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Italian Pages 470 [421] Year 2011
Mario Avagliano Marco Palmieri
Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia Diari e lettere 1938-1945
Einaudi
Degli stessi autori nel catalogo Einaudi Gli internati militari italiani
© 2011 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino In copertina: provvedimenti legislativi persecutori nei confronti degli ebrei, da «La Difesa della razza», II, 20 novembre 1938, n. 2, p. 24 (elaborazione grafica). Progetto grafico: 46xy.
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Prefazione di Michele Sarfatti
Questa antologia composta da Mario Avagliano e Marco Palmieri ci propone la cronaca della persecuzione antiebraica nell’Italia fascista dal 1938 al 1945 cosí come fu registrata e raccontata giorno per giorno dagli ebrei stessi. I due curatori hanno setacciato archivi pubblici e privati e ricercato pubblicazioni sovente esaurite e dimenticate per ricostruire e consegnarci una storia corale di quell’evento, tramite le parole di chi ne fu vittima, fissate sul momento in forma di lettera o diario. I brani sono raggruppati per tema. La forma del racconto corale ha il pregio di restituirci un quadro variegato e vicino alla realtà. La raccolta ragionata delle voci e dei pensieri coevi dei perseguitati si affianca alla saggistica storica sulla persecuzione1, senza né sostituirla, né entrare in conflitto, né subordinarsi: all’una il compito di delineare le vicende generali svoltesi, all’altra quello di dare la parola a chi di esse fu oggetto. L’avvicendarsi frastagliato dei brani ci comunica la variegata caratterizzazione dei loro autori: a scrivere e comunicare sono uomini e donne, colti e poco colti, fascisti (ormai in disarmo) e antifascisti, ebrei italiani, ebrei stranieri giunti nella penisola da decenni o da poche settimane, persone allontanatesi dall’ebraismo e talora battezzatesi ma egualmente classificate dal razzismo biologico fascista «appartenenti alla razza ebraica». Il riservare ogni spazio (salvo rare e interessanti eccezioni nell’Introduzione) agli scritti dei soli perseguitati mette in luce appunto il «punto di vista» delle vittime, non perché esse siano le sole titolate a raccontare, ché la storia di ogni oppressione è composta anche dal pensiero e dall’azione dei persecutori, dei disinteressantisi e dei solidali, bensí perché esse sono meglio di altri in grado di precisare contenuti, modalità, effetti, conseguenze. Infine il pubblicare solo testi messi per iscritto durante i fatti (o, in limitati casi, a brevissima distanza) ci offre conoscenza di come questi
venivano percepiti, di come i perseguitati decifravano, interpretavano e prefiguravano l’incessante deterioramento della loro condizione. Sotto tutti questi aspetti il lavoro di Avagliano e Palmieri è il primo del genere2 e il risultato qui offertoci è ben meritevole di essere letto, considerato, meditato. L’antologia di voci ebraiche prende il via con le prime riflessioni nell’imminenza dell’introduzione delle leggi antiebraiche e si conclude con la corrispondenza scambiata subito dopo la Liberazione. I brani descrivono in diretta tutti i momenti salienti dell’antisemitismo di Stato italiano, dalla fase della «persecuzione dei diritti degli ebrei» (1938-43) a quella della «persecuzione delle vite» (1943-45), con la sola eccezione del capitolo piú duro: quello dell’uccisione generalizzata ad Auschwitz-Birkenau, o – per pochi – della sopravvivenza nel lager fino alla Liberazione. Come è noto, la fase finale del processo di sterminio non contemplava l’utilizzo di carta e penna da parte delle vittime. Potremmo quasi dire che questa privazione fu una sofferenza aggiuntiva per i membri del popolo del libro: ovunque possibile essi scrissero e annotarono, finanche in montagna da partigiani (ne è esempio il diario di Emanuele Artom, giunto fino a noi nonostante la sua uccisione)3. Ciò che i deportati vissero e sentirono dopo l’ultima possibilità di gettare biglietti dal treno in territorio italiano è stato testimoniato dai pochi sopravvissuti in libri4 e interviste orali, come è il caso dell’«Archivio della Memoria», progetto originale della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea Cdec realizzato da Marcello Pezzetti e Liliana Picciotto5 . Di epoca ovviamente postbellica sono anche le memorie rilasciate in occasione di istanze risarcitorie o assistenziali6. Ancora non studiata è invece la serie documentaria – questa volta coeva – degli interrogatori dei militari svizzeri ai fuggiaschi che riuscivano a superare la rete confinaria italo-elvetica e a non essere immediatamente respinti nelle mani di fascisti e nazisti. Dobbiamo considerare che i diari e le lettere accuratamente selezionati da Avagliano e Palmieri non vennero scritti per la storia: i loro autori non prevedevano di divenire nostre guide alla conoscenza dei fatti, del loro vivere e morire. Ad esempio proprio la prospettiva della morte è generalmente assente dalle narrazioni, anche quando è presente ai narratori. E la descrizione dei singoli episodi può risultarci troppo contratta.
Peraltro gli ebrei qui antologizzati si esprimono sempre su ciò che sta accadendo, sia quando lo esplicitano, sia quando lo alludono o lo tacciono. Talora le loro parole possono sembrare troppo prive di volontà oppositoria; niente di strano in ciò: il fatto è che l’inizio di una persecuzione statale segnala di per sé al perseguitato che non lo si è potuto o voluto o saputo difendere, cioè che è solo e da solo deve contenere l’avversario, anche con l’autoumiliazione. Leggendo la successione dei brani è opportuno tenere a mente l’ovvia ma talora dimenticata differenza che intercorre tra noi e loro, gli autori dei testi. Gli ebrei all’inizio del 1938 non potevano ipotizzare che il loro Paese potesse volerli espellere definitivamente, né nel 1942 che si fosse in procinto di attivare campi di internamento e lavoro obbligatorio, né nella prima estate del 1943 che fosse imminente il loro arresto generalizzato per la deportazione. Primo Levi ha avvertito che le vittime non riuscirono ad «antivedere il futuro», poiché «le deduzioni inquietanti hanno vita difficile»7 . Vi sono almeno due caratteristiche che accomunano pressoché tutti gli autori dei diari e delle lettere qui raccolti. Si sentivano normalmente italiani, non si sentivano colpevoli. Da ciò lo smarrimento, la difficoltà di impostare una risposta, la ricerca spasmodica di una ragione, e allo stesso tempo le scelte estreme del suicidio, il concentrarsi sulle cose da fare, l’impegno in una tranquillamente anomala continuità della vita. Come detto, questo bel volume propone alla nostra attenzione solo testi scritti dalle vittime. Non spetta ovviamente a me aggiungerne di altri. Posso invece concludere queste mie considerazioni riportando due brevi stralci dai diari e dalle lettere di italiani non ebrei, nessuno dei quali necessita particolari spiegazioni preliminari. Dopo il divieto di adozione nelle scuole di manuali scritti da ebrei, il direttore di una casa editrice scrisse a un corrispondente: «Non pensi male di me se mi getto come uno sciacallo su questo campo cosparso di cadaveri che è la scuola italiana. Ma so che tutti gli altri editori si stanno muovendo visto che l’anno venturo ci sarà un grande campo da sfruttare»8. In quello stesso 1938 la solidale Ernesta Bittanti Battisti annotò: «Un professore uscito dall’adunanza di un Istituto di alta cultura, in cui si erano in quel giorno cancellati i nomi di illustri israeliti ebbe a dire: “eppure eravamo tutti contrari”. Alla nostra
osservazione del perché avessero ciò fatto, ebbe a rispondere: “siamo tutti pecore” (cosí ridotti dopo sedici anni di regime assolutista). In alcune facoltà universitarie i rettori e presidi, come sommo di coraggio, ebbero a dire parole di saluto e “di rispetto” ai colleghi insigni “uscenti” (ma realmente cacciati col decreto). Un mio tentativo di organizzare una protesta fra i professori non ha fatto un sol passo»9. A mio parere, l’invito di Primo Levi a meditare su ciò che è stato vale non solo per ciò che accadde ad Auschwitz, ma per tutto ciò che è documentato da questi due brani e soprattutto da quelli riuniti da Avagliano e Palmieri nelle pagine seguenti. 1
Mi sia consentito citare M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, nuova ed., Einaudi, Torino 2007; Id., Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Zamorani, Torino 1994. 2 Alcuni studiosi hanno pubblicato raccolte di lettere scritte da ebrei italiani in specifiche situazioni: I. N. Orvieto, Lettere a Mussolini: gli ebrei italiani e le leggi antiebraiche, in «La rassegna mensile di Israel», LXIX, gennaio-aprile 2003, n. 1, pp. 321-46; P. Frandini, Ebreo tu non esisti! Le vittime delle leggi razziali scrivono a Mussolini, Manni, San Cesario di Lecce 2007; Liliana Picciotto Fargion, Ultime lettere di ebrei deportati dall’Italia, in Anna Lisa Carlotti (a cura di), Italia 1939-1945. Storia e memoria, Vita e Pensiero, Milano 1996, pp. 463-78; Id., Last letters of Jews deported from Italy,in Daniel Carpi jubilee volume. A collection of studies in the history of the jewish people presented to Daniel Carpi upon his 70th birthday by his colleagues and students, a cura di D. Porat, M. Rozen e A. Shapira, Tel Aviv University, Tel Aviv 1996, pp. 209-24. 3 E. Artom, Diari di un partigiano ebreo. Gennaio 1940 - febbraio 1944, a cura di G. Schwarz, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 4 Cfr. A. Bravo - D. Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, Franco Angeli, Consiglio regionale del Piemonte - Aned, Milano 1994; G. Vaglio (a cura di), Le parole e la memoria. La memorialistica della deportazione dall’Italia 19932007, Ega, Torino 2007. 5 Memoria, regia di Ruggero Gabbai, autori Marcello Pezzetti e Liliana Picciotto, Forma International, Italia 1997; M. Pezzetti, Il libro della Shoah
italiana. I racconti di chi è sopravvissuto. Una ricerca del Centro di documentazione ebraica contemporanea, Einaudi, Torino 2009. 6 F. Tagliacozzo, Gli ebrei romani raccontano la «propria» Shoah. Testimonianze e memorie raccolte e organizzate a cura di Raffaella Di Castro, Giuntina, Firenze 2010. 7 P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 134. 8 Lettera di Federico Gentile a Luigi Russo, 26 agosto 1938; in Archivio di Stato di Firenze, Archivio Casa editrice Sansoni, b. 77, fasc. 1; pubblicata in M. Galfrè, Il regime degli editori. Libri, scuola e fascismo, Laterza, RomaBari 2005, pp. 155-56. 9 E. Bittanti Battisti, Israel-Antisrael (Diario 1938-1943), Manfrini, Trento 19862 , pp. 62-65.
Introduzione di Mario Avagliano e Marco Palmieri
Come è potuto accadere che la minoranza ebraica italiana, profondamente radicata nella storia del Paese, protagonista del Risorgimento e integrata nella vita civile e produttiva, abbia subíto la bufera razziale – termine già utilizzato all’epoca e molto frequente nelle lettere e nei diari delle vittime – per sette lunghi anni? E come reagirono gli ebrei in Italia, sotto l’escalation di persecuzioni a cui furono sottoposti dal regime fascista, prima di sua iniziativa e poi in combutta o al servizio dell’alleato nazista? La persecuzione degli ebrei in Italia ebbe ufficialmente inizio nel settembre del 1938 quando, dopo una virulenta campagna di propaganda sui giornali, il regime fascista introdusse l’antisemitismo nell’ordinamento giuridico italiano, promulgando le cosiddette leggi razziali. Esse privarono gli ebrei dei diritti civili e dell’uguaglianza con gli altri cittadini in tutti i campi della vita sociale, economica e professionale, creando un «regime di segregazione» (Primo Levi)1. Questa persecuzione dei diritti – giuridica, materiale e morale – fu preludio a quella delle vite, avviata dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando autorità, militari e civili della Repubblica sociale italiana costituita da Mussolini a Salò collaborarono attivamente alla cattura e alla deportazione degli ebrei, finalizzata al loro sterminio sistematico nell’ambito della «soluzione finale» nazista2. Nel dopoguerra questa lunga e articolata vicenda persecutoria è stata spesso ridotta dalla storiografia italiana ad una piú limitata e per certi versi giustificabile collaborazione forzata del regime fascista con i tedeschi, alleati prima, occupanti di fatto poi. L’Italia della persecuzione antiebraica, cioè, è stata considerata «un Paese senza responsabilità»3, perché i provvedimenti varati a partire dal 1938 sarebbero stati applicati con scarso rigore e senza il consenso popolare, mentre il Paese sarebbe rimasto estraneo – secondo la
nota espressione di Renzo De Felice – al «cono d’ombra dell’Olocausto»4. In questo modo la drammatica persecuzione subita dagli ebrei in Italia tra il 1938 e il 1945 è stata declassata da – citando Michele Sarfatti – «parte integrante e irrinunciabile della vicenda storica nazionale»5 a pagina d’appendice di una storia altrui, la shoah, che non avrebbe riguardato l’Italia se non marginalmente e di riflesso rispetto ai tremendi crimini nazisti, di cui gli italiani stessi furono vittime. «I tedeschi, – come ha scritto il perseguitato politico e razziale Vittorio Foa, – sono cosí diventati una grande risorsa per la tranquillità della nostra coscienza»6, tant’è vero che – come ha ben sintetizzato il sopravvissuto Nedo Fiano – «Gli italiani parlano con disinvoltura delle colpe naziste e non parlano delle colpe italiane. Vogliono l’assoluzione. Invece devono accettare quella che è una responsabilità storica inoppugnabile. Io sono stato denunciato da italiani, imprigionato da italiani, messo in un campo di italiani e poi consegnato ai tedeschi per andare a morire»7. La verità è che l’Italia e gli italiani intrapresero autonomamente la persecuzione degli ebrei e la portarono avanti con sistematicità, determinazione ed efficacia. E se il tributo di vite umane tra la fine del 1943 e la primavera del 1945 fa parte della storia piú generale della shoah, la persecuzione subita dagli ebrei tra il 1938 e il 1943, fatta di umiliazioni, segregazione, marginalizzazione sociale, economica e politica, cacciata dalle scuole e dai posti di lavoro, razzia di beni e proprietà, sofferenze e suicidi, resta una macchia specifica sulla coscienza e sulla storia italiana, su cui troppo spesso e troppo a lungo si è preferito soprassedere8. Solo negli ultimi anni il recupero e lo studio delle fonti sulla persecuzione hanno ripreso vigore, anche grazie al rinnovato interesse che si è manifestato con l’istituzione del Giorno della Memoria nel 2000. Il presente lavoro si inserisce in questo filone di ritorno alla memoria – e soprattutto alle fonti storiche – ricorrendo a documenti poco esplorati, quali le lettere e i diari scritti in quel periodo storico da coloro che subirono le leggi razziali, gli arresti e la deportazione, pagando in molti casi anche con la vita. Dopo la pregevole pubblicazione delle testimonianze dei sopravvissuti alla deportazione realizzata da Marcello Pezzetti e dal Cdec (Il libro della Shoah italiana), questo libro vuole quindi fornire un altro tassello di conoscenza
di quelle tragiche vicende, ampliando lo sguardo anche al periodo precedente della persecuzione dei diritti (1938-43). Ne viene fuori un racconto a piú voci, che restituisce la terribile storia della persecuzione narrata in presa diretta dagli stessi protagonisti e permette di comprendere esperienze e drammi, stati d’animo e dolori, preoccupazioni e conseguenze pratiche, riflessioni e giudizi degli ebrei italiani e stranieri residenti in Italia, al riparo dai filtri e dalle mediazioni della memoria postuma e delle ricostruzioni successive. 1. La campagna di propaganda antisemita e i primi provvedimenti di discriminazione razziale. Negli anni Trenta in Italia risiedevano tra i 40 e i 50 mila ebrei italiani e, alla vigilia dell’emanazione delle leggi razziali, circa 10 mila ebrei stranieri profughi dalla Germania (almeno un terzo) e dall’Europa centro-orientale9. La loro presenza, limitata a meno dell’1 per mille della popolazione complessiva, era concentrata quasi esclusivamente nelle grandi città dell’Italia centro-settentrionale. Le maggiori comunità erano quelle di Trieste, Livorno, Roma, Milano, Venezia, Torino, Ancona, Firenze, Genova e Ferrara e i loro esponenti erano per lo piú molto assimilati e ben integrati nel tessuto sociale, senza che questo processo avesse dato storicamente vita a particolari tensioni o resistenze. Un gran numero di ebrei, oltre che al Risorgimento, aveva preso parte alle guerre coloniali e alla Prima guerra mondiale. In numero non trascurabile, nel corso degli anni, si erano avute abiure, dissociazioni o comunque allontanamenti dalla religione. Frequenti e numerosi erano i matrimoni misti. Anche nei confronti del fascismo – che inizialmente non si era caratterizzato come movimento antisemita, a differenza degli altri movimenti di destra nati nel resto d’Europa – l’atteggiamento degli ebrei fu in tutto e per tutto simile a quello degli altri italiani: in taluni casi di consenso e adesione convinta, in altri di partecipazione per necessità, opportunismo e quieto vivere, in altri ancora di ferma opposizione10. In Italia dunque non esisteva una questione ebraica e l’antisemitismo, nei primi quindici anni del regime mussoliniano, era rimasto confinato all’interno di cerchie ristrette di intellettuali e gruppi di pressione e di interesse.
Il 1938 fu un anno cruciale per gli ebrei di tutta Europa. Alla sua vigilia solo la Germania nazista aveva una legislazione antiebraica, mentre nell’estate del 1939 le misure persecutorie antisemite erano entrate nell’ordinamento giuridico di molti paesi: Italia, Romania, Ungheria, Slovacchia, Polonia, oltre all’Austria annessa alla Germania. In Italia le leggi razziali furono varate in settembre, anticipate da una campagna di propaganda antisemita sui giornali. Gli attacchi si moltiplicarono rapidamente e riguardarono, anche sul piano personale, industriali, finanzieri, avvocati, medici, giornalisti, ragionieri, artigiani, commercianti, artisti, attori, sportivi e cosí via, sollevando il tema della grande penetrazione e influenza ebraica nell’economia, nelle professioni, nella società e nella cultura. Grande risalto venne dato anche alle posizioni filoinglesi del sionismo internazionale, insinuando il sospetto che gli ebrei fossero portatori di antipatriottismo e antifascismo. Questa aggressione – come man mano percepirono anche le vittime – era funzionale a far «da preludio e pretesto – paventa una lettera di quei giorni – a fatti ben piú gravi»11, tramite «falsi assunti» per far calare «un bandone di separazione – è annotato in un diario dell’estate del ’38 – per cui ci si sente a disagio, non tanto per il presente, in cui ancora l’opinione pubblica non è corrosa, ma per il pensiero di ciò che sarà, quando direttive, stampa e metodi di regime avranno gettato tanto odio e tanta malafede, sí da arroventare e mettere a fuoco»12. In questo clima esacerbato, uno dei primi atti formali dell’antisemitismo di Stato italiano fu l’Informazione diplomatica n. 14 del 16 febbraio 1938, che introdusse un pericoloso ragionamento: «Il Governo fascista si riserva […] di vegliare sull’attività degli ebrei di recente giunti nel nostro paese e di fare in maniera che la parte degli ebrei nella vita d’insieme della Nazione non sia sproporzionata ai meriti intrinsechi individuali ed all’importanza numerica della loro comunità»13. Cinque mesi piú tardi il dado dell’antisemitismo fu definitivamente tratto quando su «Il Giornale d’Italia» del 14 luglio (datato 15), e il giorno seguente sugli altri giornali, fu pubblicato il documento non firmato intitolato Il fascismo e i problemi della razza, meglio noto come Manifesto della razza, presentato come opera di un gruppo di studiosi sotto l’egida del Minculpop, i cui nomi furono rivelati il 25 luglio da un comunicato del
segretario del Pnf Achille Starace che impegnava il partito a sostenere le tesi razziste14. La «nota, – come la chiama lo storico Luzzatto in una lettera del mese seguente, – per cui la guerra [agli ebrei] vi era dichiarata ufficialmente ed in forma da non lasciare molte illusioni»15, era composta da dieci punti e il nono, dedicato agli ebrei, sottolineava che essi «non appartengono alla razza italiana» e «rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto agli elementi che hanno dato origine agli italiani»16. L’inconsistenza scientifica di questa tesi, come dell’intero documento, era evidente e fece sí che esso non riuscisse a creare il nucleo forte di una teoria italiana della razza, né a gettare le basi di una solida piattaforma politico-ideologica per il razzismo e l’antisemitismo fascista. Tuttavia «quella teorica affermazione di principio, – come si legge in un diario di quei giorni, – che pur oggi ci angustia, non soltanto per i suoi possibili sviluppi pratici ma anche per il suo significato spirituale»17, ebbe un ruolo ed una funzione cruciale, in quanto fu la prima comunicazione ufficiale dell’avvenuta svolta antisemita da parte del regime. Subito dopo, infatti, il ministero dell’Interno ufficializzò la trasformazione dell’Ufficio centrale demografico in Direzione generale per la demografia e la razza (Demorazza), affidata al prefetto Antonio La Pera, che seguí tutta la fase di gestazione e produzione della normativa antisemita. Contemporaneamente fu avviato anche un censimento di stampo razzista al fine di schedare gli ebrei e «le schede, – come si legge in un diario scritto nel 1943, a riprova dell’impegno che l’apparato amministrativo-burocratico dello Stato mise da quel momento nell’opera di persecuzione, – ci raggiunsero anche nei piccoli centri […] dove molti ebrei erano in villeggiatura»18. La loro compilazione fu uno dei primi atti pratici della discriminazione rispetto agli altri italiani. A questa prima ondata di provvedimenti fecero seguito le leggi razziali vere e proprie. Il regio decreto legge del 7 settembre 1938 n. 1381, intitolato Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri, stabilí il divieto per questi ultimi di fissare dimora in Italia, la revoca della cittadinanza italiana a coloro che l’avevano ottenuta dopo il 1° gennaio 1919 e l’espulsione entro sei mesi (misura in parte disattesa per le difficoltà organizzative e burocratiche). Il regio decreto legge del 5 settembre 1938 n.
1390, intitolato Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola italiana, sancí l’esclusione degli ebrei dall’insegnamento e dalla frequentazione delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado (solo successivamente venne consentito agli esclusi di frequentare apposite sezioni speciali o scuole create dalle Comunità, assumendo gli insegnanti dispensati dall’incarico, mentre agli studenti universitari già iscritti all’anno accademico 1937-38 non fuori corso, anche se stranieri, fu data la possibilità di completare gli studi). Un mese piú tardi il quadro generale della persecuzione razziale fu ulteriormente delineato quando, nella notte tra il 6 e il 7 ottobre, il Gran consiglio del fascismo approvò la Dichiarazione sulla razza. Il suo impatto fu devastante per gli ebrei, poiché preannunciò l’espulsione dal Pnf, il divieto di matrimonio misto, il divieto di prestare servizio militare, l’allontanamento dagli impieghi pubblici, il divieto di possedere o dirigere aziende di una certa dimensione e piú di cinquanta ettari di terreno e una speciale regolamentazione per l’accesso alle professioni. Il Gran consiglio del fascismo introdusse anche la cosiddetta discriminazione – un espediente terminologico, considerando che i veri discriminati erano le vittime della persecuzione – per indicare alcune categorie di persone che sarebbero state in parte escluse dalle misure razziali e cioè i nuclei familiari un cui componente fosse caduto in guerra o per la causa fascista o che avesse conseguito particolari benemerenze di ordine militare (volontario, ferito, decorato) e politico (iscritto al Pnf prima del 1923 o subito dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, nel secondo semestre del 1924). Le disposizioni del Gran consiglio trovarono una prima sistematizzazione nel decreto legge del 17 novembre 1938 n. 1728, convertito in legge il 5 gennaio 1939, col titolo Provvedimenti per la difesa della razza italiana19. Dopo aver introdotto la figura giuridica dell’ebreo, la norma ribadiva e aggravava i limiti già previsti dalla Dichiarazione sulla razza, specie alle attività svolte (licenziamento da tutti gli impieghi pubblici e assimilati), alla proprietà privata e alla conduzione di aziende. Gli allontanamenti dal lavoro riguardarono anche i militari, che furono posti in congedo assoluto. Svariati altri limiti e divieti furono stabiliti con successivi provvedimenti, adottati a piú riprese tra la fine del 1938 e il 1942.
Molto gravoso fu l’impatto dei divieti sulle attività professionali per le quali era previsto un albo. Gli ebrei furono di fatto estromessi da innumerevoli attività: medico, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, commercialista, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale. L’esclusione riguardò pure gli enti operanti nel teatro, nella musica, nel cinema e nella radio che, oltre a licenziare tutti i dipendenti ebrei, annullarono i contratti con gli artisti. Pittori e scultori vennero esclusi dalle mostre, le case editrici cessarono di pubblicare opere di autori ebrei (alcuni riuscirono a pubblicare sotto falso nome), la stampa periodica ebraica fu cancellata e agli ebrei fu perfino vietato di aderire ad associazioni culturali e ricreative, di partecipare a competizioni sportive e di entrare nelle biblioteche (se non discriminati). Solo i senatori ebrei, di nomina regia, rimasero in carica. Di particolare efficacia fu la pulizia etnica nelle scuole e nelle Università, dove l’espulsione coinvolse studenti, direttori e maestri di scuola elementare, presidi e professori, docenti universitari, assistenti e lettori, membri di accademie e società scientifiche, mentre molti libri furono messi al bando. Una profonda ferita, mai del tutto rimarginata, venne cosí inferta alla cultura italiana, costringendo diversi illustri docenti all’esilio. Le nuove norme ebbero anche l’effetto di intaccare i patrimoni, annullare i percorsi professionali e precludere molte delle attività svolte dagli ebrei. Parallelamente alla persecuzione, infatti, ebbe inizio la spoliazione dei beni e il regio decreto legge del 9 febbraio 1939 n. 126 stabilí le modalità per l’alienazione dei beni eccedenti rispetto ai limiti imposti, creando un apposito Ente di gestione e liquidazione immobiliare (Egeli)20. 2. Gli ebrei sotto le leggi razziali. Gli ebrei italiani, con poche eccezioni, accolsero con sorpresa ed incredulità l’emanazione delle leggi razziali. «La verità è che sono rimasto sorpreso; non mi aspettavo tanto, e cosí presto», confessa uno di loro in una lettera datata 1° settembre 193821; «mai, mai avrei potuto pensare, – scrive un altro, – che da noi, nella civile e gentile Italia “madre delle genti”, potesse allignare la trista pianta dell’antisemitismo»22; «si è mai visto al mondo, – si
chiede una donna nel luglio del ’38, – la persecuzione mondiale di una razza? Dove andranno? È possibile che si pensi di distruggerli, come si fece degli zulú, dei pellerosse…È possibile che non si tenga conto di ciò che hanno dato agli studi, all’arte, alla patria, alla scienza, alla società, in tutti i paesi? Che Mussolini voglia seguir Hitler anche in quello?»23. La grande maggioranza degli ebrei – come emerge nitidamente dalle lettere e dai diari di quei mesi – rimase fino all’ultimo momento convinta che il regime fascista non avrebbe intrapreso la strada della discriminazione e della persecuzione, o quantomeno che il re sarebbe intervenuto a mitigarne le conseguenze, anche alla luce della profonda integrazione che contraddistingueva gli ebrei italiani e della loro attiva partecipazione al Risorgimento, alla Prima guerra mondiale e alle guerre coloniali. Allo stesso modo non riteneva possibile che i connazionali si sarebbero resi complici di un simile crimine. Significativo in tal senso è che, ancora nel 1939, con l’Europa ormai in procinto di precipitare nella guerra scatenata da Hitler, un ebreo fiorentino a Tel Aviv sottolinei nel suo diario la profonda convinzione che «il popolo italiano è molto diverso dal tedesco, e del fascismo ne ha fin sopra i capelli»24. Solo pochi intellettuali, osservatori attenti della realtà internazionale, molti dei quali antifascisti, ebbero una certa consapevolezza della minaccia incombente, tra cui lo storico Gino Luzzatto, il quale nel gennaio del 1938 cosí si esprime in una lettera: «Io ho sempre dato torto ai miei correligionari, che son sempre vissuti sotto l’ossessione di un ritorno all’ostilità e alle persecuzioni; […]. Ma ora bisognerebbe esser ciechi per non accorgersi che siamo di fronte ad un piano prestabilito e largamente organizzato, che non si propone un semplice scopo di intimidazione, ma mira a risultati concreti»; salvo poi aggiungere di non credere «che si arriverà a delle leggi di eccezione: ma, in una forma o nell’altra, a qualche limitazione si arriverà di certo»25. Anche Vittorio Foa, in una lettera dal carcere scritta all’indomani della pubblicazione del Manifesto sulla razza, invita i genitori a «prepararsi e fortificarsi l’animo agli inevitabili danni materiali», ferma restando l’illusione di credere «che almeno nei primi tempi le restrizioni saranno alquanto inferiori al livello che hanno raggiunto in Germania […] perché i rapporti internazionali non sono ancora definitivamente compromessi, e all’interno
non è mai esistito e non esiste sentimento antisemita altro che in pochi gruppi di intellettuali invidiosi e consapevoli della loro mediocrità»26. Ma poco piú di un mese dopo, in un’altra lettera, fu costretto a constatare che «avevo previsto un certo gradualismo. All’anima del gradualismo!»27. La consapevolezza del pericolo imminente andò via via crescendo e diffondendosi nel corso dell’estate 1938, fino al concreto avvento del «Razzismo in Italia!» – come esclama il diario di un ebreo italiano in Belgio – e alla decisione mussoliniana di «scimmieggiare la Germania»28. «Ormai, – si legge in una lettera del 1° settembre, – la strada razzistica è segnata in modo inequivocabile; e ogni giorno si manifesta piú chiara la decisione di portarla fino in fondo con una energia che lascia pochi dubbi»29. Quando le leggi razziali furono emanate, i toni dei diari e delle lettere cambiarono repentinamente, a conferma che la realtà della persecuzione, ben diversa dalle previsioni, dalle aspettative e dalle ingenue illusioni della vigilia, si palesò in tutta la sua gravità e drammaticità, con reazioni differenti. In alcune lettere non mancarono espressioni di speranza («Faccio quanto posso, – scrive alla sua compagna un giovane andato all’estero in cerca di lavoro e che poi morirà a Mauthausen, – affinché venga presto il momento che potremo cominciare la nostra vita. Malgrado tutte le difficoltà presenti verrà questo momento e spero presto»30), ma i sentimenti predominanti furono lo sbigottimento e il senso di stordimento, causati dal fatto improvviso di dover abbandonare da un giorno all’altro abitudini, progetti, identità, vanificando anni di studio e di lavoro e vedendo a rischio la stessa sopravvivenza economica. Gli ebrei rimasero soli e senza difese, ma soprattutto si trovarono nell’impossibilità di reagire, di protestare, di ribellarsi e furono schiacciati sotto quella che un ebreo veneziano, estromesso dalla sua azienda ed accusato di antifascismo, in una lettera alla moglie dal carcere definisce «una cappa di piombo»31, che provocò, – spiega un’altra lettera-diario, del maggio 1943, indirizzata ai parenti emigrati in Israele, – un «grande […] sbandamento nel seno delle famiglie, nel lavoro, nelle amicizie, nella ricerca spesso inutile di una tranquillità di vivere e di assicurarsi l’avvenire»32. «Mi sembrò, non esagero, di aver perso ogni possibilità di vita», ha ricordato Rita Levi Montalcini33.
La legislazione razziale – come constatano le lettere dell’epoca – fu volta innanzitutto a spezzare i legami con gli altri italiani e a creare un regime di separazione, di «isolamento completo in cui finirò per trovarmi»34, «di impaccio nei movimenti, di sorveglianza piú o meno diretta, di grande incertezza per l’avvenire»35, colpendo in primo luogo settori cruciali dell’integrazione, quali il diritto di cittadinanza, la scuola e i matrimoni misti: «Sono stato a Riva [del Garda] come un ladro, nascondendomi a tutti, e lí mi sono sposato col solo vincolo religioso», scrive un volontario della guerra civile spagnola, già estromesso dalle forze armate, in una lettera ad un ex superiore36; «ho delle tristissime notizie da darti […] il Ministero dell’Interno non ha concesso l’autorizzazione per il nostro matrimonio», si legge invece nella lettera di un marinaio italiano alla fidanzata, ebrea polacca trasferitasi a Bologna per studiare medicina, con la quale aveva avuto una figlia37. Il 1938, quindi, rappresentò per gli ebrei un evento traumatico. Da un giorno all’altro «si trovarono stranieri in patria»38. «Come è possibile, – si legge in una lettera, – che non sia piú ritenuto degno di essere figlio d’Italia?»39. Come fu possibile – si chiesero in molti in quei giorni – l’«assurdo storico e sociale» di considerare «stranieri gli italiani, perché non ariani»?40. Il dolore, e in molti casi l’incredulità per essere stati respinti e traditi dalla patria fu una reazione diffusa. Moltissimi scrissero lettere al re e a Mussolini, appellandosi ai valori risorgimentali, invitandoli a non seguire Hitler su una strada non consona per l’Italia ed evocando la fedeltà alla nazione e al fascismo. Diverse lettere furono indirizzate anche alla moglie del dittatore, Rachele, per lo piú per invocare clemenza41. In nessun caso, però, i toni furono di protesta e di reazione, almeno in pubblico. Tra le poche eccezioni, la riservata personale dell’editore Angelo Fortunato Formiggini, che prima di arrivare all’estremo atto del suicidio inveí contro il duce scrivendogli che «Tutti i tuoi ministri, tutti i tuoi funzionari ti ubbidiscono per non essere defenestrati; ma l’intera nazione si vergogna […]. Il tuo genio proteiforme possa suggerirti la via per rimediare al triste errore. Siimi grato dell’avvertimento. Ti saluto con un grido terribile: Italia! Italia! Italia!»; mentre al re scrisse di aver «pagato con la mia vita la possibilità di farvi sapere che la campagna razzista, inopinatamente scatenatasi sulla nostra Patria, è considerata da tutti un alto tradimento.
Maestà, è proprio vero che non potete piú far nulla per salvare l’Italia? Viva l’Italia!»42. L’atteggiamento remissivo della maggioranza degli ebrei fu dovuto in buona parte alla rassegnazione e alla consapevolezza dell’impossibilità di fare altro. Emblematiche sono le parole scritte da «Israel» in quei giorni dell’autunno del ’38: «Superiori ragioni di Stato che non sta a noi di ricercare o di discutere, avranno reso necessari quei provvedimenti: gli ebrei accettano il sacrificio con forte animo»43. Parole che si ritrovano anche nella corrispondenza degli ebrei. «Ma lasciamo andare queste malinconie, – manda a dire in un biglietto ad un collega lo storico Luzzatto, dopo essere stato messo in condizione di non poter piú proseguire l’attività intellettuale e accademica, – e accontentiamoci che la salute continui ad essere buona»44. «Non rimane, – si legge invece in un diario, – che voltarsi agli onesti e dire loro: sono israelita di religione, italiano di paese, nascita, lingua, ho separato la forma religiosa dalla politica, non ho invaso, perché da non so quanti anni residente in Italia (forse 800 o 900), ho sempre parlato questa mia lingua, ho sempre amato questa mia terra»45. «Non faccio recriminazioni. Né contro chi mi procura questa umiliazione, né contro nessuno», scrive un altro nel giugno del 1940, al momento dell’arresto finalizzato all’internamento, concludendo: «Ora non c’è che sopportarlo ed io per la mia parte prendo il mio peso con tranquillità e serenità, per nulla preoccupato di me e quieto con la mia coscienza non ho fatto alcunché che possa giustificare i provvedimenti che vengono presi contro di me, ma era facile prevedere una sorte che sta nella logica della politica antiebraica corrente»46. Fino all’armistizio dell’8 settembre 1943 – quando la posta in gioco divenne la vita – la maggior parte degli ebrei continuò a perseguire la linea di condotta degli anni e dei mesi precedenti, tesa a dimostrare di essere buoni patrioti e in molti casi anche buoni fascisti. Ciò, come confermano lettere e diari, avvenne in parte per paura di ulteriori conseguenze («Non esporti a recriminazioni», è l’invito contenuto in una lettera47), in parte per l’erronea convinzione o speranza che si trattasse di una tempesta passeggera, in parte ancora per l’illusione che ottemperare alle disposizioni governative senza creare intralcio al regime potesse mitigarne gli effetti e scongiurare guai peggiori. «Non importa, – scrive ad esempio un veterano della Prima
guerra mondiale alla madre, – mi sono detto, siamo soldati come lo eravamo in trincea, e il comandamento è uno solo, “ubbidire”. Come il soldato ubbidisce al Superiore qualunque cosa gli venga comandata, senza commenti, cosí noi, anche se non afferriamo tutto, dobbiamo ubbidire, mantenere la linea diritta di azione e di devozione, e solo pensare che se cosí è vuol dire che cosí deve essere, e tutto accettare quando si tratti del bene d’Italia»48. La grande dignità con cui gli ebrei italiani affrontarono la persecuzione è confermata anche dall’episodio che vide protagonista il generale del genio navale Umberto Pugliese, ebreo alessandrino, che dopo essere stato congedato in seguito alle leggi razziali fu richiamato in servizio nel ’41, dopo l’attacco inglese a Taranto, poiché era il solo in grado di recuperare le navi affondate e chiese in cambio soltanto di poter rivestire la divisa49. Fonte di preoccupazione e panico furono anche le misure sulla revoca della cittadinanza e sull’espulsione degli stranieri, per molti dei quali il provvedimento significava dover rientrare nei paesi dai quali erano fuggiti per scampare alle persecuzioni e alle violenze, specie la Germania. Diversi altri invece erano italiani a tutti gli effetti o perfettamente integrati, «sposati a cittadini italiani e genitori di cittadini italiani, – come annota Vittorio Foa in una lettera del settembre 1938, – che si vedranno separati dalle loro famiglie»50. «Sono un poeta italiano che, per essere nato da madre ebrea, sarò – cosí all’improvviso – tagliato fuori dalla vita del mio paese che ho tanto amato», scrive Umberto Saba in una lettera all’amico poeta Sandro Penna51, avanzando una rivendicazione di italianità e amor di patria che fu comune a molti ebrei italiani i quali si sentirono traditi da quella che – come si legge in molte lettere e diari – «consideravo e considero la mia patria»52. Mentre un altro ebreo tedesco, sposato con una ebrea italiana, cosí si esprime: «Ma oggi il mondo ci è precluso. Siamo soli nello spazio che per noi è venuto freddo, e la sua ricca vastità c’è inaccessibile. Siamo terribilmente soli, espulsi dall’ambiente, gettati nell’incertezza e nell’angoscia dei senza patria, come certe sperdute masse di materia staccate dagli astri e lanciate nel niente. […] Siamo soli – come due ebrei soltanto possono essere soli»53. «Certo, la ferita è profonda», scrive una donna al figlio nel settembre 1938, dopo aver tuttavia premesso che «non è questo puro, purissimo
amore di patria, come di figli per la madre? [...] perché puri, inalterati rimangono i nostri sentimenti di affetto, di devozione, di ammirazione, di gratitudine verso l’Italia e verso chi ne dirige le sorti»54. Quella stessa patria che – si legge in un diario del ’39 – «li torturava e li cacciava […], che li ricompensava chiamandoli nemici», ma «la patria, anche quando la neghi, è sempre patria […], anche quando ti strappi a lei per poter sopravvivere, ti resta dentro, tenace, subdola, insospettata»55. Questo sentimento di amor di patria in molti casi fu talmente forte da superare indenne tutto il periodo della persecuzione e la sua escalation. Ancora alla fine del 1941 Emanuele Artom, futuro partigiano, annota nel suo diario che «ci sentiamo legati alla terra di nascita»56, mentre nel dicembre 1944 Ferruccio Valobra, in procinto di essere fucilato per aver preso parte alla Resistenza, scrive che morire per la patria equivaleva ad essere vissuto «assai»57. La rivendicazione di italianità riguarda anche gli antifascisti della prima ora, come Enzo Sereni, sionista espatriato negli anni Venti, che in una lettera del dicembre del 1942 ringrazia i figli perché le loro lettere «mi hanno portato un po’ dell’odore della patria: per quanto il vento che tira da noi non sempre mi vada a genio», definendo la lingua italiana «tanto bella e tanto a me cara»58. Un’altra conseguenza dell’introduzione dell’antisemitismo di Stato fu l’allontanamento volontario dalla religione e dalle comunità (di fronte al problema scolastico, si legge ad esempio in un diario, «altri ricor[sero] al battesimo per poter far frequentare ai figli le scuole religiose»59), spesso ad opera di coniugi di matrimonio misto nella speranza di preservare il resto della famiglia, specie i figli, dalle restrizioni («Ho deciso, – si legge in una lettera del luglio 1938, – la conversione. Ho il dovere di difendere l’avvenire tuo e dei nostri figli»60; «Qui, – recita un altro scritto, – il dramma che sapete si svolge e si intensifica nel silenzio. Partenze, dispersione di famiglie nei vari continenti, rovine: e anche numerosissime e qualche volta dolorosissime le... sconfessioni, che allontanano in altro modo i figli dai padri. Io penso: è destino, da secoli e secoli: e cosí mi risparmio rancori inutili e forse ingiusti»61). Tra il 1938 e il 1943 si ebbero numerose abiure e dissociazioni da parte di ebrei italiani, anche se non è possibile quantificare quante di queste furono conseguenza diretta delle leggi razziali e quante furono mera formalizzazione di un allontanamento di fatto già avvenuto o
già in atto per i motivi piú vari, che comunque non sempre li mise al riparo dalle accuse dei giornali e della propaganda che li attaccò come «sudici neoconvertiti»62. Di contro vi furono anche espressioni di resistenza: «abbiamo mantenuto la nostra trincea, – è scritto in un diario, – e l’abbiamo difesa con la maggiore dignità possibile, contro tutte le pressioni»63. Tra coloro che abbandonarono la religione e la comunità vi furono diversi fascisti convinti, che tentarono, vanamente, di dimostrare in questo modo la loro presa di distanza da un gruppo ritenuto nemico dell’Italia. Per gli ebrei fascisti le leggi razziali furono accompagnate anche dal dolore e dalla delusione di vedersi respinti dal movimento e dal regime in cui avevano a lungo creduto. «Montata oggi la guardia al Sacrario dei Caduti Fascisti dalle 10 alle 11, per la prima volta, ho contemporaneamente avuto la notifica della mia cessazione di fascista. Ho appreso la notizia in Camicia nera e nello stesso tempo che avevo servito con fede a un’idea quale quella di sentire l’aura dei vecchi fascisti caduti per un movimento che non è piú quello di prima», recita laconicamente un’annotazione su un diario, emblematica di questo stato d’animo64. «Quando poi venne il fascismo, – constata una donna nel dicembre del 1943, di fronte all’inasprimento della legislazione razziale varata dalla Rsi, – a valorizzare la nostra vittoria [nella Prima guerra mondiale N.d.A.], allora ho gioito! Povera ingenua, povera illusa! Non sapevo cosa avrebbe portato il fascismo! Ferventi patrioti come me erano tutti i membri della mia famiglia, tutti i miei parenti ed amici (giudei, come dicono loro). Tutti abbiamo mandato con entusiasmo i nostri figli alla guerra per la grandezza dell’Italia! E poi come siamo stati compensati? L’Italia ci ha rinnegato»65. Le leggi razziali, di contro, ebbero come effetto anche quello di rafforzare il senso di appartenenza degli ebrei alle comunità e la necessità di organizzare in modo autonomo alcuni servizi, a partire – come è definito in una lettera – dal «problema piú importante»66, quello delle scuole, poiché nel giro di poche settimane andavano reperiti e allestiti i locali, censiti gli alunni, assunti gli insegnanti, il tutto con la sola forza dell’autofinanziamento. Da questo impegno scaturí un risultato di straordinaria importanza – assimilabile ad un vero e proprio atto di reazione – con la creazione di ventidue scuole elementari e tredici medie67, che consentirono di far proseguire gli studi ai giovani e ai bambini cacciati
dagli istituti pubblici. La loro esclusione del resto era stato un atto particolarmente odioso e gravoso sulle coscienze dei piú piccoli, poiché «i giovani vogliono una risposta logica e chiara ai loro “perché”» che gli adulti non erano in grado di dare: «Primo giorno di scuola, la vita ricomincia e soprattutto, – si legge in un diario, – come sempre per tutto un mondo, quello dei giovani. Per te no, non ricomincia, ma s’interrompe d’un tratto brutalmente: da oggi sei una esclusa, nessuno deve conoscerti, avvicinarti, amarti»68. «Sorse intanto, – annota un altro genitore nel suo diario, – il difficile problema del parlare ai ragazzi, che sino ad allora erano stati tenuti allo scuro di quanto temevamo, poiché avevamo procurato nascondere loro la gravità del momento per tenerli il piú a lungo possibile lontani da ogni preoccupazione»69. Ma con l’inizio dell’anno scolastico la realtà dell’esclusione fu evidente anche ai piú piccoli: «Oggi è il primo giorno della mia nuova vita di scuola. Andandoci pensavo con rammarico alla mia Maestra e alle compagne che avevo dovuto lasciare»70. Infine, alcuni ebrei reagirono all’umiliazione e allo sconvolgimento sociale, professionale ed economico causato dalle leggi razziali in modo ancora piú estremo, con il suicidio. Furono una trentina coloro che si tolsero la vita a causa della persecuzione – per lo piú stranieri o uomini di mezza età, che videro stroncate le loro carriere e impossibile provvedere all’avvenire dei propri figli – metà dei quali entro il giugno del 1939 e l’altra metà entro il luglio del 194371. Forte fu anche il desiderio di mettere al riparo i propri figli nati da matrimonio misto e cattolici di religione: «Vi lascio. Salvo cosí la mia famiglia. Sarebbe stata la miseria», si legge in uno di questi ultimi scritti72. «Non posso rinunciare, – si legge in un altro messaggio, – a ciò che considero un mio preciso dovere: io debbo dimostrare l’assurdità malvagia dei provvedimenti razziali richiamando l’attenzione sul mio caso. […] Sopprimendo me, affranco la mia diletta famigliola dalle vessazioni che le potrebbero derivare dalla mia presenza: essa ridiventa ariana pura e sarà indisturbata»73. 3. La scelta di emigrare all’estero. Di fronte al dramma dell’improvvisa estromissione dal tessuto sociale, economico, professionale e dai legami umani spesso consolidati da
generazioni, tra la fine del 1938 e lo scoppio della guerra molti ebrei decisero di «far fagotto»74, cioè di lasciare l’Italia, non senza dolore e incertezza, dopo essere riusciti a superare innumerevoli difficoltà per ottenere i passaporti e i visti d’ingresso ed essersi garantiti un minimo punto d’appoggio all’estero, «disposti, – si legge in un diario, – ad abbandonare tutte le nostre cose, spinti dalla preoccupazione che gli avvenimenti precipitassero», costretti a «staccar[si] da tanta massa di ricordi e di affetti» tra cui «la nostra casa, che ci eravamo faticosamente costruita pezzo per pezzo e mi sembrava impossibile il poterla abbandonare insieme con tutto quanto ci circondava»75. Per costoro, alle sofferenze morali e psicologiche si associarono anche quelle pratiche, per la necessità di ricostruirsi una vita all’estero («soffro moltissimo senza di voi, perché oltre a voi mi manca tutto: amici, casa, visi noti», scrive una di loro alla madre76), spesso vivendo – si legge in un altro diario – «alla giornata, senza un programmare per il domani […] mangiandosi cosí, giorno per giorno, questi soldi che si è riusciti a portare qui»77. Questa scelta fu dettata da motivazioni diverse – la ricerca della libertà e della dignità, il desiderio di dare ai propri figli la possibilità di studiare e di frequentare l’università, la volontà di non abbandonare l’esercizio delle proprie attività e professioni78 – ma fu in ogni caso molto sofferta: «Ogni minuto della nostra vita […] è solo un piegarsi nello sforzo di rievocare, un sognare di come sarà fantasticamente bello, quasi inimmaginabile, il momento del ritorno, un illuderci nel dare agli avvenimenti un’interpretazione favorevole», scrive un’emigrata in una lettera79; «non si tratta di scegliere fra una strada buona e una cattiva, ma, fra due cattive, la meno peggio», osserva una donna riflettendo sull’opportunità di emigrare80. In alcuni casi la reazione alla persecuzione si saldò con gli ideali del sionismo. «Mi sembra, – scrive in una lettera di fine ’42 Enzo Sereni dall’Iraq, – che la questione essenziale oggi sia: quale deve essere la nostra azione? Ed io rispondo in modo assolutamente chiaro, poiché soltanto una risposta è possibile: rapida concentrazione di gran parte del popolo d’Israele nella terra d’Israele, nonostante tutto e malgrado tutti»81. Lo stesso Emanuele Artom, del resto, nel 1941 annota nel suo diario che «Colpito dalla lotta antisemita, pensai che se si voleva salvare l’Ebraismo, era
necessario andare in Palestina, poiché ovunque prima o poi saremmo stati perseguitati»82. L’emigrazione in realtà fu un effetto voluto dal regime fascista. Nel febbraio del 1940, infatti, Mussolini comunicò a Dante Almansi, da poco presidente dell’Unione, che gli ebrei italiani avrebbero dovuto lasciare gradualmente ma definitivamente la penisola e solo lo scoppio della guerra rese inattuabile questo piano83. Stando ai dati registrati dalle Comunità, tra il 1938 e il 1941 dall’Italia emigrarono circa 6000 ebrei, di cui la metà italiani84. Considerando che il fenomeno coinvolse prevalentemente gli esponenti dei ceti piú agiati, i giovani in cerca di un futuro migliore e gli intellettuali in fuga dalla morte civile determinata dai provvedimenti razziali, l’effetto dell’emigrazione fu innanzitutto quello di una fuga di cervelli che coinvolse professori, accademici, scienziati e personalità tra le piú in vista dell’Italia di quegli anni (come i docenti Emilio Segrè e Salvador Luria e gli studenti Franco Modigliani e Rita Levi Montalcini, in seguito insigniti di Premio Nobel), nonché del regime stesso (Gino Arias, Giorgio Del Vecchio, Giorgio Mortara, Gino Olivetti, Margherita Sarfatti). Le mete di questo flusso migratorio, oltre che la Palestina, furono l’America Latina, l’Australia e l’America del Nord (gli Usa accolsero circa un terzo dei fuoriusciti) e, in Europa, l’Inghilterra e la Francia. All’estero un certo numero di ebrei aderí alle diverse organizzazioni dei fuorusciti antifascisti, ma neanche in questo caso si organizzarono come gruppo autonomo, bensí singolarmente in base ai rispettivi orientamenti politici. 4. La Seconda guerra mondiale e l’internamento degli ebrei. L’ingresso dell’Italia in guerra aggravò ulteriormente la posizione degli ebrei. La propaganda antisemita si arricchí di nuovi temi, come la responsabilità dell’Internazionale ebraica nello scatenamento del conflitto e la sua influenza negativa sulle scelte politiche dei paesi nemici. Ben presto gli ebrei divennero anche il capro espiatorio delle mancate vittorie lampo e furono accusati di disfattismo e mancata partecipazione allo sforzo bellico. In questo contesto si ebbero i primi episodi di violenza di un certo rilievo, come la diffusione di manifesti e volantini, alcune aggressioni in luoghi
pubblici, il tentativo di incendiare la sinagoga di Torino, la profanazione e distruzione di quelle di Trieste, Ferrara (a cui fa riferimento il diario di Giovanni Ravenna), Spalato e, dopo l’armistizio, Alessandria dove – riferisce una relazione – «il tempio Maggiore e quello piú piccolo [vennero] completamente vuotati di quanto essi contenevano»85. «Ho fatto ciò – confessò l’autore di alcuni manifestini dattilografati contro gli ebrei diffusi a Roma – perché ritengo sia dovere di ogni cittadino combattere con ogni mezzo la razza ebraica, che ha provocato la rovina di varie nazioni, e che potrebbe portare conseguenze al nostro paese con la sua subdola propaganda»86. Ci fu tuttavia anche chi – specie ex combattenti – non ancora rassegnato all’irreversibilità della scelta fascista, vide nell’entrata dell’Italia nel conflitto un’occasione di riscatto e di riabilitazione dalle umiliazioni e dalla segregazione, motivo per cui presentò (inutilmente) richiesta di arruolamento volontario e scrisse lettere al «duce amatissimo» per rivendicare, come già era accaduto nel 1938, il proprio amor di patria e in molti casi anche di essere «sempre lo stesso fascista»87. D’altronde l’Ucii sin dal 3 settembre 1939 aveva rivolto un esposto al governo «invocando che sia consentito agli israeliti italiani che si offrono volontariamente alla Patria di vedere accolto tale supremo desiderio di essere adoperati in ogni campo ed in ogni evenienza»88. All’indomani del discorso di Mussolini del 10 giugno il presidente dell’Ucii Almansi inviò anche una lettera circolare a tutte le comunità: «Quest’Unione, appena conosciuta l’entrata in guerra dell’Italia, ha tenuto a riaffermare al Governo i sentimenti di illimitata devozione degli israeliti italiani, sempre pronti, come in passato, a servire con fedeltà ed onore la Patria»89. Per gli ebrei, però, l’unica conseguenza della guerra fu un nuovo giro di vite nella persecuzione. Il regime, infatti, decise l’internamento degli ebrei stranieri o apolidi e degli ebrei italiani ritenuti pericolosi90. Ma, se l’internamento degli italiani rispondeva alla stessa logica del confino politico (togliere dalla circolazione i potenziali o presunti oppositori del regime) e quello degli stranieri era funzionale ad evitare lo spionaggio e ad impedire il rientro in patria di uomini atti a combattere contro l’Italia, l’internamento degli ebrei in quanto tali non rispondeva per forza di cose a queste motivazioni e in questo senso fu una misura che si andò ad aggiungere a
quelle razziali e persecutorie.«È terribile pensare, – annota ad esempio un’adolescente, – che siamo stati confinati qui perché l’Italia non aveva fiducia in noi, ciò che è ancora piú terribile per me che sono nata in Italia e che ho amato il mio paese come ogni buon cittadino italiano»91. Per effetto di questa decisione furono internati oltre 6000 ebrei stranieri e circa 400 ebrei italiani, pari al 10 per cento dei connazionali assoggettati a questa misura92. Il momento dell’arresto – spesso avvenuto nelle prime ore dopo la dichiarazione di guerra – fu particolarmente umiliante per il ricorso alle manette e alle catene e fu seguito da un periodo di reclusione di qualche settimana nelle carceri, a stretto contatto con i delinquenti comuni, in attesa di essere destinati ad un campo di internamento sempre sotto – si legge in un diario – «la scorta dei carabinieri»93. «Mi viene segnalato in maniera sicura (ed a Genova l’ho potuto constatare io stesso), – scrive il presidente della Delasem Vittorio Valobra il 3 luglio 1940, – che i Reali Carabinieri, i quali prendono in consegna gli emigranti che debbono essere trasferiti nelle località designate, usano le manette e le lunghe catene»94. Svariate testimonianze concordano nel ritenere il periodo di questa «orribile detenzione»95 tra i piú brutti e umilianti, specie nel caso delle donne96. Tant’è vero che, a fronte della detenzione in carcere, l’arrivo «alla mia destinazione [d’internamento]» venne talvolta accolto come momento di «sollievo e riposo», per «una prigionia in ambiente non disgustoso, senza commistione con delinquenti ordinari», «assai ben sopportabile», ben lontani dagli orrori dei diciassette giorni passati in carcere» e in un contesto in cui «si può vivere senza lussi, ma vivere! Lavarsi! Riposare! Cambiarsi!»97. L’internamento fu di due tipi, in base alla presunta pericolosità: l’internamento libero o in località, che consisteva nell’obbligo di residenza in determinate località, come per il confino, e l’internamento in campi di concentramento, che consisteva nella reclusione in apposite strutture riadattate e in qualche caso in veri e propri campi con baracche. Nel settembre del 1940 esistevano una quindicina di campi di concentramento dove erano presenti gli ebrei, assieme ad altre categorie di internati, ma ben presto il numero dei campi arrivò ad una cinquantina, localizzati per lo piú nell’area centro-meridionale della penisola, piú oltre un centinaio di località di internamento libero che, tra il 1942 e il 1943, a seguito del pericolo di
uno sbarco alleato nel sud del paese, vennero individuate soprattutto nelle province del centro-nord. I campi vennero allestiti in strutture disabitate – fabbriche, magazzini, mulini, ex conventi, scuole, cinema, ville di campagna e cosí via – prese in affitto dallo Stato e sottoposte a rapidi e superficiali interventi di ristrutturazione e disinfestazione, arredate per lo piú con mobilio disponibile nei magazzini dell’esercito98. I campi piú importanti furono quello calabrese di Ferramonti Tarsia (che ospitò circa 1500 ebrei stranieri, in una località che una relazione del dopoguerra99 definisce «insalubre e malarica») e quello campano di Campagna100. Questa circostanza si rivelò fortunata poiché dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e lo sbarco a Salerno degli Alleati i circa 200-400 ebrei italiani e i 2200 ebrei stranieri internati in questi campi e nelle altre località del meridione furono liberati dagli anglo-americani, evitando il rischio di finire nelle mani dei nazisti. Questo equivalse per loro ad avere salva la vita ed incise in modo considerevole anche sulla memoria successiva dell’internamento fascista, che spesso fu poco severa, fornendo un congruo contributo al processo di rimozione del fenomeno. Laddove non sopraggiunse la liberazione ad opera degli Alleati, invece, i campi d’internamento si trasformarono in agevoli anticamere della deportazione e della morte, come nel caso di Urbisaglia (Macerata). Un altro aspetto che ha contribuito a rendere il giudizio sull’internamento fascista meno pesante, è stato il comportamento generalmente non violento e ben educato del personale di sorveglianza, «onesto e sobrio di ogni tendenza fascista», come riconosce una lettera di ringraziamento degli internati di Ferramonti101, «pieno di benevolenze» – si legge in un diario – da parte di agenti «bravi e umani»102. «La nostra vita associativa, – conferma un ebreo internato a Campagna, – era assai fiorente. Si tenevano conferenze su vari soggetti, con successiva discussione, e si allestivano rappresentazioni teatrali; avevamo pure una grande biblioteca […] tanto piú che godevamo tutte le libertà»103. «Dato che volevamo anche costruire un tempio […] il Direttore, – riferisce un memoriale da Ferramonti, – metteva subito una Baracca per questo scopo […] e cosí iniziava anche la vita culturale religiosa»104. «Ognuno, – scrive un internato a Campagna nel luglio del 1940, – riceve una branda di ferro, dei materassi nuovi, due lenzuola di tela, un cuscino con copricuscino, una
coperta calda di lana ed un asse per attaccare gli indumenti. Vi faccio notare particolarmente che tutte queste cose sono nuove, non usate. […] mangiamo dove e come vogliamo a nostro piacere […]. Tanto le autorità quanto la popolazione sono molto gentili con noi. La condotta della nostra gente è disciplinata. Alla domenica il 14 corr. abbiamo avuto una partita di foot-ball col Club di Campagna e fatto un goal»105. Tuttavia non mancarono le sofferenze e le difficoltà connesse alla carenza di cibo («molta gente non avevano niente», dice un memoriale su Ferramonti106), alla durezza dei luoghi, alla precarietà degli alloggi, al sovraffollamento delle strutture, alla condivisione forzata degli spazi e del tempo con persone sconosciute delle piú diverse condizioni sociali, oltre ovviamente alla privazione della libertà e alla spersonalizzazione tipica di ogni lager. «Qua, nel campo, nelle baracche, tutti sono uguali, – riporta infatti un internato a Ferramonti, – tutti hanno qua solo una branda di legno e un sacco di paglia, senza riguardo alla posizione sociale che occupavano in libertà. Indifferentemente se dottori, avvocati, maestri, sarti o calzolai, tutti uguali»107. «Ci troviamo, – scrive nel settembre 1941 un ebreo internato nel campo di Isernia, – in circostanze disastrose. Una grande sala di cinema serve da dormitorio di noi tutti 46. Lo spazio fra i letti è appena di 40 cm e a stento passabile. Nessuna possibilità di riscaldamento esiste nella sala in quanto installandovi una stufa l’aria diventerebbe irrespirabile. D’inverno e d’autunno quando dovremo per forza chiudere le porte laterali della sala, rimarremo nel freddo, in un buio quasi notturno e senza ventilazione. A causa del vitto, del clima e dell’acqua 20 per cento di noi sono affetti da una febbrile infezione viscerale di carattere tifoideo e due di noi sono degenti all’ospedale d’Isernia con alta febbre. […] Oltre di queste preoccupanti sofferenze fisiche la strettezza del Campo di Isernia ci porta delle conseguenze psichicamente opprimenti. Proprio adesso, avvicinandosi le feste solenni di Rosh-Hashanah (Capo d’Anno), di Jom-Kippur (giorno d’espiazione) e di Sukkoth (festa della Capanna) non possiamo avere qui una qualsiasi camera adatta alle nostre preghiere»108. Il sentimento prevalente tra gli internati fu quello dell’umiliazione per la perdita della libertà personale, spesso immotivata: «Nel mio lungo viaggio [verso Ferramonti], – ricorda un internato, – una domanda, a cui non
sapevo rispondere, non mi lasciava pace. Questa domanda era: perché sarò internato, perché sono internati già piú d’un migliaio di persone a Ferramonti?»109. «Nessuno, vivente in libertà, può immaginare, – prosegue, – nel vero senso della parola, ciò che significhi essere internato. Essere limitato in una certa area di terreno, chiuso da tutto il resto del mondo, da cui si riceve notizie solo per mezzo delle lettere e da pochi giornali»110. «Il tutto, – annota emblematicamente nel suo diario un ebreo recluso ad Urbisaglia, – è recinto da un muro che costituisce il confine del nostro mondo»111, entro il quale regnava l’inattività forzata a causa della quale «si diventa cosí pigri che, – si legge in una lettera tra internati di origine tedesca, – non si ha neanche la voglia di scrivere»112. Per gli stranieri si aggiunse il timore costante di essere rimpatriati o consegnati ai nazisti e l’impossibilità di chiedere aiuto e conforto ad amici e parenti. Parallelamente ai provvedimenti d’internamento proseguí anche il crescendo di disposizioni normative discriminatorie e vessatorie nei confronti degli ebrei, nel solco della legislazione avviata nel 1938. Nel febbraio 1942 il ministero delle Corporazioni ordinò ad aziende e uffici di collocamento di favorire sempre l’occupazione dei «lavoratori di razza ariana», sia in caso di assunzioni, sia in caso di licenziamenti, e due mesi piú tardi fu vietato agli ebrei di lavorare nei cantieri navali e negli stabilimenti «ausiliari alla difesa della nazione». Ne conseguí l’espulsione di molti ebrei da fabbriche e imprese private. Le discriminazioni riguardarono anche aspetti della vita sociale, come si legge in questa lettera del presidente della comunità israelitica di Roma, Aldo Ascoli, al presidente dell’Ucii Dante Almansi: «Mi preme segnalarVi la disposizione recente per cui tutti i cittadini italiani di razza ebraica sono allontanati da varie località di mare e di villeggiatura, con la giustificazione che trattasi di zone di operazioni belliche. Tale limitazione lede al massimo grado materialmente i soggetti di questo divieto e li offende moralmente facendoli apparire come “sospetti” assieme con varii individui ritenuti sovversivi o indesiderabili»113. Il 6 maggio 1942 una nuova misura razziale segnò un’ulteriore radicalizzazione della persecuzione, toccando «l’estremo limite di una persecuzione dei diritti degli ebrei [raggiunto dal fascismo]»114 prima del passaggio alla persecuzione delle vite. Una circolare della Demorazza ai
prefetti indicò che «Con disposizione ministeriale odierna appartenenti alla razza ebraica anche se discriminati di età dai diciotto ai cinquantacinque anni compresi sono sottoposti a precettazione a scopo di lavoro». «Una nuova legge, – annota nel suo diario uno dei precettati, – impone a tutti i giovani ebrei di presentarsi, dietro cartolina a precetto, al municipio per il lavoro obbligatorio. I colpi giungono con paurosa frequenza»115. Lo scopo del provvedimento era in parte propagandistico, per evitare che gli ebrei potessero essere visti come dei privilegiati dal resto della popolazione per via dell’esenzione dallo sforzo militare del paese, tant’è che la stampa locale diede perfino risalto alla notizia dell’arresto di un ebreo che si era assentato dal lavoro chiedendo una visita medica dalla quale non era risultato malato116. Dal punto di vista pratico l’operazione ebbe scarsi risultati, considerato che nel luglio del 1943 dei circa 15 000 ebrei selezionati e sottoposti a visita medica, ne erano stati effettivamente avviati al lavoro circa 2000117, tanto che non manca chi chiede alle autorità misure piú drastiche: «noi ariani, – scrive un’italiana (cosí si firma) in una lettera anonima al prefetto di Roma, – stiamo osservando quali sono i provvedimenti presi verso gli ebrei residenti in Italia e che il Governo ha annunciato alla fine del mese di maggio. Fin ora lavorano alcuni sterratori i piú innocui i meno pericolosi di tutta la massa! Che cosa fate verso i commercianti i piazzisti gli intellettuali che girano sempre in mezzo a noi italiani, sparlando, deridendo, dileggiando la nostra cara Patria?»118. Ulteriori misure di inasprimento del lavoro obbligatorio, che pure erano state progettate – tra cui la realizzazione di appositi campi per gli ebrei fisicamente idonei, da sottoporre ad autentico lavoro forzato – vennero rese impossibili dalla sopraggiunta caduta del regime mussoliniano il 25 luglio 1943, in seguito alla seduta del Gran consiglio del fascismo che mise in minoranza il dittatore e al suo successivo arresto ordinato dal re. 5. L’Italia nel «cono d’ombra» della shoah. La caduta del fascismo e la nomina di un nuovo esecutivo guidato dal maresciallo Pietro Badoglio venne accolta con gioia dagli ebrei, in Italia e all’estero. «Ho sentito ora da una radio, – si legge in un biglietto lasciato ad una donna che già dormiva, affinché apprendesse la notizia al suo risveglio,
– che il Re ha nominato Badoglio capo del governo. Sono talmente emozionato che vorrei svegliarti, ma non ne ho il coraggio. Ti prego di svegliarmi presto domattina, perché possa avere notizie»119. «Nel dormiveglia, – scrive nel suo diario un ebreo piemontese, – sento un camionista nella strada che grida forte: è caduto finalmente quel porco di Mussolini, Viva Badoglio. Mi alzo, è l’alba. Tutta Lanzo è in subbuglio. Molta gente circola e mormora per le strade. M’avvicino. Ecco la notizia: Mussolini è stato obbligato dal Re e dal governo a dimettersi. Badoglio è Capo del Governo italiano. Gli Italiani sono quasi impazziti dalla gioia»120. «Dopo quattro giorni, – si legge nella lettera di un’ebrea emigrata in Bolivia, – vi scriviamo di nuovo. È per provarvi la nostra esultanza per il primo gran passo visibile che poche ore fa la patria italiana ha dato verso la Libertà. Siamo mezzi matti di gioia, e tanti amici qui, nell’isolazione della nostra miniera interandina, boliviani, olandesi, austriaci, tedeschi, per solidarietà sono mezzo impazziti con noi. Ci siamo attaccati alla radio, sull’onda di Roma (che non vibra piú con l’odiosa melodia della “Giovinezza”) ed aspettiamo e speriamo che gli eventi si svolgano rapidamente»121. Ben presto, però, alla «profonda emozione» subentrarono «i timori e la delusione di molti, – come scrive l’avvocato Mario Falco al presidente dell’Ucii Dante Almansi, – a cagione del silenzio serbato sulla questione che ci riguarda [le leggi razziali N. d. A.]. Si attendeva, non un provvedimento, che sarebbe molto complesso, ma almeno una dichiarazione di massima»122. Infatti, nei 45 giorni che precedettero l’8 settembre, il nuovo governo Badoglio non abrogò le leggi razziali, nonostante le sollecitazioni in tal senso da parte dei partiti antifascisti, limitandosi a cancellare le sole norme sul lavoro obbligatorio e sull’internamento dei civili italiani accusati per motivi politici (27 luglio), mentre la liberazione degli stranieri sudditi di stati nemici fu decretata solo dopo l’armistizio (10 settembre). L’intera legislazione razziale fascista fu cancellata solo a fine anno, in applicazione del testo (lungo) di armistizio predisposto dagli Alleati che all’articolo 31 stabiliva espressamente l’abrogazione di «tutte le leggi italiane che implicano discriminazione di razza, colore, fede ed opinioni politiche». Ma molte disposizioni prese in via amministrativa furono cancellate addirittura nel dopoguerra.
