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Italian Pages 208 [206] Year 2013
IL LINGUAGGIO DELLE AFASIE Documento acquistato da () il 2023/04/27.
Saggi su L’interpretazione delle afasie di Sigmund Freud
a cura di Franco Scalzone, Gemma Zontini
L IGUORI E DITORE
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Lo specchio di Psiche 8
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Il linguaggio delle afasie Saggi su L’interpretazione delle afasie di Sigmund Freud a cura di Franco Scalzone e Gemma Zontini
Liguori Editore
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Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati.. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2013 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Aprile 2013 Scalzone, Franco (a cura di): Il linguaggio delle afasie. Saggi su L’interpretazione delle afasie di Sigmund Freud/ Franco Scalzone, Gemma Zontini (a cura di) Lo specchio di Psiche Napoli : Liguori, 2013 ISBN eISBN
978 - 88 - 207 - 5985 - 8 (a stampa) 978 - 88 - 207 - 5986 - 5 (eBook)
1. Psicoanalisi 2. Inconscio
I. Titolo
II. Collana III. Serie
Aggiornamenti: ————————————————————————————————————————— 20 19 18 17 16 15 14 13 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
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INDICE
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Ringraziamenti
1
Introduzione di Franco Scalzone
Parte I Per comprendere le afasie: alcuni concetti fondamentali 27
Introduzione a On aphasia di Sigmund Freud di Erwin Stengel
35
Proto-Dizionario di psicoanalisi di Ana-Maria Rizzuto
53
Sull’origine del concetto freudiano di Repräsentanz di Francesco Napolitano
Parte II Dall’afasia alla metapsicologia: vie della psicoanalisi 71
Ri-valutazione del libro di Freud L’interpretazione delle afasie. Il suo significato per la psicoanalisi di Erwin Stengel
81
L’incidenza de L’interpretazione delle afasie di Freud sulle sue teorie e la sua tecnica di Ana-Maria Rizzuto
107
L’ombelico delle parole di Gemma Zontini
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viii
INDICE
Parte III L’eredità delle afasie: da Freud a Lacan 135
Freud, il neurone e il buon samaritano di Fulvio Marone
155
L’inconscio è strutturato come un linguaggio. Dalla parafasia al motto di spirito di Francesca Tarallo
175
Lalingua: godimento della grammatica, grammatica del godimento
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di Antonella Gallo
191
Gli autori
195
Titoli originali degli articoli di autori stranieri
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Ringraziamenti L’idea ed alcuni dei contributi di questo volume sono nati nel contesto delle attività didattiche e di approfondimento teorico della Sede di Napoli dell’Istituto per la Clinica dei Legami Sociali (ICLeS), legalmente riconosciuto per la formazione ad orientamento lacaniano degli psicoterapeuti. Vorremmo perciò ringraziare l’ICLeS e il dr. Fulvio Marone per il contributo dato alla realizzazione dell’opera collettanea da noi curata. Un ringraziamento va anche alla dr.ssa Laura de Caprariis per la traduzione dall’inglese dell’articolo della dr.ssa A.-M. Rizzuto alla quale va anche la nostra particolare gratitudine per aver inviato un lavoro scritto espressamente per questa antologia. Un ringraziamento alle dr.sse Alessia Pagliaro e Vanessa Errico per la loro collaborazione nella redazione dell’opera. Un grazie va alla dr.ssa Manuela Vacca che ha messo a disposizione una sua opera grafica per comporre la copertina del volume. Infine un ringraziamento al dr. Guido Liguori per l’estrema disponibilità nella pubblicazione dell’antologia.
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INTRODUZIONE
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di Franco Scalzone
«Originariamente le parole erano magie e, ancora oggi, la parola ha conservato molto del suo antico potere magico. Con le parole un uomo può rendere felice l’altro o spingerlo alla disperazione, con le parole l’insegnante trasmette il suo sapere agli allievi, con le parole l’oratore trascina con sé l’uditorio e ne determina i giudizi e le decisioni. Le parole suscitano affetti e sono il mezzo comune con il quale gli uomini si influenzano tra loro. Non sottovalutiamo quindi l’uso delle parole nella psicoterapia e saremo soddisfatti se ci sarà data l’occasione di ascoltare le parole che si scambiano l’analista e il suo paziente». (Freud S., 1915-1917, p. 201).
Premessa L’esergo posto all’inizio di questa presentazione serve ad indicare l’importanza che assume per Freud la parola, e perciò il linguaggio e quindi la talking cure, e il fatto che egli, a partire da L’interpretazione delle afasie, sia stato il primo ad affrontare il problema del potere della parola da un punto di vista scientifico, pur riconoscendogli anche un “potere magico”. Freud pubblicò L’interpretazione delle afasie nel 1891 e la dedicò al suo amico Breuer. Bernfeld la definì «la prima opera “freudiana”» (1944, p. 56). (A pagina IX è riportato il frontespizio del testo originale in tedesco). L’apparato del linguaggio costituì il primo abbozzo del modello dell’apparato psichico tout court, e lo stesso Freud nella Lettera a Fliess del 21 maggio 1894, disse che il libro era tra «le cose realmente buone» (p. 96) che aveva scritto. Nell’Autobiografia invece definì lo studio sulle afasie «un libretto critico speculativo» (1924, p. 86), quasi a volerne sminuire l’importanza.
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INTRODUZIONE
Bisogna essere d’accordo con l’affermazione di Stengel (1953, p. xiii, trad. it. in questa antologia, p. 31), secondo cui l’“apparato del linguaggio” è il fratello maggiore dell’“apparato psichico”: il primo modello che fornisce anche le basi per la teoria dell’interpretazione dei sogni, per la nozione di processo primario e secondario, per il concetto dei processi inconsci e che, come modello teorico, fu la base per la talking cure (vedi anche Rizzuto, 1989 e 1990). Molti autori ritengono che L’interpretazione delle afasie (1891), piuttosto che il Progetto di una psicologia (1895), costituisca l’anello mancante tra la psicoanalisi e le neuroscienze perché in quest’opera Freud, utilizzando i concetti di rappresentazione e sovradeterminazione, costruì un modello non-localizzazionistico, ma distribuito e gerarchico secondo l’insegnamento della concezione olistica di Hughlings Jackson, e tracciò uno schema dell’apparato del linguaggio che costituirà la base del modello dell’organizzazione della memoria e dell’apparato mentale tout court, come sarà in seguito esposto nel capitolo 7 de L’interpretazione dei sogni e nelle opere successive. Non a caso anche Grossman (1992) partì proprio da L’interpretazione delle afasie per prendere in esame la descrizione teorica di Freud del funzionamento psichico dal punto di vista del modello centrale dell’apparato del linguaggio: la costruzione della sua descrizione immaginaria della psiche e di alcune caratteristiche essenziali che emergono dallo schema della struttura da lui proposto. Egli scrive: Meno evidente, fino a poco tempo fa, è il fatto che molte delle sue formulazioni cliniche successive mantengano sia la struttura, sia, talvolta il linguaggio del suo lavoro originario, L’interpretazione dell’afasia (Freud 1891; vedi anche Edelheit 1969, 1978; Stengel 1954). In quella monografia, Freud propone alcune riflessioni sul modo in cui la periferia del corpo è rappresentata nel cervello. Egli, poi, discute ed estende queste sue idee al quadro complesso inerente la formazione delle parole, degli oggetti e delle loro associazioni. In tal modo, egli costruisce un modello basato sull’assetto spaziale o topografico del sistema nervoso, che usa come una delle cornici che organizzano la teoria psicoanalitica. La disposizione spaziale schematica del sistema nervoso è la fonte che ha ispirato a Freud le immagini spaziali dell’apparato mentale, gli occasionali diagrammi e le sue descrizioni diagrammatiche delle relazioni mentali (pp. 85-86).
Dice Freud: «Noi supponiamo che la vita psichica sia la funzione di un apparato al quale ascriviamo estensione spaziale e struttura composita e che figuriamo dunque simile a un cannocchiale, a un
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INTRODUZIONE
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microscopio e ad altri strumenti del genere. L’elaborazione coerente di un’idea come questa rappresenta, a prescindere da certe approssimazioni già tentate in passato, una novità scientifica» (Freud, 1938, p. 572). Notiamo a questo proposito come in Freud possiamo trovare concettualmente la stessa struttura di rappresentazione grafica a rete sia per l’apparato del linguaggio ne L’interpretazione delle afasie che in testi precedenti e successivi. Ad esempio negli studi di biologia del Petromyzon planeri (Freud, 1878) fatti sotto la direzione di Brücke, nel Progetto di una psicologia (la rete di neuroni dell’Io, la discontinuità della coscienza nel grafico del caso clinico di Emma, il processo della rimozione ecc.), nella Psicopatologia della vita quotidiana (grafico dell’episodio di “Signorelli”) ecc., si può individuare una struttura interna comune (anche Borck, 1998). Da un punto di vista grafico, ma anche concettuale, Freud rappresenta spesso con cerchietti e linee le connessioni tra gli elementi, e a volte anche con frecce che ne indicano la direzione. Riporto qui come esempio soltanto un grafico (fig. 1) dagli studi che riguardavano la formazione delle cellule nervose dell’Ammocoetes (forma larvale bisessuale del Petromyzon planeri) – le cellule gangliari bipolari dette “cellule di Reissner” – per testimoniare la continuità delle rappresentazioni del pensiero freudiano che utilizzano gli stessi meccanismi per modellizzare ambiti differenti sia del funzionamento neurologico che di quello psicologico. (Ho sovrapposto cerchietti e linee di connessione per esplicitare l’identità di struttura). Appare evidente la somiglianza con il grafico della rappresentazione di parola (vedi schema p. 87 di questa antologia).
Figura 1
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INTRODUZIONE
Notiamo che per i grafici della monografia di cui ci stiamo occupando egli fa una rappresentazione meno realistica, ma senza che si perda il valore informazionale delle funzioni logiche dell’apparato rispetto alla fedeltà anatomica. Il diagramma rassomiglia più allo schema di un circuito elettronico stampato che non ad una tavola anatomica. A sottolineare l’importanza che Freud dava a questi suoi lavori di biologia ricordo ciò che riporta Sulloway: «Com’egli stesso ammise a sessantotto anni di età, “il tentativo di identificarmi con l’autore del saggio sui gangli spinali dell’Ammocete sottopone a gravi sollecitazioni l’unità della personalità. Nondimeno devo essere lui, e penso di essere stato più felice per quella scoperta che per altre fatte dopo di allora” (Freud/Abraham Letters, p. 369)». (Sulloway, 1979, p. 551). L’apparato del linguaggio costituisce un paradigma ideale per affrontare il problema dei rapporti mente-corpo perché fa dell’uomo una macchina biologica che parla e che desidera parlando (Castellarin, 2002). È un apparato a più livelli il cui studio può essere focalizzato sia sulla ben nota base anatomica – in primis l’area motoria di Broca e l’area sensoriale di Wernicke – sulle complesse interconnessioni anatomo-funzionali corticali, transcorticali e sottocorticali, sia sul funzionamento neurofisiologico, sia infine sul funzionamento psichico. Inoltre i disturbi inerenti a questo sistema possono essere sia organici, come i vari tipi di afasie, sia funzionali come le parafasie delle isteriche. L’apparato permette anche di ipotizzare una serie di strutture virtuali intermedie – strutture funzionali – quali la rappresentazione di oggetto e la rappresentazione di parola. Ricordiamo che all’epoca Freud pensava che il processo psichico fosse un processo parallelo a quello fisiologico (a dependent concomitant) secondo le idee di Jackson. Per tali ragioni Castellarin opportunamente nota: «A mio parere neuroscienze e psicoanalisi si possono parlare... parlando» (op. cit., p. 138). A.-M. Rizzuto (1989), da parte sua, sostiene che Freud scrisse L’interpretazione delle afasie per dimostrare, tra l’altro, che la patologia del linguaggio delle sue pazienti isteriche dipendeva da una afasia funzionale asimbolica dovuta ad una transitoria separazione tra le rappresentazioni d’oggetto cariche di una forza affettiva – che sono in sostanza oggetti interni in quanto tracce mnestiche inconsce – e “le parole per dirlo”. Notiamo che per queste afasie l’interruzione associativa si situa tra le tracce mnestiche e il linguaggio: perciò possiamo dire che il danno riguarda la memoria semantica e che esso è transitorio. Inoltre,
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lo studio sulle afasie sarebbe servito a Freud per costruire il suo modello della patogenesi dell’isteria e la sua tecnica analitica, nonché per comprendere il potere curativo della “parola parlata” – la talking cure – che, dopo tutto, traeva concettualmente la sua origine dallo stesso apparato del linguaggio. L’afasia funzionale asimbolica può verificarsi “sotto l’influenza di affetti disturbanti” come avviene per gli stati di dissociazione dell’isteria. Il modo per superare questo ostacolo, e ristabilire il collegamento tra le rappresentazioni d’oggetto e di parola, è l’utilizzazione del libero associare all’interno della talking cure. Le parafasie, e in particolare quelle isteriche, storicamente e concettualmente, sono state fondamentali per la costruzione della clinica psicoanalitica. Freud nella voce Aphasie del 1888, scritta per il Dizionario Medico di Villaret, dice: «[...] parafasia, che consiste nell’uso da parte del paziente di parole inappropriate ad esprimere i suoi pensieri senza rendersene conto. Questa parafasia può andare così lontano che il linguaggio del paziente diventa del tutto senza senso e i pazienti vengono visti come disturbati mentali» (Freud, 1888, p. 33, trad. mia). E la Rizzuto scrive: «Le “parafasie” sono come frecce che puntano in direzione di un disturbo della funzione del linguaggio dovuto all’asimbolia, cioè ad una separazione tra la parola verbalizzata e le “occorrenze” (Einfälle) rappresentazionali che non possono essere tollerate consciamente. In seguito Freud avrebbe introdotto il concetto di difesa come meccanismo dissociativo di mediazione che interferisce con la piena verbalizzazzione» (Rizzuto, 1993, p. 182). A differenza delle afasie asimboliche funzionali nevrotiche, l’afasia schizofrenica (afasia psicotica, sorta di afasia agnosica) è una conseguenza della perdita delle rappresentazioni d’oggetto, alle quali le rappresentazioni di parola si riferiscono, e delle loro associazioni. A volte, come sappiamo, tali afasie comportano come conseguenza nel soggetto, a livello sintomatologico: l’insalata di parole, i neologismi, i semplici vocalizzi privi di significato, il mutacismo ecc.; espressioni della dissoluzione dell’apparato del linguaggio nella sua totalità. Per questa ragione queste afasie risentono poco o nulla della talking cure.
Sull’apparato Sin dal tempo de L’interpretazione delle afasie, testo apparentemente di argomento neurologico, appare evidente il graduale abbandono da
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INTRODUZIONE
parte di Freud dell’obiettivo di creare un modello esclusivamente neurologico della psiche. Egli preparava la strada per il futuro mutamento di rotta verso un modello che privilegiasse le rappresentazioni e che fosse sempre più orientato in senso psicologico. Utilizzò infatti il concetto jacksoniano di dependent concomitant secondo il quale considerò lo psichico un processo parallelo a quello fisiologico: esso proveniva dal concetto di parallelismo psico-fisico di Fechner a sua volta risalente alle concezioni del filosofo Herbart. Usando il parallelismo psico-fisico, Freud si sentiva ora libero di affrontare lo studio dei processi psichici senza dover tenere conto del substrato organico da un punto di vista neurofisiologico, ma senza per questo negarlo; tuttavia in questo modo imboccò una strada che avrebbe reso comunque molto problematico un reale ricongiungimento tra la dimensione somatica e quella psichica. A questo proposito Freud scrisse: Per il momento la nostra topica non ha niente da spartire con l’anatomia; non si riferisce a località anatomiche, bensì a regioni dell’apparato psichico, a prescindere dalle parti dell’organismo in cui dette regioni possano esser situate. Da questo punto di vista il nostro lavoro è dunque libero, e può procedere secondo i propri bisogni (Freud 1915, pp. 57-58).
Ora poteva però fare anche l’ultimo passo: teorizzare l’aspetto psichico dell’organico e cioè l’inconscio: «I cosiddetti processi psichici inconsci sarebbero appunto quei processi organici paralleli allo psichico la cui esistenza è stata ammessa da tempo» (Freud, 1938b, p. 644). Molti anni dopo aver scritto il libro sulle afasie anche egli parlò di «insolubili difficoltà del parallelismo psicofisico» (Freud, 1915, p. 51), ma in opere molto più tarde riprese questo concetto e scrisse: «non si potrebbe quindi fare a meno di ammettere l’esistenza di processi fisici o somatici concomitanti allo psichico» (Freud, 1938a, p. 584). Fu comunque sempre consapevole dello stretto legame esistente tra i due livelli e non volle mai ridurre l’eziologia dei disturbi somatici alla sola dimensione psichica, sebbene continuamente cercasse di rielaborare la sua teoria. Egli già a suo tempo aveva scritto nella Lettera a Fliess del 22 settembre 1898: «[...] non sono affatto incline a lasciar fluttuare l’elemento psicologico senza base organica. Tuttavia, oltre alle mie convinzioni, non ho nulla, né di teoretico né di terapeutico, su cui fondarmi, e perciò debbo comportarmi come se fossi di fronte solamente a fattori
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psicologici. Non riesco ancora a capire come mai la cosa non quadri.» (p. 365, corsivo mio). Nell’arco di tempo che va dal 1895 al 1924, si può rilevare l’evolversi della concezione freudiana dell’apparato psichico che passa da una visione prevalentemente economico-energetica, centrata sul ruolo dei neuroni e sulla trasmissione reciproca di segnali, ad una rappresentazione sostanzialmente topica che presuppone l’esistenza di sistemi in cui l’orientamento spaziale e la direzione temporale risultano determinanti per il funzionamento dell’apparato. Tornando alla monografia sulle afasie come rappresentazione dell’apparato del linguaggio, schematizzando, si può considerare l’esistenza di un’organizzazione gerarchica formata da almeno tre livelli: Livello basso. Il correlato neuro-anatomo-fisiologico dei processi neurali delle funzioni psichiche del linguaggio costituito dalla “base organica” delle aree di Broca, di Wernicke ecc., per cui, come vedremo in seguito, anche la sintassi può essere ritenuta un’espressione della struttura cerebrale. Livello intermedio. Le strutture virtuali intermedie fortemente associative (rappresentazioni d’oggetto e di parola) – con la relativa energia psichica che vi circola – le quali tengono insieme, annodandoli, gli altri due livelli. Queste strutture funzionali rappresentano il vero e proprio apparato del linguaggio di Freud. Esse sono infatti reperibili a metà strada tra il livello anatomico del SNC (sistema nervoso centrale) e il livello delle nostre espressioni linguistiche. Sono formazioni intermedie site tra l’organico e lo psichico, tra il corpo e la mente: esse alludono comunque a fenomeni reali. Non sono fatte né di materia (res extensa) né di psiche (res cogitans), ma di organizzazioni, legami, funzioni, interconnessioni, associazioni, e sono come un “originario” su cui l’organico e il non-organico (psichico) si annodano e fondano la loro relazione. Possiamo dire che esse sono a fondamento di tutto l’apparato. Livello alto. Le strutture di livello superiore, infine, e i relativi processi psicodinamici: il pensiero simbolico e le espressioni linguistiche, cioè il linguaggio e le lingue. Nel testo freudiano sulle afasie, riassumendo, viene descritto l’apparato del linguaggio che comprende: La formazione della rappresentazione d’oggetto, non chiusa, che si svolge in quattro fasi procedendo dalla periferia sensoriale del sistema nervoso alla corteccia, e che presenta lungo il percorso numerosi
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misteriosi salti anatomo-funzionali: è nei relativi iati concettuali che si aprono in cui trovano spazio le teorie della metapsicologia, in quanto scienza astratta posta alla base del funzionamento delle strutture psico-biologiche, e la psicoanalisi tutta. Le prime tre fasi procedono in ordine successivo dalla periferia del corpo verso la corteccia, conducendo la rappresentazione dell’informazione sensoriale di un particolare senso alla corrispondente area corticale. «Notiamo solo che le fibre, giungendo alla corteccia cerebrale dopo aver oltrepassato le sostanze grigie, mantengono ancora un rapporto con la periferia del corpo, è vero, ma non possono più darne un’immagine topicamente simile. Per prendere a prestito un esempio dall’argomento di cui ci stiamo occupando, esse contengono la periferia del corpo come una poesia contiene l’alfabeto, in un riordinamento che serve altri scopi, in una molteplice concatenazione dei singoli elementi topici, dei quali alcuni possono essere rappresentati più volte, mentre altri non lo sono affatto» (Freud, 1891, p. 75). La quarta e ultima fase è invece interamente intracorticale. A questo proposito scrive la Rizzuto: Fino a questo punto Freud non aveva fatto una chiara distinzione tra fisiologia e psicologia. Una rappresentazione è un fenomeno psichico, non fisiologico. Freud aderì alla teoria di Hughlings Jackson dei processi tra loro paralleli. Vi è un correlato fisiologico della rappresentazione dato dall’informazione portata alle cellule corticali attraverso le fibre afferenti che vi giungono. Questo correlato non lascia una traccia statica ma implica un processo dinamico (di associazioni) che influenza un’area più ampia. Esso segue nella corteccia percorsi particolari, lasciandosi dietro una modificazione (Modifikation) che non si sviluppa ancora in un processo psichico, ma causa alcune alterazioni che permettono la possibilità di stimolare la funzione mnestica (Rizzuto, 1993, p. 170).
Il poema neurologico – sembra che Freud dica – conduce alla corteccia il tipo di informazione che permette la formazione di una rappresentazione corporea adatta alla funzione del linguaggio. 2) La seconda configurazione forma la rappresentazione di parola, chiusa (vedi sopra). I campi che si vedono nel grafico sono tutti collegati a mezzo di associazioni e le rappresentazioni d’oggetto sono connesse a quelle di parola attraverso una strettoia che mette in comunicazione le immagini visive con le associazioni sonore. Graficamente e concettualmente questa strettoia richiama alla mente la strettoia della coscienza (Freud, 1892-1895, p. 427).
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Possiamo a questo punto fare un parallelo tra questi due poli di rappresentazioni con altri aspetti dei precedenti e dei successivi modelli freudiani. Le rappresentazioni d’oggetto sono equiparabili alle tracce mnestiche inconsce e ai neuroni – del Progetto di una psicologia (1895) – che funzionano in parallelo – nonché ai sistemi – de L’interpretazione dei sogni (1899). Le rappresentazioni di parola sono analoghe alla coscienza – che insieme alle percezioni la rendono possibile – e perciò ai neuroni ω del Progetto e al sistema P-C de L’interpretazione dei sogni. Esse funzionano con il sonoro e in modo seriale. Nella Lettera a Fliess del 6 dicembre 1896 Freud colloca il Prec come terza riscrittura connessa alle rappresentazioni. Scrive Freud: La novità essenziale della mia teoria sta dunque nella tesi che la memoria non sia presente in forma univoca, ma molteplice, e venga fissata in diversi tipi di segni. Una risistemazione di questo genere l’avevo già supposta a suo tempo (afasia) per le vie provenienti dalla periferia (p. 236).
Qui Preconscio è la terza trascrizione ed è connessa alle rappresentazioni della parola. Le varie trascrizioni utilizzano codici differenti. Inoltre la rappresentazione d’oggetto è un processo psichico virtuale in cui vige un ordinamento associativo molto flessibile; esso in seguito diventerà sede del processo primario del sistema Inc, mentre il percorso associativo fisso della rappresentazione di parola diventerà sede del processo secondario del sistema P-C. Ne L’inconscio, utilizzando una terminologia e i concetti un po’ diversi Freud dirà che «[...] la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta» (1915, p. 85).
Due caratteristiche Ora vorrei evidenziare, tra le tante, due caratteristiche della composizione e del funzionamento dell’apparato del linguaggio di Freud che mi sembrano degne di particolare attenzione. Circa la prima caratteristica ascoltiamo prima Freud: Il campo associativo del linguaggio è invece privo di questi collega-
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menti diretti con la periferia del corpo e certamente non ha proprie “vie proiettive” della sensibilità, e molto probabilmente nemmeno vie motorie specifiche (Freud, 1891, p. 89).
Questo vuol dire che queste fibre associative sono le stesse che conducono informazioni specifiche di altri aspetti del sensorio e del motorio; ciò costituisce un’importante e peculiare caratteristica della composizione e del funzionamento dell’apparato del linguaggio. Inoltre di questo apparato se ne può dare una descrizione accurata come apparato virtuale per indicarne la funzione: vedi l’organizzazione della rappresentazione d’oggetto (che ne è la parte inconscia) e quella di parola (che ne è la parte cosciente) e delle relative vie associative di cui la principale è la via visuo-acustica. Per fare alcune considerazioni ascoltiamo anche la Rizzuto sempre per i suddetti motivi: I suoi organi esecutivi, l’apparato fonatorio, la mano e gli occhi, non sono parti dell’apparato stesso, ma sono strutture anatomiche che hanno molteplici funzioni. La regione corticale che è il fondamento anatomico della funzione del linguaggio serve anche a molte altre funzioni. Le aree in cui arriva l’input dell’informazione sensoriale nella corteccia, possiedono mezzi di connessione con la periferia del corpo per mezzo delle proprie vie efferenti. Tuttavia, l’area corticale delle funzioni del linguaggio “non ha fibre proiettive” sue proprie [...] (Freud, 1891, p. 89). (1993, p. 166).
Già Darwin nel 1862 scriveva: Quantunque un organo originariamente possa non essere formato per uno scopo speciale, se al presente serve a questo scopo, abbiamo il diritto di dire che ad esso è specialmente accomodato. Seguendo questo principio, si può dire che quando un uomo costruisce una macchina per un qualche scopo speciale, ma servendosi di ruote o di molle e cilindri vecchi e solo poco modificati, questa intera macchina con tutte le sue parti è adatta in modo speciale al nuovo fine. In tale modo nell’universa natura ciascuna parte degli organismi attualmente viventi fu probabilmente utilizzata a scopi diversi, subendo solo poche considerevoli modificazioni, e nella macchina vivente hanno avuto parte molte e diverse forme antiche (p. 191).
A questo proposito attualmente troviamo espresso un concetto molto simile. Ad esempio Trautteur scrive: Recentemente è stato sostenuto (Dehaene, 2005) che le vaste capacità elaborative del cervello umano, o dei mammiferi superiori, inclusa l’e-
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secuzione di compiti ricorsivi necessari al calcolo aritmetico, non possano essere prese in carico né dall’adattamento evolutivo (a causa dei vincoli temporali troppo brevi) né dall’apprendimento (a causa della grande uniformità tra individuo e individuo). L’ipotesi alternativa del “neuronal recycling” qui avanzata (ivi, p. 147), propone che l’architettura del sistema nervoso permette un rapido sviluppo di nuove funzionalità in aree cerebrali previamente dedicate ad altri compiti (2006, p. 303).
Si nota come il neuronal recycling è il processo che lega strettamente il linguaggio al corpo, grazie alla plasticità del cervello che permette una nuova specializzazione di reti di neuroni già esistenti, mediante la formazione di nuove connessioni sinaptiche. Vedremo più avanti come sia paradigmatico in questo caso il complesso processo epigenetico che parte dal riflesso del rooting e esita nella parola “No”. Freud nel Progetto scriveva: Vale anche la pena di considerare lo sviluppo biologico di queste così importanti associazioni [verbali]. L’innervazione della parola è originariamente una via di scarica per , come una specie di valvola di sicurezza avente lo scopo di regolare le oscillazioni Qή; è un tratto del canale che porta alla modificazione interna, unico mezzo di scarica fino al ritrovamento dell’azione specifica. Questo canale acquista una funzione secondaria in quanto serve ad attirare l’attenzione della persona cooperatrice (che è abitualmente l’oggetto stesso desiderato) sui desideri e i disagi del bambino; serve perciò allo scopo di condurre all’intendersi e viene a integrarsi nell’azione specifica (1895, p. 264).
Proprio in relazione al riciclo di aree motorie in aree specializzate per il linguaggio, notiamo che Freud diceva: Le parole possono fare un bene indicibile e ferire nel modo più sanguinoso. Certo in principio era l’Azione; e il verbo è venuto solo più tardi, e gli uomini hanno sotto un certo riguardo fatto un gran passo sulla via della civiltà quando l’azione si è attenuata in parola. Ma la parola era pure in origine un sortilegio, un atto magico; essa ha tuttora conservato gran parte della sua antica efficienza (1926, pp. 355-356).
In questa citazione non solo notiamo che per Freud l’azione motoria precede la parola che ne sarà poi un’espressione, ma anche che a quest’ultima nella comunicazione viene riconosciuto essere un “atto magico” che va oltre il puro valore simbolico di scambio informativo. In sintesi se consideriamo l’area di Broca, come vedremo più avanti, formata da neuroni e sistemi sensi-motori, si capisce come nello scambio linguistico si riceve “magicamente”, come in filigrana, più informazioni di quelle che riceveremmo dal solo segnale acustico.
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Man mano che si conosce meglio l’apparato del linguaggio esso ci appare sempre più un complesso sistema ricco di connessioni e di funzioni. Si parte dai neuroni ψ dai quali emergono i desideri e si forma un eccitamento che esita o in una modificazione interna, o nell’azione la quale, a sua volta, può essere un’azione specifica volta a modificare il mondo esterno, oppure un’azione verbale volta all’intendersi anche nel sociale perché «Le parole suscitano affetti e sono il mezzo comune con il quale gli uomini si influenzano tra loro» (vedi esergo). Il concetto di neuronal recycling ci fa pensare anche al fatto, sostenuto da molti, che il gesto motorio può precedere la parola motoria (Leroy-Gourhan, 1964; Corballis, 2002). Ancora Freud precisa: «[...] vado certamente al di là del significato usuale della parola postulando l’interesse dello studioso della lingua per la psicoanalisi. Per “lingua” non si deve intendere qui la pura espressione di pensieri in parole, ma anche il linguaggio gestuale e qualsiasi altro tipo d’espressione di un’attività psichica, come ad esempio la scrittura» (Freud, 1913, pp. 264-265), la quale costituisce un’altra espressione del linguaggio. Apro qui una breve parentesi per riferire dei risultati di recenti studi neurofisiologici sul ruolo giocato dall’area di Broca sita nel piede della terza circonvoluzione frontale (Fazio et al., 2009). Per prima cosa quest’area non si limiterebbe alla produzione del linguaggio ma anche alla sua comprensione. Questi studi hanno osservato che i pazienti afasici erano anche agrammatici, a volte aprassici, e avevano difficoltà con la musica e il calcolo matematico e si è visto che il linguaggio, l’azione e la musica hanno in comune una struttura simil-sintattica. Queste ricerche fanno ipotizzare che le capacità linguistiche, motorie e musicali hanno a che fare con i sistemi dei neuroni specchio, anzi, che l’area di Broca sia un nodo cruciale del sistema umano dei neuroni specchio. Si è potuto ipotizzare anche che una proto-sintassi sopramodale, alla base anche di quella linguistica, sia presente sin dalla nascita e che possa derivare dal passaggio dalla rappresentazione seriale a quella gerarchica del sistema motorio, e che l’area di Broca sia stata la sede della primitiva organizzazione gerarchica del comportamento e della capacità ricorsiva dell’azione, e in seguito anche del linguaggio. Questi risultati sembrano dare un supporto alle idee di Freud e di altri psicoanalisti circa l’importanza di quello che genericamente possiamo chiamare “linguaggio gestuale”, come anche del ritmo, della prosodia e di altre caratteristiche sensoriali e motorie del linguaggio.
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Inoltre viene mostrato come le regole che organizzano sia l’“Azione” che il “verbo”, cioè la sintassi, hanno una stessa origine e sono molto probabilmente innate. La condensazione e lo spostamento sono un esempio dei meccanismi trasformativi coinvolti in queste dinamiche. Scrive la Rizzuto:
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Le rime, le metriche, la musicalità, e la profondità del significato emozionale presente nella poesia sono molto adatte a veicolare la trasformazione della sensazione in rappresentazioni d’oggetto, colorate emozionalmente, costitutive delle parole umane. Anche qui, Freud anticipò la conoscenza dei tempi moderni riguardo la molteplicità di registrazioni sensoriali simultanee di un cervello multimodale (1997, p. 83).
È perciò interessante vedere un esempio di come si può articolare il passaggio dal somatico allo psichico – il misterioso salto – utilizzando la funzione del linguaggio. Non è possibile qui fare un’esposizione completa delle concezioni di R. Spitz (1957, 1965), sempre a proposito del neural recycling e del misterioso salto dal corpo alla mente, ma voglio comunque ricordare a questo proposito l’importanza dei suoi studi sul primo anno di vita del bambino, specie dell’acquisizione del “No”. Egli mostrò come si sviluppa il processo che conduce dal “movimento” del rooting al “gesto” di negazione – scuotimento del capo – fino alla parola “No” che esprime il concetto di negazione; perciò il passaggio dal riflesso di orientamento finalizzato alla ricerca del seno, in quanto base neurofisiologica del processo di differenziazione del bambino dalla madre, per poi giungere al “gesto” verbale. Ciò vuol dire che il bambino, all’interno di una relazione comunicativa con la madre basata su scambi affettivi, passa da un atto motorio al gesto semantico di diniego e di rifiuto – il quale è all’origine del pensiero capace di utilizzare il giudizio e i concetti – e dall’identificazione primaria, che poi evolverà nel processo di dis-identificazione e poi in quello di identificazione matura, all’acquisizione di un’identità separata del soggetto al di là di tutte le identificazioni. Interessante è il fatto che Spitz ci mostra come uno schema motorio innato e trasmesso filogeneticamente possa riciclarsi per diventare poi, nel corso dell’epigenesi, la matrice di una funzione e di un gesto semantico di comunicazione connesso con la funzione del giudizio, come avviene nel caso della parola “No”. Ciò mostra anche l’importanza maturativa e sociale che questo processo acquisterà e contemporaneamente depone per una predisposizione genetica al “gesto” stesso.
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Spitz dice:
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Nel corso dello sviluppo, uno schema di comportamento che si era iniziato come azione riflessa, viene sottoposto a controllo dalla mente: ciò che era in origine puramente neuronale e muscolare acquisisce via via una dimensione supplementare divenendo una funzione psicologica (Sherrinton, 1906). [...] In conclusione, a partire dal momento in cui i movimenti neurali e muscolari sono sottoposti al controllo volontario, questi vengono impiegati in maniera intenzionale per raggiungere uno scopo, scopo che trasforma il movimento in comportamenti ed azione governati dalla psiche (Spitz, 1957, p. 34).
Un esempio di ciò lo si trova nella formazione del linguaggio attraverso il riciclaggio di vie nervose, le quali originariamente erano utilizzate per altri scopi, e si ribadisce la priorità dell’azione che poi «si è attenuata in parola» (vedi sopra). Quindi modelli di comportamento ereditari, filogeneticamente preformati e poi trasmessi, possono in questo modo restare latenti fino al momento in cui nel corso dell’epigenesi entra in azione lo stimolo scatenante che ne attiva il funzionamento. Il periodo di tempo in cui si sviluppa il processo è limitato al periodo critico caratterizzato dalla comparsa dell’“organizzatore”1: esiste cioè una finestra temporale nella quale il processo può svilupparsi. Veniamo ora alla seconda caratteristica, strettamente collegata alla prima, e ascoltiamo ancora la Rizzuto: «L’apparato del linguaggio ha così poco di anatomicamente suo proprio che Freud lo descrisse mediante la sua funzione: “La maggioranza dei fattori qui raggruppati risulta dalle proprietà generali di un apparato organizzato (eingerichtet) per l’associazione” (p. 115). La sua natura è quella “dei suoi meccanismi di associazione” (Seine Natur als Association-mechanismus), (p. 131): nella concettualizzazione di Freud, cioè, tutto ciò che attiene all’apparato del linguaggio è una serie straordinariamente complessa di processi associativi. Essendo la funzione dell’apparato quella di associare, la conclusione viene da sé: “tutte le afasie si basano (beruhen) su un’interruzione dell’associazione” (p. 90). Le interruzioni patogene sono esclusivamente intracorticali» (1993, pp. 166-167). 1 Spitz studiando il bambino nel primo anno di vita individuò tre organizzatori, come lui li chiamò, i quali si riferiscono alla convergenza di parecchie linee di sviluppo con formazione di agenti e di elementi regolatori che influenzano i successivi processi di sviluppo (vedi 1965, p. 126). Il primo organizzatore è la risposta al sorriso: gesto motorio di tipo mimico. Il secondo è l’angoscia dell’ottavo mese, e il terzo è la padronanza del gesto semantico del “No”, di cui si è detto.
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Quello che vorrei evidenziare è che l’apparato del linguaggio di Freud, fratello maggiore dell’apparato psichico (Stengel, 1953, vedi sopra) è composto dalle rappresentazioni di oggetto più le rappresentazioni di parola organizzate mediante vaste aree associative, come confermato anche da studi attuali di neurofisiologia: esso è un apparato per parlare e, pertanto, anche per pensare. Queste vie associative sappiamo che contengono circuiti ricorrenti sensori-motori in cui il motorio influisce sul sensorio, e lo stesso motorio risuona quando ascoltiamo il linguaggio dell’altro. Per tali motivi il meccanismo mirror, presentato dai neuroni specchio visuo-motori che risuonano motoriamente, serve non solo ad afferrare meglio ciò che udiamo, ma anche a sentire mediante un processo di sintonizzazione senso-motoria, più di quello che è contenuto nel semplice segnale acustico, attraverso l’utilizzazione dell’imitazione dei movimenti dell’interlocutore. Le regole combinatorie sintattiche, come le funzioni di condensazione e spostamento, sono regole e meccanismi integrati in programmi fatti da algoritmi che formano una macchina per pensare mediante l’uso del linguaggio. Questo apparato è quello che permette alla macchina uomo di parlare, di strutturare il linguaggio e il pensiero... nonché di godere. Lo sviluppo dell’apparato permette lo sviluppo del linguaggio che a sua volta permette lo sviluppo del relativo apparato. Tutto ciò consente sia all’essere umano di dialogare con i suoi simili, sia alla teoria psicoanalitica di dialogare con le neuroscienze (Scalzone, 2005). Per riassumere, come dice la Rizzuto (1993, p. 167) la struttura anatomica dell’apparato del linguaggio di Freud è molto elusiva. Per capirla, è indispensabile seguire passo dopo passo la descrizione di Freud della sua organizzazione fatta di vie di connessione, di processi associativi e dei suoi meccanismi funzionali.
La “fonte comune” teorico-pratica: in principio era il corpo Le esperienze sulla possibilità di spostamento dell’energia psichica lungo certi canali associativi, e sulla persistenza quasi indistruttibile delle tracce di processi psichici, mi hanno infatti suggerito di tentare di spiegare l’ignoto con queste immagini. Per evitare malintesi, devo aggiungere che il mio non è un tentativo di proclamare che le cellule e le fibre nervose, o i sistemi di neuroni che ne stanno oggi prendendo il posto, sono queste vie psichiche, sebbene tali vie debbano essere raffigurabili, in modo che ancora non è possibile indicare, mediante elementi organici del sistema nervoso (Freud, 1905, p. 132).
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Come ho già detto, Freud fu un medico particolarmente dotato: egli non impiegò molto tempo a padroneggiare il metodo sindromico nel suo lavoro diagnostico e il metodo clinico-anatomico nel corso delle sue ricerche neurologiche. Allo stesso tempo egli non impiegò molto tempo a scoprirne i limiti. Proprio a proposito della neurologia giunse presto alla conclusione che essa era solo uno «stupido gioco di combinazioni» (Bernfeld, 1951, p. 135). Questo gioco di permutazioni, continuò però a funzionare poi come modello concettuale non solo in tutti i fenomeni transferali, ma anche a livello linguistico, con le parole e le frasi, attraverso il meccanismo delle condensazioni e degli spostamenti quale espressione del gioco sintattico – giocato però anche tra il livello cosciente e quello inconscio, come si vede ad esempio nel grafico dell’episodio di Signorelli (1901) e in quello di Emma (1895) – e nei limiti dettati dalla struttura e dalla proprietà chomskiana innata dell’infinità discreta (Chomsky, 2005). Esiste perciò una correlazione concettuale tra la sostituzione di oggetti nel transfert e gli spostamenti di significati e di valori nel linguaggio (Grossman, op. cit., p. 87). Possiamo vederne alcuni esempi anche nelle rappresentazioni grafiche ricche di conseguenze: nei punti nodali, nei nodi di scambio e nella mossa del cavallo presenti nell’organizzazione mnestica delle catene associative di un’isteria grave (1892-1895, pp. 424 e segg.), e in seguito nel Progetto di una psicologia, nella Psicopatologia della vita quotidiana, ne Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (ad es. la formazione della parola FAMILIONARI) ecc. La conferma dell’esistenza di un correlato somatico, di cui si è detto sopra, possiamo anche trovarla in Freud quando scrisse: Tutte queste sensazioni e innervazioni appartengono all’“espressione delle emozioni” che, come Darwin ci ha insegnato, consiste in azioni originariamente sensate e utili; esse possono essere attualmente per lo più così affievolite che la loro espressione linguistica ci appare puramente metaforica, ma è molto verosimile che tutto ciò s’intendesse una volta alla lettera, e l’isteria è nel giusto quando ripristina per le sue più forti innervazioni il significato originario delle parole. Anzi, forse non è corretto dire ch’essa si crei tali sensazioni mediante la simbolizzazione; forse essa non ha affatto preso l’uso linguistico a modello, piuttosto l’isteria e l’uso linguistico attingono a una fonte comune» (1892-1895, p. 332).
Questa “fonte comune” può essere ragionevolmente individuata in un qualunque organo del corpo e in particolare in alcune precise zone erogene. Postulando l’origine comune dei sintomi isterici e dell’u-
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so linguistico, per cui essi possono esser fatti risalire ad una comune fonte somatica, è come se Freud ipotizzasse che la prima fase dello sviluppo potrebbe essere rappresentata dall’espressione motoria delle emozioni che precede l’espressione linguistica, e che la fonte comune a entrambe potrebbe essere rappresentata dalla zona erogena, e il gesto, inizialmente depositato nella rappresentazione d’oggetto inconscia, potrebbe essere quell’azione motoria diventata cosciente che precede l’azione motoria “al risparmio” dell’articolazione del pensiero verbale (Leroy-Gourhan, 1964; Corballis, 2002), favorendo in questo modo il passaggio dal processo primario al processo secondario. Anche Lacan da parte sua affermava lo stretto legame tra il discorso e il corpo mediante l’immaginario e il simbolico e scrisse: Poiché si tratta del discorso, del discorso stampato, dell’alienato, che siamo nell’ordine simbolico è dunque manifesto. Ora, quale è il materiale stesso di questo discorso? A che livello si volge il senso tradotto da Freud? Da che cosa sono ricavati gli elementi di nominazione di tale discorso? In modo generale, il materiale è il corpo. La relazione del corpo caratterizza nell’uomo il campo in fin dei conti ridotto, ma veramente irriducibile, dell’immaginario. Se qualcosa nell’uomo corrisponde alla funzione immaginaria tal quale opera nell’animale, questo è tutto ciò che lo rapporta in modo elettivo, ma pur sempre estremamente inafferrabile, alla forma generale del suo corpo in cui tal punto è detto zona erogena. Questo rapporto, sempre al limite del simbolico, è solo l’esperienza analitica che ha permesso di coglierlo nei suoi movimenti ultimi» (1955-1956, p. 14).
È da segnalare anche come Freud già nella voce Aphasie del 1888 scrisse: «C’è una distinzione tra linguaggi naturale o emozionale (linguaggio dei gesti) e linguaggio artificiale o articolato, dei quali l’ultimo soccombe ai disturbi più frequentemente perché è stato acquisito più tardi. I disturbi multiformi del linguaggio articolato (vera afasia come opposta all’amimia) [...]» (Freud, 1888, pp. 31-32, trad. mia). Egli aggiunge che quest’ultimo va incontro molto più frequentemente a disturbi perché è stato acquisito dopo l’altro. Questo potrebbe essere una conferma indiretta del fatto che anche Freud pensava che sia nato prima il linguaggio dei gesti e poi quello delle parole, come sostenuto ad esempio da Corballis (2002) e da altri e che, di conseguenza, la mimica sia meno menzognera delle parole e più difficile da usare per fingere e per mentire all’interlocutore. Questo vuol dire anche che sia i gesti che il linguaggio sono entrambi forme di azione sociale tese “all’intendersi”.
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Notiamo anche che la comunicazione verbale è seriale e temporale, mentre la comunicazione gestuale permette una comunicazione in parallelo ed è spazialmente tridimensionale. Queste due forme di espressione le possiamo vedere all’opera contemporaneamente ad esempio per gioco della morra. Inoltre, se le vie del linguaggio sono un misto di vie sensitive e di vie motorie, questo può alludere al fatto che il linguaggio, e perciò la parola, siano fatti di una componente logico-razionale e di una componente emotivo-affettiva, di una sintassi e di una pragmatica, e pertanto si comprende perché Freud fa sua l’idea di Darwin su riportata e dice che «[...] l’isteria e l’uso linguistico attingono a una fonte comune» (Freud 1892-1895, p. 332). Di conseguenza anche il pensiero, in quanto azione sperimentale, ha una duplice natura affettiva e cognitiva. Infine lalingua lacaniana destrutturata, asemantica e priva di senso, (1972-1973), posta al confine tra la lallazione infantile e il linguaggio simbolico, potrebbe essere un’espressione di godimento del corpo, così come il pensiero cosciente è un godimento per la psiche. A tal proposito Freud fece sua l’idea che l’uomo è “un ricercatore instancabile di piacere” e disse che «Nell’età in cui il bambino impara a padroneggiare il vocabolario della sua lingua materna, egli prova un gusto evidente a “sperimentare giocando” con questo materiale (l’espressione è di Groos); accosta le parole senza badare al senso, pur di ottenere l’effetto piacevole dato dal ritmo o dalla rima» (Freud, 1905, p. 112), cosa che accede in quell’area transizionale cara a Winnicott (1953).
Considerazioni conclusive Marx O., nel suo articolo del 1967, “Storia delle basi biologiche del linguaggio”, rilevò che «Freud aveva toccato il punto più debole delle teorie sull’afasia, dimostrando che la cosiddetta fisiologia del linguaggio dei suoi tempi non era altro che una traduzione di concetti psicologici in termini fisiologici» (pp. 526-527). Egli invece si comportò in modo inverso e utilizzò i concetti fisiologici dell’apparato del linguaggio come modello per costruire la psicologia psicoanalitica dell’apparato psichico. Il linguaggio – considerato esso stesso come un sistema complesso – costituisce perciò a sua volta una dimensione dello psichico, e perciò è diverso accedere ad un ricordo con certe parole seguendo un certo
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percorso associativo lungo certe tracce mnestiche, dal fatto di seguire un altro percorso con altre parole lungo altre tracce mnestiche, come avviene ad esempio mediante il libero associare nella talking cure. Freud perciò scrive che: «La formulazione verbale è essa stessa un brano della rappresentazione onirica» (Freud, 1899, p. 416, nota 3). Per questa ragione quando a volte i nostri pazienti dicono: «Ho paura di annoiarla... le dico sempre le stesse cose», dobbiamo pensare invece che, poiché essi usano ogni volta nuove parole e nuove catene significanti, dicono “le stesse cose” ma sempre con diverse sfumature di significato. A proposito di queste piccole differenze ricordiamo che Freud spesso invitava i pazienti a ripetere più volte il racconto del sogno perché si accorse che nel punto in cui la seconda versione, o le versioni successive, si differenziava dalla prima, ci poteva essere un importante snodo da interpretare perché lì risiedeva il pensiero latente rimosso. Infine Freud si pose anche un’ importante domanda su un problema che a tutt’oggi rimane irrisolto e di cui gli afasiologi suoi contemporanei non si occuparono: che cosa, al di là dei meccanismi che operano nel linguaggio e nella ripetizione come risposta riflessa, spinge le persone a parlare spontaneamente? Egli non potette fare altro che limitarsi a indicare il locus concettuale dal quale parte questo bisogno. Per Freud l’emergere del linguaggio spontaneo, al quale era particolarmente interessato, e cioè il desiderio che spinge l’individuo a parlare, parte sempre dalla regione delle associazioni delle immagini percettive, sparse nella corteccia, che compongono la rappresentazione d’oggetto (vedi anche Rizzuto, 1989, 1993, 1997), a cui vanno aggiunte le connessioni con gli apparati mnestici: i ricordi. Compendiando possiamo considerare l’apparato del linguaggio di Freud come una macchina virtuale di tipo funzionale che, sotto la spinta del desiderio, è in grado di leggere le rappresentazioni d’oggetto e le tracce mnestiche colorate emozionalmente, di elaborarle e infine di sonorizzarle. Ma possiamo considerare anche il percorso inverso come propone Marone in questa antologia. Possiamo perciò ipotizzare l’esistenza di due tipi di espressioni linguistiche: una che potremmo genericamente definire “imitativa”, in quanto fortemente determinata dal “luogo dell’Altro”, e dal suo (dell’Altro) desiderio – sebbene il soggetto operi sempre una scelta dei significanti – e un’altra espressione linguistica che invece potremmo individuare nel “linguaggio spontaneo” di Freud e in lalingua di Lacan. Le prime espressioni potrebbero rientrare, come altre attività
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senso-motorie, nell’attività imitativa relazionale; le seconde, invece, rientrerebbero nelle attività spontanee di ricerca di appagamento del desiderio e di godimento sganciate dalla dinamica della semplice ripetizione di parole udite e dal mirroring sebbene, d’altra parte, non si possa escludere un’attività imitativa molto precoce. Possiamo terminare con le parole della Rizzuto che dice che «L’apparato del linguaggio è solo uno strumento neurofisiologico. Ciò che parla è un essere umano senziente che rappresenta, ricorda, e avverte l’impulso a parlare spontaneamente» (Rizzuto, 1993, p. 178). In altre parole, chi parla è sempre il Soggetto. L’antologia riprende un testo di Freud, poco noto anche agli psicoanalisti. Comprende 10 articoli suddivisi in 3 sezioni. Dopo l’Introduzione (Scalzone), segue una sezione dal titolo “Per comprendere le afasie: alcuni concetti fondamentali”, in cui troviamo l’introduzione di Stengel alla traduzione in inglese del testo freudiano. Segue un articolo della Rizzuto nel quale l’autrice estrae dal testo freudiano alcuni termini, che saranno poi valorizzati nei testi successivi, dandone una definizione ragionata. Chiude la sezione un articolo di Napolitano sul concetto di “rappresentanza”. La seconda sezione, “Dall’afasia alla metapsicologia: vie della psicoanalisi”, comprende un articolo di Stengel il quale fa una ri-valutazione del testo sulle afasie. Segue un articolo della Rizzuto sull’importanza di questo testo per la teoria psicoanalitica. Infine un articolo della Zontini incentrato sulla matrice delle parole. Nella terza e ultima sezione, “L’eredità delle afasie: da Freud a Lacan”, tre autori riprendono il tema dell’afasia nel successivo sviluppo lacaniano. Marone affronta il problema dello statuto speciale del sapere neurologico freudiano, Tarallo rielabora il tema dell’inconscio strutturato come un linguaggio e infine la Gallo analizza il linguaggio in relazione alla dinamica del godimento.
