Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia 8842078867, 9788842078869

Sanzioni, obblighi, espulsioni, privazioni, fino all'internamento e alla deportazione: l'Italia non fu seconda

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Italian Pages 219 [225] Year 2006

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Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia
 8842078867, 9788842078869

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Economica Laterza 380

A cura dello stesso autore in altre nostre collane:

Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni «Storia e Società»

Enzo Collotti

Il fascismo e gli ebrei Le leggi razziali in Italia

Editori Laterza

© 2003, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2006 Seconda edizione 2008 Edizioni precedenti: «Quadrante Laterza» 2003

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-7886-9

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Il fascismo e gli ebrei

1.

Ebrei e antisemitismo tra emancipazione, nazionalismo e fascismo

Soltanto in epoca molto recente la storiografia italiana ha cominciato a riflettere seriamente sulle origini e sul percorso di lungo periodo di un razzismo italiano, uscendo dai limiti angusti degli anni della persecuzione fascista contro gli ebrei. Sicuramente questa ricerca è stata sollecitata dal recupero, seppure così tardivo, degli studi sulle conseguenze delle leggi razziste del 1938 avvenuto con il rinnovamento di prospettiva che ha fatto seguito alla data cinquantenaria della ricorrenza della legislazione discriminatoria, che ha coinvolto studiosi (e non solo storici in senso stretto) e opinione pubblica in un rinnovato e quasi inedito interesse per la questione ebraica in Italia. Essa era stata oggetto, nel 1961, del pionieristico libro di Renzo De Felice intitolato Storia degli ebrei in Italia sotto il fascismo rimasto per lungo tempo un contributo isolato nel panorama della storiografia, con l’eccezione di qualche ricerca di carattere essenzialmente locale. Negli ultimi quindici anni la sensibilità verso questo momento della nostra storia ha subito una notevole rivitalizzazione e abbiamo assistito e stiamo assistendo al decollo di una nuova storiografia attenta a integrare organicamente e in modo sempre più avvertito il capitolo del razzismo e dell’antisemitismo nella storia del fascismo come uno degli aspetti caratterizzanti della svolta più tipicamente totalitaria degli anni Trenta. In questo quadro era inevitabile che si desse luogo a un duplice processo di rivisitazione storiografica. Essa riguarda la più generale collocazione degli ebrei nella storia d’Italia, e non solo dell’Italia uni3

ta, sebbene sul periodo posteriore all’emancipazione sia stata concentrata per varie ragioni l’attenzione prioritaria, con gli studi sull’editto albertino e soprattutto con i contributi confluiti nei due tomi del nono volume degli einaudiani Annali della Storia d’Italia dedicati agli ebrei (1996-97), dai quali è derivato anche l’importante libro di M. Sarfatti dal titolo Gli ebrei nell’Italia fascista (2000), al di là del più generale svecchiamento della storia degli ebrei italiani rispetto alla pur sempre benemerita opera di Attilio Milano. Già Attilio Milano ebbe a sottolineare i due tempi in cui avvenne in Italia (o almeno in buona parte della penisola) il processo dell’emancipazione degli ebrei quando scrisse: «1791-1815: un convulso quarto di secolo, in cui l’ebbrezza della equiparazione si impossessò anche degli ebrei italiani, li esaltò, li illuse, li tradì». Perché, scomparsi i segni della risonanza della Rivoluzione e del ciclone napoleonico, la Restaurazione ripristinò buona parte dei limiti e dei divieti che la presenza delle armate francesi aveva temporaneamente abbattuto nell’Italia centro-settentrionale in territori piemontesi, lorenesi, austriaci e financo pontifici. Tuttavia, con la sconfitta napoleonica e il ritiro delle armate francesi quasi in nessuna parte dell’Italia il ripristino della situazione ad essi anteriore significò il ritorno degli ebrei alle condizioni restrittive precedenti, poiché una prima breccia nei loro statuti di interdizione era stata pur sempre praticata. Soltanto nella Roma papalina il ritorno del potere temporale comportò anche che gli ebrei fossero ricacciati nel ghetto, che sarebbe stato dischiuso definitivamente soltanto il 20 settembre del 1870. Quasi dappertutto aveva avuto inizio un processo di liberalizzazione che la Restaurazione poté contenere ma non fare regredire, come se le ondate egualitarie della Rivoluzione e della dominazione napoleonica non si fossero mai abbattute sull’Italia. L’emancipazione finale avvenne nel solco del Quarantotto italiano ed europeo quando erano maturate anche nella coscienza civile e pubblica – sono del 1837 le Interdizioni «israelitiche» di Carlo Cattaneo – le condizioni per il pieno riconoscimento dell’equiparazione degli ebrei agli altri cittadini degli Stati italiani nella conquista dei diritti civili. Lo Statuto Albertino del 4 marzo 1848 non sancì l’agognata emancipazione ma ne costituì il presupposto. Riconosceva intanto l’eguaglianza dei cittadini senza distinzione di confessione; a questo primo riconoscimento fece seguito il 29 marzo l’editto che riconosceva esplicitamente agli ebrei i diritti civili, completato nei me4

si successivi dalla legge del 19 giugno che ne proclamava la piena integrazione anche nei diritti politici. In tal modo, con questo complesso iter legislativo parallelo anche all’equiparazione di altre minoranze (nel caso specifico i valdesi), si compiva anche un capitolo della trasformazione in senso liberale del regno sabaudo. E nello stesso tempo si stabilivano un precedente e un modello che, con le successive annessioni al Regno di Sardegna di altri territori italiani attraverso le guerre di indipendenza, avrebbero consentito di estendere anche alle altre regioni i principi dell’emancipazione. Si è avuta poi una totale revisione, se di fondazione non si volesse parlare, di una storiografia sul razzismo italiano. Ferma restando l’autonomia concettuale e fattuale della categoria dell’antisemitismo nelle sue diverse declinazioni (come antigiudaismo cattolico e come antisemitismo di derivazione laico-illuministica), merito dei nuovi studi è stato quello di consentire un approccio globale al fenomeno del razzismo, nella complessità delle sue componenti e delle sue derivazioni culturali, nel cui alveo è venuto a situarsi nel periodo fascista anche l’antisemitismo, con la radicalizzazione biologistica assunta dalla persecuzione contro gli ebrei. Già la mostra bolognese La menzogna della razza del 1994, promossa dal Centro culturale Furio Jesi, e il successivo convegno di studi derivato dallo stesso ambito culturale (e sfociato nei contributi del volume Nel nome della razza uscito nel 1999 a cura di Alberto Burgio) avevano messo in evidenza la fecondità di approcci diversi ma convergenti alla problematica dell’onda lunga di un razzismo italiano, sì da fare emergere negli anni del fascismo non la risultante necessaria e scontata di una serie di corposi precedenti, ma il momento di massima concentrazione e condensazione di pulsioni, elaborazioni dottrinali ed esperienze pratiche che non erano state estranee alle vicende storiche della cultura italiana nei campi più diversi (dall’antropologia alla medicina, all’eugenetica, dall’etnologia alla psicologia, alla demografia, alla geografia, alla storiografia, alle scienze giuridiche). Pertanto, le leggi razziste del 1938 non potevano essere più considerate alla stregua di un masso erratico caduto su un terreno vergine al di fuori di ogni precedente contaminazione. Componente essenziale di tale rivisitazione era la nuova considerazione in cui veniva tenuta l’esperienza coloniale italiana, sulla quale si erano esercitate la prime teorizzazioni razzistiche, che, alla metà degli anni Trenta, avrebbero offerto il fondamento dottrinale alle 5

normative discriminatorie delle popolazioni delle colonie africane, facendo introiettare agli italiani la normalità e il senso comune di un discorso razzista. Il razzismo italiano non si qualificò in prima battuta attraverso l’antisemitismo e ciò per il fatto, storicamente fondato, che il pregiudizio contro gli ebrei nella tradizione politico-culturale italiana era di matrice essenzialmente cattolica. Esso si rifaceva cioè all’antigiudaismo di lunga data che alla secolare condanna del popolo deicida aveva associato, in epoca più recente, l’accusa agli ebrei di praticare gli omicidi rituali, ancorché fosse sempre più difficile dimostrarne l’esistenza, sino alle polemiche di fine Ottocento che, sulla risonanza anche di quanto accadeva oltralpe – in Francia da una parte (prima e dopo l’affaire Dreyfus) e nell’Austria-Ungheria (che la «Civiltà cattolica» definiva «corrosa dal giudaismo, peggio che una vigna in preda alla fillossera») dall’altra – indussero autorevoli voci della stampa cattolica ad associare in blocco il giudaismo alle eresie dei tempi moderni, a cominciare dai famigerati «diritti dell’uomo», dei quali si diceva che fossero stati «inventati da’ giudei, per fare che i popoli e i governi si disarmassero, nella difesa contro il Giudaismo» («Civiltà cattolica»). Giovanni Miccoli, lo studioso che con maggiore attenzione e competenza ha indagato le radici dell’antisemitismo della Chiesa cattolica nella seconda metà dell’Ottocento, ha insistito nel richiamare la riproposizione, nel nuovo antisemitismo a cavallo tra Ottocento e Novecento, dei motivi dell’antica polemica cattolica contro gli ebrei pur nella qualità nuova dell’antisemitismo di fine secolo che aveva fra l’altro individuato «un nemico nuovo, ossia l’ebreo emancipato». Al di là della componente cattolica di un antisemitismo italiano, gli studi più recenti hanno proposto il problema di rivedere il luogo comune, accreditato peraltro da voci dello stesso ebraismo italiano (Eucardio Momigliano), di una perfetta identificazione tra ebrei italiani e società nazionale, che dava per scontato con l’avvenuta assimilazione un cammino lineare e aproblematico della componente ebraica nella società nazionale. Viceversa, proprio la riscoperta e la rivalorizzazione dell’identità ebraica – che ha fatto seguito anche nel mondo ebraico italiano alle leggi razziste del fascismo e alla Shoah, come, in misura ancora più profonda, è avvenuto nel resto d’Europa e di riflesso negli Stati Uniti d’America – ha acuito la sensibilità 6

verso una rilettura della propria storia che ne mettesse in rilievo le specificità e che, al tempo stesso, ne delimitasse la collocazione nei rispetti dello Stato e della società italiani. Il forte anelito che spinse gli ebrei italiani a sentirsi parte a pieno titolo della società nazionale, come si sarebbe dimostrato in maniera inequivocabile in occasione della prima guerra mondiale, che anche sotto questo profilo torna a presentarsi come un tornante decisivo nella storia dell’Italia unita, non ne annullava in alcun modo tradizioni, cultura, istituzioni e non solo dal punto di vista della religione e del culto, ma anche sotto il profilo del modo di essere nella vita civile, nel costume morale e nel costume politico. Arnaldo Momigliano, il grande storico antichista che ha scritto pagine mirabili sulla storia degli ebrei italiani, per ricordare la complessità di intrecci, di apporti e di provenienze di cui è fatta la loro cultura e per rivendicarne il patriottismo, non è meno intransigente nel rivendicare il diritto degli ebrei a rimanere tali. Ma lancia un monito anche a chi ebreo non è: a non chiudersi nell’indifferenza di fronte al mondo ebraico. Nella prefazione alle sue Pagine ebraiche (cfr. Bibliografia) ha scritto: Ma qualunque cosa si scriva su quel periodo che finisce con fascisti e nazisti collaboranti nell’inviare milioni di Ebrei nei campi di eliminazione (e ci sono tra le vittime mio padre e mia madre), una affermazione va ripetuta. Questa strage immane non sarebbe mai avvenuta se in Italia, Francia e Germania (per non andare oltre) non ci fosse stata indifferenza, maturata nei secoli, per i connazionali ebrei. L’indifferenza era l’ultimo prodotto delle ostilità delle chiese per cui la «conversione» è l’unica soluzione al problema ebraico.

La scarsa consistenza dell’antisemitismo nell’Italia liberale, secondo un’opinione diffusa anche tra i protagonisti di una rilettura del rapporto tra ebrei e società italiana posteriormente al compimento dell’unità nazionale, non autorizza tuttavia in alcun modo a escludere l’antisemitismo dal novero dei problemi su cui conviene portare oggi la riflessione, anche perché di ricerche sistematiche su aree territoriali periferiche e su una stampa di provincia che ha fortemente plasmato il senso comune popolare ne sono state condotte molto poche, forse appunto nella convinzione che l’antisemitismo non rappresentasse un campo d’indagine fertile di risultati. Taluni sondaggi già effettuati, come quello di F. Piazza per l’area trevigiana, mostrerebbe7

ro non solo la presenza dei consueti motivi antigiudaici anche nella stampa cattolica di provincia ma un uso dell’antisemitismo in una forma anche più diffusa, seppure meno diretta, nell’additare il giudaismo tra i fattori di turbamento di un equilibrio sociale in mutamento, che trasformava i vecchi rapporti sociali delle aree rurali, attribuendo all’avidità di denaro degli ebrei la disgregazione del tradizionale tessuto sociale prodotta dalla borghesia in ascesa e da una nuova circolazione di flussi finanziari. Nulla di molto diverso da quanto era già stato osservato in altre aree europee all’inizio dell’industrializzazione che scuoteva tradizionali assetti secolari, solo che in Italia questo processo avveniva con alcuni decenni di ritardo. Posto che si deve tenere sempre distinta una forma di critica agli ebrei e all’ebraismo da posizioni specificamente antisemite, ci si deve domandare se è proprio vero che nell’Italia liberale la società italiana fu del tutto immune da contaminazioni antisemite. Sicuramente il primo argine all’antisemitismo fu posto dall’esiguo numero degli ebrei residenti in Italia, tra i paesi d’Europa tra quelli rimasti al margine dei flussi migratori ebraici, nonostante la sua posizione centrale nel Mediterraneo. In effetti, se un risvolto apertamente politico si ebbe nel caso del deputato liberale veneto Pasqualigo, che nel 1873 sollevò obiezioni alla nomina di un ebreo, Isacco Maurogonato, quale ministro delle Finanze del governo Minghetti, anticipando critiche alla doppia lealtà nazionale degli ebrei che sarebbero diventate di ordinaria amministrazione dopo la comparsa del sionismo, una ricerca sull’antisemitismo nell’Italia liberale deve muoversi nel terreno infido della permeabilità fra satira e critica di costume e presa di posizione politica. Si potrebbe discutere a lungo se certi stereotipi e certe immagini caricaturali degli ebrei, o meglio dell’ebreo come ideal-tipo, siano rimasti impressi soltanto nell’immaginario popolare o se abbiano contaminato anche la classe politica; sta di fatto che episodi significativi come quello citato nel caso Pasqualigo non se ne verificarono; eminenti personalità ebraiche ascesero a figure di rilievo pubblico di primissimo piano: Luigi Luzzatti come presidente del Consiglio, Ernesto Nathan come sindaco di Roma, Sidney Sonnino (di origine ma non di confessione ebraica perché convertito al protestantesimo) come ministro degli Esteri, per citare i casi più significativi a livello istituzionale, senza menzionare il settore economico o quello della cultura, della scuola e della ricerca. 8

Se quindi si verificarono certamente episodi di incomprensione per la rivendicazione di una propria e specifica identità da parte degli ebrei, l’antisemitismo come fenomeno politico in senso moderno nell’Italia liberale si deve considerare fatto piuttosto sporadico e isolato. Se è vero infatti che la formazione dell’Unità d’Italia e il risveglio dell’ebraismo in Italia furono processi paralleli e coevi, va sottolineato anche che l’influenza dello stesso antigiudaismo della Chiesa cattolica risultò circoscritto a un ambito se non ristretto certamente definito; esso infatti fu tra gli strumenti e le armi che la stessa Chiesa cattolica usò contro la classe dirigente liberale nel processo di formazione dello Stato unitario, che minando il potere temporale della Chiesa attirò su di sé l’anatema e la condanna del papato e del mondo ecclesiastico, protagonisti di una radicalizzazione della polemica che non aveva soltanto contenuti ideologici, ma che era parte della guerra aperta della Chiesa contro lo Stato liberale, che ne aveva colpito non già l’autorità spirituale ma l’autorità politica e gli interessi materiali. Ciò non significa che nell’Italia liberale non vi fossero episodi di insofferenza verso gli ebrei, i loro costumi o modi di essere, forse neppure tanto isolati. Ma essi non ebbero la forza di diventare movimento politico. Né sappiamo se non vi sia una qualche forzatura nel voler parlare di un «modello italiano» di emancipazione degli ebrei (l’espressione è di Mario Toscano), attenti contemporaneamente a salvaguardare la propria identità, ma anche a sottolineare la propria identificazione con le ragioni del patriottismo nazionale. In effetti la tensione tra questi due momenti rappresenta la cifra ideale e la molla pratica che caratterizzarono il comportamento degli ebrei nella società italiana. Ma essi vennero il più delle volte giudicati per il modo in cui erano descritti e percepiti dai non ebrei piuttosto che attraverso la loro autorappresentazione. Nell’Italia liberale gli ebrei non fecero fatica a conservare le loro tradizioni, la loro cultura, i loro rituali; fu anche l’epoca in cui la costruzione delle grandi sinagoghe – fra le altre quella di Firenze (1882), quella di Roma (1904), il progetto di quella di Torino con la Mole Antonelliana (1884); quella di Trieste (1912) non rientra nel novero solo perché all’epoca Trieste faceva parte della duplice monarchia asburgica – rendeva esplicita e visibile anche nel panorama urbano la presenza su piede paritario di una minoranza culturale e religiosa che l’emancipazione aveva restituito a un rapporto di libertà e di collaborazione con la società circostante. 9

All’approssimarsi della fine del secolo XIX la rinnovata polemica della «Civiltà cattolica» (nell’annata del 1890), con il pretesto di denunciare le «turpitudini» dell’ebraismo, brandiva con inusitata violenza retorica tutta la gamma dei luoghi comuni intorno alla «dominazione mondiale degli ebrei», all’«occulta potenza giudaica», al «giogo usuraio degli israeliti», all’«inesorabile amore dell’oro» degli ebrei, aggiungendo ad argomenti vecchi e consunti un linguaggio di bassissima lega (il «morbo giudaico in Europa», Roma «più che dalle baionette italiane, occupata dai lacci della gran rete giudaica») per denunciare il legame tra il giudaismo e la massoneria, che aveva trasformato la menzogna dei diritti dell’uomo nella realtà dei diritti degli ebrei. Un linguaggio che sembrava espressione di una battaglia di retroguardia, ma che in realtà aveva un bersaglio concreto anche se non immediatamente realizzabile: la fine dell’eguaglianza civile degli ebrei. Sebbene non si possa negare lo stretto parallelismo più volte affermato tra formazione di una coscienza nazionale unitaria e adesione degli ebrei italiani allo spirito patriottico – addirittura con una particolare forma di affetto, forse prima ancora che di lealtà, nei confronti di Casa Savoia, da spiegare probabilmente con la risonanza e gli effetti di quell’editto di Carlo Alberto che aprì la strada alla loro generale emancipazione –, resta il fatto che la posizione degli ebrei nel Regno d’Italia fu costantemente caratterizzata dalla spinta all’assimilazione, tipica del resto di una comunità di individui relativamente piccola, e d’altronde dalla pulsione a mantenere, se non a sottolineare, gli elementi fondamentali della propria identità. Questo anche perché il principio generale dell’emancipazione, se sancì anche il principio dell’eguaglianza degli ebrei rispetto agli altri cittadini, lasciò aperti i problemi relativi alle normative concrete attraverso le quali realizzare la loro completa parificazione non in quanto cittadini ma in quanto ebrei. Non era cioè risolto, e non lo poteva essere in partenza, il problema del loro riconoscimento come gruppo, come collettività, ossia come minoranza, che non era soltanto un problema interno alla comunità degli ebrei, ma anche un problema dei rapporti tra la popolazione ebraica e la società nazionale e, soprattutto sul piano istituzionale, lo Stato. Il legame degli ebrei con lo Stato liberale, che appariva tanto più naturale in quanto lo Stato italiano nasceva in conflitto con la Chiesa cattolica, cessava di essere così ovvio e naturale nel momento in cui gli ebrei rivendicavano 10

la propria identità e la propria autonomia non come individui singoli e cittadini isolati, ma come minoranza organizzata. Un’organizzazione unitaria degli ebrei italiani sorse relativamente tardi. Questo ritardo non era soltanto organizzativo, era un ritardo anche nella consapevolezza che gli ebrei stessi ebbero della necessità di darsi una fisionomia unitaria verso l’esterno, come derivato di una tradizione che risaliva sicuramente alle vicende storiche degli Stati preunitari, in cui diverse erano state le forme istituzionali e le regole interne che avevano governato le Università israelitiche (come allora si chiamavano quelle che sarebbero diventate le comunità), in rapporto non soltanto a caratterizzazioni socio-economico-culturali (la Nazione di Livorno e la Comunità di Roma avevano equilibri interni completamente diversi), ma anche ai contesti istituzionali nei quali si erano trovate a operare (territori austro-ungarici, Regno di Sardegna, Stato Pontificio, Granducato di Lorena e via dicendo) e in cui le normative e i comportamenti pubblici verso gli ebrei avevano accenti spesso profondamente diversi. Come stava avvenendo anche in altre parti d’Europa come eredità dell’emancipazione, anche alle Università italiane fu presente l’esigenza di costituirsi come interlocutore nei confronti dell’autorità centrale dello Stato. Ma un eventuale processo di centralizzazione dell’organizzazione degli ebrei aveva un duplice indirizzo e un duplice volto: riguardava la regolamentazione delle relazioni con lo Stato, ma riguardava anche problemi di organizzazione interna nel rapporto intercomunitario. Nei rapporti con lo Stato l’emancipazione non aveva coperto di per sé tutti i livelli della parificazione agli altri cittadini, perché sussistevano costumi e consuetudini che erano esclusive e tipiche degli ebrei e che, in quanto emblemi della loro identità, andavano salvaguardate: come salvaguardare nello Stato italiano appena unificato la consuetudine del divorzio ignota a una legislazione che era pur sempre influenzata, anche nel perdurante conflitto con la Chiesa, dall’educazione e dalla morale cattolica? Come salvaguardare il rispetto delle festività ebraiche in una società in cui le festività erano cadenzate secondo una vecchia tradizione cattolica? Dal punto di vista sociale erano queste, forse, tra le domande più pressanti che si ponevano gli ebrei nel dialogo con la società, al di là di ogni altro problema di carattere fiscale o relativo al riconoscimento di enti di assistenza e beneficenza. Quanto ai rapporti interni tra le comunità, non andava affrontato soltanto il problema 11

delle difformità formali ereditate negli statuti comunitari dal passato; vi era un problema di diverse tendenze politico-culturali e di diversi orientamenti nella gestione della tradizione e del patrimonio dottrinale-religioso, non solo dei rituali. Come giustamente è stato osservato da tutti gli studiosi che in anni recenti hanno affrontato il tema, poco studiato dalla storiografia, della riorganizzazione dell’ebraismo italiano dopo l’emancipazione (T. Catalan, G. Fubini, A. Cavaglion), la ristrutturazione delle forme istituzionali non era un problema meramente organizzativo; essa implicava anche problemi di ripensamento della tradizione, problemi, come spesso fu detto, di «rigenerazione» dell’ebraismo, di aggiornamento rispetto all’evoluzione che era stata più accelerata in altri contesti europei. Il punto di partenza per la definizione della nuova struttura di rappresentanza degli ebrei italiani fu costituito dalla legge Rattazzi del 4 luglio 1857, che aveva sancito i criteri fondativi delle Università israelitiche in Piemonte, in Liguria, in Emilia, nelle Marche e negli ex ducati di Parma e Modena. Come sintetizza Guido Fubini, le Università israelitiche in questione «obbligatoriamente costituite da tutti gli ebrei residenti nella circoscrizione territoriale, erano fornite del potere d’imposizione fiscale, amministrate da consigli eletti dai contribuenti, sottoposte a vigilanza e tutela dello Stato; erano perciò corporazioni come i comuni» (sottolineato da G. Fubini). Parzialmente diversa era la regolamentazione delle comunità (Università) della Toscana, del Veneto, del Mantovano (alle quali si associano anche Trieste e Gorizia, impropriamente dal punto di vista dell’appartenenza statuale allora, non impropriamente dal punto di vista linguistico e culturale, essendo le comunità di Trieste e di Gorizia gravitanti verso il mondo ebraico italiano e non solo sul versante austriaco): esse dividevano con le comunità soggette alla legge Rattazzi il carattere di corporazioni necessarie, con potere d’imposizione, ma se ne differenziavano per l’autonomia di regolamentazione interna, che era lasciata alla capacità normativa dei rispettivi organi delle comunità. La tendenza ad abbandonare la tassazione obbligatoria, che era tipica del modello di corporazione pubblica della legge Rattazzi, segnò l’evoluzione delle comunità soprattutto nell’area della Toscana, con l’unica eccezione di quella di Livorno; in tutte le altre prevalse l’opzione per l’associazione libera con volontarietà di contribuzione. Un regime misto caratterizzò le comunità già soggette alle normati12

ve della legislazione austro-ungarica, prevalendo l’aspetto dell’obbligatorietà di appartenenza e di contribuzione nelle comunità tradizionali, e viceversa il carattere dell’associazione volontaria nelle comunità di nuova formazione. Di carattere ancora diverso, ma con la tendenza a sottolineare i principi della volontaria associazione, era il caso della Comunità di Roma, la cui riorganizzazione, avvenuta con decreto regio del 27 settembre 1883, riconosceva lo statuto elaborato in totale autonomia dall’assemblea degli ebrei romani, assoggettati a un contributo finanziario minimo dal quale erano esonerati i membri di cui fosse comprovato lo stato di povertà. Si trattò cioè di un processo di riorganizzazione nel quale, sul vecchio modello pubblicistico, tendeva a prevalere, nel passare dei decenni, il criterio della volontarietà dell’associazione, che appariva del resto più rispondente alle caratteristiche di Stato laico che la netta separazione dalla Chiesa cattolica aveva imposto al nuovo Stato unitario. Se convenisse o no abbandonare il principio dell’obbligatorietà dell’appartenenza degli ebrei alle comunità, secondo ragione di appartenenza territoriale, cui era correlato l’obbligo per gli aderenti alla contribuzione, fu oggetto incessante di controversie, nel senso che i criteri della legge Rattazzi, che non si voleva estendere alle comunità che non fossero ad essa ispirata, ma di cui non si perseguì seriamente neppure l’abolizione, sembravano violare il principio della libertà di coscienza dei cittadini, e quindi anche di scegliere liberamente la propria confessione, principio che di fatto finì per prevalere nei comportamenti individuali e anche nei giudicati della giurisprudenza e per contemperare gli apparenti rigori della legge. La raggiunta eguaglianza dei cittadini si doveva intendere con riferimento agli individui singoli, non ai cittadini in quanto collettività, nel caso specifico in quanto minoranza. Nonostante le ripetute affermazioni, anche in sede legislativa, dell’eguaglianza dei cittadini indipendentemente dal culto professato, lo statuto privilegiato attribuito negli Stati preunitari alla Chiesa cattolica aveva degradato la confessione israelitica al rango dei culti tollerati, con conseguenze significative non soltanto dal punto di vista simbolico o di immagine, ma anche sotto il profilo strettamente giuridico (a proposito per esempio delle normative tendenti a punire l’offesa recata ai culti). Soltanto il Codice penale unitario del 1889 superò queste disparità parificando tutte le confessioni (a partire da quella cattolica) al rango di culti ammessi e fornendo ad essi pari tutela giuridica: il punto 13

più alto raggiunto nei rapporti tra lo Stato e le confessioni nell’Italia liberale, un cammino che sarebbe stato interrotto dal Concordato del 1929 e dal ripristino della religione cattolica come religione di Stato, nel quadro di un più generale arretramento del percorso verso la totale emancipazione che era stato compiuto dallo Statuto Albertino in poi. L’unificazione italiana non comportò immediatamente l’unificazione dell’organizzazione delle istituzioni rappresentative ebraiche. Se i congressi delle comunità, come momento di incontro e di sintesi tra gruppi che avevano un passato diversificato nel quale si erano consolidate anche tendenze culturali e consuetudini rituali non sempre omogenee – a Ferrara nel 1863 e a Firenze nel 1867 – tendevano a sottolineare l’esigenza di pervenire a una rappresentanza centralizzata delle comunità, prevalse a lungo tuttavia la salvaguardia gelosa dell’autonomia e delle caratteristiche delle singole potenziali componenti. Soltanto col passaggio al secolo nuovo si fece strada l’idea di realizzare una forma di rappresentanza collettiva non già attraverso un processo di centralizzazione, al quale si opponevano spinte centrifughe più forti di ogni motivo di comunanza di obiettivi e di solidarietà, ma nella più liberale forma di una federazione delle comunità ebraiche del regno. Al primo congresso di Milano delle comunità israelitiche d’Italia, nel novembre del 1909, fu avviato il dibattito sulla federazione che avrebbe caratterizzato il decennio successivo. La lentezza del processo di chiarificazione interna dell’ebraismo italiano, di cui la ricerca delle forme di rappresentanza unitaria fu una delle espressioni, mise in evidenza fra l’altro il forte legame sentimentale e non solo che univa una parte cospicua dell’ebraismo alla Casa Savoia, come riflesso del debito di riconoscenza nei confronti dello Stato e della dinastia che avevano dato il via definitivo all’emancipazione. Un legame che simboleggiava l’identificazione con la nazione e la volontà spesso, al di là della stessa integrazione, di assimilazione di molti ebrei italiani. La prima guerra mondiale avrebbe costituito uno dei banchi di prova di questo particolare modo di sentire dell’ebraismo, che sicuramente trovò espressione nell’organo più rappresentativo della stampa ebraica in Italia, «L’educatore israelita» (fondato a Vercelli nel 1853), che a partire dal 1874 assunse la testata del «Vessillo israelitico», destinato a rappresentare la voce più diffusa dell’ebraismo tradizionale in Italia. La 14

presenza negli ultimi decenni dell’Ottocento di filiali italiane dell’Alliance Israélite Universel (che era stata fondata in Francia nel 1860) segnalò l’esistenza di un tenue legame con l’ebraismo europeo, ma non ruppe il solido tessuto provinciale dell’ebraismo italiano, quale si era sviluppato e conservato attraverso l’esperienza degli Stati preunitari. Il predominio in questo contesto della componente piemontese non era legato soltanto al gran numero di comunità esistenti in quell’area (Torino, Alessandria, Casale Monferrato, Asti, Vercelli, Cuneo), ma ovviamente al peso politico del Piemonte negli sviluppi per l’unificazione italiana e alla maggiore continuità che nei decenni aveva caratterizzato il loro sviluppo. L’emancipazione, come altrove in Europa, tra le altre conseguenze comportò l’accelerazione degli sviluppi dell’inurbamento degli ebrei italiani agevolandone, con il nuovo dinamismo sociale, l’accentramento nelle località maggiori e favorendo l’abbandono di quelle minori. Due fenomeni, di segno molto distante l’uno dall’altro, intervennero a spingere l’ebraismo italiano verso la trasformazione e ad acuirne la sensibilità e lo sguardo al di fuori dell’orizzonte nazionale. Il primo di essi era un fatto nuovo che nasceva all’interno dello stesso ebraismo: il sionismo. Il secondo era invece espressione delle nuove tendenze imperialiste che tardivamente caratterizzarono l’ascesa dell’Italia dopo l’unificazione tra gli Stati conquistatori della vecchia Europa: il nazionalismo italiano che, fomentando la reviviscenza in Italia di forme di antisemitismo, parve fare breccia nell’ottimismo con il quale gli ebrei italiani dopo l’emancipazione avevano creduto che fosse stata superata ogni frattura fra l’essere ebreo e l’essere italiano e con essa anche ogni travaglio di identità, sicché ne era risultata potenziata la spinta all’integrazione e forse più spesso ancora all’assimilazione. L’atto di nascita del sionismo come movimento politico per il ritorno degli ebrei nella terra di Sion risale alla fine dell’Ottocento, all’epoca del primo Congresso sionistico mondiale di Basilea del 1897, un anno dopo la pubblicazione del manifesto politico di Theodor Herzl, Lo Stato ebraico (Der Judenstaat). Esso era la risposta alla situazione nella quale si venivano a trovare gli ebrei sul finire del secolo di fronte, da una parte, alle persecuzioni nell’Europa centroorientale e segnatamente nell’impero zarista, con l’evidenza dei pogrom che attribuivano un carattere di rituale collettivo alla violenza esercitata contro gli ebrei, e dall’altra alle reiterate manifestazioni di 15

antisemitismo anche nell’Europa occidentale, che erano culminate in Francia nella lunga catena di azioni e controazioni scatenate intorno all’affaire Dreyfus. Proprio i fatti della Francia, verso la quale nei decenni precedenti si erano rivolte forti correnti migratorie ebraiche dall’Europa orientale, avevano rafforzato la convinzione, che sarebbe stata espressa nel libro-proclama di Herzl, che in nessuna parte dell’Europa gli ebrei avrebbero potuto sentirsi al sicuro dalla violenza della persecuzione. Il nuovo corso dell’antisemitismo aveva convinto esponenti politici e culturali del mondo ebraico che le forme di solidarietà e di assistenza interebraica attivate con la fondazione dell’Alliance non erano più sufficienti a garantire sicurezza agli ebrei. La ricerca dello sbocco politico concretamente operativo appariva allo stato delle cose ineludibile. Il sionismo, come è stato scritto, era parte del più generale processo di «politicizzazione della società ebraica» che dappertutto in Europa si sviluppò sull’onda degli sviluppi citati. L’emigrazione in Palestina faceva parte di questo progetto, sebbene la presenza di insediamenti ebraici sulle rive del Mediterraneo fosse ad esso anteriore. Rispetto alle correnti europee sul continente il sionismo italiano fu un fatto marginale; ma l’irruzione del sionismo non fu marginale per l’ebraismo italiano. Ne fu portavoce l’organo della comunità ebraica di Trieste, il «Corriere israelitico», che usciva in lingua italiana a sottolineare pur nella città cosmopolita degli Asburgo la tendenza della locale comunità a confrontarsi prioritariamente con il versante italiano. Ma che proprio da Trieste giungesse la voce del sionismo non appariva casuale: l’apertura a traffici e correnti commerciali e culturali tipica della città adriatica ne faceva un veicolo quasi naturale di tendenze in cui il nazionalismo delle singole comunità tendeva a sublimarsi nell’internazionalismo dell’utopia sionista, come cifra destinata a trascendere ogni particolarismo. A partire dal 1898 la collaborazione al «Corriere israelitico» del giovane rabbino Dante Lattes, che proveniva dall’Italia, in polemica con il conservatorismo e il provincialismo dell’ebraismo italiano, contribuì ad accendere la polemica all’interno dell’ebraismo e a metterne in evidenza le diverse anime che si stavano divaricando sotto la sollecitazione della risposta da dare all’antisemitismo; condirettore dal 1903 con Riccardo Curiel del «Corriere israelitico», Dante Lattes sarebbe diventato uno dei protagonisti assoluti del dibattito di orientamento dell’ebraismo italiano, al di là del contributo che egli diede alla sistemazione e alla divulga16

zione del patrimonio dottrinale ebraico. A partire dal 1916 fu con Adolfo Pacifici condirettore del nuovo settimanale «Israel», che sino alla soppressione nel 1938 sarebbe rimasto tra le voci più autorevoli del sionismo e dell’ebraismo italiano. La presenza stessa della corrente sionista ebbe a documentare la molteplicità di tendenze e di posizioni che animavano il dibattito nell’ebraismo. La reazione del «Vessillo israelitico», come portavoce della parte dell’ebraismo che gravitava intorno al nucleo storico piemontese, fu sintomatica di una spaccatura che da lì in avanti avrebbe percorso l’ebraismo italiano. Essa negava importanza e fondamento alle posizioni sioniste, non solo le avversava ma ne contestava la legittimità; muovendosi nell’ottica dell’ebraismo italiano, ritenendo l’Italia immune dall’antisemitismo, era preoccupata piuttosto che la rivendicazione di uno Stato nazionale ebraico, rovesciando in un certo senso i termini del problema, non avesse a provocare anche in Italia la diffusione dell’antisemitismo. Era evidente soprattutto in questa reazione la difesa ad oltranza dell’identificazione dell’ebraismo con la patria nazionale, quasi che in quest’ultima risiedesse la garanzia naturale e sufficiente anche dell’identità ebraica. Viceversa per i sionisti, che nel 1901 avrebbero dato vita alla Federazione sionista italiana, altri erano i motivi che dovevano caratterizzare il pensiero e l’opera dell’ebraismo italiano. Preliminare di ogni altra presa di posizione appariva in loro il senso della solidarietà internazionale con l’ebraismo mondiale che sembrava essere andato perduto nella voce del «Vessillo israelitico». In secondo luogo, la sollecitazione sionista contribuiva a spingere a quel rinnovamento anche dottrinale dell’ebraismo che in Italia non aveva sufficienti fonti di pensiero e che poteva avvenire soltanto attingendo a un più ampio movimento di idee e alla ricchezza di fermenti che caratterizzavano soprattutto l’ebraismo dell’Europa centro-orientale. A sua volta inoltre anche il sionismo italiano presentava una molteplicità di posizioni, da quelle più propriamente politiche, e non soltanto di tipo internazionalistico ma anche filosocialiste o democratico-radicali, a quelle prevalentemente o meramente filantropiche. Certo si è che forse non fu un caso che negli anni Trenta fossero le personalità ebraiche vicine al sionismo quelle che ebbero maggiore sensibilità nei confronti dei sintomi di imminente persecuzione e di catastrofe che si annunciavano sinistramente sugli ebrei d’Europa. Prima ancora che il fascismo li ponesse con le spalle al muro pretendendo che 17

sciogliessero il difficile equilibrio imposto dalla complessità di una doppia o triplice identità – sionisti, ebrei ma non pertanto italiani – essi stessi ne avevano assunto la consapevolezza. Per ragioni storiche il sionismo italiano non fu necessariamente separatista – proprio per l’avvenuta integrazione nella società nazionale – se non in coloro che lo coltivarono come ideale cui dare immediata realizzazione pratica, ma piuttosto una forma di solidarietà ideale con l’ebraismo internazionale, specie nei paesi nei quali era perseguitato (allora, al di là dell’affaire Dreyfus, si pensava soprattutto ai territori dell’impero zarista). Il crescere del nazionalismo italiano, al quale non fu estranea e in posizione di primo piano la presenza di ebrei come Gino Arias e Primo Levi l’Italico, comportò anche per la risonanza con analoghi movimenti d’oltralpe la prima esplicita presa di posizione antisemita del nuovo movimento politico. Negli ultimi anni le ricerche hanno approfondito vari momenti nella formazione di questa componente di un antisemitismo italiano. L’attenzione si è soffermata sull’occasione della guerra di Libia che diede origine al primo forte sfogo contro gli ebrei del maggior organo di stampa del nazionalismo italiano dopo che già altre voci giornalistiche avevano attribuito le ostilità internazionali all’impresa italiana sulla sponda settentrionale dell’Africa a mene di ambienti economici ebraici. Fu un noto pubblicista nazionalista, Francesco Coppola, che sarebbe diventato una delle penne di punta dell’aggressivo giornalismo fascista, che il 16 novembre 1916 sferrò un attacco in piena regola contro gli ebrei, accusandoli di spirito antinazionale e di uso di valori plutocratici e di esaltazione dell’oro, denunciando «la bancocrazia internazionale ebraica», in due articoli apparsi sull’«Idea nazionale» del 16 e del 30 novembre del 1916. In essi venivano rispolverati temi dell’antisemitismo tradizionale (che potevano essere risonanza della «Civiltà cattolica» o delle teorie di Edouard Drumont) e veniva adombrata anche la tesi dell’infiltrazione e del complotto internazionale ebraico. Un episodio che non rimase del tutto isolato, che vide sulla stessa lunghezza d’onda di Coppola altri pubblicisti nazionalisti: modesto in sé e per sé, l’episodio non poteva più essere considerato tale, essendo in effetti il primo consistente tassello di un motivo che irrompeva ora nelle file del nazionalismo, importando in Italia un tipo di antisemitismo politico che, se non era sconosciuto, non era tuttavia ancora entrato tra i motivi correnti della lotta politica in Italia. Ma fu nel contesto delle fi18

le nazionaliste che d’ora in poi, e con ritmo crescente quanto più ci si avvicinava alla guerra mondiale, nella polemica politica si insinuarono ad opera di scrittori dell’area nazionalista (Federzoni, Oriani, Orano e non solo Coppola) cenni e allusioni sempre più frequenti alle influenze ebraiche e al loro carattere antinazionale. Il percorso dell’ebraismo italiano verso la piena parificazione fu bruscamente interrotto dal fascismo. Ma lo fu prima ancora del 1938, anche se soltanto nel 1938 il fascismo consumò la rottura piena con gli ebrei cittadini italiani. Il processo di emancipazione degli ebrei e il suo effettivo compimento dopo l’Unità d’Italia fu conseguente alla separazione tra lo Stato e la Chiesa cattolica che si consumò con la breccia di Porta Pia. Il punto di rottura fondamentale dell’evoluzione in senso liberale dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose fu rappresentato dai Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929. Nel quadro della conciliazione tra lo Stato e la Chiesa, che il regime fascista perseguì anche allo scopo di consolidare con l’adesione di una Chiesa autoritaria il consenso popolare al regime, la condizione privilegiata accordata alla confessione cattolica, che tornava a diventare religione di Stato (richiamando così esplicitamente in vita l’art. 1 dello Statuto Albertino che era caduto in desuetudine), rimetteva in discussione la posizione giuridica degli altri culti, che erano stati posti sullo stesso piano dalle norme di tutela penale del Codice Zanardelli del 1889. Nasceva così la formula dei culti ammessi che erano in una ideale scala di valori gerarchicamente inferiori alla Chiesa cattolica, in quanto portatrice della religione di Stato. Le conseguenze dell’abbandono del principio della laicità dello Stato andarono tuttavia oltre la sfera religiosa in senso stretto, per investire il complesso dei rapporti con le comunità appartenenti a confessioni minoritarie. Infatti, nella stessa misura in cui la Chiesa cattolica acquistava un diritto di interferenza e di controllo in sfere che avrebbero dovuto essere riservate all’autorità dello Stato (per esempio a proposito della nomina degli insegnanti di religione), lo Stato si arrogava il diritto di intervenire (e di condizionarle in maniera pesante) a proposito delle modalità di esercizio dei culti ammessi nelle fasi più diverse. Soprattutto il regime dittatoriale si arrogava il diritto di modificare la legislazione esistente in materia di «culti acattolici» per adeguarla alla nuova gerarchia stabilita tra le confessioni e soprattutto al nuovo diritto pubblico, che aveva di fatto vietato il 19

libero associazionismo stabilendo un più stretto controllo dello Stato su ogni realtà istituzionale che non fosse diretta emanazione dello Stato stesso o della Chiesa cattolica. In questo quadro rientrarono le norme legislative e amministrative destinate a controllare i culti ammessi, che si rivelarono socialmente onerose per il culto evangelico e in particolare per la minoranza valdese, la più numerosa e la più omogenea sul territorio nazionale, ma soprattutto il Regio decreto del 30 ottobre 1930 (seguito a distanza di un anno dal relativo regolamento di attuazione) avente per oggetto le comunità israelitiche e l’Unione delle comunità. Con questo atto, intervenendo autoritariamente, lo Stato fascista poneva fine all’evoluzione delle comunità verso un sistema associativo che rispettava anche l’autonomia degli ordinamenti interni delle comunità che lo componevano per imporre un ordinamento di tipo centralistico, che prevedeva l’obbligatorietà di appartenenza per gli ebrei su base territoriale e il potere di imposizione dei tributi, configurando per le comunità lo statuto di enti di diritto pubblico. Ma, soprattutto, la nuova normativa, oltre a stabilire un forte controllo governativo sulle comunità, ne restringeva fortemente l’autonomia statutaria e il carattere anche di democrazia interna, accentuando anche nella nuova Unione delle comunità la concentrazione del potere decisionale negli organismi direttivi. Tra le novità più rilevanti del nuovo ordinamento era l’avocazione totale allo Stato del potere di istituire o di sopprimere le comunità, che furono ridisegnate secondo criteri prevalentemente amministrativi, indipendentemente da volontà di membri o da ragioni di carattere storico. In particolare, l’elezione del presidente della comunità e la nomina del rabbino capo era soggetta all’approvazione del ministro dell’Interno, cui spettava anche il controllo amministrativo sulle comunità. Sebbene non siano tuttora noti tutti i particolari che portarono alla elaborazione delle normative del 1930-31, alla quale parteciparono anche rappresentanti dell’ebraismo, sappiamo che su ogni riserva che potesse essere espressa nel mondo ebraico prevalse uno stato d’animo di sostanziale approvazione dei nuovi regolamenti. Sporadiche voci di insofferenza antisemita da parte fascista non furono sopravvalutate, laddove si erano moltiplicate le attestazioni di lealtà da parte di ebrei, anche di quelli sionisti, che tendevano a enfatizzare dichiarazioni di italianità per controbattere o addirittura prevenire sospetti di lealtà patriottica nei loro confronti. Né sembrò 20

destare eccessiva preoccupazione l’addensarsi delle nubi in Germania e la minaccia contro gli ebrei del nazismo in ascesa, stando anche alle più volte sbandierate dichiarazioni di Mussolini ad Emil Ludwig (pubblicate, nel 1932, nei Colloqui con Mussolini), in cui non solo si negava l’esistenza di un antisemitismo in Italia, ma il razzismo in generale era definito «una stupidaggine». Qualche fastidio che era venuto dalla questione degli ebrei libici sembrava essere compensato peraltro dalla possibilità per il regime di strumentalizzare a fini di espansione mediterranea la presenza di colonie di ebrei italiani nell’Africa settentrionale e in Medio Oriente e la stessa questione della Palestina, non certo per compiacere il sionismo, ma in funzione essenzialmente antibritannica. Ad onta di ogni tentativo di smussare contrasti potenziali o reali da entrambe le parti, il rapporto tra ebrei e fascismo non fu idilliaco. L’ambiguità della politica del regime verso il sionismo come movimento capace di influenzare a livello internazionale le scelte del governo non sfuggì agli antisemiti intransigenti del «Tevere» e agli amici di Giovanni Preziosi, precocemente orientati in senso filonazista. Quando poi nel marzo del 1934 l’arresto a Torino di una cellula di «Giustizia e Libertà», alla quale facevano capo anche numerosi antifascisti ebrei, diede esca a una nuova campagna antisemita, la tendenza a identificare ebrei e antifascismo entrò come costante nella polemica dell’estrema ala antisemita del fascismo. Se allora il regime nel suo complesso non raccolse la sollecitazione a porre agli ebrei e soprattutto ai sionisti una scelta irrevocabile, il mondo ebraico si vide sottoposto a un attacco senza precedenti, che avrebbe lasciato più di un segno. Tra i più vistosi la nascita del giornale «La nostra bandiera», espressione dei fascisti ebrei che suonava aspra critica alla corrente sionista, ma anticipava la fronda anche nei confronti dell’Unione delle comunità, che, già ostaggio del regime dopo la riforma del 1930, diventava essa stessa teatro di lotta intestina e veniva posta sulla difensiva prima ancora che l’antisemitismo fosse eretto tra i principi fondamentali dello Stato fascista e diventasse perciò prassi politica ufficiale e non soltanto polemica di gruppi estremisti.

2.

Razzismo anticoloniale e antisemitismo

La legislazione contro gli ebrei del 1938 venne a collocarsi nel quadro di un duplice sviluppo. Da una parte il potenziamento degli orientamenti popolazionistici che il regime fascista aveva assunto con sempre maggiore decisione a partire dalla seconda metà degli anni Venti, come condizione preliminare e non soltanto come corollario della sua politica di potenza; dall’altra, l’avvio di una politica di tutela della razza come conseguenza della conquista coloniale in Abissinia e dell’incontro con popolazioni africane che non poteva non porre il problema della «contaminazione» della popolazione italiana con gli indigeni. Se, come è stato giustamente detto, un quoziente di razzismo è implicito per il fatto stesso che il rapporto coloniale comporta una differenza gerarchica tra dominatori e dominati, nel caso specifico la volontà programmatica di affermare la superiorità della razza bianca e della civiltà latina provocò un ulteriore slittamento verso l’adozione di normative e di pratiche di tipo razzistico. Gli orientamenti popolazionistici non furono inventati dal fascismo; essi erano già presenti da lungo tempo in ambiti importanti del pensiero politico e delle scienze sociali in Italia, nella stessa stregua in cui sin dalle prime conquiste coloniali in Africa nella seconda metà dell’Ottocento antropologi ed etnografi si erano industriati di dimostrare non solo le differenze di razza tra bianchi e neri, ma i caratteri di superiorità della razza bianca. Questi sedimenti culturali circolarono con tenace continuità e con le motivazioni e le provenienze più diverse, fossero di matrice positivistica o di ispirazione 22

nazionalista, in settori qualificati della cultura italiana, fin quando non si incontrarono, condizionandole, con aspirazioni e ambizioni della politica estera del fascismo, delle sue esigenze di prestigio e dei suoi miti di potenza. Di questo complesso percorso possiamo ricostruire qui soltanto i passaggi essenziali per la comprensione del discorso e l’intelligenza del quadro concettuale e storico-politico globale. All’origine della tutela della stirpe, come si disse in un primo momento, si collocano motivazioni di diversa natura. Dal punto di vista politico, il primo a sollevare il problema di una tutela della popolazione, come fattore di creatività e di fecondazione della ricchezza nazionale, fu sicuramente il movimento nazionalista. Ma già nel primo colonialismo italiano circolava un’ispirazione confusamente popolazionistica allorché sulle esigenze di prestigio e di potenza dell’Italia sembrava prevalere la necessità di scaricare in un territorio coloniale il sovraccarico demografico che non era possibile redistribuire all’interno dei confini dello Stato nazionale. Il fenomeno migratorio tipico dell’Europa della seconda metà dell’Ottocento che investì l’Italia tra fine secolo e primi decenni del Novecento incominciò ad essere considerato non soltanto dal punto di vista dell’alleggerimento che si conseguiva sul mercato del lavoro, ma anche sotto il profilo della perdita, della sottrazione di manodopera che l’Italia subiva e viceversa dell’arricchimento che l’utilizzazione o lo sfruttamento della manodopera italiana emigrata creava a vantaggio di altri paesi, in un’ottica di grande competizione internazionale nell’età dell’imperialismo, della concorrenza industriale e commerciale, della concorrenza di armamenti. I congressi nazionalisti dell’inizio del secolo XX furono tra le sedi privilegiate in cui fu sollevata la polemica contro l’emigrazione come perdita non solo di ricchezza nazionale, ma anche di parte dell’identità nazionale stessa. Di qui, ad imitazione e in analogia con altri paesi in condizioni demografiche simili, anche la ricerca dello sbocco verso l’esportazione delle proprie eccedenze demografiche in aree che garantissero la conservazione del legame nazionale tra la popolazione metropolitana e le masse migranti. Ossia una nuova spinta verso la conquista di territori coloniali intesi non soltanto sul piano economico-strategico come espressione della potenza di una nazione e del suo spirito di dominazione, ma principalmente come luogo in cui collocare l’eccesso di popolazione che non poteva trovare in patria condizioni di 23

vita sopportabile. Vale a dire le colonie come colonie di popolamento tipiche dell’ottica di conquista di un paese povero. In questa stessa direzione nello spirito dell’epoca si mossero anche i primi passi di una eugenetica in Italia, come disciplina mirante in senso generico al miglioramento della stirpe prima ancora che, con consapevole franchezza, della razza. I progressi della medicina da una parte e delle scienze sociali in senso lato dall’altra, furono all’origine della diffusione di una cultura eugenica, prima ancora che questa diventasse vera e propria ingegneria genetica con precise finalità politiche. Al di là delle guerre coloniali fu la prima guerra mondiale, con gli squilibri demografici che provocò, che ripropose l’attualità di temi popolazionistici. La ripropose a paesi vinti come la Germania, con alti tassi di natalità che sulla perdita dei territori coloniali poterono costruire anche la mistica del «popolo senza spazio»; ma la ripropose anche a paesi come l’Italia che vinti non erano, ma la cui vittoria si voleva «mutilata», che non aveva beneficiato della spartizione delle colonie tedesche, ma che aveva ricompreso nell’area territoriale sotto la sua sovranità consistenti nuclei di minoranze nazionali di popolazioni sia tedesche che slave. La cura per la salute della propria popolazione, che era entrata a fare parte dei compiti di assistenza e prevenzione sociale di ogni moderno apparato statale, anticipazione e prototipo di quelle che sarebbero diventate le pratiche di un Welfare, in determinati contesti cessò di essere un valore in sé per venire sempre più orientata e strumentalizzata in funzione di politica di potenza. Laddove si poteva pensare che il progresso dell’igiene, dei sistemi sanitari e della lotta contro epidemie e malattie infettive appartenesse ai compiti di crescita e di miglioramento della salute dei cittadini, riducendo anche i costi finanziari di una cattiva situazione igienica, in determinati contesti la battaglia per il miglioramento della salute pubblica divenne lotta per il miglioramento della specie con una valenza immediatamente politica e immediatamente utilizzabile sul terreno della selezione e del potenziamento della razza, che mirava contemporaneamente a conseguire un duplice effetto moltiplicatore, dal punto di vista qualitativo e dal punto di vista quantitativo (politica di potenziamento demografico). Comunque non è casuale che nella seconda metà degli anni Venti, allorché la politica estera del fascismo, preannunciando apertamente una fase di espansione, optò per una soluzione africana, ri24

lanciò anche prepotentemente le tesi anticipate dai nazionalisti del numero come ricchezza della nazione, il numero come base della potenza militare. Lo slogan mussoliniano «Il numero è potenza», sul quale a torto si è ironizzato, conteneva in realtà implicazioni tanto complesse quanto minacciose. Esso era soltanto l’estrema sintesi di una politica che, partendo da un’analisi catastrofistica delle conseguenze dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione, tendeva a saldare intorno al caposaldo popolazionistico politica demografica, politica delle migrazioni interne, lotta all’urbanesimo, politica militare ed espansionismo, ponendo le premesse di una vera e propria politica della razza. Già la revisione della politica migratoria da parte del regime fascista si era mossa in questa direzione, con l’affermazione del proposito di impedire che la «razza» italiana andasse a rafforzare «altre nazioni demograficamente povere» (l’allusione alla Francia, meta tradizionale di emigrazione transalpina, appare evidente) a detrimento della «forza della razza e dello Stato» italiani, come ebbe ad esprimersi Dino Grandi, sottosegretario agli Esteri e tra gli artefici della nuova politica antimigratoria. Ma l’ufficializzazione e la teorizzazione più compiuta dei nuovi orientamenti demografici è da attribuire a due testi dello stesso Mussolini: il discorso cosiddetto «dell’Ascensione», pronunciato alla Camera dei deputati il 26 maggio del 1927, e la prefazione che egli scrisse nel 1928 per la traduzione italiana del libro dello statistico e demografo tedesco Richard Korherr Regresso delle nascite, morte dei popoli, che con il titolo Numero come forza fu pubblicata dal «Popolo d’Italia» allo scopo di darle la massima diffusione e al tempo stesso di significarne il carattere programmatico e di orientamento dell’indirizzo governativo. Con questi orientamenti il regime non si limitava a esprimere un generico rifiuto di ogni politica di controllo delle nascite, quale del resto era portato avanti dalla cultura cattolica e da settori accademici degli studi statistico-demografici, ma anticipava i lineamenti di un intervento e di un impegno politico fatto non più di rifiuti ma di intervento attivo a sostegno delle tesi popolazioniste. Nel discorso dell’Ascensione Mussolini preannunciò, con l’elogio della ruralizzazione e la critica all’«urbanesimo industriale» come causa della sterilità delle popolazioni, la politica di mantenimento sulla terra delle masse rurali, i limiti all’emigrazione e alle migrazioni verso i grandi centri industriali, con un’enfasi propagandistica cui nei fatti non 25

avrebbero corrisposto misure e provvedimenti concreti se non entro limiti assai ristretti, come i trasferimenti di rurali in terre di bonifica che riguardarono poche migliaia di famiglie, mentre maggiore consistenza avrebbero avuto i provvedimenti di incentivi familiari. E fu in quella stessa occasione che, preannunciando la volontà imperiale ed esaltando la nazione come numero, pronunciò la frase ad effetto: «Se si diminuisce, signori, non si fa l’Impero, si diventa una colonia». Più argomentato fu il discorso sviluppato a proposito del libro del Korherr, che tra parentesi fu lo stesso statistico che, per conto di Heinrich Himmler e delle SS, nel corso della «soluzione finale», redasse i riepiloghi periodici sullo stato di annientamento degli ebrei. In questa occasione Mussolini, prendendo il discorso alla larga e riecheggiando toni spengleriani (Oswald Spengler del resto aveva scritto la prefazione all’originale tedesco del libro), collocava la polemica contro il controllo delle nascite nel quadro della crisi e della necessità di difesa della civiltà occidentale, in termini di scontro con razze emergenti, prendendosela fra l’altro con «l’edonismo pacifondaio» all’origine della scarsa propensione alla procreazione. Alla base della decadenza era l’«urbanesimo o metropolismo», che portava la popolazione all’infecondità e alla minaccia di estinzione della razza bianca: «Negri e gialli sono dunque alle porte?». Dopo aver accennato tra le ipotesi di risposta alla crisi demografica alla possibilità del «ritorno alla terra» e avere escluso ogni politica di neomaltusianesimo, Mussolini ricorse all’autocitazione richiamando il discorso dell’Ascensione, con il quale si vantava di avere rotto il luogo comune della «straripante natalità degli italiani»; sottolineava anzi il crollo delle nascite nell’Italia meridionale, addirittura l’«agonia demografica» di quello che era «il vivaio demografico della nazione». Adottando toni quasi apocalittici Mussolini tracciava un quadro cupo della situazione demografica: «Tutta l’Italia cittadina o urbana è in deficit. Non solo non c’è più equilibrio, ma i morti superano i nati. Siamo alla fase tragica del fenomeno. Le culle sono vuote ed i cimiteri si allargano». Per invertire la tendenza non sarebbero state sufficienti le leggi, occorreva fare leva sollecitando «il costume morale e soprattutto la coscienza religiosa dell’individuo»: Bisogna che le leggi siano di pungolo al costume. Ecco che il mio discorso va direttamente ai fascisti e alle famiglie fasciste. Questa è la pietra più pura del paragone alla quale sarà saggiata la coscienza delle gene26

razioni fasciste. Si tratta di vedere se l’anima dell’Italia fascista è o non è irreparabilmente impestata di edonismo, borghesismo, filisteismo. Il coefficiente di natalità non è soltanto l’indice della progrediente potenza della patria [...] ma è anche quello che distinguerà dagli altri popoli europei il popolo fascista, in quanto indicherà la sua vitalità e la sua volontà di tramandare questa vitalità nei secoli [...]. In una Italia tutta bonificata, coltivata, irrigata, disciplinata, cioè fascista, c’è posto e pane ancora per diversi milioni di uomini. Sessanta milioni d’italiani faranno sentire il peso della loro massa e della loro forza nella storia del mondo.

Come si vede, un progetto in cui addirittura sul miglioramento della razza faceva premio il problema della quantità, il problema del numero. Le citazioni potrebbero continuare, se non altro per dimostrare a partire da queste premesse la continuità di una politica. La politica «demografica» – scriverà nella Dottrina del fascismo (1932) – altro non era che «conseguenza di una concezione di lotta, di disposizione alla guerra, di spirito antipacifista». E ancora: Per il fascismo la tendenza all’impero, cioè all’espansione delle nazioni, è una manifestazione di vitalità; il suo contrario, o il piede di casa, è un segno di decadenza: popoli che sorgono o risorgono sono imperialisti, popoli che muoiono sono rinunciatari.

Ancora nel marzo del 1934: La potenza militare dello stato, l’avvenire e la sicurezza della nazione sono legati al problema demografico, assillante in tutti i paesi di razza bianca e anche nel nostro. Bisogna riaffermare ancora una volta e nella maniera più perentoria e non sarà l’ultima, che condizione insostituibile del primato è il numero. Senza di questo tutto decade e crolla e muore. La giornata della madre e del fanciullo, la tassa sul celibato e la sua condanna morale, salvo i casi nei quali è giustificato, lo sfollamento delle città, la bonifica rurale, l’Opera della maternità e infanzia, le colonie marine e montane, l’educazione fisica, le organizzazioni giovanili, le leggi sull’igiene, tutto concorre alla difesa della razza (18 marzo 1934).

All’inaugurazione di Pontinia il 18 dicembre 1935, nella prima fase della guerra in Abissinia, ne sintetizzava il senso con queste parole: La guerra che noi abbiamo iniziato in terra d’Africa è una guerra di 27

civiltà e di liberazione [...]. È la guerra dei poveri, dei diseredati, dei proletari.

