Il valore delle cose


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Quodlibet 65

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Yan Thomas

Il valore delle cose A cura di Michele Spanò

Con un saggio di Giorgio Agamben

Quodlibet

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Titolo originale:

La valeur da choses. Le droù romain hors la rcligion In: -Annales. Histoire, Sciences Sociales-, 57* annee, N. 6,

novembrc-décembrc 2002, pp. 1431-1462.

O 2002 Ehess, Paris

Si ringraziano le «Annales. Histoire, Sciences Socialesper la gentile concessione.

Prima edizione: febbraio 201 j Seconda ristampa: aprile 2021

© 20J 5 Quodlibct srl

Macerata, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23

www.quodlibct.it ISBN 978-88-7462-709-7

Indice

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Tra il diritto e la vita di Giorgio Agamben

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Il valore delle cose Le parole e le cose (del diritto) di Michele Spanò

Tra il diritto e la vita di Giorgio Agamben

Ho conosciuto Yan Thomas nel 1996. Mentre scrive­ vo Homo sacer, ero stato colpito dal suo studio Vitae necisque potestas. Ilpadre, la città, la morte. Il titolo - che univa la formula tecnica del potere di vita e di mone del paterfamilias sui figli maschi con un tema più vasto - era in qualche modo un’espressione compendiaria del suo metodo. Yan rifuggiva, infatti, dalle enunciazioni gene­ rali e preferiva partire ogni volta dall’analisi minuziosa di un dettaglio tecnico per poi gettare una luce nuova e inaspettata su un problema più ampio ed urgente - in questo caso, quello delle relazioni fra la famiglia e la città, la potestà del padre e il potere del detentore della sovranità. Man mano che procedevo nella lettura, si andava tuttavia delincando per così dire fra le righe un altro tema che - come avrei capito qualche anno più tardi, quando mi ero ormai familiarizzato col suo stile di pensiero - costituiva forse uno dei motivi essenziali dell’interesse di Yan per il diritto: la divisione - e, in­ sieme, la possibile confusione - fra il diritto e la vita. Yan mostrava che proprio la formula vitae necisque

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potestas era anche l’unica apparizione nel diritto ro­ mano del termine «vita» come concetto giuridico. In questa formula, tuttavia, vita non è che la controparte e quasi l’ombra portata di nexy cioè del potere di uccidere senza versamento di sangue. Che, secondo la dimostra­ zione di Yan, la vita comparisse nel diritto solo attra­ verso la possibilità della morte violenta, era una ina­ spettata conferma delle tesi sulla nuda vita che andavo svolgendo in Homo sacer Nella stessa pagina, una nota confermava il carattere eccezionale di questa iscrizione della vita nell’ordine del diritto: «Nel Digesto, vita è o 11 fatto biologico di vivere o il modo di vita; non è in nessun caso un concetto giuridico»1. Ricordo che, nel corso delle nostre conversazioni, Yan criticava apertamente l’idea - cara a un autore che era stato per lui importante, Pierre Legendre — che il diritto potesse essere concepito, secondo una formu­ la che si trova già in Cicerone, come vitae institutio o vitam instituere. Se è vero che si può conoscere vera­ mente solo ciò che si ama, questo incomparabile co­ noscitore del diritto era tuttavia - o, forse, proprio per questo - animato da un’altrettanto irriducibile diffiden­ za verso il suo oggetto d’amore - o, più precisamente, verso quella concezione moderna del diritto che tende ostinatamente a confondere il piano del diritto c quello della vita, la persona giuridica e l’individuo naturale. ' Yan Thomas, Vitae necisque potestas. Le pere, la cité, la mort, in Yan Thomas (éd.), Du chàtiment dans la cité. Supplices corporels et peine de mort darti le monde antique (Tablc ronde de Rome, 9-11 novembre 1982), Écolc fran^aisc de Rome, Rome 1985, p. 544.

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Il testo in cui Yan ha riflettuto più esplicitamente sulla relazione tra il diritto e la vita è il suo contri­ buto al libro scritto insieme a Olivier Cayla sull’af­ fare Perruche: Il diritto di non nascere (2002). Tutta la Breve storia della nozione giuridica di persona che egli vi delinea - un testo che, per il suo tenore filosofico e teologico dovrebbe essere letto insieme al saggio di Marcel Mauss su La nozione di persona - si fon­ da sull’idea che la nostra tradizione giuridica riposa sulla separazione tra realtà naturale e realtà giuridica, causalità reale e imputazione - cioè tra l’essere viven­ te da una parte e la sua «persona» o «maschera» giu­ ridica dall’altra. Yan mostra che la persona giuridica non può essere concepita che come «un dispositivo formale che isola in ciascuno di noi, facendo astrazio­ ne da ciò che vi è in noi di irriducibilmente singola­ re, una personalità giuridica, in cui non appare quasi nulla della nostra realtà fisica, psichica e sociale, poi­ ché essa si riduce a una sola funzione: la nostra ca­ pacità di detenere e esercitare diritti»2. Nello stesso saggio Yan mostra tuttavia anche come, nel corso di un processo in cui la teologia cristiana ha svolto una funzione decisiva, la persona tende progressivamente a confondersi con «l’essere umano stesso, con l’essere vivente in quel che ha di più singolare e, insieme, co­ mune alla specie umana»3. L’inerenza di un corpo alla * Olivier Cayla, Yan Thomas, Dii droit de ne pas naitre: à propos de l'affaire Perrncbe, Gallimard, Paris 2002, p. 125 (trad. it. di Laura Colombo, // diritto di non nascere. A proposito del caso Perrncbe, Giuffrè, Milano 2004). > Ibid.

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persona, che è divenuta per noi un’owietà, affonda le sue radici nelle speculazioni dei giuristi medieva­ li, che, a partire da premesse di ordine indubbiamente teologico, trasformarono il senso puramente funzio­ nale che competeva alla persona nel diritto romano. I teologi vedevano infatti nella persona umana l’unità indivisa e irriducibilmente singolare di due sostanze distinte: un corpo generato dagli uomini e un’anima creata da Dio. A questa dualità, la nozione giuridica di persona permetteva di fornire una configurazione in qualche modo unitaria, che riprendeva e svolgeva in una nuova prospettiva la definizione patristica della persona come naturae rationalis individua substantia. In questo modo, scostandosi risolutamente dal solco della tradizione giuridica romana, la persona giuridi­ ca «divenne una unità sostanziale e non più una unità unzionale»4. Malgrado questa trasformazione, la giurisprudenza medievale aveva conservato in qualche modo la distin­ zione tra una realtà naturale, unità di un corpo e di un’a­ nima, e una unità puramente formale, in cui consisteva la sua identità giuridica. Ciò che sembrava inquietare Yan era la crescente confusione che la dottrina moderna ha prodotto fra queste due modalità del soggetto. La sua preoccupazione era tanto più motivata, in quanto egli sapeva perfettamente che il diritto funziona come «uno strumento di denaturazione del mondo»’. Il suo 4 Ivi, p. J 31. ’ Ibld.

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studio esemplare sulla fictio6 (cioè sulla capacità del di­ ritto di fare che qualcosa di accaduto sia considerato come non-awenuto e viceversa), quello su L’istituzio­ ne giuridica della natura7 come anche lo straordinario saggio su II valore delle cose (2002), che qui si pubblica, mostrano che la potenza specifica del diritto consiste nella capacità virtualmente illimitata di produrre realtà che, pur non coincidendo con quelle naturali, operano performativamente su di esse, trasformandole profon­ damente. Non si trattava tanto del fatto che il diritto, attraverso le sue finzioni e i suoi artifici, possa cambiare statutariamente i dati della vita naturale - ad esempio, come avviene oggi in certi ordinamenti, disgiungendo la sessualità e la procreazione - quanto piuttosto che la distinzione fra il fatto e il diritto finisca in questo modo per cancellarsi. Agli occhi di Yan, la storia del diritto moderno testimoniava di un doppio processo, «di incarnazione e di naturalizzazione da una parte, di separazione e di astrazione della persona giuridica dall’altra»8. Nella modernità, tuttavia, ad accelerarsi in modo quasi incontrollabile era stato proprio il pro-

* Yan Thomas, Fictio legis. L'empire de la fiction romaine et ses limites mediévales, «Droits. Rcvue fran^aisc de théoric juridique*, 21, 1995, pp. 17-63; ora in Yan Thomas, Les opérations dn droit, édition établie par Marie-Angele Hcrmittc et Paolo Napoli, Seuil/Gallimard/Éditions de l’EHESS, Paris 2011, pp. 133-186. 7 Yan Thomas. L’institntion jnridiqnc de la nature. Remarques sur la casnistiqne dn droit natnrel à Rome, «Rcvue d’histoire des facultés de droit et de la sciencc juridique», 6, 1988, pp. 27-48; ora in Id., Les opérations dn droit, cit., pp. 21-40. * Yan Thomas, Dn droit de ne pas naitre, cit., p. 143.

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cesso d’incarnazione, in nome di una crescente iden­ tificazione fra il diritto e la vita. La Dichiarazione dei diritti del 1789, che aveva fatto coincidere la nascita del soggetto e la sua personalità giuridica, gli sembra­ va aver prodotto un essere ambiguo, in cui il naturale e il giuridico diventavano indiscernibili. «La qualifi­ cazione giuridica» egli scriveva «appiattita in questo modo sulla nascita, perdeva la sua precisione e la sua utilità, poiché sembrava ridursi ormai alla descrizione di uno stato naturale, senza però cessare di essere una qualificazione giuridica»9. È in questa prospettiva che occorre leggere il saggio del 1998 II soggetto di diritto, la persona e la natura. In questione sono qui le polemiche suscitate fra i giuristi e i filosofi dai pericoli che le biotecnologie contempo­ ranee farebbero correre a alcuni principi fondamentali che riguardano la dignità della persona umana, come l’indisponibilità della filiazione e del genere sessuale. Yan mostra che, se si vuole definire giuridicamente la dignità della persona umana, ci si trova perciò stesso obbligati a demandare a un’istanza terza (il legislatore o il suo interprete) il compito di definire questa digni­ tà e di tracciare il limite che separa ogni volta nel sog­ getto la parte indisponibile (che concerne la dignità della specie umana) e la parte di cui egli può disporre liberamente. Non è allora difficile per Yan ricordare che, dal medioevo agli stati totalitari moderni, la sto­ ria mostra come sia estremamente pericoloso affida»Ivi,p. 145.

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re al legislatore la facoltà di definire la natura umana e, conseguentemente, di stabilire per legge che cosa è umano e che cosa non lo è. Ed è a proposito del pro­ blema dei limiti che Yan s’interroga sulla «crescita stu­ pefacente del modo giuridico dell’organizzazione so­ ciale, paragonabile soltanto a quella della tecnica e del mercato»10, che ci mette oggi di fronte allo spettacolo, certamente non confortante per un giurista, di una giuridificazione integrale tanto della vita dell’indivi­ duo che di quella della società. Con un gesto caratte­ ristico, Yan rovescia qui i termini del problema: non si tratta tanto di fissare, attraverso il diritto, dei limiti, quanto piuttosto di mettere dei limiti all’invasività del diritto. Il concetto stesso di limite non è qui di alcuna utilità, perché esso è parte essenziale del dispositivo attraverso il quale il diritto assicura la sua presa sugl affari degli uomini. Una delle tesi più acute di Yan è, infatti, che il dirit­ to funziona precisamente includendo l’esteriorità che ha istaurato ponendosi dei limiti. Alla fine del saggio, con un probabile riferimento polemico alla superfi­ cialità della bioetica contemporanea, egli interroga tematicamente il significato dei limiti e delle interdi­ zioni nel diritto: «Sarebbe tempo di comprendere il limite» egli scrive «piuttosto che come un freno messo attraverso il diritto a ciò che minaccia l’ordine umano,

10 Yan Thomas, Le sujet de droit, la personne et la nature. Sur la critique contemporaine du sujet de droit, «Le Dcbat», 100, 1998, pp. 85-107; ora in lei.» Lcs opérations du droit, cit.» p. 107.

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proprio al contrario come ciò che protegge il diritto stesso e lo definisce nel corso delle sue progressioni successive — limes sempre più avanzato dell’impero del diritto sulla gestione degli affari umani»”. Come, nel saggio su II valore delle cose, è mettendo fuori com­ mercio le cose sacre, religiose e pubbliche e escludendo provvisoriamente dalla proprietà le res nullius, che il diritto può attuare quella che Yan chiama «la cattura giuridica delle “cose”» e, «attraverso la sottrazione e l’eccezione»12, stabilire il regime ordinario della pro­ prietà e del commercio, così in ogni ambito il dirit­ to definisce la propria sfera di validità dichiarando temporaneamente fuori diritto qualcosa. In questo modo il diritto esibisce la propria natura, che, anco­ ra una volta, per Yan non è ontologica e sostanziale, ma funzionale e pragmatica. «Ogni ricerca inscritta in una prospettiva ontologica, a partire dalla questione “che cos’è una cosa?”, bloccherebbe la possibilità di accedere alle cose del diritto... È un errore prospetti­ co considerarle, come si è fatto così spesso, dal punto di vista della fisica e della metafisica greca, poiché ciò impedisce di vedere come il loro regime dipendesse in realtà da una costituzione del loro valore»*3. La «cosa» del diritto non è una cosa, ma una operazione che la qualifica e costituisce, includendola nel diritto attra­ verso una esclusione.