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INTRODUZIONE
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Parte I
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PER COMPRENDERE LE AFASIE: ALCUNI CONCETTI FONDAMENTALI
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INTRODUZIONE A ON APHASIA DI SIGMUND FREUD
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di Erwin Stengel 1
Il libro di Freud sull’afasia è noto solo ad una piccola cerchia di esperti. Non disponibile per molti anni, è stato considerato finora nient’altro che una voce nell’elenco delle pubblicazioni “pre-psicoanalitiche” di Freud e senza nessuna importanza per il suo lavoro successivo. Freud stesso, essendosi volto allo studio delle nevrosi, quasi mai si riferì ai suoi scritti precedenti. Tuttavia, il periodo in cui essi ebbero origine fu un periodo di intensa e fruttuosa attività. Freud non solo diede validi contributi alla neurologia ma pose le fondamenta della psicoanalisi. È stato sempre più riconosciuto negli ultimi anni che i lavori anatomici, neurologici e psicoanalitici [di Freud] costituiscano un continuum. Il lavoro sull’afasia lo dimostra chiaramente2. Fu il primo lavoro in cui 1
Traduzione di Gemma Zontini. In questa introduzione ho attinto dagli scritti dei seguenti autori che discussero il significato del libro da vari punti di vista: Dorer M. (1932), Histrorische Grundlagen der Psychoanalyse. Meiner, Leipzig; Binswanger L. (1936), “Freud und die Verfassung der klinischen Psychiatrie”, Schweiz. Arch. Neur. Psychiat., Vol. 37, p. 177 (trad. it.: “Freud e la costituzione della psichiatria clinica”, in Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 253-278); Brun R. (1936), “Sigmund Freud’s Leistungen auf dem Gebiete der organischen Neurologie”, Schweiz. Arch. Neur. Psychiat., vol. 37, p. 199; Jeliffe E.S. (1937), “Sigmund Freud as a Neurologist. J.”, Nerv. Ment Dis., vol. 85, p. 696; Bernfeld S. (1944), “Freud’s earliest discoveries and the School of Helmholtz”, Psychoan. Quarterly, vol. 13, p. 24 (trad. it.: “Le prime teorie di Freud e la scuola di Helmholtz”, in Bernfeld S., Cassirer Bernfeld S., a cura di, (1981), Per una biografia di Freud, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pp. 41-59); Bernfeld S. (1949), “Freud’s scientific beginnings”, Amer. Imago, vol. 6, p. 156, Yearbook of Psychoanal., vol. 6, p. 24 (trad. it.: “L’esordio scientifico di Freud”, in Bernfeld S., Cassirer Bernfeld S,. a cura di, (1981), Per una biografia di Freud, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pp. 84-113); Kris E. (1950), “The significance of Freud’s earliest discoveries”, Int. J. Psychoan., vol. 31, p. 1 (trad. it.: “Il significato delle prime scoperte di Freud”, in Kris E. (1977), Gli scritti psicoanalitici. Boringhieri, Torino, pp. 292-305); Riese W. (1952), “Concepts of evolution and dissolution of functions in psychopathology”, Proceedings First Internat. Congress on Psychiatry 1950, Vol. 1, p. 501, 2
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PER COMPRENDERE LE AFASIE: ALCUNI CONCETTI FONDAMENTALI
l’autore si è occupato delle le attività mentali stabilendo così una connessione tra due periodi apparentemente separati della sua vita lavorativa. Oggi esso è degno di una seria attenzione non meno di quanto lo fosse sessantadue anni fa. Il neurologo lo troverà non solo interessante storicamente, ma anche pieno di idee stimolanti e originali che concernano problemi fondamentali tanto oggi quanto allora. Lo psicanalista e lo psichiatra lo considereranno come il precursore più significativo del successivo lavoro dell’autore. Come contributo ai problemi dei disturbi del linguaggio dovuti a lesioni cerebrali, il trattato di Freud spicca tra i corposi scritti del tempo. Comparve quando i neurologi erano molto interessati alla localizzazione delle funzioni cerebrali. Le scoperte di Hitzig e Ferrier erano ben presenti nelle loro menti. Broca e Wernicke avevano dimostrato scientificamente la relazione di alcune lesioni del cervello con specifici tipi di afasia, e l’esatta localizzazione di tutte le funzioni del linguaggio sembravano essere a portata di mano. Freud fu il primo nel mondo di lingua tedesca a sottoporre ad un’analisi critica sistematica la teoria corrente del localizzazionismo. Nello sfidare sia una potente tendenza scientifica sia i suoi più influenti rappresentanti, egli mostrò di essere un pensatore indipendente di notevole coraggio. Freud era stato stimolato allo studio dell’argomento da uno scritto di Exner e Paneth3; era una relazione su un ricerca sperimentale, con la quale i due fisiologi furono in grado di dimostrare che l’isolamento chirurgico di un’area corticale nei cani aveva avuto lo stesso effetto della sua escissione. Essi attribuirono ciò a due fattori: l’interruzione delle fibre associative e il “traumatismo”, in tal modo chiamando in causa una lesione localizzata così come un disturbo funzionale. La stessa combinazione di fattori fu considerata da Freud responsabile delle peculiarità di alcuni tipi di afasia. Non c’è dubbio che anche il suo contatto con Charcot contribuì alla scelta dell’argomento. Ma questi furono solo fattori accidentali; fu pressoché inevitabile per un neurologo come Freud, così profondamente interessato ai processi mentali, essere attratto dallo studio delle afasie. Benché il libro sia per molti versi uno scritto datato, contiene ancora informazioni utili per i neurologi di oggi. L’insistenza di Freud Paris; Jones E. (1953), Sigmund Freud: life and work, vol. 1, London (trad. it.: Vita e opere di Freud, il Saggiatore, Milano, 1966). Sono debitore verso il dr. Ernst Jones per il prestito di una copia in tedesco del libro di Freud e di una copia del libro di Dorer. 3 Exner S., Paneth J. (1887), “Über Sehstörungen nach Operationen am Vorderhirn”, Pflüg. Arch., vol. 4, p. 62.
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INTRODUZIONE A ON APHASIA DI SIGMUND FREUD
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sulla compatibilità dell’approccio funzionale, cioè dinamico, con l’approccio localizzazionista, ancora non sufficientemente preso in considerazione da molti. Nella sua visione del problema della localizzazione egli seguì Hughlings Jackson. Rifiutò la localizzazione stretta non solo per quanto riguarda la funzione del linguaggio ma anche per ciò che riguarda i singoli muscoli. In ogni caso, l’“apparato del linguaggio”, che benché non identico ai substrati strutturali del linguaggio è in qualche modo ad essi collegato, è un concetto freudiano. La differenziazione tra un’area centrale del linguaggio e i cosiddetti centri del linguaggio confinanti con le aree corticali recettive e motorie funzionalmente correlati ad essi, è una teoria molto interessante che si è dimostrata molto fruttuosa. La proposta di una suddivisione delle afasie in tre gruppi fu un tentativo coraggioso di stabilire un sistema psicologico solido basato sulla teoria delle associazioni applicata al linguaggio. Considerando che la classificazione corrente era allora, e ancora lo è, un miscuglio confuso di concetti anatomici, fisiologici e psicologici, il sistema di Freud era il più affidabile. Tuttavia era troppo strettamente legato ad un quadro teorico opinabile per essere accettabile dai clinici, benché una sua parte sia sopravvissuta. È stato un precursore della classificazione di Head che era anch’essa basata su criteri psicologici. Nessuna delle autorità di spicco nel campo dell’afasia sfuggì alle critiche di Freud, con l’evidente eccezione di Hughling Jackson per il quale l’autore non ebbe altro che lodi e che identificò come il suo spirito guida nello studio dei disordini del linguaggio. Apprezzò anche i contributi di Bastian, senza tuttavia accettare i suoi punti di vista sui centri fisiologici del linguaggio. Egli riportò il monito di Jackson contro la confusione dell’aspetto fisico con l’aspetto psichico e si dichiarò un seguace della “legge della concomitanza” adottata da Jackson. Citò alcuni tra gli esempi più chiarificativi di Jackson di “espressioni ricorrenti” alla cui origine i fattori emotivi avevano giocato una parte notevole; al fine di sottolineare l’importanza di tali fattori in situazioni di stress egli riportò un’interessante osservazione personale. È ovvio che Hughling Jackson aveva profondamente impressionato Freud. Il passaggio che segue mostra quanto egli avesse fatto del tutto sua la dottrina fondamentale di Jackson sull’evoluzione e sulla dissoluzione della funzione: «Per valutare la funzione dell’apparato di linguaggio in condizioni patologiche, proponiamo la tesi di Hughlings Jackson, secondo cui tutti questi modi di reazione rappresentano casi
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PER COMPRENDERE LE AFASIE: ALCUNI CONCETTI FONDAMENTALI
di involuzione funzionale4 (dis-involution) di un apparato altamente organizzato, e corrispondono quindi a stati precedenti del suo sviluppo funzionale. In tutti i casi andrà perciò perduto un ordinamento associativo superiore sviluppatosi tardi, e se ne manterrà uno più semplice acquisito prima. Questo punto di vista spiega un gran numero di fenomeni dell’afasia» (p. 112). Qui, dunque, troviamo per la prima volta negli scritti di Freud il principio della regressione che è alla base di tutte le asserzioni genetiche della psicoanalisi. Freud si era probabilmente imbattuto in questo principio, in una forma o nell’altra, già precedentemente, probabilmente negli scritti di Meynert; ma da nessun’altra parte esso era stato asserito così chiaramente e le sue applicazioni alla psicopatologia erano state evidenziate così tenacemente come negli scritti di Hughling Jackson, che li aveva tratti da Erbert Spencer, il filosofo psicologo dell’evoluzione. La stretta relazione tra psicoanalisi e teoria dell’evoluzione era stata notata già da tempo da Ernest Jones.5 Il ruolo importante giocato dallo studio di Freud sulle afasie nella fondazione della teoria psicoanalitica è stato pienamente riconosciuto da L. Binswanger. Egli ritiene che, la conoscenza di Freud della dottrina genetica di Hughling Jackson ebbe un’influenza decisiva sul pensiero di Freud, e si spinge fino ad affermare che senza la conoscenza di questo libro è impossibile una comprensione storica completa degli insegnamenti di Freud. Lo studio dei due articoli di Hughling Jackson cui Freud fa riferimento, convincerà il lettore che l’opinione di Binswanger non è un’esagerazione. In questi scritti Jackson non solo applica la dottrina di Spencer ai disordini del linguaggio, ma fa anche intravedere la loro importanza per lo studio della “follia”. Egli espresse anche il punto di vista per cui certi stati psichici e certe espressioni erano il risultato di scariche nervose conflittuali. Tutto ciò doveva essere stato di forte interesse per Freud che aveva familiarità con i concetti della psicodinamica attraverso Herbart, Fechner e Brücke. L’idea che disturbi della funzione, simili a quelli causati da lesioni del cervello, sopraggiungano nella persona sana in certe condizio4 Il termine usato nel tedesco originale è “Rückbildung”. La traduzione scelta per questo termine è “retrogressione” piuttosto che “regressione”. Quest’ultima sarebbe ugualmente corretta ma è stata scartata poiché avrebbe potuto creare l’impressione che la parola tedesca usata da Freud fosse “Regression”. Infatti, quest’ultimo termine fu usato per la prima volta ne L’interpretazione dei sogni (1899). 5 Jones E. (1912), “Preface” to Papers on psycho-analysis, Baillière, Tindall & Cox, London (trad. it.: in Teoria del simbolismo. Scritti sulla sessualità femminile e altri saggi. Astrolabio, Roma, 1972, pp. 7-8).
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ni di stanchezza e mancanza di attenzione, era implicita nella teoria dell’evoluzione e della dissoluzione. Essa si dimostrò essere di enorme importanza in psicopatologia. Non è perciò sorprendente trovare in questo libro osservazioni che presagiscono importanti scoperte psicopatologiche. Ciò che Freud disse sulla parafasia, cioè l’uso erroneo di parole, può essere letto come un preludio al capitolo sugli errori e sui lapsus nella “Psicopatologia della vita quotidiana”. Le osservazioni di Freud sulla parafasia sono ancora valide. Questo problema cruciale dell’afasia da allora ha fatto a stento qualche progresso. L’“apparato del linguaggio” è il fratello maggiore dell’“apparato psichico” al cui funzionamento furono dedicate la maggior parte delle successive ricerche di Freud. Entrambi i termini ovviamente originano dagli scritti di Meynert. Essi dimostrano il durevole attaccamento di Freud ai concetti di fisiologia. Il libro contiene un certo numero di altri termini che sono diventati parole familiari in psicologia e psichiatria. “Proiezione” e “rappresentazione”, che dovevano assumere una parte così importante nella teoria psicoanalitica, sono qui usate nel loro senso originario. Il termine “Besetzung” e “besetzen” (occupazione, occupare; cathexis, investire) erano stati usati da Meynert per indicare il processo ipotetico di investimento delle cellule corticali non attive con una nuova funzione. Benché Freud rifiutasse l’ipotesi di Meynert egli in seguito usò questi termini per indicare il meccanismo dell’investimento degli oggetti mediante libido. Anche il concetto di “sovradeterminazione” fu definito per la prima volta in relazione alle funzioni del linguaggio che si supponeva fossero salvaguardate dal crollo mediante un insieme di meccanismi complementari. La preferenza di Freud per i concetti che implicano processi dinamici, piuttosto che condizioni statiche, è evidente in tutto il libro. Essa è espressa nella maniera più chiara nel notevole passaggio che riguarda i ricordi (pp. 78-79). Questo tipo di considerazioni devono avere avuto la loro parte nella scoperta dei meccanismi inconsci che doveva divenire il più importante contributo di Freud alla psichiatria e alla psicologia. Il libro sembra aver ricevuto una scarsa attenzione immediata e le sue vendite furono insoddisfacenti6. L’autore stesso considerò questo 6
Furono vendute nel primo anno 142 copie e 115 nei nove anni successivi. Devo questa informazione al dottor Ernest Jones.
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PER COMPRENDERE LE AFASIE: ALCUNI CONCETTI FONDAMENTALI
lavoro con un certo orgoglio e in una delle sue lettere7 ne parlò come di qualcosa di “veramente buono”, lamentando allo stesso tempo che fosse stato a mala pena notato. Ciò non doveva meravigliare; Freud non occupava alcuna posizione ufficiale come quella tenuta da coloro le cui teorie egli criticava così severamente. Egli non aveva scritto sull’afasia precedentemente né in seguito si occupò dell’argomento. Inoltre il libro non conteneva nuove osservazioni cliniche e fu pubblicato come monografia che subito uscì dal circuito editoriale. Forse il destino di questo studio sarebbe stato differente se fosse stato pubblicato in una delle riviste più importanti. Tuttavia ciò accadde non molto prima che la marea delle teorie della localizzazione stretta si abbassasse, e nella prima decade di questo secolo le idee di Freud furono riprese da alcuni studiosi dell’afasia. Storch8 basò su di esse la sua interessante teoria del linguaggio interno. Egli fu seguito da Kurt Goldstein9 che tornò ad Hughling Jackson e a Freud nell’elaborare la moderna concezione più coerente e fruttuosa dell’afasia. La sua differenziazione delle afasie centrali dai disordini del linguaggio dovuti ai disturbi dei mezzi del linguaggio deriva direttamente da Freud. Anche alcuni altri autori si sono riferiti a lui. Il concetto di afasia agnosica incontrò un notevole interesse e il termine “agnosia” fu generalmente accettato. Ancora ora il libro di Freud è citato con rispetto in alcuni studi generali sull’afasia. Thiele10, in un’importante monografia, spesso si riferì ad esso e sottolineò come fosse rimasto anche oggi un lavoro di interesse centrale. Nielsen11 nel suo studio storico gli dette il giusto posto. Il libro sembra aver fatto una scarsa impressione ai neurologi francesi ed è rimasto sconosciuto alla maggior parte degli autori inglesi ed americani. Jeliffe, e recentemente Ernest Jones, rimproverarono Head12 per aver completamente ignorato il libro di Freud quando egli pronunciò la sua generale condanna dei neurologi per aver trascurato 7 Freud S. (1950), Aus den Anfangen der Psychoanalyse, (trad. ingl.: The origins of psychoanalysis, Basic Books, New York, 1954, p. 94, (trad. it.: Le origini della psicoanalisi, Boringhieri, Torino, p. 81). 8 Storch E. (1903), “Der aphasische Syntomenkomplex”, Manatsch. Psychiatrie und Nervenkrankh., 13. 9 Goldestein K. (1012), “Die zentrale Aphasie”, Neurol. Centralblatt, 12, p. 1. 10 Thiele W. (1928), Die Aphasien, Handb. d. Geisteskr., Allgem. Teil, vol. 2, Berlin, p. 242. 11 Nielsen J.M. (1947), Agnosia, Apraxia, Aphasia, Hoeber, New York and London, 1947. 12 Head H. (1926), Aphasia and kindred disorders of speech, vol. 1, Cambridge University Press, Cambridge.
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INTRODUZIONE A ON APHASIA DI SIGMUND FREUD
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Hughlings Jackson. Ovviamente, Head non aveva mai letto il libro, benché egli citasse Freud come il creatore del termine “agnosia”. Non c’è dubbio che al tempo della sua pubblicazione Freud si trovò da solo nel suo entusiastico apprezzamento di Hughlings Jackson. Non fosse altro che per questo fatto storico, il libro merita di essere salvato dall’oblio. Ma c’è un’altra ragione, di maggior peso delle considerazioni di giustizia storica, che rende auspicabile che questo libro non resti sconosciuto nel mondo di lingua inglese: sembra che il diretto contatto di Freud con le teorie evoluzionistiche che si diffondevano dall’Inghilterra fu un evento altamente significativo per lo sviluppo della psicoanalisi. Il libro reca testimonianza di questo incontro.
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PROTO-DIZIONARIO DI PSICOANALISI
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di Ana-Maria Rizzuto1
Freud, inventore di una nuova disciplina, si trovò costretto ad usare i termini scientifici e le parole comuni propri del suo tempo per sostenere le sue idee e per dialogare con i colleghi. I termini che egli preferì adottare per trasmettere le sue osservazioni rivelano non solo il contesto storico del suo pensiero, ma anche le sottili trasformazioni di significato che subivano le parole nell’attraversare la sua mente creativa. Per comprendere in profondità la terminologia fondamentale della psicoanalisi è necessario collocare ogni termine nel testo e nel contesto originali, stabilire il significato della sua prima utilizzazione e seguirne, poi, nel tempo, le progressive trasformazioni alla luce delle nuove scoperte. L’Oxford English Dictionary è costruito su un principio simile nel tentativo di attribuire ampiezza di significato alle parole inglesi. Laplanche e Pontalis (1993) adottarono tale metodo quando scrissero la Enciclopedia della psicoanalisi. La finalità dei due autori era quella di «recuperare, nella loro propria originalità, i concetti» attribuendo «una importanza privilegiata al momento della loro scoperta» (p. ix). Etcheverry (1978), ritraducendo in spagnolo le Gesammelte Werke di Freud, ricorse sistematicamente alla traduzione letterale dei termini adoperati ripetutamente nel corso degli anni. Il suo scopo era quello di condurre il lettore a fare da testimone alla genesi dei termini che sarebbero divenuti in seguito categorie tecniche, invitandolo, così, a partecipare al processo creativo della formazione personale dialettica di Freud (pp. 3-4). I termini e le parole scelti per esprimere le idee della nostra mente non possono mai essere completamente esaustivi. Il concetto, specie 1
Traduzione di Laura de Caprariis.
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PER COMPRENDERE LE AFASIE: ALCUNI CONCETTI FONDAMENTALI
se nuovo, è sempre più ricco delle parole disponibili a descriverlo. D’altro canto anche i termini più adeguati a trasmettere una scoperta portano con sé storie complesse e significati propri dell’epoca che sono contingenti e che possono distogliere l’attenzione dal focus principale dell’oggetto indicato dalla parola. Non c’è modo di aggirare questa difficoltà. Nel migliore dei casi possiamo tentare di afferrare il pieno significato contestuale del termine e il suo uso, nello sforzo di portare avanti il punto di vista originale dell’autore. Compito del lettore è, quindi, scoprire vino nuovo in botte vecchia. Freud scrisse «su di noi» (Ornston, 1982, p. 412) e su di sé. Egli parlò sempre in prima persona con l’intento di rendere partecipe il lettore del processo di scoperta. Il suo stile appare «lucido ed evocativo», fluido e assieme ricco di metafore e paragoni. «Per 50 anni, Freud (1891, 1938a, 1938b) respinse le definizioni sistematiche e rifiutò di tradurre le sue convenzioni descrittive in termini artificiali» (Ornston, 1982, p. 409). La monografia di Freud L’interpretazione delle afasie mostra molto chiaramente gli aspetti sopramenzionati. Il titolo, Zur Auffassung der Aphasien, «Verso una concezione delle afasie», già indica che Freud intende illustrare il suo modo di comprendere l’afasia piuttosto che limitarsi ad una descrizione oggettiva di essa. Freud dà prova di ciò con l’uso di un linguaggio, inteso ad enunciare la sua comprensione dell’apparato di linguaggio e del suo modo di funzionare, che adotta «coordinate descrittive e astrazioni organizzatrici» (Ornston, 1982, p. 409). In questo articolo prendo in considerazione la monografia L’interpretazione delle afasie, primo libro pubblicato da Freud, per esaminare con attenzione alcuni termini che egli utilizza e per illustrare in che modo ciascuno di essi si ripresenti, in un tempo successivo, nel suo apparato concettuale. Nella monografia compaiono, infatti, numerose parole che entreranno a far parte del vocabolario analitico. Fu forse questo il motivo che indusse Stengel (1953), il traduttore inglese, ad affermare nella sua “Introduzione” che [Freud] «pose anche le fondamenta della psicoanalisi» e a concludere, infine, che «è stato sempre più riconosciuto negli ultimi anni che i lavori anatomici, neurologici e psicoanalitici [di Freud] costituiscano un continuum. Il lavoro sulle afasie lo dimostra chiaramente» (p. ix). Sfortunatamente Stengel, al pari di Strachey, non fu fedele allo sforzo creativo di Freud. Anche Stengel reputò la monografia un libro di neurologia, più di quanto non fosse in realtà (Rizzuto, 1990).
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PROTO-DIZIONARIO DI PSICOANALISI
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Agli inizi del 1936, quando Freud era ancora in vita, Binswanger asserì che, senza la conoscenza e la puntuale considerazione de L’interpretazione delle afasie, non era possibile pervenire ad una comprensione storica e teoretica delle tesi di Freud. Freud, comunque, ha sempre tenuto separato questo lavoro da quelli successivi; lo menzionò solo un paio di volte nei suoi primi scritti e nel 1939 rifiutò a Kris (1954) il permesso di includerlo nell’edizione tedesca della raccolta delle sue opere. La ragione di questo rifiuto rimane un mistero del rapporto di Freud con il proprio lavoro se si considera che molti concetti presenti nella monografia si ritrovano ampiamente nei suoi scritti successivi, come spero di dimostrare nei miei prossimi articoli. Strachey scoprì, traducendo ‘L’inconscio’, che i concetti presentati ne L’interpretazione delle afasie erano così vicini a quelli espressi nel nuovo scritto che, sebbene Freud non vi facesse esplicito riferimento, decise di includere alcuni passi della monografia come Appendici B e C. Riporterò i termini dalla traduzione di Laplanche e Pontalis nella Enciclopedia della psicoanalisi, adottando anche lo stesso schema che include gli equivalenti in lingua tedesca, inglese, spagnola, francese e portoghese. Le parole tedesche si riferiscono alla pubblicazione originale di Zur Auffassung der Aphasien del 1891. L’ortografia di alcuni vocaboli nell’originale è leggermente diversa da quella oggi in uso. Quando utilizzo tali parole, adotto l’ortografia moderna. Le citazioni di Freud sono fedeli all’ortografia originale. La traduzione inglese è mia2. A.E. si riferisce agli editori Amorrortu, “Sobre la version castellana”, volume di introduzione alle Obras Completas del traduttore José Luis Etcheverry. C.A. si riferisce a Contribution à la conception des aphasies tradotto da Claude van Reeth. L.P. ri riferisce a Laplanche e Pontalis (1993) Enciclopedia della Psicoanalisi. Le lingue sono così indicate: (D.) tedesco, (Eng.) inglese, (Es.) spagnolo, (Fr.) francese, e (P.) portoghese. * rinvia a un’altra voce in questo articolo. ** rinvia alla voce in L.P. I numeri dopo ogni citazione si riferiscono, nell’ordine, alle pagine delle edizioni tedesche, inglesi, francesi e italiane. 2
I numeri delle pagine della versione inglese si riferiscono alla traduzione di Stengel (1953), mentre le parole di Freud sono state ritradotte dall’autore in inglese.
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ASSOCIAZIONE** D.: Assoziation; Eng.: association; Es.: asociación; Fr.: association; P.: associação. Freud adopera questo termine secondo l’uso dei neurologi del suo tempo. Ciononostante, servendosene per esprimere la sua concezione dell’apparato di linguaggio come un “apparato organizzato per le associazioni (auf Assoziation eingerichteten apparates)” (p. 91, p. 89, p. 139, p. 115), Freud conferisce ad esso caratteristiche conformi al particolare riferimento attribuitogli all’interno dell’apparato. Il termine ha un significato anatomico: ci sono fasci associativi di fibre bianche (p. 56, p. 54, p. 104, p. 76) che Freud non considera (p. 59, p. 57, p. 107, p. 80) conduttori di associazioni di linguaggio. Non si ha bisogno di essi perché «si può ora separare nel CORRELATO FISIOLOGICO* della sensazione la parte della “sensazione” (Empfindung) da quella dell’“associazione”? Evidentemente no… sono due nomi con cui indichiamo (belegen) diversi aspetti del medesimo processo». In quanto processi, sono temporali e non sono localizzabili: «La localizzazione di una RAPPRESENTAZIONE* (Vorstellung) non significa altro che localizzazione del suo correlato» (p. 58, p. 57, pp. 106107, p. 79). Anche il correlato fisiologico è più di un semplice luogo anatomico: «una singola fibra o cellula nervosa non è impegnata in un’unica attività associativa di linguaggio», si tratta «qui di un rapporto (Verhaltniss) ben più complesso» (p. 91, p. 90, p. 140, p. 115). Il significato anatomico riguarda la descrizione di una larga area: «La regione associativa del linguaggio, in cui convergono elementi ottici, acustici e motori (o cinestetici), appunto per questo si estende tra i campi corticali di questi nervi sensoriali e i rispettivi campi corticali motori» (p. 65, p. 63, p. 113, p. 86). Freud ripete più volte che la regione è nella corteccia ed è al servizio della funzione di linguaggio, ovvero della funzione associativa. All’interno di questa regione «procedono, con complessità inaccessibile alla comprensione, associazioni e traslazioni (ÜBERTRAGUNGEN)* ‘su cui poggiano le funzioni di linguaggio’» (p. 64, p. 62, p. 112, p. 85). Freud si rifiuta di separare il processo di associazione da quello di rappresentazione (p. 66, p. 64, p. 114, p. 87). Da questo punto di vista, associare e rappresentare sono processi simultanei, aspetti affatto diversi di un processo storicamente cumulativo organizzato secondo catene associative (Assoziationskette). Seguendo J.S. Mill, Freud afferma che «nella serie di impressioni sensoriali ricevute da un oggetto,
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includiamo nella medesima catena associativa anche la possibilità di una vasta serie di nuove impressioni» (p. 80, p. 78, p. 128, p. 101). Per questo processo, che riguarda l’incremento associativo delle rappresentazioni e quello delle rappresentazioni d’oggetto, Freud non usa un termine specifico. Allorquando un processo simile riguarda le parole, egli impiega il verbo super-associare (super-assozieren). Noi super-associamo quando dobbiamo imparare una lingua dopo aver parlato uno dei suoi dialetti (p. 77, p. 75, p. 125, p. 98), quando apprendiamo nuove lingue oppure quando impariamo a leggere e a scrivere dopo avere imparato a parlare. In condizioni patologiche l’ordine storico delle super-associazioni è rovesciato: c’è una perdita dei «recenti reclutamenti del linguaggio (Spracherwerbungen) acquisiti come super-associazioni mentre la lingua madre viene conservata». Il processo ha a che fare con la nozione di Hughlinghs Jackson di disinvoluzione funzionale (funktioneller Rück-bildung). Freud lo afferma molto chiaramente: «È evidente che le associazioni linguistiche, con le quali lavora la nostra attività linguistica, sono capaci di una superassociazione (Superassoziation) […] e che il superassociato viene danneggiato prima dell’associato primario, ovunque si trovi la lesione» (p. 62, p. 61, p. 111, p. 83). Se il correlato fisiologico è danneggiato, il processo associativo ritorna al modo precedente (primario)*. Questa concettualizzazione sembra contenere chiaramente gli antecedenti di quelle nozioni analitiche che verranno elaborate molto più tardi quali sovra-determinazione, determinazione multipla, **regressione** e della tecnica della libera associazione. A proposito della sovra-determinazione, L.P. citano un paragrafo degli Studi sull’isteria nel quale Freud la correla ad una pluralità di eventi traumatici: «le catene di associazioni che collegano il sintomo con il “nucleo patogeno” corrispondono a una linea ramificata, e più precisamente [...] a un sistema di linee convergenti.» (p. 573). Le associazioni traumatiche sembrano essere super-associate nella stessa catena. Le associazioni seguono una direzione: «Siamo partiti dal presupposto che, nonostante un’ampia [allseitigen] possibilità di associazione tra gli elementi della funzione di linguaggio, nell’attività funzionale siano tuttavia preferite determinate direzioni associative… Abbiamo inoltre supposto che si tratti di quelle direzioni associative (Assoziationsrichtungen) che furono impegnate nell’apprendimento dell’attività del linguaggio» (p. 100, p. 98, pp. 148-149, pp. 124-125). Queste assunzioni e osservazioni indicano un processo predeterminato da un
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punto di vista cronologico e funzionale, un antecedente di determinismo psichico. Non associamo ciò che vogliamo; dobbiamo seguire il sentiero delle nostre associazioni anche quando le associazioni del linguaggio seguono un «complicato e tortuoso (geknickten) percorso» (p. 44, p. 42, p. 92, p. 61). Quali elementi sono associati fra loro? Le RAPPRESENTAZIONI* sensoriali si associano per formare due complessi associativi: il complesso di rappresentazione d’oggetto e il complesso di rappresentazione di parola. La componente visiva delle associazioni d’oggetto e l’immagine acustica delle associazioni di parola si “rappresentano” (vertreten) l’una con l’altra per formare insieme una parola con un significato (p. 79, p. 77, p. 127, p. 101). Nell’imparare a parlare o nell’apprendere qualcosa di nuovo, associamo le nuove impressioni a quelle di cui abbiamo già esperienza (p. 75, p. 73, p. 123, p. 97). In realtà, come abbiamo mostrato poc’anzi, ogni nuova sensazione o percezione porta con sé processi associativi. Essi non possono essere messi da parte; accadono automaticamente. Un’associazione è capace di stimolare altre componenti dell’apparato di linguaggio: «Ogni stimolo (Anregung) “volontario” (willkürliche) dei centri del linguaggio attraversa però la regione delle rappresentazioni acustiche, e consiste in un loro eccitamento da parte delle associazioni oggettuali» (p. 85, p. 84, p. 133, p. 108). Per Freud, «tutti gli stimoli per il linguaggio spontaneo provengono (stammen) dalla regione delle associazioni oggettuali» (p. 81, p. 79, p. 128, p. 103). Inoltre «[…] le associazioni più frequentemente adoperate resistono meglio alla distruzione.» (p. 89, p. 87, p. 137, p. 112). Ciò che è «intensamente associato [in senso emotivo] […] acquisti[a] la forza di sopravvivere alla lesione.» (p. 90, p. 88, p. 138, p. 113). Le nozioni di forza e di intensità, così importanti nella teorizzazione successiva, sono menzionate qui per la prima volta come osservazione clinica. «[…] rappresentazioni di parola associate in serie vengono conservate meglio di quelle singole» (p. 113). «Gli influssi della stanchezza […] sono fattori che spesso incidono vistosamente sull’espressione del disturbo del linguaggio» (p. 91, p. 89, p. 139, p. 115). Tutti questi fenomeni sono facilmente osservabili. L’importanza di essi apparirà più tardi ne L’interpretazione dei sogni e ne la Psicopatologia della vita quotidiana. Freud conclude sostenendo che tutto ciò che osserva e descrive risulta da proprietà generali dell’apparato di linguaggio, «un apparato organizzato (eingerichteten) per l’associazione» (p. 91, p. 89, p. 139, p. 115). Parlare e capire è entrare in un processo associativo. Una lesione
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dell’apparato interferisce con le sue funzioni associative. Un’afasia è un disturbo delle normali associazioni.
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ATTENZIONE DIVISA D.: geteilten Aufmerksamkeit; Eng.: attention, divided; Es.: atención dividida; Fr.: attention divisée; P.: atensão dividida. Freud aveva già cominciato un intenso processo di AUTO-OSSERVAZIONE* al tempo in cui scrisse L’interpretazione delle afasie. Nel discutere sull’apprendimento della lettura, Freud afferma, proprio a partire dall’osservazione di se stesso e di altri, che la lettura è un processo complesso che richiede la partecipazione di molte funzioni psichiche. Inoltre, sostiene che ci sono molti modi di leggere e che in alcuni contesti rinunciamo a capire ciò che leggiamo come accade, ad esempio, nelle prove di lettura. Conclude la sua argomentazione asserendo che in tutti questi casi «si tratta di fenomeni d’attenzione divisa» (p. 99). «La comprensione di ciò che si legge avviene per una via traversa (Umwege)» (p. 78, p. 76, p. 126, p. 99). Leggendo questa descrizione non si può ignorare che in analisi l’uso tecnico della “attenzione divisa” permette all’analizzante di comprendere ciò che sta dicendo solo attraverso tali linee di circuito. Va ricordato che in quel periodo Freud stava lavorando intensamente con pazienti che non comprendevano del tutto ciò che dicevano, come ad esempio Emmy von N e le sue strane affermazioni. AUTO-OSSERVAZIONE D.: Selbstbeobachtung; Eng.: self-observation; Es.: auto-observación, Fr.: auto-observation; P.: auto-observação. Nel suo stringente argomentare, volto a provare la sua concezione della funzione di linguaggio, Freud ricorre frequentemente all’autoosservazione: «L’auto-osservazione mostra a ciascuno di noi che ci sono diversi modi di leggere, dei quali ora l’uno ora l’altro rinuncia alla comprensione della lettura» (p. 99). Come esempi Freud include le prove di lettura, la lettura di un romanzo, la lettura ad alta voce e la stanchezza. La complessità della funzione della lettura spiega i fenomeni d’ATTENZIONE DIVISA*. Un aspetto della funzione può
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essere rilevato automaticamente quando prestiamo attenzione alla pronuncia delle parole nella lettura ad alta voce (pp. 77-78, pp. 75-76, pp. 125-126, pp. 99-100). Freud fa delle osservazioni simili riguardo alla scrittura spontanea (p. 97, p. 95, p. 145, p. 121). Queste auto-osservazioni vanno già nella direzione della nostra incapacità di essere presenti simultaneamente in tutti gli aspetti delle funzioni psichiche complesse, e della nostra capacità di eseguire funzioni di linguaggio senza capire ciò che stiamo facendo. Tale riflessione sembra conforme allo sviluppo successivo della tecnica analitica. Nel descrivere come comprendiamo le parole del linguaggio parlato, Freud nota che «in una certa misura ripeteremmo interiormente quanto abbiamo udito per poi poggiarne simultaneamente la comprensione sulle nostre sensazioni d’innervazione del linguaggio» (p. 93, pp. 91-92, pp. 141-142, p. 117). Questa considerazione esprime l’attenzione che Freud rivolge verso le sue proprie funzioni di linguaggio e la sua inclinazione ad usare osservazioni personali irrefutabili per la spiegazione scientifica. Tale attenzione è alla base del suo capolavoro L’interpretazione dei sogni. Freud nel lavoro clinico invitava il paziente ad esercitare la capacità di auto-osservazione su tutto ciò che gli veniva alla mente. CARICA O INVESTIMENTO D.: Besetzung; Eng.: cathexis; Es.: carga; A.E.: investidura; Fr.: investissement; P.: investimento. (Il termine inglese “cathexis” è un neologismo, creato da James Strachey, attualmente presente nel Supplemento dell’edizione del 1971 dell’Oxford English Dictionary. Strachey coniò la parola nel 1922 derivando il nome da κάθεξις (káthexis), dal verbo greco κατέχειν (kathéchein), occupare. A Freud non piacque la parola poiché egli non amava i termini tecnici, tuttavia la utilizzò nel suo articolo manoscritto del 1925 per l’Encyclopaedia Britannica [G.W. 14, p. 299; S.E. 20, p. 263; O.S.F. 10, p. 225]). L.P. scrivono che il termine «fa la sua prima apparizione nel 1895, in Studi sull’isteria e nel Progetto di una psicologia» (p. 268). Ne L’interpretazione delle afasie Freud, discutendo le teorie meynertiane, cita una frase di Meynert nella quale compaiono le parole occupazione (Okkupation) e carica o investimento (Besetzung). Il primo termine si riferisce all’occupazione di una regione corticale da parte delle im-
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magini mnestiche; il secondo sta a designare le cellule che vengono investite (Besetzung). Meynert credeva nella localizzazione anatomica delle immagini mnestiche e riteneva che la memoria fosse limitata dal numero di cellule disponibili. Freud commentò che Meynert concepiva questa progressiva occupazione come una città che cresce per espansione (pp. 60-61, p. 59, p. 109, p. 82). Per Freud le IMMAGINI MNESTICHE* non sono realtà anatomiche ma processi. Le nuove acquisizioni sono collocate, per associazione, nelle stesse aree (Stellen) del linguaggio appreso per primo (p. 62, p. 60, p. 110, p. 83). Freud si riferisce alla localizzazione del CORRELATO FISIOLOGICO* che sostiene i processi di memoria, ma si differenzia da essi. Carica, o investimento, a questo punto, significa occupazione di alcune regioni corticali da parte del correlato fisiologico capace, se stimolato, di elicitare il processo che evoca le immagini mnestiche. In altre parole, esso è un potenziale processo. COMPLESSO** D.: Komplex: Eng.: complex; Es.: complejo; Fr.: complexe; P.: complexo. L.P. affermano che Breuer usa il termine in Studi sull’isteria del 1895. Breuer, che aveva letto L’interpretazione delle afasie di Freud, precisa che adopera termini già noti applicandoli a concetti clinici con significati ulteriori. Breuer parla di complessi rappresentazionali (Vorstellungenscomplexe) e di singole rappresentazioni. Ne L’interpretazione delle afasie, una rappresentazione d’oggetto è «un complesso associativo delle più disparate (verschiedenartigsten) [singole] rappresentazioni visive, acustiche, tattili, cinestetiche e d’altro tipo ancora». La parola è dunque una rappresentazione complessa: «alla parola corrisponde un intricato processo associativo (Assoziation-vorgang) in cui confluiscono (miteinander eingehen) i suddetti elementi di provenienza visiva, acustica e cinestetica» (p. 79, p. 77, p. 127, p. 101). Questa concezione della parola e della rappresentazione d’oggetto si riferisce anche alle singole rappresentazioni organizzate da un processo associativo in una parola complessa o in un oggetto complesso. Il principio organizzativo è simile: alcune associazioni formano gruppi di rappresentazioni permanenti che acquisiscono un nuovo significato al di là della singola rappresentazione.
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CONNESSIONE D.: Verknüpfung, Verbindung; Eng.: connection; Es.: (A.E.) enlace (de representaciones); Fr.: connection; P.: ligação eu conexão. Freud usa questa parola nel senso neurologico comune per indicare due elementi collegati dal punto di vista funzionale. Il termine acquista un significato particolare perché Freud lo impiega per descrivere il legame fondamentale nel processo di formazione di una parola portatrice di significato: «la parola ottiene il suo significato (Bedeutung) legandosi (Verknüpfung) alla “rappresentazione d’oggetto”» (p. 79, p. 77, p. 127, p. 101). La teoria dell’afasia di Freud si basa sul disturbo di questa connessione: «il collegamento (Verbindung) fra rappresentazione di parola e rappresentazione d’oggetto è la parte più facilmente esauribile dell’attività (Leistung) di linguaggio, in un certo senso il suo punto debole» (p. 85, p. 83, p. 133, p. 107). Per Freud ci sono solo due tipi di afasia: 1) afasia verbale, in cui sono disturbate solo le associazioni tra i singoli elementi della rappresentazione di parola; 2) afasia asimbolica in cui a essere disturbata è l’associazione (Assoziation) [Verknüpfung] tra rappresentazione di parola e rappresentazione d’oggetto (p. 80, p. 78, p. 128, pp. 102-103). La dissociazione simbolica di una parola portatrice di significato può manifestarsi come fenomeno funzionale, ad esempio come risultato della stanchezza (p. 91, p. 89, p. 139, p. 115). Nel capitolo 7 de L’interpretazione dei sogni, Freud teorizzerà sul significato di tale connessione in rapporto alla COSCIENZA**. CORRELATO FISIOLOGICO D.: physiologische Korrelat; Eng.: correlate, physiological; Es.: correlato fisiologico; Fr.: corrélat physiologique; P.: correlato fisiologico. Seguendo Hughlings Jackson, Freud credeva che lo psichico (das Psychische) fosse «un processo parallelo a quello fisiologico (“a dependent concomitant”)» (p. 57, p. 55, p. 105, p. 77). Il correlato non è una localizzazione anatomica, non è “nulla di statico”, ma è un processo localizzabile che «si diffonde su tutta la corteccia cerebrale oppure lungo vie particolari. Una volta terminato, lascia dietro di sé, nella corteccia cerebrale su cui ha agito, una modificazione (Modification), la possibi-
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lità del ricordo (Erinnerung)» (pp. 78-79). Questa è la concezione del correlato fisiologico di Freud «della rappresentazione semplice o di quella che in sua vece ritorna (der für sich wiederkehrenden Vorstellung)» (p. 78). Ciò che accade è che «ogni volta che viene eccitato (angeregt) il medesimo stato (Zustand) corticale, lo psichico (das Psychische) di nuovo nasce come immagine mnestica». È a questo punto che fanno il loro ingresso due termini psicoanalitici cruciali: LATENTE (latent) e COSCIENZA** (Bewusstsein): «la nostra coscienza non rileva nulla che sul versante psichico possa giustificare il nome di “immagine mnestica latente” (latentes Erinerrungsbild)». Freud paragona il potere latente della modificazione a quello degli spermatozoi «in cui sono pronte a svilupparsi le modificazioni più polimorfe e dettagliate» (p. 58, pp. 56-57, p. 106, p. 79). Qui c’è un primo riferimento a tre elementi: 1) modificazioni non consce che si lasciano dietro la possibilità del ricordo come processo virtuale; 2) rappresentazioni che sono capaci di ritornare sotto un’appropriata stimolazione; 3) l’esistenza di qualcosa di latente, non conscio, che, come gli spermatozoi, possiede il potenziale di generare formazioni viventi. In queste prime conclusioni della teoria di Freud, intravedo il primo nucleo di quello che sarà l’inconscio con le sue caratteristiche di non dimenticare mai nulla e di presentare alla mente conscia immagini non richiamate. È possibile anche proporre che la modificazione, con il suo processo di memoria potenziale, è un remoto ma diretto antecedente delle nozioni di identità di percezione** e traccia mnestica ** come sarà discusso ne L’interpretazione dei sogni. IMMAGINE MNESTICA D.: Erinnerungsbild; Eng.: memory-image (mnemic-image); Es.: imagen mnémica; Fr.: image mnésique; P.: imagem mnêmica. Il termine è introdotto da Freud per criticare l’insuccesso di Wernicke nel separare i processi fisiologici nervosi dalle rappresentazioni psicologiche o immagini mnestiche. Per Freud un’immagine mnestica è sempre qualcosa di psichico che appare quando viene stimolato il correlato fisiologico* (p. 56, p. 54, p. 104, p. 77). Il correlato fisiologico corrisponde alla rappresentazione semplice. Freud sembra riferirsi con ciò alle rappresentazioni collegate in modo più diretto agli organi di senso piuttosto che al COMPLESSO* di
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rappresentazioni che implica molte impressioni sensoriali. Tale interpretazione trova riscontro nella seguente affermazione: “tra le associazioni oggettuali sono generalmente le immagini mnestiche ottiche a giocare il ruolo principale [nel linguaggio stimolato]” (p. 86, p. 84, p. 134, p. 109). Questa prima concettualizzazione prepara il campo alla nozione successiva di TRACCIA MNESTICA**, così essenziale nei lavori metapsicologici di Freud. Con la nozione di RAPPRESENTAZIONE*, Freud fa intendere molto chiaramente che egli parla di processi psicologici piuttosto che di una fisiologia della memoria. IMPULSO (STIMOLO) A PARLARE D. Impuls (Anregung) zu sprechen; Eng.: impulse (stimulus) to speak; Es.: impulso (estimulo) para hablar; Fr.: impulsion (incitation) à parler; P.: impulso para falar. La conclusione centrale delle investigazioni di Freud sulla struttura dell’apparato di linguaggio e sul suo funzionamento è che «tutti gli stimoli (Anregungen) per il linguaggio spontaneo provengono dalla regione delle associazioni oggettuali» (p. 81, p. 79, p. 128, p. 103). Gli impulsi sono presenti anche nei casi in cui si manifesta un disturbo di afasia sensoriale che viene descritto da Freud come una situazione in cui c’è un «impoverimento della parola con forte impulso (Impulsen) a parlare». (p. 24, p. 23, p. 73, p. 40). Tra le molte componenti del complesso delle associazioni oggettuali «le immagini mnestiche ottiche giocano di solito il ruolo principale». Esse sono l’elemento del complesso oggettuale che si connette con la componente uditiva del complesso di parola per produrre il linguaggio parlato. Ciononostante, se per condizioni patologiche tale collegamento non si attua, «il campo del linguaggio può tuttavia ricevere ancora impulsi (Impulse) dal resto della corteccia, vale a dire dalle associazioni tattili, gustative e d’altro tipo, e può generalmente essere ancora stimolato al linguaggio». Freud pone qui un’assunzione grammaticale molto interessante: parti del discorso, quali sostantivi e aggettivi «sarebbero per lo più pronunciate su stimolo ottico» e allorquando esse non siano disponibili, il campo del linguaggio che rimane produce un linguaggio mutilato (verstümmelte) in cui sono presenti «le particelle, le sillabe (farfugliamento) che non richiedano una più stretta associazione oggettuale» (pp. 86-87, pp. 84-85, pp. 134-135, p. 109).
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Tali interessanti ipotesi e conclusioni vanno chiaramente nella direzione della tecnica analitica, laddove vengono create le condizioni ottimali per favorire le associazioni d’oggetto al fine di stimolare una situazione particolare di linguaggio spontaneo. Se a queste condizioni si aggiunge la nozione della potenziale dis-involuzione che hanno le parole e le rappresentazioni d’oggetto, è possibile riconoscere nella struttura e nella funzione dello stesso apparato di linguaggio il fondamento della futura tecnica analitica.
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LINGUAGGIO SPONTANEO D.: spontanen Sprache; Eng.: spontaneous speech; Es.: lenguaje espontáneo; Fr.: langage spontané; P.: a fala spontânea. Freud quando scriveva L’interpretazione delle afasie era interessato a presentare un punto di vista comprensivo della funzione di linguaggio e del suo apparato di supporto. Egli credeva che non fosse sufficiente spiegare le afasie. Comprendere il linguaggio spontaneo poteva offrire un punto di vista più ampio della funzione normale e della patologia (p. 6, p. 5, p. 55, p. 19). Freud era anche molto interessato all’uso frequente del linguaggio spontaneo delle sue pazienti dell’epoca. (Rizzuto, 1989). Il linguaggio spontaneo è la capacità di parlare volontariamente (willkürlich), di propria iniziativa. Freud scrive così di un paziente di Hammond: «Non era più in grado di parlare da sé (von selbst)» (p. 27, p. 26, p. 76, p. 44). Il linguaggio spontaneo richiede che l’area acustica rimanga intatta perché «si parla solo a partire da immagini sonore» (pp. 21-22, p. 21, p. 71, p. 43). Esso ha anche bisogno di IMPULSI* a parlare che originano dalle associazioni oggettuali (p. 81, p. 79, p. 128, p. 103). Il linguaggio spontaneo è la funzione più elevata dell’apparato di linguaggio e trova la fonte di stimolazioni proprie nelle rappresentazioni che originano dalla superficie del corpo e nelle rappresentazioni d’oggetto con le loro molteplici ricombinazioni. Queste considerazioni teoriche sembrano essere un remoto ma diretto antecedente della nozione di un Io corporeo, e del linguaggio come funzione dell’Io. Inoltre possono anche collegarsi alla tecnica delle libere associazioni, laddove l’individuo acconsente a verbalizzare tutto ciò (Einfälle) che gli viene in mente come risultato del seguire l’impulso a parlare senza censure.
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Il linguaggio spontaneo è sempre volontario. (La traduzione di C.A. rende “willkürlich” come “arbitrario”. Tale traduzione è fuorviante perché Freud si occupa chiaramente del desiderio di parlare dell’individuo, come illustrato dal caso del paziente che faceva «sforzi disperati per parlare» (p. 28, p. 27, p. 77, p. 45). D’altro canto ciò che appare “arbitrario” è che le associazioni d’oggetto possono apparire di per sé, stimolare l’apparato e con esso l’individuo a parlare).
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PRIMARIO D.: primär; Eng.: primary; Es.: primario; Fr.: primaire; P.: primario. Aggettivo comune o avverbio che Freud usa come qualificatore. Documentare la sua prima comparsa ha valore per il significato assunto dal termine, successivamente, in diverse espressioni analitiche essenziali. Freud lo usò nella seguente affermazione: «il superassociato viene danneggiato prima dell’associato primario» (p. 62, p. 60, p. 111, p. 83). Qui Freud sta seguendo Hughlings Jackson e la teoria della disinvoluzione. Primario significa prima nel tempo e perciò più persistente come funzione disponibile. Come fanno notare L.P. nel commento riguardante il PROCESSO PRIMARIO/PROCESSO SECONDARIO** (p. 436), il termine ha implicazioni temporali e genetiche. Le due connotazioni sono già presenti nell’uso della parola ne L’interpretazione delle afasie. RAPPRESENTAZIONE D.: Vorstellung (Repräsentation); Eng.: representation; Es.: representación; Fr.: représentation; P.: representação. Freud si impegnò a rispondere all’«interrogativo sul modo in cui il corpo è raffigurato (abgebildet) nella corteccia» (p. 50, p. 50, p. 100, p. 70). Egli confutò la teoria di Meynert che postulava “una proiezione in senso stretto del corpo nella corteccia, ossia sotto forma di un’immagine completa e topograficamente simile” (p. 49, p. 48, p. 98, p. 70). Freud distingue due differenti modi di riproduzione: la proiezione e la rappresentazione. La proiezione, una copia punto per punto, si trova solo nel midollo spinale; nella corteccia c’è la rappresentanza (Repräsentation), vale a dire «la periferia del corpo non è contenuta ele-
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mento per elemento nella corteccia, ma rappresentata (vertreten) in modo meno dettagliato attraverso fibre scelte» (p. 52, p. 51, p. 101, p. 71). La rappresentanza corticale è indiretta perché le fibre dalla periferia del corpo si fermano ai numerosi nuclei grigi mutando il proprio significato funzionale. Come risultato, singoli elementi del corpo «possono essere rappresentati più volte, mentre altri non lo sono affatto». Il riordinamento della rappresentanza si dà secondo un principio “puramente funzionale” (p. 55, p. 53, p. 103, p. 75). Freud non dice se c’è un altro modo di rappresentare che non sia collegato al linguaggio. Una rappresentazione semplice è sempre un evento psichico basato sul CORRELATO FISIOLOGICO* e non è mai isolata perché i processi sensoriali implicati sono di per sé anche ASSOCIAZIONI*. Le rappresentazioni sensoriali formano un particolare COMPLESSO* per rappresentare un oggetto (Objektvorstellung). Tale rappresentazione è solo «la parvenza di una “cosa” (Ding)», il risultato di impressioni sensoriali rappresentate nella corteccia. Nuove rappresentazioni possono essere aggiunte alla catena di associazioni di una rappresentazione d’oggetto poiché essa si presenta come catena aperta (p. 79, p. 77, p. 127, p. 101). Freud concorda con J.S. Mill che la “cosa” in sé, l’oggetto (Ding) esterno non si può conoscere (p. 80, p. 78, p. 128, p. 101). La rappresentazione d’oggetto si lega attraverso le sue associazioni visive alla componente acustica della rappresentazione di parola. Anche quest’ultima è un COMPLESSO* formato da tutte le rappresentazioni sensoriali che entrano nella formazione della parola parlata e scritta. La rappresentazione di parola chiude i suoi elementi e non aggiunge nuove rappresentazioni. Essa, comunque, è capace di super-associazione, ovvero di aggiungere nuovi linguaggi alle prime associazioni della lingua madre. La rappresentazione è il risultato di un processo che, una volta verificatosi, lascia dietro di sé, nel correlato fisiologico, una «modificazione, la possibilità del ricordo». La stimolazione della corteccia che permette la riproduzione dello stesso stato fisiologico determinerebbe la rappresentazione (psichica). Tale condizione consente alla rappresentazione la possibilità di ripetersi (p. 58, p. 56, p. 106, p. 79). Freud riprenderà queste nozioni 24 anni dopo nell’ultimo capitolo de L’inconscio.