Era chiaro che prima ancora di passare alla conquista dell’Etiopia per farne una colonia di popolamento il regime aveva attivato una complessa strumentazione per controllare ma anche per orientare il comportamento demografico della popolazione italiana. La creazione dell’Opera maternità e infanzia, la tassa sul celibato, le misure di igiene e prevenzione contro la tubercolosi o altro tipo di malattie infettive, la diffusione dell’educazione fisica per il consolidamento della stirpe, gli incentivi alle famiglie numerose, non avevano di mira soltanto un programma di politica e assistenza che doveva mettere l’Italia al passo con i paesi più avanzati che avevano già realizzato questi traguardi; implicava anche una precisa politica di incoraggiamento della natalità in funzione dell’obiettivo del conseguimento di una sempre maggiore potenza nazionale attraverso l’aumento del numero, della popolazione, come potenziale fonte di alimentazione di un arsenale bellico. Gli studi più recenti (Carl Ipsen, ma non solo) hanno messo in evidenza come in questo contesto anche il riordinamento dei servizi statistici dello Stato fosse in funzione di un controllo sempre più stretto dei comportamenti demografici, esercitando fra l’altro una funzione di vero e proprio controllo sociale. La lotta contro l’aborto (che fu fra l’altro all’origine dell’invio al confino di un certo numero di ostetriche) non fu l’unico settore che finì per sfociare nella persecuzione penale, a conferma del rapporto che di fatto venne stabilito tra tutela della stirpe ed esercizio sempre più intenso del controllo sociale sulla popolazione, che passava del resto anche attraverso le organizzazioni di massa del regime – l’Opera nazionale dopolavoro ma anche le organizzazioni di massa giovanili e femminili – e le istituzioni fondamentali quali la scuola, che coinvolgeva tutta la popolazione maschile e femminile in età scolare, e il servizio militare nei confronti della popolazione giovanile maschile. La politica demografica del regime traeva inoltre conforto, incoraggiamento e attivo sostegno almeno da due settori della società, con diverso peso e con motivazioni diverse ma convergenti: da una parte la Chiesa cattolica, dall’altra gli orientamenti natalistici di larga parte degli studi demografici e statistici e di quella parte delle scienze umane e sociali che avevano già una qualche tradizione di in28

teressamento e di impegno nella crescita di una tradizione e di una mentalità coloniale in Italia. Al di là delle motivazioni più generali che spinsero alla conciliazione con la Santa Sede e con la Chiesa cattolica, non c’è dubbio che il Concordato segnò una tappa fondamentale per consolidare il consenso della Chiesa al regime fascista e per mettere in evidenza in questo quadro la convergenza di orientamenti che univa la Chiesa allo Stato. Sebbene lo statalismo fascista poteva finire per minacciare la larga autonomia che la Chiesa era riuscita a strappare con il Concordato, intaccando in più punti gravemente il potere dello Stato, la ragione politica propendeva a estendere agli atti del regime fascista la legittimazione (che era insieme religiosa e morale) della gerarchia cattolica. Questo fu particolarmente vero all’epoca della campagna d’Africa, in cui allo spirito guerriero fascista si aggiunse la legittimazione missionaria della Chiesa, e all’epoca della guerra di Spagna, in cui l’alleanza tra Stato e Chiesa fu se possibile ancora più stretta per via del comune legame autoritario e antibolscevico. Ma fu vero anche nel caso di tutti gli incentivi alla procreazione che non potevano che suscitare consenso nel clero, alla stessa stregua della politica ruralista e della campagna contro l’urbanesimo. Manca uno studio specifico di questi aspetti del consenso del clero al fascismo, ma alcuni indizi sul fervore patriottico con il quale il clero accompagnò non soltanto i gagliardetti fascisti nelle guerre del duce ma anche manifestazioni di carattere sociale di altro tipo, come la giornata della madre e del fanciullo, i pellegrinaggi a Roma delle madri prolifiche o l’insediamento dei coloni nelle terre di bonifica parlano in questa direzione. Roberto Maiocchi ha sottolineato come la cultura anche medica cattolica, nell’intento di contrapporsi al razzismo neopagano di origine nordica, abbia finito per appoggiare, in opposizione a forme di eugenetica considerate inumane, proposte di miglioramenti della razza fortemente orientate sulla centralità della politica di natalità destinate a costituire le premesse di una variante del razzismo tutta italiana, costituita da una serie di tematiche che in alcuni autori, come Nicola Pende, coesistevano in una visione culturale organica, in altri serpeggiavano occasionalmente, ma rappresentavano comunque, con una fitta trama di rinvii reciproci e rispecchiamenti, una cultura media cui pochi sembravano sottrarsi. Era un razzi29

smo che vedeva con entusiasmo nelle iniziative sanitarie del regime un progetto strategico di miglioramento della «razza italiana», che a quest’ultima attribuiva volentieri qualità speciali, superiori, che escludeva la possibilità di migliorare la razza per mezzo del controllo delle nascite ed approvava senza remore la politica nativista del regime, con tutti i suoi corollari bellicosi e imperialisti, parlava di psicologia delle razze, dava piena scientificità all’impiego di criteri estetici nel giudizio sul livello di sviluppo dei gruppi umani, esaltava come pregio la varietà antropologica delle stirpi italiche, privilegiando le tipologie rurali su quelle urbane, trovava su questi temi il pieno accordo con la cultura cattolica e respingeva con durezza le leggi razziali volute da Hitler.

Statistici e demografi favorevoli alla politica nativista non si limitarono a fornire supporti per teorizzare la prolificità della popolazione italiana e all’occorrenza contribuire ad aumentarla; essi sposarono in pieno anche la retorica del regime che operava l’equazione prolificità uguale popoli giovani, costruendo su di essa la contrapposizione e la polemica con i popoli vecchi e senescenti, che erano le più antiche democrazie e le potenze coloniali con le quali voleva ora misurarsi l’Italia nel suo impeto di conquistare un impero. Un obiettivo al quale volevano contribuire anche i medici e i biologi impegnati in una sorta di ingegneria sulla scorta dell’endocrinologo Nicola Pende, che ricomparirà tra i firmatari del Manifesto della razza, creatore di una teoria e di una scuola di «biologia politica», che avrebbe voluto mirare allo sviluppo di un biotipo italiano o mediterraneo derivante dalla polivalenza delle sue origini razziali da contrapporre alla razza pura vantata dal pensiero nordico. Negli imitatori e nei divulgatori di più basso livello questi progetti si traducevano in una volgarizzazione quasi banale di esperimenti medici che diventavano essenzialmente gli emblemi pubblicitari di una politica di demagogico potenziamento della razza, mediante innesti endocrinologici destinati soprattutto a potenziare le funzioni sessuali. Un panorama di intenzioni e di conoscenze che si arricchì ad opera dei molti esperti di africanistica che si scoprirono nel nostro paese a seguito della conquista dell’Abissinia e ai quali dobbiamo una ricca pubblicistica, in cui la proclamazione dell’inferiorità mentale, culturale e sociale degli indigeni, dei neri, a legittimazione della missione di civiltà che l’Italia era chiamata a svolgere era il topos che ne costituiva la cifra comune. 30

Il filone di cultura che aveva con maggiore continuità anticipato teorizzazioni di tipo razzistico era per l’appunto quello legato all’africanistica, in cui una tradizione alimentata soprattutto da antropologi ed etnografi aveva fatto circolare, assai prima della conquista dell’impero, stereotipi improntati non a un generico senso di superiorità dei bianchi sui neri ma a paradigmi di vero e proprio razzismo biologico. La produzione di fotografia antropologica avviata da Lidio Cipriani, insieme alla antropologia biometrica che era stata un altro dei suoi cavalli di battaglia, fecero di questo antropologo, che operò essenzialmente presso l’Università di Firenze, uno dei battistrada di un razzismo fascista. Per Cipriani l’inferiorità mentale dei negri non era dovuta a fattori di carattere culturale, pertanto non era modificabile o migliorabile con interventi esterni, ma era deterministicamente legata a condizioni biologiche originarie che escludevano tassativamente ogni possibilità di elevarne il livello intellettuale. Di qui un’ulteriore ragione per avversare ogni forma di contaminazione razziale con gli indigeni, ma soprattutto l’affermazione categorica che ogni proposito di contribuire ad elevarne il livello culturale era destituita di ogni fondamento e di ogni credibilità. Un’affermazione particolarmente interessante perché smentiva le pretese motivazioni di una eventuale conquista africana dell’Italia ma non rinnegava affatto le rivendicazioni dell’Italia ad una spedizione africana: l’ottica di Cipriani aveva il pregio della chiarezza nella sua brutalità, nel senso che essa non doveva ammantarsi come opera di civiltà ma doveva presentarsi per quello che era, pura e semplice operazione di conquista territoriale. A questa l’Italia era per l’appunto legittimata proprio dall’immutabile inferiorità dei negri che faceva sì che l’Africa dovesse essere terra di conquista e di sviluppo di popolazioni più progredite, e in particolare dell’Italia. Già nel 1932 Cipriani aveva affermato: L’Africa, non dimentichiamolo, non potrà mai essere degli Africani e fra tutti i popoli del mondo l’Italiano, per ragioni etniche, per doti innate e per la sua adattabilità ai climi tropicali dimostrata in ogni paese, è il predestinato a trionfarvi. La tendenza all’espansione fu in ogni tempo considerata «inequivocabile indice di superiorità di razza», ed oggi l’Italia ha una potenza espansiva che «è da considerarsi come una delle maggiori del mondo», indice di una «riconquistata giovinezza». 31

Sulla base di queste premesse all’epoca della campagna d’Abissinia Cipriani poteva facilmente legittimare l’azione militare italiana con la necessità del mondo civile di non piegarsi a malintesi sentimentalismi verso genti incapaci di mettere in efficienza i tesori eccezionali della loro terra di origine, mentre ne reclamano a gran voce lo sfruttamento i bisogni imperiosi dell’intera umanità.

Nello zelo di diffondere le sue convinzioni sull’inferiorità intellettuale dei negri coniò stereotipi così feroci nel vincolare i negri a un livello infantile dell’umanità quanto naturali nel tono con cui ne descriveva l’inferiorità: Ovunque il Negro impressiona per il suo contegno da fanciullone incorreggibile, per la sua disposizione a un’allegria infantile e a passatempi ingenui. Sfugge quanto può dall’adoperare le facoltà mentali, per cui imita più che non ragioni, specialmente quando vive in mezzo a noi. L’impulso naturale domina in lui sulla riflessione [...]. Anche negli atti individuali non si seguono concetti personali ma si adottano quelli, magari illogici, già esistenti nella collettività. Ogni vera critica e ogni azione intesa ad aumentare il bene comune è pure inconcepibile nei Negri; mai si metteranno, quindi, a costruire spontaneamente una breve strada per evitare il disagio e magari i pericoli di un sentiero interminabile [...]. Lavorare per avere la strada o il pozzo non vale, per essi, la conseguente rinunzia alla gioia di cigalecciare per ore e ore su argomenti insulsi, di saltare, far rumore, litigare o sollazzarsi con le donne. Hanno spiccata la memoria, appunto per la scarsa applicazione dei Negri della logica; perciò, mandati in una nostra scuola superano, sì, abbastanza bene gli esami, ma non vanno oltre le nozioni ricevute.

La loro mancanza di iniziativa e di creatività arrivava al punto che essi stessi non avevano rispetto per modi di dominazione rispettosi, per chi volesse ispirare loro sentimenti di eguaglianza, ma invocavano piuttosto padroni, il Bianco, che si mostrassero severi e inflessibili, e degni pertanto di obbedienza e devozione. Cipriani non fu certo il solo creatore e divulgatore di questo tipo di razzismo coloniale, anche se l’avere a disposizione canali di comunicazione verso il pubblico di prima grandezza, dalla rivista mussoliniana «Gerarchia» al «Corriere della Sera», e l’aura dello scien32

ziato e dell’accademico, gli conferirono un’autorità che fu estranea ad altri cultori del razzismo. Sul terreno della medicina l’inferiorità biologica dei negri fu al centro della pubblicistica antiegualitaria di un altro accademico proveniente dal fascismo della prima ora, Giorgio Alberto Chiurco, docente di patologia chirurgica dell’Università di Siena. Al pari di Cipriani, che muoveva da premesse antropologiche, anche Chiurco dava per scontata l’inferiorità biologica dei negri; in base a questo assunto entrambi si impegnarono in una lotta senza quartiere contro ogni contaminazione razziale tra la razza superiore italiana e le razze inferiori. Mentre in Chiurco la polemica rimaneva a livello pubblicistico e usava e strumentalizzava la tribuna accademica, Cipriani aveva agganci più direttamente politico-istituzionali che ne fecero un vero e proprio ispiratore della politica di separazione razziale. Per Cipriani il compito di dare agli italiani una adeguata consapevolezza razziale si associava all’obbligo di «difenderla da ogni intrusione non desiderabile». Poiché con la conquista dell’impero il contatto diretto tra le due razze era diventato inevitabile, Cipriani si studiò di suggerire le modalità per impedire che tra le due razze si realizzasse qualsiasi forma di commistione; se alla fine per i residenti in Africa, che evidentemente non potevano essere espulsi dal continente nero, fu escogitato il regime di apartheid, per i sudditi coloniali africani che si trovavano in Italia la soluzione fu individuata nella espulsione dalla penisola: un provvedimento che colpiva profondamente gli interessati, in qualche modo inseriti nella società italiana e legati a persone di cittadinanza italiana di altro sesso da legami affettivi e talvolta anche giuridici (matrimonio), ma che appariva realizzabile perché riguardava un numero assai limitato di individui. La contemporaneità di questi fatti con l’avvio della campagna contro gli ebrei non era certo casuale. Come scrive G. Gabrielli, «l’azione divenne pressante nelle grandi città, come Roma, dove la presenza di ‘negri’, che camminavano a fianco di donne bianche, che si mescolavano tranquillamente alla popolazione, rappresentava una simbolica spina nel fianco per il regime e per la sua campagna propagandistica razziale». Lo studio medico di Chiurco, posto fra l’altro che «la razza nera è refrattaria ad ogni evoluzione intellettuale», partiva dall’analisi delle patologie tipiche o congenite della popolazione africana per deprecare ogni forma di «commistione del sangue bianco con quello di 33

colore nel ‘meticcio’ o ‘bastardo’». Ma la separazione rigida tra bianchi e neri doveva avere anche per Chiurco ragioni ancora più profonde, nella deterministica differenza e gerarchia delle razze, in base alla quale poteva pronunciarsi «per un’inferiorità della razza nera e per l’esistenza di un infantilismo costituzionale nel negro [...]. La massima differenza tra l’uomo bianco e il negro consiste nelle dimensioni e nella struttura del cervello»: Il negro rimane un bambino, anche quando è vecchio e le caratteristiche dominanti nella sua psiche sono di ordine infantile. Data questa primitiva inferiorità è difficile pensare che la razza negra possa assurgere a progresso e civiltà.

Alle diversità biologiche, che già sconsigliavano ogni incrocio razziale, perché ne sarebbero derivate degenerazioni fisiche e psichiche, Chiurco associava gli squilibri psichico-mentali dei meticci cui era attribuita la propensione alla delinquenza, a forme di insurrezionismo come conseguenza del loro carattere degenere. Sulle sue tracce altri svilupparono la necessità di combattere con ogni mezzo «l’ibridismo nei territori coloniali» con argomenti che ripetevano affermazioni, più che valutazioni, che abbiamo già incontrato in Cipriani e in Chiurco: occorre specialmente nelle colonie africane stabilire una distanza netta tra bianchi e neri; occorre difendere la razza bianca, giacché essa ha contribuito alla creazione della più alta civiltà attuale, mentre gli africani ed ancora più i meticci anziché rivelarsi suscettibili di progresso mostrano segni palesi di tendenza al regresso.

La polemica contro la promiscuità tra indigeni e cittadini italiani, contro ogni forma di mescolanza e contro ogni contaminazione fu sviluppata su più fronti. Fu diretta anzitutto contro altre potenze coloniali cui si rimproverava di avere chiuso la strada delle colonie all’Italia e soprattutto di rappresentare, con i loro comportamenti nei confronti degli indigeni, un pericolo e un tradimento della razza bianca. Obiettivo della polemica erano principalmente la Francia e la Gran Bretagna. Alla Francia soprattutto, la cui politica di larga naturalizzazione di sudditi coloniali suscitava lo sdegno del razzismo fascista, si rivolsero gli strali della stampa e della pubblicistica, che 34

rigettavano qualsiasi modello assimilazionista considerato l’anticamera della corrosione e della corruzione della razza bianca e quindi del suo degrado e della sua decadenza. Era da questa contrapposizione che si voleva trarre la legittimazione dell’Italia a farsi portatrice in Africa non soltanto dei propri interessi nazionali e imperiali, ma anche dei valori di una superiore civiltà in rappresentanza dell’Europa minacciata e tradita dalle altre potenze. Peggio degli africani naturalizzati erano i «meticci», i «bastardi», i figli di unioni considerate pericolose per la purezza della razza. La fobia della contaminazione divenne una vera e propria ossessione, nella quale, come sempre, furono in primissima linea i Cipriani, i Chiurco e tanti altri corifei del nuovo razzismo. All’assimilazionismo di Francia e Inghilterra la pubblicistica fascista oppose la separazione netta, la non fraternizzazione tra cittadini italiani e indigeni, sfiorando più di una volta il senso del ridicolo. In un manuale di storia e politica coloniale edito nel 1938 si poteva leggere, tra le altre piacevolezze: Ma non devesi fraternizzare con gli indigeni, né usare del loro linguaggio per accorciare le distanze o per esprimere frasi scurrili che fan ridere gli ascoltatori. Occorre sentirsi sempre distanti dagli indigeni, per conoscerli meglio. Solo salendo sopra un campanile, voi vedrete bene il panorama del paese. Mantenere il prestigio: ecco una norma assiomatica e permanente.

Alla degenerazione biologica della razza superiore, che sarebbe derivata dalla contaminazione o mescolanza con razze presunte inferiori, teorizzata da antropologi e scienziati sociali razzisti come quelli citati dianzi, il regime fascista avrebbe associato, nella costruzione di una razza superiore, il problema della conservazione del prestigio della razza, come sintesi di un insieme di comportamenti non immediatamente traducibili in danni biologici o fisici, ma valutabili piuttosto in termini morali e sociali. Nel complesso il meticcio non soltanto viene considerato un essere di razza inferiore ma il suo stesso concepimento è il risultato di un impoverimento della razza superiore per effetto della mescolanza con una razza inferiore dalla quale la prima è stata contaminata. Gli studi degli ultimi anni hanno messo in evidenza la diffusione di un «razzismo mixofobico» (l’espressione è di G. Gabrielli) che cresceva al margine della conquista dell’Etiopia via via che si rendeva sempre più inevitabile e al 35

tempo stesso frequente il contatto tra popolazione italiana e popolazioni locali. In questo contesto cresceva «questa nuova fobia dell’incrocio razziale» (sempre G. Gabrielli), dalla quale sarebbero scaturiti i primi provvedimenti legislativi destinati a influenzare su un piano più generale gli orientamenti di una politica razzistica del regime, alimentata dalle scoperte pseudoscientifiche cui abbiamo fatto riferimento, ma soprattutto dall’enfatizzazione propagandistica che dalla stampa d’informazione a quella più intrinsecamente fascistizzata, a quella di costume e per l’infanzia, trasmetteva l’immagine del negro in cui si alternava il paternalismo del mito del buon selvaggio e la deformazione fisica del negro in cui i caratteri fisici (le labbra, i piedi, le mani) venivano grossolanamente ingigantiti non solo per marcarne l’alterità, la diversità, ma soprattutto per sollecitare nell’osservatore l’orrore e il ribrezzo. Prima ancora che nelle leggi, la distanza doveva poggiare sulla predisposizione psicologica. Una volta stabilito il principio di massima della distinzione tra cittadini e sudditi, formalizzata dopo la conquista dell’impero con la legge organica costitutiva dell’Africa orientale italiana (principio destinato ad avere valenza generale per tutte le colonie) del 1° giugno 1936, essendo stabilito che suddita diventava la donna italiana che andava sposa a un suddito e che sudditi erano i figli di padre suddito, l’attività legislativa si preoccupò di regolamentare più da vicino le relazioni interpersonali tra le due categorie di soggetti, si trovassero a vivere in Africa orientale o nel territorio metropolitano. In realtà, l’area della separazione superava di molto la sfera delle relazioni interpersonali, perché investiva il campo del lavoro, dei trasporti, dell’istruzione, degli alloggi, dell’urbanistica in generale se si tiene presente come nel piano regolatore di Addis Abeba (e di altre località) si realizzasse di fatto la separazione del quartiere italiano dai quartieri indigeni, sicché negli studi oggi gli storici parlano senza eufemismi e senza reticenze di apartheid (valgano per tutti l’opera di A. Del Boca e gli studi di N. Labanca e di una più giovane generazione di storici). È evidentemente in contrasto con questi orientamenti interpretativi la versione che ne diedero allora studiosi anche seri ma sostanzialmente in sintonia con il regime, come quando, secondo una forma mentis che dava per scontato che quello e non uno diverso dovesse essere il comportamento della parte conquistatrice, si scriveva: 36

Informata ad una politica coloniale, non di segregazione, ma di discriminazione razziale ai fini del prestigio della razza dominante di fronte a quella nativa dominata, la legislazione italiana sulla condizione giuridica degli abitanti dell’A.O.I. trova il suo logico complemento organico nella legislazione sui rapporti fra cittadini e sudditi (G. Mondaini).

Nei fatti, ma anche di diritto, nessun artificio retorico avrebbe potuto smentire la realtà di un effettivo separatismo e segregazionismo come connotato caratterizzante dei rapporti interraziali e interpersonali. Il primo provvedimento segregazionista fu il RDL 19 aprile 1937 n. 880 (che sarebbe stato convertito in legge il 30 dicembre 1937) relativo alle relazioni d’indole coniugale tra cittadini e sudditi. Il testo della legge, racchiusa in un unico articolo, era molto semplice: Il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi o concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana, è punito con la reclusione da un anno a cinque anni.

Con questa disposizione si volevano affrontare almeno due problemi: la prosecuzione di un costume di convivenza con donne indigene di cui gli italiani residenti nelle colonie africane anche nel periodo precedente alla conquista dell’Etiopia erano stati protagonisti (la figura del «madamato») e, di conseguenza, l’origine della procreazione di «meticci». Non siamo in grado rispetto all’epoca in cui fu emanata la norma di precisare l’entità dei due fenomeni, così strettamente collegati, e di realizzarne quindi l’incidenza sociale. Non si era ancora al divieto di ogni rapporto sessuale tra cittadini metropolitani e sudditi dell’Africa orientale italiana, ma ne erano state poste le premesse. Questa prima legge colpiva duramente con la reclusione il cittadino italiano e non la «persona suddita», il nativo o la nativa, evidentemente nella presunzione che la maggiore responsabilità spettava a chi, appartenendo alla razza superiore, si abbassava a intrattenere quel tipo di rapporto con persona di razza inferiore. In questo contesto l’inserimento, il 17 novembre del 1938, dei Provvedimenti per la difesa della razza italiana nel quadro della campagna contro gli ebrei che proibivano il matrimonio tra i cittadini italiani 37

di razza ariana e «persona appartenente ad altra razza» perfezionava e generalizzava il principio contenuto in nuce nel decreto dell’aprile del 1937, proclamando l’illecito penale del matrimonio alle condizioni prescritte. La confluenza a questo punto tra legislazione razzista coloniale e legislazione antiebraica esprimeva un nesso logico e concettuale assolutamente indissociabile: erano due rami che discendevano dallo stesso tronco. Come bene si esprime Maiocchi: «L’immagine del negro universalmente diffusa tra gli italiani sarà il cavallo di Troia con cui il razzismo antisemita verrà fatto penetrare in Italia». Il decreto dell’aprile del 1937 non era che il primo passo della codificazione del razzismo contro gli indigeni. Portata ancora più ampia ebbe infatti la legge 29 giugno 1939 n. 1004, che prevedeva il nuovo reato di «lesione del prestigio della razza» e prescriveva pertanto «sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’Africa italiana». Ma che cosa si doveva intendere per «lesione del prestigio di razza»? Era questo anzitutto, secondo la legge, «l’atto del nativo diretto ad offendere il cittadino nella sua qualità di appartenente alla razza italiana o, comunque, in odio alla razza italiana». Le pene comminate questa volta toccavano il cittadino ma punivano anche e in misura aggravata il nativo che avesse commesso reato «in circostanze lesive del prestigio della razza», peggio ancora se con dolo. La nuova legge non riguardava soltanto gli aspetti delle relazioni sessuali, ma aveva un campo d’intervento praticamente senza confini, sia che il cittadino si fosse piegato a un rapporto di lavoro alle dipendenze di un nativo, sia che frequentasse luoghi (esercizi pubblici, cinematografi, ecc.) riservati ai nativi, sia che desse pubblico scandalo mostrandosi in stato di ebbrezza in luogo riservato ai nativi o in luogo pubblico. Reati per i quali si sarebbe dovuto procedere solo su querela di parte, ma che se commessi in un contesto che ne configurava il carattere di lesione del prestigio di razza diventavano perseguibili d’ufficio. Quello che già conosciamo dei pronunciati della magistratura per la punizione dei reati appena citati conferma che l’obiettivo della legge era quello di conseguire la misura più rigorosa possibile di separazione tra cittadini e nativi, contraddicendo peraltro alla situazione di fatto che si era creata con l’afflusso sempre più intenso di cittadini metropolitani in Africa e quindi con l’intensificazione necessitata di contatti con i nativi che esponevano tutti i soggetti richiamati al rischio raddoppiato di com38

mettere il reato di nuova invenzione, costringendo la stessa magistratura a fare le figure grottesche che ci sono descritte da talune sentenze. Ma perché accennare a questa problematica in questa sede? È necessario farlo non soltanto per ribadire il nesso tra legislazione razzista contro gli indigeni e legislazione antiebraica, ma anche per sottolineare il clima di fanatismo e di parossistico odio razzista che si voleva instaurare nel paese, rendendo più credibile e quasi naturalmente accettabile la lotta contro gli ebrei come gruppo minoritario razzialmente diverso. L’ultimo anello di questa catena progressiva di separazione tra razzialmente puri e appartenenti a razze inferiori fu costruito, quando ormai anche la legislazione contro gli ebrei aveva completato buona parte del suo itinerario, con l’emanazione delle «norme relative a meticci» della legge 13 maggio 1940 n. 822. Come risulta dalle sue disposizioni, la ratio della legge consiste essenzialmente nel negare la qualifica di cittadino al meticcio; essa anzi nega la figura stessa del meticcio per assimilarlo in ogni circostanza al nativo. Infatti l’art. 2 della legge, che ne esprime la filosofia, prescrive che «il meticcio assume lo statuto del genitore nativo ed è considerato nativo a tutti gli effetti»; come corollario della legge il nativo non poteva essere riconosciuto dal genitore cittadino né portarne il cognome, né il meticcio poteva frequentare scuole che non fossero quelle per nativi. In altri termini, l’ossessione contro le contaminazioni razziali era giunta al parossismo di fare scomparire la categoria stessa dei meticci, che venivano riassorbiti in tutto e per tutto dai nativi. Ad avviso degli studiosi più autorevoli l’Italia si era avviata a diventare nelle colonie la capofila di un sistema di apartheid; se non lo diventò fu per le numerose trasgressioni con le quali furono aggirate le norme segregazioniste e per il semplice fatto che la breve durata dell’impero, travolto dalla ribellione indigena e dalla seconda guerra mondiale, non consentì che il sogno segregazionista avesse il tempo di realizzarsi.

3.

La campagna contro gli ebrei Prima fase: la propaganda

Abbiamo visto come la guerra contro l’Abissinia abbia rappresentato un passaggio fondamentale per la messa a punto di un indirizzo razzistico nella politica del fascismo in relazione ai problemi dell’impero e alle conseguenze che ne derivarono nei rapporti con le popolazioni dei territori africani conquistati dall’Italia. Ma contemporaneamente alla retorica dell’impero, indissociabile dalla messa a punto dello statuto di apartheid per le popolazioni occupate, il regime affrontava una fase di rilancio interno, che, passando attraverso una sorta di rinnovamento del costume fascista, si riprometteva di dare al popolo italiano maggiore consapevolezza della potenza nazionale che con l’impero era stata conseguita e un senso di rigenerazione destinato a dare maggiore fierezza e combattività al popolo italiano. Il regime pretendeva di entrare in una fase nuova che doveva coincidere con la costruzione, come si disse, dell’«uomo nuovo», dell’uomo nuovo fascista consapevole di questa sua nuova identità. Mussolini in persona riteneva di poter infondere al popolo italiano il colpo d’ala che ne dovesse esaltare le virtù guerriere e sferzare soprattutto la borghesia, che si era adagiata sui ritmi del quieto vivere, nella speranza di attrezzarla per affrontare un nuovo ciclo di avventure e di realizzazioni. Al di là dell’appena conclusa impresa africana, era lo stesso contesto internazionale sul quale aveva pesato l’isolamento nel quale la guerra d’Africa aveva posto l’Italia che sollecitava una sorta di tensione e di preparazione permanente in armi. L’inizio della guerra di 40

Spagna, a un paio di mesi dalla conclusione ufficiale delle operazioni contro gli eserciti del Negus, ma non certo dalla «pacificazione» dell’Etiopia, intervenne a sottolineare una sorta di stato di all’erta permanente, di ininterrotta tensione politica ed ideologica. La guerra di Spagna contribuì a meglio definire la contrapposizione degli schieramenti che era già stata anticipata in occasione della campagna africana allorché l’Italia si trovò a fronteggiare le sanzioni della Società delle Nazioni attraverso il ruolo diverso (talvolta vero e proprio gioco delle parti) che vi svolsero Francia e Inghilterra. Al di là dello scontro tra potenze, la Spagna esaltò ulteriormente lo scontro tra il fascismo e le democrazie occidentali, tanto più che di fronte alla guerra civile si andò cementando il fronte unito di Italia e Germania con la creazione dell’Asse. Fu in questo contesto che l’incipiente propaganda contro gli ebrei si fuse e si potenziò con la polemica contro la democrazia come sistema (prima ancora che contro le democrazie come Stati e come potenze) considerata, con un ripescaggio di vecchi temi dell’antigiudaismo cattolico ottocentesco, figlia di tutti i mali e le eresie generati dalla Rivoluzione francese, la massoneria, il socialismo, il comunismo. L’antisemitismo fascista è sicuramente figlio di questa temperie e di questa congiuntura. Se i provvedimenti legislativi ed amministrativi contro gli ebrei furono adottati a partire dal 1938, come si vedrà nel capitolo prossimo, è sicuramente nel corso del 1937 che Mussolini e il regime pervennero alla decisione di dare avvio anche in Italia all’antisemitismo di Stato, ossia alla campagna programmata e sistematica contro gli ebrei. L’addensarsi nel corso del 1937 di una consistente serie di manifestazioni pubblicistiche, se non si può considerare pura emanazione di una centrale pianificatrice, non si può valutare neppure alla stregua di una coincidenza puramente casuale: quelle manifestazioni erano espressione infatti di un clima di cui elementi vicini al regime andavano percependo il montare e la consistenza, sicché esse venivano a trovarsi in sintonia con una svolta potenziale del regime, di cui anticipavano prese di posizione o alla quale fornivano argomentazioni e consenso. Per questo l’addensarsi di queste manifestazioni nel corso del 1937, al di là della mera occasionalità, non può non essere considerato il sintomo di una situazione in via di evoluzione, comunque, di umori che già circolavano nel paese. D’altronde la personalità di alcuni degli autori delle iniziative pubblicistiche alle quali facciamo riferimento è di per sé significativa del 41

fatto che le loro prese di posizione non si potessero considerare soltanto come alcune tra le tante o collocate a un livello meramente privato. E ciò va detto in primo luogo per la più rilevante tra di esse, la riflessione su Gli ebrei in Italia di Paolo Orano, apparsa appunto presso l’editrice Pinciana nella primavera dell’anno XV dell’era fascista (1937). Proveniente dal sindacalismo rivoluzionario, fattosi esponente della tradizione cattolico-nazionalista del primo fascismo, Paolo Orano era tra i più autorevoli rappresentanti di una cultura fascista. Fecondo esaltatore e divulgatore del pensiero di Mussolini, rettore dell’Università per stranieri di Perugia, una delle roccaforti politicopropagandistiche per la diffusione del fascismo e insieme per la conquista di consensi presso pubblici stranieri, collaboratore di «Gerarchia», del «Popolo d’Italia» e di numerose altre testate di punta del giornalismo di regime, Orano non era personaggio i cui interventi potessero passare inosservati. C’è da pensare che quando lo pubblicò, il suo libro fungesse come qualcosa di più di un semplice ballon d’essai in previsione della campagna razziale. Soltanto una ricerca accurata sulla genesi di questo lavoro potrebbe consentire di stabilirne l’esatta collocazione nel quadro della campagna antiebraica. Quali eventi particolari indussero Orano a riaprire un problema ebraico in Italia e a riproporre con forza la necessità di mettere gli ebrei con le spalle al muro costringendoli a riconoscere l’incompatibilità tra identità ebraica e identità nazionale italiana? Sembra difficile poter attribuire l’origine del libro unicamente alla periodica polemica contro il progetto inglese di Stato ebraico in Palestina alla luce dello sconvolgimento dell’equilibrio mediterraneo provocato dalla rottura dello status quo mediterraneo della guerra d’Africa. Il sottinteso prevalente di un appello a serrare le file ne riporterebbe l’origine a motivazioni tutte interne al fascismo e agli equilibri di tendenze nel suo ambito, senza che sia possibile sciogliere il dilemma se si volesse colpire una minaccia attuale del sionismo o strumentalizzarne semplicemente il presunto pericolo per fini interni. Il libro o libello di Paolo Orano muoveva dalla denuncia della rivendicazione di una identità separata ebraica per pervenire a una valutazione riduttiva se non apertamente denigratoria (o svalutativa) dell’ebraismo italiano. Per questa via l’autore perveniva alla conclusione di intimare agli ebrei di integrarsi interamente nella società nazionale e nella religione di Stato o di subire le conseguenze (peraltro ancora non specificate) del loro separatismo. Una delle prime ragio42

ni che ad avviso dell’autore legittimavano una simile richiesta risiedeva anzitutto nella «legittima difesa del patrimonio nazionale nostro in ogni campo e manifestazione, al centro del quale sta l’immensa opera della Chiesa che è tutta romana, tutta italiana» e nella convinzione che l’ebraismo italiano non aveva dato nella storia d’Italia un contributo rilevante, a differenza di quanto era accaduto con la cultura tedesca o con quella francese («Il genio ebraico si sarà speso per la Germania, per la Francia, per l’Inghilterra. Per l’Italia, no»). Tutto ciò autorizzava a parlare agli ebrei italiani «con franchezza, con estrema decisione». Il messaggio era rivolto in particolare al sionismo e al suo organo «Israel» che si stampava a Firenze, che si adoperava per «tener vivo il senso della razza, della religione, della tradizione», ciò che giustificava le preoccupazioni degli italiani proprio nel momento in cui si presentava con caratteri di attualità il pericolo della creazione di «un altro stato nel bacino orientale del Mediterraneo, già così irto di complicazioni e pericoli», con evidente allusione al sorgere di un eventuale Stato ebraico in Palestina, che non poteva non costituirsi come creatura della Gran Bretagna. Ne derivava fra l’altro il pericolo che l’Italia «colonialmente imperiale in Africa» fosse spinta dal sionismo ad assumere un atteggiamento ostile agli arabi e in genere alle popolazioni musulmane. Ma il messaggio di Orano non era rivolto soltanto agli ebrei e ai sionisti, esso voleva rivolgersi direttamente anche al regime che aveva fin qui «lasciato che gli ebrei d’Italia s’infervorassero per l’impresa sionistica, mettendo in valore negli ultimi tempi il risentimento dei correligionari di Germania, anche in questo caso con la più beata indifferenza a quelli che possono essere e sono gli svolgimenti politici dei rapporti tra Germania nazista ed Italia fascista». Insomma Orano strigliava il regime per un eccesso di tolleranza, che trascurava anche le responsabilità della «ostentazione del razzismo ebraico» nell’«accamparsi dell’antisemitismo tedesco». Era un forte rimprovero alle azioni mancate del fascismo che doveva servire per battere ora il tasto dell’urgenza della soluzione del dilemma. «Dico che in Italia l’ebreo per uscire di settarismo semitico, deve tenersi esclusivamente alla politica dei sentimenti e delle manifestazioni, il che equivale a dire senza tante sinuosità di parole, fare il fascista e nient’altro. Se la sente e la vive da sionista, non è fascista, a meno che alla dichiarazione faccia immediatamente seguire l’imbarco per Erez Israel ed il suo trapiantamento con tutta la fami43

glia nella terra per l’ebraizzazione della quale tanto si dà da fare nel bel paese d’Italia». Si potrebbe sottilizzare sulla confusione implicita in tutto il discorso di Orano tra sionisti ed ebrei: in realtà, l’obiettivo dello scrittore sembra quello di colpire l’ebreo in quanto tale sottolineandone in ogni modo l’estraneità alla nazione italiana, indipendentemente dalle strumentali polemiche contingenti (l’essere al soldo degli inglesi o fare i burattinai del «governo ebraico di Francia, con a capo Leone Blum»). Insomma «l’ebraismo risulta come la principale forza perturbatrice delle società europee», al punto che non bastavano più neppure le dichiarazioni di lealismo dei «bandieristi» o di Ettore Ovazza, nei quali resisteva ancora un residuo di «separatismo» ebraico che andava pur esso liquidato: perché rivendicare le loro benemerenze patriottiche separatamente dal resto degli italiani? A questo punto dai moniti si passava alle minacce. «Non v’è bisogno di spendere troppe parole per far capire agli ebrei ebreizzanti sionisti [...] che cosa significa in Italia il regime concordatario e totalitario fascista. Ogni proselitismo che non abbia per finalità l’accrescimento del sentimento patrio è reato. Ogni partecipazione ad imprese extranazionali, come il sionismo, è un affronto fatto al sacrosanto esclusivo dovere di vivere e pensare e lottare e sacrificarsi per gli sviluppi dell’Italia imperiale fascista». Agli ebrei italiani si poneva il dilemma di dissociarsi dagli ebrei del resto del mondo o di subire un nuovo ghetto: Gli ebrei d’Italia si trovano nella necessità di separare la loro responsabilità da quella dei correligionari di tutti gli altri paesi [...]. L’ebraismo europeo è antifascista e sovversivo [...]. Gli italiani di religione ebraica debbono dunque fare intendere di schierarsi contro tutti i correligionari d’Europa.

Non possono avere alcuna pretesa gli ebrei d’Italia proprio per il «contributo modesto» che hanno dato alla storia e alla cultura italiana. Ad essi si può chiedere solo di allinearsi e basta, di cessare di aiutare i profughi tedeschi, di rompere ogni legame con la politica britannica. Ogni dichiarazione [...] di obbedienza, di fedeltà, di consenso alla Patria, fuori della potente recisa tangibile separazione degli ebrei italiani 44

dall’ebraismo mondiale e quindi dal sionismo e quindi dall’antinazismo, altro non è che una ipocrita e paurosa ostentazione.

L’attacco di Orano non era più soltanto all’ebraismo come tale e al singolo ebreo: esso coinvolgeva l’ebraismo istituzionalizzato attraverso le comunità, alle quali si chiedeva di diventare null’altro che cellule di educazione e di propaganda fascista. Nessuno fino allora aveva osato porre il problema in questi termini e per questo non è pensabile che l’intervento di Orano fosse espressione di una estemporanea sortita individuale e non di un sondaggio di regime volto a saggiare la tenuta e le reazioni dell’ebraismo italiano, ma anche le reazioni della società italiana nel suo complesso. Diretta era dunque la chiamata in correità delle comunità: «Per le comunità è arrivato il giorno del redde rationem […]. È il problema che deve essere abolito» era la conclusione neppure tanto sibillina dello scrittore fascista. Il libello di Paolo Orano era una dichiarazione di guerra a tutto campo nei confronti degli ebrei italiani. Voleva colpire i sionisti di «Israel», ma colpiva in maniera forse anche più dura gli ebrei fascisti della «Nostra bandiera». Se per «Israel» fu relativamente facile confutare le tesi di Orano, una dichiarazione indiretta che esse non rappresentavano l’opinione di un privato qualunque, che comunque non era portavoce del plauso che in organi ufficiali del regime fu riservato loro, fu la recensione sul «Popolo d’Italia». Essa attesta che era già avvenuto un cambiamento sostanziale della linea del regime verso la questione ebraica, e ciò indipendentemente dal fatto che la linea d’attacco proposta da Orano sul terreno prevalentemente politico-religioso-culturale rispondesse all’impostazione razzista che sembra si possa convincentemente attribuire a Mussolini già in quest’epoca. Restava comunque il fatto che l’esito finale delle due diverse impostazioni – costringere gli ebrei a dissociarsi da ogni posizione coincidente con espressioni dell’ebraismo internazionale e annullare quindi ogni segno di una loro autonoma identità – tendeva a convergere verso l’annullamento della sopravvivenza dell’ebraismo come soggetto autonomo. Naturalmente, il prevalere, come sarebbe avvenuto, dell’impostazione razzista avrebbe portato questo annullamento alle estreme e più radicali conseguenze perché, se di questione razziale doveva trattarsi, non sarebbe bastata alcuna dichiarazione di abiura o di rinuncia a modificare la sostanza dell’ebraismo. 45

Ma ancora più imbarazzante la campagna lanciata da Orano doveva rivelarsi per gli ebrei fascisti che dall’inizio del 1936 erano impegnati nella lotta interna all’ebraismo italiano per il controllo dell’Unione delle comunità. Se l’appello di Orano poteva coincidere in buona parte con il programma che uno dei leader bandieristi, Guido Liuzzi, aveva enunciato sin dall’anno precedente in una pubblicazione dall’eloquente titolo Per il compimento del dovere ebraico nell’Italia fascista – in cui l’unico sottile filo di dissenso rispetto alle enunciazioni di Orano poteva essere la fiacca conferma della solidarietà con gli ebrei perseguitati (e l’allusione era allora generalmente intesa alla Germania, e non poteva essere diversamente, con riferimento a quanto si stava verificando nella Germania nazista) – Ettore Ovazza, già condirettore della «Nostra bandiera» e autore di un libello dal titolo Sionismo bifronte (uscito nel 1935) – in cui, riprendendo gli articoli che era andato scrivendo sul giornale bandierista aveva anticipato dall’interno dell’ebraismo alcuni dei principali temi della polemica di Orano – cercava di conciliare ebraismo, patriottismo e fascismo senza riuscire a dare convincente espressione all’autonomia dell’ebraismo. Per certi aspetti la polemica antisionista dei bandieristi era ancora più violenta di quella di Orano, anche se non poteva agitare nei confronti del sionismo l’arma delle minacce che il regime avrebbe potuto trasformare, come sarebbe avvenuto, in strumenti ben altrimenti operativi. Ma che in quello stesso frangente (all’alba del 1937) si costituisse il Comitato degli italiani di religione ebraica, che tendeva ad essere molto di più di una semplice corrente all’interno dell’ebraismo italiano, in quanto si poneva come organismo tendente a contestare l’autorità stessa dell’Unione delle comunità e a porsi come alternativa alla struttura tradizionale dell’ebraismo italiano, era il segno non solo di una crisi profonda che attraversava l’ebraismo, ma anche di quanto l’attacco fascista stesse facendo breccia al suo interno; né si può interpretare il nuovo organismo come un espediente difensivo per proteggere l’ebraismo italiano dagli annunciati mali peggiori. Era sicuramente una traduzione istituzionale del programma dei bandieristi in un estremo tentativo di rendere credibile la saldatura tra ebraismo e fascismo e, non volendo credere a radici autoctone di un antisemitismo italiano, per ricercare e rigettare unicamente verso l’esterno, appunto nell’internazionalismo sionista, la matrice politica e culturale dell’antisemitismo e quindi anche di un antisemitismo 46

italiano. Il fatto che questa corrente riuscisse a conquistare la maggioranza in alcune delle più importanti comunità ebraiche (a Roma, a Torino, a Firenze, a Venezia, a Livorno) confermava l’avvenuta spaccatura dell’ebraismo italiano e certamente anticipava una incrinatura della possibile capacità di difesa di fronte a un eventuale e a questo punto prevedibile attacco frontale del regime. Le reazioni nel mondo ebraico alle pressioni e al nuovo corso impresso dai bandieristi sono significative non solo dello sbandamento che si stava diffondendo nell’ebraismo, ma anche della mancanza di consapevolezza delle conseguenze che potevano maturare nella politica governativa. Se da una parte era evidente l’ormai quasi completa identificazione dei bandieristi con posizioni come quelle di Orano – Ovazza non aveva risparmiato in questo senso riconoscimenti al libello di Orano affermando che riguardo al sionismo aveva scritto pagine «mirabili e definitive» – altrettanto evidenti erano l’imbarazzo e la prudenza con i quali si muovevano le comunità e l’Unione delle comunità, al punto da sollecitare lo stesso giornale «Israel» ad auspicare maggiore incisività, «maggiore vivacità» da parte dell’Unione e nei suoi rapporti con le singole comunità: una sorta di invito ad uscire allo scoperto e a pronunciare una parola chiara. La crisi interna dell’ebraismo si approfondiva parallelamente all’intensificarsi della propaganda antisemita. In questo stesso anno 1937 vide la luce, ad opera della casa editrice della rivista di Preziosi, una nuova ristampa di quel fortunato falso storico che furono I «Protocolli» dei «Savi Anziani» di Sion, che in Italia non si ristampavano dal 1921. La nuova edizione era accompagnata da una introduzione di uno degli astri teorici del razzismo italiano, Julius Evola. Non sappiamo esattamente il contributo che questo testo diede alla diffusione del mito e delle menzogne sul complotto dell’Internazionale ebraica; la terza edizione, che fu stampata all’inizio del 1938, si attestò sul trentacinquesimo migliaio, che per il mercato italiano era comunque una buona quota. Pur essendo consapevoli che anche di recente la magistratura svizzera, in un processo che aveva attratto l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, aveva negato l’autenticità dello scritto che dall’inizio degli anni Venti era uno dei testi sacri di qualsiasi campagna antisemita, i promotori della nuova ristampa dichiaravano disinvoltamente secondario il problema della sua autenticità per sottolinearne viceversa la veridicità nel merito. 47

Furono indubbiamente i Protocolli il veicolo per la diffusione nel mondo di quel «piano della guerra occulta» che si attribuiva all’ebraismo internazionale, per scardinare l’ordine della società esistente e le strutture capillari tradizionali di quest’ordine a cominciare dalla famiglia. Nella sintesi che ne faceva Evola «una tattica occulta guida, allo stesso fine, i conflitti internazionali più decisivi, la finanza ebraica arma oculatamente il militarismo, mentre dall’altra parte l’ideologia ebraico-massonica del liberalismo e della democrazia prepara opportuni schieramenti». Non si sa bene per quale sottile astuzia della ragione la centrale della finanza ebraica internazionale aveva allestito la messa in scena della stessa Rivoluzione russa per preparare e per assicurare, attraverso il crollo della Russia, il trionfo della potenza dell’ebraismo. In quello stesso 1937 Evola aveva dato alle stampe Il mito del sangue. Ora, fra l’altro – contrariamente a qualche equivoco, diffuso probabilmente da chi non lo ha letto, su questo filosofo del razzismo italiano – con il suo razzismo «spirituale», Evola non rappresenta in alcun modo l’antesignano di una versione edulcorata del razzismo antisemita al confronto con il biologismo del razzismo nazista: il razzismo spirituale del quale parla Evola vuole partire appunto dal dato biologico, che gli pare ancora troppo rozzo e deterministico, per sublimarlo e portarlo a pieno compimento «sul piano dello spirito», ossia sul piano metafisico. In tal modo Evola intendeva potenziare e nobilitare, e non già attenuare, il razzismo, avvolgendolo in una nebulosa filosofeggiante e scrostandolo di quel tanto di ruvido antropologismo che, a suo modo di vedere, lo rendeva poco appetibile anche agli occhi di un paganesimo latino che a suo modo era anch’esso figlio dell’ipocrisia della tradizione cattolica. Il fascino dell’occulto, che fu comune a tutte le interpretazioni esoteriche del fascismo e del nazismo, fu certo alla base della fortuna della tesi cospirazionista che era al centro dei Protocolli, la cui divulgazione più che al vecchio testo di Nilus fu affidata ai sunti e ai compendi che ne compilarono tutti gli organi di una stampa di provincia che li utilizzò quasi a mo’ di romanzo di appendice, con tutte le varianti locali del caso. Chi non aveva bisogno della ristampa dei Protocolli per dare sfogo al suo antisemitismo era Giovanni Preziosi, che paradossalmente assumerà funzioni ufficiali nell’apparato di persecuzione degli ebrei soltanto all’epoca della «soluzione finale», nel quadro dello sterminio fisico degli ebrei, come cervello della lotta antiebraica nella RSI. Re48

sta ancora da capire e da spiegare perché Preziosi, che con la sua anzianità nella campagna contro gli ebrei che datava almeno dalla prima guerra mondiale si poteva considerare un precursore, non fu utilizzato istituzionalmente dal regime né prima né durante l’attuazione delle leggi razziste. Si può pensare a un gioco delle parti: Preziosi era al posto giusto già prima del 1938; era il direttore di una delle voci più becere e sbracate e più incontrollate e incontrollabili di un vecchio antisemitismo, la «Vita italiana», e a buon diritto poteva vantare di essere stato un antesignano, l’alfiere ante litteram dell’antisemitismo. Il suo radicalismo antiebraico è probabilmente all’origine della sua mancata valorizzazione a livello istituzionale nella fase di attuazione delle leggi. Come battitore libero, ma autorizzato, come inevitabilmente era, dato che in regime fascista nulla poteva avvenire nel campo della stampa che non fosse accetto in sede ufficiale, Preziosi era probabilmente più utile al regime che come uomo di apparato o di rappresentanza; la sua polemica infatti poteva andare anche oltre i limiti che la peraltro incerta diplomazia di regime cercava di imporre, collocandosi in prossimità assai vicina ai filonazisti alla Farinacci del «Regime fascista»: la linea ufficiale del regime ne risultava così più moderata e al tempo stesso si ostentava il volto di una sorta di dialettica interna nella quale spettava a Mussolini fungere da arbitro, da mediatore e moderatore. Non ufficializzando il radicalismo verbale di Preziosi il regime conseguiva un doppio risultato: verso l’esterno agiva da moderatore, verso l’interno dell’area del partito e delle organizzazioni collaterali giovanili e sindacali apriva una valvola di sfogo per le posizioni più radicali che pertanto non venivano respinte, lasciando intendere che la politica ufficiale avrebbe potuto evolvere anche in quella direzione. Per quanto sappiamo finora, Preziosi agiva più come eminenza grigia che come diretto interprete della politica del regime. Ed egli certo non aveva bisogno di essere incoraggiato dalla ristampa dei Protocolli, perché se c’era uno che aveva da sempre introiettato la mentalità cospirazionista questo era Preziosi, che già dietro l’Aventino aveva visto la mano della massoneria, dietro la Lega dei diritti dell’uomo e il suo antifascismo «la capitolazione incondizionata della Francia in mano dei giudei», dietro la «detronizzazione del Kaiser» in Germania l’«opera degli ebrei il giorno in cui egli non fu più utile alla loro causa», ebrei dietro la Repubblica di Weimar, ebrei dietro la Rivoluzione bolscevica, ebrei dietro «la Lega delle Nazioni che è composta in 49

prevalenza assoluta di ebrei e massoni, [che] è lo strumento maggiore dell’ebraismo nel mondo e seconderà tutti i piani giudaici»; in mano alla «piovra ebraica» gli Stati Uniti d’America, «il libero paese di Giorgio Washington, divenuto, attraverso le sette segrete e l’alta banca, il feudo d’Israele». L’elenco potrebbe continuare all’infinito, poiché dietro ogni evento della politica mondiale, fosse l’elezione presidenziale di Roosevelt, le sanzioni della Società delle Nazioni contro l’aggressione dell’Italia all’Etiopia o la guerra di Spagna, per fermarci agli eventi anteriori al 1938, era sempre in agguato come protagonista diretto o ispiratore il giudaismo internazionale. La presenza della congiura ebraica internazionale era per Preziosi una vera e propria ossessione. Il contributo di Preziosi all’antisemitismo italiano non consistette in alcuna elaborazione dottrinale se non nella costanza e nella tenacia con la quale non cessò mai di declinare il tema dell’insidia della cospirazione ebraica; la sua azione fu perciò, e a maggior ragione lo sarà dopo il 1938 e soprattutto dopo l’inizio dell’avventura bellica, eminentemente denunciatoria, sempre alla caccia nelle università o nelle prefetture, nelle forze armate o nel giornalismo, nella vita economica o nella giustizia di cognomi ebraici da mettere alla gogna e in prospettiva da cacciare, senza troppe sottigliezze per i molti errori nei quali non poteva non incorrere nel suo disordinato censimento. Ma per lui era meglio contare un ebreo in più (anche se non lo era) che uno in meno. La sua non era l’elaborazione, per aberrante che potesse essere, di una dottrina razzista, ma la pratica di un metodo propagandistico. Sicuramente dalla tradizione della «Vita italiana» il futuro organo ufficiale del razzismo fascista («La difesa della razza») mutuerà il metodo delle rubriche di denuncia della presenza degli ebrei nei vari settori della vita culturale, sociale, economica della società italiana. Nell’agosto del 1937 Preziosi aveva pubblicato nella «Vita italiana» una sorta di decalogo – Dieci punti fondamentali del problema ebraico – che voleva costituire la sintesi dell’ostinata campagna che per vent’anni – come egli stesso scriverà – aveva martellato nella testa dei suoi lettori e che si riprometteva di continuare «con la stessa tenacia, senza odio e senza rancore». 1. Ebrei fedeli alla loro tradizione ve ne sono molto di più di quanti si supponga e si lasci supporre. In buona parte, questa fedeltà concerne un modo d’essere [...] l’ebreo della tradizione. 50

2. Esiste ed opera una Internazionale Ebraica [...]. 3. Gli Ebrei sono d’accordo nell’affermare l’immutabilità e l’inalterabilità di questa «essenza». L’Ebreo resta ebreo qualunque sia la nazionalità con la quale si rivesta. L’Ebreo resta ebreo qualunque sia il suo credo politico. L’Ebreo resta ebreo perfino quando si fa cristiano [...]. 4. La razza, nell’Ebreo, è lungi dall’essere un puro dato biologico e antropologico. La razza è la legge [...]. 5. La legge non è nella sola Bibbia. È un grosso errore pensare che l’ebraismo finisca con l’antico Testamento, questo fa tutt’uno col Talmud [...]. 6. La legge ebraica afferma una differenza fondamentale tra l’Ebreo e il resto dell’umanità [...]. All’Ebreo viene dalla sua legge promesso il dominio universale [...]. 7. Il Regnum ebraico non è astratto e sovraterreno, ma deve realizzarsi in questa terra e avere alla sua testa una stirpe ben precisa. E finché ciò non avverrà, gli ebrei «debbono considerarsi come esiliati e prigionieri». Dunque essi conseguono un dominio che non sia l’assoluto dominio, dovranno accusare un tormento, una indegnità, e dovranno considerare come violenza e ingiustizia ogni legge che non sia la loro. La loro legge riconosce solo all’Ebreo il diritto alla ricchezza. 8. Questi i termini della «vera giustizia», la quale sancisce tanto un diritto, quanto un dovere, per l’Ebreo, il promuovere ogni avversione, ogni rivolta contro ogni dominante forma d’ordine e di civiltà non ebraica, qualunque essa sia. La logica stessa della legge impone di distruggere tutto, con ogni mezzo, per spianar la via al Regnum d’Israele [...]. 9. È miopia vedere nell’azione sovversiva e rivoluzionaria esercitata incontestabilmente in tutti i campi e in tutti i tempi da elementi ebraici, qualcosa avente principio e fine a sé stesso [...]. La verità invece è che per effetto dell’ideale complessivo, l’Ebreo coscientemente o istintivamente distruttore, è soltanto lo strumento del Regnum; il quale presuppone l’eliminazione di qualsiasi altro ordine e di qualsiasi altra civiltà. 10. Risulta da questi nove punti fondamentali il decimo punto, e cioè che la gran parte delle posizioni dell’antisemitismo restano al disotto del vero problema: l’idea della razza, della nazione, della contro-rivoluzione, dell’antibolscevismo e dell’anticapitalismo colpirà questo o quel settore del fronte ebraico, ma non ne raggiungerà mai il centro. L’antisemitismo non sorge a pieno, che quando si impugni l’idea di Impero, e alla volontà di Impero covata da Israele si opponga un’altra volontà di Impero di uguale dignità e universalità. Ed è l’idea di Roma, l’unico punto saldo di riferimento che la storia occidentale può offrirci a questo proposito.

Al di là di ogni altra elucubrazione, al punto 3 era chiaramente 51

enunciata l’impostazione razzista del problema ebraico la cui soluzione pertanto non poteva consistere che nella distruzione dell’ebraismo stesso o, se si accettava l’esistenza di uno Stato ebraico, nella relegazione e nell’isolamento degli ebrei entro la cerchia dei suoi confini. Anche per Preziosi non era possibile cessare di essere ebrei, il dato biologico essendo un dato non modificabile né con un cambiamento comportamentale, né con una conversione di carattere religioso. Diverso dallo stile di Preziosi nella campagna contro gli ebrei si mobilita un altro dei giornalisti di regime, esponente di un giornalismo d’assalto, Telesio Interlandi. Sin dalla metà degli anni Venti, dopo essere stato redattore dell’«Impero», Interlandi, sempre per volere personale di Mussolini, diventa direttore del nuovo quotidiano fascista della capitale, «Il Tevere», giornale con qualche velleità intellettuale (annovera fra gli altri tra i suoi collaboratori Luigi Pirandello), nel quadro della controffensiva fascista dopo il delitto Matteotti, destinato non tanto a fornire l’informazione quotidiana quanto a fungere da voce di punta polemica di un fascismo aggressivo impegnato più che sul versante politico in senso stretto (dove del resto operava con ben maggiore autorità «Il Popolo d’Italia») sul versante della cultura e del costume. La cosa interessante nel contesto del nostro discorso è che l’antisemitismo appartenne sin dall’origine al repertorio polemico del giornale, come abbiamo già visto nel capitolo 1 a proposito degli arresti torinesi del 1934. Non può meravigliare pertanto che il nome di Interlandi, che dal 1933 aveva affiancato al «Tevere» il settimanale di cultura «Quadrivio», si ponesse in prima fila nella fase del più massiccio concentramento giornalistico che fece da battistrada alle leggi del 1938. Come nel caso di Preziosi, anche l’antisemitismo di Interlandi muoveva da ascendenze cattoliche che presto si saldarono con una oltranzista visione razzista, di cui «Il Tevere», che rappresenta fra l’altro una fonte cospicua di una iconografia razzista di tipo coloniale oltre che antisemitica del periodo del fascismo, si fece portavoce particolarmente almeno a partire dalla guerra d’Etiopia. Giornalista senza scrupoli e scrittore spigliato, Interlandi non portò alcun contributo originale all’antisemitismo dal punto di vista concettuale; fu soprattutto un divulgatore dalla penna facile dei suoi slogan più estremistici, anticipando le qualità che lo avrebbero predestinato 52

all’avvio della politica della razza a diventare direttore della «Difesa della razza». Nel coro delle voci che agitavano la questione ebraica non poteva mancare, al di là della commistione della tradizione antigiudaica del cattolicesimo italiano con il nuovo razzismo di marca fascista, la presenza di voci autenticamente cattoliche. Di provenienza cattolica del resto era stato uno dei primi libelli apparsi nell’atmosfera che preluse al dispiegamento in grande stile dell’antisemitismo fascista come antisemitismo di Stato, quello di Alfredo Romanini intitolato Ebrei – Cristianesimo – Fascismo (1936). Anche nelle posizioni dell’antigiudaismo cattolico si riflettevano atteggiamenti diversi, da quelli prevalentemente discendenti dall’ispirazione tradizionale della Chiesa, che tendevano a mantenersi al livello della polemica religiosa più tradizionalista e al più a ribadire la priorità dei privilegi acquisiti nel 1929 dalla Chiesa cattolica e a contenere quindi nei limiti allora stabiliti la sfera di libertà delle comunità religiose minoritarie, a quelli già imbevuti di contaminazioni razziste che nella loro espressione più compiuta furono rappresentati dai cosiddetti clerico-fascisti. Una corrente che andava anche oltre la forte condanna del giudaismo e della sua identificazione con il bolscevismo, fatta propria anche dalla «Civiltà cattolica» soprattutto a margine e per influenza della guerra civile in Spagna, per approdare a conclusioni che in nulla differivano da quelle del razzismo più esasperato sul piano biologico. Una variante appunto di queste teorie era il libello di un pubblicista cattolico, uno di quelli che a buon diritto si possono definire clerico-fascisti, Gino Sottochiesa, che recava il titolo, già di per sé significativo di una visione occulto-cospirazionista, Sotto la maschera d’Israele (1937). A dispetto della sua pretesa scientificità («Vogliamo sottoporre questa ‘merce’ [la questione ebraica] all’esame dei Raggi X, usando all’uopo degli apparecchi scientifici alla bisogna, epperciò infallibili») e del suo proposito di fare opera di «smascheramento» («Questi apparecchi di precisione, che non sono stati fabbricati all’estero, si chiamano: chiarezza latina, giustizia fascista e intransigenza cattolica. Tutti portano la marca d’origine romana, inconfondibile e inimitabile. Si potrà mai dare una garanzia maggiore e migliore di questa?»). L’autore procede per assiomi e per punti fermi, dove nulla sembrerebbe doversi dimostrare ma tutto è già dato per dimostrato. Nel suo radicalismo antiebraico, che ha il solo scopo di affermare che l’ebraismo è principalmente anticristianesimo e 53

anticattolicesimo, l’autore polemizza essenzialmente con Paolo Orano, che avrebbe l’ingenuità di combattere i sionisti e non gli ebrei in quanto tali, e con la «Civiltà cattolica», che dimostra altrettanta ingenuità nel ritenere che la conversione possa cambiare la natura degli ebrei, la quale invece essendo fondata razzisticamente tale è destinata a rimanere deterministicamente. Non potendo seguire tutti i passaggi della trattazione di Sottochiesa ci limitiamo a riferire almeno i punti fermi dai quali egli prende le mosse. 1. L’Ebraismo costituisce, come sempre ha costituito e costituirà, una nazione vera e propria, avente in sé tutti i requisiti e le prerogative inerenti al concetto classico e storico di «ente nazionale», anche se i componenti della nazione ebraica sono, per effetto della diaspora (disseminazione), dispersi in tutto il mondo. Questa categorica affermazione deve levare di mezzo e spezzare una delle più ostinate maschere dell’Ebraismo contemporaneo, che tende a definirsi soltanto una religione, negando a sé il carattere indelebile di nazione. 2. Gli Ebrei sono veri e propri stranieri (quando non sono, come quasi sempre avviene, addirittura dei nemici) nei singoli Stati che li ospitano, anche se godono i benefici di una perfetta cittadinanza, e coprono posti di governo o d’autorità, ed anche se abiurano o abdicano alla loro congenita essenza psico-fisica israelitica: poiché il principio razzista ebraico è di un atavismo insradicabile, insito nel sangue e nello spirito di ogni circonciso. Per questo, anche gli Ebrei viventi in Italia, non uno escluso, sono Ebrei come tutti gli altri. 3. L’Ebraismo, pur essendo una nazione-religione a sé (il jehovismo), tendente secondo una sua fermissima millenaria missione ad una sua propria costituzione statale indipendente (in ciò tutti gli Ebrei sono sionisti, anche quelli che dicono di non esserlo), per la sua messianica presunzione di considerarsi il «popolo eletto», destinato a conquistare tutti i popoli e tutte le religioni, è essenzialmente internazionalista e intimamente antinazionale, con un programma politico-sociale spiccatamente comunista. 4. L’Ebraismo – sia come religione negante il messaggio evangelico dell’Uomo-Dio, sia come concezione politica e sociale – è la quintessenza dell’anti-cristianesimo e dell’anti-cattolicesimo. 5. Il Sionismo attuale – quale realizzazione di uno Stato ebraico in Palestina sotto l’egida dell’Inghilterra – è lampante e indiscutibile anti-italianità, non solo, ma anche sentinella avanzata del bolscevismo sulla sponda orientale del Mediterraneo: quindi grave minaccia per la civiltà cattolico-europea e inimicizia costituzionale per il Fascismo. E poiché il 54

Sionismo è essenzialmente religione, il suo pericolo e le sue minacce sono ancora più manifesti. (Però è grave errore quello di credere che tutto il problema ebraico debba essere riguardato e sciolto nei soli aspetti del Sionismo, considerando ingenuamente gli Ebrei che amano mascherarsi di anti-sionisti come esseri innocui, cioè privi del loro congenito carattere ebraico).