«Io vedo nero secondo il solito, – scrive un’ebrea toscana subito dopo la caduta di Mussolini e l’insediamento del governo Badoglio, – ma sfido chiunque a veder chiaro! Verranno abrogate le leggi razziali? Ancora non si sa nulla, ma fino a che siamo in mano dei tedeschi (e tutta l’Italia è in mano dei tedeschi), sarà difficile»123. «Calmato l’entusiasmo di quei primi giorni dopo il 25 luglio, – si legge in una lettera del 4 settembre 1943, – contiamo le delusioni che l’hanno seguito, ed i pericoli gravissimi dai quali siamo continuamente minacciati. E, se anche il nuovo Governo ha provveduto e sta provvedendo perché Roma possa essere riconosciuta città aperta, noi siamo tutt’altro che tranquilli»124. La «irresolutezza del periodo badogliano»125 – come un ebreo rifugiato in Svizzera dopo l’armistizio definisce la scelta di indifferenza verso la legislazione razziale, che fu dettata anche dalla massiccia presenza di forze armate tedesche sul territorio nazionale e dall’inevitabile ambiguità con cui fu gestito l’armistizio – ebbe conseguenze gravissime e si rivelò di fatto un favoreggiamento al successivo sterminio degli ebrei italiani. Al di là dell’adozione o meno di provvedimenti formali, il mancato smantellamento della macchina della persecuzione razziale e la mancata distruzione degli elenchi compilati a partire dal 1938 e depositati presso gli archivi prefettizi (completi di ogni indicazione, compresi gli indirizzi), rese piú facile ai nazisti procedere all’individuazione, alla cattura e alla deportazione degli ebrei nell’Italia occupata. L’armistizio dell’8 settembre 1943 e la successiva occupazione militare tedesca segnarono quindi l’ingresso ufficiale dell’Italia centro-settentrionale nel cono d’ombra della shoah e il passaggio dalla persecuzione dei diritti a quella delle vite degli ebrei. Le autorità naziste, infatti, estesero immediatamente la «soluzione finale» – l’arresto, la deportazione e lo sterminio sistematico degli ebrei – al territorio italiano e il governo, gli uffici, le forze armate e di pubblica sicurezza della Rsi collaborarono in modo attivo e autonomo a quest’opera di morte. Gli ebrei, dal canto loro, furono colti di sorpresa e rimasero per lo piú inermi di fronte al precipitare della situazione. «Non è proprio possibile che si possa stare un po’ tranquilli? – si chiede nel suo diario una giovane ebrea. – Possibile che ogni volta che si riesce a tirarsi un po’ su e a respirare, si
debba ricevere un colpo tale da farci ricadere a terra? Ma perché tutto questo, perché? Non deve dunque finire piú questa grande ingiustizia?»126. Gli ebrei in Italia, pur avendo già sospetti e notizie certe su ciò che i tedeschi stavano facendo ai loro correligionari nel resto d’Europa, non corsero quindi per tempo ai ripari e ciò avvenne essenzialmente per tre motivi: l’erronea convinzione, già smentita nel 1938, che in Italia non sarebbero mai potuti avvenire gli eccessi di cui era giunta voce dalla Germania, dalla Polonia e dalla Russia; l’oggettiva impossibilità di fuggire all’estero per via della guerra che aveva chiuso le frontiere; la completa deresponsabilizzazione del governo Badoglio, che abbandonò gli ebrei italiani e stranieri a se stessi e non tenne in alcun conto la criticità della loro posizione nel corso della gestione, peraltro nel complesso disastrosa, dell’armistizio. 6. I primi eccidi e le grandi retate. La politica (e la pratica) di sterminio sistematico degli ebrei in Italia prese il via nelle ore successive all’annuncio dell’armistizio e proseguí senza soluzione di continuità fino ai giorni della sconfitta militare del nazifascismo, nell’aprile del 1945. Essa si sviluppò in linea generale secondo tre fasi distinte. La prima, nel corso del mese di settembre, fu caratterizzata da stragi e uccisioni di ebrei sull’onda emotiva del tradimento italiano e, in forma estrema, nel quadro piú generale delle azioni punitive contro l’ex alleato, come la cattura e la deportazione dei militari destinati all’internamento e al lavoro coatto in Germania (altri eccidi che coinvolsero gli ebrei si verificarono anche in seguito, come nel caso delle Fosse Ardeatine a Roma, dove il 24 marzo 1944 furono uccisi per rappresaglia 75 ebrei, assieme a 260 non ebrei); parallelamente a queste azioni criminali, isolate e scollegate tra loro, iniziarono gli arresti sistematici nella zona di Bolzano, in particolare a Merano (16 settembre 1943). La seconda fase, tra l’ottobre-novembre del 1943 e l’inizio del 1944, fu caratterizzata dalle grandi retate nelle città a maggiore presenza ebraica, che ben presto si esaurirono per il dispendio eccessivo di forze che comportavano. La terza fase, dai primi del 1944 agli ultimi giorni del conflitto, fu quella della caccia all’uomo e degli arresti singoli, con la piena collaborazione, nonché l’autonomo attivismo, di funzionari, militari e civili della Rsi.
L’operazione di cattura e di sterminio, come detto, cominciò alla spicciolata ma con effetti nefasti. Tra il 15 e il 23 settembre 1943 i nazisti catturarono e uccisero 54 ebrei, molti dei quali profughi da Salonicco, sulla sponda piemontese del lago Maggiore a Meina, Baveno, Arona, Stresa ed altre località. Il 18 settembre nel cuneese furono rastrellati e internati nella caserma degli Alpini di Borgo San Dalmazzo circa 350 ebrei stranieri, fuggiti da San Martin Vésubie nell’ex zona d’occupazione italiana in Francia, dove erano assegnati a domicilio coatto, ed alcuni ebrei italiani di Cuneo e provincia (questi ultimi rilasciati in circostanze mai del tutto chiarite). Gli echi di queste notizie, «vere o false che siano o magari un po’ esagerate, – scrive un’anziana donna nel suo diario ancora alla fine di ottobre, – hanno messo il terrore in tutte le famiglie ebree», insieme alle voci insistenti «che siano ricercati gli ebrei, presi e deportati chissà dove»127. La conseguenza fu che gran parte degli ebrei tentarono di provvedere «in qualche modo alla loro salvezza, – come testimonia il diario-memoria scritto subito dopo la liberazione da una donna che subí il carcere ma sopravvisse, – sia nascondendosi, sia allontanandosi dalla propria città di residenza, dove erano stati accuratamente registrati come appartenenti alla “razza ebraica”»128. «Tutti vanno escogitando il modo di salvarsi. Ma come?», scrive un’altra donna129, confermando come i sentimenti dominanti di questa prima fase furono la paura e l’assoluta incertezza delle informazioni: «Mentre stiamo parlando, – annota un ebreo di Gallarate, – arriva la notizia che due automezzi carichi di soldati tedeschi si sono fermati davanti al Municipio. Che abbia a ripetersi a Ispra quanto è accaduto ad Arona e a Meina? Io e Chicco scappiamo di casa […] nessuno, nemmeno i contadini, deve sapere dove mi sia rifugiato»130. «Pare non molestino le persone sopra ai 60 anni! Ma chi si fida?», annota un altro, dopo aver appreso delle «atrocità già commesse dalle S.S.»131. La prima grande retata delle SS nelle città fu quella di sabato 16 ottobre – il giorno dell’infamia – a Roma, preceduta di una settimana da quella di Trieste, mentre un’operazione analoga già prevista a Napoli fu resa impossibile dall’insurrezione dei cittadini. Nella capitale vennero rastrellate 1259 persone ritenute ebree. «Furono catturati, – racconta nel suo diario il marito di un’ebrea, – vecchi (uomini e donne), molti trasportati in pigiama o avvolti in lenzuola, una puerpera, bambini… Si trasportarono tutti in una
sala del Collegio Militare dove li interrogavano uno per uno e rilasciavano i cattolici, le famiglie miste ed i nati da matrimonio misto, minacciando la fucilazione per le dichiarazioni false […]. Gli altri furono lasciati qualche giorno in quella sala senza vitto, dormendo sul nudo pavimento, poi furono piombati in un vagone bestiame e avviati in Germania»132. Il convoglio di 1023 ebrei (tra i quali oltre 200 bambini, compreso uno nato dopo l’arresto della madre) partí dalla Stazione Tiburtina il 18 ottobre ed arrivò ad Auschwitz la notte del 22. La mattina del 23 i prigionieri furono fatti scendere e cominciò la selezione: piú di 800 furono immediatamente mandati nelle camere a gas e gli altri rinchiusi nel lager. Solo 17 sopravvissero133. La retata fu affiancata da una parallela azione di ricatto e rapina ai danni della Comunità e dei singoli nuclei familiari romani e fu condotta nel totale disinteresse delle autorità italiane e vaticane (che comunque non mossero un dito né protestarono)134. Dopo Roma seguirono altri blitz: a Genova il 3 novembre e nei giorni seguenti, a Siena e Montecatini il 5-6 novembre con la partecipazione di un gran numero di militi fascisti, a Firenze il 6-7 e 2627 novembre (quest’ultimo blitz nei conventi della città) col maggior numero di arrestati dopo Roma, a Bologna il 6-7-8 novembre e a Milano il 3 e l’8 novembre. Le notizie delle grandi retate gettarono nel panico i perseguitati: «Arriva in questo momento Giulio Pacciani che ci racconta che la razzia è cominciata a Firenze e sono già passati a perquisire la casa Sforni; ci consiglia di sloggiare da qui e non so davvero dove passeremo la notte»135. 7. La caccia all’uomo. A partire dal dicembre 1943, tedeschi e italiani scatenarono un’azione sistematica di caccia all’ebreo che durò fino alla fine della guerra (il 25 aprile 1945 un gruppo di militi fascisti in fuga verso la Francia si fermò a Cuneo per prelevare sei ebrei stranieri e ucciderli, gettando i loro corpi sotto un ponte). «Oggi, – annota una ragazzina ebrea sul suo quaderno, – ho letto sul giornale un’altra infamia dei tedeschi. Siccome ieri in Via Rasella qualcuno buttò una bomba mentre passavano dei tedeschi, e ne morirono 32, per rappresaglia sono stati fatti uccidere 320 [in realtà 335 N. d.A.]
italiani alle Fosse Ardeatine, 10 italiani per un tedesco! Io sono fanciulla e non odio nessuno, ma Dio mi perdoni per i tedeschi sento piú di un odio, sento qualcosa che non posso descrivere; io non concepisco come si possa uccidere, uccidere ed essere felici di aver ucciso. È tanto bello l’amare!»136. In questa politica di arresti singoli di ebrei si distinsero sia le strutture ufficiali della Rsi sia le bande autonome fasciste. La Rsi, a differenza del fascismo delle origini, ma in linea con la svolta del 1938, nacque con l’antisemitismo ben iscritto nelle sue carte fondamentali. Il 14 novembre 1943 il Congresso del Partito fascista repubblicano, riunitosi a Verona, approvò un manifesto programmatico che al punto sette stabiliva: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». Il 30 novembre l’Ordine di Polizia numero 5, emanato dal neo ministro dell’Interno repubblicano Buffarini Guidi e trasmesso il giorno seguente alla radio, annunciò che tutti gli ebrei – «a qualunque nazionalità appartengano» e compresi i discriminati – sarebbero stati arrestati e inviati nei campi di concentramento provinciali, in attesa di essere riuniti in campi speciali appositamente attrezzati; dieci giorni dopo fu deciso di fare eccezione per quelli gravemente malati o di età superiore ai settant’anni. «Da qualche giorno, – si legge in un diario, – sono state emanate delle leggi d’inasprimento verso gli ebrei: riunione in campi di concentramento di tutti gli ebrei fino a 70 anni e confisca di tutti i loro beni. Noi purtroppo non abbiamo preso la notizia sul serio, mentre quasi tutti gli altri hanno cercato di nascondersi in altri luoghi cambiando nome»137. Fu anche deciso che tutte le proprietà ebraiche fossero sequestrate (una legge del 4 gennaio 1944 trasformò i sequestri in confische), affidando la custodia, l’amministrazione e la vendita dei beni all’Egeli affinché le somme ricavate fossero versate allo Stato a parziale recupero delle spese di assistenza, sussidio e risarcimento danni ai sinistrati dalle incursioni aeree nemiche. Alla data della Liberazione il numero dei decreti di confisca sarà di circa 8000, con i quali la Rsi si approprierà di terreni, fabbricati, aziende, titoli, crediti, oggetti preziosi, ma anche di mobili, soprammobili, stoviglie, vestiario, biancheria e merci varie per oltre 2 miliardi di lire. Nella caccia agli ebrei i piú accaniti furono i fascisti delle bande autonome, come la banda Carità a Firenze, la banda Kock a Roma e poi a
Milano, la legione Muti, la Gnr, le Brigate Nere, le SS italiane. Si macchiarono di complicità con i nazisti pure le prefetture, le questure, la polizia, i carabinieri, le forze armate e gli uffici comunali. Illuminante al riguardo è un memoriale di Bruno Segre dell’autunno del 1944: «Presentemente, a Torino, la situazione è la seguente: un ebreo, se viene catturato dalla Questura o dal Servizio Politico Investigativo della Guardia Nazionale Repubblicana, è assoggettato, con maggior rigore da parte del S.P.I. con maggior indulgenza da parte della Questura, ad accertamenti anagrafici, e, se non rientra nelle eccezioni contemplate dalle leggi neo-fasciste, dopo essere stato detenuto qualche tempo in carcere (bracci) dipendenti dalle autorità italiane, viene consegnato ai tedeschi. Se invece l’ebreo è catturato direttamente dai tedeschi, viene senz’altro inviato nel primo braccio del carcere giudiziario, da essi organizzato con spietata rigidità. […]È dal primo braccio che vengono in genere prelevati gli ostaggi da fucilare per rappresaglia, è dal primo braccio che si effettuano le spedizioni (ora in torpedone) per i campi di concentramento tedeschi»138. Tutto l’apparato burocratico italiano fu coinvolto ed è un fatto ormai acclarato che la gran parte degli ebrei deportati dopo l’Ordine n. 5 furono arrestati da italiani, avvalorando la tesi di molti storici come Collotti, secondo la quale «senza la collaborazione delle autorità politiche e di polizia della Rsi la deportazione degli ebrei dall’Italia verso i campi di sterminio non sarebbe stata assolutamente possibile»139, almeno non in modo cosí sistematico. La situazione che ne derivò fu drammatica per gli ebrei, non solo perché furono braccati in ogni dove e perché dovettero dare fondo a tutto il loro residuo patrimonio per tentare di trovare riparo, ma anche perché dovettero convivere per lunghi mesi con la consapevolezza che l’arresto avrebbe voluto dire la successiva partenza per ignota destinazione o – come si legge in alcuni documenti burocratici italiani relativi ai detenuti rintracciati nel dopoguerra – l’essere «consegnati alla polizia tedesca SS», cioè la deportazione. Anche le famiglie miste temevano per il loro futuro, come risulta dal diario del marito di un’ebrea: «Arriva alle questure un fonogramma: “Fermare tutti gli ebrei e trasferirli a Regina Coeli. Provvedimento fermo è
per ora sospeso nei riguardi famiglie miste”. […] “Sospeso per ora”: per ora può essere un anno o un’ora, quindi bisogna stare sempre in guardia»140. Per coloro che furono catturati, poi, il timore divenne autentico terrore. «Per me – si legge in una memoria di quei giorni – [l’arresto] fu un momento terribile, non so neppure descrivere ciò che provai. Al sentire il rumore di quel catenaccio che ci chiudeva nella cella, mi sembrò che qualcosa chiudesse la mia vita stessa; credevo di impazzire al pensiero di quello che sarebbe potuto succederci, il terrore di venir deportati si fece piú vivo in quei primi momenti della nostra prigionia, e fui presa da una crisi cosí acuta di disperazione che ora non voglio neppure piú ricordare»141. Sui giorni di detenzione in carcere, non mancano le testimonianze dirette rappresentate dalle lettere e dai biglietti, talvolta fatti uscire clandestinamente con vari espedienti. La gran parte dei biglietti dal carcere fu caratterizzata dalla richiesta di generi di conforto per far fronte alla situazione di grave disagio e difficoltà causata dall’arresto improvviso: «mandami una valigia – si legge su un pezzo di carta igienica fatto uscire clandestinamente dal carcere di Torino – con biancheria pigiama pantofole asciugamani sapone dentifricio spazzolino zucchero sale […] e quanto altro accettano»142. Nelle carceri, alla sofferenza fisica si uní quella psicologica, per la convinzione di non aver «mai fatto male a nessuno»143, il non poter credere di «trovarmi qui, senza aver commesso mai nulla di male»144, «senza avere commesso nessuna colpa»145, il sentirsi cioè vittime di una ingiustizia assoluta, contro la quale non si aveva alcuna arma o possibilità di scampo. Tant’è vero che in questo stato di cose – ormai consapevoli della precarietà della loro condizione e della loro stessa vita – molti ebrei furono spinti anche a scrivere lettere-testamento, manifestando cosí un profondo desiderio di resistere di fronte a questa tragedia, lasciando e tramandando qualcosa di sé. «Fai il mio desiderio – si legge in uno di questi disperati biglietti – se io non ci fossi il giorno che verrà al mondo il nostro bambino lo chiamerai Cesare [cioè lo stesso nome del padre, autore della lettera (N. d. A.)]»146. 8. La vita in clandestinità e l’espatrio in Svizzera.
Tra il settembre ’43 e l’aprile ’45 circa 35 000 ebrei presenti sul territorio della Rsi sfuggirono agli arresti e alle deportazioni, nascondendosi nell’Italia occupata sotto falso nome o cercando rifugio in Svizzera oppure al Sud. Nel dettaglio, stando a quanto ricostruito da Sarfatti, tra 5500 e 6000 ebrei riuscirono a mettersi in salvo nella Svizzera neutrale dopo un lungo, faticoso e pericoloso cammino in montagna di cui c’è ampia traccia nei diari (ma per lo meno altri 250-300 furono arrestati prima di raggiungerla o dopo esserne stati respinti), 500 riuscirono a superare la linea del fronte e a trovare riparo nelle regioni meridionali della penisola già liberate dagli Alleati e circa 29 000 vissero per tutto il periodo dell’occupazione in clandestinità, in situazioni spesso difficili. Se un numero cosí elevato di persone poté sopravvivere in clandestinità, fu anche merito della generosità e della disponibilità di migliaia di italiani non ebrei, grazie ai quali – si legge in una lettera scritta nei giorni della Liberazione – «abbiamo sempre avuto dove dormire la notte e la fame brutta non abbiamo mai sofferta», nonostante gli «otto mesi in alta montagna, isolati dal mondo, sovente senza viveri sufficienti, sempre dovendo abnegare d’ogni conforto. Facendo la guardia dall’alba fino al crepuscolo, dovevamo scappare assai spesso in conseguenza dei rastrellamenti, di soldati in giro, di persone sconosciute. Eravamo quasi senza coperte, senza un paio di scarpe per camminare»147. I salvataggi avvennero ad opera di partigiani, semplici cittadini, «buoni amici, – si legge in una lettera-diario, – che ti hanno aiutato a nasconderti»148 e perfino funzionari della Rsi, che pur consci del pericolo cui si esponevano aiutarono ebrei connazionali o stranieri in vario modo: nascondendoli nelle loro case, cantine e retrobottega, fornendo loro cibo e vestiario, aiutandoli a procurarsi falsi documenti di identità o a passare la linea del fronte o il confine svizzero. «Ai primi di dicembre del 1943, – racconta un ebreo mantovano, – quando i giornali diffusero la notizia dell’imminente arresto e dell’internamento degli ebrei, un poliziotto, amico di mio padre, una brava persona, ci avvertí personalmente che l’indomani saremmo stati presi, invitandoci quindi a non farci trovare in casa. Decidemmo sul momento di andare a Milano dove risiedeva un parente non ebreo di mia madre e da dove sarebbe stato forse piú facile varcare il confine svizzero»149.
Molti si prestarono anche a fare da intermediari per la corrispondenza degli ebrei che si trovavano in clandestinità, in carcere o nei campi di concentramento italiani, ricevendo le loro lettere in nome e per conto dei familiari, per evitare che questi ultimi venissero traditi e individuati («Non dimenticate, – scrive una coppia ai figli durante il viaggio a Firenze, in clandestinità sotto falso nome, per una visita medica, – di andare tutti i giorni dalla Signora Rosa alla quale leggerete questa nostra»150). Inoltre un gran numero di biglietti furono raccolti da ferrovieri o da comuni cittadini alle stazioni o lungo i binari dove passavano le tradotte dei deportati e recapitate ai loro parenti ed amici. In diversi casi il riparo fu offerto da cliniche e case di cura grazie all’aiuto di medici compiacenti che permisero agli ebrei di fingersi pazienti ricoverati e – come annota nel suo diario un uomo nascosto in un manicomio – «stare normalmente con gli altri ammalati per non destare sospetti in questo ambiente […] mentre fuori infuria la caccia all’uomo»151. Anche la Chiesa cattolica si mobilitò, ai vertici e alla base, e numerosi ebrei trovarono rifugio e salvezza nei monasteri, nelle parrocchie e in altre strutture ecclesiastiche. Solo a Roma il Vaticano aiutò oltre 4000 ebrei, anche se non sempre i fascisti e i nazisti rispettarono l’extraterritorialità di alcuni di questi luoghi, come nel caso riportato dal diario di Mario Tagliacozzo, relativo all’Istituto di San Paolo a Roma, «invaso dai fascisti repubblicani che si sono presentati capitanati dal questore Caruso, il quale si è ribellato alla affermazione di extraterritorialità ed ha occupato il convento procedendo ad una perquisizione durata tutta la notte e sino al mezzogiorno successivo. Tutti i locali sono stati visitati e sono stati arrestati vari rifugiati, tra i quali due generali e parecchi ebrei»152. A proposito di questi fenomeni di solidarietà si è parlato, giustamente, di resistenza civile e nel dopoguerra l’istituto storico Yad Vashem di Gerusalemme ha conferito a coloro che aiutarono attivamente gli ebrei il riconoscimento di «Giusti fra le Nazioni»153; tra questi spiccano autori di autentici atti di eroismo, come Giorgio Perlasca. Fenomeno altrettanto diffuso, tuttavia, fu quello delle delazioni e delle denunce, che costarono la vita a molti ebrei e contribuirono a creare un clima di terrore. Né mancò chi approfittò della situazione per depredare e truffare gli ebrei in fuga anche di quel poco che gli era rimasto, chiedendo
somme esorbitanti e beni preziosi in cambio di documenti falsi, aiuto all’espatrio o a trovare ripari sicuri che poi si rivelavano inesistenti: «faceva il doppio gioco? Era in buona fede? Non lo sappiamo neppure oggi. Fatto sta, – si legge in un diario-memoria scritto subito dopo la Liberazione con riferimento ad un italiano che si era offerto di dare aiuto ad una famiglia di ebrei in clandestinità, – che le carte di identità false, da lui forniteci, erano talmente mal fatte, da essere inadoperabili»154. Talvolta, come emerge da alcuni episodi riferiti dalle lettere e dai diari, il tradimento fu perfino opera di correligionari collaborazionisti, che speravano di avere salva la vita o trarre profitto, come nel caso di Celeste Di Porto detta Pantera Nera, che fece arrestare almeno cinquanta ebrei, indicandoli con un saluto alle SS che la seguivano a breve distanza, e ricevendo per ogni arresto un compenso in denaro, intascato dal compagno che militava nella Rsi155. La vita in clandestinità dunque non fu facile. Per quasi venti mesi gli ebrei dovettero vivere alla giornata – «Il problema piú impellente è come passare la notte», si legge in un diario dell’inizio del 1944156 – cambiando spesso rifugio o località in base agli spostamenti delle truppe tedesche, alle notizie dei rastrellamenti nazifascisti e al sospetto di essere stati scoperti e denunciati. Le questure, su indicazione del ministero dell’Interno, ordinarono «controlli e, occorrendo, perquisizioni nei confronti delle persone sospettate, sospettate di fornirsi di falsi documenti e, specialmente, di coloro che, pei loro precedenti, e per la razza cui appartengono, siano ritenute capaci di commerciare tali falsificazioni»157. Le stesse ansie e gli stessi dolori caratterizzarono gli ebrei che riuscirono a trovare riparo in Svizzera, dove secondo le regole internazionali furono internati in appositi campi, con la importante differenza che – passato il confine – non dovevano piú nascondere la propria identità ed erano al riparo dalla caccia all’uomo nazista e fascista: «Siamo qua, – scrive una giovane nel suo diario, – abbiamo compiuto il gran passo, siamo nella terra della libertà! Lea Ottolenghi, sono Ebrea! Vorrei gridarlo ai quattro venti […]. Non piú incubi, repressioni, terrore di essere deportati! Libertà di persona e di pensiero»158. Anche se correvano comunque il pericolo di essere respinti alla frontiera o addirittura dopo averla oltrepassata, dopo aver lasciato tutto ciò che possedevano e aver pagato a caro prezzo i
contrabbandieri. «Pur con grande rincrescimento delle autorità e delle popolazioni, – si legge su un foglio in italiano delle autorità svizzere del giugno del ’44, a fronte dell’incremento del numero dei rifugiati, – non tutti coloro che lo desidererebbero possono venire accolti nella Svizzera. Le autorità devono cosí effettuare una certa selezione. Anzitutto devono venire accolti coloro che, all’estero, sembrano particolarmente esposti a pericolo e che non si possono aiutare altrimenti che con la fuga nella Svizzera»159. In Svizzera fuggirono anche molti oppositori del regime che, se ebrei, erano ricercati sia per motivi politici che per motivi razziali, come il comunista Umberto Terracini (espulso dal partito per le sue posizioni critiche verso l’accordo tra Stalin e Hitler del ’39, ma riammesso nel dicembre ’44) che in una lettera a Palmiro Togliatti scrive: «mi trovo in Svizzera dalla fine del settembre, cioè dai giorni nei quali, riapertasi d’improvviso in Italia, con l’occupazione tedesca, una situazione di massimo pericolo per i militanti rivoluzionari piú noti [...] non mi era rimasta, per assicurarmi salvezza, altra alternativa dell’espatrio, avendo la caccia agli ebrei, contemporaneamente scatenatasi, distrutti gli ultimi rifugi che avrebbero forse ancor potuto offrirmisi in territorio nazionale: le case dei miei parenti ora obbligati anche essi alla piú disperata fuga»160. 9. Gli ebrei nella Resistenza. Un capitolo a parte delle vicende degli ebrei sotto la persecuzione è quello della partecipazione al movimento di Liberazione. Circa 1000 ebrei italiani clandestini – pari al 4 per cento della popolazione ebraica italiana, percentuale superiore a quella degli italiani – entrarono nella Resistenza, inquadrati come partigiani, tra i quali Eugenio Curiel, Vittorio Foa, Primo Levi, Pino Levi Cavaglione, Liana Millu, Enzo ed Emilio Sereni, Elio Toaff, Umberto Terracini e Leo Valiani161. Gli ebrei italiani, anche in virtú del distacco dal regime fascista maturato fin dalle leggi razziali del 1938, furono tra i primi ad arruolarsi nelle bande partigiane e già il 9 settembre 1943 Emanuele Artom annota nel suo diario: «La radio tedesca annunzia che verranno a vendicare Mussolini. Cosí bisogna arruolarsi nelle forze dei partiti e io mi sono già iscritto»162.
L’adesione degli ebrei alla Resistenza non fu dettata solo dalla reazione all’antisemitismo nazifascista – che ebbe ovviamente una parte importante nella loro lotta – ma, come per gli altri partigiani, si fondò anche su motivazioni politico-ideologiche e sull’avversione piú in generale verso un regime dittatoriale che soffocava la libertà. «E quando viene la tristezza ed il peso diviene duro a portare, bisogna dire: Vita! Vita! e tirare avanti con serenità e coraggio, – afferma Eugenio Curiel in una lettera alla famiglia, – ringraziando che tutto il tumulto non riesca a spezzare la nostra fiducia nelle cose fondamentali della vita, ma anzi ci tempri a sperare e a volere cose migliori e una vita piú ricca»163. «W L’Italia Libera», scrive nel suo diario Giulio Bolaffi164. «Io ho viva speranza, – si legge invece in una lettera, – che questa guerra debba terminare presto e tutti i miei voti sono perché tutti noi ci possiamo ritrovare per poter iniziare la creazione di una nuova Italia in cui veramente la giustizia e la fratellanza vi regnino sovrani»165. Molti ebrei tornarono appositamente dai luoghi di emigrazione o di rifugio, come Enzo Sereni, poi morto in deportazione, che era in Palestina, e Gianfranco Sarfatti, morto in combattimento, che si trovava in Svizzera. «Sapete già, – scrive quest’ultimo in una lettera ai genitori, al momento di rientrare in Italia, – che faccio quello che faccio non per capriccio o spirito di avventura; il mio modo di vivere e il perché del mio vivere da molti mesi non cerca di essere che un tuffarsi nell’umanità, partecipando alla sua vita, dura o lieta che sia. Se non agissi cosí rinnegherei me stesso, rimarrei privo di guida, avvilito, annientato: e quindi rinnegherei anche voi che mi avete dato vita ed educazione»166. La militanza nelle file della Resistenza – alla quale è dedicato un capitolo di lettere e diari – comportò un costo notevole in termini di vite umane. Circa 100 ebrei caddero in combattimento oppure furono arrestati e uccisi nella penisola o in seguito alla deportazione nei lager nazisti. Sette di loro furono insigniti di medaglia d’oro alla memoria: Eugenio Calò, Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Sergio Forti, Mario Jacchia, Rita Rosani e Ildebrando Vivanti. Il contatto tra la Resistenza e gli ebrei, braccati e clandestini, fu evidente anche in alcune iniziative di aiuto e soccorso, come il Comitato Assistenza Ebraica nato nell’estate del 1944 su iniziativa di Bruno Segre e di alcuni
partigiani ebrei che operavano nel cuneese. Il programma del comitato prevedeva il soccorso ai detenuti in carcere, l’aiuto economico e morale ai bisognosi, la distribuzione di documenti d’identità falsi, la raccolta di notizie sulla sorte dei deportati, l’avvio della compilazione degli elenchi dei criminali di guerra nazifascisti, dei delatori e delle spie167. Una testimonianza del legame materiale, morale e ideologico che si stabilí tra ebrei e partigiani è la lettera che una coppia francese rifugiata nel cuneese scrisse nei giorni della liberazione al parroco di Borgo San Dalmazzo, che aveva aiutato tanti clandestini della zona, in cui si dice che: «Siamo stati diverso tempo in compagnia di partigiani che ci hanno mostrato di parola e di fatto la loro simpatia per noi e abbiamo potuto dimostrare dopo il crollo del regime fascista la nostra solidarietà di gioia per la liberazione del popolo e la rinascita del paese insieme a loro e a tutta la popolazione»168. In un diario di un ebreo relativo ai giorni della liberazione di Torino, invece, i «valorosi partigiani» sono definiti i «nostri Patrioti»169. 10. Dai lager italiani ai campi di sterminio. La sorte piú drammatica toccò agli ebrei arrestati dai tedeschi e dagli italiani, i quali dopo un periodo di detenzione in carcere o nei campi provinciali presenti su tutto il territorio della Rsi (da Senigallia ad Aosta), dal dicembre del 1943 furono trasferiti nel campo di transito di Fossoli, a sei chilometri da Carpi (Modena) e di là deportati nei lager del Reich, principalmente ad Auschwitz. Da Fossoli transitarono 2844 ebrei170. Un caso particolare fu quello del lager di Borgo San Dalmazzo in provincia di Cuneo, che dal settembre al novembre ’43 ospitò alcune centinaia di ebrei in prevalenza stranieri, poi destinati a Drancy in Francia e di qui ad Auschwitz. Dopo un breve periodo di inattività, dal dicembre ’43 al febbraio ’44 la struttura funzionò come campo provinciale. Con l’avanzata delle forze alleate, il nuovo campo di smistamento per gli ebrei divenne quello di Bolzano-Gries, piú vicino alla frontiera con il Reich. A Bolzano, dove transitarono 207 ebrei, il trattamento fu piú duro che a Fossoli («costí, il giaciglio, gettato a terra era orribile e coperto da una sporcizia indicibile […] le cuccette, poste l’una sull’altra e della larghezza di poco piú di un metro erano veramente scomode171») e venne anche
introdotto l’obbligo di un triangolo colorato sui vestiti: rosso per i politici e giallo per gli ebrei. Gli ebrei catturati in Veneto, in Friuli, a Fiume e in Dalmazia (zona di operazione del litorale adriatico) vennero invece concentrati a Trieste, dapprima nel carcere del Coroneo e poi nel campo della Risiera di San Sabba, da dove non meno di 1196 ebrei (è il numero di coloro che è stato possibile identificare) furono deportati ad Auschwitz172. La Risiera fu l’unico campo di sterminio in Italia, dotato di un forno crematorio, e vi trovarono la morte alcune migliaia di antifascisti, partigiani slavi e italiani, ostaggi civili. Nella Risiera furono uccise anche alcune decine di ebrei. I lager italiani rappresentarono la «saldatura» – come l’ha definita Sarfatti – tra le politiche antiebraiche italiana e tedesca e, cosí come Auschwitz è diventato il simbolo universale della shoah, Fossoli può rappresentare il simbolo italiano di questa tragedia e di questa responsabilità nazionale. Il trasferimento nei campi di sterminio avveniva mediante tradotte di carri bestiame dette «trasporti speciali». Ecco come lo descrivono Leonardo De Benedetti e Primo Levi, in una relazione scritta subito dopo la loro liberazione, nel ’45: «Il viaggio da Fossoli ad Auschwitz durò esattamente quattro giorni e fu molto penoso, soprattutto a causa del freddo; il quale era cosí intenso, specialmente nelle ore notturne, che la mattina si trovavano coperte di ghiaccio le tubature metalliche che correvano nell’interno dei carri, per il condensarsi su di essa del vapore acqueo dell’aria respirata. Altro tormento, quello della sete, che non si poteva spegnere se non colla neve raccolta in quell’unica fermata quotidiana, allorché il convoglio sostava in aperta campagna e si concedeva ai viaggiatori di scendere dai vagoni, sotto la strettissima sorveglianza di numerosi soldati, pronti, col fucilemitragliatore sempre spianato, a far fuoco su coloro che avessero accennato ad allontanarsi dal treno»173. Nel corso del viaggio, in particolare nei pressi delle stazioni, i deportati lasciarono cadere numerosi biglietti (con preghiere del tipo «Per umanità chiunque trovi la presente è pregato impostare la presente»174), che furono raccolti da civili e ferrovieri e recapitati ai destinatari nonostante i rischi, talvolta con qualche ulteriore frase o notizia aggiunta («I signori sono transitati da Bolzano con ottima salute», scrive ad esempio un ferroviere su uno di questi biglietti175). Si tratta di scritti di fortuna, spesso a matita,
redatti frettolosamente e in condizioni precarie, il piú delle volte con le sole indicazioni essenziali e non piú di qualche parola di saluto ai propri cari, e di richiesta, rivolta a qualche «anima buona»176, di raccogliere e consegnare. Frequenti sono i brevi elenchi di nomi dei deportati, con l’indicazione della città di residenza, talvolta dell’attività svolta e perfino con qualche indicazione di servizio su come disporre dei propri averi o risolvere questioni in sospeso, nell’intento di lasciare una traccia di sé e, appunto, far arrivare ai propri cari l’informazione che – come si legge in numerosi di questi scritti – «Partiamo per la Germania», «partiamo questa notte per destinazione ignota, ma si dice con insistenza per la Germania», «parto per terre lontane» o «per il campo di concentramento». «Tutti in viaggio alla maniera classica. Saluta tutti. A voi la fiaccola», scrissero Primo Levi, Luciana Nissim e Vanda Maestro177. Nella gran parte di questi biglietti, malgrado le condizioni disumane del viaggio in tradotta, non vennero mai meno espressioni rassicuranti e di speranza («sto bene», «sono in buona salute», «siamo abbastanza tranquilli», «il mio morale è alto», «supererò anche questa prova»), probabilmente dettate piú dalla volontà di tranquillizzare amici e parenti che da reale convinzione. In molti casi l’invito a sperare fu rivolto anche ai destinatari delle missive: «attendimi con fiducia!»178; «Non abbia alcuna preoccupazione per me; sono convinto che tutto finirà bene per me come per tutti»179. Tuttavia, nonostante le parole di conforto, trapela tra le righe («Ricordateci, come noi vi ricorderemo»180) o piú esplicitamente («Ho il presentimento purtroppo che questo viaggio sia per me e i miei senza ritorno, perché se non soccomberemo per la fame e per le fatiche cui verremo sottoposti non potremo resistere ai freddi terribili, scarsamente vestiti e calzati come ci troviamo»181), la realtà di una deportazione verso l’ignoto. Anche se non avevano piena consapevolezza della «soluzione finale» in atto e del reale destino che li attendeva all’arrivo ad Auschwitz, i deportati si attendevano quanto meno una lunga separazione dai propri cari, fatta di sofferenze, privazioni, violenza e forse anche di morte. Per questo, qualche scritto contiene l’accorato invito ai familiari: «Salvatevi!»182. Giunti ad Auschwitz i deportati venivano subito sottoposti alla selezione. I treni venivano aperti dai prigionieri addetti sotto la sorveglianza delle SS e
in una confusione indicibile le famiglie venivano divise, con gli uomini da un lato e le donne con i bambini dall’altro, per un rapido e superficiale controllo medico. Un meccanismo ben descritto dalla relazione stilata nel ’45 dai due sopravvissuti Leonardo De Benedetti e Primo Levi, poco dopo la loro liberazione: «Appena il treno giunse ad Auschwitz (erano circa le ore 21 del 26 febbraio 1944), i carri furono rapidamente fatti sgombrare da parecchie S.S., armate di pistole e provviste di sfollagente; e i viaggiatori obbligati a deporre le valigie, fagotti e coperte, lungo il treno stesso. Poi la comitiva fu subito divisa in tre gruppi: uno di uomini giovani e apparentemente validi, del quale vennero a far parte 95 individui; un secondo di donne, pure giovani, gruppo esiguo, composto di sole 29 persone; e un terzo di bambini, di invalidi e di anziani. E, mentre i primi due furono avviati separatamente in campi diversi, si ha ragione di credere che il terzo sia stato condotto direttamente alla Camera dei gas a Birkenau e i suoi componenti trucidati nella stessa serata»183. Coloro che superavano la selezione – di solito intorno al 2030 per cento di ogni convoglio – venivano avviati verso vere docce a forza di ordini per lo piú incomprensibili, urlati in tedesco, e di maltrattamenti, fatti spogliare, rasati, privati di tutto, dotati del pigiama a righe o, a causa della penuria di tessuto al momento dell’arrivo degli italiani, di abiti riciclati dai morti e infine immatricolati. Identificati dal triangolo giallo e posti nella posizione piú bassa della gerarchia nazista all’interno dell’universo concentrazionario venivano utilizzati come manodopera nel campo e spesso la morte sopraggiungeva poco dopo per gli stenti, la fame, il freddo, le malattie o la violenza dei carcerieri (i decessi per queste cause continuarono anche dopo la liberazione). «Io, – racconta una sopravvissuta in una lettera scritta poco dopo la liberazione, – ad Auschwitz sono rimasta quattro giorni soli: se ci fossi rimasta un solo giorno di piú penso che sarei impazzita. […] In tutti quei giorni ho potuto mangiare una sola volta pochi bocconi di zuppa: sono stata in appello per delle ore consecutive di giorno, di notte, continuamente, ho ricevuto tante di quelle botte quante non avrei potuto mai immaginare, ho assistito per lo meno a tre selezioni, ho visto scene di orrore inenarrabili, ho sentito quell’indimenticabile, caratteristico odore di crematorio, ho fissato come un’allucinata le fiamme dei forni»184.
Il bilancio finale della persecuzione delle vite, assai complicato da stilare con dati precisi all’unità, fu spaventoso. Nel settembre del ’43 entro i confini della Rsi erano presenti circa 43 000 ebrei, di cui 8000 stranieri o apolidi ex italiani, compresi 13001500 ebrei fuggiti precipitosamente dalla Francia sud-orientale passata sotto il controllo tedesco dopo lo sbando delle forze armate italiane. Di questi, circa 8000 furono deportati o uccisi in Italia e dei deportati solo 837 sopravvissero. Nel dettaglio – riportando i dati aggiornati del Libro della memoria di Liliana Picciotto, al quale si fa riferimento e si rimanda per i dati sulla deportazione – si contano 6806 ebrei deportati nei lager nazisti (dei quali 5969 furono uccisi) e 322 ebrei uccisi in Italia (compresi 42 casi di suicidio indotto dal timore della cattura, morte naturale causata dall’impossibilità di affrontare la prigionia o la clandestinità e uccisioni mentre tentavano di sfuggire all’arresto). Da aggiungere anche 9001000 persone che non è stato possibile identificare e presumibilmente in grande maggioranza uccise. Le vittime furono circa il 20 per cento della popolazione ebraica presente in quel momento in Italia (percentuale che sale al 43 per cento tra i rabbinicapo)185. 11. La fine dell’incubo e la memoria. Quando ebbero inizio le deportazioni dall’Italia, si era già messa in moto la macchina hitleriana della «soluzione finale» e il regime di controllo nei lager tedeschi era diventato ancora piú severo del passato. Pertanto, ai pochi ebrei italiani che passarono le selezioni e sfuggirono alle camere a gas, era vietata qualsiasi corrispondenza, anche attraverso i moduli prestampati, ed era impossibile tenere diari o inviare all’esterno biglietti clandestini. A differenza di quanto accaduto per gli ebrei di altre nazionalità, quindi, non sono pervenuti a noi diari o lettere dai campi di sterminio e per questo la nostra antologia di scritti si ferma inevitabilmente al momento del viaggio sui convogli ferroviari diretti verso il Reich, con i biglietti lanciati dai deportati alle stazioni. Questo vuoto di scrittura e questo silenzio – storiograficamente altrettanto significativi – sono colmati solo in parte dalle testimonianze orali e dai memoriali successivi186, che in ogni caso non rientrano nel metodo d’indagine su cui si fonda questo lavoro, relativo ai soli scritti coevi. Le lettere agli amici e ai familiari e la redazione dei diari
riprendono dopo la liberazione, ad opera dei pochi deportati sopravvissuti, nei primi mesi del 1945; questi documenti confluiscono nell’ultimo capitolo, insieme agli scritti degli ebrei che progressivamente riemergevano dalla clandestinità, man mano che gli Alleati risalivano e liberavano la penisola, a partire dalla metà del 1944. La liberazione e la fine dell’incubo non avvennero per tutti gli ebrei allo stesso modo e nello stesso arco temporale, ma il ritorno alla vita normale fu difficile per ciascuno di essi, da vari punti di vista (psicologico, sociale e materiale), e in diversi casi non si realizzò mai. Gli ebrei che erano in clandestinità nelle regioni del centro Italia furono liberati nella primaveraestate del 1944, quasi un anno prima degli altri correligionari, mentre chi si trovava al nord dovette attendere la primavera del 1945. Per i pochi sopravvissuti alla deportazione, la liberazione sopraggiunse piú o meno nello stesso periodo (tra gennaio e maggio del ’45) con l’arrivo delle truppe alleate – i russi da oriente e gli anglo-americani da occidente – ai cancelli dei lager, ma il rientro in Italia fu ritardato e avvenne a scaglioni solo tra l’agosto del 1945 e il marzo del 1946, dopo mesi e mesi di collaborazione piú o meno forzata con le truppe alleate: «[le ragazze] pelavano patate, – si legge in una lettera di un ebreo di Ferrara, – dalla mattina alle cinque alla sera alle otto. E gli uomini a scavar trincee dalle dodici alle quindici ore al giorno. Anche io fui adibito a quel massacrante lavoro e seppure dimostrassi poca capacità e resistenza dovevo compiere senza indugio il massacrante lavoro come lo compivano i soldati Russi per il raggiungimento della vittoria finale. […] Passò un mese, ne passò un altro ma di rimpatriare non se ne parlava»187. Il ritorno a casa dei deportati comportò viaggi estenuanti («Il 15 Sett[embre], – scrive Primo Levi in una lettera, – siamo partiti per il rimpatrio definitivo; il viaggio, attraverso l’Ucraina, la Romania, l’Ungheria e l’Austria, è durato 35 giorni»188) ed avvenne in condizioni fisiche disastrose. Non è un caso che nelle lettere scritte dopo il rientro in Italia, i sopravvissuti facciano quasi sempre riferimento al proprio peso corporeo (del momento della liberazione o attuale) e citino il proprio numero di matricola nel lager: quasi una contabilità dell’orrore della fame e del marchio dell’infamia nazista.