" Jbid. “ Vedi infra, p. 56. ” Iv‘. P- 57-

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Si comprenderà senza difficoltà, a questo punto, l’interesse, l’emozione e l’urgenza ogni volta rinnova­ ta con cui, nei tredici anni che è durata la nostra ami­ cizia, io ho letto i saggi di Yan. Nell’argomentazione puntigliosa di un grande storico del diritto, io ritro­ vavo quel dispositivo dell’exceptio, della cattura di un fuori, attraverso il quale in Homo sacer avevo definito la relazione tra il diritto e la vita. Nei termini di Yan, la nuda vita è la fictio attraverso la cui esclusione il di­ ritto assicura la sua presa sulla vita, così come lo stato di eccezione è il dispositivo attraverso il quale l’ordi­ namento giuridico, sospendendo temporaneamente la sua vigenza, determina l’ambito normale della sua va­ lidità. La nuda vita e lo stato di eccezione, come ogni risultato di un’operazione giuridica, sono un’astrazio­ ne e non una realtà sostanziale; ma se, com’è avvenuto e avviene sempre più spesso nella storia degli uomini, essi s’incarnano in un corpo vivente e in una condizio­ ne permanente, allora le operazioni del diritto mostra­ no la loro faccia oscura e letale.

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Questo studio deve molto ai decisivi lavori di Maurice Godelicr sul dono e lo scambio. Che egli possa trovare qui la testimonianza della mia riconoscenza.

Questo saggio esamina, essenzialmente nel Corpus iuris civilis (ma non senza far ricorso ad altri tipi di fonte), la costituzione giuridica delle cose o meglio, e più precisamente, lo statuto conferito alle «cose» (res) da quelle procedure tramite le quali esse sono qualifi­ cate e valutate come beni. Una storia di queste prati­ che svela un mondo sorprendentemente omogeneo e astratto. Secondo la giurisprudenza dei primi due o tre secoli della nostra era, in cui vengono riformula­ ti dispositivi più antichi, le «cose» sono considerate quasi esclusivamente in relazione al valore patrimo­ niale e di realizzo che possiedono. Il loro regime è quello di appartenere regolarmente e immediatamente a una sfera sociale di appropriazione e di scambio, che si manifesta esemplarmente nella procedura civile, in cui i beni si qualificano e si valutano. Tuttavia, i testi affermano raramente in modo esplicito questa ridu­ zione delle res ai beni appropriati e scambiati. È solo in via eccezionale che le cose sono qualificate positivamente come res in patrimonio nostro y espressione che si incontra unicamente nella letteratura didattica delle

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Institutiones1. Quanto alla formula res in commercio, di cui pure la romanistica usa e abusa, essa non è mai attestata nel vasto insieme delle fonti giuridiche latine. Ciò non significa che la disponibilità delle res a queste due funzioni associate non sia stata pensata. La questione è stata posta caso dopo caso, processo dopo processo, a proposito dei contratti, delle obbligazioni, dei pegni, della proprietà, delle servitù, delle succes­ sioni, delle disposizioni onerose e gratuite; tutte ope­ razioni che si relazionano al patrimonio e che hanno a che fare con il commercio, nel senso preciso del circu­ ito giuridico che ingloba lo scambio oneroso e il dono. La procedura civile, soprattutto, considera le res come beni che si valutano dopo esser stati qualificati - il che ;piega perché res e bona, res e pecunia, res e merces, come res e pretium si equivalgano tanto spesso, e più ancora perché res designi allo stesso tempo la cosa e il processo, il valore e la procedura attraverso la quale esso è stabilito: è qui che si coglie la forma pratica in cui si è originariamente forgiato il concetto stesso di res. Il carattere patrimoniale e commerciale delle res non è mai stato formulato esplicitamente se non in modo negativo. L’affermarsi di questa vocazione principalmen­ te patrimoniale delle res non si coglie infatti che per contrasto rispetto al regime di indisponibilità da cui

' Gaius, In stillatones [Gaius], II, i (= lustinianus, /nstitutiones [Insl.], II, i, pr.; cfr. Gaetano Schcrillo, Lezioni di diritto romano. Le cose, I, Giuffrè, Milano 194$, p. 34.

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esse sono eccezionalmente colpite tanto nel dirit­ to sacro quanto nel diritto pubblico. Perché appaia esplicitamente la loro natura giuridica di cose valu­ tabili, appropriabili e disponibili, è necessario che al­ cune tra esse siano state escluse dall’area dell’appro­ priazione e dello scambio, e quindi destinate agli dèi o alla città, secondo un modello di tesaurizzazione comune al mondo antico ma che ha trovato la pro­ pria espressione giuridica più tipica, e forse la propria stessa concettualizzazione, solo a Roma. È allora che la giurisprudenza dell’epoca imperiale qualifica que­ sti beni, secondo una formula paradossale e che non sempre è stata compresa, come «cose appartenenti a un patrimonio che non appartiene a nessuno» (re nullius in bonis)l\ è allora che essa le qualifica anch come «cose la cui alienazione è vietata» o, secondo un’espressione più frequente, come «cose delle quali non si dà commercio». È necessario cominciare analizzando il significato di simili sottrazioni al regime giuridico ordinario dell’ap­ propriazione e dello scambio; il che impone conseguen­ temente di studiare i loro modi concreti di fondazione e le loro regole pratiche di amministrazione, al di là di categorizzazioni classificatorie e statuti cristallizzati, ai quali, troppo spesso, gli storici del diritto limitano le loro ricerche sulle cose. Soltanto allora potrà essere • Nullius in bonis: Gaius, II, 73, Marcianus, 4 institntionum, D. 1, 8, 6, 2 (= Inst. 2, 1, 7); cfr. Ubaldo Robbe, La differenza sostanziale tra •res nulli"*» e -rcs nullius in bonis» e la distinzione delle »res» pseudo-marcianee. Giuffrè, Milano 1979-

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compresa la portata di un dispositivo in realtà centrale nell’economia generale del diritto romano: l’istituzio­ ne di riserve santuarizzate rende, per contrasto, il resto del mondo - che altro non è se non quello del diritto privato - immune dalla sacralità e dalla religione. Qui tutte le cose si appropriano, si alienano e dipendono da procedure civili di valutazione. Una volta caratterizzate le cose patrimoniali a par­ tire da quelle che non lo sono, e una volta descritto nel suo insieme questo dispositivo così complesso, si tratta di comprendere l’idea stessa di una costituzione giuridica delle cose in generale. S’impone allora una riflessione sulla definizione giuridica delle res secondo il loro valore, e, più ancora, sulle procedure attraverso le quali quest’ultimo viene stabilito. Il diritto romano, lungi dal designare res le cose del mondo esterno, le qualifica giuridicamente «cose» in quanto le coglie in un processo - il cui nome, res, rinvia allo stesso tempo alla «cosa» messa in causa e alla «messa in causa» della cosa. Come e forse più che nello scambio, è qui che si stabilisce la loro qualificazione giuridica e il loro va­ lore di cose, e che si comprende il loro trattamento come cose stimabili e vendibili o come cose inestima­ bili e riservate. In breve, quel che propongo è un approccio proceduralista, più che sostanzialista, al diritto romano, e suggerisco che tale diritto avesse già una visione formalista e astratta dell’economia, in forte contra­ sto con quella presentata dall’antropologia storica del mondo antico. Se non si comprende che la storia

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del diritto partecipa a una storia delle tecniche e dei mezzi attraverso i quali si è prodotta la messa in for­ ma astratta delle nostre società, sfuggirà praticamente tutto della singolarità di questa storia e della specifi­ cità del suo oggetto.

La santuarìzzazione delle cose inappropriabili Non è indifferente che, al fine di formulare la natura patrimoniale e commerciale delle res, il diritto romano abbia scelto il percorso dell’esclusione, della loro de­ stinazione eccezionale alla città o agli dèi. Un percorso che si snoda attraverso le aree rigidamente circoscritte del pubblico e del sacro per organizzare e pensare l’an teriorità del commercio, e non già il contrario. Nessu interdetto all’appropriazione è formulato al di fuori l quest’area istituita attraverso un atto di diritto pub­ blico o sacro. La definizione di simili riserve, la loro delimitazione attraverso procedure che impegnavano magistrati, riti e l’assistenza di tutto un personale sacer­ dotale, ma anche attraverso tracciati in cui si saldavano tecniche del diritto e dell’agrimensura - tecniche che servivano a qualificare un bene, a istituire un’attribu­ zione e a misurare lo spazio nei limiti del quale esso era compreso -, questa santuarìzzazione, insomma, liberava tutto il resto. Per comprenderla, può essere utile cominciare dall’u­ nico testo (un celebre passaggio delle Institutiones di Gaio, smembrato e rimaneggiato nelle Institutiones

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di Giustiniano, attraverso le quali fu commentato per centinaia di anni, dalle prime Summae del XII secolo fino alla scoperta del manoscritto di Verona nel 1816); in esso si trova enunciato esplicitamente, intorno all’anno 160 della nostra era, il principio di una divi­ sione delle cose in patrimoniali ed extrapatrimoniali (yel in nostro patrimonio sunt vel extra nostrum patrimonium habentur). Su questa prima divisione se ne innesta immediatamente un’altra che finisce per essere presentata, contrariamente alla posizione che essa oc­ cupa nell’esposizione, come la summa divisio: le cose vi si ripartiscono in tutt’altro modo: ci sono quelle di diritto divino, da un lato, e quelle di diritto umano, dall’altro (aliae sunt divini iuris, aliae humani) - le prime si distribuiscono a loro volta fra le tre zone del sacro (luoghi e cose consacrate agli dèi celesti), del reigioso (luoghi di sepoltura, riservati agli dèi mani) e el santo (le mura urbane e castrali), mentre le seconle, quelle di diritto umano, si ordinano tra le sfere del pubblico e del privato (autpublicae sunt autprivatae). Un semplice sguardo alla corrispondenza tra i due piani sui quali, secondo il testo di Gaio, si dispongono le categorie del diritto romano delle res, mostra imme­ diatamente che le cose sacre, religiose, sante e pubbli­ che sono tutte extrapatrimoniali; ma che quanto le op­ pone alla sfera privata non è loro interamente comune: solo le cose sacre, religiose e sante se ne distinguono a un titolo supplementare, quello del diritto divino. Lo stesso accade indicando in altro modo l’imper­ fetta articolazione dei due sistemi:

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II, § 9: Ciò che è di diritto divino non appartiene a nessuno (nullius in bonis)', ciò che è di diritto umano è il più delle volte in possesso di qualcuno (alicuius in bonis). II, § 11: Le cose pubbli­ che sembrano non essere tra i beni di nessuno (nullius in bonis): le si considera appartenenti alla totalità stessa dei cittadini (ipsius universitatis). Le cose private sono quelle che appartengono a degli individui (singolorum hominum). Perché le cinque specie del sacro, del religioso, del santo, del pubblico e del privato (che sono delle vere qualificazioni, poiché a ciascuna di esse corrisponde uno statuto) non sovrappongano due sistemi d’oppo­ sizione incompatibili, ma si allineino su un piano di opposizione univoca, bisognerebbe abbandonare o la divisione tra patrimoniale ed extrapatrimoniale, cosa che obbligherebbe a classificare il pubblico insieme con il privato, la città con gli individui, o la divisione tra divino e umano, cosa che permette di classificare lasciando da parte le sepolture e le mura - il pubblico con il sacro. Quest’ultimo sistema, di cui si vedrà tutta l’importanza pratica, è il solo attestato dalle fonti.

