioni consistenti di emigranti vennero quindi avviati nell’America del Nord come pure in America Latina – vale a dire sostanzialmente in Argentina –, mentre nuclei più limitati tentarono la fortuna in Rhodesia e Sudafrica. La fetta più consistente del flusso migratorio si diresse però verso l’Australia, in quanto la ricerca di lavoro all’estero da parte dei giuliani si incontrò in quegli anni con la ricerca di manodopera avviata su larga scala dal governo australiano, in nome dell’ideologia del populate or perish.21 L’esperienza della Seconda guerra mondiale aveva infatti profondamente modificato la politica australiana in materia di immigrazione. Prima del conflitto, la normativa sull’accoglienza degli
immigrati era alquanto restrittiva e tendeva a privilegiare gli apporti anglosassoni, ma durante la guerra gli australiani si accorsero improvvisamente di vivere in un continente immenso e quasi spopolato, circondato da Paesi asiatici densamente popolati e poveri invece di risorse. Il timore di uno sbarco giapponese provato nel 1942 divenne quindi il simbolo di un destino quasi inevitabile, se l’Australia non avesse rapidamente accresciuto la sua popolazione di origine europea. Non per questo al loro arrivo in Australia i giuliani trovarono il paese di Bengodi: di lavoro ce n’era, ma durissimo e spesso assai diverso dalle aspettative degli emigranti. Prima della partenza, durante le selezioni necessarie per farsi assegnare la qualifica di specializzato, parecchi aspiranti avevano cercato di bluffare, con risultati a volte controproducenti. Per esempio, di fronte alle domande rivolte al fine di evitare i rischi di epidemie, alcuni equivocarono:
Quando ci venne chiesto chi lavorava con il bestiame tanti raccontarono balle e quando arrivammo in Australia vennero mandati in quarantena a disinfestarsi. Loro pensavano che fingendosi pratici di bestiame avrebbero ottenuto chissà cosa, e invece ottennero un bel bidone.22
In altri casi, la disparità tra promesse e realtà fu più clamorosa. Così almeno parve a un esule da Isola d’Istria, reclutato in un campo profughi vicino a Trieste:
[...] altro che la propaganda che facevano in campo a Opicina! Ci riempivano la testa con i filmati che proiettavano sui muri, dove si vedevano i padroni che arrivavano con certi macchinoni e che offrivano chi 10, chi
20, e chi 40 sterline; invece non era vero niente. Perché al primo porto che si arrivava, indifferentemente se si era specializzati, sul cartellino che si aveva con sé veniva messo un timbro: manovale.23
Dietro a tali sgradite sorprese stavano le modalità con cui il governo australiano selezionava i possibili emigranti all’interno dell’enorme massa di displaced persons, provenienti soprattutto dall’Europa centro-orientale, che gli sconvolgimenti del conflitto e del dopoguerra avevano immesso sul mercato mondiale del lavoro, a fronte dei compiti cui in realtà si progettava di assegnarli. Per un verso infatti, nelle selezioni venivano richiesti standard sanitari e professionali elevati, ma contemporaneamente gli immigrati venivano indirizzati a lavori pesanti e poco qualificati, essenziali per avviare alcuni megaprogetti (come il raccordo ferroviario continentale e il grande progetto idroelettrico delle Snowy Mountains) di cui l’economia australiana aveva assoluto bisogno, ma che i lavoratori locali disertavano, per i duri sacrifici richiesti. Il governo australiano non informava i candidati all’immigrazione su quale lavoro avrebbero dovuto svolgere e a quali condizioni, e li obbligava a firmare «al buio» un impegno a mantenere per almeno due anni il lavoro assegnato loro al momento dell’arrivo in Australia. Molti emigrati quindi si ritrovarono adibiti per esempio al taglio della canna da zucchero, redditizio ma massacrante:
Era duro soprattutto per le condizioni climatiche. Non esisteva orario fisso; più si lavorava più si prendeva. Di solito si lavorava di notte perché di giorno faceva troppo caldo. Prima di cominciare a tagliare la canna la si incendiava per via dei serpenti. Ma io ho tagliato anche la canna fresca e quella si lascia aprire con maggiore facilità.24
Diplomi e lauree rilasciati in Italia non avevano alcun valore e i professionisti, come per esempio ragionieri, geometri e dentisti, non potevano esercitare prima che fossero trascorsi due anni. Specialmente gli ex dipendenti del GMA, abituati al lavoro d’ufficio, si trovarono quindi scaraventati come «generici» in una miriade di occupazioni, dove ciò che contava era soprattutto la capacità di resistenza, come il ripopolamento forestale nella zona di Canberra o la fabbrica di pneumatici della Dunlop, «dove si lavorava in ambienti con 80 gradi» e «i dipendenti ricevevano cinque sterline in regalo se riuscivano a portare gente che sottoscriveva l’impegno di lavorare per almeno tre mesi».25 Quale che fosse la loro condizione professionale, al loro sbarco in Australia gli immigrati venivano concentrati in alcuni campi di smistamento, il maggiore dei quali fu quello di Bonegilla, che nel 1950 ospitava 7700 persone in baracche e 1700 sotto le tende, e dove nel 1952 scoppiò una rivolta di centinaia di emigrati italiani che insorsero contro le condizioni del campo e la mancanza di lavoro. Al momento dell’arrivo dei giuliani tuttavia la situazione era migliorata, e l’impatto più duro sembra sia stato quello con la cucina australiana. Un’emigrante rammenta ancora «questa pecora che ci veniva data ogni giorno: fritta, arrosta, lessa e impanata. Papà andava in mensa e diceva “di nuovo castrone” e, preso un pezzo di pane, tornava in baracca».26 Tra le tante testimonianze raccolte una sola se ne discosta: «Mi piaceva. Trovavo ottima la cucina australiana. Specie dopo che avevo fatto sei mesi a Dachau».27 Nell’attesa che fosse ratificata la qualifica assegnata a Trieste, era giocoforza accettare lavori di fatica, come il montaggio delle traversine dei binari o dei cordoli dei marciapiedi e la raccolta della frutta, spesso a centinaia di chilometri di distanza dalla famiglia, dormendo sotto le tende e sperimentando le incognite di un ambiente esotico:
Ingaggiati per il lavoro, con il contratto obbligatorio di due anni, lasciando la famiglia al campo, siamo stati spediti con il treno a Barmera, nel Sud Australia. [...] Il padrone dei vigneti ci ha preso per il lavoro della raccolta dell’uva. [...] Neanche qui mancava l’imprevisto, ed è così che un giorno mi è capitato che chinandomi sotto il fogliame, sollevando la testa e gli occhi per trovare l’uva, inaspettatamente proprio lì dove il filo di ferro era attaccato al palo di sostegno, proprio davanti al mio occhio destro, mi si è presentata spalancata una grande bocca rossa, rossa come una fiamma accesa, e con uno strano suono. Ho preso una paura da matti, mai visto né sognato una cosa simile. Sono scappato fuori dal recinto della proprietà, in mezzo alla strada che era adiacente al vigneto. Accanto a me c’era mio fratello, che sentendo il mio urlo di paura aveva preso la strada della salvezza. Il padrone, sentendo il trambusto, era accorso e cercava di rassicurarmi dicendomi che «non è niente, solo una lucertola, che non è pericolosa». Da quel giorno siamo stati molto più cauti nel nostro lavoro.28
Nel frattempo, le difficoltà linguistiche concorrevano a rendere più duro l’impatto con il nuovo mondo:
Andavo a cercare lavoro e domandavo: «Have you job for me?» e avevo pronta anche la risposta che mi aspettavo essere: «Yes, tomorrow morning». Solo che, ovviamente, mi facevano altre domande, per esempio da dove venivo, ma a me pareva sempre che mi mandavano via. Devono aver pensato che ero matta.29
Tutt’altro che infrequenti furono anche i casi di razzismo, dovuti ai pregiudizi nei confronti degli italiani che già da anni stavano migrando nel continente australiano e alla diversità dei costumi.
Noi, definiti ufficialmente displaced persons (che vuol dire apolidi) venivamo indicati come new Australians, ma un buon numero di australiani aggiungeva l’epiteto di bloody, con la generosa aggiunta di una scelta collezione di simili o anche più spregiativi nomi (dago, wog, ecc.).30
Si trattava, naturalmente, degli atteggiamenti discriminatori che tutti gli emigranti italiani avevano dovuto affrontare, così come nei decenni successivi sarebbe toccato agli ultimi venuti, in particolare agli emigranti asiatici. Per i triestini però, emigranti atipici, provenienti non dalle campagne del meridione d’Italia ma da una città centro-europea, lo shock culturale fu legato anche all’immissione in un contesto urbano completamente diverso, nel quale le coordinate abituali non avevano più alcun significato. Totalmente altro era quel nuovo mondo rispetto alla realtà triestina dal punto di vista ambientale – ci si trovava arenati in «paesetti che assomigliavano a quelli che si vedevano guardando i film western americani», o in country town, come Brisbane o Perth, con «gli abbeveratoi in mezzo alle strade» o, all’opposto, sperduti all’interno di città diffuse come Melbourne -, e ancor più, da quello dei costumi, giudicati decisamente più primitivi. Frequentissimo per esempio, nelle testimonianze relative agli anni Cinquanta e Sessanta, è il riferimento alla moda, o meglio, all’assoluta mancanza di gusto degli australiani:
Gli australiani, essendo di razza inglese o irlandese, si sentivano superiori a noi, anche se erano inferiori per molti aspetti agli emigranti giuliano-dalmati. Basta pensare che gli uomini allora non portavano le mutande sotto i pantaloni, erano vestiti come all’epoca del 1935, mentre noi eravamo sempre eleganti, con abiti più moderni, anche se al principio avevamo poco da indossare.31
Di fronte alle differenze di stile di vita, nemmeno i rapporti con le precedenti e già consolidate comunità italo-australiane potevano aiutare molto; al contrario, erano potenzialmente fonte di nuovi equivoci, come risulta evidente dai ricordi di un’emigrata triestina:
A Trieste avevamo l’abitudine di andare nei caffè e appena arrivati in Australia, quando abbiamo visto un’insegna «Espresso Bar», io e una mia amica ci siamo precipitate all’interno. Faceva freddo e abbiamo ordinato un latte con il cognac. C’erano solo uomini nel bar, che ci scrutavano come due poco di buono. Le altre donne italiane infatti non avevano l’abitudine di frequentare i bar...32
Le testimonianze raccolte negli ultimi anni dai ricercatori italiani e australiani ci offrono dunque un panorama abbastanza omogeneo degli ostacoli, materiali e psicologici, che i giuliani dovettero affrontare dopo il loro sbarco agli antipodi. Al tempo stesso però, le fonti sono concordi nel segnalare che la fase critica non fu di lunga durata. Ottenuta la possibilità di lasciare i campi, dopo il periodo capestro dei due anni di lavoro obbligato, e superate le remore burocratiche e l’ostilità dei sindacati locali per il riconoscimento delle qualifiche di specializzazione, il mercato del lavoro in Australia
offriva quasi infinite opportunità di impiego. Gli operai altamente specializzati provenienti soprattutto dall’ambiente dei cantieri giuliani si inserirono abbastanza facilmente nell’industria siderurgica in via di potenziamento, come la colossale acciaieria di Port Kembla, a Wollogong:
Avrà avuto tredicimila dipendenti. I treni e i bus venivano requisiti al mattino per i pendolari e dopo, alle sette, sette e mezza, per le scuole; si fermavano fuori dalle case per raccogliere i bambini. L’acciaieria era talmente grande che i treni arrivavano fino in fabbrica e ci si spostava tra i vari distaccamenti in bus. Fabbricava di tutto: dalle rotaie ai lamierini sottilissimi delle scatole dei biscotti.33
Altri emigrati provarono i più diversi mestieri e spesso più di uno contemporaneamente, in modo da raccogliere il denaro utile a quella che veniva percepita come la prima necessità, l’acquisto di una casa, cui poi avrebbe fatto seguito quello dell’automobile, e così via. Anche se a prezzo di duri sacrifici, l’integrazione nella società australiana si rivelò quindi tutt’altro che impossibile, anche perché nel corso degli anni la cultura politica locale si modificò sensibilmente, fino ad approdare a un’ideologia multiculturalista che ha grandemente favorito l’osmosi tra vecchi e nuovi australiani:
Ora gli australiani si pappano spaghetti a non finire e (fatto che sarebbe stato incredibile nel 1950) includono nei menù pure i calamari, da loro precedentemente ritenuti schifosi squid, pieni d’inchiostro, con quei tentacoli e quegli occhi enormi e che noi invece, per evitare critiche, dovevamo dichiarare di usare soltanto come esca per pescare!34
Le vicende della comunità giuliana in Australia, pur con tutte le loro peculiarità, hanno perciò seguito una traiettoria in fondo non dissimile, nei suoi connotati essenziali, da quella di tante altre comunità regionali, cittadine e paesane, italiane: privazioni, umiliazioni, lavoro senza limiti e, attraverso questo, conseguimento della sicurezza economica, di uno status sociale accettabile e in alcuni casi di elevato benessere. Comuni poi, si sono rivelati i problemi delle nuove generazioni, sempre più velocemente integrate nella società australiana e inevitabilmente sempre più dimentiche dei legami con la patria d’origine. Una tendenza cui i giuliani, come molti altri emigrati, hanno cercato e cercano tuttora di reagire dando vita a un fitto reticolo di circoli, organizzazioni e patronati, e riannodando i contatti con ciò che resta della Venezia Giulia, grazie anche all’attività di associazioni come quella dei «Giuliani nel mondo» e all’appoggio di alcune istituzioni pubbliche italiane.
Esodo ed emigrazione a Trieste Tracciare un bilancio complessivo della grande crisi migratoria – in entrata e in uscita – della metà degli anni Cinquanta non è certo facile e richiede di considerare numerosi aspetti, fra loro parzialmente contraddittori. Le ricadute negative dell’emigrazione sono individuabili soprattutto nell’emorragia di manodopera qualificata e nella sua sostituzione con lavoratori generici o dotati di caratteristiche non spendibili sul mercato triestino. Ciò favorì la dequalificazione produttiva e rafforzò il ruolo del terziario, fatto soprattutto di piccoli commerci, che sarebbe in breve divenuto il nuovo asse portante dell’economia triestina. La partenza per l’oltremare di una consistente aliquota di giovani, uomini e donne, aggravò inoltre la tendenza alla stagnazione demografica e all’invecchiamento della popolazione. Tale tendenza peraltro venne largamente compensata dall’afflusso di nuovi cittadini dall’Istria, tanto che si può dire che l’Esodo permise di rimandare di alcuni
decenni il crollo demografico di una città che si era storicamente alimentata soprattutto con la sua capacità di attrazione da contesti più o meno lontani. In questo senso l’arrivo dei profughi istriani si collocò su una linea di continuità con una tendenza di lungo periodo, caratteristica della storia della Trieste moderna. La differenza sta nel fatto che, mentre nei secoli precedenti l’attrazione era stata di natura economica, nel secondo dopoguerra essa fu principalmente di natura politico-nazionale e pertanto non favorì una crescita economica ormai interrotta, ma completò il processo di omogeneizzazione nazionale della popolazione triestina. Ha scritto al riguardo Giulio Sapelli:
Con l’avvento dell’immigrazione istriana, ciò che rimaneva di quell’afflato cosmopolita, mutuato dalla cultura sovranazionale e aperto ai più vasti orizzonti, terminava a Trieste per sempre nel senso più propriamente storicoculturale dell’estinzione di un processo: il venir meno delle forze endogene della società civile che possono, con sufficiente forza, perseguire e portare il processo in questione a compimento.35
Mutando leggermente il nostro punto di osservazione, si può concludere che l’integrazione degli istriani completò quel processo di italianizzazione difensiva della città avviato a Trieste tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo di fronte alle prospettive di ribaltamento degli equilibri nazionali fra italiani e slavi. Esso era passato attraverso la scelta cruciale dell’irredentismo, era proseguito con il tentativo fallimentare di estendere con la forza l’area dell’italianità al confine orientale e si era concluso con la concentrazione a Trieste di ciò che rimaneva dell’italianità giuliana dopo la catastrofe bellica. Da questo punto di vista, la qualificazione, ripetuta infinite volte, di Trieste come «capitale dell’Esodo» si presta a esprimere con una certa forza simbolica la conclusione della parabola storica della
Trieste novecentesca, da grande città centro-europea a ultimo bastione di un’identità minacciata, nell’ambito del processo di semplificazione nazionale che per un secolo ha spazzato buona parte del Vecchio Continente.
CONCLUSIONE Alla metà degli anni Cinquanta il confine orientale d’Italia concluse dunque le sue oscillazioni. Fra le tante possibili, a divenire la linea di separazione tra Italia e Jugoslavia fu una delle più assurde: la linea Morgan, nata come semplice demarcazione tra zone di occupazione, e assolutamente irrispettosa perciò delle logiche del territorio e delle genti che lo abitavano. Ma le ragioni della guerra fredda congelarono quel tracciato disegnato in gran fretta nella primavera del 1945, trasformandolo nel nuovo confine italo-jugoslavo, solido abbastanza da resistere all’epilogo della guerra fredda e al dissolversi della stessa Jugoslavia. Al volgere di quel decennio, anche il meccanismo delle espulsioni massicce di popolazione si interruppe, sostanzialmente perché la sua funzione si era ormai esaurita. Sia nella regione autonoma FriuliVenezia Giulia che nell’Istria divenuta jugoslava, rimanevano infatti due minoranze nazionali, rispettivamente slovena e italiana, ma si trattava soltanto delle reliquie di presenze ben più consistenti. Erano minoranze la cui sopravvivenza era in buona misura legata al sostegno degli Stati che le ospitavano e delle rispettive madrepatrie, e che soltanto le ossessioni radicate in popolazioni cresciute nel timore del «nemico storico» potevano ancora percepire come pericolose per la piena nazionalizzazione degli spazi di frontiera. Non per questo le minoranze ebbero vita facile, pur vivendo in condizioni profondamente diverse. In Italia, gli sloveni poterono giovarsi dei vantaggi offerti dal sistema democratico sul piano dei diritti individuali e della possibilità di una libera espressione della loro identità nazionale. Questo favorì la formazione di un associazionismo piuttosto ricco sul terreno culturale e sportivo e la costituzione – garantita dal Memorandum di Londra – di alcune istituzioni economiche e finanziarie, prima fra tutte la Trzaska kreditna banka (banca di credito triestina), strategiche per la ricostruzione almeno parziale del tessuto economico disperso dal fascismo.
