Il prima e il dopo delle cose 8874702140, 9788874702145

Natura delle forme, attesa e memoria, origine e senso della colpa, egoismo e fede, realtà e prospettiva. Un'analisi

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Italian Pages 96 [101] Year 2012

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Il prima e il dopo delle cose
 8874702140, 9788874702145

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© 2012, Pagina soc. coop., Bari

Questo volume è stampato co11 u11 co11trihuto dell'Università degli Studi di Bari, Fondi per la ricerca., Dipartimento di Filosofia., Letteratura, Storia e Scie11ze sociali.

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Giovanni Cera

Il prima e il dopo delle cose

edizioni di �na �

Versione digitale ISBN 978-88-7470-216-9 ISSN 1973-9745

Il prima e il dopo delle cose

Non allo stesso modo

Nelle fabbriche, negli esercizi commerciali, nelle scuole, ovunque ci sia la vita e con la vita uomini che la vivono ci sono posizioni distinte. C'è chi dà ordini e chi li esegue, chi vende e chi acquista, chi insegna e chi apprende, chi sta da una parte e chi dall'altra. È la prospettiva. Per tutti, questo luogo è il luogo che è. E per tutti vi si fa quello che vi si fa. In esso, però, non si è tutti allo stesso modo. Se sono un paziente, la stanza dell'ospedale dove sono ricove­ rato non è per me quella che è per il medico che vi entra per visitarmi. ***

La prospettiva è nobile. Ti consente di formulare un giudi­ zio tuo su un evento, su una questione, ti fa titolare di un gusto, di una sensibilità personale. Ti legittima come fonte di verità. La prospettiva non ammette né permette investi­ ture di primato di qualsiasi genere. È democratica nell'u­ nica valenza buona, non ingannevole del termine: nessuno, nell'essere, è superiore agli altri . Da cosa nobile, la pro­ spettiva diventa cosa misera se viene praticata come pre­ giudizio. Se la prospettiva è un vedere prima di vedere, il pregiudizio è un giudicare prima di giudicare. Ma vedere prima di vedere è solo vedere con gli abiti che si hanno già

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Il prima e il dopo delle cose

prima che si veda. Giudicare prima di giudicare, qual è il pregiudizio, è inventare il senso che si dà alle cose e alle persone. È essere prigionieri di sentimenti impuri. È esse­ re violenti .

L� anno

Anno vuol dire tempo finito. Finito in quanto definito. Co­ sì l'anno è stato inteso già nelle società antiche. Tempo fi­ nito che apre a quello che dovrà finire: il nuovo anno come il tempo della vita che finirà. L'anno/tempo finito fondato sulla natura. Inizia con l'inverno, nel freddo, si sviluppa coi fiori della primavera, esplode nel caldo dell'estate, dopo aver dato i frutti e gli alimenti, declinando in autunno per terminare e ricominciare. È l'anno del divenire degli uomi­ ni. L'anno/tempo finito, metafora della morte e della vita. Anno di volta in volta ricordato e festeggiato come morte avvenuta, vita avvenire.

Dall� infinito finito ali� infinito non finito

«"C assenza di Dio non è più chiusura; è l'apertura all'infi­ nito. L'assenza di Dio è più grande, più divina di Dio Sono di Sartre, queste parole. Si trovano nei Quaderni per una morale, nella parte in cui si discute della storia, del suo senso e del suo non senso. Parole di una logica elemen­ tare. Se c'è Dio, tutto è in lui, accaduto in lui. Non può aversi l'altro, il nuovo. Hai Dio e Dio è già l'essere che deve essere, l'essere che può essere. Dio è il compiuto. "C infinito, che Dio non è, altrimenti in Dio ci sarebbe il non essere o l'essere che è ancor da essere potendo non esserlo, è l'indeciso. Non è il fatto, bensì ciò che è da fare o che si farà. Cosa che non si dà se non è data l'assenza di Dio, il non esserci di Dio. In Dio non c'è l'imprevedibile. L'impre­ vedibile è il non avvenuto che può non avvenire. Nell'imprevedibile c'è pure che, infine, ci sia la fine. Dio rinserra l'essere nel proprio destino di ente che è tutto l'essere. Se non c'è Dio, l'uomo, all'infinito, può farsi essere. . . . »