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PER COMPRENDERE LE AFASIE: ALCUNI CONCETTI FONDAMENTALI
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TRASLAZIONE O TRANSFERT D.: Übertragung; Eng.: transference; Es.: transferencia; Fr.: transfert; P.: transfêrencia. La parola “transfert” e il verbo “trasferire” ricorrono frequentemente nella monografia come parole correnti della lingua tedesca, prive di connotazioni tecniche. Freud utilizza tali termini, comuni tra i neurologi dell’epoca, nel contesto di una descrizione neurologica. Esaminare quando e come Freud li usi nel testo del 1891 può fare luce sulla successiva evoluzione del loro significato. Nell’argomentare contro la localizzazione della rappresentazione semplice come parte della localizzazione del suo CORRELATO FISIOLOGICO*, Freud sostiene che «una trasposizione (Übertragung) di questo tipo è naturalmente del tutto ingiustificata» (p. 57, p. 56, p. 105, p. 78). Freud dichiara che non c’è necessità di invocare le fibre bianche per trasferire le associazioni alla corteccia (p. 59, p. 57, p. 107, p. 80). D’altro canto, le associazioni sono chiaramente differenti dal trasferimento: «il lavoro del centro acustico consiste nell’associazione» e non nel trasferimento «lungo una via diretta alla periferia» (p. 92, p. 90, p. 140, p. 116). Questa osservazione permette di collegare il termine transfert a ECCITAMENTO (Erregung), in senso elettrico, ed essa viene confermata da un altro commento di Freud: «la comprensione della lettura avviene solo dopo il trasferimento» dell’eccitamento (Erregung) «dagli elementi visivi a quelli motori, attraverso l’associazione di questi ultimi con gli elementi acustici» (p. 98, p. 96, p. 146, p. 122). Un ulteriore riscontro viene dalle riflessioni di Freud sullo stimolo (Anregung) che origina da associazioni oggettuali non visive: «il campo del linguaggio […] trasferisce (überträgt) lungo la via motoria del linguaggio tutti quegli stimoli in esso possibili, come le particelle, le sillabe (farfugliamento), che non richiedano una più stretta associazione oggettuale» (p. 87, p. 86, pp. 134-135, p. 109). Il processo di transfert può avere un effetto organizzativo: «la composizione (Zusammensetzen) delle lettere in una parola avviene durante il “trasferimento” sulla via del linguaggio» (p. 77, p. 75, p. 125, p. 99). C’è anche una connessione tra attenzione e intensità di transfert: «Un maggior grado d’attenzione nell’ascolto andrà di pari passo con un più rilevante (erheblicheren) trasferimento di quanto udito sulla via motoria del linguaggio» (p. 95, p. 93, p. 142, p. 117). In sintesi, Freud usa il termine trasferimento per indicare la tra-
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smissione di un particolare tipo di eccitamento o di stimolo da un componente dell’apparato di linguaggio al successivo. L’uso mostra che il trasferimento ha una direzione: dalle associazioni d’oggetto all’elemento acustico e da quest’ultimo alla via motoria del linguaggio. Freud, quando si riferisce allo speciale “transfert” dalla rappresentazione d’oggetto alla rappresentazione di parola, usa il termine CONNESSIONE*. Nel primo uso clinico del termine “transfert”, Freud si riferisce ad esso come ad un “falso nesso” (G.W., 1, p. 309; S.E., 2, p. 303; O.S.F., 1, p. 438). C’è un’implicita indicazione, come suggerito dalla nozione sopramenzionata di “composizione”, che i processi trasformazionali accadono quando l’eccitamento transferale si sposta da un componente a quello successivo. Spero di avere presentato il vocabolario de L’interpretazione delle afasie in modo utile per una comprensione storica più profonda della concettualizzazione della mente e delle sue funzioni secondo Freud.
Bibliografia Binswanger L. (1936), “Freud und die Verfassung der klinischen Psychiatrie”, Schewerz. Arch. Neur. Psychiat., 37, pp. 177-199 (trad. it.: “Freud e la costituzione della psichiatria clinica”, in Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 253-278). Etcheverry J.L. (1978), “Sobre la version castellana”, in Sigmund Freud. Obras Completas, Amorrortu, Buenos Aires. Freud S. (1891), Contribution à la conception des aphasies, Presses Univ. de France, Paris, 1983. Freud S. (1891), On Aphasia; a critical study, Int. Univ. Press, New York, 1953. Freud S. (1891), Zur Auffassung der Aphasien, Franz Deuticke, Leipzig e Wien (trad. it.: L’interpretazione delle afasie, a cura di Napolitano F., Quodlibet, Macerata, 2010). Freud S. (1895), Studi sull’isteria, O.S.F., vol. 1, Boringhieri, Torino. Freud S. (1899), L’interpretazione dei sogni, O.S.F., vol. 3, Boringhieri, Torino. Freud S. (1901), Psicopatologia della vita quotidiana, O.S.F., vol. 4, Boringhieri, Torino. Freud S. (1915), L’inconscio, O.S.F., vol. 8, Boringhieri, Torino. Freud S. (1925), Psicoanalisi, O.S.F., vol. 10, Boringieri, Torino. Freud S. (1938a), Compendio di psicoanalisi, O.S.F., vol. 11, Boringhieri, Torino. Freud S. (1938b), Alcune lezioni elementari di psicoanalisi, O.S.F., vol. 11, Boringhieri, Torino. Kris E. (1954), Introduction, in Freud S. (1887-1902), The origins of psychoanalysis,
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PER COMPRENDERE LE AFASIE: ALCUNI CONCETTI FONDAMENTALI
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Basic Books, New York (trad. it.: “Introduzione”, in Freud S. Le origini della psicoanalisi. Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1902, Boringhieri, Torino, 1968). Laplanche J., Pontalis, J.-B. (1967), Enciclopedia della Psicoanalisi, Laterza, Bari, 1968. Ornston D. (1982), “Strachey’s influence: a preliminary report”, Int. J. Psychoanal., 63, pp. 409-426. Rizzuto A.-M. (1989), “A hypothesis about Freud’s motive for writing the monograph ‘On aphasia’”, Int. Rev. Psychoanal, 16, pp. 111-119. Rizzuto A.-M. (1990), “The origins of Freud’s concept of object representation (‘Objektvorstellung’) in his monograph ‘On aphasia’: its theoretical and technical importance”, Int. J. Psychoanal., 71, pp. 241-248. Stengel E. (1953), “Introduction”. In On aphasia (1891). Int. Univ. Press, New York (trad. it.: in questa antologia, pp. 27-33).
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SULL’ORIGINE DEL CONCETTO FREUDIANO DI REPRÄSENTANZ 1
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di Francesco Napolitano
Uno dei passi freudiani in cui meglio emerge la differenza fra i concetti di Repräsentanz e di Vorstellung è quello in cui i due termini si fondono in un termine composto, Vorstellungsrepräsentanz (Freud, 1915, p. 38), che può essere reso, in modo forse poco elegante, con rappresentanza rappresentazionale, o in modo più elegante, ma soprattutto più corretto, con rappresentanza della rappresentazione. Fuorvianti risultano invece le due traduzioni adombrate in nota al testo canonico italiano: rappresentanza rappresentativa e rappresentanza data da una rappresentazione (ibidem). La prima, perché l’infelice attributo rappresentativa, che vorrebbe catturare la semantica di Vorstellung a scapito di quella di Repräsentanz, risulta invece più affine a Repräsentanz che a Vorstellung, e finisce così per confondere ciò che dovrebbe distinguere. Perciò, meglio rappresentazionale che rappresentativa. La seconda per il difetto opposto, perché rappresentanza data da una rappresentazione distingue ciò che dovrebbe a rigore lasciare indeciso. Intendo dire che la naturale ambiguità del genitivo implicito in Vorstellungsrepräsentanz, la cui unica traduzione corretta è, ripeto, rappresentanza della rappresentazione2, viene dal traduttore arbitrariamente sciolta a favore della resa secondo cui è la rappresentanza a essere data dalla rappresentazione. Ma qualunque sia il significato attribuibile a data da, ci sono invece validi motivi, questa volta non solo linguistici ma anche teorici, per 1 Una prima versione di questo lavoro è stata pubblicata nel 2012 dalla Rivista di psicoanalisi, e viene qui edita con il permesso della redazione. 2 ‹‹[…] questo famoso Repräsentanz, che io traduco con rappresentante della rappresentazione […], e che altri […] si ostinano a chiamare rappresentante-rappresentativo che non vuole assolutamente dire la stessa cosa›› (Lacan, 1970, p. 178). Una review recente sui problemi di traduzione del termine è in Herrera 2010.
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PER COMPRENDERE LE AFASIE: ALCUNI CONCETTI FONDAMENTALI
sciogliere l’ambiguità nella resa diametralmente opposta, secondo cui è la rappresentazione a essere data dalla rappresentanza. Detto altrimenti: ci sono validi motivi per sostenere che, mentre può esserci rappresentanza senza rappresentazione, non può esserci rappresentazione senza rappresentanza (in parlamento i deputati sono muti, c’è dunque una rappresentanza senza rappresentazione). Che le cose stiano così, lo si vede nel caso della rimozione originaria, quando è operativo il solo contro-investimento. Esso interdice la rappresentazione in statu nascendi, ma è chiamato a farlo sulla scorta della pressione esercitata dalla rappresentanza sul censore. E dunque, la rappresentanza è presente, mentre la rappresentazione è latitante e destinata a restare tale. E non perché espulsa dal mondo della vita cosciente, come nella postrimozione, ma semplicemente perché mai nata, in quanto sottoposta a preventivo aborto terapeutico mirato alla profilassi del dispiacere. Per dirla alla Lacan, l’unica cosa che la rimozione primaria può rimuovere non è la rappresentazione del desiderio, ma il suo luogotenente (Lacan, 1979). Cioè la rappresentanza. Ecco la traduzione canonica del passo freudiano: ‹‹Abbiamo dunque motivo di supporre l’esistenza di una rimozione originaria, e cioè di una prima fase della rimozione che consiste nel fatto che alla rappresentanza psichica (ideativa) [Vorstellungsrepräsentanz] di una pulsione viene interdetto l’accesso alla coscienza›› (Freud, 1915, p. 38). Ma cosa potrebbe mai essere una rappresentanza psichica ideativa se non, appunto, una rappresentazione? Si noti che, mentre in questa fuorviante traduzione sembra scomparso il termine rappresentazione, ciò che in realtà scompare è il concetto di rappresentanza. Ed ecco ora una perifrasi del medesimo passo che, tenendo debito conto della metapsicologia, scioglie in modo opposto l’ambivalente genitivo soggettivo/oggettivo, mostrando come ogni traduzione debba essere pilotata dal contesto: nella rimozione originaria è interdetta alla coscienza quella rappresentazione psichica che sarebbe altrimenti derivata dalla rappresentanza pulsionale, se quest’ultima non fosse stata prontamente contro-investita. Solo così può tornare un discorso altrimenti criptico. Sulla scorta di questa interpretazione del testo, l’unica a mio avviso corretta, si potrebbe a buon diritto sostenere il carattere sub-semantico e sub-referenziale della rappresentanza (il muto parlamento), contrapponendolo a quello semantico e referenziale della rappresentazione (la mozione parlamentare), e disgiungere in due coppie i quattro tributari della pulsione: da un lato fonte e spinta, esclusivamente quantitativi, in
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SULL’ORIGINE DEL CONCETTO FREUDIANO DI REPRÄSENTANZ
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veste di determinanti della rappresentanza, dall’altro meta e oggetto, potenzialmente qualitativi, in veste di determinanti della rappresentazione. Possibilità di rappresentanza senza rappresentazione, ma non viceversa, verrebbe dunque a significare null’altro che possibilità di quantità senza qualità, ma non viceversa, una tesi assolutamente tipica del pensiero freudiano. La coscienza, unico organo deputato al rilievo dei qualia, è infatti un’appendice inessenziale dei processi psichici. E questi ultimi consistono esclusivamente di quantità. Se i pochi cenni appena fatti non bastassero a stabilire che il rango metapsicologico di Repräsentanz nulla ha da invidiare a quello di Vorstellung (a dispetto della schiacciante disparità nella demografia dei due termini, esplosiva quella del secondo e implosiva quella del primo), si consideri quanto debba al concetto di rappresentanza una delle due sole leggi operative del processo primario. Mi riferisco alla condensazione. Entrambe, rappresentanza e condensazione, sono relazioni molti-uno. Entrambe, rappresentanza e condensazione, devono la loro forza di delegati alla somma delle forze dei deleganti. Entrambe, rappresentanza e condensazione, sono rappresentative (e questa volta l’attributo non è infelice), nel senso che risultano dall’intersezione in unico mandatario di molti mandanti parzialmente disgiunti. Insomma, sotto il profilo della genesi concettuale la condensazione è indebitata con la rappresentanza allo stesso titolo con cui l’altra legge del processo primario, lo spostamento, è indebitata con l’investimento laterale, solo che l’entità del debito è maggiore nel primo caso, o almeno è più documentabile3. Ma non intendo qui fermarmi tanto sul destino metapsicologico di Repräsentanz quanto sulle sue origini e sull’origine delle sue origini, per mostrare come possa essere remota la partenza di un concetto dal suo approdo. Le origini di rappresentanza sono nel capitolo quinto de L’interpretazione delle afasie (Freud, 1891), e l’origine delle sue origini nella neurologia ottocentesca, in quella che chiamerò la battaglia delle sostanze grigie. Freud vi si schierò dal lato dei vincitori. Il capitolo quinto de L’interpretazione delle afasie costituisce il punto di svolta di un discorso freudiano in transito da una puntigliosa critica dei diagram makers, esclusivamente volta a demolirne la clonazione
3 L’investimento laterale costituisce il fondamento del potere d’inibizione del processo primario a opera del processo secondario, e dunque il fondamento della struttura egoica. Quanto questo concetto possa fungere da ancestrale del futuro concetto di spostamento, lo si può evincere da Freud, 1895, p. 223 e segg.
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di grafi, all’imminente proposta di una diversa nosografia dei disturbi del linguaggio, basata sulla coppia localizzazionismo neurologico/antilocalizzazionismo psichico e capace di fornire le credenziali di una nuova teoria dei rapporti psiche/cervello. È infatti qui, nel capitolo quinto, che la critica freudiana abbandona il terreno, fino ad allora tenuto, di un duello a colpi di logica e al primo sangue tra reperti autoptici e quadri clinici, per entrare in altro e più cruento duello all’ultimo sangue, nel quale, a incrociare le spade, sono questa volta i soli modelli teorici. La metafora del duello, quanto di più efficace possa esserci per rendere la tensione dialettica del capitolo, è freudiana: «In questo lavoro [L’interpretazione delle afasie] sono alquanto temerario e duello tanto con […] Wernicke quanto con Lichtheim e Grashey, non senza fare un po’ di solletico persino a quel torreggiante idolo di Meynert» (Freud, Lettera a Fliess del 2 maggio 1891, in Masson 1896, p. 46). E si capisce meglio l’importanza del duello finale con Meynert, se si considera che le teorie prese fin qui di mira da Freud sono in varia misura tutte di derivazione meynertiana. Falsificate col metodo anatomo-clinico queste teorie derivate, si tratta ora di falsificare la teoria-madre, e il duello è chiuso. La teoria-madre si riassume nella tesi di una corrispondenza biunivoca tra punti della superficie corporea e del cervello. Ciascuna coppia di punti, sostiene Meynert, sarebbe connessa da una fibra, e ciascuna fibra attraverserebbe, nel transito dal corpo al cervello, tre sostanze grigie intercalate, la prima nel midollo, la seconda nel corpo striato, la terza infine nella corteccia (sostanza grigia è termine ottocentesco che sta per ganglio, e la direzione centripeta, dalla periferia al cervello, è quella all’epoca privilegiata anche per le vie motorie; fra poco ne saranno chiari i motivi). Ed è lì, nelle sostanze grigie corticali, che le fibre andrebbero a stipare le Vorstellungen, le rappresentazioni, una per ciascun neurone. Freud ha buon gioco a colpire Meynert di taglio e di punta. Di taglio sotto il profilo filosofico, perché trasformare la concreta terminazione di una fibra in astratta rappresentazione, tumulata nel ganglio a futura riesumazione mnestica, è la peggiore delle reificazioni: «È giustificato immergere nello psichico la terminazione di una fibra nervosa […] e dotare questa terminazione di una rappresentazione o di un’immagine mnestica?» (Freud, 1891, pp. 86-87). Di punta e con affondo letale, sotto il profilo neurologico. In primo luogo perché le stazioni intercalate tra periferia e centro sono due e non tre, visto che il corpo striato, ormai lo si è acclarato, non c’entra un bel niente con questa viabilità. Ma in secondo luogo e soprattutto per una ragione,
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SULL’ORIGINE DEL CONCETTO FREUDIANO DI REPRÄSENTANZ
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per così dire, di contabilità. A quelle stazioni, infatti, il numero di fibre afferenti risulta maggiore del numero di fibre efferenti, e dunque nel corso del viaggio dalla periferia al centro la rete ferroviaria si stringe a imbuto, sicché alla fine solo a una Repräsentanz di viaggiatori sarà dato tagliare il traguardo cerebrale. Che vi sia «[…] riduzione del numero di fibre nel passaggio attraverso sostanze grigie» (ivi, p. 70) lo aveva già intravisto Henle, ma la conta, fatta al lume di una snervante pazienza, quella la si deve a Stilling: «Secondo un calcolo di Stilling, a 807.738 fibre delle radici nervose, corrispondevano solo 365.814 fibre di una sezione trasversa del midollo cervicale superiore» (ivi, p. 71). La meynertiana corrispondenza punto per punto tra corpo e cervello deve perciò cedere all’evidenza secondo cui molti punti del corpo convergono in un’unica destinazione cerebrale. La rappresentanza centrale della periferia del corpo è ottenuta per condensazione. La menzione di passaggio di Stilling, poco più di due righe, non deve ingannare. La sua concisione non rende giustizia né al lignaggio del ricercatore né alla considerazione in cui Freud lo tiene. Quest’ultima la si può toccare con mano compulsando carte freudiane che risalgono a otto anni prima dello studio afasiologico. 23 Ottobre 1883: «Amata, piccola Martha, […] se tu dovessi aver paura di avermi distolto da un lavoro scientifico riderò e ti racconterò la storia di Benedikt Stilling, un medico morto pochi anni fa a Kassel, che nei suoi giovani anni si era dedicato alla scienza e poi aveva dovuto accettare un posto di medico. Ma per tredici anni tutte le mattine lavorava sul midollo spinale dell’uomo, e ne venne fuori una grande opera, e la sera continuava a lavorare sul cervello, e ora lo chiamano il primo degli scienziati cui dobbiamo la conoscenza di quel nobile organo» (Freud, 1990, p. 61). Il precoce entusiasmo per Stilling del ventisettenne Freud non è solo frutto di inconscia identificazione dovuta a analoghe circostanze di vita – medesime le loro difficoltà, tanto economiche quanto universitarie, e comune la loro origine ebraica – ma anche di consapevole e ben ponderata ammirazione per la portata di un’impresa scientifica che non si può oggi apprezzare sino in fondo senza collocarla nel contesto dell’epoca. Il contesto è la già menzionata battaglia delle sostanze grigie, e la posta in gioco è appunto dimostrare, microscopio alla mano, che il numero di fibre centripete è decrescente. Ma a essere in ballo non è solo una questione di ragionieristica conta o di minuto inventario istologico avulso da altri e ben più imponenti temi. La grande opera messa a segno da Stilling ha infatti risvolti filosofici generali, perché
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contribuisce a dare il colpo di grazia a un’epoca che aveva fatto, del cosiddetto rinforzo (Verstärk) numerico delle fibre nelle stazioni intermedie, siano esse nodi di un tronco d’albero o internodi di un ganglio nervoso poco importa, una prova cruciale a sostegno della scienza del primo Romanticismo e del suo ideale dell’unità della natura4. Mostrare quanto varie e imprevedibili possano essere le declinazioni di un piano naturale che deve tuttavia restare unitario, pena il collasso della Weltanschauung scientifica, non solo di quella romantica ma anche di quella positivista o di un loro mix a proporzioni variabili, aveva dunque un significato che travalica il circoscritto ambito di una ricerca di dettaglio e va dritto a inscriversi nel cuore del dibattito ottocentesco. L’arco di quel dibattito si tende tra due grandi rivoluzioni neurologiche, che ne marcano inizio e fine dettando le condizioni di un aspro conflitto filosofico fra spinte conservatrici e progressiste, divampato non solo sul terreno scientifico, ma anche su quello politico, morale e religioso. Sullo sfondo della stillinghiana conta di fibre e di altre, analoghe imprese, solo apparentemente oscure e circoscritte, in questione è il carattere uno e indivisibile dell’anima, caro al Papa, a regnanti e a cattedratici che mai avrebbero potuto paludarsi per decenni della toga senza preventivamente e per sempre porsi sotto gli auspici della croce e della spada. Infatti, ipotizzare che le facoltà dell’anima siano incarnate in un cervello di cui occupano luoghi discreti, significa né più né meno che revocare in dubbio proprio l’indivisibilità dell’anima e con ciò stesso la sua immortalità, visto che da Aristotele in poi il divisibile è corruttibile e viceversa (Aristotele, 1973). L’appello a dimostrare l’indivisibilità dell’anima era stato rilanciato con forza da Papa Leone X nel 1513 (Michael, 2000, p. 152) e, raccolto da Descartes un secolo dopo (Cartesio, 1967, vol. 1, pp. 186-187), ne aveva dettato la scelta del conarium come sede dell’interazione anima-corpo. Fino alla fine dell’Ottocento, e nonostante gli avanzamenti della ricerca, Leone X e Descartes continuarono a dettare legge, sponsorizzati dell’ostinata opposizione accademica di Flourens a ogni forma di localizzazionismo (Flourens, 1842). E analoga opposizione vi fu a ogni teoria in odore 4 Internodio è termine di derivazione botanica adoperato anche da Freud (1891, p. 68) a indicare il ganglio nervoso, un uso che mostra quanto lunga e varia possa essere la deriva di teorie apparentemente dimenticate; analogo discorso per il centro bulbare respiratorio scoperto nel 1812 da Legallois, e chiamato noeud vital sulla scorta del termine introdotto per la prima volta in botanica da Lamarck nel 1802 (Clarke e Jacyna, 1987, p. 245); per l’ideale romantico dell’unità della natura si veda Poggi, 2000.
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SULL’ORIGINE DEL CONCETTO FREUDIANO DI REPRÄSENTANZ
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di anti-creazionismo. Ad esempio, sostenere l’esistenza di un piano unitario della natura che detta anatomia e fisiologia a tutti i viventi, vegetali o animali che siano, accomunandoli in identica struttura originata da generazione e destinata a corruzione, significa negare l’assoluta eccezionalità di un uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Un’eccezionalità tale che, contradictio in terminis, persino agli animali Descartes nega l’anima, facendone nulla più di un ben oliato orologio. E perciò non può essere che blasfemo omologare il design dell’uomo a quello di una pianta. Entrambe le tesi, localizzazionismo psichico e unità della natura, assieme a tutte le loro conseguenze, costituiscono parte integrante della rivoluzione neurologica d’inizio Ottocento e sono legate al nome di Franz Joseph Gall. A lui molto deve la scienza, ovviamente non per il sopravvento di quella cranioscopia destinata a spacciarlo per sempre e solo da ciarlatano, ma per l’introduzione di una tecnica di dissezione del nevrasse fino ad allora inedita e inimmaginabile. Contrariamente alla ben consolidata tradizione, consistente nel praticare sezioni radiali in direzione cranio-caudale, si proceda in direzione opposta e praticando sezioni longitudinali. Questa la ricetta galliana, semplicissima la formula ma virtuosistica l’esecuzione, capace di aprire la strada alla lenta ascesa della ricerca dal campo base del midollo spinale fino a quella vetta estrema della corteccia cerebrale che, interdetta da papi, regnanti e accademici, sarà conquistata solo dalla seconda rivoluzione di fine Ottocento. Per quanto possa sembrare nulla più di un’asfittica innovazione di procedure settorie, essa raccoglie quel retaggio del tardo Illuminismo che aveva omologato il nevrasse a una pianta e il cervello alla sua fioritura. Se vuoi studiare davvero fioritura e tronco, è dalle radici che devi cominciare. E dalle radici cominciò Gall. Del resto, a sua volta il retaggio illuminista non fa che raccogliere altri e più antichi retaggi di ascendenza greca, visto che a partire dall’antica Grecia è l’intero corpo umano a essere equiparato a una pianta (Onians, 2006). Un’analogia vegetale che, sordi come siamo agli echi di parole ormai logore dall’uso, non cogliamo più nel termine sistema nervoso vegetativo, che del vegetale reca il nome come il pronipote del trisavolo. La conquista del midollo spinale inaugurata da Gall è destinata ad aprire subito quella battaglia delle sostanze grigie cui prenderà parte, dopo qualche decennio, il microscopio di Benedikt Stilling. Nella memoria che Gall e Spurzheim presentarono alla Académie des Sciences di Parigi in vista della pubblicazione, nel 1810, del primo volume di
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PER COMPRENDERE LE AFASIE: ALCUNI CONCETTI FONDAMENTALI
Anatomie et physiologie du sistème nerveux, la tesi secondo cui, in obbedienza alla legge di ripetizione seriale, il midollo è costituito da una serie di gangli discreti impilati gli uni sugli altri, quasi fosse ciascuno di essi un autonomo cervello, già si accompagna ad altra tesi, quella di un rinforzo di fibre nelle sostanze grigie, visibile in corrispondenti rigonfiamenti midollari5. Anzi, proprio su questi rigonfiamenti, quasi fossero correi delle organologiche bosses craniche, andò ad appuntarsi la critica degli accademici. Essi dichiararono di non riuscire a vederne nei luoghi in cui li vedeva Gall, ad eccezione dei due soli siti classici in cui tutti e da sempre li avevano visti, vale a dire «[…] ad eccezione dei punti in cui i nervi diretti agli arti superiori e inferiori fuoriescono dal midollo, il rigonfiamento cervicale e lombare» (Clarke e Jacyna, 1987, p. 35). E a nulla valse che Gall adducesse come controprova dirimente a suo favore l’evidenza di rigonfiamenti seriali in un preparato anatomico di midollo spinale di vitello. Questa volta i commissari li videro, ma attribuirono l’evidenza a idiosincrasia di specie: esistono solo nel vitello e in nessun altro mammifero. Oltre che de facto ebbero a eccepire anche e soprattutto de iure, contestando quella analogia tra mondo vegetale e animale che, fondata sui ventilati rigonfiamenti midollari e sul rinforzo numerico di fibre, diversamente dalle nuove tecniche di dissezione andava a costituire il pericoloso asse portante di una vera e propria filosofia, quella dell’unità della natura. Sulla scorta di tesi già sostenute nel Seicento da Thomas Willis e nel Settecento da Johann Friedrich Meckel, Gall aveva infatti corroborato la sua tesi dell’implementazione di fibre argomentando che i gangli in nulla sono diversi da nodi d’albero da cui gemmano nuovi rami. In entrambi i casi la crescita procede dal basso verso l’alto mediante sovrapposizione, nel caso delle piante spuntando nuovi rami dagli anelli del tronco, in quello del sistema nervoso nascendo nuove fibre dalle sostanze grigie. Tesi perentoriamente liquidata dall’Accademia come prodotto di pura fantasia al servizio di superficiali rassomiglianze, ma che aveva in realtà dalla sua qualche credenziale. Perché, se la legge di ripetizione seriale era stata già formulata da 5
Il testo-guida di riferimento nelle pagine che seguono è il già citato Clarke e Jacyna 1987, e non sarà più menzionato se non quando strettamente necessario; nella vasta letteratura storica disponibile, due testi preziosi sono Young 1990, Mind Brain and Adaptation in the Nineteenth Century, Oxford University Press, e Lesky, 1976, The Vienna Medical School in the 19th Century, The Johns Hopkins University Press, il primo come classico della storia del localizzazionismo, il secondo come eccezionale ricostruzione della scuola medica viennese ottocentesca in tutti i suoi aspetti.
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Goethe in campo osteologico, sotto forma di quella teoria vertebrale del cranio secondo cui le ossa della teca risultano da dispiegamento anamorfico di una reiterata Urform vertebrale, l’analogia vegetale e la tesi del rinforzo erano state inserite da Herder nel contesto di una teoria che Gall non avrebbe esitato a sottoscrivere. Herder aveva infatti elaborato, tra il 1784 e il 1791, e cioè nel medesimo periodo in cui Gall andava mettendo a punto la sua rivoluzione, un modello dinamico della natura secondo cui essa è governata da un’unica legge, che può essere conosciuta solo anteponendo la funzione alla struttura per poi indagare quest’ultima trasversalmente, in tutto ciò che esiste. Corollario: prima dell’anatomia umana l’anatomia comparata, e prima di entrambe la fisiologia. Nulla di più congeniale a uno spirito galliano teso a sezionare, sì, il sistema nervoso, ma solo sotto la guida del bisturi fornito dal raffronto interspecifico e dalla psicologia differenziale dei tipi. Giuste o sbagliate che siano, le idee hanno alla lunga destini e ricadute indipendenti da qualsivoglia imprimatur accademico. A dispetto degli accademici parigini e della loro condanna della teoria del rinforzo, la tesi di un sistema nervoso risultante da assemblaggio iterativo di fibre e gangli ebbe rigoglioso seguito: «L’idea che il sistema nervoso consistesse essenzialmente di due elementi, uno che genera l’energia nervosa e l’altro che la conduce attraverso tutto il corpo, ebbe vasta diffusione nel primo terzo dell’Ottocento. In particolare, alla sostanza grigia del cervello e ai gangli fu assegnata la prima funzione, attiva, mentre i nervi erano destinati a un ruolo puramente connessivo […]. Seguendo Gall, che estese questo concetto, molti autori interpretarono la materia grigia come una matrice nutrizionale dalla quale nascevano nervi e nella quale essi erano aumentati» (ivi, pp. 75-76). Né mancò, alla teoria del rinforzo, l’apporto della neonata micro-anatomia istologica che, seppure disprezzata da Gall come irrilevante e inattendibile, andò ad affiancare quella macro-anatomia da lui prediletta come unica via regia della ricerca. Anzi, per ironia della sorte, è solo all’ombra del microscopio6 e dei suoi primi vocalizzi che ci si può dare ragione di ciò che altrimenti resterebbe un enigma: come abbiano potuto, uomini della levatura intellettuale di Meynert e dei suoi epigoni, ostinarsi 6 L’espressione all’ombra del microscopio non è solo metaforica; in Clarke e Jacyna, 1987, p. 387, è brevemente accennata la storia abbastanza ironica delle prime scoperte settecentesche di globuli intracellulari; i pionieri del microscopio avevano colto nel segno sostenendo l’esistenza di strutture sub-cellulari, solo che i globuli intravisti erano in realtà artefatti dovuti agli aloni luminosi prodotti dall’aberrazione sferica. Figli dell’ombra, insomma.
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a sostenere che la rappresentazione è riposta nel neurone come un oggetto concreto in un concreto stipo. Freud se ne meraviglia come di un salto logico e di un brusco slittamento del discorso scientifico, anche se mostra di conoscerne gli antecedenti: «So bene di non poter presumere che le persone di cui sto qui contestando le idee abbiano compiuto questo salto e questo cambiamento di prospettiva scientifica senza accurata riflessione» (Freud, 1981, p. 78). Di fatto, la reificazione aveva dalla sua considerevoli antecedenti. La rappresentazione può essere riposta nel neurone, questa la soluzione dell’enigma, perché a suggerirlo è il microscopio, il più positivo degli strumenti positivi, l’erede di quel perspicillum capace di offrire allo sguardo l’infinitesimo. L’analogia vegetale sta per cedere qui il passo ad altra analogia più vicina al sessuale, lo vedremo tra poco. Quella tra riduzionismo e anti-riduzionismo è, come tante altre, un’opposizione né univoca né lineare, lo si può constatare persino in certe ambiguità della review afasiologica freudiana, ad esempio quando è in gioco un’opzione netta tra validità o inadeguatezza euristica del grafo, oppure tra primato del linguaggio proposizionale o di quello atomico. L’opzione scatta, è vero, ma solo per essere di lì a poco revocata in dubbio, anche se parzialmente e implicitamente. Ad esempio, sembra che Freud contesti non solo questo o quel grafo di turno, ma la possibilità stessa che il grafo possa fungere in generale da tabulato veridico del funzionamento psichico, salvo poi proporne egli stesso alla fine ben tre; e sembra adottare in pieno l’approccio proposizionale jacksoniano al linguaggio, salvo poi svilupparne un altro a tal punto atomico da approdare alla lettera alfabetica come costituente linguistica elementare. È proprio in virtù di questo complesso contrabbando fra le opposte sponde riduzioniste e anti-riduzioniste che, quando meno te lo aspetti, quando pensi di essere alle prese col più acceso dei riduzionisti, corri il rischio di restare a bocca aperta cogliendolo in flagranza mentre mette l’anima nell’elettrone o in altra, ubiquitaria particella di Dio. D’altro canto, neppure ti è difficile reperire qua e là gli estremi del più crudo materialismo nel portabandiera di quell’anti-riduzionismo che sembrava radicale. La storia di queste opposizioni è insomma anche cronaca di più o meno segrete connivenze tra avversi schieramenti, maturate in un grande import-export di metodi e idee di volta in volta piegati a questo o quell’intento, in barba alla coerenza. Nulla di più ingannevole, dunque, dell’irreggimentazione di teorie sotto etichette filosofiche reciprocamente esclusive. Non fa eccezione a questa regola
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l’istologia ottocentesca: apparentemente votata alla nuda materialità del visibile, essa volentieri sconfina in immateriale metafisica, forse perché il piccolissimo messo a fuoco dalla lente bene si presta a evocare seducenti quintessenze di quell’invisibile grandissimo refrattario a ogni lente. Tra tanti microscopisti di rango, araldi d’immistione del trascendente nell’immanente, ecco ad unico esempio Jan Evangelista Purkynĕ. Da convinto riduzionista Purkynĕ spende i suoi giorni osservando quei granuli di sostanza grigia in cui scorre un fluido nervoso a suo parere in nulla dissimile da altre forze operanti in natura, prototipo l’elettricità. Ma l’omologazione di quel fluido a medium fisico non gli impedisce poi di farsi portavoce di un’assoluta continuità fra mondo spirituale e materiale, intesa esclusivamente nella direzione che dal primo va al secondo per insediarvi l’anima, suo domicilio elettivo la sostanza grigia. Per quanto incredibile possa sembrare, a sostegno dello spirito fatto ganglio Purkynĕ invoca la perfetta analogia, già rilevata a suo tempo da Valentin, tra la triplice struttura concentrica dei granuli gangliari e quella della cellula-uovo. Quest’ultima non potrebbe dispiegare l’intero programma del futuro organismo se non fosse di per sé portatrice di un elemento psichico. Ma poiché identiche strutture istologiche devono intrattenere identiche funzioni, ecco che un elemento psichico, un’anima, deve essere presente anche nella sostanza grigia. Anzi, per Purkynĕ vi sono «[…] tante piccole anime quanti granuli nel cervello; ma queste entità individuali consce [… sono] in qualche modo connesse nell’anima generale del corpo intero» (Clarke e Jacyna, 1987, p. 81), anche se singolarmente considerate, già detengono la medesima energia posseduta dall’uovo per la riproduzione dell’organismo. La teoria del rinforzo gangliare delle fibre viene così in parte tradotta da analogia vegetale in altra analogia, più contigua a un sessuale impregnato di psichismo e propedeutico al futuro stoccaggio meynertiano della rappresentazione nel neurone. Senza saperlo e seppure in una differente cornice, depositando rappresentazioni in cellule, Meynert il positivista celebrava messa. Andava teorizzando una transustanziazione inversa, la carne fatta spirito. Né quella di Purkynĕ fu un’idiosincrasia. Un’intera generazione di ricercatori diede per scontato il fatto che funzione dei gangli fosse la vis generativa, rifornire d’energia le fibre e partorirne di nuove, e vide in questa tesi non solo il risultato di circostanziate osservazioni, siano esse macro-rigonfiamenti midollari o micro-strutture granulari, ma anche il trampolino di lancio di una teoria fisiologica generale che alla
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lunga avrebbe strappato ad anima e corpo il segreto dei loro più intimi rapporti. Speranza del resto rinfocolata da due scoperte che si erano fatte lentamente strada nei decenni, l’una anatomica e l’altra fisiologica. Come sempre, eloquenti i termini. L’acquisizione anatomica ha come eponimo, lo si è già accennato, il mondo vegetale stesso, ed è il sistema nervoso vegetativo, mentre quella fisiologica reca testimonianza di altro retaggio che da sempre equipara l’intelletto alla luce, ed è il riflesso (Levin, 1993). Entrambe giocano, fra l’altro, un ruolo importante nella lotta ottocentesca al dispotismo filosofico della coscienza mostrando quanto ampi e all’apparenza provvisti d’intenzionalità possano essere i settori psichici sottratti a deliberazione e controllo. Che si tratti d’intelligenza deputata a opportuna vasocostrizione a frigore o a istantaneo ammiccamento in difesa dal bruscolo, poco importa, ci sono comunque buone ragioni per rispolverare Whytt e la sua teoria delle anime multiple: diversi poteri, tanto autonomi dalla coscienza quanto autonomo è il sistema nervoso vegetativo, ma tuttavia psichici perché intelligenti e finalizzati, risultano distribuiti in diverse parti del corpo vivente, questo il preludio whyttiano al localizzazionismo e all’inconscio (Reed, 1997). Delle due scoperte, quella del riflesso è particolarmente connessa alla seconda rivoluzione neurologica di fine Ottocento, con culmine nella conquista della corteccia cerebrale e nell’avvento della teoria jacksoniana. L’antefatto di questa seconda rivoluzione è come sempre remoto, reca la data del 1822 ed è legato al nome di Magendie. La dimostrazione del fatto che la funzione motoria e quella sensitiva sono segregate l’una nelle radici anteriori midollari e l’altra in quelle posteriori fece scalpore e fu da alcuni aspramente contestata, ma da altri considerata paragonabile, quanto a straordinaria importanza, solo alla scoperta newtoniana della legge d’attrazione universale. Tanto per cambiare, i contestatori si appellarono ancora una volta al dogma dell’indivisibilità dell’anima, come se il riflesso patellare avesse il potere di scrollare l’iperuranio divino: «Essi contestavano la stretta separazione delle funzioni motorie e sensitive nel midollo argomentando che, fosse questo il caso, dovrebbero esistere due anime in luogo di una» (Clarke e Jacyna, 1987, p. 113). D’altro canto gli estimatori, un’eterogenea schiera di frenologi fondamentalisti e di empiristi estremi alla Magendie, salutarono nella scoperta della controparte anatomica del riflesso spinale, e a ragione, l’avvento di una novità gravida di conseguenze a lungo termine. A breve invece, il problema consisteva nel rintracciare, «[…] nel santuario [sic!] più segreto al centro del midollo spinale […]»
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(ivi, p. 112), l’intermediario capace di convertire ingressi sensitivi in uscite motorie. L’anima nei gangli? Pioniere della risposta fu appunto il microtomo di Stilling, che nei gangli consentì di intravvedere un’anima, è vero, lì impartita però non dal soffio divino, ma da quella fisiologia non a caso da sempre denominata animata anathome. Una grigia anima incline più ad avara potatura di rami che a loro feconda moltiplicazione. Dal primo passo di Magendie al compimento di quella rivoluzione di fine secolo destinata ad assegnare competenze motorie a luoghi circoscritti della corteccia, la battaglia delle sostanze grigie diventa tanto più accanita quanto più alto nel nevrasse se ne situa il fronte, come in una disperante ritirata del trascendente verso il cielo. Ultime ma a lungo imprendibili, le postazioni a retroguardia del corpo striato, le stesse tenute a oltranza da Meynert e contestate da Freud nel capitolo quinto del suo studio afasiologico. Da un lato la resistenza si appella alla neurologia: applicati alla corteccia, sia gli stimoli meccanici che quelli elettrici si sono pervicacemente mostrati incapaci di evocare movimenti. Ma d’altro canto è ancora una volta ispirata al credo religioso: se Haller poté a suo tempo impunemente assegnare la sensibilità al cervello nel rispetto del dogma, diverso sarebbe ora il risultato di chi intendesse revocare all’incorporeo la più elevata delle sue prerogative, la volontà (Monti, 1990). Solo così si può intendere la persistente affiliazione di Gustav Fritsch e Eduard Hitzig al dualismo cartesiano, contraddittoriamente mantenuta a dispetto della loro scoperta del 1870, quando riuscirono finalmente nell’impresa di produrre contrazioni muscolari da stimolazione della corteccia: «Per dirla in poche parole, Fritsch e Hitzig erano dualisti ontologici e credevano in due sostanze separate della mente e dei suoi meccanismi. Il cervello è lo strumento materiale dell’anima immateriale, e la materia grigia corticale costituisce il primo degli strumenti dell’anima» (Young, 1990, p. 232). E solo così si può intendere l’autonomia filosofica di David Ferrier, che di lì a breve avrebbe replicato l’esperimento su ampia scala, ma munito di regolare salvacondotto parallelista: «Le assunzioni filosofiche della prospettiva tedesca erano anatema per gli Inglesi, il cui parallelismo consentiva loro il lusso dell’agnosticismo ontologico, mentre erano alle prese col loro lavoro» (ivi, p. 233). È in questo scenario che il concetto di rappresentanza, implicato dalle ricerche di Stilling, fa la sua apparizione nella teoria senso-motoria jacksoniana, anche se solo in veste di fugace comparsa. Distinguendo in senso ascendente tre livelli senso-motori nell’organizzazione
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gerarchica del nevrasse (i livelli midollare, mesencefalico e telencefalico), nella maggioranza dei suoi scritti Jackson non fa altro che tornare a insistere, quasi fosse un’ossessione, sul fatto che il primo livello rappresenta il corpo, il secondo rappresenta la rappresentazione del corpo e il terzo la rappresentazione della rappresentazione del corpo. Ma un’attenta analisi dell’anancasma lascia poco spazio al dubbio: a essere in gioco qui non è la rappresentazione ricorsiva del corpo ma la sua rappresentanza. Dubbio che del resto sfiorò lo stesso Jackson, anche se solo per un attimo: «Mi è stato detto che il termine ‘rappresenta’ non è adeguato al processo descritto nel testo. Non l’ho applicato io all’evoluzione. Solo di recente mi è balenata la possibilità che esso possa essere inteso nel senso che parti del corpo sono rappresentate [nel cervello] come un distretto in un parlamento, per delega» (Taylor, 1932, vol. 2, p. 99). E come potrebbe il corpo intero trovare corrispondenza in ciascuno dei centri cerebrali se non per delega? Perché Jackson inserisce le sue recursioni senso-motorie in un modello dei centri cerebrali che è frattale ante litteram: il centro motorio di un muscolo, isolatamente considerato, non può esistere come tale nella corteccia prefrontale, a meno che non includa in miniatura anche il resto del corpo, di tutto il corpo. Detto altrimenti: mentre non può esistere un centro cerebrale del deltoide o del bicipite, ne può esistere solo uno di rappresentanza privilegiata dei movimenti del braccio, purché coordinati e integrati a quelli di tutta la restante muscolatura: «[…] Ciascuna unità dei centri [cerebrali] più alti è in miniatura, rappresenta cioè in qualche misura l’intero organismo (fattore integrazione), e non esistono due unità che lo rappresentino esattamente nello stesso modo (fattore differenziazione) […] Nella misura in cui ciascuna parte del corpo (al più basso livello evolutivo dell’intero organismo) ha un certo grado di indipendenza dalle restanti parti, esso ha un corrispondente grado di rappresentazione [rappresentanza] specializzata nei centri più alti. […] Così il centro motorio del braccio nella regione rolandica mediana è per me un centro che rappresenta movimenti di tutte le parti del corpo, e tuttavia rappresenta i movimenti del braccio più che ogni altro movimento» (ivi, p. 82 e p. 102). Parallelismo e dinamica, localizzazionismo neurologico (ma non psichico) di tipo frattale e distribuito, assieme all’evoluzionismo di marca spenceriana, preparano così il terreno all’avvento dell’afasiologia freudiana. E quest’ultima al futuro avvento della metapsicologia. Tornandovi ora in chiusura, si è già accennato all’ammontare del debito contratto dal concetto di condensazione con quello di rap-
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presentanza. Ma in virtù del medesimo argomento sviluppato all’inizio in tema di condensazione, un debito di pari entità può essere in via presuntiva sempre invocato quando Freud tratta di una relazione molti-uno. Ad esempio, nel medesimo testo in cui fa la sua comparsa Vorstellungsrepräsentanz, è agevole reperire il filo rosso che lega la rappresentanza alla sovrainnervazione e alla condensazione: «La zona sovrainnervata si rivela, a un’analisi più accurata, un frammento della stessa rappresentanza pulsionale rimossa, frammento che ha attirato su di sé, come per condensazione, l’intero investimento» (Freud, 1915, p. 46, corsivo mio). Analogamente per la sovradeterminazione, che nacque e fu battezzata proprio ne L’interpretazione delle afasie. In realtà la longa manus della rappresentanza andrebbe almeno sospettata ogni volta che un termine freudiano è preceduto dal prefisso sovra, buon indicatore, questo, della convergenza di molti elementi in un unico elemento. Come ad esempio in pensiero sovraintenso o sovravalente, dove, della manus afasiologica in metapsicologia, trovo per parte mia indiziaria impronta digitale in una reminiscenza freudiana di Wernicke apparentemente del tutto incongrua. La reminiscenza irrompe in pieno caso Dora e suona come estranea al discorso in atto, a meno di non tener conto delle sue origini: «Un tale giro di pensieri può essere definito sovraintenso o meglio rinforzato, “sovravalente” [Überwertig] nel senso di Wernicke» (Freud, 1901, p. 345). Ma cosa avrebbe da spartire Wernicke con Dora se non fosse per il sotterraneo ricordo del periodo afasiologico? Ipotesi del resto corroborata dal fatto che, in luogo della wernickiana sovravalenza e in modo più coerente al contesto, Freud avrebbe potuto appellarsi ad altra e più congrua sovravalenza, quella enunciata a suo tempo da Breuer, e proprio in tema d’isteria, nei seguenti termini: «[…] questa peculiarità del sistema nervoso rende possibile la realizzazione somatica di rappresentazioni sovravalenti» (Freud, 1892-95, p. 390). Per quanto concerne poi la presa postfreudiana di quella longa manus, ben ne conosceva la portata Lacan, quando ascrisse al significante la rappresentanza della pulsione e al significato la rappresentazione del desiderio.
Bibliografia Aristotele (1973), Della generazione e della corruzione, in Opere, vol. 2, Laterza, Bari. Cartesio R. (1967), Opere, Laterza, Bari. Clarke E. e Jacyna L.S. (1987), Nineteenth-century origins of neuroscientific concepts, University of California Press, Berkeley, CA.
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PER COMPRENDERE LE AFASIE: ALCUNI CONCETTI FONDAMENTALI
Flourens P. (1842), Examen de la phrenology, L’Harmattan, Paris, 2004. Freud S. (1891), L’interpretazione delle afasie, Quodlibet, Macerata, 2010. Freud S. (1892-1895), Studi sull’isteria, O.S.F., vol. 1, Boringhieri, Torino. Freud S. (1895), Progetto di una psicologia, O.S.F., vol. 2, Boringhieri, Torino. Freud S. (1901), Frammento di un’analisi d’isteria, O.S.F., vol. 4, Boringhieri, Torino. Freud S. (1915), La rimozione, O.S.F., vol. 8, Boringhieri, Torino. Freud S. (1990), Epistolari, Boringhieri, Torino. Herrera M. (2010), Representante-representativo, répresentant-répresentation, ideational-representative: which one is a Freudian concept? On the translation of Vostellungsrepräsentanz in Spanish, French and English, Int. J. Psychoanal., 4. Lacan J. (1970), Il seminario XVII. Il rovescio della psicoanalisi, Einaudi, Torino. Lacan J. (1979), Il seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino. Leski E. (1976), The Vienna Medical School of the 19th Century, The Johns Hopkins University Press, Baltimore, Maryland. Levin D.M. (1993), Modernity and the Hegemony of Vision, University of California Press, Berkeley, CA. Masson J.M., a cura di, (1986), Lettere a Fliess, Boringhieri, Torino. Michael E. (2000), Renaissance Theories of Body, Soul and Mind. In Wright J. P. and Potter P. (eds. 2000), Psyche and Soma. Oxford University Press, Oxford. Monti M.T. (1990), Congettura ed esperienza nella fisiologia di Haller, Olschki, Firenze. Onians R.B. (2006), Le origini del pensiero europeo, Adelphi, Milano. Poggi S. (2000), Il genio e l’unità della natura, La scienza nella Germania romantica, 1790-1830, Il Mulino, Bologna. Reed E.S. (1997), From Soul to Mind, the Emergence of Psychology from Erasmus Darwin to William James, Yale University Press, New Haven, CT. Taylor J., ed., (1932), Selected Writings of John Hughlings Jackson, Hodder and Stoughton, London. Young R.M. (1990), Mind, Brain and Adaptation in the Nineteenth Century, Oxford University Press, Oxford.
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Parte II
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DALL’AFASIA ALLA METAPSICOLOGIA: VIE DELLA PSICOANALISI
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RI-VALUTAZIONE DEL LIBRO DI FREUD L’INTERPRETAZIONE DELLE AFASIE. IL SUO SIGNIFICATO PER LA PSICOANALISI1
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di Erwin Stengel2
Quando Freud stupì i suoi contemporanei con le sue prime pubblicazioni sulle nevrosi era alla fine dei sui trent’anni. Aveva già dietro di sé anni di addestramento, ricerca e pratica nel campo dell’anatomia, della fisiologia e della neurologia. Ad ogni passo nella sua nuova avventura diventava sempre più un estraneo per i suoi colleghi. Essi non potevano vedere alcun collegamento tra quegli anni di ricerca medica solida e fruttuosa e i suoi nuovi interessi e metodi. In seguito molti psicoanalisti assunsero un punto di vista opposto a proposito della prima parte della vita lavorativa di Freud: essi la considerarono come un tempo passato in una terra straniera, nel migliore dei casi un periodo di preparazione, nel peggiore uno spreco di anni preziosi per ciò che riguardava la psicoanalisi. Recentemente un’attenzione sempre maggiore è stata rivolta all’origine e ai fondamenti della psicoanalisi e alla sua relazione con le attuali correnti scientifiche e filosofiche. A poco a poco è divenuto evidente come le ricerche anatomiche, neurologiche e psicoanalitiche di Freud formino un continuum e che siano state fortemente influenzate dalle correnti di pensiero contemporanee. Sono già stati prodotti importanti contributi per un’analisi storica della psicoanalisi (Ernest Jones, Hartmann, Dorer, Binswanger, Brun, Jelliffe, Bernfeld, Kris, Zilboorg, Riese). È stata parzialmente chiarita la relazione tra i due periodi del lavoro scientifico di Freud dalla recente pubblicazione di 1 Lavoro letto il 27 luglio 1953 al 18° Congresso Internazionale di Psicoanalisi di Londra. Trad. it. di Gemma Zontini. 2 Docente di Psichiatria presso l’Università di Londra, Istituto di Psichiatria.
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DALL’AFASIA ALLA METAPSICOLOGIA: VIE DELLA PSICOANALISI
una bozza di una psicologia fisiologica trovata tra i suoi manoscritti3. Ciò rappresentò un’altra indicazione del fatto che per comprender pienamente l’origine dei concetti psicoanalitici bisognava andare indietro ai primi scritti di Freud. Propongo di discutere uno dei punti di maggior interesse per lo psicoanalista. Qualcosa di ciò che sto per dire è stato già detto, o vi è stato già alluso da altri, ma io spero di aggiungere qualcosa alle loro osservazioni e di completarle dettagliatamente. Il libro sull’afasia4 occupa un posto speciale tra i contributi di Freud alla neurologia. In questo trattato Freud per la prima volta contestò le teorie contemporanee e le sostituì con delle nuove. Cosa ancora più importante, fu il primo dei suoi scritti che aveva a che fare con le attività mentali. Comparve solo pochi anni prima che egli si volgesse infine verso la psicopatologia. Perciò se ci si può attendere che qualche scritto pre-psicoanalitico di Freud possa in qualche modo gettare luce sulla relazione tra i due periodi della sua vita lavorativa, e quindi sull’origine dei concetti psicoanalitici, questo fu il libro sull’afasia. Esso è noto solo a pochi studiosi della materia. È praticamente sconosciuto agli psicoanalisti. Non è stato disponibile per più di mezzo secolo e ne esistono solo un numero molto piccolo di copie. Pertanto io accettai con molto piacere l’invito a farne una traduzione in inglese5. Propongo di presentare qualche osservazione che ho fatto nel corso di questo lavoro. Il suo significato per la neurologia è considerevole. Quest’aspetto è stato commentato da Brun e Jelliffe e approfonditamente discusso da Jones nel primo volume della sua biografia di Freud. Ciò è stato anche tenuto in conto nell’introduzione alla traduzione inglese. In questa occasione è sufficiente dire che il libro pose un limite alle stravaganti affermazioni degli esponenti della teoria della localizzazione rigida. Esso introdusse il concetto di agnosia. Riconobbe l’importanza del contributo di Hughlings Jackson allo studio delle afasie. Enfatizzando gli aspetti funzionali spianò la strada al più consistente e fruttuoso concetto di afasia, quello di Kurt Goldstein. Ma perché questo libro dovrebbe essere di particolare interesse per lo psicoanalista?
3 L’autore si riferisce al Progetto di una psicologia del 1895, O.S.F., vol. 2, Boringhieri, Torino [n.d.t.]. 4 Freud S. (1891), Zur Auffassung der Aphasien, Franz Deuticke, Leipzig und Wien. 5 Freud S. (1891). On aphasia, (trad. autorizzata con un’introduzione di E. Stengel), Imago Publishing Co., Londra, 1953.