Il pubblico e il sacro nella giurisprudenza di epoca imperiale Il diritto romano attesta di una vicinanza giuridica costante tra il pubblico e il sacro, termini che qualifi­ cano comunemente i luoghi e le cose sottratti al domi­ nio individuale. Questa prossimità non è certo un’o­ riginalità esclusiva di Roma, che la condivide infatti

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con il mondo greco. Tuttavia, l’espressione datane dal diritto romano le conferisce un significato storico sin­ golare, che avremmo serie difficoltà ad analizzare se non ci fosse stato trasmesso il corpus della giurispru­ denza latina. I giuristi in effetti non consideravano le cose pubbliche e sacre (alle quali si aggiungevano le cose religiose e sante) se non a partire dalla prospet­ tiva della loro inalienabilità e della loro inappropriabilità. Sono queste cose che le Institutiones di Gaio accolgono nel genere delle res millius in bonis. Così le Institutiones di Marciano, nel III secolo3. Ora, questa classificazione dogmatica rende conto di una pratica costante. All’epoca di Augusto, Sabino inscriveva ne­ gli atti di vendita questa clausola: «Nulla è venduto di ciò che è occupato da qualcosa di sacro o di religio­ so»; un’altra redazione è attestata due secoli più tar­ di: «Niente [...] di ciò che è occupato da qualcosa di sacro, di religioso o di pubblico». Tuttavia, Ulpiano si riferiva alla formulazione di Sabino quando dichiara­ va nulla la vendita di un fondo il cui suolo era «reli­ gioso, sacro o pubblico», mentre Paolo precisava che «le vie pubbliche o i luoghi religiosi o sacri» non erano computati nella misurazione della superficie venduta4. «Sacro e religioso o pubblico»: ecco ciò che nor­ malmente si enumera allorché si tratta di sfuggire al ’ Marcianus, D. i, 8,6,1-2, tratta in successione delle cose delle città (res universitatis) e delle cose sacre, religiose e sante, che nullius in bonis sani. * Sabinus apud Ulpianum, 28 ad Sabinum [S4Z».], D. 18, 1, 22 c 24; Paulus, D. 18, 1, 23 e D. r8, 1, ji; Papinianus, io quacstionum [Q/mcji.], D. 18, 1, 72, 1.

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piano giuridico della merce. Nessuno poteva compra­ re una cosa di cui sapeva che «l’alienazione è interdet­ ta, come i luoghi sacri e religiosi o le cose di cui non si fa commercio, non perché esse appartengano alla cit­ tà, ma perché sono destinate all’uso pubblico, come il Campo Marzio»5. Precisazione cruciale, che distingue all’interno dello spazio pubblico una zona di demania­ lità, di cui lo Stato disponeva liberamente, per esem­ pio attribuendo o vendendo le sue terre pubbliche, e una zona di «uso pubblico» (piazze, teatri, mercati, portici, strade, litorali, condotte d’acqua, ecc.), la cui indisponibilità si imponeva in modo assoluto: le «cose pubbliche» non erano inappropriabili in ragione di una qualche titolarità statuale, ma a causa della loro destinazione, secondo la visione molto chiara che ne avevano i giureconsulti romani. Si trattava di luoghi nei quali ciascuno poteva far valere il proprio diritto di libero accesso e di libero uso esercitando, contro chiunque lo impedisse, un’azione privata per danni, o domandando al magistrato un interdetto proibitorio o restitutorio (in questo caso il disturbatore doveva rimettere la cosa a posto a sue spese). Tali cose erano dette «pubbliche» proprio perché erano liberamente accessibili a tutti, come se ciascuno dei membri delpopulus avesse su di esse un diritto connesso alla propria qualità di cittadino, imputato a ciò che di pubblico c’era nella sua stessa persona - come se ciascuno fosse portatore di una doppia personalità, privata e politica, ’ Cclsus apud Pomponium, 9 Sab., D. 18, 1, 6, pr.



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e a questo secondo titolo le cose della città apparte­ nessero a lui come a tutti, ma inalienabilmente. La città o il fisco erano riconosciuti come proprie­ tari di beni, a proposito dei quali i giuristi non esitava­ no a impiegare il più esplicito linguaggio patrimonia­ le: pecunia populi, patrimonium populi, patrimonium fisci per Roma, bona civitatum, pecunia communis per le città dell’impero. Ma è a un titolo irriducibile alla proprietà che i giuristi connettevano l’indisponibilità di queste cose e il carattere perpetuo della loro desti­ nazione: «Esse servono all’uso dei privati in base al loro diritto di cittadinanza, non in quanto sono loro proprie»6. Si diceva che «la vendita è valida quando la cosa non è lasciata all’uso pubblico, ma appartiene al fisco»; inversamente, quando un’azione era intentata da o contro una città per i suoi crediti o i suoi debi-

* D. 43, 8, 2, 2, testo che chiarisce la qualità di «persona pubblica» rico­ nosciuta dagli agrimensores ai cittadini delle colonie che godono dei luoghi pubblici sulla base della loro persona publica-. Agennius Urbicus, De contro­ versi agrorum, in Karl Lachmann, Die Schrijnen der rómischen Feldmcsscr, I, G. Reiner, Berlin 1848 [L.] (nuova ed.: G. Olms, Hildeshcim 1967), p. 63. Gli interdetti non si applicano dunque ai beni patrimoniali del fisco, che sono «per così dire la proprietà privata del principe» (Ulpianus, D. 43, 8, 2, 4), a differenza (mi sembra) della proprietà della persona pubblica di ciascun cittadino. Altra interpretazione in Paul Vcyne, Le pain et le cirque. Socio­ logie historique d’un pluralisme politique, Seuil, Paris 1976, p. 599 (tr. ir. di Sanfelice di Monteforte, Il pane e il circo. Sociologia storica e pluralismo poli­ tico, il Mulino, Bologna 2013). Si veda anche Elio Lo Cascio, Patrimonium, ratio privata, res privata, «Annali dell’istituto italiano per gli studi storici», III, 1975, pp. 55-121, qui pp. 66 sgg.; ora anche in Id., Il princeps e il suo impero. Studi di storia amministrativa e finanziaria romana, Edipuglia, Bari 2000, pp. ic6 sgg. Perpetuità degli interdetti che proteggono le vie pubbliche (D. 43, 8, 2, 34; 2, 44; 43,11, 1,1; ji, 2).

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ti, e quando perciò anche i suoi beni pubblici erano impegnati, si diceva che «pubblico», in questo caso, «non deve intendersi al modo delle cose sacre, reli­ giose o destinate all’uso pubblico, ma nel senso di ciò che appartiene, per così dire, ai patrimoni delle città» (si qua civitatum sunt velut bona)7. Quando si tratta­ va di sottrarre dei beni al circuito dell’acquisto e della vendita, la giurisprudenza non citava questo dominio pubblico né faceva riferimento a cose sacre o religiose: erano unicamente le res usibus publicis relictae. Non gravabile di promessa, «ogni cosa sacra o religiosa o lasciata perpetuamente all’uso pubblico, come un foro o una basilica»; «ogni cosa sacra o religiosa o esposta perpetuamente all’uso del popolo, come un foro o un

7 Rispettivamente Papinianus, D. 18, 1, 72, 1, e Ulpianus, io ad edictum [ed.] (D. 50, 16, 17, pr.), che interpreto così a causa del suo contesto palingcnetico. Stessa interdizione di alienare -le cose lasciate in perpetuità all’uso pubblico, come il foro o la basilica» (Paulus, D. 45, 1, 83, 5); «le cose di cui non c’è commercio, come il Campo Marzio, le basiliche o i templi o le cose destinate all’uso pubblico» (Jnst. 2, 20, 4). Sulla nozione di «cose lasciate o destinate all’uso pubblico-, si veda ancora, per l’epo­ ca repubblicana, Tabula Heracleensi, Fontes Inris Romani Antciustiniani [FIRA], I, n. 13 (= RS, n. 24, 11. 68 sgg.): «luoghi [...] che il popolo usa e che sono aperti al pubblico»; Lex coloniae Gcnctivae, in V. Arangio Ruiz, FIRA-l, Legcs, G. Barbèra, Firenze 1940, n. 21 (= Michael Crawford, Ro­ man Statutes [RS], Institute of Classical Studies, London 1996, n. 25, cap. 82: «le terre, le foreste, gli edifìci lasciati all’uso pubblico»; Trebatius Te­ sta, in Franz Peter Bremer, lurisprudentia antehadriana qtiae supenunt, 1, Tcubner, Leipzig 1896, n. 29, p. 414 («l’rtger era delimitato perché si sapesse ciò che ne era stato distribuito, o venduto, o lasciato nel pubblico» in publico relictnm). Questi testi, mai citati, sono sufficienti a chiudere l’e­ terno e inutile dibattito sull’origine imperiale della nozione di cose lasciate all’uso pubblico.

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teatro»8. Non soggette a eredità, così che l’erede inca­ pace di esibirle non doveva rimborsarne il prezzo, «le cose per le quali non si può corrispondere una som­ ma, come il Campo Marzio, le basiliche, i templi o le cose destinate all’uso pubblico». E quando, talvolta, si voleva estendere questo dispositivo di indisponibilità assoluta ai beni patrimoniali del principe, si raziona­ lizzava il privilegio di considerare i suoi beni inesti­ mabili mettendoli in connessione, più che con l’idea di proprietà pubblica, con quella di uso: «Non si può la­ sciare in eredità [...] il fondo Albano, che serve all’uso dei principi (principalibus usibus), [...] il Campo Mar­ zio o il foro romano, o un edificio sacro»: l’uso dei principi è considerato in questo caso esplicitamente equivalente all’«uso pubblico» di cui il Campo Mar­ zio forniva l’esempio di scuola9.

Il pubblico e il sacro nella documentazione di epoca repubblicana Il sacro e il religioso, da un lato, il pubblico (inteso sempre in un senso strettamente funzionale), dall’al­ tro, non avevano prezzo. La giurisprudenza di epoca imperiale confinava così lo statuto di indisponibili­ tà in una riserva in cui erano associate, in un ordine • Paulus, D. 45, i, 83, 5; Inst., 3, 19, 2; cfr. Gaius, 3, 97. » Rispettivamente: Inu.y 2, 40, 4, c Ulpianus, D. 30, 39, 7-9; vedi, su questo testo difficile e controverso, l’interpretazione di P. Veync, Le pam et le cirque, cit., p. 748, con la bibliografia essenziale.

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che poteva variare da un testo all’altro, le categorie di uso pubblico e di sacro (lasciando da parte, qui, le res religiosae). Il diritto isolava, nel vasto spazio lasciato ai domini e agli scambi privati, uno spazio di appropriazione collettiva qualificato come inappro­ priabile, secondo il doppio registro del pubblico e del sacro. Il corpus di testimonianze giuridiche, epi­ grafiche e letterarie risalenti all’epoca repubblicana conduce alla stessa conclusione: i testi unificano in un solo regime le cose e i luoghi pubblici e sacri, ai quali viene opposto tutto il resto'®. Si conserva così per lungo tempo una stessa struttura organizzativa delle cose, priva di ogni determinazione teologica, di ogni riferimento all’opposizione tra divino e uma­ no. Tuttavia, se per i primi tre secoli della nostra era, in cui, grazie alle compilazioni di Giustiniano, ab­ bondano i testi della giurisprudenza civile, questa struttura ci appare pienamente dispiegata nell’ordine patrimoniale - essendo tali cose non vendibili, non pignorabili, non promettibili, non trasmissibili in via ereditaria, non rivendicabili in giudizio -, per i seco­ li precedenti, in cui simili fonti sono relativamente scarse, non possiamo coglierla che su un piano poli­ tico. Ciò non impedisce tuttavia che la stessa struttu­ ra, benché il piano d’osservazione sia differente, sia attestata tanto prima che dopo.

10 Come ha ben visto Michael Crawford, Aia sacrom aia poitblicom, in Peter Birks (ed.), New Perspcclives in thè Roman Law of Property, Clarendon Press, Oxford 1989, pp. 93-98.

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In epoca repubblicana, le cose pubbliche e quel­ le sacre formavano un’unità giuridicamente omo­ genea. In primo luogo perché, come enunciato da un responsum pontificale del II secolo a.C., non c’è consacrazione che operi senza un ordine del popolo (iniussn popiili) - la necessità di un voto popolare era infatti costantemente richiamata -, anche all’esterno dei limiti di uno spazio già qualificato come locus publicus e già delimitato come tale; ciò in particolare spiega perché gli evergeti dovessero ottenere dalla loro città che il suolo sul quale avevano promesso l’edificazione di un tempio” fosse prima reso pub­ blico, e allo stesso modo perché, al contrario, non si parlasse a pieno titolo di sacrilegio nel caso di furto di un oggetto consacrato in una cappella domesti­ ca”; e infine perché i regimi giuridici dei luoghi e delle cose qualificati come sacra e publica apparis­ sero spesso confusi. Intorno agli anni Settanta del I sec. a.C., un unico regime amministrativo e fiscale si applicava ai luoghi sacri e pubblici della città di Roma: sull’iscrizione della Tabula Heracleensis, si *’ Cicero, De domo [Dom.J, 53,136; Sextus Pompcus Fcstus, De verborum iignificatu quae $uper$unt (ed. Wallace M. Lindsday), Tcubncr, Leipzig 191 },Sacer mons, p. 422 (Fcsto p. L); Cicero, Ad Atticum [/Ut.], IV, 2, 3 (cfr. Dom. 49, 127; 53, 128); De haruspicum reiponsii (//cr.J, 15, 33; Gaius, II, 5; Marcianus,^ In$t. (D. 1, 8, 3); Ulpianus, 68 ed. (D. 1, 8, 9, pr., § 1). “ Masurius Sabinus, Memoralia, 2, in Macrobius, Saturnalia [Sul], III, 6; cfr. Hermann Dessau, ln$criptionc$ latinac selectae [/£S], Weidmann, Berlin 1892-1910, 6147 a Ostia, o /LS 6974 a Rusuccur (Mauritania Caesariana). D. 48, 13, 6, che risponde a un vecchio tema dibattuto in reto­ rica; vedi Cicero, De inventionc, 1,8, 1 x, c Quintilianus, Imtitutiones oratoriae, IV, 2, 8; lo stesso per il peculato: Ad Hercnnium, [Hcr.], 1, 12, 22.