Sul piano psicologico i reduci dei lager furono gravati non solo dall’esperienza terribile e disumana che avevano vissuto («mi sono salvata, – scrive in una lettera una sopravvissuta poco dopo il rientro in Italia, – ho resistito a tutto, ho tirato avanti»189), ma anche dall’angoscia di dover portare notizie terribili sul tragico destino di conoscenti e familiari190. «Cosí passarono i primi giorni quasi di stordimento, – scrive un ex deportato a un altro reduce, – per poi passare alla piú tremenda realtà: quella di essere solo, unico scampato di una famiglia. Altri lutti, due mie cuginette morte di malattia a Birkenau come mi comunicò Luciana due altri zii e due cugini che mai ritorneranno. La vita è ancora per me molto ma come si potrà dimenticare?»191. Nei reduci dai lager scattarono anche il senso di colpa per avercela fatta, la difficoltà di comunicare l’orrore dei campi di sterminio e la paura di non essere creduti, che negli anni seguenti causarono ulteriori sofferenze, spingendo molti di loro a chiudersi nel silenzio e perfino a suicidarsi, nonostante «il bisogno di raccontare agli “altri”, di fare gli “altri” partecipi, – scrive Primo Levi presentando Se questo è un uomo, – aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari». «Temevo soprattutto che mi chiedessero come mi ero salvato, – racconta Piero Terracina, – mi terrorizzava il fatto che qualcuno potesse chiedermi “Perché tu ti sei salvato e mio figlio o mio marito no?” Poi pensavo che se io avessi parlato di certe cose a molta gente avrebbe dato fastidio, o quantomeno qualcuno avrebbe pensato: “Che va dicendo, non è possibile…”; inoltre raccontare del lager avrebbe significato in parte rivivere quelle situazioni ed io volevo sembrare una persona come tutte le altre, non dico “essere” ma almeno “sembrare”»192. «Caro vecchio amico, – scrive in una lettera del dicembre 1945 un ebreo di Ferrara, unico sopravvissuto di una famiglia uccisa dai tedeschi ad Auschwitz, – quanto coraggio, quanta sopportazione bisognerebbe avere. Sento che, seppure la disgrazia sia ineguagliabile, voglio in tutte le maniere reagire, sforzarmi per molte ore al giorno, pensare come se tutti i miei cari mi fossero vicini»193. Sullo sfondo c’era un Paese che voleva voltare pagina, riluttante ad ascoltare il racconto dei deportati e – come detto – poco propenso a fare i conti con il proprio passato e le proprie responsabilità. La stessa opinione
pubblica mondiale, sconvolta da un conflitto che aveva causato 50 milioni di vittime e distruzioni enormi, prima di metabolizzare cosa era stato effettivamente il sistema concentrazionario nazista e riconoscerne il carattere di vicenda unica, fu piú portata a considerare lo sterminio sistematico degli ebrei come «un evento marginale rispetto a quanto avvenuto durante il secondo conflitto mondiale»194. Man mano che le reali dimensioni della shoah vennero alla luce, si ebbe tuttavia un effetto di progressivo schiacciamento della memoria e degli studi su di essa, con la conseguenza di tralasciare quanto era accaduto prima della «soluzione finale» – in Italia dal 1937-38 – e l’esperienza comunque dolorosa degli altri ebrei che erano scampati alla deportazione entrando in clandestinità, attraversando la linea del fronte oppure emigrando (vicende qui recuperate attraverso un gran numero di diari e lettere fino ad ora meno note e meno considerate). Anche questi ultimi affrontarono pesanti drammi personali al momento del ritorno, perché oltre ad aver perso il lavoro, i beni e spesso anche le case (confiscate, occupate dai fascisti, dai tedeschi, dagli sfollati o distrutte dai bombardamenti), si trovarono alle prese con la triste conta dei morti tra i parenti e gli amici («ho il grande dolore di comunicarle che Livio deve esser considerato perduto», avverte una lettera dell’agosto 1945195; «Ora tra poco sarà ancora inverno, – annota sul suo diario una giovane ebrea di Venezia, – ma non saremo tutti assieme attorno alla tavola. Chi non risponderà piú all’appello?»196; «È una grande grazia, – scrive un’ebrea straniera rifugiata nel cuneese, – che siamo vivi dopo tutti i terribili bombardamenti e gli altri pericoli. Adesso cerchiamo il nostro figlio. Siamo sempre senza notizia da lui. È tanto dura!»197) e con la necessità di riallacciare un rapporto con un ambiente sociale che non di rado – nel passato fascista – li aveva respinti, derisi, allontanati, emarginati. L’unica consolazione, non da poco, era rappresentata dal fatto che l’arrivo degli Alleati rappresentava la fine della clandestinità e del pericolo di essere catturati e deportati: «Se dovremo ancora soffrire, – scrive un ebreo romano nel suo diario, – soffriremo come gli altri, ma non saremo piú diversi dagli altri italiani e, senza temere, potremo gridare alto il nostro nome»198. Particolarmente grave, al momento della Liberazione, fu inoltre la situazione degli ebrei stranieri che si erano rifugiati in Italia e che erano riusciti a scampare alla deportazione,
ma «che ora, – denuncia un documento del Comitato di assistenza ebraica di Cuneo del maggio 1945, – sono in condizione di estrema indigenza»199. Va detto che gli stessi ebrei contribuirono a «cancellare la memoria» delle leggi razziali e della persecuzione dei diritti poiché, come ha osservato Vittorio Foa, «il ricordo di quello che è successo dopo, ad opera dei nazisti, oscura la memoria precedente»200. La fine della guerra innescò un difficile processo di reintegrazione che, tra l’altro, fu accompagnato anche dall’espletamento di fredde pratiche burocratiche per riavere posti di lavoro e proprietà, che spesso esposero a nuove umiliazioni e frustrazioni chi era stato immotivatamente privato dei propri diritti, estromesso dalla propria posizione sociale e professionale e spogliato dei propri beni. Il ritorno, in altre parole, fu «solo la continuazione di una tragedia»201 e quasi mai le testimonianze al riguardo esprimono soltanto gioia, contenendo viceversa anche ansie e paure per il futuro e soprattutto la certificazione lampante del fatto che le vicende del 1938-45 avevano scavato un solco, creato una frattura difficilmente sanabile tra la comunità ebraica italiana – tradita, umiliata e dimezzata – e i connazionali. D’altronde le ferite mai rimarginate della persecuzione subita nel periodo 1938-43 e della shoah, consolidarono negli ebrei il senso di appartenenza alla comunità e il loro processo identitario, oltre che il legame con Israele, ben oltre e in modo ben piú solido e convinto del passato pre-leggi razziali, quando viceversa l’assimilazione e l’integrazione erano il modus vivendi piú diffuso. Il discorso sul dopoguerra e sul processo di reintegrazione degli ebrei, però, ci porterebbe ben piú avanti negli anni rispetto ai limiti temporali e ai confini storiografici di questo lavoro, abbracciando aspetti psicologici, sociologici, economici, politici e giudiziari da affrontare in altra sede. Ci preme invece soffermare l’attenzione sul dovere della memoria che, dopo il silenzio dei primi anni, animò i sopravvissuti della persecuzione e, in modo ancora piú irrinunciabile, i sopravvissuti dei lager. Ha scritto Settimia Spizzichino: «Ci sono cose che tutti vogliono dimenticare. Ma io no. Io della mia vita voglio ricordare tutto, anche quella terribile esperienza che si chiama Auschwitz: due anni in Polonia (e in Germania), due inverni, e in Polonia l’inverno è inverno sul serio, è un assassino... anche se non è stato il freddo la cosa peggiore. Tutto questo è parte della mia vita e soprattutto è
parte della vita di tanti altri che dai Lager non sono usciti. E a queste persone io devo il ricordo: devo ricordare per raccontare anche la loro storia. L’ho giurato quando sono tornata a casa; e questo mio proposito si è rafforzato in tutti questi anni, specialmente ogni volta che qualcuno osa dire che tutto ciò non è mai accaduto, che non è vero»202. Con eguale forza morale Primo Levi ha affermato: «abbiamo spesso l’impressione di essere dei narratori molesti; talvolta, addirittura, si avvera davanti a noi un sogno curiosamente simbolico che frequentava le notti di prigionia: l’interlocutore non ci ascolta, non comprende, si distrae, se ne va e ci lascia soli. Eppure, raccontare dobbiamo: è un dovere verso i compagni che non sono tornati, ed è un compito che conferisce un senso alla nostra sopravvivenza. A noi è accaduto (non per nostra virtú) di vivere un’esperienza fondamentale, e di apprendere alcune cose sull’Uomo che sentiamo necessario divulgare»203. Estendendo questo dovere della memoria – nonché della ricostruzione storica basata sulle fonti – a tutto il periodo della persecuzione, questo libro ripercorre gli anni dal 1938 al 1945 come una sorta di storia dal basso delle vicende degli ebrei in Italia, recuperando documenti spesso trascurati (la corrispondenza e i diari coevi) e in gran parte inediti o pubblicati in edizioni rare o fuori commercio, che col passare del tempo avrebbero rischiato di andare perduti, tranne poche eccezioni (giustificate dallo spessore dell’autore o dal fascino dello scritto). Ne risulta un autoritratto della vita degli ebrei in quel periodo, scritto giorno per giorno da parte dei diretti interessati, che rende il lettore partecipe di quegli avvenimenti e contribuisce a chiarire ciò che in quegli anni è realmente accaduto e i sentimenti, le reazioni, i pensieri intimi delle vittime della persecuzione. I documenti sono riportati in modo integrale, compresi gli errori e le imprecisioni. In particolare per le lettere va comunque tenuta in considerazione «la necessità, – come avverte uno di questi documenti, – di scriverci senza palesare appieno il nostro pensiero»204, dettata dalla paura che fossero intercettate (sotto il fascismo) o di essere scoperti e tradire parenti e amici (sotto la Rsi), oppure dalla volontà di dare rassicurazioni sulle proprie condizioni anche nei casi disperati205. Piú espliciti invece i diari, intimi e privati, redatti proprio al fine di lasciare traccia e memoria degli avvenimenti, ferma restando una qualche autocensura, dettata in
particolare dal timore che venissero scoperti e letti al momento dell’arresto durante la clandestinità, tradendo la propria identità e il proprio pensiero («girare per Roma di casa in casa, con una borsa e le mie scartoffie dove dicevo pane al pane e vino al vino, – scrive l’autore di un diario, – era certamente imprudente e pericoloso: questo diario per il quale vivevo e che tenevo in parte nascosto nei sotterranei del palazzo ove m’ero rifugiato, ficcato a forza dentro un condotto fuori uso, questo diario nel quale scrivevo con voluttà le crude verità della mia vita e le beffe al tedesco, poteva essere per me un grave e tremendo capo d’accusa»206; solo dopo l’arrivo degli Alleati, invece, una donna ebrea annota: «Finalmente posso scrivere ciò che penso. Da oltre due mesi abbiamo interrotto questo povero diario per paura. Non valeva la pena scrivere piangendo, perché troppe cose avremmo dovuto nascondere»207). I brani sono suddivisi in capitoli a carattere sia tematico che cronologico, che consentono di ripercorrere l’intera storia della persecuzione antiebraica in Italia tra il 1938 e il 1945, di «fermare, – come chiarisce l’incipit di una lunga lettera-diario scritta in quegli anni, – questo ricordo […] della vita vissuta qui durante questo periodo» e «i cambiamenti avvenuti dopo l’inizio della campagna razziale nella nostra vita quotidiana»208: dalla campagna di propaganda antisemita all’emanazione delle leggi razziali, dall’internamento sotto il fascismo alle razzie e agli arresti sotto la Rsi, dalla fuga in clandestinità al concentramento nei campi italiani, dalla deportazione nei campi di sterminio al ritorno dei sopravvissuti. Un affresco storico che assume anche un altro significato particolare, in quanto costituito di parole scritte dalle vittime di una persecuzione e di un crimine che il nazifascismo voleva mettere a tacere ed annientare, ma che invece sono arrivate fino a noi, lasciandoci traccia tangibile, prova storica inconfutabile e memoria indelebile di ciò che è stato. Dando ragione all’epigrafe di una di queste vittime, Angelo Fortunato Formiggini, che nell’atto estremo di togliersi la vita a causa delle leggi razziali italiane, scrisse: Né ferro né piombo né fuoco possono salvare la libertà, ma la parola soltanto. Questa il tiranno spegne per prima.
Ma il silenzio dei morti rimbomba nel cuore dei vivi. 1
P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1958. Di Levi vedi anche La tregua (1963) e I sommersi e i salvati (1986). 2 La letteratura sulla shoah (definizione ebraica che significa catastrofe, disastro, distruzione) è sterminata. Un caposaldo è R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi, Torino 1999 (1a ed. inglese 1961, rivista e ampliata fino agli anni Ottanta). Un lavoro basato anche sui diari delle vittime è S. Friedlander, Gli anni dello sterminio. La Germania nazista e gli ebrei (1939-1945), Garzanti, Milano 2009. Vedi anche il Dizionario dell’Olocausto, Einaudi, Torino 2004. 3 D. Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Einaudi, Torino 2009, p. 34. Vedi anche: F. Colombo, Prefazione a S. Zuccotti, L’Olocausto in Italia, Tea, Milano 1995, p. 8; I. Pavan - G. Schwarz, Gli ebrei in Italia tra persecuzione e reintegrazione postbellica, Giuntina, Firenze 2001, p. 12. Lungo questa scia interpretativa si mossero anche le prime ricostruzioni memorialistiche: E. Momigliano, Storia tragica e grottesca del razzismo fascista, Mondadori, Milano 1946 (già pubblicato col titolo 40 000 fuorilegge, Carboni, Roma 1945). 4 «Le norme contro il fascismo? Sono grottesche aboliamole», intervista di Giuliano Ferrara a Renzo De Felice, in «Corriere della Sera», 27 dicembre 1987 (successivamente in J. Jacobelli, Il fascismo e gli storici oggi, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 6). Di De Felice vedi Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1993 (1a ed. 1961). 5 M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2007 (1a ed. 2000), p. xiv. 6 V. Foa, Questo Novecento. Un secolo di passione civile. La politica come responsabilità, Einaudi, Torino 1996, p. 145. 7 Testimonianza in M. Pezzetti, Il libro della Shoah italiana. I racconti di chi è sopravvissuto. Una ricerca del Centro di documentazione ebraica contemporanea, Einaudi, Torino 2009, p. 463. 8 Su questo tema, vedi Leggi del 1938 e cultura del razzismo. Storia, memoria, rimozione, a cura di M. Beer, A. Foa e I. Iannuzzi, Viella, Roma 2010.
9
M. Sarfatti, Gli ebrei cit., pp. 33-34 e R. De Felice, Storia cit., pp. 6-8. 10 Sul rapporto tra ebrei e regime: M. Avagliano, Ebrei e fascismo, storia della persecuzione, in «Patria Indipendente», LI, giugno-luglio 2002, n. 6-7; E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, RomaBari 2008 (1a ed. 2003); G. Scipione Rossi, La destra e gli ebrei: una storia italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. 11 Lettera di Margherita Luzzatto, 19 agosto 1938; Dalle leggi antiebraiche alla Shoah. Sette anni di storia italiana 1938-1945, Cdec, Skira, Milano 2004, p. 107. 12 Diario di Vittorio Pisa, Compiobbi (Firenze) 31 agosto 1938; E. Collotti (a cura di), Razza e fascismo. La persecuzione contro gli ebrei in Toscana (1938-1943), vol. 2, Documenti, Carocci, Roma 1999, p. 136. 13 Cit. in M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Zamorani, Torino 1994, pp. 17-18. Una nuova Informazione diplomatica, la numero 18 del 5 agosto, avvertí che «Gli ebrei in Italia […] sono 44 000 […] la proporzione sarebbe quindi di un ebreo su mille abitanti. È chiaro che, d’ora innanzi, la partecipazione degli ebrei alla vita globale dello Stato dovrà essere, e sarà, adeguata a tale rapporto». 14 I dieci studiosi, per lo piú sconosciuti, rappresentavano un ampio spettro di discipline (biologia, antropologia, medicina, demografia) ed erano: Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzí, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco ed Edoardo Zavattari. In realtà il testo fu redatto da Landra, giovane assistente di Antropologia all’Università di Roma, in base ai precisi orientamenti di Mussolini. Sul rapporto tra scienza, regime e antisemitismo di Stato: G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, il Mulino, Bologna 2010. 15 Lettera di Gino Luzzatto a Corrado Barbagallo, Siusi (Bolzano) 12 agosto 1938; Acs, Cpc, b. 2891, fasc. Luzzatto Gino fu Giuseppe. 16 Cit. in M. Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli Ebrei sotto il fascismo, Einaudi, Torino 2005, pp. 131-33. 17 Appunto di Gualtiero Cividalli, Firenze 24 luglio 1938; Apf, Israele. 18 Diario di Mario Tagliacozzo, Roma 1° gennaio 1938 - 25 luglio 1943; M. Tagliacozzo, Metà della vita. Ricordi della campagna razziale 1938-1944, Baldini & Castoldi, Milano 1998, p. 16. Tagliacozzo (Roma 1902 - Trevi nel
Lazio 1979), dopo l’armistizio lasciò la città insieme alla famiglia, andando prima ad Ancona, nella speranza che non ci fossero i nazisti, e successivamente a Magliano Sabino (Rieti), prima di rientrare a Roma dove trovò rifugio presso conoscenti e in conventi; nel dopoguerra riprese l’attività di agente di commercio. 19 Una prima pubblicazione integrale dei testi delle leggi risale al 1988: M. Sarfatti, Documenti della legislazione antiebraica. I testi delle leggi, nel fascicolo monografico 1938 le leggi contro gli ebrei, «La rassegna mensile di Israel», LIV, gennaio-agosto 1988, n. 1-2, pp. 49-167. Vedi anche M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, Einaudi, Torino 2002. 20 Dati sugli espropri in: M. Sarfatti, Gli ebrei cit., p. 210. 21 Lettera di Gualtiero Cividalli alla moglie Maria, Padova 1° settembre 1939 cit. 22 Diario di Luciano Morpurgo, novembre 1938; L. Morpurgo, Caccia all’uomo, Dalmatia, Roma 1946, pp. 22-23. 23 B. R. Bellomo, Elisa di Corrado, in «Ravenna studi e ricerche», IX, 2002, n. 1, pp. 43-44. 24 Diario di Gualtiero Cividalli, Tel Aviv 29 agosto 1939 cit. Anche tra gli ebrei tedeschi profughi in Italia si registrarono analoghe sottovalutazioni: «Non ritengo che durerà ancora a lungo questo stato di cose in Germania ed in Austria. Noi tutti presto vedremo crollare questi sistemi infami coperti di fango delle fogne e trascinare in rovina tutti coloro che credono oggi di poter cambiare le leggi di natura e che nella loro stupida cecità vogliono distruggere tutto quanto è stato da millenni riconosciuto alla gente dalla giustizia e dalla legge». Lettera di un ebreo austriaco al padre intercettata dalla censura, Bolzano 8 agosto 1938; Acs, Mi, Demorazza, b. 8. 25 Lettera di Gino Luzzatto a Corrado Barbagallo, Venezia 23 gennaio 1938; Acs cit. 26 Lettera di Vittorio Foa ai genitori, Roma 29 luglio 1938; V. Foa, Lettere della giovinezza. Dal carcere 1935-1943, Einaudi, Torino 1998, p. 450. 27 Lettera di Vittorio Foa, Roma 5 settembre 1938; ibid, p. 477. 28 Diario di Roberto Cohen, Anversa (Belgio) senza data; Adn Dp/02. 29 Lettera di Gualtiero Cividalli, Padova 1° settembre 1939 cit.
30
Lettera di Livio Goldschmied alla futura moglie Sofia Arvanitis a Trieste, Zurigo 7 febbraio 1939; Ap Diana Goldschmied, Trieste. 31 Lettera di Max Orefice alla moglie, carcere di Venezia 9 ottobre 1939; Ap Paolo Orefice, New York (parz. cit. in I. R. Pellegrini, Storie di ebrei. Transiti, asilo e deportazioni nel Veneto Orientale, Ediciclo, Portogruaro 2001, p. 182). Orefice, ebreo veneziano esule in America del Sud, negli anni Trenta era impegnato nel processo di bonifica delle campagne del Veneto orientale e, oltre ad essere colpito dalle leggi razziali, alla fine del ’39 venne arrestato per antifascismo (tra l’altro per aver definito in pubblico la propria cavalla piú intelligente di Mussolini). 32 Lettera-diario di Elio Salmon alla cognata Maria D’Ancona, emigrata con la famiglia in Israele, Firenze 20 maggio 1943; E. Salmon, Diario di un ebreo fiorentino 19431944, Giuntina, Firenze 2002, p. 16. 33 Cit. in F. Coen, Italiani ed ebrei: come eravamo. Le leggi razziali del 1938, Marietti, Genova 1988, p. 101. 34 Lettera di Gino Luzzatto a Corrado Barbagallo, Venezia 8 ottobre 1938; Acs cit. 35 Lettera-diario di Elio Salmon, Firenze 20 maggio 1943 cit., p. 16. 36 Lettera di Ezio Ravenna al suo ex capitano Attilio Tanas, Trieste 8 dicembre 1939; M. L. Crosina, Le storie ritrovate. Ebrei nella provincia di Trento 1938-1945, Mst, Trento 1995, p. 235. 37 Lettera a Dora Klein, Bengasi (Libia) 9 maggio 1939; D. Klein, Vivere e sopravvivere. Diario 1936-1945, Mursia, Milano 2001, pp. 65-72. Dora Klein (Łódź 1913), ebrea polacca di idee socialiste, si trasferí in Italia per studiare medicina; dopo l’armistizio venne catturata e deportata ad Auschwitz, Budy e Bergen Belsen, dove sopravvisse, continuando ad esercitare la professione medica anche nei lager. 38 F. Levi, L’identità imposta. Un padre ebreo di fronte alle leggi razziali di Mussolini, Zamorani, Torino 1996, p. 185. 39 Lettera di Aldo Neppi Modona alla madre, Roma settembre 1938; Ap Lionella Neppi Modona, Firenze. 40 Diario di Vittorio Pisa, Firenze 22 novembre 1938 cit., p. 140. 41 Numerose lettere tratte da un fondo dell’Acs sono in P. Frandini, Ebreo tu non esisti! Le vittime delle leggi razziali scrivono a Mussolini, Manni, San Cesario di Lecce 2007. Vedi anche le lettere raccolte da Iael Nidam Orvieto,
Lettere a Mussolini, in «La rassegna mensile di Israel», LXIX, gennaio-aprile 2003, n. 1, pp. 321-46. 42 Lettere di Angelo Fortunato Formiggini a Mussolini (12 settembre 1938) e al re (12 novembre 1938). Vedi: A. F. Formiggini, Parole in libertà, Edizioni Roma, Roma 1945 e Angelo Fortunato Formiggini editore (18781938), Mostra documentaria, Biblioteca Estense, Modena, 7 febbraio - 31 maggio 1980, Stem-Mucchi, Modena 1980. 43 Le dichiarazioni sulla razza del Gran Consiglio del fascismo, in «Israel», 14 ottobre 1938. 44 Lettera di Gino Luzzatto a Corrado Barbagallo, Venezia 22 marzo 1939; Acs cit. 45 Diario di Vittorio Pisa, Firenze 22 novembre 1938 cit., p. 140. 46 Lettera di Carlo Alberto Viterbo alla moglie Nella Uzielli, Roma 10 giugno 1940; Ap Giuseppe Viterbo, Firenze. 47 Ibid. 48 Lettera di Aldo Neppi Modona alla madre, Roma settembre 1938 cit. 49 A. Perosino, Gli ebrei di Alessandria. Una storia di 500 anni, Le Mani, Genova 2002, p. 71. 50 Lettera di Vittorio Foa ai genitori, Roma 28 settembre 1938; V. Foa, Lettere della giovinezza cit., p. 490. 51 Lettera di Umberto Saba, Trieste 23 luglio 1938; U. Saba, Lettere a Sandro Penna 1929-1940, Archinto, Roma 1997, p. 40. 52 Lettera di Aldo Neppi Modona, Roma settembre 1938 cit. 53 Lettera di Enzo Arian a Giorgina Levi, San Maurizio Canavese 12 agosto 1938; M. Filippa, Avrei capovolto le montagne. Giorgina Levi in Bolivia, 1939-1946, Giunti, Firenze 1990, p. 6. 54 Lettera di Ada Carpi al figlio Aldo Neppi Modona, Firenze 18 settembre 1938 cit. 55 Diario di Silvia Forti, Genova 2 febbraio 1939; S. Lombroso, Si può stampare. Pagine vissute 1938-1945, Dalmatia, Roma 1945, pp. 36-37. 56 Diario di Emanuele Artom, Torino 3 settembre 1941; E. Artom, Diari di un partigiano ebreo. Gennaio 1940 - febbraio 1944, a cura di G. Schwarz, Bollati Boringhieri, Torino 2008 (1a ed. Cdec, Milano 1966), p. 13.
57
Lettera di Ferruccio Valobra, carcere di Torino 22 settembre 1944; G. Formiggini, Stella d’Italia stella di David. Gli ebrei dal Risorgimento alla Resistenza, Mursia, Milano 1998, p. 142 e P. Malvezzi - G. Pirelli (a cura di), Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana: 8 settembre 1943 25 aprile 1945, Einaudi, Torino 2003, p. 321. 58 Lettera di Enzo Sereni, Baghdad (Iraq) 27 dicembre 1942; U. Nahon (a cura di), Per non morire. Enzo Sereni. Vita, Scritti, Testimonianze, Federazione sionistica italiana, Milano 1973, p. 217. Sereni (Roma 1905 Dachau 1944), fratello di Emilio, sionista e socialista, dopo la laurea emigrò in Palestina e negli anni Trenta svolse diverse missioni in Europa (anche nella Germania nazista) per aiutare persone che volevano emigrare; durante la guerra fece parte della British Army e nel maggio del ’44 fu paracadutato nell’Italia occupata, ma fu catturato e fucilato a Dachau. 59 Diario di Mario Tagliacozzo, Roma 1° gennaio 1938 - 25 luglio 1943 cit., p. 18. 60 Lettera di Emilio Foà alla moglie, Torino 22 luglio 1938; Ap Franco Foà, Torino. 61 Lettera di Elisa Guastalla al direttore della Bcra Santi Muratori, Pino Torinese 20 giugno 1939; Bcra, Carteggio Muratori, R 468. 62 I catecumeni, in «Vent’anni», 30 agosto 1941 (ritaglio in Acs, Mi, Demorazza, b. 13). 63 Lettera-diario di Elio Salmon, Firenze 20 maggio 1943 cit., p. 16. 64 Diario di Vittorio Pisa, Firenze 17 dicembre 1938 cit., p. 141. 65 Diario di Emma De Rossi, Livorno 6 dicembre 1943; Nei tempi oscuri. Diari di Lea Ottolenghi e Emma De Rossi Castelli. Due donne ebree tra il 1943 e il 1945, Comune di Livorno, Belforte & C., Livorno 2000, p. 181. 66 Lettera-diario di Elio Salmon, Firenze 20 maggio 1943 cit., p. 16. 67 M. Sarfatti, Gli ebrei cit., p. 241. 68 Diario di Silvia Forti, Genova 12 ottobre 1938 cit., pp. 19-20. 69 Diario di Mario Tagliacozzo, Roma 1° gennaio 1938 - 25 luglio 1943 cit., p. 17. 70 Diario di Elena Ottolenghi, Torino 19 ottobre 1938; Istoreto, Fondo Ottolenghi Elena. Nonostante il varo delle leggi razziali e l’avvenuta esclusione dalle scuole (il diario è redatto durante la quarta elementare
frequentata presso la scuola ebraica «Colonna e Finzi» di Torino), le pagine testimoniano come gli insegnanti si sforzassero di far proseguire la vita scolastica con apparente normalità, continuando a trasmettere la retorica patriottica, e perfino fascista, gradita al regime: ogni data è sottolineata con un tratto a matita verde e rosso a formare la bandiera italiana, il primo giorno di scuola inizia con l’alzabandiera, il 25 ottobre si parla del ritorno dei legionari dalla Spagna «coperti di gloria» (sulla pagina c’è anche il disegno della bandiera italiana accanto al fascio littorio), il 4 novembre viene celebrata una cerimonia in memoria degli ebrei caduti nella grande guerra e cosí via. 71 M. Sarfatti, Gli ebrei cit., p. 230. 72 Ultimo biglietto di Emilio Foà, Torino 4 maggio 1939 cit. (parz. cit. in F. Levi, L’identità imposta cit. 73 Lettera di Angelo Fortunato Formiggini alla moglie Emilia Santamaria, Modena 18 novembre 1938; A. F. Formiggini, Parole in libertà, Artestampa, Modena 2009, p. 44. 74 L’e spressione è di Vittorio Foa, in una lettera del 5 settembre 1938 cit., p. 476, in cui invitava la famiglia a prepararsi spiritualmente a questa eventualità. 75 Diario di Mario Tagliacozzo, Roma 1° gennaio 1938 - 25 luglio 1943 cit., pp. 26-27. 76 Lettera di Rosy Narducci Montagnana, Sidney (Australia) 3 ottobre 1940; Ap Manfredo Montagnana. 77 Diario di Gualtiero Cividalli, Tel Aviv 18 settembre 1939 cit. 78 M. Toscano, L’emigrazione ebraica italiana dopo il 1938, in «Storia contemporanea», 1988, n. 6, pp. 1287-314. 79 Lettera di Giorgina Levi al suo ex professore Francesco Lemmi, Sucre (Bolivia) 25 dicembre 1940; Adn E/Adn. 80 Diario di Ermelinda Pontecorvo, 8 febbraio 1940; Adn /92. 81 Lettera di Enzo Sereni, Bagdad (Iraq) 27 dicembre 1942 cit., p. 217. 82 Diario di Emanuele Artom, Torino 3 settembre 1941 cit., pp. 13-14. 83 D. Almansi, La progettata espulsione. Contributo alla storia delle persecuzioni razziali in Italia, in «Israel», XXXI, 18 ottobre 1945, n. 8. Sarfatti cita a tal proposito anche una risposta del ministero dell’Interno del
16 settembre 1938 ad un quesito del prefetto di Livorno (Gli ebrei cit., p. 192). È dell’11 ottobre 1938, invece, un’annotazione nel diario di Claretta Petacci, in cui è riferito il seguente sfogo del duce: «Questi schifosi di ebrei, bisogna che li distrugga tutti. Farò una strage come hanno fatto i turchi. Ho confinato settantamila arabi, potrò confinare cinquantamila ebrei. Farò un isolotto, li chiuderò tutti là dentro»; C. Petacci, Mussolini segreto. Diari 1932-1938, Rizzoli, Milano 2009, p. 423. 84 M. Sarfatti, Gli ebrei cit., p. 194; E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit., p. 91; M. A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, il Mulino, Bologna 2008, p. 306. 85 Isral, Fondo Pansa, Persecuzioni subite dalla Comunità di Alessandria nel periodo 1943-45 (relazione dattiloscritta senza data e firma, probabilmente redatta nel 1945 dal Rabino Coen, parz. cit. in A. Perosino, Gli ebrei di Alessandria cit., p. 75). Il racconto degli avvenimenti di Spalato è invece in un diario del 30 luglio 1942: «Mi vien riferito da persone di famiglia e da altre degne di fede, giunte in questi giorni a Roma, che la sera di venerdí 10 giugno alle 19, mentre nel Tempio israelitico di Spalato si svolgevano sacre funzioni, una turba di forsennati, giovani forti e aitanti che vestivano la camicia nera e facevano parte dei “battaglioni M” toscani, entrarono nel tempio, […] muniti di staffili e di bastoni, colpirono a sangue i presenti indifesi, vecchi e giovani, e si scagliarono contro i sacri arredi»; L. Morpurgo, Caccia all’uomo cit., p. 76. 86 Asr, Prefettura, Gabinetto, b. 1515, Verbale di interrogatorio di Carmelo Nencioni. 87 Acs, Mi, Demorazza, b. 5. Il fondo contiene centinaia di lettere di questo tenore. 88 Lettera del presidente dell’Ucii Dante Almansi (Parma 1877 - Roma 1949), già prefetto e vicecapo della Polizia, al presidente della comunità di Livorno Gastone Lusena, Roma 11 giugno 1940; Ucei, b. 85D, fasc. 6, Comunità. 89 Lettera circolare a tutte le Comunità israelitiche del presidente dell’Ucii Dante Almansi, Roma 11 giugno 1940; Ucei, b. 85D, fasc. 6, Volontariato. 90 C. S. Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (19401943), Einaudi, Torino 2004. Vedi anche: C. Di Sante (a cura
di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), Franco Angeli, Milano 2001; F. Galluccio, I lager in Italia. La memoria sepolta nei duecento luoghi di deportazione fascisti, Nonluoghi Libere Edizioni, Roma 2002. Sull’internamento degli ebrei stranieri: A. Pizzuti, Vite di carta. Storie di ebrei stranieri internati dal fascismo, Donzelli, Roma 2010. 91 Appunto-diario di Gisella Weisz, Ferramonti senza data; Acdec, Fondo Israel Kalk, b. 7, fasc. 103. 92 Il dato sugli ebrei italiani internati è unanimemente accreditato dalle ricerche piú recenti. Quanto agli stranieri, Sarfatti ne conta 6386 nell’aprilemaggio 1943, di cui 4339 in comuni e 2047 nei campi (Gli ebrei cit., p. 189). 93 Diario di Eugenio Lipschitz, Campagna 28 luglio 1940; E. Lipschitz, Una storia Ebraica, ed. fuori commercio, Giuntina, Firenze 2001, p. 115. 94 Lettera di Lelio Vittorio Valobra al presidente dell’Ucii Dante Almansi, Genova 3 luglio 1940; Ucei, b. 45B, fasc. 3, Delasem 1940. 95 Lettera di Carlo Alberto Viterbo alla madre, Roma, carcere di Regina Coeli 14 giugno 1940 cit. 96 M. L. Eisentein, L’internata n. 6, Tranchida, Milano 1994, pp. 73-89. 97 Lettere di Carlo Alberto Viterbo, Sforzacosta (Macerata) 28 giugno 1940 e Urbisaglia 30 giugno 1940 cit. 98 Tra gli altri: due ex convitti a Campagna (Salerno), un vecchio convento ad Isernia e Agnone, una foresteria a Isola di Gran Sasso (Teramo), case private a Tossicia e Notaresco (Teramo), un vecchio cinema e una scuola a Casoli (Chieti), una villa di campagna a Lanciano (Chieti) e a Bagno a Ripoli (Firenze), la villa di una vecchia abbazia a Urbisaglia (Macerata), un locale che avrebbe dovuto essere adibito a mattatoio a Manfredonia (Foggia), un castello medievale a Montechiarugolo (Parma). Circa la metà dei campi d’internamento erano in Abruzzo, Molise e Marche, gli altri in Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Lucania, Calabria e nelle piccole isole di Ustica, Lipari, Ponza, Ventotene e Tremiti. Gli unici due campi dell’Italia settentrionale si trovavano in Emilia Romagna (Montechiarugolo e Scipione). 99 Relazione sul campo di Ferramonti. Ubicazione e descrizione generale; Acdec, Fondo Israel Kalk, b. 2, fasc. 12. Su Ferramonti: C. S. Capogreco,
Ferramonti. La vita e gli uomini del piú grande campo d’internamento fascista (1940-1945), Giuntina, Firenze 1987; F. Folino, Ferramonti. Un lager di Mussolini, Editore Brenner, Cosenza 1985 e Ebrei destinazione Calabria (1940-1943), Sellerio, Palermo 1988; R. Pacifici, Il «campo» di Ferramonti negli ultimi tempi del regime, in «QCSDI», 1969-71, n. 6, pp. 89-91; M. Rende, Ferramonti di Tarsia. Voci da un campo di concentramento fascista, Mursia, Milano 2009. 100 G. Petroni, Gli ebrei a Campagna durante il secondo conflitto mondiale, Comitato Giovanni Palatucci, Eboli 2001; A. Maggio (a cura di), Gli ebrei a Campagna. Piccole storie di grande umanità, Campagna 1996. 101 Lettera del capo dei capi camerata Herbert Landau al comandante della stazione di P.S. maresciallo Gaetano Marrari, Ferramonti 15 settembre 1943; Acdec, Fondo Israel Kalk. Paul Pollak, internato ad Urbisaglia e successivamente deportato ad Auschwitz, dopo la liberazione ha scritto in una relazione: «Il trattamento umano dei suoi internati rimarrà sempre un attestato di lode per l’Italia e un documento della sua nobile antica civiltà e della sua sincera religiosità»; Acdec, Fondo Israel Kalk, b. 3, fasc. 33. 102 Diario di Eugenio Lipschitz, senza data cit., p. 115. 103 Testimonianza di Wilhelm Baehr; Cdec, Fondo Kalk, b. 3, fasc. 35. 104 Memoriale di Max Bester; Icsaic, fondo Moscati. 105 Lettera di Richard Stern al Comitato per gli Emigranti Ebrei a Genova, Campagna 16 luglio 1940; Ucei, b. 45B, fasc. 3, Delasem 1940. 106 Memoriale di Max Bester cit. 107 Testimonianza di Enzo Furst; Acdec, Fondo Israel Kalk, b. 7, fasc. 104. 108 Lettera al Cardinale Borgonzini Duca, Isernia 19 settembre 1941; Ucei, b. 45, fasc. 10, Assistenza - Rapporti con i comitati locali 1941. Il nome dell’internato non è indicato. 109 Testimonianza di Enzo Furst cit. 110 Ibid. 111 Lettera di Carlo Alberto Viterbo, Sforzacosta (Macerata) 28 giugno 1940 cit. 112 Lettera di Cilli Holzer ad un’amica, Camisano Vicentino (Vicenza) 31 maggio 1943; S. Capovilla - G. Pulin, Ebrei internati a Camisano Vicentino
durante la Seconda Guerra Mondiale, Editrice Veneta, Vicenza 2006, p. 124. Cilli Holzer (Berlino 1920), figlia di genitori polacchi apolidi, istruttrice, dopo aver lasciato la Germania, all’inizio della guerra fu internata insieme alla famiglia a Ferramonti (fino al 13 ottobre 1941) e a Camisano Vicentino (dove venne denunciata e trattenuta alcuni giorni in arresto per aver oltrepassato i confini del comune in bicicletta, insieme alla sorella Edit e alle amiche Ruth Schöps, Clara ed Henny Stein); nel dopoguerra rientrò in Germania. 113 Lettera del presidente della comunità israelitica di Roma Aldo Ascoli al presidente dell’Ucii Dante Almansi, Roma 26 agosto 1940; Ucei, b. 85D, fasc. 6 Comunità. 114 M. Sarfatti, Gli ebrei cit., p. 204. 115 Diario di Scipione Poggetto, senza data ma riferito al maggio del 1942; Acdec, Fondo Antifascisti e partigiani Ebrei, b. 12, fasc. Poggetto Scipione. Il diario fu scritto a matita dall’ottobre del 1938 al 29 aprile del 1945. 116 L’arresto di un ebreo assentatosi dal lavoro obbligatorio, «La provincia di Como», 8 ottobre 1942 (ritaglio in Acs, Mi, Demorazza, b. 12). 117 M. Sarfatti, Gli ebrei cit., pp. 200-1. 118 Lettera anonima al prefetto di Roma, Roma 16 giugno 1942; Asr, Prefettura, Gabinetto, b. 1515. 119 Messaggio su busta da lettere di Renzo Levis a Clementina Jesurum, Venezia 25 luglio 1943 ore 23; Ap Massimo Demma, Milano. Levis (Venezia 1916-1974), laureato in Ingegneria, in seguito alle leggi razziali venne estromesso dall’insegnamento al liceo Marco Polo di Venezia; docente nella scuola ebraica, dopo l’armistizio si nascose con la famiglia a Zianigo di Mirano. 120 Diario di Scipione Poggetto, Torino luglio 1943 cit. 121 Lettera di Giorgina Levi ai genitori, Vila Apacheta (Bolivia) 25 luglio 1943; M. Filippa, Avrei capovolto le montagne cit., p. 144. 122 Lettera dell’avvocato Mario Falco al presidente dell’Ucii Dante Almansi, Ferrara 1° agosto 1943; Almansi risponderà il 3 agosto: «Comprendo la tua emozione per gli ultimi avvenimenti. Dobbiamo avere ancora un poco di pazienza. La Giunta, dopo aver molto discusso, è stata
unanime nella decisione di mantenere un assoluto riserbo e credo che sia la linea migliore da seguire»; Ucei, b. 12B, fasc. 4 Giunta 1940-1943. 123 Diario di Emma De Rossi, Livorno 29 luglio 1943 cit., p. 177. 124 Lettera di Ida Luzzatti alla nuora Elena Cortellessa, Roma 4 settembre 1943; R. Bottoni, Un ebreo antifascista: 1925-1945, in «Italia Contemporanea», settembredicembre 2000, n. 220-221, p. 12. Ida Luzzatti era moglie di Giuseppe Segre e madre dell’intellettuale antifascista Umberto. 125 Diario di Giulio Mortara, Svizzera senza data; Adn Dg-01. 126 Diario di Clementina Jesurum, Zianigo di Mirano (Venezia) 25 aprile 1944 cit. 127 Diario di Emma De Rossi, Livorno 26 ottobre 1943 cit., p. 179. Altri eccidi isolati si verificarono a Novara il 17 settembre, Ascoli Piceno il 4 ottobre, Ferrara il 14 novembre (ad opera di fascisti intenzionati a vendicare l’uccisione del federale locale Igino Ghibellini). Altri eccidi, oltre alle Fosse Ardeatine, si ebbero nel corso del 1944 a San Pietro (Chieti) l’11 gennaio, Villamagna di Gubbio (Chieti) il 27 marzo, Pisa il 1° agosto, Rignano sull’Arno e Rufina di Caselle (Firenze) in agosto, Forlí il 5, 17 e 28 settembre, Pinosinatico di Cutigliano (Pistoia) il 28 settembre. Altri ancora nel 1945 (a Cuneo il 26 aprile) e in data sconosciuta (Fiume, Cantú, Ponte Lima e Firenze). 128 Diario di Letizia Morpurgo, Venezia dicembre 1945; Ap Paolo Fano, Roma. Letizia Morpurgo (Trieste 1899-1965), dopo l’armistizio lasciò Trieste con la famiglia e si stabilí a Venezia, dove fu arrestata insieme al marito Giuseppe Fano e detenuta in carcere, in attesa di processo per falsificazione di documenti, fino alla Liberazione. 129 Diario di Emma De Rossi, Livorno 26 ottobre 1943 cit., p. 179. 130 Diario di Giulio Mortara, Gallarate 17 settembre 1943 cit. 131 Diario di Salvatore Segre, Stresa 15 settembre 1943; S. Segre, Stresa, settembre 1943, in E. M. Smolensky - V. Vigevani Jarach, Tante voci, una storia. Italiani ebrei in Argentina 1938-1948, il Mulino, Bologna 1998, pp. 300-1. Segre (Milano 1882-1948), aveva una villa sul lago appena fuori da Stresa ma riuscí a sfuggire alla cattura. 132 Diario di Antonino Briganti, Roma 16 ottobre 1943; Acdec, Fondo Vicissitudini dei singoli, b. 3, fasc. 82. Briganti (Palermo 1901) è sposato
con l’ebrea Giorgina Ajò. 133 L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Ricerca della Fondazione Cdec, Mursia, Milano 2002 (1a ed. 1991), p. 44. 134 Una raccolta di testimonianze sulla retata di Roma realizzata subito dopo la Liberazione della città è in G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, OET, Roma 1944. Vedi anche: Ottobre 1943: cronaca di un’infamia, Comunità israelitica di Roma, Roma 1961; Roma 16 ottobre 1943. Anatomia di una deportazione, Ascer, Guerini e Associati, Milano 2006; F. Coen, 16 ottobre 1943. La grande razzia degli ebrei di Roma, Giuntina, Firenze 1993; L. Picciotto, L’occupazione tedesca e gli ebrei di Roma, Carocci, Roma 1979. 135 Lettera-diario di Elio Salmon, Volognano 6 novembre 1943 cit., p. 15. 136 Diario di Anna Cesana, 24 marzo 1944; Ap Anna Cesana Solomon, Inghilterra, parz. cit. in S. Bon, Sono passati settant’anni da allora. Storie di persecuzione e di salvazione di ebrei giuliani, in «Quaderni Giuliani di Storia», XXIX, 1998, n. 2. 137 Diario di Attilio Morpurgo e Gina Viterbo, Gorizia 8 settembre 1943; A. Morpurgo - G. Viterbo, Diario. Il manoscritto. Il racconto di un uomo in fuga che interroga Dio e invoca il ritorno del figlio piú amato, a cura di Andrea Morpurgo, in «Diario del mese», 21 gennaio 2005. Gina Viterbo era la governante di Attilio Morpurgo, presidente della comunità ebraica di Gorizia. 138 Memoriale di Bruno Segre, Castelletto di Busca autunno 1944; Ucei, b. 45F, fasc. 10 Assistenza - Rapporti con i comitati locali 1941. Segre (Torino 1918), avvocato, nel ’42 fu arrestato per disfattismo politico e fu catturato nuovamente nel settembre ’44 dalla Gnr ma riuscí ad evadere corrompendo una guardia; entrò nella Resistenza, arruolandosi nella prima Divisione Alpina Giustizia e Libertà a Pradleves (Val Grana) e prendendo parte alla liberazione di Caraglio. 139 E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit., p. 126. Sul tema è stata fatta luce da Liliana Picciotto nel Libro della memoria cit., in particolare con la statistica relativa alle autorità responsabili degli arresti. 140 Diario di Antonino Briganti, Roma 2 febbraio 1944 cit. 141 Diario di Letizia Morpurgo, Venezia dicembre 1945 cit.
142
Biglietto clandestino su carta igienica di Pacifico Foà alla moglie Annetta Siccardi, Carceri Nuove di Torino senza data; Ap Franco Debenedetti Teglio, Torino. Foà (Cuneo 1905 - Auschwitz 1944), dopo l’armistizio si rifugiò presso le cave in Val Susa di proprietà di un amico, ma venne arrestato a Torino dove si era recato per un funerale; trasferito in carcere a Milano, fu deportato da Verona ad Auschwitz e ucciso al suo arrivo. 143 Lettera di Rudolf Levy, Firenze, Carcere Le Murate 21 dicembre 1943; Dalle leggi antiebraiche alla Shoah cit., p. 206. 144 Lettera di Ernesto Dell’Ariccia, Roma, Carcere di Regina Coeli senza data; Apf, Roma. 145 Lettera di Samuele Di Castro alle sorelle, senza data con timbro «carceri giudiziarie di Roma» sul frontespizio; L. Picciotto, L’occupazione tedesca cit., p. 127. 146 Lettera di Cesare Zarfati, scritta poco prima di essere deportato; Acdec, archivio fotografico. 147 Lettera di Salomone e Wilhelm Reiter, ebrei francesi rifugiati nel cuneese, al parroco di Borgo San Dalmazzo don Viale, Entracque (Cuneo) 7 maggio 1945; A. Cavaglion, Nella notte straniera. Gli ebrei di St-Martin Vésubie. 8 settembre - 21 novembre 1943, L’arciere, Cuneo 1991, p. 160. 148 Diario di Giulio Mortara, Svizzera senza data cit. 149 Testimonianza di Giannino Revere in L. Picciotto, Gli ebrei in provincia di Milano 1943-1945. Persecuzione e deportazione, Cdec e Provincia di Milano, Milano 2004, p. 47. 150 Lettera di Aldo Neppi Modona e Rachel Fintz ai figli Lionella e Leo nascosti ad Anghiari (Arezzo), Arezzo 18 aprile 1944 cit. 151 Diario di Renzo Segre, San Maurizio Canavese (Torino) 15 dicembre 1943; R. Segre, Venti mesi, Sellerio, Palermo 1995, p. 59. 152 Diario di Mario Tagliacozzo, Roma 6 febbraio 1944 cit., p. 233. 153 I. Gutman - B. Rivlin (a cura di), I giusti d’Italia. I non ebrei che salvarono gliebrei. 1943-1945, ed. italiana a cura di L. Picciotto, Mondadori, Milano 2006. 154 Diario di Letizia Morpurgo, Venezia dicembre 1945 cit.
155
Nel carcere romano di Regina Coeli nel marzo 1944 Lazzaro Anticoli scrive: «Se non vedrò piú la mia famiglia è a causa di Celeste Di Porto. Vendicatemi»; F. Coen, 16 ottobre 1943 cit., p. 124. Anticoli (Roma 19171944), pugile dilettante e venditore ambulante soprannominato Bucefalo, fu fucilato alle Fosse Ardeatine. 156 Diario di Mario Tagliacozzo, Roma 6 febbraio 1944 cit., p. 235. 157 Acsrsi, questore di Brescia ai podestà e commissari prefettizi della provincia, 10 gennaio 1944. 158 Diario di Lea Ottolenghi, Bellinzona 20 dicembre 1943 cit., p. 42. 159 IWM, fondo Moscati 42/18, Dipartimento federale di giustizia e polizia, Ai rifugiati, Berna, giugno 1944. 160 Lettera di Umberto Terracini a Palmiro Togliatti, Svizzera 5 gennaio 1944; U. Terracini, Al bando dal Partito. Carteggio clandestino dall’Isola e dall’esilio 1938-45, La Pietra, Milano 1976, pp. 166-67. Terracini (Genova 1895 - Roma 1983), tra i fondatori del Pcd’I, di cui fu dirigente, nel dopoguerra fu presidente dell’Assemblea Costituente e deputato alla Camera. 161 Michele Sarfatti calcola che gli ebrei furono pari al 2,8 per mille del totale dei partigiani italiani; M. Sarfatti, Ebrei e partigiani. Una storia da scrivere, in «l’Unità», 13 gennaio 2008. Vedi anche L. Picciotto, Sul contributo di ebrei alla resistenza italiana, in «La rassegna mensile di Israel», XLVI, marzo-aprile 1980, n. 3-4, pp. 132-46. 162 E. Artom, Diari cit., p. 55. 163 Lettera di Eugenio Curiel, Milano 9 marzo 1944; Documenti inediti di e su Eugenio Curiel, in «Protagonisti», Isrb, gennaio-marzo 1996, n. 62, p. 75. Curiel (Trieste 1912 - Milano 1945), di idee antifasciste, cultore di studi filosofici, a Parigi prese contatto con i dirigenti del Pcd’I e, tornato in Italia, elaborò un piano d’infiltrazione nelle organizzazioni di regime, diventando dirigente del settore culturale del Guf; in seguito alle leggi razziali fu esonerato dall’insegnamento e dopo l’armistizio col nome di battaglia di Giorgio divenne uno dei dirigenti dell’«Unità», nonché fondatore del FdG, ma nel febbraio del ’45 fu riconosciuto e ucciso a colpi di mitra (medaglia d’oro alla memoria). 164 Diario di Giulio Bolaffi, provincia di Torino 27 luglio 1944; G. Bolaffi, Un partigiano ribelle, Daniela Piazza, Torino 1995, p. 83.
165
Lettera di Davide Pugliese allo zio nonché tutore Giacomo, Pian San Giacomo (Svizzera) 25 luglio 1944; Ilsrec, Fondo N.A., b. 1, fasc. 15 166 Lettera di Gianfranco Sarfatti ai genitori, Svizzera 13 agosto 1944; Ap Gianfranco Sarfatti, Milano. 167 Isrc, fondo Questione ebraica, fasc. 14 Programma Comitato Assistenza Ebraica. 168 Lettera di Salomone e Wilhelm Reiter a don Viale, Entracque (Cuneo) 7 maggio 1945 cit., p. 160. 169 Diario di Gabriele Gallico, Torino 26 e 28 aprile 1945 (scritto ex post, probabilmente in maggio); F. Germinario (a cura di), Osservando la Storia da corso Vigevano, 50. I giorni dell’insurrezione torinese nel diario inedito di Gabriele Gallico, in «l’impegno», Isrsc Bi-Vc, XXVI, giugno 2006, n. 1. Gallico, in seguito alle leggi razziali fu escluso dalla scuola e iniziò a lavorare in un negozio di tessuti; dopo l’armistizio, quando il rabbino di Vercelli Ugo Massiach, avvertito dalla curia locale dell’imminente arrivo dei tedeschi, invitò i correligionari a fuggire, la famiglia si rifugiò nel cuneese e dal dicembre del 1944 a Torino, in clandestinità, grazie anche all’aiuto del titolare del biscottificio dove lavorava il padre, nel frattempo deceduto. 170 L. Picciotto, L’alba ci colse come un tradimento. Gli ebrei nel campo di Fossoli 1943-1944, Mondadori, Milano 2010; A. M. Ori, Il campo di Fossoli, Comune di Carpi, 2005. 171 Lettera di Giuseppe Diena, Bolzano 2 ottobre 1944; Ap Giorgio Diena; la corrispondenza della famiglia Diena (Giorgio, Giuseppe e Paolo) è anche in B. Fant, Epistolario della famiglia Diena dal 1941 al 1945, tesi di laurea, Università di Torino, 1997. 172 L. Picciotto, Il libro della memoria cit., p. 31. 173 Rapporto sull’organizzazione igienico-sanitaria del campo di concentramento per ebrei di Monowitz (Auschwitz - Alta Slesia), di Leonardo De Benedetti e Primo Levi, senza data (ma risalente al 1945); Ucei, b. 44A, fasc. 3 Testimonianze su campi di concentramento. 174 Biglietto di Lionello Alatri, lanciato alla stazione di Roma Tiburtina il 18 ottobre 1943; R. Katz, Sabato nero, Rizzoli, Milano 1973, p. 229. Alatri (Roma 1878 - Auschwitz 1943), proprietario di un grande magazzino e membro del consiglio ebraico, fu catturato nella retata del 16 ottobre 1943.
175
Biglietto lanciato dal treno da Marcella Bemporad, Bolzano 17 maggio 1944; Ap Anna Cassuto Bemporad. 176 Biglietto di Ezio Michele Spizzichino, stazione di Carpi 16 maggio 1944; Ascer, ma fotografato e citato in varie pubblicazioni. 177 M. Dini - S. Jesurum, Primo Levi. Le opere e i giorni, Rizzoli, Milano 1992, p. 39. 178 Biglietto di Vito Perugia, Fossoli 20 aprile 1944 (data del timbro postale); L. Picciotto, L’occupazione tedesca cit., p. 123. Perugia (Roma 1884 - Auschwitz 1944), falegname, fu arrestato il 29 marzo 1944 e trasferito nel campo di raccolta di Fossoli il 12 aprile da dove il 16 maggio fu deportato ad Auschwitz e ucciso al suo arrivo su un binario morto mentre attendeva il turno di entrata. 179 Lettera di Dante Momigliano (Torino 1894 - Flossenburg 1944), Bolzano 19 dicembre 1944; G. Ottolenghi - G. Moscati, Storia postale dell’antisemitismo nazista, Sugarco, Varese 1996, p. 84. 180 Biglietto di Marta, Paolo, Anna, Alfredo Dalla Volta, Verona 7 dicembre 1943; Dalle leggi antiebraiche alla Shoah cit., p. 215. 181 Lettera di Abramo Segre, in viaggio (oltre Brescia), 7 dicembre 1943; M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista cit., p. 300. 182 Biglietto di Tranquillo Sabatello e Enrica Astrologo, Carpi 16 maggio 1944; L. Picciotto, L’occupazione tedesca cit., p. 134. 183 Rapporto sull’organizzazione igienico-sanitaria del campo di concentramento per ebrei di Monowitz (Auschwitz - Alta Slesia) cit. 184 Lettera di Elena Recanati Foa, Torino 30 ottobre 1945; Ap Massimo Foa. 185 L. Picciotto, Il libro della memoria cit., p. 28. Sull’universo concentrazionario nazista in generale vedi: Lager, totalitarismo, modernità, Ilsrec, Bruno Mondadori, Milano 2002; V. E. Giuntella, Il nazismo e i lager, Studium, Roma 1979; W. Sofsky, L’ordine del terrore. Il campo di concentramento, Laterza, Roma-Bari 1993; C. Vercelli, Tanti olocausti. La deportazione e l’internamento nei campi nazisti, Giuntina, Firenze 2005. Una guida storico-didattica sui lager nazisti è A. Chiappano, I Lager nazisti, Giuntina, Firenze 2007. Per una ricostruzione delle deportazioni dall’Italia in generale vedi la voce Deportazioni dall’Italia di Bruno Mantelli nel Dizionario della Resistenza, vol. 1, Einaudi, Torino 2000, pp. 124-40 e Il
libro dei deportati, Dipartimento di Storia dell’Università di Torino e Aned, 2 voll., Mursia, Milano 2009. 186 Vedi in particolare M. Pezzetti, Il libro della Shoah italiana cit., A. Segre - G. Pavoncello, Judenrampe. Gli ultimi testimoni, Elliot, Roma 2010 e la bibliografia curata da A. Bravo e D. Jalla, Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia (1944-1993), Franco Angeli, Milano 1994, aggiornata da G. Vaglio, Le parole e la memoria. La memorialistica della deportazione dall’Italia, Ega Edizioni Gruppo Abele, Torino 2007. 187 Lettera di Eugenio Ravenna ad Eugenio De Benedetti, Ferrara 12 dicembre 1945; P. Ravenna, La famiglia Ravenna. 1943-1945, ed. fuori commercio, Corbo Editore, Ferrara 2001, pp. 62-63. 188 Ap Renzo Ravenna, Ferrara. 189 Lettera di Elena Recanati Foa, Torino 30 ottobre 1945 cit. 190 L. Picciotto, Appunti sulla liberazione ed il rientro dei reduci ebrei, in A. Cavaglion (a cura di), Il ritorno dai lager, Franco Angeli, Milano 1993, pp. 129-37. 191 Lettera di Eugenio Ravenna ad Eugenio De Benedetti cit., p. 63. 192 F. Barozzi, L’uscita degli ebrei di Roma dalla clandestinità, in M. Sarfatti, Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la seconda guerra mondiale, Cdec, Giuntina, Firenze 1998, p. 45. 193 Lettera di Eugenio Ravenna ad Eugenio De Benedetti cit., p. 61. 194 A. Minerbi - M. Sarfatti, L’era dei musei della Shoah. Sei recenti allestimenti, in «Italia contemporanea», Insmli, dicembre 2007, n. 249, p. 583. 195 Lettera di Mario Fubini alla famiglia Arvanitis, relativa alla morte del marito di Silvia Arvanitis, Livio Goldschmied, a Mauthausen, Roma 26 agosto 1945; Ap Diana Goldschmied. 196 Diario di Clementina Jesurum, Venezia 10 settembre 1945 cit. 197 Lettera di Charlotte Samuel al parroco di Borgo San Dalmazzo, Savona pentecoste 1945; Isrc, fondo Questione ebraica, fasc. 5. 198 Diario di Mario Tagliacozzo, Roma 5 giugno 1944 cit., p. 316. 199 Isrc, Fondo Questione ebraica, fasc. 4. 200 V. Foa, Questo Novecento cit., p. 145. 201 E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei cit., p. 161.
202
S. Spizzichino - I. Di Nepi Olper, Gli anni rubati: le memorie di Settimia Spizzichino, reduce dai Lager di Auschwitz-Birkenau e BergenBelsen, Comune di Cava de’ Tirreni, Stampa Grafica Metelliana, Cava dei Tirreni 1996, p. 15. 203 P. Levi, Cosí fu Auschwitz, in «La Stampa», 9 febbraio 1975. 204 Diario di Giulio Mortara, Svizzera senza data cit. 205 Sul tema in generale E. Cortesi, Reti dentro la guerra. Corrispondenza postale e strategie di sopravvivenza (1940-1945), Carocci, Roma 2008. 206 L. Morpurgo, Caccia all’uomo cit., p. 7. 207 Diario di Luisa e Silvia Zaban, Cingoli (Macerata) 13 luglio 1944; Adn Dg/Adn. 208 Lettera-diario di Elio Salmon, Firenze 20 maggio 1943 cit., pp. 15-16.
Note di compilazione e lettura.
Biografie. Per ciascun autore di lettera o diario sono riportate in nota brevi informazioni biografiche. Le notizie sono tratte da pubblicazioni (in particolare Il libro della memoria e Il libro dei deportati)1 o sono state fornite dagli interessati, dalle famiglie, dalle associazioni, dagli istituti storici, dai Comuni e dalle Comunità. Per le donne è generalmente indicato solo il cognome da nubile. Testi. I brani sono riportati fedelmente, anche nel caso di errori o imprecisioni. Laddove necessario e possibile, ai fini di una migliore comprensione, sono riportate in nota alcune precisazioni. Sigle e abbreviazioni sono state esplicitate tra parentesi quadre. Per le sigle ricorrenti si rimanda all’apposito elenco. Nomi dei luoghi. Per le località citate è indicata la nazione o, per l’Italia, la provincia attuale, che non sempre corrisponde a quella dell’epoca. Omissis e parole illeggibili. I punti sospensivi tra parentesi quadre indicano parti omesse, che rispondono all’unica logica di concentrare nello spazio disponibile i brani di particolare interesse. I punti sospensivi tra parentesi tonde indicano parole o frasi illeggibili. I punti sospensivi senza parentesi sono di pugno degli autori. Ordine dei brani. All’interno di ciascun capitolo i brani sono riportati in ordine cronologico, considerando la data della prima lettera o della prima annotazione di diario. Gli scritti senza data sono stati inseriti tenendo conto della data presunta o all’inizio. 1
L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (19431945), Ricerca della Fondazione Cdec, Mursia, Milano 2002 (1a ed. 1991); B. Mantelli e N. Tranfaglia (a cura di), Il libro dei deportati, Dipartimento di Storia dell’Università di Torino e Aned, 2 voll., Mursia, Milano 2009, vol. 1.
Abbreviazioni e sigle.