Seguendo la falsariga dell’autore la questione ebraica rischiava di apparire senza soluzione; in particolare, duro era l’attacco dell’autore a tutti i modi di approccio alla questione da parte del cattolicesimo, che si scontravano con la realtà ineludibile della natura razzista degli ebrei; tutto il testo non era altro che una dura filippica contro le ingenuità o le illusioni dei cattolici filoebrei rispetto ai quali Sottochiesa si ergeva a denunciatore dell’infiltrazione ebraica all’interno dello stesso cattolicesimo e a campione dell’ortodossia rispetto alle deviazioni filogiudaiche del cattolicesimo. Collaboratore di vecchia data del «Tevere» e di «Quadrivio», Sottochiesa non forniva alcuna soluzione del problema ma escludendo tutte le soluzioni proposte (la repressione violenta, l’assimilazione, la conversione) giungeva alla conclusione interlocutoria che l’avvio alla vera soluzione consisteva nell’aver preso chiara consapevolezza della sostanza del problema secondo i punti fermi sopra riferiti. E non meraviglierà, sulla base di queste premesse, ritrovare pochi mesi dopo il medesimo autore tra i collaboratori della «Difesa della razza», e come era prevedibile tra le sue voci più estremistiche. Abbiamo segnalato le produzioni pubblicistiche più rappresentative che, prima ancora della ufficializzazione della campagna contro gli ebrei, contribuirono a diffondere il pregiudizio razzista e ad anticipare, ne fossero o no consapevoli gli autori o i responsabili di singole testate giornalistiche, il clima in cui anche per iniziativa diretta del Ministero della Cultura popolare (come ormai si chiamava l’organismo deputato al controllo centralizzato della carta stampata sotto qualsiasi forma) si sarebbe sistematizzato il fuoco concentrico della propaganda sul problema della razza. Come già abbiamo anticipato nel capitolo precedente, sull’onda della conquista dell’impero il trionfalismo razzistico che mise alla berlina l’immagine degli africani, deturpandone e irridendone le fattezze per dare l’evidenza fisica della loro inferiorità, fu un tramite formidabile per inoculare in un pubblico generico, benpensante, non particolarmente colto né 55

sofisticato, animato da senso d’ordine e da spirito di sudditanza al potere politico e ai modelli di una lealtà indiscussa agli stereotipi della tradizione cattolica, l’assorbimento del discorso razzista come naturale prodotto della nuova presenza coloniale dell’Italia. E in questa cornice l’immagine deformata del negro si sovrapponeva facilmente ai caratteri fisici deformati dell’ebreo proveniente da una vecchia tradizione iconografica di una stampa apparentemente minore. Come fu mostrato nel 1994 alla già citata mostra bolognese La menzogna della razza, dalla quale ha tratto origine una nuova stagione di studi sul razzismo italiano, il regime colse in pieno l’opportunità di convogliare verso gli obiettivi razzistici e l’aggressione agli ebrei le diffuse testate della stampa satirico-umoristica. Ne apprezzò evidentemente le possibilità di penetrazione verso un pubblico popolare che si nutriva di satire e bozzetti di costume e di quotidianità in cui attraverso la barzelletta – sfruttando quindi un linguaggio che spesso ben si può definire subliminale – senza alcuna drammatizzazione anzi con la bonarietà del sorriso si trasmettevano messaggi per nulla bonari e tranquillizzanti, talvolta addirittura truci. Le possibilità grafiche, tipiche di questo genere di stampa popolare, offrivano l’occasione di esasperare i tratti fisici dell’ebreo, per marcarne la diversità ma soprattutto per esprimere in maniera concentrata su un determinato dettaglio rappresentato in forma deturpata o abnorme l’indecenza morale oltre che fisica dell’individuo così stigmatizzato. Attraverso questo tipo di stampa furono pertanto veicolate immagini repellenti che nel caso degli africani erano evidenziate già dal colore stesso della pelle (l’evidenza del nero era già di per sé un fattore che doveva mettere sull’avviso il lettore), mentre nel caso dell’ebreo l’attenzione era catturata generalmente dalla sottolineatura delle fattezze del naso. La rappresentazione del diverso attraverso la creazione o l’attivazione di meccanismi psicologici assolutamente banali doveva indurre il lettore a provare repulsione e scherno per il soggetto rappresentato e a interiorizzare le linee guida del discorso razzista. Al di là quindi della grande stampa, che sarebbe scesa in campo in maniera organica a fiancheggiamento delle tappe della costituzione attraverso la legislazione dell’antisemitismo di Stato, la diffusione di un razzismo più spicciolo, più becero e banale insieme, contribuì ad abbattere resistenze di educazione e di costume e ad aprire la strada all’accettazione anche tacita delle discriminazioni razziali. Un 56

terreno appena sfiorato ancora dalle ricerche che stentano ad accettare la realtà che fogli che hanno inciso sul costume degli italiani, come «L’Italiano» di Longanesi, o «Il Selvaggio» di Maccari, non sono stati innocui protagonisti di stravaganze provinciali ma anche compartecipi dispensatori di veleno razzista, per non dire del «Giornalissimo» di Interlandi che va collocato tra i battistrada veri e propri del razzismo fascista specificamente antisemita. Su un terreno meno culturalizzato «Il travaso delle idee», il «Marc’Aurelio», «Il Bertoldo», per citare i più noti, vanno ricordati nella vasta galassia che popolò il sottobosco della stampa fascista contribuendo alla diffusione del verbo razzista.

4.

La campagna contro gli ebrei Seconda fase: dal censimento alle leggi razziste

Il censimento degli ebrei del 22 agosto 1938, come si evince dal contesto un atto prettamente politico e non certo un provvedimento di carattere amministrativo, se poté apparire verso l’esterno un fulmine a ciel sereno, interveniva in realtà in una situazione in cui si profilava chiaramente la volontà del regime di assumere una iniziativa di rilievo sulla questione ebraica. La campagna di stampa del 1937 non si esauriva in una operazione meramente propagandistica, anche se probabilmente non era ancora chiaro allo stesso Mussolini quale potesse essere lo sbocco operativo dell’operazione. Quando il 16 febbraio 1938 la stampa di regime pubblicò la nota della «Informazione diplomatica» n. 14, contenente la prima esplicita pubblica presa di posizione di Mussolini sulla questione, il regime rivelò anche tutta la sua ambivalenza e la sua contraddittorietà. A rileggere oggi questo documento risulta difficilmente comprensibile quale gioco esso si ripromettesse negando e affermando nello stesso tempo la volontà di inaugurare una politica nuova nei confronti degli ebrei. Abbiamo già accennato al contesto soprattutto internazionale che accompagnò la svolta in Italia; abbiamo sempre sostenuto, contrariamente a quanto generalmente si scrive, che l’inaugurazione della politica antiebraica in Italia non derivò da alcuna pressione tedesca, essa fu una decisione autonoma del regime fascista nel tentativo di rivitalizzare il regime all’interno, approfittando di una congiuntura internazionale che ne agevolava le mosse. Non furono pressioni tedesche a spingere Mussolini a lanciare la 58

sua crociata antiebraica, ma certamente egli fu condizionato dal montare di una situazione di generalizzata persecuzione che al di là della Germania, dove dopo le leggi di Norimberga del 1935 il processo di segregazione civile e di emarginazione degli ebrei aveva vissuto una accelerazione e una radicalità sconosciuta da altri paesi, coinvolgeva non solo l’Austria, destinata di lì a poco a fornire nuovo campo di espansione al razzismo nazista, ma anche la Romania, la Polonia e, da data ancora anteriore, l’Ungheria. L’Italia fascista voleva dimostrare di non essere seconda a nessuno e l’invenzione dell’ebreo come nemico fornì l’occasione per additare il nemico interno e offrire un bersaglio alle componenti più estremistiche del fascismo, strette nelle contraddizioni del neonato impero che non aveva risolto nessuno dei problemi che affliggevano la società italiana, nella quale aveva inserito anzi gli stimoli alla contaminazione razziale provocando lo spettro del meticciato. La campagna contro gli ebrei serviva al regime anche per uscire dal vicolo cieco nel quale l’Italia si era cacciata con l’impresa africana, nella quale il successo militare era largamente controbilanciato dall’isolamento internazionale con l’unica via di salvezza verso la Germania nazista. Mai come adesso l’aspra polemica contro la democrazia poteva coprirsi con le parole d’ordine antisemite: Francia, Inghilterra e Stati Uniti d’America venivano identificati come gli agenti del complotto giudaico internazionale destinato a soffocare i popoli giovani, l’Italia fascista cui più tardi sarà associata la Germania nazista. Non a caso era stato rispolverato il vecchio falso dei «Protocolli» dei «Savi Anziani» di Sion, ristampato, come abbiamo già visto, nel 1937 da Giovanni Preziosi con la prefazione di Julius Evola. Che cosa si affermava nell’«Informazione diplomatica» n. 14? In primo luogo veniva smentito che in qualche modo il governo fascista fosse in procinto di varare «una politica antisemita» prendendo misure conformi in tutti i campi; questo tuttavia non significava che esso si disinteressava degli ebrei perché anzi confermava di volere «vigilare sull’attività degli ebrei venuti di recente nel nostro paese e di far sì che la parte degli ebrei nella vita complessiva della Nazione non risulti sproporzionata ai meriti intrinseci dei singoli e all’importanza numerica della loro comunità». Se una direttiva sembrava di poter dedurre dal testo citato era l’attenzione a che nella presenza pubblica degli ebrei non venisse superata una soglia pari al rapporto proporzionale esistente tra di essi e la popolazione italiana nel suo 59

complesso. Smentendo ovviamente il diniego di voler assumere provvedimenti contro gli ebrei si poteva dedurre che intenzione del regime fosse, come era già avvenuto in altre situazioni europee citate, di affermare una linea basata sull’ipotesi proporzionalistica, che avrebbe comunque rappresentato una forma grave di limitazione dei diritti degli ebrei. In realtà, non si trattava soltanto degli ebrei di recente insediamento in Italia: si trattava di dare una visibilità agli ebrei italiani per poterne affermare l’estraneità alla razza e quindi operarne la separazione, la segregazione. Al di là di ogni tentativo di mascherare i connotati dell’estraneità degli ebrei sotto altre fumose categorie, il razzismo fascista rivelava ben presto il suo carattere razzistico-biologistico. Il governo fascista nei suoi tentennanti approcci alla questione ebraica procedette lungo un doppio binario: da una parte preparava concreti provvedimenti amministrativi e normativi per la loro separazione, dall’altra mobilitava la propaganda per la preparazione di un qualche testo capace di dare un fondamento teorico al nuovo razzismo. Se Bottai come ministro dell’Educazione nazionale fu il più solerte ad anticipare la separazione tra ebrei e non ebrei – già il 12 febbraio 1938 chiese alle università di censire gli ebrei stranieri e quelli italiani nei corpi studenteschi e in quelli docenti – il 13 luglio il cosiddetto Manifesto della razza, alla cui stesura non fu estraneo lo stesso Mussolini come è opinione pressoché concorde di tutti gli esegeti, codificò per la prima volta il nucleo forte di una teoria della razza italiana. Questo testo, che fu presentato come Manifesto degli scienziati razzisti e che recò la firma di «un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle Università italiane», era stato predisposto «sotto l’egida del Ministero della Cultura popolare», si presentava come decalogo destinato a stabilire i fondamenti storico-antropologici di un dispositivo normativo, prescindendo da ogni rigorosa impostazione scientifica e piegando lo stesso sviluppo storico della popolazione italiana (e meglio sarebbe dire delle popolazioni italiane) ad una profonda manipolazione pur di consentire la rappresentazione di un percorso lineare tale da permettere che si potessero tracciare le conclusioni categoriche che venivano prospettate. Premesso che «le razze umane esistono» (n. 1), che «il concetto di razza è concetto puramente biologico» (n. 3), il Manifesto si avventurava in una temeraria disquisizione sull’origine ariana della po60

polazione italiana per pervenire all’affermazione dell’esistenza di una «razza italiana» pura: 4. La popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana e la sua civiltà è ariana. Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola: ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L’origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell’Europa. 5. È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. Dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l’Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i quarantaquattro milioni d’Italiani di oggi rimontano quindi nell’assoluta maggioranza a famiglie che abitano l’Italia da un millennio. 6. Esiste ormai una pura «razza italiana». Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione, ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.

Quasi che non fosse bastata l’affermazione del principio razzista, il Manifesto ne voleva addirittura retrodatare l’adozione come se fosse stato iscritto nei principi del fascismo da sempre proprio nella sua accezione biologica, che complicava anche il tentativo di differenziare il razzismo italiano da quello tedesco: 7. È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano-nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Ita61

lia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stesa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra-europee, questo vuol dire elevare l’Italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità.

Dovendosi considerare «pericolose le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche» (n. 8), al contrario si affermava che 9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani.

In coerenza con il carattere di specificità della razza italiana e con i suoi connotati europei bisognava impedire la contaminazione con qualsiasi razza fuori dall’ambito europeo: «Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani» (n. 10). Nella documentazione ufficiale fascista non vi è altro testo che si sia così fortemente esposto sul terreno dell’affermazione biologistica del problema razziale. Neppure la Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del fascismo del 6 ottobre 1938, cui spettò la prefigurazione dei provvedimenti che il governo si accingeva a decretare per porre al bando gli ebrei sotto il profilo normativo, si sarebbe spinta a tanto, continuando a privilegiare una motivazione prettamente politica, ossia il coinvolgimento dell’ebraismo mondiale nell’antifascismo, quasi che le leggi antiebraiche dovessero rappresentare una forma di ritorsione contro l’impegno antifascista degli ebrei. Anche una simile impostazione era storicamente mal posta, perché non si poteva identificare l’ebraismo, né quello italiano né quello internazionale, con l’antifascismo tout court; essa però poteva essere più plausibile 62

agli occhi dell’italiano medio cresciuto nel clima fascista. Al di là quindi di ogni insufficienza sul terreno della costruzione del paradigma scientifico, che veniva del resto smentito dalla facilità con la quale il potere politico si arrogava il diritto di operare discriminazioni ed eccezioni a seconda delle opportunità politiche, la motivazione politica della lotta contro gli ebrei implicava una elasticità e una flessibilità nell’applicazione del principio che sconfinava nell’esercizio puro e semplice dell’arbitrio. Ne risultava pertanto ulteriormente esaltato l’elemento della strumentalità che presiedette all’intera campagna della razza, soprattutto via via che, procedendo l’avvicinamento alla Germania nazista, il processo di galvanizzazione e di rivitalizzazione all’interno dello spirito fascista, della costruzione come si volle dire dell’«uomo nuovo» e della nuova sferzata nei confronti della borghesia italiana, si rivelava funzionale alla preparazione psicologica della guerra. Come spesso accade nella storia, la creazione del nemico interno era uno degli ingredienti necessari per alzare il livello della tensione all’interno e per mantenerla in uno stato costante di allerta. A conferma che la svolta razzista del regime non era un fatto superficiale bisogna ricordare che neppure l’apparato dello Stato fu immune, né poteva esserlo, da un pesante coinvolgimento nel processo di «arianizzazione» in atto. L’apparato istituzionale, che già aveva costituito l’ossatura delle strutture repressive del regime, si dotò di nuove articolazioni destinate all’ampliamento delle funzioni persecutorie dello Stato. Andando ben oltre i compiti di controllo demografico e di tutela della stirpe, tipico portato dalla tradizione nazionalista del fascismo, il Ministero dell’Interno creò quella che si può definire la centrale operativa ed anche il cervello politico destinato a studiare e ad attuare i provvedimenti razzisti. Il 17 luglio 1938 l’Ufficio centrale demografico del Ministero dell’Interno cambiava nome e competenze diventando la nuova Direzione generale per la demografia e la razza (nota agli esperti come Demorazza), dotata di un più largo spettro di competenze e di un raggio operativo molto maggiore, in relazione appunto all’ampliamento dell’oggetto della sua attività, una sorta di sezione specializzata del Ministero dell’Interno che presiedette soprattutto all’elaborazione legislativa dei provvedimenti in gestazione, sotto la guida di un antropologo razzista, Guido Landra, e sotto la supervisione del sottosegretario agli Interni Guido Buffarini Guidi, che sarà anche uno dei principali elementi di raccordo e di continuità della legislazione con63

tro gli ebrei all’epoca della Repubblica sociale italiana. Un secondo spezzone dell’articolazione istituzionale che fu specificamente preposto allo studio della questione razziale fu l’Ufficio studi del problema della razza, creato nell’agosto presso il gabinetto del ministro della Cultura popolare, alle dipendenze del ministro Dino Alfieri. Questa seconda struttura, sebbene non avesse compiti immediatamente operativi, ma dovesse muoversi essenzialmente nel campo degli studi e della propaganda, negli anni immediatamente successivi si sviluppò attraverso una rete di strutture dipendenti, i Centri per lo studio del problema ebraico, che soprattutto negli anni della guerra svolsero (principalmente a Firenze, a Trieste, a Milano), un ruolo non secondario di strumento di pressione in direzione dell’inasprimento della propaganda e della campagna contro gli ebrei. L’investimento propagandistico nella campagna razziale fu una componente di primo piano dell’intera operazione, come del resto abbiamo già visto dalle prime anticipazioni citate nel capitolo precedente. Al di là di quella che fu la capillarità della campagna diffusa attraverso la stampa quotidiana, di carattere nazionale come di quella periferica, il regime varò anche una serie di organi specializzati nella specifica caccia agli ebrei. Al di là delle testate tradizionali («Vita italiana», «Giornalissimo») l’organo più diffuso fu certamente il quindicinale «La difesa della razza», il cui primo numero uscì il 5 agosto del 1938, sotto la direzione di Telesio Interlandi, segretario di redazione Giorgio Almirante. Il carattere ufficioso di questa pubblicazione, cui collaborarono molti autori della stampa fascista e i più noti scrittori antisemiti, fu sottolineato dallo stesso ministro dell’Educazione nazionale Bottai, che ne raccomandò con apposita circolare la diffusione in ogni ordine di scuole, dalle elementari all’università e che convalidò per questa via il carattere capillare che si intendeva dare alla diffusione delle parole d’ordine e dei miti razzisti usando proprio i canali delle istituzioni scolastiche e degli entusiasmi giovanili. Del resto, gli studi più recenti stanno mettendo in evidenza l’importanza che nella campagna per la razza fu attribuita alle organizzazioni giovanili del Partito fascista, allo scopo di alimentare una leva della popolazione interamente imbevuta del nuovo credo razzista. A questo primo organo di stampa fecero seguito «Il diritto razzista», il cui primo numero apparve nel maggio-giugno del 1939, diretto da Stefano Maria Cutelli, che prestava sin dal sottotitolo («Ri64

vista italo-germanica del diritto razziale») particolare attenzione alla collaborazione con la parte tedesca; e, dal marzo del 1940, «Razza e civiltà», che si distinse dai precedenti per il suo carattere ufficiale. Pubblicata infatti dal Ministero dell’Interno, era la «Rivista mensile del Consiglio superiore e della Direzione generale per la demografia e la razza» e ne era direttore il responsabile di quella Direzione generale Antonio Le Pera. Organo di consultazione ufficiale, registrava anche le novità nel campo dell’attuazione della legislazione dando conto degli orientamenti della magistratura. Abbiamo accennato alla strumentazione propagandistica di cui si attrezzò il regime per significare come lo Stato totalitario cercasse di fare introiettare l’ideologia razzista parallelamente alla concreta emanazione e attuazione delle misure contro gli ebrei. La prima di queste, al di là dell’apparenza innocua, fu l’attuazione del censimento degli ebrei effettuato a partire dal 22 agosto 1938 allo scopo di contare (ma di fatto soprattutto di schedare) il numero degli ebrei che si trovavano in Italia, come presupposto per l’emanazione di una speciale normativa. Il censimento fu preannunciato sin dal 5 agosto; suo scopo non era una astratta operazione conoscitiva, ma come è stato scritto, «gli ebrei d’Italia vennero accuratamente individuati, contati, schedati» (Sarfatti). Non quindi una operazione politico-amministrativa neutrale, ma una operazione destinata a precostituire il campo di intervento e i soggetti nei cui confronti avrebbe dovuto scattare il provvedimento persecutorio. Nascondere il carattere politico dell’iniziativa era pressoché impossibile, data l’eccezionalità della categoria che veniva chiamata in causa, non essendo previsto il coinvolgimento di alcun altro gruppo di cittadini. Ciò che il sottosegretario Buffarini Guidi aveva confidato in via riservata ai prefetti, essere cioè l’operazione «eminentemente politica», non poteva non apparire anche nei confronti del pubblico. È vero che nell’amministrazione si cercò di fare passare inosservato il complesso delle operazioni che comportava l’atto censuario, ma in pubblico non se ne potevano evitare forme di notorietà anche banali, perché rozzi e banali furono anche i mezzi di accertamento, come il mandare vigili urbani o carabinieri a interrogare portinai o custodi di abitazioni circa la residenza di ebrei, sulla base di elementi del tutto approssimativi – i più frequenti l’assonanza di cognomi ebraici – che provocarono molte irate reazioni da parte dei soggetti presi di mira, che protestavano la loro estraneità 65

all’ebraismo. L’avere demandato, come del resto era normale, le operazioni del censimento ai comuni coinvolse un notevole numero di dipendenti comunali, che si videro stretti al regime da una sorta di complicità; questo fu uno tra i non ultimi risultati anche psicologici del censimento, che ebbe tra i suoi effetti anche quello di preparare la popolazione alla segregazione e all’isolamento degli ebrei dal resto della società. Date le intenzioni proporzionalistiche del regime, il censimento apparentemente avrebbe potuto avere lo scopo di effettuare la registrazione più precisa possibile degli ebrei residenti in Italia; d’altra parte, la campagna scandalistica che era già stata sollevata intorno alla presenza degli ebrei può suggerire che con i dati del censimento si volesse mettere la popolazione italiana dinanzi a un risultato che dimostrasse inconfutabilmente la presenza di un numero rilevante di ebrei, sì da creare consenso intorno a norme discriminatorie attraverso l’enfatizzazione di un pericolo che in passato non era stato avvertito. Poiché gli ebrei non erano sfuggiti all’ultimo censimento della popolazione del 1931, ci si doveva rendere ragione perché mai fosse necessario un ulteriore e separato censimento. Due circostanze oggettive potevano renderlo plausibile: da una parte la presenza di molti ebrei stranieri entrati in Italia dopo il 1933, ossia dopo l’avvento del nazismo, che aveva reso il nostro paese destinazione di transito o addirittura di residenza per gli ebrei che erano costretti a lasciare la Germania (paradossalmente, nel 1938, proprio l’anno delle restrizioni razziali in Italia, decine di migliaia di ebrei erano stati costretti a espatriare anche dall’Austria, a seguito dell’Anschluss); dall’altra, il fatto che il censimento del 1931 registrava gli ebrei in quanto appartenenti a una confessione diversa da quella cattolica, non ne implicava la registrazione sotto altri profili (quello per l’appunto «razziale») che interessavano ora nella prospettiva della legislazione in gestazione. La cifra di 47.825 ebrei registrata nel censimento della popolazione italiana del 1931 era stata presumibilmente alterata da movimenti successivi; l’incertezza dei dati e ancor più di talune stime rendeva plausibile che si volesse procedere ad un ulteriore accertamento, anche se a questo punto era chiaro che questo non si sarebbe risolto unicamente in una constatazione di carattere statistico. Erano le circostanze stesse in cui doveva svolgersi il censimento che rischiavano di rendere poco attendibili i dati, poiché era 66

prevedibile che nell’imminenza del varo di misure tendenti a limitare i diritti degli ebrei, che erano nell’aria, non tutti gli ebrei che si trovavano in Italia, soprattutto quelli stranieri, avrebbero risposto all’invito ad autodichiarare la loro presenza. Gli elenchi degli iscritti alle singole comunità ebraiche di cui il Ministero dell’Interno entrò in possesso non rispecchiavano che parzialmente i dati richiesti, poiché non tutti gli ebrei, segnatamente quelli stranieri e soprattutto tra questi ultimi quelli di più recente immigrazione, erano iscritti alle comunità. Un esempio di come fosse complesso l’accertamento dei dati, di come questi ultimi derivassero da fonti diverse, sì da ingenerare notevoli confusioni, fu soprattutto la proliferazione di elenchi di ebrei che nasceva vuoi dall’applicazione talora di criteri difformi nella loro registrazione, vuoi dall’emulazione che si era creata nella pluralità di organismi preposti alla rilevazione degli ebrei, con dimostrazioni di eccessi di zelo ed esibizioni conformistiche da parte dei diversi settori dell’amministrazione o addirittura delle federazioni fasciste, come confermato da tutti gli studiosi che hanno affrontato la tematica del censimento (in particolare F. Levi per Torino, S. Bon per Trieste e F. Cavarocchi per Firenze, ai cui studi si rinvia in Bibliografia). Due caratteristiche ancora sono da segnalare a proposito di questo censimento: l’estensione dell’appartenenza ebraica al di là dei consueti dati censuari in modo da ricostruire genealogie e gruppi familiari ben al di fuori di regole comunitarie o di gruppo; la segnalazione di appartenenza al PNF e di benemerenze patriottiche, che indicano come, al di là del mero dato statistico-conoscitivo, con la raccolta dei dati si volevano prefigurare le condizioni di attuazione della legislazione in gestazione, vale a dire la strumentalizzazione immediata delle notizie così acquisite. Nel complesso, il numero degli ebrei che si trovavano a risiedere nel territorio del Regno d’Italia all’atto del censimento risultava essere, secondo il risultato definitivo reso noto alla fine di ottobre del 1938, di 58.412 unità, delle quali 48.032 italiani e 10.380 stranieri residenti in Italia da oltre sei mesi, senza entrare nel dettaglio della laboriosa enucleazione di categorie e sottocategorie, confermando comunque che «in sostanza negli anni Trenta gli ebrei d’Italia costituivano poco meno dell’1,1 per mille della popolazione complessiva residente nel paese» (Sarfatti). 67

Nella graduatoria delle località a maggiore presenza ebraica sul complesso del totale della popolazione, venivano nell’ordine Roma (12.799), Milano (10.219), Trieste (6.085), Torino (4.060), Livorno (2.332), Firenze (2.326), Genova (2.263), Venezia (2.189), e così via in ordine decrescente; mentre nel rapporto con la popolazione locale la graduatoria vedeva una diversa scala gerarchica: in testa Trieste (con 25 per mille di popolazione ebraica), seguita da Livorno (18 per mille), da Roma (11 per mille), da Milano (9 per mille), da Venezia (8 per mille), da Firenze (7 per mille), da Torino (6 per mille), da Genova (3 per mille). Ancora nel mese di agosto il regime aveva confermato l’intenzione di procedere all’introduzione di misure per ridimensionare la presenza degli ebrei nelle attività pubbliche in Italia: apparentemente si tornava a riproporre il criterio proporzionalistico e addirittura a fissare la proporzione nell’un per mille, secondo quanto veniva reso pubblico con la «Informazione diplomatica» n. 18 diffusa il 5 agosto. Un testo la cui importanza è generalmente rapportata ad una affermazione-chiave – «discriminare non significa perseguitare» – sicuramente attribuibile a Mussolini in persona, che a mio avviso non riflette tanto l’orientamento programmatico che ormai si voleva dare alle norme speciali per gli ebrei in arrivo quanto la preoccupazione di tranquillizzare gli ambienti ebraici e soprattutto l’opinione pubblica internazionale. Come la lesione dei diritti degli ebrei potesse fuoriuscire da una forma di persecuzione, per tenue che potesse essere, non era in alcun modo possibile intuire; una interpretazione benevola delle parole di Mussolini le potrebbe fare ricondurre alla persistente incertezza di orientamenti che ancora regnava sulle modalità da seguire e che certo non sarebbe stata sciolta dall’esito definitivo del censimento di imminente attuazione, che non avrebbe recato novità sensazionali a proposito della dimensione quantitativa del problema ebraico in rapporto all’Italia. Il programma di misure che il governo intendeva varare sarebbe stato esposto nella già ricordata Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del fascismo, resa nota il 6 ottobre 1938, che avrebbe fatto giustizia, fra l’altro, di ogni congettura sull’ipotesi proporzionalistica. Ma prima ancora di questa data, prima ancora cioè che si intravedesse la prospettiva di un organico insieme di misure di politica razzista, una anticipazione quasi improvvisa ne fu fornita all’inizio di settembre da due provvedimenti di natura diversa ma conver68

genti nella direzione di marcia. Un Regio decreto-legge del 5 settembre 1938 (n. 1390) intitolato Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista, con la firma del ministro Bottai, e il Regio decreto-legge del 7 settembre (n. 1381) relativo a Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri. Il secondo dei decreti-legge stabiliva in primo luogo il «divieto agli stranieri ebrei di fissare stabile dimora nel regno, in Libia e nei Possedimenti dell’Egeo»; in secondo luogo la revoca della cittadinanza italiana concessa a «stranieri ebrei posteriormente al 1° gennaio 1919»; in terzo luogo l’obbligo per gli stranieri ebrei che alla pubblicazione del decreto si trovassero nel regno, in Libia o nei Possedimenti dell’Egeo o che vi fossero insediati posteriormente al 1° gennaio 1919 di abbandonare questi territori entro sei mesi, dopo i quali se non avessero ottemperato all’obbligo previsto sarebbero stati espulsi. Come si vede, un provvedimento drastico destinato a incidere non soltanto sui rifugiati ebrei in data recente, profughi dalla Germania nazista o da altri paesi dell’Europa centro-orientale, ma anche su quanti risiedevano ormai in Italia da due buoni decenni. Un provvedimento che annullava di colpo una tradizione di liberalità e di asilo politico che si era sviluppata parallelamente al processo di emancipazione degli ebrei italiani. Se per gli ebrei italiani si prospettava un futuro di separazione civile, per gli stranieri che avevano cercato in Italia un soggiorno di transito o ancor più una seconda patria, l’espulsione rappresentava la fine di molte speranze, l’abbandono di una relativa sicurezza e talvolta della ricostruzione di una esistenza personale o professionale. L’illusione che per breve tempo potevano avere nutrito di contare sul territorio italiano se non altro come tappa di transito trasformò il loro soggiorno nel «rifugio precario» che è stato ricostruito nell’ampio studio omonimo di Klaus Voigt, che con il passare degli anni rischiò di trasformarsi sempre più in una vera e propria trappola. Oggi non si può non leggere con un senso di raccapriccio nel Philo-Atlas del 1938, il «manuale per l’emigrazione ebraica» predisposto dagli ebrei tedeschi nelle strette del nazismo per informare i correligionari della possibilità di espatriare, una rapidissima notazione relativa all’Italia in cui si dice lapidariamente che dopo la legislazione del 1938 l’Italia non offriva più alcuna possibilità di espatriarvi... Ancora più significativo, il decreto-legge Bottai sulla scuola stabiliva l’esclusione con effetto immediato dall’insegnamento nelle 69

scuole statali o parastatali, in ogni ordine e grado, di «persone di razza ebraica»; il divieto di iscrizione alle stesse scuole di alunni di razza ebraica. Al divieto quindi di iscrizione degli ebrei alla scuola pubblica faceva riscontro l’espulsione in massa degli insegnanti ebrei nella loro totalità, infrangendo peraltro, con gesto nel complesso chiarificatore, ogni illusione proporzionalistica. Contestualmente era proclamata la decadenza dei membri ebraici dalle Accademie e dagli istituti di cultura. A fine settembre un ulteriore decreto-legge (23 settembre n. 1630) stabiliva la creazione nelle scuole elementari statali di sezioni speciali per gli alunni ebrei e la facoltà delle comunità ebraiche di istituire proprie scuole elementari. Il fatto che i provvedimenti per la scuola abbiano preceduto ogni altra misura, al di là della separatezza che veniva a creare nei confronti della componente ebraica della società, non può non porre all’interprete qualche punto interrogativo. Perché la serie delle misure antiebraiche fu aperta proprio da quelle relative alla scuola? È stato detto talvolta che ciò fu dovuto ad esigenze pratiche, perché bisognava raccordarsi con l’apertura dell’anno scolastico. Personalmente ritengo che la scelta dei tempi rispondesse a tutt’altro criterio, obbedisse cioè a una logica molto più interna alla dinamica del regime. Incidere sulla scuola significava incidere su un settore istituzionale di carattere e di rilevanza strategica. Una simile decisione voleva indicare il ruolo prioritario che il regime attribuiva alla scuola come istituzione portante della trasformazione politico-culturale di cui la campagna per la razza era parte integrante. Cominciare dalla scuola – e ciò spiega quello che spesso viene definito semplicisticamente lo zelo del fascista Bottai – voleva dire porre in primo piano l’immagine e la missione dell’uomo fascista, che era stato sempre l’obiettivo di un processo globale di rigenerazione dal punto di vista della società italiana, voleva dire puntare sulla mobilitazione di quei settori della società, in primo luogo i giovani, che si presumeva, e non sempre a torto, fossero maggiormente sensibili alle istanze volontaristiche e alle spinte giovanilistiche che il regime intendeva alimentare. Al di là del tentativo di umiliare una categoria di cittadini appartenente a una minoranza che nelle sue tradizioni culturali aveva la spiccata tendenza a collocarsi al di sopra della media di istruzione della generalità della popolazione italiana, l’intervento sulla scuola va visto come il tentativo di coinvolgere un settore chiave della società in un processo di mobi70

litazione e di trasformazione di lunga durata, nonché di grande risonanza politica ed anche emotiva. La scelta della scuola significava quindi la possibilità di utilizzare anche per la circolazione del verbo razzista una struttura di capillare diffusione, che penetrava in ogni angolo del paese. E come i documenti anagrafici dovevano recare la stigmata, il segno «di razza ebraica», altrettanto le pagelle scolastiche dovevano recare l’indicazione «di razza ebraica». I testi scolastici furono resi conformi alla svolta razzista e la difesa della razza entrò a formare parte integrante del Primo e soprattutto del Secondo libro del fascista, che circolavano in tutte le scuole sin dalle prime classi della scuola elementare, insieme alle riviste che propagandavano le colonie e le glorie militari del regime. Il decreto-legge sulla scuola fu l’anticipazione di una più organica normativa che sarebbe stata emanata a partire dal novembre successivo. Ma già all’inizio di ottobre la Dichiarazione sulla razza che il Gran Consiglio del fascismo rese nota al termine delle sue riunioni del 6 e 7 ottobre prefigurò il quadro organico degli interventi di imminente emanazione. Senza riprendere le pseudoteorie del Manifesto della razza, la dichiarazione del Gran Consiglio, premesso che «il problema ebraico non è che l’aspetto metropolitano di un problema di carattere generale», inquadrandolo così nel più generale problema del razzismo con allusione precisa all’impero e alle colonie, stabiliva il seguente complesso di orientamenti e di provvedimenti: 1) divieto di matrimonio tra italiane e italiani e appartenenti a razze non ariane; 2) l’espulsione degli ebrei dal Partito nazionale fascista (che sarebbe stata resa effettiva il successivo 19 novembre); 3) il divieto per gli ebrei di «essere possessori o dirigenti di aziende di qualsiasi natura che impieghino cento o più persone» o «essere possessori di oltre cinquanta ettari di terreno»; 4) il divieto di prestare servizio militare; 5) l’allontanamento dagli impieghi pubblici; 6) speciale regolamentazione per l’accesso alle professioni. Come si vede si veniva a creare per gli ebrei uno status che li privava dei diritti politici e che ne limitava fortemente i diritti civili: da qui alla revoca di fatto e di diritto dell’emancipazione il passo era molto breve. Per la prima volta il Gran Consiglio del fascismo cercava di ri71

spondere al quesito: chi è ebreo? Nell’accezione del legislatore fascista: a) è di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei; b) è considerato di razza ebraica colui che nasce da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera; c) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica; d) non è considerato di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto, qualora professi altra religione all’infuori della ebraica, alla data del 1 ottobre XVI (1938).

Dalle sanzioni che colpivano gli ebrei venivano esonerate una serie di categorie di ebrei di cittadinanza italiana che si fossero resi benemeriti per cause patriottiche e per particolare devozione fascista: 1. famiglie di caduti nelle quattro guerre sostenute dall’Italia in questo secolo: libica, mondiale, etiopica, spagnola; 2. famiglie dei volontari di guerra nelle guerre predette; 3. famiglie di combattenti nelle guerre citate insigniti della Croce al merito di guerra; 4. famiglie dei Caduti per la Causa Fascista; 5. famiglie dei mutilati, invalidi, feriti della Causa Fascista; 6. famiglie di fascisti iscritti al Partito negli anni 1919-1922 e nel secondo semestre del 1924 e famiglie di legionari fiumani; 7. famiglie aventi eccezionali benemerenze da accertare da una apposita commissione.

Tra le altre disposizioni che facevano da corollario a questi principi vale la pena di ricordare il riconoscimento del diritto alla pensione per gli ebrei che fossero allontanati dai pubblici impieghi; l’autorizzazione alla creazione di scuole medie ebraiche, oltre alle scuole elementari di cui già il decreto-legge del 5 settembre sulla scuola aveva consentito la formazione; la conferma del «libero esercizio del culto e l’attività delle comunità ebraiche secondo le leggi vigenti»; l’eventualità «anche per deviare la immigrazione ebraica dalla Palestina» di «una controllata immigrazione di ebrei europei in qualche zona dell’Etiopia», eventualità che sarà ben presto revocata dal governo fascista. La Dichiarazione, a proposito dell’ultima eventualità prospettata, conteneva infatti una condizione che si può considerare anche 72

una chiave di lettura dell’intero documento: «Questa eventuale e le altre condizioni fatte agli ebrei – vi si affermava – potranno essere annullate o aggravate a seconda dell’atteggiamento che l’ebraismo assumerà nei riguardi dell’Italia fascista». Era un ricatto rivolto all’ebraismo italiano perché ribadisse la sua lealtà al regime fascista ma anche la riproposizione, quale motivazione politica (non razziale) dei provvedimenti contro gli ebrei, dell’essere stato «l’ebraismo mondiale […] l’animatore dell’antifascismo in tutti i campi» («Tutte le forze antifasciste fanno capo ad elementi ebrei: l’ebraismo mondiale è in Spagna, dalla parte dei bolscevichi di Barcellona»). Erano così poste le basi concrete, e non più soltanto propagandistiche, di quella che Mussolini stesso avrebbe definito nel discorso di Trieste del 18 settembre «una politica di separazione» nei confronti degli ebrei. Il 17 novembre 1938 il già citato Regio decretolegge n. 1728, recante il titolo Provvedimenti per la difesa della razza italiana, unificava in un primo corpo normativo i principi che erano stati anticipati nella Dichiarazione del Gran Consiglio, riprendendone talora alla lettera le formulazioni. Il capo I del RDL era dedicato alle norme matrimoniali, con le quali il regime invadeva pesantemente la sfera privata dei cittadini che veniva subordinata in maniera crescente al processo di omogeneizzazione della società in atto e in funzione della svolta sempre più apertamente totalitaria che era stata impressa al sistema politico dalla conquista dell’impero e dagli orientamenti che ne erano derivati anche sul terreno delle relazioni internazionali dell’Italia. In base al decreto, non solo era vietato il matrimonio tra il cittadino italiano di razza ariana e persona appartenente ad altra razza, ma anche il matrimonio tra cittadini italiani e persone di nazionalità (leggi: cittadinanza) straniera era soggetto a limitazioni, in quanto era subordinato «al preventivo consenso del Ministro per l’interno», quando non si trattasse di dipendenti delle amministrazioni pubbliche ad ogni livello per i quali il matrimonio con stranieri era semplicemente vietato. Il capo II, Degli appartenenti alla razza ebraica, riprendeva la definizione di appartenente alla razza ebraica già formulata nella Dichiarazione del Gran Consiglio con una serie di ulteriori specificazioni concernenti la riduzione della capacità giuridica per gli appartenenti alla razza ebraica: non solo non potevano prestare servizio militare, ma non potevano esercitare l’ufficio di curatori di minori o di incapaci non appartenenti alla razza ebraica, di essere proprieta73

ri o gestori di aziende interessanti la difesa nazionale o che impiegassero cento o più persone, essere proprietari di terreni con estimo superiore a cinquemila lire, essere proprietari di fabbricati urbani con imponibile superiore a ventimila lire; l’ebreo poteva essere «privato della patria potestà sui figli appartenenti a religione diversa da quella ebraica»; gli ebrei non potevano avere alle loro dipendenze domestici cittadini italiani di razza ariana. A loro volta essi non potevano prestare servizio alle dipendenze di nessuna amministrazione pubblica civile e militare (dello Stato, del PNF, di province e comuni, di enti parastatali, di banche di interesse nazionale, di istituti di assicurazione, ecc.). Il pacchetto dei provvedimenti di novembre comprendeva una serie di disposizioni di legge destinate a fare il punto di determinate situazioni o all’attuazione dei principi generali già sanciti in precedenza. Tra i più importanti fu certo il Regio decreto-legge del 15 novembre 1938 (n. 1779) Integrazione e coordinamento in unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella scuola italiana; la novità più rilevante era rappresentata dalla possibilità per coloro che fossero già stati iscritti negli anni passati all’università di continuare e concludere i propri studi universitari, ferma restando la proibizione per i cittadini di razza ebraica di procedere a nuove iscrizioni. Nelle settimane successive un apposito RDL 22 dicembre 1938 (n. 2111) regolava il «collocamento in congedo assoluto» (ossia il pensionamento) del personale militare delle Forze armate di razza ebraica. All’inizio del nuovo anno un nuovo Regio decreto-legge 9 febbraio 1939 n. 126 concerneva le norme d’attuazione dell’art. 10 del RDL 17 novembre 1938 n. 1728 relative ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini italiani di razza ebraica. Oltre a prevedere analiticamente le modalità per l’alienazione delle quote di patrimoni immobiliari eccedenti le quote consentite e per l’amministrazione delle aziende soggette ai limiti previsti dalla legge, il nuovo decreto-legge creava un apposito ente, l’Ente di gestione e liquidazione immobiliare (EGELI), per la gestione e la vendita dei beni facenti parte delle eccedenze immobiliari, mentre demandava ai Consigli provinciali delle Corporazioni la gestione dei vincoli relativi alla partecipazione di cittadini di razza ebraica ad aziende industriali e commerciali. Ancora il 21 novembre del 1938 un Regio Decreto a firma del re (n. 2154) stabiliva modifiche allo statuto del PNF, prescrivendo 74

l’inammissibilità dell’iscrizione al partito dei cittadini italiani «considerati di razza ebraica». Infine, riguardava direttamente la condizione giuridica degli ebrei, in quanto ne prevedeva la «arianizzazione», la legge 13 luglio 1939 n. 1024, che conferì al ministro dell’Interno la facoltà di dichiarare «la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze degli atti dello stato civile». Questa disposizione, che andava ben oltre l’esonero delle persone di riconosciuti meriti patriottici dai vincoli imposti ai cittadini di razza ebraica, in quanto prevedeva addirittura la possibilità di dichiarare la non appartenenza alla stessa, conferiva al ministro dell’Interno un enorme potere discrezionale al limite dell’arbitrio, che poteva e fu effettivamente usato strumentalmente in base a meri criteri di opportunità politica, al tempo stesso in cui aprì il varco a influenze esterne, a fenomeni di corruzione che permisero a chi poteva, disponendo di adeguati mezzi economici, di sottrarsi al trattamento che fu inflitto a chi non era in grado di sfuggire ai rigori della legge. A tale decisione fu preposta una commissione presieduta da un alto magistrato (Gaetano Azzariti, che sarebbe stato in seguito presidente della Corte costituzionale della Repubblica). A distanza di qualche mese l’ultimo atto della legislazione contro gli ebrei fu compiuto con l’emanazione della legge 29 giugno 1939 n. 1054 relativa alla Disciplina dell’esercizio delle professioni da parte dei cittadini di razza ebraica. L’esercizio delle professioni era soggetto a una serie di complicati distinguo. Il caso più chiaro era quello del divieto in assoluto di esercitare la professione di notaio e quella di giornalista (a quest’ultima potevano accedere soltanto i cittadini di razza ebraica che fossero stati «discriminati», ossia gli appartenenti alle categorie benemerite che potevano godere di motivi di esonero dai vincoli imposti alla generalità degli ebrei). L’esercizio della maggior parte delle attività professionali (medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, commercialista, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale) era consentito agli ebrei «discriminati» previa iscrizione in «elenchi aggiunti» in appendice ai normali albi professionali; era consentito ai non discriminati, che decadevano comunque dagli albi, se iscritti in elenchi speciali. Tutti comunque potevano continuare ad esercitare l’attività professionale esclusivamente a favore di persone apparte75

nenti alla razza ebraica; e ad essi in ogni caso non potevano essere «conferiti incarichi che importino funzioni di pubblico ufficiale», né per conto di enti pubblici. Seguiva la specificazione di una serie di funzioni che i cittadini di razza ebraica non avrebbero potuto comunque assolvere (non potevano essere amministratori giudiziari, né revisori ufficiali dei conti, né essere iscritti negli albi speciali per l’infortunistica). Infine, secondo il generale principio di separazione che doveva vigere tra ebrei e società italiana, era «vietata qualsiasi forma di associazione e collaborazione professionale tra i professionisti non appartenenti alla razza ebraica e quelli di razza ebraica». Come dovrebbe risultare evidente dalla lettera della legge, le categorie dei professionisti, che rappresentavano una cospicua componente della popolazione ebraica, furono di fatto strangolate, ossia messe nell’impossibilità di procurarsi i mezzi della sussistenza. Al danno economico si univa l’umiliazione dell’abbandono da parte dei clienti, che si colorava inevitabilmente di una sorta di ostracismo sociale. Come nel caso di altre forme di esclusione (per esempio nel campo delle attività culturali ed educative), nel caso di professioni altamente qualificate la declassazione subita si trasformava in una forma di colpevolizzazione, come se il soggetto colpito dal divieto di esercitare la propria professione (in una società come quella italiana circoscrivere le prestazioni professionali soltanto entro la cerchia dei cittadini dichiarati di razza ebraica significava di fatto generalmente la cessazione di una attività lavorativa) dovesse espiare la colpa di avere invaso un terreno che gli era improprio. Un ultimissimo divieto colpì attività professionali esercitate da ebrei nel corso della guerra, un paio di anni successivamente all’emanazione del corpo principale delle disposizioni limitative che abbiamo illustrato. È da presumere che in quest’ultimo caso fosse presente una dose in più di spirito demagogico, con attenzione sia al genere di attività esercitato, sia alle contingenze generali – la congiuntura bellica – in cui veniva a cadere, vale a dire l’esclusione degli ebrei, italiani e stranieri, compresi quelli che fossero stati discriminati, da «qualsiasi attività nel campo dello spettacolo» (legge 19 aprile 1942 n. 517) del resto già esclusi da questa attività in via amministrativa. Venivano colpite non soltanto pubbliche rappresentazioni ma ogni forma di riproduzione visiva o acustica di autori od esecutori ebrei. L’art. 3 della legge rivelava lo spirito persecutorio che presiedeva a questo ulteriore divieto: 76

È vietato utilizzare in qualsiasi modo per la produzione dei film, soggetti, sceneggiature, opere letterarie, drammatiche, musicali, scientifiche ed artistiche, e qualsiasi altro contributo, di cui siano autori persone appartenenti alla razza ebraica, nonché impiegare e utilizzare comunque nella detta produzione, o in operazione di doppiaggio o di postsincronizzazione, personale artistico, tecnico, amministrativo ed esecutivo appartenente alla razza ebraica.

Il complesso di una così articolata legislazione antiebraica non può non indurre a qualche considerazione. La prima constatazione è che nel momento in cui il regime fascista varò il suo sistema di apartheid, come già era avvenuto per le legislazioni coloniali, l’Italia non era seconda a nessun altro paese per la meticolosità e la severità delle misure che venivano imposte agli ebrei. Nel complesso, più severa era all’epoca soltanto la legislazione emanata dal regime nazionalsocialista in Germania, anche se talune norme italiane apparivano addirittura più severe e vessatorie delle corrispondenti norme tedesche. Uno studioso, Valerio Di Porto, che ha operato di recente una comparazione puntuale tra la legislazione italiana e quella tedesca, ha convalidato una osservazione di questo tipo: non esiste in Germania una norma sull’espulsione generalizzata degli ebrei stranieri come quella italiana del settembre 1938; analogamente l’espulsione degli ebrei dalle scuole in Germania seguì un percorso molto più graduale che non in Italia. Naturalmente, pur non potendosi in alcun modo ammettere che la legislazione italiana sia definibile più blanda di quella tedesca, bisogna tenere conto delle circostanze di regime e di ambiente, oltre che delle tradizioni storiche e culturali che fecero sì che le conseguenze della legislazione razzista fossero, sicuramente fino al 1943, meno devastanti per la popolazione ebraica in Italia, non per la coscienza civile degli italiani, di quanto non avvenne in Germania. Inoltre, la consistenza relativamente esigua della popolazione ebraica in Italia esercitò nei fatti in più circostanze una funzione moderatrice: le violenze, le vie di fatto contro gli ebrei sino al 1943 rimasero fatti sporadici, le offese alle sinagoghe (a Trieste, a Ferrara) non assunsero il volto dei roghi che illuminarono le città tedesche e ne modificarono addirittura il paesaggio urbano, cancellando i segni tangibili della presenza ebraica attraverso la distruzione dei suoi edifici rappresentativi e dei suoi simboli. Né agli ebrei italiani fu impo77

sta la stella gialla o altro segno distintivo, sebbene non fossero mancate neppure nell’entourage fascista intenzioni e richieste in questa direzione. Quanto più sporadica fu la violenza fisica tanto più penetrante fu la violenza della separazione, l’umiliazione inflitta con la decapitazione della capacità giuridica, con la deformazione stessa della propria identità implicita anche nella possibilità per i figli di padre ebreo e di madre ariana di abbandonare il cognome paterno e di assumere quello materno (cfr. legge 13 luglio 1939 n. 1055), un provvedimento che dopo il 1943 avrebbe contribuito a mimetizzare alcuni ebrei e ad agevolarne il salvataggio, ma che sul momento non dovette avere effetti psicologici, morali e sociali meno problematici dell’abiura o di una conversione operata per mera convenienza. Non è vero che i drammi della grande storia non si riverberino in una infinità di drammi personali e privati. Una seconda considerazione riguarda il clima di passività e di omertà che la dittatura aveva creato in Italia, al di là della fascia di consenso convinto che esistette intorno al fascismo. La pubblicazione recente ad opera della Camera dei deputati, per iniziativa dell’allora presidente Violante, dei facsimili dei protocolli verbali delle sedute della Camera dei deputati (non ancora Camera dei fasci e delle corporazioni) e del Senato del Regno, che convertirono in legge i decreti-legge sulla razza attraverso l’unanimità (al Senato per la verità con qualche voto contrario, essendovi ancora fra l’altro qualche senatore ebreo di nomina regia) di un parlamento ormai fascistizzato, mostra il totale asservimento al regime del ceto politico dominante e al tempo stesso il coinvolgimento negli atti che di fatto revocavano l’emancipazione accordata agli ebrei dallo Statuto Albertino della stessa istituzione monarchica, il cui capo regnante, Vittorio Emanuele III, aveva controfirmato e promulgato le norme limitative dei diritti volute da Mussolini e dal regime fascista. Vedremo nel capitolo seguente con quale accanimento amministrativo l’apparato burocratico dello Stato si industriò non solo di dare attuazione alle norme legislative che erano state approvate, ma addirittura di peggiorare le condizioni degli ebrei inventando sempre nuove vessazioni. Se già questa circostanza sarebbe sufficiente a sfatare la leggenda della blanda applicazione della legge da parte della pubblica amministrazione, l’esperienza di chi ha fatto la ricerca oltre che negli archivi centrali dell’amministrazione, in quelli delle amministrazioni periferiche sta a dimostrare esattamente il contrario: lo ze78

lo nella trasmissione degli ordini e delle prescrizioni dal centro alla periferia attivò una sorta di competizione e scatenò una fantasia persecutoria che non denota tanto l’adesione convinta di prefetti, questori e podestà alle direttive del centro quanto un conformistico adeguamento che spesso dalla periferia suggeriva alla stessa amministrazione centrale la creazione di sempre nuovi ostacoli alla sopravvivenza e alla libera circolazione degli ebrei, quasi che questi fossero diventati oggetti di caccia libera nei confronti dei quali, decaduta ogni garanzia giuridica, fosse possibile esercitare il tiro al bersaglio. La lotta contro gli ebrei recava l’impronta personale di Mussolini. Il suo inserimento nella polemica contro la borghesia italiana considerata pigra, imbelle e impari ai compiti che il fascismo le prospettava per il futuro, impari soprattutto al suo destino imperiale, doveva servire a galvanizzare un popolo che non aveva ancora preso coscienza della sua dimensione imperiale. C’era in lui probabilmente, nella fase di accostamento alla politica del Terzo Reich, come l’imperativo della necessità di scrollarsi un senso di inferiorità. Impose alle forze armate italiane il cosiddetto «passo di parata» che doveva competere con quello tedesco perché gli sembrava che soltanto in tal modo si potesse uscire da un senso di «inferiorità fisica» e dare dimostrazione plastica, fisica della propria forza. Del pari nei confronti della borghesia, ebbe a dire, «altro cazzotto nello stomaco è stata la questione razziale». Riscopriva le origini romane del razzismo del popolo italiano e si mostrava convinto che «siamo ariani di tipo mediterraneo, puri». Ai consiglieri nazionali del Partito fascista alla fine di ottobre del 1938 propose il volto feroce dell’italiano razzista, lanciando uno slogan che sarebbe finito presto come motto su tutta la stampa quotidiana a disprezzo delle incomprensioni e delle resistenze che incontrava il razzismo: «Bisogna reagire contro il pietismo del povero ebreo». Spinse la campagna d’odio contro gli ebrei pur essendo perfettamente consapevole di ciò che stava avvenendo in Germania. All’indomani dei pogrom del 9 novembre 1938, secondo quanto annotava Ciano nel suo Diario alla data del 12 novembre, «il Duce [è] sempre più montato contro gli ebrei. Approva incondizionatamente le misure di reazione adottate dai nazisti. Dice che in posizione analoga farebbe ancora di più». Una notazione interessante che sta a significare che Mussolini ben conosceva le implicazioni della lotta contro gli ebrei e che se quindi la intraprese era disposto ad affrontarla anche nei suoi aspetti più brutali. 79

5.

Le leggi contro gli ebrei e la società italiana

Nel capitolo precedente ci siamo limitati a descrivere il quadro formale delle disposizioni normative che modificarono la condizione giuridica degli ebrei italiani e degli ebrei stranieri residenti in Italia. Per comprendere tuttavia fino in fondo quale fu la condizione degli ebrei dopo l’emanazione delle leggi razziste è necessario tenere conto di una serie di fattori che vanno al di là del dettaglio legislativo. Tanto più se non si considera soltanto la loro condizione giuridica in senso stretto, ma si tiene conto anche della condizione psicologica oltre che di quella sociale nella quale vennero a trovarsi gli ebrei. Dal punto di vista psicologico, una delle osservazioni nelle quali ci si imbatte con maggiore frequenza è la testimonianza e la constatazione che la quasi totalità degli ebrei fu colta dalla campagna razziale quasi di sorpresa, come se si trattasse di un fulmine a ciel sereno. Soltanto pochi osservatori attenti della realtà internazionale, quali potevano essere di sicuro i redattori del settimanale sionista «Israel», potevano avere la consapevolezza di una minaccia che aleggiava almeno dal 1933 su tutta l’Europa. Lo stato d’animo della generalità degli ebrei italiani può essere espresso bene da questa testimonianza resa a molta distanza di tempo dai fatti (nel 1989) da Luciana Nissim Momigliano, che condivise con Primo Levi la deportazione ad Auschwitz: Nell’autunno del 1938 furono emanate le leggi razziali. Questo ci arrivò addosso come un fulmine, come un terremoto catastrofico; eravamo 80

del tutto impreparati. Sembra tuttora incredibile che le cose siano andate così, che prima non abbiamo avuto nessuna paura, nessun sospetto... eppure leggevamo i giornali e ascoltavamo la radio, dove intanto, negli ultimi anni, erano cominciate le campagne diffamatorie e intimidatorie sempre più violente contro i «giudei», come oramai eravamo indicati [...] eppure avevamo ben visto arrivare nelle nostre città ebrei profughi da altri paesi, spaventati e in condizione di grande bisogno, che bisognava aiutare, certo, ma che non destavano una grande simpatia. Sembrava un destino toccato ad altri, ma da cui noi saremmo stati preservati (Una famiglia ebraica tra le due guerre).

La Nissim a Torino e Mario Tagliacozzo a Roma registravano impressioni pressoché analoghe: Ai primi di settembre ero a Roma e qui, lontano dai miei, appena tornato al mio lavoro, mi colpì come un fulmine la notizia, appresa dai giornali della sera, dei primi provvedimenti contro gli ebrei che condannavano alla perdita della cittadinanza gli stranieri che l’avevano acquistata e vietavano agli italiani gli studi e l’esercizio dell’insegnamento (Tagliacozzo).