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legge che le imposte sulle strade di Roma si dividono tra i residenti e lo Stato, allorché «la via sia delimitata da un edificio sacro o da un edificio o luogo pubbli­ co, da un lato, e da un edificio privato, dall’altro»’3. Ai luoghi pubblici e sacri dell’Urbe si applicava, allo stesso modo, un unico regime penale: la legislazione augustea sulle violenze urbane, una vera e propria rac­ colta di disposizioni anteriori, riconduce alla medesi­ ma tipologia di reato l’aver «preso d’assalto, delimita­ to, chiuso o occupato con truppe armate i templi, le porte o altro luogo pubblico»’4 - templi, porte, spazi pubblici urbani ai quali corrispondono specularmente quei luoghi sacra, sancta e publica che la dottrina pon­ tificale associava regolarmente a tre qualità comple­ mentari, ma distinte'5, e che la giurisprudenza d’epoca imperiale escludeva dalle operazioni del patrimonio e del commercio. Resta da osservare la stessa prossimità istituzionale di pubblico e sacro nelle altre città dell’I­ talia romana. Il senato della colonia latina di Venusia decideva ogni anno quali luoghi sarebbero stati «sa­ cri o pubblici»’6, mentre la carta del municipio di Taranto, all’inizio del primo secolo a.C., sanzionava con la stessa pena ogni storno di denaro «pubblico o sacro e religioso», facendo promettere ai candidati •’ Tabula Hcraclecnsis, FIRA-l, n. 13 (= RSt I, n. 24, 11. 29-31). '« Paul» Sententiae, 5, 26. *’ Tradizione pontificale in Macrobius, Saturnalia, 3, 3, 1, che cita Trebazio Testa; Aelius Gallus apud Festum, pp. 348-350 L. “ Corpus inscriptionum latinarmn (C/LJ, IX, 439 (= Atilius Degrassi, Inscriptiones Latinae Libcrae Rcipublicae [ILLRP], II, Biblioteca di Studi Superiori, Torino 1963, n. 691; cfr. CZZ., IX, 440.

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alle magistrature che avrebbero salvaguardato que­ sta stessa pecunia publìca sacra religiosa di cui sareb­ be stata loro affidata l’amministrazione’7. La procedura civile, dalla sua forma più arcaica fino alle riforme giudiziarie di Augusto, permette di comprendere questa prossimità tra pecunia publica e pecunia sacra come un processo molto concreto di trasferimento di denaro da un luogo a un altro. Nella procedura più antica, di cui il giuramento decisorio era formalmente il perno, ciascuna delle due parti de­ positava una somma di denaro (sacramentum) in un santuario: il vincitore ritirava il suo deposito dal luogo sacro dove era stato provvisoriamente collocato (e sa­ cro), mentre il perdente, che il giudizio avrebbe rivela­ to spergiuro, abbandonava il suo deposito, che finiva immediatamente nell’erario, in publicum. Nel corso della procedura, lo stesso deposito monetario passava dal sacro, sua collocazione provvisoria, al pubblico, sua destinazione definitiva’8. Ciò che nel processo ci­ vile si presenta come un trasferimento, nel processo penale appare invece come un’alternativa: le ammen­ de penali finivano indifferentemente nel tesoro di un santuario o nel tesoro pubblico (che aveva d’altronde esso stesso sede in un tempio): stava al magistrato sce­ gliere tra la sua destinazione pubblica o sacrale (l’e­ spressione tecnica era «far condannare a un’ammenda 17 Lex municipii Tarentini, F/RA-l, n. i8 (= RS, I, n. 15,11. 1 sgg. e 16 sgg.). •’ Varrò, De lingua latina [LL], 5, 180; cfr. Gaius, IV, 14. Vedi André Magdelain, Aspecti arbitraux de la justice civile archaiquc à Rome, -Revuc Internationale des droits de l’Antiquitc» [RIDA], 27, 1980, pp. 205-281.

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che ricade nel sacro» [in sacrum indicare])19. Due de­ stinazioni, due qualificazioni, due luoghi che si con­ catenano o si alternano: ma, tra essi, nessuna discon­ tinuità, nessuna rottura. È del resto lo stesso motivo per cui a Roma non esisteva nessun inquadramento penale del sacrilegio. Rubare o stornare una cosa sacra o pubblica si qualificava allo stesso modo come pecu­ lato e valeva la medesima pena - e ciò non già perché il pubblico fosse sacro, ma, al contrario, perché il sacro era stato ridotto al pubblico. Se ne ha un esempio par­ ticolarmente chiaro nella carta epigrafica del munici­ pio di Taranto, all’inizio del I secolo a.C. Lo si vede altrettanto chiaramente alla fine dello stesso secolo, nella legge di Augusto sul peculato. Commentando questa legge, di cui fu contemporaneo, il giureconsul­ to Labeone caratterizzava il peculato come un «furto di denaro pubblico o privato» — prova che il sacrilegio non era distinto giuridicamente20. Soltanto a partire dal III secolo, con la dinastia dei Severi, il furto di pe­ cunia sacra sarà distintamente qualificato come sacri” Lcx Silia deponderibm, III secolo a.C., Fesco s. v. Publica pondera. p. 288 L (= RS, 46); frammento di Todi, CIL, I. 2, 1409 (= RS, 37, I. 7). Su questa doppia destinazione delle ammende, vedi Theodor Mommsen, Le droit penai romain, Fontemoing, Paris 1907 [ 1S99), voi. HI, p. 370. 19 l.abco, j8 posteriorum, apud Paulum, Libro singolari iiidiciornm publicoritm [/ud. pub.}, D. 48, 13, 11, 2; cfr. Inst., 4, 18, 9. Il fatto che il regime del sacrilegio a Roma non dipendesse tradizionalmente dal diritto è ampiamente dimostrato da Philippe Moreau, Ciadiana Religio, Les Bellcs Lcttres, Paris 1982, pp. 51 sgg., c John Scheid, Le dclit religicnx dans la Rome tardo-républicaine, in Mario Torelli (ed.). Le dclit religienx dans la cùc antique. Table ronde, Rome, 6-7 avril 1978, Écolc frammise de Rome, Rome 1981, pp. 129-183.

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legium e punito, dopo inchiesta straordinaria, con una morte atroce - senza dubbio è per questa ragione che Ulpiano invertiva l’ordine testuale dei fatti e metteva al primo posto il furto di pecunia sacra, arrivando a far troneggiare il sacrilegio alla sommità della scala dei reati, davanti alla lesa maestà, e fornendo così uno dei primissimi indizi della lunghissima storia giuridica del riferimento al sacro per fondare l’inespiabilità dei cri­ mini contro lo Stato2*. L’inclusione del sacrilegio nel peculato ci riporta alla singolare assimilazione del pubblico e del sacro volta a definire un regime comune alle cose sottratte ai patrimoni privati e al commercio giuridico ordina^ rio. Fino a quest’epoca avanzata dell’impero romano, il sacro fu trattato praticamente e concettualmente come un’appendice del diritto pubblico concernente le magistrature, i riti sacri e i sacerdozi, secondo una tradizione attestata ininterrottamente a partire da Ci­ cerone, che la presenta come la sola ortodossa al suo tempo, fino a un celebre testo di Ulpiano nel Dige­ sto22. La giurisprudenza imperiale restò fedele a que” Qualificazione di sacrilegiunr. rescritto di Settimio Severo e Caracalla, D. 48, 13, 6; inchiesta straordinaria: Marcianus, D. 48, 13, 4, 2; depor­ tazione per ordini superiori: Ulpianus, 7 de officioproconsulis [Off. proc.], D. 48, 13, 7, e Marcianus, lud. pub., D. 48, 13, 12, 1; morte per gli umili: Paulus, lud. pub., D. 48, 13, 11, 1; morte atroce: Ulpianus, 7 Off. proc., D. 48, 13, 7, pr.; rovesciamento dell’ordine tra il pubblico c il sacro: Ulpianus, 44 Sab., D. 48, 13, 1, pr.; 7 Off. proc., D. 48, 4, 1, pr., da leggersi accanto a Tcrtullianus, Apologeticum, capp. 27-28. “ Ulpianus, D. 1, 1,1, 2, con gli eccellenti commenti di Pierangelo Ca­ talano, £4 divisione del potere a Roma, AA.W., Studi in onore di Giusep­ pe Grosso, voi. VI, Giappichelli, Torino 1974, pp. 667-691. SuH’intcgrazio-

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sta summa divisio tra il polo pubblico-sacro e il resto, vale a dire il patrimoniale, perpetuando così, con una trasposizione al diritto privato dei beni (che emer­ ge meno chiaramente in epoca repubblicana, a causa della mancanza di fonti altrettanto abbondanti), una tradizione di notevole durevolezza. Solo i testi ap­ partenenti alla letteratura didattica delle Institutiones vengono, se non a perturbare tale distinzione (anche in questi testi, come abbiamo visto, essa resta infatti intatta), almeno a rivestirla di considerazioni teologi­ che che non hanno nessuna eco nel regime dei beni.

La stretta delimitazione del pubblico e del sacro Non è irrilevante che l’inappropriabilità e l’inestimabilità di alcune cose non fosse fondata su una na­ tura propria, in virtù della quale sarebbero apparte­ nute alle sfere del diritto divino o del diritto umano, e neppure su questa appartenenza stessa, dalla quale avrebbero tratto le proprie caratteristiche più tipi­ che, concepite quindi come ontologiche, poiché il di­ vino e l’umano rimandano all’ordine gerarchico del mondo. Il sacro, il religioso e il pubblico, a Roma, sono anche delle categorie pienamente giuridiche. In ne dell’organizzazione religiosa romana nel diritto pubblico in generale, cfr. John Scheid, Le prctre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoccs et le droit public à la fin de la République, in C. Nicolet (ed.), Des ordrcs à Rome, Publications de la Sorbonne, Paris 1984, pp. 245-280, c ld., Religion et pie té à Rome, La Découvcrte, Paris 1985, pp. 47 sgg.

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questo senso, non si fondano sulla considerazione - e neanche su un riferimento alla considerazione - delle cose in quanto tali, bensì su procedure, espressioni formali di una volontà di produrre e di organizzare le categorie nelle quali e per mezzo delle quali si am­ ministrano le cose. Per costituire una cosa sacra, indisponibile ai sin­ goli homines (qualità per cui essa era detta anche re­ ligiosa) ed esclusa da ogni patrimonio privato così come da ogni commercio oneroso o gratuito — da ogni proprietà, vendita, successione, da ogni eredi­ tà, dono, promessa o pegno - bisognava comincia­ re consacrando e dedicando a un dio una porzione strettamente delimitata di suolo (un locus) insieme all’edifìcio, che, generalmente, esso ospitava. Allo stesso modo, per fondare una tomba (alla quale il diritto pontificale e il diritto pretorio applicavano l’apposito termine di locus religiosus, poiché i luoghi di sepoltura erano interdetti senza essere consacrati), bisognava prima di tutto circoscrivere il luogo del morto23. Ora, i beni destinati all’uso pubblico erano rigorosamente delimitati nello stesso modo. La na­ tura del loro uso era una condizione necessaria, ma non sufficiente, del loro statuto, i cui contorni erano necessariamente e precisamente tracciati. Nonostan­ te l’apparente obiettività della loro definizione, il loro spazio era ritagliato sul suolo come quello delle *’ Yan Thomas, Corpus aut ossa aut cineres. La chose religieuse et le commerce, -Micrologus-, 7, 1999, //cadavere/The Corpse, pp. 73-112.