Acdec Acs Acsrsi Adn Aned Anei Anpi Ap Apf Ascer Asr Bcra Cdec Cpc Delasem Egeli FdG Gap Gestapo Gil Gl Gnr Guf Icsaic Ilsrec Insmli Ipsaic Irsmlm Iscc Isral
Archivio centro di documentazione ebraica contemporanea Archivio centrale dello stato, Roma Archivio centro studi Repubblica sociale italiana, Salò Archivio diaristico nazionale, Pieve Santo Stefano Associazione nazionale ex deportati Associazione nazionale ex internati Associazione nazionale partigiani d’Italia Archivio privato (seguito dal nome) Archivio privato della famiglia Archivio storico della comunità ebraica di Roma Archivio di Stato di Roma Biblioteca Classense Ravenna Centro di documentazione ebraica contemporanea Casellario politico centrale Delegazione assistenza emigrati Ente di gestione e liquidazione immobiliare Fronte della gioventú Gruppi d’azione patriottica Geheime Staatspolizei Gioventú italiani del littorio Giustizia e libertà Guardia nazionale repubblicana Gruppi universitari fascisti Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche Istituto di storia contemporanea di Como Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria
Isrb Isrc Isrecl
Istituto storico della Resistenza bellunese Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Lucca Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Biella Isrsc Bi-Vc e Vercelli Iwm Imperial War Museum (Londra) Mi Ministero dell’Interno Minculpop Ministero della Cultura popolare Mst Museo storico in Trento Mvsn Milizia volontaria per la sicurezza nazionale Pcd’I Partito comunista d’Italia Pci Partito comunista italiano Pd’A Partito d’azione Pnf Partito nazionale fascista QCSDI Quaderni del centro studi sulla deportazione e l’internamento Rsi Repubblica sociale italiana SS Schutzstaffel Ucei Unione delle comunità ebraiche italiane Ucii Unione delle comunità israelitiche italiane (nel dopoguerra Ucei)
Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia
Ad Anna A Gaia
La campagna di propaganda antisemita
«Bisognerebbe esser ciechi per non accorgersi che siamo di fronte ad un piano prestabilito» di Gino Luzzatto
Venezia 23.1.19381
Carissimo amico, se il male irrimediabile di cui ti rammarichi, è la mia ritrosia o la mia pigrizia, per cui non mi son deciso a fare in tempo una parte di forza coll’Ercole, hai perfettamente ragione. Se accenni invece con quel male al mio timore di farti un danno senza mio vantaggio, credo che tu abbia torto. Se infine, come mi par piú probabile, ti riferisci al mio accenno alla campagna che si è scatenata in quasi tutta la stampa contro di noi [ebrei], specialmente dopo il Colpo di stato rumeno2, la questione è assai piú complessa. Io ho sempre dato torto ai miei correligionari, che son sempre vissuti sotto l’ossessione di un ritorno all’ostilità e alle persecuzioni; ed anzi son vissuto sempre nell’illusione che l’uguaglianza fosse ormai una conquista definitiva. Anche recentemente l’intensificarsi della campagna, oltre che nella «Vita italiana»3 e nel «Quadrivio»4, in tre o quattro quotidiani, non mi aveva affatto impressionato. Ma ora bisognerebbe esser ciechi per non accorgersi che siamo di fronte ad un piano prestabilito e largamente organizzato, che non si propone un semplice scopo di intimidazione, ma mira a risultati concreti. Non credo nemmeno ora che si arriverà a delle leggi di eccezione: ma, in una forma o nell’altra, a qualche limitazione si arriverà di certo. Intanto quello a cui tengo di piú è di poter venire al congresso, e spero che non me ne tolgano la possibilità. Mia sorella è ancora in attesa, perché l’oculista era indisposto. Ma l’aiuto, che le ha dato una rapida occhiata, l’ha giudicata matura. Credo dunque che entro la settimana prossima sarà operata. E sarebbe l’ora. E per te c’è nulla di nuovo? Ho sentito che le condizioni di Caggese5 sono assai cattive. E Maranelli come va? Ti abbraccio tuo Gino Siusi [Bolzano], 12.8.1938
Carissimo amico, volevo scriverti subito per ringraziarti della tua calda e piena manifestazione di solidarietà (la sola che mi sia giunta finora e la piú desiderata); ma un monte di contrattempi, fra cui il piú grave è stata la malattia e la morte di un vecchio cugino di 86 anni, che non aveva qui altri parenti che noi, mi ha impedito di farlo. La serenità, di cui mi fai le lodi, è diminuita un po’ dopo quella tal Nota6, per cui la guerra vi era dichiarata ufficialmente ed in forma da non lasciare molte illusioni. Ma non voglio aggravare il male, come fanno tanti, facendosene un tormento di tutte le ore e prevedendo gli sviluppi piú catastrofici. Ho ricevuto la replica del Saitta, piccina, cattiva e stupida; e scrivo subito all’Anegnine, incoraggiandolo a rispondere. Ho sentito con molto piacere che Cast[iglioni] ha risposto in modo favorevole alle lettere di March. e Rob.; e non mi pare uomo da reticenze o da ipocrisie. Spero dunque che il tuo viaggio sia decisivo, e che al ritorno dalla Lombardia tu mi porti le notizie piú confortanti. Aspetto le tue istruzioni o i tuoi desiderata per il nostro incontro e intanto ti auguro un buon viaggio con tempo un po’ migliore di quello che ci godiamo quassú. Ti abbraccio tuo Gino 1
Acs, Cpc, b. 2891, fasc. Luzzatto Gino fu Giuseppe. Luzzatto (Padova 1878 - Venezia 1964), considerato il fondatore degli studi di storia economica in Italia, di idee socialiste, rifiutò l’iscrizione al Pnf e in seguito alle leggi razziali fu estromesso dall’Università e gli fu impedito di pubblicare i suoi lavori; dopo l’armistizio si rifugiò a Roma, collaborò con la Delasem e la Resistenza, e nel dopoguerra fu reintegrato come rettore a Venezia. Lettere al socialista Corrado Barbagallo, intercettate dalla Prefettura di Napoli. 2 Il governo guidato dal leader del Partito nazionale agrario Octavian Goga aveva varato una legge per il riesame della cittadinanza degli ebrei, dimettendosi subito dopo per le proteste di Francia e Inghilterra. Il re Carlo II istituí quindi una dittatura, creando un partito unico e lanciando una vasta offensiva contro la Guardia di ferro, movimento fascista e antisemita guidato da Corneliu Zelea Codreanu col sostegno economico di Italia e Germania.
3
Rivista diretta da Giovanni Preziosi. 4 Rivista diretta da Telesio Interlandi. 5 Romolo Caggese (Ascoli Satriano 1881 - Milano 1938), storico. 6 Manifesto degli scienziati razzisti, pubblicato il 14 luglio 1938, oppure l’Informazione diplomatica del 5 agosto 1938, n. 18.
«Si è mai visto al mondo la persecuzione mondiale di una razza?» di Elisa Guastalla
[Pino Torinese] 5.II.387
Caro Muratori, […] Mi piace quello che mi scrivete del vostro modo di intendere la vita di studio: e forse avete ragione voi. Cosí la pensava Arrigo Boito8 che mai si curò del mondan romore9, e diceva: il mio dovere è il mio piacere, e il suo piacere era nell’arte: e ebbe vita felice: e fu, anche lui, celebre malgré lui. Qui tempo magnifico: sereno sole, un freddolino temperato, piacevole. I torinesi si dolgono d’aver un inverno senza neve: non io. Quel povero Vittorio Rossi10, che Corrado amava e stimava come pochi altri, era malato e malandato da un pezzo. Lo ricordo in una conferenza dantesca, cosí vecchio, cosí vecchio, che mi fece pena: la sua fine, per questo, non mi sorprende. Mi farò venir da Milano il libro che mi segnalate, di Huizinga11. Il titolo mi invoglia. La crisi della Civiltà: da tempo mi par di assistere alla bancarotta della nostra Civiltà. Oltre al resto (e crudelissimo a me) c’è questo dilagare dell’antisemitismo qui a Torino (dove gli ebrei sono numerosi e uniti, e ricchi piú del necessario) sensibile e doloroso. Si è mai visto al mondo la persecuzione mondiale di una razza? Dove andranno? È possibile che si pensi di distruggerli, come si fece degli zulú, dei pellirosse… È possibile che non si tenga conto di ciò che hanno dato agli studi, all’arte, alla patria, alla scienza, alla società, in tutti i paesi? Che Mussolini voglia seguir Hitler anche in quello? Basta: tristi cose che conducono… a morir volentieri. Grazie delle care, care lettere VS. Elisa Ricci Pino Torinese 25.VII.1938
Caro Muratori, Come vedete, la campagna contro gli ebrei si delinea sempre piú… totalitaria. Voglio credere a una necessità politica ineluttabile, per
rassegnarmi… assai dolorosamente. Però, voglio provvedere ai casi miei, mettendo al sicuro ciò che Corrado destinava alla Classense12, e che ho sempre considerato di avere solo in usufrutto. Credo di interpretare la Sua volontà, assegnando alla Classense il gruppo di azioni della Società Montecatini (874) che tengo presso di me. Vorrei poter dire che le do senz’altro, fin d’ora, ma la pensione e quel poco che ho in piú, non bastano alla vita che diventa ogni giorno piú difficile. C’è modo legale – sicuro – di affidarle in proprietà alla Classense passando a me, per il poco tempo che mi rimane da vivere, il frutto? Se questo modo non c’è, farò ancora i miei conti e, se possibile, rinuncerò a quella rendita. Ma la volontà di Corrado deve esser fatta. Questo scrivo all’amico (il solo che mi resta) perché prima che io mi impegni, mi consigli. VS. Elisa Ricci 7
Bcra, Carteggio Muratori, R 436. Elisa Guastalla (Mantova 1858 Savonera 1945), esperta di antichi ricami e merletti, sposata in seconde nozze con lo storico dell’arte Corrado Ricci (cattolico, tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti), dopo l’armistizio si rifugiò in una clinica di malattie mentali a Savonera (Torino), grazie a un medico compiacente. Lettere a Santi Muratori, direttore della Bcra dal 1914 al 1943. 8 Arrigo Boito (Padova 1842 - Milano 1918), poeta, compositore e librettista; collaborò con Verdi e fu senatore del Regno d’Italia. 9 Dante, Purgatorio, canto XI. 10 Vittorio Rossi (Venezia 1865 - Roma 1938), filologo e letterato, presidente dell’Accademia dei Lincei dal 1933 al 1937. 11 Johan Huizinga (Groninga 1872 - Arnhem 1945), storico olandese. 12 Ricci aveva donato la sua biblioteca, le sue carte e il suo ricco archivio fotografico alla Bcra, dove sono tuttora conservati.
«Sarò tagliato fuori dalla vita del mio paese che ho tanto amato» di Umberto Saba
Trieste, 23 luglio 193813
Mio caro Penna, Ho ricevuta la tua lettera da Roma. Oggi stesso ho scritto a Milano, per sapere se c’è la persona che vorrei vedervi (piú che altro, ormai, per un consiglio) e se è disposta a ricevermi. Appena lo saprò ti scriverò. Puoi immaginare come sto. Sono un poeta italiano che, per essere nato da madre ebrea, sarò – cosí all’improvviso – tagliato fuori dalla vita del mio paese che ho tanto amato. Senza contare le altre conseguenze probabili, anche per quanto si riferisce alla professione che mi dà da vivere. Oggi «Letteratura»14 mi ha mandato un assegno di 100 lire. Lo giro a te, lieto se gli ultimi soldini che mi sono guadagnati colla mia poesia possono esserti di qualche aiuto. Ti prego però di non incassarlo attraverso letterati o riviste letterarie, perché mi vergogno della piccolezza dell’importo. Giralo a tuo cognato, o a qualche altra persona fuori dalla letteratura. Come ti ho detto, ti scriverò se e quando andrò a Milano. Ma non credo, povero Penna, che la mia compagnia potrà, questa volta, esserti di aiuto o conforto. Sono troppo e troppo giustamente angosciato. E a Milano avrò certo una delusione; ci andrò proprio per scrupolo. Mia moglie15 ti saluta caramente ed io ti abbraccio con tutto l’affetto, tuo Saba Conferma la ricevuta della presente 13
U. Saba, Lettere a Sandro Penna 1929-1940, Archinto, Roma 1997, pp. 40-41. Saba, pseudonimo di Umberto Poli (Trieste 1883 - Gorizia 1957), cittadino italiano nella Trieste austro-ungarica, poeta all’epoca già affermato, in seguito alle leggi razziali dovette cedere la libreria che aveva avviato; dopo un periodo in Francia, all’indomani dell’armistizio si nascose a Firenze. Lettera su carta semplice indirizzata al poeta Sandro Penna (Perugia 1906 - Roma 1977) che era a Roma.
14
Rivista letteraria diretta da Alessandro Bonsanti, che raccolse intorno a sé scrittori come Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini, Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo. 15 Carolina Wöfler, Lina nelle sue poesie.
«Nulla è piú triste di dover assistere come inerti spettatori agli atti di un dramma» di Gualtiero Cividalli
[Firenze] 24 luglio 1938 sera – 26 Tamuz 569816 Non scrivere significa forse non vivere? No: posso dire di aver vissuto e di vivere, giorno per giorno, in piena consapevolezza della loro importanza storica gli avvenimenti che si sono svolti in questi ultimi mesi e che si stanno svolgendo. Nulla è piú triste di dover assistere cosí, come inerti spettatori agli atti di un dramma di cui non sappiamo ancora quanto sia lontano il tragico epilogo: tanto piú quando si ha la sensazione di essere lentamente trascinati verso un gorgo che finirà per travolgere anche noi. Non ci si rende conto della strada percorsa su questa china sdrucciolevole fino a quando non ci si volta indietro…: soltanto allora ci si accorge che le posizioni alle quali poco tempo fa avremmo creduto impossibile di arrivare, sono ormai superate da un pezzo. Sono passati appena cinque anni dal trionfo in Germania di quel movimento17 che ci fece pensare a un ritorno del medioevo: e la svolta si è dimostrata ogni giorno piú delle previsioni. In breve il male dilaga e sempre piú vaste regioni ne sono infettate. Per quanto già prevedessi il peggio, non avrei creduto che in Italia, nella nostra Italia, cui ci legano tanti vincoli di costume, di vita e d’affetto, potesse cosí facilmente svilupparsi un antisemitismo a carattere razzista, ormai designato come teoria ufficiale del regime. A differenza di molti ebrei, forse meno preparati spiritualmente, non credo in imminenti catastrofici provvedimenti. Ma l’affermazione di principio è già di per sé gravissima; rende l’atmosfera impura e prepara il terreno a una situazione sempre piú grave. Se dovessi guardare soltanto al lato materiale e momentaneo non potrei disconoscere che la mia situazione è ottima. Importanti incarichi mi sono stati affidati anche in questi giorni; nessun serio intralcio ha avuto la mia attività; e se io stesso non mi tenessi in disparte per non suscitare gelosia ed invidie, che avrebbero buon gioco contro di me, ebreo e non iscritto al fascio, potrei dire di aver raggiunto una posizione brillante. Eppure tutto
questo è cosí instabile; lo sento cosí poco sicuro, che ne traggo scarso piacere e nessuna tranquillità per l’avvenire. L’esperienza del passato mi fa temere che fra un anno o due nel volgerci indietro vedremo lontana e superata dai fatti quella teorica affermazione di principio18 che pur oggi ci angustia, non soltanto per i suoi possibili sviluppi pratici ma anche per il suo significato spirituale. Essere preparati: questo è l’imperativo dell’ora. Preparati a tutto, pur non vedendo necessariamente ogni cosa in nero. Tentare dunque tutte le vie che possano consentire a noi, ma specialmente ai nostri figli, di superare le difficoltà che è possibile (anche se non certamente probabile) che sorgano sul loro cammino. A questa silenziosa, seria preparazione debbono essere dedicati i prossimi mesi. Anche se non risulterà poi necessaria, non sarà stata inutile: ma sarebbe delittuoso lasciarsi sorprendere dagli eventi, piú o meno previsti, senza aver fatto neppure un tentativo per salvarsi. Purtroppo gli avvenimenti sono cosí improvvisi e si succedono con tanta rapidità che le possibilità di prepararsi in tempo sono assai poche. Chi avrebbe preveduto, pochi mesi or sono, la improvvisa fine dell’Austria19? Tutto il mondo è in subbuglio: in Spagna si combatte ferocemente da piú di due anni una delle piú sanguinose guerre civili che la storia ricordi; con l’intervento di stranieri in gran quantità20; in Cina le stragi si susseguono21; in Russia, in Polonia, in Cecoslovacchia si distinguono prodromi di guerra. Mentre la meccanica trionfa, attraverso i nuovi continui perfezionamenti, e si riesce a compiere il giro del mondo in poco piú di tre giorni; sembra che gli uomini non abbiano altro sogno che quello di porre tutti i mezzi delle scienze al servizio delle forze cieche della distruzione. La violenza è ogni giorno di piú la regina del mondo; unica legge, la forza; uccidere e distruggere, i nuovi comandamenti. Sarà dato a noi, ai nostri figli, di vedere giorni migliori? 16
Apf, Israele. Cividalli (Firenze 1899 - Israele 1997), reduce della Prima guerra mondiale decorato con Croce al merito, antifascista e sionista, amico dei fratelli Rosselli (con Nello promosse il periodico studentesco «Noi giovani»), dopo le leggi razziali emigrò con la famiglia in Palestina,
lavorando come ingegnere in una società edilizia. Appunto su carta semplice, con data del calendario gregoriano ed ebraico. 17 Il nazismo. 18 Manifesto degli scienziati razzisti. 19 Annessa alla Germania il 12 marzo 1938. 20 Guerra civile spagnola (1936-1939), che si concluse con l’affermazione della dittatura di Francisco Franco, sostenuto da Germania e Italia, contro la Repubblica spagnola appoggiata dalle democrazie occidentali e dall’Urss. 21 Guerra cino-giapponese, durante la quale, alla fine del 1937, i giapponesi occuparono Nanchino, sede del governo nazionalista cinese, facendo strage di militari e civili.
«Non rattristatevi troppo per l’offensiva antisemita in corso» di Vittorio Foa
Roma, 29 luglio 193822
O carissimi, sono ancora sotto la commossa impressione della cara sorpresa della visita di papà; non me l’aspettavo e lo ringrazio tanto tanto; sono stato contento di vedere che Diano ha giovato alla sua salute, ma nello stesso tempo mi dispiace che si sia messo in viaggio da solo, con questo caldo, e per due notti di treno, e per giunta in un momento in cui, come è naturale, il suo animo è un po’ rattristato dagli avvenimenti; questo mio senso di commozione e di pena (per cui l’ho mentalmente accompagnato nel viaggio di ritorno fino a casa) mi dà la misura, o meglio il senso della dismisura, del bene che gli voglio e della mia gratitudine. È stata una fortunata combinazione che abbia potuto fare la conoscenza della signora Ada, forse però ho capito male quando ha detto che la signora lo avrebbe rivisto fuori e temo perciò che papà abbia aspettato inutilmente, ad ogni modo potrete facilmente ripescarla scrivendole (ora è presso Moranti, via Bonavino 1-3, Pegli) o facendole una visita; se andate a Pegli la troverete presso sua madre e suo patrigno di cui è ospite, credo sia gente priva di interesse, potete quindi portarvi via la signora con voi in qualche parte (essa vive in modo indipendente dai suoi, dando lezioni di matematica e fisica, in cui deve essere assai stimata, a giudicare dal gran lavoro che ha malgrado gli evidenti handicap). Ma questa lettera vi troverà sulle mosse di lasciare Diano e perciò questi consigli saranno inutili; se tuttavia nel mese di settembre avrete la voglia e la possibilità di invitarla per qualche giorno a Diano, io ne avrò piacere anche perché credo che la sua compagnia avrebbe su di voi un effetto tonificante. Oltre la lettera di papà del 21 ho avuto una bella lettera di Nonna che mi riporta in ispirito a Diano ed in seno alla famiglia; lo stesso effetto l’ho provato ieri mangiando un pomodoro crudo ben maturo; è incredibile quante associazioni mentali provochi il gusto, mi pareva di sentire l’odore della salsedine marina e il rumore delle onde; quel che è
soprattutto consolante nella lettera di Nonna è il tono giovanile e quasi sbarazzino; quanti anni ha? (se è lecito chiedere l’età di una dama). Ho una raccomandazione caldissima da farvi; di non rattristarvi troppo per l’offensiva antisemita in corso, ne va della vostra salute che è cosa per me supremamente preziosa. Mi rendo benissimo conto dei vostri sentimenti, ma bisogna dominarli; bisogna considerare i fatti nella loro brutta materialità, non lasciarsi offendere dalla loro giustificazione; sul terreno logico tutto ciò è assurdo, contraddittorio, quasi ridicolo per la sua inconsistenza; gli uomini bisognosi di chiarezza logica si angustieranno di non poter replicare e confutare; ma non si tratta evidentemente di convincere nessuno. Un esempio: quando toglieranno le cattedre ai professori universitari ebrei perché anti-italiani per definizione, qualcuno fra i colpiti forse ricorderà che nel corso della grande guerra, in tutto morirono tre professori universitari italiani, e di questi tre, due erano ebrei, Viterbi23 e Levi24, e il terzo, Giacomo Venezian25 grandissimo giurista, irredentista eroico, medaglia d’oro, era un ebreo convertito al cattolicesimo per amore, biologicamente e razzisticamente ebreo al cento per cento. Ragionamenti come questo si potrebbero ripetere per ogni ramo d’attività e sarebbero tutti egualmente inutili e forse dannosi poiché, implicando una valutazione dei persecutori diversa da quella sola che essi meritano e quasi riconoscendo in essi il diritto ad ergersi giudici del patriottismo del loro prossimo, si risolverebbero in una lezione morale, nel senso di essere vittime di una ingiustizia, mentre dove non esiste giudice non può esservi nemmeno ingiustizia, ma soltanto rapina e delitto. Bisogna invece prepararsi e fortificarsi l’animo agli inevitabili danni materiali e al doloroso spettacolo della sofferenza altrui. Ma su questo punto, forse mi faccio delle illusioni, credo che ci si dipinga il diavolo piú brutto di quel che è; mi sbaglierò ma credo proprio che almeno nei primi tempi le restrizioni saranno alquanto inferiori al livello che hanno raggiunto in Germania e che ci sta paurosamente dinanzi agli occhi, in primo luogo perché è impossibile che vada proprio del tutto smarrito il ben noto realismo dinamico della politica italiana, poi perché i rapporti internazionali non sono ancora definitivamente compromessi, e all’interno non è mai esistito e non esiste sentimento antisemita altro che in pochi gruppi di intellettuali invidiosi e consapevoli della loro mediocrità.
Del resto nella stessa Germania si è passati progressivamente da un antisemitismo prevalentemente politico-economico, che comporta discriminazioni in ragione della partecipazione alla vita nazionale (cosa assai deprimente dal punto di vista morale) ad un razzismo radicale, basato sul sangue indipendentemente dalle idee e dall’attività dell’interessato. Se lo stesso corso si avrà, come è probabile, in Italia, è evidente che l’obiettivo del nuovo razzismo non sarà costituito da quei quattro gatti ebrei (all’atto pratico si vedrà che al di sotto di alcune centinaia di ebrei che occupano i posti piú alti nella scienza, nelle professioni e nella finanza sta la gran massa dei cenciaioli, di piccoli negozianti miserabili al limite della fame), ma sarà un obiettivo ben piú vasto: il Concordato del 1929. Ecco una buona occasione per rivendicare allo stato la materia matrimoniale la cui cessione non è veramente molto compatibile coll’affermazione di uno stato totalitario; i tanto calunniati liberali del secolo scorso, vituperati per un loro presunto agnosticismo ed assenteismo statale, erano per contro gelosissimi dei poteri, delle prerogative o, come allora si diceva, della «missione» dello stato e sarebbero arrossiti di vergogna e di sdegno alla sola idea di restituire alla Chiesa il matrimonio. Ora il processo di secolarizzazione ha subito solo apparenti o transitorie battute di arresto o di regresso, tutto il pensiero politico dominante negli stati autoritari spinge oltre; non dico che si debba arrivare ad un conflitto politico-giurisdizionale colla S[anta] Sede; quel che è certo è che queste prime avvisaglie razzistiche sono delle ammonitrici manovre dimostrative. In attesa di una rivincita armata, la Germania, nel suo sforzo di conquistare il ferum victorem26, pare riesca a sbucare colla sua cultura dove, malgrado l’apparenza, piú fiacco si rivela il senso dell’unità nazionale e piú debole la difesa dei valori originali. Troverete gente «spregiudicata» che vi strizzerà l’occhio e all’occasione vi mormorerà all’orecchio: ma sí, ma sí, ci prendete per cosí stupidi da crederci? Si tratta di opportunità politiche, per via dell’alleanza. A questi machiavelli si potrebbe rispondere con Metternich che è una gran bella cosa l’alleanza dell’uomo col cavallo, purché si sia l’uomo e non il cavallo. Alcune cose però hanno dell’umoristico; la nomina di alcuni professori perché riuniti in commissione fabbrichino una nuova filosofia27, non è neppur piú stile teutonico, è la caricatura dello stile teutonico. Cessa però il
ridicolo se si considera con serietà il danno che da queste influenze straniere può derivare al pensiero ed all’azione politica italiana e non è vero che questo non ci interessi o che anzi dovrebbe rallegrarci riguardando i nostri avversari; chi sente profondamente la continuità e l’unità della storia italiana non può rallegrarsi di uno scadimento attuale che avrà dannosi effetti domani, allo stesso modo che Tizio, che procura di accorciare la vita ad un suo zio ricco da cui deve ereditare e che spende male i suoi quattrini, è interessato alla conservazione ed all’accrescimento del patrimonio dello zio anche se questo non acquisterà valore effettivo se non alla dipartita del proprietario, e Tizio, pur continuando a mettere l’arsenico nel caffè dello zio ha tutte le ragioni di crucciarsi se questi si procura un’amante forestiera che impianta spese pazze ed aggrava la dilapidazione del patrimonio. Fino a pochi mesi fa fra i due regimi, malgrado numerose affinità nella politica empirica, c’erano differenze abissali; solo un osservatore superficiale può assimilare l’una all’altra l’idolatria dello stato, o la teoria dello stato etico, coll’idolatria della razza o del popolo che sbocca direttamente nella Führung28. Lo stato etico è nella tradizione politica italiana di cui l’attuale formulazione costituisce una aberrazione o meglio un fraintendimento; anche i liberali di oggi, ormai totalmente svincolati da concetti di libertà prestatali, devono accettare lo stato etico con questa avvertenza, che la eticità non è un contenuto (ciò che porta ad innalzare lo stato, come si fa per Dio trascendente, al di sopra della nostra moralità, e quindi a considerare etico tutto l’operato dei dirigenti pro tempore) ma è una forma, cioè la stessa libera attività morale, per cui stato etico è uguale a stato liberale. Prescindendo da quel fraintendimento, l’immanentismo e lo storicismo del pensiero ufficiale mi sembrava chiaro, sebbene autorevolmente negato: l’attività politica non trovava altra norma al di fuori di se stessa. Se ora salta fuori il genio della razza come determinante della storia, tutto l’edificio va a rotoli. E le conseguenze sarebbero notevoli. Nel campo del diritto è in pericolo niente meno che l’obbiettivismo giuridico, cioè la tradizione del diritto romano; la concezione dell’ordinamento giuridico come sovrano, che non viene meno per il semplice accentramento dei poteri nella sfera propriamente politica, la dittatura non è di per sé incompatibile colla sicurezza giuridica inerente all’indipendenza della giurisdizione dal potere
politico e alla legalità dell’amministrazione; incompatibile con tutto ciò è invece la concezione naturalistica della razza che richiede che questa si svolga secondo sue leggi interpretate dalla Führung: cade l’idea della continuità dello stato di cui il capo non è che il primo funzionario, lo stato diventa strumento dello svolgersi della razza impersonata dal campo. Nel campo della scienza: bene o male in sede spiritualistica si riconosce che fine dell’attività scientifica è la ricerca della verità; il naturalismo invece assegna alla scienza il compito di scoprire il genio della razza. Analogo ragionamento si può fare per l’arte. Alla prima raffica di materialismo tedesco tutta questa costruzione scricchiola sinistramente. Vedremo se e cosa resisterà. La mia salute è ottima; voi potete ricorrere ad un criterio intrinseco sicuro: se non stessi perfettamente bene di fisico e di morale non potrei scrivervi delle lettere cosí lunghe, non agevoli per la carta e l’inchiostro. State allegri carissimi vi bacio con infinito affetto Vittorio 22
V. Foa, Lettere della giovinezza. Dal carcere 1935-1943, Einaudi, Torino 1998, pp. 448-52. Foa (Torino 1910 - Formia 2008), nel ’35 fu condannato a quindici anni di reclusione dal Tribunale Speciale per attività antifascista con GL, uscí dal carcere solo dopo la caduta di Mussolini ed entrò nella Resistenza come esponente del Pd’A; nel dopoguerra insegnò Storia contemporanea, fu deputato e senatore e divenne uno dei massimi teorici dell’autonomia operaia. 23 Adolfo Viterbi (Mantova 1873 - Fossalto di Piave 1917), professore di Geodesia a Pavia, partito volontario come ufficiale di complemento del Genio, cadde sul Piave durante una ricognizione. 24 Eugenio Elia Levi (Torino 1883 - Cormons 1917), professore di Analisi superiore a Genova, partecipò alla guerra col grado di capitano del Genio. 25 Giacomo Venezian (Trieste 1861 - Castelnuovo nel Carso 1915), irredentista, professore di Diritto civile, partito volontario fu ucciso mentre guidava il suo reparto all’assalto; medaglia d’oro al valor militare alla memoria. 26 Orazio, Epistole, II, 1, 156: «Grecia capta ferum victorem cepit» (la Grecia conquistata [dai Romani] conquistò il suo feroce vincitore), citata
per esaltare gli studi e l’arte nella civilizzazione dei popoli. 27 I firmatari del Manifesto degli scienziati razzisti. 28 Guida.
«I giornali sono pieni di cattiverie che fanno da preludio a fatti piú gravi» di Margherita Luzzatto
Milano, 19 agosto 193829
Mia carissima, sono lieta del vostro felice viaggio e che tu fossi abbastanza in lena di andare a fare pulizie anche in casa di Arrigo oltre che nella tua. Spero a quest’ora ti sia procurata una buona domestica che ti possa aiutare validamente. Come sono stati brevi i giorni di vostra permanenza qui! Già mentre c’eri ogni tanto mi dolevo di non goderti abbastanza e che me ne sarei pentita poi. Il tempo si mantiene effettivamente bello e punto fresco, il che vuol dire che avrete piuttosto caldo. Abbiamo i bei disegni lasciati da Roberto che mi provano che la vostra venuta non fu un sogno. Speriamo bene sulla piega che prenderanno le cose, ma temo che non ci sia molto da illudersi. I giornali sono pieni di tante cattiverie e falsità che fanno da preludio e pretesto a fatti ben piú gravi forse. Ma non ci pensiamo per ora. Io scrivo male, non per il (…) ma perché la mia penna deve aver bisogno di un bagno. Voglio ripeterti che quanto ti ho consegnato non è un limite alle spese dei regali (aspiratore e macchina fotogr[afica]) ma solo un incentivo a cominciare a decidervi. Spero lo farai. Godo saperti bene, contenta lo eri già, prosegue tutto per lo meglio. Ti abbraccio insieme a Roberto. Tua Mamma 29
Dalle leggi antiebraiche alla Shoah. Sette anni di storia italiana 19381945, Cdec, Skira, Milano 2004, p. 107. Margherita Luzzatto (Vicenza 1878 - Auschwitz 1944), sposata con l’ingegnere Michelangelo Böhm, che fu estromesso dal Politecnico di Milano in seguito alle leggi razziali; catturata insieme al marito a Tirano (Sondrio) nel gennaio ’44, fu deportata e uccisa. Lettera alla figlia Lina su quattro facciate di carta intestata «Ing. Michelangelo Böhm»; una facciata e mezza è occupata da uno scritto del marito.
«Quanti interrogativi impone la tragica situazione creatasi per malvagio spirito razzistico» di Vittorio Pisa
Firenze, 20 agosto 193830 Ha inizio questo quaderno con presagi poco lieti: mi sento cosí stanco e scosso, che mi impressiona non poco vedermi cosí: mi sembra l’aria impregnata di veleno, sprizzante dai giornali, ormai battenti la gran cassa dell’argomento prediletto: ebrei. Ha avuto inizio questo quaderno per piú scopi: vedermi attraverso ciò che scrivo, cercando di rendere meglio possibile lo stato presente; vedermi nella mia ormai stanca giornata, che ha perduto sperone e incitamento. A che pro essere molto rosei e guardare (come dovrebbe essere nel passato) al futuro, cercando di sperare? Per me reputo molto piú nel giusto chi, trovandosi nelle condizioni presenti, guardi piú al passato che all’avvenire. Quest’ultimo non lo si vede piú. È tragedia… E rimanga perciò traccia scritta di tutto quel che è soffribile. Ho una stanzina che mi fa da studio in uno studio d’avvocato e di ragioniere. Ma a che mi serve? A smistare piccole cose e tra queste forse anche qualcosa di attinente a ciò che si credeva fattibile: il mestiere legale. Ma quanto durerà questo mio modesto domicilio: si ha la sensazione della brevità: tempo brevissimo e poi? Anche questo tentativo sarà cessato, pazienza. Cinque anni or sono: S. Margherita Ligure. Conoscenza di mia moglie. Pensieri certo piú sereni. Quando potranno questi tornare? Compiobbi Oggi, pomeriggio, dal Comune di Fiesole, a tramite di guardia municipale, sono stati recapitati moduli del censimento: censimento particolare per gli israeliti. Sarà questo, della mezzanotte del 22 agosto 1938 XVI, il mezzo per accertare la consistenza numerica dei correligionari31. È un censimento che è particolare a non determinata classe e si distingue dai comuni ordinari censimenti. Basta. Cosí corrono i tempi.
Compiobbi, 21 agosto 1938 Mi sento un po’ piú sollevato di morale: scrive mia Madre, in una cartolina ricevuta ieri: «non bisogna abbattersi, ma essere pronti a fronteggiare qualunque evento»: è giusto. Da stamattina, quando ho scritto le precedenti righe, a stasera, ore 10,20, quel miglioramento accennato si è squagliato: sono tornato in una depressione notevole. Dipende, in gran parte, dall’ossessionante interloquire che, per forza, si ha a fare, non appena ci si ritrovi con un fratello o con chi ha bisogno di parlare dell’argomento tragico: sentirsi sotto il fuoco di fila degli attacchi (povera gente: l’ebrea!) Cosí è accaduto anche oggi con Mario32, anch’egli impressionato. Ma non vi sono rimedi. E si trascorrono ore di vera angoscia. Perché la cappa di piombo è pesante e si fa sempre piú pesante. Compiobbi, 22 agosto 1938 Ho ora veduto un libro di preghiere (della mia suocera) che si apre con ottime pagine, mai piú che presentemente si sente il bisogno di sentirsi vicino a Dio. Nell’avversa, come nella fortunata ora. Ma adesso in particolar modo. Che Egli, nostro Creatore, Onnipotente ed Eterno, apra le Sue misericordiose braccia e ci accolga. E che si sia degni di elevare a Lui la mente. Posso io apprestarmi a pregare, con tutta la mia migliore devozione e con sentimenti piú puri per la giustizia tra gli uomini, che manca, per la protezione Divina, di cui a meno non è possibile fare, per la salvezza nostra, se siamo in grado di poterli avere. «Mio Dio: ascoltami, se sono degno. Accoglici, nella buona e nella cattiva ora, presso di Te. Dai al mondo giustizia, che manca. Proteggici, ché tanto ne siamo bisognosi. Salvaci, se possiamo essere in grado di ottenere il conforto della tua salvezza. Padre, nostro Creatore, dai luce alla nostra esistenza, che si è fatta oscura». E il conforto c’è. Come ci può essere per un bambino che abbia da buttarsi nelle braccia materne, in un singhiozzo convulso. E la preghiera accompagni, al di là della vita, le mie ore, sí da rivolgere a Dio il pensiero, in brutte e in gaie vicende. Compiobbi, 24 agosto 1938
Non sono molto dissimili le giornate le une dalle altre, tutte improntate a una morte lenta… Non è vivere né è morire: piú il tempo passa, piú si sente come dolorosa è stata la mazzata che, a tradimento, nella peggiore malafede, si è voluta, in modo proditorio, infergere. E allora, quando, ritornando a notte fonda, come fu stanotte (ho spento la luce alla quattro meno dieci) sotto uno stellato vivido, si ammiri le meraviglie della Natura, si conclude mestamente come questa venga sciupata dalla malvagità degli uomini. Compiobbi, 25 agosto 1938 Mentre, sono le undici di sera, la mia bambina piange, ché si è svegliata di soprassalto, io attendo al mio solito compito. Come è triste il pianto dei bimbi, quando non se ne conoscono le cause e quando forse è dovuto a malessere. Come è triste il pianto, di chiunque sia, a qualunque età e quando non è di consolazione: il che avviene tanto di rado. Si è addormentata. Il sonno è alleato a chi ripone in lui confortevole ristoro. Compiobbi, 26 agosto 1938 Oggi, forse per fenomeno d’incoscienza, mi sento piú leggero, piú sereno e piú gaio. Firenze, 27 agosto 1938 Iersera ho scritto piú gaio (le ultime due parole): sono stato trasportato da eccessività: non si può adoperare tale aggettivo in tempi, quali si vivono. Ma trovandomi in una di quelle giornate, in cui il peso sembra piú leggero (e nessun fatto favorevole è a determinare tale effetto) mi son sentito in grado di poter dare detta definizione del mio stato. È che a tutto ci si adatta ma di gaiezza non è il caso di parlare. Ai giorni scuri fanno riscontro notti in parte bianche e ciò è colpa della mia figliola, che urla, piange e non fa dormire. Compiobbi, 28 agosto 1938
Ho passato la mia figliola a dormire in faccia a noi e stanotte è stato il primo esperimento ben riuscito… Sonno ristoratore per tutti e migliore salute! Compiobbi, 29 agosto 1938 Il concetto di razza è derivato dalla Zoologia. In questa scienza serve alla classificazione delle varie specie animali, secondo alcuni caratteri somatici distintivi di ciascuna specie. L’antropologia mutuando questo concetto dalla zoologia, lo ha applicato all’uomo. Si è in presenza di un concetto prettamente materialistico, che non può essere applicato all’uomo integralmente, senza abbassare la creatura ragionevole al livello degli animali. L’uomo non è soltanto animalità, ma anche spirito; non ha soltanto caratteri somatici, ma anche qualità spirituali, che sovrastano di gran lunga quelle corporali, né si possono a queste ridurre. La ristrettezza del concetto di razza non può contenere ed esaurire quello di nazione, che è entità piú vasta quantitativamente e qualitativamente piú alta e cioè compartecipazione di miscugli di razze che formano un popolo, organizzato in nazione (aggregato sociale naturale). In caso contrario una mandria di animali, che possiede gli stessi caratteri somatici, dovrebbe dirsi una nazione. Compiobbi, 31 agosto 1938 Ritenni opportuno trascrivere, ierlaltro, dalla «Rassegna internazionale di documentazione», il brano che precede per formarsi un concetto di razza! Cosí, è accaduto, che a tramite tali falsi assunti (falsi i razzisti ed il razzismo) e persuasivo il riportato assunto di cui sopra, è come venuto a calare un bandone di separazione per cui ci si sente a disagio, non tanto per il presente, in cui ancora l’opinione pubblica non è corrosa, ma per il pensiero di ciò che sarà, quando direttive, stampa e metodi di regime avranno gettato tanto odio e tanta malafede, sí da arroventare e mettere a fuoco. Compiobbi, 2 settembre 1938
Ieri non sono stato a scrivere: il mese di settembre si è aperto con i decreti legge antisemiti33. Ancora ieri si provvedeva alla espulsione degli stranieri semiti; oggi si è iniziato il ciclo per quelli di cittadinanza italiana: espulsione dalle scuole. Quando si definisce tale sbaraglio – un terremoto – si sarà detto tutto. In genere le tracce che i terremoti lasciano sono visibili dopo vari, svariati e lunghi anni. Compiobbi, 3 settembre 1938 La vita senza attività è un assurdo, l’ha detto il Papa. È vero, ma noi ci troviamo nella condizione di una forzata inattività. Come può esservi volontà, quando mancano tutti i requisiti del minimo diritto alla vita, e quando si vedono avverarsi tante cose incredibili? Compiobbi, 4 settembre 1938 Ore tristi, inconsolabilmente tristi. Non so cosa fare. Estero, oppure qualche località di rifugio, dove, se anche situata in Italia, poter fuggire. In piú la mancanza di idee collimanti in altri di famiglia […] a scapito tutto di energia e di concordia. Alle crepe profonde della esistenza si aggiungono altre che potevano essere risparmiate e che si sono volute per eccessivo senso di credermi ragazzo, poco pratico, imbecille! Compiobbi, 5 settembre 1938 Oggi, considerata la scarsezza delle notizie propalate dai giornali, sempre in mala fede e sempre in atteggiamento schifoso, ho ritenuto opportuno sospendere la lettura, perciò contrariamente agli altri giorni, non se ne è fatto acquisto e perciò non si è fatto che aumentare la già scarsa partecipazione alla compra di orribile, falsa, servile stampa: purtroppo deroghe a tale conseguenze dovranno essere necessariamente date, quando si tratti di notizie ufficiali. Compiobbi, 6 settembre 1938
Passa per la mente l’idea di un ostacolo collettivo. È concetto basato sull’«unione fa la forza». Ma sarà attuabile? Come? Quando? E ciò che si ha qui? Che fine avrà? Quanti penosi interrogativi che impone la tragica situazione creatasi per malvagio spirito razzistico! 30
E. Collotti (a cura di), Razza e fascismo. La persecuzione contro gli ebrei in Toscana (1938-1943), vol. 2, Documenti, Carocci, Roma 1999, pp. 13437. Pisa (Firenze 1906-1976), assistente di Diritto processuale civile presso la cattedra di Piero Calamandrei nel 1932-33, aderí al fascismo per amor di patria e spirito antibolscevico ma rimase deluso dalle leggi razziali; dopo l’armistizio si rifugiò in clandestinità e aderí al Partito liberale. Diario su quaderno scolastico a righe con annotazioni quotidiane dal 20 agosto 1938 al 12 dicembre 1939; dopo l’armistizio riprese a scrivere. 31 Il 27 agosto l’autore annota qui di seguito: «E degli appartenenti alla razza ebrea». 32 Il fratello. 33 Regio decreto legge n. 1381/1938 e n. 1390/1938.
«Mussolini si è deciso a scimmieggiare la Germania» di Roberto Cohen
[Anversa (Belgio), settembre 1938]34 La Germania non ha ancora digerito l’Austria che già ha preso di mira la Cecoslovacchia. In questi giorni si decidono le sorti dell’Europa, le armate tedesche sono alla frontiera, Hitler ex imbianchino parlerà questa sera, gli animi sono sospesi! La Francia e l’Inghilterra sembra che sono pronte guerra o pace austriaco Hitler? Razzismo in Italia! Mussolini si è deciso subitaneamente a scimmieggiare la Germania! Purità! Purità di razza! Via, fuori gli ebrei! Ma prima impossessiamoci dei loro averi! Ebrei italiani voi patrioti forse piú degli altri! voi che non sapevate d’essere semiti! Anche voi dovete soffrire come gli altri! Colpe? Troppo intelligenti! troppo denaro! Crisi di gloria e non antisemitismo! Molti nemici! molto onore l’avete detto anche voi ingrati Mussolini! Ma noi, no, no non moriremo! Vivere pericolosamente? anche questo lo avete fonografato… ebbene siamo abituati da 5000 anni. Non moriremo! E tu già incominci, già piú non sei tu! ma sei l’altro. Non essere piú se stessi è già morire. Un’ingiustizia non vola via come una generosità! ma rimane nebbia intorno a te, e t’oscura l’orizzonte! La potenza quando crea il male è arrivata al massimo! è il comincio del declino! la storia lo ripete instancabilmente torna qualche pagina indietro e lo vedrai. Ho venduto tutte le mie belle scatole con rincrescimento! Vendi, guadagna e pentiti35! Ottobre 1938 L’orizzonte si è rischiarato la Cecoslovacchia è stata sacrificata alla Germania! A Monaco Hitler Mussolini Chamberlain Deladier riuniti in extremis hanno deciso, o piuttosto l’Inghilterra e la Francia hanno ceduto alla forza, e Hitler ha avuto un’altra vittoria pacifica con l’aiuto di Mussolini,
il quale fungeva da mediatore! I due dittatori sono veramente in buona fede? e Chamberlain non è caduto nella trappola? 34
Adn Dp/02. Cohen (Milano 1902 - Anversa 2000), commerciante in pietre preziose, visse a lungo all’estero e, durante la guerra, a New York. Diario scritto su un quaderno a righe rilegato con due anelli di spago, dal 1935 al 1996, con annotazioni sintetiche. 35 Massima utilizzata negli affari in Borsa.
«Dopo 12 anni circa di lavoro, via!... come un furfante, un ladro» di Primo Zevi
[Castelmassa (Ro), novembre 1938]36 Il giornale porta le decisioni del Consiglio dei Ministri del 9/11 con il quale, tra l’altro, si vieta l’occupazione degli ebrei negli impieghi statali, parastatali ed Istituti di Beneficenza. Io tremavo. Mi ricordo di aver incontrato Carlo Schoenait37 quel giorno e di avermi detto che a Ferrara tutti gli impiegati del Comune ebrei erano stati allontanati. Io ancora speravo: e la domenica mi vedo arrivare la mamma! Era tanto in pensiero, voleva sapere, temeva, io piú di lei. Andai due volte a casa del Direttore38 per vedere se era tornato e pregai la Signora di mandarmi la donna ad avvertire quando sarebbe tornato. Non venne: perché? Alla mattina del lunedí, alle 8 e 1/2, ero in ufficio e le tristi parole che mi disse il Direttore, mi fecero venire le lacrime. Quali lacrime, se, piú tardi, alle 9, l’ispettore di Rovigo mi veniva a dire che dovevo allontanarmi subito, perché licenziato. Dopo 12 anni circa di lavoro, via!... come un furfante, un ladro; io che non avevo che un solo pensiero: la rettitudine, la serietà, l’amore alla Patria. Come piangemmo tutti, mamma, Paola39, io… e come vidi nero l’avvenire. C’era il sorriso della innocenza e quella sembra illuminare di speranza la vita nostra avvenire. [Venezia, gennaio 1939] Due mesi tristi passarono, tra progetti non mai andati eseguiti, tra parole buone e tra cattive: tra lettere di amici di conforto e tra quelle del Fascio, di dolore. Allontanamento dalla Sezione del P.N.F.40, dal circolo degli amici, come se io fossi responsabile della mia nascita. Ma perché tanto male?... Si scrisse al Papa, poi si interessò Mons. Quaglio: ma a che valsero le nostre lamentele? Io non mi potevo piú vedere cosí a spasso… tutti mi guardavano
come un essere… forse spregevole…. e decisi di partire con tutto per crearmi un nuovo nido. Ad Este no, erano troppi i ricordi tristi, troppe le persone conosciute, poi l’Anna41 mi dava un pensiero, il rimorso per Roberto42 e scelsi Venezia. Quindi decidemmo di prendere, su consiglio di Gina, delle camere da dare poi ammobiliate. Ed i miei risparmi e la somma datami dalla Cassa di Risparmio, quale indennità di licenziamento, dovevano servire allo scopo. 36
P. Zevi, Diario 1904-1943. Affetti e persecuzioni prima di Auschwitz (a cura di Italo Baratella), Cleup, Padova 2007, p. 36. Zevi (Este 1904 Padova 1969), laureato in Economia e Commercio, era stato assunto nel 1927 alla Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, dalla quale fu licenziato il 12 novembre 1938, a seguito delle leggi razziali. Nel gennaio 1939 si trasferí con la famiglia a Venezia. Il 1° maggio 1943 fu arrestato su segnalazione in quanto ebreo e rinchiuso per quattro giorni nel carcere di Santa Maria Maggiore; l’agosto successivo si convertí al cattolicesimo. Il diario di Zevi s’interrompe il 4 dicembre 1943, giorno nel quale la madre Emma Ascoli e la sorella Anna furono arrestate, per poi essere deportate e uccise ad Auschwitz. 37 La vicenda di Carlo Shoenait è narrata in A. Stille, Uno su mille, Mondadori, Milano 1991. 38 Il direttore della filiale di Castelmassa (Ro) della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo. 39 La moglie Paola Baratella. 40 Zevi era iscritto al Pnf dal 1933. 41 La sorella. 42 Il primogenito morto.
Le leggi razziali
«Adesso i tempi veramente difficili cominciano» di Enzo Arian
San Maurizio Canavese, 5-8-19381 Grazie, mon amour! Anch’io ti dico lo stesso e – purtroppo – sovente ancora dovrò dirtelo. Adesso i tempi veramente difficili cominciano. E come vanno a finire, lo so io per amara esperienza. Amica mia grande e bella, unica gioia mia, ancora una volta ti prego di riflettere – sine ira et studio2 e senza sentimentalismi (anzi tutto senza sentimentalismi!!) – se non è tua convenienza (e quindi tuo dovere verso te stessa) di lasciarmi. I nostri anni (che per me sono gli unici che nella mia vita contano) erano meravigliosi, straricchi, cosí che per essi soli valeva la pena di essere nati in questo mondo di stoltezze, terrori, angoscie e vanità. Ti rendi conto, Liebelei, che io, tra pochissimo forse già, posso avere delle gravi difficoltà, che posso essere costretto a lasciare l’Italia, che ogni sorta di terrori possono capitarmi (poiché, avendo cominciato dagli intellettuali ebrei stranieri, non ci si limiterà di certo alla loro espulsione dalle Università…) ti rendi conto, che tutto ciò si verificherà su di te? Che ci potranno separare? Che tu allora non potrai seguirmi, per non perdere il tuo pane, il lavoro che ami, la tua carriera che, forse, malgré tout , ti resta aperta? Ti prego, herrliche Frau, di non rovinarti la tua vita. Sai che puoi trovare con facilità un altro uomo, piú maturo, piú intelligente, piú ricco di me, e in situazione piú felice: ariano, italiano – e tutto quello che occorre per assicurarti una vita tranquilla ed empita. Ti prego, mon aimée, di pensare bene ancora una volta a tutto ciò!! Sai, che avevo l’intenzione di iscrivermi al Corso di Perfezionamento in Neuropsichiatria dell’Università di Torino. Ora anche questo è impossibile. Lugaro m’aveva fatto un magnifico certificato per favorire l’iscrizione immediata al secondo anno di corso. (Mi rincresce per Eva in particolar modo, che adesso, neppur emigrando fino all’altra estremità d’Europa, non potrà studiare né dare l’esame di maturità). Gli amici a Coassolo ti salutano cordialmente; loro, a dire il vero, sono piú avviliti di me. (Non hanno ancora fatto l’abitudine!). Anche E. – che oggi ancora m’ha telefonato – per combinare un ulteriore colloquio per
rinnovare i nostri programmi a seconda della situazione modificata – ti saluta; (chissà quante volte avremo ancora da trasformare i programmi…)3 . 1
Adn /92. Arian (Berlino 1912 - Torino 1965), trasferitosi in Italia per completare gli studi in medicina, sposò Giorgina Levi, con la quale emigrò in Bolivia dopo le leggi razziali; rientrò in Italia nel dopoguerra e riprese la professione. Lettera alla moglie, dattiloscritta su due facciate di carta intestata «Dr. Enzo Arian. Medico». 2 Tacito, Annales, 1, 1, 3: «senza ira e pregiudizi», riferire i fatti storici con imparzialità e obiettività. 3 Seguono altre annotazioni a penna ai margini del foglio.
«Quello che mi preoccupa di piú è l’isolamento completo in cui finirò per trovarmi» di Gino Luzzatto
Venezia, 8/10/38 XVI6
Carissimo Amico, l’indirizzo del Gerola deve essere ancora, credo, il Castello del Buon Consiglio7. Il figlio maggiore, Berengario, è professore al Ginnasio di Bolzano. Per il congresso di Zurigo darò la notizia breve e incolore (anche per mancanza di informazioni, essendomi sfuggito un numero del «Temps»8 in cui se ne parlava, e non essendo riuscito a trovare nulla nella «Neue Zurcher Zeitung»9); e tu farai le aggiunte che crederai. Né da Roma, né da Città di Castello mi è giunta finora alcuna notizia che riguardi la rivista10. E a te? Mi consta che finora gli editori han dovuto rispondere al solito quesito11 per i soli direttori responsabili. Io in ogni modo ho ripensato spesso a quello che tu mi hai scritto in proposito, e mentre ti sono gratissimo della prova di solidarietà, vado sempre piú conformandomi nella mia idea. E questo per due ragioni: che la morte della rivista dispiacerebbe a me ed a molti altri, che me lo fanno sapere; e che della bufera scatenatasi sopra di noi, e che personalmente mi lascia tranquillo e sereno, quello che mi preoccupa di piú per l’avvenire, forse anche prossimo, è l’isolamento completo in cui finirò per trovarmi. La rivista può forse rappresentare per me il solo mezzo per mantenere dei contatti, che altrimenti si allenterebbero del tutto. In questa settimana, naturalmente, io vado assai di rado a Ca’ Foscari12. Ma poiché qualche volta capita, e non è improbabile che vi incontri il Castiglioni, dimmi se devo accennargli qualcosa, o se devo fingere di essere all’oscuro di tutto. Ti abbraccio tuo Gino
Carissimo amico,
Venezia 23/10/1938
fin dall’altra sera volevo comunicarti una… primizia; ma ho avuto ospiti che mi hanno assorbito completamente, e intanto la primizia è stata superata dagli avvenimenti. Si trattava di una chiamata della P.S., per le solite, solissime generalità, con la domanda aggiunta se io fossi ancora direttore della N[uova] R[ivista] S[torica]. Al che avevo risposto che dal 1° ott[obre] avevo rinunciato a far parte del Comitato di Direzione. Ieri poi ho saputo che gli editori hanno avuto il divieto di pubblicare qualunque opera di e[brei]… anche volumi di miscellanee e trattati in collaborazione, in cui figurano nomi di e…; come questi non possono essere né direttori, né condirettori, né collaboratori di riviste. Ora quid agendum13? Io seguito a desiderare che la rivista viva e conservi la sua autonomia; e resterei dell’idea che l’indirizzo mio fosse sostituito da quello del Segretario di redazione. Ma poiché il fascicolo non potrà uscire prima del 10 novembre, c’è ancora tempo per decidere. Tu pensaci e se hai occasione di vedere il Comm[endator] Gaglio parlane anche a lui. E le cose tue a che punto sono? Spero non sorgano ostacoli. E che entro l’anno possiamo vederci a Milano. A mia sorella hanno liberato l’occhio operato dagli ultimi residui, e con ottimo risultato. Domani lei fa l’iridectomia nell’altro occhio. Ti abbraccio tuo Gino Venezia, 12.11. 1938
Carissimo amico, purtroppo i 28 articoli pubblicati non esauriscono affatto l’ampia materia. Le notizie dei divieti pubblicati (che si estendono fino a non far figurare i nostri nomi nei cataloghi e… negli annunci mortuari a pagamento) è stata data direttamente dal direttore del servizio stampa presso il Min[istero] della C[ultura] P[opolare] all’editore Milani, e da questi a me. Resta solo la speranza – e forse la certezza – di poter continuare la vendita dei libri già stampati; e fra questi appunto io spero che possa entrare la 1ª puntata della mia Età Contemporanea, di cui la maggior parte (240 pag[ine] sopra 300 circa) sono stampate fino dal 193614. Conterei di arrivare fino alla Rivoluzione Francese. Al resto della tua cartolina avevo già risposto nella mia di ieri. Ho avuto oggi la prima pagina di prima dell’Indice ventennale della rivista; ma prima che sia composto tutto arriveremo a gennaio. Ti abbraccio
tuo Gino 6
Acs cit. Lettere allo storico Corrado Barbagallo (Sciacca 1877 - Torino 1952), intercettate dalla Prefettura di Napoli. 7 Giuseppe Gerola, soprintendente che diresse il restauro del Castello del Buon Consiglio a Trento. 8 Giornale francese. 9 Giornale tedesco. 10 «Nuova Rivista Storica», di cui Luzzatto fu di fatto direttore dal 1930 anche se la firma rimase a Barbagallo. Ospitò scritti di antifascisti ed ebrei sotto falso nome. 11 Appartenenza alla «razza ebraica». 12 Università di Venezia, di cui Luzzatto era stato anche rettore. 13 Cosa fare? 14 Storia economica dell’età moderna e contemporanea, pubblicata tra il 1932 e il 1949 dalla Cedam.
«Oggi anche in Italia si è scatenata l’assurda e inumana battaglia della razza» di Luciano Morpurgo
Novembre 193815 Ero ragazzo: passavo un giorno da Mestre, scesi durante la sosta e nella sala d’aspetto della stazione vidi radunate centinaia di persone cariche di fagotti, di pacchi, di valigie; molti, accovacciati, poggiavano le teste sulle mani, i volti pensosi o piangenti; sul viso di tutti si leggeva la disperazione e la miseria… Poi, seppi. Erano tutti reduci da Kiscineff, salvati per miracolo alle selvagge orde zariste, che emigravano, e andavano a cercare pane e vita nelle lontane Americhe. M’intrattenni con alcuni di loro, confortandoli come potevo. Ma l’animo mio era colmo di dolore e, di fronte alla loro sciagura, pensavo alle nostre condizioni di vita, alla nostra libertà, all’eguaglianza di cui noi tutti, qui, godevamo! Vidi, qualche anno piú tardi, gli ebrei di Terra Santa, del paese conquistato alla malaria, ma ancora allo stato selvaggio, che gli arabi sfruttavano senza alcuna nozione di agricoltura, del paese dove soltanto pecore e capre pasturavano, e in cui la malaria regnava sovrana, e dove i pionieri morivano a decine e a centinaia spronati dalla speranza di redimerlo, per crearvi poi quelle condizioni civili di eguaglianza di cui gli ebrei godono solo in pochi paesi, come nella libera America, nell’Inghilterra, in Francia… e una volta anche in Italia! Vidi la lotta contro gli ebrei in Romania, udii anche là il loro grido di dolore, conobbi la disperazione di tanta gente… e mai, mai avrei potuto pensare che da noi, nella civile e gentile Italia «madre delle genti», potesse allignare la trista pianta dell’antisemitismo… Ed oggi, invece, la realtà violenta e inesorabile è un’altra; oggi anche qui, nel nome della «razza», di una cosiddetta ragion superiore che nessuno sa bene che cosa sia, che nessuno sente e può comunque giustificare, oggi anche in Italia si è scatenata l’assurda e inumana «battaglia della razza» voluta da Mussolini e dal suo Governo… per ordine della Germania, e appoggiata da tutta la stampa addomesticata e ligia agli «ordini dall’alto». E cosí, in forza di una legge che suona onta nel Paese che fu la culla del
Diritto, si allontanano professori, funzionari, impiegati, si cambia nome alle case editrici, si «vietano» i libri di autori ebrei, si toglie il pane a tanta gente umile… colpevoli tutti e soltanto d’essere nati ebrei! Non è permessa la musica «ebraica», è eliminato il teatro «ebraico», e ad ogni espressione del genio e della mente umana, quando genio e mente alberghino in un uomo di origine ebraica, a tutto è dato l’ostracismo. I prezzolati giornali ci chiamano «giudei», e pubblicano articolesse senza capo né coda, senza senso comune, prive di obiettività, dimentiche di ogni umano decoro, che rivoltano l’animo d’ogni uomo retto. Se vi sono canaglie tra noi (come vi sono in tutti gli agglomerati umani) sono messe all’«ordine del giorno» con titoli vistosi, e le loro azioni imputate non all’indole dell’individuo, ma alla atavica condizione della sua origine; e come non bastasse, l’assurdo ignominioso s’allarga, s’approfondisce, a formare, anello per anello, una catena sempre piú dura e pesante, entro la quale si raccolgono da ogni parte detriti d’ogni sorta, sí che alla fine tutti gli atti compiuti nei campi piú disparati, dagli individui piú diversi, tutto che abbia in qualche modo sentore di «canagliesco», viene a torto o a ragione attribuito agli ebrei! E la macchia s’allarga incontenibile. Dalle palestre, dalle accademie, dai circoli, dalle associazioni sportive, dovunque (volenti o non i capi) si cacciano via coloro che da anni ormai erano completamente fusi con la massa italiana, italiani essi stessi, figli spesso di tanti eroi caduti nelle guerre di redenzione; e si proibiscono giornali, riunioni, qualsiasi attività pubblica; si mettono alla disperazione, s’annegano nel dolore e nell’avvilimento persone che tutti stimano! Unico conforto in tanto crollo dei valori fondamentali della vita, l’affetto e la stima di tanti amici, la comprensione di tutto il popolo italiano, che non «sente» questi provvedimenti, e li disapprova. Ma intanto, persone intelligenti e attive che non hanno la forza di resistere o non hanno la possibilità di allontanarsi per sempre dalla loro terra, dalla loro casa, dai loro affetti, vinte da una disperazione che nulla può trattenere, si sopprimono… Dicembre 193816 La legge razziale votata dal regime fascista proibisce agli ebrei lo studio. Sí, lo studio, quella piccola cosa che dà la cultura, che fa distinguere gli uomini dagli animali, e gli uomini colti da quelli che non lo sono.