Oltre alla solidità economica, la minoranza slovena poteva contare su una classe dirigente nutrita e combattiva, in cui predominava la componente comunista forgiatasi durante la guerra di liberazione, ma che vedeva anche la presenza di elementi cattolici e liberali. A sinistra rimase a lungo assai vivo il contrasto fra la componente titoista e quella cominformista, che trovò una composizione solo nella seconda metà degli anni Sessanta, quando tutte le organizzazioni d’ispirazione marxista aderirono allo SKGZ (Unione culturale-economica slovena). L’Unione era stata creata nel 1958 in applicazione delle direttive di Kardelj, secondo il quale gli sloveni in Italia si sarebbero dovuti organizzare autonomamente sul piano economico e sociale, mentre sul versante politico non avrebbero dovuto costituire un partito etnico, bensì impegnarsi all’interno dei partiti italiani di sinistra, il PCI e il PSI. Lo SKGZ, supportato anche dall’ingente patrimonio economico jugoslavo a Trieste e Gorizia, divenne ben presto il fulcro della minoranza slovena in Italia, i cui dirigenti di orientamento comunista potevano contare su solidi appoggi presso le autorità jugoslave, e in particolare slovene.1 Quella slovena era dunque una minoranza di proporzioni limitate, 2 ma piuttosto vitale, al punto da esprimere intellettuali di rilievo internazionale;3 essa però fu costretta a subire a lungo una forte ostilità da parte della maggioranza italiana come pure delle strutture dello Stato. Per decenni infatti gli sloveni in Italia continuarono a venir percepiti da buona parte dell’opinione pubblica giuliana – ancora sotto l’influsso delle terribili vicende degli anni precedenti – come una «quinta colonna» della Jugoslavia, di cui si paventava la volontà di continuare a perseguire non meglio identificate mire espansionistiche sui territori di frontiera, e in particolare a Trieste, utilizzando lo strumento della penetrazione economica. Ogni concessione agli sloveni veniva quindi guardata con palese sospetto, come fonte di potenziali pericoli, mentre i provvedimenti di tutela garantiti dal Memorandum venivano spesso giudicati difficilmente compatibili con la volontà di preservare un’immagine integralmente italiana del capoluogo giuliano. Un’atmosfera del genere non poteva certo favorire la partecipazione di elementi sloveni al governo locale, che a Trieste si realizzò solo più di dieci anni dopo il Memorandum, a partire dal 1965, quando i primi
esponenti sloveni entrarono nelle giunte comunale e provinciale.4 Ciò poté avvenire perché – con qualche ritardo rispetto ai tempi della politica italiana – anche a Trieste aveva avuto inizio l’esperienza di centrosinistra, a opera di una nuova generazione di classe politica democristiana, che pose fra le priorità della sua strategia proprio la normalizzazione dei rapporti fra italiani e sloveni. Sempre nell’ambito della stagione del centrosinistra si colloca la costituzione della regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, che favorì l’integrazione della minoranza slovena.5 Anche nei decenni successivi, tuttavia, le comunità slovene in Italia continuarono a lamentare persistenti ritardi e lacune nell’emanazione di una normativa globale di tutela – raggiunta infine soltanto con una legge del 2001 –6 e denunciarono la diversità di trattamento fra gli sloveni delle province di Trieste e Gorizia, cui era formalmente riconosciuto lo status di minoranza, e quelli residenti in provincia di Udine. Qui infatti nella cosiddetta Slavia Veneta, vale a dire nelle valli del Natisone e del Resiano già appartenenti alla repubblica di Venezia e annesse all’Italia nel 1866, vivevano nuclei di popolazione parlanti un dialetto sloveno, le quali avevano sempre dimostrato pieno lealismo verso lo Stato italiano, che da parte sua aveva applicato una rigorosa politica di omogeneizzazione nazionale. Perciò, il fiorire a partire dagli ultimi anni della Seconda guerra mondiale di forme di coscienza nazionale slovena, accompagnate dalla comparsa di orientamenti filojugoslavi, venne prevalentemente giudicato da parte italiana non come un’evoluzione autonoma, ma come frutto di agitazione politica proveniente da oltreconfine. Ne seguirono, complice il clima di guerra fredda, numerosi provvedimenti repressivi e, anche quando la tensione venne meno, il rifiuto di estendere a quei territori le norme di tutela previste a vantaggio degli sloveni di Trieste e Gorizia.7 Assai peggio andò agli italiani rimasti a Fiume e in Istria, per almeno due ragioni. Innanzitutto la minoranza, oltre che numericamente ridotta a poco più del 10 per cento della precedente consistenza, era sparsa sul territorio a macchia di leopardo, priva di qualsiasi autonomia economica e anche di una classe dirigente legittimata a rappresentarne gli interessi. In secondo luogo, il regime jugoslavo era prodigo di riconoscimenti formali al gruppo nazionale
italiano nel suo insieme, ma del tutto alieno dal garantire i diritti dei suoi singoli componenti. Ciò che restava della presenza italiana si ridusse perciò rapidamente a una realtà assolutamente marginale: un «piccolo popolo di sciagurati, condannati all’esilio perenne in casa propria» – come ha scritto uno tra i più lucidi esponenti della successiva generazione istriana –8 di cui veniva doverosamente esibito qualche aspetto folkloristico compatibile con l’immagine plurietnica dello Stato jugoslavo, ma privo di qualsiasi possibilità di incidenza sulla vita del territorio. Gran parte delle scuole venne chiusa, con la motivazione che ormai gli italiani non c’erano più; stessa sorte ebbero i circoli, e anche le pubblicazioni in lingua italiana vennero proibite. L’Unione degli italiani dell’Istria e di Fiume perse rapidamente qualsiasi credibilità, anche perché, come oggi riconoscono gli storici dello stesso gruppo nazionale, «sembrava che uno dei compiti principali dell’UIIF fosse quello di avversare le autorità governative italiane e di difendere a spada tratta la minoranza slovena in Italia anche quando a essere calpestati non erano i suoi diritti, ma quelli degli italiani d’oltre confine».9 In una terra sottoposta a un intenso programma di slavizzazione – condotto mediante i consueti strumenti della modifica d’ufficio di toponimi e cognomi e della cancellazione del bilinguismo visivo –, le pressioni assimilative si fecero assai forti, anche attraverso il largo ricorso all’iscrizione forzata dei pochi scolari italiani alle scuole croate e a pesanti discriminazioni sul posto di lavoro.10 Un tentativo di ripresa si ebbe solo dopo il 1963, per iniziativa del nuovo presidente dell’UIIF, il rovignese Antonio Borme, che comprese la necessità vitale di ristabilire un legame con il governo italiano e vi riuscì attraverso un accordo con l’Università popolare di Trieste, che agiva per conto del governo di Roma. Pochi anni dopo, la fondazione del Centro di ricerche storiche di Rovigno dotava la minoranza italiana di un punto di riferimento insostituibile per la difesa e la valorizzazione della sua identità culturale. Tuttavia, anche i minimi segni di ripresa delle comunità italiane non venivano tollerati dalle autorità jugoslave, e sui vertici dell’Unione si abbatté la repressione, che trasse pretesto dal montare delle tensioni fra i gruppi nazionali maggioritari – croati e serbi – che minacciavano di destabilizzare il sistema. Così, agli inizi degli anni Settanta, l’avvio
della «primavera di Zagabria», vale a dire di un forte movimento nazionalista croato, ebbe in Istria tra i suoi primi obiettivi polemici proprio la funzione delle istituzioni degli italiani. In seguito, la stretta repressiva con cui Tito, dopo non poche esitazioni, rispose alle richieste politiche croate e che comportò un’ondata di arresti e di fughe in occidente, coinvolse anch’essa gli italiani.11 L’epilogo arrivò nel 1974, in corrispondenza non casuale con la fase finale delle trattative italo-jugoslave che avrebbero condotto al trattato di Osimo, e culminò con la defenestrazione di Borme e la «normalizzazione» dell’Unione, che continuò a vivacchiare sino alla fine degli anni Ottanta. La crisi della Jugoslavia comunista, la sua dissoluzione e la formazione al suo posto – vicino ai confini italiani – di due Stati liberal-democratici ma fortemente intrisi di spirito nazionale, quando non di furori nazionalisti, ha scompaginato le carte, offrendo nuove opportunità, ma creando anche non pochi problemi a entrambe le minoranze. L’indipendenza della Slovenia ha improvvisamente buttato all’aria gli equilibri che si erano formati nella minoranza slovena in Italia, la cui componente più numerosa e influente era quella di ispirazione marxista, fortemente legata, per sentire e per ragioni politicoeconomiche, al regime jugoslavo. Strettamente dipendente dal sistema di potere jugoslavo era infatti lo SKGZ, la cui posizione privilegiata all’interno dell’associazionismo sloveno dipendeva anche dal ruolo giocato nello sviluppo dei rapporti economici tra Italia e Jugoslavia. Rimasto di colpo senza interlocutori tanto a Roma – alla fine degli anni Ottanta aveva cercato appoggio presso il PSI craxiano, repentinamente travolto dalla crisi di tangentopoli – quanto a Lubiana, lo SKGZ vide in pochi anni crollare alcuni dei pilastri su cui si reggeva, come la Banca agricola di Gorizia e soprattutto la Banca di credito di Trieste, fiore all’occhiello e motore della presenza economica slovena a Trieste. 12 Al trauma si sono poi sommate le iniziali difficoltà di rapporto con la nuova realtà pluralista della Slovenia, impegnata in una difficile transizione dal socialismo al libero mercato, e nella rincorsa all’Unione Europea. Un processo, quest’ultimo, che ha avuto buon esito nel 2004, ma che ha comportato relazioni non sempre facili con il governo italiano, il quale
ha lungamente tentato – anche se con scarso successo – di accompagnare l’ingresso della Slovenia nell’Unione con la soluzione dell’annoso problema dei beni abbandonati dagli esuli in Istria.13 In Istria, l’effervescenza politica legata al crollo del comunismo e alla crisi della federazione jugoslava ha avuto come effetto immediato una netta ripresa d’iniziativa da parte dei gruppi italiani più giovani e dinamici. Inoltre, si è assistito alla «ricomparsa» di numerosi italiani che nei decenni precedenti avevano preferito dichiararsi slavi, o erano stati costretti a farlo, e a una conseguente espansione delle realtà associative italiane anche in località ove qualsiasi traccia della presenza italiana era sparita da tempo.14 Inoltre, a far da contraltare alle fortissime spinte nazionalizzatorie in senso croato, ha preso corpo una nuova identità regionale istriana, plurilingue e aperta ai contributi delle diverse componenti nazionali esistenti sul territorio, e capace anche di forme efficaci di mobilitazione politica, come il partito della Dieta democratica istriana. È anche questa, in fondo, una delle conseguenze dell’Esodo, posto che nell’invenzione di tale nuova identità locale hanno avuto parte considerevole le preoccupazioni dei gruppi etnici immigrati nel dopoguerra – serbi, montenegrini, bosniaci – di fronte alla nascita, sulle ceneri della Jugoslavia, dei nuovi «Stati per la nazione». Quella regionalista è comunque una prospettiva cui gli italiani d’Istria guardano con favore, perché ne riconosce l’autoctonia e offre loro un certo spazio politico. Gli entusiasmi iniziali suscitati dalla crisi del regime comunista si sono però ben presto scontrati con realtà assai inquietanti: prima fra tutte, il materializzarsi di un nuovo confine tra Slovenia e Croazia, non meno insensato dei precedenti, che ha diviso l’Istria, accentuando la frammentazione del gruppo nazionale italiano e complicando il problema della sua tutela. La spirale di guerra in cui la Croazia è ben presto precipitata ha inoltre determinato una situazione economica pesantissima, rafforzando ulteriormente le componenti nazionaliste. Il processo di democratizzazione della società croata si è rivelato perciò tutt’altro che lineare, e il governo di Zagabria ha mostrato a più riprese la sua ostilità ai disegni autonomistici istriani, nonché la sua propensione a limitare persino i diritti già acquisiti dal gruppo nazionale italiano. Anche i rapporti tra
Roma e Zagabria hanno vissuto fasi alterne e, com’era accaduto con la Slovenia, i negoziati fra Italia e Croazia sul nodo dei beni abbandonati non sembrano offrire grandi prospettive. Nonostante dunque il governo italiano abbia ormai da decenni approntato alcuni efficaci strumenti di intervento che mobilitano un insieme piuttosto cospicuo di risorse a favore della minoranza italiana, essi riescono con fatica a consentire la sopravvivenza delle fragili comunità dei nostri connazionali, la cui stessa esistenza continua a suscitare diffidenza presso fasce significative della pubblica opinione e delle forze politiche in Croazia e Slovenia. La ricomposizione degli equilibri sconvolti dalle guerre del Novecento sembra quindi ancora assai lontana. Fortunatamente la prospettiva dell’integrazione europea comincia a farsi strada e suscita grandi speranze, ma ci vorrà tempo prima che riesca a impregnare di sé società civili così fortemente segnate dalle tragedie del secolo scorso, che nel loro insieme hanno espulso dalla propria terra più di quattrocentomila persone appartenenti ai gruppi nazionali (italiani, sloveni e croati) storicamente insediati nella regione istro-quarnerina. Fra questi, gli italiani di Zara, di Fiume e dell’Istria hanno maturato la convinzione di aver pagato più degli altri loro connazionali il prezzo della sconfitta dell’Italia nella Seconda guerra mondiale. Cercare di stabilire gerarchie tra i dolori è in verità assai problematico nei risultati e nello spirito, ma un fatto sembra indubbio. Mentre nell’Italia uscita piegata dal conflitto, la stagione dei lutti retrocedeva velocemente nella memoria, di fronte alla spinta a ricostruire e a dare inizio finalmente a una nuova vita, sulla frontiera orientale invece, nei territori sotto il controllo jugoslavo, per gli italiani iniziava appena la stagione peggiore: la stagione dell’oppressione, del terrore, delle scelte laceranti, dell’abbandono. E oggi, a distanza di tanti anni, è difficile capire se sia stata più amara la sorte di chi, dopo lunghe odissee, si ritrovò scaraventato dall’altra parte del mondo, ovvero di coloro che si spostarono in fondo solo di pochi chilometri, perché trovarono rifugio a Trieste, e rimasero lì per mezzo secolo, condannati a guardare ogni giorno le loro case, nitide oltre un braccio di mare che sembra un lago, nelle quali non sarebbero tornati mai più.
CARTINE
1. La Venezia Giulia italiana, 1924-1941.
2. Il confine tra Italia e Jugoslavia tra le due guerre mondiali (trattati di Rapallo del 1920 e di Roma del 1924). Anche la città dalmata di Zara, fuori carta, viene annessa all’Italia.
3. Dopo l’aggressione alla Jugoslavia del 1941, l’Italia annette alcuni territori sloveni, che vanno a costituire la provincia di Lubiana, e croati, nei dintorni di Fiume e in Dalmazia (questi ultimi fuori carta).
4. Dopo l’8 settembre 1943, i tedeschi creano a cavallo delle Alpi orientali la zona di operazioni Litorale adriatico, comprendente le province italiane di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana, in cui la sovranità della RSI è di fatto sospesa.
5. Ai primi di maggio del 1945 gli jugoslavi occupano tutta la Venezia Giulia, ma dopo un mese devono abbandonare la parte orientale della regione. Il territorio viene pertanto diviso in due zone di occupazione, separate dalla linea Morgan: la zona A (comprendente anche l’enclave di Pola), retta da un governo militare alleato, e la zona B, sotto un governo militare jugoslavo.
6. Il trattato di pace di Parigi del 1947 assegna alla Jugoslavia la maggior parte della Venezia Giulia mentre all’Italia rimane solo Gorizia. È prevista anche la creazione di uno Stato cuscinetto, il Territorio Libero di Trieste, che resta però sulla carta.
7. Le due proposte alternative jugoslave del settembre 1954.
ABBREVIAZIONI ACS
Archivio centrale dello Stato – AAGGRR Affari Generali e Riservati – CR Carteggio Riservato – DGPS Direzione Generale di Pubblica Sicurezza – MI Ministero dell’Interno – PCM Presidenza del Consiglio dei Ministri – SPCP Segreteria particolare del capo della polizia
ANVGD
Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia
APC
Archivio del partito comunista italiano
AS
Arhiv Republike Slovenije – AIS Arhiv informacijske službe in protifašističnega boja (Archivio del servizio informazioni e della lotta antifascista) – ZKS Zveza komunistov Slovenije (Lega dei comunisti della Slovenia) – CK KPS Centralni komite Komunistične partije Slovenije (Comitato centrale del partito comunista sloveno) – CK ZKS Centralni komite Zveze komunistov
Slovenije (Comitato centrale della lega dei comunisti della Slovenia) ASMAE
Archivio storico diplomatico del ministero degli affari esteri – AP Affari politici
AST
Archivio di Stato di Trieste – CGG Commissariato generale del governo – PG Fondo Prefettura-Gabinetto
AVNOJ
Antifašističko vijece narodnog oslobodenja Jugoslavije (Consiglio antifascista popolare di liberazione della Jugoslavia)
CIME
Comitato intergovernativo per le migrazioni europee
CLN
Comitato di liberazione nazionale
CLNAI
Comitato di liberazione nazionale per l’alta Italia
CLNI
Comitato di liberazione nazionale dell’Istria
CLNVG
Comitato di liberazione nazionale della Venezia Giulia
CP
Comitato popolare
CPC
Comitato popolare cittadino
CPL
Comitato popolare di liberazione
CVL
Corpo volontari della libertà
DAP
Državni Arhiv u Pazinu (Archivio della città di Pisino)
DAR
Državni Arhiv u Rijeci (Archivio della città di Fiume)
DCO
Dokumenti centralnih organa KPJ, NOB i revolucija (Documenti degli ordini centrali del partito comunista jugoslavo, della lotta di liberazione nazionale e della rivoluzione)
DGPS
Direzione generale di Pubblica Sicurezza
DLR
Dokumenti liudske revolucije v Slovenij (Documenti della rivoluzione popolare slovena)
EPLJ
Esercito popolare di liberazione jugoslavo
FRUS
Foreign relations of United States
GL
Giustizia e libertà
GMA
Governo militare alleato
IRCI
Istituto regionale per la cultura istriana
IRO
International Refugee Organization
IRSMLF VG
Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia
ITO
Informazioni truppe operanti
KPS
Komunistička partija Slovenije (Partito comunista sloveno)
KPH
Komunistička partija Hrvatske (Partito comunista croato)
NKOJ
Nacionalni komite osvoboditve Jugoslavije (Comitato nazionale di liberazione della Jugoslavia)
NOVJ
Narodno osvobodilačka vojska Jugoslavije (Esercito di liberazione nazionale della Jugoslavia)
OF
Osvobodilna Fronta (Fronte di liberazione)
OK KPS
Okrozni odbor Komunistične partije Slovenije (Comitato regionale del Partito comunista sloveno)
ORJEM
Organizacija jugoslovanskih emigrantov (Organizzazione degli emigranti jugoslavi)
ORJUNA
Organizacija jugoslovanskih nacionalistov (Organizzazione dei nazionalisti jugoslavi)
OZNA
Organizacija za zaščito naroda (Organizzazione per la difesa del popolo)
PAK
Pokrajinski Arhiv Koper (Archivio regionale di Capodistria)
PCRG
Partito comunista della regione Giulia
PCTLT
Partito comunista del Territorio Libero di Trieste
PFR
Partito fascista repubblicano
PNOO
Pokrajinski narodnoosvobodilni odbor za Slovensko primorje (Comitato regionale di liberazione nazionale per il Litorale sloveno)
PNF
Partito nazionale fascista
POOF
Pokrajinski odbor Osvobodilne Fronta (Comitato regionale del fronte di liberazione)
PRO
Public Record Office – CAB Cabinet
– FO Foreign Office RPFJ
Repubblica popolare federativa di Jugoslavia
RSI
Repubblica sociale italiana
SKGZ
Slovenska kulturno-gospodarska zveza (Unione culturale – economica slovena)
SKOJ
Savez komunističke omladine Jugoslavije (Fronte della gioventù comunista jugoslava)
SNOO
Slovenski narodnoosvobodilni odbor (Comitato di liberazione nazionale sloveno)
SU
Sindacati unici
TIGR
Trst (Trieste), Istra, Gorica e Rijeka (Fiume)
TLT
Territorio Libero di Trieste
UAIS
Unione antifascista italo-slava
UDBA
Uprava državne bezbjednosti (Polizia politica)
UIIF
Unione degli italiani dell’Istria e di Fiume
UZC
Ufficio zone di confine
VCM
Verbali del consiglio dei ministri
VUJA
Vojaška uprava Jugoslavanske armade (Governo militare dell’esercito jugoslavo)
ZAVNOH
Zemaljsko antifašističko vijece narodnog oslobodjeni Hrvatske (Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia)
NOTE Capitolo 1
1 Per l’esattezza, 47.515.537 secondo il censimento del 1951 e 50.623.563 secondo quello del 1961. Fonte: Popolazione residente nei comuni, censimenti dal 1861 al 1991, circoscrizioni territoriali al 20 ottobre 1991, ISTAT, Roma 1994. 2 Il termine Venezia Giulia venne coniato nel 1863 dal glottologo goriziano Isaia Graziadio Ascoli, nell’ambito di un ragionamento generale diretto a trovare una denominazione unitaria a tutti i territori considerati ancora irredenti, ma divisi tra diverse circoscrizioni amministrative austriache. Per far ciò, Ascoli prese come base la Decima Regio Venetia et Histria, di epoca augustea, e ipotizzò l’esistenza di un’unica «Venezia», vale a dire di un’area unificata dal dialetto veneto parlato dalla popolazione di ceppo romanzo. All’interno di tale area unitaria, sarebbe stato poi possibile distinguere una «Venezia Euganea» (cioè l’attuale Veneto), già annessa al regno d’Italia, e una «Venezia Tridentina» (Tirolo meridionale) ancora irredenta, così come la «Venezia Giulia» (Litorale austriaco). In tale prospettiva, la presenza sul medesimo territorio anche di popolazioni slave appariva del tutto irrilevante, e ancora più la distinzione fra sloveni e croati, generalmente ignorata anche dagli italiani residenti nella regione. Da parte jugoslava dopo il 1918 e soprattutto durante le conferenze di pace venne
utilizzato il termine Julijska Krajina o, più frequentemente, la versione francese di Marche Julienne. Naturalmente la storiografia jugoslava e, a maggior ragione, quelle slovena e croata, distinguono la realtà del Litorale sloveno – con cui talvolta s’intende la striscia costiera attorno a Trieste e talaltra tutta la fascia di confine con la pianura friulana – da quella dell’Istria considerata croata. 3 Da questo punto di vista, la situazione istriana richiama da vicino quella verificatasi qualche decennio prima in Anatolia, dopo l’espulsione dei greci, che determinò un gravissimo impoverimento di tutta l’area; vedi al riguardo Fikret Adanir, «Lo scambio greco-turco di popolazioni nella storiografia turca», in Marina Cattaruzza, Marco Dogo, Raoul Pupo (a cura di), Esodi, trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000, pp. 89-101. 4 Sul cambio di popolazione, vedi l’esempio di Pirano analizzato da Ivica Pletikosić, Migracije v Piranu med drugosvetovno vojno in neposredno po njej, in «Annales. Anali za istrske in mediteranske študije», 20/2000, series historia et sociologia, 10, 2000, 1, pp. 217-230; sulla situazione dell’Istria dopo il 1990, vedi Stefano Lusa, Italia-Slovenia 1990-1994, Il Trillo, Pirano 2001. 5 Oltre ai cenni contenuti nel classico Ernesto Sestan, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, riedizione con aggiunta di inediti a cura e con postfazione di Giulio Cervani, Del Bianco, Udine 1997, pp. 54-58, vedi, con ampiezza di dettagli, Egidio Ivetic, La popolazione dell’Istria nell’età moderna. Lineamenti evolutivi, Unione italiana – Fiume, Università popolare di Trieste, (Centro di ricerche storiche di Rovigno, Collana degli Atti, n. 15), Trieste-Rovigno 1997.