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RI-VALUTAZIONE DEL LIBRO DI FREUD L’INTERPRETAZIONE DELLE AFASIE
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Torniamo indietro con la mente, per un momento, ai tardi anni ’80 quando questo trattato fu scritto. Fisiologi e neurologi erano fortemente preoccupati dell’esatta localizzazione delle funzioni cerebrali. La relazione di almeno due tipi di afasia con lesioni in alcune parti del cervello sembrava stabilita con certezza e la localizzazione di tutte le funzioni del linguaggio, e invero di tutti gli aspetti del comportamento, sembravano essere a portata di mano. La corteccia cerebrale era concepita come un mosaico di aree, ognuna delle quali con assegnate sue proprie funzioni innate o acquisite precocemente nel corso della vita. Quali funzioni fossero perse in caso di danno si pensava dipendesse solo dal luogo della lesione. Freud fu il primo nel mondo di lingua tedesca a sottoporre questa teoria ad un’analisi critica. Egli sottolineò che un’osservazione clinica imparziale non poteva confermarla, e che era impossibile comprendere i sintomi dell’afasia senza supporre che, oltre la localizzazione della lesione, anche certe particolarità funzionali dell’“apparato del linguaggio” giocavano una parte importante. Il cosiddetto apparato del linguaggio fu il primo di una serie di concetti al confine tra l’organico e lo psichico che dovevano divenire così importanti nella teoria psicoanalitica. Tale apparato non è identico alle strutture nervose implicate nel linguaggio, benché intimamente correlato ad esse. Potrebbe essere descritto come un’organizzazione gerarchica di funzioni con un substrato organico. Noi lo riteniamo il fratello maggiore dell’“apparato psichico” al cui funzionamento furono dedicate la maggior parte delle ricerche successive di Freud. Entrambi i termini hanno la loro origine negli scritti di Meynert. Essi mostrano l’attaccamento durevole di Freud ai concetti fisiologici. Il libro contiene un certo numero di termini che sono diventati parole familiari in psicoanalisi. “Proiezione” fu usato nel suo senso originale come un concetto puramente anatomico e fisiologico. Freud propose il termine “rappresentazione” per un certo tipo di proiezione, cioè quella della periferia del corpo nelle strutture nervose più elevate. Il termine “Besetzung”, che nella lettura psicoanalitica in inglese è stato tradotto come “cathexis” e in francese come “investissement”, compare qui negli scritti di Freud per la prima volta. Egli lo usò quando discusse la teoria di Meynert dell’investimento con una funzione di cellule corticali non in uso. Benché Freud respingesse l’ipotesi di Meynert, successivamente usò il termine in un modo simile, benché in senso psicodinamico, per ciò che riguarda il meccanismo dell’investimento degli oggetti con la libido.
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Anche il concetto di “sovradeterminazione” fu definito per la prima volta in relazione alle funzioni del linguaggio che si supponeva fossero difese dalla dissoluzione mediante diversi meccanismi complementari. Questi esempi illustrano come concetti di fisiologia dinamica furono presi dal loro terreno originale e trapiantati nel campo della psicodinamica. Freud rivolse il suo interesse al problema relativo al modo in cui l’apparato del linguaggio reagiva al danno o ad altre condizioni che causavano perdita di efficienza. Quali erano quelle particolarità funzionali la cui conoscenza egli considerava fondamentali per comprendere i disordini del linguaggio? La più importante era la sua tendenza a ritornare a modalità di funzionamento precedenti, più primitive, sebbene più sicure. Qui, dunque, noi troviamo per la prima volta tra gli scritti di Freud il principio della regressione che è alla base delle proposizioni genetiche della psicoanalisi. Freud era già in precedenza venuto a conoscenza in un modo o nell’altro di questo principio6. Ma fu nei suoi studi sulla letteratura delle afasie che trovò il concetto di regressione applicato a processi mentali di livello più alto. L’autore attraverso cui egli venne a conoscenza di questo concetto fu Hughlings Jackson, il quale lo aveva preso da Herbert Spencer, il filosofo-psicologo dell’evoluzione. Il seguente passaggio tratto dal libro di Freud mostra fino a che punto avesse fatta propria la dottrina dell’evoluzione e della dissoluzione della funzione. Per valutare la funzione dell’apparato di linguaggio in condizioni patologiche, proponiamo la tesi di Hughlings Jackson, secondo cui tutti questi modi di reazione rappresentano casi di involuzione funzionale (dis-involution) di un apparato altamente organizzato, e corrispondono quindi a stati precedenti del suo sviluppo funzionale. In tutti i casi andrà perciò perduto un ordinamento associativo superiore sviluppatosi più tardi, e se ne manterrà uno più semplice acquisito prima. Questo punto di vista spiega un gran numero di fenomeni dell’afasia (p. 112).
Ci sono molti altri passaggi nel libro che testimoniano della profonda influenza che Jackson aveva avuto su Freud. Mentre nessuna 6 Bernfeld S. (1944) ha messo in evidenza che il problema dello sviluppo era stato già messo in primo piano negli studi istologici di Freud nei quali egli lo trattava sia dal punto di vista filogenetico che ontogenetico. Bernfeld si riferiva in particolare alla ricerca dell’origine del nervo acustico; uno dei temi principali della psicoanalisi, cioè la persistenza di strutture primitive durante tutta la vita, comparve per la prima volta in questa ricerca (Monatsch. f. Ohrenheilk., 20, 1886, p. 245).
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delle autorità di spicco nel campo dell’afasia sfuggì alla sua critica, egli non ebbe altro che lodi per Hughlings Jackson, che designò suo spirito guida nello studio dei disordini del linguaggio. Per ciò che ne so, questa fu l’ultima volta nella sua carriera che Freud si sottomise all’autorità di qualcun’altro. È interessante notare il tipo di osservazioni cliniche che suscitò l’interesse particolare di Freud. Le citò molto dettagliatamente da due articoli di Jackson ai quali ripetutamente si riferì. Erano le espressioni ricorrenti degli afasici, quelle parole o frasi stereotipate, e apparentemente prive di senso, che in alcuni casi costituiscono gli unici residui del linguaggio. Per Jackson erano indovinelli che egli si sforzava di risolvere. Nella sua brillante analisi, Jackson procedette allo stesso modo in cui uno psichiatra che conosce la psicoanalisi avrebbe oggi proceduto. Egli concluse (1932, p. 198) che era spesso possibile comprendere perché alcune espressioni e non altre si erano conservate, considerando «(i) le circostanze esterne al momento dell’esordio della malattia; (ii) l’intensità dello stato emotivo al momento in cui fu fatto l’ultimo tentativo di parlare; e (iii) la gravità della lesione». Freud, ovviamente molto interessato a questi fenomeni e alla loro spiegazione, aggiunse una sua osservazione personale che corroborava la tesi di Jackson. Freud era pienamente consapevole delle vaste implicazioni della tesi per cui la dissoluzione della funzione era l’inverso della sua normale evoluzione, e che la tendenza alla retrogressione verso precedenti modelli di funzionamento era operativa indipendentemente dalla causa del danno. Questo può essere sia una lesione del cervello, sia qualunque altro fattore che riduce l’efficienza dell’apparato del linguaggio. Il seguente passaggio tratto dal libro di Freud riveste un interesse particolare: [...] la parafasia [cioè confusione di parole] osservata nei pazienti in niente si differenzia dalla confusione e mutilazione di parole che una persona sana può osservare su di sé in caso di affaticamento, di attenzione divisa, d’interferenza di affetti disturbanti, ciò che per esempio rende a volte così penoso ascoltare i nostri pazienti (p. 29).
Non suona questo come un preludio al capitolo sugli errori e sui lapsus della Psicopatologia della vita quotidiana? L’approvazione incondizionata con la quale Freud ripetutamente si riferì a Jackson e le estese citazioni tratte dai due articoli pubblicati nella rivista Brain (ibidem, p. 198) provano con certezza che egli li aveva letti molto accuratamente. I passaggi citati contenevano osserva-
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zioni e concetti che molto probabilmente contribuirono ai fondamenti della teoria psicoanalitica. Ma l’influenza di Jackson probabilmente si spinse oltre e più profondamente di quanto il libro sull’afasia, da solo, suggerirebbe. Sono giunto a quest’opinione attraverso lo studio dei due articoli di Jackson, presumendo che essi fossero i soli che Freud conosceva. Per quelli che conoscono la psicoanalisi essi rappresentano una lettura affascinante. Essi rivelano fino a che punto Jackson si era spinto verso un concetto dinamico del comportamento anormale. Egli non solo applicò le teorie di Spencer alle afasie, ma ipotizzò anche la loro importanza per lo studio dei disturbi mentali. Alcuni suoi concetti meritano l’attenzione dello psicoanalista, anche se non esisteva alcuna prova che Freud li conoscesse. Secondo Jackson, che seguiva Spencer, il fisico e lo psichico erano “concomitanti indipendenti”. Freud accettò espressamente la cosiddetta “Legge della Concomitanza” e vi aderì. Questa teoria consentì a Jackson di indagare i processi mentali indipendentemente dagli stati fisiologici che li accompagnavano e sviluppò una teoria generale del comportamento anormale con la quale la psicoanalisi condivide alcuni principi di base. Il seguente concetto è di particolare interesse perché è, da un lato, una diretta applicazione della teoria dell’evoluzione e perché, dall’altro lato, si collega alla teoria psicoanalitica che riguarda il ruolo del conflitto. Jackson considerava un sintomo, quale le espressioni ricorrenti, come il risultato di una lotta tra un gran numero di scariche in conflitto tra loro, una delle quali aveva avuto la meglio e si era stabilizzata in modo permanente. Questo, egli diceva, era un esempio della sopravvivenza degli stati più adatti, ma, come egli sempre sottolineava, più adatti non in relazione alle circostanze esterne ma a quelle interne all’individuo (ivi, pp. 195-196). Alcuni stati mentali anormali, come il delirio, erano, secondo Jackson, «manifestazioni di o parti di stadi inferiori, anteriori e primari. Essi sono quindi consci. Normalmente essi sono inconsci o subconsci. Sono dovuti alla rimozione delle inibizioni e del controllo sui centri inferiori. I sintomi mentali non sono causati, essi sono consentiti» (ivi, p. 192). Secondo Jackson, la mente non coincideva con le attività mentali consce. «Esiste un funzionamento di parole, automatico e inconscio o subconscio». Secondo lui «il fornire energia ad organizzazioni nervose inferiori, sebbene al di fuori del controllo di ogni sorta di stato conscio, è essenziale per fornire energia agli stati mentali più elevati» (ivi, p. 167). Sembra che Jackson non solo riconoscesse l’esistenza di
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attività mentali inconsce, ma riconoscesse anche la loro importanza per le attività coscienti. Jackson era più interessato a ciò che egli chiamava “i sintomi positivi”, cioè le manifestazioni del sistema nervoso danneggiato o mutilato, piuttosto che ai sintomi negativi, cioè la perdita della funzione. Freud mostrò una preferenza simile nel campo psicologico. Jackson, come Freud, implicitamente negò che del materiale psichico fosse irrevocabilmente perso. Esso diventa solo indisponibile, ma può ricomparire a causa di uno stress emotivo. Jackson fu anche consapevole di alcuni effetti della scarica emotiva. Riferendosi alle bestemmie e alle esclamazioni in generale, egli disse: «Esse fanno tutte parte del linguaggio emozionale; la loro pronuncia da parte di persone sane rappresenta, sul versante psichico, un processo durante il quale l’equilibrio di une sistema nervoso, fortemente disturbato, viene ripristinato, così come accade per altre manifestazioni emozionali ordinarie. (Tutte le azioni sono in un certo senso il risultato del ripristino dell’equilibrio nervoso mediante dispendio di energia)» (ivi, p. 179). In una nota a piè di pagina egli citò il seguente passaggio tratto da una rassegna non firmata: «Il valore del bestemmiare come valvola di sfogo per i sentimenti e come sostituto di un’azione muscolare aggressiva, in accordo con la ben nota legge della trasmutazione delle forze, non è stato sufficientemente approfondito. Dunque, l’effetto riflesso del pestare i calli a qualcuno può essere o un insulto o un pugno, raramente entrambi. L’assistente del ministro scozzese aveva ben compreso questo pezzetto di fisiologia celebrale quando sussurrò al suo capo, che era molto teso perché le cose non andavano bene, “Non pensa che una bella bestemmia le darebbe sollievo?”. È stato detto che colui che per primo riempì di insulti il suo interlocutore, invece di stenderlo con un pugno senza proferire parola, abbia gettato le fondamenta della civiltà.». In questi aneddoti in realtà si è compiuto il passo dalla “dinamica del sistema nervoso” alla dinamica del comportamento. Questa è la ragione per cui essi suonano così familiari a coloro che si intendono di scritti psicoanalitici. I concetti di Jackson riguardanti la dinamica delle funzioni nervose non erano sparse a caso tra le osservazioni sull’afasia. Al contrario, egli le ampliò notevolmente e le diffuse ad ogni occasione possibile; le ripeteva persino all’interno dello stesso articolo. Il lettore non può fare a meno di sentire che l’autore era molto preoccupato di trasmettere le sue idee e si sforzava, in modo quasi ossessivo, di assicurarsi di essere compreso.
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DALL’AFASIA ALLA METAPSICOLOGIA: VIE DELLA PSICOANALISI
Andrebbe oltre gli scopi di questo scritto discutere ulteriormente della somiglianza tra i concetti freudiani e jacksoniani oltre a quelli che emergono dai due articoli che Freud doveva aver letto. Solo un altro concetto dovrebbe essere qui menzionato: le funzioni delle tre parti della struttura della personalità, così come concepita da Freud, e le loro interrelazioni, hanno alcuni tratti in comune con quelle dei tre strati dell’organizzazione nervosa postulati da Jackson. Benché la teoria della concomitanza consentisse a Jackson di considerare lo psichico indipendentemente dai processi strutturali che lo accompagnano, egli non perse mai di vista questi ultimi. Egli non poté mai realmente considerare i processi mentali per sé stessi. Sebbene Freud non disconobbe mai la teoria della concomitanza, egli concesse, per scopi euristici, una limitata autonomia allo psichico. Ciò sembra aver rappresentato il passo decisivo mediante il quale egli si emancipò dalla fisiologia e dalla neurologia. Jackson non fece tale passo. Non andò al di là dei confini di una psicologia strettamente fisiologica. Egli chiarì la sua posizione nel seguente passaggio: «la nostra preoccupazione, in quanto medici, riguarda il corpo. Se esiste una cosa come una malattia della mente, noi non ci possiamo fare niente» (ivi, p. 85). Questa fu una posizione cui Freud rinunciò, ma non senza dover prima superare una grande resistenza interna. Il tentativo di costruire una psicologia fisiologica, e il suo abbandono, sono prove di questa lotta. Freud citò nuovamente Jackson solo una volta. Ne L’interpretazione dei sogni egli si riferì in una nota a piè di pagina all’osservazione di Jackson riguardante la relazione tra sogni e follia. «Trovate l’essenza del sogno e avrete trovato tutto quello che si può sapere intorno alla follia» (p. 518, nota 2). Non è certo, tuttavia, se questa fosse una citazione di prima mano e può essere a malapena accettata come prova del fatto che Freud avesse letto altri articoli di Jackson oltre quelli sull’afasia. Ma ciò non ha davvero una grande importanza; non c’è alcun bisogno di provare ulteriormente che Freud era diventato un profondo conoscitore delle idee fondamentali di Hughlings Jackson sulla “dinamica del sistema nervoso”. C’è ragione di credere che Jackson esercitò un’influenza su Freud maggiore di quanto si sia finora pensato, e che alcuni concetti di Jackson contribuirono alle teorie di base della psicoanalisi. Questo quindi è il significato che gli studi sulle afasie di Freud hanno rivestito per la psicoanalisi e la psichiatria. Essi lo posero a contatto diretto con le teorie evolutive che provenivano dall’Inghilterra, un evento decisivo per lo sviluppo della psicoanalisi.
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Bibliografia Bernfeld S. (1944), Psychoanal. Q., 13, p. 341 (trad. it.: “Le prime teorie di Freud e la scuola di scuola di Helmholtz”, in Bernfeld S., Cassirer e Bernfeld S., a cura di, (1981) Per una biografia di Freud. Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pp. 41-59). Bernfeld S. (1949), Amer. Imago, 6, p. 156 (trad. it.: “L’esordio scientifico di Freud”, in Bernfeld S., Cassirer Bernfeld S., a cura di, (1981), Per una biografia di Freud, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pp. 84-113). Bernfeld S. (1951), Int. J. Psychoanal., 32, p. 204 (trad. it.: “La preparazione di Freud alla professione medica (1882-1885)”, in Bernfeld S., Cassirer Bernfeld S., a cura di, (1981), Per una biografia di Freud, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, pp. 114-139). Binswanger L. (1936), Schweiz. Arch. Neurol. Psychiatrie, 37, p. 177 (trad. it.: “Freud e la costituzione della psichiatria clinica”, in Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 253-278). Brun R. (1936), Schweiz. Arch. Neurol. Psychiatrie, 37, p. 199. Dorer M. (1932), Historische Grundlagen der Psychoanalyse, Meiner, Leipzig. Freud S. (1899), L’interpretazione dei sogni, O.S.F., vol. 3, Boringhieri, Torino. Hartmann H. (1927), Die Grundlagen der Psychoanalys, Thieme, Leipzig (trad. it.: Fondamenti della psicoanalisi, Feltrinelli, Milano, 1881). Jackson H. (1932), Selected Writings of John Hughlings Jackson, Hodder & Stoughton Ltd., London. Jelliffe E.S. (1937), J. Nerv. Ment. Dis., 85, p. 696. Jones E. (1912), “Preface” to Papers on Psychoanalysis, Tindall and Cox., London (trad. it.: in Teoria del simbolismo. Scritti sulla sessualità femminile e altri saggi. Astrolabio, Roma, 1972, pp. 7-8). Jones E. (1953), Sigmund Freud: life and work, vol. I, Hogart Press, London (trad. it.: Vita e opere di Freud. il Saggiatore, Milano, 1966). Kris E. (1950), Int. J. Psychoanal. 31, p. 1 (trad. it.: “Il significato delle prime scoperte di Freud”, in Kris E. (1977), Gli scritti psicoanalitici. Boringhieri, Torino, pp. 292-305). Riese W. (1952), Proceedings First Internat. Congress of Psychiatry, 1950, 1, Paris, p. 501. Zilboorg G. (1951), Int. J. Psychoanal., 33, p. 419.
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L’INCIDENZA DE L’INTERPRETAZIONE DELLE AFASIE DI FREUD SULLE SUE TEORIE E LA SUA TECNICA
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di Ana-Maria Rizzuto1
Breve storia de L’interpretazione delle afasie Freud scrisse la monografia L’interpretazione delle afasie nel 1891. Egli esplicita i motivi per i quali la divise in due parti. Per prima cosa egli dice in una nota a piè di pagina della monografia: «[...] lo stimolo per questo lavoro proviene [...] dai lavori di Exner e del mio defunto amico Josef Paneth, pubblicati nel “Pflügers Archiv”» (p. 89). Secondo, nella sua autobiografia, Freud (1924) dichiara: «Nello stesso anno fui invitato a collaborare alla stesura di un trattato di medicina con un articolo sulla teoria dell’afasia [...]. Frutto di questa mia ricerca fu un libretto critico speculativo intitolato La concezione delle afasie» (p. 86, corsivo Rizzuto). Scherrer e Leighton (2003, p. 187) correggono la nota a piè di pagina di Strachey relativa a quella pagina che identifica gli articoli del 1888-1891 del Handwörterbuch (Dizionario Medico) di Villaret come scritti da Freud. Essi affermano che gli articoli furono scritti da Kron. Freud, in realtà, scrisse sulle afasie, ma per il Diagnostic Dictionary for Medical Practitioners (1893-1895), pubblicato dai medici A. Bum e T. Schnirer di Vienna (p. 187). Freud aveva seguito anche le conferenze sull’afasia di Charcot nell’autunno del 1885 presso la Salpetrière a Parigi. In seguito tradusse le conferenze in tedesco. Tre di queste conferenze si focalizzano sull’afasia e sullo sforzo del grande maestro di differenziare le afasie organiche da quelle isteriche. Io ho sostenuto (Rizzuto, 1989) che la ragione personale, clinica 1
Traduzione di Franco Scalzone e Gemma Zontini.
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e teorica per cui Freud scrisse sull’afasia, comprendeva il suo bisogno di trovare un fondamento per i sorprendenti cambiamenti raggiunti dai loro pazienti mediante l’uso della parola parlata di cui lui e Breuer furono testimoni. Freud scrisse la monografia nella primavera del 1891 e annunciò a Wilhelm Fliess il 2 maggio 1891: «Tra poche settimane sarò lieto di poterLe inviare un fascicolo sull’afasia, a cui mi sono dedicato con il massimo ardore (corsivo della Rizzuto). In questo lavoro sono alquanto temerario [...] il saggio presenta più una serie di suggestioni che non di conclusioni» (1887-1904, p 46). La frase indica che il libro era stato già scritto. Ellenberger (1977) documentò che Freud vide la signora Emmy von N. verso marzo o aprile del 1891. Freud stesso scrisse: «[...] nessuno dei quotidiani visitatori della sua casa, come mi accorsi con stupore nel 1891, sapeva che lei era malata o che io ero il suo medico» (1892-1895, p. 260). Freud passò “parecchi giorni” a casa sua. Egli fu molto colpito da questa «[...] signora di quarant’anni circa, le cui sofferenze e la cui personalità mi ispirarono tanto interesse da dedicarle gran parte del mio tempo» (1892-1895, p. 213, corsivo Rizzuto). Freud aveva tempo libero mentre era a casa della signora Emmy von N. Io ho sostenuto (Rizzuto, 1989) che è abbastanza plausibile che L’interpretazione delle afasie fosse stato scritto a casa sua o subito dopo averle fatto visita. Durante la terapia la signora Emmy von N. perse la pazienza perché Freud poneva domande insistenti circa i dettagli delle sue esperienze. Nel decimo giorno di trattamento, dopo che Freud le aveva ordinato di ricordare qualcosa il mattino successivo, ella reagì: «[...] in modo decisamente secco mi dice di non domandarle sempre da dove vengano questo e quello, ma di lasciarla raccontare quel che ha da dirmi» (Freud, 1892-1895, p. 226, corsivo Rizzuto). Il giorno precedente Freud aveva già notato il suo errore: «[...] l’avevo interrotta dopo la prima narrazione [...] Mi accorgo che in tal modo non ottengo nulla e che non posso comunque esimermi dall’ascoltarla su ogni argomento sino alla fine» (p. 224). Lei lo aveva costretto a cambiare la sua tecnica perché doveva parlare spontaneamente e non dietro suo comando. Il nucleo della monografia L’interpretazione delle afasie concerne l’elaborazione di un modello teorico capace di spiegare il discorso spontaneo, non la ripetizione di parole che era il punto focale dei modelli dei contemporanei di Freud. Nel 1918 la figlia della signora Emmy scrisse a Freud chiedendo del trattamento di sua madre. Lui rispose: «Fu precisamente in base a questo caso e al suo esito che mi resi conto che il trattamento con l’ipnosi è una procedura priva di significato e di valore, e ricevetti
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L’INCIDENZA DE L’INTERPRETAZIONE DELLE AFASIE DI FREUD
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lo stimolo per creare la terapia psicoanalitica, più in accordo con la ragione [verständigere]» (Andersson, 1979, p. 196). Freud dedicò il libro al suo mentore e amico Joseph Breuer. Tuttavia, Breuer non ne fu colpito. Il 13 luglio 1891, Freud scrisse a sua cognata, Minna Bernays: «L’interpretazione delle afasie è appena uscita, come vedrai da quanto ti accludo, e mi ha già causato un profondo disappunto. L’accoglienza di Breuer è stata strana; a malapena mi ha ringraziato, era molto imbarazzato, ha fatto solo commenti sprezzanti, non ha potuto richiamare nessuno dei suoi pregi e alla fine ha cercato di attenuare il colpo dicendo che era scritta molto bene» (Freud E.L., p. 228, traduzione curatori). La monografia fu pubblicata nel 1891 da Franz Deuticke, con il titolo Zur Auffassung der Aphasien. Eine Kritische Studie. L’autore fu indicato come Dr. Sigm. Freud, Privatdocent for Neuropathologie [libero docente di Neuropatologia] dell’Università di Vienna. Furono stampate 850 copie, ma dopo 9 anni solo 257 di esse furono vendute. Nel 1900, le copie non vendute furono mandate al macero. Jones (1953) afferma che «In nessuna biblioteca dell’Inghilterra ne esiste una copia. Il compenso di Freud fu di 156 gulden (62 dollari) di diritti d’autore» (p. 266). La Biblioteca dell’Istituto e della Società Psicoanalitica di Boston negli Stati Uniti possiede una copia originale che appartenne a Edward Bibring. Io ho consultato questa copia per studiare la monografia. Freud era diventato un eminente neurologo grazie alla sua pubblicazione del 1893: Contributi alla conoscenza delle diplegie cerebrali infantili (con riferimento al morbo di Little). La sua reputazione, tuttavia, non contribuì all’accettazione della sua precedente monografia L’interpretazione delle afasie. Il suo disappunto fu profondo. Egli scrisse a Wilhelm Fliess il 21 maggio 1894: Mi trovo qui abbastanza isolato con la spiegazione delle nevrosi. Mi considerano pressappoco come un monomane, mentre io avverto la chiara sensazione di aver sfiorato uno dei grandi segreti della natura (Barron et al., 1991). C’è qualcosa di comico nella divergenza che esiste fra la valutazione che ciascuno dà del suo lavoro intellettuale e quella che ne fanno gli altri. Guarda, per esempio, questo libro sulle diplegie, che ho messa assieme quasi per sfida, con un minimo di interesse e fatica. Ebbene, ha avuto un successo strepitoso. I critici ne parlano molto bene, e gli apprezzamenti dei francesi in particolare sono carichi di elogi. [...] E per le cose realmente buone come l’afasia, le ossessioni (di cui è ora imminente la pubblicazione), e l’etiologia e la teoria delle nevrosi non posso attendermi nulla di meglio che un rispettabile fiasco.
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DALL’AFASIA ALLA METAPSICOLOGIA: VIE DELLA PSICOANALISI
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C’è da rimanere perplessi e un poco amareggiati (Freud, 1887-1904, pp. 96-97, corsivo Rizzuto).
La monografia fu poco recepita dai neurologi contemporanei. Anzieu (1896) afferma che le autorità del tempo non ne tennero conto e che solo Goldstein si riferisce ad essa nel 1910. Freud sfidò i grandi neurologi del linguaggio suoi contemporanei, in particolare «[...] la comprensione [di Wernicke] della fisiologia del processo linguistico [...] come un riflesso cerebrale» (p. 15) e conclude «[...] se si tiene conto delle altre connessioni fra centri del linguaggio, indispensabili al linguaggio spontaneo, ne consegue necessariamente una rappresentazione [Darstellung] più complessa dell’apparato centrale del linguaggio [...]» (p. 19, corsivo Rizzuto, ted. p. 62). Freud nota che nel processo di guarigione dall’afasia motoria si verifica una transizione dalla ripetizione di parole al linguaggio spontaneo. «Devo dire che l’attenzione degli studiosi non si è soffermata su questo punto» (p. 49). L’attenzione di Freud, ritengo, fu indotta a volgersi verso linguaggio spontaneo a causa della notevole insistenza di Anna O., della sig.ra Emmy von N. e della sig.ra Cäcilie nel dire ciò che dovevano dire spontaneamente. L’intera costruzione del modello dell’apparato del linguaggio serve a spiegare la possibilità del linguaggio spontaneo, che doveva divenire il fondamento del lavoro psicoanalitico. Comunque, dopo che Freud non riuscì ad ottenere un riconoscimento per la sua “reale cosa buona”, egli stesso la ripudiò. Nel 1939 non volle che «fosse incluso nel primo volume dell’edizione completa delle sue opere, spiegando che esso apparteneva ai suoi lavori neurologici e non a quelli psicoanalitici» (Kris, 1954, p. 30, nota 1). Il libro fu tradotto in inglese da Erwin Stengel nel 1953 e pubblicato dalla International Universities Press. Questa traduzione non rende giustizia alle dimostrazioni accuratamente argomentate di Freud. Per la traduzione, quando il testo di Stengel appare confuso, ho usato il testo tedesco originale di Freud. La monografia fu tradotta anche in francese da Claude van Reeth nel 1983 e pubblicata dalla Presses Universitaires de France. In precedenza, alcuni autori tedeschi avevano riesaminato e rivalutato la monografia. Binswanger (1936) la considerò fondamentale per la comprensione della psicoanalisi. Bernfeld (1944) vide in essa «la prima opera “freudiana”». Stengel (1954), il traduttore, 2
Con “ted. p. X” da ora in poi indicheremo il riferimento al testo originale di Freud in tedesco.
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L’INCIDENZA DE L’INTERPRETAZIONE DELLE AFASIE DI FREUD
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sottolineò che «è stato il primo degli scritti di Freud che avesse a che fare con l’attività mentale» (p. 85) e che «lo pose [Freud] a contatto diretto con le teorie evolutive provenienti dall’Inghilterra, un evento decisivo nello sviluppo della psicoanalisi» (p. 89). Più recentemente, Forrester (1980), nel suo libro Il linguaggio e le origini della psicoanalisi conclude: «[...] l’opera di Freud sull’afasia [...] è la conditio sine qua non della nascita della teoria psicoanalitica […] una teoria del potere delle parole nella formazione dei sintomi» (pp. 32-33). Infine, Kuhn (1983), nella prefazione alla traduzione francese ipotizza che la monografia offre “preziose indicazioni”, che non si trovano altrove, per guidare gli analisti verso una migliore comprensione del lavoro della mente (p. 36). Lo scopo della monografia è quello di spiegare a) le afasie causate da lesioni anatomiche, b) la patologia funzionale del linguaggio di pazienti nevrotici, c) il potere curativo della parola parlata, e d) la normale funzione del linguaggio. In questo scritto, mi occuperò di alcune di queste “istruzioni preziose” per la psicoanalisi alle quali Kuhn allude.
Contributi teorici della monografia Nel mio scritto Proto-Dizionario di psicoanalisi (1990), ho mostrato che molti dei termini di importanza cruciale per la successiva teoria psicoanalitica sono comparsi per la prima volta ne L’interpretazione delle afasie, supportando la tesi di Stengel che il libro «pose anche le fondamenta della psicoanalisi». Nella monografia i termini hanno un significato più ristretto di quello che essi avranno nella teoria analitica pienamente sviluppata. Tuttavia, essi forniscono il nucleo concettuale fondamentale per il loro uso successivo. Noi troviamo nel testo del 1891 i seguenti termini: associazione, attenzione divisa, cathexis, complesso, connessione, correlato fisiologico, impulso a parlare, immagine mestica, primario, rappresentazione, auto-osservazione, linguaggio spontaneo e transfert (Rizzuto, 1990). Qualunque uso successivo dei termini non può ignorare il loro primo fondamento nella teoria di Freud su l’organizzazione dell’apparato del linguaggio e sulla funzione del linguaggio nella struttura della mente. È necessario chiarire che Freud non stava parlando del linguaggio come prodotto culturale, ma dei suoi pazienti e delle persone in generale che usano la funzione del linguaggio al servizio dell’espressione e dell’organizzazione psichica. La più grande invenzione e rivoluzione di Freud consistette nell’uso del
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linguaggio come strumento terapeutico per accedere alle esperienze private delle persone al fine di curare la loro psicopatologia e le loro manifestazioni somatiche. È necessario rammentare al lettore che, finché Freud non creò il metodo psicoanalitico, tutto ciò che i medici del tempo avevano da offrire ai loro pazienti era riposo, idroterapia, massaggi, bagni caldi e altri interventi fisici. L’ipnosi introdusse il potere della parola per modificare il comportamento, ma il suo più grande difetto consistette nell’imporre alla vita psichica del paziente comandi, suggestioni e ordini post-ipnotici del medico curante, impartiti con buona intenzione, ma arbitrari. La realtà psichica della persona sofferente era ignorata mentre il significato personale dei sintomi non era riconosciuto. Il modo in cui Freud concepì la formazione e l’organizzazione psichica della parola parlata tracciò per la prima volta un’ampia via per accedere al lavoro interno della mente e alla sua relazione con la vera realtà del mondo circostante. Inoltre, la teoria di Freud chiamò in causa il corpo percipiente come ciò che maggiormente contribuisce alla formazione, sia delle rappresentazioni interne della mente sia delle parole dette per esprimerle. Per dirla in breve, il modello di Freud dell’apparato del linguaggio chiarisce abbondantemente che la mente rappresentazionale, e le parole disponibili per il linguaggio, sono parte di una mente corporea che non si arresta mai nell’esercizio delle sue capacità percettive e associative. In questo capitolo, io mi focalizzerò solo su due dei grandi contributi de L’interpretazione delle afasie: 1) la struttura incorporata della parola parlata e 2) la fonte intrapsichica del linguaggio spontaneo. La mia intenzione è quella di rendere esplicito al lettore ciò che Freud disse nella monografia e di estrarre dalla sua concezione della parola parlata alcune idee generali sulla funzione del linguaggio nella formazione di una mente corporea. Ci sono molti altri “insegnamenti preziosi” nella monografia che non prenderò in considerazione.
La struttura incorporata della parola parlata Freud aderì al concetto di Immanuel Kant e di John Stuart Mill per cui noi non conosciamo le cose in se stesse. Abbiamo bisogno del nostro sistema percettivo come mediatore tra la cosa che esiste nella realtà e il nostro modo di formarcene una rappresentazione. Per dare un nome a ciò che siamo riusciti a rappresentare abbiamo bisogno della mediazione di un’altra percezione, cioè l’ascolto e la registrazione del
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L’INCIDENZA DE L’INTERPRETAZIONE DELLE AFASIE DI FREUD
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suono delle parole che le persone intorno a noi usano per descriverla. Quando queste due percezioni si congiungono nella mente del parlante si formano le condizioni per l’uso e la comprensione della parola parlata. L’unione delle due componenti costituisce la parola simbolica psichica. Freud presentò il seguente diagramma, che illustrava le sue idee, con la corrispondente didascalia.
Schema psicologico della rappresentazione di parola
«La rappresentazione di parola sembra un complesso chiuso di rappresentazioni, la rappresentazione di oggetto, per contro, un complesso aperto. La rappresentazione di parola non è collegata con la rappresentazione a partire da tutte le sue componenti, ma solo mediante l’immagine sonora. Tra le associazioni oggettuali sono quelle visive a rappresentare l’oggetto, in modo analogo a quello in cui l’immagine sonora rappresenta la parola. Non sono qui indicati i collegamenti dell’immagine sonora con associazioni oggettuali altre da quelle visive» (Freud, 1891, p. 101, ted. pp. 74-80).
Questa complessa affermazione necessita di molti chiarimenti per aiutare il lettore ad afferrare la complessità del pensiero di Freud. Per prima cosa, dobbiamo notare che Freud definisce il diagramma come psicologico. Questo non è una rappresentazione neurologica di localizzazioni ma una costruzione teorica funzionale della composizione della parola, che Freud creò usando come impalcatura processi neurali ben noti. Seguendo Hughlings Jackson, Freud insiste sul fatto che la catena di eventi fisiologici del sistema nervoso che condiziona
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la formazione della rappresentazione non è in relazione causale con i processi psichici. Egli li concepisce come processi paralleli, e ripete l’espressione di Jackson dicendo che la relazione è di tipo “dependent concomitant” [“concomitante dipendente”]. Freud conclude: «una trasposizione [Übertragung] di questo tipo [da un processo fisiologico ad uno psicologico] è naturalmente del tutto ingiustificata» (p. 78, ted. p. 57). In breve, secondo Freud, né il processo fisiologico né il suo correlato psicologico possono essere localizzati anatomicamente. Freud enumera, come componenti delle associazioni d’oggetto che contribuiscono alla formazione della presentazione d’oggetto, associazioni visive, tattili, acustiche, ma anche cinestetiche e di altro tipo. La domanda chiave, egli si chiede, è in che modo esse si formano dal momento della loro percezione sensoriale fino al loro arrivo nella corteccia cerebrale. Il principio generale che queste rappresentazioni della periferia del corpo seguono è quello di essere organizzate «non più in modo topico, ma esclusivamente funzionale [al linguaggio]» (p. 76, ted. p. 55). Freud completa questa affermazione con una metafora sulle trasformazioni delle impressioni trasportate dalle fibre nervose: «[...] esse contengono la periferia del corpo come una poesia contiene l’alfabeto, in un riordinamento che serve altri scopi, in una molteplice concatenazione dei singoli elementi topici, dei quali alcuni possono essere rappresentati più volte, mentre altri non lo sono affatto» (p. 75, ted. p. 55). Queste affermazioni sono sorprendenti. Ciò comporta che il sistema percettivo degli esseri umani è organizzato per essere messo al servizio della nostra capacità di rappresentare la realtà al fine di servire la funzione del linguaggio, che è un attributo esclusivamente umano. Terrence W. Deacon (1997), un neuroscienziato di Harvard e anche antropologo evoluzionista, concluse 106 anni più tardi, dopo un esaustivo esame dei dati, che: «Semplicemente, non ha senso comprendere l’anatomia, la neurobiologia o la psicologia dell’uomo se non riconosciamo che sono tutte state plasmate da qualcosa che meglio potremmo descrivere come un’idea: l’idea del riferimento simbolico» (p. 395). Io oso dire che “il riferimento simbolico” ha molto in comune con la parola simbolica di Freud così come essa è descritta nella monografia. Come concepisce Freud il processo associativo che porta alle rappresentazioni d’oggetto? Egli descrive un processo gerarchico. La prima percezione è registrata come “proiezione”, cioè essa appare come una copia che «Solo nel midollo spinale (e nelle sostanze grigie ad esso analoghe) sono presenti le condizioni per una proiezione senza
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lacune della periferia del corpo» (p. 71, ted. 52). Da questo punto alla corteccia cerebrale la trasmissione originaria delle fibre percettive passa attraverso molti nuclei di sostanza grigia. Lì, mediante connessioni sinaptiche, la fibra che emerge dalla sostanza grigia non trasporta più la sua informazione originaria, ma le trasformazioni e le aggiunte operate su di essa dalle sinapsi site nei nuclei grigi. Questo processo viene ripetuto ad ogni fermata che la connessione nervosa effettua in un nucleo grigio. La fibra/e che emerge da tali nuclei ha acquisito connessioni con altre aree del sistema nervoso che servono altre regioni del corpo o del cervello. Freud conclude: «[...] dobbiamo accettare l’idea secondo cui una fibra, nel suo decorso verso la corteccia cerebrale, abbia mutato il suo significato funzionale (Bedeutung) ogni volta che riemerge da una sostanza grigia» (p. 74, ted. 54). “Significato” è un termine che si applica all’esperienza umana, al linguaggio e alla comprensione simbolica, non alla trasmissione fisiologica dell’energia nervosa. Noi siamo ricondotti all’enigma della relazione tra il fisico e lo psichico che Freud non fu mai capace di risolvere, nonostante utilizzasse la nozione di “dependent concomitant” (vedi Meissner, 2003). Comunque sia, quando le fibre arrivano alla corteccia, il processo è stato reso più complesso dalle connessioni sinaptiche e, allo stesso tempo, più semplice dalla selezione progressiva delle fibre che trasmettono l’impulso. Nelle parole di Freud «[...] sarà opportuno chiamare rappresentanza [Repräsentation] l’immagine nella corteccia cerebrale, e dire che la periferia del corpo non è contenuta [vertreten] elemento per elemento nella corteccia, ma rappresentata in modo meno dettagliato attraverso fibre scelte» (p. 71, ted. p. 52). Freud illustra questi concetti mediante ciò che probabilmente accade nella retina: «[...] è perciò molto probabile che, fra i tubercoli quadrigemini e la corteccia occipitale, la nuova fibra non trasmetta [fortleitet] più un’impressione retinica, bensì l’associazione [Verknüpfung – parola collegata al fare un nodo] di una o più di tali impressioni senza sensazioni di movimento. Questo mutamento di significato [Bedeutungsanderung] delle fibre deve essere ancora più complesso per i sistemi di conduzione della sensibilità cutanea e muscolare [...]» (p. 74, ted. p. 54). Il termine “Verknüpfung” «quando applicato ad un pensiero denota una connessione logica, non una associazione causale» (Farrell, 1977, pp. 167-168). Queste conclusioni meritano una attenta riflessione. La prima considerazione, evocata dalla concezione di Freud della formazione della rappresentazione d’oggetto, suggerisce che una rappresentazione d’oggetto non comporta mai una singola esperienza
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percettiva diretta. Ad essa si aggiungono, nel corso del processo di spostamento in direzione della corteccia, molti altri apporti provenienti da altre regioni del corpo, che sono sempre mediati dal sistema nervoso. Ad ogni sosta in un nucleo grigio avviene una trascrizione e una re-iscrizione che aggiunge complessità all’informazione sensoriale. Come accade per la formazione visiva di una rappresentazione, questo processo può aggiungere un’altra modalità percettiva. Potrei affermare che questo è il primo precedente di ciò che Stern (1985) ha chiamato la “percezione amodale” del bambino capace di «ricevere l’informazione in una modalità sensoriale e tradurla in qualche modo in un’altra modalità sensoriale […] Probabilmente l’informazione non viene recepita in una particolare modalità sensoriale, ma essa trascende la modalità o il canale e si presenta in qualche sconosciuta forma sopramodale» (pp. 66-67). Nella concezione di Freud quando un oggetto è registrato come una rappresentazione, organizzata da molteplici associazioni, vengono coinvolte necessariamente molte regioni del corpo percepiente e gli inseparabili significati che le varie componenti contribuiscono ad aggiungervi. Questo è il mio modo (Rizzuto, 1993) di comprendere le conclusioni di Freud ne L’interpretazione delle afasie: «La rappresentazione d’oggetto ci sembra perciò non chiusa [abgeschlossene, auto-contenuta] e difficilmente suscettibile di chiusura [abschließenbare, terminata]» (pp. 101-102, ted. p. 80). Freud aggiunge un’altra dimensione all’atto del percepire. Egli si chiede retoricamente: «Si può ora separare nel correlato psicologico della sensazione la parte della “sensazione” da quella dell’“associazione”? Evidentemente no. “Sensazione” e “associazione” sono due nomi con cui indichiamo diversi aspetti del medesimo processo. [...] Non possiamo avere alcuna sensazione senza immediatamente associarla» (p. 79, ted. p. 58). Questa affermazione mi sembra il fondamento della tecnica analitica: essa indica la possibilità di accedere alle rappresentazioni, di esplorarle seguendo un processo associativo e, quindi, di aggiungere ad esse degli aspetti che modulano il loro significato e la loro ricaduta sulla vita psichica della persona durante il trattamento analitico. Mi sembra ovvio che nella concezione di Freud la rappresentazione d’oggetto, arricchita da impressioni sensoriali multiple e da associazioni, ecceda nella sua complessità di dettagli e significati psichici la “cosa” materiale/oggetto [Gegenstand] del mondo reale che offre l’occasione per il suo formarsi. Ritengo che, se percepire è associare, ciò significa che noi modifichiamo continuamente non solo i nostri processi rappresentazionali, ma che potremmo anche includere la percezione del
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contesto situazionale in cui la percezione si è formata, un contesto fatto anche di percezioni corporee. A questo riguardo il termine al singolare di Freud – rappresentazione d’oggetto – non rende giustizia alla complessità della sua comprensione. La parola scena, che lui usa spesso nei casi clinici, rivela che le rappresentazioni d’oggetto compaiono soggettivamente nel contesto di scene ricordate quali quelle che Anna O. e la Sig.na Emmy avevano in mente. Freud s’interroga sulla relazione tra la rappresentazione e la comparsa spontanea di ricordi: «Qual è dunque il correlato fisiologico della rappresentazione semplice, o di quella che in sua vece ritorna? [für sie wiederkehrenden Vorstellung]?» (p. 78, corsivo Rizzuto, ted. p. 58). Freud non dice cosa egli intende per «in sua vece ritorna». Se noi ricordiamo che Anna O. e la Sig.ra Emmy von N. avevano un gran numero di immagini nella testa, che la cosa piacesse loro o no, noi possiamo supporre che Freud stava pensando al ricorrere di ricordi patogeni e patologici che affollavano la loro mente. Freud lega il correlato fisiologico ai ricordi. Egli descrive ciò come un processo continuo (nicht Ruhendes) che implica ampie localizzazioni. «[...] parte da un punto particolare della corteccia cerebrale e da lì si diffonde su tutta la corteccia cerebrale oppure lungo vie particolari. Una volta terminato, lascia dietro di sé, nella corteccia cerebrale su cui ha agito, una modificazione, la possibilità del ricordo [Erinnerung]» (pp. 78-79, ted. p. 58). Questo è un processo neurale che può potenzialmente causare un processo psichico: «[...] ogni volta che viene eccitato [angeregt] il medesimo stato corticale, lo psichico [das Psychische] di nuovo nasce come immagine mnestica [Erinnerungsbild]» (p. 79, ted. p. 58). Questa affermazione non poté essere scientificamente dimostrata al tempo di Freud. Noi sappiamo da Heilbrunn (1979) che sessantasette anni più tardi Penfield (1958) fornì una prova diretta della realtà di questo fenomeno. Penfield stimolò con elettrodi, durante un intervento chirurgico, la corteccia temporale umana esposta. I pazienti richiamarono alla mente ricordi visivi ed acustici e i sentimenti corrispondenti, dal piacere alla paura. La stimolazione elettrica poteva suscitare questi ricordi quando lo si voleva mediante la stimolazione degli stessi punti, o di punti molto vicini della corteccia temporale destra o sinistra (vedi Heilbrunn, 1979, p. 611). Le stesse affermazioni di Freud e l’esperimento di Penfield offrono un sostegno al mio chiarimento relativo al fatto che la corteccia stimolata non ricorda un’ immagine singola o una rappresentazione d’oggetto, ma la scena in cui essa appare.
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Tutti questi processi sono funzionalmente allocati nella corteccia e – contrariamente a quanto i contemporanei di Freud ipotizzavano – questa concezione dell’organizzazione del linguaggio non richiede la partecipazione di fibre bianche. In breve, il complesso di una rappresentazione d’oggetto è un processo dinamicamente attivo di integrazione di molte percezioni e delle loro associazioni fisse registrate da processi fisiologici, dei quali il processo psichico è un correlato concomitante. Cinque anni più tardi, nella Lettera a Fliess del 6 dicembre 1896, Freud (1887-2004) ritorna al suo concetto di rappresentazione d’oggetto in relazione ai processi della memoria: Come sai sto lavorando all’ipotesi che il nostro meccanismo psichico si sia formato mediante un processo di stratificazione: il materiale di tracce mnestiche esistente è di tanto in tanto sottoposto a una risistemazione in base a nuove relazioni, a una sorta di riscrittura. La novità essenziale della mia teoria sta dunque nella tesi che la memoria non sia presente in forma univoca, ma molteplice, e venga fissata in diversi tipi di segni. Una risistemazione di questo genere l’avevo già supposta a suo tempo (afasia) per le vie provenienti dalla periferia. Non so quante trascrizioni simili esistano: almeno tre, ma è probabile che siano di più (pp. 236237, corsivo di Freud).
Per riassumere, una rappresentazione d’oggetto è un processo psichico virtuale che può diventare funzionalmente attivo e apparire alla persona come esperienza di un’immagine interna. Esso può essere anche riorganizzato nel tempo ogni volta che “nuove circostanze” forniscono l’occasione per la sua riattivazione. Ne risulta che lo stesso si rivela come un processo aperto capace di espansione ogni volta che nuovi processi associativi aggiungono connessioni. Queste sono le conclusioni di Freud, neurologo esperto e accurato. Dobbiamo ricordare che il Freud clinico, stava osservando nella sua pratica quello che aveva appena descritto. La sig.ra Emmy von N. aveva molti ricordi plastici di scene del suo passato che continuamente la disturbavano. Ella disse a Freud che «durante la narrazione vede davanti a sé le scene corrispondenti, plasticamente e a colori naturali [...] vede ogni volta la scena davanti a sé con tutta la vivacità della realtà» (Breuer e Freud, 1892-1895, p. 217, corsivo Rizzuto). Freud doveva spiegare, nei termini neurologici del tempo, i processi neurali che agivano come “correlato fisiologico” per l’emergere di tali vivide immagini psichiche, di tali rappresentazioni d’oggetto complesse organizzate come scene. Inoltre, dopo che la sig.ra Emmy gli aveva detto di lasciarle dire ciò che ella aveva da dire, egli doveva trovare
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una spiegazione ragionevole del suo bisogno di dare parole alle sue immagini compulsive. La sua risposta è chiaramente formulata nella monografia: «tutti gli stimoli per il linguaggio spontaneo provengono dalla regione delle associazioni oggettuali» (p. 103, ted. p. 81). Sebbene Freud non lo affermasse esplicitamente, devo concluderne che le rappresentazioni d’oggetto e le loro associazioni, una volta attivate, hanno una tendenza a cercare le parole per esprimerle. Freud concluse che la componente visiva della rappresentazione – come mostrato nel suo diagramma – “cerca” l’immagine sonora della rappresentazione di parola per trovare le parole adatte alla sua espressione. Mi sembra che la sua esperienza clinica aveva per lui grande importanza perché i suoi pazienti vedevano sempre delle cose nella mente e egli continuava a chiedere di descrivergliele a parole. Suppose che altre componenti della rappresentazione d’oggetto fossero in grado, in circostanze particolari, di legare le rappresentazioni d’oggetto alle parole. Freud cita il caso di Farges come esempio di stimoli tattili che agiscono al fine di suscitare il linguaggio. La paziente era incapace di riconoscere il suo dottore o di parlare con lui o con altri. Tuttavia, quando egli la toccò per prenderle il polso, lo stimolo tattile le consentì di usare il suo apparato del linguaggio, di riconoscere il suo dottore e di parlare con lui. Freud concluse che il suo apparato del linguaggio era intatto ma che non poteva essere stimolato a parlare dalle associazioni verbali o visive che erano danneggiate, mentre la stimolazione tattile conservata era in grado di attivare un apparato del linguaggio che non era di per se danneggiato. Ne concludo che un caso così interessante non è solo un precedente, ma aggiunge una dimensione ai vari processi di stimolazione sensoriali in grado di attivare le libere associazioni durante il lavoro analitico. A questo punto devo parlare della concezione di Freud del modo in cui si forma la rappresentazione di parola. Noi acquisiamo le parole attraverso gli stessi mezzi mediante i quali formiamo le rappresentazioni d’oggetto: attraverso i processi percettivi. Freud convenne con i neurologi del linguaggio suoi contemporanei nell’elencare quattro componenti per la rappresentazione di parola (Wortvorstellung): l’“immagine sonora” (Klangbild), l’“immagine visiva di una lettera” (visuelle Buchstabenbild), l’“immagine motoria di linguaggio” (Sprachbewegunsbild), e l’“immagine motoria di scrittura” (Schreibbewegunsbild) (vedi p. 96, ted. p. 75). Tutte e quattro queste componenti debbono essere apprese a partire dalla percezione del linguaggio o della scrittura di altri. Per essere in grado di parlare dobbiamo ascoltare e registrare
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la percezione delle parole dette da altri. Questa percezione da inizio al processo di apprendimento per riprodurre la percezione: «Impariamo a parlare associando “un’immagine sonora verbale” [ricevuta dalla voce di un’altra persona] con una “sensazione d’innervazione della parola” [nei nostri propri muscoli del linguaggio]. Dopo aver parlato siamo giunti in possesso di una “rappresentazione motoria di linguaggio” (sensazioni centripete dagli organi del linguaggio), sicché la “parola” è per noi doppiamente a livello motorio. [...] Inoltre, dopo aver parlato otteniamo “un’immagine sonora” della [nostra propria] parola pronunciata» (p. 97, ted. p. 75). Nei nostri sforzi di imparare a parlare facciamo del nostro meglio per produrre suoni quanto più possibile simili a quelli che abbiamo percepito nella parole dell’altra persona. In tal modo il parlare implica la ripetizione dei suoni che abbiamo percepito nelle parole pronunciate da un’altra persona. Freud riflette sul fatto che le componenti di una rappresentazione di parola diventano più complesse «[...] se si prende in considerazione il probabile processo associativo in corso nelle singole prestazioni del linguaggio [einzelnen Sprachverrichtungen]» (p. 96, ted. p. 75). L’esecuzione del linguaggio – sebbene Freud non lo dica esplicitamente – deve includere, nei processi associativi a cui egli si riferisce, molte associazioni che si sono formate durante l’imitazione del linguaggio di altri. Oggi possiamo presumere che quelle associazioni forniscono alle parole apprese una gran quantità di connotati emozionali, e di associazioni provenienti dalla percezione del modo in cui le parole sono state pronunciate da coloro i quali le hanno rivolte a noi. Qualcosa di simile potrebbe essere detto a proposito delle percezioni dei nostri stessi sforzi per riprodurle mentre cerchiamo di imparare a parlare. La componente motoria, ciò che Freud chiamava le innervazione del linguaggio, ci segna a vita: il modo in cui parliamo rivela molto su chi noi siamo, sulle nostre identificazioni con coloro che ci hanno aiutato ad imparare a parlare. Tutti diventano parte della nostra identità e della nostra esperienza del nostro corpo. I nostri suoni linguistici rivelano l’esercizio dei nostri muscoli fonatori al servizio della riproduzione dei suoni che ci sono stati offerti da coloro che ci hanno insegnato a parlare. In breve, i nostri muscoli fonatori rivelano per sempre l’impronta dei nostri sforzi consci e risoluti per imitare le parole che ci sono state date dai nostri genitori. Le rappresentazioni d’oggetto e di parola sono solo componenti della parola psichica, quella che noi usiamo per parlare e per pensare i nostri pensieri. Freud definì la parola psichica come l’unità del
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linguaggio umano. Il suono di una parola deve diventare un evento significativo per essere una parola psicologica. Dice Freud «[...] la parola ottiene il suo significato [Bedeutung] legandosi alla “rappresentazione d’oggetto”, almeno se ci limitiamo a considerare i sostantivi» (p. 101, ted. p. 79). La connessione, come si è già detto prima, lega l’immagine sonora della parola [Klangbild] con la componente visiva [visuell] della rappresentazione d’oggetto. Dobbiamo prender nota del riferimento di Freud ai sostantivi, ma ora tralasciamo tutto ciò per poi riconsiderarlo in seguito. Ciò che qui mi interessa è la complessità percettiva e sensoriale della parola psichica. Sul versante della rappresentazione d’oggetto, la parola coinvolge tutte le percezioni di tutti i nostri sensi e i cambiamenti di “significato” che vengono aggiunti dalle sinapsi in tutti i nuclei grigi che la trasmissione nervosa incontra nel percorso verso la corteccia cerebrale. Oggi noi possiamo dire che alle sinapsi connesse ad altre regioni corporee che sono indipendenti dai sensi, devono essere aggiunte le sinapsi propriocettive che sono legate ad alcuni di quei nuclei grigi. In questo modo, ogni rappresentazione d’oggetto coinvolge simultaneamente molti aspetti del corpo e li integra nella sua formazione. Non possiamo più parlare solo di registrazione percettiva di oggetti e realtà esterni senza includere in esse la percezione endogena del corpo percipiente e il suo sistema autonomo multiplo, e persino le risposte endocrine a ciò che è percepito al momento della percezione. Noi sappiamo che l’amigdala risponde istantaneamente alla percezione di un oggetto che fa paura anche se noi non ne abbiamo coscienza. Queste connessioni sinaptiche aggiungono associazioni alle rappresentazioni, includono in esse il corpo percipiente come parte della percezione stessa e danno loro una sorprendente complessità. Io concluderei senza alcun dubbio che una rappresentazione d’oggetto, nel senso ristretto in cui Freud la concepì ne “L’interpretazione delle afasie”, è un processo pienamente incorporato. La nostra mente rappresentazionale ci presenta il mondo come percepito attraverso la mediazione del nostro intero corpo e incorpora nelle rappresentazioni che essa crea proprio il corpo che percepisce ciò che esiste nella realtà esterna al corpo. Che cosa facciamo dunque quando parliamo? E perché parliamo? Freud dice enfaticamente nella monografia «[...] tutti gli stimoli per il linguaggio spontaneo provengono dalla regione delle associazioni oggettuali» (p. 103, corsivo Rizzuto, ted. p. 81). Questa affermazione ci porta alla prossima sezione di questo scritto.