Il presente

Il presente è, soprattutto, il tempo dell'attenzione. Così Ri­ coeur. E l'attenzione è il tendere a, ma è, anche, l'essere catturati da - tenendo in conto sia attendre che atteindre, aventi, nella lingua francese, il primo il significato di 'aspettare', il secondo quello di 'colpire': aspettare e colpi­ re (quest'ultimo considerato nella forma passiva) danno entrambi l'idea di una condizione di non inizialità. Noi non siamo prima delle cose. Non le portiamo con noi, a piaci­ mento. Le troviamo. L'essere attenti, il mostrare attenzione nel senso del concentrarsi (o del vigilare) su implica che ciò su cui ci si concentra o è bene, prudente che ci si con­ centri sollecita o, almeno, induce l'atto del concentrarsi. Nel fare attenzione c'è persino l'aver timore. Il presente dell'attenzione è il presente come l'essere presenti a, di cui a L'essere e il nulla di Sartre. �essere presenti a è l'essere presi da. È la presa che il mondo fa su chi vi ve a definire il presente in quanto presente, a distinguerlo dal passato e dal futuro. Il ricordo del passato, se pure costituisce un essere presi da ciò che si ricorda o dal fatto stesso del ri­ cordare, non è durevole. Altrettanto, il futuro: ti prende ciò che ha da essere quando lo pensi . Ma tu ritorni presto sul presente, ricatturato da esso, dal volgersi degli occhi sulle stelle in cielo, sui fiori nel giardino, su chi ti passa accan­ to. Anche la riflessione come il vedersi vedenti ha durata

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breve. Urge e si afferma il vedere di nuovo. La percezione, poi, per-capere, è come l'attenzione, è l'altra parola dell'at­ tenzione. È ciò che avviene attraverso il prendere/l' essere presi. Noi ci muoviamo venendo afferrati dalle cose in cui ci muoviamo. D'altra parte, conferiamo loro senso. Diamo il nostro sigillo, anche non attivo, a una realtà non nostra.

Stranezza della memoria

La si utilizza più per il futuro che per il passato. Il giovane deve ricordare ciò che ha da fare per poterlo fare. Un pro­ getto richiede che non sia dimenticato per essere realizza­ to. La vita è memoria nell'essere non memoria. È la memo­ ria di ciò che si vuole che sia., di ciò che sarà. L'anziano non ha da fare molto. Fa e rifà poche cose. Cose per le quali di memoria ne occorre poca. •

Io, tu, lei

Dico "lo" per riferinni a me. Per dire che sono io che ho questo sentimento, non altri. "lo" è parola della presenza. Della non omologabili tà dell'esistenza, dell'essere essa la mia esistenza o la tua o la sua. "lo" è cifra della persona, non potendo essere la persona se non la persona che è. Non riducibile e non raddoppiabile. lo non posso essere anche l'io che sei tu. Se l'io pretendesse di essere più di ciò che . . '' varre h . '' grand e '' , allora pronunciare la parol a '' 10 ' un 10 e, be come dire: "lo sono un io speciale, solo io sono veramen­ te io" . È la metamorfosi patologica e immorale dell" 'io" . "Tu" è termine della vicinanza. "Tu" è adoperato prima di "io" . lo sono io, tu sei tu dopo essere stati, io tu per l'al­ tro e l'altro tu per me. La scoperta dell'io è successiva alla pratica del tu. Tu ti vedi dopo aver visto l'altro. "Tu" com­ pare nelle situazioni e nei rapporti che rassicurano, quelli in cui il tu è un altro io. È bello, è il tu della vita, il tu in questa funzione dichiarativa: "Tu sei della casa, tu sei del­ la mia famiglia, tu sei tu, per me, e ti chiamo col tu, perché io sono con te e tu sei con me'' . È come se ''tu'' sostituisse o fosse implicativo del "noi" . Dico "Noi" per indicare me e te che sei o penso che sia come me, amico e alleato o partecipe di me. (Sartre ha fatto luce sui risvolti metadesi­ gnativi del "noi". Nel "noi", gli io non sono pienamente io,