6 Vedi al riguardo le osservazioni proposte da Roger Brubaker, I nazionalismi nell’Europa contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1998. 7 Il volontarismo della concezione della nazione diffusa tra gli italiani dell’area alto-adriatica è strettamente collegato al fatto che l’italianità adriatica ha solo in parte fondamento etnico, mentre per altra parte, soprattutto nei grandi centri urbani, è frutto di processi di assimilazione di durata secolare. Non per questo va considerata un’italianità di secondo grado, anzi: basti pensare ad alcuni fra gli eroi dell’irredentismo prima e durante la Grande Guerra come Oberdan, Brunner, Slataper, Stuparich, la cui origine etnica non era certo italica, ma che scelsero l’Italia donando per essa la vita. 8 Vedi al riguardo Marina Cattaruzza, I conflitti nazionali a Trieste nell’ambito della questione nazionale nell’impero asburgico 1850-1914, in «Quaderni giuliani di storia», X (1989), n. 1. 9 Per un testo esemplare sui modi in cui il ricordo dell’Esodo è stato mantenuto all’interno del mondo della diaspora istriana, vedi Flaminio Rocchi, L’esodo dei 350 mila Giuliani, Fiumani e Dalmati, Difesa adriatica, Roma 1990. Per un primo ampio studio di carattere scientifico, rimasto peraltro senza echi nella storiografia italiana e in quella jugoslava del tempo, vedi Cristiana Colummi, Liliana Ferrari, Gianna Nassisi, Germano Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia (d’ora in avanti IRSMLFVG), Trieste 1980; di Liliana Ferrari vedi anche la sintesi «La situazione istriana nel dopoguerra e l’esodo», presente nel volume collettaneo Claudio Tonel (a cura di), Trieste 1941-1947, Dedolibri, Trieste 1991. Per il rinnovamento degli studi dell’ultimo
decennio vedi Raoul Pupo, «L’età contemporanea», in Fulvio Salimbeni (a cura di), Istria. Storia di una regione di frontiera, Morcelliana (per conto dell’Istituto Regionale per la Cultura Istriana, d’ora in avanti IRCI), Brescia 1994; Id., L’esodo degli italiani da Zara, da Fiume e dall’Istria 1943-1956, in «Passato e presente», XV (1997), n. 40, pp. 55-81; Id., «Gli esodi e la realtà politica dal dopoguerra ad oggi», in Storia d’Italia dall’Unità ad oggi. Le regioni. Il Friuli-Venezia Giulia, vol. 1, pp. 663-758; Marina Cattaruzza, L’esodo istriano: questioni interpretative, in «Ricerche di Storia Politica», I (1999), pp. 27-48. Per una prospettiva comparativa vedi Esodi, cit. Con un taglio di storia sociale vedi Gloria Nemec, Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio. Grisignana d’Istria 1930-1960, LEG, Gorizia 1998; della medesima autrice vedi anche Un lungo spaesamento. L’esperienza dei ceti rurali nel movimento dell’esodo dalla zona B, in «Qualestoria», XXXI (2003), n. 2, pp. 46-55, nonché The Re-definition of Gender Roles and Family Structures among Istrian Peasant Families Faced with Urban Society in Trieste (1954-1964), in «Journal of Modern Italy», Special Issue Gender and the Private Sphere in Italy Since 1945, vol. 9, 1° maggio 2004. Per una rivisitazione in chiave antropologica delle contrastanti memorie di italiani, sloveni e croati vedi Pamela Ballinger, History in Exile. Memory and Identity at the Borders of the Balkans, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2003. 10 Per una panoramica sul problema vedi Marco Galeazzi, «Togliatti fra Tito e Stalin», in Roma-Belgrado. Gli anni della guerra fredda, a cura di Marco Galeazzi, Longo, Ravenna 1995, pp. 98-126; Roberto Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana. Dalla Resistenza al trattato di pace 1943-1947, Editori Riuniti, Roma 1995; Leonid Gibianskij, «L’Unione Sovietica, la Jugoslavia e Trieste», in
Giampaolo Valdevit (a cura di), La crisi di Trieste. Maggiogiugno 1945. Una revisione critica, IRSMLFVG, Trieste 1995, pp. 39-78; Id., «La questione di Trieste fra i comunisti italiani e jugoslavi», in Elena Aga Rossi e Silvio Pons (a cura di), L’altra faccia della luna. I rapporti fra PCI, PCF e Unione Sovietica, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 173-208; Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Il Mulino, Bologna 1997; Giampaolo Valdevit, «I comunisti italiani e Trieste fra guerra e dopoguerra. Un rapporto disturbato», in Id., Il dilemma Trieste. Guerra e dopoguerra in uno scenario europeo, LEG, Gorizia 1999. Vedi pure le osservazioni proposte da Nevenka Troha nel suo Komu Trst. Slovenci in italiani med dvema državama, Modrijan, Ljubljana 1999. Per maggiori dettagli sull’argomento vedi il terzo capitolo di questo libro. 11 Vedi il discorso di De Gasperi del 10 agosto 1946, in Diego de Castro, Il problema di Trieste. Genesi e sviluppi della questione giuliana in relazione agli avvenimenti internazionali (1943-1952), Cappelli, Bologna 1952, pp. 295-304; la citazione è a p. 296. 12 Sui sospetti alleati che la Jugoslavia potesse svolgere un ruolo chiave di supporto ai movimenti «sovversivi» nell’Europa occidentale vedi per esempio il «Summary of Soviet Tactics», report for November 1947, in PRO, FO 66297/14048; sui timori di un sostegno jugoslavo all’apparato paramilitare del PCI, che sarebbe potuto diventare decisivo in caso di insurrezione, vedi Pietro Di Loreto, Togliatti e la «doppiezza». Il PCI tra democrazia e insurrezione 1944-49, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 199-213, e Victor Zaslavsky, Lo stalinismo e la sinistra italiana. Dal mito dell’URSS alla fine del comunismo 1945-1991, Mondadori, Milano 2004, pp. 64-68 e 104-105.
13 Sulla politica estera italiana e la crisi jugoslava vedi la ricostruzione a più voci (Arduino Agnelli, Stefano Bianchini, Tito Favaretto, Antonio Sema, Demetrio Volcic) contenuta in Jugoslavia, che cosa può fare l’Italia, in «Limes», 1995, n. 2, pp. 259-272; Georg Meyr, Italy and the Dissolution of Yugoslavia, up to European Recognition of Croatia and Slovenia 1989-1992, in «Journal of European Integration History», X (2004), n. 1, pp. 169-177; vedi anche i ricordi dell’allora presidente della regione Friuli-Venezia Giulia in Adriano Biasutti, Friuli-Venezia Giulia: dieci anni dopo. Diario di un democristiano (1982-1991). La nuova base, Udine 2000. 14 Lo aveva notato già nel 1992 Marina Cattaruzza, nelle sue Considerazioni sulla storiografia giuliana a margine del «Trieste e gli Asburgo» di Angelo Filippuzzi, in «Quaderni giuliani di storia», XII (1992), nn. 1-2, pp. 231-32, sottolineando come, in assenza di una vera e propria storiografia nazionalista, i miti di Trieste «città italianissima» e della «minaccia slava» sono stati diffusi da «un’ampia pubblicistica e memorialistica (nazional-liberale prima, nazionalistico-fascista poi), di enorme impatto sull’opinione pubblica». 15 Vedi al riguardo, a titolo di esempio, le osservazioni di Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003, e di Nicolas Doumanis, Una faccia, una razza. Le colonie italiane nell’Egeo, Il Mulino, Bologna 2003. 16 Sulla figura di Gianni Bartoli vedi Corrado Belci, Gianni Bartoli, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992; Id., Gli uomini di De Gasperi a Trieste, Morcelliana, Brescia 1998; sulla
lotta politica a Trieste nel dopoguerra vedi Raoul Pupo, Tempi nuovi, uomini nuovi. La classe dirigente amministrativa a Trieste 1945-1965, in «Italia contemporanea», 2003, n. 231, pp. 256-277. 17 Vedi al riguardo Claudio Sambri, Una frontiera aperta. Indagine sui valichi italo-jugoslavi, Forni. Bologna 1970; Giorgio Valussi, V. Klemencic, Il confine aperto fra Italia e Jugoslavia e il ruolo delle minoranze, in «Atti della Conferenza internazionale sulle minoranze», Trieste 1974, pp. 1-17; Egidio Vrsaj, La cooperazione economica ItaliaJugoslavia, Mladika, Trieste 1970; Id., La cooperazione economica Alpe Adria, Italia-Friuli-Venezia Giulia, Jugoslavia-Slovenia, Austria-Carinzia, Mladika, Trieste 1975; Id., La Mitteleuropa 2000 e la nuova «Ostpolitik dell’Italia», Franco Angeli, Milano 1997. 18 Per i testi vedi Liborio Mattina (a cura di), Democrazia e nazione. Dibattito a Trieste tra Luciano Violante e Gianfranco Fini, Edizioni Università Trieste, Trieste 1998; vedi anche le osservazioni di Raffaele Romanelli, «Retoriche di fine millennio», in Loreto Di Nucci ed Ernesto Galli della Loggia (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 341-343. 19 La mozione, che aveva quale primo firmatario il capogruppo della DC Giuseppe Pangher, venne approvata il 24 settembre 1990. Per il testo completo e le dichiarazioni di voto vedi Foibe: politica e storia, numero monografico dei «Quaderni del centro studi Ezio Vanoni», Nuova Serie, V (1990), nn. 2021. 20
Il testo del rapporto finale è stato pubblicato in Italia in «Qualestoria», XXVIII (2000), n. 2, pp. 145-167; «Storia contemporanea in Friuli», XXX (2000), n. 31, pp. 9-35; «Tempi e cultura», V (2001), n. 9, nell’allegato Dieci anni per un documento, nonché dall’Associazione-Združenje Concordia et pax, in «Atti», 2003, n. 1. 21 Vedi in particolare i programmi operativi INTERREG ItaliaSlovenia, nel cui ambito è già stato condotto congiuntamente dal Dipartimento di scienze geografiche e storiche dell’Università di Trieste e dal Centro di ricerche scientifiche della Repubblica di Slovenia di Capodistria uno studio preliminare dal titolo Spostamenti di popolazione e trasformazioni sociali nella provincia di Trieste e nel distretto di Capodistria nel secondo dopoguerra, che dovrebbe proseguire anche nei prossimi anni, mentre si sta avviando un nuovo progetto dal titolo Dalla terra divisa al confine-ponte. Divisione e collaborazione nelle aree di confine tra Italia e Jugoslavia nel secondo dopoguerra (1945-1965), che vede come partner l’IRSMLFVG, il Consorzio culturale del Monfalconese, la Biblioteca nazionale slovena e degli studi di Trieste, l’Istituto Sloveno di Ricerche di Gorizia, l’Università del Litorale-Centro di ricerche scientifiche della Repubblica di Slovenia di Capodistria, il Museo di Nova Gorica, il Politecnico di Nova Gorica e l’Istituto per la storia contemporanea di Lubiana. 22 Vedi la Legge n. 92 del 30 marzo 2004.
Capitolo 2
1
Sui contenuti razzisti del nazionalismo antislavo ha attirato l’attenzione Enzo Collotti, nel suo «Sul razzismo antislavo», in Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, a cura di Alberto Burgio, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 33-61; vedi anche Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo, cit. 2 Il comune di Postumia passò dai 4268 abitanti del 1910, ai 4836 del 1921 e agli 8585 del 1936; nello stesso periodo gli italiani crebbero da 6 a 775 e poi a 4458. Il comune di Villa del Nevoso passò dai 4457 abitanti del 1910, ai 4548 del 1921 e ai 7153 del 1936; nello stesso periodo gli italiani passarono da 38 a 4 e poi a 2501. I dati sono tratti da Andrea Matossi, Francesca Krasna, Il «Censimento riservato» del 1939 sulla popolazione alloglotta della Venezia Giulia, in «Quaderni del centro studi Ezio Vanoni», Nuova Serie, V (1998), nn. 3-4, rispettivamente alle pp. 34 e 28. Vedi anche Carlo Schiffrer, I centri slavi degli altipiani carsici triestini e la loro evoluzione ad opera degli italiani, in «Trieste», 1954, ora ripubblicato in Carlo Schiffrer, La questione etnica ai confini orientali d’Italia, antologia a cura di Fulvia Verani, Edizioni Italo Svevo, Trieste 1990, pp. 163-179. 3 Carlo Schiffrer, L’esodo dalle terre adriatiche, in «Trieste», 1958, ora ripubblicato in Carlo Schiffrer, La questione etnica, cit., pp. 57-58. 4 Più precisamente, ai sensi di quanto previsto dal trattato di pace vennero presentate 22.359 domande di opzione da parte di soggetti provenienti dai territori incorporati nella Slovenia; di queste, ne vennero accolte 21.322. Vedi in proposito Maruša Zagradnik, Optiranje za italijansko državljanstvo s priključenega ozemlja, in «Prispevki za novejšo zgodovino», XI (1996), pp. 95-107.
5 Il problema dell’«autoctonia» delle popolazioni residenti nell’area giuliana ha intrigato per lungo tempo studiosi, polemisti ed esponenti politici italiani e slavi. Senza pretendere quindi di poterlo qui esaurire, basti notare che per affrontarlo in termini di buon senso, andrebbero introdotte alcune distinzioni. Ben diverso infatti appare il contesto delle realtà demograficamente più statiche, in cui l’immissione di gruppi dall’esterno poteva modificare sensibilmente le dinamiche delle comunità, dalla situazione di centri come Trieste e, in misura minore, Fiume, che si erano storicamente alimentati proprio per via di immigrazione. Inoltre, andrebbero valutati con attenzione i diversi effetti degli apporti esterni nei territori in cui precedentemente mancava pressoché ogni traccia di un altro gruppo nazionale – come per esempio nei centri del Carso triestino e goriziano, dove la presenza italiana dopo il 1918 ebbe un carattere marcatamente «coloniale» – e in quelli invece in cui l’immigrazione da fuori regione andava a irrobustire nuclei nazionali da tempo pre-esistenti, mescolando rapidamente i nuovi venuti ai connazionali indigeni. È questo il caso dell’immigrazione slovena a Trieste negli ultimi decenni dell’amministrazione asburgica, e di quella italiana a Trieste, Pola, Fiume e nei borghi istriani tra le due guerre. Sul piano storico, nei confronti del problema dell’«autoctonia», i nazionalisti italiani e slavi (sloveni e croati) hanno mostrato un atteggiamento assai simile, a livello sia di impianto teorico che di interventi pratici. Entrambi infatti – ma a danno esclusivo della parte avversa, si capisce – hanno in genere rifiutato di riconoscere la legittimità nazionale della presenza degli immigrati più recenti, considerandola in blocco quale frutto di politiche statali miranti a modificare artificialmente l’assetto etnico del territorio. Così, dopo la Prima guerra mondiale i nazionalisti giuliani denunciarono la presenza di migliaia di slavi affluiti a Trieste nei decenni precedenti il conflitto e impiegati soprattutto nelle amministrazioni dello Stato, ritenendola la controprova della volontà del governo asburgico di inquinare l’italianità della città. Specularmente, nel secondo dopoguerra
uno dei motivi costanti della propaganda jugoslava fu la denuncia della politica «colonizzatrice» italiana, materializzatasi nell’immigrazione nella Venezia Giulia di decine di migliaia – si disse 40.000 – di «regnicoli», cioè elementi italiani provenienti da altre regioni d’Italia. Alle denunce seguirono i fatti, vale a dire il rifiuto di tener conto di tali presenze nei censimenti eseguiti nei dopoguerra, e forti iniziative per l’espulsione degli allogeni. 6 Carlo Schiffrer, Sguardo storico sui rapporti fra italiani e slavi nella Venezia Giulia, 1946, ripubblicato in Franco Cecotti e Raoul Pupo (a cura di), Il confine orientale. Una storia rimossa, in «I viaggi di Erodoto», XII (1998), n. 34, pp. 132-149. 7 Marina Cattaruzza, Italiani e sloveni a Trieste: la formazione dell’identità nazionale, in Ead., Trieste nell’Ottocento. Le trasformazioni di una società civile, Del Bianco, Udine 1995, pp. 119-165. 8 Vedi al riguardo le osservazioni proposte da Vanni D’Alessio nel suo Il cuore conteso. Il nazionalismo in una comunità multietnica. L’Istria asburgica, Filema, Napoli 2003. 9 Nel 1910 su un totale di 404.309 abitanti dell’Istria, risultavano 147.416 italiani, 55.365 sloveni e 168.116 croati. I dati sono tratti da Guerrino Perselli, I censimenti della popolazione dell’Istria, con Fiume e Trieste, e di alcune città della Dalmazia tra il 1850 e il 1936, Unione italiana, Fiume, Università popolare di Trieste, Trieste-Rovigno 1993, p. 469. 10 Per l’Istria vedi Silva Bon Gherardi, Lucio Lubiana, Anna Millo, Lorena Vanello, Anna Vinci, L’Istria fra le due guerre, Ediesse, Roma 1985; Fulvio Salimbeni (a cura di), Istria.
Storia di una regione di frontiera, Morcelliana, Brescia 1994; Friuli e Venezia Giulia. Storia del ’900, LEG, Gorizia 1997. 11 Sul meccanismo economico che generò e sostenne lo sviluppo di Trieste a partire dal XVIII secolo, vedi Elio Apih, Trieste, Laterza, Roma-Bari 1988; Roberto Finzi e Giovanni Panjek (a cura di), Storia economica e sociale di Trieste, vol. I, La città dei gruppi 1719-1918, Lint, Trieste 2001; vol. II, La città dei traffici, Lint, Trieste 2003. 12 Angelo Vivante, Irredentismo adriatico. Contributo alla discussione sui rapporti austro-italiani, edizioni della «Voce», Firenze 1912. 13 Mario Alberti, Trieste e la sua fisiologia economica, Associazione fra le società italiane per azioni, Roma 1916; Id., Adriatico e Mediterraneo, Rava, Milano 1915. Vedi al riguardo le osservazioni di Giulio Sapelli, Trieste italiana. Mito e destino economico, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 17-23. 14 La lettera dell’8 novembre 1940 è conservata in AST, fondo Prefettura-Gabinetto (d’ora in avanti PG), 1923-1952, b. 433. 15 La citazione è tratta dal memorandum redatto l’8 novembre 1940 da Antonio Cosulich, massimo esponente dell’imprenditoria giuliana, presidente del consiglio provinciale delle corporazioni e vicepresidente della Finmare, pubblicato in Raoul Pupo, Un porto per la Grande Germania, in «Qualestoria», XX (1992), n. 1, pp. 117-137; sull’argomento vedi anche Giulio Sapelli, Trieste italiana, cit., pp. 143-167. 16
Per la definizione di «governo del sottosviluppo» vedi Silva Bon Gherardi, Lucio Lubiana, Anna Millo, Lorena Vanello, Anna Vinci, L’Istria fra le due guerre, cit., p. 81. 17 Sulla figura di Francesco Giunta e, più in generale, sul «fascismo di confine» vedi, tra le opere più recenti, Anna Vinci, «Il fascismo al confine orientale», in Storia d’Italia dall’Unità ad oggi. Il Friuli-Venezia Giulia, I, Einaudi, Torino 2002, pp. 377-513; Dario Mattiussi, Il Partito nazionale fascista a Trieste. Uomini e organizzazioni del potere, IRSMLFVG, Trieste 2002; Almerigo Apollonio, Dagli Asburgo a Mussolini. Venezia Giulia 1918-1922, IRCI – LEG, Gorizia 2001. 18 Per una ricostruzione generale degli eventi vedi Carlo Schiffrer, Fascisti, militari all’assalto del Balkan, in «Trieste», 1963, n. 55, pp. 1-12; Milica Kacin Wohinz, L’incendio del «Narodni Dom» a Triste, (traduzione italiana di un saggio del 1972), in «Qualestoria», XXVIII (2000), n. 1, pp. 89-99; Almerigo Apollonio, Dagli Asburgo a Mussolini, cit., pp. 290-312. 19 Sulla politica seguita a Trieste dal principe di Hohenlohe, vedi Ennio Maserati, In tema d’italianità di frontiera: l’irredentismo adriatico e l’ultima Austria, in «Clio», XXXVIII (2002), n. 2, pp. 379-385. 20 Già Gaetano Salvemini – come riferisce Schiffrer in Fascisti, militari, cit., p. 12 – si era chiesto se l’incendio del Balkan non fosse stato voluto da fascisti e militari per sabotare le trattative italo-jugoslave; più recentemente Almerigo Apollonio nel suo Dagli Asburgo a Mussolini, cit., p. 291, sottolineando le contraddizioni della versione ufficiale dei fatti, ha ipotizzato che l’azione fosse stata voluta non tanto per bloccare le trattative,
quanto per ammonire il governo «sugli obiettivi massimi da raggiungere». 21 Sulla complessa materia, vedi, oltre al già citato saggio di Anna Vinci, anche Andrea Matossi, Francesca Krasna, Il «Censimento riservato» del 1939, cit.; Carlo Donato, Pio Nodari, L’emigrazione giuliana nel mondo: note introduttive, in «Quaderni del centro studi Ezio Vanoni», Nuova Serie, II (1995), n. 3-4; Aleksej Kalc, L’emigrazione slovena e croata dalla Venezia Giulia fra le due guerre ed il suo ruolo politico, in «Annales», VI (1996), n. 8; Id., «L’emigrazione slovena e croata» in Friuli e Venezia Giulia. Storia del ’900, cit., pp. 535-550; Piero Purini, L’emigrazione non italiana dalla Venezia Giulia dopo la prima guerra mondiale, in «Qualestoria», XXVIII (2000), n. 1, pp. 33-53; Egon Pelikan, Il censimento segreto ossia la statistica redatta nell’anno 1933 dal clero del Litorale riunito nel Concilio dei sacerdoti di San Paolo per la Venezia Giulia, in «Annales», X (2000), pp. 191-202. 22 Ciò è quanto accadde al compositore e direttore di coro Alojz Bratuz, che per aver osato organizzare un coro natalizio nella chiesa di Piedimonte (Podgora), fu costretto a bere olio lubrificante e ne morì fra atroci sofferenze. 23 Sull’abolizione della possibilità di ricevere l’insegnamento nella madrelingua in ore soprannumerarie e la cessazione di ogni forma di insegnamento in lingua slovena e croata vedi Elio Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), Laterza, Bari 1966, p. 278. 24 Angelo Ara, «Scuola e minoranze nazionali nella Venezia Giulia tra le due guerre mondiali», in Vittorio Peri (a cura di), Le «minoranze» nella Mitteleuropa (1900-1945). Identità