Proibire lo studio in Italia, nel paese che diede al mondo i primi grandi geni, che diede nelle Università del Medio Evo il piú grande esempio di libertà, sembra cosa non vera e impossibile. Ed è pur vero invece: nel Medio Evo da tutte le parti del mondo accorrevano qui studiosi a istruirsi, ad abbeverarsi di scienza, ed erano simpaticamente accolti; oggi, nell’anno 1938 – che, scimmiottando gli anni della rivoluzione francese e l’inizio di una nuova… era, si vuol chiamare diciassettesimo – tutto ciò è finito! La cultura deve esistere solo per gli ariani, possono frequentare le scuole anche i negri, i cinesi, gl’indos, tutte le razze, ma gli ebrei no. Il pane della scienza non è per loro, non ne sono degni, non lo meritano! Perché? Uomini quali Cesare Lombroso, il chirurgo Donati, il Ministro Luzzatti, Cesare Vivanti, Supino17, sono dimenticati; centoquattordici nomi di autori di libri scolastici sono cancellati, i loro libri gettati al macero; ma molte dottrine non si possono cosí cancellare d’un colpo, molti testi non s’improvvisano! Non è certo la mistica fascista che possa essere data in pasto a chi è privato di scienza vera, di scienza pura. E allora per non far stare i ragazzi senza testi, – non siamo all’epoca delle fate, quando un colpo di bacchetta faceva saltar fuori le cose piú interessanti – si devono tollerare i cambiamenti di nomi, si permette il pseudonimo oppure il nome di altro professore ariano che possa coprire quanto il professore ebreo ha scritto. Ma allora non è il valore o il contenuto del libro che si deve cambiare e che fa paura; è soltanto il nome dell’autore: è guerra politica, dunque; o meglio, supina imitazione del padrone di Germania. Nessuna carriera è aperta all’ebreo, nessun posto per lui: deve espatriare, deve morire di fame, non deve avere cultura, non deve imparare! Se resta qui potrà ancora essere commerciante, potrà avere la piccola mentalità borghese, comperare e vendere: e poi? Tramontano le belle menti di medici, spariscono i conoscitori di leggi, i profondi calcolatori, gli ingegneri. Centosettanta professori di università ed assistenti sono stati licenziati, sono partiti per il mondo ancora libero, sono state create per loro delle nuove cattedre, sono ricercati, sono ambiti in tutte le università, e portano seco la loro scienza e un nostalgico amore per la loro Italia.
Non si potranno piú creare nuovi professori, le intelligenze sono incapsulate dalle nuove e tremende leggi. Chiuse agli ebrei le scuole, chiuse le università, i politecnici non si possono piú frequentare, non vi sono piú per noi scuole specializzate, né straniere né italiane; le belle menti non potranno piú imparare; a rappresentare gli ebrei di Italia resteranno solo i piccoli commercianti, gli straccivendoli, gli artigiani piú umili, insomma. La grande industria, le assicurazioni, tutto quello che ha bisogno d’intelligenza, cessa per legge, per dura legge. Le vetrine sono vuote di libri di autori ebrei, la Federazione del libro e i suoi cagnotti sono vigili, mandano circolari, la paura è grande, le pattuglie vigilano per le strade e controllano le vetrine a ciò che nessun nome ebreo si trovi tra i libri esposti, multe e chiusure d’esercizio minacciano i librai che osassero offrire un libro d’autore ebreo; ma si cambiano le copertine, si ristampano i libri con nuovi nomi, si cambia l’etichetta, il vino no, perché esso è pure succo di scienza vera, non di quella «scienza ebraica», o «arte ebraica», o «musica ebraica» di cui fantasticano tanti orecchianti invertebrati mestatori. Ma il popolo italiano non crede, non beve e non berrà ad onta di tutti gli articoli di scienziati o di pseudo scienziati che hanno venduto la loro pena contro gli ebrei. Si chiamino essi Nicola Pende18 , Fernando Sergi, o Carlo Cecchelli19 . 15
L. Morpurgo, Caccia all’uomo, Dalmatia, Roma 1946, pp. 22-24. Morpurgo (Spalato 1886 - Roma 1971), fotografo ed editore, nel ’38 ottenne la discriminazione; dopo l’armistizio si nascose in clandestinità con la famiglia tra Roma e Velletri e nel dopoguerra fu riconosciuto come uno dei maggiori fotografi italiani. Diario dal gennaio 1938 al giugno 1944, con annotazioni periodiche. 16 Ibid., pp. 32-34. 17 Cesare Lombroso (Verona 1835 - Torino 1909), antropologo, criminologo e giurista di fama internazionale. Mario Donati (Modena 1879-1946), considerato il piú prestigioso chirurgo italiano tra le due guerre. Luigi Luzzatti (Venezia 1941 - Roma 1927), giurista ed economista, fu presidente del Consiglio dei ministri dal marzo 1910 al marzo 1911 e in vari governi ministro del Tesoro e ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio. Cesare Vivante (Venezia 1855-1944), giurista, esperto di
diritto commerciale. David Supino (Pisa 1850-1937), giurista, esperto di diritto commerciale, senatore del Regno d’Italia. 18 Medico endocrinologo (Noicattaro 1880 - Roma 1970), uno dei firmatari del Manifesto degli scienziati razzisti (nel dopoguerra affermò di aver smentito la sua adesione due mesi dopo). 19 Altri due firmatari del Manifesto.
«Ho avuto la notifica della mia cessazione di fascista» di Vittorio Pisa
Firenze, 22 novembre 193820 Poco mi vien fatto di scrivere: troppo marcio è nel mondo, perché si possa con serenità fermare le proprie impressioni. Eppure rileggendo quel che mano a mano sono andato scrivendo a mio uso s’intende (non soffro di megalomania!) posso dirmi soddisfatto di trovare una linea che raramente si scosta dal mio modo di sentire e di pensare. Chiedo venia se talora, come nella precedente scrittura (29 ottobre) sono stato eccessivamente severo coi miei, che mi sono cari molto piú di ciò che si possa credere. Chi sono? Dicono ora: un giudeo, adoperando in modo triviale un termine tanto stolto quanto vano. Se per religione sí,sono israelita. È nascita e non me ne dolgo. Se per razza (oh! la parola scabrosa e sdrucciolevole) niente in contrario ad affermare che non giapponese, non moro, non indiano, e non ariano (che vorrà dire?) appartengo alla razza che si dice ebraica. Caratteri somatici? Forse. Chi è ebreo se ne può accorgere. Ma le confusioni non sarebbero, anzi non sono da escludere. Anzi affermo che si può sembrare ebreo e talora ariano e viceversa. In ogni modo, l’argomento è dei piú viscidi. E lasciamolo ai solerti assertori di tale criminosa ideologia. E allora? Sconfessato il razzismo, da chiunque fatto e di ciò gli ebrei ortodossi non ne sono immuni, sconfessato il sionismo, sconfessati gli argomenti di solidarietà che farebbero apparire gli israeliti soltanto partecipi di una loro vita, con una loro cultura, con una loro letteratura, con una loro partecipazione esclusiva alle varie forme d’arte (non ho mai visto una rappresentazione del teatro ebraico), ma ho sempre amato una buona onesta commedia, sia la scrivesse Adami21 o la scrivesse Lopez22, non rimane che voltarsi agli onesti e dire loro: sono israelita di religione, italiano di paese, nascita, lingua, ho separato la forma religiosa dalla politica, non ho invaso, perché da non so quanti anni residente in Italia (forse 800 o 900), ho sempre parlato questa mia lingua, ho sempre amato questa mia terra, ho avuto timore di sentirmi dire «l’ebreo», perché
mi dà il ricordo di ciò che doveva essere l’ingiustizia sociale di essere relegato nel ghetto, ho avuto forse nei miei avi chi ha sofferto e patito di separazioni e soprusi. Ed ora? A marcia indietro, a tutta macchina! Perché? È l’umanità che si spoglia del proprio senso di decoro e di dignità e non si vuole saziare di vedere gli altrui dolori. Fossi io a dover trattare questo bruciante argomento: sinagoghe, sí. Comunità israelitiche, no. Non occorre. Dovrebbe essere lo Stato, a considerare propri i propri sudditi, siano questi cittadini di razza quale si voglia, e a tutelarli. Non si dovrebbe dire, dal lato politico e nazionale, ebrei o no. Saranno religiosamente ebrei, politicamente, dal punto di vista dello Stato, saranno solo degli italiani. Cosí sento, come italiano. E gli ebrei degli altri stati? Come cattolici degli altri Stati. Se un cattolico che è nato in Italia è italiano, considererà straniero un cattolico che è nato in Francia ed è Francese. Cosí un ebreo, italiano, considererà straniero un ebreo francese. Niente di piú falso che considerarli come eguali: sí, da uomo a uomo, partecipi dei dolori e dei piaceri, ma poi, cosa è che li accomuna: forse verrà tra i suddetti cattolici. Il dire che appartengono al popolo di Israele? Sarà, ma occorrerebbe che cominciassero a parlarsi in ebraico, avessero una medesima forma costituzionale, avessero uno Stato. Il che non è. Se no, parlare del popolo ebraico, avrà lo stesso concetto preciso di come si dovesse parlare del popolo, che so io? dalmata o ruteno. E l’Italia non è stata percorsa da cima a piedi da piú e piú popoli, e non è forse sorta a dignità di Nazione, anzi di grande Nazione? Che vuol dire voler escludere gli Ebrei da una determinata conformazione statale? È a mosaico uno Stato che tiene ebrei in suo grembo? Non ho mai sentito che uomini, che da secoli sono stati in un territorio, abbiano influito a una disgregazione di sentimenti, di amore a tale territorio e cosí via. Parlo dell’Italia, ché questa è la mia Patria. Per l’Estero ci pensi l’Estero. Ogni Stato avrà avuto motivi interni e avrà potuto considerare forse stranieri fuoriusciti ebrei che perseguitati da tremendi «pogroms» si sono potuti rifugiare dove potessero meglio. Ma in Italia, considerare stranieri gli italiani, perché non ariani, considerarli stranieri, dopo una assimilazione, in malafede negata, ed invece esistita e esistente, è un assurdo storico e sociale. […] Firenze, 17 dicembre 1938
Montata oggi la guardia al Sacrario dei Caduti Fascisti dalle 10 alle 11, per la prima volta, ho contemporaneamente avuto la notifica della mia cessazione di fascista. Ho appreso la notizia in Camicia nera e nello stesso tempo che avevo servito con fede a un’idea quale quella di sentire l’aura dei vecchi fascisti caduti per un movimento che non è piú quello di prima. 20
E. Collotti (a cura di), Razza e fascismo cit., vol. 2, pp. 140-41. 21 Giuseppe Adami (Verona 1878 - Milano 1946), commediografo e librettista. 22 Sabatino Lopez (Livorno 1867 - Milano 1931), commediografo, critico teatrale e scrittore.
«Siamo considerate ebree e quindi ci è proibito andare a scuola» di Clementina Jesurum
Nervi, 26 marzo 193923 Alcuni giorni fa mi sono proposta di scrivere in seguito come mai ci troviamo, la Jole e io, in casa. La storia è molto ma molto semplice: siamo considerate ebree e quindi ci è proibito andare a scuola. Per le piccole la loro buona Direttrice ha chiuso un occhio e le ha lasciate andare ancora a scuola. Io non so bene se sono spiacente o no, sono cosí indifferente a tutto, da qualche tempo! Mi dispiace perché non potrò piú istruirmi e non potrò piú vedere il Professor C. che era tanto simpatico. Non faccio piú niente e ho abbandonato completamente lo studio. Vivo nell’ansia: che ne sarà del domani? Staremo qui, andremo a Venezia, da chi, dove? A tutte queste domande spero avere presto altrettante risposte, ma finora... Nervi, 1° aprile 1939 Con la speranza di vedere G. sono andata a fare la spesa con V. Invece di G. ho visto il mio Proff. d’inglese, Manopello, che mi ha fatto tanto di scapellata e mi ha detto che vada a scuola, e che se non ci vado la colpa è mia. […] Alla stazione chi ti vedo? Dige, Camagna, Spaggiari e Viacava24. A me è parso che, appena vista, avessero voluto nascondersi (forse mi sbaglio ma non credo). Le sono corsa incontro. La conversazione nostra, poi, mi è sembrata piú una commedia che altro. Mi sembrava quasi si seccassero di parlarmi. Anche Matran che era con loro, sembrava mi guardasse con compassione o che so io. Appena le ho lasciate mi son sentita come uno stordimento, un malessere. Mi abbandoneranno dunque anche loro?... 23
Ap Massimo Demma, Milano. Clementina Jesurum (Venezia 1924 Bellano 1971), cacciata dalla scuola trovò lavoro come impiegata; dopo
l’armistizio si rifugiò in clandestinità, mentre il padre e due sorelle furono deportati e uccisi in Germania. 24 Ex compagne di scuola.
«Passerà anche questo, quando avrò 30 anni i nervi non si faranno sentire» di Bruna Dina
Acqui (Alessandria) 7.4.3925
Caro, tanti auguri di buona Pasqua, non mangiare troppe uova di cioccolata, che ti possono fare venire bu-bu al… pancino! Forse lo saprai che per noi Pasqua cade il giorno di luna piena – e cosí noi lunedí l’abbiamo festeggiata (se si può dire festeggiare) andando al Tempio come vado io (per educazione al Rabbino che è venuto a chiamarmi). Cosí saprai anche che Pasqua esiste anche per gli Ebrei non per la Resurrezione ma per la famosa fuga degli ebrei dall’Egitto!! (adesso pensami con gli occhiali). La tua lettera mi ha fatto tanto piacere, sai che io pure in generale sono ottimista ma nel caso mio faccio l’eccezione – con conseguenze piuttosto… brutte perché come già ti scrissi non mi conosco piú – passerà anche questo quando avrò 30 anni probabilmente i nervi non si faranno sentire. Mi pare di vederti mentre leggi questa mia ordinarmi sorridendo «bromuro» ma io spero di poterne fare a meno: presto arriverà l’estate e il cielo sarà finalmente sereno senza piú queste giornate nuvolose e tetre che danno malinconia. Anch’io avevo pensato (con gioia mia) a un eventuale tuo richiamo (perché saresti potuto tornare ad Acqui) ma hanno chiamato gli aspiranti che avrebbero dovuto presentarsi in luglio. Si presentano il dieci aprile. Gerbaudi da un po’ di tempo è sempre allegro e adesso, che sino alle 19 è chiaro, e Piera è a casa, ce lo prendiamo in mezzo e andiamo sino al ponte dei Bagni. Ho ringraziato Piera per te – tanti saluti. T’è piaciuto Biancaneve? io ho visto Nonna Felicita con Dina Galli – visibile e Batticuore con Assia Noris26, molto grazioso. Ci sono qua le Piccaluga, sempre fatali… ma adesso c’è solo Gerbaudi che le… sfotte allegramente. Ciao caro, malgrado il mio nervosismo sono ingrassata, peso Kg 46!! Quasi grassa! Tante affettuosità e baci Bruna
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Adn E/05. Bruna Dina (Acqui Terme 1917 - Torino 2000), conobbe nel ’38 Cesare Genti (cattolico), che frequentava il corso di sottotenente prima di partire per il fronte russo; dopo l’armistizio, con l’aiuto del futuro marito, si nascose con la madre in un convento di suore a Saluzzo (Cuneo). I due si sposarono il 28 aprile 1946 con matrimonio misto. Lettera su carta semplice tratta dal fitto carteggio (una missiva ogni due o tre giorni) tra il ’39 e il ’46. 26 Biancaneve e i sette nani è il primo classico prodotto da Walt Disney, nel 1937. Nonna Felicita e Batticuore sono due film commedia: il primo del 1938 per la regia di Mario Mattoli, il secondo del 1939, per la regia di Mario Camerini.
«Anche gli umili sono colpiti. Non v’è grazia per nessuno» di Luciano Morpurgo
CAMPO DEI FIORI [Roma], 10 ottobre 193927 Anche gli umili, anche quelli che a stento vivono solo del loro piccolo commercio, sono colpiti. Non v’è grazia per nessuno: la scure cala inesorabile sul collo dell’uno e dell’altro, all’improvviso, senza pietà. Umili merciaioli del «mercoledí di Campo dei Fiori», di questa romana e tradizionale fiera settimanale, ricordata e commentata nelle guide turistiche, anche il vostro lavoro è distrutto; anche voi sentite e soffrite quel che hanno sentito e sofferto professionisti, pensatori, scrittori, tanti uomini che, col grano di sale che forse in altre teste manca, hanno quell’«umanità» troppo spesso altrove sconosciuta… Ebrei, povera gente che sanno la bontà, adorano la famiglia, diligono il risparmio, sentono e servono il proprio dovere, amano, sí, amano l’Italia, e si sentono fratelli d’ogni italiano! Povera gente! Ché se gli intellettuali riescono o riusciranno a trovare un posto, un’occupazione all’estero, voi, piccoli commercianti incolti e semplici, che null’altro conoscete se non il vostro piccolo commercio, voi, che cosa farete? Passa l’uragano sul vostro capo, scroscia la tempesta, cade la grandine su di voi, e con voi è travolta, schiantata, dispersa la vita delle vostre famiglie. Ma, avanti fratelli! Non disperate: l’ingiustizia non prevarrà all’infinito: tornerà a splendere il sole anche per voi, e scalderà i vostri cuori, ritemprerà le vostre volontà, renderà piú gagliarde le vostre energie: la vostra vita riprenderà, ricostruirete i vostri focolari, ricongiungerete le sparse file del vostro lavoro! Tornerà il sereno, fratelli! E col sereno la gioia di vivere! E un giorno racconterete ai vostri nipoti la storia della festa di Purim28, ricorderete la Regina Ester, e Aman, e lo paragonerete a Mussolini, e allora mangerete quel dolce che si chiama: orecchie di Aman… Sí, abbiate fede, fratelli: la vostra vita tornerà a scorrere placida e lieta, come prima, meglio di prima!
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L. Morpurgo, Caccia all’uomo cit., p. 46. 28 Festa istituita a ricordo dello scampato sterminio degli ebrei in Persia, che era stato progettato da Aman, perfido consigliere del re Assuero. Grazie alla regina Ester, una giovane ebrea che era diventata moglie del re nascondendo la propria origine, e a suo zio Mordechai, capo della comunità ebraica, gli ebrei vennero salvati e i responsabili vennero puniti, a partire dallo stesso Aman.
«Nascondendomi a tutti, mi sono sposato col solo vincolo religioso» di Ezio Ravenna
Trieste, 8-12-3929
Sig[nor] Capitano: ancora una volta mi sono lasciato prendere dalla mia solita indolenza. Però troppo bene Lei mi conosce e sa che io non dimentico. Potranno passare gli anni e le generazioni ed io non avrò dimenticato, perché il ricordo e la riconoscenza passerà nei figli. Le dirò qualche cosa di me: forse Lei l’ha già saputo. So-no stato a Riva come un ladro, nascondendomi a tutti, e lí mi sono sposato col solo vincolo religioso, sperando che o qui cambi qualche cosa e mi venga in secondo tempo trascritto questo matrimonio30, oppure possa andare all’estero dove la libertà è meno un nome. Avrei dovuto dire almeno a Lei questa cosa, ma ho dovuto fare tutto in segreto, causa le circostanze. Spero che in seguito questa mia cosa potrà essere di pubblico dominio. Ancora non vedo che cosa sarà del mio avvenire piú prossimo: la situazione internazionale cosí oscura, e la indecisione che essa provoca in ogni ambiente, mi impedisce di farmi un programma di vita. La prego di ricordarmi alla Sua gentile Signora, a Lei tante grazie e i piú rispettosi saluti Ezio Ravenna Trieste, 7-2-40
Sig[nor] Capitano: ho ricevuto la sua gentilissima lettera e non ho risposto subito, come d’impulso, perché ho voluto trovare un minuto di completa calma. Le sono tanto grato, di avermi scritto e di avermi compreso. Mai dimenticherò quanto grande è il sollievo che provo ogni volta che sento o leggo le Sue parole. Ed ogni volta che penso a Lei sento che le parole di adesso, come quelle di allora, che non ho abbastanza ascoltate31, erano la voce di un cuore onesto ed onorato: oggi vedo che Lei ha avuto sempre ragione. Ma il giorno non è lontano… Si sente nell’aria… si percepisce nella quotidiana fatica. Io sono fiducioso. Ognuno di noi saprà, quando suonerà l’ora,
riconoscere l’amico e il nemico. Finalmente prevarrà quella legge morale d’onore e di giustizia, per cui si credeva d’aver combattuto. La mia bambina dovrà crescere in un’atmosfera limpida, non infetta da immoralità legali. È questo l’augurio che mi sono fatto, ed anche la mia certezza nell’avvenire. La prego di ricordarmi alla Sua gentile Signora ed ai Suoi figliuoli. A Lei, anche da parte di mia moglie, tutta la riconoscenza e i piú rispettosi saluti Ezio Ravenna 29
M. L. Crosina, Le storie ritrovate. Ebrei nella provincia di Trento 19381945, Mst, Trento 1995, pp. 235-36. Il tenente Ravenna (Padova 1911 Trieste 1972), del V Artiglieria d’Armata, fu estromesso dall’esercito nonostante la medaglia d’argento al valore ottenuta nella battaglia di Guadalajara in Spagna (dove andò volontario) e dopo l’armistizio entrò nella Resistenza in Val Camonica. Lettere al suo ex capitano, Tanas, di sentimenti antifascisti. 30 Sposò Carla Tonini (cattolica) nonostante il divieto ai matrimoni misti. 31 Tanas gli aveva sconsigliato di andare volontario in Spagna col miraggio di vantaggi nella carriera militare.
«Ieri era maestro ai giovani, a noi stessi, oggi sia cancellato, sia dimenticato» di Maurizio Pincherle
30 gennaio [1940]32 La seduta della Federazione Medica: POLLICE VERSO33 La legge sia in piena disciplina mandata ed applicata, cosí come il Gran Consiglio volle Sia avulso dal nostro seno il compagno di ieri Si tolga il pane della Scienza a lui e ai suoi teneri figli e quasi il quotidiano, che Dio volle ad ognuno. Noi, biologi, rinneghiamo la Scienza Noi, civili, rinneghiamo la civiltà. Il faro, a secoli affluenti, si offuschi per un millennio. Ieri era maestro ai giovani, a noi stessi, oggi sia cancellato, sia dimenticato Il cuore taccia, taccia la voce dei Poeti, taccia la voce di Dio. 9 febbraio Arriva la circolare del Sindacato Provinciale Fascista dei Medici. Sono messo, col solo titolo di Dr., fra i medici non discriminati, pur risultando al Sindacato stesso, come da mia lettera raccomandata, che la pratica di discriminazione è tutt’ora in corso… [senza data] Scrive il Prof. Oreste Bonazzi:… con l’antico, devoto, animo… [senza data]
Albo dei nomi34: Putti35, Paolucci36, Chigi37, Monticelli, Arconovaldo Bonaccorsi38?!!! Bernardini, Carlo Calcaterra39, Salvatores-Fibbi. 17 marzo Di prima mattina arriva l’espresso di Donna Margherita Paolucci, primo raggio di luce nel grigiore atroce del biennio… Buona e santa Donna Margherita e caro e fedele amico Raffaele40!... Segnati qui in silenzio e in ricordo perenne… 10 aprile Lascio l’ambulatorio di Via Rubbiani 5. … Cosí egli volle: dove folle di bimbi passarono, ora è chiuso e vuoto… 18 aprile Le nozze d’argento: 25 anni da allora… quando ci unimmo nella Gran Luce… 10 maggio L’Olanda, il Belgio ed il Lussemburgo invasi. 30 maggio Il Congresso di Pediatria di Napoli: tutto tace nel voluto oblio41. Solo Malagodi42 e Ortolani43 si son fatti vivi. Non De Toni, non Brusa… Vallisneri mi cita per il Cooley44 . 10 giugno Le parole del Duce… L’Italia in Guerra45. Dio faccia Grande, Giusta, Buona l’Italia nostra, tanto amata e vegli sui nostri lontani. 4 luglio
Leo46 mio! Il tuo 30° anniversario… e sei lontano e nulla so di te e di Guido… e di tutti voi… 18 luglio Il mio fucile ritirato dalla Prefettura e messo all’Artiglieria. 25 luglio Gli ebrei allontanati dalla spiaggia adriatica. 30 novembre Parentesi dolorosa di silenzi e raccoglimento… Silenzi di Leo, rare ed indirette notizie degli altri. Gli eventi incalzano: anche la Grecia47 … 26 febbraio [1941] La radio sequestrata ai Giudei. Il Commissario Di Stefano uomo superiore48 … [senza data] Africa orientale, Addis Abeba, Massaua (perdute). 13 aprile La Cirenaica ripresa. La Jugoslavia in rivolta e invasa, (ripresa il 17-0441). La Grecia in ritirata. La Dalmazia italiana! Il Montenegro liberato. La Grecia capitola. 14 aprile La malattia di Ada49: l’operazione; Gilda50 a Roma (17 aprile); io a Roma (20 aprile). Migliora.
30 aprile - 18 maggio Gilda ancora a Roma. Hess51 fugge in Inghilterra. Il nuovo Stato Croato: il principe sabaudo Aimone52 re di Zagabria?? La resa gloriosa di Amba Alagi. Il Vice Re53 prigioniero con gli onori delle armi. Ada guarita: Gilda ritorna. 29 maggio Ritorno al misticismo: il Prof. Camis54 iniziato sacerdote. L’Irak… La Siria…55 . 3 giugno Festa di Gilda. 8-10 giugno La Siria56 … 22 giugno L’avanzata in Russia57 . 1° luglio Il mio nome cancellato dall’elenco telefonico… In Questura (all’Ufficio Stranieri) per il permesso di soggiorno al mare… 32
Ap Maurizio Pincherle. Pincherle (Pavia 1879 - Bologna 1949), figlio di Salvatore, matematico di grande fama, si laureò in Medicina a Pavia e si specializzò in Pediatria. Dopo aver insegnato all’Università di Siena e Pavia, come direttore della Clinica pediatrica, nel ’29 venne chiamato all’Università di Bologna, alla direzione dell’Ospedale Gozzadini del Policlinico Sant’Orsola, dove diede grande impulso alla ricerca e all’attività clinica e scientifica, pubblicando vari saggi e costruendo una scuola di
pediatria di altissimo livello, dalla quale discende la gran parte dell’attuale pediatria italiana. Espulso dall’Università, la sua scuola venne annientata e la sua opera scientifica fu azzerata. Nel dopoguerra rientrò in un ruolo marginale in quella che era stata la sua clinica. Il quaderno-diario va dal 1938 al 1948; sono riportati, mese per mese, i fatti piú importanti relativi a quegli anni, riguardanti sia gli eventi storici che quelli di famiglia. 33 Il 30 gennaio la Federazione medica espulse Pincherle e lo inserí negli elenchi dei medici ebrei non autorizzati ad esercitare la professione. La poesia «Pollice verso» è ispirata da questo evento. 34 Pincherle annotò i nomi dei pochi veri amici che gli dimostrarono affetto e stima. 35 Vittorio Putti (Bologna 1880-1940), chirurgo ortopedico, dal 1915 direttore dell’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna. 36 Raffaele Paolucci (Roma 1892-1958), chirurgo, ufficiale medico durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, deputato del Regno d’Italia, nel dopoguerra aderí al Partito Nazionale Monarchico, di cui fu anche presidente, e fu eletto alla Camera dei Deputati. 37 Alessandro Chigi (Bologna 1875-1970), zoologo, naturalista e ambientalista, fu deputato e senatore del Regno d’Italia. 38 Militare, avvocato e politico (Bologna 1898 - Roma 1962), fascista della prima ora, partecipò alla guerra civile spagnola e fu nominato console della Mvsn. 39 Critico letterario e docente universitario (Premia 1884 - Santa Maria Maggiore 1952). 40 Raffaele Paolucci. Margherita Pollio è la moglie. 41 Il congresso di pediatria di Napoli escluse per la prima volta quello che era stato uno dei piú stimati maestri della pediatria italiana. Pincherle rimase addolorato per il silenzio di colleghi come Giovanni De Toni, che era stato per anni suo aiuto. 42 Armando Malagodi, pediatra. 43 Probabilmente il pediatra Marino Ortolani (Altedo 1904-1983). 44 Morbo di Cooley, dal nome del medico americano omas Benton Cooley. I nomi citati sono di altri pediatri.
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Il 10 giugno 1940, con un discorso a Piazza Venezia, Mussolini annuncia la dichiarazione di guerra a Gran Bretagna e Francia. 46 Il figlio Leo, allievo di Fermi e docente di Fisica, anche lui allontanato dall’insegnamento a seguito delle leggi razziali ed emigrato in Inghilterra con la moglie Nora e il figlio Guido. L’altro figlio di Pincherle, Mario, dopo l’armistizio parteciperà alla Resistenza. 47 Pincherle si riferisce alla vittoriosa controffensiva dell’e sercito greco, in seguito al fallimento della campagna di Grecia avviata da Mussolini il 28 ottobre 1940. 48 Venne notificato ai Pincherle il provvedimento di sequestro dell’apparecchio radiofonico. Il commissario Di Stefano, incaricato del sequestro, dissentendo dalla misura, non provvide immediatamente alla confisca. 49 La cognata Ada Cameo Sinigaglia. 50 La moglie Gilda Cameo. 51 Rudolf Hess (Alessandria d’Egitto 1894 - Berlino 1987), delfino di Hitler fin dalla fondazione del partito nazista, nel 1939 divenne suo successore ufficiale dopo Göring. Nel 1941, pilotando un aereo, si diresse in Scozia e si lanciò col paracadute sul villaggio di Eaglesham. Sostenne di essere latore di un piano di pace, ma non fu creduto e venne imprigionato. 52 Aimone di Savoia (Torino 1900 - Buenos Aires 1948), quarto duca d’Aosta, ammiraglio, il 18 maggio 1941 assunse il nome di Tomislavo II e fu designato re dello Stato Indipendente di Croazia, carica che mantenne fino al 1943. 53 Amedeo di Savoia (Torino 1898 - Nairobi 1942), terzo duca d’Aosta, generale, viceré d’Etiopia dall’ottobre 1937 al 17 maggio 1941 quando, dopo un lungo assedio ad Amba Alagi, le forze britanniche del generale Cunningham lo costrinsero alla resa con i suoi settemila uomini. 54 Mario Camis (Venezia 1878 - Bologna 1946), illustre fisiologo, docente universitario, di famiglia israelita, convertito al cattolicesimo da giovane, dopo essere stato allontanato dall’Università di Bologna a causa delle leggi razziali, nel maggio 1941 entrò nell’ordine domenicano. 55 A fine maggio del 1941 in Iraq le forze inglesi sconfissero il ribelle Rashid Alí, filonazista, arrivando alle porte di Baghdad. Anche in Siria la situazione diventava incandescente.
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L’8 giugno 1941 iniziò l’invasione della Siria da parte degli Alleati. 57 Il 22 giugno 1941 prese avvio l’Operazione Barbarossa, nome in codice del piano d’invasione tedesca dell’Unione Sovietica.
«Quelli che ora fanno sfoggio del loro antisemitismo, non sono che dei vili ruffiani» di Leone Maestro
[Firenze] 7 aprile [1941]58 L’assenza di ogni fede religiosa, l’attitudine scettica di fronte alle cose sacre sono deprecabili in sé, ma sono all’origine di una cosa preziosissima: la tolleranza. Germania e Russia hanno rinnovato moderatamente una delle crudeltà piú spietate che la storia antica ricordi: lo sgombero rapido di intere popolazioni dai territori da loro occupati. Questo stesso sistema a suo tempo dovrà essere adoperato contro i Tedeschi. E i rimanenti «ad metalla» con le razioni dei paesi vinti. Chissà cosa significherà il nuovo patto di neutralità tra Russia e Giappone59. Una cosa è certa: la malafede di entrambi i contraenti. Riguardando indietro panoramicamente questi 18 secoli di Cristianesimo non si possono considerare che come un lungo traviamento della umana ragione (specie nella corrente cattolica). Tralasciando pure il principio stesso della dottrina, si vede che nel lungo cammino, questo disgraziato (ma troppo fortunato) organismo ha scelto sempre la via peggiore, contro il senso comune, contro i giusti desideri e i sentimenti del popolo, contro la scienza, contro la giustizia. E ciò in ogni tempo. Dalla predicazione di Paolo contro quella degli apostoli, dal ripudio, in pratica, della Chiesa Palestinese con la condanna di Ario60, dagli iconoclasti, fino al Sillabo61 e alla condanna dei Modernisti. Credo che dovrà crollare tutto insieme, molto piú rapidamente di quello che si è sviluppato. Bisogna a tutti i costi che sia rotto il mito della invincibilità delle armi del Reich. Il primo scacco, anche non decisivo dal lato strategico, avrà conseguenze morali importantissime. Credo anche io che le popolazioni Baltiche in complesso stessero meglio prima. Ma almeno a una cosa avrà giovato l’anschluss62 alla Russia: a risolvere bruscamente e definitivamente la questione cancrenosa dei Baroni Baltici che da tanti secoli tiranneggiavano quelle terre.
In un paese libero ammetto il diritto di essere e di dimostrarsi antisemiti; ma quelli che ora fanno sfoggio del loro antisemitismo, non sono che dei vili ruffiani. Quando i preti vorranno rigettare l’accusa di giudeo fobia, molti potranno testimoniare con me che fino dal principio della campagna razzista i libri antisemiti sono stati messi in bella vista nelle librerie cattoliche. E poi, se anche l’antisemitismo stile ’900 non è opera loro, si può dire che di tutte le persecuzioni sopportate dal nostro popolo dal 70 d.c. a oggi i preti sono responsabili per un 70%. Non c’è malanno di cui la stupidità umana non trovi il verso di aumentare le sofferenze. Il caldo estivo è noioso ma diviene insopportabile per i vestiti irrazionali che ci costringono a portare. Chi ha pratica di ospedali sa che per moltissimi ammalati le ore notturne apportano un aumento di sofferenza e soltanto all’alba i malati troverebbero un po’ di sollievo e di riposo, ma il Regolamento impone di svegliarli per le «pulizie». Non parliamo poi di tutti i tormenti inflitti ai fanciulli nelle scuole e fuori. Sono anche io convinto che la Ragione (anche senza essere divinizzata) abbia diritto di accesso ovunque; ma non in ogni luogo da padrona; in qualche posto deve prima bussare e poi entra in punta di piedi. Il regime ha tutto l’interesse che siano creati nella popolazione dei nuovi bisogni artificiali facilmente soddisfacibili (sports, radio, tabacchi e simili) per non soddisfare quelli spontanei, naturali (lavoro in condizioni piú igieniche, alimentazione sana, istruzione alla portata di tutti). Si è visto che l’Inghilterra arretrata di almeno 8 anni sulla Germania nella produzione bellica non è riuscita a rimettersi in pari. Riuscirà agli US? E a che punto sarà la Russia che fino al ’33 dedicava all’esercito una parte infima del suo bilancio? Non ho mai creduto alla sincerità delle convinzioni razziste degli odierni predoni (credevo però stupidamente all’antibolscevismo di Hitler) né alla applicazione «onesta» (si l’on pêut dire63) dei principî sanciti dalle vergognose leggi. Tralasciamo i legami di parentela e di affinità con Ebrei di Rosemberg64, Goering65 e Goebbels66, Ciano67, Bottai68 e altri. Ma l’arianizzazione di Isaia Levi69 finanziatore della marcia è proprio il colmo. 58
Adn Dg/88. Maestro (Firenze 1900 - Pistoia 1973), antifascista e sionista, dopo le leggi razziali emigrò ma dovette rientrare in Italia dalla
Francia dopo l’invasione tedesca e si rifugiò in clandestinità ad Annifo (Foligno), dove esercitò sotto falso nome la professione medica. Diario scritto in forma di riflessioni sulla politica e gli avvenimenti internazionali su un’ottantina di quaderni, spesso in esperanto. 59 Patto firmato a Mosca il 13 aprile 1941, due mesi prima dell’invasione tedesca della Russia. 60 Condanna di Ario pronunciata dal primo Concilio generale della Chiesa, convocato e presieduto dall’imperatore Costantino a Nicea nel 325, considerando eretica la teoria secondo la quale l’unità di Dio fosse incompatibile con la pluralità delle persone divine e quindi Cristo sarebbe stato la prima creatura di Dio, ma senza averne la stessa natura. 61 Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores, pubblicato da papa Pio IX nel 1864, contenente la condanna degli «errori moderni». 62 Annessione. 63 Se cosí si può dire. 64 Alfred Rosenberg (Reval 1893 - Norimberga 1946), teorico dell’antisemitismo, durante la guerra si occupò della deportazione degli ebrei catturati nei territori occupati; processato a Norimberga, fu giustiziato. 65 Hermann Goering (Marienbad 1893 - Norimberga 1946), fondatore e comandante della Luwaffe, tra i principali responsabili della «soluzione finale»; processato a Norimberga, si suicidò con una capsula di veleno. 66 Joseph Goebbels (Rheydt 1897 - Berlino 1945), ministro della Propaganda, alla morte di Hitler assunse la carica di Cancelliere e si suicidò con la famiglia per non cadere nelle mani dei russi. 67 Galeazzo Ciano (Livorno 1903 - Verona 1944), ministro degli Esteri e genero di Mussolini, giustiziato per avergli votato contro il 25 luglio 1943. 68 Giuseppe Bottai (Roma 1895-1959), ministro dell’Educazione nazionale, sostenitore delle leggi razziali, dopo essere stato condannato a morte per aver votato contro Mussolini il 25 luglio 1943, si nascose in un convento e successivamente si arruolò nella Legione Straniera sotto falso nome, combattendo contro i tedeschi. 69 Isaia Levi (Torino 1863 - Roma 1949), ebreo fascista, senatore, accusato di non aver preso posizione contro le leggi razziali.
«Non ho fatto alcunché che possa giustificare i provvedimenti contro di me» di Carlo Alberto Viterbo
Roma 10.VI.1940 Notte70
Mia cara Nella, poco fa, quando ho impostato la mia lettera per te, potevo pensare ma non sapevo quello che sta per accadermi. Su quell’assolutamente nulla che è la mia condotta politica si sono costruite delle leggende e proprio mentre tentavo di sventarle, esse arrivano a produrre un secondo guaio. Infatti, come forse avrai capito dalle mie lettere precedenti, al seguito della dichiarazione di Guerra, si stanno levando di circolazione gli elementi politicamente sospetti e pericolosi e mi si include in tal novero. Ho cercato di lottare contro questo assurdo, ma gli avvenimenti precipitano e non posso [che] ritenere inevitabile il mio arresto entro poche ore. V’è chi mi ha consigliato di fuggire, ma penso che sarei stolto se, con un tentativo di fuga che avrebbe in ogni caso breve durata, dessi appiglio alle accuse e fondamento alle inesistenti colpe. Veramente avrei voluto passare da Sensano71 a riabbracciare te e il ragazzo e a prender congedo per il tempo di questa non desiderata e inattesa villeggiatura. E per un momento il desiderio di farlo stava per vincermi la mano. Ma poi ho pensato che l’errore piú grave che possa fare è di dar corpo alle ombre. Bisogna che questo castello di carte crolli e non debbo dargli solidità con le mie mani. Tu capisci che è inutile pensare a discriminazione72 di un tale che è arrestato per misure di ordine pubblico, ma ancora meno di un latitante. Invece occorre, per prima cosa, ottenere il riconoscimento che non v’è fondamento per questo internamento e in secondo momento si potrà pensare alla discriminazione. Dunque raccomando a te e a quelli che con te potranno occuparsi delle mie cose di tralasciare per il momento di preoccuparsi della discriminazione e di concentrare i vostri sforzi in un tentativo di ottenere la liberazione. Anche in questo però non precipitate. In questi primi giorni ogni tentativo è destinato a infrangersi. Passata la prima burrasca si potrà pensare a qualcosa.
Come ti ho scritto mi ero rivolto a Lessona73. Non avendolo trovato, gli ho lasciato un biglietto pregandolo di fissarmi un appuntamento, ma fino a questo momento non ho risposta. Non so dunque quale assegnamento si potrà fare sopra di lui. La strada di Buffarini Guidi74 è stata finora impraticabile. Ma non c’è nulla di compromesso e se ci potrete arrivare forse potrete ottenere qualcosa. [Dante] Almansi, il Presidente dell’Unione, potrebbe forse spendere una parola. Bisognerà domandarglielo e do incarico a mamma di farlo, con un mio biglietto. Altre persone minori che avevo interrogato, e a cui avevo promesso compensi in caso di successo, potranno ancora essere interessate. Mamma è al corrente. Ritengo però che nei primi giorni non sarà possibile far nulla ma sarà molto se si potrà ottenere giustizia in seguito. Mi preoccupo non di me ma di quello che lascio. Non dell’ufficio o del lavoro al quale ho dato tutto me stesso in questi ultimi tempi. Altri potrà portarlo avanti. Ma di voi mi preoccupo. Tu rimani molto sola. Nonostante una residenza diversa eravamo a contatto per le cose essenziali. Ed io sentivo di poterti essere utile. Per questo soltanto non sono partito, quando avrei potuto, insieme a chi si è cercato altrove una base di vita nuova. Pensavo di poter ancora fare quanto è trattabile per la discriminazione e per la tutela dei tuoi interessi in caso di espropriazione. È molto probabile che tutte queste ultime pratiche subiscano un rallentamento o una stasi e spero che sia cosí. Se no ti farai aiutare da Pio75. Lascio a mamma, in particolare fascicolo, le carte relative a queste cose onde le consegni a te o a Pio. Non faccio recriminazioni. Né contro chi mi procura questa umiliazione, né contro nessuno. Constato con amarezza che, ancora una volta, io avevo veduto piú chiaro che chiunque altro e quando ti avevo proposto di emigrare, i miei occhi avevano acutamente penetrato i rischi dell’avvenire. Avremmo potuto evitare questo guaio. Ora non c’è che sopportarlo ed io per la mia parte prendo il mio peso con tranquillità e serenità, per nulla preoccupato di me e quieto con la mia coscienza non ho fatto alcunché che possa giustificare i provvedimenti che vengono presi contro di me, ma era facile prevedere una sorte che sta nella logica della politica antiebraica corrente. Ti prego di sopportare il colpo con me, con serenità e fermezza. Non ti esporre con recriminazioni, non prostrarti a viltà. Resta quella che sei e mantieniti in calma e pazienza. Mi preoccupo anche per mamma. Anche
pensando a lei mi sento stasera molto commosso. Non credo che convenga, almeno in primo momento, che disfaccia la casa e venga in campagna. Qua può fare qualcosa per me, continuare il suo piccolo lavoro, forse subaffittare in parte la casa. In secondo momento, se le cose dovessero prolungarsi, farete voi. I mobili potrebbero trovare ospitalità in un magazzino: Pateras con me si è offerto e mamma potrebbe venire da te o trovare altra sistemazione. Purtroppo anche a me dovrai un po’ pensare. Come e in che misura dipenderà dal genere di provvedimenti che verranno presi: Confino? Campo di concentramento? Prigione? Non so davvero in questo momento. Ma ti ripeto, qualunque sia la sorte mi sento tranquillo e pronto a sopportare i relativi disagi. Per fortuna sono ancora solido e i disagi materiali non mi spaventano. Penso con tenerezza e dolore al mio caro Giuseppe76. Ma egli sa, nel suo cuore, che il suo babbo è fedele a delle idee alte, nobili, sante, indistruttibili e prenderà da piccolo ometto, come è la sua parte di pena e di sopportazione. Triste è la celebrazione del nostro Shavuoth77. Ma essa è la festa che ripete la nostra gioia per la Legge Divina che ci fu data e la nostra fedeltà ad essa. Pur nella tristezza di questa ora possiamo sentire in fondo al nostro cuore la gioia di essere i custodi di questa Divina Legge di verità e di giustizia. E non ci resta che attendere che la verità e la giustizia trionfino per noi e per tutti gli uomini di buona volontà. Possiamo celebrare una Pasqua di fedeltà e sentircene confortati. Scriverò a mamma e a te come e quando potrò e vi comunicherete le notizie. Mamma cercherà e troverà il modo di farmi pervenire le vostre. Credo che porterò poche cose con me. In seguito, vi prego, quando sarà possibile, di farmi pervenire quello che mi occorrerà e chiederò. Ma basteranno pochi effetti personali, qualche libro e qualche lira. Lascio a mamma, perché ne faccia il miglior uso, lettere per Buffarini, per Lessona, per Almansi. Ti ripeto di stare tranquilla e forte. I tempi di Guerra esigono una somma di energie. Non conviene strillare, imprecare, recriminare. Occorre pensare con calma e agire con prudenza. Ed ora giunto al termine di questa lunga lettera, invio a Giuseppe e a te con ogni tenerezza e affetto un lungo abbraccio e le piú calde benedizioni Carlo
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Ap Giuseppe Viterbo, Firenze. Viterbo (Firenze 1889 - Roma 1974), ufficiale di cavalleria nella Prima guerra mondiale, avvocato e consigliere della Comunità fiorentina, nel ’36 si recò in Etiopia su incarico dell’Ucii per costituire la Comunità di Addis Abeba e prendere contatto con gli ebrei residenti nella zona del Lago Tana (Falascià); nel giugno 1940, allo scoppio della guerra fu internato perché ritenuto pericoloso. Nel dopoguerra ricostruí la Federazione sionistica italiana. Lettera fronte-retro su cinque mezzi fogli di carta intestata «Avv. Carlo Alberto Viterbo» (con indirizzo e numero di telefono di Firenze), indirizzata alla moglie Nella Uzielli. 71 Proprietà nel comune di Monteriggioni (Siena), acquistata dalla famiglia Uzielli nel 1843 dopo il trasferimento da Roma a Siena. 72 Regio decreto legge n. 1728/1938. Stabiliva una parziale esenzione dalle misure persecutorie, nota come «discriminazione», per le famiglie dei caduti in guerra, per la causa fascista o con particolari benemerenze di ordine politico. 73 Alessandro Lessona (Roma 1891-1991), fascista della prima ora, sottosegretario, ministro delle Colonie e ministro dell’Africa Italiana; dal 1938 Mussolini lo estromise da ogni incarico istituzionale e si dedicò all’insegnamento presso l’Università di Roma. 74 Guido Buffarini Guidi (Pisa 1895 - Milano 1945), sottosegretario agli Interni dal 1933 al 1943 e ministro dell’Interno della Rsi fino al febbraio del 1945. 75 Pio Tagliacozzo, avvocato, marito di Laura Uzielli, sorella di Nella. 76 Il figlio. 77 La cosiddetta festa delle settimane, celebrata il 6 di Siwan, ossia il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua ebraica, nel giorno in cui Dio donò la Torà (i dieci comandamenti) al popolo di Israele.
«Ovunque prima o poi saremmo stati perseguitati» di Emanuele Artom
[Torino] 3 settembre 194178 Mi ero proposto di sollevare papà e la mamma. La mamma non si è certo rimessa, ma ha ripreso a vivere; cerco di darle del lavoro, non solo perché mi è molto utile che copi le mie carte, ma anche per tenerla occupata. Papà sta peggio, ma non vedo possibilità di rimediare: l’unica cosa utile che posso fare è insistere perché vada al Tempio e accompagnarlo anche quando ne ho poca voglia, perché si distragga ed esca di casa, ma per altro non riesco ad immaginare il modo di sciogliere la sua faccia di marmo: il tempo non lo consola, ma lo abbatte. Particolarmente tristi sono per lui questi giorni di feste ebraiche, terribile l’inno che si canta a Rosh ha-shanà79 e a Kippur 80 del sacrificio di Isacco; una retorica, fastidiosa serqua di versi senza espiazione, stupidamente emotivo mi pareva una volta, ma ora è dolorosamente reale, non per merito dell’autore, ma per la fedele rievocazione, a volte addirittura allucinante, della morte di Ennio81; ed io tremo quando si giunge a quella pagina nel libro di preghiere e vorrei andar via, ma papà mi dice: «Stiamo ancora a sentire questa poesia». A dire il vero fino a diciotto anni non provai interesse alcuno per l’ebraismo; entrato all’Università, feci un primo lavoro sulla decadenza degli Asmonei82, che ampliato divenne la mia tesi, poi scrissi il libretto di storia ebraica per le scuole elementari, studiai la storia degli ebrei in Italia ecc. Questa attività puramente culturale si accompagnò ad una pubblica; il Rabbino mi fece fare delle conferenze e delle lezioni, partecipare al giro dei Sefarim83, mi affidò la biblioteca, andai a raccogliere denaro per le opere sionistiche e per i profughi, organizzai feste, gite, ecc. In questi sei anni l’ebraismo ha occupato molto del mio tempo, come studio e come pratica. In che modo lo concepisco? Postomi il problema, per risolverlo razionalmente e storicamente giunsi a questa prima conclusione: l’ebraismo non è una religione, perché molti ebrei si considerano tali senza credere in Dio o credendovi in modo diverso dalla teologia ebraica, dato che questa ci
sia; non è una razza, perché gli etnologi affermano il contrario; non è una patria, perché noi ci sentiamo legati alla terra di nascita; è una quarta cosa, unica tra gli uomini; siamo avvinti da una tradizione, come lo si può essere da una solidarietà di fede, di sangue o di luoghi; appunto perché è unico al mondo non ha un nome comune, che serve per indicare le entità dello stesso genere. Colpito dalla lotta antisemita, pensai che se si voleva salvare l’Ebraismo, era necessario andare in Palestina, poiché ovunque prima o poi saremmo stati perseguitati. Era l’idea di Pinsker84 e dei teorici del sionismo; per il sionismo fino ad allora avevo solo sentito simpatia, ma nel 1939 divenni sionista. L’esperienza dell’aksharà85 in cui vidi ammassate persone mediocrissime che solo avrebbero potuto costituire un nuovo popolo come ce ne sono già tanti altri; il dolore che avrei sofferto a separarmi dalla famiglia, dagli amici, dal Piemonte, le vittorie della Germania sui piccoli stati, Polonia, Belgio, Olanda86 ecc., che mostravano come lo Stato Ebraico con pochi milioni di abitanti non avrebbe potuto assolutamente difendersi, raffreddarono i miei entusiasmi nazionalistici, che altro non furono se non una rapidissima vampata. Due anni fa con Ennio e Giorgio87 costruii un nuovo sistema. Ci rifacemmo al concetto della tradizione sopra esposto: ogni tradizione, si pensò, merita di essere coltivata in quanto ha di buono: è un ottimo freno alla imprudenza ideologica e al rilassamento del costume; tutte le solidarietà devono essere rispettate, e lo Stato moderno, dalla Rivoluzione francese in poi, ha avuto il torto di distruggerle o almeno di sminuirle, ma di questo parlerò un’altra volta. Torniamo all’ebraismo: esso ha un’augusta trimillenaria tradizione, la tradizione della moralità. Come la Grecia nel 400 a.C., l’Italia nel 1500, la Germania nel 1700, cosí la Palestina dall’800 al 600 dell’era antica ebbe una fioritura di geni: Amos, Isaia, Geremia ecc.88. Assistendo al fondersi delle tribú mosaiche con i Cananei89, alla civiltà di Babilonia e d’Egitto, alla militare potenza assira, i profeti si innalzarono all’idea della moralità, prima sconosciuta. L’umanità, come dipende per la cultura dai grandi popoli occidentali, cosí per la morale si allaccia al popolo ebraico. Non dobbiamo porre mente, come parrebbe alla Bibbia, alla dispersione degli Ebrei, fenomeno a cui si soggiacquero quasi tutte le genti antiche, ma alla conservazione in esilio per mezzo della Legge,
conservazione che solo gli Ebrei seppero attuare. Ecco, sono duemila anni che Israele è perseguitato e continua a essere il popolo della moralità; in questa sanguinosa storia umana, intessuta di ingiustizie e di orrori, nessuna colpa si può imputargli, è il popolo che non ha mai fatto del male a nessuno. Avviene pertanto che la storia degli Ebrei rivesta singolarissimi caratteri, che la rendono sostanzialmente diversa da quella di ogni altra nazione. Essi, scartati dall’attività politica, si potevano trovare alla mercé di un principe senza scrupoli o di una plebe fanatica, e ne dovevano subire le persecuzioni senza reagire. Passiva quanto nessun’altra storia di popoli è dunque la storia d’Israele che sempre sottostà alla volontà di altri, ma sotto un diverso aspetto nessun popolo può vantare una piú vivace e piú consapevole attività individuale proprio perché l’ebreo non ha avuto nella diaspora un’organizzazione statale sua che lo difendesse, ma anche che gli imponesse un modo di pensare e di agire; al contrario, rifuggendo da conversioni che gli avrebbero reso la vita piú facile e aperta, i nostri antenati vissero fuori dalla norma e dalle convenzioni per la loro precisa e cosciente volontà. Quindi la storia degli Ebrei è insieme la piú passiva e la piú attiva fra le storie di tutte le genti. E tutti noi ebrei discendiamo da cento generazioni di eroi: di fatto siamo alquanto piú buoni degli altri, incorriamo meno nella violenza e nella disonestà; di fatto la barbarie pagana sente nell’ebraismo il suo naturale nemico. Esistono sistemi etici superiori all’ebraismo, come quello che Kant espone nella Critica della Ragion Pratica, ma essi sono inattuabili: la Bibbia rappresenta il massimo a cui possono giungere gli uomini, non la si deve abbandonare perché oggi non è ancora un punto di partenza, è un punto di arrivo. Bisogna dunque conservare questo ebraismo, anzi diffonderlo, far-lo conoscere ai cristiani, per loro elevazione come per nostra difesa. Questo pensavo e questo penso; la concezione è logica, coerente con la realtà, ma mi sorge il dubbio, e il dubbio va diventando molto simile alla certezza, che io l’abbia costruita per giustificare i miei sentimenti ebraici scaturiti da essa; che cioè sia una assai ben congegnata spiegazione a posteriori adatta a persuadere i persuasi; cosí si comprende che molte persone intelligenti a cui l’ho esposta, ebrei e non ebrei, l’abbiano considerata degna di discussione e apprezzata, non ne abbiano trovato nessun difetto, ma non ne siano rimasti
convinti: e questo dubbio che corrisponde alle mie teorie psicologiche, non era onesto confessarlo? 16 ottobre 1941 Copia di due manifesti incollati per le vie di Torino. Mattina del 16 ottobre; il secondo c’era già il 15. Giudei sono: Da Verona90 , Pitigrilli91 , Moravia92 , Loria93 , Segre94 , Momigliano95 , Terracini96 , Franco, Levi Montalcini97 , Einstein98 , Blum99 , La Pasionaria100 , Alvarez del Vajo101 , Carlo Marx, Litvinof102 , Lenin, Mordavisi, Voronof103 , Modigliani104 , Maestro, Roosevelt105 , Jacchia106 , Bombacci107 , Artom108 , il Negus109 , De Benedetti, Dario Disegni110 . Giudei sono tutti i capi della Massoneria e tutti i manutengoli della Borsa. Giudei sono i vigliacchi piú spregevoli, i propalatori delle notizie allarmanti, gli accaparratori e gli affamatori del popolo, i denigratori piú impenitenti, i disfattisti piú perversi, gli sfruttatori di donne e di uomini. Giudei sono gli omosessuali, quelli che non hanno mai sudato, mai lavorato, quelli che han sempre tradito la patria, quelli che han voluto le sanzioni111 . Dunque vogliamo finirla una buona volta? Non ai campi di concentramento, ma al muro con i lanciafiamme. Viva il Duce! Viva Hitler! P.S. Faremo i conti anche con i complici degli Ebrei, i cosiddetti Giudei onorari.
Italiani, mentre in Russia i nostri fratelli combattono, muoiono e vincono, mentre in Africa Settentrionale i nostri figli preparano la piú fulgida delle vittorie, mentre a Gondar112 il sangue
del nostro sangue insegna al mondo intero come l’Italia può combattere, resistere e vincere con poche munizioni e tirando la cinghia anche oltre l’ultimo buco, qui in patria l’Ebreo la cui unica passione è l’oro, il cui unico sentimento è la pancia, il cui unico credo è l’egoismo, vive tranquillo e indisturbato incettando i nostri viveri, seminando falsità e calunnie, insidiando le nostre donne. Italiani, il nostro nemico pubblico n. 1 è l’Ebreo; il nostro nemico pubblico n. 2 è l’Ariano che protegge l’Ebreo. Non diamo quartiere a questi due nemici, piú pericolosi degli altri perché vivono tra noi, tradiscono tra noi. Italiani al motto Vincere uniamo il motto Morte all’Ebreo. Solo cosí accelereremo la vittoria, solo cosí ci renderemo degni di chi al fronte combatte, soffre e muore. Vincere! A morte il Giudeo!