lo� tu� lei

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vale a dire non sono coperti o rappresentati interamente in quanto io. Se dico "Noi . . . ", un io, gli altri io del noi maga­ ri mi obietteranno: "Parla per te") . Tu della vita, esprimen­ dola nella comprensività di tutti gli uomini che la vivono, è il tu, impersonale, di quando si afferma: "Tu finisci col non avere più certezze . . . ". È il tu che sono io o sei tu o è chiunque. È il tu della coidentità. "Tu" è usato dai potenti quando si rivolgono a chi potente non è, a chi è a loro sot­ tomesso. Così, "tu" è parola non della convivenza, dell'io nel tu, bensì dell'arbitrio, della superiorit� dell'indifferen. za, com ,,e pure .1l ''tu '' , s tonat o e senz ' anima, c he usa c h.1 ama non amando o quello, ipocrita, del patemalista. (Dici "tu" invocando Dio. Dio visto da te come parte di te. "lo sono tuo figlio, tu sei mio padre" . Il "tu" di Dio è il "tu" della prossimità). . ''Le1. h a ragione. ' '' , ''L e1. d esi. dera.? '' . ''L e1. '' e' 1·1 tu come l'altro che ti è di fronte in quanto non è né familiare a te né (trattato da te come) inferiore a te. È la parola che indica la distanza. l: altro del ''lei'' è l'altro che io affermo nella sua alterità. La distanza è essenziale nelle relazioni . È lo spa­ zio, simbolico e fisico, non già dell'estraneità o dell' assen­ za di verit� ma della libertà. Quando la distanza viene meno, l'altro è tuo, diventa una cosa tua, un tuo possesso. La distanza è ciò che noi vogliamo per noi: è il non voler essere toccati. La distanza è protettiva. Se tu ti avvicini troppo a me, io rischio di non essere più io. Istintivamente allontaniamo da noi le mani che non sono nostre. Devo essere io a consentire a te di essere presso di me, con me.

A cose fatte

Il clima è cambiato. È meno freddo. Gli studenti della Fa­ coltà di Lettere non sono quelli di un tempo. Non c'è in loro l'entusiasmo di una volta. Ora sono più chiusi, meno sensibili alle questioni che li riguardano. Accettano le de­ cisioni dei docenti senza discuterle, passivamente. È scomparsa l'abitudine di incontrarsi la sera in piazza. Si resta a casa o si frequentano le associazioni private o i lo­ cali pubblici. Ha ragione Hegel: ci accorgiamo delle cose quando già sono quel che sono. Esse divengono nell'ignoranza di chi vive e le vive. La coscienza non governa la realtà. La con­ stata e la spiega, tende a spiegarla dopo che si è definita. Di più non può fare. È la nottola di Minerva che spicca il volo al tramonto. Nell'ombra della notte si vede la luce. Ma è la luce di ciò che è accaduto. Inavvertito e invisibile., quando accadeva. È anche, in qualche modo, l'esistenza che precede l'essenza di Sartre. Non si può essere se prima non si è stati. Essere è essere stati. I.;essere viene dopo il fare. Fai cose che portano a dire che sei abile o intelligente oppure non abile o non intelligente. Le predicazioni sono successive alle azioni. Non ci sono destini dati avanti la vita. l destini sono vite fattesi destini. Ed è la logica del romanzo: per averlo, il romanzo, devi averlo letto tutto. Il senso lo vedi alla fine. Puoi sapere di ciò che non è più, non