e confronti, Istituto per gli incontri mitteleuropei, Gorizia 1991, pp. 209-226; la citazione è a p. 221. 25 Sulla complessa problematica vedi, fra gli altri, Franco Belci, Chiesa e fascismo a Trieste. Storia di un vescovo solo, in «Qualestoria» XIII (1985), n. 3; Paolo Blasina, Vescovo e clero nella diocesi di Trieste-Capodistria 1938-1945, IRSMLFVG, Trieste 1993; Guido Botteri (a cura di), Cattolici a Trieste, Lint, Trieste 2003; dello stesso Botteri vedi anche Luigi Fogar, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1995. 26 Lorena Vanello, «Casse rurali e campagne istriane (19271937)», in L’Istria fra le due guerre, cit., pp. 193 e 222. 27 Per una panoramica dei progetti estremi di snazionalizzazione vedi Milica Kacin Wohinz, I programmi di snazionalizzazione degli sloveni e croati nella Venezia Giulia, in «Storia contemporanea in Friuli», XVIII, (1988), n. 19, pp. 9-33. Più dettagliatamente vedi Livio Ragusin Righi, Politica di confine, Mutilati e Combattenti, Trieste 1929, i memoriali redatti da Italo Sauro, citati in Teodoro Sala, Programmi di snazionalizzazione del «Fascismo di frontiera» (1938-1939), in «Bollettino dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia», II (1974), n. 2, pp. 24-30, nonché il rapporto dal titolo «Assimilazione allogeni», inviato dalla Regia prefettura dell’Istria al gabinetto del ministero dell’Interno il 22 febbraio 1939 e pubblicato in Teodoro Sala, Un censimento riservato del governo fascista sugli «alloglotti»; proposta per l’assimilazione degli «allogeni» nella provincia dell’Istria, in «Bollettino dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia», I (1973), n. 1, pp. 17-19. 28
Lorena Vanello, Casse rurali e campagne istriane, cit., p. 218; Almerigo Apollonio, Venezia Giulia e fascismo 19221935. Una società post-asburgica negli anni di consolidamento della dittatura mussoliniana, IRCI – LEG, Gorizia 2004, p. 217. 29 Con il RD 7 aprile 1927 vennero estese alla Venezia Giulia e alla provincia di Zara le disposizioni del RD 10 gennaio 1926, n. 17, originariamente emanato per il Tirolo meridionale. Seguì poi il regolamento esecutivo del 5 agosto 1928. 30 Almerigo Apollonio, Venezia Giulia e fascismo, cit., p. 192, parla di una «corsa al cambiamento dei cognomi non italiani», così diffusa a Trieste da porre in imbarazzo le autorità di occupazione. 31 Cit. in Adriano Andri, Giulio Mellinato, Scuola e Confine, IRSMLFVG, Trieste 1994, p. 185. 32 Vedi la sentenza della Corte di Appello di Trieste del 15 dicembre 1925 contro G. Modrijan, che aveva presentato ricorso contro la decisione dell’ufficio dell’anagrafe di non accettare per il suo figliolo il nome Gorazd, ma di italianizzarlo in Gerardo senza il consenso del genitore, riportata alle pp. 150-152 in Lavo Čermelj, Sloveni e croati in Italia tra le due guerre, a cura dello Slovenski raziskovalni inštitut, Editoriale Stampa Triestina, Trieste 1974 (versione italiana aggiornata dell’originale in lingua inglese Life and Death Struggle of a Nation Minority. The Jugoslavs in Italy, Associazione per la Società delle Nazioni, Lubiana 1936). 33 Ibid., p. 145. 34
Marco Coslovich, Storia di Savina, Mursia, Milano 2000, pp. 16-17. 35 Elio Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), cit., pp. 283-285 e 349-352. 36 Interventista democratico, Francesco Luigi Ferrari divenne poi uno degli esponenti più rilevanti del partito popolare su posizioni di grande intransigenza antifascista e fu quindi nel 1926 costretto all’esilio, prima in Belgio e poi in Francia, dove morì nel 1933. 37 La citazione è tratta dalla relazione sulla situazione politica della Venezia Giulia inviata il 31 dicembre 1918 dal capitano Ferrari, a quel tempo aggregato all’ufficio Informazioni Truppe Operanti (ITO), al comando della terza armata, e pubblicata in Paolo Ziller, Giuliani, istriani e trentini dall’Impero asburgico al Regno d’Italia. Società, istituzioni e rapporti etnici, Del Bianco, Udine 1997, p. 110. 38 Vedi per esempio Virginio Gayda, La Jugoslavia contro l’Italia (documenti e rivelazioni), «Il Giornale d’Italia», Roma 1934. 39 Sui conflitti nazionali a Pisino in epoca asburgica vedi Vanni D’Alessio, Il cuore conteso. Il nazionalismo in una comunità multietnica. L’Istria asburgica, Filema, Napoli 2003. 40 I documenti sono conservati in DAP, KCP, b. 11. 41 Ervin Dolenc, Naši Fašisti, in «Prispevki za novejšo zgodovino», XL (2000), n. 1, pp. 113-122; la comunità scelta
come campione nella ricerca è quella di Senosecchia (Senozeče), località carsica che fra le due guerre si trovava in provincia di Trieste. 42 Vedi al riguardo Lavo Čermelj, Sloveni e croati in Italia tra le due guerre, cit., p. 174; lo stesso Čermelj fu probabilmente l’autore della stima, poi largamente ripresa in sede politica e storiografica, come evidenziato da Aleksej Kalc in L’emigrazione slovena e croata dalla Venezia Giulia fra le due guerre, cit. 43 Vedi al riguardo le opere già citate alla nota 20, che costituiscono anche la base dalla quale sono state tratte le informazioni sull’emigrazione slovena e croata presentate nelle pagine seguenti. 44 Piero Purini, L’emigrazione non italiana, cit., pp. 52-53. 45 Più esattamente, a Trieste, nel 1910 si contavano 56.916 sloveni e 2403 croati (nel censimento del 1921 i croati sparirono), a Gorizia 24.311 sloveni e 92 croati (anch’essi scomparsi nel 1921), a Pola 16.431 croati e 3510 sloveni, che nel 1921 calarono rispettivamente a 5155 e 265, a Fiume 13.351 croati e 2336 sloveni, che passarono rispettivamente a 4970 e 1674. 46 Vedi al riguardo Carlo Schiffrer, La Venezia Giulia. Saggio di una carta dei limiti nazionali italo-jugoslavi, Stabilimento Tipografico Nazionale, Roma 1946, ripubblicato in Carlo Schiffrer, La questione etnica, cit., nonché in Franco Cecotti e Raoul Pupo (a cura di), Il confine orientale. Una storia rimossa, cit. 47
Franco Cecotti (a cura di), «Un esilio che non ha pari». 1914-1918. Profughi, internati ed emigrati di Trieste, dell’Isontino e dell’Istria, IRSMLFVG – LEG Gorizia 2001. 48 Ibidem. 49 Di particolare rilievo nell’orientare in senso antislavo l’azione delle autorità fu la funzione svolta dagli uffici Informazioni Truppe Operanti (ITO) costituiti nel corso del conflitto per analizzare le informazioni raccolte sul nemico, nonché per gestire la propaganda e la contropropaganda nelle grandi unità. Tali uffici, nei quali era nutrita la presenza di volontari irredenti, nel dopoguerra svolsero una funzione essenziale di raccordo tra gli ufficiali nazionalisti, l’associazionismo patriottico e gli ambienti antisocialisti triestini e istriani, collaborando attivamente ai progetti di ribellismo militare culminati nell’impresa di Fiume. Vedi al riguardo Angelo Visintin, L’Italia a Trieste. L’operato del governo miliare italiano nella Venezia Giulia 1918-19, IRSMLFVG – LEG, Gorizia 2000, pp. 86-91, nonché Almerigo Apollonio, Dagli Asburgo a Mussolini, cit., pp. 112-119, che riferisce anche sulle attività destabilizzanti condotte dagli uffici ITO nei paesi vicini. 50 Almerigo Apollonio, Dagli Asburgo a Mussolini, cit., pp. 99101. 51 Testimonianza di Hrvoje Defar, in Talianska uprava na Hrvatskom prostoru i egzodus Hrvata (1918-1943), Hrvatski institut za povijest, društvo «Egzodus istarskih Hrvata», Zagreb 2001, pp. 787-790. 52 Testimonianza di Rosa Lah Cesar, conservata in Narodna in študijska knjižnica Trst – Odsek za zgodovino, IZS, Trakovi, 1. 53
Testimonianza di Viktor Bogatec di Santa Croce, emigrato con la moglie in Argentina nel 1929 e attivo nella sezione italiana del partito comunista argentino insieme ad Albino Kralj e Franz Stoka. Intervista del 21 marzo 1988, Narodna in študijska knjižnica Trst – Odsek za zgodovino, IZS, Trakovi, 1. 54 Testimonianza di Dušan Tumpić, in Talianska uprava na Hrvatskom prostoru i egzodus Hrvata, cit., pp. 783-786. 55 Marta Verginella, Storie di emigranti e spaesati sloveni, in «Qualestoria», XXXI (2003), n. 2, pp. 43-46, che offre anche un quadro assai problematico dei rapporti tra i profughi dal Litorale e la popolazione dell’entroterra sloveno, e soprattutto di Lubiana, assai diffidente nei confronti dei triestini. 56 Vedi al riguardo Milica Kacin Wohinz, Il primo antifascismo armato. Il movimento nazional-rivoluzionario degli sloveni e croati in Italia, in «Storia contemporanea in Friuli», XVIII (1988), n. 19, pp. 35-66. 57 Il fascismo e il martirio delle minoranze, Edizioni di Giustizia e Libertà, Italia, novembre 1933. 58 Vedi al riguardo Aldo Garosci, «L’attentato di Bruxelles», in Ernesto Rossi (a cura di), No al fascismo, Einaudi, Torino 1957, pp. 127-158. 59 Cfr. Milica Kacin Wohinz, Il primo antifascismo armato, cit., pp. 47-48; Almerigo Apollonio, Venezia Giulia e fascismo, cit., pp. 192-194. 60 Actor spectator (Carlo Schiffrer), La fucilazione di Basovizza, in «Umana», III (1954), p. 22.
61 Elio Apih, Italia, fascismo e antifascismo, cit., p. 312; Almerigo Apollonio, Venezia Giulia e fascismo, cit., pp. 194196. 62 I fucilati furono Ferdo Bidovec, Fran Marušič, Zvonimir Miloš, Alojz Valenčič. 63 Vedi al riguardo le opere già citate alle note 59 e 61. 64 Si tratta del libro di Lavo Čermelj, già citato alla nota 31. 65 Vedi Aleksej Kalc, L’emigrazione slovena e croata dalla Venezia Giulia fra le due guerre, cit., p. 40. 66 Sugli ustaša in Italia vedi Erik Gobetti, Dittatore per caso. Un piccolo duce protetto dall’Italia fascista, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2001; Pasquale Iuso, Il fascismo e gli Ustaša. Storia del separatismo croato in Italia, Gangemi, Roma 1999. 67 Per i piani di invasione effettivamente predisposti da parte italiana nel 1940, vedi Teodoro Zurlo, «Emergenza E». Studi e predisposizioni militari alla frontiera giulia nel periodo luglio-ottobre 1940, in Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, «Memorie storiche militari», 1979, pp. 369-426. 68 Cfr. Tone Ferenc, Akcije organizacije TIGR v Austriji in Haliji spomladi 1940, Borec, Ljubljana 1977. 69
Vedi al riguardo Alfredo Breccia, Jugoslavia 1939-1941. Diplomazia della neutralità, Giuffrè, Milano 1978. 70 Elio Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia, cit., p. 304. 71 «Lo Stato operaio», n. 11, 12, 1930. 72 Elio Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia, cit., p. 346. 73 Ibidem. 74 Vedi sinteticamente Milica Kacin Wohinz, Jože Pirjeveč, Storia degli sloveni in Italia 1866-1998, Marsilio, Venezia 1998, pp. 58-66. 75 Sull’attacco alla Jugoslavia e la creazione della provincia di Lubiana vedi Marco Cuzzi, L’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943), Stato maggiore dell’esercito, Ufficio storico, Roma 1998, e Tone Ferenc, La provincia «italiana» di Lubiana. Documenti 1941-1943, IRSMLFVG, Udine 1994. 76 Milica Kacin Wohinz, «Primorska v začetku druge svetovne vojne. Il Litorale sloveno agli inizi della seconda guerra mondiale», in Milica Kacin Wohinz, Vid Vremec, Lida Turk, Posebno sodišče. Drugi tržaški proces. Tribunale speciale. Il secondo processo di Trieste, Knjižnica Pinko Tomažič in tovariši, Slovensko kulturno društvo Tabor OpcineTrst, Biblioteca Pinko Tomažič e compagni, Associazione slovena di cultura Tabor Opicina-Trieste, Opicina-Trieste 2001. 77
Su tutta la vicenda vedi la ricostruzione di Joze Pirjevec, La fase finale della violenza fascista. I retroscena del Processo Tomažič, in «Qualestoria», X (1982), n. 2, pp. 7594, nonché le osservazioni di Marta Verginella, «Il processo Tomažič», in Marco Puppini, Marta Verginella, Ariella Verrocchio, Dal processo Zaniboni al processo Tomažič. Il tribunale di Mussolini e il confine orientale (19271941), IRSMLFVG, Gaspari Editore, Udine 2003, pp. 103-142.
Capitolo 3
1 Elio Apih, Trieste, cit., p. 138. 2 Silva Bon, Gli ebrei a Trieste 1930-1945. Identità, persecuzioni, risposte, IRSMLFVG – LEG, Gorizia 2000; Ellen Ginzburg Migliorino, «Note sugli esiti dell’applicazione delle leggi razziali a Trieste (1938-1942)», in Trieste in guerra, cit.; Ead., L’offesa della razza. Antisemitismo e leggi razziali in Italia e nella Venezia Giulia, in «Qualestoria», XVII (1989), n. 1. 3 Teodoro Sala, «Opinione pubblica e lotta politica a Trieste dalla “non belligeranza” alla “guerra parallella”», in Fascismo, guerra, resistenza. Lotte politiche e sociali nel FriuliVenezia Giulia 1918-1945, Edizioni Italo Svevo, Trieste 1969; Raoul Pupo, «Lo spirito pubblico rimane depresso», in Anna Vinci (a cura di), Trieste in guerra. Gli anni 19381943, IRSMCFVG, Trieste 1992. 4
Relazione fiduciaria scritta a Gorizia in data 6 settembre 1940, ma riferita anche a Trieste, in ACS, MI, DGPS, CR 1941, b. 58. 5 Vedi al riguardo la relazione del questore di Gorizia del 27 giugno 1941, in ACS, MI DGPS, AAGGRR, 1941, b. 27, da confrontare con F. Semi, Testimonianze di un combattente, in «La Lettura», 21 febbraio 1946: mentre gli eventi bellici non procurarono alcun danno alle persone e alle proprietà, numerose lamentele si ebbero invece per furti e saccheggi perpetrati dalle truppe nelle abitazioni incustodite; per quanto riguarda Fiume vedi invece Mario Dassovich, Proiettili in canna, Lint, Trieste 1995, pp. 19-23. 6 Relazione settimanale del questore di data 8 aprile 1941, in ACS, MI, SPCP, 1940-1943, b. 2. 7 Per un inquadramento generale del problema delle occupazioni italiane durante il secondo conflitto mondiale, con ampi riferimenti alla situazione jugoslava, vedi Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo, cit.; sulla situazione nei Balcani vedi in particolare Brunello Mantelli (a cura di), L’Italia fascista occupante: lo Scacchiere Balcanico, numero monografico di «Qualestoria», XXX (2002), n. 1. 8 Galliano Fogar, Trieste in guerra 1940-1945. Società e resistenza, cit., p. 35; Antun Giron, Taljanska vrela o tragediji u Podhum 1942 godine, in «Grobnicki Zbornik», 1966, n.4, pp. 64-75. 9 Per una panoramica sui campi d’internamento italiani vedi Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino 2004; sui campi per sloveni e croati vedi Tone Ferenc, Rab-Arbe-Arbissima, Confinamenti-
rastrellamenti-internamenti nella provincia di Lubiana. 1941-1943. Documenti, Inštitut za novejšo zgodovino, Lubiana 2000; La deportazione dei civili sloveni e croati nei campi di concentramento italiani: 1942-1943. I campi del confine orientale, a cura di Boris Gombač e Dario Mattiussi, Centro isontino di ricerca e documentazione storica e sociale «Leopoldo Gasperini», Gorizia 2004, con ricco corredo iconografico; sul campo di Gonars vedi in particolare Alessandra Kersevan, Un campo di concentramento fascista. Gonars 1942-1943, Kappa Vu, Udine 2003. 10 Relazione del questore di Gorizia, gennaio-febbraio 1943, in ACS, MI, SPCP 1940-1943, b. 11. 11 Relazione del questore di Trieste datata 28 febbraio 1943, in ACS, MI, SPCP 1940-1943, b. 11. 12 Vedi al riguardo i riferimenti contenuti in Galliano Fogar, Sotto l’occupazione nazista nelle province orientali, Del Bianco, Udine 1968, 2a edizione riveduta e corretta; e Id., Trieste in guerra 1940-1945. Società e Resistenza, IRSMLFVG, Trieste 1999. 13 Vedi al riguardo la particolareggiata ricostruzione di Ljubo Drndić, Le armi e la libertà dell’Istria 1941-1943, EDIT, Fiume 1981; l’autore, nato a Pisino nel 1919, dopo l’avvento del fascismo fu costretto a emigrare in Jugoslavia con la famiglia; fu inviato in Istria nel dicembre del 1941 dal partito comunista della Croazia e divenne uno dei principali organizzatori del movimento di liberazione. 14 Relazione del prefetto di Pola di data 2 gennaio 1943, in ACS, DGPS, 1944-45, RSI, Regia prefettura di Pola. 15
DAP, fondo R. Prefettura di Pola, b. 359-1943. 16 Relazione del questore di data 25 giugno 1943, cit.; relazioni mensili dei podestà e commissari prefettizi, cit. 17 Sulla nascita delle organizzazioni clandestine in Istria durante la guerra, fondamentale rimane l’opera di Ljubo Drndič, Le armi e la libertà dell’Istria, cit., pp. 319-363. 18 Vedi al riguardo Nevenka Troha, Il movimento di liberazione sloveno e i confini occidentali della Slovenia, in «Qualestoria», XXXI (2003), n. 2, p. 112. 19 Marina Cattaruzza, «L’esodo istriano: questioni interpretative», in Esodi, Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, cit., p. 223; nel suo saggio, alle cui acquisizioni si fa qui largo riferimento, l’autrice ha posto l’accento sulle implicazioni che tale strategia non poteva non avere per i rapporti fra i due movimenti di liberazione. 20 All’interno della ricchissima bibliografia sull’argomento vedi in particolare Galliano Fogar, Sotto l’occupazione nazista nelle province orientali, cit.; Gaetano La Perna, PolaIstria-Fiume 1943-1945. La lenta agonia di un lembo d’Italia, Mursia, Milano 1993, pp. 178-197; Giampaolo Valdevit (a cura di), Foibe. Il peso del passato, Venezia Giulia 1943-1945, Marsilio, Venezia 1997; Raoul Pupo, Guerra e dopoguerra al confine orientale d’Italia (1938-1956), Del Bianco, Udine 1999, pp. 107-137; Raoul Pupo e Roberto Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003. Molte informazioni, anche se non sempre complete e contestualizzate, sono presenti in Luigi Papo, L’Istria e le sue foibe, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1999.
21 Relazione del professor Urban al CLNAI del luglio 1944, in A.I. V/242. 22 Giampaolo Valdevit, «Foibe: l’eredità della sconfitta», in Id., Foibe. Il peso del passato, cit., p. 20. 23 Particolarmente noto, e divenuto uno dei simboli delle sofferenze patite dagli italiani dell’Istria, è il caso della studentessa ventiquattrenne di Santa Domenica di Visinada, Norma Cossetto, a lungo seviziata e poi gettata nella foiba di Villa Surani. 24 Sull’episodio vedi Almerigo Apollonio, Dagli Asburgo a Mussolini, cit., pp. 380-384. 25 Assai importante al riguardo appare la relazione sulla situazione istriana inviata nella seconda metà di ottobre del 1943 dal capitano Zvonko Babić-Žulje al Centro informativo regionale croato per il Litorale croato e l’Istria, pubblicata da Antun Giron in «Vjesnik Historijskog arhiva Istre v Pazinu», CCVI, Pazin-Rijeka 1983, pp. 159-163; la parte cruciale del testo è stata pubblicata in lingua italiana in Raoul Pupo e Roberto Spazzali, Foibe, cit., pp. 58-61. 26 Numerose informazioni sugli episodi più foschi dell’autunno 1943 sono contenute nella documentazione conservata presso l’ASMAE, per una presentazione della quale vedi Roberto Spazzali, Nuove fonti sul problema delle foibe, in «Qualestoria», XX (1992), 1, pp. 139-165, nonché presso alcuni archivi privati, come l’archivio Papo depositato presso la fondazione Ugo Spirito. Beninteso, non tutte le testimonianze in parola hanno subìto un vaglio critico, ma nel loro insieme illustrano sufficientemente il clima dell’epoca. Prezioso, da
questo punto di vista, è anche il diario di Mafalda Codan, larghi stralci del quale sono stati pubblicati in Sopravvissuti alle deportazioni in Jugoslavia, a cura di Mario Dassovich e Mafalda Codan, Facchin, Trieste 1997, che riporta in massima parte fatti successivi ma che restituisce assai bene sia l’atmosfera tumultuosa delle campagne istriane che la mentalità della classe dirigente italiana dell’Istria; alcuni passaggi chiave del testo sono pubblicati anche in Raoul Pupo e Roberto Spazzali, Foibe, cit., pp. 100-105. 27 Vedi soprattutto Gloria Nemec, Un paese perfetto. cit., pp. 142 segg. 28 Sulle notizie fatte pervenire al governo italiano da aderenti alla Resistenza vedi in particolare il telegramma 2711/479 del ministro Magistrati a Berna, a Bonomi del 25 ottobre 1944, in DDI, X, II, doc. 487. Sull’importanza attribuita dal governo ai rischi corsi dalla popolazione italiana della Venezia Giulia vedi in particolare il promemoria del sottosegretario agli Esteri, Visconti Venosta, del 6 agosto 1944, in DDI, X, I, doc. 324; sulla conseguente attività diplomatica italiana vedi Diego de Castro, La questione di Trieste, cit., vol. 1, p. 315. 29 Roberto Spazzali, Sfollati e fuggiaschi. Pre-esodo nell’Istria di guerra (1944-1945), in «Tempi e cultura», II (1998), 4, pp. 3-7; Oddone Talpo, Dalmazia. Una cronaca per la storia (1943-1944), Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, Roma 1994, vol. III, pp. 1176-1181. 30 Per una ricostruzione dettagliata vedi Oddone Talpo, Dalmazia. Una cronaca per la storia, cit., pp. 1360-1429 e, con ampia documentazione fotografica, Oddone Talpo, Sergio Brcic, ... Vennero dal cielo, Libero Comune di Zara in esilio, Campobasso 2000.