Questo senso della sorpresa accomunò non solo ebrei e non ebrei, ma anche gli ebrei che facevano semplicemente parte della comunità e quelli che invece vi rivestivano cariche rappresentative. Sebbene non si disponga ancora di uno studio analitico sulle reazioni dell’Unione delle comunità, alcuni studi parziali e locali consentono di anticipare che gli organismi dirigenti dell’Unione non percepirono o almeno non diedero segno di percepire pienamente la portata della lesione che veniva inferta allo statuto giuridico degli ebrei. Prevaleva forse l’illusione che i limiti posti al pieno dispiegamento dei diritti di cittadinanza degli ebrei potessero essere di carattere transitorio, semplice omaggio alla congiuntura internazionale, come se passato quel momento tutto potesse tornare come prima. L’Unione delle comunità si attrezzò unicamente per una azione difensiva, quasi soltanto per evitare il peggio, senza fare alcun passo che potesse mettere in pericolo la sopravvivenza sua e delle comunità, soprattutto senza rischiare di entrare in collisione con il regime, dal quale pure gli ebrei venivano infamati e diffamati, nei cui confronti presumibilmente la maggioranza degli ebrei si era fino allora riconosciuta. Salvo infatti una attiva minoranza di ebrei particolarmente motivati e politicizzati in senso antifascista, si deve ritenere 81

che il resto della popolazione ebraica italiana non avesse avuto motivi di dissociarsi dagli orientamenti generali del resto della popolazione. La prudenza nell’accogliere le leggi non era quindi un fatto di tattica o di astuzia politica ma l’espressione di un inserimento e di una consonanza con gli orientamenti politici del paese. Prevaleva certamente uno stato d’animo che consigliava di ottemperare lealmente alle disposizioni governative nella speranza che un simile comportamento potesse mitigare i rigori delle misure limitative. Alla metà del 1938 l’allarme per gli ebrei doveva essere evidente. Pur dopo il Manifesto della razza l’organo dei sionisti «Israel», che pur aveva seguito con intelligenza e puntualità il montare della persecuzione in Europa, volle continuare a credere che il fascismo italiano si sarebbe distinto dal razzismo tedesco e che effettivamente, come aveva detto Mussolini, discriminare non significava perseguitare. Pur avendo colto con prontezza che le misure divisate anche per l’Italia significavano «il tramonto dell’eguaglianza civile», il giornale faceva appello alla tutela con dignità dell’ebraismo e a mantenere fede ai suoi valori e al suo spirito, con uno speciale richiamo all’unità degli ebrei, con allusione diretta alla frattura con gli ebrei fascisti, che a metà novembre sarebbero stati i protagonisti dell’assalto fisico alla sede di «Israel», che offrì al prefetto di Firenze il pretesto per chiudere il giornale e spegnere quella che restava l’unica voce pubblica e indipendente dell’ebraismo italiano. Ancora più legalitaria fu la reazione dell’Unione delle comunità, che perfino dopo il Manifesto del 13 luglio esternò la piena e assoluta fedeltà degli ebrei italiani a Mussolini, un gesto con il quale cercò di dare visibilità alla politica con la quale essa tentava di controbattere la propaganda fascista che accusava gli ebrei di essere anti-italiani e antifascisti, ostentando al contrario lealtà e consonanza con il regime. Un atteggiamento che non rifletteva soltanto, come generalmente viene intesa, una linea prudente di attendismo, ma che rispecchiava sicuramente anche una reale spaccatura esistente all’interno delle comunità tra le componenti filofasciste e quelle che assegnavano priorità alla fedeltà ai valori e agli ideali dell’ebraismo, anche a costo di entrare in conflitto con il regime. Non per tutti gli ebrei lo stupore di sentirsi minacciati da un giorno all’altro comportò un atteggiamento di attesa. Vittorio Pisa, un ebreo fiorentino, percepì «la mazzata che, a tradimento, nella peggiore malafede, si è voluta, in modo proditorio, infergere», con 82

profonda depressione, come l’annuncio di una «morte lenta», tanto più acuta e dolorosa in lui che era stato mosso da sentimenti di civismo patriottico. Una rottura profonda nel suo animo e nella sua identità di ebreo ma anche di cittadino ligio ai doveri nazionali quanto a quelli della sua tradizione religiosa da essere indotto a mettere sulla carta i suoi pensieri, ad avviare un Diario il 20 agosto 1938, alla vigilia del censimento degli ebrei, di cui avvertì immediatamente il significato fuori dall’ordinario. Un ebreo che avvertì il dramma che stava per scatenarsi anche sulla comunità italiana, come atto facente parte delle ombre che si stavano allungando sull’Europa, fu Vittorio Foa, che dal carcere dove scontava una pesante condanna per antifascismo indirizzò ai suoi familiari alcune delle considerazioni più lungimiranti che sia dato leggere nelle testimonianze di quell’epoca. Si era illuso che il regime avrebbe proceduto con gradualità, ma ora le notizie che gli giungevano dalla stampa gli significavano l’esigenza di «bruciare le tappe»; ai suoi (agli ebrei) rivolgeva l’esortazione a comportarsi con dignità e con realismo al tempo stesso: «Questi provvedimenti – scriveva il 5 settembre 1938 – in sé e per sé non vi toccano direttamente ma non fatevi illusioni che verrà anche la vostra volta, preparatevi spiritualmente all’eventualità che si renda necessario od opportuno di fare fagotto». Nei giorni del patto di Monaco l’ipoteca della Germania nazista non rendeva più rosee le previsioni: «Ho gran paura – notava il 28 settembre – che in caso di guerra la persecuzione antisemita si faccia assai più grave e arrivi a delle restrizioni della libertà personale suscettibili di pericolosi sviluppi». Dal contesto delle considerazioni che Foa veniva sviluppando nella sua corrispondenza familiare era chiaro che per lui ci si trovava soltanto all’inizio di un percorso che era destinato a diventare sempre più aspro e proibitivo. Le conseguenze immediate per gli ebrei furono, al di là dello sbigottimento, un senso di solitudine e, via via che il tempo passava e che le norme diventavano realtà anche nella vita quotidiana, di isolamento. Vi fu certo solidarietà, ma non così diffusa come si potrebbe pensare. Vi fu più solidarietà operativa in un momento successivo, quando fu in gioco anche la vita degli ebrei, che non di fronte alla loro declassazione e segregazione civile. L’indignazione che colpì molti semplici cittadini allo spettacolo immondo della stampa asservita al regime che rovesciava infamie e menzogne sugli ebrei spesso non generò gesti concreti di solidarietà ma un prudente ritiro nel 83

proprio particulare. In tal modo il regime aveva raggiunto un duplice effetto intimidatorio, nei confronti degli ebrei ma anche nel grosso pubblico dei non ebrei. Una osservatrice acuta dalla parte dei non ebrei, Ernesta Bittanti-Battisti, in pagine di diario uscite postume a distanza di decenni, così registrò gli avvenimenti di allora: In autunno, l’apparire dei decreti anti-ebraici in Italia. La grande massa ne è sbalordita. Non comprende. La stampa che è tutta statale, e vuole avere uno spirito antiebraico, dà uno spettacolo pietoso ributtante di incongruenze, contraddizioni, spropositi storici, nefandezze da sciacalli (approva, per esempio con enfasi, la soppressione d’una casa editrice, soppressione che ha condotto l’onesto editore ebreo al suicidio) [allude al suicidio di Angelo Formiggini, N.d.A.]. Lo spettacolo di un pagliaccio ubriaco. Ma dalli, dalli, dalli, il senso di diffidenza e di odio si appiccicherà, si diffonderà (a nostra vergogna) forse. Non mancano già i pappagalli e i malvagi. Giudizi. In alcuni, esecrazione (ed io esecro). Ci ributtano indietro di parecchi secoli. La legge è un reagente, che fa affiorare negli ariani i più bassi istinti e mette in evidenza deficienze, ignoranze e risuscita gli odi superstiziosi... Politica da cannibali... La reazione degli italiani ariani: Uno: Pubblica: nessuna protesta. Due: Privata: si dice di preghiere presentate da qualche personalità, o non accolte o a cui si fecero promesse non mantenute di poi. Tre: Obbedienza supina agli ordini di cancellare i nomi anche insigni degli Ebrei da associazioni di cultura, di studio, d’affari, da ogni associazione insomma. Un professore uscito dall’adunanza di un Istituto di alta cultura, in cui si erano in quel giorno cancellati i nomi di illustri israeliti ebbe a dire: «eppure eravamo tutti contrari». Alla nostra osservazione del perché avessero ciò fatto, ebbe a rispondere: «siamo tutti pecore» (così ridotti dopo sedici anni di regime assolutista).

Per inquadrare la condizione in cui vennero a trovarsi gli ebrei non basta fare riferimento al quadro normativo contenuto nelle leggi citate. La loro situazione va considerata alla luce della assai densa produzione di normativa gerarchicamente minore ma non meno vincolante ad opera dell’amministrazione, che non fu affatto distratta e poco solerte nell’attuazione e nell’integrazione delle norme. Una semplice elencazione dei divieti nei quali incappavano gli ebrei può dare l’idea di come ciò che era loro consentito si riducesse a ben po84

ca cosa. Che una delle loro reazioni fosse pertanto quella di pensare di emigrare non per astratta fedeltà all’ideale sionista ma per una esigenza di dignità e di libertà è anche troppo comprensibile. La produzione amministrativa delle normative citate fu solo in minima parte diretta all’attuazione delle norme di legge, meno ancora ad attenuarne la portata. Viceversa il carattere autonomo che ebbe questa forma di produzione normativa, sia che integrasse le norme generali sia che ne fosse indipendente, non fece che accrescere ed estendere il cumulo di divieti che incombevano sugli ebrei, paralizzandone di fatto ogni attività al di là di quanto già disposto in sede legislativa. Gli ebrei non potevano esercitare l’attività di portierato, il commercio ambulante o ricevere l’autorizzazione per l’esercizio delle seguenti attività commerciali: agenzie d’affari, di brevetti e varie; commercio dei preziosi; esercizio arte fotografica; mediatorato, piazzisti, commissionari; esercizio tipografie; vendita oggetti antichi e d’arte, antiquariato; commercio libri; vendita oggetti usati; vendita articoli per bambini; vendita apparecchi radio; vendita carte da gioco; attività commerciale ottica; deposito e vendita carburo di calcio; ricevere la licenza di pescatore dilettante; impiegare gas tossici; gestire esercizi pubblici di mescita alcoolici, raccolta rottami metallici e metalli; raccolta lana da materassi; essere ammessi all’esportazione di canapa e all’esportazione di prodotti ortofrutticoli; vendita di oggetti sacri, vendita di oggetti di cartoleria, raccolta di rifiuti, raccolta e vendita indumenti militari fuori uso; ottenere licenze per scuole di ballo e per scuole di taglio; esercitare noleggio film; non potevano «prestare la loro opera in qualità di conducenti di autoveicoli da piazza o da rimessa presso le ditte esercenti pubblici servizi»; non potevano «ricorrere alla pubblicità sulla stampa nazionale» né all’inserzione di avvisi mortuari; non potevano comparire negli elenchi telefonici; non potevano esercitare nessuna attività nel settore dell’industria alberghiera («Il divieto deve estendersi anche ai mestieri più umili: uomo di fatica, facchino, ecc.»); né esercitare il mestiere di affittacamere; gli ebrei non potevano avere rapporti di affari o di forniture con amministrazioni pubbliche, né ricevere concessioni di riserve di caccia; né detenere apparecchi radio; né recarsi in località marine o di villeggiatura; non potevano essere soci di cooperative; né esercitare attività nel settore del credito e delle assicurazioni; «gli ebrei, in omaggio al principio della separazione delle razze, sono sta85

ti eliminati da tutti i sodalizi aventi carattere culturale, morale, sportivo, sociale, ecc.»; «agli appartenenti alla razza ebraica, anche se discriminati, non possono essere rilasciati permessi per ricerche minerarie»; né possono essere amministratori di case o condomini anche parzialmente di proprietà di ariani, né essere iscritti «negli elenchi dei commercianti di leganti idraulici, lampade, pile tascabili e marmi»; né può essere rilasciato loro il brevetto di pilota civile, né concessa l’autorizzazione per l’allevamento di colombi viaggiatori; né essere soci di consorzi agrari provinciali; né, se non discriminati, essere iscritti all’albo nazionale dei commercianti grossisti di tessili; ad essi non possono essere rilasciate licenze per guida, interprete e corriere; né licenze per porto d’armi; né svolgere attività in agenzie di viaggi e turismo; non poteva essere consentito di confezionare e vendere uniformi militari; né di essere addetti a uffici propaganda di aziende alberghiere; di gestire uffici di copisteria; di esercitare il commercio degli stracci non di lana; era vietato l’accesso ai locali adibiti alle vendite all’asta. Il settore nel quale fu più immediatamente visibile l’esito della persecuzione fu il settore della cultura e segnatamente della scuola. Mentre infatti l’emarginazione dell’attività commerciale degli ebrei avvenne gradualmente in rapporto a non concessioni di licenze o a trasferimenti patrimoniali più o meno fittizi, utilizzando tutti gli strumenti che le stesse norme prevedevano per tentare di aggirarle o per attenuarne l’impatto, nel caso della scuola il divieto subitaneo della frequentazione da parte degli alunni ebrei si riverberò immediatamente su una pluralità di famiglie, che non erano soltanto quelle degli ebrei colpiti ma anche quelle dei compagni di scuola dei bambini cui era stato precluso l’accesso o quello delle classi dalle quali scomparivano gli insegnanti ebrei. Nelle memorie di ebrei italiani l’impatto delle leggi sulla scuola rimane uno degli eventi più traumatici. E al tempo stesso uno degli eventi più ricchi di prospettive in un panorama così poco rassicurante era rappresentato dalla reazione delle comunità e dal loro impegno nel sostenere le scuole ebraiche. L’iniziativa di potenziare le scuole ebraiche non era nata dalle comunità, essa derivava quasi di necessità dal divieto di accesso alla scuola pubblica per i bambini ebrei, ma fu merito delle comunità avere accolto, dove era possibile, questa opportunità e non limitarsi ad accettare la frequenza separata dei bambini ebrei nelle sezioni speciali delle scuole pubbliche, ma solo per le scuole ele86

mentari, come scuola (allora) dell’obbligo. Già la frequentazione della scuola media o avveniva attraverso la scuola ebraica o non sarebbe stata altrimenti possibile. Tra le motivazioni che spinsero famiglie di ebrei italiani ad emigrare all’estero vi fu anche la motivazione della necessità di consentire ai figli di proseguire gli studi e di accedere a livelli superiori di istruzione. «Le leggi razziali – ha scritto Luciana Nissim – avevano un articolo particolarmente crudele: i ragazzi ebrei non potevano più frequentare le scuole pubbliche». A tutt’oggi non sappiamo esattamente quanti insegnanti ebrei furono esclusi dalle scuole elementari e medie e quanti alunni ebrei. Abbiamo le cifre però analitiche per singole località, non per il complesso del territorio italiano. Sul «Giornale della scuola media» fu pubblicato un elenco di presidi e docenti espulsi dagli istituti di insegnamento secondario comprendente un totale di 177 insegnanti. Dall’unico studio complessivo seppure provvisorio possiamo trarre l’informazione che entro la fine del 1938 esistevano (tra scuole di più antica formazione e scuole istituite a seguito della legislazione razzista) 23 scuole elementari ebraiche (ad Alessandria, Ancona, Bologna, Ferrara, Firenze, Fiume, Genova, Livorno, Mantova, Milano, Modena, Napoli, Padova, Pisa, Parma, Rodi, Roma, Torino, Trieste, Venezia, Vercelli, Verona, Viareggio); 14 scuole medie e commerciali (a Bologna, Ferrara, Firenze, Genova, Livorno, Milano, Modena, Padova, Rodi, Roma, Torino, Trieste, Venezia, Vercelli) (D. Fishman). La creazione e il potenziamento delle scuole ebraiche fu il risultato di un notevole sforzo delle comunità e di un impegno finanziario assolutamente straordinario, che fu possibile nelle comunità che potevano disporre di maggiori mezzi; spesso concentrare i mezzi sulla scuola, a parte il significato morale e sociale che questo comportava come messaggio attraverso la continuità di un sistema educativo che vi era implicito, significava esaurire in questo investimento ogni altra possibilità operativa delle comunità, per cui si trattava di una opzione di forte impatto. Benché limitate da forti restrizioni – nell’uso dei testi, dei locali, nella disponibilità degli insegnanti – le scuole ebraiche non solo rappresentarono un nucleo assai importante di aggregazione e di vita associativa; esse furono anche, nelle situazioni più fortunate, scuole di buon livello, poiché in esse finirono per rifluire fra l’altro molti dei docenti universitari che erano stati cacciati dai ranghi più elevati degli istituti di istruzione. Altrove le difficoltà non furono irrilevanti. 87

Nei Ricordi di un ebreo bolognese Giancarlo Sacerdoti racconta: «Il mio maestro era Formiggini, di mestiere commerciante di vini e che era stato pregato di espletare le funzioni di maestro nella scuola ebraica perché sul mercato a Bologna si trovavano pochi maestri ebrei». Più complessa, se non altro per le implicazioni, fu la situazione in cui le leggi razziste gettarono le università italiane. Ciò che interessa sottolineare non è soltanto, come generalmente si tende a fare, l’espulsione dei docenti, ma il coinvolgimento generale che alle università si richiese nel senso di farsi parte attiva nel processo di razzizzazione della società e della cultura. Così come la deriva del razzismo coloniale si era espressa anche nella diffusione di insegnamenti universitari ispirati al razzismo (sul piano giuridico, come su quello storico o medico, demografico e antropologico), altrettanto avveniva adesso con la lotta contro gli ebrei; non bastava cacciare gli ebrei dall’università, bisognava dimensionare insegnamenti tradizionali, fossero l’antropologia o la demografia, al nuovo verbo antisemita, inserire la bonifica della razza come opera più generale di bonifica della cultura tra gli insegnamenti universitari, istituire corsi di razzismo, di biologia e geografia delle razze e via dicendo. Il terzo livello di questi interventi riguardò il potenziamento in funzione tipicamente razzista di strutture esistenti che si prestavano quasi per definizione a trasformarsi in punte di diamante del credo razzista. Non solo le discipline storico-letterarie, compresa l’antichistica, furono piegate a deformazioni e a retoriche manifestazioni razzistiche recuperando attraverso la romanità origini razzistiche primordiali, ma archeologia e antropologia, scienze naturali e medicina furono mobilitate per dare un fondamento scientifico al razzismo biologico e alla riesumazione di modelli antropometrici della peggiore tradizione positivistica. Così come era già avvenuta la contaminazione tra cultura e propaganda, ora la manipolazione della scienza, con la complicità di pseudoscienziati del livello dei firmatari del noto Manifesto della razza, rischiava di confondere anche scienza e propaganda. In particolare l’organizzazione dei giovani universitari fascisti fu orientata a diventare l’avanguardia di una aggressiva propaganda razzista sfruttando energie ed entusiasmi giovanili, nonché la possibilità offerta ai giovani di emergere nella stampa universitaria e di precostituirsi, attraverso un attivo protagonismo, carriere politiche. 88

La semplice elencazione dei docenti espulsi dalle università può offrire di per sé la dimostrazione dell’offesa che le leggi razziste fecero alla cultura italiana ma anche della gravità dei vuoti che esse crearono nel tessuto scientifico. L’elenco dei professori ordinari e straordinari comprende almeno 96 nominativi tra i quali alcuni di riconosciuto prestigio internazionale; a questi bisogna aggiungere l’elenco dei professori incaricati, degli assistenti di ruolo e volontari e dei liberi docenti, le categorie di più difficile rilevazione, che probabilmente ammontano a qualche centinaio, se soltanto i liberi docenti risulterebbero essere un paio di centinaia. Ed è soprattutto in base a queste ultime categorie, in buona parte di precari o di docenti non ancora inseriti stabilmente nell’università, che si dovrebbe computare il danno subito dallo sviluppo scientifico in Italia con l’aver troncato la maturazione piena di un ricco potenziale scientifico, al di là del fatto che molti dei cosiddetti precari erano già delle presenze che contavano nel mondo degli studi: basti pensare, tra i tanti, a due psicoanalisti, Enzo Bonaventura, professore incaricato a Firenze, e Cesare Musatti, professore incaricato a Padova, quest’ultimo fortunatamente poi «discriminato». Vale a dire che il computo delle perdite non va fatto solo sottolineando la quantità degli espulsi ma valutandone anche la qualità. Fu colpito il settore umanistico; tra i cultori di studi storici i nomi di Giorgio Falco, di Attilio Mario Levi, di Gino Luzzatto, di Arnaldo Momigliano, di Alberto Pincherle; tra i cultori di filologia, glottologia e letteratura, quelli di Santorre De Benedetti, Benedetto Terracini, Mario Fubini e Attilio Momigliano; tra gli storici dell’arte Paolo D’Ancona; tra i geografi Roberto Almagià; tra i cultori di discipline filosofiche Ludovico Limentani e Rodolfo Mondolfo; tra i giuristi Tullio Ascarelli, Federico Cammeo, Giorgio Del Vecchio, Benvenuto Donati, Mario Falco, Emilio Finzi, Marcello Finzi, Ugo Forti, Alessandro Graziani, Alessandro Levi, Enrico Tullio Liebmann, Adolfo e Renzo Ravà, Cino Vitta, Edoardo Volterra. Nel settore scientifico le perdite furono più o meno della stessa entità, se non ancora più rilevanti, trattandosi in taluni casi di settori di avanguardia o in via di sperimentazione. Tra fisici e matematici: Guido Ascoli, Tullio Levi Civita, Ettore Del Vecchio, Federico Enriques, Gino Fano, Guido Fubini, Beppo Levi, Arturo Maroni, Giulio Racah, Bruno Rossi, Beniamino ed Emilio Segre, Alessandro Terracini, Giorgio Tedesco. 89

Tra le specializzazioni mediche: Alberto e Maurizio Ascoli, Mario Camis, Mario Donati, Carlo Foà, Enrico Emilio Franco, Amedeo Herlitzka, Giuseppe Levi, Ugo Lombroso, Guido Nelli, Maurizio Pincherle, Ettore Ravenna, Cesare Sacerdote, Tullio Terni, Vittore Zamorani. Tra economisti e statistici: Gino Arias, Riccardo e Roberto Bachi, Gustavo Del Vecchio, Marco Fanno, Bruno Foà, Renzo Fubini, Giorgio Mortara. E tanti altri, senza volere stabilire gerarchie di valore, tanto per esemplificare e segnalare l’entità dell’incidenza che l’epurazione razzista ebbe sui quadri scientifici e quindi anche sulla possibilità della loro riproduzione. In realtà gli studi che ormai sono stati compiuti su alcune delle principali università (in primo luogo Bologna, Padova, Firenze, Trieste e parzialmente per altre sedi), sebbene siano ancora lontani dall’offrire un quadro completo di ciò che avvenne nel mondo universitario, sono sufficienti per rendere conto delle conseguenze devastanti del meccanismo messo in opera dal ministro Bottai e da questi portato a conclusione con un accanimento politico e burocratico pari soltanto a quello messo in atto dai funzionari del Ministero dell’Interno. Ad una analisi ravvicinata fra l’altro non può non dare nell’occhio la relativa indifferenza con cui si realizzò l’espulsione dei docenti e l’arrivismo con il quale generalmente, con poche lodevoli eccezioni, i posti lasciati forzatamente liberi dagli espulsi furono prontamente occupati da nuovi docenti che non ebbero scrupolo a succedere ai loro più sfortunati colleghi. In realtà, l’attività nel campo dell’istruzione e dell’università non può essere dissociata dal lavoro sottile di penetrazione propagandistica esercitata dal centro verso la periferia, in cui da una parte veniva incoraggiata e stimolata la produzione di una pubblicistica ispirata a dottrine e stereotipi razzistici, dall’altra veniva operata la cosiddetta «bonifica» dei testi di autori e di argomento ebraici. La proibizione nella scuola secondaria e a livello universitario dei testi di autori ebrei, indipendentemente da ogni valutazione di merito dei contenuti, si prestava fra l’altro a operazioni di sciacallaggio culturale. Al tempo stesso, la censura che si abbatteva sugli autori ebrei, peggio ancora poi se ebrei e stranieri, portava alle estreme conseguenze la crescente intolleranza xenofoba che fu parte del cosiddetto «stile Starace», versione non soltanto macchiettistica e caricaturale dei richiami alle specificità della razza e dei costumi italici. La subordina90

zione delle autorizzazioni a tradurre autori stranieri ed ebrei alle prescrizioni del Ministero della Cultura popolare tuttavia non riuscì a impedire totalmente che negli anni Trenta si diffondessero anche in Italia autori di grandi letterature, di quella nordamericana in particolare ma in parte anche di quella tedesca degli anni Venti e dell’inizio degli anni Trenta così invisa ai nazisti, mentre meno si conobbe in Italia della grande letteratura tedesca dell’emigrazione. Tutto ciò fece parte del processo di graduale isolamento verso l’esterno che caratterizzò la cultura italiana di quegli anni e della sua progressiva provincializzazione. Il livellamento culturale fece parte integrante del processo di omogeneizzazione della società, fu tra i canali dell’integrazione sempre più passiva in un sistema preordinato dall’alto e dell’acquiescenza collettiva. Nel cumulo di divieti che si addensò sugli ebrei non c’era solo la volontà separatista ad ogni costo. Neppure sui campi da tennis era possibile la compresenza di ebrei e di «ariani». C’era la volontà di umiliarli e di sottolineare il disprezzo per le loro aspirazioni culturali, sino a culminare nel grottesco divieto per gli ebrei di mettere piede nelle biblioteche pubbliche (circolare del Ministero dell’Istruzione nazionale del 17 febbraio 1942), quasi a voler recidere anche gli ultimi legami per gli ebrei con quel mondo culturale al quale pur avevano dato un contributo così rilevante. Agli intellettuali, agli scienziati, agli accademici ebrei non rimase che l’alternativa tra la morte civile in patria o l’emigrazione. Chi poté scelse l’emigrazione, che per uomini di cultura e di scienza affermati era comunque una scelta privilegiata, al di là degli ovvi disagi di qualsiasi sradicamento e delle difficoltà di un nuovo radicamento, perché legata alla prospettiva sicura di una collocazione nel paese di nuova destinazione. La citazione di alcuni casi di intellettuali che scelsero questa opzione ha carattere meramente esemplificativo. Neanche su questo aspetto derivato dalla persecuzione possediamo uno studio esauriente. Seguire le vicende personali di tutti coloro che furono cacciati dall’università è meno semplice di quanto a prima vista non si possa pensare, perché significherebbe operare una ricostruzione biografica per la quale soltanto in parte vengono in aiuto le carte degli archivi delle università: bisognerebbe seguire capillarmente ogni percorso individuale. Per questo spesso ci si limita a fare i nomi delle personalità più note. Tra di essi i fisici Emilio Segre e Bruno Pontecorvo, i matematici Guido Fubini, Alessandro Terracini, Enrico Volterra. 91

Enzo Bonaventura emigrò in Palestina, Arnaldo Momigliano in Gran Bretagna, Emilio Servadio in India, il sociologo Renato Treves e il filosofo Rodolfo Mondolfo in Argentina, i musicisti Vittorio Rieti e Mario Castelnuovo-Tedesco negli Stati Uniti. Credo che sia giusto, nel considerare la perdita secca che la cultura italiana subì con questa emorragia di cervelli, tener conto anche di quanti non sarebbero mai più tornati, come è stato opportunamente suggerito da Roberto Finzi: e molti non tornarono non soltanto perché nel 1945 non vi fu un provvedimento generalizzato di reintegrazione nei ruoli, ma anche perché l’indifferenza che aveva accompagnato nell’ambiente accademico e scientifico la loro espulsione non incoraggiò in alcun modo il desiderio di ripristinare un legame la cui rottura aveva provocato ferite non sanabili. Approssimativa rimane a tutt’oggi la valutazione degli ebrei italiani che abbandonarono il nostro paese dopo il 1938, a prescindere dall’ulteriore e più periglioso esodo che ebbe inizio dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 alla volta generalmente della Svizzera. Verosimile appare la stima che circa 6.000 siano stati gli ebrei che dopo l’emanazione delle leggi razziali presero la via dell’estero. Chi emigrò in Francia alla prova dei fatti si trovò un rifugio soltanto temporaneo per le vicende che avrebbero presto coinvolto la Francia nella guerra mondiale e nell’occupazione nazista; più stabile fu il nucleo di chi si recò in Gran Bretagna, ma il gruppo dell’emigrazione seguì direttrici tradizionali dell’emigrazione italiana: l’America del Nord e l’America Latina. Gli Stati Uniti accolsero circa un terzo del totale di tutti gli emigranti e non soltanto per essere il paese che offriva oggettivamente le migliori possibilità di collocamento ma perché i numerosi nuclei di emigranti di generazioni precedenti avevano creato basi di accoglienza che non esistevano altrove, se non in Argentina, in Brasile e in paesi europei come la Francia, che tuttavia non erano più mete possibili. Nuova fu anche la meta della Palestina, la cui scelta era determinata da una opzione fortemente ideologica in una generazione di adepti del sionismo nei quali la persecuzione aveva rafforzato la convinzione nella necessità di creare lo Stato ebraico come difesa e forma di salvezza contro la minaccia e la realtà della diffusione in Europa dell’antisemitismo come legge di Stato. Altrettanto grave fu la ferita inferta al ceto medio ebraico, che come abbiamo visto in precedenza costituiva il nucleo centrale della popolazione ebraica italiana, dalle restrizioni stabilite per l’esercizio 92

dell’attività professionale. Né gran sollievo recarono alla categoria le discriminazioni previste per coloro ai quali erano riconosciute particolari benemerenze patriottiche, ossia ai discriminati. Infatti, gli obblighi burocratico-amministrativi imposti anche ad essi e i forti oneri finanziari previsti per l’iscrizione negli albi speciali non rendeva la condizione dei discriminati molto migliore di quella degli altri, per i quali, fossero medici o avvocati, la ridotta clientela ebraica non poteva rappresentare una sufficiente fonte di reddito. Per giunta la facoltà attribuita ai clienti non ebrei di revocare il mandato agli avvocati ebrei prima ancora che fosse decisa la loro sorte rappresentò un’ulteriore limitazione delle loro possibilità di sussistenza. Anche nel caso degli appartenenti alle singole professioni non possediamo per il complesso dell’epurazione dati certi di carattere nazionale, per la mancanza di ricerche su scala complessiva, per l’incertezza delle fonti, per le insidie rappresentate dalle fonti giornalistiche. Queste ultime infatti tendevano nelle pagine cittadine dei quotidiani locali ad enfatizzare demagogicamente l’invasione degli ebrei nelle attività lavorative, equivocando in più casi sui cognomi ebraici o prospettando proporzioni esagerate della quota degli ebrei nei singoli settori professionali al solo scopo di fare da cassa di risonanza alla propaganda antiebraica e di legittimare le espulsioni. Le ricerche locali hanno confermato i limiti delle informazioni che è stato possibile acquisire. Premesso che per gli ebrei stranieri non sussisteva più alcuna possibilità di esercitare alcuna attività professionale, essendo stati privati del permesso di soggiorno o essendo stata revocata loro la cittadinanza, che era condizione preliminare per l’iscrizione agli albi, la loro epurazione si deve considerare radicale e totale. Qualche esempio per documentare l’avvenuta epurazione nelle sedi locali senza tuttavia poter verificare l’incidenza delle esclusioni rispetto al complesso dei professionisti delle diverse categorie nelle rispettive circoscrizioni, posto che secondo i dati ufficiali forniti dal sottosegretario Buffarini Guidi i professionisti ebrei rappresentavano con circa 5.200 unità il gruppo sociale più forte nella composizione della popolazione ebraica italiana. A Bologna le ricerche di N.S. Onofri danno per espulsi dall’albo 14 medici, mentre altri 6 risultano tra i discriminati. Per quanto riguarda gli avvocati gli espulsi furono 14, i discriminati 6, con incertezza sul loro status nell’avvenire, quando in tempo di guerra molte delle discriminazioni vennero revocate. Di altre categorie (ingegneri, commercialisti, farma93

cisti) non si conoscono i dati, ma soltanto il nome di qualche singolo professionista espulso. Per Torino, secondo quanto scrive F. Levi, «dal materiale a disposizione risulta che ‘con decorrenza dalla fine del mese di febbraio 1940-XVIII’ erano stati cancellati dall’albo 15 medici tra Torino e Alessandria, mentre uno solo, poiché discriminato, veniva iscritto nell’elenco aggiunto; 10 ragionieri; 4 giornalisti ed un pubblicista; 37 ingegneri; 30 avvocati e procuratori, di cui 25 nella sola circoscrizione del tribunale di Torino ed i restanti tra Casale Monferrato ed Alessandria». A Firenze furono radiati dagli albi professionali (come scrive A. Minerbi) 22 avvocati, 14 ingegneri, 20 medici e 4 farmacisti. La ricerca compiuta per Trieste da S. Bon offre qualche elemento in più, trattandosi fra l’altro dell’insediamento ebraico in assoluto più consistente sul territorio italiano nel rapporto tra popolazione complessiva e quota di popolazione ebraica. Ora a Trieste l’epurazione per la stessa ragione ebbe un’incidenza particolarmente rilevante: furono radiati dall’albo 22 avvocati, 4 furono discriminati, pari al 12,6 per cento di tutti gli avvocati che esercitavano nel comune; 55 medici (pari al 23,60 per cento) più 6 discriminati; 30 ingegneri, pari all’8,40 per cento. Cifre che indicano da una parte la forza della popolazione ebraica e del ceto dei professionisti ebrei, dall’altra il vuoto che la loro epurazione (tenendo conto anche di quanto avvenne in altri settori, come quello assicurativo, tipici dell’economia della città giuliana) creava nella vita sociale e culturale di Trieste. L’incidenza quantitativa dell’epurazione nei settori professionali presenta come è ovvio un esito assai differenziato, non solo da settore a settore ma anche da città a città, in base al contesto economico-sociale e al peso relativo della componente ebraica nel quadro cittadino. La creazione della categoria dei «discriminati» non alterò sostanzialmente l’incidenza dei provvedimenti epurativi. A parte il tentativo che con le discriminazioni era stato compiuto di dividere gli ebrei in ebrei «buoni» e in ebrei «cattivi», a seconda che presentassero requisiti più o meno graditi al regime, smentendo così apparentemente la rigidità del principio biologico e privilegiando una opzione tipicamente ideologica, l’ambiguità di cui era circondato l’ebreo discriminato comportò spesso per i professionisti conseguenze altrettanto negative. Soltanto nei casi di ebrei discriminati che fecero gesti particolarmente ostentati di fedeltà al regime e quin94

di di clamorosa rottura con i loro correligionari, con ostentate abiure, conversioni o aperte e fattive prese di posizione a favore del regime, la discriminazione mise i soggetti che ne erano stati interessati al riparo da ogni contestazione. Altrimenti anche i discriminati furono coinvolti nell’atmosfera di isolamento che aveva accompagnato la sorte dei non discriminati. Più che l’incerta identità dei discriminati a respingerli al margine della vita sociale contribuiva probabilmente l’aura di incertezza che gravava su di essi, privilegiati rispetto agli altri ebrei ma al tempo stesso additati come beneficiati dal regime e ancora una volta quindi esibiti come cittadini che fruivano di uno status particolare. Le vicende stesse della loro iscrizione in albi speciali erano la conferma dello status particolare nel quale venivano congelati. La più parte certo non poteva prevedere che la loro discriminazione sarebbe stata esibita come titolo di merito dopo la liberazione da funzionari che avevano qualcosa da farsi perdonare per i loro trascorsi politici quando non fossero stati coinvolti nella RSI che avrebbe annullato ogni privilegio di discriminazione. Una valutazione sull’impatto che le leggi contro gli ebrei volute dal fascismo ebbero sulla società italiana non può prescindere dal prendere in considerazione l’atteggiamento che di fronte ad esse assunse la Santa Sede e per essa la Chiesa cattolica. Sul piano generale la considerazione dell’atteggiamento della Santa Sede non può non partire da alcune premesse che storicamente avevano connotato la posizione della Chiesa verso l’ebraismo da una parte e verso il regime fascista dall’altra. Non vi è dubbio che il regime fascista nel prendere decisamente posizione contro gli ebrei tenne conto di quella che era una consolidata tradizione cattolica di antigiudaismo: tradizione tipicamente e meramente elaborata sul piano religioso, che non si era limitata tuttavia a sottolineare le divergenze sul terreno teologico e della dottrina ma che aveva associato nella polemica contro il mondo moderno l’ebraismo alla massoneria, al socialismo, infine al bolscevismo, con uno sconfinamento dal terreno meramente religioso che aveva portato all’avvicinamento a precise posizioni politico-culturali quali quelle espresse dai movimenti e poi dai regimi di tipo fascista. La concezione autoritaria dello Stato e in particolare le tendenze corporative e la condanna della lotta di classe avevano spianato la strada ad una forte convergenza di opinioni e di obiettivi con una Chiesa fortemente autoritaria e gerarchizzata, che nella frontiera 95

dell’antibolscevismo aveva trovato una linea di forte consonanza con il regime fascista e con il regime nazionalsocialista. Soprattutto nei confronti di quest’ultimo la consonanza fu incrinata dalle tendenze esclusivistiche e dall’intransigenza a coprire tutti gli spazi della società senza i limiti di reciproco rispetto che nel fascismo italiano furono posti dal Concordato del 1929. La tendenza esplicita nel nazionalsocialismo di fare del razzismo una sorta di religione di un nuovo paganesimo fissò il limite dell’incontro tra l’antisemitismo nazista e l’antigiudaismo della Chiesa cattolica. La Santa Sede non contestava al Terzo Reich la possibilità che lo Stato adottasse determinati provvedimenti a carico degli ebrei, contestava il nuovo paganesimo nella misura in cui finiva per incidere anche sulle chiese cristiane e in particolare su quella cattolica, limitandone l’esercizio del culto, lo sviluppo dell’organizzazione ecclesiale e della rete di proselitismo, le basi patrimoniali e le forme di propaganda e di espressione attraverso la stampa. L’enciclica Mit brennender Sorge di papa Pio XI del marzo del 1937 va letta in questa chiave, non come condanna in generale del nazionalsocialismo e tanto meno dell’antisemitismo. Oggi è noto d’altra parte che una più ferma ed esplicita condanna dell’antisemitismo che era stata prevista da parte di Pio XI nel marzo del 1938 non fu diramata per i contrasti interni alla gerarchia e per ragioni di opportunità politica in presenza sia di forti residui di antisemitismo cattolico che ne avrebbero impedito una ricezione pacifica e generalizzata all’interno della stessa istituzione ecclesiale sia di preoccupazioni politiche. Un pronunciamento del genere avrebbe sicuramente prodotto una frattura in quella convergenza con le dittature fasciste che aveva avuto uno dei suoi momenti più esaltanti nella guerra di Spagna e per l’Italia, certamente, nella guerra contro l’Abissinia. Restava il fatto che di fronte a misure apertamente razzistiche come quelle che il Reich nazista aveva già adottato sin dal 1933 e convalidato con le leggi di Norimberga del 1935, la cultura cattolica, come ha ben rilevato G. Miccoli, aveva ben scarsi strumenti e ben scarse argomentazioni, dal momento che di fronte alle distinzioni talvolta anche troppo sottili tra un antisemitismo e l’altro alla prova dei fatti ben scarse alternative il mondo cattolico aveva prodotto. E d’altronde, nelle file dello stesso cattolicesimo non mancavano i fautori di un antisemitismo estremo sino alla prefigurazione, e siamo a metà degli anni Trenta!, di soluzioni estreme. Siamo per l’appunto alle po96

sizioni dei clerico-fascisti, che allora in Italia sembravano battere con il loro radicalismo anche le tesi estreme della propaganda fascista, perché non si limitavano ad agitare lo spettro della congiura internazionale ebraica, ma, come farà Gino Sottochiesa nel già citato libello Sotto la maschera d’Israele, anticiperanno la conclusione che nessuna soluzione di una questione ebraica era possibile, né con la conversione al cattolicesimo, dato il fondamento biologico dell’ebraismo, né con l’emigrazione in Palestina: è esagerato concludere che per costoro l’unica soluzione non poteva che essere l’estinzione fisica della popolazione ebraica? Ciò che ostava ad una decisa presa di posizione contro la persecuzione razziale in Germania era anzitutto la forte riserva mentale persistente nei confronti dell’ebraismo mondiale, e del resto espressa esplicitamente, in base alla quale permaneva nel pensiero dei cattolici la convinzione nella natura distruttiva dell’ebraismo e l’arriére-pensée nell’esistenza di una sia pure involontaria congiura internazionale dell’ebraismo. La seconda ragione che frenava qualsiasi presa di posizione a favore dell’eguaglianza degli ebrei era che seppure nel mondo cattolico non era auspicata una nuova persecuzione, le polemiche e le insofferenze contro la presenza degli ebrei e talvolta la denuncia contro la loro super-rappresentatività in alcuni settori facevano dedurre che almeno una parte del mondo cattolico non avrebbe visto di cattivo occhio forme di limitazione della presenza degli ebrei. Non erano auspicate violenze materiali ma non vi erano obiezioni sostanziali a porre argini alla loro presunta invadenza. Una posizione che psicologicamente e culturalmente non poteva preparare certo i cattolici ad una reale opposizione a misure discriminatorie. Un atteggiamento che nessuno meglio di Miccoli ha saputo cogliere nella sua essenza: La memoria storica dei ghetti, delle discriminazioni, delle umiliazioni, delle espulsioni degli ebrei ad opera della Chiesa e dei cristiani, gli ancor freschi ricordi delle accese campagne antisemite che avevano caratterizzato il costituirsi e l’organizzarsi in termini di massa dei movimenti cattolici tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, producono effetti in qualche modo paralizzanti. Opera profondamente nella cultura ecclesiastica un atteggiamento verso la propria storia tutto apologetico e giustificazionistico, che sa riconoscere errori, colpe e deviazioni di singoli, ma resta incapace di prendere le distanze o giudicare nega97

tivamente una linea che era stata della Chiesa nel suo complesso («Studi storici», 1988, 4).

Nell’estate del 1938, in preparazione delle misure contro gli ebrei, era chiaro che il regime aveva interesse a premunirsi sul versante della Chiesa garantendosi se non il consenso quanto meno la non opposizione alle eventuali misure discriminatorie. Ancora alla fine di luglio (il 28) Pio XI aveva ribadito l’ostilità della Chiesa al razzismo con riferimento esplicito agli sviluppi nella Germania nazista ma indirettamente anche all’Italia; il Diario di Ciano in queste settimane riporta ripetutamente l’eco sia dei malumori di Mussolini nei confronti della Chiesa, sia dei tentativi compiuti per evitare uno scontro aperto sulla questione, in un momento in cui il contenzioso con la Chiesa attraversava un passaggio particolarmente delicato con la minaccia di un nuovo conflitto per l’Azione cattolica. Indirettamente dovette influire nel senso di moderare le ostilità della Chiesa l’intrecciarsi di questioni così diverse, che fu strumentalizzato dal regime per ottenere come compenso per le concessioni che esso era disposto a fare sull’Azione cattolica una maggiore prudenza della Chiesa nella questione dell’antisemitismo. A metà agosto, nel quadro di un accordo più complessivo con la Santa Sede, il governo fascista rassicurò pubblicamente la Santa Sede sulla moderazione degli orientamenti del regime, richiamando del resto in forma subdola e strumentale i precedenti della politica ecclesiastica («Quanto agli ebrei, non saranno ripristinati i berretti distintivi, di qualsiasi colore, né i ghetti, e molto meno non vi saranno confische di beni. Gli ebrei in una parola, possono essere sicuri che non saranno sottoposti a trattamento peggiore di quello usato loro per secoli e secoli dai Papi»). Ma ciò che soprattutto premeva al regime era che gli organi ecclesiastici, stampa compresa, si astenessero dal prendere pubblicamente posizione sull’argomento. Un obiettivo che per quanto al momento si sa fu nel complesso raggiunto, lasciando tutte le ombre di ambiguità che rimanevano non esplicitate dal silenzio da parte della Chiesa. Naturalmente, questo non avrebbe impedito che nei mesi successivi un autorevole esponente dell’estremismo fascista, decisamente impegnato nel promuovere la svolta apertamente filonazista come Roberto Farinacci, assumesse nei confronti della Chiesa un atteggiamento apertamente ricattatorio e si richiamasse alla tradizione di intransigenza antiebraica della Chiesa non tanto e non soltanto 98

per sottolineare come in fondo la politica fascista non facesse che rendersi erede di istanze tradizionali della Chiesa, ma soprattutto per ammonire la Chiesa a non interferire in questioni politiche, con una allusione neppure troppo criptica a non porre ostacoli al corso della politica fascista nelle sue tappe di avvicinamento alla Germania nazista. Dal complesso di una pluralità di manifestazioni della stampa e dell’autorità ecclesiastica si è autorizzati a concludere che la Chiesa, senza rinunciare a punti di vista tradizionali della cultura cattolica che riflettevano giudizi e pregiudizi contro gli ebrei, manifestava avversione all’antisemitismo nella versione che ne aveva tradotto il razzismo nazista ma non escludeva che potesse consentire, come dimostrava il plauso a misure recenti del governo ungherese, a forme di discriminazione (per esempio nel senso della presenza proporzionale degli ebrei in determinate attività) che non sfociassero in una legislazione speciale o in pesanti persecuzioni. Come ciò fosse possibile, e se già questo non rappresentasse una contraddizione inestricabile, non faceva parte delle riflessioni nel mondo cattolico. Se ne deve dedurre anche che comunque la Chiesa aveva rinunciato a considerare che la questione dell’antisemitismo così come veniva presentata dal fascismo potesse rappresentare un motivo di scontro frontale con il regime; se anche la Chiesa, se non altro per le più complesse implicazioni politiche non poteva identificarsi con i pronunciamenti del regime, né interamente con il Manifesto degli scienziati, per le ambiguità che permanevano tra la dimensione spirituale e quella biologica, tuttavia sembrava volersi impegnare a sostenere la linea che puntava a sottolineare come specificità di un antisemitismo italiano l’assenza del rozzo biologismo e del risvolto pagano che era sotteso al razzismo nazista. L’affermazione contenuta nell’indirizzo di Pio XI a un gruppo di pellegrini belgi in visita a Roma il 6 settembre 1938, «L’antisemitismo è inaccettabile», rifletteva certamente una radicata convinzione del pontefice, ma non rispecchiava altrettanto sicuramente il punto di vista della gerarchia vaticana e di cerchie influenti del mondo cattolico. L’avvio a partire dal settembre della legislazione discriminatoria pose la Santa Sede dinanzi non più alla previsione di una possibile normativa ma alla necessità immediata di prendere atto della sua emanazione e di valutare se essa rispettasse i principi su cui era stato fondato l’accordo del 16 agosto. La Santa Sede non espresse al99

cuna protesta per l’emanazione delle leggi, si preoccupò viceversa di far sì che dalle sue conseguenze fossero esclusi gli ebrei convertiti (che un rigoroso principio razziale non avrebbe dovuto prendere in considerazione essendo la scelta religiosa ininfluente), mettendo così l’accento sulla questione religiosa. Non è possibile in questa sede entrare in dettagli tecnici complicati; basti dire che la questione capitale per il Vaticano era rappresentata dai matrimoni misti in cui uno dei coniugi fosse di religione cattolica (convertiti compresi). La Santa Sede si sentiva legittimata a intervenire dalla lettera del Concordato, per cui la sottrazione della questione alla sua competenza avrebbe rappresentato, secondo la lettera dei documenti vaticani, «una grave vulnus al Concordato», capace di provocare «tristissime conseguenze» nelle relazioni tra lo Stato e la Chiesa. L’intervento della Santa Sede ottenne parziali modifiche a favore degli ebrei battezzati e dei figli battezzati di matrimoni misti, senza riuscire a imporre gli emendamenti sistematici che erano nei suoi voti, così come parziale successo ebbero i passi compiuti per ottenere in singoli casi l’esonero dai divieti imposti dalla legge. Del resto, lo sappiamo, essa si illuse di limitare il danno cercando di fare collimare le leggi dello Stato fascista con i principi della tradizione cattolica. Morto Pio XI il nuovo pontefice lasciò cadere l’ipotesi del suo predecessore di una condanna di principio dell’antisemitismo nazista; l’enciclica «mancata» confermò la linea degli aggiustamenti possibili evitando ogni scontro frontale. Un cenno infine è necessario dedicare alla sorte degli ebrei stranieri, che si identifica in buona parte con quella di coloro che dopo il 1933 erano giunti in Italia dalla Germania nazista e poi dall’Austria, annessa al Reich nel marzo del 1938, e che è stata studiata da Klaus Voigt (cfr. Bibliografia). Secondo i dati ufficiali, nell’ottobre del 1938 si trovavano in Italia 9.699 ebrei con cittadinanza straniera; di questi presumibilmente poco meno di un terzo era rappresentato da cittadini tedeschi. Il decreto di espulsione del 7 ottobre 1938 colpì tutti i rifugiati indiscriminatamente, ma in particolare i cittadini tedeschi che se restituiti al Reich potevano rischiare di finire in campo di concentramento. Per costoro e per gli ebrei che fuggivano in misura crescente dall’Austria e da altri paesi dell’Europa centro-orientale l’Italia – come sottolinea il già citato manuale per gli ebrei che si accingevano ad emigrare a cura delle organizzazioni di soccorso ebraiche tedesche – cessava di rappresentare un approdo sia pure temporaneo; 100

rimase soltanto via di transito (soprattutto attraverso il porto di Trieste) per chi avesse scelto più lontane mete oltremare. La possibilità che i movimenti degli ebrei in cerca di vie di esodo fossero agevolati dalle autorità di polizia dipendeva spesso dalle autorità locali; contestualmente al crescere dei comportamenti discrezionali di queste ultime crebbero anche i casi di tentativi di espatri illegali, per esempio verso la Francia, o di permanenze clandestine di ebrei che rifiutavano di rendere nota la loro presenza in Italia per timore di essere espulsi o anche soltanto perché la loro registrazione non avrebbe recato loro alcun vantaggio, non essendo più possibile stabilire alcun rapporto di lavoro. Spesso essi rinunciarono anche a iscriversi alle comunità ebraiche di pertinenza territoriale e rinunciarono all’assistenza che esse si sforzavano di dare anche agli stranieri per il timore di rivelare la loro presenza. Una situazione non solo psicologicamente complessa, che accrebbe il senso di insicurezza dei singoli e l’atmosfera di sospetto di cui le autorità di polizia circondavano le pratiche relative ai soggiorni e agli espatri degli stranieri.

6.

La guerra e l’ulteriore progressione dell’emarginazione degli ebrei

All’approssimarsi dell’ingresso in guerra dell’Italia si moltiplicarono le avvisaglie che facevano prevedere che il coinvolgimento nel conflitto avrebbe comportato quasi automaticamente un inasprimento della pressione persecutoria contro gli ebrei. In questa direzione muoveva innanzitutto l’inasprimento della campagna di stampa contro gli ebrei, che diventarono uno dei bersagli preferiti. Su di essi infatti, sulla congiura dell’Internazionale giudaica e sulle trame degli ebrei nelle democrazie plutocratiche furono scaricate le responsabilità per lo scatenamento del conflitto con la promessa (o la profezia) che a pagare il prezzo del conflitto avrebbero dovuto essere gli ebrei. Nessun altro che Giovanni Ansaldo, pubblicista di regime e direttore del «Telegrafo» di Livorno, il foglio della famiglia Ciano, alla vigilia dello scatenamento del conflitto mondiale denunciava la propaganda di guerra di cui era protagonista l’ebraismo e ammoniva macabramente gli anglo-americani «che se in un giorno nefasto voi vi lascerete indurre da loro a una guerra vendicatrice contro gli Stati autoritari, sappiatelo: sono i vostri figli quelli che marceranno [...] che faranno biancheggiare di ossari tutti i campi di battaglia del mondo», presentando gli ebrei come «gli Isaia da strapazzo» che non si sarebbero esposti direttamente nel conflitto ma avrebbero fatto fare ad altri la guerra per conto loro, riesumando l’immagine della viltà degli ebrei che tramano nell’oscurità, che manipolano le altrui coscienze e ne strumentalizzano le disponibilità. E dopo il discorso minaccioso di Hitler del 30 gennaio 1939 ne riecheggiava la 102

profezia secondo cui se si fosse pervenuti alla guerra mondiale ne sarebbe sortita «la più tragica sentenza che sia mai stata pronunciata» contro gli ebrei, ossia la distruzione completa della razza ebraica. Così come non poteva non essere «un sozzo ebreo come Blum», corresponsabile della guerra, responsabile principale della disfatta francese e comunque una delle «figure-simbolo contro le quali incanalare gli attacchi rivolti verso l’ebraismo internazionale» (F. Balloni). La prosa di Giovanni Preziosi, sicuramente il più accanito dei libellisti antisemiti, che martellava dalla sua rivista «La vita italiana» senza sosta il suo odio contro gli ebrei, non fu seconda nella denuncia delle responsabilità per la guerra. «E la guerra ebrea è venuta» poteva trionfalmente annunciare il 15 settembre 1939 dalla sua rivista: 1. La guerra è stata preparata in America dall’ebraismo che ha nel governo dell’Inghilterra i suoi maggiori strumenti europei: uomini che la stampa dominata dall’alta finanza ebraica fa passare per «ottimi inglesi», presentando la loro politica come autentica politica inglese. 2. La prima e più grande responsabilità – dopo quella di Roosevelt – della «guerra ebraica» spetta perciò all’Inghilterra [...]. 3. La guerra, voluta e preparata dal giudaismo è stata scatenata per opera della Polonia, che ospita in Europa il maggior numero di ebrei e dove l’ebraismo, dominatore ora come non mai, ha avuto come inflessibile strumento quel colonnello Beck, che l’organo ebraico «Jewish Daily Post» fin dal 28 luglio 1935 vantava con queste parole: «Il colonnello Beck è noto come ebreo». [Preziosi non sapeva o fingeva di non sapere che il ministro degli Esteri polacco Beck era talmente poco ebreo che aveva insistentemente chiesto alla Società delle Nazioni che alla Polonia fossero attribuite colonie in Africa per potervi espellere per l’appunto gli ebrei polacchi, N.d.A.]. 4. L’odio ebraico contro la Polonia ebbe le più atroci e calunniose manifestazioni proprio nella politica dell’Inghilterra [...]. Quando la Polonia ebbe al governo uomini designati dell’ebraismo (primo fra tutti il colonnello Beck) l’Inghilterra diventò la sostenitrice della Polonia presentata come angelo di pace. Nel pensiero degli uomini di fiducia dell’ebraismo inglese, la Polonia doveva diventare, una volta sparita la Cecoslovacchia, il paradiso degli ebrei nel centro di Europa [...]. 6. Hore Belisha, l’agitato ministro ebreo della «guerra ebrea» scatenata dall’Inghilterra è, assieme a Churchill e ad Eden, il maggior sostenitore della guerra «fino in fondo»; perché in essa vede la vendetta d’Israele. 7. Tutto il mondo sa quale è stata in un ventennio l’opera costante ed ammonitrice di Mussolini per evitare fino all’ultimo momento questa 103

guerra: tutto il mondo sa pure che anche la Francia aveva all’ultima ora acceduto alla proposta di Mussolini, tendente non solamente a risolvere il conflitto tra Germania e Polonia, ma ad affrontare l’intollerabile ingiustizia di Versaglia. È stato il «no» della inflessibilità giudaica dell’Inghilterra che ha deciso la guerra minuziosamente preparata.

Le citazioni alle quali ho fatto ricorso non sono che piccolissimi frammenti ed esempi di una pubblicistica che con l’approssimarsi della guerra si era andata infittendo e che si deve considerare lo sfondo sul quale si sarebbe sviluppata la propaganda di guerra allo scopo di demonizzare l’ebreo, di fare convergere su di esso le ostilità della popolazione e di potenziarne la qualità di bersaglio, non più soltanto come nemico interno ma ora anche come nemico esterno. E non bisogna pensare soltanto a quanto veniva scritto sui giornali: la propaganda passava attraverso la radio, che trasmise alcuni dei più subdoli messaggi e dei più squallidi propagandisti; passava attraverso i manifesti affissi sui muri per le strade, attraverso le cartoline pubblicitarie appese nei mezzi di trasporto, nelle circolari dirette agli uffici e alle scuole e via dicendo. Un’opera capillare e sottile di diffamazione degli ebrei che doveva servire ad alimentare l’ostilità verso di loro e a far sì che la popolazione canalizzasse nei loro confronti malumori e insoddisfazioni e facesse da coro alle misure restrittive che il regime si apprestava a varare per penalizzare ulteriormente gli ebrei. Nel corso del conflitto questo tipo di propaganda sarebbe divenuto sempre più frequente e dal punto di vista del regime insostituibile per addossare agli ebrei anche i rovesci militari dell’Italia fascista, incapace e impossibilitata di fare qualsiasi autocritica del suo malgoverno e del suo avventurismo politico-militare. Su questo risvolto della propaganda a guerra inoltrata avremo modo di ritornare. Che il regime avvertisse l’esigenza di enfatizzare la responsabilità degli ebrei per la guerra si può evincere anche dalla durezza dei provvedimenti che furono adottati per accentuarne ed accelerarne l’emarginazione. Non ci consta che esso potesse temere forti reazioni di opinione pubblica proprio nel momento in cui si cercava di compattare il consenso intorno all’entrata in guerra; c’è da pensare piuttosto che fare la faccia feroce contro gli ebrei potesse servire a vieppiù cementare la solidarietà intorno al fascismo mettendo alla berlina i simboli dello schieramento avverso. I cortei degli studenti e delle scolaresche che venivano portati a manifestare a favore 104

dell’entrata in guerra incontravano talvolta sulla loro strada le sinagoghe delle città italiane: i manifestanti potevano anche non sapere che cosa esse rappresentassero nella realtà, ma i funzionari del regime le additavano come simbolo di quel potere occulto dal quale si voleva scaturissero le trame contro l’Italia e contro la pace. Poco sappiamo ancora sulla genesi dei provvedimenti che alla vigilia dell’entrata in guerra sfociarono nelle prime misure di restrizione della libertà personale degli ebrei. La cosa certa è che il 16 maggio 1940 il Ministero dell’Interno predispose una prima circolare che prevedeva in caso di guerra l’internamento dei sudditi di Stati nemici, secondo una norma di carattere generale che rientrava negli usi di tutti gli Stati belligeranti; il fatto nuovo di un provvedimento del genere è che in esso fosse esplicitamente contemplato l’internamento di «tutti gli ebrei stranieri», come categoria a se stante, della quale veniva pertanto sottolineato il trattamento particolare. In successive circolari il Ministero dell’Interno istruiva le prefetture sulla necessità di procedere all’internamento anche di una parte almeno degli ebrei italiani. Il 27 maggio si prescriveva infatti che «in caso di emergenza oltre ebrei stranieri di cui a precedenti circolari sarà necessario internare quegli ebrei italiani che per la loro pericolosità fosse necessario allontanare da abituali loro residenze». Si doveva procedere entro dieci giorni alla compilazione dei relativi elenchi, salvo poi formulare separate proposte per i «casi che presentano effettivo pericolo per ordine pubblico». Il 6 giugno una ulteriore circolare telegrafica sembrava interpretare in senso estensivo il concetto della «pericolosità» degli ebrei da proporre per l’internamento, in quanto «pericolosità ebrei italiani internare deve essere esaminata anche nei riguardi loro capacità propaganda disfattista et attività spionistica». Sappiamo ancora che il 26 maggio il sottosegretario Buffarini Guidi comunicava al capo della polizia Bocchini che «il duce desidera che si preparino dei campi di concentramento anche per gli ebrei, in caso di guerra». Sappiamo anche che ebrei stranieri ed ebrei italiani avrebbero dovuto essere internati in campi di concentramento o comunque in luoghi di internamento differenziati. Gli ebrei stranieri erano destinati ad appositi campi di concentramento, gli ebrei italiani sarebbero finiti con altri elementi considerati pericolosi, ossia generalmente con uomini dell’antifascismo. La decisione di considerare gli ebrei, stranieri o italiani, come gruppo a se stante derivava evidentemente dagli orientamenti assunti nel momento stesso in cui era stata vara105

ta la prima legislazione razzista; l’internamento e l’invio nei campi di concentramento sotto questo profilo era la coerente prosecuzione (e forse anche la normale e inevitabile conclusione) di quell’indirizzo; l’aggravamento della pressione sugli ebrei in concomitanza con lo stato di guerra aveva anche una indubbia valenza propagandistica, in consonanza con l’inasprimento della guerra psicologica che vedeva gli ebrei più che mai sul banco degli accusati (Poliakov parlerebbe di capro espiatorio). L’enfatizzazione della pericolosità degli ebrei, almeno per quanto riguardava gli italiani, faceva parte di questo complesso: non vi era oggettivamente nessun motivo per mandare gli ebrei in campo di concentramento; togliere dalla circolazione alcuni (molti o pochi) dei loro esponenti serviva tuttavia da una parte per sottolineare un pericolo potenziale – la presunzione della loro pericolosità più che la constatazione di fatti concreti rivolti contro il regime – dall’altra, a usare la leva dell’intimidazione contro il complesso della popolazione ebraica; infine, a concentrare su di loro l’odio e l’odiosità che si doveva riservare, con tanto maggiore animosità che non verso il nemico esterno, al nemico interno. Al di là della questione razziale in senso stretto, non va neppure sottovalutato il significato che la creazione delle nuove strutture concentrazionarie significava per l’evoluzione dello Stato di polizia in Italia e per lo sviluppo delle strutture del terrore e della repressione. Non basta dire che il sistema concentrazionario in Italia era meno rigido di quello nazista in Germania (un confronto che al limite potrebbe risultare fuorviante), bisogna rilevare piuttosto come rispetto alla tradizione anche di uno Stato autoritario e delle strutture dello stesso Stato di polizia in Italia il passaggio alla fase concentrazionaria rappresentasse un salto di qualità di notevole spessore. Solo in parte infatti si può considerare che il campo di concentramento fosse una dilatazione della colonia di confino come è sicuramente dimostrabile nel caso del campo di Pisticci. Il più grande dei campi di concentramento (è questa la denominazione ufficiale di tali siti) per ebrei stranieri fu quello di Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza, che incominciò a funzionare il 29 giugno 1940. Come è stato ripetutamente messo in luce, soprattutto dal suo maggiore storico Carlo S. Capogreco, Ferramonti, oltre ad essere il più importante in assoluto dei campi di concentramento in Italia, fu anche uno dei pochi che furono appositamente costruiti come tali, secondo la tipologia del campo di barac106

che mutuata dai campi per prigionieri di guerra, e che non sfruttarono strutture preesistenti (vecchie caserme o fabbriche o comunque edifici dismessi) come avvenne nella maggioranza dei casi. Le ricerche attestano che i luoghi definiti come campi di concentramento furono sicuramente 51 come luoghi di internamento collettivo, mentre oltre 250 furono le località del cosiddetto «internamento libero», più vicine per la loro disciplina al tradizionale confino di polizia e non necessariamente legate alla formula dell’internamento collettivo. Nati come campi per ebrei molti di essi, in relazione alle esigenze e al decorso della guerra, finirono per ospitare deportati provenienti da aree (principalmente quelle balcaniche) cadute sotto dominazione italiana, ma anche ebrei ed antifascisti italiani. Questa categoria di campi era sottoposta alla giurisdizione del Ministero dell’Interno, che vi esercitava le sue funzioni attraverso unità dei corpi di polizia; ma nel corso del conflitto sorsero anche altri campi, al di là degli appositi campi per prigionieri di guerra, che furono posti sotto la giurisdizione del Ministero della Guerra e delle Forze armate e che furono destinati all’internamento di militari e civili dei territori occupati catturati come partigiani o nelle azioni di rastrellamento intraprese per tentare di ristabilire l’autorità italiana in zone nelle quali questa era stata contestata dalla ribellione delle popolazioni locali. Il più grande di questi campi fu quello di Renicci in provincia di Arezzo, che in un secondo momento fu omologato ai campi gestiti dal Ministero dell’Interno. Le circostanze legate all’evoluzione della situazione interna e militare durante il conflitto fecero sì che in prosieguo di tempo le rigide distinzioni tra i vari tipi di campi si andassero attenuando, creando margini di permeabilità tra le diverse categorie dei soggetti destinati all’internamento; l’unica categoria che in linea di massima sembra avere conservato sino all’ultimo la sua individualità è quella dei prigionieri di guerra, anche se il carattere ideologico che assunse il conflitto coinvolse talora anche queste categorie, se non in una sistematica violazione delle convenzioni internazionali che proteggevano i prigionieri, nel gioco delle opposte propagande che miravano a reclutare ciascuna per il proprio schieramento gli stati d’animo e la solidarietà dei prigionieri. Uno sguardo all’elenco dei campi di concentramento per ebrei consente di osservare immediatamente come essi fossero concentrati essenzialmente nell’area centro-meridionale della penisola, con una forte concentrazione tra la Toscana, le Marche e l’Abruzzo, la 107

Campania e la Puglia, in località lontane dai confini settentrionali del regno e in linea di massima anche da una rete di comunicazione di facile accessibilità, a sottolineare la preoccupazione, probabilmente, di tenere i soggetti considerati pericolosi fuori dalla possibilità di mantenere stretti contatti con l’esterno se non a prezzo di faticosi spostamenti da parte dei familiari, nel caso degli internati italiani. Raggruppati per provincia l’elenco dei campi dei quali ci stiamo occupando dà luogo a questa elencazione: Parma 2 (Montechiarugiolo; Scipione-Salsomaggiore); Firenze 2 (Bagno a Ripoli; Rovezzano-Montalbano); Arezzo 2 (Civitella della Chiana; Renicci-Anghiari); Ancona 2 (Fabriano; Sassoferrato); Macerata 4 (Urbisaglia; Petriolo; Pollenza; Treia); Perugia 1 (ColfioritoFoligno); Roma 1 (Castel di Guido); Littoria 2 (Ponza, Ventotene); Rieti 1 (Farfa Sabina); Frosinone 1 (Fraschette-Alatri); Teramo 7 (Civitella del Tronto, Corropoli, Isola del Gran Sasso, Nereto, Notaresco, Tortoreto, Tossiccia); Pescara 1 (Città Sant’Angelo); Chieti 6 (Chieti, Casoli, Istonio, Lama dei Peligni, Lanciano, Tollo); Campobasso 6 (Agnone, Boiano, Bonefro, Casacalenda, Isernia, Vinciaturo); Avellino 3 (Ariano Irpino, Monteforte Irpino, Solofra); Salerno 1 (Campagna); Foggia 2 (Manfredonia, Tremiti); Bari 2 (Alberobello, Gioia del Colle); Matera 2 (Pisticci, Montalbano Jonico); Cosenza 1 (Ferramonti-Tarsia); Messina 1 (Lipari); Palermo 1 (Ustica). È possibile che questa elencazione ripresa dalle ricerche di Capogreco allo stadio del 1993 sia suscettibile di ulteriori integrazioni. Di sicuro regna ancora qualche incertezza sull’attribuzione della qualifica di campo di concentramento dato il gran numero di località d’internamento sparse in tutta la penisola. Minore incertezza regna nelle categorie delle persone soggette alla restrizione della libertà personale cui si riferiva la normativa ministeriale: gli ebrei stranieri in blocco, una parte di quelli italiani; gli zingari italiani per i quali sin dal giugno del 1940 risulterebbero adottati provvedimenti restrittivi («est indispensabile che tutti zingari siano controllati dato che in istato libertà essi riescono facilmente sfuggire ricerche aut prove appunto per loro vita girovaga» si ribadiva in una circolare ministeriale del settembre) posto che per quelli stranieri era stata prevista l’espulsione; gli antifascisti dei quali spesso veniva distinta la particolare categoria degli «allogeni», ossia degli appartenenti a mi108

noranze nazionali soggette alla sovranità italiana (sono così generalmente indicati gli slavi della Venezia Giulia, mentre gli slavi catturati e rastrellati nella Jugoslavia sconfitta caddero sotto altre fattispecie); tra gli antifascisti una sottocategoria fu rappresentata dagli elementi già condannati dal tribunale speciale, per i quali alla scadenza della pena si valutò l’opportunità di non lasciarli in libertà ma di prolungarne l’isolamento dalla società; i sudditi di Stati nemici. Quanti furono gli ebrei internati in Italia? Gli ebrei stranieri, i quali tutti, senza eccezione, avrebbero dovuto entrare in campo di concentramento furono alcune migliaia. Quanti dei circa 4.000 ebrei stranieri che risultavano ancora in Italia nel maggio del 1940 finirono in campo di concentramento? Neppure su questo aspetto possediamo statistiche sicure, anche perché apparentemente in definitiva il campo di concentramento avrebbe potuto essere un luogo più sicuro, posto come era sotto protezione sia pure del nemico; di fatto però rimase pur sempre un numero di ebrei stranieri che preferì affrontare la clandestinità, non denunciando la propria presenza, talvolta nella segreta speranza prima o poi di potere lasciare l’Italia. Si potrebbe cercare di fissare il numero approssimativo degli internati sommando gli ospiti dei singoli campi ma anche questo è un calcolo di non facile realizzazione, date le variazioni che il numero degli internati subì negli anni e la pluralità di forme dell’internamento che spesso non consente di distinguere anche all’interno dello stesso nucleo familiare la posizione di ciascuno. Sappiamo che all’apice del suo sviluppo, nell’estate del 1943, il campo di Ferramonti dovette ospitare intorno a 2.000 internati, ma non sappiamo quanti esattamente ne siano transitati da Ferramonti. Degli ebrei stranieri almeno un contingente fu vittima di vera e propria deportazione dall’Italia: gli ebrei libici (alcuni di cittadinanza inglese) che furono trasferiti sul territorio italiano al momento dell’abbandono dell’ex colonia italiana, un trasferimento del quale forse non conosceremo mai la ragione: ostaggi per eventuali scambi di prigionieri per trattative di pace? Comunque sia, agli ebrei stranieri che venivano rinchiusi in campo di concentramento in Italia, taluni già reduci da esperienze nei campi di concentramento nazisti e comunque al corrente della sorte riservata ai loro correligionari sotto la dominazione tedesca, l’internamento in Italia appariva il meno peggio che potesse capitare. Uno stato d’animo che si può esemplificare con le parole delle memorie dell’ebrea polacca Maria Eisenstein: 109

Speravo che Mussolini non avrebbe consegnato gli ebrei stranieri a Hitler. Così non ci sarebbe stato da temere che l’internamento in Italia. Questo non m’incuteva troppo spavento. Ne ero anzi un po’ curiosa. Non poteva essere peggio del carcere e infine anche nel carcere non si stava poi tanto male [...] Comunque, di fronte alla morte sicura che mi aspettava in Germania, il campo non era che uno scherzo – per quanto certo non molto gradevole.