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La concezione di Freud del linguaggio spontaneo Perché mai abbiamo bisogno di parlare? Secondo Freud le associazioni d’oggetto, cioè le rappresentazioni che abbiamo accumulato nel nostro continuo processo percettivo e nei contemporanei processi associativi, hanno in se stesse la capacità potenziale di cercare le rappresentazioni di parola per trovare l’espressione verbale. Infatti devo concludere che le rappresentazioni d’oggetto sono tutto ciò di cui dobbiamo parlare. Se prendiamo sul serio l’affermazione di Freud, significa che le rappresentazioni incorporate hanno bisogno di trovare l’espressione verbale e di inviare stimoli diretti alla ricerca dell’immagine sonora delle parole necessarie per esprimerle. A questo punto noi siamo di fronte ad un altro enigma. L’apparato di Freud è proprio una serie ben organizzata di associazioni oggettuali e verbali che, secondo questa descrizione, sembra funzionare da sé. L’apparato di Freud non ha un soggetto attivo che lo metta in moto. Ad un certo punto Freud introduce la funzione della “volontà” come parte del desiderio di una persona di parlare: «Ogni stimolo “volontario” [willkürliche] dei centri del linguaggio attraversa però la regione [Gebiet] delle rappresentazioni acustiche, e consiste in un loro eccitamento da parte delle associazioni oggettuali» (p. 108, ted. p. 85). La volontà di parlare, quindi, proviene dalla persona totale, come Freud ha in precedenza mostrato mediante due casi nella monografia. Il primo è il caso di una donna che Freud aveva visto all’Ospedale Generale di Vienna, che era incapace di parlare normalmente e che presentava nei suoi sforzi per farlo un «impoverimento della parola con un forte impulso a parlare» (p. 40, ted. p. 24). È chiaro che la donna voleva parlare, ma il suo apparato del linguaggio era incapace di produrre parole pronunciate, normalmente organizzate. Il secondo esempio proviene dalla letteratura. Hammond aveva riportato il caso si un uomo che aveva sofferto per una ferita alla testa e «pur facendo sforzi disperati per parlare poteva solo dire “sì” e “no”» (p. 45). La rimozione chirurgica di un frammento di osso dalla terza circonvoluzione frontale normalizzò il suo linguaggio (vedi p. 45, ted. p. 27). Dopo essere venuti a conoscenza di questi due esempi e di molti altri, incluso il linguaggio dei nostri pazienti, io devo dare un chiarimento. Lo stimolo a parlare proviene dalla volontà di una persona che desidera comunicare con un’altra. Tuttavia, questo desiderio di avere qualcosa da dire ad un altro, deve, come Freud così chiaramente dice, trovare nelle rappresentazioni e nelle associazioni d’oggetto qualcosa di significativo che la persona
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vuole comunicare. È in questo senso che la concezione di Freud acquisisce il suo valore analitico estremamente importante. Noi siamo capaci di parlare solo di ciò che abbiamo rappresentato; dobbiamo parlare di quelle rappresentazioni che compaiono nella nostra mente e che ci fanno sentire che noi dobbiamo esprimerle. A questo punto della sua teorizzazione Freud non aveva ancora concepito la nozione di difesa contro una rappresentazione disturbante che il paziente non era in grado di tollerare consciamente. Ora posso riassumere il punto di vista di Freud ne L’interpretazione delle afasie: ciò che ci stimola a parlare volontariamente è il desiderio di esprimere qualcosa correlata alle rappresentazioni mnestiche organizzate come rappresentazioni d’oggetto visive. Mi sembra chiaro che questo concetto freudiano è il fondamento delle sue raccomandazioni sulla tecnica, in seguito ben articolate, sia per l’analizzando che per l’analista. Freud richiede che il paziente gli descriva il suo paesaggio interno, cioè, il suo panorama visivo: «Si comporti, per fare un esempio, come un viaggiatore che segga al finestrino di una carrozza ferroviaria e descriva a coloro che si trovano all’interno il mutare del panorama dinanzi ai suoi occhi» (Freud, 1913, p. 344). Freud si aspettava che le rappresentazioni visive spontanee che apparivano nella mente del paziente [Einfälle], una volta descritte a parole avrebbero guidato l’analista fino a trovare le fonti patogene di ciò che tormentava il paziente. Che dire del versante dell’analista? Noi dobbiamo per prima cosa riesaminare L’interpretazione delle afasie e imparare come egli concepiva il processo di ascolto della parola parlata da un altro: Probabilmente, non dobbiamo concepire la comprensione della parola [proveniente] su stimolo periferico [da un’altra persona] come un semplice trasferimento [Fortleitung] dagli elementi acustici a quelli dell’associazione oggettuale, piuttosto, nell’ascolto di un discorso [Rede] accompagnato da comprensione piena, dagli elementi acustici sarebbe contemporaneamente stimolata l’attività associativa verbale, sicché in una certa misura ripeteremmo interiormente quanto abbiamo udito per poi poggiarne [stützen] simultaneamente la comprensione sulle nostre sensazioni d’innervazione del linguaggio. Un maggior grado d’attenzione nell’ascolto andrà di pari passo con un rilevante trasferimento [Übertragung] di quanto udito sulla via motoria del linguaggio (p. 117, corsivo Rizzuto, ted. 93).
Freud sembra aver usato l’autosservazione per raggiungere queste conclusioni. L’osservazione critica che egli fa indica l’effetto che le parole di altri hanno su di noi. Esse non solo attivano le nostre proprie
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associazioni verbali, ma ci inducono a ripetere le parole silenziosamente mentre i nostri muscoli fonatori “sentono” il modo in cui la parola è “innervata”, cioè è sentita nei nostri organi per articolarle. Oggi sono tentata di pensare al ruolo dei mirror neurons nell’imitazione interna del movimento che altre persone compiono nel nostro campo visivo o acustico. Nella mia lettura di questo fenomeno, credo che Freud abbia detto che quando ascoltiamo gli altri noi dobbiamo attivare le nostre proprie parole come rappresentazioni verbali e come potenziale pronuncia da parte nostra. Per me questa è una affermazione cruciale. Significa che noi possiamo udire gli altri solo udendo noi stessi internamente. Le parole che sentiamo devono trovare le nostre proprie parole per essere comprese. Se così stanno le cose, siamo di fronte ad un fenomeno sorprendente: sentiamo gli altri e noi stessi allo stesso tempo. Molti anni più tardi, nel corso dello sviluppo della teoria e della tecnica psicoanalitica di Freud, un tale evento condurrà indirettamente ad alcuni aspetti del transfert e del controtransfert. Qui abbiamo il suo precedente più remoto. In modo abbastanza interessante, Freud non ha fatto attenzione a ciò che accade alle rappresentazioni d’oggetto e alle associazioni della persona che ascolta le parole di un’altro. Il modello suggeriva che tutto ciò che l’ascoltatore doveva fare era legare il suono della parola ad una rappresentazione per comprenderne il significato. La citazione sopramenzionata modifica il modello affermando che le cose non sono così semplici. Le nostre parole, disponibili internamente, devono agire come mediatori del processo. Questo mi sembra ovvio. Una volta che noi abbiamo associato le parole udite alle nostre parole, come giungiamo a comprenderle se ricordiamo che il significato [Bedeutung] di una parola simbolica non può formarsi senza rappresentazioni d’oggetto e associazioni? La sola risposta possibile è che le rappresentazioni verbali combinate esterne/interne “cercano” nella mente dell’ascoltatore le rappresentazioni d’oggetto che danno loro significato. In breve, le parole degli altri possono essere rese significative solo mediante le connessioni che esse trovano nelle nostre rappresentazioni e associazioni private e personali. Come possiamo rendere giustizia alle parole del nostro interlocutore, parole che trovano la loro fonte originaria nelle sue proprie rappresentazioni private? Nella vita comune questo processo funziona abbastanza bene per l’approssimazione e la somiglianza delle esperienze che le persone hanno in una determinata cultura. In analisi il compito comporta una precisa intesa. Io credo che la consapevolezza di Freud di questo fenomeno, implicitamente presente ne
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L’interpretazione delle afasie, è il più antico antecedente dell’attenzione fluttuante che egli raccomandò all’analista nel suo scritto sulla tecnica del 1912: «La regola per il medico può essere espressa nel modo seguente: Si tenga lontano dalla propria attenzione qualsiasi influsso della coscienza e ci si abbandoni completamente alla propria “memoria inconscia” [...]». Freud continua: «Ciò che si ottiene in questo modo sarà sufficiente per tutte le esigenze durante il trattamento. Quelle componenti del materiale che già si inscrivono in un contenuto saranno disponibili per il medico anche in modo cosciente; il resto, ancora sconnesso e disposto in caotica confusione, sembra in un primo tempo sommerso, ma affiora prontamente alla memoria appena l’analizzando produce qualcosa di nuovo con cui tale materiale possa essere collegato e in cui possa prolungarsi» (p. 533). Ciò che leggo nelle sue raccomandazioni di tecnica è che la mente del medico inconsciamente selezionerebbe alcune rappresentazioni che, in modo appropriato, si collegano alle parole del paziente per conferire loro il significato. Una volta che questo significato è stato raggiunto, esso diventa conscio nella mente dell’analista. Ancora una volta devo osservare che Freud non può parlare di singole rappresentazioni ma di scene, non solo nella mente dell’analista ma anche in quella del paziente. Cosa può essere appreso dal collegamento tra L’interpretazione delle afasie e lo scritto di tecnica? La mia risposta è che, dal momento in cui Freud scrisse la sua monografia fino al lavoro del 1912, e poi al Compendio di psicoanalisi del 1940, il nucleo del lavoro analitico non si focalizza principalmente sulle parole scambiate, ma sulle rappresentazioni private che esse evocano. Come ho detto all’inizio di questo scritto, il maggiore contributo di Freud alla terapia, alla comprensione del linguaggio e alla cultura, è consistito nell’aprire per la prima volta nella storia il mondo privato delle persone attraverso la mediazione della parola parlata.
L’impatto teorico della monografia nello sviluppo della teoria psicoanalitica di Freud Freud raramente si riferì a L’interpretazione delle afasie nei suoi scritti successivi. Nondimeno, mi piace affermare che è sempre presente nelle sue teorie e nella sua tecnica. Egli si riferisce ad essa indirettamente ne L’interpretazione dei sogni (1899) dove afferma che i processi di pensiero si connettono con ricordi verbali per raggiungere la coscienza.
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Ne I due principi dell’accadere psichico (1911) Freud propone che «Il pensiero in origine era probabilmente inconscio[...] né acquistò ulteriori qualità, percettibili alla coscienza, finché non si collegò ai residui di rappresentazioni verbali» (p. 456). Nel suo scritto metapsicologico L’inconscio (1915), Freud elabora più approfonditamente ciò che aveva presentato ne L’interpretazione delle afasie. Nel saggio Freud introduce la nozione di rappresentazione d’oggetto ed elabora le funzioni delle componenti della parola psichica. Ciò che abbiamo potuto chiamare la rappresentazione conscia dell’oggetto si scinde ora nella rappresentazione della parola e nella rappresentazione della cosa; quest’ultima consiste nell’investimento, se non delle dirette immagini mnestiche della cosa, almeno delle tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini. Tutto a un tratto pensiamo di aver capito in che cosa consista la differenza fra una rappresentazione conscia e una rappresentazione inconscia (vedi sopra p. 59). Contrariamente a quanto avevamo supposto, non si tratta di due diverse trascrizioni dello stesso contenuto in località psichiche differenti, e neanche di due diverse situazioni funzionali dell’investimento nella stessa località; la situazione è piuttosto la seguente: la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inc contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuale; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con le relative rappresentazioni verbali. Abbiamo il diritto di supporre che siano tali sovrainvestimenti a determinare una più alta organizzazione psichica, e a rendere possibile la sostituzione del processo primario con il processo secondario che domina nel Prec (p. 85).
La somiglianza dei concetti tra L’interpretazione delle afasie e L’inconscio è tanto ovvia che Strachey decise di tradurre nuovamente e ristampare le pagine dalla 74 alla 80 del testo originale tedesco, e includerle come Appendice C a L’inconscio. La parte del testo che ho citato include la distinzione tra processo primario e secondario, illustrando così, ancora una volta, la duratura influenza teorica dei primi concetti contenuti nella monografia. In L’Io e l’Es (1922) Freud ribadisce l’importanza delle rappresentazioni di parola per il raggiungimento della coscienza: «Allora la domanda: Com’è che qualche cosa diventa cosciente? andrebbe formulata più adeguatamente nel modo seguente: Com’è che qualche cosa diventa preconscio? E la risposta dovrebbe essere: attraverso il
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collegamento con le rispettive rappresentazioni verbali.» (p. 483). Infine nell’opera pubblicata postuma Compendio di Psicoanalisi (1938), Freud ritorna al tema della coscienza: «Ciò è opera della funzione linguistica, la quale stabilisce uno stretto collegamento fra i contenuti dell’Io e i residui mnestici delle percezioni visive, e più ancora con quelli delle percezioni auditive. Di qui in poi la periferia percipiente della corteccia cerebrale può essere stimolata in misura molto maggiore anche dall’interno, processi interni come decorsi di rappresentazioni [Vorstellungsabläufe] e processi ideativi [Denkvorgänge] possono farsi coscienti [...].» (p. 589). Qui Freud ritorna al suo concetto, espresso ne L’interpretazione delle afasie, che l’eccitazione di una particolare area è in grado di riprodurre una rappresentazione precedentemente registrata. La stimolazione può provenire completamente dall’interno della mente stessa. In questa stessa pagina Freud propone che lo stato preconscio «[…] ne è invece indipendente» [dai residui mnestici del linguaggio] e descrive un tale stato come «qualcosa di particolare, la cui natura non si esaurisce in questi due caratteri.» [accesso alla coscienza e connessione con i residui verbali]. Queste citazioni indicano chiaramente la presenza durevole della concezione di Freud della parola nel linguaggio spontaneo nei suoi più significativi lavori teorici. Ho in precedenza documentato la sua influenza sulla tecnica. Nondimeno essa ha prodotto anche significativi inconvenienti che continuano ad avere influenza sulla teoria ed sul lavoro analitico. Come ho affermato in precedenza Freud descrive sempre l’oggetto o la rappresentazione di cosa usando il singolare. Anche oggi gli analisti parlano sempre di “rappresentazione di cosa”. La lettura accurata dei casi clinici di Freud, o, se è per questo, di quelli di qualunque analista contemporaneo, non mostra mai una rappresentazione come un singolo oggetto. Quello che noi leggiamo e ascoltiamo tratta di scene di momenti vissuti o fantasticati che appaiono spontaneamente [Ainfälle] nella mente dei pazienti, come risultato del processo associativo, o a causa dell’impatto del transfert o di eventi di vita. Io penso che si perda molto mantenendo una terminologia che, a dispetto del suo davvero ricco contributo alla teoria analitica, non rende giustizia alla complessità dei fenomeni. Infine il focalizzarsi di Freud esclusivamente sull’intrapsichico, senza tener conto di quanto centrale esso sia per la comprensione della mente umana privata, lasciò da parte un fatto cruciale dell’atto umano del parlare: noi parliamo sempre ad un altro e per un altro, anche se si tratta di sé stessi come altro. Questo dovrebbe essere il tema di un’ulteriore indagine analitica.
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Freud concluse la sua monografia con una raccomandazione: «[...] faremmo bene ad occuparci nuovamente delle condizioni funzionali dell’apparato del linguaggio.» (p. 132, ted. p. 107). Il suggerimento resta valido ancora oggi. Noi potremmo aver bisogno di usare un nuovo insieme di termini al di là dei limitati confini di un apparato del linguaggio, ma la funzione del linguaggio come strumento chiave per l’esplorazione del lavoro interno della mente umana in analisi necessita ancora di ulteriori esplorazioni creative, senza tener conto di quanto è stato scritto sul linguaggio e di quanto poco, ma prezioso, è stato scritto sul desiderio delle persone di parlare con gli altri e con sé stessi in quanto altri.
Conclusioni Devo concordare con Freud che L’interpretazione delle afasie fu una “cosa veramente buona” che ancora merita di essere ulteriormente studiata. Il problema chiave del modello resterà il problema chiave di tutte le teorie di Freud: non c’è alcun agente che metta in moto l’apparato (vedi Moran, 1993) nello stesso modo in cui non esiste alcun agente per l’apparato mentale. Per comprendere il desiderio di parlare come punto di partenza di un atto di linguaggio di una persona, noi abbiamo bisogno di trovare l’agente in quella persona. Una volta che l’agente desidera parlare a qualcuno, allora i processi chiaramente descritti che Freud ha presentato, dalla stimolazione corticale all’attivazione della rappresentazione di parola e alla sua enunciazione in parole dette, viene chiamato ad agire. Tutti i processi coinvolti nel parlare avevano origine o nelle percezioni corporee o nelle fantasie costruite su di esse, usando il materiale percettivo disponibile per la mente. Freud lo dice molto chiaramente e io mi sento libera di concludere che tutte le parole che noi usiamo – le nostre proprie parole – sono parole pienamente incorporate. Non abbiamo altra scelta che quella di usare le nostre parole incorporate. Quando noi parliamo usando contemporaneamente i livelli più antichi, più profondi e più recenti delle nostre esperienze percettive, abbiamo bisogno del nostro intero corpo per essere in grado di parlare. Il linguaggio della cultura è una creazione culturale che non diventa un nostro possesso psichico personale finché noi non lo abbiamo integrato nella nostra vita psichica, mediante la percezione delle parole degli altri legata ad una percezione di oggetto/cosa/scena dentro di noi, che gli
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dà significato. Tutto ciò che dobbiamo fare per vedere chiaramente questo punto, è andare in un paese straniero per sperimentare la nostra impotenza nel giungere al significato di parole il cui suono non possiamo afferrare, ripetere o comprendere. Nella monografia Freud restringe il significato delle parole ai sostantivi. Questa conclusione comprende molti problemi perché il linguaggio non può funzionare solo con i sostantivi. La monografia non ci offre la possibilità di capire di cosa abbiamo bisogno per dare senso ad un’intera proposizione, non dal punto di vista grammaticale, ma dal punto di vista psichico. Ritorno al concetto che noi non pensiamo mediante singole parole ma, invece, formiamo le nostre percezioni come unità organizzate che compongono alcuni tipi di scene. Investigare questo tema in profondità richiederà molte ricerche, in campo neurologico e linguistico, sulla funzione delle immagini percettive nell’organizzazione del linguaggio. Per dirlo con le parole di Freud, abbiamo bisogno di esplorare l’incessante processo associativo e funzionale elicitato dalla formazione delle rappresentazioni di oggetto/cosa. Dovremmo seguire il consiglio di Freud e occuparci più dello strumento cruciale per il nostro quotidiano lavoro analitico: le parole incarnate che scambiamo con i nostri pazienti. Spero di aver reso giustizia all’autorevole contributo di Freud per la comprensione del linguaggio.
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L’OMBELICO DELLE PAROLE
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di Gemma Zontini
Considerazioni generali In questo scritto vorrei provare ad ipotizzare come il lavoro afasiologico di Freud possa aver influenzato il suo concetto di regressione. Riprenderò, perciò, alcune ipotesi freudiane sul funzionamento dell’apparato del linguaggio utili, a mio avviso, anche per supportare il successivo concetto di regressione: 1) l’apparato del linguaggio è soprattutto un apparato per associare; 2) il suo funzionamento è radicato nei meccanismi del corpo (senso-percezione e motilità); 3) la parola non si serve di un unico percorso associativo, formatosi in modo statico ed immodificabile, ma di percorsi molteplici, dinamicamente modificabili sia da fattori fisiologici, quali ad esempio la stanchezza, sia da fattori psicologici di natura pulsionale. Freud (1891) ipotizzò che il linguaggio non consistesse in una espressione fisiologica di centri anatomicamente localizzati e specifici di aree cerebrali connessi da particolari vie associative, come voleva la teoria localizzazionistica di Wernicke e di Broca, ma che fosse un processo legato ad una funzione di un apparato che ha caratteristiche anatomiche che, però, non sono utilizzate esclusivamente per il linguaggio. Le vie afferenti a tale apparato, infatti, sono condivise anche da tutti gli input sensoriali che provengono da tutti gli organi di senso e da tutte le strutture muscolari coinvolte nella funzione linguistica, così come le vie efferenti che sono coinvolte anche in altre funzioni e compiti. L’apparato del linguaggio, dunque, ha ben poco di anatomicamente proprio. La sua natura è quella di effettuare processi associativi, il cui scopo è quello di formare complessi rappresentazionali partendo dagli input provenienti dai vari organi di senso. A partire da tale funzione associativa si costruisce una rappresentazione
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DALL’AFASIA ALLA METAPSICOLOGIA: VIE DELLA PSICOANALISI
d’oggetto. Freud, comunque, specifica che la rappresentazione d’oggetto non è una replica del mondo reale, ma è la rappresentazione del corpo fisico del percipiente, percettivamente modificato dalle proprietà sensoriali dell’oggetto. Queste vengono, per così dire, raccolte dagli organi di senso periferici e proiettate verso il midollo spinale e rappresentano in questa fase, probabilmente, una copia esatta di ciò che è stato percepito. Le proiezioni successive che conducono l’impulso alla corteccia, però, subiscono modificazioni a causa delle connessioni informazionali provenienti da altre fonti percettive non solo esterne ma anche interne al soggetto. Ciò che viene perduto in questo processo è la rappresentazione topografica del corpo. Ciò che viene acquisito è una grande ricchezza di capacità rappresentazionale dovuta alle connessioni multiple. La proiezione terminale alla corteccia cerebrale genera, infine, una modificazione fisiologica cerebrale che non lascia tracce statiche (come voleva la teoria localizzazionistica per la quale le rappresentazioni erano immagazzinate in singole cellule nervose), ma determina un processo dinamico di tipo associativo che stimola anche la funzione mnestica. Quest’ultimo costituisce la rappresentazione psichica concepita da Freud come correlato psichico del processo fisiologico associativo, secondo il concetto di dependent-concomitant che egli aveva mutuato da Jackson (1878-1880), esponente della scuola antilocalizzazionistica inglese. La rappresentazione psichica, cioè, emerge ogni volta che il percorso associativo è attivato sotto forma di immagine ricordata. Questa concezione della rappresentazione di oggetto è importante perché fonda l’evento rappresentativo su processi biologici e somatici: il processo rappresentazionale, cioè, inizia quando le sensazioni sono biologicamente possibili e la corteccia è sufficientemente sviluppata. E’ un processo primario collegato a tutti i tipi di sensazioni provenienti dagli organi di senso periferici che costituisce una modalità primaria di rappresentare sé stessi e il mondo circostante. Inoltre la grande varietà di rappresentazioni costruibili in tal modo, alcune delle quali anche teoricamente mai recuperabili, rende ipotizzabile un fondamento “fisiologico” dei processi inconsci. Anche la rappresentazione di parola segue, secondo Freud, un percorso associativo tra l’immagine acustica (la parola udita), l’immagine visiva grafica (la parola letta), l’immagine motoria del linguaggio (la parola parlata), l’immagine motoria grafica (la parola scritta). L’area associativa linguistica, che prevede l’associazione tra elementi visivi,
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L’OMBELICO DELLE PAROLE
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acustici e motori, si estende quindi tra le aree sensoriali corticali cui le diverse sensazioni afferiscono e tra queste aree sensoriali e le aree motorie corticali concernenti il linguaggio. Si vede qui, però, come le funzioni associative che portano alla rappresentazione di parola siano molto più limitate rispetto alle infinite connessioni di stimoli sensoriali che portano alla costruzione della rappresentazione d’oggetto. Ne consegue che la parola detta segue un percorso associativo in qualche modo vincolato, obbligato, nel quale è scritta la storia della maniera in cui l’abbiamo imparata e usata. La rappresentazione di parola, in altri termini, è una funzione appresa da altri. La relativa fissità “fisiologica” dei percorsi associativi che portano alla rappresentazione di parola potrebbe costituire il fondamento teorico del metodo delle libere associazioni: esse non possono che seguire i pochi percorsi “di parola”, simbolico-rappresentazionali, sviluppatisi a partire dal costituirsi del nucleo patogeno. Tale metodo quindi indicherà, in modo “empiricamente” significativo, ciò che ha generato il disturbo psichico. La rappresentazione di parola si connette, infine, alla rappresentazione d’oggetto mediante la sua immagine sonora. Dopo questo primo livello associativo è possibile l’emergenza della parola psichica, fornita di un significato che non è solo collegato all’associazione della rappresentazione di parola con la rappresentazione di oggetto concepita come un esponente della realtà materiale. Essa è connessa al desiderio di parlare (forse un anticipo del concetto di pulsione). La parola psichica, cioè, è un dependent-concomitant del processo associativo tra rappresentazione di oggetto e rappresentazione di parola. La sua formazione è un primo esempio del “misterioso salto” tra il somatico e lo psichico ed è connessa all’emergenza di un desiderio: il desiderio di parlare, di rappresentare sé stesso all’altro. Le afasie sarebbero causate da un’interruzione di uno o più di questi processi di associazione. Questi concetti mi sembrano, dunque, evidenziare il funzionamento associativo dell’apparato psichico, il suo radicamento nel corpo, la variabilità dei percorsi associativi anche in relazione ad elementi di natura prevalentemente psichica. In particolare, i “misteriosi salti” rappresenterebbero degli indicatori della complessità del sistema psichico e della funzione linguistica: il pensiero, il linguaggio e molte altre funzioni psichiche sarebbero sorte a partire dalla necessità di smaltire accumuli energetici forma-
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tisi all’interno dell’organismo e che l’organismo stesso non ha potuto smaltire in modo lineare e “riflesso”. L’accumulo energetico determinerebbe in tal modo un “salto” di livello di funzionamento di un organo, lo sviluppo di una funzione complessa. Ma proprio la presenza di “salti”, se garantisce un funzionamento più sofisticato contrariamente all’arco riflesso che ha una funzione “obbligata” e che si ripete in modo simile, può condizionare blocchi e percorsi regressivi, non essendo un processo lineare ed essendo, al contrario, condizionato da molte variabili, istanze fisiche e psichiche, ambientali e relazionali che concorrono tutte al suo corretto funzionamento.
Associazione e regressione Sempre in rapporto alla regressione, vorrei poi sottolineare come in L’interpretazione delle afasie Freud (1891) per descrivere il funzionamento dell’apparato del linguaggio si serva di un altro concetto ancora una volta mutuato da Jackson. Questo autore per spiegare la perdita di alcune funzioni linguistiche più evolute e la loro sostituzione con altre funzioni più primitive utilizza il concetto di involuzione funzionale. A questo proposito scrive Freud (1891): «Per valutare la funzione dell’apparato di linguaggio in condizioni patologiche, proponiamo la tesi di Jackson, secondo cui tutti questi modi di reazione rappresentano casi di involuzione funzionale (dis-involution) di un apparato altamente organizzato, e corrispondono quindi a stadi precedenti del suo sviluppo funzionale. In tutti i casi andrà perciò perduto un ordinamento associativo superiore sviluppatosi tardi, e se ne manterrà uno più semplice acquisito prima. Questo punto di vista spiega un gran numero di fenomeni dell’afasia» (p. 112). Quindi i due aspetti peculiari dell’apparato del linguaggio, quello di effettuare soprattutto processi associativi, alcuni dei quali, specie quelli più tardi ed evoluti, formatisi a seguito di un “misterioso salto”, e quello di andare incontro in condizioni patologiche alla disinvoluzione, potrebbero essere considerati precursori del concetto psicoanalitico di regressione. Arlow e Brenner (1964) parlano di cinque possibili forme di regressione: genetica, sistemica, pulsionale, filogenetica e biogenetica. La regressione genetica, secondo questi autori, è una forma di
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regressione temporale: l’apparato psichico, in seguito ad una frustrazione derivante dal mondo esterno, tende a regredire a condizioni precedenti in cui erano state sperimentate percezioni collegate con una gratificazione pulsionale. La tendenza a raggiungere, al cospetto di una frustrazione, l’identità di percezione della gratificazione sfocia nel soddisfacimento allucinatorio del desiderio (Freud, 1912). La regressione sistemica invece riguarda un movimento a ritroso dell’apparato psichico all’interno delle “topiche” che lo costituiscono: i sintomi nevrotici, così come i sogni sono forme di appagamento di desideri inconsci. La loro comparsa mostra la predominanza, momentanea o più o meno stabile, del sistema psichico inconscio rispetto alla coscienza. Con la scoperta della sessualità infantile e con l’introduzione della teoria pulsionale si aggiunse al concetto di regressione anche quello di regressione pulsionale. I desideri pulsionali dell’infanzia, sebbene respinti dal preconscio nel corso dello sviluppo, restano attivi nell’inconscio e ne costituiscono il nucleo della parte rimossa. Allorché si verificano delle alterazioni maturative, è possibile che si attui una regressione libidica ai desideri infantili rimossi. Questi, in tal modo, acquisiscono un aumento di carica per la quale possono infrangere la barriera della rimozione e dare origine ai sintomi nevrotici. Nel caso di regressioni narcisistiche si può avere lo sviluppo di patologie del carattere o di psicosi. Arlow e Brenner (1964) riconoscono, inoltre, una regressione filogenetica e una regressione biogenetica. La prima si riferisce ad una regressione ai fenomeni della vita psichica che rappresentano l’eredità arcaica dell’uomo, quella della specie, innata nella psiche individuale. Questo tipo di regressione è stata chiamata in causa da Freud (1914) per spiegare ad esempio l’insorgere dell’angoscia di castrazione anche in quei soggetti che non avevano mai sperimentato nessuna reale minaccia di questo tipo. La regressione biogenetica, invece, è un concetto usato per spiegare alcune funzioni o difese dell’Io, quali ad esempio alcuni stati di trance o di stupore, correlabili a riflessi istintivi presenti in alcuni tipi di animali. Come ho in precedenza affermato, alcune riflessioni di Freud, a proposito dell’apparato del linguaggio, mi sembrano possano essere state anticipatrici del concetto di regressione nelle varie forme elencate da Arlow e Brenner (1964). In effetti, essa può essere intesa, in un certo senso, come un’inter-
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ruzione delle connessioni associative che isolano un processo psichico e non gli consentono di svilupparsi liberamente all’interno dell’apparato psichico. In tal modo l’unico percorso possibile resta limitato a quello connesso all’uso di “vecchie” vie. Uno dei modi in cui una perdita di capacità associativa porta alla regressione e all’uso di “vecchie vie”, è da Freud (1892-1895) descritto negli Studi sull’isteria. Egli inizialmente indicò il nucleo patogeno dell’isteria proprio nella dissociazione del “gruppo psichico”: un insieme di idee e di affetti ad esse connesse perde le sue associazioni con il resto della coscienza (perché tale gruppo ideo-affettivo è contrario ai restanti contenuti della coscienza e suscita in essa “repulsione”) e viene a costituire un “gruppo psichico” isolato, costretto a svolgere la sua attività nell’inconscio. Tali idee caricate di affetto andrebbero, quindi, incontro ad una regressione topica, essendo impedito un loro percorso verso la coscienza, ma anche temporale e pulsionale, poiché nell’inconscio sono presenti desideri infantili diretti verso gli oggetti arcaici.
Ogni cosa a suo tempo Ne L’interpretazione delle afasie Freud (1891) propone alcune considerazioni sulla temporalità e sulla scansione temporale relativa alla comparsa delle funzioni linguistiche. Egli, oltre ad utilizzare il concetto di evoluzione-disinvoluzione di Jackson, sul quale ritornerò in seguito, ha ripreso alcune osservazioni di Grashey (1885). Questo autore aveva osservato come fosse necessario un certo ammontare di tempo per la formazione della parola. La rappresentazione di parola, cioè, si costituisce diacronicamente contrariamente a quella d’oggetto (prevalentemente visiva) che si costituisce sincronicamente. Quindi l’afasia può essere dovuta al fatto che oggetti o concetti non possono essere più denominati perché non possono essere registrati e ricordati sufficientemente a lungo. Inoltre, nell’osservare come nelle patologie del linguaggio non di rado si verificano condizioni in cui l’attività di un “centro” viene sostenuta da un altro “centro” ad esso associato, Freud afferma che la patologia dei disturbi del linguaggio ripete semplicemente uno stato che è presente normalmente durante l’apprendimento delle funzioni linguistiche, ribadendo che tale apprendimento è legato all’ordine gerarchico esistente tra “centri”, ordine a sua volta connesso ad una specifica temporalità: “centri” diversi iniziano la loro funzione in tem-
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pi diversi. Inoltre, l’apprendimento del linguaggio risente di diverse direzioni associative alcune delle quali possono essere attivate preferenzialmente in determinati soggetti, mentre altre vengono preferite e quindi maggiormente attivate in altri individui. Questa tesi contrasta con quella di Charcot per il quale un privilegio accordato ad alcune direzioni associative non esiste. Secondo questo autore è l’esercizio o l’organizzazione individuale a fare di un elemento linguistico un punto di coesione per gli altri. Napolitano (2010) nota come qui Freud insista sul valore dell’ontogenesi per la comprensione del funzionamento dell’apparato del linguaggio mettendo in luce, appunto, come questo concetto apra alla trasformazione del concetto jacksoniano di disinvoluzione nel concetto psicoanalitico di regressione. Anche la tesi della continuità tra normalità e patologia, implicita nel riferimento di Freud al fatto che la patologia del linguaggio ripete il percorso di apprendimento delle funzioni linguistiche, sembra puntare nella direzione della regressione del funzionamento psichico a stadi precedenti attivi in specifici momenti di apprendimento linguistico. Analogamente, quando Freud osserva che l’incapacità di lettura viene preceduta da un tentativo di compitare per breve tempo riuscito, egli propone che l’elemento visivo danneggiato è ancora capace di prestazioni più semplici, quali l’associazione delle immagini visive con quelle acustiche o cenestesiche, ma non può più effettuare l’iterazione e il corretto ordinamento nel tempo di queste prestazioni. Queste riflessioni, dunque, mostrano come l’apparato del linguaggio possa andare incontro a forme di regressione temporale, connesse anche al radicamento del linguaggio nelle funzioni del corpo: la parola si forma a partire da componenti senso-percettivo-motorie; la rappresentazione di parola si costituisce per associazioni di immagini la cui costruzione parte da ciò che colpisce gli organi di senso (l’immagine della parola udita) e dal ritorno cenestesico dell’azione muscolare compiuta nell’emissione della parola parlata o, nella scrittura, della parola scritta. Del resto, Freud nel Progetto di una psicologia (1895) afferma che la parola è un’azione motoria specifica, ribadendo in tal modo il legame tra il linguaggio e gli apparati del corpo. Se la parola incontra un ostacolo alla sua funzione di scarica energetica “controllata” (perché utilizzata sul piano simbolico e non in modo immediato e “ad arco riflesso”), essa può ritornare a funzionare su un piano temporalmente più antico, proprio a causa delle sue radici somatiche: un ritorno al corpo che può condurre a patologie che giacciono su un piano comunque ancora simbolico (come nel caso
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della nevrosi isterica, dove il sintomo corporeo partecipa al “discorso” della malattia e anche al discorso analitico, come Freud stesso afferma (Freud, 1892-1895) ma anche su un piano in cui il corpo è più direttamente implicato e il sintomo perde del tutto o in parte il suo legame immediato con il simbolico, come accade nelle forme più gravi di patologia. Del resto, il legame tra sistemi linguistici e corpo viene evidenziato anche da Chomsky (1957, 1968) nella misura in cui egli parla di un sistema di competenze linguistiche universale e innato. Questo processo di estrazione del simbolico dalla materia del corpo viene compiuto mediante l’operazione di legame, via via sempre più complessa, tra la parola stessa e le rappresentazioni d’oggetto costruite dai sensi del corpo e depositate nei sistemi di memoria, non solo in quel sistema di memoria che ci consente di esplicitare, dichiarare, significare qualcosa di noi stessi e delle nostre relazioni (la memoria dichiarativa), ma anche di quel sistema mnestico che ci consente di conservare nel corpo, in modo implicito (la memoria procedurale), l’esperienza vissuta ma non ricordata (Scalzone e Zontini, 2006), conosciuta non pensata (Bollas, 1989). In un campo più vicino a quello psicoanalitico, possiamo notare come la questione del legame linguaggio-corpo sia stata ripresa a vario livello. Freud stesso (1915a) ha introdotto il concetto di linguaggio d’organo a proposito dell’ipocondria o meglio del “tratto” ipocondriaco come elemento più generale delle patologie narcisistiche. Questo concetto è stato sviluppato sia nel senso di ritrovare in esso un punto di riduzione della dicotomia mente-corpo attraverso il riferimento alla fonte comune delle sensazioni corporee e degli usi linguistici (Chiozza, 1991), sia nel senso di presupporlo come punto di partenza del processo di simbolizzazione o, al contrario, di suo arresto nel mutismo del corpo (Green, 1991). Il sintomo del corpo, isterico, ipocondriaco, somatico in generale, perciò, riporta con un movimento regressivo il linguaggio alla sua origine somatica.
Da un sistema all’altro Un accenno alla regressione sistemica si può ritrovare nell’osservazione che Freud (1891) propone nel suo studio afasiologico allorché sostiene che le parafasie osservate in alcuni pazienti in nulla differi-
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scono da disturbi di linguaggio analoghi osservabili in soggetti sani in casi di affaticamento, di attenzione divisa, di interferenza di affetti disturbanti. Nella teorizzazione psicoanalitica successiva, Freud sembra richiamare queste osservazioni quando parla della funzione regressiva sistemica fisiologica della parola ne Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905). In questo scritto egli mostra come la parola può produrre la scarica di un elemento pulsionale, libidico od ostile, proveniente dall’inconscio nelle forme fisiologiche del motto di spirito o del lapsus, che ne consentono in tal modo l’accesso alla coscienza. Inoltre, un percorso regressivo dalla coscienza all’inconscio, connesso all’attenzione divisa, si può rinvenire negli stati secondi degli isterici o, nelle forme più “gravi”, nella scissione dell’Io. Della regressione all’inconscio di elementi psichici a causa dell’interferenza di affetti disturbanti si è già parlato a proposito della dissociazione del “gruppo psichico” nell’isteria. Allo stesso modo anche il riferimento (critico) di Freud alle afasie amnestiche proposte da altri studiosi dei disturbi afasici, sembra precorrere il suo concetto di rimozione del ricordo di fantasie infantili dirette ad oggetti arcaici (assumendo qui però anche un aspetto di regressione temporale). La regressione sistemica, comunque, sarebbe specialmente evidente nei disturbi nevrotici: le parafasie isteriche o l’uso di certe particolari espressioni linguistiche adottate dai pazienti nevrotici, in cui, però, talvolta si assiste anche ad una forma di regressione comunicativa “temporale” cioè connessa all’uso del linguaggio corporeo, ne costituiscono delle forme. Un esempio dell’uso di una particolare espressione linguistica è il «non mi tocchi» di Emmy von N. Questa produzione linguistica, dice Freud, era una formula protettiva rispetto alla possibilità di muoversi o di far rumore connessa al periodo in cui la paziente vegliava la figlia ammalata: Emmy si sentiva sollevata dal fatto che la figlia dormisse e temeva di disturbarne il sonno con movimenti o suoni. La formula verbale aveva, perciò, un valore protettivo (inconscio) rispetto a questi eventi. Un altro esempio di regressione linguistica per esprimere un elemento inconscio si ritrova nella descrizione di Freud (1909) della difficoltà dell’Uomo dei topi di riferire in seduta le sue sensazioni e fantasie circa il supplizio dei ratti. Il paziente prega Freud di risparmiargli la descrizione del supplizio (poiché esso era connesso non solo all’orrore ma anche al piacere anale) e solo a fatica pronuncia la parola “ano” e solo dopo averne tentato la sostituzione con un
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linguaggio temporalmente più arcaico, quello del corpo. Come Freud stesso dice, osservando il paziente nel frattempo alzatosi dal divano: «In tutti i momenti più importanti del racconto osservo sul volto del paziente un’espressione singolarmente composita, che posso spiegare soltanto come orrore di un proprio piacere a lui stesso ignoto» (Freud, 1909, p. 16). Tuttavia l’elemento di stabilizzazione topica (e quindi anche di possibilità di regressione topica) legata alla funzione della parola è messo in luce soprattutto da Lacan, nel suo concetto di topica dell’immaginario. Una delle funzioni del linguaggio, come si è prima accennato, è quella di associare immagini (rappresentazioni d’oggetto e rappresentazioni di parola) per giungere a quelle che noi definiamo rappresentazioni simboliche. Lacan (1954), per illustrare questa topica, ha introdotto l’esperimento del vaso di fiori rovesciato nello schema ottico (fig. 1). Esso mostra come si struttura l’immagine integrata del corpo a partire dalla quale ogni soggetto umano prende coscienza del suo corpo come totalità e accede ad una padronanza reale di esso prima della maturazione e integrazione effettiva delle funzioni senso-percettive e motorie.
Figura 1
È la teoria dello stadio dello specchio, cui questo esperimento si riferisce: la sola vista della forma totale del corpo umano dà al soggetto una padronanza immaginaria del proprio corpo, prematura rispetto
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alla padronanza reale. In questo riflettersi in un’immagine che è altro da sé si gioca e si struttura l’intera vita fantasmatica successiva. Questa sistemazione immaginaria del sé come integrato in un’immagine unica rappresenta un’evoluzione rispetto ad un sé reale che si costituisce in modo frammentato per espulsione da sé di ciò che viene concepito come un primo esterno, forse il processo di Aufstossung, cioè di esclusione di ciò che è frustrante e che per ciò stesso, come Freud afferma (1925) viene concepito come non-sé. Questo processo di espulsione, comunque, contribuisce alla formazione di un Io primordiale, un sé ancora frammentato e tuttavia già almeno parzialmente separato dal non-sé. A partire dalla sostituzione dell’Io primordiale frammentato con la prima immagine integrata del soggetto (che si forma in relazione alla sua posizione speculare rispetto all’altro) diviene possibile inquadrare in modo più completo e integrato ciò che appartiene all’Io e ciò che non gli appartiene. L’immaginario può così includere il reale e formarlo. Ma ciò è possibile solo se l’occhio di chi (si) guarda allo specchio è all’interno del cono di raggi luminosi che emanano dal corpo e ritornano indietro, dallo specchio verso l’occhio, in modo convergente. Se l’occhio è al di fuori di questo cono, l’immagine di sé apparirà deformata fino ad essere confusa e inafferrabile. L’immaginario non sarà più visibile perché nulla del cono d’emissione verrà a colpire l’occhio. Le cose, come pure l’immagine stessa di sé, saranno viste nel loro stato reale, nudo. Quindi, nel rapporto dell’immaginario e del reale tutto dipende dalla posizione del soggetto, posizione determinata dal suo posto nel mondo simbolico della parola e quindi dal posto che egli occupa rispetto all’altro. È la parola, la funzione simbolica che definisce la posizione del soggetto come colui che vede, che definisce il grado di maggiore o minore perfezione, completezza, approssimazione all’immaginario. A partire da questa costruzione immaginaria Lacan (1954) propone la distinzione tra Ideale dell’Io e Io Ideale. L’Io Ideale si costituisce nella relazione immaginaria con l’immagine di sé: esso rappresenta quella completezza anticipata del soggetto che precede la maturazione biologica integrativa delle funzioni del corpo; il soggetto si vede idealmente come completezza laddove essa non è ancora presente sulla scena biologica del corpo. È in questo senso che l’Io può diventare Io Ideale (Lacan, 1954). L’Ideale dell’Io, al contrario, si struttura nel gioco delle relazioni con l’altro, da cui dipende il carattere più o meno soddisfacente della strutturazione immaginaria. Nella strutturazione
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immaginaria gli oggetti reali (il mondo esterno, il corpo) passano attraverso l’intermediario dello specchio (Lacan, 1949) e mediante esso si trovano allo stesso posto dell’oggetto immaginario. È l’immagine che viene ad essere investita dalla libido. Se il suo investimento resta sul piano dell’immaginario, dell’Io Ideale, l’investimento libidico resta nell’ordine del narcisismo, se esso avviene al livello dello scambio simbolico con l’altro, a livello della legge simbolica strutturante le relazioni interumane, a livello dell’Ideale dell’Io, allora si pone sul piano della libido oggettuale. Quindi la parola costituisce nella teorizzazione lacaniana, molto schematicamente qui riportata, l’elemento che consente il corretto montaggio dell’immagine del corpo come corpo integrato e la corretta costruzione dell’Ideale dell’Io (un’istanza che Lacan descrive come portatrice della legge simbolica del legame con l’altro umano, allo stesso modo del Super-io freudiano), funzionando, cioè, come elemento che determina la corretta associazione tra aspetti disgregati del corpo fino, appunto, a costruirne un’immagine integrata, e tra l’immagine del corpo e l’immagine dell’oggetto esterno secondo regole di relazione imposte dall’ordine simbolico in cui ogni soggetto umano è immerso. In questa concettualizzazione si vede molto bene come alterazioni della funzione simbolica della parola possano condizionare regressioni topiche, determinando strutturazioni psichiche di tipo, appunto, narcisistico. Proprio per la prevalenza di assetti psichici narcisistici questo tipo di regressione può essere considerata anche di natura pulsionale.
Fare i conti con l’economia libidica Un antecedente della regressione pulsionale (in particolare circa l’elemento economico della pulsione) potrebbe essere supposto dal riferimento di Freud (1891) ne L’interpretazione delle afasie all’ipotesi dei tre gradi di ineccitabilità dei “centri” del linguaggio proposta da Bastian. Secondo questo autore, i “centri” del linguaggio potevano essere 1) non più efficienti, 2) efficienti solo su stimolazione sensoriale, 3) efficienti solo in associazione con un altro centro. Freud utilizza questa ipotesi per sostenere la tesi del cambiamento funzionale: l’apparato del linguaggio reagisce a lesioni non direttamente distruttive in maniera solidale, con un cambiamento funzionale.
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Dunque, un’inefficienza di tipo energetico-economico può condizionare, in situazioni patologiche, alterazioni della funzione del linguaggio così come, nella teoria psicoanalitica successiva, alterazioni pulsionali di tipo quantitativo e qualitativo possono condizionare forme di regressione pulsionale. A questo proposito, vorrei ricordare come Freud (1891) sottolinei che la funzione comunicativa del linguaggio risiede soprattutto nel desiderio (nella spinta pulsionale) di parlare. Il linguaggio, cioè, ha un effetto di legame dell’eccitamento somato-psichico e di gestione della pulsione e del desiderio. Pulsione e desiderio possono, perciò, essere gestiti mediante un’economia più regressiva di scarica, oppure possono essere gestiti mediante forme di legame più simboliche, una delle quali è connessa all’uso del linguaggio. Relativamente a queste considerazioni, Rizzuto (1988) afferma che nella relazione madre-bambino si stabiliscono dei modelli di comunicazione che, inizialmente, si formano in una “conversazione” tra corpi: questi modelli comunicativi costituiti da rituali, azioni e comportamenti divengono modalità di costruzione di un contatto emozionale tra la madre e il bambino che assicura al bambino la possibilità di essere compreso e accettato nella sua realtà. A partire dalla stabilità e dalla sicurezza di questi primi modelli comunicativi il soggetto può cominciare a costruire uno stabile senso di sé e le prime rappresentazioni di oggetto. Si costituiscono, così, i primi precursori dell’Io e del Super Io (in quanto lo scambio comunicativo già a livello pre-verbale, contiene anche elementi di “regole” e “istruzioni”, di contenimento, regolazione, conforto, etc.). Come si è già in precedenza accennato, l’efficacia comunicativa già a partire dalla sua matrice pre-verbale coopera alla costruzione del senso di onnipotenza infantile che consente al bambino di “registrarsi” come Io ideale (Lacan, 1954). Il fallimento dei primi scambi comunicativi, al contrario, genera un senso di impotenza, soprattutto nella relazione comunicativa con l’altro, che può indurre il soggetto alla dissociazione, a livello del linguaggio una volta che questo è acquisito, tra la funzione cognitiva della parola e la sua funzione di comunicazione emozionale. Quando ai modelli pre-verbali di scambio comunicativo si affianca l’acquisizione del linguaggio si ha un completamento e un affinamento in senso simbolico della funzione di comunicazione in generale e di comunicazione affettiva in particolare. Il linguaggio viene, così, impli-
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cato nella formazione di strutture psichiche mediante l’organizzazione di affetti corporei in comunicazioni rappresentabili, nella progressiva modulazione e trasformazione delle rappresentazioni del sé e dell’oggetto e delle richieste dell’Ideale dell’Io e del Super Io, nella capacità di tollerare gli affetti spiacevoli, nella capacità di autoregolazione e conforto mediante l’internalizzazione di gesti, suoni e parole. Esso collabora, perciò, alla costruzione di rappresentazioni e strutture psichiche che rendono gli affetti gestibili e tollerabili mediante la modulazione del loro ammontare economico. Lo stesso Freud (1922) in l’Io e l’Es, suggerisce che le origini dell’Io e del Super Io sono da ricercare nelle parole udite, insieme con le prime rappresentazioni dell’Io ideale. Talvolta, però, si possono verificare delle alterazioni dei primi pattern comunicativi di tipo prevalentemente non verbale tra madre e bambino, come può accadere, ad esempio, all’interno di una relazione primaria con una madre non rispondente o incapace di contatto con il bambino reale e sentita come capace di intrattenere scambi affettivi solo con il bambino “perfetto”. Queste alterazioni possono avere importanti ricadute sul senso di sé del bambino e sulla sua capacità di usare la sua esperienza interna di sé per l’acquisizione delle successive competenze simboliche e linguistiche, soprattutto quelle collegate all’uso comunicativo del linguaggio. L’uso del linguaggio in questi soggetti, cioè, sarebbe limitato soprattutto ad una funzione difensiva per nascondere elementi dell’esperienza affettiva interna. Ciò li priva della funzione autoregolativa, di conforto, integrativa e sublimatoria del linguaggio circa la comunicazione affettiva. Rizzuto mostra anche come, a livello clinico, il parziale fallimento nel raggiungere una competenza linguistica comunicativa degli stati affettivi (cioè di gestione economico-pulsionale del desiderio rivolto all’altro) può costituire una componente determinante per il sorgere di disturbi psichici “gravi”. Il paziente “grave” mostra soprattutto attenzione alla comunicazione non verbale o ad aspetti non immediatamente semantici di essa, inclusi i segnali non verbali provenienti dall’analista (tono di voce, ritmo e modo di parlare, espressioni del volto, gesti, etc.). Tali pazienti sembrano, inoltre, mostrare una notevole difficoltà nell’uso del pronome “io”, non nel senso di un suo uso grammaticale e sintattico, ma nel senso di un suo uso affettivo, come riferimento a sé stessi in quanto soggetti affettivi della propria esperienza. Si verificherebbe in tal modo una forma di dissociazione delle normali componenti
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del linguaggio: questi pazienti sarebbero, cioè, in grado di usare correttamente il linguaggio, ma non avrebbero alcuna fiducia nella sua capacità comunicativa. In altre forme di disturbo psichico, può accadere che il linguaggio acquisisca una funzione criptonimica, contribuendo in tal modo ad un funzionamento regressivo dell’apparato psichico: in questi casi la parte della funzione linguistica che ha subito questa trasformazione contribuisce non alla costruzione di strutture psichiche o all’espressione, modulazione e tolleranza degli affetti, ma partecipa piuttosto alla dissoluzione di funzioni psichiche, soprattutto per ciò che concerne la capacità di esprimere o modulare il desiderio e l’affetto, cioè la sua gestione economica. Secondo la teorizzazione di Abraham e Torok (1976) una cripta, un luogo scisso e isolato dal resto dell’apparato psichico, si costituisce all’interno di esso per motivi traumatici pre-verbali. La scena traumatica insieme con le forze libidiche che di essa fanno parte, forze spesso contraddittorie, viene incorporata in un luogo dell’Io escluso dal resto del funzionamento psichico, una cripta. L’incorporazione è il meccanismo principale di questo processo. Essa si attiva quando l’introiezione fallisce, cioè quando alla perdita dell’oggetto esterno non subentra una funzione simbolico-rappresentativa che ne consente l’accoglimento nell’Io attraverso la sua rappresentazione, insieme con gli elementi pulsionali che ne hanno determinato l’importanza per il soggetto. Quando, appunto, questo meccanismo fallisce interviene l’incorporazione che è piuttosto una risposta economica e non anche dinamico-rappresentativa alla perdita dell’oggetto-piacere, che viene conservato come se fosse l’oggetto reale, probabilmente nella sua forma sensoriale-sensuale, come insieme di tracce percettive che non comunicano mediante elementi linguistici e simbolici ma tacciono o si esprimono per mezzo di linguaggi diversi da quello verbale (per esempio l’allucinazione o il delirio come nel caso dell’allucinazione del dito tagliato dell’uomo dei lupi [Freud, 1914], un modo per raffigurarsi la castrazione non in termini rappresentativo-simbolici, ma in termini sensoriali e corporei, allucinatori). Quando si forma una cripta, l’Io si identifica con l’oggetto-piacere conservato nella cripta stessa, ma in modo immaginario e occulto. L’attività simbolica dell’Io, che implicherebbe una controparte simbolica inconscia per potersi continuamente ricostruire mantenendo così la sua unitarietà, si frammenta. Non si tratta qui di una frammentazione quale quella che colpisce l’unità immaginaria somato-psichica preverbale che poi
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consente la separazione del soggetto dall’altro e la costruzione delle topiche psichiche, ma di una frammentazione del simbolico in cui è coinvolta anche la parola. La cripta diviene, così, il luogo della parolacosa esclusa, del non simbolizzabile, che deve significare che un evento (traumatico) non è mai avvenuto. Subentra al linguaggio verbale un linguaggio più arcaico, quello del corpo, dell’organo e delle funzioni d’organo. La parola-cosa (con tutti i suoi elementi di sensorialità/sensualità) conservata nella cripta non può entrare nella linea continua di una spiegazione che comporti un risalire agli elementi inconsci, ma resta conservata, inalterata e inalterabile. Essa riporta alle sue fonti preverbali, a quel linguaggio arcaico del corpo, degli organi e dei sensi cui sopra si accennava, oppure appare come insieme di immagini da decifrare come un rebus, o si manifesta per traduzioni anasemiche, usando assonanze fonetiche con altre parole di altre lingue o della stessa lingua o per frammenti di frase o di parole. È, comunque, una parola destituita della sua funzione comunicativa e simbolica, poiché non designa il desiderio attraverso il divieto come nella rimozione isterica, né simbolizza più l’oggetto assente. Il linguaggio, infatti, compare quando la bocca resta vuota dell’oggetto. Il vuoto dà luogo prima a grida e pianti e poi a parole in modo tale che la presenza dell’oggetto può cedere il posto ad un’auto-apprensione e ad una gestione della sua assenza. Il linguaggio che supplisce questa assenza figurando la presenza può essere compreso solo all’interno di una comunità di “bocche vuote” (Derrida, 1976). In tal modo la cavità orale gioca un ruolo paradigmatico nell’introiezione, in quanto luogo silenzioso del corpo che diviene parlante solo per supplementarità. Il fantasma di incorporazione, al contrario, realizza la metafora orale che precede l’introiezione, introducendo un oggetto “reale” nel corpo: incapace di articolare la parola proibita, la bocca prende in sé la cosa innominabile. La parola-cosa conservata nella cripta diviene un criptonimo; essa non si rivela per spostamento metonimico o per metafore, ma per sinonimia, per immagini del corpo, per scivolamenti anasemici che avvengono per associazioni non di tipo semantico ma fonetico, che costituiscono parole o frammenti di parola come “cose” sonore o visibili. Il criptonimo, così, diviene la traccia di un evento mai stato presente, una parola-cosa che non costituisce una rappresentazione di parola dell’Inconscio, né una rappresentazione di parola che investe una traccia mnestica. Non si può riconoscere in esso né una parola, né una cosa. E’ una sorta di parola muta.