31 Giovanni Eleuterio Lovrovich, Zara – Dai bombardamenti all’esodo (1943-1947), Tipografia Santa Lucia, Marino (Roma) 1947. 32 Per una panoramica generale sulla questione vedi Elizabeth Barker, L’opzione istriana: obiettivi politici e militari della Gran Bretagna in Adriatico (1943-1944), in «Qualestoria», X (1992), n. 1, pp. 3-44, che ricorda fra l’altro come fin dall’autunno del 1943 Tito avesse chiesto agli inglesi di costituire una testa di ponte in Dalmazia; più specificatamente dedicato alle iniziative di diversione strategica – fra le quali l’operazione Zeppelin, che prevedeva per il 1944 la minaccia di uno sbarco sulla costa settentrionale della Dalmazia – è lo studio di M. Howard, Strategic Deception in the Second World War, Pimlico, London 1990. Nessuna delle due opere fa peraltro riferimento esplicito alla distruzione di Zara. 33 Vedi riassuntivamente al riguardo Oddone Talpo, Dalmazia. Una cronaca per la storia, cit., pp. 1360-1429, che ricapitola la precedente bibliografia integrandola con nuovi sondaggi d’archivio; per un’interpretazione alternativa vedi Abdullah Seferovic, Le fortezze volanti sopra Zara, serie di sei articoli pubblicati sul quotidiano di Zara «Slobodna Dalmacija», nei giorni 19, 20, 21, 23, 24 e 25 ottobre 1984. 34 Per quanto riguarda i polesani, vedi Roberto Spazzali, Sfollati e fuggiaschi, cit. 35 Tra i leader fascisti fa eccezione il senatore Riccardo Gigante – già esponente di punta del nazionalismo fiumano e che dopo l’8 settembre resse per un paio di mesi la prefettura del capoluogo quarnerino, prima di essere sostituito dai tedeschi in quanto
inviso agli ustaša – che decise di rimanere in città, dove fu ucciso ai primi di maggio del 1945. Più tardi, sempre a Fiume, vennero fucilati anche il senatore Iginio Bacci e l’ex podestà Carlo Colussi, mentre Gino Sirola, uno dei protagonisti dell’attacco fascista che nel 1922 aveva portato alla fine dello Stato Libero di Fiume, e che dopo l’8 settembre era stato nominato podestà dai tedeschi, venne catturato a Trieste, dove aveva cercato rifugio, e scomparve anch’egli. 36 Su questi aspetti comparativi vedi Marina Cattaruzza, Marco Dogo, Raoul Pupo (a cura di), Esodi, cit. 37 Sulla zona di operazioni Litorale adriatico e sulla situazione esistente nella Venezia Giulia nell’ultima fase del conflitto vedi sinteticamente, all’interno di una ricchissima bibliografia, oltre a Galliano Fogar, Sotto l’occupazione nazista e Trieste in guerra 1940-1945. Società e Resistenza, cit.; Raoul Pupo, Guerra e dopoguerra al confine orientale, cit., e Roberto Spazzali, ... L’Italia chiamò. Resistenza politica e militare italiana a Trieste 1943-1947, LEG, Gorizia 2003. 38 Sul complesso nodo, oltre a Raoul Pupo, Guerra e dopoguerra al confine orientale, cit., vedi sinteticamente Pierluigi Pallante, Il partito comunista italiano e la questione nazionale. Friuli-Venezia Giulia 1941-1945, Del Bianco, Udine 1980; Marco Galeazzi, «Togliatti e la questione giuliana (1941-1947)», in Claudio Tonel (a cura di), Trieste 1941-1947, Dedolibri, Trieste 1991, pp. 181-217; Id., «Togliatti fra Tito e Stalin», cit.; Id., Togliatti e la questione jugoslava, in «Critica marxista», 1984, 6, pp. 68-75; Roberto Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana, cit.; Giampaolo Valdevit, «I comunisti italiani e Trieste fra guerra e dopoguerra», cit. 39
Insiste su tale aspetto soprattutto Roberto Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana, cit., pp. 69-74, seguito da Giampaolo Valdevit, «I comunisti italiani e Trieste fra guerra e dopoguerra. Un rapporto disturbato», in Id., Il dilemma Trieste. Guerra e dopoguerra in uno scenario europeo, LEG, Gorizia 1999, pp. 97-99. Si tratta di un’analisi nella sostanza condivisibile, anche se non con la rigidità manifestata dai due autori, che dipendono entrambi dalla medesima fonte, alcune lettere inviate in Italia da Vincenzo Bianco nell’autunno del 1944 e illustranti le tesi di politica estera elaborate da Kardelj. Sfortunatamente, però, la cattiva traduzione compiuta da Bianco non sempre rende il pensiero del leader sloveno, e anzi in un caso lo ribalta completamente, attribuendogli l’affermazione (giudicata dai due storici «lapidaria»): «Il problema del confine tra noi e l’Italia è diventato il problema tra due mondi», che viceversa Kardelj riferisce agli «imperialisti italiani» che si offrivano come «avanguardie antisovietiche»; cfr. la lettera di Kardelj al comitato centrale del PCS del 1° ottobre 1944, in ARS, AZKS, CK KPS 2, ae 453. 40 Nella parte operativa, gli accordi conclusi dopo la tornata negoziale del 16-18 luglio 1944 prevedevano che nelle zone italiane della Venezia Giulia (ma di fatto solo nei margini occidentali della regione, perché l’Istria era rimasta esclusa dalle trattative in quanto di competenza croata) avrebbe operato il CLN, in quelle slovene l’OF, mentre nelle zone miste sarebbe stato creato il Comitato antifascista di coordinazione (CAC) fra i rispettivi CLN e i comitati dell’Unità Operaia. Nella parte politica, l’accordo prevedeva il rinvio al dopoguerra di «ogni discussione sulla delimitazione delle frontiere e sulla futura appartenenza statale delle zone nazionalmente miste». Fu deciso che il patto sarebbe stato firmato il 4 settembre 1944 a Milano, dopo che i delegati di entrambe le parti avessero sottoposto l’intesa alla propria dirigenza, ma in realtà la parte politica fu siglata solo dal CLNAI. Al suo ritorno a Milano infatti, il delegato dell’OF, Vratusa, sottoscrisse solo la parte militare-
organizzativa che riguardava la costituzione del CAC e la concessione di un prestito di tre milioni di lire per gli aiuti urgenti al IX corpo d’armata partigiano sloveno. In tal modo, Vratuša aveva compiuto un piccolo capolavoro diplomatico, in attuazione della linea assunta dal comitato centrale del KPS, che nella sua seduta del 10 luglio si era pronunciato contro il rinvio al dopoguerra della decisione sui confini, paventando che gli italiani intendessero ricorrere al plebiscito. Vratuša però, nel compiere la sua missione, ignorava che nel frattempo gli ordini erano cambiati e che quindi nemmeno il miglior compromesso era più sufficiente. Per comprendere le sfasature temporali fra le decisioni assunte dai vertici del KPS e i passi compiuti dai delegati dell’OF in Italia, bisogna tener conto delle difficoltà delle comunicazioni clandestine tra la Slovenia e il Nord Italia. Per una puntuale ricostruzione della complessa vicenda, vedi sinteticamente Galliano Fogar, Trieste in guerra, cit., pp. 161-163, da integrare con Nevenka Troha, Il movimento di liberazione sloveno e i confini occidentali sloveni, cit. 41 Vedi al riguardo il verbale della seduta del comitato centrale del KPS del 28 agosto 1944, in AS, AZKS, f. CK KPS, ae 863. 42 Vedi al riguardo il discorso pronunciato da Tito in occasione dei festeggiamenti della 1a Brigata dalmata a Lissa il 12 settembre 1944, il cui testo integrale è conservato in AS II, f. 1643, P SNOS, fase. 457/1, nonché Josip Smodlaka, Sulla delimitazione dei confini tra la Jugoslavia e l’Italia, in «Nova Jugoslavija», nn. 7-10, giugno-luglio 1944, ora consultabile anche in Ernesto Sestan, Venezia Giulia, cit., pp. 153-169. 43 La denuncia dell’accordo venne comunicata con una lettera inviata al CLNAl il 25 settembre 1944 e consegnata ai rappresentanti del PCI. Il testo è conservato in AS, AZKS, f. CK KPS, ae 666.
44 Vedi al riguardo gli appunti relativi alla seduta del comitato centrale del KPS del 10 giugno 1944, in AS I, f. 1487, CK KPS, ae 1. 45 Nella lettera, fra l’altro, Bianco affermava che «Trieste, come tutti gli italiani veramente democratici antifascisti, avranno un migliore avvenire in un Paese ove il popolo è padrone dei propri destini, che non in un’Italia occupata dai nostri alleati angloamericani»; il testo è conservato in AS I, f. 1487, comitato centrale del KPS, ae 779. Secondo il resoconto di Lidija Sentjurc al CK del KPS, durante la discussione Bianco avrebbe fra l’altro affermato che Togliatti a Mosca aveva esclamato «Trieste è nostra, ma l’abbiamo perduta»; il rapporto è conservato in AS, I, f. 1487, ae 1848. Per le reazioni negative suscitate in alcuni nuclei comunisti italiani, vedi Paolo Sema, Siamo rimasti soli. I comunisti del PCI nell’Istria Occidentale dal 1943 al 1946, LEG, Gorizia 2004. 46 Quella di Vincenzo Bianco è una vicenda assolutamente romanzesca: tornato nella Venezia Giulia, Bianco si trovò invischiato in una devastante relazione con una staffetta partigiana che risultò essere una spia della Gestapo. Distrutto sul piano personale e politico, finì quindi per divenire un semplice burattino nelle mani dei comunisti sloveni, che se ne servirono senza risparmio nella loro opera di fagocitamento del partito italiano. A questo punto, nel febbraio del 1945, Bianco venne richiamato in Italia, costretto ad ammettere i propri errori, ed emarginato dai ruoli dirigenti del partito. La sconfessione di Bianco – peraltro – arrivò assai tardi, dopo che la decisione fondamentale, espressa nella «riservatissima», era stata già assunta e di fatto avallata dalla direzione del Nord. Su tutta la vicenda vedi – pur con qualche imprecisione dovuta ai problemi posti dalle fonti – Roberto Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana, cit.
47 Un ruolo tutt’altro che indifferente, al riguardo, venne giocato dall’inviato dell’OF presso il PCI, Anton Vratuša, che non perdeva occasione per sottolineare l’arretratezza dei risultati conseguiti dai comunisti italiani rispetto a quelli sloveni, capaci di esercitare una salda egemonia sul fronte di liberazione. 48 L’articolo fu pubblicato il 13 ottobre 1944. Contemporaneamente, la direzione del Nord inviò al comitato centrale del KPS una lettera in cui si affermava che il PCI non poteva assumere alcuna decisione su questioni così rilevanti come quelle poste dagli sloveni (le annessioni territoriali e la rottura dei rapporti tra OF e CLNAI), senza il consenso di Togliatti: assumere tale linea, e mandare a interpretarla proprio Bianco, era quantomeno singolare. Vedi Roberto Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana, cit., pp. 77-78. 49 Ibid., pp. 50-57. 50 Il testo completo della lettera è il seguente: «Sono stato a colloquio con Ercoli assieme a Djilas. Abbiamo discusso per 4 ore tutte le questioni (il Litorale, Trieste ecc.) e per tutto il corso della conversazione ci siamo trovati perfettamente d’accordo. Ercoli ha esordito dicendosi d’accordo con la mia lettera a Vittorio (risalente alla mia permanenza in Slovenia) e con tutti i punti in essa esposti. Egli non mette in discussione che Trieste spetti alla Jugoslavia, tuttavia ci raccomanda di applicare una politica nazionale atta a soddisfare gli italiani. La situazione pertanto rimane tale e quale l’avevamo impostata nel corso della mia ultima permanenza in Slovenia. Vi scrivo di fretta e sfioro perciò soltanto questi argomenti. In breve: trattate gli italiani alla stregua di una minoranza nazionale, riconoscendole tuttavia il massimo grado di diritti nazionali. Costituite Comitati di liberazione nazionale unitari. Cooptate nel Comitato di liberazione nazionale per il Litorale non meno di due italiani. A
Trieste predisponete tutto il necessario per l’assunzione dei poteri. Provvedete ai buoni rapporti con Vittorio». La lettera di Kardelj al comitato centrale del KPS del 19 ottobre 1944 è conservata in DCO, libro 20, pp. 345-346. 51 Per i dettagli vedi Roberto Gualtieri, op. cit., pp. 99-103 e Raoul Pupo, Guerra e dopoguerra, cit., pp. 100-101. 52 Il consiglio dei ministri nella seduta del 3 maggio approvò un ordine del giorno che sottolineava l’italianità di Trieste, e il 12 maggio un comunicato di condanna dell’occupazione jugoslava della città; cfr. Verbali del Consiglio dei Ministri, luglio 1943-maggio 1948, edizione critica a cura di Aldo G. Ricci, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, volume IV, cit., p. 695 e 766. Il voto a favore di tali atti fu da Togliatti giustificato nel corso della riunione della direzione del PCI del 13 maggio con l’esigenza di «non essere isolati nei confronti del Paese». I comunisti jugoslavi, furibondi, lo considerarono un vero e proprio tradimento. 53 Galliano Fogar, Trieste in guerra, cit., pp. 177-178. 54 Sulla complessa vicenda e i suoi strascichi giudiziari, vedi la sintesi di Daiana Franceschini, Porzûs. La Resistenza lacerata, IRSMLFVG, Trieste 1996. 55 Marina Cattaruzza, Socialismo adriatico. La socialdemocrazia di lingua italiana nei territori costieri della monarchia asburgica: 1888-1915, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 1998. 56
Rodolfo Ursini-Ursic, Attraverso Trieste, Studio I, Roma 1996, e Roberto Spazzali, ... l’Italia chiamò, cit., p. 259. 57 Vedi al riguardo il dispaccio del comitato centrale del KPS al comitato per il Litorale sloveno n. 89 del 29 aprile 1945, in AS, AZKS, CK KPS 2, ae 91, nonché le direttive contenute nei messaggi di Boris Kraigher al comitato centrale del KPS, in AS, AZKS, CK KPS 2, ae 90. 58 Per una ricostruzione dettagliata vedi i già citati Galliano Fogar, Trieste in guerra e Roberto Spazzali, ... l’Italia chiamò. 59 Appunti di don Marzari relativi al suo arresto nel febbraio del 1945, fatti recapitare dalla prigione al vescovo di Trieste, monsignor Santin, pubblicati da Guido Botteri, I cattolici triestini nella Resistenza, Del Bianco, Udine 1960, p. 58. 60 Fede unitaria, scritto clandestino diffuso a Trieste a partire dall’autunno 1943; il testo completo è pubblicato in Galliano Fogar, Dall’Irredentismo alla Resistenza nelle province adriatiche: Gabriele Foschiatti, Del Bianco, Udine 1966, pp. 276-77. 61 Branko Babič, Primorska ni klonila. Spomini na voina leta, Založba Lipa – ZTT, Koper-Capodistria 1982, p. 381. 62 Geoffrey Cox, La corsa per Trieste, LEG, Gorizia 1985. 63 Per quanto riguarda la memorialistica basti ricordare Henry Truman, «Memoires», vol. 1, Year of decisions, Doubleday and Comp., Garden City (New York) 1956; Joseph C. Grew, Turbulent Era: A Diplomatic Record of Forty Years, 1904-1945, Houghton Mifflin Company, Boston 1952; per
l’inserimento della crisi di maggio negli schemi della guerra fredda vedi per esempio i riferimenti in Gabriel Kolko, The Politics of War. The World and the United States Foreign Policy, 1943-1945, New York 1968 e Vojtech Mastny, Russia’s Road to the Cold War. Diplomacy, Warfare and the Politics of Communism 1941-1945, Columbia University Press, New York 1979, oltre alle esplicite affermazioni presenti in Roberto Rabel, Between East and West. Trieste, the United States and the Cold War, 1941-1945, Durham-Londra 1988 e J.R. Whittam, Drawing the line: Britain and the Emergence of the Trieste Question, in «English Historical Rewiew», 1991, n. 106. 64 Daniel Yergin, Shattered Peace. The Origins of the Cold War and the National Security State, Houghton Mifflin Company, Boston 1977. 65 Vedi Harold MacMillan, War Diaries, MacMillan, London 1984, p. 751. 66 La citazione è tratta da R.S. Dinardo, Reconsidering the Trieste Crisis of 1945, in «Diplomatic History», XXI (1997), n. 3, p. 379. 67 Il memorandum di Grew, pubblicato in FRUS, 1945, vol. IV, pp. 1152-1153, riprendeva un precedente memorandum redatto il 6 maggio da un funzionario della divisione per gli affari dell’Europa meridionale (e futuro ambasciatore in Jugoslavia) Cavendish Cannon, in NA, RG 59, SDF, 740.00119 Control (Italy). 68 Il telegramma con cui Truman comunicava la propria decisione a Churchill è pubblicato in FRUS, 1945, vol. IV, pp. 1156-1157. Per una ricostruzione puntuale dello scambio diplomatico vedi
Giampaolo Valdevit, La questione di Trieste 1941-1954. Politica internazionale e contesto locale, pp. 89-109 e Id., Il dilemma Trieste. Guerra e dopoguerra in uno scenario europeo, LEG, Gorizia 1999, pp. 31-51. Dall’interpretazione di Valdevit dissente Marina Cattaruzza nel suo Tra Jalta e Potsdam: alle origini della questione di Trieste, relazione presentata al convegno La questione di Trieste nella politica italiana tenutosi a Trieste il 3 novembre 2004. Atti in corso di pubblicazione. 69 Cfr. Leonid Gibijanski, L’Unione Sovietica, la Jugoslavia e Trieste, cit., pp. 45-46. 70 Ibid., pp. 59-60. 71 Al riguardo vedi soprattutto il verbale della riunione del comitato centrale del partito comunista sloveno del 28 agosto 1944, in ARS, AZKS, fondo CK KPS 2, in cui Kardelj svolse un’approfondita analisi della situazione internazionale. I contenuti fondamentali della relazione di Kardelj vennero proposti al rappresentante del PCI presso la direzione del KPS, Vincenzo Bianco, quale cornice in cui inserire le nuove direttive per i comunisti giuliani; vedi al riguardo Roberto Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana, cit., p. 70. 72 Vedi il verbale dell’incontro fra Stalin e Maurice Thorez del 19 novembre 1944; dal momento che risulta difficile credere che Stalin abbia copiato da Kardelj, sembra più logico pensare a un insieme di giudizi correnti ai vertici del movimento comunista internazionale, a cominciare dal Cremlino; la traduzione italiana del verbale è pubblicata in appendice a Elena Aga Rossi, Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Il Mulino, Bologna 1997, p. 293.
73 Sulle vicende della primavera del 1945, oltre al già cit. Diego de Castro, La questione di Trieste, vedi Giampaolo Valdevit (a cura di), La crisi di Trieste. Maggio-giugno 1945. Una revisione storiografica, IRSMLFVG, Trieste 1995. 74 Vedi al riguardo le testimonianze riportate in Raoul Pupo e Roberto Spazzali, Foibe, cit.; e Franco Razzi, Lager e foibe in Slovenia, Editrice Vicentina, Vicenza 1992. 75 È questo per esempio il caso dei due miti interpretativi, speculari e contrapposti, imperniati rispettivamente sulla categoria della «punizione di colpevoli» e su quella della «pulizia etnica». Per un approfondimento di tali posizioni vedi in particolare la rassegna antologica contenuta in Raoul Pupo e Roberto Spazzali, Foibe, cit. Per una panoramica sulle foibe del 1945 vedi l’opera già citata alla nota 22. 76 Vedi Leonid Gibijanski, L’Unione Sovietica, la Jugoslavia e Trieste, cit., pp. 47-48; in proposito vedi anche le osservazioni proposte da Marina Cattaruzza nel suo «L’esodo istriano: problemi interpretativi», in Esodi, cit. 77 Al modello bolscevico come chiave di lettura dell’ondata di violenze della primavera del 1945 fanno del resto esplicito riferimento anche alcune testimonianze coeve, come il rapporto inviato da Trieste al comitato centrale del PCI il 6 febbraio 1946, in cui fra l’altro si afferma: «La reazione ha sperimentato il “terrore” rivoluzionario ed è per questo qui da noi più aspra che non in qualunque altra parte dell’Europa occidentale»; il documento è conservato in APC, MF 095, 55/4, R, 12. 78 Vedi soprattutto Jože Pirjeveč, Foibe. La questione etnica e quella politica, in «Ragionamenti sui fatti e immagini della
storia», VI (1996), 54, e, nell’ambito peraltro di un discorso di più ampio respiro, Nevenka Troha, «Fra liquidazione del passato e costruzione del futuro. Le foibe e l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia», in Giampaolo Valdevit (a cura di), Foibe. Il peso del passato, cit., pp. 59-95. Più articolato, al di là del titolo, appare il contributo di G. Stelli, Un caso di genocidio ideologico: Venezia Giulia e Dalmazia 19431948, in «Fiume», XIX (1999), n. 38, pp. 12-36. 79 Vedi Katja Colja, «Il collaborazionismo nell’Adriatisches Küstenland», in Marta Verginella, Alessandro Volk, Katja Colja, Storia e memoria degli sloveni del Litorale. Fascismo, guerra e resistenza, IRSMLFVG, Trieste 1994, pp. 122-160.