Gli ebrei italiani che finirono nei campi di concentramento o all’internamento libero in Italia furono molto meno. Neppure di essi si conosce la cifra esatta; da una statistica del Ministero dell’Interno dell’autunno del 1942 risulterebbero a quella data 233; ma quanti effettivamente subirono il provvedimento? Le ricerche degli ultimi anni ridimensionano fortemente le cifre che furono fatte nei decenni passati. Oggi le stime si attestano, secondo criteri diversi di valutazione e sulla base di riscontri documentari lacunosi, su un numero variabile tra le 300 e le 400 unità. Qualche notizia in più si può precisare sulla qualità degli internati: chi erano? Si trattava di ebrei che avevano già subito misure di isolamento (confino di polizia) anteriormente alle leggi razziali per antifascismo e soprattutto ebrei che venivano sospettati di comportamenti disfattisti e antifascisti in relazione allo stato di guerra, ossia persone nei cui confronti l’attenzione della polizia era stata acuita dall’eccezionalità dell’evenienza bellica e dalla presunzione di pericolosità che l’inasprimento della persecuzione aveva fatto montare intorno ad essi, specie quando si trattasse di personalità di rilievo intellettuale, quali Leone Ginzburg, sul cui relegamento al confino possediamo la testimonianza della moglie Natalia; Carlo Alberto Viterbo, membro autorevole della comunità fiorentina e dell’Unione delle comunità; Bruno Pincherle, medico e autorevole personalità dell’antifascismo triestino al pari dell’avvocato Ugo Volli; Edgardo ed Ezio Volterra, noti commercianti anconetani, Mario Paggi, noto esponente della classe forense a Milano, Raffaele Cantoni, autorevole esponente della comunità fiorentina o i numerosi venditori ambulanti livornesi e romani, con i quali si volevano colpire gli strati più popolari della popolazione ebraica dai quali non ci si poteva attendere certo particolari infatuazioni patriottiche. Quali erano le condizioni di vita nei campi e quale lo spirito degli internati? Le ricerche in corso, benché avviate con enorme ritar110

do rispetto agli studi generali sulla storia del regime fascista, hanno consentito nell’ultimo decennio di fare luce con sufficiente approssimazione su quello che si può considerare un vero e proprio sistema concentrazionario nell’Italia fascista. Sebbene la tardiva ricerca di testimonianze dirette dei soggetti che furono vittime dell’internamento abbia ostacolato una più puntuale ricostruzione, gli archivi, soprattutto quelli periferici locali, si sono rivelati singolarmente ricchi di documentazione, sia di quella ufficiale relativa alle normative generali sia di quelle attinenti alla prassi amministrativa e di gestione delle situazioni locali. Alcuni dati trascendono tuttavia la dimensione locale e si possono considerare caratteristici di condizioni più generali. L’arresto di alcune migliaia di ebrei stranieri di condizione disomogenea – vi erano fra di essi professionisti e commercianti costretti ad abbandonare la propria attività e quindi ad affrontare crescenti difficoltà economiche ed esistenziali ed ebrei in transito dall’Italia alla ricerca di una via di emigrazione, cittadini stranieri o apolidi che speravano di intraprendere in Italia gli studi che non erano consentiti loro nei paesi d’origine – alimentò il grosso della popolazione dei campi di concentramento in Italia; molti di costoro prima di arrivare ai campi di concentramento conobbero le carceri italiane, essendo stati arrestati quando i luoghi destinati al loro internamento non erano stati ancora allestiti. La precarietà delle loro condizioni fu aggravata dalla precarietà delle strutture, improvvisate in locali che non erano stati previsti per alloggiarvi persone ma il più delle volte solo per esercitarvi attività produttive (ex fabbriche, ex mulini, magazzini e via dicendo); nel caso degli stranieri il non avere un retroterra familiare o solidi legami in loco peggiorava sensibilmente la condizione personale, dovendo gli internati provvedere in genere economicamente al proprio sostentamento o potendovi provvedere soltanto con il modesto compenso che potevano ricevere per il servizio che rendevano all’autogestione, per così dire, del campo. La restrizione della libertà personale era resa più o meno dura dal comportamento dei comandanti e delle guarnigioni dei singoli campi; dove era consentito un limitato contatto con le popolazioni locali il controllo della polizia si faceva più stringente, per cui le possibilità di aggiustamenti e accomodamenti che rendessero la condizione di cattività più tollerabile incontravano maggiori ostacoli. Nel caso degli ebrei italiani internati il sentimento generalizzato era l’umiliazione subita con la perdita del111

la libertà personale e soprattutto con la separazione della loro sorte da quella degli altri cittadini italiani, senza che spesso vi fosse alle spalle dell’internamento una consapevole attività di opposizione al regime per cui fosse chiaro al soggetto colpito il rapporto che era già stabilito nei suoi confronti da parte dell’autorità. L’offesa della propria dignità di ebreo e di cittadino era pertanto intesa in maniera particolarmente sensibile da chi era stato colpito dal provvedimento senza che vi fosse nulla di specifico da imputargli. I più difesero con orgoglio la propria dignità e la propria identità di ebrei, cercando anche di assolvere ai precetti religiosi che non rappresentavano soltanto un fattore di soddisfazione personale ma anche un modo di comunicazione di una appartenenza e di riconoscimento di una identità collettiva. L’esperienza più complessa e per certi aspetti più matura dell’internamento degli ebrei in Italia fu sicuramente quella vissuta nel campo di Ferramonti di Tarsia, il quale, sebbene alla vigilia della caduta del regime fascista ne fosse stato previsto il trasferimento verso le regioni settentrionali, in base al criterio di tenere i luoghi dell’internamento lontani dal teatro di guerra, visse fortunosamente e fortunatamente la vicenda paradossale di trovarsi vicinissimo alla linea del fronte, allorché gli anglo-americani dopo lo sbarco in Sicilia all’inizio di settembre del 1943 misero piede sull’estremità meridionale della Calabria. La rotta delle forze tedesche costrette a una rapida ritirata dalla punta dello stivale della penisola italiana fu la salvezza del campo di Ferramonti, il primo ad essere liberato dagli alleati, al quale fu risparmiata la sorte dei campi dell’area centro-settentrionale che finirono quasi sempre per rappresentare il supporto logistico e operativo della fase più atroce della persecuzione dopo l’8 settembre del 1943. Nel 1942 il regime si ricordò che avrebbe potuto fare partecipare allo sforzo bellico anche gli ebrei, una situazione paradossale perché era stato il regime stesso nel suo proposito di escludere gli ebrei dalla società italiana ad esonerarli dal servizio militare. Allo scoppio della guerra almeno un paio di centinaia di ebrei italiani e forse più, a giudicare dalle testimonianze custodite presso l’Archivio centrale dello Stato, scrissero alle autorità e al duce in persona per esternare la loro volontà di annunciarsi come volontari per combattere nelle file delle patrie forze armate. Si trattava di persone che avvertivano l’umiliazione di sentirsi esclusi dalla partecipazione allo sforzo col112

lettivo e che con questo atto di volontario sacrificio cercavano anche di ottenere una riabilitazione e il reinserimento nella compagine nazionale, senza che il loro gesto, certo frutto del superamento di resistenze interne e di orgoglio ferito, trovasse alcuna comprensione e alcuna concessione da parte del regime. Ora perciò la chiamata per il lavoro obbligatorio da parte dello stesso regime nel momento delle difficoltà non poteva non avere un sapore di beffa. La prima disposizione in proposito fu presa dalla Demorazza il 6 maggio 1942. In tale data con circolare ai prefetti del Regno la Demorazza stabiliva: «Con disposizione ministeriale odierna appartenenti razza ebraica anche se discriminati di età dai diciotto ai cinquantacinque anni compresi sono sottoposti precettazione a scopo di lavoro». Al testo di questa comunicazione impartita dal sottosegretario Buffarini Guidi fecero seguito le disposizioni di attuazione, che prevedevano la mobilitazione per il lavoro degli ebrei, uomini e donne, compresi nelle fasce d’età indicate. L’11 maggio una successiva circolare specificava i principi guida della precettazione: L’avviamento al lavoro degli ebrei precettati sarà attuato dal prefetto man mano che si presenti l’opportunità, tenendo presente, per quanto possibile, le seguenti disposizioni di principio che hanno ispirato le disposizioni razziali e con le opportune cautele di ordine politico: a) gli ebrei devono lavorare separatamente dagli ariani ed in nessun caso avere alle loro dipendenze lavoratori ariani; b) nell’impiego degli ebrei al lavoro debbono essere tenute presenti le disposizioni limitative contenute nelle leggi e nelle disposizioni razziali in vigore ed in special modo le limitazioni che interessano l’apprestamento bellico et la difesa del territorio nazionale.

Di fatto come del resto specificato in ulteriori disposizioni (circolare 5 agosto 1942 della Demorazza), gli ebrei potevano essere impiegati unicamente – salvo «eccezioni specificamente indicate» – «a lavori manuali, salvo previo accertamento – in casi dubbi – della loro idoneità fisica». Gli ebrei da precettare dovevano appartenere alle classi di leva dal 1910 al 1922 compreso, ossia ebrei «che avrebbero avuto obblighi militari se non fossero intervenute le disposizioni razziali». Vedremo nei fatti come l’obbligo al lavoro per gli ebrei dal punto di vista del contributo allo sforzo produttivo dell’apparato belli113

co italiano sia stato praticamente nullo, anche perché le disfunzioni della mobilitazione bellica dell’Italia avevano origini ben più profonde ed erano organiche al rapporto tra potere politico e potere economico nel regime fascista. Del resto, fu proprio il martellamento propagandistico che accompagnò l’improvvisa scoperta degli ebrei come risorsa da coinvolgere nella mobilitazione bellica a sottolineare il significato meramente demagogico-propagandistico del loro impiego. Così come agli ebrei era stata rinfacciata la responsabilità per lo scatenamento della guerra, ora agli ebrei veniva rinfacciata la loro assenza dallo sforzo bellico, come se a tenerli lontano dagli obblighi imposti al resto delle componenti della società non fosse stato lo stesso regime che ora si scandalizzava della loro assenza. Tra le molte citazioni dalla stampa che si potrebbero riportare ne scegliamo una da un giornaletto fascista di provincia, la «Maremma» di Grosseto, il cui linguaggio particolarmente becero rende bene i toni di esasperazione propagandistica e diffamatoria di cui fu circondata l’operazione della precettazione: I contingenti di ebrei precettati dal servizio del lavoro sono stati destinati a soddisfare alla prestazione obbligatoria attraverso l’esecuzione di lavori manuali. La tribù d’Israele prende contatto col piccone e la vanga e apprende di quale onesto sudore è santificata la fatica dell’uomo. Sono tra i precettati banchieri, mercanti, usurai, intermediari, cioè i più tipici esemplari dell’organizzazione economica giudaica, che ha sempre ignorato la funzione, nobile e faticosa, del produttore, per approfondire quella, più comoda e redditizia, dello speculatore. Coloro che superficialmente vanno ancora cianciando dell’intelligenza degli ebrei, non hanno certamente mai riflettuto su questo sapiente aspetto della loro funzione economica. L’ebreo non è un produttore. Ha, nella ricchezza dei popoli, la funzione del fungo. È sostanzialmente un parassita che traffica sulla ricchezza prodotta dal resto dell’umanità, traendone i maggiori profitti ed i migliori guadagni.

Nei fatti gli ebrei soggetti alla precettazione erano invitati ad autodenunciarsi: la loro registrazione avveniva presso gli uffici comunali, spettava poi alle prefetture estrarre da queste registrazioni le liste dei precettabili e provvedere alla loro assegnazione al posto di lavoro. Dato lo scarso esito della precettazione, se ne può concludere che questa nuova operazione di registrazione servì essenzialmente ad aggiornare le liste sulla presenza degli ebrei in Italia; fu cioè una ul114

teriore operazione di controllo sociale, destinata in anni a venire a fornire dati aggiornati agli uffici che furono addetti alla predisposizione delle deportazioni. Le notizie che possediamo con provenienza di diverse parti d’Italia sono concordi nel sottolineare l’esito quantitativamente esiguo della precettazione per le ragioni più diverse. Dappertutto una delle prime obiezioni che fu mossa contro i nuovi provvedimenti vessatori era la considerazione che date le caratteristiche della popolazione ebraica si trattava di persone poco adatte per attitudini e per struttura fisica a lavori manuali pesanti, quali quelli per i quali si volevano impiegare gli ebrei (lavori di sterro o di argini del Tevere come a Roma, di bonifica come a Firenze, lavori agricoli o di manutenzione di opere idrauliche o di generica manovalanza altrove). In taluni casi la precettazione distoglieva ebrei cui era stato consentito di continuare a lavorare in considerazione della loro particolare competenza da posti di lavoro in cui erano stati considerati insostituibili. La confusione si sommò all’approssimazione, alla larghezza con cui furono accordati esoneri per insufficienze fisiche e valutazioni sulla non idoneità delle persone interessate a ricoprire i ruoli ai quali dovevano essere destinate. Nonostante il fatto che la stessa Unione delle comunità si fosse resa disponibile per favorire l’impegno al lavoro degli ebrei, nella convinzione presumibilmente di contribuire alla loro reintegrazione nella società nazionale, il bilancio dell’operazione fu pressoché fallimentare. Al di là dei molti dubbi che nascevano dai nuovi provvedimenti, come è attestato dalla pioggia di chiarimenti che le autorità periferiche furono costrette a chiedere ai ministri competenti, i nuovi impegni imposti dalla precettazione ponevano un nuovo vincolo a carico degli ebrei, incidendo sulla libertà di movimento di quanti non si trovassero in campo di concentramento o in località di internamento. Inoltre, come notavano alcune prefetture, tenere gli ebrei separati dai lavoratori «ariani», come era prescritto dalle disposizioni preliminari, non sempre era facile né possibile; la contraddittorietà degli ordini di partenza era tale che in molti casi si rinunciò a servirsi della manodopera degli ebrei per il semplice fatto che non c’erano lavori che potessero adattarsi alla loro situazione. E d’altra parte gli ebrei, impiegati, professionisti o commercianti, che erano stati avviati al lavoro rendevano inevitabilmente troppo poco perché si giustificassero le procedure, ivi compresa la loro sorveglianza, necessa115

rie per garantirne l’inoltro al lavoro. Comunque si guardasse e si considerasse la questione, la natura politica dei provvedimenti era sufficiente a rivelarne il carattere punitivo, non era in alcun modo adeguata a giustificarne un impiego nel campo produttivo, e per l’improvvisazione con cui il personale avrebbe dovuto essere avviato al lavoro e per il suo scarso rendimento, che pose fra l’altro il problema dei parametri da adottare per corrispondere il compenso al lavoro prestato e più spesso non prestato. Oltre tutto, ma questa è una considerazione di carattere generale che riguarda le caratteristiche della mobilitazione civile dell’Italia in guerra, vi fu anche la difficoltà di impiegare gli ebrei derivante dal fatto che, a differenza che in altri paesi coinvolti dallo sforzo bellico, in Italia non vi era carenza di manodopera, tutt’altro. Del lavoro degli ebrei non c’era bisogno, ma far fare agli ebrei la figura degli speculatori e degli strangolatori della nazione era una carta propagandistica che nelle sconfitte militari del regime e nella crisi incipiente del fronte interno valeva la pena di essere giocata. Nella sostanza furono poco più di diecimila – secondo le stime più attendibili fondate su una documentazione sicuramente lacunosa – gli ebrei che furono effettivamente mandati al lavoro coatto, rimanendo largamente imprecisato il numero di coloro che avrebbero dovuto essere precettati; fra l’altro, pur essendo comminato il deferimento ai tribunali militari di quanti si sottraessero all’obbligo del lavoro, lo stato di confusione in cui già versavano il paese e l’amministrazione, lo sfollamento delle grandi città e l’incipiente dispersione della popolazione ebraica contribuirono a rendere ancora più precario l’accertamento di quanti sarebbero stati tenuti a ottemperare all’ordine di autodenuncia. Le disposizioni del maggio-agosto del 1942 furono tuttavia soltanto una tappa interlocutoria sulla via della mobilitazione degli ebrei. La loro condizione subì infatti un nuovo giro di vite alla vigilia del crollo del regime fascista, allorché fu decretata la mobilitazione totale degli ebrei, compresi gli appartenenti a famiglie «miste», per il lavoro obbligatorio e contestualmente il loro internamento in campi di concentramento a sottolineare la natura delle loro prestazioni come lavoro forzato. Nel mezzo della crisi del regime, ormai esplosa apertamente, una nuova campagna contro gli ebrei additati come il nemico interno responsabile di ogni sciagura: il Ministero delle Corporazioni faceva appello alla mobilitazione di tutti gli ita116

liani, solo che mentre per i non ebrei il servizio del lavoro doveva significare una forma di partecipazione corale e collettiva allo sforzo della nazione in guerra, per gli ebrei veniva ancora una volta ribadito il carattere punitivo del nuovo onere che veniva loro imposto. Era allargata la fascia delle classi chiamate al lavoro obbligatorio, che comprendeva ora le annate dal 1907 al 1925, come informava il 20 giugno 1943 il Ministero delle Corporazioni. Ma il fatto veramente nuovo era rappresentato dalla decisione adottata alla fine di giugno di avviare gli ebrei al lavoro in speciali campi sotto sorveglianza dell’autorità di polizia, veri e propri campi di concentramento destinati a sanzionare in maniera non più soltanto simbolica la definitiva esclusione degli ebrei dalla società italiana con la loro fisica relegazione al di fuori di ogni contatto con il resto della popolazione italiana, quasi un’anticamera dei campi di sterminio. Il sistema concentrazionario sino allora riservato agli ebrei stranieri e ad una minoranza degli ebrei italiani si avviava a diventare la dimora normale per tutti gli ebrei. Lo stato di guerra aveva chiuso infatti ogni possibilità di lasciare l’Italia non solo per gli ebrei stranieri ma anche per quelli italiani. Ma lo stato di guerra e le vicende belliche avevano aperto anche altre aree di contatto tra lo Stato italiano e il regime fascista e le minoranze di ebrei che si trovavano nei territori progressivamente entrati sotto il controllo dell’Italia a seguito delle operazioni belliche. Ciò avvenne anzitutto nella zona d’occupazione italiana in Francia; successivamente l’Italia si trovò a dover affrontare il problema dell’atteggiamento da assumere verso gli ebrei nel territorio della Grecia invasa; infine, fu la volta dei territori della Jugoslavia, invasa e smembrata dalle forze dell’Asse. E dappertutto il confronto non fu soltanto tra gli italiani e gli ebrei nei rispettivi territori d’occupazione, ma tra italiani e tedeschi. Se fino all’8 settembre del 1943 sul territorio metropolitano la sovranità dell’Italia non consentì influenze esterne dirette nei rapporti tra lo Stato italiano, il regime fascista e gli ebrei, nei territori d’occupazione il confronto e talvolta la collisione con la politica nazista finì per diventare ineludibile e inevitabile. In linea di massima è vero che le forze armate e la diplomazia italiana non condivisero la politica persecutoria, il cui obiettivo ultimo sarebbe stato lo sterminio, attuata dai tedeschi. Ma di una sistematica opposizione dell’Italia alla politica nazista non si può parlare; di fatto il comportamento degli italiani offriva una alternativa alla politica dei nazisti, ma non era 117

nelle intenzioni del governo italiano operare in contrapposizione frontale nei confronti della politica del Terzo Reich. Troppe oscillazioni caratterizzarono al riguardo l’atteggiamento fondamentalmente opportunistico, in particolare di Mussolini. Vero è anche che bisogna distinguere fattispecie diverse, come risulta del resto dagli studi sin qui condotti. Bisogna distinguere in particolare tra la sorte degli ebrei cittadini italiani che si trovavano in territorio sotto controllo tedesco, nel Reich ma soprattutto nei territori da esso occupati; e nel caso di questi ultimi bisogna distinguere ancora tra i territori occupati nell’Europa occidentale e i territori occupati nell’Europa centro-orientale. Il problema si pose in concreto per il Ministero degli Esteri italiano allorché l’inasprimento delle misure antiebraiche adottate dai tedeschi nella Francia occupata, nella primavera del 1942, propose agli organismi consolari il problema se questi provvedimenti – tra i quali l’imposizione della stella gialla – potessero applicarsi anche agli ebrei cittadini italiani. Fu in questa occasione che le autorità italiane fecero valere il principio che ancorché di ebrei si trattasse, si trattava comunque di cittadini italiani e sotto questo profilo l’Italia non poteva accettare che suoi cittadini venissero privati della protezione giuridica derivante dall’esercizio della sovranità italiana. Per sottile che possa apparire la motivazione, era chiaro che la tutela agli ebrei italiani non derivò da una presa di posizione contraria all’antisemitismo ma dall’affermazione nei confronti dei tedeschi delle prerogative della sovranità italiana. Fu così che, consapevole di non poter forzare la situazione, il Dicastero degli esteri del Reich dovette acconsentire ad esonerare gli ebrei cittadini italiani sia dall’imposizione della stella gialla, sia dalla deportazione verso l’Est dell’Europa a condizione che l’Italia provvedesse entro il 31 marzo del 1943 a richiamarli in patria e a rimpatriarli. In teoria, come avvenne nel caso della Francia e del Belgio, una procedura analoga avrebbe potuto essere adottata anche per gli ebrei cittadini italiani che si trovavano nei territori occupati dell’Europa centro-orientale, del Governatorato generale della Polonia disintegrata e dei territori baltici. Di fatto, l’impossibilità di accertare quanti e dove fossero i cittadini ebrei italiani presenti in quest’area, sia per l’assenza di uffici consolari italiani, sia per le condizioni di generale confusione che in questi territori si erano verificate impedì che si potesse realizzare una soluzione analoga. 118

Diversa ancora si prospettò la situazione per quanto riguardava la Grecia, ossia un territorio sottoposto alla duplice occupazione italiana e tedesca. La questione riguardò in particolare la grossa comunità ebraica di Salonicco, all’interno della quale vi era anche un consistente nucleo di ebrei italiani che vi si erano stabiliti come titolari di investimenti e di imprese economiche. Allorché ebbero inizio le deportazioni da Salonicco nel marzo del 1943 il Consolato italiano (per opera del benemerito console Zamboni) sollevò il problema della tutela dei cittadini italiani sostenendo, con l’appoggio del Ministero degli Esteri, che una lesione arrecata a cittadini italiani, ancorché ebrei, avrebbe significato ledere gli interessi economici dell’Italia in un’area nella quale essa, e non solo per motivi di prestigio, era particolarmente sensibile alla tutela della propria presenza. Ma già prima le autorità tedesche avevano aperto un contenzioso con il governo italiano perché sospettavano che ebrei greci destinati alla deportazione tentavano di sottrarsi a questa sorte facendo la richiesta di acquisire la cittadinanza italiana. Dall’Italia il Ministero degli Esteri si preoccupò di salvaguardare la posizione degli ebrei cittadini italiani ma si impegnò anche a tutelare la posizione di coloro la cui richiesta di cittadinanza fosse in stato di avanzata evasione delle procedure richieste. Essendosi le autorità italiane impegnate a rimpatriare i cittadini italiani, il cui richiamo in Italia avrebbe dovuto avvenire entro il 15 giugno 1943, il contenzioso finì per riguardare soltanto i casi di coloro che avevano fatto richiesta di cittadinanza. Seguì un duro braccio di ferro tra autorità consolari e diplomatiche italiane in Grecia e autorità tedesche: l’Italia salvò tutti i propri cittadini, tranne un numero incerto di essi che già erano stati deportati, e riuscì a coprire un limitato numero di ebrei che avevano richiesto la cittadinanza tra continue contestazioni dei tedeschi, fin quando il sopraggiungere dell’armistizio dell’8 settembre diede partita vinta ai tedeschi che non incontrarono più ostacoli nei loro criminosi disegni. Diversamente si prospettava la sorte degli ebrei non cittadini italiani nelle zone sotto occupazione dell’Italia. Agli ebrei che già vi risiedevano si aggiunsero nel corso del tempo ebrei che in esse affluivano per salvarsi dalle deportazioni che stavano verificandosi nella Francia o nelle aree della penisola balcanica sotto occupazione tedesca. La tendenza generale dei comandi militari italiani e delle autorità civili italiane fu quella di non consegnare gli ebrei che si rifu119

giavano sotto la protezione dell’Italia ai tedeschi, delle cui intenzioni come di quelle dei loro alleati (sicuramente degli ustascia in Croazia) non si facevano illusioni: la deportazione e la scomparsa nel nulla di migliaia di persone per le autorità italiane sul posto non erano un mistero (ed altrettanto inverosimile è che esse non ne avessero informato le rispettive centrali romane). Gli ebrei che si trovarono su territorio amministrato dagli italiani ebbero generalmente salva la vita, ma non si sottrassero a misure restrittive, a maggior ragione poi quando entrassero nel territorio dello Stato italiano perché in tal caso ricadevano automaticamente sotto le leggi e i provvedimenti che dopo l’entrata in guerra dell’Italia ne avevano ordinato l’internamento in campo di concentramento. Molti si salvarono proprio per questa ragione, come accadde nel caso fortunato e peraltro fortuito degli ebrei greci e slavi che furono internati a Ferramonti; ma per altri il campo di concentramento finì per diventare una trappola, come nel caso dei cittadini della ex Jugoslavia che furono rinchiusi nell’isola di Arbe annessa all’Italia: qui, a parte le dure condizioni di vita che determinarono una elevata mortalità tra gli internati, l’armistizio del 1943 ne consentì la cattura da parte dei tedeschi, che ne ordinarono la deportazione nei campi di sterminio. Come abbiamo già detto, in linea di massima le autorità militari e civili italiane rifiutarono la consegna ai tedeschi degli ebrei rifugiatisi sotto la loro protezione. Nel comportamento degli organismi italiani, i quali viceversa non erano affatto teneri nei confronti della repressione del movimento partigiano e degli atti terroristici e di sabotaggio delle popolazioni occupate, ebbero influenza determinante la mancanza di una tradizione di antisemitismo militante nella popolazione italiana, l’estraneità ad una pratica di razzismo biologico e la scarsa convinzione dei militari di dovere combattere la guerra anche come guerra di razza; il razzismo anche delle forze armate italiane era piuttosto rivolto contro le popolazioni slave, come retaggio di tipo nazionalista e istanza incorporata nei più generali obiettivi balcanici dell’imperialismo italiano. A ciò si aggiunse come motivo di risentimento alle pressioni dei tedeschi lo scatto d’orgoglio nazionale che spingeva a differenziarsi dal comportamento dei tedeschi e a salvaguardare l’onore e le prerogative nazionali rifiutandosi di sottomettersi alle imposizioni del potente alleato. Allo stato attuale della documentazione si può affermare che in linea di massima le centrali ministeriali romane co120

prirono un comportamento che in loco nasceva dalla sensibilità e dal senso di umanità di uffici e comandi. Tanto più sorprendente appare perciò il nulla osta con il quale Mussolini in persona il 21 ottobre 1942 aveva acconsentito alla consegna ai tedeschi degli ebrei croati che si erano rifugiati nella zona controllata dagli italiani proprio per sfuggire alle persecuzioni naziste. Una decisione che non teneva conto di alcun principio di umanità ma che rispondeva soltanto a un cinico e strumentale gioco di Realpolitik e di equilibri nei rapporti con tedeschi ed ustascia. Era evidente che il non volere assumere una posizione di principio neppure in una materia così delicata non poteva non rendere l’atteggiamento dell’Italia sempre più debole e sempre meno in grado di contenere le pressioni tedesche. Ciò che avveniva nei territori occupati, dove la vicinanza ai tedeschi rendeva più chiare ed esplicite le situazioni, consente anche di chiarire se e che cosa il governo fascista sapeva della «soluzione finale», ossia del fatto che il Terzo Reich aveva condannato gli ebrei d’Europa allo stermino fisico, nel momento stesso in cui con l’inasprirsi delle condizioni belliche il regime alzava il tiro della persecuzione nei confronti degli ebrei all’interno del Regno d’Italia. Non sappiamo ancora se e quando il governo italiano ebbe notizia della conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942, che nel coordinare la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio dell’Est europeo contemplava anche il rastrellamento degli ebrei dai paesi alleati e satelliti della Germania, a cominciare dall’Italia. Che il governo fascista non sapesse quale sorte era riservata agli ebrei nell’area controllata dal Terzo Reich è affermazione che oggi nessuno storico serio potrebbe sostenere con un minimo di attendibilità. Il governo fascista sapeva. Si può discutere soltanto se conosceva tutti i dettagli dello sterminio pianificato e dove si arrestavano le sue conoscenze. Le notizie sulla tragica situazione degli ebrei nell’Europa occupata trapelarono ben presto attraverso le vie più diverse; se e in quale misura vi fossero comunicazioni per così dire ufficiali da parte del Terzo Reich è motivo per un ulteriore approfondimento delle ricerche. Ma il flusso delle notizie è un fatto incontrovertibile. La prima fonte era la stampa internazionale e quella tedesca, non solo la stampa anglo-americana interessata a mettere sotto accusa la Germania ma anche quella neutrale. È impensabile che al governo italiano e ai suoi servizi d’informazione potessero sfuggire notizie di questo tipo. Così come è impensabile che gli stessi corrispondenti di guerra ita121

liani soprattutto sul fronte orientale non avessero sentore di quello che stava accadendo. Curzio Malaparte, che visitò il ghetto di Varsavia e che ne ha lasciato un racconto crudo e allucinato (lo si può leggere in Kaputt), era intimo del conte Ciano, per cui non è assolutamente credibile che non gli avesse fatto cenno di ciò che aveva visto di persona. E spigolando tra le corrispondenze di guerra si potrebbe accertare che non si trattava di conoscenze isolate. Seppure certi fatti non assumevano il rilievo dell’interesse principale essi tuttavia affioravano. Un secondo canale di informazione, che aveva un pubblico potenzialmente anche più largo, fu rappresentato dalle testimonianze scritte e orali dei militari italiani che furono mandati sul fronte orientale e che avevano dovuto attraversare la Polonia. Un solo esempio: nelle lettere di soldati pubblicate da Nuto Revelli nell’Ultimo fronte ve ne sono alcune in cui si fa cenno degli ebrei ai lavori forzati lungo le linee ferroviarie e delle condizioni miserevoli nelle quali erano ridotti. A livello più basso erano testimonianze analoghe a quelle che provenivano da personaggi più autorevoli e ufficiali. Nei Taccuini che Alberto Pirelli redasse all’epoca si parla ripetutamente degli «eccessi» dei tedeschi contro gli ebrei, si considera anzi la loro politica antiebraica da una parte come uno dei motivi delle ostilità delle popolazioni contro l’occupazione tedesca, dall’altra come uno degli ostacoli ad eventuali trattative di pace con gli anglo-americani. E se Alberto Pirelli non era un privato qualunque, nella circolazione di uomini d’affari o di semplici cittadini all’interno dell’Europa sottomessa alle potenze dell’Asse informazioni di questa natura erano tutt’altro che infrequenti. A livello di contatti militari proprio l’esperienza dei territori d’occupazione nel contatto diretto con i tedeschi portava ad acquisire conoscenze e informazioni che certo non restavano isolate proprio per la novità e l’abnormità delle situazioni che rivelavano: anche qui l’ipotesi che nulla trapelasse all’infuori della cerchia degli addetti ai lavori non fa parte della vita reale. Forse certe cose non si scrivevano nelle lettere, ma nei contatti diretti con familiari e amici e attraverso racconti confidenziali trapelava molto più di quanto la censura ufficiale non volesse che si conoscesse. A livello ufficiale esistevano altri canali d’informazione anche più diretti e autorevoli. Tra questi, anche senza voler entrare qui nel merito della questione dei silenzi della Chiesa e di Pio XII, non possono non essere ricordati i canali ecclesiastici: certamente la Santa Se122

de ebbe l’informazione più completa e per certi aspetti più diretta di ciò che stava accadendo specialmente in Polonia, come dimostrano gli stessi documenti pubblicati nella serie di atti sulla seconda guerra mondiale, e non è pensabile che dati i rapporti con il governo italiano nulla di tutto ciò filtrasse all’esterno. Nel marzo del 1943 Alberto Pirelli riferisce che il cardinale Maglione, segretario di Stato della Santa Sede, gli avrebbe confidato: «Quanto alle atrocità commesse in Polonia e dappertutto contro gli ebrei, le prove che abbiamo sono terrificanti». Una affermazione che tra l’altro smentirebbe le ripetute asserzioni della Santa Sede che in Vaticano non si aveva una informazione sufficientemente attendibile di ciò che stava avvenendo agli ebrei. Altro importante canale di informazione fu ovviamente quello diplomatico. Ne abbiamo già accennato a proposito della questione della sorte degli ebrei cittadini italiani in aree sotto occupazione tedesca. Ma al di là di questa questione che implicava direttamente cittadini italiani, gli sviluppi della lotta contro gli ebrei furono oggetto di informazione per il governo italiano nel quadro dei problemi più generali dell’alleanza. Non sappiamo ancora se il governo fascista fu esattamente informato della conferenza di Wannsee, al di là di quanto, come vedremo fra breve, Himmler in persona riferì a Mussolini. Ma all’inizio di febbraio del 1943 (esattamente il 3 febbraio) l’ambasciatore a Berlino Alfieri inviava a Ciano, ministro degli Esteri per pochi giorni ancora prima della sua sostituzione agli albori della crisi del regime, un agghiacciante rapporto in cui ripercorrendo le tappe della lotta contro gli ebrei, «nel momento in cui il problema ebraico in Germania sembra essere ‘risolto’», forniva una serie di notizie sulla progressione dei provvedimenti antiebraici sino alle colossali «evacuazioni» di ebrei dall’autunno del 1940, che davano luogo alla considerazione che «più non giunse notizia degli evacuati». Il linguaggio del documento era esplicito pur tra ovvie reticenze. Si diceva infatti nella parte finale: E se alla fine del 1942, secondo dati forniti da fonte attendibile si calcolava che di ebrei in Germania ve ne fossero ancora 35.000, di cui 25.000 nella sola Berlino (più circa 30.000 altri, sposati con ariani, donne in maggioranza), ormai di «stelle gialle» quasi più non se ne vedono, né a Berlino, né a Vienna, né a Francoforte, le tre città tedesche in cui più numerose erano le comunità israelitiche [...]. 123

Sulla sorte ad essi riserbata, come su quella cui sono andati e vanno incontro gli ebrei polacchi, russi, olandesi ed anche francesi, non possono nutrirsi molti dubbi. Mentre queste autorità non hanno fatto e non fanno mistero degli scopi prefissi (e così Rosenberg, in un discorso tenuto alla fine dello scorso anno al Congresso del fronte tedesco del lavoro, ha confermato la volontà di sterminare appieno la razza ebraica, qualificandone lo sterminio totale come azione umanitaria, perché tale da risanare i popoli europei) consta che i ghetti di Lublino e di Varsavia sarebbero andati rapidamente svuotandosi, sia per le epidemie e la fame, che per le esecuzioni. La fonte cui ho già accennato riferiva giorni fa che dei 600.000 ebrei riuniti nel solo ghetto di Varsavia, un quartiere ove prima abitavano meno di centomila persone, ne sarebbero rimasti solo 53.000 [...]. Per il fanatismo che caratterizzava tale azione, non appare probabile che l’attuale estremo bisogno di manodopera della Germania possa influire sulla sorte degli ebrei tedeschi ancora in vita o su quella degli altri sopravvissuti, cittadini dei paesi occupati dal Reich.

Il governo fascista non poteva dire di non essere informato. Se mai non avesse avuto altre informazioni (cosa che è assolutamente da escludere) sin dall’ottobre del 1942 Mussolini disponeva di una informazione diretta che gli era stata fornita personalmente dal capo delle SS, Himmler, principale responsabile con gli uomini del Servizio di sicurezza, dello sterminio. L’11 ottobre 1942 Himmler in visita a Roma tra gli altri problemi illustrò a Mussolini, come riferì nel suo resoconto al Ministero degli Esteri del Reich, anche lo stadio della «questione ebraica», nei termini che egli stesso descrisse: Gli ebrei sono stati deportati da tutta la Germania e dai paesi da noi occupati, perché essi sono ovunque responsabili di sabotaggio, di spionaggio e di resistenza, come delle formazioni di bande. In Russia abbiamo dovuto fucilare un rilevante numero di ebrei, uomini e persino donne, poiché colà anche le donne ed i bambini erano divenuti informatori dei partigiani. Il Duce da parte sua confermò che questa era l’unica possibile soluzione. Dissi al Duce che abbiamo deportato in campo di concentramento gli ebrei colpevoli politicamente e che altri ebrei abbiamo impiegato in oriente per la costruzione di strade: ivi la mortalità è senza dubbio molto alta, poiché gli ebrei nella loro vita mai avevano lavorato. Gli ebrei più vecchi furono portati in ospizi a Berlino, Monaco e Vienna. Gli altri ebrei in età avanzata furono condotti nella cittadina di Theresienstadt, che serve come ghetto-ospizio per gli ebrei: là essi ricevono le loro pensioni e possono disporre della loro vita in tutto e per tutto se124

condo i loro gusti; per vero essi là litigano tra di loro nel modo più vivace. In oriente mentre noi tentavamo di far passare ai russi una parte degli ebrei, attraverso le brecce del fronte, spesso i russi stessi sparavano su tali colonne di ebrei, dimostrando palesemente anch’essi di non volerli.

Menzogne a parte, anche Himmler aveva detto abbastanza perché ci si dovesse domandare se non fosse in atto lo sterminio sistematico degli ebrei. Ma non consta che il governo dell’Italia fascista, la maggiore alleata della Germania nazista, abbia fatto alcunché per denunciarne o mitigarne la sorte. Davvero l’Italia si può chiamare «fuori dal cono d’ombra dell’olocausto», come vorrebbero autorevoli storici (De Felice)?

7.

Continuità e salto di qualità: l’occupazione tedesca e la Repubblica sociale italiana

L’occupazione tedesca dell’Italia all’atto dell’annuncio dell’armistizio concluso con Gran Bretagna e Stati Uniti l’8 settembre del 1943 sorprese gli ebrei italiani e quelli stranieri che si erano rifugiati in Italia senza che essi si fossero resi conto nelle settimane del governo Badoglio del pericolo che una rottura dell’alleanza con la Germania avrebbe potuto rappresentare per la loro sorte. Ben pochi avevano realizzato la possibilità che anche l’Italia fosse ricompresa nell’area operativa della «soluzione finale». Se la maggioranza degli ebrei italiani si salvò, in una misura sicuramente superiore a quanto accadde ad altre comunità dell’Europa occidentale, ciò fu dovuto in parte a ragioni casuali, in parte maggiore alle molteplici possibilità di sottrarsi alle razzie dell’occupante create dalle diverse forme di aiuti individuali o istituzionali, ai quali accenneremo più avanti, non certo alla mancanza di iniziativa e di zelo del nuovo apparato fascista repubblicano, che viceversa tenne a sottolineare, tra gli elementi di continuità con la fase passata del regime del ventennio, l’ulteriore esasperazione della campagna contro gli ebrei, che faceva parte altresì dei fattori costitutivi di un vero e proprio processo di nazificazione del fascismo di Salò. Sotto questo profilo si può anticipare sin d’ora che senza la collaborazione attiva delle autorità politiche e di polizia della RSI la deportazione degli ebrei dall’Italia verso i campi di sterminio non sarebbe stata assolutamente possibile. Se si eccettua infatti la razzia nel ghetto di Roma del 16 ottobre 1943, che fu volutamente eseguita da126

gli organi della polizia tedesca senza coinvolgere reparti italiani, la maggior parte degli interventi contro gli ebrei furono opera congiunta delle forze occupanti e dei servizi italiani, i quali ultimi assunsero essi stessi non di rado l’iniziativa, mossi da servilismo verso i tedeschi, da avidità affaristica soprattutto nella rapina dei beni ebraici o da vero e proprio fanatismo razzista. Prima ancora di ripercorrere le misure politico-amministrative con le quali la RSI sottolineò il suo intervento nella questione ebraica è opportuno ricordare come l’antisemitismo abbia rappresentato uno dei punti programmatici anche del nuovo fascismo repubblicano e un capitolo rilevante nella pubblicistica e nella propaganda della RSI, come ha rilevato di recente Luigi Ganapini nel suo libro sulla Repubblica delle Camicie nere. Radicato o meno che fosse nella cultura fascista, nel momento di rifondazione e di rilegittimazione del fascismo repubblicano l’antisemitismo tornò ad essere una carta spendibile per la definizione dei connotati del fascismo di Verona. Anche indipendentemente dal Manifesto di Verona, che tuttavia di fatto rappresentò i principi di una costituzione materiale della RSI, le parole d’ordine antisemite entrarono a pieno titolo nel patrimonio politico-ideologico con il quale il fascismo di Salò si poneva non solo in continuità con il vecchio fascismo ma anche in polemica con quella parte della tradizione fascista di cui si auspicava la rigenerazione e la rivitalizzazione al di fuori dei compromessi con la monarchia e appunto con i circoli massonici e giudaici, che erano accomunati nella congiura che aveva colpito a morte il fascismo del ventennio. Se è vero che Mussolini stesso vi fece cenno solo di sfuggita, vero è che la questione razziale fu ripresa dalla stampa neofascista, e quindi in un contesto in cui parlare di queste cose assumeva un risvolto particolarmente minaccioso, almeno sotto un duplice profilo. Da una parte l’esaltazione della razza tornava a rappresentare uno dei fattori di specificità del nuovo fascismo italiano, anche senza bisogno di attribuirgli necessariamente un connotato biologico; dall’altra, tornava a proporre una delimitazione, una scelta di schieramento, la proposizione in negativo di ciò da cui ci si doveva distanziare, di ciò a cui ci si doveva opporre e contrapporre. Si tratta di motivi che affiorano nella stampa quotidiana e spesso con tono ancora più becero e rozzo nella stampa di provincia; nelle collane di propaganda collocate presso grandi editori (per esempio Mondadori, presso cui ricomparve anche come autore il nome di 127

Preziosi); nei manifesti della RSI. Più che mai in questo momento il richiamo alla razza, proprio per la sua intangibilità, per la sua indeterminatezza, rappresenta qualcosa di mistico e di mitico al tempo stesso; per le giovani reclute della RSI, giovani che non avevano un passato politico ma che nascevano alla politica nel momento stesso del loro arruolamento per imbracciare un fucile, la razza diventava un obiettivo per il quale poteva valere la pena di combattere, vale a dire che la nuova fiammata di razzismo della RSI era anche il risvolto del vuoto di altri valori. Erano troppo giovani per avere l’orgoglio di rivendicare la continuità con il vecchio fascismo; il mito della razza con quanto di misterioso e di religioso comporta aveva una forza d’attrazione, che spesso si sommava alla retorica della romanità, identificata come l’archetipo della razza italiana. Il problema della razza faceva parte della ricerca di nuova identità da parte del fascismo di Salò e il tentativo di conferirle connotati distintivi rispetto al razzismo tedesco, nel quale pure si riconosceva una sorta di primazia, sottolineava l’importanza che ebbe per certi settori della RSI la funzione del razzismo come collante ideologico, come strumento di aggregazione e di coesione. L’identificazione dell’antisemitismo con la lotta contro sfruttamento e terrorismo, secondo semplificazioni tipiche della propaganda, era un argomento in più a favore della sua strumentalizzazione a largo raggio quasi sempre per definire ciò cui ci si opponeva piuttosto che ciò per cui ci si batteva. Dopo la liberazione di Roma la vita nel «regno del Sud» fu rappresentata essenzialmente come una parte d’Italia alla mercé di orde straniere, in cui spesso primeggiava l’orrore per la figura deformata del negro, simbolo di tutte le nefandezze di una civiltà inferiore che insozzava la razza italica e al tempo stesso di tutte le manifestazioni considerate degeneri della cultura contemporanea, a cominciare dalla musica. L’invasione del jazz fu uno dei motivi più diffusi e simbolici della violenza che subivano gli italiani costretti all’occupazione anglo-americana. In questo contesto si operava quindi la saldatura tra la prima e la seconda fase del razzismo fascista. Sin dal Manifesto di Verona del Partito fascista repubblicano della metà di novembre del 1943 gli ebrei furono espulsi dalla società italiana; non erano più soltanto, come sino all’armistizio dell’8 settembre, cittadini limitati fortemente nei loro diritti e nel principio di eguaglianza: essi furono drasticamente privati della cittadinanza italiana e in quanto «stranieri» fu at128

tribuita loro la cittadinanza degli Stati nemici in guerra con l’Italia. Una vera e propria dichiarazione di guerra contro gli ebrei, il cui significato demagogico-strumentale era anche troppo evidente, ma le cui conseguenze nel quadro dell’occupazione dell’Italia da parte della Wehrmacht non potevano sfuggire agli ispiratori di quella dichiarazione. Cittadini nemici, gli ebrei erano privati dunque di qualsiasi tutela giuridica da parte dello Stato italiano ed erano pertanto totalmente consegnati alla mercé dei tedeschi. L’ordinanza di polizia del 30 novembre 1943 con la quale Buffarini Guidi, ministro dell’Interno della RSI, dispose il raduno degli ebrei, compresi coloro che in passato avevano fatto parte della categoria dei cosiddetti «discriminati», in campo di concentramento, non poteva rappresentare perciò alcuna salvaguardia per la loro vita. Le uniche eccezione all’internamento erano previste per gli ammalati gravi, per i vecchi al di sopra dei settant’anni, per gli appartenenti a famiglia mista. Tutto ciò sulla carta, perché nei fatti nessuno fu risparmiato, i vecchi e gli ammalati furono prelevati da case di riposo e ospedali, membri di famiglie miste deportati al pari degli altri. Quale fosse in realtà lo spirito animatore dell’ordinanza del 30 novembre emerse chiaramente dai commenti con i quali la stampa della RSI accompagnò la sua pubblicazione. Per fare solo uno degli esempi più clamorosi, sul «Corriere della Sera» del 1° dicembre 1943 si poteva leggere un commento del seguente tenore: La questione razziale è stata posta dal recente Consiglio dei ministri in termini di assoluta chiarezza. Essendo stati gli ebrei dichiarati nemici dell’Italia, ovvie erano le conseguenze della decisione. Non solo essi non dovevano essere più lasciati liberi di circolare nel nostro paese, e quindi di nuocere con ogni mezzo alla causa nazionale, ma si doveva procedere altresì alla confisca dei loro beni [...]. Essi andranno a confortare il disagio dei sinistrati dai bombardamenti aerei [...]. È alla tribù d’Israele che risale la maggior parte delle responsabilità di questa guerra. Impossessatasi delle leve di comando dell’economia mondiale, essa ha premeditato l’aggressione e il soffocamento dei popoli proletari, scatenando un conflitto universale il cui scopo è quello di dissanguare l’Europa e dischiudere le porte del potere assoluto alla razza eletta [...]. Ma non solo questo beneficio ritrarrà l’Italia che si riorganizza per il combattimento dai provvedimenti ora adottati. Mentre si procederà alle retate e all’isolamento di questi irriducibili nostri nemici c’è da prevede129

re una diminuzione non indifferente dello spionaggio e degli atti terroristici. I fili di molte congiure e tradimenti si spezzeranno come per incanto. Il livore e l’oro ebraico avranno cessato di nuocere. E sarà tanto di guadagnato per la patria e per le sue fortune.