La notte dal 14 al 15 un certo T. chiama Fernex113; questi va fuori e vede le fiamme. Avevano gettato la benzina presso il portone principale del Tempio scavalcando il cancello, l’hanno sparsa su tutti i gradini per poter incendiare di fuori e poi, usciti, han dato fuoco. T. spegne col panno fregando il pavimento bagnato. Si telefona alla polizia. I due incendiari scappano appena colti: due latte di benzina. Un quarto d’ora dopo c’era già il giornalista della «Gazzetta del Popolo»114, ma sul giornale non esce niente. Il Prefetto e il Questore promettono di vigilare, consigliando la Comunità di assoldare anche una guardia giurata. Nella notte seguente la sorveglianza è
tenuta dalla forza pubblica e da un gruppo di fascisti del circolo rionale vicino. Si suppone che l’iniziativa venga dal Consolato Tedesco. Quanto ai manifesti le autorità dicono che sono troppi per poterli eliminare. 17 ottobre 1941 Sui muri di Torino è incollato un altro manifesto pure scritto a macchina: «Occhio al Giudeo! E fuoco sul Giudeo al primo accenno sospetto! Senza discriminazioni: lasciando al Creatore la cura di discriminare. Occhio ai seguenti Giudei». Seguono due colonne di nomi e indirizzi. Prima autorità della Comunità (Rabbini, impiegati e consiglieri presenti e passati), poi persone in vista, per esempio professori di Università. L’elenco non è aggiornato; nomina persone morte o partite, o toltesi dalla Comunità e convertite. «L’ora X… è molto prossima! E la resa dei conti è vicina. Vinceremo anche contro i Giudei!» Nel pomeriggio vedo incaricati delle autorità che staccano i manifesti grattandoli dalle pareti. Mi si riferisce che il fotografo Ottolenghi è stato aggredito in un caffè e ferito in viso. La campagna che ora segno è cominciata, ma meno grave, da qualche settimana. Prima sui muri erano scritte vicine e col gesso dalla stessa mano le seguenti parole: «Morte agli Ebrei! Leggete Vent’anni (giornale studentesco)». Poi erano state incollate caricature rappresentanti un ebreo che allunga le orecchie con vicino scritto: «Taci, il Giudeo ti ascolta!», e altre con una mano armata da un paio di forbici che taglia la lingua a un ebreo. Ancora in nero o in gesso si legge da parecchi giorni sui muri, specie presso la Comunità e anche sulla cinta del Tempio: «Vogliamo gli Ebrei in campo di concentramento! Morte a Giuda!» La popolazione, prima indifferente, ora legge con attenzione i tre manifesti che ho riportato. Un gruppo di studenti che nella scorsa notte strappava dei manifesti è stato insultato e malmenato da un ufficiale di complemento. 20 ottobre 1941 Sabato 18 tra le grate del cancello della scuola ebraica si trova un biglietto scritto a mano: «Morte agli Ebrei! Non vogliamo gli Ebrei in campo di concentramento, ma bensí al muro coi lanciafiamme». In varie parti di
Torino centro, scritte analoghe a inchiostro indelebile. Una ventina di giovani ebrei, notti fa, avevano strappato i manifesti; io ero contrario, perché mi pareva che non fossero gli ebrei a doverli strappare, ma forse avevo torto. Si dice che tre tedeschi autori delle scritte sono stati arrestati. 78
E. Artom, Diari di un partigiano ebreo, gennaio 1940 - febbraio 1944, a cura di G. Schwarz, Bollati Boringhieri, Torino 2008 (1a ed. Cdec, Milano 1966), pp. 12-19. Artom (Torino 1915-1944), saggista, iscritto al Pd’A, dopo l’armistizio entrò nella Resistenza con GL e divenne commissario politico, ma fu catturato in un rastrellamento, denunciato come ebreo da una spia alla quale aveva salvato la vita e morí torturato nelle Carceri Nuove di Torino (il corpo non fu mai trovato). Diario su fogli di fortuna dal 1° gennaio 1940 al 23 febbraio 1944, affidato man mano a diverse persone di fiducia. 79 Capodanno ebraico. 80 Digiuno di espiazione. 81 Il fratello, morto nel 1940 durante una gita in montagna. 82 Stirpe reale che detenne il potere civile e religioso in Palestina fino all’arrivo dei Romani. 83 Rotoli di pergamena nei quali è contenuto il testo del Pentateuco, letto durante le funzioni, portati tra il pubblico nel corso della Simchat Torà (festa della legge). 84 Yehuda Pinsker (1821-1891), medico e scrittore polacco, considerato tra i fondatori del sionismo moderno. 85 Preparazione, dove i giovani sionisti si addestravano ai lavori agricoli in vista del trasferimento in Israele. 86 La Polonia era stata invasa il 1° settembre 1939, il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo il 10 maggio 1940. 87 Giorgio Segre, un amico. 88 Profeti. 89 Abitanti del Canaan (attuale Libano, Palestina, Israele e parti di Siria e Giordaria), che resistettero alla religione monoteistica degli ebrei, influenzandola con alcune pratiche idolatriche.
90
Guido Da Verona (Saliceto Panaro 1881 - Milano 1939), poeta e scrittore inviso al regime, si suicidò in seguito alle leggi razziali. 91 Pseudonimo di Dino Segre (Torino 1893-1975), scrittore. 92 Alberto Moravia, pseudonimo di Alberto Pincherle (Roma 19071990), scrittore. 93 Arturo Loria (Capri 1902 - Firenze 1957), scrittore. 94 Probabilmente Beniamino Segre (Torino 1903 - Frascati 1977), matematico. 95 Attilio Momigliano (Ceva 1883 - Firenze 1952), critico letterario, firmatario delmanifesto degli intellettuali antifascisti. 96 Il linguista Benvenuto Aronne Terracini (Torino 1886-1968), il matematico Alessandro Terracini (Torino 1889-1968) o il comunista Umberto Terracini (Genova 1895 -Roma 1983). 97 Gino Levi Montalcini (Torino 1902-1974), fratello di Rita, scultore e architetto. 98 Albert Einstein (Ulma 1879 - Princeton 1955), fisico, premio Nobel nel ’21, fuggito negli Usa dopo l’avvento del nazismo. 99 Probabilmente Léon Blum (Parigi 1872 - Jouy-en-Josas 1950), politico socialista. 100 Dolores Ibarrui (Abanto-Zierbena 1895 - Madrid 1989), dirigente comunista. 101 Ministro degli Esteri comunista nel governo spagnolo di Francisco Largo Caballero. 102 Maksim Maksimovič Litvinov (Biaystok 1876 - Mosca 1951), rivoluzionario russo. 103 Serge Voronoff (Voronezh 1866 - Losanna 1951), chirurgo russo naturalizzato francese, noto per gli esperimenti sul ringiovanimento maschile. 104 Probabilmente Giuseppe Emanuele Modigliani (Livorno 1872 - Roma 1947), avvocato socialista, rappresentò la parte civile nel processo per l’omicidio di Giacomo Matteotti. 105 Franklin Delano Roosevelt (Hyde Park 1882 - Warm Springs 1945), presidente degli Usa durante la Seconda guerra mondiale.
106
Mario Jacchia (Bologna 1896-1944), irredentista e antifascista, dopo l’armistizio entrò nella Resistenza. 107 Nicola Bombacci (Civitella di Romagna 1879 - Dongo 1945), dirigente socialista e tra i fondatori del Pcd’I, negli anni Trenta si avvicinò al fascismo e aderí alla Rsi; fu fucilato nell’aprile del ’45. 108 Emilio Artom (Torino 1888-1952), padre di Emanuele, matematico, escluso dalla docenza perché non iscritto al Pnf. 109 Hailé Selassié (Ejersa Goro 1892 - Addis Abeba 1975), imperatore d’Etiopia spodestato dagli italiani nel ’36 e reinsediato dagli inglesi nel ’41. 110 Dario Disegni, rabbino e guida spirituale della comunità torinese. 111 Inflitte dalla Società delle Nazioni all’Italia per aver invaso l’Etiopia nel ’35. 112 Ultimo centro di resistenza italiana in Etiopia, dopo la conquista inglese di Addis Abeba in maggio. 113 Aldo Fernex, custode della scuola ebraica di Torino. Dopo l’armistizio entrò nella Resistenza e venne ucciso durante un rastrellamento presso Ala di Stura (Torino). 114 Quotidiano torinese.
«Addio Tempio Tedesco dove i miei Nonni pregarono per la liberazione del nostro Popolo» di Giovanni Ravenna
[Ferrara] Rosch Ascíanà [21 settembre] 1941115 La 1ª sera di Rosch Ascíanà (Capodanno Ebraico) dopo un violento discorso di Asvero Gravelli116, membro del Direttorio del partito Naz[ionale] Fasc[ista] guerrafondaio per eccellenza (voleva sbarcare in America con truppe italiane) ci furono devastati dalla turba fascista i due Templi ebraici, quello a rito Tedesco e quello a rito Danese, spaccati i banchi rotte le colonne di marmo che circondavano l’Arca santa. Asportate le Sacre Bibbie, divelte le porte e rotte con le asce le finestre. L’Arca Santa, vero gioiello di falegnameria del 15° Secolo presentava larghi squarci agli sportelli. Tutte le lampade votive in argento furono asportate e alla sera al gruppo rionale «E. Squartanti» in una festa in suo onore il Gravelli ballava con le catenelle d’argento tolte dalle lampade, attorcigliate alle braccia come un trofeo. Mentre avveniva la distruzione dei Templi una squadra si portava nella casa del rabbino e asportava un apparecchio radio normalissimo. Rovistando in tutti gli armadi di cucina veniva trovata una ampollina contenente olio di oliva (la razione del mese) che veniva poi regalata a una bambina che passava per la strada. Subito informato del fatto il Geom[etra] Mario Vannini, comandante della Gil, si recava in casa del Rabbino Leoni117 e interrogatolo sui fatti avvenuti dianzi, rispondeva con queste testuali parole: «I fascisti non sono ladri» e gli appioppava due sonori ceffoni. Per fortuna che tutto ciò cominciava verso le ore 20, ora in cui tutti i fedeli erano usciti dai templi. Io il fatto appresi la mattina dopo in Zuccherificio (dove ero impiegato per la ‘campagna’ saccarifera) da Giacomo Buzzi che mi narrò tutto; si può immaginare il mio stato d’animo, impreparato com’ero ad una notizia simile. Non dissi niente per il momento alla mamma per non spaventarla, alle 14,30 andai in stazione incontro allo zio Renzo (ex podestà della città) che doveva arrivare da Reggio Emilia;
appena giunto lo chiamai da una parte e gli riferii tutto il fatto. In ufficio mi trovai da dire con Sesto Divisi, fratello di un gerarca, perché lui sosteneva che in Sinagoga era stata rinvenuta una stazione radio trasmittente clandestina e dei quintali di olio. Come si svisano presto le cose! ed io sostenevo che il danno era molto superiore a quello che i giornali dell’epoca strombazzavano sui fatti commessi dai rossi118 in Spagna nelle chiese cattoliche! Il giornale «Corriere Padano» del giorno successivo riportando la manifestazione in onore di Asvero Gravelli, nelle ultime righe segnalò: «Che squadre di fascisti si portarono in Via Mazzini, vecchio Ghetto, e fecero una vivace dimostrazione» e niente di piú. Addio Tempio Tedesco dove i miei Nonni pregarono per la liberazione del nostro Popolo. 115
P. Ravenna, La famiglia Ravenna. 1943-1945, ed. fuori commercio, Corbo Editore, Ferrara 2001, pp. 33-34. Ravenna (Ferrara 1911 Forlimpopoli 1969), impiegato, licenziato dalla banca per le leggi razziali, nel ’42 fu sottoposto a lavoro obbligatorio; dopo l’armistizio si rifugiò in clandestinità in varie località e presso alcuni istituti ecclesiastici. Il brano si riferisce alla profanazione della Sinagoga di Ferrara il 21 settembre 1941, ad opera di studenti universitari fascisti bolognesi. 116 Giornalista e gerarca fascista (Brescia 1902-1956), da taluni ritenuto figlio di Mussolini per la somiglianza e la carriera. 117 Leone Leoni. 118 Comunisti, durante la guerra civile spagnola.
«Una nuova legge impone il lavoro obbligatorio» di Scipione Poggetto
[Torino] A maggio [1942]119 il Ministro delle fabbricazioni di guerra, interdice a tutti gli ebrei, siano questi dirigenti, impiegati, operai, [di] lavorare negli stabilimenti ausiliari, il primo colpo grande all’azienda casalinga è questo. Al 30 giugno 1942 non posso piú lavorare alla Fiat, sono licenziato in tronco. Anche Benedetto segue la mia sorte. Paglieri lo ha licenziato. Cerchiamo lavoro indipendente. Io trovo un impiego presso Off. Mecc. Dotta Benedetto da Foà e Emilio in un’officina. Lavoriamo due mesi circa quando una nuova legge impone a tutti i giovani ebrei di presentarsi, dietro cartolina a precetto, al municipio per il lavoro obbligatorio. I colpi giungono con paurosa frequenza. Emilio presenta una dichiarazione d’infortunio e di precetto viene rimandato alla guarigione. Benedetto dopo aver lavorato come terraziere due giorni presenta la dichiarazione d’immobilità e rimane a casa; io invece, sono inviato in una grande area cui tutti dobbiamo scavare la terra e trasportarla con le carriole. Siamo in duecento circa sorvegliati da un operaio. Cerchiamo di lavorare il meno possibile e con meno fatica, ma l’ispezione giornaliera dell’ingegnere capo ci obbliga a sfaticare per la lucrosa cifra di 22 lire al giorno circa e con un etto e mezzo di pane al giorno. Il lavoro è duro, ma lo spirito di noi è altissimo. Si sente e si spera presto la caduta di Mussolini. 119
Acdec, Fondo Antifascisti e partigiani Ebrei, b. 12, fasc. Poggetto Scipione. Poggetto (Torino 1910-1989), licenziato dalla Fiat in seguito alle leggi razziali (fu reintegrato nel dopoguerra), nel ’42 fu sottoposto a lavoro obbligatorio e dopo l’armistizio entrò nella Resistenza. Diario scritto a matita dall’ottobre 1938 al 29 aprile 1945.
«È incomprensibile che vi sia stato negato il permesso dell’infermiera» di Giulio Lombroso
Verona, lí 21/8/42120
Carissimo Renato, ricevo il telegramma di Amelia. È incomprensibile che vi sia stato negato il permesso della cameriera con tutti i certificati presentati, forse non hai portato il nuovo certificato attestante le condizioni attuali di Nora ancora convalescente e anche le condizioni del bimbo settimino? Contro il divieto delle Autorità si può ricorrere al Prefetto, e in questi casi occorre presentarsi personalmente al Prefetto meglio accompagnato da tuo cugino avvocato. Prima di far ciò, io ti consiglierei di opporti al recentissimo rifiuto della cameriera presentandoti alla persona del Questore sempre assieme a tuo cugino avvocato con un certificato medico del Direttore della Clinica attestante che tanto Nora che il bimbo hanno assoluto e improrogabile necessità di cure e assistenza esprimendo che tu avresti trovato una correligionaria infermiera, che è però apolide straniera e finora residente in Desenzano avente le seguenti generalità: Gronich Dora fu Volfango e di Antonia Herches, nata a Merano il 24 aprile 1898 e attualmente residente in Desenzano Via Generale Papa 28 presso Malesani, infermiera, sempre vissuta in Merano sino a due anni fa cioè quando si portò a Desenzano. Aggiungerai che questa non potendo partire per Roma senza il permesso della R[egia] Questura di Roma, avendoti questa negato il permesso della cameriera e urgendo l’uscita dalla Clinica di tua moglie e del bimbo, domandi e preghi che il Questore di Roma assumesse telegraficamente le sue informazioni e si pronunciasse in pochi giorni sul permesso in favore della Gronich di portarsi a Roma presso la tua famiglia. Quanto sopra ti consiglierei di fare, perché ieri come scrissi ad Amelia io parlai col Commissario addetto agli stranieri per la Gronich e mi disse che il permesso dovrà essere chiesto alla Questura di Roma e che necessariamente per detta pratica occorrono dai 20 ai 30 giorni.
120
Ap Fabio Pontecorvo Di Segni, Roma. Lombroso (Verona 18791983), nipote dell’antropologo Cesare, avvocato, fondatore di importanti istituzioni umanitarie e sociali, dopo l’armistizio si rifugiò in clandestinità. Lettere fronte-retro su fogli intestati «Avv. Cav. Giulio Lombroso Via XXI Aprile, n. 3 Verona» indirizzate al genero a Roma. Si riferiscono al negato permesso di assumere una donna di servizio e un’infermiera, di cui la famiglia aveva bisogno in seguito alla nascita prematura di Fabio.
«Grande è stato lo sbandamento nel seno delle famiglie, nel lavoro, nelle amicizie» di Elio Salmon
Firenze 20 maggio ’43121
Mia cara Maria, in una vostra lettera dei primi di novembre ’42 arrivata qui – mi sembra – in febbraio quando cioè l’incubo vostro era terminato e cominciava invece il nostro, c’era una tua frase che accenna all’idea di poterci rivedere presto e alla vertigine che questo pensiero ti reca. Anche noi sentiamo questa stessa vertigine e ci sembra già che in quel momento tutto il passato debba scomparire, come se una definitiva parentesi venga a chiudersi. D’altra parte tanti saranno i problemi dell’avvenire nostro e dei nostri figliuoli, che il ricordo del tempo che abbiamo passato in lontananza dovrà essere lasciato da parte. Io credo invece che sia utile fermare questo ricordo, o meglio riassumere qualche particolare, anche un po’ materiale, della vita vissuta qui durante questo periodo, non tanto per mania grafomane o esibizione «diaristica» quanto per lasciare ai figliuoli ed ai nipoti una risposta precisa alla domanda che spesso avrete sentito: «cosa faranno in questo momento i nostri cuginetti? Cosa penseranno? Cosa mangeranno? Come saranno sistemati? ecc. ecc.». Questa lettera, che minaccia di esser lunghetta, vorrebbe rispondere a tutte queste domande, per ora a quelle che vi siete fatte fino a questo momento e, man mano che mi sarà possibile continuare, anche a quelle avvenire. Intanto le lettere che abbiamo potuto inviarvi dopo la vostra partenza del 1939 e le notizie che avrete avuto anche da amici che vi hanno raggiunto in seguito, avranno per lo meno spiegato i cambiamenti avvenuti dopo l’inizio della campagna razziale nella nostra vita quotidiana: un senso di impaccio nei movimenti, di sorveglianza piú o meno diretta, di grande incertezza per l’avvenire, incertezza che ha dato a qualcuno un vero abbattimento, mentre altri, come me, hanno potuto mantenere una certa serenità ed una grande forza di adattamento. Grande, purtroppo, è stato lo sbandamento nel seno
delle famiglie, nel lavoro, nelle amicizie, nella ricerca spesso inutile di una tranquillità di vivere e di assicurarsi l’avvenire. Fortunatamente posso dire che Clara122 ed io, insieme ai nostri ragazzi123, abbiamo mantenuto la nostra trincea e l’abbiamo difesa con la maggiore dignità possibile, contro tutte le pressioni e le insistenze continue di mio fratello124, poi di Sandro125 , della Mamma126 e di Lina127, per citare solo quelle piú intime. Ti dirò anzi che a un certo momento ho avuto l’impressione che fosse giunta costí la notizia della nostra conversione generale (perché anche qui molti ci credevano ed il pettegolezzo poteva anche essere emigrato) e che da questo fatto potesse dipendere il vostro silenzio verso di noi: non arrivava mai né un messaggio né una parola che ci riguardasse! Ne parlai una volta a Giorgio128 e credo che questi vi abbia scritto qualcosa… per tranquillizzarvi nei nostri confronti. D’altra parte il problema piú importante, cioè quello degli studi dei ragazzi, è stato risolto e, a Firenze, molto meglio che altrove: soprattutto come organizzazione di insegnanti e di locali e come ambiente. Non sono mancati aiuti finanziari notevoli per concedere il proseguimento degli studi anche ai piú poveri, e gli stessi bambini hanno imparato subito ad aiutarsi fra loro. La scuola elementare è stata formata per le cinque classi nella stessa Scuola Regina Elena, dove andava Bona129, ma nelle ore pomeridiane. Quella media invece ed il Liceo hanno trovato posto alla Comunità di mattina. Insegnanti ottimi tutti, classi poco numerose (al massimo 20 ragazzi), preparazione potrei dire perfetta, tanto che gli esami hanno confermato il profitto raggiunto da questi ragazzi, ai quali era stato negato dapprima il pane della vita. Non solo, ma quando fu istituita la nuova Scuola Media (che comprende le prime tre classi del Ginnasio) è stato possibile ottenere che le classi subito istituite anche alla nostra comunità ottenessero gradualmente il pareggiamento con quelle statali. Per questioni burocratiche ciò non è stato possibile per il primo corso ove era entrato Paolo, pur avendo seguito tutto il programma regolare: cosí Paolo, che termina ora appunto la Scuola media, dovrà dare l’esame di licenza in Via della Colonna (alla ex Duca D’Aosta che si chiama appunto Scuola Media). Per Silvia invece, che ha ora cominciato la Media, si avrà il passaggio in base allo scrutinio e, se non interverranno altri cambiamenti, anche la
licenza potrà essere concessa senza dover dare esami alle Scuole Pubbliche. Anche Anna, che finisce la terza elementare, passerà col solo scrutinio e, anche quest’anno, è la prima assoluta della sua classe. Paolo, che ha una grande memoria e facilità in tutte le materie, potrebbe essere anche il primo se non fosse riconosciuto un po’ troppo «vivace», e Silvia ha avuto l’anno scorso un premio «speciale per diligenza e profitto» all’esame di licenza elementare. Come vedi non possiamo davvero lamentarci dei nostri figliuoli in momenti complicati come questi! Ora Paolo deve decidere (a tredici anni, poveretto!) l’indirizzo futuro degli studi per il nuovo Liceo che comprende 5 anni e che si divide in «scientifico», «letterario» e «artistico», ma ha già detto di scegliere il primo avendo intenzione di fare l’ingegnere. Ho cercato intanto di prepararlo a qualcosa di pratico, col «Meccano» di cui ha una scatola assai ricca di pezzi e con gli arnesi del «traforo»: intanto quando è stato a Nassa130 faceva l’aiutante del Mela imparando a lavorare il legno e l’uso dei vari arnesi. Straordinario l’impegno che aveva preso lo stesso Mela ad insegnargli, trattandolo male se sbagliava e con vera autorità da maestro! Poi a scuola, ove è obbligatorio fino al primo anno medio l’insegnamento del lavoro, ha imparato l’incisione su metallo. Tutti e tre riescono poi molto bene in disegno, grazie anche a diverse ore passate sotto la sorveglianza di Lina. Aggiungi poi che studiano bene l’inglese e, quest’anno, hanno cominciato il francese. Paolo da tre anni studia bene il piano e, di nascosto dalla maestra che gli dà poi solo una lezione settimanale, vorrebbe ora imparare l’Adagio della Patetica da solo e il Chiaro di Luna di Beethoven! Lui ormai riconosce tutti i pezzi piú comuni, anche classici, alla Radio e spesso è venuto con noi ai Concerti Domenicali al Comunale, formandosi cosí l’orecchio. Anche Silvia avrebbe voluto cominciare il piano, ma aveva troppo da fare a scuola e abbiamo rimandato questo inizio ad epoca migliore. Anna, invece, sfoga nella danza la sua passione per la musica e spesso, dopo cena, ci dà molti saggi della sua istintiva abilità, imparata solo da qualche rappresentazione al teatro alla Fiaba, seguendo il ricordo di Bona ai bei tempi! Talvolta al Sabato portiamo i ragazzi al Cinema, ma gli spettacoli adatti non sono poi molti. Paolo ci va piú spesso con i suoi amici, e qualche volta è stato anche all’opera: tutti e tre vennero in ottobre scorso a vedere Hansel & Gretel al Comunale e per parecchi giorni ho dovuto ripassare lo
spartito al piano perché il ricordo fosse piú duraturo. Ti dirò a questo proposito che ormai io ho abbandonato il piano, ma ogni tanto ripasso qualche cosa per nostalgia, oppure mi compro qualche pezzo nuovo per cercar di riprendere la voglia: cosí ultimamente ho acquistato la «Pavane» di Ravel131 che mi piace tanto. Clara non ha tempo, e forse nemmeno voglia, di riprendere l’antico esercizio! 121
E. Salmon, Diario di un ebreo fiorentino 1943-1944, Giuntina, Firenze 2002, pp. 15-18. Salmon (Firenze 1895-1974), ferito e decorato durante la Prima guerra mondiale, nonostante la discriminazione perse gradualmente il lavoro di rappresentante di materiali edili in seguito alle leggi razziali e, dopo l’armistizio, si rifugiò in clandestinità a Volognano e Samprugnano (Firenze). Diario scritto sotto forma di lettera alla cognata Maria D’Ancona Cividalli emigrata in Israele con la famiglia nel 1939, dal 20 maggio 1943 al 2 novembre 1944, quando fu effettivamente spedito. 122 Clara D’Ancona, la moglie. 123 Paolo, Silvia e Anna, i figli. 124 Massimo Salmon. 125 Alessandro D’Ancona, fratello della moglie. 126 Alice Orvieto D’Ancona, madre della moglie. 127 Lina Anau, amica della moglie. 128 Giorgio Cividalli, cognato di Maria D’Ancona Cividalli. 129 Bona Cividalli, figlia di Maria D’Ancona Cividalli. 130 Fattoria di Lina Anau, nei pressi di Rassina (Arezzo). 131 Pavane pour une infante defunte di Joseph Maurice Ravel (Ciboure 1875 - Parigi 1937), compositore e pianista francese.
I suicidi
«Vi lascio. Salvo cosí la mia famiglia» di Emilio Foà
[Torino] 22-7-38 XVI1
Carissima, i giornali ti portano la notizia degli avvenimenti. Nessuno sa che cosa sarà domani in linea religiosa. Ho deciso perciò la conversione. Ho il dovere di difendere l’avvenire tuo e dei nostri figli. Ogni esitazione sarebbe in questo momento una colpa ed un errore. Ho parlato stamane col parroco della Crocetta. Mi informerà domani sera quando la funzione avrà luogo la prossima settimana. La celebrerà il Cardinale. Scrivo allo zio Nando: gli dico il mio dispiacere di non avere lui come ministro. E cosí sia! Stanotte ho dormito da Arturo2. Un paradiso di pace! Partirò domani notte e sarò con voi domenica mattina alle 8. Vi spero bene. Il caldo è forte ed il lavoro altrettanto. Ho comprato in questo momento il costume di Giorgio. Vi abbraccio Emilio [Torino, 7 settembre 1938]
Carissima, sono alla posta; esce «La Stampa»3 in questo momento col decreto sugli ebrei stranieri4. Sono considerati ebrei i figli nati da genitori entrambi ebrei. Vuol dire (poiché e tanto piú le stesse norme avranno valore per gli ebrei italiani) che Giorgio e Franco sono salvi!! Sia di me quello che sarà. Stasera sono felice per i miei figli! Vi abbraccio in fretta Emilio [Torino] Sera del 2 aprile 19395 Siamo da tre mesi nella bufera. Ogni giorno un’attesa. Ogni giorno un’ansietà. Piccole pagine, ove Lina segnerà, giorno per giorno la sua spesa. Mesi ed anni che vengono. Quale sarà il destino, giunti a questo foglio? Arturo è stato con noi a cena – vecchia abitudine domenicale. Ora è uscito.
E la casa si raccoglie nel silenzio notturno, coi nostri cuori chiusi, con tutte le memorie delle nostre sere per tanti anni serene e felici. [Torino] 4 maggio [1939] ore 12,306
Mia cara moglie Vi lascio. Salvo cosí la mia famiglia. Sarebbe stata la miseria. Con le assicurazioni, facendo un mutuo avrai un reddito sufficiente. Devi ritirare anche 45 000 [lire] dall’Istituto Nazionale dei Giornalisti. C’è sulla guardaroba un libretto del Banco di Roma di 30 000 lire. C’è da ritirare tutte le provvigioni da me anticipate, circa 40 000 lire e Paolo potrà aiutarti. Siete cosí al riparo. Ho pagato stamane tutte le assicurazioni. In questo modo siete in regola e le compagnie pagheranno. Nel mio portafoglio ci sono 3000 lire per le prime spese. Non condannatemi. Io sono ammalato, molto ammalato. Vogliatevi bene e ricordatemi. Giorgio e Franco vogliate bene sempre a vostra madre a questa santa donna che è stata la grande compagna della mia vita. Vi abbraccio, vi bacio tutti. Bacio Arturo, Amelia, Pino e tutti. Un ricordo a Roberto e famiglia. Arturo, non condannarmi. La mia famiglia oggi è salva (perché ritira le assicurazioni). Ti abbraccio mio grande fratello. Pregate Paolo di riordinare la contabilità che d’altronde è in ordine. Nel libro conto Agenti c’è l’importo di tutte le provvigioni da me anticipate. Vi bacio e vi abbraccio Emilio 1
Ap Franco Foà, Torino. Foà (Cuneo 1879 - Torino 1939), funzionario dell’ufficio stampa dell’Unione industriale di Torino e redattore de «L’organizzazione industriale», si suicidò per aver perso il lavoro e per salvare la famiglia (la moglie era cattolica) dalla persecuzione. I primi due documenti sono lettere su carta semplice. 2 Il fratello. 3 Quotidiano torinese. 4 Regio decreto legge n. 1381/1938. 5 Appunto nel «Libro dei conti». 6 Ultimo biglietto, sul retro di cinque fogli intestati «L’organizzazione industriale. Giornale della Confederazione fascista degli industriali. S. A.
Valorizzazione e Propaganda. Torino - Via Pastrengo, 25».
«Io debbo dimostrare l’assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti» di Angelo Fortunato Formiggini
[Modena] 18 novembre 19387
A la mia Consorte, rispondo alla tua nobilissima del 16 corrente. Veramente ti ho già detto due parole a voce, ma non ho potuto risponderti esaurientemente: soltanto ora posso dirti chiaro tutto. Considero grande e massima ventura della mia vita quella di aver trovato una compagna del tuo eccezionale grado morale. Non abbiamo avuto la fortuna di aver figliuoli che sarebbero stati i cittadini della futura città, gli uomini della futura umanità. Forse è stato bene che figli non ne siano venuti, ché ora il mio sconforto sarebbe forse piú grande. Nando si dimostra saggio, intelligente ed affettuoso e anche questo è da mettere all’attivo. Avrei sperato che il nostro figlioccio potesse prendere il seguito della mia fatica quando mi fossero mancate le forze; mi sono spesso doluto che egli non abbia manifestato propensione per l’arte che mi ha ossessionato per XXX anni; ma è stato forse meglio cosí, perché ora un trapasso del mio lavoro in mani familiari non sarebbe stato tollerato e la persecuzione che ha colpito me, avrebbe puntato su lui. Mi distacco completamente da ciò che per XXX anni è stato il mio piú alto sogno, frivolo forse, ma cocente, quello di crearmi una piccola nicchia di rispetto e di affetto fra i miei contemporanei e fra i posteri. Se tutto è sfumato, amen! Non so oggi che cosa avverrà delle cose mie: se non fossi stato stroncato anche dal punto di vista economico, rimborserei di mia tasca i miei azionisti e lascerei i miei persecutori sotto la vergogna di avere, per odio inconsulto, soffocati e strozzati la mia «Italia che Scrive»8, il Chi è?9, le mie edizioni tutte. Ma non son solo: mi sono perciò limitato a dimettermi e a rinunciare a tutto. Essendo a capo di una società, sebbene quello che ho raccolto per
costituirla mi sia stato divorato dal fisco, le cose mie non sono piú mie e il loro destino non dipende piú da me. Sarà quello che sarà. Tu dici che il nostro figlioccio deve avere esempio da noi del come si debbano sopportare le avversità. Piú volte, poi, hai affermato che chi si sopprime è vile. Se il mio sacrificio apparirà a te e al «pubblico» come un supremo atto di viltà, vorrà dire che la dea giustizia, che da tempo mi ha voltato le spalle, non la ritroverò benigna nemmeno nell’altra vita. Amen. Sono rassegnato anche a questo. Ma io non posso rinunciare a ciò che considero un mio preciso dovere: io debbo dimostrare l’assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti richiamando l’attenzione sul mio caso che mi pare il piú tipico di tutti. Appartengo ad una famiglia di cui molti rami sono cattolici da generazioni remote: i miei immediati e diretti ascendenti non furono battezzati, ma ebbero dal governo dei Papi, prima della Rivoluzione Francese, patenti «di discriminazione» per la loro onestà, che li affrancarono da quegli umilianti segni di distinzione e da tutte le altre limitazioni che allora, in quei tristi tempi, erano in voga e che ora riaffiorano piú truci e malvagie. Sopprimendo me, affranco la mia diletta famigliola dalle vessazioni che le avrebbero potuto derivare dalla mia presenza: essa ridiventa ariana pura e sarà indisturbata. Le cose mie piú care, cioè il mio lavoro, le mie creature concettuali, invece di scomparire, potranno risorgere a nuova vita. Egoisticamente preferirei che morissero con me. Ma esse non sono piú soltanto mie, come ho detto, e poi esse possono ancora riuscire di utilità e di decoro alla mia Patria. Quelli che tu chiami «beni terreni» mi interessano poco: la mia vita intera sta a dimostrare che ho speso quasi tutto il patrimonio avito per i miei nobili sogni e per i miei alti propositi di servire la Patria. Ma quanto è rimasto non è mio, è della mia famiglioletta, cui mi parrebbe di rubarlo non difendendolo con la mia soppressione. Ti ho accennato che in questi ultimi mesi ho costruito una mia Ultima Ficozza10 , e tu mi scrivi incitandomi a dedicarmi al completamento di questa nuova opera… Io te ne ho detto solo il titolo: ritengo che se tu sapessi di che cosa si tratta, mi dissuaderesti dall’insistere in un lavoro il quale non è che una
grossa, grossa, grossa bomba carica di alto esplosivo: non si scherza con questi ordigni e la tua saggezza, a me ben nota, mi consiglierebbe di distruggerla per evitare una catastrofe. Forse all’ultimo momento io stesso la distruggerò, come molto di ciò che avevo scritto ho distrutto. Per questo non ti ho mai detto piú del titolo e mi son sempre astenuto dall’entrare in dettagli; né tu del resto [hai] mai chiesto nulla in particolare. Non potevi sospettare la portata e il carattere di ciò che stavo scrivendo, se no saresti intervenuta con tutti i mezzi ad impedirmelo e a stornare i miei propositi che avevano come premessa necessaria la mia soppressione. L’inventore della dinamite è passato ai posteri come un grande amico dell’umanità. Quando avvengono attentati dinamitardi, nessuno pensa di prendersela con Nobel. Nessuno può rimproverarmi se ho trovato conforto a costruire una bomba che fintanto che sarà inedita, sarà innocua; la responsabilità del grande «delitto» o del grande «beneficio» sociale non sarà mia, ma di chi accenderà la miccia. Sarebbe perciò stata oscenissima cosa fare te arbitra di far brillare l’ordigno: gli elementi che lo compongono sono stati da me collocati in luogo sicuro. Presi uno per uno sono innocui ed irriconoscibili. Potranno eventualmente servire anche isolati ed a gradi, secondo le contingenze, ma riuniti in un solo blocco, col titolo Parole in libertà e diffusi in tutto il mondo potranno formare una macchina infernale che non lascerà pietra su pietra. Io non voglio che i miei scritti servano a distruggere: ma spero che possano servire a ricostruire quando la trista realtà d’oggi sarà superata per la forza stessa della sua brutale assurdità. […]11 Forse i miei scritti resteranno inediti a lungo, e finiranno alla Biblioteca Estense, erede dei miei archivi e della mia collezione detta «Casa del Ridere»12 . Non ho osato farne la consegna in busta chiusa ora, né affidarne la conservazione ad un notajo. So già che tutto è arrivato al sicuro, che tutti i «pezzi» sono arrivati a destino e potranno essere ricostituiti all’occorrenza. Non avere preoccupazioni di sorta: non solo ho voluto che tu e Nando foste del tutto ignari della cosa ed estranei ad essa, ma sapevo benissimo
che la forma icastica del mio libro sarebbe stata da te disapprovata e (perdonami) ritenni che me lo avresti distrutto. Troverai una busta contenente una filza di miei successivi testamenti: quello di data piú recente annulla i precedenti, che però ho conservati tutti. Vedrai che in ciascuno ho ribadito il concetto di voler scomparire clandestinamente, senza che questo mio «fatto personale» affliggesse il mio prossimo. Anche al pudore della morte ho dovuto rinunciare e questo non è il mio minor sacrificio. Di’ a Nando che disperda le mie ceneri col rito che gli ho prescritto nella prima «ficozza». Sorveglia che i miei soci non abbiano danno o abbiano il minor danno possibile dall’avermi assecondato per costituire la mia Anonima. Non so quanto potrà avanzare: se molto o se poco. Nell’anno XVII, anteriore a questo, la mia azienda valeva tre milioni. Oggi non vale nulla. Ma i mutevoli eventi potrebbero rinverdirne e rassodarne la consistenza. Non posso prevedere nulla. Non ti pongo limiti né restrizioni di sorta: ti regolerai tu come crederai meglio. Grazie della buona compagnia che mi hai fatto. Grazie per ciò che farai per la mia memoria. Baci a Nando, a te tutto il mio cuore. Nino Modena, 29 nov[embre] 193813
Cara, viaggio triste ieri per averti lasciato per sempre, triste perché ho trovato in treno un mio antico amico veneziano che si trovava nelle mie stesse condizioni di spirito. Ma ieri sera tanto di cotoletta con tartufi e di lambrusco. Sono andato allo Storchi. Ma era pienissimo ed io ero lontano e non sentivo quasi nulla. Dopo il primo atto sono andato a letto senza aver capito di che cosa si trattasse. Ho dormito meglio del solito; come il solito, emulo di quel tale che dormí saporitamente prima della battaglia. Nelle ore di veglia una calma ed una serenità assolute: non lo avrei mai pensato né potuto sperare. Finora è stato proprio come bere un uovo e spero ormai che sarà cosí sino alla fine imminentissima. Ecco: me ne vado. Sta certa che l’ultimo mio pensiero sarà per la mia famiglioletta. Grazie per la vostra
devozione e per la vostra fedeltà. Estrema raccomandazione: siate rassegnati alla mia sorte, non fate recriminazioni. Non guastatemi le uova nel paniere! Per sempre vostro. A. F. 7
A. F. Formiggini, Parole in libertà, Artestampa, Modena 2009, pp. 4348. Formiggini (Collegara 1878 - Modena 1938), editore, fondatore dell’Istituto per la propaganda della cultura italiana (successivamente costituito in ente morale e ribattezzato Istituto nazionale fascista di cultura), si suicidò per protesta contro le leggi razziali gettandosi dalla torre Ghirlandina di Modena il 29 novembre 1938. Lettere alla moglie Emilia Santamaria; la prima non fu recapitata. 8 Rivista fondata da Formiggini per contribuire alla diffusione dei libri e della letteratura. 9 Catalogo ideato da Formiggini, con i recapiti dei piú grandi personaggi viventi. 10 Si riferisce a un nuovo scritto sul modello della sua precedente opera: La ficozza filosofica del fascismo e la marcia sulla Leonardo, Formiggini, Roma 1923. 11 Segue un brano in cui Formiggini narra di un presunto viaggio a Bled per la consegna di Parole in libertà a un amico fidato, ariano. 12 Biblioteca-museo dell’umorismo fondata da Formiggini. 13 A. F. Formiggini, Parole in libertà (ed. del 1945) cit., pp. 138-39.
La scelta di emigrare all’estero
«La cosa è veramente schifosa e ne vedremo ancora delle belle» di Emilio Sereni
Parigi, 7 settembre 19381
Carissimo, sono stato davvero moltissimo tempo senza scriverti, ma ho avuto un periodo di lavoro disordinato e disperso, che mi ha fatto perdere un sacco di tempo. Molta di questa perdita di tempo è dipesa dalla casa in cui abito, e che ora abbandono. Spero cosí di poter lavorare con maggiore tranquillità, ed anche di scriverti un po’ piú spesso. Cambierò casa in questi giorni, ma non so ancora l’indirizzo della casa in cui andrò. Appena lo saprò, te lo farò avere. Della visita di papà e mammà2 siamo stati proprio contenti: si sono decisi a tempo, perché il giorno dopo la loro partenza da qui è stata emanata la disposizione che vieta il rilascio di passaporti dall’Italia per la Francia. – Non mi aspettavo di trovar papà e mamma cosí bene, specie dopo gli ultimi avvenimenti. – Dal punto di vista fisico, papà l’ho trovato solo un po’ appesantito (un po’ di pancetta): ma in realtà è stato benissimo, e mi ha meravigliato la sua resistenza fisica. I giorni durante i quali è stato qui erano giorni di un caldo soffocante, e noi non avevamo nemmeno la forza di muoverci. Invece papà sgambettava per la città, che ha imparato a conoscere assai bene. – Quanto a mammà, l’ho trovata decisamente meglio di quando l’avevo lasciata. – Vi dico, insomma, che sia per me che per Xenia3 è stata una vera sorpresa trovarli cosí bene dal punto di vista della salute. Ma anche dal punto di vista del morale li ho trovati molto meglio di prima. Temevo molto che gli ultimi provvedimenti li avessero depressi, ed avessero dato loro un colpo gravissimo. Invece li hanno presi con grande filosofia. E non è a dire che si facessero illusioni sulla portata dei provvedimenti: quando sono venuti qui (sebbene si fosse solo alle prime avvisaglie) erano già convinti che il fascismo sarebbe andato fino in fondo; e se avessero avuto qualche dubbio in proposito (ma in realtà non l’avevano) io glielo avrei levato. Perciò credo che anche gli ultimi provvedimenti non li
abbiano colpiti molto. Vi dico che siamo proprio meravigliati di vedere come hanno preso con serenità la cosa. A questo ha naturalmente molto contribuito il fatto di saperci «al sicuro». Anche per quel che riguarda noi (me e Xenia) essi si sono completamente tranquillizzati. (A differenza di quel che Enzo pensava, anche la casa è piaciuta molto a mammà). Naturalmente sono piú in pensiero per Lea4 e Alberto (che io ho consigliato di andarsene, come del resto aveva già fatto mammà), ma anche per loro non erano poi troppo in pensiero, ed avevano fiducia che le cose si sarebbero arrangiate. In realtà, a parte Lea e Alberto e zia Ermelinda, non hanno proprio nulla che li trattenga in Italia. Papà avrebbe decisamente il desiderio di andarsene; mammà dice di no, dice che lei è attaccata all’Italia; ma credo che anche lei non opporrebbe nessuna seria resistenza a venirsene via. Io li ho spinti in questo senso: ma tutto dipende, si può dire, dalla decisione di Lea e Alberto. Nel caso che essi venissero via credo che nulla piú tratterrebbe papà e mammà. A proposito, una parentesi umoristica. Fra i nostri «microbi giudei» romani (come dice la stampa fascista) corre ormai questa voce: che in fondo in fondo i figli del professor Sereni la sapevano lunga, che son stati i piú furbi. Quasi quasi siamo stati… degli speculatori. Ma d’altra parte, la colpa è tutta loro, di questi ebrei che «col loro sionismo o col loro bolscevismo sono la causa di tutto». Inde irae…5 Vorrei soltanto veder la faccia dei nostri amati cugini professori Tullio6 e Piero7. Ma a parte questi simili mascalzoni, la cosa è veramente schifosa; in sé stessa e per tutto il complesso dell’indirizzo politico che esso rappresenta. E ne vedremo ancora delle belle; finché non gli avremo torto il collo. È proprio la «follia delle tenebre», come dicono i russi. Ma in complesso le cose non si mettono male; e la disposizione delle forze è nettamente migliorata in questi ultimi mesi, nel mondo. Tornando a papà e mammà: abbiamo proprio passato delle belle giornate insieme, e sono partiti completamente tranquillizzati. E noi siamo restati meravigliati della serenità con cui hanno preso gli ultimi fatti. Anche per la questione dei denari non erano, in fondo, preoccupati, sapendoci al sicuro. Questo non vuol dire che non si preoccupassero di salvare il salvabile, che abbiamo naturalmente parlato parecchio di questo. Anch’io cerco, per
parte mia, di far qualche cosa; ma credo che i mezzi vostri offrano piú larghe possibilità. Per quel che riguarda i titoli di stato italiani: a quanto ho potuto sapere i titoli di stato italiani all’estero devono essere stampigliati. Non credo che questo sia un ostacolo insormontabile: un mercato nero certo c’è. Ma, in complesso io sono del parere che è nettamente preferibile l’esportazione di biglietti. La perdita sui titoli è certamente molto piú forte; e, per di piú, coi biglietti è molto piú facile serbare l’anonimità dell’operazione. – D’altra parte, coi biglietti di grosso taglio il «volume» è fortemente ridotto; e non si tratta poi di somme enormi. In ogni caso tieni conto del fatto che il servizio di spionaggio valutario italiano nelle banche estere funziona seriamente; e temo piú seriamente funzionerà oggi. Anche per questo non ho voluto spingere troppo in là le mie domande su stampigliatura ecc. Credo che dovresti far assumere in proposito informazioni esatte da qualche tuo amico non italiano. E sta attento soprattutto a non comparire tu, perché papà e mammà potrebbero avere delle noie, seccanti da tutti i punti di vista. Naturalmente anch’io per conto mio cerco di tirar fuori qualcosa: ma i miei mezzi sono di carattere diverso. Comunque farò del mio meglio, perché non ho proprio nessun desiderio di far dei regali al fascismo, e l’impiego per i denari… non manca. (per darti un’idea di come papà e mammà hanno preso con filosofia la cosa, ti basti sapere che per quel che riguarda il mio «patrimonio» personale, hanno senz’altro accettato l’impiego al quale io lo destino… e che, come puoi facilmente immaginare, non è precisamente un impiego capitalistico.) Quanto all’impiego: bene per i titoli svedesi, ma senza esagerare. Io consigliai loro i titoli americani e inglesi. Io adotterei la seguente distribuzione: 2/5 inglesi 2/5 americani 1/5 svedesi. Per i titoli di ogni paese prenderei 2/3 di titoli di stato, e 1/3 di titoli industriali di tutto riposo. Dei titoli di stato, prenderei una metà circa di buoni del tesoro. Ma la distribuzione dipende anche naturalmente dalla somma esportata. Per zia Ermelinda (non per papà e mammà) io consiglierei – se è ancora possibile – la forma del vitalizio di cui tu scrivesti. Io credo che anche tu dovresti consigliare a papà e mammà, Lea e Alberto a venir via al piú presto. La situazione in Italia diventa impossibile: e poi la guerra. Si decidano subito, perché molto in breve sarà troppo tardi. – Il giorno che papà e Alberto avessero fuori 300 000 lire italiane
effettivamente disponibili ciascuno, io consiglierei di venire via subito. Questa somma assicurerebbe loro il reddito minimo indispensabile, a rigore. Ma credo non dovrebbe essere impossibile aver di piú. Intanto io credo che anche tu dovresti consigliare di liquidare (anche con le inevitabili perdite) gli immobili, e subito. Dopo le prossime disposizioni del Gran Consiglio, la cosa sarà certamente piú difficile. Da quello che anche papà e mammà mi hanno detto, nonostante le difficoltà, credo che anche l’esportazione in oggetti d’oro possa aiutare non poco. Fa molta attenzione (sempre per la questione dello spionaggio valutario, che è seria) al nome al quale i fondi saranno depositati. Non deve essere il tuo, naturalmente. Tieni anche conto del fatto che papà e mammà sono seriamente preoccupati per il tuo «disordine amministrativo». Dà loro notizie esatte, e non contraddittorie, come quelle che davi nell’ultima lettera. Ma, ripeto, il piú importante è convincerli di venir via presto. Quando avessero deciso di venir via, dovrebbero lasciare il denaro che non fossero riusciti a esportare a persona sicura, non ebrea (in forma liquida). Ma devo smettere, e per oggi devo salutarti. Fammi sapere come vanno le cose. Baci alle bimbe e saluti a Ada8. Mimmo 1
E. ed E. Sereni, Politica e utopia. Lettere 1926-1943, La Nuova Italia, Milano 2000, pp. 154-58. Sereni (Roma 1907-1977), dirigente comunista, espatriò clandestinamente a Parigi e nel ’43 fu arrestato, ma riuscí a fuggire e partecipò alla Resistenza; nel dopoguerra fu ministro, senatore e studioso di storia agraria di levatura internazionale. Lettera al fratello Enzo, emigrato in Israele nel ’27. Delle persone citate nella lettera resterà a Roma solo Ermelinda Pontecorvo, mentre tutti gli altri membri della famiglia emigreranno in Israele. 2 Samuele, medico della Real Casa, ma anche «dottore dei poveri» fra gli artigiani e operai romani, e Alfonsa Pontecorvo. 3 La moglie Xenia Silberberg, figlia di due socialisti rivoluzionari russi. 4 La sorella. 5 Di qui le ire [del fascismo].
6
Tullio Ascarelli (Roma 1903-1959), economista e giurista. 7 Piero Sereni (Roma 1908-1967), giurista. 8 La moglie del fratello, Ada Ascarelli.
«Letto i giornali di oggi mi è passata la voglia di fermarmi anche una sola ora» di Max Mayer
Roma, 30 settembre 19389
Carissimo Michele, ti ringrazio personalmente della tua lettera e di quello che in nome della giustizia umana tu abbia scritto. Ho parlato lungamente con Fabrizio e l’ho informato di tutte le mie decisioni. Perciò ti racconto solo in breve che sono pronto a partire il 24 ottobre da Brindisi, diretto a Calcutta. Se mi è possibile, verrò a trascorrere ancora una decina di giorni a Bari, insieme ad Eva. Anzi, lo ritengo quasi sicuro. Comprenderai che ho un mucchio di cose da fare in questo momento, poiché parecchie faccende aspettano ancora la loro soluzione. Oggi ti prego di un grande favore. Consegna, ti prego, la domanda qui contenuta alla segreteria dell’università e cerca di sollecitare la restituzione dei documenti ivi richiesti. Spiega la mia fretta e il mio assoluto bisogno di riaverli, specie quanto ai certificati (n. 2) di cittadinanza che malgrado che io ho ancora un passaporto tedesco non mi saranno piú concessi, allorquando dovrei farmeli fare in questo momento. Ogni giorno che passa, inutilmente fino alla restituzione, è un giorno in meno di soggiorno a Bari, poiché questi documenti li debbo far vistare, prima della mia partenza, dal Console Inglese. Spero che la delega sia sufficiente. Qualora non lo fosse, comunicami subito come debbo fare affinché tu possa ritirare i suddetti documenti. Ti ringrazio molto e ti prego di salutare tutti cordialmente comunicando loro le mie intenzioni. A te un affettuoso abbraccio dal tuo Max NB credo che occorre pagare lire 3 di diritti di segreteria e ti prego di anticiparmi questa somma.
Caro Michele,
Roma, 7 ottobre 1938
ti ringrazio per l’invio dei miei documenti. Sono venuti proprio in tempo. Purtroppo non sarà possibile essere da voi cosí presto come avrei desiderato. Il disbrigo delle mie pratiche qui si prolunga oltre il tempo previsto. Perciò non credo di poter essere a Bari prima del 20 c.m. Naturalmente vi comunicherò ancora esattamente la data e l’ora del mio arrivo. Letto i giornali di oggi10, mi è passata la voglia di fermarmi anche una sola ora oltre il tempo strettamente necessario nella città che, se non sbaglio, si chiama anche ombelico del mondo. Allora ciao e arrivederci presto. Tuo Max 9
G. Boccasile - V. A. Leuzi (a cura di), Benvenuto Max. Ebrei e antifascisti in Puglia, Ipsaic, Bari 2008, pp. 31-32. Mayer (Bonn 1913 Londra 2005), emigrato in Italia per studiare medicina, entrò in contatto con ambienti antifascisti a Bari e a Roma; partí per l’India dopo le leggi razziali. Lettere all’amico Michele Cifarelli, dirigente del Pd’A. 10 Nella notte fra il 6 e il 7 ottobre il Gran consiglio del fascismo aveva approvato la Dichiarazione sulla razza.
«È la prima volta che non sono presente per il tuo compleanno» di Emanuele Luzzati
[Losanna (Svizzera), dicembre 1940]11
Cara Gabriella, siccome è la prima volta che non sono presente per il tuo compleanno, ti mando questo letterone con illustrazioni, sperando che arrivi in tempo per farti gli auguri. Qui a Losanna si stanno già facendo i preparativi per festeggiare il tuo dodicesimo compleanno e in ogni casa si stanno preparando dolci con scritto sopra il tuo nome a lettere maiuscole. Del resto in tutti i paesi gli imbianchini sono occupati a scrivere: W Gabriella. W il 17 dicembre; salutiamo in Gabriella la nostra speranza per l’avvenire! ecc. Ecco qui sotto come saranno i paesi per il giorno del tuo compleanno12. Qui ti faccio anche a te un buono13 per comprarti tutto quello che vuoi amore mio; con questo nessuno potrà rifiutarti niente. Oggi sono stato alla scuola e ho cominciato a dipingere dal vero una natura morta; ci sono diversi allievi maschi e femmine, di età diversissima: ragazzi piú giovani di me, giovanotti e perfino una signora poco piú giovane della mamma14. Ora ti lascio dopo aver fatto un saluto a papà e mamma. Tuo aff[ezionatissimo] Lele 11
Ap Gabriella Luzzati Adar, Israele. Luzzati (Genova 1921-2007), disegnatore e illustratore, emigrò in Svizzera per studiare all’Ecole des Beaux Arts e nel dopoguerra si affermò come uno degli artisti piú poliedrici del Novecento. Lettera alla sorella Gabriella, su quattro facciate di carta semplice. 12 Segue il disegno di un paese con lo striscione «W Gabriella». 13 In testa al foglio c’è il disegno di una pergamena con su scritto: «Buono per Gabriella Luzzati valevole per comprare qualsiasi cosa: onorificenze, fiorellini, mariti, dischi, pipe, nastrini, imperi, reggipetti, cuori, vasi, panotte, isole, ecc. ecc… Firmato Emanuele Luzzati». 14 Segue il disegno con tre allievi intenti a dipingere.
«Ogni minuto della nostra vita è un sognare il momento del ritorno» di Giorgina Levi
Sucre [Bolivia], 25-12-4015
Caro Professore, eccomi di nuovo viva dopo un anno di silenzio, approfittando delle feste di Natale e Capodanno, non solo per inviare a Lei ed alla Sua Famiglia tutti i miei piú vivi auguri di ogni bene, ma anche per raccontarle in sintesi cosa ho fatto, come ho vissuto in questo secondo anno della mia emigrazione. Spero che i miei genitori Le abbiano trasmesso i miei saluti per Lei, ogni volta che li ho pregati di farlo. Essi d’altra parte molto spesso nelle loro lettere mi parlano di Lei, ogni volta che La hanno incontrato, incontro che io sempre immagino effettuato nella indimenticabile via Cibrario. Dire «indimenticabile» è troppo poco! Ogni minuto della nostra vita, di mio marito e mia, è solo un piegarsi nello sforzo di rievocare, un sognare di come sarà fantasticamente bello, quasi inimmaginabile, il momento del ritorno, un illuderci nel dare agli avvenimenti un’interpretazione favorevole: già abbiamo superata la fase primitiva in cui sprecavamo tempo e fiato nel fare confronti fra la vita in Europa e in Sud America per trovare qualche punto su cui consolarci di dover vivere qui, perché ormai già sappiamo che tutto quello che si riferisce a questi luoghi risulta negativo. La Bolivia credo sia proprio il buco peggiore, però da quel che ho potuto apprendere da letture e da conversazioni, e anche dai films anche nelle grandi metropoli argentine o chilene il livello è assai basso. Mentre nei primi mesi, come Lei già sa, avevamo vissuto abbastanza avventurosamente, quest’ultimo anno invece è stato oltremodo tranquillo, sempre radicati in Sucre, città molto graziosa, ma molto provinciale e senza vita. Dei suoi 25 000 abitanti solo circa 3000 sono considerati «bianchi» (con un certo stipendio o un certo capitale anche se scuri come il caffè); gli altri, indios e meticci vivono una vita completamente staccata, per cui Lei può ben immaginarsi come possa essere la vita fra i restanti tremila: meschina, piena di curiosità e pettegolezzi, di boria e di invidie, di maldicenze e di calunnie. Forse Lei già conoscerà le nostre peripezie: alla
fine di gennaio, stufi di riempirci la pancia di solo mais al lume della candela e in compagnia dei maiali, io accettai la cattedra di Storia e Geografia in una scuola secondaria di Sucre. Mio marito rimase fino alla fine di marzo in Zudanez, fino a che fu inviato alla mia stessa scuola come vicedirettore (lavoro che non gli piaceva assolutamente); ora, tramite la scuola lavora ad honorem come assistente nel Manicomio. In aprile l’Università per la prima volta dalla fondazione della Repubblica e dalla laicizzazione dell’istruzione istituí un corso di Latino nelle due uniche facoltà di medicina e diritto. Tranne qualche sacerdote, nessuno qui conosce il latino. Per forza si dovette ricorrere ad uno straniero. Si fece un concorso a titoli: io lo vinsi, perché gli altri concorrenti, tedeschi, avevano studiato il latino molti anni fa solamente nelle scuole secondarie. Iniziai molto soddisfatta le mie lezioni, perché lasciando l’Italia non avrei neppure osato sognare di poter continuare nella mia professione in ambiente accademico. Povera me! Sin dai primi giorni mi accorsi che avevo a che fare con studenti irritati di dover dare un nuovo esame, con studenti che non sapevano distinguere un articolo da un verbo, con una mancanza totale di testi e di dizionari (nelle due biblioteche della città non ho potuto trovare un vocabolario Latino-Spagnolo!) I ragazzi di medicina, i piú numerosi, tanto quanto filarono, però con quelli di diritto sin dai primi giorni dovetti ingaggiare una vera guerra. Sono tutti impiegati (la facoltà si può considerare una specie di scuola serale), e perciò si sono imposti un orario ridottissimo. Poiché le mie 4 ore settimanali per forza cadevano fuori dal loro limite, cominciarono a protestare finché si ridussero le ore a due. È utile premetter che qui la tanto decantata autonomia universitaria la si interpreta come una vera tirannia esercitata dagli studenti, ragazzacci che non arrivano ad avere la cultura di un nostro alunno di 3° ginnasio, che non sanno scrivere senza errori di ortografia. Se un professore è troppo severo o non piace per certi motivi personali, lo si boicotta e lo si caccia via su due piedi. I contratti non hanno nessun valore. Perciò si assiste alle scene di professori (giovanissimi, perché non ci sono concorsi) che offrono ogni giorno sigarette, cocktails, aperitivi agli alunni, per ingraziarseli. Né il Rettore né il decano osano rimproverarli per le loro mancanze, per timore di perdere immediatamente il loro impiego. Tutto questo in principio non lo sapevo. Cosicché gli studenti di diritto, capeggiati da uno che si dice antisemita, per non dover fare alla fine dell’anno il mio esame che si era
stabilito obbligatorio, iniziarono un raffinato sistema di provocazione (sono pigri, non intelligenti, ma molto furbi) per irritarmi, per impedirmi di svolgere le mie lezioni, per provocare incidenti, onde poter dire che non avevo metodo, che ero immorale (perché osai cacciare alcuni di classe) che non è della donna lasciarsi andare a tali eccessi, che esercitavo una supremazia razzista (!?) che li trattavo da indios (non mi permetterei mai di offendere tanto gli indios paragonandoli a quei villani insolenti!) L’unica accusa che non mi hanno fatto e che torna a mio onore e che sempre lanciano contro gli insegnanti stranieri di tutte le religioni (perché con tutti fanno cosí, a me è successo ancora pochissimo in confronto con certi altri, vecchi e con molti anni di esperienza scolastica) è che io non conoscessi abbastanza lo spagnolo e non potessi farmi intendere. Il giorno in cui l’Italia entrò in guerra mi scrissero sulla lavagna un mucchio d’insolenze, naturalmente con enormi errori di ortografia (es. «libertad» la parola che qui si ripete ogni piè sospinto e di cui è formato tutto un verso del loro inno nazionale era scritta «livertad»: qui c’è molta confusione nella pronuncia della «b» e della «v»), attaccandomi soprattutto come italiana, spia, ecc. Per loro «ebreo» è sinonimo di tedesco: se uno è ebreo può essere solo tedesco, cosicché se io sono già italiana non posso piú essere ebrea. Qui si fanno molti ragionamenti storti cosí. Per di piú durante le lezioni ostentatamente certi alunni dormivano, giocavano, leggevano, facevano rumori con pezzi di metallo o, molto volgarmente con la bocca. Nonostante i miei ripetuti inviti, né il rettore né il Decano osarono assistere ad una delle mie lezioni, mai adottarono una misura energica, e solo si limitarono ad inviare a me una circolare che «preparassi meglio le mie lezioni, e moderassi i miei nervi» e ad esentare in una forma poco chiara gli alunni dalla obbligatorietà dell’esame. Solo molto tempo dopo seppi che gli studenti avevano perfino minacciato di fare uno sciopero generale e di far saltare tutto il corpo docente se non si mettevano d’accordo per darmi addosso. Tutto questo a sommi capi. Risultato: per alcuni giorni in principio io mi sono mezza ammalata dalla rabbia, poi, siccome non ho preso né prenderò radici in questo paese, ho cominciato ad infischiarmene e ho scritto una lettera molto chiara al Rettore dando le mie dimissioni per l’anno prossimo, lettera a cui non hanno mai risposto, secondo le norme qui usuali della buona educazione.