Capitolo 4
1 La citazione è tratta dal memorandum dal titolo La nostra collaborazione con gli italiani con particolare riguardo alla questione di Trieste, datato 7 luglio 1944 e conservato presso l’AS. Il testo completo è disponibile in traduzione italiana in appendice al saggio di Alenka Vazzi – che qui ringrazio per avermelo cortesemente messo a disposizione – Che fare degli italiani? in corso di pubblicazione su «Qualestoria». 2 Per una prima notizia sull’esistenza del documento vedi Tone Ferenc, «Nemci v Sloveniji med Drugo Svetovno Vojno», in Dusan Nećak (a cura di), «Nemci» na Slovenskem 19411945, Ljubljana 1998, pp. 99-144, le cui implicazioni sono state discusse da Marina Cattaruzza, «L’esodo istriano: questioni interpretative», in Esodi, cit., pp. 234-235. Per un’articolata analisi dei contributi messi a punto dall’Istituto sul problema del
confine italo-jugoslavo, e più in generale sul dibattito in tema di confini svoltosi all’interno del movimento di liberazione sloveno, vedi ora Nevenka Troha, Il Movimento di liberazione sloveno e i confini occidentali solveni, in «Qualestoria», XXXI (2003), n. 2, pp. 110-138. 3 Vedi al riguardo Marina Cattaruzza, Marco Dogo, Raoul Pupo (a cura di), Esodi, cit., e Marco Buttino (a cura di), In fuga, cit., nonché il saggio di Marina Cataruzza, Espulsioni di massa di popolazioni nell’Europa del XX secolo, in «Rivista storica italiana», CXIII (2001), n. 1, pp. 66-85. 4 Vedi al riguardo le dichiarazioni di Kardelj nella seduta del comitato centrale del partito comunista sloveno del 27 febbraio 1944, in ARS, AZKS, CK KPS 2, verbali del comitato centrale del PCS. 5 L’espressione è contenuta nel resoconto che lo stesso Kardelj fece del suo colloquio con Togliatti del 17 ottobre 1944, conservato in ARS, AZKS, CK KPS 2, ae 458. 6 I termini del problema vennero efficacemente sintetizzati in un rapporto dell’ambasciatore italiano a Mosca, Quaroni, del 26 dicembre 1946, il quale, riferendo sugli esiti dei suoi colloqui con il viceministro degli Esteri jugoslavo, Bebler, affermava: «Molto meno ottimista sono invece per la questione della protezione delle minoranze. Dalle conversazioni, non impegnative, avute con Bebler in proposito, dovrei dire che, nel piano teorico, gli jugoslavi sono disposti ad andare molto lontano: fino cioè a concedere, nel quadro generale della costituzione jugoslava, una larghissima autonomia amministrativa, municipale e anche distrettuale a tutti i centri italiani di una qualche importanza. All’atto pratico però tutte queste buone disposizioni vengono rese di applicazione assai elastica dal principio che questa autonomia e queste garanzie
non si applicano agli elementi “fascisti” o “reazionari”. Per mio conto ho detto a Bebler che il governo italiano non ha nessuna volontà o desiderio di proteggere elementi fascisti o reazionari, ma che bisognerebbe mettersi d’accordo su di una definizione precisa di che si intende per “fascisti”». Il documento è pubblicato in DDI, serie X, vol. IV, pp. 727-731, doc. n. 625. 7 La citazione è tratta da una relazione inviata da Kardelj a Tito il 30 settembre 1944, pubblicata nella raccolta Izvori za istoriju SKJ – Dokumenti centralnih organa KPI – NOR i revolucija 1941-1945, Belgrado 1987, pp. 40-49 e pubblicata in italiano da Sandor Mattuglia nel suo Trieste, Friuli, Carinzia. La «Grande Slovenia» di Edvard Kardelj, in «Quaderni Giuliani di Storia», XXII (2001), n. 2, pp. 258-300. 8 Vedi al riguardo la lettera inviata il 3 settembre 1944 da Branko Babič e Anton Vratuša a Lidija Sentjurc, conservata in AS, CK KPS, AE 12508. 9 Giorgio Roletto fu nel 1939 il fondatore della rivista «Geopolitica»; negli ultimi anni di guerra era preside della facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Trieste. 10 L’intera vicenda della costituzione del Movimento amici della nuova Jugoslavia e dell’espulsione di Babic è stata puntualmente ricostruita nel saggio di Alenka Vazzi, Che fare degli italiani?, cit. 11 Ennio Maserati, L’occupazione jugoslava di Trieste (maggio-giugno 1945), Del Bianco, Udine 1966, pp. 98-100. 12
Sul complesso della politica tenuta dalle autorità jugoslave a Trieste vedi, oltre a Giampaolo Valdevit (a cura di), Foibe, cit., e Raoul Pupo, Guerra e dopoguerra, cit., anche Nevenka Troha, Komu Trst, cit. 13 Cadastre national de l’Istre d’après le Recensement du 1er Octobre 1945, Sušak 1946, p. 588; il censimento segnalava la presenza in Istria di 81.360 italofoni, dei quali solo 73.521 andavano considerati di nazionalità italiana, circa la metà dei 147.416 indicati dal censimento austriaco del 1910. Vedi al riguardo Luciano Giuricin, «Riflessioni sul “Cadastre National de l’Istrie” del 1945», in La Comunità Nazionale Italiana nei censimenti jugoslavi 1945-1991, in «Etnia», Centro di ricerche storiche di Rovigno, Vili, 2001, pp. 83-90. 14 Vedi al riguardo le osservazioni di Marina Cattaruzza, in «L’esodo istriano: questioni interpretative», in Esodi, cit., pp. 227-228. 15 Vedi al riguardo il già cit. Nevenka Troha, Il Movimento di liberazione sloveno e i confini occidentali della Slovenia. 16 In epoca asburgica, «regnicoli» venivano chiamati gli italiani provenienti dal regno d’Italia; il termine poi rimase a indicare gli italiani non nativi della Venezia Giulia. 17 AS II, f. 1643, P SNOS, fase. 457/1. Proposte relative al trattamento degli allogeni. La commissione di studio presso il PSNOS. Progetto di redazione di legge citato in Nevenka Troha, Il Movimento di liberazione sloveno e i confini occidentali della Slovenia, cit., pp. 130-131. 18
Vedi al riguardo il rapporto del terzo settore dell’OZNA di Trieste datato 9 maggio 1945, in AS, fondo 207, cit., ae 86. 19 Vedi al riguardo la Relazione sulla situazione in Istria e a Fiume inviata alla direzione centrale del PCI in data 20 febbraio 1946; la citazione si riferisce alla situazione esistente a Pola nel periodo dell’occupazione jugoslava nella primavera del 1945; il documento è conservato in IG, fondo Mosca, MF 94, h, doc. 23. 20 Per una visione generale dei principali problemi e delle lineeguida della politica estera italiana nel secondo dopoguerra, vedi le ampie raccolte curate da Ennio Di Nolfo, R.H. Rainero, Brunello Vigezzi L’Italia e la politica di potenza in Europa (2945-50), Marzarati, Milano 1988 e, degli stessi autori, L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-1960), cit.; nonché i contributi di Pietro Pastorelli, La politica estera italiana del dopoguerra, Il Mulino, Bologna 1986; J.E. Miller, La politica estera di una media potenza. Il caso italiano da De Gasperi a Craxi, Lacaita, Manduria 1992; Antonio Varsori (a cura di), La politica estera italiana nel secondo dopoguerra (1943-1957), Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano 1993; Roberto Gaja, L’Italia nel mondo bipolare. Per una storia della politica estera italiana (1943-1991), Il Mulino, Bologna 1995; Luigi Ferraris (a cura di), Manuale della politica estera italiana, Laterza, Roma-Bari 1996. 21 Sulla sorte dell’Italia alla conferenza di pace vedi Ilaria Poggiolini. Diplomazia della transizione. Gli Alleati e il trattato di pace italiano, Ponte alle Grazie, Firenze 1990. 22 Sull’attività della Commissione per i confini, oltre alle opere generali sulla questione di Trieste già citate, vedi anche la
testimonianza di uno degli esperti sovietici, l’etnografo Sergej A. Tokarev, pubblicata in lingua italiana in Id., Trieste 19461947 nel diario di un componente sovietico della commissione per i confini italo-jugoslavi, a cura di Giulio Cervani e Diana De Rosa, Del Bianco, Udine 1995. 23 Ernesto Sestan, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, ora ripubblicato a cura e con postfazione di Giulio Cervani, Del Bianco, Udine 1997, pp. 183-187. 24 APC, JFV, bob. 3, mf 095, 21 settembre 1945. 25 Vedi al riguardo Diego de Castro, La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, Lint, Trieste 1981, vol. 1, pp. 243-244.
Capitolo 5
1 Vedi al riguardo la Relazione sulla situazione in Istria e a Fiume inviata in una data non precisata del 1945 ai vertici comunisti jugoslavi, conservata in AJ, CKSKJ X/18 (1945) e pubblicata integralmente da Sandor Mattuglia –alle osservazioni del quale si rinvia senz’altro per la contestualizzazione del documento – in «Quaderni giuliani di storia», XXI (2000), n. 1, in particolare a p. 143. Vedi anche Antonio Luksich-Jamini, Fiume nella Resistenza e nella lotta per la difesa dell’Unità italiana, 1943-1947, in «Fiume», serie romana, VII (1959), n. 1-2, p. 3. 2
Liliana Ferrari, «Fiume 1945-47», in Cristiana Colummi, Liliana Ferrari, Gianna Nassisi, Germano Trani, Storia di un esodo, cit., p. 67. 3 La citazione è tratta da Chi sono gli odierni autonomisti, in «La Voce del Popolo», 1° dicembre 1945; la polemica a mezzo stampa era però iniziata immediatamente dopo la cacciata dei tedeschi: vedi al riguardo 3 maggio in «La Voce del Popolo» del 5 maggio 1945. 4 Vedi al riguardo la Relazione sulla situazione in Istria e a Fiume, cit., del 1945, in particolare a p. 142. 5 Antonio Luksich-Jamini, Fiume nella Resistenza, cit., pp. 1718. 6 Vedi al riguardo la Relazione sulla situazione in Istria e a Fiume, cit., del 1945, p. 141. 7 Cfr. il Referat o stanju i problemima narodne vlasti u gradu Rijeci, 21 aprile 1948, conservato in DAR GNOOR (CPC), JU 16, b. 28; copia è depositata pure in ACRS, f. 366/94. 8 Per una panoramica sull’argomento, vedi Mark Mazower, Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Garzanti, Milano 2000; per un’analisi specifica del caso istriano vedi Orietta Moscarda e Roberto Spazzali, «L’Istria epurata (1945-1948). Ragionamenti per una ricerca», in Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione, cit., pp. 237-252. 9 N. Kisić-Kolanović, Državnocentralistički sistem u Hrvatskoj 1945-1952, in «Casopis za suvrenemenu
povijest», XXX (1992), n. 1, pp. 53 e 57. 10 Per la citazione, vedi quanto riportato da Orietta Moscarda, La «giustizia del popolo»: sequestri e confische a Fiume nel dopoguerra (1946-1948), in «Qualestoria», XXV (1997), n.1, p. 216. 11 La citazione è tratta da Amleto Ballarini, Intervista con il dr. Erio Franchi, in «Fiume», nuova serie, XVI (1996), n. 32, p. 27. 12 Vedi al riguardo l’Ordinanza n. 1304/II/46 del 12 aprile 1946 riguardante il «sequestro dei beni del Reich germanico e dei suoi cittadini, dei criminali di guerra, loro complici e favoreggiatori, come pure delle persone assenti», in «Bollettino ufficiale del CP regionale dell’Istria e del CP cittadino di Fiume», 15 aprile 1946, n. 4. 13 Sentenza del Tribunale del popolo contro la società Skull Matteo, riportata in Orietta Moscarda, La «giustizia del popolo», cit., p. 224. 14 Sull’intera vicenda vedi più distesamente Orietta Moscarda, La «giustizia del popolo», cit. 15 Antonio Luksich-Jamini, Fiume nella Resistenza, cit., pp. 8687. Da parte sua, un rapporto inviato l’8 febbraio del 1946 a Pratolongo da un militante fiumano, riferiva che la condizione di assoluto isolamento e la situazione economica pesante, rendevano difficile trascinare la massa degli operai, men che meno la borghesia. A conferma dell’assoluta mancanza di notizie che rendeva ancor più ardua l’azione dei comunisti di lingua italiana, la relazione, a proposito dei rapporti fra la dirigenza nazionale del PCI e il PCRG soggiungeva: «Ho la
sensazione che qualcosa non va, ma non conosco i termini della questione». Il documento è conservato in IG, fondo Mosca, b. 54/3, f. G. doc. 26. 16 Al riguardo, vedi riassuntivamente le notizie offerte da Mario Dassovich, L’aquila aveva preso il volo. Pagine fiumanoistriane dell’ultimo dopoguerra, LEG, Gorizia 1998. 17 Ibidem; vedi anche Liliana Ferrari, Fiume, cit. 18 Liliana Ferrari, Fiume, cit., p. 80. 19 La citazione è tratta da La minoranza italiana in terra jugoslava deve costituire un ponte fra la Jugoslavia e le forze democratiche italiane, in VDP, 5 febbraio 1947. 20 Liliana Ferrari, Fiume, cit., pp. 83-85. 21 Mario Dassovich, L’aquila aveva preso il volo, cit. 22 Sulle violenze anticomuniste del dopoguerra nel Monfalconese vedi Silvo Benvenuti e Renzo Pincherle, «Monfalcone 19451948», in Nazionalismo e neofascismo nella lotta politica al confine orientale 1945-75, IRSMLFVG, La Editoriale Libraria, Trieste 1977, pp. 663-692. 23 Così si espresse Ruggero Bersa, uno dei quadri del PCRG, nel corso di una grande assemblea convocata dall’UAIS a Monfalcone; cfr. Marco Puppini, «Il controesodo monfalconese in Jugoslavia tra Trattato di pace e risoluzione del Cominform», in Marco Puppini (a cura di), Il Mosaico Giuliano. Società e politica nella Venezia Giulia nel secondo dopoguerra
(1945-1954), Centro isontino di ricerca e documentazione storica e sociale «Leopoldo Gasparini», Consorzio culturale del Monfalconese, IRSMLFVG, Comune di Monfalcone, Gorizia 2003, p. 68. 24 Lavoratori italiani in Jugoslavia, in «Il Lavoratore», 19 marzo 1947, p. 1. 25 Per rispondere in qualche modo al disagio dei quadri italiani del PCRG esasperati dall’oltranzismo annessionista jugoslavo, nella primavera del 1946 il PCI aprì a Trieste un proprio Ufficio d’Informazione diretto da Giordano Pratolongo. 26 Marco Puppini, Il controesodo Monfalconese, cit., pp. 7374. 27 Giacomo Scotti, Goli Otok. Ritorno all’isola Calva, Lint, Trieste 1991, p. 9. 28 Marco Puppini, Il controesodo, cit., p. 79. 29 Giacomo Scotti, Goli Otok, cit., p. 13; Andrea Berrini, Noi siamo la classe operaia. I duemila di Monfalcone, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004, p. 119. 30 Marco Puppini, Il controesodo, cit., p. 80. 31 Alfredo Bonelli, Fra Stalin e Tito. Cominformisti a 19481956, IRSMLFVG, Trieste 1994. 32 Marco Puppini, Il controesodo, cit.. p. 91. 33
Alfredo Bonelli, Fra Stalin e Tito, cit. 34 A titolo di esempio, la Relazione sulla situazione in Istria e a Fiume, cit., inviata il 20 febbraio 1946 da un militante comunista italiano alla direzione nazionale del PCI, elencava una lunga serie di errori compiuti dalla locale dirigenza comunista, sottolineando fra l’altro come «il partito, impregnato di nazionalismo, non si è dimostrato all’altezza della situazione e non sa dominarla». 35 Liliana Ferrari, «L’esodo da Pola», in Storia di un esodo, cit., pp. 147-49. 36 La citazione è tratta dal verbale di una delle sedute del CPL polesano, pubblicato con il titolo Come il CPL si preparò ad assumere tutti i poteri, in «L’Arena di Pola», 12 maggio 1954. 37 La dichiarazione del dottor Giulio Gratton, membro della delegazione italiana a Parigi, è riportata in Liliana Ferrari, L’esodo da Pola, cit., p. 188. 38 I dati vennero pubblicati su «L’Arena di Pola» e, nel dettaglio, erano i seguenti: la dichiarazione era stata presentata da 9.496 capifamiglia, corrispondenti a 28.058 cittadini, così suddivisi: Professionisti e artisti 148 (454); Industriali 137 (439); Commercianti ed esercenti 408 (1273); Artigiani 426 (1333); Operai occupati 1638 (5764); Operai disoccupati, pensionati, invalidi, ecc. 4784 (13.954). Circa 3600 persone, poco più del 10% degli abitanti, avevano quindi in quel momento deciso di restare. 39 Ibid., p. 189.
40 La citazione è tratta da Annamaria Mori e Nelida Milani, Bora, Frassinelli, Como 1998, pp. 127-129; vedi anche Lino Vivoda, L’esodo da Pola: agonia e morte di una città italiana, Nuova Litoeffe, Castelvetro 1989, pp. 79-91. 41 Il 10 febbraio, giorno della firma del trattato di pace, invece, a Pola una giovane nazionalista italiana, Maria Pasquinelli, uccise con tre colpi di pistola il generale inglese Robert W. De Winton, comandante della guarnigione alleata, come gesto di protesta contro le decisioni della conferenza di Parigi. 42 Dichiarazioni di S.E. il Vescovo sull’esodo, in «L’Arena di Pola», 21 dicembre 1946. 43 Darko Dukovski, Egzodus talijanskog stanovništva iz Istre 1945-1956, in «Časopis za suvrenemenu povijest», 2001, n. 3, pp. 633-667. 44 Gianni Giuricin, «L’esodo istriano, fiumano e dalmata nella storiografia croata», in Marina Cattaruzza, Marco Dogo, Raoul Pupo (a cura di), Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione, cit., pp. 280-281. 45 I dati sulle opzioni cui si fa riferimento nel testo sono quelli riportati nell’opuscolo Il problema delle opzioni nei territori assegnati alla Jugoslavia, a cura dell’ufficio stampa del CLN dell’Istria, La Editoriale Libraria, Trieste; va precisato che essi non sono stati verificati mediante il riscontro con i materiali d’archivio italiani e croati sulle opzioni. 46 Si tratta di una tendenza largamente presente anche nell’attuale storiografia croata, per esempio in Vladimir Žerjavić,
Doseljivanja i iseljivanja s područja Istre, Rijeke i Zadra u razdoblju 1910-1971 (Immigrazioni ed emigrazioni dai territori dell’Istria, di Fiume e di Zara nel periodo 19101971), in «Drustvena istraživanja» II, 1993, n. 4-5, pp. 631-656. 47 Sandi Volk, Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale, Kappa Vu, Udine 2004, p. 32. 48 Marina Cattaruzza, «L’esodo istriano: questioni interpretative», in Esodi, cit., pp. 220-221; il contributo di Cattaruzza colloca per la prima vota l’Esodo istriano nel contesto dei trasferimenti di popolazione dell’ultima fase della Seconda guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra. 49 Per una panoramica dei fatti vedi CLNI, Il problema delle opzioni, cit., che riproduce solo una minima parte della documentazione raccolta all’epoca. 50 Per una valutazione complessiva degli accordi vedi l’appunto redatto in data 6 gennaio 1951 per il sottosegretario Taviani da parte della DGAP, ufficio IV, in ASMAE, AP 1951-57, Jugoslavia, b. 611, f. 82/1. Per il dettaglio del negoziato vedi soprattutto, ivi, la b. 533, f. 82/1/B e C. 51 Vedi la nota di Gastone Belcredi della DCAP, a Fausto Bacchetti, vice console italiano a Londra, del 9 aprile 1952, con annesso appunto riepilogativo della DGAP, ufficio IV, per la segreteria generale del ministero, di data 4 settembre 1951, ivi, b. 611, f. 82/1. 52 Cristiana Colummi e Liliana Ferrari, «Il problema delle opzioni», in Storia di un esodo, cit., pp. 331-332; il riscontro con la
documentazione d’archivio croata da poco accessibile è stato peraltro appena avviato. 53 Vedi al riguardo la ricerca sul CP di Rovigno in corso da parte di Orietta Moscarda, che qui ringrazio per le informazioni gentilmente offertemi.