Come si vede, tornavano più che mai in primo luogo gli slogan che avevano rigettato sugli ebrei la responsabilità per la guerra e ora anche per la sconfitta, nel quadro dello stereotipo del complotto che ancora una volta sembrava fatto apposta per agitare lo spettro di un nemico tanto più incombente quanto più invisibile. L’affermazione diffusa nel dopoguerra dagli eredi di Buffarini Guidi secondo la quale l’ordinanza del 30 novembre aveva il doppio obiettivo di «evitare che gli ebrei potessero essere rastrellati dai tedeschi» e «comunque per poter trovare il modo di rimandare la definitiva soluzione del problema ebraico dopo la cessazione delle ostilità», nei fatti non trovò alcuna conferma; fu vero anzi il contrario. Il raduno degli ebrei nei campi di concentramento dei quali era prevista la creazione in ogni provincia, si rivelò essere soltanto una trappola che ne facilitò la cattura da parte dei tedeschi, poiché nessuna opposizione fu mossa dalle autorità della RSI alla richiesta dei tedeschi di consegnare gli ebrei nelle loro mani. Di fatto, inoltre, il provvedimento segnò anche la fine della discriminazione, ossia delle norme che avevano in qualche modo attenuato il rigore della persecuzione nei confronti degli ebrei cui fossero stati riconosciuti determinati requisiti o determinate benemerenze di carattere patriottico, con la sopravvivenza sulla carta di pochissime eccezioni. Le maglie della persecuzione si facevano sempre più strette, come vedremo a proposito delle misure patrimoniali che il più delle volte altro non furono che un mero e ulteriore strumento vessatorio. Anche al di là del fatto che il progetto di costituzione della RSI, che peraltro non sarebbe mai stato emanato, elaborato da un moderato del neofascismo repubblicano, quale era ritenuto il ministro Carlo Alberto Biggini, elevava a rango costituzionale la condizione di minorità giuridica e di inferiorità razziale degli ebrei, la questione razziale fu appannaggio degli elementi più radicali del fascismo repubblicano. Furono essi che promossero anche la riorganizzazione delle strutture preposte alla caccia agli ebrei. La ricomparsa alla testa della campagna contro gli ebrei di Giovanni Preziosi non si può considerare casuale. Certo il più convinto fautore dell’assimilazione 130

della condizione degli ebrei italiani a quella degli ebrei tedeschi quale era stata configurata dalle leggi di Norimberga, ora peraltro esse stesse superate dal meccanismo in pieno svolgimento della «soluzione finale», Giovanni Preziosi fu posto a capo dalla metà di maggio del 1944 del neoistituito Ispettorato generale per la razza della RSI, creato con decreto legislativo del duce in data 18 aprile 1944 n. 171, alle dirette dipendenze di Mussolini come capo del governo. Neppure Preziosi tuttavia, per ragioni probabilmente interne ai rapporti di potere al vertice neofascista, riuscì a fare approvare i suoi progetti di una nuova legge sulla razza di carattere esplicitamente biologistico in cui voleva introdurre anche la categoria del meticciato. Sebbene il «Corriere della Sera» avesse già annunciato l’emanazione dei nuovi provvedimenti razziali, la loro sorte non risulta ancora interamente chiarita. A questo proposito inoltre va anche smentita l’ipotesi (avanzata da Buffarini Guidi figlio e fatta propria a suo tempo anche da De Felice) secondo la quale i più brutali provvedimenti contro gli ebrei sarebbero dovuti alla gestione Preziosi. Quale che sia l’accentuazione promossa da Preziosi al rigore della persecuzione, non si possono scaricare su di lui tutte le responsabilità del nuovo corso di Salò, che era stato preannunciato sin dall’inizio di ottobre del 1943, parecchie settimane prima del rientro in Italia di Preziosi dal suo temporaneo soggiorno in Germania dove si era recato dopo il colpo di Stato del 25 luglio insieme alla pattuglia degli irriducibili del fascismo. L’11 ottobre del 1943 il «Corriere della Sera» (e negli stessi giorni altri organi di stampa), nel comunicare che erano state ripristinate le norme antiebraiche abrogate dopo il 25 luglio (in realtà nulla era stato ancora abrogato, si trattava casomai di sospensione di applicazione di provvedimenti antiebraici, ipotesi peraltro ancora tutta da verificare), annunciava l’imminente adozione di nuovi provvedimenti destinati a «mettere definitivamente gli ebrei in condizione di non potere più nuocere agli interessi nazionali». Accanto alle misure di internamento in campi di concentramento disposte da Buffarini Guidi, e in qualche caso addirittura anticipate da zelanti funzionari fascisti (questo fu certamente il caso del prefetto della RSI di Grosseto), il nucleo più consistente di provvedimenti emanati dalle autorità della repubblica neofascista riguarda l’inasprimento delle misure patrimoniali a carico degli ebrei. Non riteniamo, contrariamente a quanto suggerito a suo tempo da De Fe131

lice, che l’accanimento patrimoniale contro gli ebrei possa essere considerato un risvolto capace di controbilanciare il comportamento «umano» dal punto di vista del trattamento degli ebrei come persone. Se si considera che, al contrario di quanto era avvenuto con i provvedimenti patrimoniali del 1939, con le Nuove disposizioni concernenti i beni posseduti dai cittadini di razza ebraica (come suonava il decreto legislativo del duce, 4 gennaio del 1944, n. 2) non si trattava più di porre limitazioni qualitative e temporali (trattandosi di semplici sequestri) ai beni posseduti dagli ebrei ma di affermare la loro giuridica incapacità ad essere in alcun modo titolari di beni patrimoniali, si trattasse della proprietà o della gestione totale o parziale di aziende, della proprietà di terreni o fabbricati, del possesso di titoli o di altri valori di qualsiasi specie o della proprietà di «beni immobiliari di qualsiasi natura», dei quali tutti veniva decretata la totale confisca, la loro valutazione non può prescindere da una considerazione globale della condizione nella quale venivano a trovarsi gli ebrei. Essi come erano stati privati della cittadinanza, bene non solo giuridico ma anche morale, venivano ora spogliati anche di ogni pur minimo mezzo di sostentamento, di strumenti produttivi come delle suppellettili del vivere quotidiano, come di semplici indumenti; venivano privati cioè di qualsiasi possibilità di autonoma esistenza, ad offendere la loro dignità di persone ma quasi anche ad anticipare macabramente la loro sorte, nel senso che nella prospettiva della loro distruzione fisica a nulla sarebbero loro servite le povere e piccole cose della quotidianità. Non ci soffermeremo qui su altre conseguenze che scaturirono da questi provvedimenti né sulla riorganizzazione che essi comportarono in vista del mutamento di obiettivi dell’Ente di gestione e liquidazione immobiliare (cui provvide un nuovo decreto legislativo del duce del 31 marzo 1944), né sullo scatenamento di rapaci appetiti per impossessarsi dei beni sottratti agli ebrei di cui diedero prova organismi del fascio piuttosto che privati speculatori o gli stessi componenti di vere e proprie bande fasciste che, ne fossero deputate o no, si arrogavano pretestuosamente il diritto di procedere alla confisca dei patrimoni ebraici, la cui alienazione avrebbe dovuto essere realizzata per il tramite del citato ente liquidatore. Anche in questo caso l’ipotesi avanzata da De Felice che la confisca dei beni ebraici fosse «un espediente per procurare alle casse esauste della RSI un po’ di ossigeno» non appare in alcun modo 132

plausibile, tanto meno convincente. Per quanto per i soggetti direttamente colpiti rappresentassero il totale spossessamento, i provvedimenti non risulta che avessero portato alla confisca di colossali fortune. Il gran numero di decreti di confisca – poco più di 5.000 – pubblicati sulla «Gazzetta Ufficiale» della RSI di per sé ha scarso significato, tanto più che le procedure previste per i diversi passaggi dell’operazione non furono rispettate che soltanto parzialmente; più che la dimensione dei beni espropriati esso attesta lo zelo persecutorio dell’amministrazione e la funzione demagogica dell’intera operazione, finalizzata a stigmatizzare e a bollare nell’ebreo il profittatore ai danni della nazione. Anche dietro questi provvedimenti si nascondeva, al di là del generico intento persecutorio, la volontà di umiliare gli ebrei, enfatizzandone la totale impotenza. Un paio di esempi dai verbali di confisca a carico di privati può servire a convalidare le nostre osservazioni; nel caso specifico si tratta di verbali di confische eseguite in provincia di Pavia (che riprendiamo dal contributo di M. Fusina citato in Bibliografia). Primo esempio: Confisca a favore dello Stato di beni mobili di proprietà del Signor Arias Roberto di Emilio di razza ebraica. IL CAPO DELLA PROVINCIA DI PAVIA

visto il verbale n. 48 della Stazione Carabinieri di Rivanazzano relativo al sequestro dei beni mobili di proprietà dell’ebreo Arias Roberto di Emilio, già sfollato a Rivanazzano ed attualmente latitante; visto l’art. 8 del decreto legislativo del Duce del 4 gennaio 1944 n. 2; decreta: Art. 1 – I beni mobili esistenti nel comune di Rivanazzano depositati nei locali dei coniugi Lombardi in Via Leidi n. 4 di proprietà Arias Roberto di Emilio, figuranti nell’allegato elenco che fa parte integrante del presente decreto, sono confiscati a favore dello Stato. Art. 2 – I beni mobili di cui all’allegato elenco sono messi a disposizione dell’Ente di Gestione Immobiliare. Art. 3 – Comanda a tutti gli Ufficiali Giudiziari che ne siano richiesti e a chiunque spetti, di mettere in esecuzione la presente disposizione al pub133

blico Ministero, di darvi assistenza, ed a tutti gli Ufficiali della Forza Pubblica di concorrervi, quando ne siano legalmente richiesti. Art. 4 – Il presente decreto è immediatamente eseguibile e sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Pavia, 2 marzo 1944 – XII. Il capo della Provincia. Inventario dei beni mobili di proprietà dell’ebreo Arias Roberto di Emilio, e di Ascoli Amelia nato il 3.2.1906 a Genova, domiciliato a Milano già sfollato a Rivanazzano, attualmente irreperibile. 2 pompette per clistere 1 retina filo per capelli – 1 portacipria 1 pigiama da uomo 1 lavandino di porcellana 1 portalavandino in ferro 8 paia scarpe usate bambino 2 paia scarpe usate donna 3 paia sandali per uomo 1 paio ciabatte usate 2 paia di soprascarpe di gomma bianche 1 paio di pattini a rotelle – 1 ombrellino 1 tavolino con cassetti 1 scatola traforo con relativi attrezzi 1 divisorio per baule 5 lenzuola bianche di tela 4 federe per cuscini – 1 trapunta 2 coperte di lana – 1 sedia legno 2 collarini bianchi per bambini 20 camicie per bambini 17 magliette per bambini 2 mutandine per bambini – 8 fasce bambini 5 tendine copriculla 3 vestitini per bambini 20 paia calze bambini 3 cuffie bambini

2 comò con tre cassetti e uno specchio 2 guardaroba stile Novecento 2 pettiniere con specchio stile Novecento 2 coppie di letti matrimoniali Novecento, con relative reti metalliche 4 comodini in legno stile Novecento 4 materassi di lana in ottimo stato 1 materasso crine per bambino 3 pezze di tela per sottomaterassi 2 paia pantofole 4 vasi da notte 1 copriletto pesante con frange 1 lettino legno per bambino 1 cuscino lana per letto 3 pezze di tela per letto 1 copriletto per letto – un giubbetto bambino 1 paio di scarpe usate bambino 1 cappello feltro da donna 1 striscia tendine uso centrino 1 collarino tipo marinara per bambino 1 ferro per permanente da donna 1 spazzola capelli 1 macchinetta sicurezza per barba 134

2 sottoveste donna 2 pelli coniglio conciate 1 busto di gomma per donna 2 cappelli per signora 1 cinghia per pantaloni rotta 1 paio di giarrettiere per signora 2 vasetti per cipria – 3 centrini 1 borsetta per signora 8 asciugamani 50 colletti per camicia 2 camicie da uomo 1 fodera per materassi 2 cappelli da uomo usati 1 camicia da notte 1 fodera per materasso – 30 stracci 1 tendina – 8 federe per cuscini 1 cappello da signora – 10 centrini 1 paio di guanti bianchi 1 scialle di seta – 1 sciarpa di seta 1 tovaglia per caffè – 2 accappatoi 2 vestitini per bambini 1 cappottino per bambino 3 tovagliolini per caffè 1 vestito a giacca blu per signora 5 federe per materassi in colore 1 sottoveste (pagliaccetta) 1 cappellina 1 macchina cinematografica 2 cappelli da donna 1 scatola di carte varie e corrispondenza 38 bavaglini 1 ventriera elastica per donna 5 camicie da uomo – 3 pagliaccette 1 camicetta da donna 9 grembiuli – 1 costume da bagno – 1 sottoveste 2 maglie

2 paia di guanti di pelle in cattivo stato 3 canottiere – 1 paio ghette 1 portacenere – 1 scatola lamiera 1 portasigarette argento, piccolo 1 paia mutandine lana 1 buffet cucina con due cassetti in tre parti 1 tavolino con un cassetto 4 sedie di legno – uno sgabello 1 tavolo per cucina con due cassetti a marmo sovrastante 2 fornelli elettrici 1 ampollina per olio e aceto 4 piattini sottotazze – 3 quadri a muro 1 coperchio sottopentola di amianto 1 forma per pasticcini – 1 mattarello – 3 padelle di ferro 1 barattolo di latta con coperchio 1 borsa di tela – un tovagliolo 1 catinella di ferro smaltato – 1 paiolo 4 coltelli da tavola – 4 forchette 1 apriscatolette – 5 cucchiai 1 coltello trinciante – 1 cacciavite 1 schiumarola 1 coperta in cattivo stato 1 colapasta – 1 pentola 1 coperchio 1 pezza di tela per stirare 1 guantiera in legno 1 portapacchi per bicicletta 1 morsetto – 1 bicchiere infrangibile 1 tovaglia in cattivo stato 6 bicchierini per liquori – 1 caffettiera napoletana 1 spiritiera di metallo – 1 porta maionese di porcellana 1 cucchiaio per dette 135

1 cestino di vimini 1 recipiente di zinco – 1 macinino per caffè 1 guantiera – 5 piatti sottocoppe 1 grattugia – 4 tazze da caffellatte 1 scatolone per cappelli 2 valige 6 casseruole di vario tipo e dimensione 1 pentola – 6 piatti comuni – vari stracci vari involti cartacei recipienti in vetro

2 bicchieri di alluminio 1 zuccheriera di bachelite 1 cavaturaccioli – 2 taglieri – 1 colino per tè 1 caffettiera alluminio 2 ferri da stiro – 1 graticola 1 portauova – 1 sottoferro da stiro 1 grembiule – 1 paio di zoccoli 2 fornellini di terracotta 1 tovaglia ricamata – 4 tovagliolini 1 scatola di legno – 1 tegame di terracotta

Secondo esempio: Confisca a favore dello Stato di beni mobili di proprietà della Signora Giuliana Morel in Baquis di razza ebraica. IL CAPO DELLA PROVINCIA DI PAVIA

visto il verbale del 2 febbraio 1944 della Stazione Carabinieri di Godiasco relativo al sequestro del mobilio di proprietà della sig. Giuliana Morel in Baquis, esistente in una stanza presa in subaffitto dalla sig. Dallera Emilia di Francesco e ceduta dalla sig. Coda Maria residente a Godiasco, regione Boascaiolo, di razza ebraica: visto l’art. 8 del decreto legislativo del Duce del 4 gennaio 1944 n. 2; decreta: Art. 1 – I beni immobili esistenti a Godiasco, regione Boascaiolo, di proprietà della sig. Giuliana Morel in Baquis e qui appresso elencati, sono confiscati a favore dello Stato: 1 fondale per letto e 3 sponde letto 7 cappelli usati 1 lettino azzurro 10 divisori legno per armadio

1 lastra marmo 5 piccole piastre marmo (una rotta) 2 quadri nessun valore 3 tavole da cucina 136

Cassa con due specchi vetri salotto Cassa n. 6 marmi – cassa n. 8 specchi Cassa n. 10 specchi – 2 seggiolini 2 tavolinetti salotto – 2 elastici 12 poltrone – 1 panca – Cassa 5 marmi Cassa n. 2 specchi mobili – Cassa n. 7 specchi Buffet sala in 4 pezzi – Cassa 9 specchi 8 sedie foderate pelle – 1 sofà Un mobile scrivania 2 armadini per camera bambina 1 tavolo sala da pranzo 2 scatole. Contenenti oggetti vari di biancheria usata

28 divisori legno parte dei mobili 1 lettino per bambina 1 seggiolone – 1 cassetto 9 divisori legno per armadio 1 tavolo salotto – 2 comodini 1 rete metallica letto bambino 1 stufa – 2 abatjour 2 carrozzelle 1 tavolinetto con 4 cassetti 1 pagliericcio mobile 8 divisori legno armadio smontato 1 paravento – 2 assi per letto 11 ometti da bambina 1 fondo armadio 7 sgabelli – 1 comò 1 cassa di ante per armadio Cassa chiusa 2 specchi Armadio cucina in due pezzi

Art. 2 – I beni mobili di cui sopra sono messi a disposizione dell’Ente di Gestione Immobiliare. Art. 3 – Comanda a tutti gli Ufficiali Giudiziari che ne siano richiesti e a chiunque spetti, di mettere in esecuzione la presente disposizione, al pubblico Ministero, di darvi assistenza, ed a tutti gli ufficiali della Forza Pubblica di concorrervi, quando ne siano legalmente richiesti. Art. 4 – Il presente decreto è immediatamente eseguibile e sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Pavia 2 marzo 1944. XII Il Capo della Provincia

Il capitolo delle spoliazioni patrimoniali non può non concludersi con un cenno alla spoliazione premeditata dei beni non più dei singoli ma delle comunità. In articulo mortis, quasi a sottolineare la continuità e la persistenza della linea antisemita, il 16 aprile 1945 un ultimo decreto del Consiglio dei ministri della RSI, nello stabilire lo scioglimento di tutte le comunità, che nel frattempo avevano subito la chiusura e il saccheggio ad opera di tedeschi e fascisti, ne decretava altresì la confisca dei beni, contestualmente allo scioglimento di tutte le istituzioni di assistenza e di beneficenza ebraiche. Un ultimo 137

particolare, questo, che conferma a nostro avviso come non è possibile separare la privazione ai danni degli ebrei di ogni bene patrimoniale dalla minaccia diretta portata ora alla loro esistenza fisica. Un altro modo per ribadire che per loro non vi erano vie di scampo, talché l’odiosità di questi provvedimenti doveva risultarne esaltata, non certo diminuita. Infine, paradossalmente, il capitolo più noto di questa storia è quello della deportazione degli ebrei dall’Italia. Più noto, se non altro, perché l’abnormità dell’evento lo ha portato in primo piano al di là di esperienze personali destinate a confondersi con le tante mille altre esperienze di un popolo sopraffatto dalla guerra, dalla sconfitta, dall’oppressione interna e dalla occupazione straniera. Ma se la vicenda dell’ebreo che si nasconde, che si rifugia in campagna o in montagna, o si arruola tra i partigiani si può confondere con le vicende anonime di tanti altri italiani, la vicenda della deportazione, nel novanta per cento dei casi senza ritorno, non può confondersi con nessun’altra né passare in alcun modo inosservata. Se è vero quanti tra i pochi superstiti hanno raccontato, compreso quel testimone e interprete d’eccezione che è stato Primo Levi, che al ritorno in patria ebbero la sgradevole sensazione che nessuno volesse ascoltarli né immedesimarsi nella loro sofferenza: ebbene, proprio questa è la conferma che il non voler condividere la loro esperienza non era soltanto un sintomo del disagio della memoria ma piuttosto un segno della percezione che era accaduto qualcosa di così grave e inedito di cui non si era pronti a elaborare i significati e le conseguenze. Se gli ebrei erano stati divisi dalla società italiana dalle leggi del fascismo, essi rischiarono di restare divisi dalla società italiana anche dopo la deportazione e lo sterminio di molti di essi per il rifiuto della popolazione italiana di farsi carico della responsabilità per la loro sorte, che non era rigettabile unicamente e semplicisticamente sui tedeschi, questione sulla quale torneremo nel capitolo conclusivo di questo libro. L’estensione all’Italia della «soluzione finale» fu una conseguenza quasi automatica dell’occupazione da parte della Wehrmacht. La continuità delle strutture istituzionali e della normativa antiebraica dal fascismo del ventennio alla RSI rappresentò per le forze d’occupazione un supporto non sappiamo quanto inaspettato che ne agevolò enormemente l’operato. L’occupazione rese possibile ai tedeschi di realizzare la deportazione degli ebrei dall’Italia, che all’epo138

ca del protocollo di Wannsee (gennaio 1942) non era realizzabile per l’esistenza dei rapporti d’alleanza tra Italia fascista e Germania nazista. Dopo l’8 settembre ogni remora venne meno; se per altri aspetti dei rapporti con l’«alleato occupato», secondo la felice definizione di L. Klinkhammer, la dura realtà della presenza della Wehrmacht fu in qualche modo nascosta da qualche stratagemma formale, nel caso della caccia agli ebrei non furono usati particolari riguardi. I tedeschi non ne parlavano apertamente, essi si limitavano ad operare, lasciando il palcoscenico propagandistico ai fascisti di Salò, tutt’al più nei loro manifesti rivolti alla popolazione compariva il ghigno del giudeo-bolscevico, a suggerire sullo sfondo l’immagine del nemico, volutamente truce e deformata per poter giustificare la ferocia dell’intervento repressivo e dello sterminio. La creazione di un apparato tedesco per l’attuazione in Italia della «soluzione finale» impegnò le autorità d’occupazione sin dalle prime settimane della loro presenza in Italia. Si trattava di una struttura non integrata nel complesso sistema dell’occupazione ma destinata a operare con quasi totale autonomia rispetto ad ogni altra articolazione di potere, alle dipendenze dirette unicamente del capo supremo delle SS e della polizia del Reich Himmler, del servizio di sicurezza e dei suoi rappresentanti in Italia (generale Harster, con sede in Verona). Come era avvenuto in altri territori occupati anche in Italia la potenza occupante trasferì un apparato terroristico che era esemplato sull’articolazione interna usuale a quanto accadeva nel Terzo Reich. Al di là tuttavia dell’esperienza particolare nelle deportazioni degli ebrei che esponenti dei vertici della polizia tedesca in Italia avevano già acquisito in altre parti d’Europa prima di arrivare da noi, particolare menzione va fatta dei quadri della polizia che furono insediati in aree particolari. Il sistema d’occupazione infatti assunse tipologia e rilievo particolare nelle due aree delle cosiddette Zone speciali d’operazione delle Prealpi e del Litorale Adriatico. La zona delle Prealpi comprendeva le province di Trento, Bolzano e di Belluno; il Litorale Adriatico comprendeva le province italiane di Udine, Trieste, Gorizia, Fiume e Pola più la provincia di Lubiana, vale a dire la zona della Slovenia annessa all’Italia dopo l’aggressione alla Jugoslavia dell’aprile del 1941. La creazione delle speciali zone d’operazione era giustificata militarmente con la collocazione delle aree nominate nell’area di confine e di transito lungo la frontiera nord139

orientale d’Italia, dal Brennero all’Adriatico, come aree di passaggio verso la linea del fronte tra la parte meridionale del Reich e la penisola balcanica. Strategicamente dopo il collasso delle forze italiane la Wehrmacht mirava a stabilire un controllo senza soluzione di continuità destinato a tenere le forze anglo-americane più lontane possibile dalla parte meridionale dei Reich e ad impedire al tempo stesso il dilagare della guerriglia dei partigiani slavi garantendo le vie di comunicazione alle forze tedesche verso il teatro di guerra dei Balcani. Ma la motivazione della creazione delle Zone speciali d’operazione non si esaurì nella loro funzione strategica. Essa rispondeva anche a precisi obiettivi politico-territoriali. La creazione in queste zone di una speciale amministrazione civile tedesca, con lo scopo di sostituire le autorità tedesche a quelle italiane, comprese quelle della Repubblica sociale, rispondeva all’obiettivo politico di predisporre a guerra finita il passaggio di queste aree alla sovranità del Reich. La vecchia provincia italiana di Bolzano era destinata a ritornare in seno al Grande Reich annullando anche il compromesso per le opzioni degli alto-atesini di lingua tedesca che il regime nazista aveva dovuto concludere nel 1939 con il regime fascista. A maggior ragione nell’area della vecchia Venezia Giulia, segnata dal grave conflitto di nazionalità provocato dalle sopraffazioni fasciste ai danni delle minoranze slave annesse al Regno d’Italia nel 1918, i tedeschi si atteggiarono a difensori delle nazionalità offese dal fascismo alimentando il miraggio di una rivitalizzazione del porto di Trieste e in generale del suo hinterland nel senso più lato attraverso la riaggregazione delle vecchie province asburgiche al Grande Reich germanico, facendo leva tra l’altro su mai sopite nostalgie filoaustriache. La nomina delle amministrazioni civili in cui prevaleva la presenza di funzionari di origine austriaca e l’aggregazione di fatto delle due zone d’operazione alle dipendenze rispettivamente di Gauleiter del Tirolo (Franz Hofer come Supremo commissario per la zona delle Prealpi) e della Carinzia (Friedrich Rainer come Supremo commissario per il Litorale Adriatico) stava a sottolineare l’inserimento organico delle due aree all’interno dello spazio politico e amministrativo del Terzo Reich, che qui più che altrove si riservava mano libera, sottraendo questi territori alla sovranità della Repubblica di Salò. Ciò comportò che anche nella loro strutturazione le forze di polizia in queste aree conservassero una autonomia operativa affatto 140

particolare. In ciascuna di esse infatti fu insediato un Capo superiore delle SS e della polizia, che consentì l’esercizio di un livello persecutorio particolarmente intenso. Rilevante soprattutto fu l’insediamento nel Litorale Adriatico, come capo supremo delle SS e della polizia, del generale delle SS Odilo Globocnik (cui fu sottratta peraltro la giurisdizione della provincia di Lubiana), reduce dallo sterminio e dal saccheggio degli ebrei (Aktion Reinhard) nella Polonia occupata dai tedeschi. Oltre quindi ad essere anch’egli esponente di primo piano della componente austriaca del vertice nazista, Globocnik arrivò a Trieste come uno dei principali esperti dell’assassinio in massa, portandosi dietro buona parte dei quadri che avevano lavorato con lui alla «soluzione finale» nel contesto dell’Aktion Reinhard, rendendo ragione delle pratiche terroristiche delle quali si rese responsabile, avendo fra l’altro sotto la sua giurisdizione la sorveglianza della Risiera di S. Sabba, vero e proprio campo di sterminio e non soltanto campo di concentramento di transito, secondo la catalogazione ufficiale. Nel complesso dell’area occupata la caccia agli ebrei fu affidata, secondo lo schema usuale nel Reich, all’Ufficio IV B della centrale della Sicurezza del Reich attraverso gli inviati diretti di Eichmann che ad essa era preposto. Sin dall’inizio di ottobre del 1943 era giunto in Italia il colonnello delle SS Theo Dannecker (che con Kappler sarebbe stato il protagonista diretto del rastrellamento del ghetto di Roma del 16 ottobre). All’inizio di gennaio del 1944 a Dannecker subentrò come responsabile della deportazione lo Sturmbannführer delle SS Friedrich Bosshammer. Alle sue dipendenze, ufficialmente come «esperti consulenti per la questione ebraica» presso i comandi locali della polizia di sicurezza, agirono gli ufficiali preposti ai comandi di Firenze, di Genova, di Milano, di Roma, di Torino, di Bologna, di Padova, Parma, Perugia, Venezia (oltre che a Bolzano e a Trieste, come abbiamo visto in un diverso contesto). Come si vede una rete di uffici capillari, che oltre a servirsi della collaborazione di altre specialità della polizia tedesca contava soprattutto sulla collaborazione e degli appositi settori dell’amministrazione italiana e dei reparti delle forze di polizia e delle unità militari della RSI. Nei fatti, la collaborazione delle autorità e degli uffici (di prefettura, ma anche di quelli comunali) della RSI risultò essenziale per agevolare il compito dei tedeschi, soprattutto nell’individuazione e nel rastrellamento degli ebrei, per i quali risultò spesso indispensabile la possibilità di disporre delle liste del 141

censimento del 1938, e degli aggiornamenti effettuati in occasione di accertamenti successivi (denuncia di beni patrimoniali, precettazione per il servizio del lavoro) che erano stati predisposti anteriormente all’armistizio del 1943. Se si eccettua il caso delle vittime della razzia di Roma del 16 ottobre 1943, che furono immediatamente spediti ad Auschwitz, la maggior parte degli ebrei che furono rastrellati furono inoltrati nei campi di sterminio dopo avere sostato nei campi di concentramento allestiti in Italia. Almeno in parte i tedeschi, al di là dei nuovi campi di concentramento provinciali previsti dall’ordinanza di Buffarini Guidi, si servirono di strutture concentrazionarie già esistenti in Italia prima ancora dell’armistizio, anche se talvolta, come nel caso del più importante campo di raccolta in Italia, quello di Fossoli, utilizzarono strutture che erano state allestite non per l’internamento di civili ma per prigionieri di guerra alleati. Le prime manifestazioni di ostilità contro gli ebrei avvennero già nella prima settimana dell’occupazione: alla metà di settembre del 1943 si ebbero gli eccidi di ebrei che si erano rifugiati nella zona del Lago Maggiore (la cui presenza fu presumibilmente segnalata ai tedeschi da delatori) e la deportazione degli ebrei da Merano (il 16 settembre), con una operazione la cui precocità non può non essere messa in relazione alla situazione particolare che si era venuta creando nella provincia di Bolzano. Anche da Trieste già nel mese di ottobre ebbero luogo due invii ai campi di sterminio di ebrei rastrellati poco più di un mese dopo l’occupazione. La retata di Roma del 16 ottobre che fu certamente la più rilevante compiuta in assoluto in Italia, anche per l’alta concentrazione di ebrei esistente nel ghetto di Roma, rimase anche la più spettacolare di queste operazioni, sia per il carattere dimostrativo e intimidatorio che le conferirono le stesse dimensioni, sia perché ancora apparentemente al di fuori di un piano sistematico di rastrellamento e deportazione, non ancora coordinato con le autorità e i servizi della RSI. Se si eccettua la presenza di una serie di minori luoghi di raccolta si può concludere che il via libera alla deportazione sistematica va messo in rapporto con la creazione dei quattro principali campi di arresto e di transito allestiti dalle autorità tedesche e generalmente gestiti con la collaborazione di reparti della polizia fascista. I quattro campi di concentramento e di transito (ossia di smistamento verso la deportazione) furono istituiti a Borgo S. Dalmazzo, 142

in provincia di Cuneo, a Fossoli nei pressi di Carpi (in provincia di Modena), alla Risiera di S. Sabba alla periferia di Trieste, a Gries alla periferia di Bolzano. Il campo di Borgo S. Dalmazzo, che fu destinato principalmente ad accogliere gli ebrei che dalla Francia occupata avevano cercato di spostarsi verso l’Italia confidando in un trattamento meno rigido di quello imposto dai tedeschi, fu anche quello che ebbe la vita più breve: aperto nel settembre del 1943, dopo l’armistizio italiano, fu chiuso nel novembre del 1943 e riutilizzato tra la fine del 1943 e il febbraio del 1944 in base ai provvedimenti della RSI allorché gli ebrei italiani che vi furono rinchiusi furono trasferiti a Fossoli per essere deportati ad Auschwitz. Il campo di Fossoli fu quello dal quale partì il contingente più numeroso alla volta della deportazione: poco meno della metà di tutti gli ebrei deportati dall’Italia transitò da Fossoli. Utilizzando le strutture di un preesistente campo per prigionieri di guerra gestito dall’esercito italiano, dopo l’armistizio il campo di Fossoli fu riutilizzato da tedeschi e fascisti: preso in consegna all’inizio (dicembre 1943) da militi della RSI, a partire dal marzo del 1944 passò agli ordini diretti dei tedeschi, che lo mantennero in vita per il transito di ebrei (diversa sorte ebbero prigionieri politici e persone razziate per il lavoro forzato) sino all’agosto del 1944, allorché in seguito presumibilmente all’avvicinarsi del fronte appenninico trasferirono gli internati che non erano stati ancora deportati in Germania e una parte della guarnigione nel nuovo campo di Gries-Bolzano, più lontano dal fronte ma anche assai più vicino al valico del Brennero in direzione dei campi di concentramento e di sterminio. Esso fu attivo pertanto sino all’arrivo delle forze alleate alla fine di aprile del 1945. Il campo che ebbe maggiore continuità di esistenza fu quello della Risiera di S. Sabba che entrò in attività nell’autunno del 1943 e funzionò ininterrottamente sino alla vigilia della liberazione di Trieste, alla fine di aprile del 1945. La Risiera di S. Sabba ebbe caratteristiche che lo qualificarono certamente al di là della mera funzione di transito; fu l’unico dei campi allestiti nell’area dei confini dello Stato italiano del 1939 dotato di un forno crematorio, a conferma che in esso fu massacrato un numero ingente di prigionieri (un paio di migliaia?); gli ebrei ivi uccisi furono per quanto sappiamo una minoranza, la più parte delle vittime essendo costituita da antifascisti italiani, sloveni e croati. Dal gran numero di trasporti che presero le mosse da Trieste, poco meno della metà di tutti i convogli partiti 143

dall’Italia, se ne deve concludere che la maggior parte degli ebrei che vi transitarono furono mandati nei campi di sterminio. Questo panorama dei principali campi di concentramento allestiti in Italia non esclude, oltre alla presenza di campi minori, spesso allestiti in apprestamenti provvisori o casuali e comunque non nella forma tipica del campo di concentramento con filo spinato e baracche, che altre deportazioni siano avvenute senza necessariamente passare per uno dei quattro principali campi di raccolta e di transito; ciò vale soprattutto per quanti venivano arrestati occasionalmente e in linea di massima individualmente in occasione di razzie e di rastrellamenti alla disperata ricerca di braccia da lavoro da inviare in Germania. Nei mesi dell’occupazione tedesca la caccia all’ebreo faceva parte del repertorio di angherie e di vessazioni che qualsiasi unità di forze di polizia italiane o tedesche poteva permettersi; sappiamo che la cattura di un ebreo poteva rappresentare una particolare benemerenza (e come tale ricompensata) per chi ne fosse entrato in possesso, anche se non è provato che esistessero taglie generalizzate con generose offerte in denaro o in generi alimentari preziosi (come il sale) per allettare l’attività di zelatori e delatori come invece avveniva sistematicamente per la cattura dei prigionieri di guerra alleati, che erano evasi dai campi di prigionia dopo l’armistizio e che venivano considerati particolarmente pericolosi come potenziali membri di bande partigiane, nelle quali apportavano il contributo di una esperienza nell’uso delle armi e della tattica militare che spesso i primi partigiani di estrazione puramente politica non avevano. Fu comunque il proliferare di specialità della polizia fascista che legittimò ogni sorta di arbitrio, anche al di fuori delle procedure stabilite, nella cattura degli ebrei, ridotti a res nullius e a soggetto di competizione nei furti e nelle rapine anche di vite umane da parte delle più diverse unità. Dalla deportazione furono colpite tutte le comunità italiane: nell’ordine Roma, Milano, Trieste, Firenze. Se si volessero segnalare le province più colpite si potrebbe indicare, sulla scorta dei dati forniti dalle ricerche del Centro di documentazione ebraico contemporaneo (CDEC), la tabella a fronte, con l’avvertenza che in questi dati non sono compresi gli ebrei stranieri arrestati in Italia dei quali è rimasta spesso sconosciuta l’identità. È appena il caso di avvertire che il dato per provincia non riflette necessariamente la dimensione delle comunità locali, perché bisogna tenere conto degli spostamenti individuali, di intere famiglie o grup144

Deportati secondo le province di arresto Alessandria

Gorizia

34

Pistoia

77

3

Grosseto

34

Ravenna

22

Aosta

12

Imperia

43

Reggio Emilia

18

Arezzo

28

Jugoslavia

39

Rieti

15

Ascoli Piceno

33

L’Aquila

26

Roma

Asti

45

La Spezia

8

Rovigo

39

Belluno

32

Latina

1

Savona

10

Bergamo

39

Livorno

Siena

17

Bologna

109

108

Sondrio

62

Bolzano

38

Macerata

63

Teramo

157

Brescia

21

Mantova

44

Torino

253

Chieti

21

Milano

300

Trento

13

Como

113

Modena

70

Treviso

28

2

Novara

20

Trieste

554

Cuneo

383

Padova

55

Udine

39

Ferrara

71

Parma

70

Varese

173

Firenze

302

Pavia

15

Venezia

230

Fiume

225

Pescara

1

Vercelli

24

Forlì

11

Piacenza

5

Verona

45

Frosinone

15

Pisa

16

Vicenza

44

Genova

153

Pola

7

Viterbo

11

Dato ignoto

585

Ancona

Cremona

TOTALE

48

33

Lucca

6.806

145

1.694

pi che si verificarono soprattutto dopo l’armistizio del 1943, allorché la maggior parte degli ebrei dovette abbandonare le proprie residenze e cercare rifugio altrove. Tenendo conto di questa non indifferente variabile i dati, che peraltro non si possono considerare definitivi in assoluto, conservano tuttavia anche con questi limiti una loro rappresentatività rispetto alle realtà territoriali cui si riferiscono. La deportazione degli ebrei non fu concentrata entro date ristrette ma fu un fenomeno che accompagnò tutto il periodo dell’occupazione tedesca. Sebbene le principali razzie (a Roma, a Firenze, a Trieste) siano state consumate nei primi mesi dell’occupazione entro la fine del 1943, la cattura e la deportazione degli ebrei furono uno stillicidio che come altre forme di violenza, da quelle apparentemente meno rilevanti alle grandi stragi, contrassegnarono la quotidianità della vita sotto l’occupazione. Diari e testimonianze di ebrei danno ragione della condizione di paura e di terrore, in cui, braccati, erano costretti a vivere e a cercare rifugi sempre nuovi, fronteggiando le incognite di una situazione piena di insidie e di tranelli. La stragrande maggioranza degli ebrei deportati dall’Italia fu inviata ad Auschwitz; i pochi scampati ad Auschwitz furono quelli che si trovarono nella condizione narrata da Primo Levi, che sopravvisse perché le sue qualità professionali indussero i tedeschi ad adibirlo al lavoro forzato, o coloro che furono risparmiati nelle ultime settimane di lager dall’ordine di Himmler di sospendere le uccisioni in massa, o dal trasferimento in altri lager meno famigerati a conclusione delle spaventose marce della morte con cui fu fatto evacuare il campo di sterminio prima che arrivasse l’Armata rossa. Altri lager ai quali furono avviati ebrei deportati dall’Italia furono Bergen Belsen, Ravensbrück, Buchenwald, Flossenbürg. Ma ebrei italiani furono liberati anche in altri campi (Dachau, Mauthausen, ecc.) ai quali erano stati inviati dopo l’evacuazione di Auschwitz all’inizio del 1945. I campi in Italia non furono campi di sterminio in senso stretto: il loro compito era di servire come anticamera dello sterminio. Gli eccidi di ebrei ebbero luogo prevalentemente fuori dai campi di concentramento: i più rilevanti furono quelli di Meina e di altre località nell’adiacenze del Lago Maggiore nelle prime settimane dopo l’armistizio, quello delle Fosse Ardeatine, in cui, tra gli altri, perirono 73 ebrei e quello che a Pisa vide protagonista, in circostanze parti146

colarmente efferate, il presidente della comunità ebraica Pardo Roques e altri sette suoi correligionari. Il numero totale delle vittime – tenendo conto dei morti in deportazione e delle vittime di eccidi – tra quanti risiedevano in Italia ammonta, secondo le ricerche del CDEC a 6.291; 837 furono i deportati sopravvissuti. A questi dati si devono aggiungere gli ebrei delle isole del Dodecanneso, allora sotto sovranità italiana, che furono deportati e pressoché totalmente uccisi per un complesso di 1.820 persone (di cui 180 sopravvissuti). Questo significa che negli anni tra il 1943 e il 1945 furono uccisi circa il 20-22 per cento degli ebrei che si trovavano in Italia all’atto dell’armistizio. Comparate con altre situazioni dell’Europa centro-occidentale, le perdite di ebrei nell’Italia furono sicuramente inferiori a quelle di altri paesi: in Francia scomparve un terzo degli ebrei, in Olanda due terzi di tutti gli ebrei ivi residenti. Si può cercare di chiarire come mai l’ebraismo italiano ha subito perdite relativamente meno elevate di altre comunità? Nonostante la preesistenza dei provvedimenti contro gli ebrei del regime fascista, le perdite relative subite dagli ebrei in Italia sono dovute ad un insieme complesso di fattori. In primo luogo è da richiamare ancora una volta l’alto livello di assimilazione e di integrazione degli ebrei italiani che favorì in ogni modo la possibilità di trovare soccorso presso le componenti della società italiana, indipendentemente da opzioni o simpatie politiche, per il fatto stesso di essere inseriti in maniera indissociabile e spesso attraverso parentele e matrimoni misti nel tessuto della società italiana. Naturalmente, ciò vale meno per gli ebrei stranieri, soprattutto nei casi in cui questi non fossero a conoscenza della lingua italiana o in cui prevalesse un senso di diffidenza verso l’ambiente circostante. In secondo luogo il salvataggio di un gran numero di ebrei fu dovuto al concorso di molti aiuti, non soltanto al diffuso intervento individuale di molti, che servì a controbilanciare lo zelo delatorio o predatorio di tanti altri. Non si possono generalizzare situazioni positive, come se tutti avessero aiutato gli ebrei, ma è sicuro che non furono pochi coloro che rischiavano per senso di solidarietà umana. Anche nella pubblica amministrazione vi furono funzionari che si attivarono per impedire ulteriori vessazioni o addirittura per sottrarre i perseguitati alla loro sorte, sia che ne favorissero la fuga sia che cercassero di coprirne l’origine. Tuttavia non si possono assumere i casi esemplari di funzionari che non ottemperarono ad ordini ritenuti ingiusti 147

o inumani per dare una patente di benemerenza alla pubblica amministrazione come tale. Non si tratta di questo, se non altro perché saremmo immediatamente smentiti dai molti funzionari di polizia o dagli appartenenti a corpi militari che furono parte attiva nella cattura e nella deportazione degli ebrei. Nell’ambito inoltre della pubblica amministrazione molti comportamenti ambivalenti, che si rivelarono provvidenziali per i soggetti colpiti furono determinati dalle incertezze stesse della situazione e dalla prospettiva della sconfitta della RSI al seguito della Germania nazista che induceva i più avvertiti a valutare le conseguenze di un inevitabile redde rationem a guerra finita. Molti perseguitati furono aiutati non per senso di umanità ma per tornaconto personale di chi avrebbe dovuto imporre loro una legge criminale: una condizione tipica di epoche di grandi incertezze in cui la sorte di ogni individuo, dall’una e dall’altra parte della barricata, è affidata al buon senso e alla necessità di salvaguardare elementari garanzie esistenziali. Non si tratta certo di fare l’elogio della cosiddetta «zona grigia», ma di valutare in quale misura la presenza di tanti comportamenti ambivalenti permise che nelle loro pieghe trovassero rifugio (non di rado dietro compenso) persone in pericolo che spesso non avevano altre sponde o altre possibilità cui affidarsi. Diversa, al contrario, è la problematica degli aiuti organizzati di estrazione sociale e culturale assai diversa, laica o ecclesiastica. La forma primordiale di aiuto fu quella che nacque all’interno delle comunità ebraiche o collateralmente ad esse, come eredità di una vecchia tradizione di solidarietà e di forme associative destinate a fare argine al fronte delle persecuzioni, contando non su un semplice patto di mutuo soccorso ma su una comunanza e omogeneità di ideali destinata a cementare la consapevolezza di una comunanza di destino, in cui forte era l’influenza del sionismo. Fu su questa base che sin dalla fine del 1939 con la collaborazione dell’Unione delle comunità nacque la DELASEM (Delegazione assistenza emigrati) che aveva lo scopo di assistere gli ebrei stranieri in Italia e di agevolarne il transito per recarsi fuori d’Italia (specialmente in America e in Palestina). Non a caso la sede dell’organizzazione fu stabilita a Genova, data la funzione di transito oltremare che assolveva il porto ligure. Dopo l’8 settembre l’organizzazione dovette passare nell’illegalità e di fatto si trasformò in una struttura per il salvataggio degli ebrei non solo stranieri ma anche italiani, ora a loro volta minacciati non più soltanto nei diritti ma nella stessa esistenza fisica. Sebbe148

ne l’epicentro dell’organizzazione rimanesse a Genova alcune diramazioni periferiche della DELASEM (come quelle di Firenze o di Milano) assunsero rilevanza particolare nell’opera di assistenza e soccorso, più che mai ora, nel momento in cui non si trattava più di favorire prioritariamente l’espatrio degli ebrei ma di consentirne la sopravvivenza, di concerto con le autorità ecclesiastiche, che si fecero carico della gestione dei beni e degli impegni di soccorso dell’organizzazione, in special modo a Firenze e a Genova, confidando nella protezione di alti prelati (a Firenze il cardinale Dalla Costa) particolarmente impegnati nell’opera di soccorso agli ebrei. Questo che fu il punto di sutura tra l’organizzazione di soccorso nata dall’iniziativa autonoma dell’ebraismo e le strutture della Chiesa cattolica mise in evidenza il peso che ebbe all’epoca dell’occupazione nazista l’aiuto prestato agli ebrei dal complesso delle organizzazioni ecclesiastiche. A prescindere dalla più complessa problematica legata all’atteggiamento della Santa Sede e in particolare di Pio XII nei confronti del nazismo e dello sterminio degli ebrei, tuttora una delle questioni più controverse ancora aperte nella discussione sul genocidio, problematica che non è possibile richiamare in questa sede se non per rinviare alla bibliografia specialistica in cui compaiono oggi eccellenti documentazioni e ottimi studi critici, più semplice ma con questo meno ricco di implicazioni può essere il discorso sull’aiuto recato dalle strutture ecclesiastiche. Il riferimento non va fatto sulla diffusa rete parrocchiale esistente in tutto il paese, se non altro pensando alle resistenze conservatrici di un ambiente in cui altrettanto diffuso era stato il pregiudizio antigiudaico. Se è vero che l’attività caritativa non conobbe confini, vero è anche che la disponibilità del basso clero a dare soccorso alle vittime della guerra (come con generica allusione si diceva) – profughi, rifugiati fuggiti dalle loro case o scampati ai bombardamenti, soldati sottrattisi alla prigionia o addirittura prigionieri alleati – non era e non poteva essere illimitata. Particolari categorie di indigenti – e tali erano con i prigionieri alleati certamente gli ebrei, italiani o stranieri che fossero – correvano e facevano correre particolari pericoli; occuparsi di loro era particolarmente rischioso. Abbiamo già visto come nella Santa Sede esistessero, ancora nell’estate del 1943, remore alla liquidazione delle leggi razziali per via di mai sopiti pregiudizi; tanto più necessario apparve perciò usare tutte le precauzioni possibili. Non risulta documentato alcun intervento generale della Santa Sede a favore del soccorso agli ebrei; 149

alla richiesta di aiuto rivolta dagli stessi ebrei alle strutture ecclesiastiche autorevoli prelati diedero risposta positiva (certamente i cardinali di Firenze, di Genova, di Torino) delegando loro collaboratori a mantenere i contatti e a seguire con attenzione la causa degli ebrei. Più che al salvataggio individuale le strutture ecclesiastiche furono impegnate in forme di assistenza collettiva in istituzioni (prevalentemente conventi, ospizi, opere di assistenza e di beneficenza) capaci di essere maggiormente protette dall’irruzione di fascisti e tedeschi, come sicuramente nei conventi romani più o meno adiacenti al Vaticano, o comunque coperti dall’extraterritorialità. Ma dappertutto in Italia l’ospitalità nei conventi fu generosa quanto possibilmente silenziosa. Nella stessa Roma la Santa Sede, che pure non avrebbe espresso alcuna protesta alla deportazione del Portico d’Ottavia, non mancò di dare il suo contributo alla raccolta dell’oro per soddisfare la ricattatoria richiesta rivolta dai tedeschi alla comunità ebraica il 26 settembre 1943, a sottolineare le oscillazioni di un comportamento che voleva (o forse si illudeva) essere di solidarietà, ma non di identificazione, con i perseguitati, di soccorso ma non al prezzo di scontrarsi con l’autorità tedesca. Naturalmente, le numerose irruzioni della polizia nazista in luoghi ecclesiastici furono una efficace arma intimidatoria per tenere in scacco iniziative in cui il coraggio dei singoli riscattò spesso il silenzio dell’istituzione. Non va dimenticato infine che una quota relativamente alta di ebrei, secondo stime attendibili intorno alle 5.000 persone, riuscì a mettersi in salvo rifugiandosi in Svizzera, non soltanto dall’Italia settentrionale ma anche dall’area centrale subappenninica. La via della fuga in Svizzera non era né sicura né indolore. Essa fu certamente facilitata dopo l’armistizio del ’43 dalla flessibilità delle autorità svizzere, che in altri momenti e su altri versanti non furono altrettanto aperte nei confronti dell’arrivo di profughi, subendo il ricatto e le pressioni della vicina Germania nazista. Come è ovvio, i rischi maggiori per chi tentava la via per raggiungere la Svizzera venivano corsi nel cammino sino alla frontiera svizzera, spesso alla mercé di contrabbandieri, che conoscevano i passaggi illegali ma che si facevano pagare per i loro servizi un autentico salario della paura; in numero meno cospicuo furono gli ebrei, in genere intere famiglie con le difficoltà che ne derivavano quando si trattava di percorrere transiti impervi o di montagna, che poté servirsi di piste e di coperture della Resistenza attraverso i collegamenti che erano stati stabiliti tra l’Italia e la Svizzera. 150

8.

Il bilancio della tragedia Gli ebrei in Italia dopo il 1945

La liberazione dal fascismo e dall’occupazione tedesca comportò dappertutto anche la ripresa della vita dell’ebraismo italiano, che era stata così duramente oppressa dalle leggi razziste prima e dalla persecuzione fisica negli anni dell’occupazione nazista e della Repubblica sociale. Dappertutto sul territorio liberato tra i primi atti del governo militare alleato e degli organismi del CLN vi fu la riapertura delle comunità israelitiche e del tempio, che erano stati chiusi all’atto dell’occupazione. L’abrogazione delle leggi razziali era tra le condizioni politiche delle clausole dell’armistizio concluso tra il governo Badoglio e le forze armate anglo-americane, tra i provvedimenti generali destinati a realizzare lo smantellamento delle strutture dello Stato fascista. Ma questa era una dichiarazione di carattere politico la cui reale attuazione implicava, data la larga proliferazione non solo legislativa ma anche e soprattutto amministrativa delle normative contro gli ebrei, l’intervento dello Stato e della pubblica amministrazione ai più diversi livelli e nei settori più disparati. L’abrogazione automatica delle leggi razziali fu in buona parte riservata ai principi generali; essa si risolse già prima dell’abrogazione formale soprattutto nella pratica di cessazione dell’applicazione delle leggi; ma nella più parte dei casi, dove si trattasse di ripristinare diritti che erano stati negati e dove fossero in gioco reintegrazioni patrimoniali, la reale abolizione degli effetti delle discriminazioni poté avvenire semplicemente con nuove procedure (provvedimenti amministrativi, atti del151

la magistratura e simili) che restituivano ai soggetti che ne erano stati privati diritti, prerogative e attribuzioni anche patrimoniali. Non vi fu alcun atto solenne che riconoscesse il torto commesso dallo Stato italiano ai danni di tanti cittadini e di tanti individui anche al di fuori della cittadinanza che da quei provvedimenti erano stati colpiti. Soltanto la Costituzione repubblicana, tra le norme in polemica con il passato fascista, nella solenne affermazione del principio di eguaglianza all’art. 3 (ma anche altrove: dall’art. 2 all’art. 13, all’art. 17, al 18, al 21, all’art. 33) volle riaffermare il principio negato dal fascismo della piena eguaglianza dei cittadini al di là di status sociale, confessione o, con discutibile espressione, razza. All’indomani della Liberazione l’iter per l’abrogazione delle leggi antiebraiche era appena abbozzato. Vi fu una colpevole inerzia delle forze politiche, che sin dall’epoca del primo governo Badoglio non avevano avvertito la sensibilità del significato che una forte proclamazione avrebbe potuto dare anche in senso polemico come segnale di rottura con il passato regime. Neppure allorquando la dichiarazione di guerra della Germania marcava le distanze dalla stessa Repubblica sociale, segno probabilmente di resistenze dell’apparato burocratico o di riserve degli ambienti cattolici a procedere alla totale abrogazione delle leggi. Bisognò arrivare al 20 gennaio 1944 perché il governo Badoglio adottasse il primo provvedimento abrogativo generale, la cui attuazione definitiva in tutti i particolari che avevano inondato i comparti più disparati dell’amministrazione doveva protrarsi per molti decenni ancora, come hanno messo bene in evidenza gli studi puntuali di Mario Toscano. Ma l’abrogazione delle normative non era che uno solo degli aspetti dell’eredità che le discriminazioni del fascismo avevano lasciato nel mondo ebraico italiano, sconvolto moralmente e materialmente. Il rientro di quanti avevano lasciato le loro residenze abituali per sfuggire alle persecuzioni nelle sedi originarie si confrontò immediatamente con il censimento di coloro che non sarebbero tornati più dalla deportazione nei campi di sterminio; al censimento delle vittime si aggiungeva il dissesto che era stato prodotto nella proprietà dei beni patrimoniali, individuali o collettivi delle comunità, sui quali a loro volta si erano esercitati furti e asportazioni mirati (oggetti rituali, patrimoni librari) o rapine a titolo individuale, soprattutto di oggetti d’arte o comunque spendibili sul mercato antiquario, ad opera di funzionari o agenti addetti alla confisca dei beni degli ebrei. 152

La fine dell’incubo, secondo l’immagine più generalmente corrente con la quale si suole descrivere come fu percepita la Liberazione dagli ebrei sopravvissuti, non costituì automaticamente la fine delle traversie materiali, individuali o familiari, soprattutto per i molti che non trovavano più le case che avevano dovuto abbandonare, molte distrutte dai bombardamenti, altre sequestrate dalle autorità fasciste e assegnate ad altre categorie di profughi o di sinistrati che ritenevano di avere diritto di rimanervi. Una vicenda che fa parte del più generale disordine del dopoguerra, ma che nel caso degli ebrei assumeva un colore particolare per essere stati essi a loro volta le prime vittime di una persecuzione che attendeva risarcimento. Il dissesto materiale e morale nel quale si era venuta a trovare la società italiana non consentiva sul momento che si palesasse la consapevolezza storica delle tragedie personali e del trauma collettivo che aveva subito l’ebraismo italiano, anche perché soltanto alla conclusione della seconda guerra mondiale incominciò a maturare la percezione della dimensione che aveva assunto la «soluzione finale» in una prospettiva che non fosse quella della sorte individuale dei singoli ebrei che ne erano stati coinvolti. Nel caso dell’Italia, poi, l’alta percentuale degli ebrei che si erano salvati enfatizzò immediatamente l’opera dei molti che per convinzione o per convenienza si erano prestati ad azioni di soccorso, contribuendo a rendere meno visibile e meno separata la sorte dei molti ebrei che rientravano alle loro sedi. Incompleto rimase per molti anni il censimento di coloro che erano stati deportati e che non tornarono dai campi di sterminio: degli ebrei deportati poco più del dieci per cento rientrò in Italia, sempre astraendo dagli ebrei stranieri, dei quali non è possibile stabilire se non in casi rari neppure una cifra approssimativa, trattandosi spesso di persone rifugiatesi in Italia e catturate prima ancora che potessero in qualche misura entrare a fare parte di un tessuto connettivo in cui fossero riconosciuti, assorbiti e protetti. Gli ebrei che dopo la Liberazione sostarono in Italia nei campi profughi o che furono raccolti tra le displaced persons provenivano il più delle volte da tutte le parti d’Europa e transitavano dall’Italia nella speranza di proseguire per altre mete; fossero la Palestina o gli Stati Uniti d’America. Oggi conosciamo cifre approssimative attendibili degli ebrei deportati dall’Italia, dei deceduti e di coloro che sono sopravvissuti. Anche le ultime cifre pubblicate nella nuova edizione del Libro della memoria (del 2001) per conto del Centro di documentazione ebraica 153

contemporanea da Liliana Picciotto sono suscettibili di ulteriori precisazioni via via che le ricerche renderanno possibile l’acquisizione di altre notizie. La cosa non deve meravigliare; è essenzialmente grazie all’attività degli organismi di ricerche e di studio dell’ebraismo italiano che è stato possibile tentare il censimento delle perdite da esso subite, prima per l’instancabile attività del colonnello Massimo Adolfo Vitale, alto esponente dell’Unione delle comunità, che fu preposto al primo Centro di ricerche degli ebrei deportati, successivamente con le forze del CDEC. Senza quest’opera di ricerca, cresciuta con l’avvio di grandi processi a carico dei responsabili dello sterminio (dal processo Hoess a quello Bosshammer, celebrato in Germania nella seconda metà degli anni Sessanta con specifico riferimento fra l’altro alle deportazioni dall’Italia), non saremmo oggi in grado di dare una dimensione quantitativa allo sterminio, posto che non risulti vi sia stata alcuna indagine specifica da parte di organismi dello Stato italiano per venire a conoscenza della sorte degli ebrei italiani. Vogliamo anche aggiungere che nella attività giudiziaria svolta nel dopoguerra per i reati di collaborazionismo, quale che sia il giudizio che sulla punizione di detto crimine e sulla amnistia che ne seguì si voglia dare, scarsissima visibilità ebbe il problema della deportazione e dell’uccisione degli ebrei. Forse il solo processo in cui questo specifico problema ebbe una parte rilevante fu quello a carico dell’ex ministro degli Interni della Repubblica di Salò Buffarini Guidi. In altri processi la vicenda degli ebrei compare incidentalmente: una circostanza che segnaliamo per sottolineare come a questi eventi non venisse data a cavallo della Liberazione una attenzione specifica, così come non lo era stata neppure nella definizione legislativa del reato di collaborazione con il tedesco invasore, rimasta allo stato più generale possibile, talché era possibile comprendervi tutto ma anche nulla. Anche qui una considerazione che, proiettata in una riflessione sulla costruzione di una memoria della persecuzione degli ebrei, delle responsabilità del regime fascista e della consapevolezza di ciò che fu fatto agli ebrei, porrebbe più punti interrogativi (ed esclamativi) di quanto non contribuirebbe a dare ragione di questi silenzi e di queste sottovalutazioni. A fronte dei circa 40.000 ebrei che vivevano in Italia prima dell’8 settembre del 1943, il dato più recente di 6.806 deportati dal territorio metropolitano (di cui 5.969 deceduti e 837 sopravvissuti) e di 1.820 deportati dal Dodecanneso (di cui 1.641 deceduti e 179 sopravvissuti) sta a indicare l’incidenza del 15 per cento di perdita sec154

ca che la compagine dell’ebraismo italiano aveva subito. Tutte le principali comunità ne uscirono sconvolte, a cominciare da Roma per finire a Trieste, le comunità che in proporzione avevano subito le decimazioni più rilevanti. Quando, dopo la ricostituzione dell’Unione delle comunità, il centro romano avviò la raccolta delle notizie da tutte le comunità periferiche per fare il primo bilancio della bufera che si era abbattuta sull’ebraismo italiano, le risposte avrebbero potuto riecheggiare il senso di tante testimonianze personali, dalle quali risultava che nulla era rimasto come prima, che tutto avrebbe dovuto avviarsi per un cammino nuovo. Ma, come era naturale, gli effetti della persecuzione non si potevano esaurire con la Liberazione. Molte reazioni che non avevano potuto manifestarsi nel momento in cui il primo imperativo era quello di mettersi in salvo, si manifestarono dopo. Per molti la fine dell’incubo non significò la fine dell’incertezza, un traguardo di sicurezza assoluta. La sensazione che il processo di reintegrazione sarebbe stato lungo e dall’esito in definitiva non scontato fu certo alla base della scelta di chi, sotto l’impressione degli eventi, optò per l’emigrazione in Palestina. Lo Stato d’Israele non esisteva ancora e l’afflusso in Palestina avveniva in buona parte sfidando le autorità inglesi: le storie avventurose dell’Exodus e il terrorismo ebraico di quegli anni, rivolto contro gli inglesi più che contro gli arabi, sono fatti comuni anche a questa fase dell’emigrazione italiana. Nell’incertezza del dopoguerra, sugli ebrei che uscivano dal tunnel della persecuzione forte fu il fascino esercitato dalla Palestina, non solo perché era la Terra Promessa della Bibbia; forte era anche il fascino del kibbutz, in cui si doveva inverare l’aspettativa ideale e ideologica di un avvenire comunitario, un ideale socialista in cui si sarebbero fusi l’identità ebraica e la formazione di una nuova società, come avevano sognato I ragazzi di Villa Emma, dei quali ci ha raccontato Klaus Voigt. Prima che fosse ufficialmente creato lo Stato di Israele, l’emigrazione era clandestina; Mario Toscano ha ricostruito la funzione di transito che l’Italia ebbe in quegli anni, non soltanto come punto di partenza di ebrei italiani, ma anche degli ebrei che provenendo da tutta l’Europa sconvolta dal genocidio speravano di rifarsi una nuova e definitiva patria in Palestina. Quanti furono gli ebrei italiani che in questo frangente presero la via di Gerusalemme? Non ci consta che esistano cifre precise, si possono calcolare probabilmente in qualche centinaio. 155

Dopo il 1948 si ebbe una accelerazione di questo movimento: non pochi ebrei partirono volontari dall’Europa – anche dall’Italia – per combattere al fianco di Israele nella prima guerra contro gli arabi. Non li muoveva spirito antiarabo né solo nazionalismo israeliano: era ancora vivo l’internazionalismo sionista e soprattutto l’ideale socialista e l’utopia che Israele avrebbe potuto diventare uno Stato diverso dagli altri. Le sue origini e le ragioni della sua esistenza erano così originali e singolari che secondo molti volontari Israele avrebbe dovuto costituire il modello non solo di una società nuova ma anche di un nuovo Stato. Alcuni di coloro che erano accorsi in Israele tornarono in patria delusi, perché ciò che non vi avevano trovato era proprio la sostanza utopica per la quale erano partiti; altri, i più, vi rimasero perché sulle aspettative utopiche prevalse il realismo politico che imponeva comunque di difendere l’esistenza del nuovo Stato. Un momento essenziale della dialettica che sempre avrebbe continuato a caratterizzare il rapporto tra l’ebraismo italiano e lo Stato d’Israele. Ma la gioia dell’avvenuta liberazione non fu accompagnata da una sollecita iniziativa riparatrice attraverso la quale si manifestasse la convinzione e la consapevolezza per lo Stato di dovere risarcire non solo danni materiali ma soprattutto l’offesa e la violenza morale che erano state inflitte a decine di migliaia di cittadini. Anche ammesso (ma non concesso) che il problema della reintegrazione degli ebrei nei loro diritti risultasse un problema relativamente secondario a fronte della mole di problemi con i quali aveva a che fare il paese uscito dalla guerra, dall’occupazione e dalla divisione anche territoriale che ne aveva lacerato le articolazioni amministrative, le cronache ci rimandano il senso della grande burocratica freddezza con la quale fu affrontato il problema della reintegrazione e delle pratiche risarcitorie. La riassunzione nei pubblici uffici di coloro che ne erano stati cacciati si realizzò con estenuante lentezza, con incomprensioni, incompetenza e spesso malcelata compartecipazione da parte di funzionari che spesso erano gli stessi che avevano eseguito le pratiche di allontanamento di colleghi o avevano sovrainteso ai provvedimenti cautelativi in materia patrimoniale e che ora, nel passaggio dal regime dittatoriale a quello democratico, si trovavano a gestire pratiche reintegratrici o restitutorie con la stessa indifferenza burocratica con la quale avevano obbedito a regimi e logiche non solo diverse ma esattamente opposte. 156

La stessa volontà dei governi democratici si rivelò fiacca e poco disponibile a compiere gesti politici di una qualche pubblica rilevanza, lasciandosi condizionare dall’inerzia, dalle dilazioni e dalle lungaggini procedurali di una amministrazione che non avvertiva sensibilità per il problema e non riusciva a vedere al di là delle pratiche burocratiche il dramma che era stato vissuto da migliaia di persone che erano costrette adesso a una nuova odissea burocratica. Non solo le norme reintegratrici apparivano largamente deludenti, ma anche quando, come nel caso della legge del 16 gennaio 1978 n. 1, si erano spinte a prevedere perfino il risarcimento del «pregiudizio morale» che l’applicazione delle normative fasciste aveva comportato, ebbero attuazione parziale, contraddittoria o addirittura nulla. Se lo spazio consentisse di elencare la casistica delle domande di giustizia rimaste inevase o anche dei provvedimenti giudiziari con i quali si tentò di rispondere nei casi in cui i soggetti interessati tentarono di forzare giudicati a loro favore, avremmo una immagine desolante del livello di astrattezza e non solo di insensibilità e di non senso con il quale si mossero le articolazioni dello Stato. Alla proliferazione delle normative fasciste corrispose una proliferazione uguale e contraria di normative abrogative e soprattutto di provvedimenti singolari per la sanatoria dei casi specifici. Nessun provvedimento reintegrativo o risarcitorio ebbe carattere automatico, ma il peggio fu che la rivendicazione di diritti lesi dovette realizzarsi attraverso difficoltà non sempre sormontabili o procedure arcaiche che non tenevano conto della assoluta eccezionalità degli eventi che erano stati alla base dello sconvolgimento di situazioni giuridiche e di fatto come quelle che erano all’origine di tante vicende della popolazione ebraica. Qualche fatto simbolico servì a riproporre al di là dei casi individuali l’attenzione nei confronti di una collettività che era stata lesa nel suo essere minoranza e come tale menomata, come nel caso dell’assegnazione dei beni di cui non era più possibile individuare i legittimi proprietari scomparsi nei campi di sterminio all’Unione delle comunità ebraiche, in quanto destinataria simbolica in rappresentanza del popolo ebraico. Ma si trattò di fatti pur sempre isolati che non implicarono quel più generale atto di pubblico riconoscimento dei torti commessi in passato che sarebbe stato auspicabile da parte dello Stato democratico, secondo la prassi tipicamente italiana di annegare anche gli spunti innovativi nella palude della continuità e del continuismo. 157

Neppure le reintegrazioni o i risarcimenti patrimoniali avvennero con alcuna forma di automatismo (se non per quanto riguarda la dichiarazione di nullità delle alienazioni di beni immobili avvenute in condizioni di palese violazione di ogni regola e in condizioni di manifesta turbativa di ogni realistica contrattazione); in questi casi le peripezie dei proprietari per rientrare in possesso di quanto loro apparteneva furono ancora più complicate. Quando vi fossero stati passaggi di proprietà fittizi per aggirare la legge persecutoria poteva essere relativamente facile dare la dimostrazione dell’accaduto, sempre che le parti che si erano prestate ad operazioni fittizie o a fungere da prestanomi riconoscessero di aver partecipato a contratti che avevano essenzialmente la funzione di copertura e non pretendessero di avere acquisito esse passaggi patrimoniali di cui intendevano fare valere il riconoscimento e facessero quindi resistenza in giudizio. Apparentemente più facile avrebbe dovuto essere il problema della restituzione dei beni confiscati con decreti della Repubblica di Salò, per mezzo delle prefetture o di altri uffici a ciò deputati, per i quali venivano stesi verbali di sequestro (come abbiamo visto nel capitolo precedente). Nei fatti, se le restituzioni avvennero per i beni immobili (immobili urbani generalmente, meno frequentemente poderi agricoli), fossero essi o no passati dalla gestione dell’EGELI, molto più aleatoria fu la questione per i beni mobili che furono esposti all’alto livello di arbitrarietà con cui gli stessi funzionari preposti ai sequestri, in combutta con affaristi grandi o piccoli, si diedero a furti e rapine o per appropriarsene personalmente o, soprattutto nel caso di beni di valore artistico o antiquariale, per farne commercio e trarne lucro e arricchimento. Molti oggetti d’arte e di antiquariato finirono al mercato nero, entrarono in circuiti più o meno commerciali, interi patrimoni furono dispersi; molti beni furono rintracciati e i proprietari poterono rientrane in possesso, ma molti altri finirono nel nulla attraverso mille rivoli, che contribuirono a distruggere con i patrimoni le memorie familiari di cui essi erano traccia e testimonianza. La ricerca di ciò che era stato razziato non significava soltanto ricostituire sostanze patrimoniali, aveva anche un valore affettivo o sentimentale, significava ricostituire le tessere di un patrimonio di costume e di civiltà, ricostituire il tessuto familiare, civile e sociale di una minoranza. Il censimento sistematico di ciò che fu depredato agli ebrei giunse tardivamente. Ciò significava che tardivamente la società aveva 158

preso coscienza del debito che essa aveva contratto con la minoranza ebraica. Soltanto nel 1998 il governo italiano, conformandosi a un quadro di iniziative internazionali, ha provveduto a insediare una Commissione «per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati». Nell’aprile del 2001 la commissione, presieduta dall’onorevole Tina Anselmi, ha consegnato un Rapporto generale, nel quale non solo sono state ricostruite le diverse procedure adottate per il sequestro dei beni ebraici in senso lato, ma è stata ampiamente esaminata la casistica che con molte diversificazioni si è verificata sull’intero territorio nazionale prima e dopo l’8 settembre del 1943, nelle diverse fasi del regime fascista, il regime del ventennio e la Repubblica di Salò, il comportamento delle autorità fasciste e di quelle tedesche. La Commissione non si è astenuta infine dall’affrontare anche il problema delle restituzioni, né dal dare una sua valutazione non strettamente tecnica su questo problema, procedendo sì «con il necessario rigore scientifico non disgiunto da una forte carica emotiva e da una irrinunciabile tensione morale». Come si legge ancora nel Rapporto generale, a questo proposito la Commissione rilevava che «non vi è dubbio che l’impianto legislativo sulle restituzioni risulta sufficientemente tempestivo ed ampio ma questo giudizio, oggettivamente positivo, va temperato ove si pensi che non poche vittime non ritrovarono più i loro beni e che molte di esse soffrirono a causa delle lunghezze e della complessità delle procedure. D’altra parte, il principio di uguaglianza, riaffermato con la Liberazione, trovò nelle sue concrete applicazioni resistenze notevoli, dovute alla impronta rilevante rilasciata da vent’anni di fascismo nelle strutture del paese. È stato fatto giustamente notare che, di fronte al problema dell’applicazione concreta di questo principio, notevolmente diverso fu il comportamento dei tre poteri tradizionali dello Stato, potere legislativo, giudiziario ed esecutivo. Infatti, le resistenze, poco sensibili in sede legislativa e parlamentare, ove più forte era la pressione dei partiti antifascisti, furono invece notevoli sia nella giurisprudenza che nell’amministrazione». E a illustrazione dello spirito con il quale ha lavorato la Commissione valgano le parole con le quali l’onorevole Anselmi conclude l’introduzione al Rapporto generale conclusivo: 159

Desidero concludere con una considerazione finale. Gli aspetti materiali della spoliazione dei beni degli ebrei e della loro restituzione sono certamente importanti ma essi non ne costituiscono l’aspetto essenziale. Prima di essere un affare di denaro, la spoliazione è stata una persecuzione il cui obiettivo finale era l’annullamento morale e quindi lo sterminio. Nessuna storia saprà raccontare ciò che uomini e donne hanno vissuto quotidianamente con il conseguente peso d’angoscia, di umiliazione e di miseria. Certamente è questo il debito che si deve pagare, che è stato pagato in tutte le guerre e di cui molti hanno sofferto. Ma nel nostro caso ciò è avvenuto in attuazione di leggi e di regolamenti discriminatori che hanno violentemente isolato una parte della nostra popolazione per il solo fatto della loro nascita. È questa una vicenda senza precedenti che non deve mai più accadere; che non accadrà se ciascuno di noi, da oggi, non legittimerà in nessun modo la violazione dei diritti umani che devono essere a fondamento della società e delle leggi del nostro paese.