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Quindi, quando nell’Io si forma una cripta, l’Io stesso si scinde, poiché la rimozione conservatrice fondata sull’incorporazione non può conservare la topica psichica, ma funziona escludendo dalla coscienza un “blocco di realtà” che non può essere sottoposta a trattamento simbolico, poiché ciò che fa trauma resta come tale, inelaborato, nello psichismo. Si forma, così, una enclave all’interno dell’apparato psichico, che a sua volta condiziona la scissione dell’intero apparato, che lo costringe ad una gestione economica della realtà traumatica, mediante il ricorso all’inibizione o alla scarica. Siamo qui nell’ambito di una topica psichica che non è più quella postulata da Freud (1899, 1922), ma è piuttosto una topica “economica” centrata intorno al meccanismo della scissione (Laplanche, 2004; Dejours, 2001). Queste considerazioni teoriche mostrano, a mio avviso, l’importanza della parola nella gestione economica e come le sue alterazioni e i suoi deficit di sviluppo, nel senso astrattivo-simbolico, condizionino la regressione pulsionale dell’apparato psichico.
Ancora più indietro Un accenno alla regressione filogenetica (ma probabilmente anche biogenetica) può essere forse ritrovato nell’osservazione di Freud (1891) che la comprensione della parola non può essere concepita come un semplice trasferimento degli elementi acustici a quelli dell’associazione oggettuale; nell’ascolto di un discorso accompagnato da comprensione piena gli elementi acustici stimolano l’attività associativa verbale sicché, in qualche modo, si ripete interiormente quanto è stato udito. La comprensione, perciò, poggia sulle nostre sensazioni di innervazione del linguaggio. Ora, a questo proposito, Napolitano (2010) nota che l’importanza che Freud annette alla connessione tra vie uditive e motorie potrebbe trovare un interessante risvolto nelle attuali ricerche neurofisiologiche sui mirror neurons. Questa popolazione neuronale è stata scoperta e studiata nei primati non umani. In alcuni studi neurofisiologici si è visto che essa si attiva ogni volta che l’animale sottoposto ad esperimento compie un’azione ma anche quando esso osserva un’azione compiuta da un animale conspecifico, specie se questa ha uno scopo comunicativo. Ora, i mirror neurons nelle specie animali studiate si trovano in aree cerebrali simili a quelle che nell’uomo si trovano in vicinanza dell’area di Broca, sede nella specie umana di importanti funzioni connesse al
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linguaggio. Questi studi potrebbero forse supportare il concetto di regressione filogenetica: l’abilità linguistica dell’uomo potrebbe situarsi in una continuità filogenetica con le abilità motorie a contenuto comunicativo di altre specie animali da cui potrebbe essere emersa attraverso meccanismi selettivi. Strutture neuronali che avevano specifici scopi in una determinata specie possono aver acquisito nel corso dell’evoluzione nuovi scopi in un’altra specie, quale quella umana. In effetti, la funzione comunicativa svolta dal sistema dei mirror neurons nei primati non umani e la funzione comunicativa linguistica tipica dell’uomo sono entrambe sostenute dalla corteccia premotoria. Ciò darebbe conto anche della persistenza nell’uomo della gesticolazione che ancora oggi accompagna il linguaggio verbale (Napolitano, 2010). Altri studi hanno evidenziato l’importanza del legame gesto-linguaggio e la significatività della vicinanza dell’area cerebrale in cui sono presenti i mirror neurons nei primati non umani all’area di Broca presente nel cervello umano. Corballis (2002), ad esempio, sottolinea, in uno studio riguardante il rapporto tra funzione linguistica e destrimanità nella specie umana, come il linguaggio verbale si sia evoluto non dalle prime vocalizzazioni (che avrebbero solo il valore di comunicazione di uno stato emotivo), ma da quello gestuale. Egli sostiene che le prime vocalizzazioni, il cui sviluppo precede nella specie umana quello della destrimanità, probabilmente avevano solo lo scopo di trasmettere uno stato emozionale. Il linguaggio, perciò, secondo questo autore, si è evoluto non da esse, ma a partire dal gesto (comunicativo), incorporando poi gradualmente le espressioni vocali. Questa successiva incorporazione delle espressioni vocali, probabilmente dovuta ad uno sviluppo e ad un’evoluzione delle funzioni dell’area di Broca, potrebbe aver determinato nella specie umana la destrimanità. Questa ipotesi di Corballis si fonda anch’essa sugli studi neurofisiologici, condotti nei primati non umani, che hanno portato alla scoperta dei mirror neurons. Infatti, anche nell’uomo è stata ipotizzata l’esistenza di un’area corticale, simile a quella che nei primati non umani contiene i mirror neurons, che si troverebbe vicino all’area di Broca, area implicata nell’articolazione motoria della parola. Ciò potrebbe supportare l’idea che anche nell’uomo la comunicazione sia stata inizialmente gestuale, a partire da una funzione di rispecchiamento imitativo nel gesto intenzionale dell’altro. Il linguaggio verbale, perciò, secondo Corballis, si sarebbe evoluto da quello gestuale, piuttosto che dalle prime vocalizzazioni. Queste, come si è già detto, sarebbero state aggiunte solo successivamente al gesto.
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Questa associazione “primaria” tra aspetti manuali e vocali della comunicazione sarebbe alla base della preferenza per l’uso della mano destra nell’uomo. L’area di Broca sarebbe il luogo di questa integrazione tra funzionamenti manuali e vocali e ciò avrebbe consentito all’asimmetria vocale di generare anche un’asimmetria manuale, determinando la destrimanità nell’uomo. In ogni caso, il linguaggio è sempre accompagnato da movimenti del volto e delle mani che modulano il significato di ciò che viene detto e possono persino prendere il sopravvento sul linguaggio parlato quando questo è impedito o ridotto per motivi patologici. L’asimmetria connessa all’aspetto motorio del linguaggio sarebbe, inoltre, collegata al fatto che la comunicazione linguistica è programmata secondo pattern temporali e non spaziali come avviene per il gesto che interagisce direttamente con l’ambiente esterno. Altri studi hanno messo in evidenza le alterazioni comunicative gestuali e verbali proprio in soggetti affetti da disturbi afasici. In questi pazienti l’alterazione della funzione linguistica può essere di tipo puramente lessicale oppure può essere di tipo concettuale. Nel primo caso, il linguaggio gestuale, specialmente quello iconico, cioè ad elevato contenuto semantico, aumenta proporzionalmente alla perdita lessicale, assumendo, così, la maggior parte della funzione comunicativa perduta a livello del linguaggio astratto. Nel secondo caso, invece, si assiste ad una riduzione sia del linguaggio parlato sia di quello gestuale, mostrando in tal modo come la perdita della capacità di formare concetti implichi la perdita della capacità comunicativa in senso generale, sia a livello di linguaggio corporeo sia a livello di linguaggio propriamente detto (Carlomagno e Cristilli, 2003). La regressione filogenetica dunque può essere condizionata dalla perdita di schemi comunicativi linguistici che rende necessaria l’attivazione di schemi comunicativi più primitivi e meno simbolici, presenti in un momento precedente dell’ontogenesi o nelle memorie arcaiche della specie o addirittura in memorie bio-genetiche risalenti a funzionamenti propri di altre specie. Come si è più sopra affermato, già Lacan (1954) ha ipotizzato un primo momento di separazione del soggetto dall’altro, che si attiverebbe anche prima della comparsa di un’immagine integrata del Sé. Questa prima separazione può essere ascritta alla rimozione originaria e quindi alla costruzione della fantasmatica originaria? Probabilmente sì, se la rimozione originaria può essere concepita come conseguenza dell’attivazione di un montaggio di schemi primitivi innati,
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a partenza corporea, che riguardano la senso-percezione e la motilità, forse schemi di avvicinamento-allontanamento, unione-separazione, sensazione piacevole-spiacevole. L’attivazione di questi primi schemi innati, forse comporta lo scavo dell’unione primaria corpo a corpo madre-bambino e quindi la messa in funzione della rimozione originaria e la conseguente costruzione della fantasmatica originaria, mediante operazioni traduttive ricorsive, i cui codici e regole di traduzione sono probabilmente anche da ritenersi innati e universali, sempre più complesse e a carattere sempre più simbolico. Queste operazioni, costituiscono infine schemi interpretativi inconsci, forse assimilabili a quelli che Freud (1915b) ha chiamato fantasie primarie, attribuendo ad essi un senso universale (Conrotto, 2011). Tali schemi sarebbero alla base di una “funzione generativa trasformazionale” (Conrotto, 2011) che si attiverebbe già a partire dalle senso-percezioni interne ed esterne come quelle visive e uditive, comprese naturalmente quelle verbali, anche prima che il linguaggio verbale possa essere appreso e usato. Così come Chomsky (1957, 1968) ipotizza una capacità congenita di sviluppare il linguaggio, e quindi il pensiero, a partire dall’esistenza potenziale di una grammatica generativa trasformazionale innata (grazie alla quale gli esseri umani sono capaci di generare frasi dotate di senso e di trasformarle mediante leggi di natura innata), allo stesso modo questa grammatica interpretativa innata dei dati provenienti dal corpo consentirebbe la costruzione di un primordiale senso di sé. Probabilmente a questa capacità potenziale traduttivo-interpretativa si riferisce il concetto freudiano di identificazione primaria con il padre della propria personale preistoria, identificazione che De Mijolla (2002) definisce “ontologica” forse proprio per questo effetto di fondazione di un primo senso di sé. Naturalmente, come è vero per ogni innatismo, l’ambiente esterno in cui il bambino si trova a svilupparsi è determinante per il corretto funzionamento di questo potenziale innato. Infatti, un’ulteriore organizzazione di questi schemi traduttivi innati, che consente una sempre maggiore individualizzazione, è legata all’intervento dell’ambiente: la fissazione dello sguardo infantile nello sguardo materno, fissazione che, come si è più sopra accennato, potrebbe costituire un primo passo verso la costruzione immaginaria del corpo come immagine integrata di sé (la topica dell’immaginario di cui parla Lacan) è un elemento centrale per la costruzione del senso di sé. Essa costituisce la base somatica, sensoriale e infine sessuale in
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cui si colloca l’eccitamento e in cui la funzione di “attrattore” è svolta dallo sguardo. Tuttavia, penserei che non il solo sguardo svolge questa funzione basilare per lo psichismo, ma che ad essa vada aggiunta la voce materna e la sua capacità di rispondere al richiamo del bambino. Si tratterebbe quindi non solo di rispecchiamento (Winnicott, 1971), ma anche di coralità tra madre e figlio. C’è, tuttavia, una differenza tra il rispecchiamento del bambino nello sguardo della madre e il loro risuonare in coro, come eco, come dissonanza. Infatti la funzione di specchio dello sguardo si fonda su una contemporaneità della presenza della madre e del figlio, mentre la risposta sonora funziona come un asse che prevede l’avvicinamento e l’allontanamento, la presenza contemporanea e l’esistenza ad una certa distanza, favorendo in tal modo lo svuotamento dello spazio fusionale che prelude alla separazione e al riconoscimento dell’indipendenza dell’oggetto. Se così fosse, perciò, schemi innati di organizzazione senso-percettivo-motoria e schemi innati linguistico-comunicativi contribuirebbero entrambi alla messa in moto della rimozione originaria, con la conseguente costruzione dei fantasmi originari, e di una prima individualità.
Conclusioni Vorrei concludere queste osservazioni ipotizzando che il parlare si colloca in un “punto virtuale strategico”, all’incrocio tra varie funzioni corporee e psichiche, tra corpo e mente, tra comunicazione con sé stessi e con l’altro. Esso può funzionare quindi in modo progressivo, come accade nel normale sviluppo infantile, oppure può condizionare funzionamenti regressivi dello psichismo, come ho cercato di mostrare in precedenza. La parola, perciò, porta con sé un anteriore di cui rappresenta un momento evolutivo: essa, ad esempio, sussume il linguaggio del corpo da cui, come ipotizza Corballis (2002) si è evoluta o dà voce e significato a memorie del passato dell’individuo, come accade ad esempio durante l’analisi di pazienti nevrotici, e persino della specie, come lo stesso Freud (1914) afferma nel caso dell’Uomo dei lupi. Questo anteriore, infine, si può spingere fino al corpo che rappresenta il luogo in cui si formano quelle che Lakoff (1986) chiama “metafore concettuali di base”. Questo autore afferma che la conoscenza del mondo esterno avviene attraverso il corpo, i suoi sensi e le sue azioni che modificano la realtà esterna. Tale conoscenza del mondo viene
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poi completata dalla riverberazione emotivo-cognitiva che la realtà ci rimanda a seguito del nostro agire in essa. Si formerebbero in tal modo le “metafore concettuali di base” derivate dalle transazioni sensitivo-motorie agite direttamente attraverso il corpo sugli oggetti dell’esperienza. Queste prime “metaforizzazioni” della conoscenza della realtà esterna verrebbero poi continuamente ri-codificate fino a costruire schemi interpretativi del mondo, via via sempre più astratti fino alla formazione del pensiero astratto e del linguaggio. Questa teoria di Lakoff prende il nome di embodied cognition proprio per sottolineare la partenza di ogni forma di conoscenza dai meccanismi fisiologici del corpo. Oppure essa può assumere una funzione economico-teleologica, in parte implicita nel fatto che il linguaggio è comunicazione e, come tale, tende a raggiungere un oggetto, ad esprimere desideri, non solo del passato ma che possono riguardare anche il futuro, e le molteplici possibilità. La parola, dunque, si muove tra molte temporalità e questo aspetto la rende una funzione importante coinvolta in movimenti sia regressivi che progressivi dell’apparato psichico. Il linguaggio, d’altronde, rappresenta una delle modalità attraverso le quali il particolare concetto di tempo in Freud (1895), l’après coup, acquista senso. L’après coup implica sia una relazione causale retrogressiva: un momento di sviluppo evolutivo dà significato ad un evento passato (traumatico?), sia una condizione progressiva per la quale un evento (traumatico?) il cui significato era rimasto latente fino ad un certo punto, diviene significativo in un momento futuro. È nella capacità della parola di generare significato, o forse universi multipli di significato, che ciò che è avvenuto in passato o che in passato ha assunto un certo significato, può essere risignificato, rivisto, riscritto (in un altro modo, in un’altra topica psichica, in un’altra forma espressiva, per esempio da linguaggio del corpo a linguaggio verbale), trasformato dal linguaggio. Ed è questa la trasformazione che ritroviamo nel transfert, altro elemento della cura analitica fortemente coinvolto in questa specifica temporalità. Ovviamente, la parola può anche bloccarsi, costruirsi come criptonimo, puntare ad un prima che non riesce a diventare un dopo. Gli esempi, riportati in precedenza, di perdita della comunicazione emotiva del linguaggio o di costituzione della parola-cosa muta nelle cripte in cui è incapsulato un trauma precoce o la comparsa di scambi verbali di tipo recitativo-discorsivo (Green, 1983) mostrano bene
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questa tendenza della parola a tornare ad un’anteriorità di cui non si può (ancora) propriamente o pienamente dire. Questo punto in cui il significato della parola si oscura, si mostra per un momento per poi offuscarsi, si inabissa nel sintomo corporeo, si svuota nell’iperlucidità di un discorso completamente compiuto, ma privo della sua controparte emotiva rappresenta ciò che ho proposto essere l’ombelico della parola. Sappiamo da Freud (1899) che l’ombelico del sogno è quel punto in cui esso affonda nell’inconscio, non tanto come inconscio rimosso, sede di desideri infantili rivolti ad oggetti arcaici, ma come Es, sede di elementi quantitativo-energetici. L’ombelico del sogno, in questo senso, può essere considerato come un’interfaccia virtuale posta tra il disordine dell’energia libera dell’inconscio e l’ordine rappresentativo della coscienza (Scalzone e Zontini, 2001). Ipotizzerei che anche la parola ha un suo punto ombelicale che giace in un punto di temporalità sospesa, a partire dal quale essa può evolvere verso la significazione o al contrario regredire al linguaggio del corpo, all’immagine, al suono, al mutismo, funzionando anch’essa da interfaccia virtuale tra subsimbolico e simbolico. Lalingua di Lacan (1972) può essere un esempio di questo movimento regressivo del linguaggio. Lalingua, infatti, non è una struttura né di linguaggio, né di discorso. Il fatto che Lacan la scriva unendo articolo e sostantivo pone l’accento sull’omofonia con lallazione. Lalingua, dunque, è il livello a-strutturale dell’apparato verbale, è il sedimento del godimento, dell’affetto provato nel legame primario con l’altro (la madre) che in seguito il discorso veicola e ordina in un legame storico e sociale che si deposita in una lingua (Soler, 2009). Il transfert della cura analitica, infine, potrebbe rappresentare proprio quel luogo del discorso in cui ciò che è regredito può essere ripreso e ritornare alla sua funzione significante.
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DALL’AFASIA ALLA METAPSICOLOGIA: VIE DELLA PSICOANALISI
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Parte III
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
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FREUD, IL NEURONE E IL BUON SAMARITANO
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di Fulvio Marone
Il dialogo tra psicoanalisi e neuroscienze viene troppo spesso condotto come una operazione metalinguistica, e gran parte delle volte sono le neuroscienze ad essere adoperate come una sorta di metalinguaggio, in grado di attribuire valori di verità alle proposizioni psicoanalitiche. È un orientamento che riprende un filone dell’epistemologia del Novecento, che – seguendo l’esempio di uno dei suoi maestri, K.R. Popper – ha cercato di controllare la consistenza delle sue argomentazioni logiche dedicandosi all’ingrato compito di legiferare sulla “scientificità della psicoanalisi”. Con il declinare dei “discorsi sulla scienza”, e la venuta in primo piano della ricerca in carne ed ossa, sono oggi le scienze del cervello ad aver raccolto il difficile testimone, ed è sempre più frequente leggere articoli di neuroscienziati che discutono di ciò che è vivo e ciò che è morto dell’opera freudiana – così come di etica, di politica, di letteratura, di spettacolo e di varia umanità – sulla base dei risultati del loro laboratorio. A onor del vero, quando sono gli psicoanalisti a prendere la parola non è detto che il rapporto logico tra psicoanalisi e neuroscienze cambi: e ciò che muta, spesso, è solo il verdetto finale su Freud. Frequentissima, infatti, nell’uno e nell’altro caso, è l’identica collocazione della psicoanalisi nel ruolo di linguaggio-oggetto del metalinguaggio neuro-scientifico: che in questo caso, però, viene spesso utilizzato per corroborare le affermazioni della psicoanalisi. Insomma, per far uscire il rapporto fra psicoanalisi e neuroscienze dalla sterile dialettica metalinguaggio/linguaggio-oggetto, bisogna trovare un nuovo punto di vista da cui guardare all’una e alle altre. Il filo di questa diversa prospettiva potrebbe offrircelo la stessa summa della ricerca teorica di Freud: medico di formazione, ma appassionato di filosofia e convinto assertore delle idee evoluzionistiche;
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
impegnato nella ricerca neurobiologica da studente e poi neurologo clinico, nemico delle mitologie cerebrali ma artefice anch’egli di progetti neuropsicologici; infine psicoanalista, terapeuta della parola eppure ancora creatore di modelli della psiche. L’interesse costante del padre della psicoanalisi sembra esser rimasto, al di là dei mutamenti della forma, quello per una struttura che fosse in grado di render conto dei dati della clinica. Che poi gli elementi di questa struttura si chiamino neuroni, rappresentazioni inconsce, geni, numeri o significanti, questo è, a mio avviso, molto meno importante – e probabilmente lo sarebbe stato anche per Freud. Alle origini della psicoanalisi freudiana ci sono, in ogni caso, due libri “per neurologi”: uno squisitamente di neurologia – Zur Auffassung der Aphasien (1891) – l’altro di psicologia, ma che sulla neurologia cercava di fondarsi, anche se su di una neurologia sui generis – l’Entwurf einer Psychologie (1895). Due libri che nella marcia teorica del loro unico autore sono rimasti apparentemente disgiunti, senza evidenti comunicazioni reciproche, benché entrambi abbiano fornito robusti materiali per quella che sarebbe poi diventata la metapsicologia psicoanalitica, ed entrambi abbiano iniziato a impostare quei fondamenti della clinica che si chiamano inconscio, sogno, isteria, lapsus. Freud ha scoperto, attraverso la neurologia, i due pilastri su cui poggerà l’edificio psicoanalitico: il linguaggio e l’Altro. E li ha trattati separatamente, per poi fonderli nelle sue opere successive. Cercherò qui di evidenziare qualche tragitto che ci permetta di vedere che la neurologia freudiana degli inizi non parla solo di cervello, e che la psicoanalisi a cui approda non è soltanto analisi della psiche. Questo, Freud lo esplicita già precocemente, in un suo articolo “preanalitico”, uno scritto del ’90 che si intitola Psychische Behandlung (Seelenbehandlung): «Psiche è una parola greca e significa, tradotta, “anima”. Trattamento psichico vuol quindi dire “trattamento dell’anima”, e si potrebbe dunque pensare che con esso s’intenda: trattamento dei fenomeni patologici della vita dell’anima. Ma non è questo il significato dell’espressione. Trattamento psichico indica piuttosto: trattamento a partire dall’anima, trattamento – di disturbi psichici o somatici – con mezzi che agiscono in primo luogo e immediatamente sulla psiche dell’uomo. Un tale mezzo è soprattutto la parola, e le parole sono anche lo strumento essenziale del trattamento psichico» (1890). Trattamento, dunque, con mezzi psichici, piuttosto che sulla cosa psichica. E i mezzi psichici per eccellenza sono la parola e il linguaggio.
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Come si deve concepire la struttura del linguaggio, allora, affinché si possa render conto degli effetti della talking cure? È il problema della psicoanalisi, che Lacan prenderà seriamente in carico con la svolta linguistica che imprimerà alla teoria psicoanalitica a partire dal suo celebre discorso di Roma del ’53, “Funzione e campo della parola e del linguaggio” (1953). Svolta (relativa, come vedremo) della teoria, si badi bene, e non della pratica, che sul linguaggio si è sempre essenzialmente fondata. E per capire il linguaggio della psicoanalisi, si deve partire dall’afasia. È una battuta, o un paradosso, ma in fondo le cose stanno proprio così. Basta pensare, nei tempi a noi più vicini, all’importanza che ha avuto, per Jacques Lacan, il saggio di Roman Jakobson su “Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia” (1956), dove la distinzione dei due disturbi, della similarità e della contiguità, ha permesso a Lacan di inquadrare la clinica psicoanalitica attraverso i due assi della metonimia e della metafora. Oppure, bisogna guardare alle origini della psicoanalisi, a L’interpretazione delle afasie. Per la storia della psicoanalisi, per coloro che non sono degli studiosi di neurologia, per quanti credono al rapporto privilegiato tra l’inconscio e il linguaggio, l’importanza dell’Auffassung si fonda su due dati difficilmente trascurabili: 1) che il primo “apparato psichico” freudiano – un apparato costruito, strutturato, degno precursore di quelle che poi saranno le “topiche” della Traumdeutung (1899) e di Das Ich und das Es (1923) – non si trova nell’Entwurf, ma nell’Auffassung; 2) che Freud lo costruisce in maniera originale come Sprachapparat. Apparato di linguaggio, o meglio ancora apparato a linguaggio – come ci suggerisce J. Nassif1, nello stupendo libro che gli ha dedicato – con un francesismo (appareil à langage) che ha il merito di far risaltare, nella nostra lingua, ciò che ci interessa: apparato a linguaggio, così come si dice auto a benzina, o a gasolio, che sta a indicare che il linguaggio è l’essenza, l’essence (altro francesismo felicemente ambiguo), il carburante dell’apparato psichico, ciò senza cui l’essere umano non può marciare – anche nell’afasia, anche laddove non c’è parola. È la patologia a guidare Freud, all’inizio e come sempre, secondo il metodo della medicina sperimentale che gli aveva insegnato Claude Bernard (1865): la chiave della fisiologia, della “normalità” del viven1 «Traduciamo “appareil à langage” e non “appareil du langage” per evidenziare che il linguaggio è un effetto del funzionamento di questo apparato, e non l’apparato uno strumento del linguaggio. Come il movimento o la percezione, il linguaggio è una produzione, e non un dominio in cui le leggi della comunicazione detterebbero delle esigenze a cui il cervello dovrebbe conformarsi» (Nassif, 1992, p. 266, trad. mia).
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te, la si trova nella patologia, e non l’inverso. Se si vuole spiegare la funzione di un organo, bisogna asportarlo – è ciò che faceva Claude Bernard con i suoi animali da laboratorio – e vedere il tipo di patologia che andrà a svilupparsi. Se si vuole comprendere la sessualità umana, si deve cominciare dalle sue aberrazioni – è ciò che farà Freud stesso, più tardi, aprendo i suoi Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) con l’articolo dedicato a “Die sexuellen Abirrungen”. E se si vuole disegnare la struttura psichica del linguaggio, conviene partire dalle sue mancanze. Lo farà qui, Freud, nel testo sulle afasie; e poi continuerà a farlo con l’interpretazione dei sogni, con la psicopatologia della vita quotidiana, con le nevrosi e le psicosi… Ossia partirà dai soggetti – “patologici” in quanto reali – per stabilire ciò a cui eccepiscono, ossia la norma astratta: «Per la psicologia l’unità di base della funzione di linguaggio è la “parola”, una rappresentazione complessa che risulta dalla composizione di elementi acustici, visivi e cinestetici. Ne dobbiamo la conoscenza alla patologia, che ci mostra come, in presenza di lesioni organiche dell’apparato di linguaggio, subentri una scomposizione del discorso conforme alla suddetta composizione» (Freud, 1891, p. 96). È importante notare – e lo fanno studiosi di formazione radicalmente differente, come i Kaplan-Solms e Solms (2000, p. 14) da una parte e John Forrester (1980, p. 57) dall’altra – che Freud raggiunse per la prima volta le sue conclusioni sull’indipendenza del suo oggetto di studio rispetto all’anatomia del sistema nervoso non in relazione alla clinica delle nevrosi, ma proprio parlando dell’afasia, nella quale c’è una lesione visibile e ovvia. Nel «rapporto fra una lesione parzialmente distruttiva e l’apparato colpito – dice Freud – […] sono concepibili due casi, che si riscontrano anche nella realtà. O l’apparato si mostra mutilato dalla lesione in alcune singole parti, mentre quelle integre funzionano normalmente, oppure reagisce alla lesione come un tutto solidale, non dà segni di deficit a carico di singole parti, ma si mostra indebolito nella sua funzione; esso risponde alla lesione parzialmente distruttiva con un disturbo funzionale che potrebbe realizzarsi anche attraverso un danno non materiale […] Ora, l’apparato di linguaggio sembra mostrare in tutte le sue parti il secondo tipo di reazione a lesioni non distruttive: a una lesione di questo tipo, esso risponde in maniera solidale (o almeno parzialmente solidale) con un disturbo funzionale» (1891, p. 48). Freud aveva già notato che la parafasia, che può comparire come sintomo organico di focolaio e può essere provocata da lesioni situate in regioni molto diverse, «in niente si differenzia
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dalla confusione e mutilazione di parole che una persona sana può osservare su di sé in caso di affaticamento, di attenzione divisa, d’interferenza di affetti disturbanti, ciò che per esempio – continua Freud – rende a volte così penoso ascoltare i nostri conferenzieri. È perciò ovvio considerare la parafasia, nella sua più ampia accezione, come un puro sintomo funzionale, un segno di ridotta efficienza dell’apparato associativo del linguaggio» (ivi, p. 29). Dunque lo Sprachapparat, che è il precursore di quello che poi sarà l’apparato psichico, mostra un margine di autonomia rispetto all’organismo sottostante, è una sorta di supplemento rispetto a quanto strettamente condizionato dalla sostanza neurologica: «l’insorgere – dice Freud nel suo linguaggio dell’epoca – di una cosiddetta afasia sensoriale transcorticale può basarsi su una lesione, ma è in ogni caso funzionalmente favorito» (ivi, p, 109). C’è qualcosa di più dell’anatomia, della fisiologia e della patologia del sistema nervoso nelle lesioni organiche: un più, un supplemento, un godimento supplementare, un qualcosa cioè che soddisfa altre leggi che non quelle dell’anatomia. Freud dà al linguaggio una struttura, e nello stesso tempo si rende conto che la struttura, da sé, non è sufficiente a giustificare i disturbi del linguaggio. Mostrando che non si possono rimuovere parti del linguaggio come fossero semplici pezzi di un puzzle, e che perfino ove c’è una lesione organica la spiegazione dei fenomeni afasici deve essere compresa indipendentemente dalla localizzazione della lesione, Freud prepara la strada per la comprensione dell’isteria come lesione di un’idea. Due anni più tardi, Freud scriverà la più radicale reductio ad absurdum del ruolo del sapere neurologico nella comprensione dei fenomeni isterici in un articolo apparso originariamente in francese, Quelques considérations pour une étude comparative des paralysies organiques et hystériques (1893). In questo scritto, Freud libererà del tutto la patologia isterica dall’anatomia del sistema nervoso, e la interpreterà su di una base puramente psicologica, anzi psicoanalitica. «Si è spesso attribuito all’isteria la capacità di simulare le più disparate affezioni nervose organiche», dice Freud, facendo però emergere da questo confronto un tratto diagnostico-differenziale decisivo: «La paralisi isterica è […] esattamente circoscritta ed eccessivamente intensa; queste due caratteristiche si presentano contemporaneamente, ed è proprio qui che l’isteria maggiormente contrasta con la paralisi cerebrale organica, nella quale costantemente si osserva che questi due caratteri non si associano mai […] Poiché la vera anatomia cerebrale non può essere che una, e una soltanto, e poiché essa viene espressa dai caratteri clinici delle para-
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lisi cerebrali, è evidentemente impossibile che questa anatomia possa spiegare i tratti distintivi della paralisi isterica». Portando all’estremo il rigore del ragionamento neurologico, in cui si è venuto formando grazie ai suoi maestri, Freud conclude allora che: «[…] l’isteria, nelle sue paralisi e in altre sue manifestazioni, si comporta come se l’anatomia non esistesse per nulla o come se essa non ne avesse alcuna conoscenza»; e aggiunge, schizzando un abbozzo della sua futura metapsicologia: «[…] nelle paralisi isteriche […] ciò che entra in gioco è la rappresentazione banale, popolare degli organi e del corpo in generale». Ma, come ho già scritto, non è questo per me l’elemento più interessante del saggio sulle afasie. Quel che mi piacerebbe poter dire è che Freud, nell’Auffassung, ha inventato la lingua della psicoanalisi. Non (soltanto) il linguaggio, non (soltanto) la struttura astratta, immateriale: ma la sua materialità, la sua costituzione materiale, quella che Lacan chiamerà lalingua, con un riferimento evidente alla lallazione originaria del bambino, quel “lalinguare” – con la madre, innanzitutto – che esprime direttamente il godimento del parlessere, del piccolo essere parlante, prima che la legge paterna imponga le sue regole grammaticali, dividendo lalingua in “la lingua”. Cerchiamo di mostrarlo, lavorando sull’ultimo capitolo del volume, in cui Freud ci offre l’ipotesi di una struttura dello Sprachapparat il cui aspetto psicologico sia il più possibile separato da quello anatomico, e di questa ipotesi ci offre anche uno schema illustrativo (Figura 1).
Figura 1
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Freud intitola il suo grafo “Schema psicologico della rappresentazione di parola”. Egli contrappone la rappresentazione di parola alle associazioni di oggetto, in una raffigurazione in cui l’orientamento dell’immagine – da sinistra a destra, come il tempo della scrittura e della lettura – sembra alludere al fatto che non è la parola che proviene dall’oggetto, bensì sono le associazioni di oggetto che seguono la rappresentazione di parola. Classicamente, il problema del rapporto tra le parole e le cose veniva affrontato e risolto in un’unica direzione, che si basava su di una teoria della conoscenza che risaliva ad Aristotele ed era stata rinnovata da Sant’Agostino: nella mente si formano immagini di cose sul modello delle cose, e queste immagini vengono poi riprese in parole simili ad esse. Dunque, nomina sunt consequentia rerum. Freud, qui, sembra rompere con questa tradizione continuista. In questo schema «l’unità di base della funzione di linguaggio è la “parola”, una rappresentazione (Vorstellung) complessa che risulta dalla composizione di elementi acustici, visivi e cinestetici» (1891, p. 96). La rappresentazione di parola è formata da quattro componenti: «l’immagine sonora», «l’immagine visiva di una lettera», «l’immagine motoria di linguaggio» e «l’immagine motoria di scrittura». Ciò detto, e prima ancora di illustrare i rapporti tra la rappresentazione di parola (Wortvorstellung) e la rappresentazione d’oggetto (Objektvorstellung), Freud articola sei punti, relativi alle tappe della costituzione dell’apparato di linguaggio, di cui i primi cinque sono introdotti dalla stessa coppia soggetto-predicato: Wir lernen, impariamo. Questa «insistenza sul valore dell’ontogenesi per la comprensione del funzionamento dell’apparato di linguaggio», sottolineato dal curatore della nuova traduzione italiana F. Napolitano (2010), a me pare importante perché sembra alludere al farsi dell’apparato, prima ancora del suo funzionamento ordinario, e quindi rinviare a quella “costituzione materiale del linguaggio”, a quella “materialità del significante”, che prima ho ricollegato al concetto di lalingua. Impariamo a parlare, a scrivere, a compitare, a leggere… Come facciamo a farlo? Impariamo a parlare, dice Freud, associando “un’immagine sonora verbale” con una “sensazione d’innervazione della parola”; impariamo a compitare collegando le immagini visive delle lettere con nuove immagini sonore; impariamo a leggere collegando la successione delle rappresentazioni motorie delle singole lettere per far nascere nuove rappresentazioni motorie di parola; impariamo a scrivere riproducendo le immagini visive delle lettere mediante immagini d’innervazione della mano. Dei sei punti, è il secondo che ha particolarmen-
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te attirato la mia attenzione, soprattutto per l’espressione che Freud adopera: Wir lernen die Sprache der anderen, impariamo la lingua degli altri… Perché è la formulazione precisa della legge, e della condanna, dell’essere parlante: che la lingua sia sempre quella degli altri, anche se è quella materna, anche quando gli altri sono i propri genitori, anche quella che poi ciascuno dichiarerà esser la propria. La lingua è dell’altro perché ci precede, sempre, e sta lì ad attenderci, fin da prima della nostra nascita. È un punto, questo dell’altro del linguaggio, che vedremo bene ripreso e sviluppato nell’Entwurf. Ma torniamo allo schema dell’Auffassung: «la parola» – che come abbiamo visto è una rappresentazione complessa, in cui confluiscono elementi di provenienza visiva, acustica e cinestetica – «ottiene il suo significato [Bedeutung] legandosi alla rappresentazione d’oggetto» (1891, p. 101). Questa rappresentazione, ci dice Freud, «è a sua volta un complesso associativo delle più disparate rappresentazioni visive, acustiche, tattili, cinestetiche e d’altro tipo ancora» (ivi, p. 101). La rappresentazione di parola appare nello schema come un complesso chiuso di rappresentazioni, mentre la rappresentazione di oggetto si mostra come un complesso aperto. «La rappresentazione di parola non è collegata con la rappresentazione d’oggetto a partire da tutte le sue componenti, ma solo dall’immagine sonora. Tra le associazioni oggettuali sono quelle visive a rappresentare l’oggetto, in modo analogo a quello in cui l’immagine sonora rappresenta la parola» (ivi, nella didascalia del grafico, p. 101). Nel processo di “apprendimento” della parola che Freud disegna, vi è una priorità e una supremazia assolute del Klangbild, dell’immagine sonora della parola, sulla Bedeutung, sulla significazione. In effetti, nello schema freudiano, l’oggetto non è il referente, la base materiale della parola, ma è piuttosto il suo effetto. La parola ottiene il suo significato legandosi alla rappresentazione d’oggetto, che è a sua volta un complesso associativo di rappresentazioni visive, acustiche, tattili, cinestetiche e d’altro tipo. Dunque – come sottolinea Nassif (1992, p. 375) – la significazione non è semplicemente “tra le cose”, prima del linguaggio, ma è ciò che il linguaggio “ottiene” (erlangt), giacché il visuale, il tattile, etc., non sono elementi dell’oggetto rappresentato, bensì registri della rappresentanza di un oggetto ridotto ad essere un complesso di associazioni. L’identità dell’oggetto deve essere perciò ricostruita attraverso le reti della significazione, ossia attraverso i legami tra la rappresentazione di oggetto e la rappresentazione di parola. Il termine “significante” non è venuto per caso, prima, sotto la mia
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penna. È forte infatti la tentazione di ridurre lo schema psicologico della rappresentazione di parola dell’Auffassung a quello che Lacan ha chiamato “algoritmo saussuriano” (1957), mettendo la Wortvorstellung al posto del significante e la Objektvorstellung nel luogo del significato. Tanto più forte, allorché ci si accorge che Klangbild, l’immagine sonora – la più importante delle quattro parti in cui Freud scompone la rappresentazione di parola, la parte attraverso cui la Wortvorstellung si collega alla rappresentazione d’oggetto – è un ottimo precursore di quella image acoustique che sarà per Saussure la definizione stessa del significante (1922, p. 83 e segg.). Ma non così semplice. E non perché la Wortvorstellung non sia il significante, ma perché è molto difficile – nella logica di questa topica freudiana, che Lacan ci ha insegnato a interpretare – individuare nella Objektvorstellung la “localizzazione psichica” del significato. In effetti, in entrambi i casi si tratta di Vorstellungen, di rappresentazioni, anzi di complessi di rappresentazioni, di cui gli uni rinviano alla parola, gli altri all’oggetto. Ma, appunto, rinviano: stanno per… Significano. Si fanno significanti delle parole e degli oggetti. Insomma, queste Vorstellungen hanno più a che fare con la rappresentanza che con la raffigurazione. Sono rappresentanti, luogotenenti di una presenza sempre assente, di un reale sempre mancante. L’inconscio della psicoanalisi viene inventato nell’Auffassung. Che questa non sia un’ipotesi peregrina, è testimoniato dal fatto che Strachey abbia voluto aggiungere due lunghi estratti dello scritto alla sua traduzione inglese del saggio metapsicologico su “L’inconscio”, nonostante il desiderio di Freud fosse quello di separare nettamente i suoi scritti neurologici da quelli psicologici, e il suo conseguente rifiuto di includere il saggio sulle afasie nella Standard Edition. Di questi stralci – che non sono stati inclusi nelle traduzioni italiana o francese, né nei Gesammelte Werke tedeschi – uno si riferisce proprio alla struttura dell’apparato di linguaggio2. Questa citazione è motivata dal fatto che nel saggio su “L’inconscio” Freud riprenderà la coppia di Vorstellungen per definire la differenza fra una rappresentazione conscia e una rappresentazione inconscia: «la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta » (1915, p. 85). C’è una piccola differenza, come si vede. Come spiega la premessa all’Appendice C dell’edizione inglese, quel 2
“Appendix C: Words and Things”, in Freud (1974), vol. XIV, pp. 209-215.
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che Freud nell’Auffassung chiamava Objektvorstellung, rappresentazione d’oggetto, ne “L’inconscio” viene detta Sachvorstellung, rappresentazione di cosa, laddove quel che ne “L’inconscio” viene detta Objektvorstellung si riferisce a un complesso insieme di rappresentazione di parola e di cosa, che non ha un corrispettivo nel saggio sulle afasie. La rappresentazione di cosa, però, non è la rappresentazione della Cosa. È una cosa – mi si perdoni la ridondanza – su cui Lacan insiste molto, specie nel suo settimo seminario. Freud – dice Lacan – nel suo saggio su “L’inconscio” parla di Sachvorstellung, e non di Dingvorstellung. Entrambi i termini tedeschi – das Ding e die Sache – dicono la stessa cosa, e cioè “la cosa”. Ma con qualche differenza, di cui una molto importante: che die Sache è la cosa come prodotto dell’industria, o dell’azione umana in quanto governata dal linguaggio. Perciò Sachevorstellungen e Wortvorstellungen, le rappresentazioni di parola, sono strettamente legate, «mostrando così che c’è un rapporto tra cosa e parola. La paglia della parola ci appare come paglia solo per il fatto che ne abbiamo separato il grano delle cose, ma prima è stata questa paglia a portare il grano» (1959-1960, p. 53). Das Ding invece – continua Lacan – si situa altrove. Non è che Freud non lo adoperi mai, il termine di Dingvorstellung. Lo usa di sfuggita ne L’interpretazione dei sogni e ne Il motto di spirito. E in un altro dei saggi metapsicologici, in “Lutto e melanconia”, dove userà la formula “unbewußte (Ding-)Vorstellung des Objekts”, per indicare «la rappresentazione inconscia (cosale) dell’oggetto» (1915, p. 115) che viene abbandonata dalla libido nella melanconia. Ma ciò che Lacan vuol affermare, sottolineando la differenza e la distanza tra questi due termini, è che c’è cosa e Cosa: c’è la cosa che si trova già sempre in relazione alla parola, e la Cosa sempre esclusa dal circuito della rappresentazione. E questa cosa sembra avercela voluta indicare attraverso un uso abbastanza attento e distinto di quei due termini. Se die Sache, in quanto connesso a das Wort, ci rimanda all’opposizione Objektvorstellung/ Wortvorstellung dell’Auffassung, das Ding ci fa avanzare verso l’altro saggio neurologico che ha fondato la psicoanalisi: l’Entwurf, il Progetto di una psicologia. Qualcuno potrebbe forse vedere un’incoerenza – o un atto mancato – nel fatto che Freud, che si scaglia nell’Auffassung contro i “creatori di diagrammi”, finisca poi per proporci prima il suo proprio diagramma sull’afasia, e addirittura – in mancanza di un solido supporto anatomico – arrivi a creare, con la sua “psicologia per neurologi”, una sorta di personale “mitologia cerebrale”. Ma in fondo – e in entrambi i casi – si tratta, a mio avviso,
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di un uso ben preciso della rappresentazione, estremamente coerente con l’invenzione freudiana dell’inconscio: l’immagine, talvolta, è fatta non per mostrare o per dimostrare, ma per rappresentare l’irrappresentabile. Lo schema, il diagramma, il modello, sono una sorta di velo visibile che maschera l’invisibilità del reale. Saperlo è quel che distingue la posizione della psicoanalisi dalla scientismo ingenuo. L’intento del Progetto – come Freud dichiara in apertura dello scritto, che non era previsto per la pubblicazione – «è di dare una psicologia che sia una scienza naturale, ossia di rappresentare i processi psichici come stati quantitativamente determinati di particelle materiali identificabili, al fine di renderli chiari ed incontestabili» (p. 201). Due sono le idee principali del Progetto: 1) «di considerare come ciò che distingue l’attività dalla quiete una quantità (Q), soggetta alle leggi generali del movimento; 2) di considerare i neuroni come le particelle materiali» (p. 201). Laddove, nello schema dell’apparato di linguaggio dell’Auffassung, c’erano rappresentazioni di parola e d’oggetto, immagini, associazioni, qui ci sono solo i neuroni, in quanto atomi, particelle indivisibili ed elementari della teoria. Ma il “progetto” sembra essere lo stesso: trovare, per rendere conto dei processi psichici, una certa struttura, una rete significante, che incapsuli e inscriva un quod reale: un Q, una quantità – energia psichica, pulsione o godimento che dir si voglia. Il reale qui in gioco, lo si chiami come si voglia, non è quello delle scienze esatte – della biologia, dell’anatomia, della neurologia… Lacan – che ha commentato estesamente il Progetto, nel secondo e nel settimo seminario – ha fatto un’affermazione coraggiosa e provocatoria: che sotto un apparente ideale di riduzione meccanicistica, Freud rappresenta nel suo Progetto un conflitto che è di tutt’altro ordine. La “macchina” – come Freud stesso la definiva, nella sua Lettera a Fliess del 20 ottobre 1895 (p. 172) – non è un dispositivo programmato per fornire risposte determinate, ma una struttura malleabile in cui si intromette la vita, ponendo questioni impossibili le cui risposte, già in Freud, sono di natura etica. Cercherò di seguire questo binario, per vedere dove mi può portare. Per farlo, però, dovrò tralasciare una descrizione dettagliata della struttura del testo, per soffermarmi solo su alcune parti, come ho già fatto per l’interpretazione delle afasie. Secondo Freud «[…] sin dall’inizio, il sistema nervoso ebbe due funzioni: quella di ricevere stimoli dall’esterno, e quella di scaricare eccitamenti di origine endogena» (p. 208). Freud distingue i neuroni permeabili, che lasciano passare l’ener-
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gia, e i neuroni impermeabili, e chiama questi due sistemi φ il primo e ψ il secondo. Il sistema φ è deputato alla percezione, il sistema ψ è deputato alla memoria. A questi, Freud aggiungerà più oltre un terzo sistema, i neuroni ω, i quali presiedono alle sensazioni coscienti. La prima funzione psichica che la sua argomentazione incontra è il dolore: «il sistema nervoso ha la più netta tendenza alla fuga dal dolore […] il dolore consiste nella irruzione in ψ di grandi Q» (p. 212). Poi Freud introduce il piacere: «fino ad ora abbiamo descritto in modo incompleto il contenuto della coscienza. Oltre alla serie delle qualità sensoriali essa ne presenta un’altra assai diversa: la serie delle sensazioni di piacere e dispiacere, che richiede ora una spiegazione. Poiché noi conosciamo certamente una tendenza della vita psichica ad evitare il dispiacere, siamo tentati di identificarla con la tendenza primaria all’inerzia. In questo caso, il dispiacere verrebbe a coincidere con un aumento del livello di Qή o con un aumento di tensione quantitativa; sarebbe una sensazione ω quando la Qή aumenta in ψ. Il piacere sarebbe la sensazione della scarica» (p. 217). Dunque, l’accumulo di energia in ψ dà dispiacere in ω, la scarica – che ne è l’opposto – dà piacere. Le due esperienze fondamentali che il sistema dei neuroni fa, dal punto di vista della coscienza, sono l’esperienza di soddisfacimento e quella di dolore. «La saturazione dei neuroni nucleari in ψ porta come conseguenza una tendenza alla scarica, una tensione che si libera lungo le vie motorie. L’esperienza dimostra che la prima via a essere utilizzata è quella che conduce a una modificazione interna (espressione di emozioni, grida, innervazioni vascolari). Ma, come mostrammo all’inizio, nessuna scarica di questo genere può produrre alcun risultato definitivo, perché la ricezione degli stimoli endogeni continua tuttavia e la tensione in ψ si ristabilisce. La sospensione dello stimolo può essere operata solo mediante un intervento che temporaneamente interrompa l’emissione di Qή all’interno del corpo3; e questo intervento richiede un’alterazione nel mondo esterno (rifornimento di cibo, prossimità dell’oggetto sessuale), la quale, come azione specifica [spezifische Aktion], può seguire solo determinate vie. L’organismo umano è, dapprima, incapace di produrre tale azione specifica. Essa viene attuata mediante un aiuto esterno, quando un individuo maturo viene indotto a fare attenzione alle condizioni del bambino mediante una scarica 3
Pensiamo allo stimolo pulsionale proveniente dall’interno, che per essere placato deve essere soddisfatto.
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lungo la via della modificazione interna. Tale via di scarica acquista pertanto la funzione secondaria estremamente importante dell’intendersi, e l’impotenza [Hilflosigkeit] iniziale degli esseri umani è la fonte originaria [Urquelle] di tutte le motivazioni morali» (pp. 222-223). Lacan fa notare, nel capitolo dell’Etica dedicato alla rilettura dell’Entwurf (pp. 49-50), che l’esperienza di soddisfacimento è legata a una attività: non è una qualsiasi scarica, ma una risposta determinata, una azione specifica che è originariamente – e quindi essenzialmente – dell’Altro. Come sottolinea M. Schneider (2011, p. 13), Freud – legando in uno stesso paragrafo rifornimento di cibo, prossimità dell’oggetto sessuale e motivazioni morali – propone una connessione attraverso cui divengono inseparabili le reazioni primarie dell’infans e le creazioni culturali che rispondono ad esigenze etiche. E – potremmo aggiungere – fornisce qui il primo abbozzo psicoanalitico di quel modello mitico di “nascita del soggetto” che Lacan ha sviluppato nel suo grafo del desiderio: il grido infantile amorfo, localizzato fuori dal linguaggio, che la madre, nel luogo del codice, reintroduce nella struttura grammaticale interpretandolo come se fosse avvenuto nel luogo del messaggio: come un «ho fame» che produce retroattivamente il vero e proprio soggetto della significazione, cioè il bambino “supposto-voler-dire” (anche se poi non ci riuscirebbe perfettamente, per i suoi propri limiti biologici). L’incontro tra il grido dell’infans e l’Altro del linguaggio, però, è anche un incontro tra una domanda e un desiderio. Quando la madre risponde al grido del bambino, costituisce questo grido come una domanda, e riconosce colui che l’ha emesso come un soggetto. Ma, assieme e soprattutto, la madre interpreta il grido sul piano del desiderio: desiderio del bambino che lei gli stia accanto, che gli dia qualcosa o qualcos’altro, poco importa; ciò che è certo è che, attraverso la sua risposta, l’Altro dà dimensione di desiderio alla voce del bisogno. Questo desiderio, di cui il bambino si troverà investito, sarà perciò, all’inizio, il risultato di un’interpretazione soggettiva, una funzione del desiderio materno, del suo fantasma. Freud avanzerà più oltre in questo testo, e lo vedremo, il concetto e il termine di Nebenmensch: il prossimo. Ma, sin da subito, dobbiamo riconoscere che è attraverso la carità dell’interpretazione, offerta da questo buon samaritano, che nella “psicologia per neurologi” si introduce l’etica. La prima fonte della moralità, dunque, è l’immedesimazione nell’impotenza dell’altro, che ri-presenta al soggetto la sua originaria impotenza, la sua passività, la sua fondamentale dipendenza dall’Altro.