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cose sacre. In primo luogo, non c’era «cosa pubbli­ ca» che non fosse stata fatta oggetto di una pubblica procedura di publicatio, come è noto per il caso delle terre rese pubbliche dopo una conquista, e che non fosse stata poi delimitata come tale: è cosa sufficien­ temente conosciuta perché sia necessario insistervi24. Ma erano «ritagliati» anche gli spazi definitivamente «riservati all’uso pubblico». Dei cippi ne marcano spesso i limiti, ricordando inoltre chi li ha definiti e perché25. Sono questi gli spazi evocati dagli agrimensores a proposito delle controversie sulla deter­ minazione dei luoghi urbani, inscritti all’interno del­ le mura: essi restavano indisponibili alle stesse città, i cui consigli non potevano, alienandoli, sottrarli al

14 Vedi in particolare i lavori di Claude Moatti, Archives et partagc de la terre dans le monde romain. Il'"" siede avant-I" siede après J.-C, École franfaise de Rome, Rome 1993, e Étude sur l'occupation des terres publiques à la fin de la Rcpublique romaine, -Cahiers du centre G. Glotz», III, 1992, pp. 57-73. “ Per gli spazi pubblici urbani, numerosi cippi inscritti: così, a Roma, sotto Augusto, ClL, VI, S74 (= ILS 5935) (Michel Roddaz, Mar­ cus Agrippa, École fran^aisc de Rome, Rome 19S4, p. 267); cfr. ILS, 5937, e CIL, VI, 1264 (= ILS , 5838); sotto Claudio, CIL, VI, 919, VI, 1265 (cfr. C. Moatti, Archives, cit., p. 42); a Ostia, CIL, XIV, 4702; a Pompei, CIL, X, 1018; a Grange, Andre Piganiol, Les documenti cadastraux de la colonie d’Orange, Suppl. -Gallia», 16, 1962, pp. 343 sgg., a proposi­ to delle delimitazioni degli spazi urbani (arac). La delimitazione delie strade di Roma è presupposta dalla Tabula Heraclccnsis, FIRA-l, n. 13 (= RS, I, n. 24, I. 29-32); delimitazione delle vie pubbliche a Orso nella Betica, F/K/l-I, n. 21 (= RS, I, n. 25, cap. 78); per le colonie in generale, Frontinus, p. 21 e p. 54 L.; delimitazione delle vie d'acqua e acquedotti: Lex Quinctia de aquaeductibus, FIRA-X, n. 14,11. 28 ss (= RS, II, n. 63); cfr. ILS, 5789 (Rivc-de-Gier).

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loro primo uso26. Si tratta in qualche modo di beni di fondazione. Immaginare, come hanno fatto alcu­ ni romanisti neo-tomisti, che la loro natura di cose pubbliche fosse «oggettiva» e «intrinseca» è un pun­ to di vista che trascura l’essenziale del diritto roma­ no (e del diritto tout court). Non era la natura stessa delle cose a parlare. Era un magistrato che definiva i limiti e i servizi di quei luoghi perpetuamente ina­ lienabili. Nel caso delle strade, un passaggio del Di­ gesto lo mostra chiaramente: «Il suolo della via pub­ blica è pubblico, lasciato all’uso pubblico da colui il quale ha avuto il diritto di rendere pubblico il suo­ lo, secondo un tracciato compreso entro certi limiti in larghezza, perché vi si possa circolare e viaggiare pubblicamente»27. Ora, un tale atto appare molto vi­ cino, formalmente, alla «legge» verbale attraverso la quale venivano consacrati e destinati i luoghi sacri. Queste procedure di definizione sono conosciu­ te assai meglio nel caso dei luoghi sacri. È possibi­ le, soprattutto, analizzare più finemente la posta in gioco dal punto di vista dcll’extrapatrimonialità. I beni destinati al servizio degli dèi non diventavano sacri e indisponibili che all’interno di linee (regiones) — generalmente quelle di un templum - precisamente tracciate sul suolo proprio mentre venivano formula** Frontinus, 17, 1-18, 2 L.; cfr. Agcnnius Urbicus, 17 L. c 85, 27-86, 2 L.; Hyginus, 197, 20-198, 2 L. ’7 D. 43, ir, 2, 21. Sull’oggcttività c l’inerenza della natura pubblica delle cose, si veda soprattutto Riccardo Orestano, //problema delle perso­ ne giuridiche in diritto romano, I, Giappichelli, 'forino 1968, p. 304.

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te. Allo stesso modo dei templi erano consacrati an­ che i boschi sacri28. È in questo stesso luogo (Azc) che valeva la legge (/ex) attraverso la quale il magistrato consacrava verbalmente la cosa - templum ortogona­ le, ara, bosco, edificio, altare - e la dotava del suo sta­ tuto. La prescrizione delle linee istituisce il luogo nel quale opera l’atto29. Ora, nulla di tutto ciò è attestato per le terre destinate ai templi, per i loro beni distinti da essi come ogni altro bene distinto da una persona. Certo, i domini attribuiti ai santuari erano anch’essi rigorosamente definiti. Lo dimostra un’abbondante documentazione epigrafica, soprattutto greca. Non bisognava confonderli, a causa delle usurpazioni, con le terre dei singoli, da cui l’importanza cruciale de catasti e degli archivi catastali30. Ma i documenti uffi ,s Così, le leggi dei boschi sacri di Lucerà e di Spoleto, note attraverso iscrizioni del IH secolo a.C. (JLLRP, 504, $05 e 506), i cui regolamenti si riferiscono a dei luoghi già delimitati al momento della dedica (in hoce locami, boncc loucom). *» FIRA-UI, Negotia, G. Barbèra, Firenze 1969, n. da 72 (= ILRPP, 508) a 75. Cfr. Georg Wissowa, Religion und Kultus dcr Ròmer, Beck, Mtinchen 1912, p. 473, n. 3. André Magdelain, La loi à Rome. Histoirc d'nn concepì, Les Belles Lcttres, Paris 1978, p. 30. La consacrazione si conformava al tracciato rituale del templum praticato dall’augure (vedi Eduard Nordcn, Aus altròmiscben Priestbiicbern, C. \V. K. Gleerup, Lund 1939, e Andre Magdelain, L’auguraculum de l’Arx à Rome, REL, 47, 19691970, pp. 253-269; ora in Id., lus, Impcrium, Auctoritas. Études de droit romain, École frammise de Rome, Rome 1990, pp. 193-207). ,0 Per il mondo greco, dal V secolo a.C., si veda per esempio il ca­ tasto delle terre di Dioniso a Eraclea, Inscriptions juridiques grccques, n. XII, V secolo a.C.; la delimitazione delle terre sacre di Eieusi, Inscriptiones Graecae I, 3 (= Jean-Marie Bertrand, Inscriptions bistoriques grecqucs, Les Belles Lcttres, Paris 1992, n. 30). La documentazione è abbondante soprattutto per le città di epoca ellenistica (cfr. per esempio ibid., n. 80,

I IL VALORE DELLE COSE 44 ciali romani distinguono tra il luogo originariamente consacrato e la proprietà fondiaria che gli è attribuita. Se questo è allo stesso modo delimitato, esso non è del pari consacrato5’. La documentazione giuridica, essenzialmente romana, obbliga a distinguere tra luo­ go consacrato, che non può disporre di sé stesso (e di cui la città stessa non può disporre), e tutti i beni che esso amministra (che la città amministra) e la cui indisponibilità non è assoluta. Beni avventizi di ogni natura accrescevano nel -.orso del tempo il luogo originariamente consacrato, santuario. Terre, senz’altro; schiavi o lavoro servile secondo il diritto pontificale romano, il dio non ri­ ceve lui stesso lo schiavo, ma solo le sue operae, im­ piegate per un certo tempo)32; depositi monetari, che rendevano talvolta i templi delle vere e proprie ban­ che (in alcune città greche come Deio o Efeso, gran­ di santuari panellenici); infine, tutti i doni votivi di oggetti preziosi, elmi, scudi effigiati, statue, tripodi, n. 108, n. 126). Per il mondo romano, dove le fonti su questa questione sono infinitamente meno abbondanti, si veda per esempio Frontinus, p. $7 L., Hyginus, p. 88 L., ILS, 251 (con il commento di C. Moatti, Arcbives, ciu, p. 38); iscrizione nel tempio di Zeus ad Aizanoi, in Frigia, editata c commentata da Umberto Laffi, / terreni del tempio di Zeus ad Aizanoi. Le iscrizioni sulla parete interna dell’anta destra delpronaos, «Athenaeum»,

I97LPP- 3-53’■ Se ne ha una prova certa con il documento di Oropo, FlRA-\, n. 36: il testo greco dell’iscrizione non riproduce in nulla la formula di una dedtcatio, ma corrisponde al semplice dazio di un diritto di asilia. Questa distinzione è osservata dagli agrimensori: commento a Frontinus, pp. 2223 L.; Frontinus, p. 57 L. p Servius, Ad Aeneidcm [Aen.], XI, 558: «In sacris tamen legitur posse ctiam opera consecrari ex servis».

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coppe per libagioni, stoviglie d’oro e d’argento, spe­ zie, che gli inventari custodivano con cura e secondo l’anno d’esercizio35. Non formalmente consacrate, queste «cose» erano certamente considerate come sa­ cre, sottratte in quanto tali alla proprietà individuale. Esse diventavano sacre, in qualche modo, per diritto di accessione. Ciò si capisce allorché un re, un ma­ gistrato, una città le dedicava a un dio già provvisto del suo santuario, come mostrano molteplici esempi epigrafici34. Ma lo stesso è da intendersi anche allor­ ché un devoto faceva una donazione a titolo privato o, dopo un voto, assolveva al suo impegno: offerte e doni votivi accrescevano il patrimonio del luogo consacrato35. Tuttavia, essi non erano che contingen ” Così, l’inventario di Atena Lindia nella cronaca di Lindo: Franz Jacob Die Fralmente der griechischcn Histonker, 111, risi., Brill, Leiden 1957 [1926], n. 532 (parzialmente tradotto in J.-M. Bertrand, Inscriptions, cit., n. 2), e ovviamente gli inventari degli ieropi di Deio: Francois Durrbach, Inscriptions de Délos. Compiei dei hicropci, Écolc fran^aise d’Athènes, Paris 1926, n. 290-371, e 1927, 372-498 - e più tardi, al tempo della colonia, Pierre Roussel, Déloi, colonie athénienne, École fran^aise d’Athènes, Pa­ ris 1916, pp. 165 sgg.; a Siracusa, al tempo di Cicerone, Verrinae, actio se­ conda, 4 (de signii), 140; per l’Egitto di epoca romana, cfr. Sclect papyri, I, Loeb Classica! Library, Harvard University Press, Cambridge, MA, 1988’, n. 127. Si veda anche un inventario del tempio di Caelestis in ClLy 8, 12501.

Per esempio la concessione di Siila di un territorio di mille piedi intorno al tempio di Anfiarao a Oropo (/•'//?/!-!, n. 36) o, sempre da parte di Siila, la concessione di terre a Diana Tifatina a Capua (JLS, 251, c VelIcius, II, 2$, 4: si veda su questo dossier C. Moatti, Archivei, cit., p. 37). Questa pratica era ben conosciuta, grazie alle iscrizioni, nel mondo greco ed ellenistico, c le autorità romane la ricordano all’occasione: vedi U. Laffi, I terreni del tempio di Zeni ad Aizanoi, cit. ’’ Scrvius, Aeri., III, 287; cfr. la legge epigrafica del tempio di Giove a Furfo, dedicato nel 58 a.C., /7/L4-III, n. 73, da leggersi nell’edizione di



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temente - non perpetuamente - sacri. Il diritto pon­ tificale romano distingueva in effetti tra lo statuto giuridico del luogo, compreso ciò che a esso era stato incorporato al momento della sua consacrazione, e il regime dei beni che venivano tesaurizzati in seguito. Solo i beni di fondazione erano sacri per sempre: il suolo, di cui i magistrati avevano prescritto i limiti secondo la loro determinazione augurale, l’edificio che insisteva su quel luogo, gli altari, le tavole per le offerte e le libagioni, i cuscini su cui erano adagiate le statue degli dèi durante i banchetti in loro onore, le stoviglie cultuali, ogni cosa consacrata insieme al santuario e a esso incorporata attraverso uno stesso rito e secondo una stessa legge. Al contrario, i doni e i depositi votivi in moneta, gli ornamenti, le coro­ ne, gli scudi effigiati non erano che acquisizioni, per il diritto pontificale. Non godevano dello statuto di indisponibilità assoluta dei beni della consacrazione. A dire il vero, non erano considerati sacri che per il tempo in cui il santuario non li vendeva16. E il diritUmberto Laffi, La lex aedis Furfensis, in Atti del Convegno della Società Italiana di Glottologia, Pisa, 19-20 dicembre 1977, Giardini, Pisa 1978, 11. 12-13. Macrobius, Saturnalia, III, 11; Scrvius, Aen., Ili, 287; IX, 408; XI, 558. Per la vendita degli ex voto, vedi per esempio Plutarchus, Vita Tiberii Gracchi, 1 5, 8, da compararsi con la Vita Luculh, 20, 4, per le città dell’Asia. È a una pratica corrente c conforme al diritto pontifica­ le che si oppone Augusto allorquando interdice nel 27 a.C. la vendita degli ex voto: iscrizione di Cuma Eolica, Supplementum Epigraphictim Graecum, XVIII, 555 (= H. Hcngelmann, Die Inschnften von Kyme, Inschriften griechischer Stàdie ai Gaius, IV, 49. Sul nesso - non soltanto funzionale, ma semantico - tra aestimare e damnare, dal momento che damnnm designa una composizio­ ne, vedi Alfred Ernout-Antoine Meillet, Dictionnairc etimologique de la Lingue latine, Klincksicck, Paris i9604, p. 164. Nella legge delle XII Tabulac, la litis aestimatio ha luogo nel corso di una procedura di arbitrium liti aestimandae (Valerius Probus, io), il che permette di comprendere XII Tabidac, 3, dove gli arbitri aiutano le parti a damnnm decidere, vale a dire a comporre (decidere) su un ammontare pccuniario (damnnm). Sulla funzione di damnnm decidere, vedi André Magdelain, Index arbiterve, RIDA, 1980, pp. 162 sgg. Sul posto deH’uejlùnrtn’o nella società romana in generale, vedi Alfons Burge, Geld- nnd Naturalwirtschaft im vorklassiseben nnd klassischen romischer Recbt, -Zeitschriit der Savigny-Stiftung fùr Rcchtsgcschichte», 99, 1982, pp. 129-1 $3. 74 Gaius, IV, 48, con l’esegesi di André Magdelain, Esqnisse de la justice civile au conrs dn premier àgc répnblicain, RIDA, 37, 1990, pp. 198-246, qui p. 237. n Vedi Emilio Betti, La struttura dell'obbligazione romana e il proble­ ma della sua genesi, Giuffrc, Milano 1955, pp. 32 sgg. e pp. 69 sgg.