Credo che meglio non si potesse esprimere, non soltanto l’ispirazione del lavoro della Commissione ma anche lo spirito con il quale si devono affrontare anche problemi come quello delle restituzioni e dei risarcimenti patrimoniali, per la somma di sofferenze e di lacerazioni di vissuti che sottintendono, e di cui i beni patrimoniali non sono che un’espressione esteriore, spesso l’unica tangibile alla quale sia affidata la memoria di ciò che è andato irrimediabilmente distrutto. Il lavoro della Commissione Anselmi non poteva da solo colmare la lacuna di un intervento dello Stato che rendesse consapevolezza critica delle violazioni dei diritti commesse sotto il fascismo e del ritardo e della parzialità degli atti di riparazione che furono compiuti dopo la Liberazione. I ritardi ripetutamente richiamati nell’acquisizione di una coscienza vigile e sempre presente nei confronti degli accadimenti del passato hanno avuto molteplici matrici, non esclusa neppure la stessa formazione di una memoria ebraica affiorata lentamente dopo una prima fase in cui la vicinanza delle sofferenze suggerì in molti di coltivare il silenzio tra le pratiche con le quali lenire un ricordo ancora troppo oppressivo e troppo invadente. Uno stato d’animo che non fu tipico solo del mondo ebraico, ma che coinvolse nell’immediato dopoguerra molta parte della popolazione. A rileggere oggi testimonianze e memorie di coloro che tornavano dai campi di concentramento e, più raramente, dai campi di sterminio, ancora più impressionante appare la constatazione che molti di loro ebbero a fare allora, della sensazione che le loro storie non interes160

sassero nessuno, che la gente non volesse sentire le storie orrende che essi avevano da raccontare o che addirittura sperava di potere dimenticare al più presto. Anche per i fortunati sopravvissuti al campo di sterminio il ritorno non fu una festa, spesso fu solo la continuazione di una tragedia, che solo il trascorrere del tempo aiutò a superare. Al di là dell’incomprensione dei più, ciascuno si portava dietro un suo personale dramma. C’era chi aveva perduto tutti i suoi cari e ne era consapevole; chi non era a conoscenza della sorte degli altri componenti la famiglia, rimaneva sino al ritorno sospeso tra l’ignoranza e la speranza, per cogliere l’amara verità al termine del faticoso viaggio di ritorno. E non pochi che avevano perduto tutto il mondo dei loro affetti, e anche gli amici, assaliti dalle domande di chi salvatosi in patria chiedeva notizie dei loro congiunti, al pensiero di dovere comunicare notizie terribili, spesso di prima mano per avere assistito alla tragica fine segnata dalle «selezioni» dei campi di sterminio, erano travolti da un senso di colpa, come se chi domandava li colpevolizzasse per il fatto di essere sopravvissuto – «perché io e non loro?» – o come se essi stessi avessero a caricare su di sé la colpa di essere riusciti a salvarsi. Pochissime delle tante testimonianze che possediamo esprimono la gioia o la soddisfazione per avercela fatta. Nei più prevaleva l’ansia delle incognite che avrebbero trovato al ritorno e che in molti casi li avrebbe rigettati nel vuoto che era stato fatto intorno a loro. Per molti ebrei lo «spaesamento» che fu comune a tutti i reduci dal lager si tradusse in qualcosa di molto più profondo e radicale del disorientamento vissuto nel trasferimento dalla realtà allucinata del lager alla realtà del ritorno a casa, anche se costellata di rovine, di lutti, di difficoltà materiali; il segno delle sofferenze e delle umiliazioni subite sino al limite di ciò che era umanamente comprensibile e concepibile non poteva in alcun modo facilitare un senso di riambientamento e di riadattamento in una realtà che appariva completamente deformata dalle conseguenze della guerra e in cui anche gli altri avevano da esibire i loro guai, che nella incomparabilità delle esperienze, perché spesso erano solo storie di bombardamenti, di sfollamento e di mercato nero, allargavano ulteriormente la distanza che li separava dai reduci, i cui racconti apparivano tanto abnormi quanto fuori dal mondo. In Primo Levi probabilmente l’impressione che gli altri non volessero ascoltare o addirittura credere alla realtà dell’esperienza da 161

lui vissuta, la paura di non essere creduto non dovette mai venire meno sino ad apparirgli alla fine irrevocabile e insopportabile. Nella situazione italiana la voglia di dimenticare fu certamente pur se inconsapevolmente alimentata anche dalla soddisfazione con la quale si potevano vantare le esperienze e i meriti della Resistenza, la cui enfatizzazione finiva per coprire tutti gli spazi della memoria. Il pragmatismo della ricostruzione non fece molte concessioni ai sentimentalismi e alle pause necessarie per riflettere su se stessi e sul proprio passato, per guardarsi intorno e riconoscere i propri vicini, interrogarsi su chi fossero e da dove venissero. La fretta di scrollarsi di dosso un passato scomodo, pur se comprensibile, finì per obliterare ogni doveroso esame di coscienza. Ma anche la voglia di dimenticare degli ebrei, che nascondeva insieme il desiderio di cancellare se non di negare la sofferenza e l’aspirazione a reintegrarsi più rapidamente possibile nel corpo nazionale e sociale, per superare il momento psicologicamente così difficile da sopportare dell’emarginazione, spinse nella stessa direzione. La forte rivendicazione di identità anche da parte dell’ebraismo italiano appartiene a un periodo successivo e come riflesso di un analogo processo verificatosi in un più ampio ambito internazionale. Allora anche gli ebrei sembravano volersi costringere a credere di essere usciti solo da un brutto sogno. Frutto e testimonianza, se si vuole anche a livello storiografico, di questa fase fu uno dei primissimi testi sulle leggi razziali, la Storia tragica e farsesca del razzismo fascista di Eucardio Momigliano, apparsa nel 1946, testimonianza di un ebreo italiano che anziché storicizzare l’esperienza del fascismo crede di potere esorcizzare la persecuzione contro gli ebrei rigettandone tutte le responsabilità sui tedeschi, secondo un meccanismo comune a molte memorie di ebrei per i quali la crudeltà degli accadimenti posteriori all’8 settembre del 1943 aveva cancellato gli anni dal 1938 al 1943, come se prima dell’armistizio non fossero esistite per gli ebrei limitazioni di diritti e di libertà e come se le condizioni create prima dell’8 settembre non avessero predisposto le circostanze che avrebbero consentito e agevolato il passaggio alla fase della «soluzione finale». È stato giustamente osservato come nella memoria ebraica lo sterminio sia stato frequentemente associato alla Resistenza, vuoi per dare un senso a ciò che poteva apparire inesplicabile, vuoi a fine consolatorio, per ribaltare ogni responsabilità dello sterminio sui tedeschi e, mettendo in risalto l’aspetto positivo del comportamento de162

gli italiani, allontanare ancora una volta lo spettro delle loro corresponsabilità e per questa via passare sotto silenzio la matrice tutta interna, fascista, delle leggi razziste e in definitiva minimizzare le responsabilità di un antisemitismo italiano. Nel ritorno con la Costituzione repubblicana del 1948 allo Stato laico dopo l’opzione confessionale sancita dal Concordato del 1929, si ripropose il problema di restituire uguaglianza di trattamento alle confessioni religiose e di ribadire per questa via che il culto professato dai singoli cittadini non doveva in alcun modo incidere sulla loro eguaglianza dinanzi alla legge. Nel momento in cui la Costituzione repubblicana recepiva nel suo ordinamento i Patti Lateranensi si poneva il problema della loro revisione e soprattutto il problema di garantire l’attuazione del principio costituzionale secondo cui «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge» (art. 8). Dopo la revisione del 1984 del Concordato con la Santa Sede, fu aperta la stagione delle intese tra lo Stato e le altre confessioni religiose che per quanto riguarda l’ebraismo sfociò nell’intesa del 27 febbraio 1987. L’abrogazione delle leggi razziali e la ricostituzione dell’ebraismo dopo la Liberazione implicava anche lo smantellamento dell’organizzazione comunitaria di ispirazione autoritaria imposta alla comunità ebraica dopo il Concordato del 1929 con lo statuto del 1930. Nel nuovo clima di libertà quello statuto autoritario era incompatibile con il principio dell’autonomia dell’organizzazione del mondo ebraico. L’Unione delle comunità che rinasceva dalle rovine della dittatura era una associazione risultante dalla libera scelta delle sue componenti e non dall’imposizione di uno Stato che intendeva controllare da vicino l’organizzazione comunitaria. A differenza che per il passato, il carattere di libera associazione delle comunità venne sottolineato principalmente dalla volontarietà dell’adesione degli ebrei, e non già dall’obbligatorietà del loro inquadramento secondo le regole dello Stato autoritario, rendendo definitiva quella che è stata caratterizzata come la «fuoriuscita dal regime autoritario-giurisdizionalistico» (Mazzamuto). Lo statuto dell’ebraismo italiano approvato nel dicembre del 1987 da un congresso straordinario dell’Unione delle comunità, contestualmente all’intesa con lo Stato italiano del 27 febbraio 1987, si può considerare il punto di arrivo del lungo processo di ricostituzione dell’ebraismo dopo il fascismo. 163

Oggi gli ebrei residenti in Italia risultano circa 35.000. L’accorpamento dei centri ebraici minori nelle sedi comunitarie principali fu conseguenza della dispersione provocata dalle persecuzioni e dalla riaggregazione in base alle caratteristiche anche socio-economiche dei nuovi aderenti; al declino di vecchie comunità duramente colpite dai contraccolpi di guerra e occupazione (Trieste e Venezia in primo luogo), faceva riscontro lo sviluppo rinnovato di Roma e Milano, epicentri della vita politica e dello sviluppo economico del paese. Questi i dati esterni di uno sviluppo che fu accompagnato anche da un intenso dibattito culturale e religioso all’interno del mondo ebraico, attraversato da complesse istanze e anche da vistose contraddizioni sulla via della riscoperta e della ridefinizione di una identità ebraica, come ci illustra il contributo di Amos Luzzatto al volume einaudiano sulla storia degli ebrei in Italia. Presupposto della nuova vita comunitaria era comunque una regolamentazione dei rapporti con lo Stato italiano diversa da quella che era stata imposta nel 1930. Al di là della rivendicazione alla propria autonomia organizzativa, ciò che interessava principalmente agli organismi rappresentativi delle comunità era la garanzia del riconoscimento da parte dello Stato dell’effettiva eguaglianza delle confessioni, rimuovendo lo squilibrio introdotto dalla normativa del 1930. Allo Stato veniva chiesta la tutela del diritto alla libertà religiosa e al libero esercizio del culto, il riconoscimento delle festività ebraiche, il carattere opzionale dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, il riconoscimento delle scuole ebraiche e il rispetto delle istituzioni comunitarie e della loro democrazia interna, la tutela per la conservazione dei cimiteri ebraici, il rispetto delle prescrizioni alimentari, il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio ebraico, per citare soltanto le voci più rilevanti del contenzioso che avrebbe impegnato il negoziato tra l’Unione delle comunità israelitiche e lo Stato. L’intesa firmata nel febbraio del 1987 (diventata legge 8 marzo 1989 n. 101), pur lasciando insoddisfatte alcune istanze delle comunità che non furono recepite integralmente dai negoziatori dello Stato, ha comunque posto le relazioni con la rappresentanza ufficiale dell’ebraismo su basi interamente nuove a complemento di quanto già sancito nel dettato costituzionale. In particolare, l’intesa riconosceva la specificità delle comunità, le quali «in quanto istituzioni tradizionali, dell’ebraismo n Italia, sono formazioni sociali originarie 164

che provvedono, ai sensi dello statuto dell’ebraismo italiano, al soddisfacimento delle esigenze religiose degli ebrei, secondo la legge e la tradizione ebraiche». Una seconda intesa fu stipulata il 6 novembre 1996 tra il governo della Repubblica italiana e l’Unione delle comunità ebraiche italiane a modifica e integrazione dell’intesa del 27 febbraio del 1987. Questa seconda intesa regola la questione della partecipazione dell’Unione delle comunità, al pari delle altre confessioni religiose, «alla ripartizione della quota pari all’8 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche» liquidata dagli uffici sulla base delle dichiarazioni annuali, rimasta in sospeso all’epoca dell’intesa del 1987. Con questo atto l’Unione delle comunità si impegna a destinare le somme devolute dallo Stato «con particolare riguardo alle attività culturali, alla salvaguardia del patrimonio storico, artistico e culturale, nonché ad interventi sociali ed umanitari volti in special modo alla tutela delle minoranze contro il razzismo e l’antisemitismo». In tale modo l’Unione delle comunità veniva a usufruire dell’aiuto finanziario dello Stato senza che ne risultasse in alcun modo intaccata la sua autonomia di decisione e di gestione.

Bibliografia ragionata

1. Per la storia degli ebrei in Italia Alla classica e sempre utile opera di A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Einaudi, Torino 1963 (ristampata nel 1992 con introduzione di A. Cavaglion) va affiancata oggi la ben più matura e articolata opera a più voci a cura di C. Vivanti, Gli ebrei in Italia, Einaudi, Torino 1996-97, 2 tomi, vol. XI degli Annali della Storia d’Italia, che copre il lungo arco cronologico dalle origini di una presenza ebraica ai nostri giorni. In particolare, per quanto riguarda la storia contemporanea, dal tomo II dell’opera a cura di C. Vivanti citeremo singoli contributi nei diversi paragrafi della Bibliografia. Le considerazioni di A. Momigliano citate nel testo sono tratte dalla raccolta di saggi a cura di S. Berti Pagine ebraiche, Einaudi, Torino 1987. La problematica dell’emancipazione (e dei suoi immediati antecedenti) è stata oggetto nell’ultimo decennio di vari convegni di studio, i cui contributi sono riprodotti nelle raccolte degli atti: La questione ebraica dall’illuminismo all’impero (1700-1815), a cura di P. Alatri e S. Grassi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1974; Stato nazionale ed emancipazione ebraica, a cura di F. Sofia e M. Toscano, Bonacci, Roma 1992; Integrazione e identità. L’esperienza ebraica in Germania e Italia dall’Illuminismo al fascismo, a cura di M. Toscano, Angeli, Milano 1998. Affronta specificamente l’emancipazione concessa da Carlo Alberto nel 1848 il libro di G. Arian Levi e G. Disegni, Fuori dal ghetto. Il 1848 degli ebrei, prefazione di G. Neppi Modona, Editori Riuniti, Roma 1998. Per il periodo postunitario numerosi contributi si trovano nel vol. IV della serie «Italia Judaica», Gli ebrei nell’Italia unita 1870-1945, Ministe167

ro per i Beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1993. Un excursus degno di essere ancora letto offre M. Michaelis, nel saggio L’ebraismo italiano dallo statuto albertino alla legislazione razziale nel volume a cura di F. Del Canuto, Israel. «Un decennio» 1974-1984. Saggi sull’ebraismo italiano, Carucci, Roma 1984, pp. 251-274. Tra gli studi particolari segnaliamo: M. Molinari, Ebrei in Italia: un problema di identità (1870-1938), prefazione di G. Spadolini, La Giuntina, Firenze, 1991; D. Bidussa, A. Luzzatto, G. Luzzatto Voghera, Oltre il ghetto. Momenti e figure della cultura ebraica in Italia tra l’Unità e il fascismo, introduzione di L. Mangoni, Morcelliana, Brescia 1992; A. Cavaglion, Felice Momigliano (1866-1924). Una biografia, Il Mulino, Bologna 1988; F. Del Canuto, Il movimento sionistico in Italia dalle origini al 1924, Fed. Sionistica Italiana, Milano 1972; S. Della Seta, D. Carpi, Il movimento sionistico, in Gli ebrei in Italia cit., tomo II, pp. 1321-1368. All’importante rassegna critico-informativa di M. Toscano, Gli ebrei in Italia dall’emancipazione alle persecuzioni, apparsa nel 1986 nella rivista «Storia contemporanea», pp. 905-956, bisogna affiancare la raccolta di studi dello stesso autore con il titolo Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei sei giorni, Angeli, Milano 2003. Due studi su realtà locali specchio di problematiche più generali: S. Caviglia, L’identità salvata. Gli ebrei di Roma tra fede e nazione. 18701983, Laterza, Roma-Bari 1996; G. Maifreda, Gli ebrei e l’economia milanese. L’Ottocento, Angeli, Milano 2000.

2. Alle origini di una questione razziale in Italia Non esiste una storia generale del razzismo in Italia; esistono oggi le prime ipotesi di lavoro in questa direzione, come nei contributi a cura di A. Burgio e L. Casali, Studi sul razzismo italiano, Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna, Clueb, Bologna 1996, e nel catalogo dell’importante mostra a cura del Centro Furio Jesi, La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Grafis, Bologna 1994. Tra i contributi generali ad una storia delle origini del razzismo italiano si devono annoverare due opere molto diverse: il libro di R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze 1999, che confuta l’ipotesi dell’inesistenza sino al 1938 di una tradizione razzista nella cultura italiana, risalendo alle radici ottocentesche di teorizzazioni razziste nella medicina, nell’eugenetica, nella demografia, nell’antropologia derivanti generalmente dall’esperienza coloniale; e gli atti di un importante convegno sul razzismo nelle sue diverse declinazioni (principal168

mente sul razzismo coloniale, sull’antisemitismo e sull’antislavismo), pubblicati da A. Burgio, Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Il Mulino, Bologna 1999. Tra i contributi particolari sono da segnalare almeno: C. Pogliano, Scienza e stirpe: eugenica in Italia (1912-1939), in «Passato e Presente», 1984, 5, pp. 61-97; F. Cavarocchi, La propaganda razzista e antisemita di uno «scienziato» fascista: il caso di Lidio Cipriani, in «Italia contemporanea», giugno 2000, 219, pp. 193-225. Consideriamo ora separatamente le due principali componenti del razzismo italiano: a) Razzismo coloniale Partiamo da opere generali come quelle di L. Goglia e F. Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Laterza, Roma-Bari 1981 e soprattutto di N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002, per arrivare ai contributi più specifici e particolari di A. Del Boca, Le leggi razziali nell’impero di Mussolini, in Il regime fascista. Storia e storiografia, a cura di A. Del Boca, M. Legnani, M.G. Rossi, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 329-351; N. Labanca, Il razzismo coloniale italiano, in Burgio, Nel nome della razza cit., pp. 145-164; A. Triulzi, La costruzione dell’immagine dell’Africa e degli africani nell’Italia coloniale, in Burgio, Nel nome della razza cit., pp. 165-182. Gli importanti studi di G. Gabrielli saranno citati più avanti, a proposito della politica specificamente fascista. Della tradizione di uso e abuso dell’immagine fotografica delle popolazioni africane per definirne i caratteri fisici di razza inferiore da parte dell’antropologia coloniale danno testimonianza numerose pubblicazioni illustrate, tra le quali citiamo solo per un primo approccio Sì e no padroni del mondo. Etiopia 1935-36. Immagini e consenso per un impero, a cura di A. Mignemi, Istituto storico della Resistenza in provincia di Novara, Novara 1982. Da ultimo l’intreccio di colonialismo e razzismo riaffiora nello studio di G. Monina, Il consenso coloniale. Le società geografiche e l’Istituto coloniale italiano (1896-1914), Carocci, Roma 2002. b) Antisemitismo Relativamente scarsi sono gli studi sui primordi di un antisemitismo italiano di derivazione prevalentemente, ma non esclusivamente, cattolica. Tra gli studi più recenti segnaliamo: M.T. Pichetto, Alle radici dell’odio. Preziosi e Benigni antisemiti, Angeli, Milano 1985: R. Taradel, B. Raggi, La segregazione amichevole. «La Civiltà cattolica» e la questione ebraica 1850-1945, Editori Riuniti, Roma 2000. 169

Una pista di ricerca meno frequentata segnalò oltre un trentennio fa A.M. Canepa, Emancipazione, integrazione e antisemitismo liberale in Italia. Il caso Pasqualigo, in «Comunità», giugno 1975, 174, pp. 166-203. Cenni su spunti antisemiti, specie nella stampa cattolica, si trovano in molte opere relative a comunità ebraiche locali; pochi gli studi specifici, tra i quali citiamo F. Piazza, L’antisemitismo tra Otto e Novecento nel Trevigiano, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea della Marca trevigiana, Treviso 1996. Mai come in questo caso la vicenda italiana va inserita nella temperie dell’epoca e nel più vasto contesto europeo, per cui è necessario richiamare alcune delle opere generali più significative, quali L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo, vol. III, Da Voltaire a Wagner, La Nuova Italia, Firenze 1975; L. Poliakov, Il mito ariano. Le radici del razzismo e dei nazionalismi, prefazione di E. Collotti, Editori Riuniti, Roma 1999; G.L. Mosse, Il razzismo in Europa dalle origini all’Olocausto, Laterza, Roma-Bari 1980; R. Finzi, L’antisemitismo. Dal pregiudizio contro gli ebrei ai campi di sterminio, Giunti, Firenze 1997. Una antologia italiana di testi fornisce R. Piperno, L’antisemitismo moderno, prefazione di R. De Felice, Cappelli, Bologna 1964. Un fondamentale saggio monografico ha scritto G. Miccoli, Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo fra Otto e Novecento, in Gli ebrei in Italia cit., tomo II, pp. 1371-1576 (e bibliografia ivi citata).

3. Il fascismo e gli ebrei dalle origini agli anni Trenta Collochiamo qui le due opere principali sulla condizione giuridica degli ebrei, al di là della cronologia che abbraccia un periodo ben più ampio, per la rilevanza delle ripercussioni del Concordato del 1929 e della riforma dello statuto delle comunità ebraiche che per primi intaccarono i principi di eguaglianza e la tradizione di emancipazione: G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano dal periodo napoleonico alla repubblica, La Nuova Italia, Firenze 1974, prefazione di A.C. Jemolo, ora ristampata in edizione riveduta e ampliata da Rosenberg & Sellier, Torino 1998; G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia. Dal diritto alla diversità, Einaudi, Torino 1983. Per alcuni aspetti del dibattito degli anni Venti e Trenta si vedano: R. Moro, Le premesse dell’atteggiamento cattolico di fronte alla legislazione razziale fascista. Cattolici ed ebrei nell’Italia degli anni venti (1919-1932), in «Storia contemporanea», 1988, 6, pp. 1013-1120; R. Moro, Le Chiese, gli ebrei e la società moderna: l’Italia, in «Storia e problemi contemporanei», VII, 1994, 14, pp. 7-22; B. Diporto, «La Rassegna mensile di Israel» 170

in epoca fascista, in «La Rassegna mensile di Israel», 1995, 1, pp. 7-60; G. Valabrega, Per la storia degli ebrei sotto il fascismo: prime notizie su «Davar» (1934-1938), in «Il movimento di liberazione in Italia», 1972, 107, pp. 101-120; G. Valabrega, Prime notizie su «La nostra bandiera» (19341938), in Gli ebrei in Italia durante il fascismo, vol. I, Federazione giovanile ebraica d’Italia, Torino 1961, pp. 21-33; V. Marchi, «L’Italia» e la «questione ebraica» negli anni trenta, in «Studi storici», XXXV, lugliosettembre 1994, 3, pp. 811-849; L. Ventura, Ebrei con il duce. «La nostra bandiera» (1934-1938), Zamorani, Torino 2002; V. Piattelli, La percezione del nazismo e l’assistenza ai profughi dalla Germania attraverso le pagine di «Israel», in Razza e fascismo. La persecuzione contro gli ebrei in Toscana (1938-1943), a cura di E. Collotti, vol. I, Carocci, Roma 1999, pp. 81-103; F. Biagini, Mussolini e il sionismo 1919-1938, prefazione di A. Donno, M & B Publishing, Milano 1988.

4. L’impero, la lotta al meticciato e le prime leggi razziste Poco prima dello scatenamento della campagna contro gli ebrei, la conquista dell’Etiopia offrì l’occasione per dare corpo alle prime normative concretamente razziste e segregazioniste. Il peso della componente coloniale nel razzismo italiano era già stato sottolineato da L. Preti, Impero fascista, africani ed ebrei, Mursia, Milano 1968, sin dalla prima formulazione del suo libro nel 1965. La sua rilevanza nel periodo del fascismo è stata richiamata successivamente con forza dagli studi che accompagnarono l’organizzazione della mostra La menzogna della razza, citata in precedenza. Anche la campagna contro gli ebrei avrebbe mutuato da questo filone del razzismo una serie di temi, in particolare l’ossessione della «contaminazione» e quindi della perdita di sostanza della «razza» italiana che sarebbe derivata da mescolanze di popolazioni di ceppi diversi. Agli studi già richiamati alla voce Razzismo coloniale nel paragrafo 2 di questa Bibliografia è bene aggiungere, sul piano generale, G. Rochat, Il colonialismo italiano, Loescher, Torino 1973 e, sotto il profilo più analitico, i seguenti contributi di G. Gabrielli: Prime ricognizioni sui fondamenti teorici della politica fascista contro i meticci, in Studi sul razzismo italiano cit., pp. 61-88; Un aspetto della politica razzista nell’impero: il problema dei «meticci», in «Passato e Presente», 1997, 41, pp. 77-106; L’Africa in giardino. Appunti sulla costruzione dell’immaginario coloniale, Grafiche Zanini, Anzola dell’Emilia 1999. Per le fonti legislative, fondamentale rimane la raccolta di G. Mondaini, La legislazione coloniale italiana nel suo sviluppo storico e nel suo stato attuale (1881-1940), 2 voll., ISPI, Milano 1941. 171

5. La campagna contro gli ebrei Segnaliamo in questo paragrafo alcuni dei testi principali prodotti dalla pubblicistica fascista, ovviamente molto più numerosa di quanto non possa risultare dalle nostre citazioni e in buona parte veicolata dalla stampa quotidiana e periodica. Uno dei testi canonici e più diffusi fu rappresentato dal noto falso I «Protocolli» dei «Savi Anziani» di Sion, attribuito all’Internazionale ebraica, già presentato in edizione italiana da G. Preziosi nel 1921 e rispolverato in terza edizione da «La vita italiana», Roma 1938, con introduzione di J. Evola. A seguire: di P. Orano, si veda Gli ebrei in Italia, Pinciana, Roma 1937 e Inchiesta sulla razza, Pinciana, Roma 1938; R. Farinacci, La Chiesa e gli ebrei, Soc. ed. «Cremona nuova», Cremona 1938; T. Interlandi, Contra Judaeos, Tumminelli, Roma-Milano 1938; G. Sottochiesa, Sotto la maschera d’Israele, La Prora, Milano 1937 (espressione dell’estremismo antisemita dei clerico-fascisti); G. Marro, Caratteri fisici e spirituali della razza italiana, Istituto nazionale di cultura fascista, Roma 1939; L. Franzi, Fase attuale del razzismo tedesco, I.N.C.F., Roma 1939; G. Preziosi, Giudaismo, bolscevismo, plutocrazia, massoneria, Mondadori, Milano 1943. Non esiste uno studio generale sul razzismo nella stampa fascista; a complemento delle nostre segnalazioni si può consultare A. Goldstaub, Rassegna bibliografica dell’editoria antisemita nel 1938, in 1938. Le leggi contro gli ebrei, fascicolo monografico della «Rassegna mensile di Israel», 1988, 1-2, pp. 409-433. Scarsa attenzione all’impegno della stampa, non solo quotidiana, nella campagna razziale dedicano incomprensibilmente gli studi sulla stampa nel periodo fascista. Ne richiama viceversa l’impegno la documentazione prodotta nella Menzogna della razza cit. Ampia trattazione viceversa del ruolo della stampa quotidiana, del Partito fascista e dei GUF si trova nei contributi della parte II dell’opera Razza e fascismo cit., che prendono in considerazione le principali testate su scala regionale. Pochi anche gli studi sui pubblicisti citati e su altri scrittori antiebraici: G. Mughini, A via della Mercede c’era un razzista, Rizzoli, Milano 1991 (su Interlandi); F. Rasera, Gino Sottochiesa, scrittore roveretano, cattolico fascista antisemita. Appunti per un’indagine, in «Materiali di lavoro», 1988, 1-4, pp. 191-211; S. Duranti, Un medico al servizio della campagna razziale: Giorgio Alberto Chiurco, in «Italia contemporanea», 2000, 219, pp. 249-262; A. Calò, Stampa e propaganda antisemita del regime fascista prima delle leggi razziali (1936-1938) nel già citato volume a cura di F. Del Canuto, Israel. «Un decennio» 1974-1984, pp. 115-163. 172

6. Le leggi contro gli ebrei. La prima fase della persecuzione (1938-1943) La storiografia italiana ha acquisito con lentezza e ritardo la gravità della legislazione fascista contro gli ebrei. Le tappe di questa presa di coscienza sono riflesse nelle tre opere principali che ne hanno segnato il cammino: E. Momigliano, Storia tragica e grottesca del razzismo fascista, Mondadori, Milano 1946; R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, introduzione di D. Cantimori, Einaudi, Torino 1961; M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2000, rielaborazione e ampliamento del contributo dello stesso autore all’opera Gli ebrei in Italia cit., tomo II. Riflesso della travagliata rielaborazione cui l’autore stesso ha sottoposta la propria opera sono le diverse edizioni della citata Storia degli ebrei italiani di R. De Felice, dalla quale già nell’edizione del 1988 scompariva l’introduzione di Cantimori, mentre in successive edizioni l’autore modificava ulteriormente la prospettiva storiografica di partenza, che aveva avuto il merito a suo tempo di dare inizio agli studi critici sull’argomento. Tra i molti studi di M. Sarfatti è ancora da ricordare la minuta analisi della genesi della legislazione nel volume Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Zamorani, Torino 1994. Un altro libro di M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, Einaudi, Torino 2002, è un agile profilo informativo-documentario. Il percorso della storiografia è ricostruito nel contributo di E. Collotti Il razzismo negato, in Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, a cura di E. Collotti, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 355-376. Tra le opere generali occupa un posto particolare M. Michaelis, Mussolini e la questione ebraica, Comunità, Milano 1982, che colloca la questione sullo sfondo delle relazioni italo-tedesche. Diverse pubblicazioni riproducono la legislazione e le normative amministrative fasciste; tra di esse particolare rilievo assume 1938. Le leggi contro gli ebrei, il fascicolo già citato della «Rassegna mensile di Israel». Riproduce il facsimile dei lavori parlamentari (Camera dei fasci e delle corporazioni e Senato del Regno) che portarono all’emanazione dei decreti-legge del settembre e del novembre del 1938 il volume La persecuzione degli ebrei durante il fascismo. Le leggi del 1938, Camera dei deputati, Roma 1998, prefazione di L. Violante. Documentazione diversa raccoglie, a cinquant’anni dalle leggi razziali, il volumetto Discriminazione e persecuzione degli ebrei nell’Italia fascista, a cura di U. Caffaz, Consiglio regionale della Toscana, Firenze 1988. Nel dicembre 1978, per i quarant’anni delle leggi fasciste, la rivista «Il Ponte» ha pubblicato un numero speciale dal titolo La difesa della razza. 173

Analizza la prassi giurisprudenziale M.R. Lo Giudice, Razza e giustizia nell’Italia fascista, in «Rivista di storia contemporanea», 1983, 1, pp. 70-90. Nel 1994 la mostra La menzogna della razza, promossa, come s’è detto, dal Centro Furio Jesi di Bologna, proponendo una vasta gamma di tipologie sul razzismo italiano, ha rilanciato anche gli studi sulle conseguenze delle leggi razziali soprattutto nelle diverse realtà locali; si cfr. al riguardo l’importante catalogo La menzogna della razza cit. Un’ottima antologia critico-documentaria presentano A. Cavaglion, S.P. Romagnani, Le interdizioni del Duce. A cinquant’anni dalle leggi razziali in Italia (1938-1988), A. Meynieri, Torino 1988 (nuova edizione ampliata Claudiana, Torino 2002). Appartengono agli inizi di una storiografia critica i tre Quaderni del Centro di documentazione ebraica contemporanea Gli Ebrei in Italia durante il fascismo, a cura di G. Valabrega, Torino-Milano 1961-63. La dimensione comparata è sottolineata in La legislazione antiebraica in Italia e in Europa. Atti del Convegno nel cinquantenario delle leggi razziali, Camera dei deputati, Roma 1989; e soprattutto nello studio di V. Di Porto, Le leggi della vergogna. Norme contro gli ebrei in Italia e Germania, prefazione di F. Margiotta Broglio e U. Caffaz, Le Monnier, Firenze 2000. Le ripercussioni delle leggi fasciste sugli ebrei emigrati in Italia dalla Germania nazista dopo il 1933 sono oggetto della minuziosa ricerca di K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, La Nuova Italia, Firenze 1993-96 (il primo volume si arresta al decreto di espulsione degli ebrei stranieri del settembre del 1938). Sulle ripercussioni dell’entrata in guerra dell’Italia e sull’apertura dei campi di concentramento per ebrei si veda: «Pericolosi nelle contingenze belliche». Gli internati dal 1940 al 1943, a cura di S. Carolini, A.N.P.P.I.A., Roma 1987; I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), a cura di C. Di Sante, Angeli, Milano 2001; C.S. Capogreco, I campi di concentramento fascisti per gli ebrei (1940-1943), in «Storia contemporanea», 1991, 4, pp. 663-684; C.S. Capogreco, Internamento, precettazione, mobilitazione forzata: l’escalation persecutoria degli ebrei italiani dal 1940 al 1943, in «Qualestoria», 1995, 1-2, pp. 1-15; C.S. Capogreco, Ferramonti. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista (1940-1945), prefazione di L. Picciotto Fargion, introduzione di V. Cappelli, La Giuntina, Firenze, 1987; R. Ropa, La mobilitazione totale degli ebrei al servizio del lavoro (1943), in Razzismo italiano cit., pp. 109-139; N. Caracciolo, Gli ebrei e l’Italia durante la guerra 1940-45, prefazione di R. De Felice, con un saggio di M. Toscano, Bonacci, Roma 1986. 174

Una accurata ricerca locale presentano ora S.Q. Angelini, O. Guidi, P. Lemmi, L’orizzonte chiuso. L’internamento ebraico a Castelnuovo di Garfagnana 1941-1943, Maria Pacini Fazzi Edizioni, Lucca 2002, a complemento del lavoro di V. Galimi, L’internamento in Toscana, in Razza e fascismo cit., vol. I, pp. 511-560. Nella scuola e per la scuola è nato il libro a cura di S. Brunetti e F. Levi, C’era una volta la guerra. Racconti e immagini degli anni 1935-1945, Zamorani, Torino 2002. Infine, tra le riflessioni suggerite dall’introduzione delle leggi razziali, poche sono le testimonianze che possiamo considerare coeve: tra di esse la più significativa è il diario di E. Bittanti-Battisti, pubblicato cinquant’anni dopo: Israel-Antiisrael (Diario 1938-1943), Manfrini, Trento 1986. Tra autobiografia e riflessione storica si veda F. Coen, Italiani ed ebrei: come eravamo. Le leggi razziali del 1938, Marietti, Genova 1988, mentre La parola ebreo di R. Loy (Einaudi, Torino 1997), si pone tra autobiografia e narrazione letteraria. Le reazioni degli ebrei sono generalmente consegnate ai testi memorialistici, sui quali ci soffermeremo a conclusione della presente Bibliografia, oltre che nella maggior parte degli studi su comunità locali che citeremo fra poco. Ma almeno un testo va ricordato per l’accuratezza della ricostruzione biografico-psicologica e per la ricchezza della problematica che evoca al di là del caso personale: F. Levi, L’identità imposta. Un padre ebreo di fronte alle leggi razziali di Mussolini, Zamorani, Torino 1996. Tra le testimonianze più singolari, più ricche e più attente a tutte le implicazioni della persecuzione di parte ebraica spiccano le considerazioni sviluppate sul piano storico e giuridico nei carteggi dal carcere di V. Foa, Lettere della giovinezza. Dal carcere 1935-1943, a cura di F. Montevecchi, Einaudi, Torino 1998, almeno a partire dal 24 giugno del 1938. Tra i molti studi particolari sulle conseguenze delle leggi, indichiamo alcuni settori che risultano indagati in maniera più approfondita ed omogenea, mentre molti aspetti restano ancora nell’elenco dei desiderata della ricerca: per fare un solo esempio, non possediamo ancora studi complessivi attendibili sull’epurazione dei pubblici dipendenti, se non per un comparto relativamente circoscritto (l’università), e tanto meno sulle espulsioni dalle libere professioni non in quanto abbiano colpito singoli individui ma come espressione di politica nazionale e delle categorie. Ciò premesso, segnaliamo i seguenti contributi: – sulle reazioni dei cattolici e l’atteggiamento del Vaticano: B. Bocchini Camaiani, Ricostruzione concordataria e processi di secolarizzazione. L’azione pastorale di Elia Dalla Costa, Il Mulino, Bologna 1983; B. Bocchini Camaiani, Chiesa cattolica italiana e leggi razziali, in «Qualestoria», 1989, 1, pp. 43-66; G. Miccoli, Santa Sede e Chiesa italiana di fronte alle 175

leggi antiebraiche del 1938, in «Studi storici», 1988, 4, pp. 821-902; R. Moro, Le premesse dell’atteggiamento cattolico di fronte alla legislazione razziale fascista cit.; R. Moro, Le Chiese, gli ebrei e la società moderna: l’Italia cit.; P. Zovatto, P.A. Passolunghi, La reazione cattolica al razzismo fascista (1938), in «La scuola cattolica», 1976, 104, pp. 47-81; – sull’incidenza della persecuzione nei confronti del mondo culturale italiano: Conseguenze culturali delle leggi razziali in Italia, Accademia nazionale dei Lincei, Roma 1990 ed ivi il contributo di E. Garin, Fascismo, antisemitismo e cultura italiana (pp. 9-24); Cultura ebraica e cultura scientifica italiana, a cura di A. Di Meo, Editori Riuniti, Roma 1994; G. Fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Zamorani, Torino 1998; G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Il Mulino, Bologna 1998; A. Capristo, L’espulsione degli ebrei dalle accademie italiane, Zamorani, Torino 2002. In particolare, per quanto riguarda l’incidenza sulle università, si veda: L’Università dalle leggi razziali alla Resistenza, a cura di A. Ventura, CLEUP, Padova 1996 (ed ivi soprattutto la ricerca di A. Ventura, Le leggi razziali all’Università di Padova); R. Finzi, L’università italiana e le leggi antiebraiche, Editori Riuniti, Roma 1997; F. Cavarocchi, A. Minerbi, Politica razziale e persecuzione antiebraica nell’ateneo fiorentino, in Razza e fascismo cit., tomo I, pp. 467-510; G. Turi, L’Università di Firenze e la persecuzione razziale, in «Italia contemporanea», 2000, 219, pp. 227-248; G. Tanti, L’applicazione delle leggi razziali a Pisa: il caso dell’Università, in Gli ebrei di Pisa (secoli IX-XX) a cura di M. Luzzati, Pacini, Ospedaletto 1998, pp. 381-390. Molti sono oggi gli studi di carattere locale sulle vicende degli ebrei in realtà anche minori; come sempre, senza alcuna pretesa di completezza, ci limitiamo a segnalare i contributi che consideriamo di maggiore interesse: L. Garbini, Ancona 1938-1940. Note e percorsi di ricerche sull’antisemitismo delle istituzioni, in «Storia e problemi contemporanei» (Ancona), 1994, 14, pp. 37-57; N.S. Onofri, Ebrei e fascismo a Bologna, Grafica Lavino, Bologna 1989; A. Guarnieri, Fonti per lo studio della Comunità israelitica ferrarese durante il fascismo, in «Storia e problemi contemporanei», 1994, 14, pp. 81-94; A. Minerbi, La comunità ebraica di Firenze (1931-1943), in Razza e fascismo cit., tomo I, pp. 115-222; F. Cavarocchi, Il censimento del 1938 a Firenze, in Razza e fascismo cit., tomo I, pp. 433-465; L. Parodi, Gli ebrei di Genova nel 1938: demografia di una comunità, in «La Rassegna mensile di Israel», 1988, 1-2, pp. 305-333; P.L. Orsi, La comunità ebraica di Livorno dal censimento del 1938 alla persecuzione, in Ebrei di Livorno tra due censimenti (1841-1938). Memoria familiare e identità, a cura di M. Luzzati, Belforte, Livorno 1990, pp. 203224; P.L. Orsi, La demografia dell’ebraismo pisano (1938-1944), in Gli 176

ebrei di Pisa cit., pp. 391-400; V.A. Leuzzi, M. Pansini, F. Terzulli, Fascismo e leggi razziali in Puglia. Censura, persecuzione antisemita e campi di internamento (1938-43), Progedit, Bari 1999; F. Del Regno, Gli ebrei a Roma tra le due guerre mondiali: fonti e problemi di ricerca, in «Storia contemporanea», 1992, 1, pp. 5-69; F. Levi, L’ebreo in oggetto. L’applicazione della normativa antiebraica a Torino 1938-1943, Zamorani, Torino 1991; S. Bon, Gli ebrei a Trieste 1930-1945. Identità, persecuzione, risposte, Libreria editrice goriziana, Istituto regionale per la storia del movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Gorizia 2000; P. Sereni, Della comunità ebraica a Venezia durante il fascismo, in G. Paladini, M. Reberschak (a cura), La Resistenza nel Veneziano. La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, 2 voll., Comune di Venezia, Venezia 1985, vol. I, pp. 503-540; Gli ebrei a Venezia 1938-1945. Una comunità tra persecuzione e rinascita, a cura di R. Segre, Il Cardo, Venezia 1995. Sulle scuole ebraiche: D. Fishman, Una risposta ebraica alle leggi: l’organizzazione delle scuole, in «La Rassegna mensile di Israel», 1988, 1-2, pp. 335-364; A. Minerbi, La scuola ebraica tra nazionalizzazione e persecuzione, in «Contemporanea», 1998, 4, pp. 703-730; 1938 – La scuola ebraica di Livorno: un’alternativa alle leggi razziali, a cura di Comunità ebraica di Livorno - Fondazione Primo Levi, Livorno 1997; B. Levi Schreiber, Le leggi antirazziali e la scuola media ebraica di Trieste, in «Qualestoria», 1989, 1, pp. 115-120; La scuola media ebraica di Trieste negli anni 1938-1943. Storia e memoria, Lint, Trieste 1999. Infine l’atteggiamento dell’Italia nei confronti degli ebrei nelle zone d’occupazione italiane durante la seconda guerra mondiale attende ancora una adeguata sistemazione critica complessiva. Per il momento si possono vedere: per la Francia, L. Poliakov, J. Sabille, Gli ebrei sotto l’occupazione italiana, Comunità, Milano 1956; per le aree balcaniche, J. Steinberg, Tutto o niente. L’Asse e gli ebrei nei territori occupati (19411943), Mursia, Milano 1997; L. Picciotto Fargion, Italian Citizens in Nazi-Occupied Europe: Documents from the Files of the German Foreign Office, 1941-1943, in «Simon Wiesenthal Center Annual», VII, s.a. (ma 1990), pp. 93-141; Judenverfolgung in Italien, den italienisch besetzten Gebieten und in Nordafrika, United Restitution Organization, Frankfurt a. M. 1962. Una testimonianza dalla ex Jugoslavia tutta a favore dell’Italia offre M. Shelah, Un debito di gratitudine. Storia dei rapporti tra l’Esercito italiano e gli Ebrei in Dalmazia (1941-1943), a cura A. Biagini e R. Tolomeo, SME, Ufficio Storico, Roma 1991. Una prima revisione critica complessiva compie ora D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), prefazione di Ph. Burrin, Bollati Boringhieri, Torino 2003, cap. XI, in particolare pp. 439 e sgg. 177

Le citazioni dei documenti nel testo risalgono agli ultimi volumi della serie IX dei Documenti diplomatici italiani, per il periodo del regime fascista. In essi si trova ora anche il resoconto di Himmler della visita a Mussolini dell’ottobre del 1942, pubblicato in origine nella rivista «Il Movimento di Liberazione in Italia», aprile-giugno 1957, 47, pp. 49-52. Le note di Pirelli sono citate da A. Pirelli, Taccuini 1922-1943, a cura di D. Barbone, Il Mulino, Bologna 1984.

7. L’occupazione tedesca, la Repubblica sociale italiana e la «soluzione finale» in Italia Il salto di qualità che la persecuzione degli ebrei registrò dopo l’armistizio del 1943 e l’occupazione tedesca dell’Italia è oggetto di tutti gli studi sulla persecuzione degli ebrei lungo l’intero arco di tempo dal 1938 al 1945, come in primo luogo nei lavori di R. De Felice e M. Sarfatti già citati nel paragrafo 6 della Bibliografia. Una serie di studi riguardano specificamente il periodo 1943-45. Strumento indispensabile per la ricerca è il lavoro di R. Ropa, L’antisemitismo nella Repubblica sociale italiana. Repertorio delle fonti conservate all’Archivio centrale dello Stato, prefazione di L. Casali, Patron, Bologna 2000; una introduzione all’ampia letteratura con particolare riferimento agli studi e alla memorialistica in lingua italiana si trova in Shoah e deportazione. Guida bibliografica, a cura di E. Collotti e M. Baiardi, Amministrazione provinciale di Firenze, Firenze 2001. Tra gli studi specifici uno sguardo generale offre: G. Mayda, Ebrei sotto Salò. La persecuzione antisemita 1943-45, Feltrinelli, Milano 1978; il libro dello stesso G. Mayda Storia della deportazione dall’Italia 19431945. Militari, ebrei e politici nei lager del Terzo Reich, introduzione di N. Tranfaglia, Bollati Boringhieri, Torino 2002, riguarda per una buona metà la deportazione degli ebrei. Su di essa ancora: B. Mantelli, Deportazione dall’Italia (aspetti generali), in Dizionario della Resistenza, Einaudi, Torino 2000, vol. 1, pp. 124-140, e nella stessa opera L. Picciotto, Deportazione razziale: la persecuzione antiebraica in Italia, 1943-45, ivi, pp. 141-147. Un primo tentativo di valutazione delle deportazioni fu compiuto da G. Donati, Ebrei in Italia: deportazione, Resistenza, Tip. Giuntina, Firenze 1980, con la collaborazione del Centro di documentazione ebraica contemporanea. Frutto delle ricerche dello stesso Centro è la monumentale opera di L. Picciotto, Il Libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Mursia, Milano 2002, che nella edizione citata aggiorna i dati della prima versione del 1991: un’opera che al pari di alcune grandi opere prodotte all’estero cerca di restituire un nome e un vol178

to ad ognuna delle vittime, assolvendo a un compito di ricostruzione storica assai rigoroso e a un altrettanto imperativo dovere di memoria; in essa si trova inoltre l’elaborazione statistica del censimento delle vittime alla luce delle ultime ricerche. Sulle deportazioni da vedere ancora la ricerca di I. Tibaldi, Compagni di viaggio. Dall’Italia ai Lager nazisti. I «trasporti» dei deportati. 19431945, Angeli, Milano 1994. L’argomento ritorna ovviamente in tutte le opere generali sull’occupazione tedesca in Italia. Sui campi di transito per l’avvio ai campi di sterminio si vedano i contributi nel volume Spostamenti di popolazione e deportazioni in Europa. 1939-1945, Cappelli, Bologna 1987. Sull’organizzazione dell’apparato terroristico tedesco si veda C. Gentile, L. Klinkhammer, Gegen die Verbündeten von einst. Die Gestapo in Italien, in Die Gestapo im Zweiten Weltkrieg, a cura di G. Paul e K.M. Mallmann, Primus Verlag, Darmstadt 2000, pp. 521-540; E. Collotti, L’occupazione tedesca in Italia con particolare riguardo ai compiti delle forze di polizia, in I campi di concentramento in Italia cit., pp. 251-268. Sull’antisemitismo della RSI sono da vedere ancora: L. Picciotto Fargion, The Anti-Jewish Policy of the Italian Social Republic (1943-1945), in «Yad Vashem Studies», XVII, 1996, pp. 17-49; M. Sarfatti, Le «carte di Merano»: la persecuzione antiebraica nell’Italia fascista, in «Passato e Presente», 1994, 32, pp. 119-127; G. Buffarini Guidi, Le vere verità. I documenti dell’archivio segreto del ministro degli Interni Guido Buffarini Guidi dal 1938 al 1945, Sugar, Milano 1970; L. Garibaldi, Mussolini e il professore. Vita e diari di Carlo Alberto Biggini, Mursia, Milano 1983; L. Ganapini, La repubblica delle Camicie Nere, Garzanti, Milano 1999; D. Gagliani, Brigate nere. Mussolini e la militarizzazione del Partito fascista repubblicano, Bollati Boringhieri, Torino 1999. Traccia un profilo generale S. Zuccotti, L’Olocausto in Italia, prefazione di F. Colombo, Mondadori, Milano 1988; la stessa autrice è tornata di recente sull’argomento per sottolineare l’aiuto prestato agli ebrei dal clero cattolico nel quadro di un contesto più ampio: S. Zuccotti, Il Vaticano e l’Olocausto in Italia, Bruno Mondadori, Milano 1999. Tra le conseguenze della radicalizzazione della persecuzione vi fu il coinvolgimento nella deportazione dei «misti», come documentano Gabriella, Marisa e Giuliana Cardosi, Sul confine. La questione dei «matrimoni misti» durante la persecuzione antiebraica in Italia e in Europa (19351945), Zamorani, Torino 1998. La geografia della deportazione non si esaurisce negli studi già citati su singole comunità (quali quelli di S. Bon, R. Segre, L. Picciotto); per la parte specifica relativa alla deportazione vanno segnalati altri lavori. Per la deportazione da Roma almeno: L. Picciotto Fargion, L’occupazione te179

desca e gli ebrei di Roma. Documenti e fatti, Carucci, Roma 1979; G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, prefazione di A. Moravia, Sellerio, Palermo 1963 (1a ed. 1945); F. Coen, 16 ottobre 1943. La grande razzia degli ebrei di Roma, La Giuntina, Firenze 1993; La resistenza silenziosa. Leggi razziali e occupazione nazista nella memoria degli ebrei di Roma, a cura di M. Impagliazzo, prefazione di E. Toaff, Guerini e Associati, Milano 1997. Per le deportazioni dal Litorale Adriatico vanno ricordati almeno: San Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera, a cura di A. Scalpelli, ANED-Lint, Trieste 1995; M. Coslovich, I percorsi della sopravvivenza. Storia e memoria della deportazione dall’Adriatisches Küstenland, Mursia, Milano 1994; A. Walzl, Gli ebrei sotto la dominazione nazista. Carinzia, Slovenia, Friuli-Venezia Giulia, Istituto friulano per la storia del movimento di Liberazione, Udine 1990. Tra i molti altri studi sulla deportazione sono da segnalare almeno: F. Steinhaus, Ebrei/Juden. Gli ebrei dell’Alto Adige negli anni trenta e quaranta, prefazione di S. Wiesenthal, La Giuntina, Firenze 1994; C. Villani, Ebrei fra le leggi razziste e deportazioni nelle province di Bolzano, Trento e Belluno, Società di studi trentini di scienze storiche, Trento 1996. Per i transiti da Fossoli si rinvia ora a S. Duranti, L. Ferri Caselli, Leggere Fossoli. Una bibliografia, introduzione di L. Casali, E. Collotti, Giacché, La Spezia 2000. Un utile repertorio informativo-storiografico è rappresentato dal volume a più voci Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, a cura di T. Matta, Electa, Milano 1996. Per gli eccidi di ebrei si veda M. Nozza, Hotel Meina. La prima strage di ebrei in Italia, Mondadori, Milano 1993; C. Forti, Il caso Pardo Roques. Un eccidio del 1944 tra memoria e oblio, Einaudi, Torino 1998; A. Portelli, L’ordine è stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli, Roma 1999. Importante per il periodo considerato è la problematica dell’aiuto recato agli ebrei perseguitati sia ad opera di enti ecclesiastici, sia nel quadro di iniziative assistenziali, sia ad opera di privati, una casistica quest’ultima consegnata soprattutto alla memorialistica o alle testimonianze dirette, per cui le nostre citazioni si riferiscono prevalentemente a forme di assistenza organizzata in continuità o meno con iniziative avviate già prima del settembre del 1943: S. Sorani, L’assistenza ai profughi ebrei in Italia (1933-1947). Contributo alla storia della Delasem, Carucci, Roma 1983; M. Leone, Le organizzazioni di soccorso ebraiche in età fascista (1918-1945), Carucci, Roma 1983; R. Paini, I sentieri della speranza. Profughi ebrei, Italia fascista e la «Delasem», Xenia, Milano 1988; S. Antonini, Delasem. Storia della più grande organizzazione ebraica italiana di soccorso durante la seconda guerra mondiale, introduzione di A. Cavaglion, 180

De Ferrari, Genova 2000; K. Voigt, Villa Emma. Ragazzi ebrei in fuga, 1940-1945, La Nuova Italia, Firenze 2001. Molti dei contributi citati in precedenza relativi all’atteggiamento della Chiesa cattolica contengono notizie relative ad azioni di soccorso. Nell’ambito degli aiuti vanno valutati anche i comportamenti di esponenti dell’amministrazione, un settore in cui più che mai è necessaria l’individuazione di quanti osarono rischiare per aiutare i perseguitati senza che ciò possa offrire alibi ai molti che si adeguarono ed eseguirono con zelo o passivamente ordini spesso contrari ai più elementari principi di umanità. Questo fu il caso rievocato con una enfasi non necessaria nel volume Giovanni Palatucci. Il poliziotto che salvò migliaia di ebrei, a cura del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Polizia di Stato, Roma 2002; in un contesto molto diverso, fuori d’Italia, operò il protagonista del libro di E. Deaglio, La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca, Feltrinelli, Milano 1991. Non ultimo dettaglio nella radicalizzazione dell’antiebraismo di Salò fu la decisione di procedere alla spoliazione totale dei beni ebraici, portando a compimento il processo di parziale esproprio avviato sin dal 1938. L’argomento, ad analogia di quanto è avvenuto in altri paesi europei ai fini dell’indennizzo dei patrimoni ebraici confiscati, è stato oggetto in Italia di un’ampia ed accurata indagine ad opera di una commissione nominata dal governo e presieduta dall’onorevole Tina Anselmi, che ha redatto una relazione conclusiva di notevole valore storico-documentario, la quale al di là dell’oggetto specifico dell’indagine getta uno sguardo complessivo sull’intera vicenda della persecuzione degli ebrei. Il testo – Rapporto generale, Presidenza del Consiglio dei ministri. Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma, 2001 – è pubblicato dalla Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati. Gli studi principali in materia sono: A. Scalpelli, L’Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare: note sulle conseguenze economiche della persecuzione razziale, in Gli ebrei in Italia durante il fascismo, cit., a cura di G. Valabrega, vol. II, pp. 92-112; F. Levi, L’applicazione delle leggi contro le proprietà degli ebrei (1938-1946), in «Studi storici», 1995, 3, pp. 846-862; La casa e le cose. La persecuzione degli ebrei torinesi nelle carte dell’EGELI. 1938-1945, a cura di F. Levi, Compagnia di San Paolo, Torino 1998; A. Minerbi, L’esproprio dei beni ebraici in Toscana, in Razza e fascismo cit., tomo I, pp. 561-572; E. Basevi, I beni e la memoria. L’argenteria degli ebrei: piccola «scandalosa» storia italiana, introduzione di A. Luzzatto e R. Finzi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001; S. Bon, La spoliazione dei beni ebraici. Processi economici di epurazione razziale nel Friuli-Venezia 181

Giulia. 1938-1945, Grafica Goriziana, Gorizia 2001; M. Fusina, L’antisemitismo italiano attraverso i decreti di confisca dei beni (1938-1945), in «Storia e problemi contemporanei», dicembre 2001, 28, pp. 87-109.

8. La memorialistica ebraica Per quanto riguarda infine la memorialistica ebraica, è d’obbligo in primo luogo ricordare l’opera di un testimone di eccezione, Primo Levi, i cui libri sono molto di più di semplici ricordi, indissociabili da una forte tensione morale e dalla riflessione etico-storica; in questo contesto ricordiamo soprattutto Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1958; La tregua, Einaudi, Torino 1963; I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, testi tutti raccolti nel primo volume delle Opere. Una guida e introduzione critica alla memorialistica è offerta dal libro di A. Bravo, D. Jalla, Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia (19441993), Angeli, Milano 1994; un aggiornamento sulle memorie in Shoah e deportazione. Guida bibliografica cit., pp. 79 e sgg. Segnaliamo una selezione di diari e memorie di ebrei italiani o vissuti in Italia: E. Artom, Diario (gennaio 1940 – febbraio 1944), Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano 1966; M. Ascoli, Auschwitz è di tutti, Lint, Trieste 1988; E. Bruck, Chi ti ama così, Marsilio, Venezia 1974; A. Carpi, Diario di Gusen: lettere a Maria con 75 disegni dell’autore, Einaudi, Torino 1993; T. Ducci, Un Tallét ad Auschwitz, La Giuntina, Firenze 2000; M. Eisenstein, L’internata numero 6, Tranchida, Milano 1994; D. Klein, Vivere e sopravvivere. Diario 1936-1945, Mursia, Milano 2001; L. Millu, Il fumo di Birkenau, La Giuntina, Firenze 1986; L. Nissim Momigliano, Una famiglia ebraica tra le due guerre, in L’ascolto rispettoso, Raffaello Cortina, Milano 2001, pp. 3-32; B. Piazza, Perché gli altri dimenticano. Un italiano ad Auschwitz, Feltrinelli, Milano 1956; G. Sacerdoti, Ricordi di un ebreo bolognese: illusioni e delusioni. 19391945, Bonacci, Roma 1983; E. Salmon, Diario di un ebreo fiorentino. 1943-1944, La Giuntina, Firenze 2002; R. Segre, Venti mesi, Sellerio, Palermo 1995; S. Segre, Il mio ghetto, Garzanti, Milano 1987; V. Segre, Diario di un ebreo fortunato, Bompiani, Milano 2000; S. Spizzichino, I. Di Nepi Olper, Gli anni rubati. Le memorie di Settimia Spizzichino reduce dal Lager di Auschwitz e Bergen Belsen, Comune di Cava de’ Tirreni, Cava de’ Tirreni 1996; M. Tagliacozzo, Metà della vita. Ricordi della campagna razziale 1938-1944, Baldini & Castoldi, Milano 1998; G. Tedeschi, C’è un punto della terra... Una donna nel Lager di Birkenau, La Giuntina, Firenze 1988; E. Toaff, Perfidi giudei, fratelli maggiori, Mondadori, Milano 182

1987; A. Zargani, Per violino solo. La mia infanzia nell’Aldiqua. 19381945, Il Mulino, Bologna 1995.

9. Dopo il 1945 Per le vicende degli ebrei in Italia dopo il 1945, si vedano i seguenti lavori: L’abrogazione delle leggi razziali in Italia (1943-1987). Reintegrazione dei diritti dei cittadini e ritorno ai valori del Risorgimento, prefazione di G. Spadolini, a cura e con introduzione di M. Toscano, Senato della Repubblica, Roma 1989; Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia cit.; Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano cit.; Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, a cura di M. Sarfatti, La Giuntina, Firenze 1998; Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza, La memoria della legislazione e della persecuzione antiebraica nella storia dell’Italia repubblicana, Angeli, Milano, 1990; M. Toscano, La «Porta di Sion». L’Italia e l’immigrazione clandestina ebraica in Palestina (1945-1948), Il Mulino, Bologna 1990. Altri contributi rilevanti si possono trovare nei saggi di S. Mazzamuto, Ebraismo e diritto dalla prima emancipazione all’età repubblicana, e di A. Luzzatto, Autocoscienza e identità ebraica, entrambi nel più volte citato vol. IX degli Annali della Storia d’Italia Einaudi, Gli ebrei in Italia, tomo II, rispettivamente alle pp. 1765-1827 e 1829-1900; infine G. Schwarz, Gli ebrei italiani e la memoria della persecuzione fascista (19451955), in «Passato e Presente», 1999, 47, pp. 109-130.