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Freud mostra poi come un’analisi dei diversi investimenti a livello della rete dei neuroni possa render conto del primo giudizio: «Supponiamo, genericamente parlando, che l’investimento di desiderio sia applicato a un neurone a + un neurone b, l’investimento percettivo a un neurone a + un neurone c. […] Se noi paragoniamo questo complesso percettivo con altri complessi percettivi, siamo in grado di scomporlo in due componenti: un neurone a, che rimane generalmente sempre lo stesso, e un neurone b che è per lo più variabile. In seguito il linguaggio applicherà il termine di giudizio a questa scomposizione, […] il linguaggio descrive il neurone a come la cosa [das Ding]4 e il neurone b come la sua attività o attributo, cioè il suo predicato [Prädikat] » (1895, pp. 232-233). Questo passo ci fa vedere che la proposta lacaniana – di leggere l’apparato neuronico come una struttura di linguaggio – non è priva di supporto, finanche nella stessa mente di Freud. «Quindi il giudizio è un processo ψ reso possibile solo dall’inibizione esercitata dall’Io e messo in atto dalle differenze tra l’investimento di desiderio di un ricordo e un consimile investimento percettivo» (ivi, p. 232). Infine, l’introduzione del Nebenmensch, considerato anche nel suo aspetto perturbante – perché la carità dell’interpretazione è anche la violenza dell’interpretazione, l’imposizione di un significante e di un senso a ciò che ne è fuori: «Supponiamo che l’oggetto che fornisce la percezione sia simile al soggetto, cioè un essere umano prossimo [Nebenmensch]. L’interesse teorico suscitato nel soggetto si spiega anche in quanto un oggetto siffatto è stato simultaneamente il primo oggetto di soddisfacimento e il primo oggetto di ostilità, così come l’unica forza ausiliare. Per tale ragione, è sul suo prossimo che l’uomo impara a conoscere», dice Freud, quasi abbozzando quella che poi sarà l’idea fondamentale del lacaniano “stadio dello specchio”. «[…] se l’oggetto grida, – continua Freud – un ricordo delle proprie grida risusciterà [nel soggetto] rinnovando le sue esperienze di dolore»: da qui, l’idea che conoscere è riconoscere attraverso sé stessi, attraverso le esperienze del proprio corpo [eigenen Körpererfahrungen]. Il complesso percettivo, che prima abbiamo visto presentato attraverso l’esempio dei neuroni a e b, viene qui riproposto come “complesso di un altro essere umano” [Komplex des Nebenmenschen]: «Così il complesso di un altro essere umano si divide in due componenti; di cui una s’impone per la sua struttura costante come una cosa coerente [als Ding beisammenbleibt], 4
È questo il passo freudiano da cui Lacan estrae das Ding, termine sul quale ritornerà tante volte nella sua opera.
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mentre l’altra può essere capita [verstanden] mediante l’attività della memoria» (ivi, p. 235). Come sottolinea Lacan, das Ding «è l’elemento che originariamente il soggetto isola, nella sua esperienza del Nebenmenschen, come per sua natura estraneo, Fremde. Il complesso dell’oggetto è in due parti, c’è divisione, differenza nell’approccio del giudizio. Tutto ciò che, dell’oggetto, è qualità, e può essere formulato come attributo, rientra nell’investimento del sistema ψ e costituisce le Vorstellungen primitive attorno alle quali si giocherà il destino di ciò che è regolato secondo le leggi della Lust e dell’Unlust, del piacere e del dispiacere, in ciò che possiamo chiamare le prime comparse del soggetto. Das Ding è assolutamente un’altra cosa. […] È attorno a das Ding come Fremde, estraneo e talvolta anche ostile, ma in ogni caso come il primo esterno, che si orienta tutto il percorso del soggetto. Senza alcun dubbio è un percorso di controllo, di riferimento, ma rispetto a che cosa? Al mondo dei suoi desideri. Il soggetto sperimenta che, dopotutto, c’è effettivamente qualcosa lì, che almeno fino a un certo punto può servire. Servire a che cosa? A fungere da riferimento rispetto a quel mondo di auspici e di aspettative che è orientato verso ciò che potrà eventualmente servire per arrivare a das Ding. […] è chiaro che ciò che si tratta di trovare non può essere ritrovato. L’oggetto come tale è per sua natura perduto. Non sarà mai ritrovato» (1959-1960, pp. 61-62), per la stessa ragione eraclitea per cui non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume. Perciò, qualsiasi soddisfazione (più-di-godere, potremmo dire) si realizza sempre su di uno sfondo di insoddisfazione (di mancanza). In conclusione, è evidente che das Ding è l’Altro: ma non semplicemente l’Altro del significante, ma l’Altro assoluto rispetto al soggetto. È la trama significante pura, l’imperativo categorico incondizionato in rapporto a cui il soggetto originariamente si orienta per compiere la sua Neurosenwahl, la sua scelta della nevrosi. È il fuori significato che però si presenta a noi solo in quanto fa parola, dà segno di sé attraverso la parola, che quindi funziona come Vorstellungsrepräsentanz, rappresentante della rappresentazione impossibile della Cosa. È il Bene supremo, che non ha niente a che fare con l’oggetto buono o cattivo. Come dice ancora Lacan: «Non c’è oggetto buono e oggetto cattivo, c’è del buono e del cattivo, e poi c’è la Cosa. Il buono e il cattivo entrano già nell’ordine della Vorstellung, sono lì come indici di ciò che orienta la posizione del soggetto, secondo il principio di piacere, rispetto a quanto sarà sempre e soltanto rappresentazione,
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
ricerca di uno stato di elezione, di desiderio, di attesa. Di che cosa? Di qualcosa che è sempre a una certa distanza dalla Cosa, benché regolato dalla Cosa, la quale si trova al di là» (ibidem, p. 74). Il complesso di un altro essere umano si divide in due componenti: una s’impone per la sua struttura come das Ding, mentre l’altra può essere capita […] Freud cercherà, anche in questo scritto, di rappresentare il suo modello in una serie di schemi, di cui il più interessante è quello che potremmo definire “il grafo di Emma” (1895, p. 254, figura 2): uno schema che serve a illustrare un caso clinico che ci presenta nella seconda parte del Progetto. La natura “di compromesso” di questo schema è data dal fatto di rappresentare un processo psicologico come una sorta di circuito neuronale, in continuità con gli altri disegni che avevano illustrato le pagine precedenti del Progetto. «Ci troviamo di fronte a due generi di processi ψ mischiati fra di loro», dice Freud. Due stati diversi di ψ: i cerchietti neri, che rappresentano gli elementi coscienti – una sorta di “neuroni con la qualità della coscienza” – e i cerchietti bianchi, che raffigurano gli elementi inconsci – i “neuroni senza qualità”. E poi ci sono le vie di associazione, i canali di transito preferenziale dell’energia psichica tra l’uno e l’altro elemento, che rendono conto del funzionamento della memoria.
Figura 2
Entrare nei dettagli del caso ci porterebbe lontano dal nostro percorso. Quel che invece voglio sottolineare è la metamorfosi che ha subito l’apparato freudiano, pur in uno scritto ancora “per neurologi”, rispetto a quello presentato nell’Auffassung: lì era una rete che cercava un posto in uno spazio cerebrale; qui è un circuito fatto di rappresentazioni di significati, dall’apparenza neurologica ma dalla sostanza
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“umana, troppo umana”. Ancora un passo, e si arriva all’illustrazione del lapsus di Signorelli, con cui si apre la Psicopatologia della vita quotidiana (1901, p. 60, figura 3):
Figura 3
Questo schema finale sembra essere un po’ il destino degli apparati neurologici freudiani, il disvelamento di ciò che già sempre erano, nella scienza freudiana, al di là della sua stessa consapevolezza: una rete pura di significanti, di rappresentazioni di parola che stanno per altre rappresentazioni di parola. E vedremo sempre all’opera, nella clinica, questa bipartizione: da un lato, la rete delle Vorstellungen, delle rappresentazioni “strutturate come un linguaggio neuronale”, regolate dalle leggi del piacere e del dispiacere, che in quanto tali possono essere capite ed analizzate; oltre, c’è das Ding, l’elemento che il soggetto, nella sua esperienza del Nebenmenschen, del prossimo, dell’Altro, isola come per sua natura fremd, estraneo. Questo vuoto occupa il posto dei “centri del linguaggio” contro i cui sostenitori Freud polemizza nell’Auffassung. Volendo dire (o meglio, siamo noi che glie lo facciamo dire) che il linguaggio non ha un centro, ma è una rete di rappresentazioni – di Vorstellungen – ove un significante rappresenta e significa solo grazie al suo rapporto con gli altri significanti. In conclusione, la mia idea è che nei primi scritti di Freud la sostanza nervosa è un “concetto limite tra il somatico e lo psichico”, e porta al suo interno le qualità e gli attributi delle scienze umane, o congetturali, più che delle scienze esatte, o naturali. Le scienze natura-
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li, nei ragionamenti freudiani dei suoi primi scritti, servono soprattutto per dimostrare la propria inconsistenza – delle scienze naturali, dico – la propria impossibile autosufficienza, la necessità che esse hanno di un Altro che le suturi, che le faccia consistere senza contraddizioni. La neurologia – sembra voler dire Freud – può esistere solo se non cerca di essere autosufficiente, se non vuol essere completa, se si apre a una mancanza che possa articolarla con un mondo della vita che la clinica riflette ovviamente meglio dell’anatomia. È in questo spazio, vuoto di sostanza nervosa e pieno di sostanza umana, che nasce e cresce la psicoanalisi.
Bibliografia Bernard C. (1865), Introduzione allo studio della medicina sperimentale, Feltrinelli, Milano, 1973. Forrester J. (1980), Il linguaggio e le origini della psicoanalisi, il Mulino, Bologna, 1984. Freud S. Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904, Boringhieri, Torino, 1986. Freud S. (1890), Trattamento psichico (trattamento dell’anima), in O.S.F., vol. 2, Boringhieri, Torino. Freud S. (1891), L’interpretazione delle afasie. Uno studio critico, Quodlibet, Macerata, 2010. Freud S. (1893), Alcune considerazioni per uno studio comparato delle paralisi motorie organiche e isteriche, O.S.F., , vol. 2, Boringhieri, Torino. Freud S. (1895), Progetto di una psicologia, O.S.F., vol. 2, Boringhieri, Torino. Freud S. (1899), L’interpretazione dei sogni, O.S.F., vol. 3, Boringhieri, Torino. Freud S. (1901), Psicopatologia della vita quotidiana, O.S.F., vol. 4, Boringhieri, Torino. Freud S. (1905), Tre saggi sulla teoria sessuale, O.S.F., vol. 4, Boringhieri, Torino. Freud S. (1915), L’inconscio, O.S.F., vol. 8, Boringhieri, Torino. Freud S. (1915), Lutto e melanconia, O.S.F., vol. 8, Boringhieri, Torino. Freud S. (1923), L’Io e l’Es, O.S.F., vol. 9, Boringhieri, Torino. Freud S. (1974), The Standard Edition of the Complete Psychological Works, The Hogarth Press, London. Jakobson R. (1956), “Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia” in Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano, 1966. Kaplan-Solms K., Solms M. (2000), Neuropsicoanalisi. Un’introduzione clinica alla neuropsicologia del profondo, Cortina, Milano, 2002). Lacan J. (1953), “Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi”, in Scritti, vol. I, Einaudi, Torino, 1974. Lacan J. (1957), “L’istanza della lettera nell’inconscio o la ragione dopo Freud”, in Scritti, vol. I, Einaudi, Torino, 1974, pp. 488-523.
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FREUD, IL NEURONE E IL BUON SAMARITANO
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L’INCONSCIO È STRUTTURATO COME UN LINGUAGGIO. DALLA PARAFASIA AL MOTTO DI SPIRITO
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di Francesca Tarallo
Anna O, al secolo Berta Pappenheim, la sovversiva. Con lei l’ipnosi non funziona e inventa per Freud la talking cure, nell’unica lingua, l’inglese, che la giovane austriaca all’epoca si concede. La paziente di Josef Breuer che, nel 1881, insiste per essere ascoltata, e fino in fondo, nel suo discorso. E come diranno il giovane Freud assieme al più maturo Breuer: «i singoli sintomi isterici scomparivano subito ed in modo definitivo, quando si era riusciti a ridestare con piena chiarezza il ricordo dell’evento determinante, risvegliando insieme anche l’affetto che l’aveva accompagnato, e quando il malato descriveva l’evento nel modo più completo possibile esprimendo verbalmente il proprio affetto» (1892-1895, p. 178, corsivo degli autori). Una terapia del discorso. La psicoanalisi, dunque, è la teoria di una terapia. La “parola parlata”, la proposizione semplice, patrimoni acquisiti ad opera della lingua, quel “tesoro” saussuriano e un po’ più avanti lacaniano, diventano uno straordinario strumento di cura. Freud lo aveva già intuito e messo al lavoro. La nuova signora della scena è là, pronta a cambiare la cultura, a sedurre i saperi, ad attraversarli. Punto di non ritorno. Come ha fatto Freud? Da dove è partita la sua costruzione epistemologica? È certo che il giovane viennese conosce, e bene, la neurologia e i grandi maestri del suo tempo, Meynert e Wernicke; sa di Broca e legge Jackson. Sprigiona già tutto il suo vigore creativo quando si misura con le teorie del linguaggio e in particolare con gli studi sull’afasia, in gran voga all’epoca. E pubblica un piccolo libro. Niente a che vedere con la psicoanalisi. È solo il 1891. È stato a Parigi, alla Salpêtrière, da Charcot. Usa l’ipnosi, lavora con Breuer. La neurofisiologia del cervello è di certo ancora lì. Freud, istruito dal riduzionismo della
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
Scuola di Helmholtz, appassionato fisiologo, intuisce che c’è un’altra lingua, quella privata dell’isteria. Certo du Bois-Reymond, Brücke, Helmholtz lo formano ad un rigoroso sperimentalismo, approdante ora a un fisicalismo di fondo, ora, con Virchow, a un vitalismo; e ancora il principio di conservazione dell’energia di Fechner, e la teoria della dissoluzione di Jackson. Freud è un allievo brillante e geniale, attento ai problemi del metodo, che gli consentono di conservare di queste scienze non tanto gli oggetti teorici, quanto gli schemi generali e le leggi, che penserà egualmente applicabili tanto al sistema nervoso, quanto all’apparato psichico. È uno studioso della psiche, che avendo compiuto un apprendistato in ambito neurologico affronta il suo viaggio con un ricchissimo bagaglio di metafore e modelli organicistici. Siamo alla fine del XIX secolo, quando scrive una monografia, Zur Auffassung der Aphasien (1891), sostanzialmente teorica, priva di osservazioni cliniche. Quando non era così che, in ambito medico, si scrivevano i libri. Uno studio critico. Coglie un’occasione straordinaria, quella di avere a che fare contemporaneamente con differenti discipline: la medicina, la linguistica, la psicologia, la filosofia. È unanime l’importanza annessa a questo primo vero libro, che può ben essere guardato come un’efficace prefigurazione dei suoi interessi psicoanalitici. Comincia una riflessione mai interrotta sulla lingua. Per ogni lettore della monografia, è forse una sorpresa vedere quanto vi sia della psicoanalisi tra le righe della neurologia. È dal più importante testo freudiano di neurofisiologia che giunge all’apice e, in fondo, al termine della sua brillante direzione del reparto di neurologia della clinica di Kasawitch; è dal locus delle parole e dalla struttura del sistema nervoso, è dalla riflessione fondamentale su quel disturbo funzionale del linguaggio che chiamerà “afasia agnosica”, che emergerà il campo teorico del registro delle rappresentazioni.
Un po’ di storia Le correlazioni esistenti tra i disturbi del linguaggio parlato e della scrittura sono evidenti sin dai secoli XVI e XVII, ma il carattere aneddotico delle loro descrizioni e la scarsità di osservazioni cliniche non consentono alcuna sistematizzazione. Agli inizi del XVIII secolo il frenologo Gall, cui tradizionalmente si fanno risalire i primi lavori sull’afasia, ipotizza le sens du language collocandolo nei lobi sovraorbitali ed attribuendogli un’enorme importanza, perché è ciò che di-
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L’INCONSCIO È STRUTTURATO COME UN LINGUAGGIO
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stingue l’uomo dagli animali. È però soltanto nel 1861, a Parigi, in una comunicazione alla Société d’Anthropologie che, con Paul Broca, comincia la storia vera e propria dell’afasia. Il malato Tan, ossia il signor Leborgne, un uomo di cinquant’anni che da venti non parla più, rispondendo solo con il monosillabo tan ripetuto due volte, è l’oggetto di quella rivoluzione negli studi sul cervello. L’attenzione degli anatomisti si sposta dalla porzione sovrarbitaria ai lobi frontali dell’emisfero destro. Broca definisce “afemia” la condizione nella quale sia abolito un linguaggio articolato, mentre resta intatta sia la facoltà generale che la funzione uditiva. Afemia in greco significa “infamia”, termine evidentemente improprio; e Trousseau, in una sua celebre lezione all’Hôtel-Dieu a Parigi, parla di afasia, facendola derivare dall’alfa privativa e da “parola”. Meno di dieci anni dopo, nel 1874, Wernicke scrive il suo immenso Der aphasische Symptomencomplex. La I e II circonvoluzione di Broca diventano il centro motorio del linguaggio, sede delle immagini mnemoniche e dei movimenti necessari alla sua articolazione, e posteriormente va a localizzare un centro sensorio del linguaggio, sede delle immagini acustiche verbali. Il centro sensorio del linguaggio, nella I circonvoluzione temporale, rappresenta quel territorio corticale nel quale risiedono le cellule gangliari, quale sostrato anatomico delle immagini mnestiche dei suoni verbali uditi. I due centri sono collegati da vie associative che rendono possibile l’acquisizione del linguaggio e l’imitazione delle parole. L’afasia motoria, quella sensoriale e una terza, di conduzione, sono la conseguenza di tale teorizzazione. Siamo in ambito strettamente associazionista, che presuppone diagrammi descrittivi e una radicale separazione del linguaggio dal pensiero. Tale modello ha un carattere teorico, e Lichtheim nel 1885 lo esplicita, dichiarando che le forme di afasia che descrive sono state stabilite per deduzione. Tanti sono i tipi di afasie quante tutte le possibili alterazioni o interruzioni tra i centri. I diagrammisti sono al lavoro. La riabilitazione della medicina clinica all’epoca riporterà sulla scena la neurologia, e quindi l’afasia, e consentirà l’inserimento della psicologia nella medicina ad opera di una seconda generazione di clinici: Freud, Jackson, Bleuler, Janet. Per Freud e Jackson il punto di collegamento era proprio la teoria sull’afasia. Prima ancora di Freud fu proprio Jackson a sferrare i primi attacchi contro i creatori di diagrammi. L’associazionismo ebbe una larga influenza in Francia, ma con Huglings Jackson, in Inghilterra, la rivoluzione era alle porte. Per Jackson la lesione provoca due ordini di fenomeni. Alla parziale
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
perdita si contrappone la liberazione di aspetti funzionali intatti. Il sintomo non è l’effetto diretto di una lesione, quanto piuttosto un indizio manifesto della disorganizzazione del sistema nervoso a un certo livello d’integrazione. I centri del linguaggio sono il sostegno di una gerarchia di funzioni, disposte su vari piani. I livelli si succedono dall’associazione sensomotoria all’enunciato proposizionale, ossia dal più automatico al più volontario, dall’esclamativo al pensiero categoriale. Persiste un linguaggio inferiore emotivo ed automatico, istanze residue che testimoniano di una parte sottostante al livello funzionale colpito. Jackson si preoccupava di arrestare lo sfasamento tra i termini psicologici e quelli fisiologici, giacché a parer suo ciò avrebbe danneggiato la teoria sull’afasia e più in generale la neurologia. La sua teoria delle concomitanze – un argomento duro per lo stretto parallelismo e per la separazione dei processi psichici da quelli fisici – mise al sicuro la fisiologia da un lento infiltrarsi dello psicologismo e aprì invece la porta a una psicologia completamente sviluppata dell’afasia. Ciò che è interessante in questa teoria è che la dissoluzione del sistema nervoso conseguente a una lesione o a un disturbo funzionale implichi una regressione verso uno stato più altamente organizzato: un alto livello di organizzazione è il segno di un livello di complessità inferiore del funzionamento nervoso. La dissoluzione riconduce il sistema nervoso verso livelli di organizzazione più antichi e più primitivi, forse verso gli originali livelli del linguaggio dove “l’espressione” è già pronta. Parlare consiste per Jackson nel disporre le parole in proposizioni e la proposizione rappresenta l’unità del linguaggio. La parola isolata può avere un valore proposizionale così come una frase intera può essere puramente automatica. L’afasia è la perdita della formulazione delle proposizioni sia nel linguaggio orale che in quello interiore. Altrimenti detto, per Jackson il linguaggio necessita di una struttura sintattica. «Gli esseri umani non parlano, proposizionalizzano, e perciò l’unità minima di significato compete solo all’enunciato, che quel significato ripartisce poi fra le proprie componenti. La tassonomia dei disturbi linguistici che ne deriva è radicalmente diversa da quella di Wernicke e Lichtheim» (Napolitano, 2010, 188). I lavori di Jackson sono indubbiamente un’anticipazione strutturalista, ai quali guarderà Pick per i suoi importanti studi sulle afasie nel 1913, e lo stesso Jakobson negli anni quaranta e cinquanta dirà: c’è della linguistica. Come può comunicare ciò che, già pronto, prescinde per forza dal senso e dalla significazione? Jackson operava una distinzione strutturale tra le espressioni che “hanno un senso” e quelle
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L’INCONSCIO È STRUTTURATO COME UN LINGUAGGIO
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prive di significato. Le frasi “pronte” degli afasici erano state all’origine portatrici di senso, perduto in conseguenza di quella lesione che impediva loro la sostituzione delle parole. Le parole hanno un significato soltanto perché appartengono a un sistema simbolico ordinato e dinamicamente articolato con gli stati interiori.
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Freud Anche Freud criticherà la babele dei diagrammi. All’epoca l’unità del sistema nervoso è il riflesso che va ad articolare la sovrapposizione dei segmenti midollari e che rappresenta la punta di diamante di un parallelismo d’ispirazione meccanicista. Nella Lettera a Fliess del 2 maggio 1891, Freud si definirà “temerario” (p. 46). Il suo saggio sulle afasie, che ha come sottotitolo Uno studio critico, è una revisione radicale della dottrina di Wernicke, allora universalmente accettata. Il libro tenta di confutare gli schemi proposti, e in particolare incrocia la spada con Meynert, l’idolo sul piedistallo. Il corpo, per Meynert, è proiettato punto per punto sulla corteccia, e anche le rappresentazioni di parola sono racchiuse nelle cellule nervose di determinate aree corticali. D’altra parte, Wernicke non sfugge allo stesso errore di principio, andando a localizzare le sensazioni, gli elementi psichici più semplici, e poiché non possiamo avere una sensazione senza subito associarla, diventa difficile distinguere nel correlato fisiologico la parte di sensazione e la parte di associazione, aspetti differenti di uno stesso processo. Se all’intelligenza è riconosciuto l’artificio psicologico e un rapporto con la fisiologia intricato e complesso, non si capisce perché ciò non possa valere anche per la sensazione. Qui c’è Brentano con il suo concetto di sensazione che rifiuta, nella sua memorabile polemica con Wundt, l’analogia di un’eco tra fisiologia e psicologia, perché il fenomeno psicologico non è un semplice epifenomeno fisiologico. Vuol dire che l’attività psichica è intenzionale e non automatica, intenzionalità che nel Progetto sarà attribuita ai neuroni ω. Dunque i processi fisiologici non sono in causalità con i fenomeni psichici, bensì in un rapporto di concomitanza-dipendenza. I fasci di fibre nervose che provengono dalla periferia del corpo e arrivano alla corteccia cerebrale attraversano svariate masse grigie, e pur conservando una qualche forma di relazione con la periferia non proiettano certamente un’immagine puntuale del corpo: «[…] essi contengono la periferia del corpo allo stesso modo in cui una poesia contiene l’alfabeto, in un riordinamento che serve
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
ad altri scopi, in una molteplice concatenazione dei singoli elementi topici, dei quali alcuni possono essere rappresentati più volte, mentre altri non lo sono affatto» (Freud, 1891, p. 75). L’alterazione del passaggio dalla ricezione all’espressione, teorizzata da Wernicke quale “afasia di conduzione”, comporta l’impossibilità di ripetere, nonostante resti inalterata la produzione del parlare spontaneo e la comprensione, ma poiché la via su cui si impara a parlare è identica alla via su cui si ripete, non può verificarsi la sospensione isolata del ripetere. Una forma di disturbo del linguaggio, che contempli tali caratteristiche, sembra per Freud impossibile: pertanto, l’afasia di conduzione di Wernicke non esiste! La parafasia è dunque un segno di funzionalità ridotta del linguaggio, un disturbo senza lesione nel quale al posto della parola appropriata c’è n’è un’altra che però conserva sempre una certa relazione con la parola esatta, «[…] come quando ad esempio usa penna in luogo di matita, Postdam in luogo di Berlino» (ivi, p. 39). Si possono scambiare parole che hanno un suono simile oppure fare delle fusioni, e questo accade comunemente. «Per ora basti accennare al fatto che la parafasia osservata nei pazienti in niente si differenzia dalla confusione e mutilazione che una persona sana può osservare su di sé in caso di affaticamento, di attenzione divisa, di interferenza di affetti disturbanti» (ivi, p. 29). Potrebbe senz’altro apparire come l’introduzione alla Psicopatologia della vita quotidiana. Che la parola sia un complesso processo associativo, indipendente dal sistema nervoso, ossia una rappresentazione d’immagini collegata a una rappresentazione di oggetto, tira ancora una volta in ballo Brentano, che – dichiarando senza mezzi termini che non c’è percezione senza oggetto percepito – interpreta i fenomeni psichici come rappresentazioni, Vorstellungen. L’immagine acustica rappresenta l’aspetto centrale dell’intera funzione di linguaggio, poiché il significato primario della parola è dato in origine, quando le parole vengono imparate attraverso l’ascolto del loro suono. L’attività associativa dell’elemento acustico prevale anche sulla funzione dell’elemento visivo, poiché i nostri segni grafici sono simboli di suoni e non simboli diretti di concetti. Stiamo però parlando di un’immagine acustica, e «[…] tra le associazioni oggettuali sono quelle visive a rappresentare l’oggetto, in modo analogo a quello in cui l’immagine sonora rappresenta la parola» (ivi, p. 101). Nella spiegazione della fenomenica parafasica, Freud ipotizza un disturbo nella relazione fra i due sistemi di rappresentazione, e il di-
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sturbo si situa nella parte più fragile, ossia nell’associazione simbolica tra la rappresentazione di parola e la rappresentazione di oggetto. Il discorso afasico è considerato una vera paraprassia. L’afasia agnosica è l’effetto di una compromissione tra la rappresentazione di oggetto e la rappresentazione di parola. L’Unbewusstsein, l’incoscienza, è il risultato di questa dissociazione. L’afasia agnosica è un neologismo introdotto da Freud con lo scopo di creare una nuova etichetta per i quadri clinici in precedenza denominati da Finkelnburg “asimbolia”. Freud libera l’afasia dalle modificazioni anatomiche e strutturali del sistema nervoso. Il sostrato neurofisiologico è rappresentato da un campo omogeneo di fibre connettive nel quale, avendo ogni elemento valore di informazione, da un lato la conseguenza è un’anonimia funzionale, dall’altra assume un’importanza fondamentale la combinazione dei dati percettivi. Ciò è il presupposto per un modello teorico nel quale il correlato fisiologico degli elementi psichici diviene sempre più astratto, dando la possibilità a uno spazio puramente psicologico di essere organizzato in una gerarchia di funzioni interdipendenti. Questo consente alla fisiologia, grazie all’aspecificità delle fibre associative, di essere sempre più astratta. Il discorso dell’afasico ci mette sulle tracce del discorso dell’isterica.
Dall’afasia all’isteria Sin da allora la teoria dei sintomi nevrotici comprende il linguaggio. Anzi lo Sprachapparat, apparato di linguaggio, Freud lo conia su quel Seelenapparat, apparato dell’anima, di Meynert. L’apparato di linguaggio è davvero, come afferma Stengel (1954)1, il fratello maggiore dell’apparato psichico dell’Interpretazione dei sogni. È un modello teorico che rende disponibile a Freud una psicologia delle rappresentazioni indipendente dalla struttura del sistema nervoso. Freud già in precedenza aveva vigorosamente preso le distanze dall’anatomia cerebrale, tanto che nel 1888, scrivendo per l’Enciclopedia di Villaret la voce “Isteria”, dirà che per quest’ultima «non soltanto… non si è riscontrata alcuna alterazione percepibile del sistema nervoso, ma neppure ci si deve aspettare che tali alterazioni possano essere dimo1 I motivi di Stengel però sono molto distanti dalle tesi proposte in questo lavoro, poiché tendono a evidenziare lo stretto rapporto tra la fisiologia e la psicologia, concludendo che i prototipi degli apparati di linguaggio e psichico si trovano nell’opera di Meynert.
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strate grazie ad un raffinamento delle tecniche anatomiche» (1888, p. 43). La mobilità propria dei sintomi isterici esclude la possibilità di qualsiasi affezione organica o sospetto di lesione per cui è possibile che l’isteria comporti unicamente una modificazione fisiologica del sistema nervoso. Nel 1893 Freud pubblica sulla rivista “Archives de neurologie” Quelques considérations pour une étude comparative des paralysies motrices organiques et hystériques. Egli afferma con forza che l’anatomia cerebrale è una ed una soltanto, e si esprime attraverso le caratteristiche cliniche delle paralisi cerebrali. Diventa pertanto impossibile che per la comprensione delle paralisi isteriche ci si possa servire di questa stessa anatomia. La paralisi isterica si presenta molto più dissociata della paralisi cerebrale, quasi come se i sintomi fossero spezzettati. Nell’isteria sono presenti anestesie assolute, profonde, che non si presentano mai con la stessa intensità nella paralisi organica. Dal punto di vista eziologico non vi è alcun dubbio che in quelle organiche vi siano fatti “anatomici”. L’attenzione nella paralisi isterica va, invece, rivolta alla natura della lesione: «l’isteria, nelle sue paralisi e in altre sue manifestazioni, si comporta come se l’anatomia non esistesse per nulla o come se essa non ne avesse alcuna conoscenza […] ciò che entra in gioco è la rappresentazione banale, popolare degli organi e del corpo in generale» (Freud, 1893, pp. 80-82). Tali rappresentazioni si basano sulle nostre sensazioni tattili e visive e non sulla conoscenza del sistema nervoso. La lesione isterica sarebbe dunque determinata da un’alterazione della rappresentazione dell’organo interessato alla paralisi e dall’inaccessibilità associativa. La causa di quest’alterazione puramente funzionale verrebbe dal fatto che questa rappresentazione è rimasta fissata, in un’associazione inconscia, al ricordo traumatico. La lesione consisterebbe dunque nell’abolizione dell’accessibilità associativa della rappresentazione. Freud mette al lavoro la Vorstellung, la rappresentazione inabilitata, inassociabile, e senza che vi sia una corrispondente alterazione organica. Possiamo dire allora che le modificazioni fisiologiche su cui si fonda l’isteria stanno ai sintomi isterici «così come una poesia contiene l’alfabeto […]». La funzione è soppressa, ma non distrutta. La causa è un Affektbetrag, vale a dire un certo ammontare affettivo. La sua localizzazione è in un substrato materiale subconscio2. Nell’isteria, i sintomi della paralisi organica appaiono spezzettati. Si 2
Si tratta di una delle rare volte in cui Freud usa la parola subconscio. Ancora possiamo ritrovare il termine negli Studi sull’isteria (1892-1895).
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tratta di sintomi di rappresentanza, ma – aggiunge Freud – di un tipo particolare di rappresentanza, totalmente in contrasto con le rigide leggi che regolano le lesioni organiche. Per esempio «dell’afasia organica, essa riproduce la sola afasia motoria isolata e, cosa che sarebbe inaudita per l’afasia organica, può riprodurre un’afasia totale (sensoria e motoria) per una data lingua senza peraltro minimamente intaccare la facoltà di comprendere ed articolare un’altra lingua, così come ho potuto osservare in alcuni casi inediti» (1893, p. 75)3. Il richiamo è evidentemente al caso clinico di Anna O., allora inedito e nel quale appare, per ben tre volte, un accenno al fenomeno della parafasia che Freud interpretò proprio come una profonda disorganizzazione funzionale del linguaggio. Il sintomo isterico di Freud somiglia in modo notevole all’espressione ricorrente dell’afasico: è un elemento del linguaggio che ha avuto un significato ma che, rimanendo separato dalla struttura degli elementi contingenti, l’ha perso. Ciò che Freud mutua dalla teoria dell’afasia è che l’apparente mancanza di significato di un sintomo, posto in un contesto passato, molto specifico e traumatico, potrebbe acquisire un senso. Ora, se perfino la consistenza di una lesione organica, non importa dove, determina una nuova concezione della fenomenica parafasica, giacché a subire una lesione sono i due sistemi di rappresentazione, appare evidente quanto la comprensione dell’isteria – come lesione di un’idea specifica, selettiva, traumatica ma liberata da una specifica ubicazione nel sistema nervoso, e dunque esperienza non elaborata in senso associativo – sia debitrice agli studi sulle afasie. L’afasia metteva in discussione altri elementi del linguaggio. Cos’è che avevano perso gli afasici? Il ricordo dei segni del linguaggio, o la capacità di produrre segni? Bastian superava tale questione proponendo la distinzione tra il ricordo deliberato ed il ricordo involontario, che corrispondevano ai neuroni ed alle fibre connettive di collegamento. Non ricordare significa perdere la possibilità di collegamento. Neuroni o parole che fossero, non avevano un “locus” specifico, essendo, alla maniera di Jackson, soltanto dei dispositivi nervosi collocati in un indefinito spazio fisiologico, indipendente dal cervello anatomico. Il
3 Del resto questa precisazione era già stata fatta nel suo lavoro sulle afasie, nel quale dichiarando esplicitamente che ad un disturbo avvenuto nella lingua madre non possa sfuggire una lingua acquisita successivamente, demolisce anche l’ipotesi delle “lacune funzionali” di Meynert.
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cambiamento della qualità dello spazio e l’indipendenza dall’anatomia del sistema nervoso permettono a Freud di dire che nell’isteria è un’idea a soffrire per una lesione. Ogni sintomo sembra costruito sulla base di alcune idee. La differenza tra un sintomo nevrotico e uno neurologico consiste nel fatto che la posizione del primo nel corpo è determinata dalla struttura specifica di un sistema di pensieri. Il “locus” del sintomo esprime una corporalità fallace, giacché non è un organo in quanto tale ad essere malato, ma è “l’idea” di quell’organo che costituisce il filo della rigida immobilità della nevrosi. La sua soluzione presuppone una teoria che Freud all’epoca chiama das Abreagieren der Reizzuwachse, ossia abreazione catartica, che pretende un metodo speciale: la psicoterapia ipnotica.
In cammino verso il linguaggio Dall’afasia all’isteria c’è una disfunzione dell’apparato di linguaggio, un disturbo delle relazioni tra l’associazione dell’oggetto e la rappresentazione della parola. La monografia teorizza un’articolazione sintattica tra i due sistemi che permette all’isteria di essere un disordine semantico. «Quando un’immagine è emersa nel ricordo, si può sentir dire il paziente che essa va sbriciolandosi e perdendo chiarezza a misura che egli procede nella sua descrizione. Il paziente per così dire la smonta nel tradurla in parole» (Breuer e Freud, 1892-1895, p. 147). L’immagine visiva lascia il posto al potere determinante della parola. L’espressione sintomatica effetto del “linguaggio perduto”, secondo il modello del sistema parola/oggetto, ossia la relazione tra la specifica rappresentazione della parola e la specifica associazione dell’oggetto, un tempo rifiutata, torna ad essere ribadita nella coscienza verbale. Nell’afasia accade in modo analogo che le espressioni siano pensieri congelati, ripetuti, al di fuori della possibilità per il soggetto di esercitare una qualche forma di controllo. Egualmente per i sintomi isterici. L’apparato psichico è un fatto di linguaggio. La posizione dominante dell’immagine acustica pretende una tecnica correlativa. È la talking cure di Berta Pappenheim. In un certo qual modo, prima che nascesse e si consolidasse la nuova linguistica, Freud l’aveva già messa al lavoro. Freud si pone a livello di una teoria strutturale del linguaggio, e questa chiave gli permetterà di andare molto lontano.
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Non sa ancora della linguistica strutturale, ma certamente conosce e cita Delbrück e Kussmaul. È nell’analisi dei lapsus, degli atti mancati, nei sogni, nel sintomo e perfino nel motto di spirito, che Freud coglie l’importanza del linguaggio e della sua organizzazione. Il sogno, certo, costituisce il suo campo privilegiato. È là che sono descritti la condensazione e lo spostamento. È certo che per Freud la riflessione sul linguaggio è il filo rosso di tutta la sua produzione teorica. Stekel gli suggerisce la lettura di un piccolo saggio scritto nel 1884, da un tale, un filologo tedesco, Karl Abel, il Significato opposto delle parole primordiali, e folgorato scrive a Ferenczi, il 22 ottobre del 1909: «Nell’antico egizio, nel sanscrito, nell’arabo, ma anche nel latino, gli opposti vengono denominati con la stessa parola. Non avrà difficoltà ad indovinare quale parte delle nostre osservazioni sull’inconscio venga così convalidata. È da molto tempo che non provavo un tal senso di trionfo» (Freud-Ferenczi, Lettere 1908-1914, p. 90). E nel 1910, come una sorta di anticipazione metapsicologica, scrive un piccolo saggio, che porta lo stesso titolo di quello di Abel, e che contribuisce a chiarire un punto oscuro de L’interpretazione dei sogni: «Il “no” sembra non esistere per il sogno. I contrasti vengono riuniti con singolare predilezione in unità o rappresentati insieme» (p. 293). In egiziano antico Ken può significare sia “forte” sia “debole”. Qui c’è tutta l’arbitrarietà del significante. Il funzionamento del discorso inconscio si ricollega, grosso modo, al funzionamento originario del linguaggio. La questione del doppio senso delle parole, l’importanza stessa e l’entusiasmo che Freud attribuisce a questa riflessione sul linguaggio, sono la testimonianza del fatto che, essendo la parola ad agire nella cura, «s’impone, come congettura irrecusabile, il fatto che la nostra comprensione e traduzione del linguaggio onirico sarebbe migliore se fossimo più informati sull’evoluzione della lingua» (Freud, 1910, p. 191). In una nota a piè di pagina dello stesso lavoro, suppone che, nel lapsus, l’originario significato opposto delle parole rappresenti quel meccanismo precostituito, che ci fa dire il contrario di ciò che si vorrebbe. La pluralità di significati di parecchi elementi onirici ha il suo riscontro in antichi sistemi di scrittura, essendo l’interpretazione di un sogno perfettamente analoga alla decifrazione di un’antica scrittura ideografica, per esempio i geroglifici egiziani. Sono qui presenti alcuni elementi non destinati all’interpretazione, ma solamente ad assicurare, in qualità di determinativi, la comprensione di altri elementi. Ancora in una piccola nota intitolata Il significato della successione delle vocali,
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Freud sostiene l’asserzione di Stekel – contenuta in una relazione purtroppo irrintracciabile – secondo il quale, nelle associazioni come nei sogni, certi nomi si nascondono attraverso la sostituzione con altri, conservando dei primi soltanto la successione delle vocali. E ancora non ci può sfuggire il suo lavoro sulla negazione. «Non è mia madre» (1925, p. 197) sembra una soppressione della rimozione, senza che vi sia una conseguente accettazione di quanto rimosso. Non è qui evidente quanto il fattore linguistico abbia una funzione determinante in questo complesso processo, e quanto la negazione sia essa stessa costitutiva del processo negato?
La struttura dell’inconscio Lacan si chiederà: si tratta di un’analogia, e i meccanismi dell’inconscio sono solo simili a quelli del linguaggio, o l’inconscio è una lingua? La prima parte di questo interrogativo trova sostegno, soccorso e ispirazione nella linguistica generale di Ferdinand de Saussure, e poi in Jakobson. E se Lacan ha a sua disposizione lo strutturalismo e la linguistica generale, se può contare sull’essenziale dicotomia di langue e parole, se può infine, sottraendo la parole al linguaggio, assumere all’inizio del suo percorso la langue a fondamento del suo grande Altro, diventa ancora più evidente il genio di Freud, che senza tutto questo scrive quell’assoluto capolavoro che è il motto di spirito. Un contributo “minore”, e piuttosto eccentrico in relazione a quella che sembrava la direttrice principale del suo lavoro, all’epoca, la stesura dei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905a). Ed ecco invece che sulla scrivania di fronte sta prendendo forma Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905b). È Jones a raccontarci che si alterna tra due scrivanie. Poco menzionato dallo stesso Freud, che ne minimizza l’importanza, ha invece l’impianto rigoroso di una monografia scientifica. Per avere lavori di così vasto respiro teorico, dopo il Progetto ed il capitolo settimo dell’Interpretazione dei sogni (1899), bisognerà aspettare i suoi scritti di metapsicologia, e soprattutto le grandi opere teoriche della maturità. Anche in questo caso il linguaggio e l’inconscio vanno a braccetto. Con qualcosa di differente. Il linguaggio del sogno, del lapsus e del sintomo trovano solo retrospettivamente il loro testo. Ci sono tutti gli attributi della significazione, c’è un’assoluta non causalità, e un desiderio rimosso di comunicare qualcosa a qualcuno, anche se è qualcuno
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che non si sa e che non lo sa: eppure resta saldamente garantita da siffatto processo di significazione l’impossibilità che qualcosa venga comunicato, e meno che ad altri al soggetto stesso. Di differente, nel motto, c’è che non solo vuole comunicare, ma per esistere, in quanto tale, deve comunicare. Qualcuno che ascolta, e che con la sua risata dà conferma dell’efficacia del motto. Una formazione dell’inconscio, che per esserci non si serve di un metalinguaggio, e che per la sua riuscita gioca con il linguaggio stesso. Freud riscatta la barzelletta, la sua tecnica, il suo intento, e ne tratteggia la psicogenesi. La definisce sempre tendenziosa, quand’anche innocente. Vuole complicità. È piacere preliminare. Kuno Fischer, Theodor Vischer e Theodor Lipps, insieme ad Heinrich Heine, sono le fonti di Freud. Tre bravi professori di piccole università tedesche e uno scrittore, autore del notevole personaggio del callista HirschHyacinth – dice Lacan all’inizio del suo quinto seminario, quello sulle formazioni dell’inconscio, che apre proprio con il Witz – forniscono a Freud tutte le barzellette che gli servono. E Freud qui opera proprio con l’elemento fonologico, con il significante. Ciò che è fissato e definito da un uso si apre con il Witz ad un senso nuovo, attraverso una rigorosa tensione formale, per cui solo in quel modo, con quella costruzione, si può raggiungere l’intento del motto. La riprova è che la stessa storiella si può raccontare in molti modi, lasciando indifferenti o facendo addirittura tristezza. Dunque c’è una tecnica del significante ed una sua relazione strutturale con l’inconscio. L’essenziale è il legame transindividuale, la funzione transindividuale dell’inconscio, che si compie solo nell’Altro, in quanto luogo del codice. «Il motto di spirito consiste nel fatto che avviene qualcosa nell’Altro che simbolizza quella che potremmo chiamare la condizione necessaria ad ogni soddisfacimento. Si tratta del fatto che siete ascoltati al di là di ciò che dite» (Lacan, 1957-1958, p. 152). Freud mostra, con il motto di spirito, quanto sia forte la sua affermazione e il suo avvertimento di trattare il sogno come un rebus, alla lettera, di lavorare insomma con i soli significanti, e dunque, a partire proprio dall’assenza di possibilità di comunicazione (paradosso!), considerare linguaggio gli occasionali e impenetrabili significanti del sogno, ma anche del lapsus e perfino dei sintomi. La sua tensione verso l’umorismo del resto gli deriva dai sogni “insopportabilmente spiritosi” dei suoi pazienti. Perché tanto umorismo? «Tali devono essere per necessità, dato che sono sotto pressione e che è loro preclusa la via diretta. L’evidente umorismo di tutti i processi inconsci
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
è strettamente legato alla teoria dei motti di spirito e alla comicità» (Lettera a Fliess dell’11 settembre 1899, p. 408). Dal sogno al motto, è il fondamentale passaggio dall’individuale al sociale, dall’uno al tre. Paradigma dell’ascolto analitico. Abbiamo bisogno di un Altro che faccia legame con noi. L’arguzia, tanto quanto l’analisi, pretende un Altro. Lo spirito vuole chi racconta, chi è oggetto del racconto e chi ascolta. Freud scrive: «Il processo in atto nella prima persona del motto genera piacere levando l’inibizione, riducendo il dispendio in loco; ma esso apparentemente non si acquieta fino a quando, facendo intervenire la terza persona, non ottenga con lo scarico l’alleviamento generale» (Freud, 1905, p. 141). La posizione davvero unica del lavoro di Freud sul motto di spirito riguarda diversi versanti. Intanto è l’unico caso in cui il ritorno del rimosso è immediatamente una manifestazione linguistica dell’inconscio; ed è troppo facile l’obiezione di quanto per definizione lo sia anche il lapsus, che, però, non è un atto di comunicazione verbale socialmente istituzionalizzato. In secondo luogo, l’analisi di un lapsus, di un sogno o di un sintomo stesso, per esemplare che sia come analisi di linguaggio, non è concepibile senza la storia individuale del soggetto, da cui trae senso e a cui contribuisce a darne. La coerenza interna di essi non consente la comprensione a nessun altro e, per lo più, resta estraniato il soggetto stesso. Freud si pone subito il problema di sapere che cosa fa di un motto di spirito un motto di spirito. E prova a esprimere con altre parole lo stesso pensiero, adottando il procedimento della riduzione. Irrimediabilmente non si ride più. C’è un vero e proprio gioco con i significanti verbali. C’è una materia formale, ma anche una forma della sostanza. Consideriamo l’esempio freudiano preso da Heine: «mi ha trattato proprio come un suo pari, con modi del tutto familionari». La riduzione proposta è: «mi trattava proprio familiarmente beninteso per quanto ci può riuscire un milionario». La frase che Freud aggiunge, subito dopo, non è altro che una seconda proposta di riduzione più astratta: «l’affabilità di un uomo ricco ha sempre qualcosa di fastidioso per chi la sperimenta» (ivi, p. 16). Di queste tre frasi – ma se ne potrebbero fare delle altre – solo una è un motto di spirito. Hanno ogni volta una forma, una sostanza e una materia del contenuto, quest’ultima comune a tutte e tre, essendo la prima il motto, la seconda la sua riduzione, e la terza quella che Freud chiama “tendenza”, ossia il vero e proprio ritorno del rimosso. Ora, il secondo discorso, ovvero la sua riduzione, la scomposizione del motto riorganizzata con altri
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significanti, apre all’analisi. La sua squalifica, in quanto motto, apre lo spazio all’analisi retorica. Ma non fa ridere. Freud si è posto al livello del formalismo, ben inteso non di un’estetica delle belle forme, ma, per esempio, di quella della letteratura. Se in generale un pensiero si può dire in forme discorsive diverse, il carattere arguto non può risiedere in esso, e, dunque, va cercato nella sua dizione letterale. Freud, dirà Lacan, ha visto e adoperato le tecniche del significante. Perché è il fenomeno tecnico a connotare il motto di spirito, il suo umorismo e la sua relazione con l’inconscio. Nella seconda lezione del V Seminario, Lacan evidenzia il modo sorprendente con cui i neurologi, affrontando il problema delle afasie, progrediscono per necessità nel loro apprendimento linguistico, cosa a cui sembrano sottrarsi gli analisti! Non Freud, che è partito esattamente da là nella fondazione di una teoria, la cui arte e la cui tecnica poggiano interamente sull’uso della parola. E nel suo “ritorno a Freud” uno dei tre grandi cavalli di battaglia non può che essere il lavoro sul Witz. Il familionario, che cos’è? Un neologismo, un lapsus, una battuta di spirito? È certo che una battuta lo sia. Che cosa ci dice Freud? Che qui è riconoscibile il meccanismo della condensazione, che essa si concretizza nel materiale del significante, che si tratta di una sorta di emboutissage, per mezzo di chissà quali macchine, fra due linee della catena significante. L’imbutitore Freud fa uno schema, che Lacan definisce grazioso, ma soprattutto significante, nel quale appare in primo luogo familiari e poi, sotto, milionari. L’arguta tecnica ha gioco facile con ari, giacché lo ritroviamo in entrambi i significanti, e famili e mili, ugualmente, si condensano, e nell’intervallo fra i due appare familionario: FAMILI ARI MILIONARI FAMILIONARI Ci sono i tre tempi come li vediamo riportati nello schemino di Freud, e due catene, dice Lacan, quella del discorso e quella del significante, congiunte nel messaggio. I modi del tutto “familionari” con cui è stato trattato il bravo callista di Heine dichiarano un messaggio totalmente incongruo e fuori codice. È ciò che “significa” a violare il codice. Allora, c’è violazione, ma anche riammissione. Quello che Freud chiama il terzo è, per Lacan, l’Altro. È l’Altro che ricolloca
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
l’incongruità del messaggio nel codice, ammettendola come battuta di spirito. Del resto familionari è ben lontano dall’essere un neologismo – Schreber ce lo insegna – restando tutto preso nelle trame dell’immaginario. Il motto di spirito, il Witz, ha bisogno del Nome del Padre, che gli assicura la riammissione nel codice, cioè che l’Altro simbolizzi la condizione necessaria a ogni soddisfacimento. Si tratta della possibilità di essere ascoltati al di là di ciò che si dice. Il Nome del Padre è, in definitiva, quel che può dire sì a questo neologismo. E qui c’è il punto di vista proprio della funzione e del campo della parola nel linguaggio. Lacan rilegge Freud insieme ai linguisti, e ci ricorda che con il linguaggio ha costruito la psicoanalisi. Certo la radicalità estrema con cui strutturalizza il Witz lo svia, come sostiene J.A. Miller, da ciò che nel mathema ha vita difficile, il pathos. E chiama sinuosi i percorsi di Freud quando ci parla del piacere puro. Perché il Witz è anche verbo goduto! E occorreranno per Lacan diversi seminari perché lo dichiari. Lacan sostiene che il piacere della battuta di spirito si compie solo nell’Altro, in quanto luogo del codice. È certamente vero. Per Freud il piacere della battuta di spirito si radica in uno stato del soggetto, in cui il grande Altro è ancora incostituito e dove la connessione tra significante e godimento è diretta. È la parte patetica, quella sull’origine del piacere che il motto procura e che Lacan, in fondo, non tratta, lascia da parte. Freud prende come retroscena del motto di spirito i rumori, i giochi sonori del bambino. Risonanze di lalangue! Certo, nel momento del massimo splendore strutturalista, dove regnano la metafora e la metonimia, sovrane del simbolico, architravi dell’organizzazione significante, dove tra scivolamenti del desiderio, rimodellamento del bisogno in domanda, non c’è proprio spazio per l’idea tutta freudiana di sviluppo, di incostituito. L’Altro è lì da sempre. È pur vero che Lacan ci parla del piacere puro legato all’esercizio del significante in quanto tale, ma che nel registro da lui privilegiato all’epoca del suo ritorno a Freud, il simbolico, non può fare a meno di essere domanda, e domanda di riconoscimento, desiderio dell’Altro. Insomma, non soltanto il desiderio viene rimaneggiato nel sistema significante, ma deve anche rispondere ad una modalità secondo la quale esso è istituito nell’Altro. Per Freud comincia come “gioco”, è il piacere puro del senza senso, è la libertà dell’assurdo, sono i trastulli con i pensieri sciocchi: il poco di senso del motto trova là le sue radici. Qui potrebbe valere quello che Freud, ne L’Io e l’Es, esprime a proposito di cos’è l’inconscio: ogni rimosso è inconscio, ma
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L’INCONSCIO È STRUTTURATO COME UN LINGUAGGIO
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non ogni inconscio è rimosso. E la parola ha un’origine sensoriale, residuo mnestico della parola udita. Allora, possiamo dire che Freud riconosca un inconscio non freudiano? Un inconscio non decifrabile, e che in Analisi terminabile e interminabile è proprio di questo che si tratta? Ora sappiamo che le tesi di Lacan si sostengono evidentemente delle prime opere di Freud analista, nelle quali i fatti chiamati sogno, lapsus, sintomo o motto di spirito sono messaggi da decifrare. E allora va da sé che si giustifica la loro necessità e la loro ragione solo se riferiti alla struttura del linguaggio. La condizione dell’inconscio è il linguaggio stesso. Alla base di ciò non può che esserci il concetto di struttura. Semplicemente significa che l’inconscio è determinato da leggi strutturali. Si tratta di una topica delle relazioni. Questo significa ancora che la relazione, o se si vuole la combinazione, pretende dei posti. Dunque un elemento assume valore in relazione al posto che occupa. Diciamo subito che questo punto di vista è desostanzializzante nella misura in cui, quando un elemento della struttura arriva in un altro posto, non si trascina dietro le sue proprietà, ma ne acquisisce di nuove legate al posto in cui è giunto. L’inconscio non è più così romantico, misterioso perché è… vuoto. Non si agita nelle profondità, è sì “l’altra scena”, ma un’altra scena nella quale ogni elemento ha la sua identità fuori di sé. È vuoto nella misura in cui, non avendo proprietà intrinseche, essendo dunque privo di una sostanza propria, non si sostiene sulla profondità delle ipotesi in sé. Al contrario le cose sono in superficie, ci sono correlazioni elementari e complessificazioni derivanti da combinatorie: «un significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante» (Lacan, 1974, p. 822) è la tautologia che meglio mette in evidenza l’ipotesi strutturalista. Con qualche differenza. Le leggi di composizione della struttura presuppongono un soggetto, in quanto prodotto di una combinatoria. Nulla osta per la linguistica o per l’antropologia. Come dice Colette Soler, per occuparsi dei miti non occorre il “mitante”. Per la psicoanalisi c’è un soggetto che patisce, segnato dal linguaggio, ma non del tutto. Quel “non del tutto” sarà l’altra questione lacaniana. Se la preliminare questione aveva determinato l’apoteosi del registro del Simbolico, quest’altra porterà sulla scena un altro registro, il Reale, che fa questione alla decifrazione del senso. Ora, che la struttura di linguaggio avesse degli impossibili, che vi fossero punti di arresto e limiti inevitabili all’operazione freudiana dell’interpretazione, per Lacan era evidente, e lo era perfino per Freud.