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è tante volte e con tanta precisione impadronita. Ma la «cosa» è allora convertita in un quantunv. «Quanti ea res est»76. Questa è l’ultima riduzione procedurale della «cosa». Ridotta in primo luogo alla sua qualifi­ cazione, essa lo è adesso al suo valore. Così si forgiarono progressivamente, nel campo semantico del processo, le accezioni patrimoniali di res, fino al momento in cui questi significati si di­ staccarono dal contesto procedurale della loro prima interpretazione. Non comprenderemmo altrimen­ ti il rapporto costante tra cosa, oggetto, patrimonio, da un lato, e controversia giudiziaria, dall’altro. Dal contraddittorio all’interesse e ai beni, di contro, si di­ segna una catena continua di significati che si prolun­ gano attraverso le nozioni di res furtiva, res uxoria, res familiaris, res privata, ecc. Al centro di tutte queste nozioni c’è la «causa». Di qui l’importanza teorica di tutti quei principi di classificazione che bisogna colle­ gare alla circolazione: cose che si alienano per mancipazione o per tradizione informale (res mancipi e res nec mancipi)', cose specifiche (species) e cose del tipo che si pesa, si conta e si misura (res quae pondere nu­ mero mensura consistunt); cose fungibili e non fungi­ bili; divisibili e non divisibili, ecc. Le cose alle quali è consacrato il titolo su «la divisione delle cose e la loro sostanza», nel Digesto, comprendono delle classifica­ zioni relative soprattutto ai modi di appropriazione e di trasferimento, ma nessuna di queste qualità è con* Gaius, IV, jj; IV, 163.

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cepibile al di fuori di un giudizio di valore che opera attraverso l’azione giudiziaria. Torniamo alla classificazione da cui siamo partiti: nullius in bonisy alicuius in bonis. È con l’aiuto della nozione di bona (insieme a res e pecunia) che il diritto romano pensò e amministrò i «beni» di una persona in quanto somma di valori. Il termine è certamente antico. È attestato per la prima volta presso il poeta Nevio77, intorno all’ultimo terzo del III secolo a.C. Plauto lo impiega correntemente in luogo di «patri­ monio» o «fortuna»78, talvolta con il significato spe­ cifico di «beni acquisiti attraverso il commercio»79. Ma fu soprattutto il diritto pretorio a imporre questa nozione come strumento per concepire e organizzare una patrimonialità intesa nel suo senso più astratto di valori disponibili. Così, un acquirente sprovvisto del titolo di proprietà quiritario (perche lo schiavo non gli era stato alienato per mancipium in modo solenne) era comunque considerato in bonis*° e godeva di un’azio­ ne che suppliva alla rivendicazione: si afferma qui un avere il cui titolo non si rifa ad alcun rito formale, ma al solo fatto dello scambio economico e commerciale. Allo stesso modo, nuovi ordini di eredi, tradizional­ mente esclusi dal diritto civile, si vedevano riconosce77 Nacvius in Otto Ribbeck, Comicorum romanorum frammenta, II, Tcubner, Leipzig 1873. p. 16. 7* Così Mostcllaria, w. 233-234; Trinnmmus^ v. 168. 77 In Trinumnius, v. 822. ,0 Cfr. Gaius, 1,54; li, 4oesgg., D. 7,1,7,1; 9,4, 26,6; io, 3, 5;Thcophilus, Paraphrasis Inslitiaioniim 1,5,4: Dcspótcs bonitarios.

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re una honorum possessio e venivano così resi titolari di un insieme di beni designato immediatamente come tale, globalmente considerato. O ancora, i creditori non soddisfatti si appropriavano dei beni dei loro de­ bitori, missio in bona: si impone particolarmente qui, a partire almeno dal II secolo a.C., nel diritto delle confische e delle esecuzioni, una nozione di «beni» che, per la forza delle cose, riduce il patrimonio a un attivo aggredibile in qualsiasi sua parte così come nel suo complesso8*. In questi diversi casi, possesso «bonitario» dell’acquirente informale, «possesso dei beni» accordato a degli eredi privati di vocazione civile, in­ vio in possesso nei beni del debitore insolvente, ecc., si attesta e si costruisce un regime di beni concepiti come delle utilità omogenee e fungibili, irriducibili alle loro componenti singolari, considerate in massa. Un’evoluzione in tutto e per tutto comparabile si era per altro già verificata nell’ambito delle successio­ ni civili, in cui erano state messe a punto, parallelamente e forse anche anteriormente al diritto pretorio dei bona^ le primissime tecniche di una gestione pa­ trimoniale che combinava i concetti e gli strumenti capaci di assicurare la fungibilità delle cose e il loro regime quantitativo. \JhereditaSy connessa origina­ riamente alla posizione concreta e sociale di un erede dotato di uno statuto e di poteri propri82, aveva finito *' Per il II secolo a.C., Lex Latina tabulae Bantinae, CIL, I, 2, $82,1. 11; Lex repetundarum, CIL, I, 2, 583, e Lex agraria, CIL, I, 2, $85,1. 56. “ Vedi Gianfranco Franciosi, Usucapio prò herede. Contributo allo studio dell’antica hereditas, Jovcnc, Napoli 1965.

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per astrarsi da questo radicamento personale e sociale per non rinviare ad altro che a un complesso di beni (successorii) considerati nel loro valore globale, senza distinzione tra cose e diritti83. La rivendicazione che si esercitava su di essa nel suo complesso, come se si fosse trattato di una cosa sola, la vendita attraverso la quale gli eredi potevano cederla per un prezzo equi­ valente al tutto, il possesso di lunga durata che la fa­ ceva acquisire nella sua unità, tutta questa evoluzione compiuta al più tardi nel III secolo a.C. nell’ordine civile connetteva già l’idea di eredità a un ordine di valori puramente monetario - l’ordine esclusivo della pecunia**. Lo si vede già nettamente nel 254 a.C.: per determinare chi, degli eredi o dei legatari, fosse tenuto agli obblighi sacrali lasciati dal morto, il pontifex maximus Tiberio Coruncanio enunciò la regola secondo •’ Sull'unità (materiale o immateriale, poco importa) deW'hereditas, si vedano le classiche analisi di Bernardo Albanese, La successione ereditaria in diritto romano antico. «Annali del seminario giuridico della Università di Palermo», 1949, e Pasquale Voci, Diritto ereditario romano. I,, Giuffrc, Milano 1967*, pp. 83 c 146 sgg. ‘4 «Hereditas est pecunia»: Cicero, Topica. 6. 29. Cfr. Her.. 4, 40, e De inventione [Inv.] 2, 63-64: «unius pccuniac [...] plures heredes». I testi attribuiscono talvolta alla legge delle Xll Tavole l'impiego di pecunia per designare la totalità del patrimonio (Plinius, Natnralis bistorta. XXI, 3,7 = XII Tabulac. X, 7), in particolare il patrimonio successorio (Cicero, Her.. 1, 13, 23; Id., Inv., 2, 50, 148 = XII Tabidae. V, 7, a proposito dcH’erede folle: «gli agnati e i parenti gentilizi avranno potere su di lui e sul suo patrimonio» - in co pccuniaquc eins). Per anacronistici che possano esse­ re, questi riferimenti alle Xll Tavole attestano nondimeno un uso molto antico di pecunia in questo senso: cfr. P. C. Scipio Aemilianus Africanus, in Aulus Gellius, 6, 11, 9: «tcrtia pars pccuniae paternae». Nel II secolo a.C., la parte più grande di una successione si diceva maior pars pecuniae (responsum pontificale in Cicero, Leg., 2, 20, 49).

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cui vi sarebbero tenuti coloro che avessero ricevuto più della metà della pecunia, da cui la massima pon­ tificale «i culti seguono l’ammontare del patrimonio» {sacra cum pecunia)*'. Al criterio del legame familia­ re veniva sostituito quello del valore monetario della successione. In diritto pontificale e civile, al più tardi nel III secolo a.C., il patrimonio successorio era nel suo in­ sieme concepito, amministrato e organizzato secon­ do un criterio quantitativo. Un secolo più tardi, il pretore estendeva questa concezione alla totalità del diritto patrimoniale, attraverso il concetto di bona. Ora, queste figure di una patrimonialità considerata per dir così nel suo stato più astratto, cristallizzata in primo luogo attorno zWhereditas civile e poi ai bona del diritto pretorio, sarebbero state a loro vol­ ta ordinate dai giuristi dell’epoca imperiale classica secondo delle regole e dei principi di amministra­ zione che divennero (e restano ancor oggi, giacché l’essenziale di queste regole continua a governarci) degli straordinari strumenti di astrazione. Una que­ stione essenziale consisteva nello stabilire se i beni si riducessero al saldo restante, dedotti tutti i debi­ ti, o se consistessero in un valore negativo, allorché ad esempio una successione si rivelava «dannosa»

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*’ Coruncanius, in Cicero, Z.eg., II, 49; cfr. Festus, s. v. Sine sacris hereditas, p. 370 L. Sul senso di questa regola, cfr. P. Voci, Diritto ereditario, cit., pp. 112 sgg.; B. Albanese, La successione, cit., pp. 335 sgg.; G. Francio­ si, Usucapio, cit., pp. 105 sgg.



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(damnosa h ereditasi6. Importano poco le risposte contrastanti e la difficoltà di un insieme di fonti fit­ to di trappole e di testi spesso interpolati. Che i de­ biti fossero parte dei «beni» o meno, che bisognasse considerarli astrattamente come il solo saldo positivo o, più astrattamente ancora, come pura universalità, come semplice contenitore il cui contenuto è poco ri­ levante, ciò che ne faceva un perfetto nomen iuris nel senso di entità formale87, i «beni» non costituivano unità che dal punto di vista del loro valore, che questo fosse positivo, nullo o anche negativo. Questa rappresentazione di una sostanza pura­ mente contabile dei beni nella cultura giuridica del II e III secolo della nostra era governa evidentemente il senso che vi riveste una divisione delle «cose» tra nullius in bonis e alicuius in bonis — tra «cose che appar tengono a un patrimonio che appartiene a qualcuno* e «cose che appartengono a un patrimonio che non appartiene ad alcuno». Ripartendo la totalità delle ca­ tegorie all’interno delle quali le «cose» trovavano una qualificazione specifica e dunque uno statuto, gli auM Per la prima opinione, D. 50. 16, 83; 39, 1, e la casistica in D. 23, 3, 72, pr.; 24, 1, 55; 33, 2, 43; 35, 2, 69; 37,6, 2, 1; 49. 14, 11; C. 6, 61,8, 4. Per la seconda, Pomponius, y ad Sab., 29, 2, 37; Id., j ad Quintum Mitciiim, $0, 16, 119; Ulpianus, j9 ed., D. 37. 1, 1, 3, pr. Vedi G. Schedilo, Lezioni, cit., I, pp. 4-10; P. Voci, Diritto ereditario, cit., pp. 1 $0 sgg.; M. Bretone, / fondamenti, cit., pp. 210 sgg. ’7 Pomponius, 5 ad Quintum Mucium, D. $0, 16, 119; Ulpianus, D. 50, 16, 178, 1; Papinianus, D. 5, 3, 50, pr.; «intellcctus iuris» apud Papinianum, D. 18, 7, 5; 31, 66, 2. Questa categoria è stata assai mal compresa e analiz­ zata da Riccardo Orcstano, //problema, cit., il quale, più che desostanzializzare le cose del diritto, ne sostanzializza al contrario i nomi.

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tori di manuali didattici costruivano un dispositivo di classi il cui senso era già molto carico di storia pratica e dogmatica, e che definiva le figure eminenti in cui la questione del valore era stata discussa, elaborata, mes­ sa in forma e risolta tramite delle regole di ammini­ strazione pratica. Esse avevano un duplice significato: in prima istanza quello di appropriazione, poi quello di valore misurabile. Questo supponeva una misura commerciale, certo, ma esso era soprattutto la misura del processo.