A co se fatte

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di ciò che non è ancora. Lo puoi sapere, il non più, perché è (già) stato. È il dramma della conoscenza. Appare quan­ do, in effetti, non serve. Serve, non servendo, solo a coglie­ re l'irrimediabile. ***

N el vedere, conta non solo ciò che si vede, ma anche chi vede. Noi vediamo, hanno osservato prima Pascal, poi Maupassant, cose medie perché le nostre misure sono me­ die. Del cambiamento tu ti accorgi quando esso si mostra a misura delle tue misure. C'è un continuo mutare del tempo naturale, ma è possibile, per te, avvertirlo quando esso è avvenuto in quantità evidente. Come se le cose si rivelas­ sero per plessi di grandezza apprezzabili . Al mattino, ora che ci allontaniamo dal solstizio d'inverno, la luce del gior­ no la vediamo prima. Anche in questo sta la posteriorità della coscienza.

Il male costruito

Ci attribuiscono intenzioni e azioni inesistenti., dando un senso fuori luogo a parole pronunciate in un luogo. Deloca­ lizzate, e risistemate, quelle parole dicono di cose mai ac­ cadute spacciate per accadute. Quando si vuole fare del male, magari per ritorsione per presunti torti subiti o per sentimenti e attese non corrisposti o per mero inesplicabi­ le odio, non si fa fatica a trovare motivi per farlo. La verità è la realtà. Talvolta, o spesso, l'una e l'altra sono non com­ prese o offese per egoismo, per interesse, per malinteso senso di sé. Quello che proviamo, quello siamo. Ma è dif­ ficile che chi ci vede veda quello che proviamo, quello che siamo. Oggi c'è malvagità diffusa. Forse è l'altra faccia dell'accresciuta vuotezza della vita o dell'ingiustizia non più tollerabile di essa. Volere l'accoglienza, la vita e non la morte, è questo che fa ancora la dignità dell'uomo. (Se A ammira X, B, che non ammira A, non ammira neppure X. È la transitività terziale. Non è il terzo che testimonia o giudica tra due parti né è il terzo che irrompe in una rela­ zione a due e la modifica. È il terzo che subisce gli effetti, anche identitari, di atti e processi che si svolgono fuori di lui) .

Chi ama

non

tradisce

Chi ama non tradisce. Se capita, vede svanire il suo amore, sente di non amare più. Si allontana, persino, dalla persona che ama(va), l'abbandona. Ma non la tradisce. La pensa, anche ora che non c'è. Il tradimento avviene prima del tra­ dimento. Sta nel tradire la fiducia. Se chi ti parla è in ma­ lafede, non dice il vero, è insincero, fa finta di volerti bene ma non te ne vuole, calcola e ragiona per il suo vantaggio e fa di te un suo strumento, costui, o costei, ti ha già tradi­ to. Ti ha tradito prima di tradirti e finanche senza tradirti. Tu non lo sai, ma ti ha tradito. Il tradimento conclamato, se c'è, è lo svelarsi di ciò che era velato, l'inganno. È impos­ sibile rimediare al tradimento. Perché non si può tornare nel passato e vedere bene, accorgersi che chi ti è vicino nasconde la sua lontananza, chi ti si mostra amico ti è ne­ mico. Non ti resta che accettare ciò che non puoi rifiutare.

L� eterno è del tempo

Quando nessuno contava, c'era l'eterno. Quando nessuno più conterà, ci sarà l'eterno, di nuovo. I.;eterno è del tempo. Anche nel senso che è (stato) pensato dopo il tempo. I.; e­ temo è il non ancora del tempo, è il non più del tempo. I.;eternità non è un predicato. Non qualifica nessun ente, neanche l'Ente primo. È solo assenza. Se si immagina la fine dell'essere qui o lì, si immagina l'eterno. Lo si imma­ gina per negazione. Il silenzio totale delle cose è l'eterno. Tu sei un giorno o cento o mille e più giorni, ma sei del giorno. E, insieme, sei della notte. Sei luce per essere poi buio. Sei anche, sarai, se lo sarai e fin quando e come lo sarai, nei giorni di chi ti penserà, ricordando i tuoi giorni .