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
Dunque nel Simbolico c’è già un punto di reale. La freudiana roccia basilare, e per Lacan dell’impossibile compatibilità tra desiderio e parola, tanto per dirne una. Ma sorvolando – e tanto, giacché la strada, benché affascinante, è lunga e tortuosa – possiamo addirittura parlare di una sorta di abiura del Simbolico, abiura della sua autonomia. Quello che nella catena significante circola, ossia soggetto barrato, verità, morte, desiderio, diventa godimento. Il significante è il contrassegno del godimento. Obiezione. Ma la dimensione del significante non è forse impensabile senza la sua connessione con il godimento? Sicuramente. Quello che però qui entra in gioco è lo spostamento della relazione tra significante e godimento, pensata come fantasma, e la relazione con il godimento pensata come ripetizione. La ripetizione cambia il valore del sintomo, che non è più solo il posto di quel fantasma fondamentale da rintracciare, ma ripetizione di godimento, che il fantasma rappresenta non solo nel contenuto, ma nella forma stessa che assume. Ancora, Encore, e Lacan cambia le regole del gioco. Se il punto di partenza erano il linguaggio e la parola, come comunicazione rivolta all’Altro, se il significante era pensato come il grande segregatore del godimento, ora il significante rappresenta il godimento. Allora quella ripetizione mortifera del sintomo, non più o non interamente interpretabile con l’operazione freudiana dell’interpretazione, segna la fine dell’analisi? I freudiani avevano risposto alla questione della roccia con l’analisi delle resistenze. Senza che fosse accaduto granché. Si era richiuso l’inconscio, come ironizzava Freud? Tutt’altro. Bisognava ripensare lo statuto del sintomo. E del linguaggio. E Lacan si è inventato lalingua, scritta tutto attaccato, che è poi la parola, prima della sua sistemazione ortografica e grammaticale. Viene dal sonoro, pur non riducendosi a questo. Sono gli S, i significanti non in catena, che fanno la parola goduta. Lalingua non è il Simbolico, è il Reale. Ed il sintomo, il suo nucleo, viene dal Reale. C’è un incontro contingente tra verbo e godimento. Un verbo goduto. Il posto del godimento è però sempre lo stesso posto: il corpo. Che qui è in questione. Il mistero del corpo parlante, lo chiama Lacan. Allora, dall’inconscio come verità all’inconscio sapere, per aprire infine tante questioni, con quello che Colette Soler dirà l’inconscio reale.
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L’INCONSCIO È STRUTTURATO COME UN LINGUAGGIO
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
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LALINGUA: GODIMENTO DELLA GRAMMATICA, GRAMMATICA DEL GODIMENTO
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di Antonella Gallo
«Padre Dante mi perdoni, ma io sono partito da questa tecnica della deformazione per raggiungere un’armonia che vince la nostra intelligenza come la musica. Vi siete mai fermato presso un fiume che scorre? Sareste capace di dare valori musicali e note esatte a quel fluire che vi riempie gli orecchi e vi addormenta di felicità?» (Risset, 1979, p. 209.)
«Un giorno, mi sono accorto che era difficile non entrare nella linguistica, una volta scoperto l’inconscio» (p. 15). Lacan comincia così il primo paragrafo del secondo capitolo di Ancora, dedicato all’amico Jacobson. Che il linguaggio costituisca il tessuto connettivo della psicoanalisi e che lo psicoanalista «non solo è costretto a parlare della parola, ma a parlarne con la parola» (Bachtin, 1975, pp. 160-161) non rappresenterebbe di per sé una grossa novità, ma la carica innovativa di Lacan è costituita, in un primo momento, dall’applicazione delle strutture della linguistica all’inconscio ed in seguito dal ruolo costitutivo attribuito al linguaggio nei confronti del soggetto. Il linguaggio, chiave di volta della psicoanalisi per accedere alla verità-altra dell’inconscio, con Lacan, infatti, rappresenta la possibilità di dare una risposta assolutamente sovversiva nei riguardi dello stesso Freud, al problema filosofico di sempre: la divisione e il rapporto tra corpo ed anima, tra res extensa e res cogitans, in altre parole il mistero della soggettività umana. Il parlare dell’uomo diviene il trait d’union tra soma e psiche ed acquista quasi la dimensione dell’anima descritta da Aristotele, molte volte citato in Ancora e nell’intera opera lacaniana. Al pari dell’anima, infatti, il parlare non può sussistere indipendentemente dal corpo e traduce in atto la potenzialità umana. Stabilito, sin dall’inizio della sua opera, il valore di pietra angolare della lingua, Lacan attua un percorso intellettuale che potremmo de-
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
finire iniziatico, in quanto dalla rarefazione della forma dell’immagine narcisistica, passa al dominio del simbolico ed approda finalmente a quel reale che chiuderà il cerchio della sua adesione a Freud, con la concettualizzazione di un soggetto di godimento. Si tratta di un soggetto da cui è escluso ogni riduzionismo meccanicistico, in virtù di ciò che definirei un misticismo laico, che restituisce valore all’impossibile a dirsi e a definirsi, il Reale umano, che in quanto tale, paga pur sempre un tributo alla civiltà interfacciandosi con l’Altro del Simbolico e dell’Immaginario. Lacan pensa che siamo messi in gioco dal godimento, aggiungendo che «le pulsioni sono l’eco nel corpo del fatto che ci sia un dire» (Lacan, 1975-1976, p. 16). La parola, il dire, la lingua, si riaffermano come l’oro della psicoanalisi, ma intrecciandosi al destino del corpo, all’eco che questi ne dà attraverso la carne e non solo il simbolo. Negli anni ’50, dopo la concettualizzazione dello stadio dello specchio, oggetto unificante del corps ancora morcelé del piccolo dell’uomo, era stata una necessità logica attribuire un primato al simbolico. Se l’uomo partecipasse unicamente alla dimensione immaginaria, tutto sarebbe evanescente e lo stesso oggetto – dice Lacan nel Seminario II – non sarebbe altro che «[...] miraggio di un’unità che non può mai essere riafferrata sul piano immaginario» e «tutta la relazione oggettuale non può che risultare colpita da un’incertezza di fondo» (Lacan, 1954-1955, p. 195). Novello Adamo, l’uomo riceve soccorso, nell’eterno fluire delle percezioni, dall’Altro del simbolico, che gli offre il potere “divino” di storicizzare gli oggetti, di renderli stabili nel tempo e nello spazio. La nominazione gli permette, infatti, di far sussistere gli oggetti al di là di un rapporto narcisistico in cui essi sarebbero percepiti in modo istantaneo. «La parola, la parola che nomina, è l’identico. […] Il nome è il tempo dell’oggetto» (ivi, p. 195). La parola del soggetto lacaniano, – che dagli ’50 agli anni ’70 è tout court quello dello schema L e del grafo, in rapporto imprescindibile seppure dialettico, con l’Altro – ci offre l’accesso all’inconscio significante “strutturato come un linguaggio”, ossia un inconscio che offre la sua verità attraverso le maglie della metafora e della metonimia. Il soggetto stesso non può essere rappresentato che da un significante per un altro significante. Tali definizioni di soggetto, di inconscio e di linguaggio articolato come catena significante, ineccepibili dal punto di vista logico e tranquillizzanti dal punto di vista della tecnica terapeutica, urtano, tuttavia, contro qualcosa: l’altro, che non è Altro, la soggettività insopprimibile che non si esaurisce nel
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LALINGUA: GODIMENTO DELLA GRAMMATICA
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gioco dei significanti, ma rappresenta piuttosto l’impronta originale ed irripetibile di ogni uomo, il tutto “ma non questo” (vedi Nominè, 2008). Questo quid Lacan lo trova nella lingua, secondo un’accezione semantica del tutto diversa dai primi anni e parallela all’evoluzione del concetto di pulsione e godimento. La pulsione disincarnata del grafo del desiderio e ridotta ad una risposta individuale alla domanda dell’Altro1 ed il concetto di godimento, infatti, sono ripensati ed assimilati in una concezione più ampia, che non prescinde dal corpo, ma ne raccoglie le ragioni e le urgenze. Lacan, in tal senso, ritorna completamente a Freud, ma in una dimensione de-biologizzata, che respinge qualsiasi deriva meccanicistica. Negli anni ’70 la pulsione diviene «quel montaggio attraverso cui la sessualità partecipa alla vita psichica in modo da conformarsi alla struttura di faglia che è propria dell’inconscio» (Lacan, 1964, p. 170). Di essa Lacan ci offre anche una curiosa immagine, “un collage surrealista” in cui «una dinamo in funzione sarebbe collegata ad una presa del gas, da cui esce una penna di pavone che solletica il ventre di una bella donna, che è lì in pianta stabile per la bellezza della cosa, con un meccanismo che può essere invertito in ogni momento; i fili della dinamo diventano la penna del pavone, mentre la presa del gas passa nella bocca della dama e nel bel mezzo esce un sedere» (ivi, p. 165). Il godimento, a sua volta, che era stato concepito prima in una dimensione “autistica”, intra-immaginaria e poi ripartito tra desiderio e fantasma2, ritorna ad essere il leit motiv del soggetto umano. A partire dagli anni ’70, infatti, il godimento può identificarsi tout court con la meta della pulsione, con un completo ritorno a Freud, anche nella sua dimensione energetica. Godimento Uno, idiota, che riguarda unicamente il proprio corpo e non l’Altro. Narciso che gode di sé stesso, Edipo trafitto nel suo godimento dalla Legge, Antigone che trova nella trasgressione la possibilità di godere, cedono il posto all’uomo comune, cosa rivoluzionaria, per il fatto stesso di parlare. «Là où ça parle, ça jouit» (Lacan, 1972-1973, p. 114): quando si parla si gode e tale godimento, che implica il corpo e non solo il registro simbolico è ciò che rende ancora possibile lo slogan dell’inconscio “strutturato come un linguaggio”. Si parla, si ascolta e si gode col proprio corpo, Nel grafo del desiderio la pulsione è rappresentata da questo matema: (S| ◊D) Nel grafo delineato nel Seminario V (1957-1958) il godimento viene ripartito tra desiderio e fantasma: da un lato esso rappresenta il significato della domanda inconscia a cui è ridotta la pulsione nel grafo (S| ◊D), dall’altro si ricollega al fantasma (S| ◊a), che di tale domanda rappresenta l’articolazione singolare. 1 2
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
un corpo sensibile. Dice Lacan: «Che lo sia è un dato di fatto. Proprio perché ha alcuni orifizi, il più importante dei quali è l’orecchio, perché non può tapparsi, turarsi, chiudersi. È per questa via che nel corpo risponde ciò che ho chiamato la voce» (1975-1976, p. 16). Strumento fondamentale della psicoanalisi è sempre il linguaggio, ma secondo un’accezione diversa, corporea, che trasforma la linguistica in linguisteria e la lingua, nome comune preceduto dall’articolo, nel nome proprio lalangue, radice inesauribile del nostro flusso di parole e marchio indelebile della soggettività umana. Con un coup de théâtre la regia di Lacan fa scadere il linguaggio ordinato in catene significanti, dal ruolo di protagonista assoluto, a quello di interprete secondario rispetto a lalangue di cui diviene mera elucubrazione di sapere; esso, infatti, si rivela solo il tributo necessario, imposto agli uomini dal disagio della civiltà, in cui il sens prende il sopravvento, almeno in apparenza, sul je sens e sul je jouis. Due universi apparentemente irriducibili, linguaggio e lalangue, che trovano il loro punto di annodamento solo nel godimento. Il Y a d’ l’Un in lalangue (Lacan, 1972-1973, p. 6, p. 66), uno che «resta indeciso tra il fonema, la parola, la frase o tutto il pensiero» (ivi, p. 144) e che, in quanto tale, non costituisce un anello della catena linguistica, ma resta isolato nella sua singolarità. Ma in definitiva cosa possiamo intendere per lalangue? Derivata dall’impregnazione acustico-linguistica a cui è sottoposto ogni essere vivente ancora prima della sua venuta al mondo, oggetto della rimozione primaria, lalangue affiora di continuo, ma non parla il discorso dell’Altro: l’olofrase tra articolo e sostantivo ce ne offre la sintesi semantica rimandandoci alla lallazione del lattante o anche al canticchiare di chi, non conoscendo le parole, vuole accompagnare una musica. Lalangue è il precipitato di parole, di suoni, di modi di dire, che impregnano ogni essere umano; “la canzone materna” intesa prima che compresa, espressa al di là di ogni tentativo di comunicazione, per il gusto del dire; fondamento roccioso ma plastico della loquela di ognuno di noi. Anarchica, destrutturata, asemantica, libera, priva di senso, lalangue si mostra in apparente opposizione al linguaggio imprigionato, a meno di improvvise rotture, nella struttura grammaticale, volto, almeno nelle intenzioni, alla comunicazione e al contatto: la parola della Scienza, del discorso del maître, del capitalista, dell’universitario, ed in psicoanalisi, della decifrazione alla Champollion, di un inconscio che soggiace alle strutture linguistiche. In lalangue, viceversa, la parola diviene a-pp-arola (vedi Miller, 1996) raddoppiando il suo peso con l’aggiunta di una “p”, e si trasforma nel
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LALINGUA: GODIMENTO DELLA GRAMMATICA
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suo contrario con l’ privativa, attraverso una capriola semantica che ne rigetta la funzione significativa. Esiste, infatti, al di là di qualsiasi significazione, un godimento del parlare, che si mostra evidente nei vocalizzi del lattante o nel compiacimento dell’oratore che si avvolge nel filo del proprio discorso, ma anche nella chiacchiera dell’uomo comune. Godimento ravvisabile nell’improvvisa ribellione alle strutture grammaticali, per una reinvenzione singolare della lingua aperta al gioco, alla musicalità, al gusto della pronuncia in cui la probabilità del con-tatto è ipotizzabile grazie agli affetti/effetti e non alla comunicazione. Non a caso per Freud la grammatica e la forma in genere agiscono come uno strumento censorio dell’inconscio: il poeta, lo scrittore riescono attraverso una maschera a mettere in scena le fantasie «che il sognatore a occhi aperti nasconde agli altri accuratamente […] giacché ha motivo di vergognarsene» (1907, p. 383). Per Mario Lavagetto (1985) la forma è determinata dalla censura che ha un’ampiezza molto variabile ed è condizionata sia dalla deformazione e da tutti gli altri procedimenti del lavoro onirico, sia dalle più sofisticate elaborazioni formali, in cui si rispecchiano le tendenze e le dominanze estetiche di un’epoca. Non ci si può stupire, quindi, che siano proprio gli scrittori mediocri a rivelarci, con maggiore evidenza, le manifestazioni dell’inconscio, mentre il vero artista ne offre, al lettore ignaro, una versione velata, che gli suscita un incredibile piacere. Un piacere che Freud definisce preliminare in quanto egli crede che «il vero godimento dell’opera poetica provenga dalla liberazione di tensioni nella nostra psiche» (Freud, 1907, p. 383). Vedremo quanto Lacan si inscriva nel solco di questa concezione, ma nello stesso tempo quanto la superi in spericolatezza, facendo del parlare stesso un godimento; per ora interroghiamoci con Freud sul “particolarissimo segreto” con cui il poeta riesce a sedurre il lettore «con un profitto di piacere puramente formale e cioè estetico» (ibidem, p. 383). Marcel Proust, un artista che, per molti versi anticipa, sintetizza e traduce in immagini e parole il pensiero di Freud e Lacan, pur senza conoscerli, ci offre la sua soluzione: Le uniche persone che difendono la lingua francese (come l’esercito durante l’affare Dreyfus) sono quelle che ‘l’attaccano’. L’idea di una lingua francese, che esiste al di fuori degli scrittori e che si protegge, è inaudita. Ogni scrittore è obbligato a farsi la propria lingua così come ogni violinista è obbligato a farsi il proprio suono. […] Non voglio dire di amare gli scrittori originali che scrivono male. Preferisco – e forse è una debolezza – quelli che scrivono bene. Ma non scrivono bene che
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
a condizione di essere originali e di farsi la propria lingua [Proust M. (1970-1993), vol. VIII, pp. 276-277, in Lavagetto, 2011, p. 54].
Ed ancora:
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L’unico modo di difendere la lingua, è attaccarla, ma sì Madame Strauss! Perché la sua unità non è fatta che di contrari neutralizzati, di un’apparente immobilità che nasconde una vita vertiginosa e perpetua. Non si ‘tiene’ infatti al cospetto degli scrittori di un tempo che a patto di avere cercato di scrivere in un modo del tutto diverso. E quando si vuole difendere la lingua francese, in realtà si scrive in modo del tutto opposto a quello del francese classico (ivi, p. 55).
Come non pensare, attraverso queste parole, all’ “apparente immobilità” della lingua e al substrato di “vita vertiginosa e perpetua” di lalingua? Già nel 1500 gli attori, che al pari degli psicoanalisti, col linguaggio hanno sempre intessuto un rapporto speciale, per sfuggire al potere persecutorio nei confronti della parola, della Chiesa, emigrarono dalle terre d’Italia negli altri paesi d’Europa, inventandosi una lingua speciale, il grammelot, che sabotava l’ordinaria struttura sintattica. Imitazione sonora della lingua straniera, mescolata a qualche significante in uso, a suoni, a neologismi, a onomatopee, il grammelot era volto a rendere la musicalità della lingua del luogo e non il significato. «La regola dell’autentico grammelot»3 – scrive Dario Fo – «è quella di non usare nemmeno una parola che significhi qualcosa, al massimo è concesso di pronunciare termini che alludano a oggetti o persone, non di più» (2003, p. 344). «Deo che fam! STRAGUOGNANTE. Moro! Sento straboccare le bǘdela che sbate come campane en DROFEGNAM, DIRENDON, DIRENDOOLA. En do son mi? Una cusina?... Vai! Sbordéla, che mò te dago de grignire…» (ibidem, p. 337). Questo è un esempio del grammelot dello Zanni veneto, nel Mistero Buffo; immaginiamo di ascoltare, ora, quello di Scapino: «Greton seu faranno estell briè a sa pisserre mitand leo faià pignè... le vent mon Dieu le vent qui pusse tempête sgragnant i prufisaaaar betieux, je suis en train de prend le vole, trivall auhreammm…aide moi! Fotut!» (ivi, p. 347). Al di là dell’incomprensibilità di quasi tutte le parole riconosciamo 3 Deformazione di grammelot, dall’incrocio di grammeler “borbottare” e argot, che nel gergo degli allievi del regista francese Copeau J. (1879-1949) indicava un esercizio di recitazione fatto di borbottii.
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LALINGUA: GODIMENTO DELLA GRAMMATICA
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facilmente la musicalità francese. Se diamo, infine, la parola a Razzullo non sarà difficile riconoscere l’accento di chi è nato all’ombra del Vesuvio. «Pprille, prille! carabìllu scaratìllo de ‘sto tòo Rizùllo! Remìra quanto è bello e cetrullo scaracàllo... gallo strichìllo, ammòre zinno... zinne d’amore téne! Cucca! Cuciàcca! Du paraviso sgnàcca... zinne sciollòse, chiappe pollose, vòcca de cerasa, vàsame, che moro accà!» (ivi, p. 357). Il grammelot ci dà l’idea, seppure artefatta, del bagno linguistico a cui è sottoposto il bambino quando ascolta “la canzone materna” senza comprenderne il senso. L’ascolta col suo apparato fonatorio, che lo mette in grado di essere impregnato dalla moterialità del linguaggio e di produrre, a sua volta, suoni di cui è evidente il godimento. «Si metta bene a fuoco questo, che di apparato non c’è che il linguaggio». È così che, nell’essere umano «il godimento è apparecchiato», dice Lacan nel Seminario XX (1972-1973, p. 55). “Apparecchiato”, ossia pre-disposto dall’Altro e nello stesso tempo utile a qualcosa, l’apparato del linguaggio si pone, non solo sul versante della più o meno illusoria possibilità di comunicare, ma del godimento idiota, che d’ora in poi andrà alla deriva nel mare magnum della parola. Il soggetto non corrisponde più quello del grafo, sottoposto alla tirannia dell’Altro e alla logica dell’après coup, o quello “tirato ai quattro angoli” dello schema L, costretto entro i confini angusti dell’ immaginario e del simbolico, ma un parlessere dovuto all’incontro della parola col corpo, coalescenza di tratto unario e lalangue, che rivendica la propria autonomia attraverso l’inalienabilità e la singolarità del proprio godimento. L’inconscio, di conseguenza, è strutturato come un linguaggio, secondo le stesse parole di Lacan solo in virtù del godimento che genera. Un inconscio reale e non solo un inconscio-verità, che filtri il rimosso attraverso le maglie fuorvianti della metafora e della metonimia, ma che si risolve, piuttosto, nel modo di portare l’impronta di lalangue, nel saperci fare con essa4. Il che vale a dire saperci fare col godimento, farne un buon uso, declinando attraverso esso i propri desideri. Tale godimento non smetterà di affiorare nel corso di tutta la vita – cosa si può dire, infatti, della vita se non che si “gode”? – nel linguaggio e nel sinthome, che rappresentano i due profili di Giano bifronte. Il godimento delle parole, nell’infanzia, è più evidente. Pensiamo alle 4 Lacan J. (1972-1973), «L’inconscio è un sapere, un saper-fare con lalingua. E quel che si sa fare con lalingua supera di molto ciò di cui si può rendere conto a titolo di linguaggio». p. 139.
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
conte o alle filastrocche senza senso dei bambini: ritmo intessuto di parole, ci testimoniano il gusto del dire, sganciato dalla significazione e dalla dimensione fàtica del discorso, imbricato piuttosto al corpo che si adegua al ritmo impresso dalle parole. Un esempio, tra i tanti, tratto dalla cultura infantile: «Flai ciuppa, flai ciuppa, flai, flai, flai ciuppa – Am-bli-mblesi, sicutè patè, beccati uno schiaffo e non dir perché…». Lalangue è il “modo di parlare” di ognuno di noi, la cifra più singolare ed intraducibile del soggetto che fa sentire la propria voce non solo attraverso un “lessico familiare” o i significanti condivisi del Discorso, ma attraverso la musicalità della loquela, l’intonazione, il ritmo, gli intervalli, il respiro, i tic linguistici, le ricorrenze o le interiezioni non-sense. Non si tratta, tuttavia, di un patrimonio concesso in assoluto: lalangue è in continuo aggiornamento come una collezione in cui si inseriscono sempre nuovi pezzi, e alcuni vengono usati e tenuti in perfetto stato di conservazione, mentre su altri cade una cortina di polvere. Se il filtro dei significanti, infatti, provoca la morte annunciata del godimento, lalangue è la riedizione inarrestabile del godimento circolante in una determinata dimensione storica sia in una dimensione diacronica, per la stratificazione del materiale, sia, in un certo senso, sincronica. In lalangue possono coesistere in una sorta di democrazia, la parola di Shakespeare, quella del Dictionnaire des précieuses, neologismi giovanili come “pariare” o tutta una serie di onomatopee di cui Massimo Troisi è stato maestro, purché in linea con l’esprit du temps. C’è chi della parola-godimento, come abbiamo letto in Freud5, come auspica Proust e come dirà Lacan, sa farne un uso eccezionale, alterando il gioco delle regole e della retorica del tempo ed imponendo il proprio stile. Il massimo esempio del sabotaggio alla grammatica ce lo offre, naturalmente, Joyce, il sintomo, che polverizzando le leggi della parola, ci ha mostrato oscenamente il torsolo di lalangue. Se l’Ulisse o addirittura il Finnegans Wake sono leggibili, malgrado l’asperità dello stile e la dimensione criptica della parola, è perché, secondo Lacan, vi percepiamo un godimento vissuto, reale. Le epifanie di Joyce sono sintomatiche, nel senso che suggellano l’unione inestricabile di corpo e di parola: sabbia che scricchiola sotto i passi, eruttazioni, odore di cibo rancido, sapore di biscotto all’anice passato dalla bocca di Molly 5
Freud (1907) parla in realtà di fantasia equiparata al sogno e al gioco dei bambini, p. 377 e p. 379,
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a quella di Bloom. Epifanie di godimento che piove laddove c’è stata una “rottura del sembiante” con la precipitazione di quel che vi era come “materia di sospensione” (Lacan, 1971, p. 16). Il godimento è ancora più evidente nel Finnegans wake, dove l’epopea della morte e della resurrezione di Tim Finnegan si dispiega nella scomposizione totale della parola e delle strutture grammaticali. «Naluna! Narca?! Noeh? Niente si scuote nello sterpeto. I serpeggianti sentieri del ragno saltico stanno saldi nel canneto. Il silenzio avvolge i dilei agri aperti. Tranquilli tedeum. Azzìo. Nel deerharven, trinciati, scalcati, trisarticolati e smembrati, gli uccelli e pure pollicina si azzittiscono per la paura. ii. Luathan? Nuathan! È stato un avondtempo prima di un po’. Ora il conticinium...» (Joyce, 1939, p. 244 bis). Precedentemente a Joyce, Lewis Carroll aveva realizzato la stessa operazione nel famosissimo Jabberwocky6 di cui abbiamo diverse traduzioni. In rete tre esempi: Mascellodonte: Cenorava. E i visciattivi cavatalucerti Girillavano e sfrocchiavano nella serbaja; Mollicciattoli eran gli spennavoli E gli smarruti verporcelli fistarnuiurlavano. Bruno Garofalo Il Ciarlestrone: Era brillosto, e gli alacridi tossi succhiellavano scabbi nel pantúle: Méstili eran tutti i paparossi, e strombavan musando i tartarocchi. Adriana Crespi Ciarlottonia: Era cotiggio, e gli agilenti agretti Nell’unda trullavano e sghiellavano Tutti meschivi erano i preschietti. E gli stalgici ranti sgruffiavano. Luca Lusuardi Quello che appare più interessante della fin troppo studiata poesia è come le tre traduzioni siano assolutamente diverse l’una dall’altra, dando il segno della presenza di un soggetto, marchiato dalla propria 6
Jabberwocky è la poesia nonsense inserita nel romanzo Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, scritto da Carroll nel 1871.
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lalangue, che si traduce in un lessico assolutamente privato, senza punti di contatto con quello degli altri. Ancora più sorprendente la divaricazione dal testo d’origine, del capitolo del Finnegans dedicato a Anna Livia Plurabelle, tradotto dallo stesso Joyce. Nella nostra lingua le pagine del Finnegans sono ri-vissute, secondo le parole di Gianfranco Contini, «sotto il segno di Dante», che impone la sua phoné alla lingua inglese, che si arricchisce e si stravolge in un continuo ribollìo di godimento, della sensualità di D’Annunzio, di voci dialettali del nord Italia, di interiezioni e di proverbi popolari, mentre i nomi propri – tranne Anna Livia, già in italiano nel testo – sono reinventati ex novo a dimostrazione della loro irripetibile unicità (vedi Risset, 1979). «Mani arroste e trippe in fumo per mandar quei panni del diavolo in demonio pubblico. Sbatacchiali duro e falli netti. Ho i polsi strocchi a rimestolare la muffa. Com’è gangeneroso di turpida tabe! Ma che cozzo ho fotto, per amara di donna, quel di’ di Belvana? E quanto rimase dai frati Branca? Il Marco Oraglio l’ha ben strombazzato, l’attesache’, laonta e tutto, la sporciaquerela e l’eccitazioni e le nevandezze di quell’entritisto. Ma chi fa il rio paga il fio. Chi se mena vanto, raccatta trambusto. E ciò sa il suo dottore. Forcadea, che carogna!» (Joyce, 1928, pp. 2, 3, 4, 5). Le pagine, tradotte nel 1938 da Joyce con Nino Frank7, vennero riviste, nel 1940, da Ettore Settanni, che propose alcuni cambiamenti, che esemplificano il taglio sul godimento che la preoccupazione del Bene opera su lalangue: il «Ma che cozzo ha fotto», fu cambiato, ad esempio, con il più pudico «Ma che cospito ha fotto». «Gerarca e gitana, siam pur sempre della ganghera» si tramutarono in «Caporione o gitana siam sempre della ghanghera» (scritta con un’acca) perdendo, con la censura politica e sessuale, «anche il ritmo e l’effetto di allitterazione» (Risset, 1979, p. 200). Lo stesso Freud, malgrado l’intenzione di produrre dei testi scientifici, come osserva Mario Lavagetto (1985), «cede alla letteratura» nelle sue opere, che non a caso «sono leggibili come romanzi»: l’uso della prima persona, le citazioni letterarie delle opere più amate (pensiamo a Shakespeare e a Goethe) e, soprattutto, i ricordi personali e l’uso reiterato delle metafore alleggeriscono ed impreziosiscono le pagine,
7 Giovane antifascista italiano (Barletta, 27 giugno 1904 – Parigi, 17 agosto 1988) che, con le parole di Joyce, gli faceva “moi-même lui tenant lieu surtout de cobaye et de compagnon de travail…” (“soprattutto da cavia e da compagno di lavoro”), in Joyce J., Scritti italiani, (1979), op. cit., p. 198.
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che si differenziano da un trattato scientifico proprio per lo stile assolutamente personale. Pensiamo a mò di esempio all’uso del latino, che arricchisce di un’eco nuova le parole matrem e nudam8: non si tratta solo della madre che Freud bambino scorge senza vestiti, durante un viaggio in treno e della libido a lei allora rivolta, ma dell’espressione tuttora attuale del godimento. Trasvolando all’ambito della clinica, il modo di parlare dell’isterico si rivela, naturalmente, come il più seduttivo delle strutture: l’isterico cerca di catturare l’Altro nelle maglie del suo godimento, anche attraverso le parole (vedi Izcovich, 2010, p. 77). Il Narratore, ne La Recherche (1927), capisce che può baciare per la prima volta Albertine, allorché ella, riferendosi ad una amica, la designa come una petite mousmé, «vocabolo orripilante, sentendo il quale si avverte il mal di denti, di quando ci si infila un pezzo troppo grosso di gelato», ma che ella pronuncia in maniera «così carnale, così dolce» da dare, «l’impressione di baciarvi», con una conversazione capace «di coprirvi di baci» (Proust, 1927, p. 440). Anche noi, nella pratica, avvertiamo nell’enfasi e nel calore delle parole dell’isterico la nota differenziale dalle altre strutture: diversamente dalla freddezza ossessiva, che non cerca repliche o dalla creatività psicotica, l’isterico, nel tentativo di divenire l’oggetto del fantasma del partner, si compiace di avvolgersi e di avvolgere nel caleidoscopio delle sue parole, poco importa che diano le carezze di Albertine o i graffi di un Bukowsky o di un Celine. «Mon tout grand à moi – scrive Edith Piaf a Louis Gerardin9 – tu seras mon petit professeur que j’écouterai aveuglément comme un maître que je vénère» ancora: «Mon Roi tant aimé, […] je me considère comme ta femme, comme ta chose, et rien de ce que j’ai ne m’appartient … jure de changer… je ne boirai plus jamais… marche sur mon cœur je m’en fous, je t’aime t’aime t’aime t’aime…» (p. 172)10. L’enfasi, l’esagerazione, l’attribuzione all’altro di un potere rigenerativo, l’angoscia esibita della separazione ed il tentativo di fusione con la creazione di un moi-toi indifferenziato, la seduzione, l’idealizzazione ed il distacco finale con la disillusione, la ripetizione, la raffica di parole priva quasi di punteg8 Freud racconta l’episodio a Fliess nella lettera del 3 ottobre 1897, nel corso della “autoanalisi”. 9 Piaf É., Mon amour bleu, Grasset. Pubblicato in Francia nell’aprile del 2011, raccoglie le lettere scritte dalla Piaf, dal 15 novembre 1951 al 18 settembre 1952, a Luis Gerardin. 10 «Mio grande, tu sarai il mio piccolo professore che ascolterò ciecamente come un maître che venero». «Mio Re tanto amato, […] mi considero come tua moglie, come una cosa tua, e niente di quello che ho mi appartiene… giuro di cambiare… non berrò mai più… calpestami il cuore, non mi importa, ti amo ti amo ti amo…».
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giatura offrono un piccolo trattato sintetico, ma estremamente efficace, sulla struttura isterica. La nostra attenzione viene attratta anche dalle piccole anarchie grammaticali: Je t’aimmmmmmmmmmmmmmmme! (ivi, p. 143). Sedici emme che rivelano più l’esprit della grande cantante che non la veridicità del suo amore. Al contrario, laddove il soggetto si sente ridotto solo al corpo, la voce tace: è il silenzio totale dell’angoscia o degli internati nei campi di concentramento. Potremmo parlare, tuttavia, di mutismo anche a proposito dei nuovi sintomi, che si risolvono nella lamentela della sofferenza fisica, limitata al corpo, senza interrogativo, senza enigma e supposto sapere. Un esempio più banalmente quotidiano ed usuale della possibilità di discernere “sotto le parole l’aria della canzone che in ognuno è diversa da quella degli altri” (Proust, 1908, p. 268), è quello del congedo dal terapeuta prima delle vacanze. Antonio, costretto a rimanere in città per motivi di lavoro, nell’attimo di salutarci, mi dice con impeto: «L’importante è che ci sia il medico di famiglia, di lui potrei avere bisogno, di lei no». Arianna, al contrario, quasi piangendo: «Lei mi abbandona proprio quando ne avrei più bisogno, tra un attimo si dimenticherà di me…». Due declinazioni diverse che l’isteria “ingravidata” dalle parole dà all’angoscia di non essere nulla nel desiderio dell’Altro. Naturalmente tale pathos sarebbe assente nelle parole di un analizzante ossessivo, che, educatamente, ma senza calore o dispiacere, si limiterebbe ad augurare “buone vacanze”. Perentoria, invece, la richiesta di Mario, che mi suggerisce anche la meta delle vacanze: «Al ritorno voglio ritrovarti riposata perché avrò molto bisogno di ascolto. Scusami se uso la parola voglio, ma la sua esistenza nel vocabolario me ne autorizza l’uso». Mario, come si può intuire, si autorizza da solo e cerca di piegare la realtà al suo desiderio; ogni tanto, nel flusso pirotecnico delle sue parole, in cui, si alternano con un sapiente contrappunto, espressioni dialettali ad altre colte o tecniche, affiora il verso di Road Runner (lo struzzo inseguito da Willy il coyote): “Mi, mi” ed accompagna il suono con un’alzata di spalle e una risata fragorosa a cui segue “Che bello!”: rappresentazione significante del suo sentirsi inseguito, ma in fondo vincente, o viceversa espressione di godimento, mediante un detrito di lalangue infantile? L’incidenza di lalangue morta, ma viva nei suoi effetti, non si limita al soggetto in sé, ma si espande «sul vivente-in sé traumaticamente». Di tale potere secondo Colette Soler, ne abbiamo tre dimostrazioni: in primis il fallimento dell’esperanto – la lingua costruita a tavolino – e
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la povertà dell’inglese internazionale; in secondo luogo l’emergenza di quegli effetti-affetti della parola, che sopravanzano sempre il senso e mostrano impudicamente un qualcos’altro e, last but not least, l’efficacia della parola in analisi quando trauma del sesso e trauma del verbo sono coalescenti. Un’ulteriore riprova di incidenza di lalangue è la sua dimensione eversiva rispetto al discorso del maître, il cui «scopo [...] è quello di far andare le cose al passo di tutti quanti» (Lacan, 1974, p. 17), coltivando un’ambizione di lituratterrire attraverso l’esaltazione religiosa dello scientismo e l’omologazione di un godimento preconfezionato, mediante la bonifica del linguaggio dalla sua pulsionalità. In nome del politically correct, si trasformano i significanti in altri più asettici che non mostrino il godimento. Pensiamo alla sparizione, nell’ultimo decennio, della locuzione “fare l’amore” a favore di “scopare”, che ci restituisce l’immagine di “un corpo a corpo” deaffettivizzato, un corpo ridotto a corpo senza parola: il corpo dell’angoscia. Si pensi al “ti amo”, una volta destinato all’oggetto d’amore romantico ed oggi divenuto la chiosa dei messaggi di amicizia giovanili o al termine escort che ha sterilizzato le decine di significanti, che da cortigiana a puttana, tracimavano tutti dal letto della trasgressione e del peccato. In quella che J.C. Milner (2003) ha definito “la società illimitata” ciò che viene frenato è “l’intenzione” ... il godimento, che trova tuttavia sempre e comunque la sua capacità di emergere. Il reale, infatti, è eversivo rispetto al mondo che non rappresenta, non è universale, «è tutto solo in senso stretto, in quanto ciascuno dei suoi elementi è identico a sé, ma senza che si possa dire “tutti”» (Lacan, 1974, p. 18). Resta da chiedersi, a questo punto, quale sia la finalità ed il ruolo della psicoanalisi nel momento in cui si è palesato il limite dell’interpretazioneverità della decifrazione di un inconscio, che trasforma il godimento taciuto in godimento che parla d’altro. Cade la distinzione tra il loglio della parola vuota, senza significato ed il grano della parola piena, foriera di interpretazione. Dice Lacan in Ancora (1972-1973): «È con queste stupidaggini che noi faremo l’analisi e che entriamo nel nuovo soggetto, che è quello dell’inconscio» (p. 22). “Stupidaggini” da non confondere con il blabla, che malgrado la leggerezza del suo suono, senza la zavorra del significato, è quanto più vicino alla funzione fàtica, di contatto con l’altro, teorizzata da Jakobson. Nella vita comune, infatti, è proprio attraverso i blabla, i pour parler che si stringono i legami sociali, seppure trattenuti nelle maglie del Discorso. L’essenza del lavoro analitico, allora, è la nominazione, l’attribuzione di un nome proprio, che abbia a che fare con un punto
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
di reale. Il sinthome, infatti, non ha nome e, talvolta, non lo avrà per tutta la vita. La nominazione ci riporta al versante linguistico: come lalangue, infatti, si pone nell’interfaccia tra reale e simbolico. In lalangue il reale del corpo ha un incontro contingente con i fonemi e lo stesso accade con il nome proprio, il simbolico che punteggia il reale senza divaricare il significante dal significato. Opera dell’analisi, allora, è la scarnificazione del discorso, la sostituzione del nome proprio ai significanti del discorso del maître. Nominare per soggettivare, perché in modo sovversivo si sostituisca il godimento individuale, declinato attraverso la decifrazione dei propri desideri e la costruzione della propria meta, all’edonismo di massa, alla parola unica. Si tratta di operare come gli scrittori di haiku, un piccolo componimento poetico creato in Giappone, nel XVII sec., ma di cui si trovano radici già nel IV sec. Essi, per motivi strutturali, connessi alla brevità della poesia11 devono operare al contrario di altri scrittori e poeti: anziché arricchire la lingua con verbi ed aggettivi, la spogliano di tutti i nessi inutili, degli articoli, delle preposizioni e spesso del verbo, per restituirci un’essenza che provoca una vertigine di godimento. Barthes (1970) dice che «le vie dell’interpretazione non possono che sciupare l’haiku perché il lavoro di lettura che vi è connesso è quello di sospendere il linguaggio non di provocarlo» (p. 82). La scrittura di un piccolo haiku, che mira “al torsolo” del linguaggio, può richiedere anni di lavoro, di ripensamenti, di cambiamenti, di riscrittura e di lampi improvvisi, proprio come un’analisi. La luna nueva. Ella también la mira Desde otra puerta (J.L. Borges, 1981)12
Bibliografia Carroll L. (1871), Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, Oscar Mondadori, Torino, 2006. Chemama R., Vandermersch B. (1998), Dizionario di Psicanalisi, Gremese, Roma, 2004.
11 L’haiku è composto in tutto di diciassette sillabe, suddivise in tre versi, ad esempio di cinque, sette e cinque sillabe. 12 La luna nuova./Lei pure la guarda/da un’altra porta.
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L’EREDITÀ DELLE AFASIE: DA FREUD A LACAN
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Milner J.C. (2003), “Les pouvoirs: d’un modèle à l’autre”, Elucidations, 2003, 6-7. Nominé B. (2009), Seminario “Il corpo, l’Altro e il godimento” tenuto a Napoli il 31 ottobre 2009. Piaf É. (2011), Mon amour bleu, Bernard Grasset, Paris. Proust M. (1908), “Contro Saint-Beuve”, in Giornate di lettura, Il Saggiatore, Milano, 1979. Proust M. (1927), Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano, 1983. Proust M. (1970-1993), Correspondance, a cura di Kolb P., Plon, Paris. Risset J. (1979), “Joyce traduce Joyce”, in Joyce J., Scritti italiani, Mondadori, Milano. Soler C. (2009), L’inconscio reinventato, Franco Angeli, Milano, 2010.
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GLI AUTORI
Antonella Gallo, laureata in Psicologia, psicoterapeuta didatta dell’Associazione ALIUDCRIMEN come specialista in Criminologia Clinica e Psicopatologia Forense. È membro del Forum Psicoanalitico Lacaniano (FPL). Diagnosta di Rorschach. Fulvio Marone è laureato in Medicina e Chirurgia e specialista in Psichiatria. Lavora come dirigente medico nel Dipartimento di Salute Mentale della ASL NA 1 della Campania. È membro del Forum Psicoanalitico Lacaniano (FPL), aderente alla Scuola di Psicoanalisi dei Forum del Campo Lacaniano (EPFCL), con il titolo di A.M.E. È docente dell’Istituto per la Clinica dei Legami Sociali (ICLeS) e responsabile della sede ICLeS di Napoli. Si interessa, ed ha scritto, di storia e di epistemologia della psichiatria e della psicoanalisi. Ha collaborato al Trattato italiano di psichiatria (Masson, 1993 e 1999). Francesco Napolitano, psichiatra, membro della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e dell’International Psychoanalytical Association (IPA), ha al suo attivo numerosi lavori psicoanalitici e capitoli in volumi collettanei. Ha pubblicato per Franco Angeli La filiazione e la trasmissione della psicoanalisi, 1999, per Boringhieri Lo specchio delle parole, 2002, e per Quodlibet Sete, 2006. Per Quodlibet ha pubblicato nel 2010 la riedizione de L’interpretazione delle afasie, una nuova traduzione munita di apparato critico e di un saggio dedicato alla storia del localizzazionismo. Ana-Maria Rizzuto, è nata in Argentina e successivamente si è trasferita negli USA. Analista didatta (training and supervising analyst) dello Psichoanalytic Institute del New England East. Autrice di diversi articoli sul L’interpretazione delle afasie di Freud e di vari altri argomenti tra cui: la psicodinamica della religione e della vergogna.
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GLI AUTORI
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In italiano “Riflessioni su L’interpretazione delle afasie di Freud e la scienza contemporanea”, Psiche, Anno 5, n. 2, 1997, pp. 77-88; 1993, “Apparato del linguaggio e linguaggio spontaneo in Freud”, (trad. it.: in Scalzone F. e Zontini G., a cura di, Tra psiche e cervello. Introduzione al dialogo tra psicoanalisi e neuroscienze. Liguori, Napoli, 2004, pp. 159184). Ha scritto anche libri di cui tradotto in italiano, La nascita del Dio vivente: studio psicoanalitico, Borla, 1994. Nel 1998 ha pubblicato Why did Freud reject God. A psychodynamic interpretation per la Yale University Press. Franco Scalzone è laureato in Medicina e Chirurgia e specializzato in Psichiatria. Ha operato in strutture psichiatriche del Servizio Sanitario Nazionale. È Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e attualmente esercita la professione privatamente. È docente dell’Istituto per la Clinica dei Legami Sociali (ICLeS). I suoi campi di interesse sono la sindrome isterica, il dialogo tra la psicoanalisi e le neuroscienze, le perversioni, il tempo in psicoanalisi ecc.: argomenti trattati in vari articoli e convegni nazionali e internazionali. Tra le pubblicazioni: 2004, “Psico-bi-sessualità: elemento puro femminile, elemento puro maschile e «dis-posizione isterica»”, Riv. Psicoanal., 1, pp. 125-146; 2005, “Notes for a dialogue between psychoanalysis and neuroscience”, Int. J. Psychoanal., 86, pp. 1405-1423; 2008, “Una (re)-visione di Freud: la lettera a Fliess del 1° gennaio 1896”, Riv. Psicoanal., 1, pp. 31-49; 2012, Scalzone F. e Tamburrini G. “Human-robot interaction and psychoanalysis”, AI & Society, vol. 24, n. 1, August 2009; 2012, Scalzone F. e Zontini G. “Roaming through Memory in Psychoanalysis (Mnestic Systems Dynamics)”, Chaos and Complexity Letters, vol. 6, Issue 1-2. Ha curato le antologie: 1999, Perché l’isteria?, Napoli, Liguori (in collaborazione con la dott.ssa G. Zontini); 2002, Attualità dell’isteria. Malattia desueta o posizione originaria?, Milano, Franco Angeli, (con il prof. G. Mattioli); 2004, Tra psiche e cervello, Napoli, Liguori, (con la dott.ssa G. Zontini); (2009) (a cura di), Perversione, perversioni e perversi, Borla, Roma. Erwin Stengel nacque nel 1902 a Vienna dove studiò Medicina e fece il training di psichiatria e psicoanalisi. Nel 1938 fu nominato libero docente ma lasciò l’Austria per l’avvento del nazismo e si trasferì in Inghilterra dove lavorò a Bristol, Edimburgo e Londra come professore associato di Psichiatria. Nel 1957 ricoprì la cattedra di psichiatria a Sheffield. Svolse un lavoro pionieristico sulla natura dei
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GLI AUTORI
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tentativi di suicidio che è stato pubblicato in seguito come “Monografia Maudsley”, 1982. Oltre a tradurre in inglese Zur Auffassung der Aphasien con il titolo On aphasia, 1953, scrisse tra l’altro il libro Suicide and attempted suicide, 1964. Morì nel 1973.
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Francesca Tarallo, laureata in Psicologia, lavora come dirigente psicologo in una Unità Operativa di Salute Mentale della città di Napoli. È membro del Forum Psicoanalitico Lacaniano (FPL), aderente alla Scuola di Psicoanalisi dei Forum del Campo Lacaniano (EPFCL). È docente dell’Istituto per la Clinica dei Legami Sociali (ICLeS). Gemma Zontini, laureata in Medicina e Chirurgia e specializzata in Psichiatria, è Membro Ordinario della SPI. Dirige a Napoli un Servizio Psichiatrico per Diagnosi e Cura del S.S.N. Ha lavorato precedentemente in un Servizio di Salute Mentale tenendo un ambulatorio di psicoterapia ad indirizzo psicodinamico. La sua attività principale è quella di psicoanalista. È docente dell’Istituto per la Clinica dei Legami Sociali (ICLeS). I suoi interessi prevalenti nel campo della psicoanalisi sono l’isteria e le relazioni tra psicoanalisi e neuroscienze di cui ha curato anche antologie e scritto articoli tra i quali: (2009) “Psychoanalysis in Time – Time in Psychoanalysis”, European Journal of Psychoanalysis. Number 29, II, pp. 165-197 (con il dr. Scalzone F.); 2001, “The dream’s navel between chaos and thought”, Int. J. Psychoanal., 2, pp. 263-282 e “Thinking animals and thinking machines in psychoanalysis and beyond”, (in stampa) (in collaborazione con F. Scalzone). Le antologie: 1999, a cura di, Perché l’isteria?, Napoli, Liguori; 2004, a cura di, Tra psiche e cervello, Napoli, Liguori (entrambe curate in collaborazione con il dr. F. Scalzone).
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TITOLI ORIGINALI DEGLI ARTICOLI DI AUTORI STRANIERI
Ana-Maria Rizzuto (1990), “A Proto-Dictionary of psychoanalysis”, Int. J. Psychoanal., 71, pp. 261-270. Ana-Maria Rizzuto (2012), “The impact of Freud’s On Aphasia on his theories and technique”, (titolo inglese originale del lavoro scritto per questa antologia). Stengel E. (1953), Introduction alla monografia di Freud S. On Aphasia, pp. ix-xv. Stengel E. (1954), “A re-Evaluation of Freud’s book On Aphasia”. Its significance for psychoanalysis. Int. J. Psychoanal., 35, pp. 85-89.
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Lo specchio di Psiche
1.
Controtransfert e relazione analitica, a cura di L. Epstein e A. H. Feiner
2.
G. Di Chiara, N. Pirillo, Conversazione sulla psicoanalisi
3.
Il controtransfert. Saggi psicoanalitici, a cura di C. Albarella e M. Donadio
4.
Perché l’isteria? Attualità di una malattia ontologica, a cura di F. Scalzone e G. Zontini
5.
Tra psiche e cervello. Introduzione al dialogo tra Psicoanalisi e Neuroscienze, a cura di F. Scalzone e G. Zontini
6.
G. Meneguz, Il mondo degli psicoanalisti. Formazione psicoanalitica e qualità dei rapporti tra colleghi
7.
A. Imbasciati, C. Buizza, L’emozione sessuale. Psicoanalisi e neuropsicofisiologia di un’emozione negata
8.
Il linguaggio delle afasie. Saggi su L’interpretazione delle afasie di Sigmund Freud, a cura di F. Scalzone e G. Zontini
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LO SPECCHIO DI PSICHE 8
F
ranco Scalzone è laureato in Medicina e Chirurgia e specializzato in Psichiatria. Ha operato in varie strutture psichiatriche del S.S.N. È Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) ed esercita la professione privatamente. È docente dell’Istituto per la Clinica dei Legami Sociali (ICLeS). Suoi interessi sono: la sindrome isterica, le perversioni, il tempo in psicoanalisi, nonché il dialogo tra la psicoanalisi, le neuroscienze e l’informatica.
G
emma Zontini è laureata in Medicina e Chirurgia e specializzata in Psichiatria. È Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana (SPI). Dirige a Napoli un Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura del S.S.N. La sua attività principale è quella di psicoanalista. È docente dell’Istituto per la Clinica dei Legami Sociali (ICLeS). Suoi interessi sono: l’isteria e le relazioni tra la psicoanalisi e le neuroscienze. In copertina: ©ArtManjù 2008 – “Cultura Psicoanalitica”, Acrilico su tela. Particolare.
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ISSN 1828-8421
C
ome la definì Siegfried Bernfeld, L’interpretazione delle afasie può essere considerata «la prima opera “freudiana”», ma Freud non volle che fosse inserita nelle sue Gesammelte Werke. Anche in italiano la troviamo in pubblicazioni separate dalle O.S.F., come nella recente traduzione curata da Francesco Napolitano. Poco nota persino agli psicoanalisti, ma ben nota a pochi studiosi, negli ultimi anni se ne riconosce l’importanza per lo sviluppo della psicoanalisi. Stengel, suo traduttore in inglese, affermò che l’“apparato del linguaggio” è il fratello maggiore dell’“apparato psichico”. Questa antologia riprende il testo freudiano affrontando alcuni dei suoi principali temi, sia da un’ottica “ortodossa” sia da un’ottica lacaniana, proponendone una lettura ragionata di alcuni punti chiave. Il volume è un utile strumento di studio e d’informazione sia per gli specialisti della materia che per la persona di cultura.