Le cose invalutabili Gli oggetti che, in via straordinaria, il diritto escludeva dall’area patrimoniale e collocava in una riserva pubblicamente o sacralmente costituita erano anch’essi qualificati come «cose» - pubbliche, sacre, religiose e sante, «cose che appartengono a un pa­ trimonio che non appartiene a nessuno», «cose di cui non si dà commercio». Né più né meno delle al­ tre, nella misura in cui anche questi oggetti (Campo Marzio, fori, vie, teatri, basiliche, santuari, tombe, mura di cinta) entravano o erano suscettibili di en­ trare in una controversia giudiziaria, divenivano del­ le res qualificabili al di là di ciò che lasciavano imme­ diatamente intendere i loro nomi concreti. In epoca arcaica, nei contenziosi che dovevano risolvere, i pontefici decretavano simili qualificazioni, secondo l’antica tradizione repubblicana del responsum pon­

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tificale. Che non si tratti di constatazioni ma di de­ cisioni, non di designazioni ma di qualificazioni, è cosa che appare sempre molto chiaramente nei libri pontificales. «Nei decreti dei pontefici», riporta un antiquario citato da Macrobio, «la questione riguar­ da soprattutto il fatto di sapere ciò che si può chia­ mare sacro, profano, santo, religioso»88. Non erano pure speculazioni, ma decisioni sulla qualificazione giuridica da imporre in tale o talaltro caso sottopo­ sto alla giurisdizione pontificale. Nel II secolo a.C., il collegio dei pontefici «decide» che il santuario di Honos, dove sono state esumate delle sepolture, non è religioso, poiché la religione dei sepolcri non può impedire (obligari) un luogo pubblico e consacrato. Il pontifex maximus Publio Scevola, secondo l’in terpretazione del censore, «decreta» che l’altare de dicato nel 120 dalla vestale Licinia senza un ordini del popolo «non può essere considerato sacro». Nel 56, i pontefici «decretano» che la casa di Cicerone non è «sacra» e deve essere dunque restituita al suo proprietario senza interdetto religioso89. A parti­ re da simili responsa, gli antiquari mostrano la loro ortodossia a proposito del sacro, del religioso e del santo, a cui gli storici della religione negano talvolta la natura di categorie giuridiche, ovvero di giudizi pratici connessi a delle procedure. Tale è il contesto pragmatico in cui si lascia cogliere la nozione di res 11 Macrobius, Saturnali^, 3, 3, 1. *’ Rispettivamente, Cicero, £eg., II, y^\Dc domo* 53,136;/In., IV, 2, 3. ■

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nelle qualificazioni di res sacrae, res sacrae religiosae, res religiosae, res sanctae e, certamente, res publicae. Cose pubbliche, sacre e religiose avevano in comu­ ne, con le cose private, il fatto di essere prese nel cir­ cuito della res procedurale. Tuttavia, il processo (e lo scambio) non conferivano valore che alle cose private. Per le cose pubbliche e sacre o, più precisamente, per quelle la cui destinazione pubblica o sacrale era stato stabilito che fosse perpetua, santuari e luoghi destinati ai cittadini, luoghi di fondazione, la loro qualificazio­ ne giuridica di res non si traduceva in alcuna stima del loro valore. Certo, gli interdetti pretori finivano con l’indenizzare i danni subiti dagli attori a causa di un deterioramento delle cose pubbliche o sacre: agendo 1 titolo di cittadini, essi finivano per ottenere il valore di ciò che era stato stimato come l’ammontare della loro perdita, il quanti ea res est90. Ma essendo queste «cose» in sé stesse a rigore inestimabili, come i testi indicano esplicitamente9’, è solo del loro uso, e non della loro proprietà, che si trattava nelle procedure interdittali. Se una res nullius in bonis era appropriata (per esempio, se si era costruita una casa nel mezzo di una piazza o se di un santuario o di un muro di cinta si era fatta un’abitazione, come numerosi documen­ ti attestano, soprattutto nel Basso Impero), nessuna condanna pecuniaria poteva riparare la perdita per la

*® Gaius, IV, 163: «quanti ca res est condcmnari», e D. 43, 11, 1 «condemnatio in id quod actori interest». ’* Ulpianus, D. 30, 39, 7-9; Inst., 2, 40, 4.

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collettività. Ogni stima avrebbe coinciso con il loro riscatto, contrariamente al principio dell’imprescritti­ bilità del loro statuto di cose inappropriabili. Nel di­ ritto penale erano certo previste delle ammende. Ma, nel diritto civile, la cosa sfuggiva a ogni misura del suo valore. Non restava altro che obbligare a una restitu­ zione in natura. Per i sepolcri, le ammende sepolcrali, comminate dal morto se il luogo veniva alienato, non regolavano la questione del rispetto effettivo della loro destinazio­ ne funeraria: il fondatore prevedeva che il locus religiosus stornato dal suo servizio potesse essere devoluto alla città, così da assicurarne perpetuamente la natura dell’uso92. Quanto ai luoghi destinati all’uso pubblico, gli interdetti pretori avevano una portata restitutoria, ma che si traduceva in definitiva in una condanna pe­ cuniaria a vantaggio del cittadino-attore. Ecco perché i magistrati che si occupavano di lavori pubblici au­ torizzavano in ultima istanza che si procedesse a delle demolizioni forzate. Non se ne astenevano che quando queste rischiavano di nuocere alla città: il costruttore abusivo pagava allora un canone in riconoscimento del­ la natura pubblica del suolo occupato senza giusto tito­ lo93. Lo stesso, e a fortiori, accadeva per i santuari. Né le ammende per sacrilegio né gli interdetti pretori basta­ vano a rendere effettiva una norma di inappropriabilità che aveva come contropartita una norma di invalutabi” Per esempio ILS, 8351; D. 33, 2, 34, pr. ” D. 43, 8, 2, 17.

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lità. Si metteva dunque la forza pubblica al servizio dei luoghi sacri. Si costringeva fisicamente a «restituire al dio il suo tempio»94. Erano in qualche modo condanne alla «cosa stes­ sa», mentre per il resto questa forma coercitiva era sparita da tempo immemorabile. Caso eccezionale in cui la res, benché inserita nel processo, non era consi­ derata nella sua identità di valore ma nella sua identità concreta, secondo il modo molto antico - di cui Gaio è il solo a ricordarci che era stato praticato nell’epoca più arcaica - di un obbligo alla res ipsa. Così che la loro irriducibile ipseità era riconosciuta a quelle cose che, per fondare sé stessa, la città aveva isolato dal mondo e dalle procedure giuridiche del valore.

’* Iscrizione di Cuma, SEG, XVIII, 555, citata supra. La condanna imposta a Lusias, qualora non restituisca lui stesso il bene indebitamente acquistato, non è pecuniaria ma reale: seguendo l’ordine dell’imperatore, il giudice non potrà pronunciare altra sentenza che quella formulata nell’e­ ditto di Augusto: «rcstituat dco fanum». Sul regime giuridico dei santuari a partire da questa iscrizione, vedi Kathlecn M. T. Atkinson, Resultato in integrum. lussum Angusti Caesaris, R/DA, 7, i960, pp. 228-271.

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Desidero ringraziare Emanuele Coccia per avere incoraggiato la pub­ blicazione di questo libro.

Yan Thomas è stato definito, e non a torto, un pen­ satore «inclassificabile»1. La formula retorica è meno elusiva di quanto appaia. Essa descrive, con buona ap­ prossimazione, la difficoltà di assegnare la sua lezio­ ne a un compartimento disciplinare definito. È fuor di dubbio: Yan Thomas è stato uno dei più originali storici del diritto romano della seconda metà del No­ vecento. Tuttavia questo dato non basta a esaurirne l’oroscopo. Yan Thomas è stato anche, e almeno con lo stesso grado di originalità, uno dei più singolari te­ orici del diritto e della società. La riflessione sulle cose (res) è una delle più interes­ santi, e meno scontate, vie d’accesso al suo laborato­ rio intellettuale. L’analisi del rapporto tra parole e cose attraversa infatti tutta intera la traiettoria di Thomas: 1 II più completo Baedeker alla "costellazione” Yan Thomas è Paolo Napoli (dir.), Aux origines des cultures juridiques curopéennes. Yan Thomas entre droit et Sciences socialcs, Écolc Frammise de Rome, Rome 2013; ma si vedano anche Marta Madero, Pcnser la tradition juridique occidentale. Unc lecture de Yan Thomas, -Annalcs. Histoirc, Sciences Socialcs», 1, 2012, pp. 103-133 c Emanuele Conte, Marta Madero, Alejandro Morin, Casuistica y ficción: homcnaje a Yan Thomas, «Glossac», 11, 2014.

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dalla tesi dedicata al concetto di causa1 fino al proget­ to di monografia, allo stato attuale ancora inedita, che avrebbe dovuto intitolarsi Des choses qui ne sont a personne. La religion, le commerce et la répuhlique en droit romain. Di questa riflessione inesausta è possibile isola­ re almeno due traguardi: un articolo del 1979, Le droit entre les mots et les choses. Rhétorique et jurisprudence à Rome, e, appunto, Il valore delle cose, apparso sulle Annales nel 20023. In ciascuna di queste «stazioni», e nel tempo che le separa, hanno avuto modo di esibirsi e precisarsi alcuni degli snodi fondamentali dell’idea di diritto di Yan Thomas e anche, benché la parola gli di­ spiacesse sommamente, del suo metodo. In primo luogo l’attenzione verso le cose è ciò che permette di mettere sotto cauzione il soggettivismo (e l’antropocentrismo) così tipico della romanistica. Sol­ tanto questa cautela preliminare consentirà a Yan Tho­ mas di proporre una nuova e sorprendente archeologia delle «cose». Contro un’immagine inveterata, che co­ stringe il diritto romano al ruolo di grande macchina di trascrizione istituzionale di un’antropologia natu­ ralmente e inderogabilmente proprietaria, l’approccio pragmatico e proceduralista di Yan Thomas lumeg­ gia i tratti di un diritto in cui a dominare il paesaggio 1 Yan Thomas, Causa: Sens et function d’un concepì dans le langage du droit romain, tesi dattiloscritta, 2 voli., Paris 1976; si veda anche Id., Res, chose et patrimoine. Note sur le rapport sujet-objet en droit romain, «Archivcs de Philosophie du Droit-, 25, 1980, pp. 413-426. ’ Yan Thomas, La valeur des choses. Le droit romain hors la religion, «Annales. Histoire, Sciences Sociales-, 37, 6 (2002), pp. 1431-1464.

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sono quelle specialissime operazioni linguistiche ca­ paci di mettere in forma il sociale. All’ipotesi secondo cui sarebbe un soggetto (proprietario) a governare un mondo di cose «naturalmente» disposto all’appropria­ zione, oppone un mondo di cose qualificate — ovvero: efficacemente nominate - dal diritto che distribuiscono titoli e diritti in capo a soggetti (non necessariamente individuali, non indefettibilmente umani). Ma c’è di più: esiste una fondamentale equivocità della res che la consegna a una integrale indistinzione con il luogo e la pratica che la qualifica e la istituisce come tale: la lite. Res si dice in molti modi e si predica di moltissime «cose». Questo rapporto di implicazione, quando non di vera e propria indiscernibilità, che annoda una cosa contesa alla contesa che la rende una cosa, ha a che fare con la speciale forma di razionalità incarnata dal dirit­ to: quell’istanza discorsiva capace di produrre il mondo che designa4. Un mondo di parole che finiamo per cre­ dere cose. Il diritto - la parola tra tutte più efficace - ha un potere di trasformazione senza eguali: è una mac­ china di astrazione che, tramite il medio linguistico, traduce e produce altrimenti il reale. La vera e propria «invenzione» del diritto sarebbe dunque quella di una «forma»: in essa riposa il «mistero della giuridicità»5. Yan Thomas ha costruito una teoria «finzionale» — cioè integralmente costruttivista e artificialista 4 Yan Thomas, Le droit cntre Ics moti et Ics choses. Rhctorique et jurisprudcnce à Rome, «Archivcs de Philosophie du Droit-, 23, 197S, pp. 93-114.

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del diritto a partire dal rapporto cruciale che associa quest’ultimo al carattere performativo del linguaggio umano. Il diritto è una pratica discorsiva unica: in essa, per dir così, alberga la potenza stessa del linguaggio. Ma se il diritto romano come tale è il vertice ottico da cui analizzare una caratteristica generale del linguag­ gio verbale umano, è solo lo spazio della procedura, della lite, del dibattimento e della controversia (ciò, in altre parole, che di più pragmatico e insieme di più astratto - vale a dire: di più tecnico - vi è nel diritto) a ospitare il laboratorio e il paradigma in cui la performatività (o la natura propria del linguaggio) appare al suo più alto grado di intelligibilità. Procedura o azione (actio) è il nome che diamo allo spazio in cui riflessività e performatività sono insieme esperite e istituite. La procedura è quella soglia tecnica dove e grazie alla quale si produce una duplice tra­ sformazione: quella del soggetto che vi si impegna (o dell’oggetto di cui si tratta) e quella del diritto che la rende possibile. Questa doppia trasformazione accade non già a dispetto ma in virtù della natura tecnica della procedura. Nel mondo del diritto i fatti, gli eventi, le cose non esistono. Perché qualcosa conti come qualco­ sa esso deve essere già stato tradotto nella lingua del diritto6. Questo processo di selezione e traduzione è ciò che determina l’entrata di un «fatto» nel mondo del diritto: «quod non est in actis non est in mundo». * Yan Thomas, La langue du droit. Problèma et méthoda, «Archivcs de Philosophie du Droit», 18, 1973, pp. 103-12$.