Presto spero di lasciare questa città, perché mio marito ha molte speranze di poter presto lavorare nell’Università di Oruro, importante centro minerario. Ora siamo in vacanze: e proprio ora è cominciata una campagna abbastanza feroce contro gli ebrei, nello stile ben noto. Da alcuni stranieri facilmente individuabili è stata pagata una radio emissora che ritrasmette articoli interi dei giornali specializzati in materia. A noi due questo non impressiona molto perché pensiamo di non rimanere a lungo in questo paese che non potremo mai amare; ma molti che vivono contenti, che già si sono arredata una vera casa, che hanno messo al mondo dei nuovi figli e non pensano piú di tornare in Europa, soprattutto quelli che sanno cosa sia il L[ager] si spaventano, si agitano e anche si irritano che alcuni, come noi, non si scompongano. E adesso viene il secondo punto nero della mia emigrazione: gli emigrati ebrei della Germania (gli austriaci, i cechi, i polacchi, i rumeni, ecc. sono molto migliori). Io ero partita dall’Italia piena di ideali e di idiota entusiasmo di collaborazione e di mutuo aiuto con tutti i disgraziati come me che avrei incontrato e dapprincipio avevamo stretto alcune amicizie, credendo che anche gli altri provassero lo stesso sentimento di fraternità. Che disillusione! In centri grandi forse questa fraternità esiste, ma qui no. Nelle altre città boliviane mi dicono che sia peggio: io conosco solo l’ambiente di Sucre che si comporrà di circa 50 famiglie ebree, o per lo meno di origine ebraica. Si cominciò con i pettegolezzi di medio calibro, umani e sopportabili, poi si passò alla maldicenza e poi giú giú si arrivò sino alla calunnia che io qualifico criminale! Gli ebrei ortodossi odiano i battezzati (la gran maggioranza, purtroppo!); i medici sono gelosi degli altri medici, i tedeschi disprezzano i polacchi che parlano lo Jiddisch16, gli intellettuali laureati hanno avuto perfino la ridicola audacia di dividere tutti in 4 categorie: 1ª i laureati che però non siano polacchi; 2ª i commercianti; 3ª i lavoratori manuali, operai e contadini; 4ª i venditori ambulanti. Dopo questi orrori noi due ci siamo subito staccati dalla 1ª categoria cui per diritti sacrosanti dovremmo appartenere. Perché io ho commesso il chisciottismo di voler difendere una giovane signora tedesca, battezzata che è stata attaccata nella maniera piú vigliacca perché le si sono attribuiti amanti e perché suo marito, ingegnere in una miniera lontana non era qui a far tacere certe bocche, ho provocato un’ondata di indignazione puritanissima, ogni giorno vecchi conoscenti mi
tolgono il saluto, si girano dall’altra parte le decine di volte al giorno che per forza in questa piccolissima città capito fra i loro piedi. In mancanza di altre distrazioni qui si degenera fino a questo punto! Io non sono ancora riuscita a capire come per esempio dei medici, provenienti da città grandi e moderne come Berlino o Amburgo possano abbassarsi fino a questo punto! Anche i pochi italiani che sono qui da decine di anni purtroppo non sono molto meglio. Ho l’impressione che in questo lontano isolato paese sia capitato l’elemento peggiore di tutte le emigrazioni. Nei miei trent’anni di vita non ho mai incontrato gente cosí cattiva e meschina. Ho cercato di indagare le cause di questo comportamento ripugnante che probabilmente deriva dalla educazione prussiana e dalla classe sociale in cui tal gente visse, piccola e media borghesia. È di quella gente che ancora è convinta che la salvezza del mondo dipende dalla salvezza e dall’integrità dell’Impero inglese. Povera gente, che non riesce a vedere piú in là; a valorizzare altre forze, ben piú giovani che avanzano! Mi accorgo che in questa mia lunga lettera Le sto raccontando solo piccole cose abbastanza meschine: mi perdoni; ma non potrebbe rendersi ben conto della nostra vita attuale senza conoscerne l’ambiente scialbo e basso. Anzi, perché possa un poco capire come si vive qui, anche a costo di essere prolissa, voglio descriverLe il mio ultimo viaggio a Zudanez, piccolo resoconto di come normalmente si viaggia in Bolivia. Quando io mi trasferii a Sucre sola, avendo il sabato libero, avevo deciso di viaggiare ogni settimana a Zudanez per visitare mio marito, approfittando degli eventuali camions che, tornando dai pozzi petroliferi, alle ore 15 circa di ogni giorno passavano pel villaggio. Per un mese la faccenda andò discretamente bene, anche se per far 104 km, dovetti impiegare quasi 10-11 ore. In uno degli ultimi viaggi avevo visto un camion capovolto in un burrone con un ragazzo morto, perché di notte improvvisamente si erano spenti i fanali e il chauffeur non aveva visto una curva. Ma torniamo al mio ultimo viaggio. L’andata fu normale. Pel ritorno alla domenica potei trovare solo un camion carico di «aji» (un peperone fortissimo, piccante che qui tutti mangiano), che veniva dalla regione bassa, con sopra circa 20 indios, passeggeri come me. Non avendo altra scelta, con la mia solita tuta da operaio, mi arrampicai lassú, schiacciata da tutti quegli uomini puzzolenti di coca e di sporcizia (qui non si può andare al cine se non muniti di boccette di profumo!). Questo è ancora normale, perché già avevo fatto altre corse in
condizioni peggiori, seduta su un sacco di bottiglie, con sei pecore, tre cani, dieci galline sui piedi, sdraiata su vecchie ruote d’automobile, con soldati provenienti dai fortini di Chaco con gli occhi grondanti pus per tracoma o congiuntiviti, con pioggia dirotta, con vento, con sole. Il peggio venne dopo. Il mio camion era rotto: un albero aveva perforato il radiatore, perdeva acqua e ogni 10 minuti ci si doveva fermare per sostituirla. Si fecero cosí 50 km. In sei ore. Alle sette di sera, sui M[etri] 4000, sperduti fra le montagne, scoppiò un pneumatico. Essendo la stradicciola solo un tappeto di pietre, il camion per la scossa barcollò ferocemente, però non si capovolse. Faceva un freddo terribile ed io ero poco coperta. Il conduttore, come al solito viaggiava senza strumenti, e ci dichiarò che non aveva pneumatici di ricambio, che si doveva passare lí, al fresco, tutta la notte finché al giorno dopo non passasse un camion che l’aiutasse. Tutti si stesero per terra, già abituati a queste cose, senza fiatare. Certe volte passano cosí tre, quattro notti! Io ero furibonda, stanchissima, e il giorno dopo avrei dovuto presentarmi a scuola. Per somma fortuna alle 10 di notte passò un camion in direzione Zudanez. Piuttosto di passare la notte a cielo scoperto, decisi di tornare a Z[udanez], constatando che per di piú la mia valigia, per le scosse del camion aveva continuamente urtato contro un palo ed era completamente sfondata. Mio marito si spaventò moltissimo nel vedermi arrivar a quell’ora ma almeno potevo dormire su un letto, anche se era solo un letto da campo senza materasso (come ho dovuto brigare per comprare lana per fare i materassi, sarebbe già tutto un romanzo!) Il giorno seguente, lunedí, lo stesso: attesa fino alle 13 per acciuffare un camion. Per rara fortuna ne trovai uno con un posto libero nella cabina. Però questo aveva i freni che funzionavano male: ad ogni salita ripida si fermava, gli si mettevano pietre dietro le ruote perché potesse riprendere lo slancio. Poi cominciò un temporale: le pareti della montagna cominciarono a sgretolarsi, interi ruscelli le percorrevano, e ci trovavamo in un punto molto difficile. Poi cessò di piovere, si fece notte, e in un altro punto che io conoscevo bene, tutte giravolte su burroni, pac, si spensero i fanali, buio pesto, freni che non funzionano, odore di gomma bruciata e discesa alla cieca ancora per 8-10 metri. Quella volta io fui proprio convinta di morire in fondo al precipizio. Infine potemmo discendere io e un vecchietto, gli unici due passeggeri, mentre l’autista urlando ci supplicava di mettergli le solite pietre alle ruote, ché il camion continuava lentamente a scendere e
non si vedeva verso dove. Solo avevamo fiammiferi che subito pel vento e la pioggerella si spegnevano, il vecchietto nell’affanno perse la sua preziosa pipa da 50 pesos17: finalmente a tentoni misi le mani su delle pietre. Sempre al lume di fiammiferi l’autista dopo mezz’ora alla bell’e meglio poté riparare i fanali e allora con terrore potemmo constatare che ci trovavamo a due metri dall’abisso su di una curva infilata per dritto. Cominciò di nuovo a piovere: oltre al terrore che si rompessero di nuovo i fanali, il camion slittava, andava a destra invece che a sinistra; insomma io viaggiai solo piú con la mano sullo sportello, pronta a precipitarmi a terra al minimo indizio. Finalmente alle undici di notte arrivai a Sucre. Conclusione: dal sabato al lunedí, per fare i 208 km. di andata e ritorno SucreZudanez, ero stata ben 23 ore in camion. Da quella volta decisi solamente di seguire i consigli di molti esperti e non viaggiare piú. Feci bene. Il camion che quella notte mi accompagnò indietro a Z[udanez] due settimane dopo precipitò, perché l’autista ubriaco si era addormentato sul volante e ci furono 5 morti. Una croce di piú su quella strada! Ecco come comunemente si viaggia in Bolivia, quando non si è costretti ad andare a piedi, su muli o cavalli o in canoa! Ma nessuno qui si scompone: da lustri ogni anno il governo dà milioni per progetti di ferrovia che mai si eseguono, mentre i milioni scompaiono. In Sucre da 20 anni sono in costruzione due piccoli edifici, un teatro e il palazzo di giustizia ma non sono neppure arrivati a un quarto della costruzione. E cosí via: ci sono centinaia di esempi di questo genere! Nelle scuole medie quasi non ci sono professori laureati. Un operaio inglese capitato qui può diventare professore d’inglese, gli impiegati di banca sono anche professori di lingue, di matematica e contabilità. Nelle provincie nessun maestro elementare e quasi tutti i direttori sono andati loro stessi piú in là che la 5ª elementare. Anche qui regna una spaventosa crisi economica, in parte per colpa dei Boliviani, perché bisogna importare tutto, anche i prodotti di prima necessità, come carne, burro, formaggio, zucchero, patate, ecc. a prezzi enormi, data la grande valorizzazione della moneta nazionale. Eppure nella stessa Bolivia esistono regioni immense, specie ai confini col Brasile, nel bacino dell’amazzonia, con centinaia di migliaia di bovini, con belle piantagioni di prodotti tropicali. Però per la mancanza di mezzi di comunicazione i latifondisti esportano tutto al Brasile o al Chile, i quali
invece molto bene si preoccupano delle comunicazioni con la Bolivia e perfino fondano scuole loro in questo territorio con gravi conseguenze politiche. Ai miei occhi, di veramente interessante qui ci sono solo gli indios, il cielo, i monti, qualche ebreo dell’Europa orientale che in questi ultimi mesi ha ritrovato la Patria, e i due comunicati della radio, ai quali noi due, in mancanza di giornali, siamo attaccatissimi. Le ore piú belle le passiamo nella nostra casa, abbastanza carina, anche se alcuni mobili sono sostituiti da bauli ricoperti da tessuti indigeni. Alle pareti abbiamo appeso le piú belle riproduzioni che avevamo: Durer, Piero della Francesca, Bronzino, Canaletto, Rodin e tre pitture religiose del 700 di queste regioni, molto interessanti anche se primitive nell’esecuzione. Leggo moltissimo: ho già terminato due libri in tedesco, cercando con pazienza le parole che non capivo, nel dizionario: ora comincio a studiare l’inglese, perché potrebbe anche darsi che presto andiamo negli Stati Uniti. Ho pure ricominciato a leggere Dante con mio marito che non lo conosceva ancora in Italiano. Con molta commozione ho riletto Cuore di De Amicis, che ho trovato per caso. La biblioteca della Facoltà di diritto è abbastanza fornita di libri di grande attualità: io divoro tutti quelli che trattano dell’unico argomento che oggi mi interessa profondamente e del quale sino ad oggi sapevo quasi nulla. Piú leggo e piú mi persuado di un prossimo futuro come noi desideriamo. Non ho mai avuto una fede religiosa: oggi ho una profonda fede politica; leggendo la Storia d’Europa nel secolo xix di [Benedetto] Croce mi impressionano le seguenti parole tolte dal Diario di Cavour «Nous autres qui n’avons pas de foi religieuse, il faut que notre tendresse s’épuise au profit de l’humanité»18 . Mi rincrescerebbe lasciare le mie ossa in questo sperduto paese, senza rivedere l’Europa, ma soprattutto mi rincrescerebbe morire senza poter assistere e specialmente partecipare, anche in parte ultra infima, alla ricostruzione dell’Europa di fra poco. Se dovessi fare ora la mia tesi di laurea, riuscirebbe molto diversa da quella che lei conosce, e chissà, forse la approverebbe meno! Oltre la lettura e le lunghe conversazioni con mio marito, e talvolta con un professore nazionale di sociologia, eccezionalmente intelligente e preparato, l’unica diversione qui è il cine. In genere i films sono molto
vecchi, però certe volte capita qualcosa di buono, specie di produzione francese. Interessanti, se non di grande valore artistico, sono le pellicole messicane, per la musica, i costumi, per lo sforzo che dimostra questo giovane paese nel progredire in tutti i campi. Gli argentini valgono pochissimo, sono volgari come quasi tutta la loro letteratura. Oggi è il giorno di Natale, sereno, caldo, splendente come una bella giornata toscana di giugno, con tante piccole nuvolette bianche come nelle terracotte di Del[la] Robbia, è la stagione delle fragole, delle pesche e delle piogge. Ieri notte gli indios hanno portato in processione il Niño, Bambino Gesú, con fiaccole can-ti e danze. Queste feste cattoliche che conservano ancora molto delle pratiche incaiche, sono originalissime. Meglio ancora in Zudanez avevo potuto seguire da vicino ed incantarmene. Peccato però che qui tutto finisca nell’alcool! Da piú di un anno non sono salita su di un treno, non ho fatto un vero viaggio. Ieri ho udito che è stata bombardata Venezia e tante altre cose. Ho pensato ai viaggi che almeno una volta all’anno facevo a questa divina città e allora, cosí chiacchierando con mio marito, abbiamo tentato di immaginare la nostra emozione al momento del ritorno, quando vedremo da lontano profilarsi Genova: ad entrambi ci pare proprio superiore alle nostre forze. La nostalgia è proprio una malattia. Abbiamo avuto la fortuna di vedere un film italiano girato a Torino «la contessa di Parma»19, con i corsi Vittorio, Massimo d’Azeglio, il tram n. 12; Mirafiori, Sestriere, le guardie civiche, ecc. Non so se a Lei è possibile rendersi conto di che cosa abbia voluto dire per due emigranti come noi due ore di visioni piemontesi! Qui è ancora in pieno vigore l’artigianato: mio marito ha scoperto un vecchio rilegatore di libri, che stranamente per poco prezzo fa delle belle rilegature in mezzo cuoio con titoli in oro. Già gran parte della biblioteca di mio marito è a posto. Io finora in suo onore ho fatto rilegare solo il suo manuale di Storia Contemporanea. Allora, caro Professore, arrivederci presto, molto presto; malgré tout, si conservi in salute ed in salute aspetti che «la sua antica alunna», come Lei dice, La venga a rivedere. Non creda che perché le scrivo cosí di rado, pure di rado mi ricordi di Lei; soprattutto qui dove ho ripreso a studiare con una certa serietà, il Suo ricordo è molto vivo, perché Lei per me rappresenta il punto di partenza della mia maturità intellettuale; Lei è stato il primo
professore che sin dalla sua prima lezione mi ha insegnato a vedere il mondo e la vita in modo non piú infantile; per questo anche io ho sempre avuto per Lei la riconoscenza e venerazione, per questo Lei è l’unico mio Maestro che pure dopo tanti anni, pur dopo che io stessa divenni insegnante, è rimasto per me in alto, sul piedistallo su cui gli alunni che hanno entusiasmo per la scuola, collocano i loro migliori insegnanti. Mi scusi se approfitto della Sua cortesia pregandola di fare avere ai miei il foglietto qui unito. Pure la prego di salutare molto cordialmente tutti gli amici comuni, specie la famiglia Grosso. Per favore, mi scriva presto e a lungo: è meglio per avion e può dare la sua lettera ai miei che la uniscano a una delle loro. Ancora vivissimi auguri di buon anno e molti saluti affettuosi. Giorgina 15
Adn E/Adn. Giorgina Levi (Torino 1910), fu estromessa dall’insegnamento in Lettere ed emigrò in Bolivia insieme al marito Enzo Arian; nel dopoguerra fu parlamentare del Pci e scrisse saggi storici, politici e sociali. Lettera al suo professore universitario Francesco Lemmi, titolare della prima cattedra di Storia del Risorgimento. 16 Lingua di origine ebraica. 17 Moneta locale. 18 Noi che non abbiamo una fede religiosa, dobbiamo spenderci a vantaggio dell’umanità. 19 Film del 1937, per la regia di Alessandro Blasetti.
«L’inizio di un nuovo anno, è il terzo di questa mia vita disperata, sarà l’ultimo?» Rosi Narducci
[Sidney, Australia] 5-1-4220
Carissimi mamma e papà, vi scrivo questa lettera perché sento tanto il bisogno di scrivervi, non perché speri che questa vi giunga in breve tempo, o forse non vi arriverà del tutto. Le tue, mamma, che ho ricevuto nel luglio ’41, erano da te state scritte nel dicembre ’40. Ma è tanto poco per voi ricevere solo messaggi che tento anche questa via, ben sapendo ch’è la piú lunga e la meno sicura. Naturalmente abbiamo sempre ricevuto lettere anche dalla nipote di Massimo e una volta anche da zia Bianca, ma ad entrambe non possiamo rispondere. Pensiamo alla vostra scontentezza di non poter leggere da mesi e mesi una nostra lunga lettera, mentre noi ne abbiamo avute tante da voi, ma credete, non dipende dalla nostra volontà lo scrivervi. Cara mamma, le feste testé trascorse e l’inizio di un nuovo anno (è il terzo di questa mia vita disperata, sarà l’ultimo?) mi hanno reso anche piú triste del solito, e cosí sconfortata e scoraggiata che non spero piú in niente. Non che ci manchi materialmente nulla di necessario, poiché lavorando entrambi molto duramente (non la nostra professione, si capisce, ma umilissimi mestieri) tiriamo avanti abbastanza bene, senza quasi piú toccare il piccolo gruzzolo rimastoci, e senza bisogno di tener estranei in casa, come ho dovuto fare l’anno scorso, per 2 mesi. Cara mamma se tu hai ricevuto le mie precedenti lettere scritte lo scorso anno, saprai la nostra odissea: non puoi aver saputo nulla da altri, poiché Giangi ci scrisse che non voleva farvi avere notizie tristi. Ad ogni modo, un periodo materialmente molto brutto è passato; quel ch’è sempre stato e sempre è bruttissimo è il nostro morale; la nostra solitudine, il rimorso che ho di essere venuta qui e in conseguenza aver perduto la cattedra, la separazione da voi tutti, l’abisso che mi divide dalla vita passata che mi pare ed era veramente un paradiso, in confronto alla presente, tutto questo unito al fatto di sentirmi sempre stanca e dovere ad
ogni costo lavorar fuori e in casa, fa sí che il mio morale sia sempre molto basso. Ma quello che mi fa piú dolore è il non poter pensare a una data fissa per il ritorno, quel ritorno che avrebbe dovuto avvenire fra due mesi e che invece avverrà se e quando a Dio piacerà. Cara mamma né tu, né nessuno di voi può capire che vita è la nostra, a prezzo di quali sacrifici e di quante lacrime abbiamo trovato lavoro. Io non posso pensare né vedere alcuna cosa che mi ricordi voi e la mia casetta senza sentirmi disperata. Da un anno e mezzo che siamo qui, non un giorno è passato senza pensare a voi e senza piangere. Né una sola volta abbiamo avuto il conforto di una persona amica che ci comprendesse, di cui ci si possa fidare e con cui sfogare qualche volta il nostro dolore. Penso sempre che questo è il mio castigo per non aver abbastanza apprezzato la felicità di avere una mamma e un papà – quando li avevo. Lo accetto come un castigo e colla speranza che finisca ed io possa nuovamente godere il vostro affetto e la pace di una casa mia e un po’ di riposo. Certo – ci si abitua a tutto – è vero, se no come potrei fare il lavoro che faccio e con i dispiaceri che abbiamo? Eppure sto abbastanza bene, salvo che sono un po’ dimagrita e il dottore mi ha ordinato ricostituenti. Anche Max21 se la cava e gli intestini vanno meglio di un tempo; ha però spesso mani tagliate e piedi doloranti, ma questo dipende dal lavoro che fa e dal continuo star in piedi al lavoro: spesso dalle 5 1/2 a.m. alle 6 p.m. con solo una mezz’ora per il pasto. Date le enormi distanze impiega 1 ora e 1/2 per andare al lavoro, ma al presente il lavoro della fabbrica è stato interrotto e non si sa se riprenderà, perciò ha trovato provvisoriamente un posto nella cucina di un salumiere come uomo di fatica e cuoco insuperabile di conigli, pollame, porco ecc. Questo – naturalmente – unito a tante altre cose, fa sí che il nostro morale sia assai basso. In una delle tue ultime, cara mamma, mi chiedi se ho sempre aiuto in casa. Si vede proprio che non hai ricevuto nessuna delle mie lettere da un anno e mezzo a questa parte. Dopo 4 mesi che eravamo qui Max perse l’impiego che aveva; d’allora è stato un rotolare sempre piú giú: ha fatto il cameriere, il cuoco, il lavapiatti, e ora da tre mesi era manovale comune. Io pure ho dovuto arrangiarmi. Avendo i bimbi in casa non potevo far altro che lavorare in casa e questo ho fatto tenendo a pensione due persone fino a pochi mesi fa: poi trovai lezioni, allora misi i bimbi in un asilo (carissimo) e continuai a tenere i pensionanti, fare tutto in
casa per 6 persone e dare lezioni. A luglio poi mi sono ammalata, allora ho smesso i pensionanti e abbiamo da allora sempre tirato avanti benino colle mie lezioni. Ma da due mesi le lezioni sono finite, allora lavoro da sarta dalle 9 alle 4: naturalmente prima delle nove devo far la casa e portare i bimbi a scuola; e dopo le 4 devo fare la spesa la cena ecc. Poi al Sabato lavo e la domenica stiro e cucisco. E ora vengo alle care gioie: meravigliosi, sani, felici, anzi scoppianti di salute e di felicità: Fredy22 è una gioia vivente, sempre roseo biondo sorridente, sprizza luce dagli occhi, è un raggio di sole; mangiano entrambi come porcellini, dormono, giocano, saltano tutto il giorno e me ne fanno di ogni colore. Quando sgrido Fredy, lui dice: «Io non ti voio piú bene, penno la bacca, vado da nonna Cesira e dormo con Nonno, poi vado in giardino e mangio tutta l’uva». Marcello23 è buono e altruista e ride poco mentre l’altro ride sempre come uno scemo. Lui si alza il primo al mattino e prepara colazione per tutti, perché io riposi un po’ di piú. Sono lieta che voi viviate vicino a Franco e Franca, vi sentirete meno soli, almeno non soli come noi. Vi penso sempre tutti e prego per la vostra e nostra salute e che presto tutto finisca e ci si possa riabbracciare. Tutti i miei baci. Rosy Montagnana 20
Ap Manfredo Montagnana. Rosi Narducci (Conegliano Veneto 1910 Torino 1996), insegnante, sposata con Massimo Montagnana (costretto a lasciare l’insegnamento perché non iscritto al Pnf ), emigrò in Australia in seguito alle leggi razziali e col marito fu attiva nell’associazione antifascista locale; rientrò in Italia nel ’48. Lettera ai genitori Lorenzo e Rachele Levi (nonna Cesira per i nipoti). 21 Il marito. 22 Il figlio Manfredo. 23 L’altro figlio Marcello.
L’internamento libero e nei campi di concentramento
«Non si può uscire che nel parco» di Carlo Alberto Viterbo
[Urbisaglia (Macerata)] 30.VI.1940. Domenica1 Carissimi voi tutti che pensate a me! La villa «Bandini-Giustiniani» dove mi trovo, è situata nelle Marche, non lungi da Macerata. Non ho una carta topografica per orientarmi esattamente. Ho sentito parlare di Tolentino, di Urbisaglia, di Pollenza e dei fiumi Chienti e Fiastra come di località e corsi d’acqua assai prossimi. La villa è contigua a una chiesa con chiostro che ho inteso indicare come Abbadia o Badia di Fiastra. Il mio viaggio ferroviario in arrivo è terminato alla stazione di Urbisaglia-Bonservizi2 e di là è proseguito in auto (4 o 5 Km), traversando un corso d’acqua che potrebbe essere il Chienti, ma non sono sicuro. Con queste indicazioni, su una buona carta, potrete fissare il luogo della mia residenza. L’ufficio postale e telegrafico piú vicino si chiama Sforzacosta (prov[incia di] Macerata) ed è questo l’indirizzo che dovete mettere sulle vostre lettere. Anche telegrafando userete l’indicazione Sforzacosta senz’altra aggiunta. Da Sforzacosta la trasferta per il recapito di un telegramma è di tre lire mentre da Urbisaglia è di cinque lire. La villa è circondata per due lati da parco, per un lato confina col chiostro della Badia di Fiastra e le finestre della villa vi prospettano, per il quarto con casette di affitto, non comunicanti. Ha una sola porta, aperta sul parco. Dalla casa, quindi, non si può uscire che nel parco. Il parco è circondato da muro e aperto con un cancello sulla strada. Il muro e il cancello costituiscono i confini entro i quali siamo liberi ed oltre i quali non possiamo andare. La villa è un villone, un casermone, non priva di qualche decorazione architettonica esterna e di qualche pittura murale interna, doveva essere, ai suoi tempi una bella e signorile residenza. Ai suoi tempi, dico, riferendomi almeno ad un secolo fa, quando le comodità richieste dalle esigenze signorili non erano esagerate e quando tutto era nuovo o in buono stato. Il tempo, di poi, ha fatto l’opera sua e la villa si presenta un po’ logorata e cadente. Le pitture con l’attrito della vita quotidiana hanno l’aspetto di quelle del salotto da pranzo di Sensano mentre gli impianti
sanitari ecc., sono molto, ma molto in peggiori condizioni. Non tutta la villa è a nostra disposizione, vi è una serie di stanze chiuse ove, verosimilmente è ammucchiato il mobilio della villa che è stata del tutto e radicalmente smobiliata per adibirla all’uso a cui serve attualmente. Le stanze e le sale a nostra disposizione sono: un’ampia sala di ingresso, comunicante per una ampia porta con un anti-scala. Qui e nella sala di ingresso specialmente sono sistemate tavole e panche di legno bianco e qui si svolge la vita comune, per la massima parte. Qui infatti vengono fatti i tre appelli quotidiani, qui vengono serviti i pasti, qui ci tratteniamo per lo piú a scrivere, a giocare, a passeggiare quando piove. Quando invece il tempo è buono da qui è aperta la porta sul parco. I locali di uso comune non finiscono con questo, perché, sempre a terreno, nell’ala destra del palazzo sono due camerate e oltre di esse una stanza, del pari arredata con tavoli e panche di legno bianco, adibita a sala di convegno meno rumorosa e piú riservata. Qui si raccolgono al venerdí sera e al sabato quelli che vogliono recitare le loro preghiere, e qui, da ieri è stato sistemato un apparecchio radio, procuratoci a spese comuni col consenso dei superiori. Sul lato sinistro invece, con porta aprentesi sulla sala di ingresso c’è l’ufficio magazzino. Sulla porta una iscrizione «Ufficio di P.S.» ci ricorda in continuità quale sia il nostro stato. Qui un funzionario di P.S. (con tre righe come il grado di capitano) coadiuvato da due agenti veglia sulle nostre sorti. Dalla stessa parte, cioè sempre nell’ala sinistra sono sistemate cucine e locali di servizio alle quali è interdetto l’accesso da uncartellino «vietato l’ingresso». È il dominio della appaltatrice della mensa. Al primo piano e al secondo, camere, stanze e saloni, e anche corridoi sono del tutto smobiliati e arredati con sole brande militari di quel tipo militare che ho ben conosciuto nella caserma di cavalleria a Firenze. Ma le brande sono questa volta rese confortevoli da materassini e guanciali di vegetale, per lo piú nuovi fiammanti. Gli impianti sanitari sono, come dicevo, scadenti. Mancano del tutto i bagni (che dovevano esserci perché se ne vedono le tracce, ma sono stati tolti) e i lavandini, vecchi e nuovi, sono congegnati nel modo piú primitivo e «casermesco» possibile. Ma ciò nonostante questa sistemazione differenzia in meglio dagli «orrori» di Regina Coeli! Qui si può vivere senza lussi o mollezze, ma vivere! Lavarsi! Riposare! Cambiarsi! Là queste semplici cose erano impossibili o difficilissime!
Ma non voglio parlare di quel triste periodo, ne farò oggetto di altra mia. Qui continuo la mia descrizione del luogo ove mi trovo. Nella villa la mia sistemazione è soltanto provvisoria. Infatti arrivando mi è stata assegnata una stanzetta al primo piano (forse l’ex salotto di lavoro della padrona di casa) arredata con otto brande che occupano tutto lo spazio disponibile, main cui mi sono trovato solo. È quella la stanza d’isolamento che dovrò occupare finché non passi il medico provinciale ad assicurare che non ho malattie infettive e possa dormire anche in camerata con gli altri. Ieri poi è giunto un nuovo ospite, siamo ora in due ad abitare la stanza di isolamento. Dopo la visita del medico dovremo trovare altra sistemazione in camerata e ciò è in una delle altre stanze ove a seconda della ampiezza sono da otto a venti brande. Per fortuna non c’è, per ora, la necessità di stare cosí fitti. La casa è arredata con 200 brande e siamo poco piú di una trentina dunque, per ora non c’è la necessità di stare gomito a gomito e ciascuno di noi può usufruire, oltre che della propria branda, anche di una seconda che serve da sedia, divano e cassettone. Ma in camerata stiamo poco: quando si dorme. Tutto il resto del tempo lo trascorriamo giú nelle sale comuni e quando non piove nel parco. Questo è il nostro refrigerio, il nostro conforto, la nostra gioia! Pochi spazi erbosi, rare piante di fiori, ma alberi alti fronzuti, monumentali, meravigliosi! In mezzo ad essi vialetti ghiaiati, per i quali muoviamo senza posa i nostri passi perduti. V’è un leccio secolare delle dimensioni e dell’età del nostro quercione sull’aia di Valle a Sensano, ma la sua chioma è ancora piú larga e estesa sí che sotto di esso v’è una specie di piazzetta, ove potrebbe manovrare tutto il plotone dei qui residenti. V’è anche un cedro che, a pochi metri da terra, si divide in molteplici tronchi, tutti verticali altissimi, i quali a loro volta caccian fuori lunghi rami fronzuti, e compongono insieme un vero monumento vegetale, di fronte al quale non c’è che da ammirare. È cosí bello da commuovere! E c’è una quercia da sughero anch’essa monumentale che aggiunge il pregio della rarità alle doti delle sue magnifiche fronde. E ci sono pini e abeti e altri alberi di alto fusto alcuni dei quali quasi scompaiono sotto le foglie di gigantesche edere e altri rampicanti. Il tutto fa un complesso fronzuto, ombroso, odorante d’essenze vegetali che conforta l’animo e lo spirito. Non è grande, questo è il suo difetto. In pochi minuti si percorre da un capo all’altro in ogni direzione. Ma anche qui che differenza con i sette passi nella cella o i quindici passi nei corridoi di passeggio, del deprecato soggiorno carcerario! Qui si respira,
si posa l’occhio, si assorbe balsamo di vita e si può benedire il Signore e non imprecare agli uomini. A questo punto mi pare di aver dato una sufficiente descrizione dei luoghi e passo ad altro argomento. Qui non siamo al «confino». Un tal provvedimento ci darebbe ampia libertà entro determinati confini. Qui invece non possiamo uscire dalla casa e dal parco: è questo un «campo di concentramento». Al «confino» potremmo avere casa propria, alloggiare con parenti. Qui invece possiamo solo ricevere visite, che non possono,almeno per regola, trattenersi qui per i pasti. È una prigionia in ambiente non disgustoso, senza commistione con delinquenti ordinari, ma prigionia. I reali carabinieri perlustrano in continuazione intorno alle mura del parco e vegliano al cancello. La nostra presenza è accertata con tre appelli giornalieri alle dieci del mattino, alle tredici e alle ventidue ed è sorvegliata dalla presenza fisica in mezzo a noi del Commissario e dei due agenti. Il Commissario prende i suoi pasti con noi, sedendo ad una piccola tavola separata. Bisogna dire, a suo onore, che disimpegna il suo compito, non facile, con garbo e con tatto. Concede quello che può concedere e mantiene l’ordine e la disciplina senza far pesare la mano. Non dà confidenza ma non è burbero ed è perciò un perfetto contrapposto a certi sbirri feroci e villani di cui ho fatto, purtroppo, recente e stupita conoscenza. Fenomeni di bestialità feroce! Non se ne ha una idea nella vita civile! Qui invece sotto l’occhio benevolo del nostro custode si può fare liberamente tutto quello che non è vietato e quello che è vietato si riduce a poco e consiste essenzialmente nel non uscir fuori dei limiti, nel rispondere agli appelli, nel non parlar di politica, nel serbare un contegno corretto e assoggettarsi senza recriminazioni agli oneri di questa vita in comune. Ma molte cose, che non credevo, sono permesse. Si possono leggere i giornali, ascoltare la radio, ricevere visite. La posta tanto in arrivo che in partenza passa sotto gli occhi del commissario per la censura. Ma tutto è permesso dire, fuorché, si intende, esprimere apprezzamenti o giudizi su persone e avvenimenti politici. E si ha l’impressione che finora nessuno di noi dia motivo di lagnanza, le cose procederanno senza pedanterie e senza rigori. La posta in partenza viene da noi consegnata aperta e viene chiusa dal Commissario. La posta in arrivo ci viene per lo piú, ma non sempre consegnata chiusa. I telegrammi in partenza debbono essere sottoposti al
visto preventivo e quelli in arrivo vengono aperti dal Commissario prima di consegnarli ai destinatari. Telefono non c’è e non c’è modo di raggiungerlo. Ed ora una parola sull’organizzazione economica. Lo Stato provvede a determinate spese e, a quel che so, all’affitto della villa, alle spese di custodia e generali: ma tutto il resto è a carico degli involontari villeggianti, per una quota che è stata fissata in L. 12 e che viene versata da noi ad una appaltatrice, la quale deve provvedere, con essa, non soltanto al vitto ma a versare una quota di una lira a testa per non so quale rimborso di casermaggio. Non basta: sulle dodici lire gravano i non abbienti. Essi, cioè quelli che non possono versare le dodici lire, ricevono dallo stato un sussidio di L. 6. La differenza viene colmata, in parte, dando loro un trattamento un poco inferiore, in parte prelevando a loro favore dal totale degli altri. E non basta ancora: agenti e carabinieri di passaggio, fornitori ecc., che capitano qui per servizio, debbono, per forza di cose, usufruire di una ospitalità che grava sul totale. Ne consegue che quello che effettivamente ci viene dato è sano, è ben fatto, è qualcosa di molto, molto migliore del vitto carcerario ma è scarso. Il latte e il caffè al mattino vien dato in piccoli bicchieri di capacità non superiore a due tazzine da caffè; a mezzogiorno e alla sera una minestra, un piatto una aggiunta di formaggio o frutta o biscotto. Dico la verità che in questi giorni, forse per un certo appetito arretrato portato qui dalle sofferenze di Regina Coeli, ho mangiato di gusto ed ho trovato tutto ben fatto e appetitoso, ma scarso. Non credo che, nonostante le proteste che cerchiamo di fare nella forma possibile, le cose potranno cambiare e pertanto sarà necessario organizzare a nostre personali e separate spese o delle merende o del sopravvitto: biscotti, marmellata, cioccolata. Il caro Cantoni3 che è di buona bocca si è potuto procurare qualche scatoletta e si regala un’aggiunta anche piú sostanziosa. Il carico economico che grava su ciascuno di noi non finisce qui. Vi sono delle esigenze di vita personale che bisogna soddisfare. Quanto alla vita personale dobbiamo provvedere alle lavature e stirature (a mezzo la solita appaltatrice e sua dipendente), alle spese di posta, alle altre minute occorrenze che non sono vitto e quanto alla vita comune dobbiamo contribuire a una cassa comune che si va organizzando a poco a poco, per sollievo di tutti tante piccole grandi cose: i giornali per la lettura in comune i giuochi per il passatempo collettivo (bocce, carte, scacchi dama ecc.) il
nolo di un apparecchio radio e l’abbonamento alle radio audizioni ecc. ecc. Tutto sommato faccio conto che il fabbisogno sia di venti lire al giorno e cioè seicento lire al mese. Prima di chiudere questa breve rassegna mi resta a dire qualcosa dell’orario che regola la nostra vita e dei compagni che la sorte ha assegnato a questa villeggiatura forzosa. La sveglia non suona. Ognuno si alza quando crede. L’obbligo è di essere presente all’appello delle dieci e quindi c’è margine per fare il proprio comodo. Io mi sveglio alle cinque e mezzo e non riesco a riaddormentarmi: sto a letto a pensare ai casi miei sino alle sette. Ma alle sette non ne posso piú e mi alzo. Levandomi prima degli altri ho il vantaggio di trovare vuote le toilettes e lavandini: non disturbo e non sono disturbato e faccio con comodo quello che debbo far. Dopo, naturalmente c’è da tirar su la branda, piegare le lenzuola, disporre le coperte per il giorno. Con queste operazioni sono le nove, allungandole con un po’ di pulizia alla stanza, alle scarpe, ai vestiti ecc. Dalle nove all’appello delle dieci il tempo vola: caffelatte con pane (il burro si può comprare a parte) un’occhiata ai giornali che proprio in tale ora arrivano con la posta. Posta per ora non ne ho ricevuta, ma spero bene presto. Dalle dieci all’una ci sono tre ore e bisogna trovare modo di occuparle. Qualche minuto prima dell’una si deve rispondere al secondo appello e alle una si apre la radio per il segnale orario e il bollettino (giornale radio) quotidiano. Dopo c’è la colazione che dura circa tre quarti d’ora e alle due siamo spicci. Una passeggiatina igienica nel parco e un riposino possono utilmente servire a trovare le quattro. Ma dalle quattro alle otto ci sono altre quattro ore e anche di queste conviene trovare utile applicazione. Alle otto la radio e il pranzo portano facilmente alle dieci (terzo appello) dopo il quale, chi vuole può andare a letto. Chi non vuole può trattenersi a giuocare a dama, a scacchi, a carte. Ci sono degli accaniti di bridge e c’è un piú modesto scopone. Non ho sentito per ora parlare di poker. Io per ora non mi sono concesso che qualche partita a dama. Me ne sto a passeggiare, conversare, osservando chi gioca cercando di tirare avanti fino alle undici: suonate le undici vado a letto. E ci vado al buio perché per ora, nella stanza in cui abito non c’è lampadina elettrica. Quindi non leggo a letto e dopo avere un po’ pensato ai casi miei mi addormento nel sonno del giusto. Come vedete la giornata è incolore se non si trovi il modo di impiegare ben sette ore (tre al mattino e quattro al pomeriggio) che rimangono libere dalle altre occupazioni. Questo è il
problema da risolvere. E con l’aiuto di Dio e vostro lo risolverò. Scriverò, leggerò, studierò solo e in compagnia di altri. I libri necessari me li spedirete e ve ne farò richiesta. Su questo argomento dovrò ritornare. Sono condotto ora dal corso dell’esposizione, a darvi un cenno dei miei compagni. Il primo che mi viene alla mente è il caro Raffaele Cantoni. Nella disgrazia è una fortuna aver vicino un cosí buon e provato amico, col quale vado d’accordo almeno al novantanove per cento. Non sto con lui in camerata, perché l’ho trovato già sistemato con altri, ed io sono, per ora, «isolato» come vi ho detto. Ma abbiamo preso posto accanto, a mensa, e assai spesso passeggiamo nel parco fianco a fianco. Con lui stiamo tracciando le linee di un programma di studio (lingua ebraica, storia, tradizione ecc.) in cui sono chiamato con la mia poca sapienza a insegnare a chi ne sa meno di me. C’è poi un omonimo: non solo Viterbo, ma anch’egli avvocato: l’avv. Dino Viterbo di Trieste nipote del Vitale Viterbo di Corfú. Bisogna stare attento quando chiamano «Viterbo» non si sa mai se si tratta di lui o di me, e voi dovrete essere sempre esatti nell’invio di lettere, telegrammi, o altro ed indicare il mio nome oltre al cognome. C’è poi, come mamma sa bene, l’avv. Edoardo Della Torre, mio compagno di cella a Regina Coeli a Roma. Come è noto non sono con lui all’unisono nel modo di pensare, ma è buono di spirito e generoso. C’è poi, come vi hanno detto, un generale! Il generale Levi di Livorno, un vecchio soldato di 72 anni, ancora in gamba. Non ho trovato, per ora, con lui punti di contatto. C’era, ma è partito, il vecchio dr. Bachi di Torino. Malato gravemente di cuore e sofferente di asma è stato mandato all’ospedale di Macerata e forse di là potrà essere rinviato a casa. C’è un rag[ionier] Ascoli di Roma parente dell’avv. [Aldo] Ascoli Presidente della Comunità di Roma. C’è un rag[ionier] Avigdor di Torino, simpatica e aperta faccia. Un tal Bazzini di Fiume, ex armatore secondo le sue dichiarazioni. Sembra sia di razza ebraica, professante religione mussulmana. Il complesso della sua figura è tale che è stato soprannominato Bagonghi4. Nessuno lo prende sul serio. C’è una cospicua colonia di giovani ferraresi: Bonfiglioli, due gemelli Hanau (Primo e Secondo di nome), Minerbi, Contini, e altri il cui nome ora mi sfugge. C’è l’avv. Dino Lattes5 di Firenze (è stato mio compagno di scuola alle elementari e all’Istituto Ben Baron di Firenze). C’è un Artom Camillo di Torino, musicista e scrittore di estetica musicale, è precisamente l’ultimo
arrivato, isolato con me. Simpatico, mite, gentile e pieno di finezze. E non faccio tutto l’elenco. C’è un miscuglio di persone diverse: uno Spizzichino commerciante, un Sermoneta muratore, un Caffaz giornalaio, un (il nome mi sfugge) primo cameriere sul Conte Verde ecc. ecc. Utilissimi elementi questi ultimi perché il cameriere ha organizzato la mensa e serve a tavola, il muratore ha assunto i servizi di scopa col giornalaio. Ciascuno fa quel che sa e può per il servizio comune. A me sembrano riserbati compiti d’ordine piú elevato, perché venerdí sera e sabato mattina sono stato invitato a prendere la direzione dei servizi religiosi con la recitazione della preghiera e con la lettura e commento del brano biblico settimanale. Forse prenderò anche l’organizzazione e disimpegno della «Biblioteca circolante». Sono, come sapete, occupazioni conformi al mio spirito e mi dedicherò ad esse ben volentieri. Con ciò credo di avere terminato l’esposizione sommaria di quanto può interessare. Ho redatto questa esposizione in modo impersonale e la mando a Roma a mezzo della Signora Della Torre, venuta qui a visitare il marito. Essa la passerà a mamma la quale, dopo averla letta e aver preso gli appunti che la riguardano la spedirà a Nella, che potrà trattenerla. Non avrò cosí necessità di ripetere in varie lettere le stesse cose. Mi rivolgerò invece con lettere separate a mamma e a Nella per richiedere loro l’invio di oggetti o libri o altro per la parte a ciascuno spettante. Vi segnalo che gli invii possono essere fatti oltre che per posta anche usufruendo del corriere Canzonetta Augusto che recapita in Roma presso il portiere o la portiera dello stabile in via Marsala 32, di fianco alla stazione di Termini. Egli parte da Roma il mercoledí e sabato sera e da qui il martedí e venerdí sera. Un collettivo tenerissimo abbraccio dal vostro Carlo 1
Ap Giuseppe Viterbo cit. Lettera fronte-retro su carta semplice alla famiglia. 2 Nicola Bonservizi (Urbisaglia 1890 - Parigi 1924), segretario del Fascio e corrispondente del «Popolo d’Italia» da Parigi, dove fu ucciso. In suo onore Urbisaglia assunse la denominazione di Urbisaglia-Bonservizi, revocata nel dopoguerra.
3
Raffaele Cantoni (Venezia 1896-1971), anche lui ebreo e antifascista, dirigente della Delasem; nel dopoguerra fu presidente dell’Ucei. 4 Il nano del circo e delle fiere. 5 Dino Lattes (Firenze 1888-1962), giornalista e avvocato antifascista; nel ’25 era stato arrestato per aver collaborato alla rivista «Non mollare» di Gaetano Salvemini e dei fratelli Carlo e Nello Rosselli.
«Ho trascorso qui cinque amari mesi» di Eugenio Lipschitz
Domenica 28 luglio [1940]6 circa alle sette di sera siamo arrivati a Campagna, e la scorta dei carabinieri ci consegnò alla direzione del campo. Il direttore del campo è uno dei commissari della questura di Salerno, vero spirito di poliziotto, ma anche pieno di benevolenza. Tratta la sua professione senza troppo rigore, esaudisce tutte le nostre richieste, ma solamente alla condizione che a causa di ciò non derivi qualche guaio per lui. Una parte del personale dell’ufficio è formato da persone coadiuvanti, scelte dal gruppo degli internati, perché l’originale personale di polizia, tenendo conto della quantità delle incombenze amministrative, non sarebbe stato in grado di svolgere tutto il lavoro, e di questo avrebbero patito soltanto gli internati. I carabinieri ci consegnarono alla polizia, e noi li invidiammo perché con il primo treno utile sarebbero tornati a Fiume. Ognuno di noi, tramite i carabinieri, ha comunicato ai propri congiunti il nostro arrivo, ed è interessante che i bravi e umani agenti al piú presto e personalmente abbiano trasmesso la notizia alle nostre famiglie. Quando siamo arrivati a Campagna il contingente degli internati era al massimo di circa cinquecento persone. Avevamo quasi scombussolato l’altrimenti silenziosa cittadina; tutto il santo giorno ne invadevamo le strade. Ci sistemarono in due vecchi conventi, recentemente utilizzati come caserme, San Bartolomeo e Concezione. A San Bartolomeo trovarono sistemazione circa 250 persone, 150 a Concezione e circa un centinaio in appartamenti privati della cittadina. Tutti e due i conventi-caserma, pur se situati in due punti differenti della città, si trovano sulle alture e particolarmente il San Bartolomeo, dove alloggiava la maggior parte di noi si trova sul colle a ponente della cittadina, raggiungibile gradualmente per una stretta strada a gradini. Le nostre valigie furono prese a ruba al piú presto da donne facchino che si erano radunate sul posto; temevamo di non rivederle piú per lo meno una parte, ma a loro onore, a prescindere dall’alto prezzo che
abbiamo dovuto pagare, dobbiamo dire che è stato ritrovato ogni pezzo integralmente. Noi dovemmo prima pellegrinare all’economato che si trovava nella caserma Concezione, dove, dopo aver firmato, ricevemmo la biancheria da letto, due lenzuola, federa e coperta. Si offrí subito qualcuno che, con minima retribuzione, trasportò queste cose a San Bartolomeo e nello stesso tempo ci guidò su, sopra i monti. La strada, sporca, erta ed elevata a gradini portava in alto, e dopo ben venti minuti di camminata, arrivammo alla caserma. Per l’agitazione, per il caldo e per la faticosa arrampicata arrivammo stremati e sudati; tutto su di noi era fradicio ed umido. Nello spiazzo davanti alla caserma alcuni scalini portano alla chiesa di San Bartolomeo, mentre a sinistra di essa ancora qualche scalino ci porta al corridoio della casermaconvento. Nel menzionato spiazzo davanti alla caserma è grande il baccano e la confusione, la massa delle valigie, le liti per stabilire il prezzo del trasporto delle stesse: il chiasso di quelli che aspettano e di quelli che arrivano, scuote il silenzio del crepuscolo che nel frattempo sta avvicinandosi. Non appena arriviamo al corridoio della caserma, ci conducono ad un ambulatorio medico, allestito a questo scopo, dove i medici ebrei internati, per loro iniziativa, ci sottopongono ad una rigorosa visita. Spogliati nudi, alla luce di una lampada, ci esaminano minuziosamente, si interessano dello stato della nostra salute, ma soprattutto ci esaminano in particolare dal punto di vista della pulizia personale. Dichiarano anche, come risultato dell’esame, che fino a questo momento i nuovi venuti fiumani erano risultati i piú puliti. Di fatti l’effetto delle docce quasi giornaliere di Torretta7 non poteva essere controbilanciato neanche dai tre sporchi giorni della nostra permanenza in carcere. Soltanto piú tardi venimmo a sapere delle modalità e delle circostanze attraverso le quali quasi tutti gli altri internati erano alla fine arrivati a Campagna. La maggior parte di loro, se era stata arrestata a Milano, a Torino o in qualsiasi altro posto, prima di tutto e per qualche giorno languivano nella camera di sicurezza della polizia. Dopo di che capitavano nel normale carcere giudiziario, dove talvolta per lunghe settimane attendevano la disposizione del ministero, e l’indicazione del campo d’internamento. Quando il luogo di internamento veniva prestabilito dal ministero [dell’Interno], la polizia consegnava la persona in questione ai carabinieri per l’ulteriore trasferta.
Questi, dopo aver incatenato l’infelice, lo inviavano nella città piú vicina in direzione del campo, dove lo conducevano nuovamente in carcere, finché un vicino gruppo di carabinieri non lo trasportava di nuovo un pezzetto piú avanti. E delle volte, una tale trasferta, normalmente un viaggio di 24 ore, poteva durare per settimane. Si può immaginare lo stato di pulizia di questi infelici, e come era necessaria una rigorosa visita medica prima dell’entrata in caserma. Proprio per questo tributammo poi lodi di riconoscenza e approvazione per l’azione di precauzione dei nostri bravi compagni medici. In ultimo, esauriti e stanchi morti, siamo arrivati al locale destinato a noi; i compagni ci hanno dato una mano per il montaggio delle brande militari, abbiamo cenato appena qualcosa, e subito ci siamo coricati. Ci siamo immersi in un profondo sonno ristoratore dimenticando tutte le nostre miserie. Il locale nel quale siamo stati sistemati, la sala «F», è una sala lunga almeno 15 metri e larga 4, con due finestre e quattro aperture a volta arcuate verso il corridoio, da dove prende la luce e l’aria. Il grande svantaggio di questo locale è che il suo ingresso si apre dal corridoio, pieno anche quello di letti. Di fronte a questo ingresso c’è una porta che conduce al gabinetto, usato dagli inquilini di varie sale e, delle volte, il continuo viavai disturba la nostra quiete. Nella caserma San Bartolomeo il ruolo dominante era ricoperto da correligionari di origine polacca, anzi il «capo» della caserma era un medico ebreo polacco proveniente da Bologna. Questi signori erano entrati per primi nel campo, si può dire che erano stati i fondatori del campo. La caserma, che per anni era stata disabitata, ci era stato detto che gli ultimi inquilini durante la Prima guerra mondiale erano stati dei prigionieri di guerra, nel suo completo abbandono mancava di tutto. E questi pionieri avevano dovuto sistemare qui le porte, le finestre, i gabinetti, l’impianto dell’acqua, insomma erano stati loro ad installare ogni accessorio necessario, e per questo il commissario-direttore nutriva qualche considerazione nei loro confronti. Il summenzionato «capo» si comportava con noi in modo molto presuntuoso ed antipatico, la sua condotta autoritaria, che mirava a far prevalere la sua superiorità, aveva un effetto molto spiacevole su di noi. L’indomani, rinfrescati e riposati dopo la notte di sonno, ci accingiamo ad organizzare nel modo migliore possibile il corso della nostra vita di internamento. Il letto da campo poteva essere considerato soddisfacente, perché il materasso di crine era ottimo e adoperavamo i cuscini portati da
casa; il riposo notturno era al di sopra di ogni critica. Ma con questo erano anche finite tutte le nostre esigenze di comodità, perché vivevamo ammassati, uno addosso all’altro, e tutti i nostri vestiti, gli oggetti d’uso compressi nelle nostre valigie, non un posto qualsiasi per poterli sistemare. In generale mettevamo molta cura nella pulizia; ogni sala, ogni aula ed il cortile aveva l’addetto alle pulizie pagato dalla cassa comune. Era l’obbligo di ciascuno di rifare e di tenere in ordine il proprio letto, c’erano tuttavia dei compagni meno abbienti che con esigua ricompensa si occupavano di rifare ed arieggiare i letti. Malgrado la pulizia e la ventilazione soffrivamo molto a causa delle pulci. E questa calamità durò in tutta la cittadina fino al tardo autunno al sopraggiungere della stagione piú fresca. […] La direzione del campo a causa del super affollamento delle caserme, a fronte dell’osservanza di alcune formalità, aveva autorizzato gli internati a dimorare in appartamenti privati nella cittadina8. A questo scopo ci siamo rivolti al sanitario della città che, per 25 Lire ci ha visitati, e, tenendo conto della malattia dichiarata, ci ha rilasciato un certificato con il quale consigliava cure casalinghe, cioè la possibilità di residenza fuori dal campo. Anche noi ci siamo riuniti in cinque, ciascuno con il proprio certificato medico, e cosí abbiamo ottenuto il permesso di stabilirci fuori dal campo. Abbiamo girato la cittadina finché ci è riuscito di affittare un piccolo appartamento, al secondo piano sulla via principale, dal vecchio sarto. L’appartamento consisteva in una stanza abbastanza grande che dava sulla strada, una stanza piú piccola sul cortile e da una piccola cucina, e già giovedí 1° agosto ci siamo trasferiti. Quattro di noi occupavano la stanza grande, mentre la piccola l’abbiamo riservata al rabbino W. da solo. Nelle caserme si teneva tre volte al giorno l’appello nominale, a scanso di punizione, ogni internato era obbligato a essere presente, perché questo appello costituiva l’effettivo controllo. All’appello della mattina i presenti dovevano nello stesso tempo versare 20 centesimi, la somma dell’importo raccolto copriva le spese di pulizia della caserma. […] Anche quelli che risiedevano fuori dal campo dovevano presentarsi tre volte al giorno. La Questura nel portone dell’edificio della direzione del campo, aveva posto un tavolinetto con sopra un registro in cui nella pagina dov’era segnato il proprio nome, la persona, con la sua firma individuale dimostrava la sua presenza. Con la firma del sabato c’erano sempre dei
problemi, perché qualcuno di noi non voleva infrangere il divieto della religione, d’altro canto l’agente di sorveglianza non riusciva assolutamente a capire la ragione del rifiuto di firmare. Una volta il direttore-commissario minacciò sanzioni contro i trasgressori, ma quando gli fu spiegato come stavano le cose, permise che gli interessati si presentassero di persona alla polizia il sabato, ma li autorizzò a firmare l’indomani. […] Qualche giorno dopo il nostro arrivo a Campagna ci avevano richiesto di depositare in un libretto di risparmio, nella piccola locale agenzia del Banco di Napoli, i nostri contanti che eventualmente superassero le duecento lire, e di consegnarlo per la custodia alla direzione del campo. Questa disposizione è una delle regole dei campi di internamento approvata dal ministero, e soltanto in un periodo successivo ci fecero firmare un foglio a scopo di presa di atto, sul quale queste regole erano enumerate. Queste norme limitavano la nostra libertà di movimento: potevamo risiedere solamente entro una zona permessa, non potevamo abbandonare i confini della città, non dovevamo essere in possesso di contanti in eccesso e altre disposizioni di questo tenore. Dopo cinque giorni avevamo il diritto di prelevare da questo libretto cinquanta lire. Questi libretti erano gestiti da due agenti di polizia del reparto censura, che, probabilmente non godendo io della loro simpatia, si comportavano con me in modo piuttosto arrogante. Poiché a questo riguardo la direzione del carcere non esercitava quasi alcun controllo io ho ritirato completamente i soldi dal libretto, e da allora non ho piú fatto versamenti. Campagna assomigliava letteralmente a un agitato alveare, gli internati avevano invaso le sue strade, e rendevano piú vivace la sua monotona vita. A metà agosto giunse la notizia che, a causa dell’eccessivo affollamento del campo, molti sarebbero stati trasferiti in altri campi e che la lista dei nomi di coloro che sarebbero stati trasferiti era già in preparazione. Si diceva che sia una gran parte degli ebrei di cittadinanza italiana che una gran parte degli ebrei stranieri internati sarebbero stati inseriti nella lista. Secondo un proverbio ebraico il verme, anche se è nel cren, crede che sia il posto migliore del mondo. Noi non avevamo alcuna idea di come fosse la vita negli altri campi, ma comunque vivevamo giornate agitate, perché la sensazione dell’incertezza influiva su di noi in modo deprimente. Qui ognuno di noi bene o male si era sistemato, e nella nostra impotenza ci sentivamo molto umiliati che si potessero prendere decisioni su di noi
tirandoci calci a caso, qui o là. Dapprima ricevettero l’ordine di partenza gli ebrei di nazionalità italiana, che erano stati internati per cause politiche, perché sionisti, o perché coinvolti con la massoneria. Erano circa una quarantina che furono sistemati in un piccolo paese della provincia di Perugia. Dopo qualche giorno giunse il turno degli ebrei stranieri, perlopiú ebrei tedeschi e polacchi, e c’era fra loro soltanto qualche naturalizzato ebreo fiumano. Piú di cento persone furono raggiunte dall’ordine di partire, e tra questi purtroppo anche mio cognato. Tra questi partenti erano presenti anche alcuni fiumani tra l’altro anche Gr. con il suo cane. Il loro luogo di destinazione era il campo di Ferramonti in provincia di Cosenza, il quale campo nella cerchia degli internati godeva di pessima fama. Questo campo di baracche era stato costruito dallo stato italiano a qualche chilometro dal comune di Tarsia: su un malsano altopiano espressamente per gli internati. Il suo clima era assai poco salubre. L’estate di giorno il caldo è insopportabile, mentre la sera la temperatura scende improvvisamente, e questo provoca molte malattie, ma specialmente la malaria. I primi mesi l’acqua veniva trasportata qui per mezzo di carri botte, e l’illuminazione era fornita da lampade a petrolio. Ci sono moltissime zanzare e mosche, e se si vuole riposare di giorno bisogna difendersi dai loro pinzi con zanzariere di velo. C’erano piú di mille internati, uomini, donne e bambini, famiglie intere erano sistemate qui, e tutti rabbrividivano all’idea di dover essere trasferiti a Ferramonti. Per lo piú venivano allontanati i pionieri di Campagna, quelli che erano arrivati per primi. Fra i partenti c’era anche il già menzionato capo di San Bartolomeo e il suo posto fu preso da un altro ebreo polacco, il dottor Horovitz, laureato in medicina a Bologna. Queste persone partirono circa verso il 25 di agosto, parecchie corriere li portarono alla stazione di Eboli. Eravamo molto tristi e depressi, con affetto e con le lacrime agli occhi ci accomiatammo da mio cognato che, scaraventato dai capricci della sorte, spinto verso l’ignoto, si staccava da noi. Entro breve tempo c’era in preparazione una nuova lista, e nuovamente una quarantina di persone vennero trasferite nel comune di Tortoretto (Teramo). Tra quelli che si allontanavano, di nuovo partirono anche un mucchio di fiumani; la nostra colonia si stava riducendo, ma la nostra situazione non migliorava per niente. Il contingente degli internati a Campagna si ridusse a duecentocinquanta e all’inizio di settembre correva voce che tutti i residenti esterni avrebbero
dovuto rientrare nelle caserme. Già precedentemente ciascuno di noi aveva ispezionato la caserma competente per assicurarsi un buon posto. Noi eravamo assegnati alla caserma San Bartolomeo e ci siamo dati da fare per segnare i nostri posti. Dopo le grandi partenze la caserma risuonava da quanto era vuota. Col nostro massimo dispiacere la direzione del campo, per disposizione superiore, stabilí che il 10 settembre saremmo rientrati definitivamente nelle caserme. Siccome coloro che erano rimasti, abbastanza saggiamente si affrettarono a occupare le camerate e i posti migliori, a noi non era rimasta una gran scelta. Siamo stati costretti ad andare di nuovo nella camerata «F» perché altro spazio libero dove avremmo potuto sistemarci tutti insieme non ce n’era piú e il nostro gruppo desiderava rimanere unito. In questa sala i fiumani erano discretamente rappresentati e inoltre c’erano nella sala il dottor Ravitz, un simpatico giovane medico viennese, l’ingegnere Engel, slovacco, che negli ultimi anni si trovava a Fiume dove lo avevano arrestato, e inoltre il calzolaio Weinstein, emigrato viennese, Presser, comico viennese, un tipo molto gioviale, e infine ancora un medico viennese, il dottor Klein. La nostra camerata del resto fungeva anche da stazione di smistamento perché temporaneamente molti si sistemavano qui. Nell’angolo di questa sala si apriva un altro locale piú piccolo che non era stato sistemato come luogo di dimora perché pervaso da umidità. Qui abbiamo improvvisato la nostra sinagoga, dove tutti i giorni veniva recitato il servizio religioso. […] Ognuno di noi aveva trascorso tutta la propria vita in diligente, assiduo lavoro, e letteralmente era uno sforzo per noi godere dello spettante ed abituale riposo annuale. Qui invece non facevamo altro che riposare in continuazione, forzatamente e fino alla noia. I giorni scorrono in monotona uniformità senza nessuna varietà; è una vera festa se arriva posta dai nostri cari. Una delle spiacevolezze della vita nell’internamento è la censura della posta in partenza e in arrivo. Siccome il grado di cultura dei censori è di livello molto basso (cosa ci si può aspettare da un agente di polizia primitivo, forse neanche con la licenza elementare e di mentalità ristretta?), cosí siamo stati invitati a scrivere possibilmente solamente cartoline postali e in italiano. Noi che venivamo dall’Italia naturalmente senza alcuna difficoltà abbiamo corrisposto a queste esigenze, ma la grande maggioranza degli internati, formata da ebrei provenienti da altri paesi, non aveva potuto ottemperare a questa richiesta. Dunque la maggior parte della posta era in
lingua tedesca e la direzione del campo aveva incaricato della censura di questa posta un internato divenuto cristiano da lungo tempo, un ebreo di origine polacca, il dottor Zins. C’erano alcuni individui nel nostro campo, come questo dottor Zins, che vivevano assolutamente un’esistenza cristiana, la cui educazione, come pure il loro stile di vita, era a una distanza enorme dall’ebraismo, e che erano stati trascinati con la forza tra noi, solamente a causa delle insensate e disumane norme delle leggi razziali. C’erano, ad esempio, i cosiddetti mezzi ebrei, che avevano o il padre o la madre ebrei, ma che del resto fin dalla nascita erano stati educati nella religione cristiana, che non conoscevano forse né ebrei né l’ebraismo, neanche per sentito dire, anzi, come è l’abitudine di tali mezzosangue, istintivamente cercavano piuttosto di scrollarsi di dosso, di far sparire qualsiasi loro eventuale ebraicità. Verso questi individui l’ebraismo militante non nutre alcun odio o risentimento. Questi vengono chiamati nel linguaggio del Talmud9 i perduti nel flusso delle genti, neonati caduti in schiavitú, che si sono allontanati dall’ebraismo involontariamente ed ai quali, perciò, non si può chiedere conto delle proprie azioni. È il segno dei tempi, dei tempi malvagi, se questi individui sono stati qualificati come ebrei, e come ebrei sono stati pure internati. Per ritornare ai censori, ci sono stati dei casi in cui essi prendevano le loro ferie annuali, oppure, in un’altra occasione la direzione del campo si trasferiva in un altro locale, ed in quel periodo la censura, con massima contrarietà nostra e dei nostri cari, era sospesa per quasi quattordici giorni e la posta non funzionava. 6
E. Lipschitz, Una storia ebraica, ed. fuori commercio, Giuntina, Firenze 2001, pp. 115-31. Lipschitz (Suemeg 1883 - Auschwitz data ignota), cresciuto a Fiume, cittadino italiano dal ’27, commerciante, fu internato a Campagna, prima di rientrare a Fiume con l’aiuto del commissario Giovanni Palatucci (deportato e ucciso a Dachau nel 1944), ma non scampò alla cattura e alla deportazione. Diario scritto dopo il rientro a Fiume ripercorrendo gli avvenimenti dal ’39 al ’41, ritrovato dalla figlia Magda nel dopoguerra. 7 Precedente località di detenzione, a Fiume, in una scuola adibita a prigione.