Capitolo 6
1 Testimonianza di Eugenio Lanzi, depositata presso l’Archivio della memoria dell’IRCI e parzialmente pubblicata in «Tempi e culture», II (1997), n. 3, Speciale foibe ed esodo, pp. 53-56. 2 Venivano chiamati così gli appartenenti alla polizia civile creata nella zona A dal GMA. La curiosa denominazione dipende dal fatto che i poliziotti furono in un primo momento vestiti tingendo di nero uniformi britanniche di scarto, e di bianco uno stock di elmetti americani. In seguito venne adottata un’uniforme simile a quella della polizia metropolitana di Londra. Vedi Silvano Subani, La polizia triestina dal 1945 al 1954. Storie di ex cerini, Edizioni Italo Svevo, Trieste 2003. 3 Eugenio Lanzi, testimonianza citata alla nota 1. 4 Sulla maggior disponibilità nei confronti degli italiani mostrata dalle autorità militari rispetto a quelle civili, vedi i cenni presenti in Paolo Sema, El mestro de Piran. Ricordando Antonio Sema, la vita, la famiglia, l’insegnamento tra l’Istria e Trieste a cavallo di due guerre, Aviani, Tricesimo 1995. 5
Sull’argomento, oltre ai molti riferimenti presenti in Storia di un esodo, vedi la documentazione presente nell’archivio del CLNI depositato presso l’IRCI. 6 Sulla mancanza di autorità della VUJA, «stretta fra l’incudine e il martello, cioè tra le autorità locali e la popolazione delusa», vedi Nevenka Troha, Oris položaja v Koprskem okraju cone B Julijske krajine v letih 1945-1947, in «Prispevki za novejšo zgodovino» XXXVI (1996), pp. 67-94; Ead., Odnos ljudi in političnih strank do zavezniških vojaških uprav v conah A in B Juslijske krajine (1945-1947), in «Annales», VI (1996), n. 8. 7 Per una ricostruzione dei fatti di Capodistria vedi Gianna Nassisi, «Istria 1945-1947», in Storia di un esodo, cit., pp. 110-111, da confrontare con Nevenka Troha, Oris položaja v Koprskem okraju cone B, cit. 8 Il testo è tratto da I fatti di Capodistria: grave insegnamento e monito, in «La Voce libera», 2 novembre 1945. 9 Ibidem. 10 Vedi al riguardo il verbale della riunione svoltasi il 25 novembre 1945 tra Giordano Pratolongo, Piero Marino, ex segretario della disciolta sezione di Capodistria e alcuni altri militanti, in IG, archivio Mosca, b. 54, f. G, doc. 22. 11 La citazione è tratta da una Relazione sugli ultimi avvenimenti nella Venezia Giulia e sulle condizioni dei comunisti già membri delle sezioni locali del Partito Comunista Italiano, inviata clandestinamente a Togliatti
nell’autunno del 1945. Il testo della relazione, il cui originale è conservato presso IG, b. 55/4, f. R, doc. 25, è stato pubblicato su «Tempi e culture», I (1997), n. 2, pp. 33-46. 12 Nevenka Troha, Oris položaja v Koprskem okraju cone B, cit. 13 Ordinanza n. 29, in «Bollettino ufficiale della Delegazione del Comitato Regionale di Liberazione Nazionale per il Litorale sloveno», I (1946), n. 4, 14 gennaio 1946. 14 Democrazia e reazione non vanno d’accordo, in «La Voce del Popolo», 25 gennaio 1946. 15 Nevenka Troha, Oris položaja v Koprskem okraju cone B, cit. 16 Vedi al riguardo, oltre a quanto riportato da Gianna Nassisi, Istria 1945-1947, cit., pp. 120-122, le testimonianze depositate presso l’IRCI. 17 Nevenka Troha, Oris položaja v Koprskem okraju cone B, cit. 18 Testimonianza raccolta nell’ambito della ricerca confluita nel libro Storia di un esodo, cit., e conservata presso l’Archivio sonoro dell’IRSMLFVG. 19 Gianna Nassisi, «La zona B del TLT dalla ratifica del trattato di pace alla rottura del Cominform», in Storia di un esodo, cit., pp. 342 passim. 20
Vedi al riguardo Marta Verginella, «La campagna istriana nel vortice della rivoluzione» in Ariella Verrocchio (a cura di), Trieste tra ricostruzione e ritorno all’Italia 1945-1954, IRSMLFVG, Edizioni Comune di Trieste, Trieste 2004, pp. 110119. 21 PAK, OKKP-Z, Škofije, 10 aprile 1947. 22 PAK, OKKP-Z, Gažon, 8 luglio 1947. 23 Raoul Pupo, Fra Italia e Jugoslavia, cit., pp. 54-63. 24 L’espressione è contenuta nel verbale della riunione tenutasi il 24 ottobre 1947 al Foreign Office alla presenza del ministro degli Esteri, Bevin; il documento è conservato in PRO, FO 371/ 67344/R/ 14290/10/92. 25 Oltre alle opere generali già citate, vedi al riguardo Pietro Pastorelli, «La crisi del marzo 1948 nei rapporti italoamericani», ora in La politica estera italiana del dopoguerra, cit., pp. 127-138; Antonio Varsori, La Gran Bretagna e le elezioni politiche italiane del 18 aprile 1948, in «Storia Contemporanea», 1982, n. 1, pp. 47-55; J.E. Miller, Taking off the Gloves. The United States and the Italian elections of 1948, ora pubblicato in italiano in Antonio Varsori, La politica estera italiana, cit., pp. 167200. 26 Cfr. il telegramma n. 4091 da Trieste al ministero degli Esteri del 24 marzo 1948, cit. in Diego de Castro, La Questione di Trieste, cit., vol. I, p. 737. 27
Cfr. il telegramma del segretario di Stato americano, Acheson, all’Ambasciata americana di Londra, del 29 giugno 1949, in FRUS, 1949, III, pp. 509-511. 28 Vedi al riguardo Massimo de Leonardis, La «diplomazia atlantica» e la soluzione del problema di Trieste (19521954), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992, pp. 506-508. 29 Sugli effetti della crisi del Cominform sul Partito comunista della Regione Giulia (PCRG), oltre a quanto ricavabile dalla memorialistica, si vedano i cospicui fondi conservati presso la Fondazione Istituto Gramsci di Roma, e in particolare il fondo Mosca, non ancora esaurientemente sfruttati dagli storici. 30 «The political-military situation», senza data [ma autunno 1948], memorandum, in NAW, Records of Allied Operational and Occupation Headquarters, World War Two (Record Group 331, d’ora in avanti RG 331), AMG-BUSZ-FTT, Planning and Advisory Staff, Subject-Numeric Correspondance File, file 362. 31 Vedi al riguardo Raoul Pupo, Tempi nuovi, uomini nuovi. La classe politica amministrativa a Trieste 1945-1956, in «Italia contemporanea», 2003, n. 231, pp. 256-277. 32 CLN dell’Istria, La politica jugoslava nella zona B del Territorio Libero di Trieste, Le elezioni del 16 aprile 1950. Trieste 1950, pp. 22-23. 33 Ibidem. 34 Testimonianza di un lavoratore istriano di Capodistria occupato a Trieste, pubblicata in Storia di un esodo, cit., pp. 376-377. 35
Testimonianza di due fratelli di Isola, pubblicata in Storia di un esodo, cit., p. 378. 36 Nadja Maganja, Trieste 1945-1949. Nascita del movimento politico autonomo sloveno, circolo per gli studi sociali Virgil Šček, Trieste 1994. 37 Sull’assassinio di don Bonifacio vedi Sergio Galimberti, Don Francesco Bonifacio, presbitero e testimone di Cristo, MGS Press, Trieste 1998, e su quello di don Zavladav cfr. Frane Rupnik, «La Chiesa slovena nel Goriziano fra il 1947 e il 1965», in France M. Dolinar e Luigi Tavano (a cura di), Chiesa e società nel Goriziano fra guerra e movimenti di liberazione, Istituto di storia sociale e religiosa, Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei, Gorizia 1967, p. 311. 38 Sui fatti di Lanischie vedi Mario Bartolić, Don Miro. Un martire dell’Istria (1920-1947), IKD «Juraj Dobrila», Pisino 1991; La cresima di Lanischie, serie di due articoli di autore anonimo pubblicata in «Tempi e cultura», II, nn. 3 e 4. 39 Sul processo ai monaci di Daila, oltre ai riferimenti presenti in Storia di un esodo, cit., pp. 344-345, vedi Giuseppe Tamburrino, I Benedettini di Daila e S. Onofrio in Istria: ultime vicende (1940-1950), IRCI, Abbazia di Praglia, Padova 1997. 40 Sull’aggressione a monsignor Santin vedi il racconto che fece lo stesso vescovo nel suo Al tramonto. Ricordi autobiografici di un vescovo, Lint, Trieste 1978, pp. 180182. 41
Sulle aggressioni a monsignor Močnik vedi Frane Rupnik, La Chiesa slovena nel Goriziano, cit. 42 Cristiana Colummi, «Le premesse del grande esodo», in Storia di un esodo, cit., pp. 397-401; Ranieri Ponis, In odium fidei. Sacerdoti in Istria. Passione e calvario, Zenit, Trieste 1999. 43 Così infatti stabiliva il «decreto Peruško», con il quale nel 1952 l’allora ispettore generale del ministero dell’Istruzione della Croazia costituiva apposite commissioni aventi lo scopo di verificare la nazionalità degli allievi delle scuole italiane dell’Istria e di Fiume, sulla base dei cognomi degli alunni. Vedi al riguardo la documentazione pubblicata a cura del CLNI nell’opuscolo La Zona del Territorio Libero di Trieste sotto l’amministrazione jugoslava dal 1945 al 1954, Trieste 1954, da integrare con il fondo archivistico «dichiarazioni giurate» depositato presso l’IRCI; vedi anche i riferimenti contenuti in Luciano Monica, La scuola italiana in Jugoslavia. Storia, attualità e prospettive, Centro di Ricerche storiche di Rovigno, Trieste-Rovigno 1991, pp. 42-45, e in Guido Rumici, Italiani d’Istria. Da maggioranza a minoranza: economia e storia di un popolo (1947/1999), ANVGD, Gorizia 1999, pp. 53-61. 44 La dichiarazione, insieme a una simile, anche se meno dettagliata, rilasciata dagli insegnanti di Capodistria, è conservata presso l’archivio del CLNI depositato presso l’IRCI. 45 Vedi al riguardo le prime informazioni offerte da Francesco Cappellano, L’«Esigenza T (Trieste)», in «Storia militare», XII (2004), n. 124, pp. 4-24 e, più analiticamente, Georg Meyr, «Trieste di nuovo all’Italia: l’opzione militare del 1953», in
Ariella Verrocchio (a cura di), Trieste fra ricostruzione e ritorno all’Italia, cit., pp. 134-145. 46 Alvise Savorgnan di Brazzà, La verità su Trieste, Lint, Trieste 1980, p. 146. 47 Direttive per la eventuale occupazione della Zona «A» del TLT, 30 agosto 1953, Roma, Archivio SME, OP, 1953, I-5. Prot. D. 1/Op. Segretissimo. 48 Ibidem. 49 Archivio SME, OP, 1953, I-5. Prot. D. 1/Op. Segretissimo. 50 In un primo momento alcuni ambienti diplomatici inglesi presero abbastanza sul serio la richiesta di plebiscito, mentre gli americani compresero subito che si trattava di un jockening for position. Sui dettagli dell’azione italiana dopo la richiesta di plebiscito vedi Diego de Castro, la Questione di Trieste, cit., vol. II, pp. 560-572; per i giudizi americani vedi il tel. 1988 dell’ambasciatore britannico a Washington, sir R. Makins, al Foreign Office, del 17 settembre, in FO 371/107375/WE 1015/288. 51 Dulles ad Aldrich (ambasciatore americano a Londra) dell’11 settembre 1953, in FRUS, 1952-1956, VIII, pp. 274-277 (la citazione è a p. 276). 52 Sulla visita di Eden a Belgrado e i suoi colloqui con i dirigenti jugoslavi, la ricostruzione più accurata è quella fornita da Massimo de Leonardis, La «diplomazia atlantica» e la soluzione del problema di Trieste, cit., pp. 119-134. 53
Per il testo completo della Nota vedi Diego de Castro, La Questione di Trieste, cit., vol. II, pp. 586-587. 54 Sui progetti di concessione alla Jugoslavia di un’area all’interno del porto industriale di Trieste e comprendente anche alcuni sobborghi della città, oltre ai riferimenti presenti nella già citata opera di Diego de Castro, nonché in Raoul Pupo, Fra Italia e Jugoslavia, cit., vedi l’ampia documentazione conservata in AST, e di cui si dà conto in Stefano Balestra, «La Camera di Commercio di Trieste tra governo militare alleato e ritorno all’Italia», in Arsella Verrocchio (a cura di), Trieste fra ricostruzione e ritorno all’Italia, cit., pp. 54-75. 55 Vedi i telegrammi dell’ambasciatore Luce al dipartimento di Stato nn. 1157 e 1167 del 7 ottobre 1953 e n. 1180 dell’8 ottobre 1953, in FRUS, 1952-1954, VIII, pp. 296-300. 56 CLNI, Le violenze jugoslave in Zona B dopo l’8 ottobre 1953, Trieste 1954, da integrare con il fondo archivistico «dichiarazioni giurate» depositato presso l’IRCI e con i rapporti quotidianamente inviati al ministero degli Esteri dal consigliere politico italiano presso il GMA e consultabili presso l’Archivio storico-diplomatico dello stesso ministero. 57 Il testo è tratto dalla testimonianza giurata resa in data 15 ottobre 1953 da Cecilia Ledovich ved. Vigini, e conservata nel fondo archivistico «dichiarazioni giurate» depositato presso l’IRCI. 58 Per una ricostruzione critica delle scelte compiute dal GMA e delle loro motivazioni, vedi Raoul Pupo, Fra Italia e Jugoslavia, cit., pp. 137-141, e Massimo de Leonardis, La «diplomazia atlantica» e la soluzione del problema di Trieste, cit., pp. 355-363.
59 Per una ricostruzione puntuale della dinamica degli incidenti vedi Diego de Castro, La questione di Trieste, cit., vol. II, pp. 651-708 e s.a. (in realtà, Roberto Spazzali), «Gli incidenti del novembre ’53», in Delbello, Piero (a cura di), I ragazzi del ’53. L’insurrezione di Trieste cinquant’anni dopo, Edizioni Italo Svevo, Trieste 2003, pp. 119-137. 60 Testimonianza giurata rilasciata da Carmela Gregoretti il 27 novembre 1953 e pubblicata nell’opuscolo Le violenze jugoslave in zona B, cit. 61 Per il testo del memorandum vedi «Relazioni internazionali», 9 ottobre 1954, pp. 1158-1161. Per un’analisi del testo e delle diverse bozze preparatorie, vedi Manlio Udina, Scritti sulla questione di Trieste, Giuffrè, Milano 1969, pp. 195-233 e Diego de Castro, La questione di Trieste, cit., vol. II, pp. 921-958 e 1016-1021. 62 Per una ricostruzione dettagliata della fase finale della questione di Trieste, vedi Diego de Castro, La questione di Trieste, cit., vol. II; Raoul Pupo, Fra Italia e Jugoslavia, cit., pp. 151-201; Massimo de Leonardis, La «diplomazia atlantica» e la soluzione del problema di Trieste, cit.; Giampaolo Valdevit, Trieste 1953-1954. L’ultima crisi?, MGS Press, Trieste 1994. 63 Vedi nota 50.
Capitolo 7
1 Vedi al riguardo la relazione del questore al commissario generale del governo a Trieste del 15 ottobre 1957, conservata in ACS, MI GAB 56-60, b. 425, f. 17370/85. 2 La cifra di 350.000 esuli venne stabilita nel corso della seduta del Comitato di coordinamento tra le associazioni degli istriani, fiumani e dalmati tenutasi a Roma il febbraio 1986. In quella sede, al punto 4, fu deliberato quanto segue: «A conclusione di un ampio approfondimento iniziatosi nei due precedenti incontri, considerato il danno che produce presso la pubblica opinione la divulgazione di dati contrastanti sull’entità numerica dell’esodo, presi come base i dati del censimento attuato nel 1958 dall’Opera Profughi (documento depositato ora presso l’Archivio di Stato) e considerata l’incidenza sia di quanti non è stato possibile allora censire, sia degli esodati dopo il 1958, il Comitato ritiene che il dato ufficiale relativo al numero dei profughi sia quello di 350.000 ed impegna le Associazioni aderenti ad adottare tale dato in tutti i documenti e pubblicazioni». Il testo citato compare nel comunicato stampa diffuso al termine dei lavori. Alla cifra di 350.000 si pervenne aggiungendo ai 201.440 censiti dal Colella, altri 150.000, così ripartiti: 35.300 individuati senza assistenza, 54.000 emigrati, 50.700 presunti, 10.000 esodati dopo il 1956. Si noti che il testo parla sempre in termini generali di profughi ed esodati, e non esclusivamente di italiani. A conferma di ciò, Lino Vivoda, presente alla seduta come rappresentante degli esuli da Pola, commentando posteriormente la decisione del Comitato nel suo Infoibati ed esuli: quanti?, in «Istria Europa», VII (1999), n. 25, p. 1, ha fatto esplicito riferimento, oltre che alle «migliaia di esuli che non si erano registrati perché non passati attraverso i campi profughi o perché per emigrare subito con l’IRO si dichiaravano apolidi displaced persons», anche ai «croati dell’Istria, che pur avevano la cittadinanza italiana prima della guerra, come ad esempio quelli fuggiti da Gallignana, perfettamente bilingui, da me visitati nel campo di Latina».
3 Vedi al riguardo la documentazione raccolta presso l’ASMAE, AP 1950-1957, b. 570, f. 16. 4 Vedi al riguardo la documentazione conservata in ACS, MI GAB 1956-60, b. 427, f. 17370/96. 5 Antonio Colella (a cura di), L’esodo dalle terre adriatiche. Rilevazioni statistiche, Opera profughi giuliani e dalmati, Roma 1958. 6 Vedi in proposito il progetto di ricerca «Spostamenti di popolazione e trasformazioni sociali nella provincia di Trieste e nel distretto di Capodistria nel secondo dopoguerra» promosso dal Dipartimento di scienze geografiche e storiche dell’Università di Trieste insieme all’Istituto per la ricerca scientifica della repubblica di Slovenia, di Capodistria. 7 Andrea Matossi e Francesca Krasna, Il «Censimento riservato» del 1939, cit. 8 Il dato è tratto da Ezio e Luciano Giuricin, Trent’anni di collaborazione. Unione Italiana – Università Popolare di Trieste: appunti per la storia delle relazioni tra la Comunità Italiana e la Nazione Madre, in «Etnia», Centro di ricerche storiche di Rovigno, numero unico, Trieste-Fiume 1994, p. 87. 9 Vedi al riguardo Olinto Mileta Mattiuz, Popolazioni dell’Istria, Fiume, Zara e Dalmazia (1850-2001). Ipotesi di quantificazione demografica, in corso di pubblicazione. Ringrazio l’autore per aver messo a mia disposizione il manoscritto.
10 Liliana Ferrari, «La situazione istriana nel dopoguerra e l’esodo», in Tonel, Claudio (a cura di), Trieste 1941-47, cit., p. 161. 11 Darko Dukovski, Egzodus talijanskog stanovništva iz Istre 1945-1956, cit., p. 643. 12 Cristiana Colummi. «Le organizzazioni dei profughi», in Storia di un esodo, cit., pp. 320-321. 13 La testimonianza di Corrado Belci è riportata nel suo Trieste. Memorie di trent’anni (1945-1975), Morcelliana, Brescia 1989, pp. 29-30. 14 Sandi Volk, Ezulski Skrbniki, Znanstveno raziskovalno središče Republike Slovenije, Zgodovinško društvo za južno Primorsko, Knjižnica Annales, Koper 1999, p. 148. 15 Il testo completo, anche se non ufficiale, del rapporto finale della Commissione, è stato pubblicato in «Qualestoria», XXVIII (2000), n. 2, pp. 145-167; «Storia contemporanea in Friuli», XXX (2000), n. 31, pp. 9-35; «Tempi e cultura», V (2001), n. 9, nell’allegato Dieci anni per un documento. 16 Per una panoramica della storiografia croata sull’Esodo, vedi Luciano Giuricin, «L’esodo istriano, fiumano e dalmata nella storiografia croata», in Esodi, cit., pp. 279-285. Ai pochi contributi di studiosi croati elencati in quella sede va ora aggiunto Darko Dukovski, Egzodus talijanskog stanovništva iz Istre, cit. 17
La dichiarazione fu rilasciata nel luglio del 1991 al periodico fiumano «Panorama»; quanto all’attendibilità generale delle prese di posizione di Djilas, spesso incline all’esagerazione, vedi le osservazioni di Mark Mazower, in Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Garzanti, Milano 2000, p. 280. 18 Darko Dukovski, Egzodus talijanskog stanovništva iz Istre, cit., p. 637. 19 Nel caso specifico, la vittima del sequestro riuscì fortunosamente a salvarsi; vedi al riguardo la testimonianza di Marisa Brugna, in Scuola media statale Alghero 2 + Fertilia, Ischida. Le storie nella storia, ANVGD – comitato provinciale di Sassari, Alghero 2003, p. 63. Più in generale, per gli effetti disgreganti del tessuto comunitario legati al diffondersi dei sospetti e delle delazioni, vedi le osservazioni proposte da Gloria Nemec nel suo Un paese perfetto, cit., pp. 222-223. 20 Assai eloquenti al riguardo sono le testimonianze depositate nel Fondo dichiarazioni giurate conservato presso l’archivio dell’IRCI, alcune delle quali sono state pubblicate negli opuscoli, più volte citati, pubblicati a cura del CLN dell’Istria, nonché in Foibe ed esodo, cit. 21 Gianni Rodari, Zona B terra senza legge, in «Il Lavoratore» [giornale comunista cominformista edito a Trieste], edizione straordinaria del 28 aprile 1950. 22 È il termine dispregiativo con il quale gli italiani chiamavano le donne partigiane slave, considerate esseri contro natura. 23 Marisa Brugna, Memoria negata. Crescere in un Centro Raccolta Profughi per Esuli giuliani, Condaghes, Cagliari
2002, pp. 47-48. 24 Giampaolo Valdevit, Relazione in corso di stampa; per una prima e più prudente formulazione vedi Raoul Pupo, L’esodo degli italiani da Zara, da Fiume e dall’Istria (19431946), in «Passato e presente», XV (1997), n. 40, p. 57. 25 Per un’analisi del concetto di spaesamento nel contesto istriano, vedi le osservazioni proposte da Gloria Nemec, Un lungo spaesamento. L’esperienza dei ceti rurali nel movimento dell’esodo dalla zona B, cit. 26 Theodor Veiter, «Soziale Aspekte der italienische Flüchtlinge aus den adriatischen Küstengebieten», in Theo Mayer Maly, Albert Nowak, Theodor Tomandl, Festschrift für Hans Schmitz, Wien-München 1967, vol. II, p. 280. A identiche conclusioni è giunta pure Marina Cattaruzza, in L’esodo istriano, cit., p. 236, che parla di «vuoto simbolico» rispetto alla vicenda storica e all’identità del gruppo italiano in Istria.