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Yan Thomas ha dimostrato che, tra tutte, è l’ope­ razione di instituere a definire la prestazione speciale del diritto7. Essa designa la capacità di produrre realtà che, lungi dall’essere parte del nostro mondo, possono tuttavia e proprio perciò influenzarlo e trasformarlo. Il grado di astrazione e la consistenza fittiva di quei nomi che sono le cose del diritto è ciò che permette di mo­ dificare le cose del mondo. Fictio è il nome del modus operandi proprio del diritto8. La procedura è il luogo e il mezzo dove e grazie a cui questa caratteristica può essere negoziata e articolata. La qualificazione - l’impo­ sizione di un nome, che è una res iuris, a una cosa (res) che, altrimenti, giuridicamente non sussisterebbe - è il cuore di ogni procedura. Se si accetta l’argomento di Yan Thomas intorno all’idea di fictio - questa pratica di vestire i fatti, questa tecnica di produzione della real­ tà - la realtà stessa altro non sarà se non il prodotto di una finzione giuridica, una provocazione dell’uri iuris. Ogni procedura è perciò una ripetizione e una forma miniaturizzata dell’antropogenesi. Altrimenti detto: in ogni procedura facciamo esperienza dell’intima poten­ zialità del linguaggio. Fictio — il motore di ogni azione in giustizia - designa infatti niente altro che la possibi­ lità che le cose e le parole non coincidano. Essa affer­ ma un’equivalenza forzata e irreale tra il dire e il fare. 7 Yan Thomas, Les opérations cln droit, cdition établic par Marie-Angele Hermitte et Paolo Napoli, Seuil/Gallimard/Editions de l’EHESS, Paris 2011. * Yan Thomas, Fictio legis. L'empire de la fiction romaine et scs limites medievale;, «Droiis, revuc fran^aise de theorie juridique», 21, 1995, pp. 1763; ora in Id., Les opérations da droit, cit., pp. 133-1S6.

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La realtà stessa potrà essere allora considerata a rigore l’esito di un atto linguistico performativo, di un atto perlocutivo, di una fictio. Giusta la lezione di Yan Thomas il diritto è quella parola capace di istituire; il discorso che porta qual­ cosa a esistenza. Simili considerazioni hanno molto poco di metafisico. Al contrario: è in esse che brilla il carattere più umile e la dimensione più artigianale del diritto. Esso è infatti in primo luogo una tecnica e una tecnologia (una ars). Se questo approccio operativo, pragmatico e proceduralistico al diritto non ha nulla di mitico, esso ha tuttavia un non debole grado di pa­ rentela con il rituale e con la magia. Nulla come un verso delle Leges Duodecim Tabularum, celebre almeno tanto quanto è oscuro, attesta di questa coestensività tra il detto e il fatto giuridico: «cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto». Il verbo nuncupare significa lette­ ralmente «esprimere qualcosa oralmente». Esso espri­ me dunque, attraverso il suo stesso proferimento, il carattere performativo tipico di questa speciale pratica discorsiva che è il diritto (si potrebbe perfino sostene­ re che esso - come l’espressione «io parlo» - costitui­ sca un esemplare di performativo assoluto)9. Si tratta, e l’equivocità del termine «formula» non fa che confermarlo, dello stesso registro con cui si misura la singolare efficacia delle parole magiche: esse compio’ Per uno svolgimento di questi temi si veda Giorgio Agamben, Il sacra­ mento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Laterza, Roma-Bari 2008.

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no ciò che enunciano. Se è vero che ogni azione lega­ le miniaturizza l’antropogenesi, ciò che vale per il rito dovrà valere anche per le azioni legali e quel che è vero delle parole magiche dovrà esserlo anche delle parole giuridiche. Sono tutte forme di nuncupationes: esse performano il performativo. A rigore il rituale altro non è se non la traccia paradigmatica del fatto che ogni azio­ ne, o meglio, ogni interazione, è sempre, fondamental­ mente, una procedura. Il diritto, conseguentemente, e quando si sia disposti a concedere che la speciale con­ sistenza linguistica di un rituale di istituzione si mostra nel mondo del diritto al suo grado più elevato, è niente meno che il rito di istituzione delle istituzioni. La ri­ dondanza tipica della nuncupatio — la sua pura virtuo­ sità - mostra che la procedura è il nome di quel rituale che apre, ogni volta di nuovo e attraverso infinite ripe­ tizioni, il circuito delle parole e delle azioni. Se infatti il rituale istituisce performativamente il potere delle parole, esso nondimeno ne dipende. La procedura, si potrebbe concludere, compresa come il paradigma di ogni rituale e come il luogo dell’esperienza della natura performativa del linguaggio umano, è l’operazione che tiene insieme atti linguistici e istituzioni, competenza sociale e performance linguistica. La forza del diritto risiederebbe dunque in null’altro che nella forza illocutiva delle parole che lo realiz­ zano. Yan Thomas parla non a caso di «ipseità della cosa detta»10: il famoso mare che tiene separati il dire 10 Yan Thomas, Le droit cntre le moti et les choses, cit., p. 95.

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e il fare è prosciugato da una parola che, qualificando eventi e cose, istituisce gli uni e le altre. E lo strappo che si consuma nel II secolo a.C. - quando il dirit­ to romano si autorizza nella forma di una scienza - è un modo nuovo per pensare questo perenne rapporto di disgiunzione e necessaria convergenza che unisce e separa le parole e le cose. Il diritto è lì dove le cose, per mezzo delle parole, diventano delle cose speciali: le res iuris. Yan Thomas ha sottolineato con forza il legame che associa la retorica al diritto. E, ancora una volta, lo ha fatto secondo un orientamento squisitamente proceduralista. Sarebbe stata proprio la scienza del discorso a permettere ai giuristi di comprendere la propria come una «scienza delle cose»11. La retorica avrebbe infatti offerto, in qualche misura, l’incunabolo di quel rap­ porto tra res e verba che il diritto avrebbe finalmente issato: in essa verba e res sono già associati; se gli uni danno forma alle altre è perché queste ultime sono la posta in gioco di un confronto e di un affrontamento. Res e controversia appaiono quindi integralmente indi­ scernibili. La procedura sarà, del diritto, quello speciale laboratorio in cui dalle cose sarà possibile distillare cau­ se. E, infine, una volta liberata la causa da ogni scoria di «concretezza», questa brillerà finalmente, dissecata e purissima, sotto la specie, generalissima, della quaestio. In questo processo di purificazione (da ogni determi­ nazione locale e concreta) della cosa - in cui essa prò" Ivi, p, 98.

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cede, mediatamente, dialetticamente, verso l’astrazione - si consuma il passaggio dalle «cose» alle res incorporales: «Quelle cose senza corpo che non sono né parole né cose, e che, a Roma, fondano la scienza del diritto»12. Tra qualitas e nomen si distende lo spazio della quali­ ficazione. Il diritto romano appare allora, secondo la lettura vertiginosa di Thomas, interprete di un nomi­ nalismo singolarissimo: radicale (perché ogni dato deve ridursi a nome) e apocrifo (perché i nomi stessi sono cose e cose specialissime: res iuris). Il diagramma che unisce e separa le parole e le cose, i nomi e le essen­ ze, assegna il diritto al registro della tautologia. Le res incorporales saranno dunque, per definizione, le cose del diritto; un diritto, come non manca di notare un giurista curiosamente esposto al sapere dell’analisi, fon­ dato sull’assenza e sull’attesa, situato nello spazio della distanza e dell’immaginario'3. Il passaggio dai corpi alle relazioni astratte, dalle cose alle parole, produce - gra­ zie al medio giuridico - un nuovo mondo, un nuovo spazio di realia'*. I temi sono dunque tutti fissati: il diritto è quella pratica discorsiva che emerge, all’incrocio tra artifi­ cio, finzione, astrazione, mediazione e qualificazio­ ne, nella soglia di indistinzionc tra cose e parole. Il teatro di queste operazioni è la procedura. Sede di un rito che non è più dell’ordine della magia perché

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non è più nell’orbita dell’ontologia. Il materialismo di Yan Thomas è infatti almeno altrettanto implacabile del suo costruttivismo. Non è un caso che Riccardo Orestano, in una nota de II valore delle cose, sia fatto bersaglio di un’accusa formidabile e sofisticata: invece di desostanzializzare le cose del diritto avrebbe finito per sostanzializzarne i nomi. Le stesse cose ritornano. A orientare l’indagine, questa volta, è però la categoria di «indisponibile». Il saggio procede da una riconsi­ derazione - mediata attraverso la lezione di Maurice Godelier’* — del dispositivo antropologico del dono e dello scambio fissato nel saggio celeberrimo e ce­ lebratissimo di Marcel Mauss. È singolare il riferi­ mento all’antropologia in limine a un saggio che cerca di disfarne i presupposti (o, almeno, di relativizzarli, esponendo il paradosso e l’inanità di ogni storia della società che pretenda di fare a meno del diritto). Perché qualcosa come un mercato - uno spazio in cui le cose sono scambiate contro un valore commer­ ciale - potesse emergere, un gesto giuridico e istitu­ zionale originario doveva essersi già prodotto: quella santuarizzazione (o messa in riserva) di un certo nu­ mero di cose qualificate come indisponibili'6. Le cose che non appartengono ad alcuno, sottratte al gioco dello scambio, inibite a diventare merci, identificano un’area dell’indisponibilità (al commercio, alla prò15 Maurice Godelier, L’énigme du don, Fayard, Paris 1996. 14 Ad alcune tra queste, le rei religioiae, e dedicato Yan Thomas, Car­ piti aut oaa aut cinerei. La chote religieuse et le commerce, «Micrologus», 7, 1999, // cadavere/thc Corpie, pp. 73-112.

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prietà e all’appropriazione) e sono perciò destinate all’uso comune degli uomini. Parenti lontane degli oggi dibattutissimi «beni comuni», le cose indisponi­ bili che Yan Thomas isola, nella fìtta trama dei ragio­ namenti dei giuristi romani, offrono niente meno che una nuova genealogia della proprietà e dello scambio (e, soprattutto, di quei limiti che sono la loro condi­ zione), fornendo una lezione strabiliante sull’istitu­ zione giuridica del valore e su tutte quelle operazioni capaci di fare - o di non fare - di una cosa una merce. Perché se l’obiettivo polemico è chiaro: da un lato quella romanistica che pretende di antropologizzare, ontologizzare e sostanzializzare le cose per poter­ ne più facilmente rendere conto secondo un registro puramente commerciale e patrimoniale e dall’altro la storia sociale e la storia economica che immaginano di ricostruire la storia delle pratiche che hanno riguarda­ to le cose facendo a meno delle operazioni giuridiche che le hanno rese possibili e sensate; l’innovazione decisiva di Thomas è senz’altro conservata nell’ottica proceduralista - e testardamente casistica - con cui ha guardato all’istituzione giuridica del valore. La lite - che della cosa (res) condivide il nome — è quella prassi così speciale in cui la cosa potrà essere qualificata e dunque diversamente destinata: al pos­ sesso di qualcuno, diventando merce dotata di valore; all’uso di tutti e di ciascuno, facendosi sacra, santa, pubblica e, in definitiva, comune. Alcunché è desti­ nato a reificarsi soltanto in un processo: la sua valo-

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rizzazione eventuale sarà invece il frutto contingente di una qualificazione giuridica che potrà destinarla al circuito privato dello scambio o allo spazio comu­ ne dell’accesso e dell’uso. C’è di più: la più idiota delle appropriazioni è sempre condizionata dall’esistenza di quella misura incommensurabile incarnata dalle cose inappropriabili; è sullo sfondo di queste che le altre ac­ quistano valore. Le cose appropriabili abitano lo spazio che si distende tra le res nullius e le res nullius in bonis’. l’interdetto all’appropriazione potrà sempre - per­ ché da sempre lo ha fatto - interrompere la trama di titolarità e proprietà riconsegnando alla città ciò che è veramente suo proprio perché non le appartiene e non può appartenerle. Là dove proprietà e appropriazione cedono all’uso e all’accesso lì è lo spazio istituzionale, e perciò mondanissimo, del comune; ogni azione, ogni procedura - tutte quelle parole che fanno il comune di una cosa - è dove esso può avvenire.