Fior di virtù

Fior di virtù è domandare, virtù somma. Domando per sa­ pere quello che non so, per darti quello che non hai, per avere quello che non ho. Domando perché ti vedo diverso da me anche quando sei vicino a me. Domando perché non è certo che quello che sembra appartenerti ti appartenga. Domando perché non so se vuoi venire con me, far parte di me. Domando per chiederti se accetti che io venga con te, faccia parte di te. Domando perché non so se sia di te ciò che altri attribuiscono a te. Domando perché tu sei testimo­ ne di te, perché sei tu la tua verità. Il domandare vale di per sé. Raccoglie le acque degli infiniti rivoli della vita. Domando mettendo in conto che al domandare non segua alcuna risposta. Pure il silenzio, infatti, è del domandare. Non domando per non disturbare, per non mettere a disa­ gio. O non domando perché non ce la faccio a domandare: mi fermo, prigioniero di me. È ancora virtù questo doman­ dare antifrastico, questo domandare senza domandare: è il senso del domandare che ti spinge, tal volta, a non doman­ dare o ti impedisce di domandare. N o n è virtù, al contrario, non è della vita il non domandare del despota o del presun­ tuoso. Chiunque essi siano. Non domandano, il despota e il presuntuoso, perché non scorgono nell'altro un altro, non hanno bisogno dell'altro. N o n scorgono neppure sé, non

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hanno bisogno neanche di sé. Sono pieni e perciò vuoti di sé. Non conoscono né l'essere né il bene nella forma in cui l'uno e l'altro possono essere: quella della disposizione e della disponibilità a dare e a ricevere.

«Ceci n'est pas une pipe»

Magritte dipinge una pipa e intitola l'opera « Ceci n'est pas une pipe » . La pipa che non è pipa è un controsenso. Se è pipa, in quanto è pipa, la pipa non può non essere e non può che essere pipa. Avrebbe senso dire, di fronte alla pipa di Magritte, « Ceci est une pipe » . Sarebbe un'affermazione tautologica esprimente una verità tautologica. Come sem­ pre è la verità: tautologia appurata in quanto tautologia. Magritte, però, enuncia o allude ad altro, al fatto che le cose richiedono una visione non scontat� non basata e non viziata dal senso comune, dall'abitudine. « Ceci n'est pas une pipe» sono parole che spingono a considerare attenta­ mente, a non essere superficiali, a osservare e a giudicare bene. Talvolta le cose appaiono non apparendo. Peraltro, esse sono aperte e perfino assoggettate a contesti d'uso e a scene di vita mobili . Il profilo semantico delle cose non è univoco, non è dato col loro mero darsi : si definisce in una col definirsi, mai assolutamente definito, della vita. La pi­ pa di Magritte è come gli oggetti di Cézanne. È finita e non finita. È e non è. E non è anche perché non sarà (più) quando nessuno più la vedrà. La pipa non è pipa, poi, per­ ché non v'è certezza circa il suo essere. L'è di ''non è'' è ontologico oltreché predicativo e metapredicativo. La pipa "non è" pipa, non perché non abbia la sua identità di pipa, ma perché non mostra il suo fondamento d'essere. Come se

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Magritte dichiarasse la propria incapacità a rispondere al. non d.Ice., la d oman d a: ''Pereh�e c ''e l' essere t . La pipa nell'esserci, perché è. Come la rosa de «La rosa è senza perché » di Angelo Silesio, nella celebre menzione di Hei­ degger. '1,,

Enantio dromie

Jung scorge in Nietzsche segni evidenti di enantiodromia, vale a dire una oscillazione tra convinzioni opposte ( Èvav­ -rioç, òQ6J.Ioç). (:Cespressione enantiodromica più acuta è quella dell'identificazione del filosofo malato con Cristo­ il contrario che diventa l'uguale - insieme con l'altra dell'esaltazione di Wagner e della successiva ostilità nei suoi confronti.