Capitolo 8
1 Cristiana Colummi, «Le organizzazioni dei profughi», in Storia di un esodo, cit., pp. 308 segg. 2 Ibidem. 3 Ibidem. 4
Testimonianza di Giovanna B., in Enrico Miletto, Con il mare negli occhi. Storie, luoghi e memorie dell’esodo istriano a Torino, Franco Angeli, Milano 2005. 5 Al riguardo vedi, fra gli altri, Lino Vivoda, L’esodo da Pola, cit., pp. 120-121. 6 Circolare del 18 febbraio 1947, in IG, archivio Mosca, MF 134, b. 35, doc. 1. 7 Profughi, di Piero Montagnana, nell’«Unità», edizione dell’Italia Settentrionale, sabato 30 novembre 1946. 8 Liliana Ferrari, L’esodo da Pola, cit., pp. 209 passim; Corrado Belci, Trieste. Memorie di trent’anni (1945-1975), cit., pp. 30-31. 9 Per una panoramica sulla situazione dei campi profughi, vedi il catalogo della mostra C.R.P. Centro Raccolta Profughi. Per una storia dei campi profughi istriani, fiumani e dalmati in Italia (1945-1970), a cura di Piero Delbello, IRCI, Gruppo giovani dell’Unione degli istriani. Trieste 2004, primo esito di un’ampia ricerca promossa dal medesimo IRCI. 10 La testimonianza è riportata in Sandi Volk, Esuli a Trieste, cit., p. 76. 11 La testimonianza è pubblicata in Gianfranco Cresciani (a cura di), Giulianodalmati in Australia. Contributi e testimonianze per una storia, Associazione Giuliani nel mondo, Trieste 1999, pp. 154-155. 12
Vedi la testimonianza di Piero Massarotto in Scuola media statale Alghero 2 + Fertilia, Ischida. Le storie nella storia, cit. pp. 91-95. 13 Vedi la testimonianza di Daria Battaia, ibid., pp. 102-103. 14 Vedi la testimonianza di Redenta Orlich, profuga da Zara, ibid., pp. 49-52. 15 Testimonianza di Romano Solis, pubblicata in Corso Alessandria 62. La storia e le immagini del Campo Profughi di Tortona, 2a edizione riveduta e ampliata, Microart’s Edizioni, Recco-Genova 1999, p. 71. 16 Testimonianza di Giovanni Battista Ventura, ibidem. 17 Vedi anche le testimonianze riportate in Pietro Porta, «Un villaggio dentro la città», in Corso Alessandria 62, cit., pp. 71-72. 18 Cfr. Cristiana Colummi, Le organizzazioni dei profughi, cit., pp. 322-323; Flaminio Rocchi, L’Esodo dei Giuliani, Fiumani e Dalmati, cit., p. 207. 19 Marino Micich, I giuliano-dalmati a Roma e nel Lazio, Edizioni Associazione per la cultura fiumana, istriana e dalmata nel Lazio, Roma 2003. 20 Vedi l’Ordine n. 64 del 19 dicembre 1947, in Gazzetta Ufficiale del GMA, n. 10, 21 dicembre 1947. 21
Bogdan Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica ed ideologica, Mursia, Milano 1966, p. 285; Raoul Pupo, Tempi nuovi, uomini nuovi. La classe dirigente amministrativa a Trieste 1945-1956, in «Italia contemporanea», 2003, n. 231, pp. 256-277. 22 La lettera era firmata da Nicolò Ramani per Capodistria, Giovanni Delise per Isola d’Istria, Bruno Pitocco per Pirano, Benedetto Baissero per Buie, Pellegrino Zacchigna per Umago e Umberto Mellon per Cittanova. L’originale è conservato in APAS, 8 A/II a/2/n. 29c, e parzialmente riprodotto in Sergio Galimberti, Santin. Testimonianze dall’archivio privato, MGS Press, Trieste 1996, pp. 109-110. Ringrazio l’amico Galimberti per aver cortesemente messo il testo a mia disposizione, in quanto l’archivio è in corso di trasloco. 23 Primo presidente di zona fu nominato il socialista Edmondo Puecher, il cui vice, il democristiano Gino Palutan, gli subentrò nel 1948; vice presidente divenne allora il socialista Carlo Schiffrer. 24 Giampaolo Valdevit, «La labour policy del governo militare alleato (1945-1954)», in Luigi Ganapini (a cura di), ... anche l’uomo doveva essere di ferro. Classe e movimento operaio a Trieste nel secondo dopoguerra, Franco Angeli, Milano 1986, pp. 245-279. 25 Vedi al riguardo il verbale della seduta tenutasi il 1° giugno 1950 «per discutere vari problemi concernenti l’assistenza e i profughi», conservato in AST CGG, b, 135, f. 0321. Per una panoramica sul problema dell’inserimento dei profughi in Italia vedi Sandi Volk, Ezulski Skrbniki, cit., e Id., Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale, Kappa Vu, Udine 2004.
26 Il decreto del GMA n. 219 del 29 novembre 1950 abrogò il precedente decreto n. 64 del 19 dicembre 1947 e concedette la residenza stabile a quanti erano registrati al 1° novembre 1950 da almeno un anno come domiciliati stabilmente nella zona A e chiedevano la residenza entro sei mesi. 27 Il termine compare in un appunto inviato il 16 agosto 1952 da Palutan al nuovo direttore superiore italiano per gli affari civili del GMA, il prefetto Vitelli. Il documento è conservato in AST CGG, b, 135, f. 0321. 28 Il termine compare in una lettera inviata il 4 febbraio 1953 dall’OAPGD al direttore degli interni del GMA, prefetto Memmo, nella quale fra l’altro si legge che il Consigliere Politico italiano «ha mostrato di apprezzare i criteri del nostro lavoro che coincidono perfettamente con le sue vedute circa la “bonifica nazionale” della zona Barcola-Duino». Il documento è conservato in AST CGG, b, 135, f. 0321. 29 Liliana Ferrari, «I problemi dell’inserimento», in Storia di un esodo, cit., p. 521; Niccolò Ramani, Tra solidarietà e incomprensione. Un protagonista ricorda e riflette sull’arrivo in Italia dei profughi, in «Il Territorio», XII (1989), n. 25, pp. 209-222. Per quanto riguarda le reazioni, coralmente negative, dell’opinione pubblica e della pubblicistica slovena all’insediamento dei profughi, vedi, oltre a Sandi Volk, Ezulski skrbniki, cit., Luciano Volk, «Mutamenti socioeconomici in rapporto alla comunità nazionale slovena nella provincia di Trieste», in Atti della Conferenza internazionale sulle minoranze, Trieste 1981. 30 La citazione è tratta dalla p. 12 del «libro verde» dal titolo Esodo dalla zona B. Proposte per l’accoglimento e la
sistemazione dei profughi, prodotto dal CLNI nel maggio del 1954 e i cui contenuti servirono da linee-guida per l’azione del governo. Il documento è conservato in AST CGG, b, 65, f. 8/3. 31 Ibid., p. 1. 32 La citazione è tratta da un’intervista pubblicata in Gloria Nemec, Un paese perfetto, cit., p. 327. 33 Lo slogan venne coniato da Guido Botteri, futuro segretario provinciale della DC di Trieste, in occasione del terzo congresso del Movimento Istriano della DC, tenutosi il 14 settembre 1958. Vedi al riguardo il resoconto pubblicato su «La Prora» del 20 settembre 1958, p. 13. 34 La testimonianza è riportata in Gloria Nemec, Un lungo spaesamento. L’integrazione urbana dei ceti rurali provenienti dalla Zona B, in «Qualestoria», XXXI (2003), n. 2, pp. 46-55. 35 Gloria Nemec, Un paese perfetto, cit.; Ead., The Redefinition of Gender Roles and Family Structures among Istrian Peasant Families Faced with Urban Society in Trieste, cit. 36 Roberto Danese, Luciano Santin, Istria omnia: tutte le barzellette sugli istriani, edizioni Luciano Santin, Trieste 1997. 37 Gloria Nemec, The Re-definition of Gender Roles and Family Structures among Istrian Peasant Families, cit.,
da cui più in generale traggo le osservazioni proposte in questa parte. 38 Marisa Madieri, Verde acqua, Einaudi, Torino 1987. 39 Manca ancora uno studio complessivo dell’intensa vicenda pastorale e politica di monsignor Antonio Santin; nel frattempo, oltre all’autobiografia di monsignor Santin Al tramonto, cit., vedi il profilo di Guido Botteri, Antonio Santin, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992; il contributo di Paolo Blasina relativo agli anni di guerra Vescovo e clero nella diocesi di TriesteCapodistria 1938-1945, IRSMLFVG, Trieste 1993, e la raccolta documentaria di Sergio Galimberti, Santin. Testimonianze dall’archivio privato, cit. Sulla figura e l’opera di don Marzari vedi Libero Pelaschiar, Edoardo Marzari. Sacerdote, educatore, patriota 1905-1973, Morcelliana, Brescia 2003. Per una panoramica sulla classe dirigente democratico-cristiana triestina del dopoguerra vedi Corrado Belci, Gli uomini di De Gasperi a Trieste, Morcelliana, Brescia 1998. 40 L’unica eccezione fu quella di Spartaco Schergat, medaglia d’oro della Seconda guerra mondiale (fu uno degli affondatori della Queen Elizabeth nel porto di Alessandia d’Egitto), con tutta evidenza inserito nella lista non per le sue origini istriane ma per i suoi eroici trascorsi. Vedi al riguardo Raoul Pupo, Tempi nuovi, uomini nuovi, cit. 41 Ibidem. 42 Sulle figure di Corrado Belci e di Giacomo Bologna, vedi le rispettive autobiografie politiche, Corrado Belci, Trieste. Memorie di trent’anni (1945-1975), Morcelliana, Brescia
1989 e Giacomo Bologna, A salvare la Patria c’ero anch’io. Forse, Edizioni Italo Svevo, Trieste 2001.
Capitolo 9
1 La testimonianza è pubblicata in Francesco Fait, L’emigrazione giuliana in Australia (1954-1961), Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, Ente regionale per i problemi dei migranti, Udine 1999, pp. 73-74. 2 Ibid., p. 73. 3 Giani Stuparich, Trieste emigra, in «Il Lavoratore», 1° agosto 1955. 4 La testimonianza è pubblicata in Francesco Fait, L’emigrazione giuliana in Australia, cit., p. 74. 5 Sull’emigrazione dei giuliani in Australia, oltre al già cit. Francesco Fait, L’emigrazione giuliana in Australia, vedi Carlo Donato, Pio Nodari, L’emigrazione giuliana nel mondo: note introduttive, in «Quaderni del centro studi Ezio Vanoni», Nuova Serie, II (1995), n. 3/4; Gianfranco Cresciani, Storia e caratteristiche dell’emigrazione giuliana, istriana e dalmata in Australia, in «Qualestoria», XXIV (1996), n. 2, pp. 35-65; Id., Giulianodalmati in Australia. Contributi e testimonianze per una storia, Associazione Giuliani nel mondo, Trieste 1999. 6
Vedi al riguardo le osservazioni di Aleksander Panjek, Chiara de Draganich Veranzio, «Ricostruzione e immigrazione di manodopera specializzata nel dopoguerra triestino», in Trieste fra ricostruzione e ritorno all’Italia, cit., pp. 16-37. 7 Giampaolo Valdevit, «La labour policy del Governo militare alleato (1945-1954)», in ... anche l’uomo doveva essere di ferro, cit., pp. 245-279; nello stesso volume vedi anche Fulvio Bednarz, «Crisi economica e governo della società», pp. 281322. Più recentemente vedi Giulio Mellinato, «Il governo delle risorse (1943-1947)», in Ariella Verrocchio (a cura di), Trieste tra ricostruzione e ritorno all’Italia, cit., pp. 38-49. 8 Vedi al riguardo la ricostruzione proposta da Stefano Balestra, «La Camera di Commercio di Trieste tra Governo militare alleato e ritorno all’Italia», in Ariella Verrocchio (a cura di), Trieste fra ricostruzione e ritorno all’Italia, cit., pp. 5075. 9 Giulio Sapelli, Trieste italiana, cit., pp. 183-192. 10 Per un’analisi più dettagliata vedi Stefano Balestra, La questione zona franca nel dibattito politico a Trieste fra il 1954 e il 1959, in «Quaderni del centro studi Ezio Vanoni», Nuova Serie, VII (2001), n. 1/2. 11 A una riconsiderazione critica di tutta la vicenda dunque, alquanto fuori fuoco risulta il classico giudizio a suo tempo espresso da Carlo Schiffrer, che leggeva la diversità di valutazione fra categorie economiche e forze politiche manifestatasi in occasione del voto del consiglio comunale, nell’ottica del «dualismo freudiano» che nella storia triestina ha spesso contrapposto le esigenze della politica a quelle
dell’economia. La valutazione di Schiffrer compare in Per superare la crisi, in «Trieste», 1957, n. 18. 12 Vedi al riguardo la ricostruzione offerta da Corrado Belci, Trieste, cit., pp. 65-68. 13 Raoul Pupo, Tempi nuovi, uomini nuovi, cit. 14 Testimonianza pubblicata in Francesco Fait, L’emigrazione giuliana in Australia, cit., p. 72. 15 Elio Apih, Trieste, cit., p. 186. 16 Per un’analisi approfondita della situazione occupazionale triestina nella prima metà degli anni Cinquanta, anche in relazione ai flussi migratori, vedi Aleksander Panjek, Chiara de Draganich Veranzio, Ricostruzione e immigrazione di manodopera specializzata nel dopoguerra triestino, cit. 17 Ibidem. 18 Vittorio Vidali, Ritorno alla città senza pace. Il 1948 a Trieste, Vangelista, Milano 1982, pp. 68-69. 19 Francesco Fait, L’emigrazione giuliana, cit., p. 62. 20 Pio Nodari, L’emigrazione giuliana nel mondo, cit., pp. 4950. 21 Vedi al riguardo Gianfranco Cresciani, The Italians, Australian Broadcasting Company, Sidney 1985.
22 La testimonianza è pubblicata in Francesco Fait, L’emigrazione giuliana, cit., p. 72. 23 Ibid., p. 71. 24 Ibid., p. 78. 25 Ibid., p. 77. 26 La testimonianza è pubblicata in Francesco Fait, L’emigrazione giuliana, cit., p. 76. 27 Ibidem. 28 La testimonianza è pubblicata in Gianfranco Cresciani, Giuliano-dalmati in Australia, cit., p. 142. 29 La testimonianza è pubblicata in Francesco Fait, L’emigrazione giuliana in Australia, cit., p. 84. 30 La testimonianza è pubblicata in Gianfranco Cresciani, Giuliano-dalmati in Australia, cit., p. 183. 31 Ibid., p. 205. 32 Ibid., p. 90. 33 La testimonianza è pubblicata in Francesco Fait, L’emigrazione giuliana in Australia, cit., p. 78.
34 La testimonianza è pubblicata in Gianfranco Cresciani, Giuliano-dalmati in Australia, cit., p. 185. 35 Giulio Sapelli, Trieste italiana, cit., pp. 182-183.
Conclusione
1 Vedi al riguardo le informazioni offerte da Milica Kacin Wohinz e Jože Pirjeveč, Storia degli sloveni in Italia, cit., che riporta anche una bibliografia aggiornata sull’argomento. 2 Le stime formulate sulla consistenza numerica degli sloveni in Italia nel dopoguerra variano dai 50.000 ai 125.000; si tratta evidentemente di dati molto diversi, che la dicono lunga sulle difficoltà di una quantificazione attendibile, tanto più che da diversi decenni i censimenti italiani non prevedono domande sul gruppo linguistico di appartenenza. Per aiutare il lettore a orientarsi, si riporta quindi una tabella delle diverse stime, così come costruita da Emidio Sussi, nel suo «Gli Sloveni in Italia: la situazione attuale e le prospettive», in Vincenzo Orioles (a cura di), La legislazione nazionale sulle minoranze linguistiche. Problemi, Applicazioni. Prospettive, numero monografico di «Pluringuismo. Contatti di lingue e culture», 2002, n. 9, pp. 203-216. Al saggio di Sussi si rinvia senz’altro per un approfondimento della complessa materia. Stime sulla consistenza numerica degli Sloveni in Italia.
3 Vedi per esempio gli scrittori Alojz Rebula e Boris Pahor, e i pittori Avgust Cernigoj e Lojze Spazal. 4 Sul «caso Hreščak» (tale era il nome dell’esponente sloveno, ex partigiano titino e direttore dal 1945 al 1947 del quotidiano filojugoslavo «Primorski dnevnik», la cui ventilata partecipazione alla giunta comunale di Trieste innescò una durissima battaglia politica) e più in generale sulla lotta politica a Trieste negli anni Sessanta e Settanta, vedi Raoul Pupo, Guerra e dopoguerra al confine orientale, cit. Sulla formazione della classe politica triestina nel dopoguerra vedi pure Ariella Verrocchio, «Elezioni, eletti, rappresentanza politica a Trieste nel secondo dopoguerra», in Ead. (a cura di), Trieste tra ricostruzione e ritorno all’Italia (1945-1954), cit., pp. 76-97. 5 Sulle vicende che condussero alla formazione della regione Friuli-Venezia Giulia e sulle sue dinamiche politiche, vedi Michele Degrassi, «L’ultima delle regioni a statuto speciale», in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Friuli-Venezia Giulia, vol. 1, Einaudi, Torino 2002, pp. 759-804.
6 Vedi la Legge n. 38 del 23.02.2001, Norme per la tutela della minoranza linguistica slovena della regione Friuli-Venezia Giulia; in termini più generali, va ricordata anche la Legge n. 482 del 15.12.1999, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche. 7 Vedi al riguardo il Rapporto finale della commissione storico-culturale italo-slovena, cit. 8 Ezio Giuricin, Quale storia per la Comunità italiana di queste terre?, in «La Ricerca», Bollettino del Centro di ricerche storiche di Rovigno, 1996, n. 15, pp. 10-12. 9 Luciano Giuricin e Giacomo Scotti, Una storia tormentata, in «Italiani a Fiume», edizioni Comunità degli Italiani di Fiume, Fiume 1996, pp. 50-51. 10 Vedi al riguardo le testimonianze riportate in Guido Rumici, Fratelli d’Istria. 1945-2000. Italiani divisi, Mursia, Milano 2001, cui si rinvia anche per una panoramica sulla storia delle comunità italiane in Jugoslavia dopo l’Esodo. 11 Sulla crisi croata vedi Jože Pirjeveč, Il giorno di San Vito. Jugoslavia 1918-1922. Storia di una tragedia, Nuova Eri, Torino 1993, pp. 363-402. 12 Vedi al riguardo Milica Kacin Wohinz e Jože Pirjeveč, Storia degli sloveni in Italia, cit., pp. 132-135. Sulla situazione attuale della minoranza slovena in Italia vedi Emidio Sussi, Gli Sloveni in Italia, cit. 13
Per una ricostruzione particolareggiata dei rapporti fra Italia e Slovenia vedi il già citato Stefano Lusa, ItaliaSlovenia 1990-1994. Per una panoramica sulla complessa questione dei beni abbandonati, vedi Flaminio Rocchi (a cura di), L’Istria dell’esodo: manuale legislativo dei profughi istriani, fiumani dalmati, Difesa Adriatica, Roma 2002. Per l’evoluzione della situazione, nonché per le posizioni anche assai diverse esistenti sull’argomento fra le organizzazioni degli esuli, si rinvia allo spoglio della stampa della diaspora istriana. 14 Nel censimento del 1991 si sono dichiarate italiane in Croazia 21.303 persone (nel 1981 erano 11.661), e in Slovenia 3063 (nel 1981 erano 2187). Si tratta però di dati puramente indicativi, e la materia richiederebbe una complessa analisi che va al di là dei fini di questo libro; per un approfondimento si rinvia quindi al volume realizzato dal Centro di ricerche storiche di Rovigno, La comunità nazionale italiana nei censimenti jugoslavi 19451991, Unione Italiana – Fiume, Università popolare di Trieste, Trieste-Rovigno 2001. Per un confronto con i precedenti censimenti, vedi Guerrino Perselli, I censimenti della popolazione dell’Istria, con Fiume e Trieste, e di alcune città della Dalmazia tra il 1850 e il 1936, cit. I dati qui riportati possono quindi essere utilizzati soltanto per avere un’idea dell’ordine di grandezza di quanto rimane della componente italiana in Istria.
BIBLIOGRAFIA FONTI
Fonti archivistiche Archivio Centrale dello Stato, Roma – Ministero dell’Interno: Segreteria particolare del capo della polizia; Direzione generale di pubblica sicurezza, Affari generali e riservati; Direzione generale dei servizi civili – Presidenza del consiglio dei ministri Archivio di Stato di Trieste – Prefettura/Gabinetto 1923-1952 – Commissariato generale del governo Arhiv Republike Slovenije Arhiv informacijske službe in protifašističnega boja (Archivio del servizio informazioni e della lotta antifascista) – Zvevz komunistov Slovenije (Lega dei comunisti della Slovenia) – CK KPS Centralni komite Komunistične partije Slovenije – CK ZKS Centralni komite Zveze komunistov Slovenije Archivio storico diplomatico del ministero degli Affari esteri – Affari commerciali – Affari politici 1930-1945 – Affari politici 1946-1950
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Fonti orali Archivio dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, Torino. Archivio dell’Istituto regionale per la cultura istriano fiumano dalmata, Trieste (IRCI). Archivio dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Trieste (IRSMLFVG). Archivio della Narodna in študijska knjižnica v Trstu – Odsek za zgodovino, Trieste.
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Indice Copertina Trama Biografia Frontespizio Copyright PERCHÉ CAPITOLO 1 - Esodo e storia d'Italia L'Esodo dei giuliano-dalmati Storiografia e uso politico della storia CAPITOLO 2 - L'area giuliana fra le due guerre Popolamento italiano e popolamento slavo Il difficile inserimento nello Stato italiano La politica del fascismo nei confronti degli slavi L'emigrazione slovena e croata Le associazioni degli emigranti e il movimento clandestino CAPITOLO 3 - La guerra e la sua violenza L'impatto della guerra sulla società giuliana L'Istria e le origini del movimento di liberazione croato L'8 settembre Le foibe istriane La distruzione di Zara e i primi profughi La «svolta d'autunno» La crisi del maggio 1945 La repressione jugoslava CAPITOLO 4 - Gli obiettivi jugoslavi e il trattato di pace La «fratellanza italo-slava» La conferenza di pace La questione del plebiscito CAPITOLO 5 - La prima ondata: Fiume, Pola e i territori ceduti nel 1947 Fiume Un «controesodo»?
Pola I territori ceduti nel 1947 CAPITOLO 6 - La zona B del Territorio Libero di Trieste Popolazione e poteri popolari La strana sorte del TLT La crisi del Cominform e le sue conseguenze La fase finale della crisi e il «grande Esodo» CAPITOLO 7 - I nodi interpretativi Le dimensioni dell'Esodo Un Esodo o più esodi? Le motivazioni del potere Le motivazioni degli esuli CAPITOLO 8 - I problemi dell'insediamento Un'accoglienza difficile Gli esuli a Trieste CAPITOLO 9 - L'emigrazione in Australia La madre torna, i figli partono Il nuovo mondo Esodo ed emigrazione a Trieste CONCLUSIONE CARTINE ABBREVIAZIONI NOTE Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Conclusione BIBLIOGRAFIA FONTI
LETTERATURA REFERENZE FOTOGRAFICHE