Appendice

1. DICHIARAZIONE SULLA RAZZA DEL GRAN CONSIGLIO DEL FASCISMO DEL 6-7 OTTOBRE 1938 Il Gran Consiglio del Fascismo, in seguito alla conquista dell’Impero, dichiara l’attualità urgente dei problemi razziali e la necessità di una coscienza razziale. Ricorda che il Fascismo ha svolto da sedici anni e svolge un’attività positiva, diretta al miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana, miglioramento che potrebbe essere gravemente compromesso, con conseguenze politiche incalcolabili, da incroci e imbastardimenti. Il problema ebraico non è che l’aspetto metropolitano di un problema di carattere generale. Il Gran Consiglio del Fascismo stabilisce: a) il divieto di matrimoni di italiani e italiane con elementi appartenenti alle razze camita, semita e altre razze non italiane; b) il divieto per i dipendenti dello Stato e da Enti pubblici – personale civile e militare – di contrarre matrimonio con donne straniere di qualsiasi razza; c) il matrimonio di italiani e italiane con stranieri anche di razze ariane, dovrà avere il preventivo consenso del Ministero dell’Interno; d) dovranno essere rafforzate le misure contro chi attenta al prestigio della razza nei territori dell’Impero.

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Ebrei ed ebraismo Il Gran Consiglio del Fascismo ricorda che l’ebraismo mondiale – specie dopo la abolizione della massoneria – è stato l’animatore dell’antifascismo in tutti i campi e che l’ebraismo estero o italiano fuoriuscito è stato – in taluni periodi culminanti come nel 1924-25 e durante la guerra etiopica – unanimamente ostile al Fascismo. L’immigrazione di elementi stranieri – accentuatasi fortemente dal 1933 in poi – ha peggiorato lo stato d’animo degli ebrei italiani, nei confronti del Regime, non accettato sinceramente, poiché antitetico a quella che è la psicologia, la politica, l’internazionalismo d’Israele. Tutte le forze antifasciste fanno capo ad elementi ebrei; l’ebraismo mondiale è, in Spagna, dalla parte dei bolscevichi di Barcellona.

Il divieto d’entrata e l’espulsione degli ebrei stranieri Il Gran Consiglio del Fascismo ritiene che la legge concernente il divieto d’ingresso nel Regno, degli ebrei stranieri, non poteva più oltre essere ritardata, e che l’espulsione degli indesiderabili – secondo il termine messo in voga e applicato dalle grandi democrazie – è indispensabile. Il Gran Consiglio del Fascismo decide che oltre ai casi singolarmente controversi che saranno sottoposti all’esame dell’apposita commissione del Ministero dell’Interno, non sia applicata l’espulsione nei riguardi degli ebrei stranieri i quali: a) abbiano un’età superiore agli anni 65; b) abbiano contratto un matrimonio misto italiano prima del 1° ottobre XVI.

Ebrei di cittadinanza italiana Il Gran Consiglio del Fascismo, circa l’appartenenza o meno alla razza ebraica, stabilisce quanto segue: a) è di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei; b) è considerato di razza ebraica colui che nasce da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera; c) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica; d) non è considerato di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto, qualora professi altra religione all’infuori della ebraica, alla data del 1° ottobre XVI.

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Discriminazione tra gli ebrei di cittadinanza italiana Nessuna discriminazione sarà applicata – escluso in ogni caso l’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado – nei confronti di ebrei di cittadinanza italiana – quando non abbiano per altri motivi demeritato – i quali appartengano a: 1) famiglie di Caduti nelle quattro guerre sostenute dall’Italia in questo secolo: libica, mondiale, etiopica, spagnola; 2) famiglie dei volontari di guerra nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola; 3) famiglie di combattenti delle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola, insigniti della croce al merito di guerra; 4) famiglie dei Caduti per la Causa fascista; 5) famiglie dei mutilati, invalidi, feriti della Causa fascista; 6) famiglie di Fascisti iscritti al Partito negli anni ’19-20-21-22 e nel secondo semestre del ’24 e famiglie di legionari fiumani; 7) famiglie aventi eccezionali benemerenze che saranno accertate da apposita commissione.

Gli altri ebrei I cittadini italiani di razza ebraica, non appartenenti alle suddette categorie, nell’attesa di una nuova legge concernente l’acquisto della cittadinanza italiana, non potranno: a) essere iscritti al Partito Nazionale Fascista; b) essere possessori o dirigenti di aziende di qualsiasi natura che impieghino cento o più persone; c) essere possessori di oltre cinquanta ettari di terreno; d) prestare servizio militare in pace e in guerra. L’esercizio delle professioni sarà oggetto di ulteriori provvedimenti. Il Gran Consiglio del Fascismo decide inoltre: 1) che agli ebrei allontanati dagli impieghi pubblici sia riconosciuto il normale diritto di pensione; 2) che ogni forma di pressione sugli ebrei, per ottenere abiure, sia rigorosamente repressa; 3) che nulla si innovi per quanto riguarda il libero esercizio del culto e l’attività delle comunità ebraiche secondo le leggi vigenti; 4) che, insieme alle scuole elementari, si consenta l’istituzione di scuole medie per ebrei.

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Immigrazione di ebrei in Etiopia Il Gran Consiglio del Fascismo non esclude la possibilità di concedere, anche per deviare la immigrazione ebraica dalla Palestina, una controllata immigrazione di ebrei europei in qualche zona dell’Etiopia. Questa eventuale e le altre condizioni fatte agli ebrei, potranno essere annullate o aggravate a seconda dell’atteggiamento che l’ebraismo assumerà nei riguardi dell’Italia fascista.

Cattedre di razzismo Il Gran Consiglio del Fascismo prende atto con soddisfazione che il Ministro dell’Educazione Nazionale ha istituito cattedre di studi sulla razza nelle principali Università del Regno.

Alle Camicie Nere Il Gran Consiglio del Fascismo, mentre nota che il complesso dei problemi razziali ha suscitato un interesse eccezionale nel popolo italiano, annuncia ai Fascisti che le direttive del Partito in materia sono da considerarsi fondamentali e impegnative per tutti e che alle direttive del Gran Consiglio devono ispirarsi le leggi che saranno sollecitamente preparate dai singoli Ministri.

2a. PROVVEDIMENTI PER LA DIFESA DELLA RAZZA NELLA SCUOLA FASCISTA

(RDL 5 SETTEMBRE 1938-XVI, N. 1390) Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia Imperatore d’Etiopia, visto l’art. 3 n. 2, della legge 31 gennaio 1926-IV, n. 100; ritenuta la necessità assoluta ed urgente di dettare disposizioni per la difesa della razza nella scuola italiana (omissis) Art. 1. – All’ufficio di insegnante nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e nelle scuole non governative ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere ammesse persone di razza ebrai190

ca, anche se siano state comprese in graduatorie di concorso anteriormente al presente decreto; né potranno essere ammesse all’assistentato universitario, né al conseguimento dell’abilitazione alla libera docenza. Art. 2 – Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica. [...] VITTORIO EMANUELE

Mussolini – Bottai – Di Revel Visto, Il Guardasigilli: Solmi

2b. INTEGRAZIONE E COORDINAMENTO IN UNICO TESTO DELLE NORME GIÀ EMANATE PER LA DIFESA DELLA RAZZA NELLA SCUOLA ITALIANA

(RDL 15 NOVEMBRE 1938-XVII, N. 1779) Art. 1 – A qualsiasi ufficio od impiego nelle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche e private, frequentate da alunni italiani, non possono essere ammesse persone di razza ebraica, anche se siano state comprese in graduatorie di concorsi anteriormente al presente decreto; né possono essere ammesse al conseguimento dell’abilitazione alla libera docenza. Agli uffici ed impieghi anzidetti sono equiparati quelli relativi agli istituti di educazione, pubblici e privati, per alunni italiani, e quelli per la vigilanza nelle scuole elementari. Art. 2 – Delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti non possono far parte persone di razza ebraica. Art. 3 – Alle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche o private, frequentate da alunni italiani, non possono essere iscritti alunni di razza ebraica. È tuttavia consentita l’iscrizione degli alunni di razza ebraica che professino la religione cattolica nelle scuole elementari e medie dipendenti dalle Autorità ecclesiastiche. Art. 4 – Nelle scuole d’istruzione media frequentate da alunni italiani è vietata l’adozione di libri di testo di autori di razza ebraica. 191

Il divieto si estende ai libri che siano frutto della collaborazione di più autori, uno dei quali sia di razza ebraica; nonché alle opere che siano commentate o rivedute da persone di razza ebraica. Art. 5 – Per i fanciulli di razza ebraica sono istituite, a spese dello Stato, speciali sezioni di scuola elementare nelle località in cui il numero di essi non sia inferiore a dieci. Le comunità israelitiche possono aprire, con l’autorizzazione del Ministro per l’educazione nazionale, scuole elementari con effetti legali per fanciulli di razza ebraica, e mantenere quelle all’uopo esistenti. Per gli scrutini e per gli esami delle dette scuole il Regio provveditore agli studi nomina un commissario. Nelle scuole elementari di cui al presente articolo il personale potrà essere di razza ebraica; i programmi di studio saranno quelli stessi stabiliti per le scuole frequentate da alunni italiani, eccettuato l’insegnamento della religione cattolica; i libri di testo saranno quelli di Stato, con opportuni adattamenti, approvati dal Ministro per l’educazione nazionale, dovendo la spesa di tali adattamenti gravare sulle comunità israelitiche. Art. 6 – Scuole d’istruzione media per alunni di razza ebraica potranno essere istituite dalle comunità israelitiche o da persone di razza ebraica. Dovranno all’uopo osservarsi le disposizioni relative all’istituzione di scuole private. Alle scuole stesse potrà essere concesso il beneficio del valore legale degli studi e degli esami, ai sensi dell’art. 15 del R. decreto-legge 3 giugno 1938-XVI, n. 928, quando abbiano ottenuto di far parte in qualità di associate dell’Ente nazionale per l’insegnamento medio: in tal caso i programmi di studio saranno quelli stessi stabiliti per le scuole corrispondenti frequentate da alunni italiani, eccettuati gli insegnamenti della religione e della cultura militare. Nelle scuole d’istruzione media di cui al presente articolo il personale potrà essere di razza ebraica e potranno essere adottati libri di testo di autori di razza ebraica. Art. 7 – Per le persone di razza ebraica l’abilitazione a impartire l’insegnamento medio riguarda esclusivamente gli alunni di razza ebraica. Art. 8 – Dalla data di entrata in vigore del presente decreto il personale di razza ebraica appartenente ai ruoli per gli uffici e gli impieghi di cui al presente art. 1 è dispensato dal servizio, ed ammesso a far valere i titoli per l’eventuale trattamento di quiescenza ai sensi delle disposizioni generali per la difesa della razza italiana. 192

Al personale stesso per il periodo di sospensione di cui all’articolo 3 del R. decreto-legge 5 settembre 1938-XVI, n. 1390, vengono integralmente corrisposti i normali emolumenti spettanti ai funzionari in servizio. Dalla data di entrata in vigore del presente decreto i liberi docenti di razza ebraica decadono dall’abilitazione. Art. 9 – Per l’insegnamento nelle scuole elementari e medie per alunni di razza ebraica saranno preferiti gli insegnanti dispensati dal servizio a cui dal Ministro per l’interno siano state riconosciute le benemerenze individuali o familiari previste dalle disposizioni generali per la difesa della razza italiana. Ai fini del presente articolo sono equiparati al personale insegnante i presidi e direttori delle scuole pubbliche e private e il personale di vigilanza nelle scuole elementari. [...] VITTORIO EMANUELE

Mussolini – Bottai – Di Revel Visto, Il Guardasigilli: Solmi

3. PROVVEDIMENTI PER LA DIFESA DELLA RAZZA ITALIANA (RDL 17 NOVEMBRE 1938-XVII, N. 1728)

Capo I Provvedimenti relativi ai matrimoni Art. 1 – Il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza è proibito. Il matrimonio celebrato in contrasto con tale divieto è nullo. Art. 2 – Fermo il divieto di cui all’art. 1, il matrimonio del cittadino italiano con persona di nazionalità straniera è subordinato al preventivo consenso del Ministro per l’interno. I trasgressori sono puniti con l’arresto fino a tre mesi e con l’ammenda fino a lire diecimila. 193

Art. 3 – Fermo sempre il divieto di cui all’art. 1, i dipendenti delle Amministrazioni civili e militari dello Stato, delle Organizzazioni del Partito Nazionale Fascista o da esso controllate, delle Amministrazioni delle Province, dei Comuni, degli Enti parastatali e delle Associazioni sindacali ed Enti collaterali non possono contrarre matrimonio con persone di nazionalità straniera. Salva l’applicazione, ove ne ricorrano gli estremi, delle sanzioni previste dall’art. 2, la trasgressione del predetto divieto importa la perdita dell’impiego e del grado. Art. 4 – Ai fini dell’applicazione degli articoli 2 e 3, gli italiani non regnicoli non sono considerati stranieri. Art. 5 – L’ufficiale dello stato civile, richiesto di pubblicazioni di matrimonio, è obbligato ad accertare, indipendentemente dalle dichiarazioni delle parti, la razza e lo stato di cittadinanza di entrambi i richiedenti. Nel caso previsto dall’art. 1, non procederà né alle pubblicazioni né alla celebrazione del matrimonio. L’ufficiale dello stato civile che trasgredisce al disposto del presente articolo è punito con l’ammenda da lire cinquecento a lire cinquemila. Art. 6 – Non può produrre effetti civili e non deve, quindi, essere trascritto nei registri dello stato civile, a norma dell’art. 5 della legge 27 maggio 1929-VII, n. 847, il matrimonio celebrato in violazione dell’art. 1. Al ministro del culto, davanti al quale sia celebrato tale matrimonio, è vietato l’adempimento di quanto è disposto dal primo comma dell’art. 8 della predetta legge. I trasgressori sono puniti con l’ammenda da lire cinquecento a lire cinquemila. Art. 7 – L’ufficiale dello stato civile che ha proceduto alla trascrizione degli atti relativi a matrimoni celebrati senza l’osservanza del disposto dell’art. 2 è tenuto a farne immediata denunzia all’autorità competente.

Capo II Degli appartenenti alla razza ebraica Art. 8 – Agli effetti di legge: a) è di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica; 194

b) è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera; c) è considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre; d) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica, o sia, comunque, iscritto ad una comunità israelitica, ovvero abbia fatto, in qualsiasi altro modo, manifestazioni di ebraismo. Non è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che, alla data del 1° ottobre 1938-XVI, apparteneva a religione diversa da quella ebraica. Art. 9 – L’appartenenza alla razza ebraica deve essere denunziata ed annotata nei registri dello stato civile e della popolazione. Tutti gli estratti dei predetti registri ed i certificati relativi, che riguardano appartenenti alla razza ebraica, devono fare espressa menzione di tale annotazione. Uguale menzione deve farsi negli atti relativi a concessioni o autorizzazioni della pubblica autorità. I contravventori alle disposizioni del presente articolo sono puniti con l’ammenda fino a lire duemila. Art. 10 – I cittadini di razza ebraica non possono: a) prestare servizio militare in pace e in guerra; b) esercitare l’ufficio di tutore o curatore di minori od incapaci non appartenenti alla razza ebraica; c) essere proprietari o gestori, a qualsiasi titolo, di aziende dichiarate interessanti la difesa della Nazione, ai sensi e con le norme dell’art. 1 del R. decreto-legge 18 novembre 1929-VIII, n. 2488, e di aziende di qualunque natura che impieghino cento o più persone, né avere di dette aziende la direzione né assumervi comunque, l’ufficio di amministratore o di sindaco; d) essere proprietari di terreni che, in complesso, abbiano un estimo superiore a lire cinquemila; e) essere proprietari di fabbricati urbani che, in complesso, abbiano un imponibile superiore a lire ventimila. Per i fabbricati per i quali non esista l’imponibile, esso sarà stabilito sulla base degli accertamenti eseguiti ai fini dell’applicazione dell’imposta straordinaria sulla proprietà immobiliare di cui al R. decreto-legge 5 ottobre 1936-XIV, n. 1743. Con decreto Reale, su proposta del Ministro per le finanze, di concerto coi Ministri per l’interno, per la grazia e giustizia, per le corpora195

zioni e per gli scambi e valute, saranno emanate le norme per l’attuazione delle disposizioni di cui alle lettere c), d), e). Art. 11 – Il genitore di razza ebraica può essere privato della patria potestà sui figli che appartengano a religione diversa da quella ebraica, qualora risulti che egli impartisca ad essi una educazione non rispondente ai loro principi religiosi o ai fini nazionali. [...] Art. 13 – Non possono avere alle proprie dipendenze persone appartenenti alla razza ebraica: a) le Amministrazioni civili e militari dello Stato; b) il Partito Nazionale Fascista e le organizzazioni che ne dipendono o che ne sono controllate; c) le Amministrazioni delle Province, dei Comuni, delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza e degli Enti, Istituti ed Aziende, comprese quelle di trasporti in gestione diretta, amministrate o mantenute col concorso delle Province, dei Comuni, delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza o dei loro Consorzi; d) le Amministrazioni delle aziende municipalizzate; e) le Amministrazioni degli Enti parastatali, comunque costituiti e denominati, delle Opere nazionali, delle Associazioni sindacali ed Enti collaterali e, in genere, di tutti gli Enti ed Istituti di diritto pubblico, anche con ordinamento autonomo, sottoposti a vigilanza o a tutela dello Stato, o al cui mantenimento lo Stato concorra con contributi di carattere continuativo; f) le Amministrazioni delle Aziende annesse o direttamente dipendenti degli Enti di cui alla precedente lettera e) o che attingono ad essi, in modo prevalente, i mezzi necessari per il raggiungimento dei propri fini, nonché delle società, il cui capitale sia costituito, almeno per metà del suo importo, con la partecipazione dello Stato; g) le Amministrazioni delle banche di interesse nazionale; h) le Amministrazioni delle imprese provate di assicurazione. Art. 14 – Il Ministro per l’interno, sulla documentata istanza degli interessati, può, caso per caso, dichiarare non applicabili le disposizioni degli articoli 10 e 11, nonché dell’art. 13, lett. h): a) ai componenti le famiglie dei caduti nelle guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola e dei caduti per la causa fascista; b) a coloro che si trovino in una delle seguenti condizioni: 1) mutilati, invalidi, feriti, volontari di guerra o decorati al valore nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola; 196

2) combattenti nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola, che abbiano conseguito almeno la croce al merito di guerra; 3) mutilati, invalidi, feriti della causa fascista; 4) iscritti al Partito Nazionale Fascista negli anni 1919-20-21-22 e nel secondo semestre del 1924; 5) legionari fiumani; 6) abbiano acquisito eccezionali benemerenze, da valutarsi a termini dell’art. 16. Nei casi preveduti alla lettera b), il beneficio può essere esteso ai componenti la famiglia delle persone ivi elencate, anche se queste siano premorte. Gli interessati possono richiedere l’annotazione del provvedimento del Ministro per l’interno nei registri di stato civile e di popolazione. Il provvedimento del Ministro per l’interno non è soggetto ad alcun gravame, sia in via amministrativa, sia in via giurisdizionale. Art. 15 – Ai fini dell’applicazione dell’art. 14, sono considerati componenti della famiglia, oltre il coniuge, gli ascendenti e i discendenti fino al secondo grado. Art. 16 – Per la valutazione delle speciali benemerenze di cui all’articolo 14 lett. b), n. 6, è istituita, presso il Ministero dell’interno, una Commissione composta dal Sottosegretario di Stato all’interno, che la presiede, di un Vice Segretario del Partito Nazionale Fascista e del Capo di Stato Maggiore della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale. Art. 17 – È vietato agli ebrei stranieri di fissare stabile dimora nel Regno, in Libia e nei Possedimenti dell’Egeo. [...] VITTORIO EMANUELE

Mussolini – Ciano – Solmi – Di Revel – Lantini Visto, Il Guardasigilli: Solmi

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4. NORME RELATIVE AI LIMITI DI PROPRIETÀ IMMOBILIARE E DI ATTIVITÀ INDUSTRIALE E COMMERCIALE PER I CITTADINI ITALIANI DI RAZZA EBRAICA

(RDL 9 FEBBRAIO 1939-XVII, N. 126)

Titolo I: Limitazioni della proprietà immobiliare

Capo I Disposizioni generali Art. 1 – Le limitazioni della proprietà immobiliare, stabilite dall’art. 10, lettera d) ed e), del R. decreto-legge 17 novembre 1938-XVII, n. 1728, si determinano cumulando separatamente i terreni ed i fabbricati urbani siti nel territorio del Regno e costituenti il patrimonio immobiliare dei cittadini italiani di razza ebraica alla data di entrata in vigore del presente decreto. Art. 2 – Si comprendono nel patrimonio immobiliare, soggetto alle limitazioni di cui all’articolo precedente i beni posseduti: a) a titolo di proprietà piena e di proprietà nuda; b) a titolo di concessione enfiteutica. Non è computato il diritto di concedente enfiteutico, salvo il caso della devoluzione previsto alla lettera b) del primo comma dell’art. 45. Art. 3 – Non si comprendono nel patrimonio immobiliare di cui all’art. 1: a) gli immobili adibiti ad uso industriale e commerciale quando il proprietario o enfiteuta sia anche il titolare dell’azienda alla quale gli immobili stessi sono destinati; b) i fabbricati appartenenti ad imprenditori edili e costruiti a scopo di vendita; c) i beni per i quali alla data dell’entrata in vigore del presente decreto vi siano in corso procedure di esecuzione immobiliare. Ai beni menzionati alle lettere a) e b) del precedente comma si applicano le norme del titolo II. 198

Art. 4 – La parte di patrimonio immobiliare eccedente i limiti consentiti ai cittadini italiani di razza ebraica, deve essere trasferita all’Ente indicato nell’art. 11 in conformità alle disposizioni di questo decreto. Art. 5 – Fino alla definitiva determinazione dei beni immobili compresi nei limiti di cui all’art. 10 del R. decreto-legge 17 novembre 1938-XVII, n. 1728, i cittadini di razza ebraica non possono compiere alcun atto di alienazione a titolo gratuito od oneroso o di costituzione di ipoteca, relativamente ai beni immobiliari di cui al primo comma dell’art. 2. Se però ricorrono esigenze e circostanze particolari, il Ministro per le finanze può autorizzare il compimento degli atti predetti, prescrivendo le opportune cautele. Degli immobili eventualmente alienati con l’autorizzazione del Ministro per le finanze sarà tenuto conto, per quanto è possibile, nella formazione della quota consentita. Gli atti compiuti, in violazione del disposto del primo comma, sono improduttivi di effetti, rispetto ai beni che risulteranno eccedenti la quota di patrimonio immobiliare consentita dal citato decreto 17 novembre 1938-XVII, n. 1728. Le locazioni stipulate in ordine ai beni medesimi posteriormente all’entrata in vigore del presente decreto e senza la preventiva autorizzazione dell’Ente di cui all’art. 11, avranno validità limitatamente all’anno in corso al momento dell’acquisto del bene locato da parte dell’Ente predetto ed osservate in ogni caso, quanto ai termini di disdetta, le consuetudini locali. Art. 6 – In deroga alle disposizioni degli articoli 4 e 5, il cittadino italiano di razza ebraica può fare donazione dei beni ai discendenti non considerati di razza ebraica, ovvero ad Enti od Istituti che abbiano fini di educazione od assistenza. La donazione di questi beni può anche essere fatta al coniuge che non sia considerato di razza ebraica. Le donazioni debbono essere fatte nel termine perentorio di centottanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto. Le donazioni stesse perdono ogni efficacia se non sono state accettate entro novanta giorni dall’atto di donazione. Art. 7 – Le procedure esecutive immobiliari iniziate contro cittadini italiani di razza ebraica, anteriormente all’entrata in vigore del presente decreto, saranno proseguite con le norme vigenti secondo la natura del credito. Art. 8 – Dalla data dell’entrata in vigore del presente decreto, le azioni esecutive immobiliari contro cittadini di razza ebraica potranno essere 199

iniziate e definite con le norme vigenti secondo la natura del credito su ogni bene del patrimonio immobiliare del debitore: a) per tributi dovuti allo Stato, alle province ed ai comuni; b) per contributi esigibili con le norme stabilite per la riscossione delle imposte dirette; c) per crediti ipotecari iscritti anteriormente all’entrata in vigore del presente decreto; d) per crediti di data certa anteriore all’entrata in vigore del presente decreto aventi privilegio speciale sull’immobile. In ogni altro caso, alla data dell’entrata in vigore del presente decreto fino alla definitiva determinazione dei beni compresi nella quota consentita e in quella eccedente, l’autorizzazione alla vendita non potrà essere concessa, rimanendo in conseguenza sospesi, fino a tale determinazione, i procedimenti esecutivi iniziati. Avvenuta la definitiva ripartizione dei beni nelle due quote anzidette, cesserà di diritto, in ordine ai beni compresi nella quota eccedente, ogni effetto giuridico dei procedimenti esecutivi. Per i beni compresi nella quota consentita, le azioni esecutive si svolgeranno in base alle norme vigenti, secondo la natura del credito. Per l’accertamento della qualità di ebreo del debitore si osserveranno le norme dell’articolo seguente. Art. 9 – Ai fini dell’applicazione di quanto è disposto nel secondo comma e seguenti dell’articolo precedente, il creditore istante, nei procedimenti esecutivi iniziati dopo l’entrata in vigore del presente decreto, deve presentare un’attestazione del competente ufficio dello stato civile dalla quale risulti se vi sia o no, nei riguardi del debitore, annotazione di appartenenza alla razza ebraica o annotazione di provvedimento di discriminazione. Nel caso che non risulti dall’attestazione anzidetta l’appartenenza del debitore alla razza ebraica, il procedimento esecutivo è proseguito e definito, senz’altre indagini, con le norme vigenti secondo la natura del credito; egualmente è definito con le norme ordinarie nel caso di avvenuta discriminazione. Art. 10 – Alle procedure fallimentari contro cittadini italiani di razza ebraica si applicano le norme ordinarie anche per quanto riguarda la vendita dei beni immobili e cessa, dalla data della dichiarazione del fallimento, l’applicazione delle disposizioni dell’art. 4, salvo quanto è disposto nell’art. 45, del primo comma, lettera d). [...]

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5. ORDINANZA DI POLIZIA DEL 1° DICEMBRE 1943 (O 30 NOVEMBRE)

Ministero dell’Interno Telegramma circolare cifrato spedito ore 9 del 1°-12-1943 Precedenza assoluta A tutti i capi delle Province «Comunicasi, per la immediata esecuzione, la seguente ordinanza di polizia che dovrà essere applicata in tutto il territorio di codesta provincia: 1° Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili ed immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell’interesse della Repubblica Sociale Italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche. 2° Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero in applicazione delle leggi razziali italiane vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana, devono essere sottoposti a speciale vigilanza degli organi di polizia. Siano per intanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati. IL MINISTRO

F.to Buffarini Guido»

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6. DECRETO LEGISLATIVO DEL DUCE (4 GENNAIO 1944-XXII, N. 2) NUOVE DISPOSIZIONI CONCERNENTI I BENI POSSEDUTI DAI CITTADINI DI RAZZA EBRAICA

Il Duce della Repubblica Sociale Italiana capo del Governo Decreta: Art. 1 – I cittadini italiani di razza ebraica o considerati come tali ai sensi dell’art. 8 del decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728, ancorché abbiano ottenuto il provvedimento di discriminazione di cui all’art. 14 dello stesso decreto-legge, nonché le persone straniere di razza ebraica, anche se non residenti in Italia, non possono nel territorio dello Stato: a) essere proprietari, in tutto o in parte, o gestori, a qualsiasi titolo, di aziende di qualunque natura, né avere di dette aziende la direzione, né assumervi comunque l’ufficio di amministratore o di sindaco; b) essere proprietari di terreni, né di fabbricati e loro pertinenze; c) possedere titoli, valori, crediti e diritti di compartecipazione di qualsiasi specie, né essere proprietari di altri beni mobiliari di qualsiasi natura. Art. 2 – I debitori di persone di razza ebraica, ed i detentori di beni di qualsiasi natura appartenenti, in tutto o in parte, a persone di razza ebraica, devono presentare al Capo della Provincia competente per territorio, in ordine di singoli beni, denuncia scritta dalla quale risultino: l’importo dei debiti, il nome del creditore o del proprietario, la natura e l’ammontare dei titoli e dei valori e la sommaria descrizione dei beni. La denuncia deve essere fata entro 30 (trenta) giorni dalla data di applicazione del presente decreto e, per le obbligazioni sopravvenute, entro trenta giorni dalla data in cui queste siano sorte o divenute liquide. Sono tenuti alla denuncia di cui sopra le persone fisiche di nazionalità italiana, che hanno la residenza o il domicilio nel territorio dello Stato e tutti gli enti di natura privata ivi comprese le società commerciali, le associazioni e gli enti di fatto di nazionalità italiana, che hanno la loro sede principale nel territorio dello Stato. Sono inoltre tenuti alla stessa denuncia, anche quando non ricorrono le condizioni prevedute nel comma precedente, le persone fisiche o giu202

ridiche qualunque sia la loro nazionalità, per i beni appartenenti a persone di razza ebraica, da esse detenuti nel territorio dello Stato, e per i debiti verso dette persone, afferenti ad attività commerciali da esse ivi esercitate. Art. 3 – Le Amministrazioni dello Stato degli enti pubblici che siano debitori di persone di razza ebraica e che detengano beni appartenenti a persona di razza ebraica e qualunque autorità che comunque debba disporre a favore delle persone stesse il pagamento di somme o la consegna di beni, debbono darne immediata comunicazione scritta al Capo della provincia competente ai sensi dell’art. 2, e tenere in sospeso i pagamenti e le consegne in attesa del provvedimento da parte dello stesso Capo della provincia. Art. 4 – Gli istituti e le aziende di credito che hanno scomparti in impianti fissi di sicurezza, dati in locazione a persone di razza ebraica, sono tenuti a darne immediata notizia al Capo della provincia entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche ad ogni specie di deposito chiuso esistente presso Istituti o aziende di credito ed intestato a persone di razza ebraica. Dalla data di entrata in vigore del presente decreto, l’apertura degli scomparti locati presso Istituti o aziende di credito di cittadini italiani di razza ebraica, come il ritiro o l’apertura degli altri depositi chiusi intestati ai cittadini stessi, non può farsi se non nei modi stabiliti dal successivo art. 10. Art. 5 – È vietato alle persone di nazionalità italiana, le quali siano debitrici, a qualunque titolo, di somme di denaro verso persone di razza ebraica, ovunque queste si trovino, ovvero siano tenute alla consegna, a favore di dette persone, di titoli, valori, ogni modo di adempimento delle obbligazioni, in attesa di provvedimento di cui all’art. 8 del presente decreto. È vietata del pari alle persone di nazionalità italiana la consegna di beni, da esse detenuti appartenenti a persone di razza ebraica, salva la disposizione di cui al citato articolo 8. Eguale divieto si applica agli stranieri per i beni appartenenti a persone di razza ebraica, da essi detenuti nel territorio dello Stato. In attesa dei provvedimenti di cui all’art. 10 del presente decreto è inoltre vietato di procedere all’apertura degli scomparti in impianti fissi di sicurezza dati in locazione a persone di razza ebraica presso Istituti od aziende di credito. 203

Art. 6 – È nullo qualsiasi atto concluso posteriormente alla data del 30 novembre 1943, che abbia per effetto il trasferimento di proprietà dei beni appartenenti a persona di razza ebraica, ovvero la costituzione sui beni stessi di diritti reali, od anche la locazione di tali beni con pagamento anticipato del canone per oltre un anno. Questa disposizione non si applica per gli atti compiuti dall’Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare, né per i trasferimenti a causa di morte per successioni apertesi prima dell’entrata in vigore del presente decreto, né per quelli effettuati per ordine delle Autorità. Su proposta dell’Intendente di Finanza, il Capo della provincia può dichiarare nulle, con apposito decreto, le donazioni avvenute ai sensi dell’art. 6 del decreto-legge 9 febbraio 1939, numero 126, nonché gli atti di trasferimento di beni di pertinenza ebraica conclusi anteriormente al 1° dicembre 1943, qualora, da fondati elementi, le donazioni od i trasferimenti risultino fittizi e fatti al solo scopo di sottrarre i beni ai provvedimenti razziali. Avverso il decreto del Capo della provincia è ammesso ricorso al Ministro dell’Interno entro trenta giorni da quello della notifica del decreto stesso. Sui ricorsi della specie decide il Ministro dell’Interno, d’intesa con quello delle Finanze, con provvedimento non soggetto ad alcun gravame, né in via amministrativa, né in via giurisdizionale. Art. 7 – I beni immobiliari e le loro pertinenze, i beni mobiliari, le aziende industriali e commerciali e ogni altro cespite esistente nel territorio dello Stato, di proprietà dei cittadini di razza ebraica o considerati come tali ai sensi della legge 17 novembre 1938, n. 1728, ancorché i cittadini stessi abbiano ottenuto il provvedimento di discriminazione di cui all’art. 14 della legge citata nonché quelli di proprietà di persone straniere di razza ebraica, anche se non residenti in Italia, sono confiscati a favore dello Stato e dati in amministrazione all’Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare. [...] Quartier Gen., 4 gennaio 1944 – XXII MUSSOLINI

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7. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE DELLA COMMISSIONE PER LA RICOSTRUZIONE DELLE VICENDE RELATIVE ALL’ACQUISIZIONE DEI BENI DEI CITTADINI EBREI DA PARTE DI ORGANISMI PUBBLICI E PRIVATI

(APRILE 2001) Nello svolgimento dei lavori, la Commissione ha sempre avvertito la necessità di dare una misura quantitativa alle spoliazioni avvenute, nella consapevolezza che qualunque disamina storico-politica, qualunque semplice anche se esaustiva ricostruzione normativa, qualunque analisi sia pure minuta dei meccanismi delle spoliazioni sarebbero risultate certamente utili ed importanti ma solo limitatamente sufficienti se non avessero contribuito a dare dimensione ed uno spessore al danno subito da un gruppo di italiani e di stranieri dolorosamente colpiti dalle «leggi razziali» italiane. L’esigenza di dare un riscontro quantitativo al fenomeno indagato è stata sollecitata d’altra parte dalla impressionante vastità delle spoliazioni, avvenute nell’arco di ben sette anni, dovute a disposizioni legislative nettamente differenziate dei due periodi 1938-1943 e 1943-1945 e comunque decisamente più gravi nel secondo periodo. Analizzando sinteticamente le varie tipologie di spoliazione ed una serie di risvolti economici della legislazione persecutoria, la Commissione ha considerato rilevanti ai fini della propria indagine: – le varie limitazioni di proprietà stabilite dalla legislazione 1938-1939 con il conseguente esproprio da parte dello Stato delle quote «eccedenti»; – i sequestri avvenuti in base all’ordinanza del 30 novembre 1943, n. 5, di Buffarini Guidi; – le confische di tutti i beni mobili ed immobili conseguenti al decreto del duce del gennaio 1944; – i furti, i saccheggi, le razzie avvenuti in varie parti del Paese e ai posti di frontiera; – il danno economico gravissimo per gli ebrei costretti a vivere in clandestinità per sfuggire alla deportazione; – l’incalcolabile danno derivante dalle progressive limitazioni al lavoro ed alle attività professionali e imprenditoriali. Era giusto e doveroso tenere presente, nel corso della ricerca, il quadro generale dei danni derivanti dal complesso di questo sistema persecutorio. 205

Su alcuni di questi aspetti significativi riferimenti precisi sono contenuti nei vari capitoli del Rapporto, ma in questa sede è apparso comunque opportuno fornire un quadro minimo essenziale. Per i beni eccedenti confiscati in base alla legge del 1939, indicazioni sufficientemente precise si rilevano dalla documentazione dell’Egeli. Il bilancio della gestione beni ebraici 1939, allegato alla relazione del 1945, informava che il conto degli immobili trasferiti all’Egeli ammontava complessivamente a £. 55.454.680,44. Di non facile quantificazione sono i beni sottratti in forza di decreti emanati dai capi delle province a seguito dell’ordinanza del 30 novembre 1943. In molti casi – salvo che per quella parte di beni assegnata, in alcune città, alle banche delegate dall’Egeli e gestita quindi da quelle in regime sequestratario – si ebbe una gestione diretta o indiretta dei beni da parte dell’autorità prefettizia, spesso al di fuori di precisi meccanismi procedurali. Questo fenomeno interessò diverse province ed è ampiamente trattato in modo particolare nel capitolo su Firenze. Nella prospettiva segnalata, maggiore rilievo assumono i riferimenti quantitativi rilevati nella serie archivista Servizio beni ebraici del Ministero delle finanze e di cui si fa cenno nei capitoli «Fonti archivistiche» e «Banche dati elaborate presso l’Archivio centrale dello Stato». Utilizzando i ragionamenti svolti in questa sede può fondamentalmente ritenersi che i decreti di confisca siano stati, come risulta da una relazione dell’Egeli, almeno 7.847. Dalla schedatura analitica di 7.187 decreti reperiti risulta che l’operazione di confisca coinvolse 46 province, non meno di 8.000 cittadini e 230 ditte. Mancano i dati quantitativi dei 660 decreti non trovati. Solo pochi decreti contengono riferimenti puntuali al valore dei beni e non è stato possibile pertanto elaborare una quantificazione attendibile del patrimonio confiscato e del conseguente danno. La relazione al bilancio dell’Egeli del 1945, infatti, non riporta il valore dei beni, ma solo calcoli relativi ai costi e ricavi derivanti dalla gestione. Può essere peraltro indicativa a questo proposito la relazione del ministro delle Finanze al duce del 12 marzo 1945. Questa forniva dati sul valore dei beni confiscati alla data del 31 dicembre 1944, quando l’invio dei decreti non era ancora ultimato e anzi mancavano molte province tra quelle più importanti per numero di ebrei e per beni da essi posseduti, «a causa della complessità dei relativi accertamenti ai quali si stava peraltro provvedendo con la maggiore possibile accortezza e urgenza». Si precisava che, per quanto riguarda il valore dei beni confiscati, lo stesso poteva essere precisato solo per alcune categorie mentre per altre, pur totalizzanti importi ingenti (mobilio, preziosi, biancheria, merci varie), dati sicuri potevano essere ottenuti solo in fase di realizzo. 206

Limitatamente alle confische eseguite fino alla fine del 1944, i depositi bancari in contanti ammontavano comunque all’importo complessivo di £. 75.089.047,90; i titoli di Stato a £. 36.396.831 (valore nominale); i titoli industriali e diversi, valutati secondo il listino di fine dicembre, a £. 731.442.219. I beni immobili erano stati valutati in base ai criteri stabiliti ai fini dell’imposta sul patrimonio comportando, per i terreni, un totale di £. 855.348.608 e per i fabbricati di £. 198.300.0031. Non è invece quantificabile il danno subito a seguito di furti e saccheggi. Nel Rapporto è stato inserito un capitolo su questo argomento, ma senza alcuna pretesa di pervenire ad una valutazione quantitativa oggettivamente impossibile. Tenendo conto delle varie testimonianze raccolte, considerato che praticamente tutti gli ebrei furono costretti ad abbandonare le proprie case, valutato che taluni fiduciari non si rivelarono tali concorrendo all’opera di razzia, è realistico ritenere che il fenomeno assunse una dimensione assai vasta. Al di là dei richiami normativi sui divieti di attività lavorativa, la Commissione non è stata in grado di quantificare i risvolti economici indotti dalle disposizioni in materia anche perché, nello specifico, non si concretava una forma di spoliazione di beni in senso stretto. Sarebbe risultato d’altra parte difficile pervenire ad una quantificazione complessiva del danno, ma appare assolutamente ovvio ritenere che questo fu ingentissimo poiché vennero meno le primarie fonti di reddito. La Commissione ha ritenuto di completare il proprio lavoro formulando indicazioni sulla successiva fase di restituzione dei beni. Se complessa e di non facile ricostruzione è stata la fase delle spoliazioni, ancor meno agevole è stata ed è una ricostruzione completa della fase delle restituzioni. A fronte, infatti, dell’imponente numero dei decreti di confisca sono stati rinvenuti solo pochi corrispondenti verbali di restituzione. Le restituzioni sono avvenute in seguito a singoli decreti di revoca o sulla base di disposizioni di carattere generale. Manca comunque una serie archivistica organica che attesti l’avvenuta restituzione dei beni confiscati o sequestrati che – in base alle disposizioni normative – doveva avvenire su domanda dell’interessato. Indicazioni generali sulla restituzione dei beni risultano dalla documentazione dell’Egeli. Nel Rapporto questo aspetto è stato affrontato in un capitolo «L’abrogazione delle leggi razziali: l’Egeli e le restituzioni». In una delle appendici allegate al Rapporto si è ritenuto di inserire anche 1 Va rilevato che la relazione segnala 6.768 decreti «ripartiti come appresso: beni immobili e mobili n. 2.590 decreti; deposti presso terzi, n. 2.996 decreti; aziende, n. 182 decreti» cioè, in totale, 5.768 decreti (esiste evidentemente una differenza nei totali).

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un elenco di restituzioni dei saldi attivi di gestione, pur nella consapevolezza del suo carattere parziale e, quindi, meramente esemplificativo. Tuttavia per poter compiutamente riferire sul tema delle restituzioni si dovrebbe ricostruire la situazione dei beni sequestrati, per i quali le fonti individuate consentono di avviare una sia pur parziale indagine; conoscere il destino dei beni asportati con la forza o rubati; si dovrebbe illuminare la vicenda dolorosa di beni appartenuti a deportati, vittime di eccidi e che non ebbero la possibilità di reclamare direttamente la restituzione; si dovrebbe approfondire il capitolo delle difficoltà con cui i legittimi proprietari poterono rientrare in possesso dei beni in presenza di un apparato pubblico e di una burocrazia che non sempre compresero la eccezionalità e la gravità della vicenda delle spoliazioni; si dovrebbe per contro approfondire quale peso ebbe il ricorso a forme risarcitorie di carattere generale come, ad esempio, i risarcimenti per danni di guerra. La legislazione restitutoria, riparatoria e risarcitoria dell’immediato dopoguerra fu sufficientemente tempestiva, ma non esente da gravi limiti, come ad esempio nel caso del dcps 11 maggio 1947, n. 364 («Successione delle persone decedute per atti di persecuzione razziale dopo l’8 settembre 1943, senza lasciare eredi successibili») che si rivelò di fatto di assai difficile applicazione. Nel 1955 verranno estese ai perseguitati razziali le provvidenze stabilite a favore dei perseguitati politici mentre con 1. 16 gennaio 1978, n. 17, si stabilisce che la «qualifica di ex-perseguitato razziale compete anche ai cittadini italiani di origine ebraica che, per legge oppure in base a norme e provvedimenti amministrativi anche dalla RSI intesi ad attuare discriminazioni razziali, abbiano riportato pregiudizio fisico o economico o morale. Il pregiudizio morale è comprovato anche dalle avvenute notazioni di ‘razza ebraica’ sui certificati anagrafici»; peraltro ciò concerneva le persone e non i loro beni. Nonostante le richiamate difficoltà; nonostante le accertate lungaggini; nonostante le interpretazioni spesso restrittive delle norme giuridiche da parte degli organi consultivi; nonostante gli inevitabili contenziosi nei casi in cui i beni immobili erano stati alienati, si ha motivo di ritenere che l’opera di restituzione dei beni a favore di beneficiari non scomparsi in deportazione fu quasi sempre completa per gli ex perseguitati che si attivarono in tal senso e limitatamente ai beni che non andarono razziati, dispersi o distrutti. La mancata restituzione dei beni riguardò soprattutto quelli non reclamati dagli aventi diritto o dai loro eredi. In ciò influirono verosimilmente: l’ignoranza di proprietà appartenenti a parenti uccisi in deportazione; l’espulsione o l’emigrazione di ebrei che non ebbero più occasione o motivo per curare i propri interessi; il peso della tragedia sofferta che influenzò negativamente l’azione di recupero di beni materiali. Questa fa208

scia di mancate restituzioni non fu certo secondaria ma, in ogni caso, per quante restituzioni poterono avvenire, esse non annullarono le conseguenze economiche delle limitazioni di proprietà e delle spoliazioni ma ancor più le sofferenze morali che ad esse si accompagnarono. È certo, comunque, che, proprio a seguito del lavoro svolto dalla Commissione e dopo aver individuato alcune precise linee di ricerca, una ricognizione più attenta di fatti e circostanze fino ad ora sconosciuti potrebbe consentire di raggiungere su questo argomento elementi conoscitivi più certi e definiti. A questo riguardo, rinviando al Rapporto generale per un quadro più dettagliato, la Commissione ritiene utile fornire una sintesi esemplificativa. Le proprietà espropriate in base alla legge del 1939 vennero retrocesse ai proprietari o, comunque, si addivenne a una definizione del contenzioso. Relativamente ai beni sequestrati e confiscati nel 1943-1945, la cui restituzione fu affidata all’Egeli anche per la parte dei beni sequestrati, rimane da approfondire l’indagine per i beni sequestrati con gestione extra Egeli. È stata accertata, nel complesso, la mancata restituzione di un gruppo di beni mobili (gioielli, libretti di risparmio, certificati azionari, ecc.) per un valore complessivo di almeno £. 2.095.498 (anni 1943-1944), successivamente incamerati dallo Stato o, qualora non aventi più valore, distrutti. È stata inoltre evidenziata una questione concernente beni confiscati rimasti in deposito presso le banche, analizzata nel capitolo «L’abrogazione delle leggi razziali: l’Egeli e le restituzioni» e in quello relativo all’«Indagine nel settore bancario». Nello scarso carteggio dell’Egeli si menzionano un ammontare di «circa £. 4.000.000» di depositi di denaro e titoli di Stato e «n. 6.550 azioni industriali di valore imprecisato» già oggetto di confisca e «non reclamati» (con riferimento, parrebbe, al 1950) dai proprietari ebrei e detenuti dalle banche: al riguardo è necessario un approfondimento che possa comportare una compiuta ricostruzione delle successive evoluzioni della vicenda. Sempre relativamente ai beni immobili e mobili sequestrati e confiscati nel 1943-1945, non è stato possibile quantificare l’ampiezza e il valore delle incompletezze nelle restituzioni: case rese senza mobilia, mobilia resa senza contenuto, oggetti di ogni tipo scomparsi, distrutti o deteriorati, beni venduti all’epoca a valori di stima assai ribassati, ecc. Per tutti i beni gestiti, l’Egeli dopo la guerra ha chiesto ai perseguitati il pagamento delle spese di gestione sostenute dagli istituti gestori, destando le vivaci rimostranze dei perseguitati. È stata accertata la vendita all’asta da parte dell’Arar (Azienda rilievo alienazione residuati) a beneficio dello Stato di oggetti d’argento per va209

rie centinaia di chilogrammi, compreso almeno un gruppo di oggetti asportati a un ebreo. Si è riscontrata una generale mancanza di documenti relativa ai beni sequestrati nelle dogane a ebrei che lasciavano la penisola. Gli elementi raccolti indicano che non vi furono polizze che siano state liquidate (nel loro valore intero o di riscatto), forzosamente e definitivamente all’Egeli o ad altri enti della RSI. Nel capitolo sull’«Indagine nel settore delle assicurazioni» si illustra dettagliatamente la questione di polizze-vita non liquidate ai legittimi beneficiari. Non è stata condotta un’indagine sistematica sull’eventuale presenza nei musei pubblici e privati di opere d’arte asportate a ebrei. La Commissione interministeriale per il recupero delle opere d’arte ha assicurato che di tale eventualità non vi è alcuna attestazione nella propria documentazione («archivio Siviero»). Oltre agli auspicati approfondimenti rimangono da accertare due situazioni particolari: quella dei depositi presso la Cassa depositi e prestiti, «non reclamati» da ebrei, o loro eredi, deportati o emigrati e quella del risparmio postale. In stretta aderenza con quanto sopra posto in evidenza, sensibile altresì alla necessità di dare una continuità ed una prosecuzione futura al proprio lavoro, la Commissione auspica che il Governo e, anche attraverso di esso, organismi pubblici e privati forniscano ulteriori contributi conoscitivi alla vicenda delle spoliazioni e al significato storico e morale che essa ha avuto. La Commissione raccomanda in particolare: a) In materia di archivi 1. Che l’Archivio costituito presso la Commissione venga conservato unitariamente presso l’Archivio centrale dello Stato e posto celermente in consultazione favorendone quanto più possibile l’accesso agli interessati e agli studiosi. 2. Che le Soprintendenze archivistiche curino che i responsabili degli Archivi pubblici e privati evitino di scartare documentazione concernente aspetti anche minori o semplicemente amministrativi della persecuzione degli ebrei o documentazione concernente altre minoranze anche se non perseguitate, favorendone la consultazione nello spirito delle nuove norme sulla protezione dei dati personali. b) In materia di ricerche Premesso che la Commissione ha cercato di fornire un quadro conoscitivo ampio e notevolmente articolato, resta sempre augurabile arric210

chire questo quadro approfondendo singoli settori di interesse nel solco e utilizzando le piste di ricerca già aperte dalla Commissione. Si raccomanda in particolare: 1. Che il Governo affidi ad un ufficio della Presidenza del Consiglio l’incarico di dare continuità al lavoro della Commissione: – raccogliendo documenti, corrispondenza e quanto perverrà ancora all’attenzione della Commissione dopo che la stessa avrà ufficialmente chiuso i propri lavori; – mantenendo i rapporti con le amministrazioni dello Stato e con gli organismi pubblici e privati già a suo tempo interessati al lavoro della Commissione per integrare le informazioni acquisite (pubbliche amministrazioni, banche, assicurazioni) ovvero attraverso supplementi di indagine per i quali appaiono tuttora necessari taluni approfondimenti (risarcimento danni di guerra, risparmio postale e depositi presso la Cassa depositi e prestiti, investimenti azionari); – promovendo una indagine più circoscritta su quanto è accaduto ai beni degli ebrei nelle varie regioni dell’area mediterranea che tra il 1938 e il 1943 erano sotto il controllo italiano. c) In materia di risarcimenti individuali 1. Che il Governo, anche alla luce delle risultanze emerse dal lavoro della Commissione e secondo modalità che riterrà più opportune, renda sollecitamente possibili i risarcimenti individuali alle vittime di sequestri, confische e furti avvenuti negli anni 1938-1945 e nell’ambito della persecuzione antiebraica. E ciò in collegamento con i beneficiari aventi titolo e gli organismi che li rappresentano. d) In materia di conservazione della memoria e di promozione educativa 1. Che le istituzioni pubbliche e private operanti nel settore culturale e scientifico sviluppino la ricerca storica sulla persecuzione antiebraica fascista e nazista in Italia; 2. Che il Governo, avvalendosi anche di strutture pubbliche e private già operanti in questo campo: – sostenga esperienze didattiche e divulgative su tale tema ampliando questi interventi ai temi del genocidio e del razzismo dell’età contemporanea; – sostenga tutte le iniziative che, anche attraverso la conservazione della memoria delle vittime della Shoà in Italia, operano per creare una coscienza civile ed una attitudine permanente e consapevole al rispetto dei diritti personali e sociali.

Indici

Indice dei nomi*

Alfieri, Dino, 64, 123. Almagià, Roberto, 89. Almirante, Giorgio, 64. Ansaldo, Giovanni, 102. Anselmi, Tina, 159-160. Arias, Emilio, 133-134. Arias, Gino, 18, 90. Arias, Roberto, 133-134. Ascarelli, Tullio, 89. Ascoli, Alberto, 90. Ascoli, Amelia, 134. Ascoli, Guido, 89. Ascoli, Maurizio, 90. Azzariti, Gaetano, 75. Bachi, Riccardo, 90. Bachi, Roberto, 90. Balloni, Federica, 103. Beck, Jósef, 103. Belisha, Hore, 103. Biggini, Carlo Alberto, 130. Bittanti-Battisti, Ernesta, 84. Blum, Léon, 44, 103. Bocchini, Arturo, 105. Bon, Silva, 67, 94.

Bonaventura, Enzo, 89, 92. Bosshammer, Friedrich, 141, 154. Bottai, Giuseppe, 60, 64, 69-70, 90. Buffarini Guidi, Glauco, 131. Buffarini Guidi, Guido, 63, 65, 93, 105, 113, 129-131, 142, 154. Burgio, Alberto, 5. Camis, Mario, 90. Cammeo, Federico, 89. Cantoni, Raffaele, 110. Capogreco, Carlo Spartaco, 106, 108. Carlo Alberto di Savoia, 10. Castelnuovo-Tedesco, Mario, 92. Catalan, Tullia, 12. Cattaneo, Carlo, 4. Cavaglion, Alberto, 12. Cavarocchi, Francesca, 67. Chiurco, Giorgio Alberto, 33-35. Churchill, Winston, 103. Ciano, famiglia, 102. Ciano, Galeazzo, 79, 98, 122-123. Cipriani, Lidio, 31-32, 34-35. Coda, Maria, 136. Coppola, Francesco, 18-19.

* L’Indice non presenta i nomi contenuti nella Bibliografia ragionata e nell’Appendice.

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Gabrielli, Gianluca, 33, 35-36. Ganapini, Luigi, 127. Ginzburg, Leone, 110. Ginzburg, Natalia, 110. Globocnik, Odilo, 141. Grandi, Dino, 25. Graziani, Alessandro, 89.

Curiel, Riccardo, 16. Cutelli, Stefano Maria, 64. Dalla Costa, Elia, cardinale, 149. Dallera, Emilia, 136. D’Ancona, Paolo, 89. Dannecker, Theo, 141. De Benedetti, Santorre, 89. De Felice, Renzo, 3, 125, 131-132. Del Boca, Angelo, 36. Del Vecchio, Ettore, 89. Del Vecchio, Giorgio, 89. Del Vecchio, Gustavo, 90. Di Porto, Valerio, 77. Donati, Benvenuto, 89. Donati, Mario, 90. Dreyfus, Alfred, 6, 16, 18. Drumont, Edouard, 18.

Harster, Wilhelm, 139. Herlitzka, Amedeo, 90. Herzl, Theodor, 15-16. Himmler, Heinrich, 26, 123-125, 139, 146. Hitler, Adolf, 30, 102, 110. Hoess, Rudolf, 154. Hofer, Franz, 140. Interlandi, Telesio, 52, 57, 64. Ipsen, Carl, 28.

Eden, Anthony, 103. Eichmann, Adolf, 141. Eisenstein, Maria, 109. Enriques, Federico, 89. Evola, Julius, 47-48, 59.

Kappler, Herbert, 141. Klinkhammer, Lutz, 139. Korherr, Richard, 25-26. Labanca, Nicola, 36. Landra, Guido, 63. Lattes, Dante, 16. Le Pera, Antonio, 65. Levi, Alessandro, 89. Levi, Beppo, 89. Levi, Fabio, 67, 94. Levi, Giuseppe, 90. Levi, Mario Attilio, 89. Levi, Primo, 80, 138, 146, 161. Levi, Primo, l’Italico, 18. Levi Civita, Tullio, 89. Liebmann, Enrico Tullio, 89. Limentani, Ludovico, 89. Liuzzi, Guido, 46. Lombroso, Ugo, 90. Longanesi, Leo, 57. Ludwig, Emil, 21. Luzzatti, Luigi, 8. Luzzatto, Amos, 164. Luzzatto, Gino, 89.

Falco, Giorgio, 89. Falco, Mario, 89. Fanno, Marco, 90. Fano, Gino, 89. Farinacci, Roberto, 49, 98. Federzoni, Luigi, 19. Finzi, Emilio, 89. Finzi, Marcello, 89. Finzi, Roberto, 92. Fishman, Daniel, 87. Foà, Bruno, 90. Foà, Carlo, 90. Foa, Vittorio, 83. Formiggini, maestro, 88. Formiggini, Angelo, 84. Forti, Ugo, 89. Franco, Enrico Emilio, 90. Fubini, Guido, 12, 89, 91. Fubini, Mario, 89. Fubini, Renzo, 90. Fusina, Matteo, 133.

216

Maccari, Mino, 57. Maglione, Luigi, cardinale, 123. Maiocchi, Roberto, 29, 38. Malaparte, Curzio (pseud. di Curzio Suckert), 122. Maroni, Arturo, 89. Matteotti, Giacomo, 52. Maurogonato, Isacco, 8. Mazzamuto, Salvatore, 163. Miccoli, Giovanni, 6, 96-97. Milano, Attilio, 4. Minghetti, Marco, 8. Momigliano, Arnaldo, 7, 89, 92. Momigliano, Attilio, 89. Momigliano, Eucardio, 6, 162. Mondaini, Gennaro, 37. Mondolfo, Rodolfo, 89, 92. Morel, Giuliana, in Baquis, 136. Mortara, Giorgio, 90. Musatti, Cesare, 89. Mussolini, Benito, 21, 25-26, 40-42, 45, 49, 52, 58, 60, 68, 73, 78-79, 82, 98, 103-104, 110, 118, 121, 123124, 127, 131.

Pirelli, Alberto, 122-123. Pisa, Vittorio, 82. Poliakov, Léon, 106. Pontecorvo, Bruno, 91. Preziosi, Giovanni, 21, 47-50, 52, 59, 103, 128, 130-131. Racah, Giulio, 89. Rainer, Friedrich, 140. Rattazzi, Urbano, 12-13. Ravà, Adolfo, 89. Ravà, Renzo, 89. Ravenna, Ettore, 90. Revelli, Nuto, 122. Rieti, Vittorio, 92. Romanini, Alfredo, 53. Roosevelt, Franklin Delano, 50, 103. Rosenberg, Alfred, 124. Rossi, Bruno, 89. Sacerdote, Cesare, 90. Sacerdoti, Giancarlo, 88. Sarfatti, Michele, 4, 65, 67. Segre, Beniamino, 89. Segre, Emilio, 89, 91. Servadio, Emilio, 92. Sonnino, Sidney, 8. Spengler, Oswald, 26. Starace, Achille, 90.

Nathan, Ernesto, 8. Nelli, Guido, 90. Nissim Momigliano, Luciana, 80-81. Onofri, Nazario Sauro, 93. Orano, Paolo, 19, 42-47, 54. Oriani, Alfredo, 19. Ovazza, Ettore, 44, 46-47.

Tagliacozzo, Mario, 81. Tedesco, Giorgio, 89. Terni, Tullio, 90. Terracini, Alessandro, 89, 91. Terracini, Benedetto, 89. Toscano, Mario, 9, 152, 155. Treves, Renato, 92.

Pacifici, Adolfo, 17. Paggi, Mario, 110. Pasqualigo, Francesco, 8. Pende, Nicola, 29-30. Piazza, Francesco, 7. Pincherle, Alberto, 89. Pincherle, Bruno, 110. Pincherle, Maurizio, 90. Pio XI, papa, 96, 98-100. Pio XII, papa, 122, 149. Pirandello, Luigi, 52.

Violante, Luciano, 78. Vitale, Massimo Adolfo, 154. Viterbo, Carlo Alberto, 110. Vitta, Cino, 89. Vittorio Emanuele III, re d’Italia, 78. Voigt, Klaus, 69, 100, 155. Volli, Ugo, 110.

217

Volterra, Edgardo, 110. Volterra, Edoardo, 89. Volterra, Enrico, 91. Volterra, Ezio, 110.

Washington, Giorgio (George), 50. Zamboni, Guelfo, console, 119. Zamorani, Vittore, 90.

Indice del volume

1. Ebrei e antisemitismo tra emancipazione, nazionalismo e fascismo

3

2. Razzismo anticoloniale e antisemitismo

22

3. La campagna contro gli ebrei. Prima fase: la propaganda

40

4. La campagna contro gli ebrei. Seconda fase: dal censimento alle leggi razziste

58

5. Le leggi contro gli ebrei e la società italiana

80

6. La guerra e l’ulteriore progressione dell’emarginazione degli ebrei

102

7. Continuità e salto di qualità: l’occupazione tedesca e la Repubblica sociale italiana

126

8. Il bilancio della tragedia. Gli ebrei in Italia dopo il 1945

151

219

Bibliografia ragionata

167

1. Per la storia degli ebrei in Italia, p. 167 - 2. Alle origini di una questione razziale in Italia, p. 168 - 3. Il fascismo e gli ebrei dalle origini agli anni Trenta, p. 170 - 4. L’impero, la lotta al meticciato e le prime leggi razziste, p. 171 - 5. La campagna contro gli ebrei, p. 172 - 6. Le leggi contro gli ebrei. La prima fase della persecuzione (1938-1943), p. 173 - 7. L’occupazione tedesca, la Repubblica sociale italiana e la «soluzione finale» in Italia, p. 178 - 8. La memorialistica ebraica, p. 182 - 9. Dopo il 1945, p. 183

Appendice

185

1. Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del Fascismo del 6-7 ottobre 1938, p. 187 2a. Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista (RDL 5 settembre 1938-XVI, n. 1390), p. 190 2b. Integrazione e coordinamento in unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella scuola italiana (RDL 15 novembre 1938-XVII, n. 1779), p. 191 3. Provvedimenti per la difesa della razza italiana (RDL 17 novembre 1938-XVII, n. 1728), p. 193 4. Norme relative ai limiti di proprietà immobiliare e di attività industriale e commerciale per i cittadini italiani di razza ebraica (RDL 9 febbraio 1939-XVII, n. 126), p. 198 5. Ordinanza di polizia del 1° dicembre 1943 (o 30 novembre), p. 201 6. Decreto legislativo del duce (4 gennaio 1944-XXII, n. 2). Nuove disposizioni concernenti i beni posseduti dai cittadini di razza ebraica, p. 202 7. Considerazioni conclusive della Commissione per la ricostruzione delle vicende relative all’acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati (aprile 2001), p. 205

Indice dei nomi

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