8
Provvedimento temporaneo adottato dopo l’evacuazione dell’ex convento dell’Immacolata Concezione. 9 Testo sacro ebraico che raccoglie discussioni su significati e applicazioni della Torà.
«Volentieri mi tramuterei in un uccello per respirare l’aria libera» di Gisella Weisz
[Ferramonti, senza data]10 È da poco che sono in questo campo, ma già sento profondamente la nostalgia della mia città. Ciò è strano, perché essa mi era divenuta noiosa: vedevo sempre la stessa casa, le stesse vie, le stesse facce molte volte odiose, ed il mio cuore bramava un cambiamento. Ecco, il cambiamento l’ho avuto, vivo in un modo tutto diverso, e come diverso! Come rimpiango ora di aver dovuto andarmene, come odio la guerra che ci ha confinati in un terreno non piú grande di due ettari. Tutto intorno al campo ci sono delle guardie che, col fucile sulle spalle, sono pronte a sparare contro chiunque tentasse di fuggire. Spesse volte guardo con invidia gli uccellini che svolazzano spensieratamente dove vogliono, e volentieri mi tramuterei anche io in un uccello per respirare l’aria libera. Ecco cosa ci manca: la libertà! Ed è anche terribile pensare che siamo stati confinati qui perché l’Italia non aveva fiducia in noi, ciò che è ancora piú terribile per me che sono nata in Italia e che ho amato il mio paese come ogni buon cittadino italiano. Lasciando a parte ciò, gettiamo uno sguardo alla vita del campo. Ci si alza la mattina di buon’ora, ed ancora mezzi addormentati, si corre nelle cucine per prendere la colazione, con in mano i piú svariati recipienti: chi con eleganti termos e chi con semplici barattoli da marmellata. Bisogna affrettarsi però, perché se uno arriva tardi arrischia di rimanere senza cibo, ed infatti il proverbio dice: «chi dorme non piglia pesci». Tre sono i pensieri del cittadino ferramontese: correre alla cucina, essere presenti agli appelli e fare la coda allo spaccio. L’appello viene fatto quattro volte al giorno ed esservi presente è un obbligo. Lo «spaccio», come abbiamo detto, è anche una grande preoccupazione per gli internati. Infatti subito dopo l’appello una lunga fila di persone si accalca dietro allo sportello e incomincia ad aspettare finché il pacifico venditore abbia fatto il suo comodo e si degni di venire in contatto con gli aspettatori. Mentre si aspetta, si sentono le lagnanze della gente. Uno brontola che il sole gli sbuccerà la testa, il
secondo che gli schiacciano i calli, il terzo che il reuma gli fa vedere le stelle, ed un altro perfino che, essendo l’ora del pranzo, egli ha fame. Del resto le giornate sono sempre uguali, le faccende sempre le stesse, si vedono sempre le stesse bianche baracche, le stesse facce in apparenza allegre ma che nascondono nel cuore quasi sempre la nostalgia della perduta libertà. Come si vede, la vita è molto movimentata. Essa di tanto in tanto è ancora arricchita da concerti e da partite di calcio. Certe volte si vedono facce nuove che sono o dei nuovi disgraziati o dei curiosi che vengono a vedere la faccia degli internati. Se per disgrazia si mette a piovere, un nuovo venuto lo prenderebbe per il diluvio universale. Infatti qui la pioggia cade molto violenta e l’acqua si raccoglie in profonde pozzanghere, cosicché non ci vorrebbero piú di due giorni di pioggia per navigare con barchette a Ferramonti. Quando piove, perciò, non si può uscire se non ben armati di impermeabili, ma io preferisco rimanere in casa, come del resto fanno tutti, e mi metto ad ammirare il mio appartamento composto di: camera da letto, da pranzo, da bagno, salotto, corridoio, cucina, dispense, e tutto questo in un solo ambiente. Sistema ultramoderno, direte; infatti, noi abbiamo risolto il problema degli americani, i quali di uno stabile volevano formare tanti! Anche se abbiamo da lamentarci della nostra vita, noi troviamo conforto nella bontà delle autorità. Noi tutti siamo riconoscenti a loro, e specialmente al nostro direttore, e glielo dimostriamo con il nostro rispetto, ed infatti anche il piú piccolo bambino, quando lo vede, alza la mano per salutarlo. Il Direttore è amato da noi ed onorato. Di sera, dopo l’appello, non si può uscire dalle baracche, mentre queste ore serali sarebbero le piú piacevoli per passeggiare, perché dopo il sole cocente il respiro diviene piú facile e la calma scende nei cuori. Come sarebbe bello uscire per respirare l’aria fresca della sera! Il cielo è stellato, la luna fa risplendere in uno strano colore i campi ondeggianti di grano che si stendono tutto intorno a vista d’occhio. I grilli cantano, gli uccellini gorgheggiano la loro preghiera serale, insomma, la sera è qui magnifica e proprio di quella siamo stati privati dalle autorità! Ecco la vita che si conduce a Ferramonti, e speriamo che con l’aiuto del buon Dio potremo ritornare presto a casa, e di Ferramonti non ci rimarrà che un brutto ricordo lontano dalla nostra vita.
10
Acdec, Fondo Israel Kalk, b. 7, fasc. 103. Gisella Weisz (Abbazia 1927), di nazionalità jugoslava, fu internata a Ferramonti di Tarsia, dove fu liberata dagli Alleati nel settembre ’43. Pagina di diario scritta nel campo di concentramento.
«La nostra vita raccolta e studiosa è però molto monotona» di Leone Ginzburg
[Pizzoli, L’Aquila], 14 giugno 194111
Caro professore, le sono molto riconoscente per la Storia d’Europa12: le confesso che l’aspettavo con molta impazienza. Finora ho solo tagliato i fogli, perché questi giorni di permanenza di mia suocera (a parte la solita razione quotidiana di lavoro per Einaudi) sono stati un po’ di (lieta) dissipazione; ma, occhieggiando qua e là, m’è parso lo stesso di star con lei e di chiacchierare con lei di tante cose. Ieri s’è compiuto un anno da che sono qui, e nonostante la gente sia molto simpatica, non mi sono abituato se non superficialmente a questa esistenza monotona e senza scambio di idee. Ho piú nostalgia degli amici che della città; pochi amici, fra cui c’è – si capisce – Salvatorelli. Per fortuna c’è Natalia13; ma stare continuamente con i bambini la assorbe molto, e spesso la stanca; ciò non le impedisce però di vincere spesso la stanchezza e – la sera, quando i bambini sono a letto – mettersi a tavolino davanti a me che traduco o correggo bozze e lavorare per conto suo a una novella o a una traduzione: sono, quelle, le nostre ore migliori. Certo per tutto ci vuole una grande pazienza. Il nostro Santorre14, che continua a confidarmi le sue soddisfazioni e le sue preoccupazioni riguardanti La Nuova Raccolta15, mi dice adesso – la lettera è arrivata ieri – che terrebbe molto a vedere già stampata la Scienza Nuova16 alla fine del ’43, per uscire poi al principio dell’anno centenario di Vico: questo significherebbe che il lavoro di commento dovrebbe essere pronto per la fine dell’anno venturo. È possibile la cosa? Lei ci ha già pensato? Ha già iniziato i primi approcci col testo? Per la Nuova Raccolta e anche per la casa editrice questo «numero» d’eccezione è importantissimo. La signora Lidia ci ha parlato con molta simpatia di suo genero17, nel darci la buona notizia di Anna Maria18. Trasmetta a tutt’e due i nostri saluti
piú cordiali. A Lei, caro professore, e alla signora Gina19 tante cose affettuose e gli auguri piú fervidi Leone Ginzburg Pizzoli [L’Aquila], 14 dicembre 194220 Illustre e caro senatore, le scrivo a Napoli, sebbene ritenga che ella difficilmente possa esserci ancora. Vorrei avere notizie sue, dei suoi, della sua biblioteca. Mi mandi due righe, per tranquillizzarmi. Noi stiamo bene. Avremo un figlio (abruzzese) verso il principio della primavera21. Gli altri due crescono bene. La nostra vita raccolta e studiosa è però molto monotona, e se non ci siamo abituati ad essa in questi due anni e piú, credo che rimarrà sempre per noi una specie di peso. Ma il fondo dell’umore è buono. La nostra casa di Torino è stata danneggiata alla fine del mese scorso; non so che cosa sia successo negli ultimi bombardamenti. Sia Natalia che io vogliamo essere affettuosamente ricordati a tutti i suoi. A Lei particolarmente, caro senatore, vanno i nostri auguri e i nostri ossequi piú devoti Leone Ginzburg Pizzoli [L’Aquila], 1° agosto 194322 Illustre e caro senatore, non era neppure cartapesta [il fascismo], dunque, ma carta velina. Ma quasi non c’è posto per la gioia, di fronte alla tragica situazione del paese. Avevo intenzione di scriverle a lungo dopo la mia liberazione, senonché questa va per le lunghe, giacché la Questura di Aquila mi considera tuttora straniero, avendo io perso la cittadinanza italiana per le leggi razziali23, e mi assimila ai rifugiati ebrei di diversa nazionalità! Per farmi un piacere, hanno sottoposto il caso al Ministero dell’Interno24, ma questo avrà ben altro da fare, in questi momenti, che occuparsi di me. Le lascio immaginare, poi, il senso di malinconia e di rabbia che mi dà il continuare a essere considerato straniero nel mio paese. Se ella crede di poter intervenire in mio favore, intanto per farmi liberare subito, e in un secondo tempo per farmi restituire la cittadinanza (a meno che non giunga intanto una formale abrogazione
della legge razziale, per adesso improbabile), gliene sarò profondamente riconoscente. Dico «se ella crede di potere» perché, nonostante il telegramma del ministro Severi25 e il tono «crociano» del «Giornale d’Italia», ignoro quale sia il suo atteggiamento verso il governo. Io, per quanto mi concerne, non vorrei domandare nessuna concessione speciale; chiedo bensí che mi sia resa giustizia. In calce a questa mia le segno alcune date che mi concernono: davvero, se le scrivessi a qualcun altro che non fosse lei, mi parrebbe di presentare un conto, e me ne vergognerei26. Spero di poterla rivedere molto presto, caro senatore. I miei stanno bene, compreso la piccola Alessandra, nata ad Aquila il 20 marzo scorso, e perciò sua comprovinciale. Natalia ebbe a mandarle tempo fa la sua versione di Cahiers di Montesquieu: spero che le sia giunta. Ci ricordi affettuosamente ai suoi; a lei, la devozione e la gratitudine di ora e di sempre del suo Leone Ginzburg La sua casa, a Napoli, ha subito danni? e i libri? 11
L. Ginzburg, Lettere dal confino 1940-1943, Einaudi, Torino 2004, p. 61. Ginzburg (Odessa 1909 - Roma 1944), cresciuto in Italia, tra i fondatori della casa editrice Einaudi, fu estromesso dall’Università per non aver prestato giuramento al Pnf e fu condannato al carcere e al confino per l’appartenenza a GL; dopo l’armistizio fu nuovamente arrestato, nella tipografia clandestina del Pd’A a Roma, e consegnato ai tedeschi che lo torturarono e uccisero a Regina Coeli. Il primo documento è una lettera allo storico Luigi Salvatorelli. 12 L. Salvatorelli, Storia d’Europa dal 1871 al 1914, vol. I: 1871-1878, 2 tomi, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Milano 1940. 13 La moglie Natalia Ginzburg, nata Levi (Palermo 1916 - Roma 1991), scrittrice, nel 1983 eletta deputato del Pci. 14 Santorre Debenedetti (Acqui 1878 - Giaveno 1948), poeta e filologo. 15 «Nuova raccolta di classici italiani annotati» dell’Einaudi, voluta da Ginzburg e inizialmente diretta da Santorre Debenedetti. 16 La scienza nuova di Giambattista Vico, che in realtà non venne pubblicata nella «Nuova raccolta di classici italiani annotati». 17 Carlo Casalegno.
18
Figlia di Salvatorelli. 19 Gina Minciarelli, moglie di Salvatorelli. 20 L. Ginzburg, Lettere dal confino cit., pp. 182-83. Cartolina postale a Benedetto Croce, trasferitosi da Napoli a Sorrento, dove aveva portato anche una parte dei suoi libri. 21 Alessandra, nata a L’Aquila il 20 marzo 1943. 22 L. Ginzburg, Lettere dal confino cit., pp. 254-55. Lettera dattiloscritta a Benedetto Croce. 23 Il Regio decreto legge n. 1381/1938 aveva revocato la cittadinanza agli ebrei che l’avevano ottenuta dopo il 1° gennaio 1919. 24 Il 3 agosto la Prefettura dell’Aquila chiese istruzioni al ministero dell’Interno che il giorno seguente comunicò la revoca del provvedimento di internamento. 25 Leonardo Severi, ministro dell’Educazione nazionale nel primo governo Badoglio. Severi aveva inviato a Croce un telegramma, il cui testo («In questi giorni scuola italiana rivolge suo pensiero a Voi con ammirazione e gratitudine. Vogliate gradire con quella l’espressione dei miei personali sentimenti dei quali conoscete la profonda sincerità») era stato pubblicato su «Il Giornale d’Italia» del 18 luglio 1943. Con la caduta di Mussolini, la direzione del giornale era stata ripresa dal fondatore, Alberto Bergamini. 26 La frase «e me ne vergognerei» è aggiunta a mano. In calce alla lettera Ginzburg aggiunge alcune indicazioni anagrafiche e sulle condanne subite.
La caduta del fascismo, l’armistizio, i primi eccidi e le grandi retate
«Non abbiamo piú, come si suol dire, né casa, né vigna, né tetto» di Emma De Rossi
[Livorno] 26 luglio 19431 Grandi avvenimenti si preparano: Mussolini è caduto, il Re assume il comando di tutte le forze armate e nomina Capo del governo primo ministro segretario di Stato, il maresciallo d’Italia Badoglio. 29 luglio 1943 Grandi manifestazioni di gioia in tutta l’Italia per la caduta di Mussolini, ma per ora mi pare una situazione molto imbrogliata. Churchill, nel suo discorso, ha parlato chiaro: o resa a discrezione o guerra ad oltranza. La guerra, ha detto, continuerà allora implacabile su tutti i fronti della penisola: da nord a sud. Ora tanto il Re che Badoglio hanno detto: la guerra continua, terremo fede alla parola data. Come conciliare questi due punti? Io vedo nero secondo il solito, ma sfido chiunque a veder chiaro! Verranno abrogate le leggi razziali? Ancora non si sa nulla, ma fino a che siamo in mano dei tedeschi (e tutta l’Italia è in mano dei tedeschi), sarà difficile. Ma Israele non muore lo stesso. Basta ricordare un salmo di David che dice: Tutti i popoli si sono riuniti per distruggerci. Essi dicono: venite, neanche il nome di Israele deve esistere piú. Invece dopo tanti secoli viviamo ancora! Ho letto, non ricordo piú dove, se in qualcuno dei nostri libri di preghiera, oppure in un altro salmo, un passo che parlando dei nostri nemici trionfanti su di noi, diceva presso a poco cosí: essi si inorgogliscono, ma è Dio che li ha armati e periranno prima di noi. Ecco, Mussolini è caduto e noi siamo sempre vivi. Cadrà anche Hitler! Non so quando, ma certo prima di Israele! Sono dunque convinta che sia volontà di Dio che Israele viva ancora, forse fino alla fine dei secoli. In questi ultimi tempi, sono diventata piú osservante dei precetti religiosi, perché mi pare che, tralasciando, tutti i nostri figli finiranno per voltarsi dall’altra parte ed io desidero che almeno qualcuno della nostra discendenza contribuisca a questa continuità d’Israele.
Agosto 1943 Malinconia! Malinconia! Mi ci voleva anche l’itterizia perché mi aumentasse ancora la malinconia! Ma ci vuol pazienza e prendersela in santa pace. Passerà… speriamo. Settembre 1943 Si aspettano grandi avvenimenti dopo la caduta di Mussolini, ma per ora siamo sempre allo stesso punto. Il fascismo è caduto, ma la guerra continua spietata. Gli inglesi hanno occupato tutta la Sicilia e da qualche giorno sono sbarcati in Calabria occupando Reggio ed alcune località vicine. Continuano i bombardamenti: Milano di nuovo, con danni enormi, si dice sia un cumulo di macerie… a Pisa la stazione è stata distrutta il 31 agosto. Le vittime sono innumerevoli. Corre voce siano tre o quattro mila. 9 settembre 1943 Ieri sera mentre eravamo a tavola è entrata la donna di servizio gridando: la guerra è finita! Nessuno ci voleva credere, ma tutti siamo corsi per avere notizie. Abbiamo saputo che Badoglio ha firmato l’armistizio, con l’ordine di cessare ogni ostilità contro gli anglo-americani e di reagire ad eventuali attacchi da qualunque altra provenienza. Che cosa accadrà? Che Dio ci aiuti ancora! 10 settembre 1943 Che giornate di ansia passiamo! Sono cessate le ostilità contro gli angloamericani, ma i tedeschi affondano le nostre navi, disarmano i nostri soldati che si vedono girare per le campagne forse in cerca delle loro case. Hanno poi circondato Roma, hanno occupato Grosseto e Livorno. Insomma in tutta l’Italia settentrionale e centrale comandano i tedeschi. Nella parte meridionale comandano gli anglo-americani. Si dice siano sbarcati a Napoli. Povera Italia, diventata un campo di battaglia! È possibile che Dio ci abbia abbandonato cosí? Non è possibile. Con tutto il mio pessimismo ho fiducia che torneranno tempi migliori. Come? Quando? Dio lo sa.
11 settembre 1943 L’orizzonte si fa sempre piú nero. Dio sa che bufera si prepara! Il mio pessimismo riprende il sopravvento. Comincio a perdere la fiducia in tempi migliori. I tedeschi sono a Roma, hanno liberato Mussolini e si dice che anche lui sia a Roma. Tornerà il governo fascista con le sue infami leggi? Del Re e di Badoglio non si sa nulla, non si sa dove siano. E gli angloamericani cosa fanno? Non c’è nessuna notizia. I tedeschi hanno rotto ogni comunicazione con l’Italia meridionale. La radio, Roma, i telefoni, tutto è in mano loro. Giornali non ce ne sono, la posta non va, i treni vanno Dio sa come. Non vedo un raggio di luce da nessuna parte ed intanto anche la mia itterizia è peggiorata e cosí vedo ancora piú nero. Ma ho fede in Dio e questo mi sorregge. 25 settembre 1943 Mussolini è in Germania, ha proclamato la repubblica fascista, ha fatto un discorso alla radio. Ha nominato i suoi ministri e si dice che verrà in una città dell’Italia settentrionale a presiedere il Consiglio dei ministri. 26 settembre 1943 Che nero si vede all’orizzonte! Ieri a Cecina c’erano i manifestini che bisogna sgomberare entro 24 ore, allontanarsi dalla costa 5 chilometri, io ero sgomenta. Andare dove? Come? Io che sono anche malata. Poi hanno detto che non era obbligatorio e quindi abbiamo deciso di restare, per ora. Soltanto abbiamo fissato 3 o 4 stanze a Guardistallo che andranno ad occupare i ragazzi e dove, a casi persi, andremo anche noi (fra tutti siamo 16 persone)!!! 27 settembre 1943 Io sto sempre al solito, anzi oggi è una giornataccia. Ho un malessere, una malinconia addosso che mi opprime e mi fa vedere tutto ancora piú nero. Che sia l’ultima malattia? La spada di Damocle che sentivo sospesa sulla testa, che si allenta ed è pronta a cadere?
29 settembre 1943 Oggi mi sento un po’ meglio ed allora vedo meno nero, torna la speranza che le cose si accomodino. I russi avanzano in oriente. Gli anglo-americani, anche loro, in Italia meridionale avanzano lentamente, ma avanzano. Badoglio è con loro. Graziani2 invece si è schierato dalla parte dei tedeschi, come pure il Conte Calvi di Bergolo3 . 26 ottobre 1943 Mattina e sera, giorno e notte, noi Ti invochiamo: vieni a salvarci, o Signore! L’Italia diventata ormai un campo di battaglia è divisa in due parti: l’Italia insulare e meridionale è occupata dagli inglesi, l’Italia centrale e settentrionale, dai tedeschi. Gli italiani non hanno piú voce in capitolo. Mussolini ha dichiarato decaduta la monarchia, ha proclamato lo stato fascista repubblicano, ha nominato i nuovi ministri, presiede il consiglio dei ministri come capo del governo, pronuncia discorsi alla radio, ma è agli ordini di Hitler. Cosa direbbero se alzassero la testa i primi fautori dell’indipendenza italiana? Noi toscani siamo dunque sotto il dominio germanico che si potrebbe chiamare dominio del terrore, specialmente per noi ebrei. Infatti da qualche giorno corre voce, con insistenza, che siano ricercati gli ebrei, presi e deportati chissà dove! Anzi si dice con sicurezza che a Roma siano già avvenuti fatti simili4 e sul Lago Maggiore5. Si assicura che circa un mese fa sia stato perquisito un grande albergo dove i tedeschi avrebbero fatta una retata di ebrei e non si sa dove li abbiano mandati. Dicono che alcuni di questi siano stati trucidati. Inoltre si racconta che in Francia, dopo l’occupazione germanica, siano stati presi provvedimenti simili: prendevano gli ebrei in massa, mettevano gli uomini in un campo di concentramento, le donne in un altro e i bambini in un altro. Poi cosí divisi li mandavano Dio sa dove, perché non avessero piú modo di riunirsi ed alcuni di questi venivano anche massacrati! Questo si racconta, ma mi pare impossibile sia vero! Permetterà Dio cose simili? Certo il periodo che attraversiamo è uno dei piú tragici della storia d’Israele. Comunque, queste notizie, vere o false che siano o magari un po’ esagerate, hanno messo il terrore in tutte le famiglie ebree. Tutti vanno escogitando il modo di salvarsi. Ma come? Chi ha potuto ha varcato la frontiera, questi non credo
siano molti. Dei genitori pensano di rifugiare i propri figli nei conventi, per salvarli. Anche i nostri figli hanno pensato a questo per i loro ragazzi. A me dispiace molto che i miei nipoti – quelli rimasti ebrei – vadano a rifugiarsi nei conventi e poi molto facilmente si perdono anche loro per l’ebraismo. Ma chi prende la responsabilità di consigliare? Io non posso fare altro che pregare Dio che li protegga e li serbi nella nostra fede. 31 ottobre 1943 Venerdí 29 era corsa voce qui che la radio aveva annunziato che c’era l’ordine di rinchiudere tutti gli ebrei in un campo di concentramento. Che serata e nottata abbiamo passato! La mattina seguente, cioè ieri, abbiamo letto sul giornale che non era stato emanato un decreto legge, ma che soltanto a Roma in un’assemblea del fascio, uno sfegatato fascista aveva fatto questa proposta e che fossero fucilati tutti i fascisti traditori, primo fra tutti Galeazzo Ciano. Per ora non c’è alcun decreto, purtroppo però ci arriveremo, intanto c’è il tempo di respirare e possibilmente di provvedere. 8 novembre 1943 Battaglie decisive non ce ne sono state, né in Italia né sul fronte russo. Siamo sempre, si può dire, allo stesso punto. Tutti i giorni c’è qualcosa di nuovo: ora è venuto ordine di sgomberare Livorno. Entro il 12 la popolazione civile deve avere abbandonato la città. La nostra farmacia andrà chiusa ed Ugo ed Aleardo verranno qui. Ma dovremo andarcene anche da qui? Carlo è sempre in compagnia con Paola ed Elena. Con la farmacia chiusa come ce la passeremo? Ma che Dio ci aiuti! I ragazzi sono partiti ieri l’altro sera. Che Dio li accompagni e li protegga sempre. Quando potremo avere loro notizie? Dio solo lo sa. Sul giornale di ieri sera c’era l’annunzio che sono allo studio nuove leggi razziali sul modello di quelle della Germania. Che Dio ce la mandi buona! Ilda che è studiosa della Bibbia dice che anche queste persecuzioni erano prevedute. Dice che una profezia di Isaia annuncia un castigo per tutta l’umanità e aggiunge: castigherò anche voi, ma in un’altra maniera degli ariani, e la casa sarà il campo di concentramento? Non so cosa ci sia di vero in questo che dice Ilda e se io ricordo bene quello che ha detto. Qui non ho neanche una
Bibbia per fare delle ricerche ed in ogni modo chissà se gli occhi mi servirebbero, ché la mia vista sta peggiorando ogni giorno. 18 novembre 1943 Anna e Giorgio sono partiti l’altra settimana per ignota destinazione e noi, avendo dovuto di nuovo cambiare residenza, siamo qui da tre giorni in casa di un amico, giacché non abbiamo piú, come si suol dire, né casa, né vigna, né tetto. La nostra casa di Livorno è crollata col primo bombardamento del 28 maggio, la farmacia è chiusa e capitali non ne abbiamo. Quanto potremo andare avanti se le cose non cambiano? 6 dicembre 1943 Le nuove leggi razziali sul modello di quelle di Norimberga, che già da parecchi giorni i giornali avevano annunziato che erano allo studio, sono state emanate. I prefetti hanno già avuto l’ordine di riunire tutti gli ebrei, anche se discriminati, in campi di concentramento e di sequestrare tutti i loro beni, mobili ed immobili. Tutti i giorni poi si scrivono sui giornali articoli velenosi contro gli ebrei, che non possono essere in buona fede e sono una vera infamia. Io so di non aver mai fatto male a nessuno, almeno volontariamente, ma soltanto del bene quando ho potuto. Ho amato l’Italia con tutte le forze dell’animo mio. Nell’altra guerra ho fatto quanto era in me per concorrere in qualche modo alla vittoria delle armi italiane: ho passato si può dire la vita negli ospedali, ho lavorato per mandare pacchi ai soldati, la sera fino a mezzanotte. E quando sono venute le terribili giornate di Caporetto ho pianto di dolore e di vergogna. Avrei dato la vita per salvare l’Italia! E quando, finita la guerra, è venuta quell’ondata rossa che voleva menomare la nostra vittoria e sentivo parlare di Ufficiali assaliti per le strade, di bandiere italiane strappate e perfino sputacchiate, quanto ho sofferto! Quando poi venne il fascismo a valorizzare la nostra vittoria, allora ho gioito! Povera ingenua, povera illusa! Non sapevo cosa avrebbe portato il fascismo! Ferventi patriotti come me erano tutti i membri della mia famiglia, tutti i miei parenti ed amici (giudei, come dicono loro). Tutti abbiamo mandato con entusiasmo i nostri figli alla guerra per la grandezza dell’Italia! E poi come siamo stati compensati? L’Italia ci ha rinnegato! Tutti
abbiamo fatto il nostro dovere, seguendo l’esempio dei nostri genitori, nonni e bisnonni, tutte persone probe fino all’eccesso. Dio giudicherà e forse ci aiuterà. Se poi nelle Sue vie imperscrutabili avrà decretato diversamente, chineremo il capo alla Sua santa volontà, e chiederemo a Lui la forza di sopportare il male che ci ha mandato e di morire, se occorre, col Suo nome sulle labbra. 1
Nei tempi oscuri. Diari di Lea Ottolenghi e Emma De Rossi Castelli. Due donne ebree tra il 1943 e il 1945, Comune di Livorno, Belforte & C. Editori, Livorno 2000, pp. 176-81. Emma De Rossi (Livorno 1868-1952), dopo una vita dedicata allo studio e alla famiglia (aveva cinque figli), a 75 anni dovette fuggire in clandestinità a Bolgheri (Livorno). Diario dal 6 giugno 1943 al novembre 1945. 2 Il generale Rodolfo Graziani (Filettino 1882 - Roma 1955), maresciallo d’Italia, già governatore di Libia e viceré d’Etiopia; a fine settembre del 1943 accettò l’incarico di ministro della Guerra del governo della Rsi. 3 Il generale Carlo Calvi di Bergolo, genero del re (aveva sposato nel 1923 Jolanda di Savoia), dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 fu posto al Comando di Roma Città Aperta; non avendo accettato di aderire alla Rsi, fu arrestato dai tedeschi e confinato in Piemonte. 4 Razzia degli ebrei romani, 16 ottobre 1943. 5 Eccidio sul Lago Maggiore, 15-23 settembre 1943.
«L’ARMISTIZIO è stato accettato, tutti sono felici ma nello stesso tempo molto allarmati» di Clementina Jesurum
Venezia, 10 settembre 19436 […] Intanto ti dirò, prima di tutto, che l’ARMISTIZIO è stato accettato dagli anglo-americani il giorno 8 settembre e che tutti sono felici ma nello stesso tempo molto allarmati, perché adesso non sappiamo assolutamente come si comporteranno i nostri buoni amici tedeschi che ci calcolano traditori e ci insultano. Ma per fortuna non si combatte piú e tante vite saranno risparmiate. […] Si vivono giornate d’ansia e di preoccupazione. Gli avvenimenti si susseguono, si accavallano. Notizie false e vere circolano, si ingrandiscono, sono smentite. Si vive trepidando, attendendo di ora in ora di sapere quale sarà il nostro destino. […] Già dal 27 luglio MUSSOLINI è stato dimissionario e al suo posto nuovo capo del governo italiano è ora S[ua] E[ccellenza] Badoglio. Non ti dico l’esaltazione di quel giorno, la gioia, la pazzia generale. Conserverò un biglietto che Renzo7 aveva lasciato sulla tavola perché io lo leggessi alla mattina. Lui la notizia l’aveva saputa alla sera alle 11, si era rivestito e stava uscendo per andare dagli Ancona. Ma io l’ho sentito aprire la porta e l’ho chiamato. Allora figurati il mio eccitamento. Abbiamo brindato con caffè e pinza8 perché non c’era altro e fino a ore piccole non ho saputo addormentarmi. Venezia, 19 settembre 1943 Ti ho accennato dell’armistizio fra l’Italia e gli anglo-americani e del giubilo veneziano che vedeva cosí finiti gli spargimenti di sangue assolutamente inutili e il ritorno a casa di tante giovani vite. Ma le cose sono andate diversamente e molto male... I tedeschi hanno occupato, sia pure come alleati, tutte le città italiane installandosi da padroni, e il DUCE è stato da loro liberato. Non si capisce come, non si sa ancora se sia vero, ma pare sia libero e abbia anche parlato ieri sera alla radio da Monaco dove
si troverebbe tutt’ora. Io non credo gran che a tutto questo, ma per lo meno qualche cosa di vero e di cosí brutto ci dovrebbe essere. Come situazione mi pare non sia bella. Per questo molta gente è scappata e in particolare gli ebrei che quasi tutti si sono eclissati. […] Domani mattina Papà andrà a Seren [del Grappa] o a Susin [di Sospirolo] per vedere di trovare un buco qualsiasi dove potersi installare tutti e cinque alla meno peggio. Sballottati di qua e di là, roba da matti! Venezia, 26 settembre 1943 […] Pare cominci di nuovo la storia del servizio obbligatorio per il lavoro. Speriamo non facciano le cose troppo severamente specialmente per gli ebrei. Però ora è soltanto per gli uomini. Venezia, 21 ottobre 1943 […] Pare ci siano cose gravi in giro per noi [ebrei]. A Roma hanno fatto strage, dicono che a Mestre sia passato un carro bestiame pieno di ebrei diretto in Germania. Di positivo c’è che l’avvocato Levi9 ha mandato alla sua signorina a mano di terzi un biglietto nel quale assicura di essere «vivo per miracolo». […] Domani vedrò il Papà e cosí sentirò anche da lui cosa pensa di fare. Dicono che a Venezia girano già per le case. Venezia, 5 novembre 1943 […] Pare che comincino a portar via la roba agli ebrei e che occupino anche le case. Venezia, 19 novembre 1943 Freddo, un freddo maledetto. Nervi, nervi maledetti. Sono stufa della stupida, vuota vita che faccio, sono stufa di star qui senza far niente dicendo stupidaggini e stando a sentire chi dice stupidaggini, sono stufa di stare a letto fino alle 11 per il freddo, d’aver freddo e d’aspettare l’ora d’andare a mangiare e poi a letto. Sissignori, sono stufa di non far niente e di non poter far niente. Por... Ma no, lasciamo andare. Creperanno una
buona volta tutti i maledetti e ritornerà un po’ di vita normale e non pazzesca come quella che tutti noi conduciamo adesso. L’ultima novità è che il fascio e i fascisti di non so dove hanno fatto proposta al nuovo governo repubblicano di considerare gli EBREI, NEMICI. Se la cosa dovesse essere accettata il minimo che ci potrebbe capitare sarebbe la bella prospettiva di un campo di concentramento, sperabile in Italia! Papà per questo voleva spedirci e spedire lui a Zianigo, cosa che mi spaventa e che spero non debba tradursi in realtà. 6
Ap Massimo Demma cit. Renzo Levis. Il biglietto è integralmente citato nell’introduzione. 8 Dolce a base di farina gialla, uova e uvette. 9 Raffaello Levi, avvocato di Venezia trasferitosi a Roma, il cui studio era curato in sua assenza da Guido Levis. 7
«A Meina erano accaduti fatti assai gravi» di Giulio Mortara
17/9/194310 Sono a Gallarate in officina: Cossia è a Milano per affari. A mezza mattina ho la sorpresa di veder giungere in bicicletta Chicco11 direttamente da Ispra. Mi racconta che poco dopo la mia partenza è arrivata la Signora Rolla per avvertire anche a nome del marito che il giorno prima ad Arona e a Meina erano accaduti fatti assai gravi12. Reparti delle S.S. e della Milizia hanno arrestato nelle case, per la strada, in pubblici locali, gran numero di ebrei. Gli arrestati sono fatti salire su autobus e condotti non sa dove. Meina si trova sul Lago Maggiore quasi di fronte a Ispra. La cosa si presenta quindi assai grave e bisogna correre ai ripari perché quello che è accaduto sulla sponda piemontese del lago è possibile possa verificarsi anche sulla sponda lombarda. Prendo quindi la bicicletta di Cossia, dato che fino al pomeriggio non avrei avuto a disposizione treni comodi, e con Chicco percorro i 30 chilometri per ritornare a casa. Trovo la Rina13 preoccupata ma calma: il pericolo si manifesta, stando alle notizie raccolte, esclusivamente per me. Occorre trovi il modo di nascondermi. Il Signor Soma, nostro padrone di casa, viene a dirmi che in caso di bisogno può accogliermi nella soffitta della sua villa, in un posto al quale è impossibile accedere se non per i tetti. Il Signor Crema e i Signori Perugia, che abitano anche a Ispra, sono già spariti. Vengono a trovarmi altri conoscenti, i Signori Brovelli, che vorrebbero prestarci qualche aiuto. Mentre stiamo parlando arriva la notizia che due automezzi carichi di soldati tedeschi si sono fermati davanti al Municipio. Che abbia a ripetersi a Ispra quanto è accaduto ad Arona e a Meina? Io e Chicco scappiamo di casa, dopo aver abbracciato la Rina e Alberto14, scendiamo al lago e andiamo a sdraiarci in un canneto nel quale pensiamo sia difficile scovarci: Chicco ha con sé i remi della barca perché ci sia possibile allontanarci in caso di bisogno. Dopo piú di un’ora sentiamo la Rina che ci chiama e rientriamo in casa. I Tedeschi sono partiti: erano venuti soltanto per prendere accordi per la consegna
delle armi e annunciano che ritorneranno domani a ritirarle. Ad ogni modo non è prudente restare in casa, e nel nascondiglio di Soma non è possibile entrare se non col buio dato che nessuno, nemmeno i contadini, deve sapere dove mi sia rifugiato. Attendiamo cosí la notte e intanto prendiamo gli accordi sui passi che la Rina tenterà l’indomani per trovarmi un nascondiglio definitivo. La via migliore sembra quella suggerita dal Parroco che ha presentato la Rina al direttore del Seminario di Barza: questi con la Rina si recherà l’indomani ad Albizzate dove pensa vi siano possibilità per il mio accoglimento in quell’Ospizio. Giunta la notte passo nel nascondiglio della Villa Soma: porto con me un materasso, coperte e viveri per una giornata. Mi sdraio un poco, ma alle prime luci mi metto in vedetta, scostate leggermente due tegole, per vedere quanto accade nella mia casa. Vedo la Rina uscire presto per andare ad Albizzate, e piú tardi Chicco che fa un cenno di saluto quasi mi sapesse in osservazione, e Alberto che gioca in giardino coi suoi amici, ignaro di avermi cosí vicino. La giornata passa alla meno peggio: l’ambiente non è certo molto adatto per un soggiorno prolungato: il tetto che, alto nel mezzo, scende ai due lati non mi lascia altro che un breve tratto nel quale potermi muovere con la persona eretta. Ho però abbastanza luce e posso leggere. Ogni tanto ritorno al mio osservatorio e verso sera vedo arrivare la Rina che si intrattiene a lungo in giardino a parlare con i padroni di casa. Tento invano di capire dalla sua espressione l’esito della sua missione. Non c’è che attendere il buio. Sono le 22 quando il Signor Soma viene a liberarmi e finalmente posso ritornare a casa. La Rina è contenta di aver potuto combinare ad Albizzate per il mio soggiorno: sono atteso per l’indomani e partirò con Chicco col primo treno in maniera da incontrare poca gente. Partirò con poco bagaglio. Penserà poi la Rina a rifornirmi. Poche ore mi restano per riposare: ma dormo tranquillamente. La Rina ha avuta un’ottima impressione dell’Ospizio di Albizzate dove il direttore, don Luciano Tosi, l’ha accolta con molta cortesia e comprensione. Prendiamo gli accordi per poterci vedere con una certa frequenza e perché anche Chicco, che cercherà di andare piú spesso a Gallarate, possa venirmi a trovare. Bacio il piccolo che dorme: due giorni prima me lo sono preso vicino e ho cercato di spiegargli in maniera per lui piú comprensibile quello che sta capitando. Mi ha capito benissimo e l’ho visto commosso. Ora non ho il coraggio di svegliarlo.
18-23/9/1943 Arrivo con Chicco a Gallarate senza aver fatto incontri con persone sconosciute. A Vergiate, sul campo della S.I.A.I.15 sventola la bandiera uncinata: a Gallarate il comando Stazione è stato assunto dai tedeschi. Da Gallarate ad Albizzate il viaggio è breve. Il direttore, giovane sui 35 anni, mi accoglie con molta cortesia e mi accompagna subito nella camera che mi è stata assegnata nell’ala del fabbricato dove sono le aule e i dormitori dei bambini. La camera è piccola ma graziosa: in pieno sole si affaccia sulle ultime colline che digradano verso la piana lombarda. […]16 Poiché gli arresti di Arona e Meina (si seppe piú tardi che l’opera delle S.S. si era estesa a tutta la costa fino a Stresa) non sembrava avessero avuto riscontro in alcuna parte d’Italia, ed essendo diffusa l’impressione che potesse trattarsi di un episodio isolato destinato a risolversi rapidamente, pensai che fosse inutile prolungare la permanenza ad Albizzate e d’accordo con i miei decisi di partire nuovamente per Ispra e di riprendere la mia vita normale di lavoro. 24/9/1943 Senonché mentre in stazione a Gallarate aspettavo la coincidenza per Sesto Calende mi vidi capitare Chicco che parecchio agitato mi informò che dal Lago Maggiore il giorno prima erano stati ripescati i cadaveri di alcuni degli arrestati nei giorni precedenti. Mi fermassi quindi e non pensassi per il momento di ritornare a casa. Non avevo da scegliere e poco dopo mi ritrovavo ad Albizzate dove i buoni sacerdoti e il Parroco del posto, magnifica figura di uomo, ex cappellano degli arditi, ascoltarono inorriditi le notizie che recavo loro. A quanto Chicco mi aveva raccontato alcuni dei cadaveri ripescati, legati e carichi di pesi che avrebbero dovuto trattenerli sul fondo del lago, presentavano le caratteristiche ferite prodotte da colpo di rivoltella sparato alla nuca. I metodi nazisti avevano cosí applicazione anche in Italia con la complicità di italiani, dei fascisti che si erano resi loro complici col metterli nelle loro mani. Particolari atroci si ebbero nei giorni successivi da Rolla e da alcuni suoi amici, da don Maronati, direttore del Collegio De Filippi col quale la Rina e Chicco ebbero occasione di entrare in cordiali rapporti, dai barcaioli del traghetto Arona-Angera. Le vittime
arrestate in vari paesi della costa piemontese del Lago, da Arona a Stresa, vennero concentrate a Meina in un albergo di proprietà di un ebreo di nazionalità turca17 che arrestato in un primo momento, venne poi rilasciato per l’energico intervento delle autorità consolari: in seguito riuscí a riparare in Svizzera. Vennero uccise piú di quaranta persone e fra le vittime furono parecchi i bambini e figli di matrimoni misti. La famiglia del Comandante Jarach18 e poche altre persone, o per caso o perché avvertiti in tempo da qualche buona persona, riuscirono a partire appena in tempo: inutile riferire tutti gli orrendi particolari che a poco a poco affiorarono da questa triste vicenda. Debbo però affermare che l’accusa lanciata, per tentare l’alibi, dallo sparuto gruppo di fascisti di Arona che il Comandante Jarach fosse in possesso di una stazione radio trasmittente, è risultata assolutamente falsa. Il delitto fu freddamente premeditato e i fascisti di Arona prestarono la loro complicità col compilare gli elenchi degli ebrei della zona e col mettere nelle mani delle S.S. le vittime da abbattere. 10
Adn Dg-01. Mortara (Bologna 1891 - Bogliasco 1960), impiegato in banca, dopo l’armistizio si rifugiò in Svizzera. Diario scritto sotto forma di corrispondenza con la madre Berta Donati, dal 19 settembre 1943 al 9 luglio 1945; l’autore comincia a scrivere all’inizio del ’44 rievocando gli avvenimenti del settembre-dicembre ’43. 11 Il primo figlio, Enrico. 12 Eccidio sul Lago Maggiore, 15-23 settembre 1943. 13 La moglie, Caterina Riccoboni. 14 Il secondo figlio. 15 Società Idrovolanti Alta Italia, industria aeronautica nota come Savoia Marchetti. 16 Segue descrizione della struttura e della vita condotta nei giorni di permanenza. 17 Giorgio Behar, proprietario dell’Hotel Meina. 18 Federico Jarach (Torino 1874 - Milano 1951), presidente della Comunità ebraica di Milano negli anni Trenta e dell’Ucii dal ’37 al ’39. Trasferitosi dopo aver ceduto l’azienda di famiglia a causa delle leggi
razziali, sfuggí al rastrellamento tedesco su barca a remi. In seguito si nascose a Roma in clandestinità.
«Una terribile notizia si sparse: dei cadaveri erano stati trovati nel lago» di Becky Behar
[Svizzera, novembre 1943]19 Nella notte del 19 [settembre 1943] giunsero all’albergo [Hotel Meina] due macchine tedesche per portar via questi poveri ebrei arrestati. E nelle prime ore del mattino una terribile notizia si sparse in tutto il paese: dei cadaveri erano stati trovati nel lago da dei pescatori, ricondotti a riva molta gente affermava trattarsi di quei disgraziati ebrei deportati durante la notte. Come credere a queste orribili voci? Mi parve incredibile e decisi allora di recarmi sul luogo e di rendermi conto io stessa sulla verità dei fatti. Lo spettacolo che si presentò allora davanti a me fu terribile, purtroppo non tardai molto a riconoscerli, erano loro! Povera gente innocente, che triste sorte il destino aveva riservato loro! Avevano dovuto subire una orribile morte perché erano trasfigurati. Un nodo mi serrò la gola mentre li osservavo, ed a stento riuscivo a respirare, possibile? mi domandavo che simili atrocità possano esistere, questa mostruosità tedesca sorpassa in orrore ed in crudeltà tutto quello che lo spirito piú diabolico può immaginare. Lasciato quel posto con impressa nei miei occhi la visione di quei cadaveri mi trovai a camminare, senza accorgermi, in riva al lago, ed una forza misteriosa poteva spingermi dentro da un istante all’altro… ma mi parve di udire una vocina interna dirmi: «Coraggio, Becki, vedrai che un giorno questi innocenti saranno vendicati!» A stento riuscii a raggiungere l’albergo e lí, mentre il grande dolore si poteva scorgere nel viso di tutti, i tedeschi nei salotti bevevano e ballavano, come se nulla fosse successo, e chi non riusciva a trattenere le lacrime doveva nascondersi per piangere: i tedeschi non tollerano che si pianga le loro vittime! Sembrerebbe un romanzo giallo, ma purtroppo queste e molte altre ancora sono le barbarie commesse dai nazisti. E pure la nostra vita era in pericolo; da un giorno all’altro un trasporto tedesco poteva condurci alla morte, bisognava quindi agire subito. Decidemmo quindi di scappare dalle grinfie di quei banditi. Separatamente
nelle prime ore del mattino partimmo: mia sorella ed io alla volta di Varese e lí restammo fino a che i miei genitori ci raggiunsero. Ma ben presto apprendemmo che i nostri nemici avevano scoperto il nostro nascondiglio e fuggimmo di nuovo. Che vita di vagabondi fu quella! Ricordo che alle volte non sapevo neppure dove si nascondeva il resto della famiglia. Ma ben presto capimmo che in quel modo non potevamo continuare e che oltre al pericolo della nostra vita vi era pure quello delle persone che gentilmente si erano prestate ad ospitarci, risolvemmo di partire per la Svizzera, la cosa era alquanto pericolosa, ma senza esitare piú a lungo la mettemmo in pratica. 19
M. Nozza, Hotel Meina. La prima strage di ebrei in Italia, Net - Il saggiatore, Milano 2005, pp. 276-77. Rachel (Becky) Behar (Liegi 1929 Milano 2009), cittadina turca trasferitasi a Milano con la famiglia, durante la guerra sfollò a Meina dove il padre rilevò l’hotel che fu teatro della prima strage di ebrei in Italia (alla quale si riferisce il brano); si salvò grazie all’aiuto del console turco, rifugiandosi in Svizzera con la famiglia. Diario su un quaderno scolastico scritto nel novembre ’43.
«Varie centinaia di Ebrei sono stati presi dai tedeschi nei vari rioni di Roma» di Rosina Sorani
[Roma] Sabato 25 settembre 194320 Questa mattina il dr. [Gennaro] Cappa, Capo dell’Ufficio Razza del Ministero dell’Interno21, è venuto in ufficio per dire al signor Presidente, avv[ocato] comm[endatore] Ugo Foà22, che la sera alle ore 6 era atteso all’ambasciata di Germania per comunicazioni urgenti e che vi si fosse recato insieme a S[ua] E[ccellenza] Dante Almansi, Presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane. Infatti la sera alle sei, il sig[nor] Presidente insieme a S[ua] E[eccellenza] Almansi si è recato all’Ambasciata, ove è stato intimato loro dal Capitano Kappler23 di consegnare entro 36 ore kg. 50 di oro, perché altrimenti, trascorso tale termine, sarebbero state prese in ostaggio 200 persone, le quali sarebbero state tirate a sorte tra tutti gli Ebrei di Roma e deportati in Germania. Domenica 26 settembre 1943 La mattina, molto per tempo, mi è stato telefonato dal signor Presidente per dirmi che avessi telefonato a tutti i consiglieri e ai maggiorenti della Comunità invitandoli per le ore 10 in Ufficio per comunicazioni urgentissime. Infatti telefonai subito a tutti e per le ore 10 erano già tutti venuti. Alle 10,30 è venuto il sig[nor] Presidente il quale ha tenuto Consiglio presenti anche i piú influenti della Comunità. Vi era anche S[ua] E[eccellenza] Almansi. Il sig[nor] Presidente ha comunicato loro la richiesta fattagli dall’Ambasciata [tedesca]. Detto quantitativo di oro doveva essere consegnato alle ore 12 del giorno 28 settembre 1943. Lunedí martedí 27-28 settembre 1943
Giornata di gran commozione. Raccolta dell’oro. Grande affluenza di pubblico specialmente del popolino. Vi erano tre persone che pesavano e saggiavano l’oro; le signorine impiegate che facevano le ricevute ed io avevo in consegna l’oro raccolto. Tutti ciò venne esplicato nella Sala del Consiglio. Martedí 28 settembre 1943 Verso le ore 11,30 visto che ancora non si era raggiunto il quantitativo richiesto, il sig[nor] Presidente si è recato all’Ambasciata [tedesca] per sentire se potevano dare ancora qualche ora di dilazione dato che le 12 erano prossime. È stata accordata la dilazione sino alle ore 16 dello stesso giorno dopo tanto insistere. Io sono sempre stata nella stanza del sig[nor] Presidente come da suo desiderio, durante tutto il tempo che si è pesato l’oro per metterlo nelle scatole per portarlo via. Oltre il quantitativo dell’oro si sono raccolte anche L[ire] 2 021 540 in denaro. Raggiunto il quantitativo, la porta della stanza del sig[nor] Presidente è stata chiusa e davanti ad essa vi è stato, per tutto il periodo che l’oro doveva ancora stare in ufficio, un metropolitano. Io non mi sono mossa per tutta la giornata dall’ufficio; è rimasto con me anche il sig[nor] Renzo Levi. Alle ore 16 il sig[nor] Presidente si è recato, accompagnato da S[ua] E[ccellenza] Almansi, dal dr. Cappa, Capo dell’Ufficio Razza del Ministero dell’Interno, da due agenti24, dal pesatore Anticoli Angelo25 e da altre due persone dei nostri, all’Ambasciata [tedesca] per consegnare l’oro richiesto26 . Mercoledí 29 settembre 1943 (Vigilia di Capo d’Anno) La mattina, come di solito, eravamo tutti in Ufficio e stavamo già tutti lavorando, quando ci siamo visti invadere gli uffici dai soldati tedeschi: erano circa una quarantina tra ufficiali, soldati ed interpreti. I soldati erano armati coi fucili mitragliatori e nella strada vi erano delle mitragliatrici e due grossi carri armati che sarebbero dovuti servire per sfondare il portone caso mai l’avessero trovato chiuso. A noi impiegati non ci hanno piú fatto uscire dal salone sino a che non se ne sono andati. Ciò è avvenuto verso l’una, tranne a me, che ho sempre seguito il sig[nor] Presidente e gli ufficiali tedeschi per tutto il tempo che sono stati in ufficio.
Giovedí 30 settembre 1943 (Primo giorno di Capo d’Anno) Questa mattina sono venuti gli ufficiali tedeschi per visionare gli uffici del secondo e terzo piano, specialmente le due Biblioteche. Venerdí 1° ottobre 1943 (Secondo giorno di Capo d’Anno) Sono tornati i due ufficiali tedeschi per studiare i volumi delle due biblioteche ed altri hanno parlato con il sig[nor] Presidente in una stanza del terzo piano chiedendo delle informazioni che il sig[nor] Presidente non ha dato con tutte le minacce che gli sono state fatte. Sabato 2 ottobre 1943 Questa mattina sono stati in casa del Rabbino Capo prof[essor] comm[endator] Israele Zolli27 accompagnati dal fabbro per forzare la porta perché la casa è vuota essendosi il Rabbino subito allontanato appena i tedeschi sono entrati a Roma. Hanno portato via alcuni volumi di ebraico e delle carte di poco valore. Lunedí 11 ottobre 1943 Questa mattina, come il solito, mi ero recata in ufficio per vedere se vi fosse nulla di nuovo. Infatti, dopo poco mi vedo presentare due ufficiali tedeschi; ero sola in ufficio, e dopo aver visitate nuovamente le biblioteche uno di essi si è attaccato al telefono. Ha telefonato alla ditta Otto e Rosoni per sapere quando potevano mandare un vagone per caricare i libri: saputo che il vagone sarebbe venuto dopo qualche giorno, si sono rivolti a me e mi hanno detto che loro avevano visto molto bene quanti libri vi erano, in che ordine stavano e dichiaravano quindi le due biblioteche sotto sequestro, che fra qualche giorno sarebbero venuti a prendere i libri ed avrebbero dovuto trovare tutto al loro posto come lasciavano: in caso contrario io ne avrei dovuto pagare con la mia vita. Riferii subito la conversazione al sig[nor] Presidente quando è venuto la mattina e mi ha detto che avessi subito chiuso tutto e che non avessi per nessuna ragione dato le chiavi a nessuno, neppure a lui stesso.
Mercoledí 13 ottobre 1943 (Vigilia di Succod28) Questa mattina si è presentato in ufficio un uomo della ditta Otto e Rosoni per caricare della roba che dovevano portare via subito. Io feci vedere che non sapevo di che cosa si trattava. Allora telefonai alla ditta, la quale mi disse che serviva per trasportare i volumi delle biblioteche e che avessi atteso perché sarebbe venuto un ufficiale tedesco. Giovedí 14 ottobre 1943 (Primo giorno di Succod) Infatti questa mattina alle ore 8,30 si è presentato il solito ufficiale. Vi era anche un impiegato della ditta ed alcuni facchini i quali hanno trasportato tutti i libri della Biblioteca della Comunità posta al secondo piano meno quelli che erano nella stanza del Rabbino Capo e parte dei libri della Biblioteca del Collegio Rabbinico del terzo piano dalla parte della stanza grande. Per gli altri mi è stato detto che non sapevano quando sarebbero ritornati per ritirarli, forse dentro la prossima settimana. Questa asportazione dei libri è durata tutta la giornata. Alla fine l’ufficiale mi ha ringraziata e mi ha detto brava: io gli ho risposto che molto volentieri avrei fatto a meno del suo brava. Sabato 16 ottobre 1943 (Terzo giorno di Succod) Varie centinaia di Ebrei sono stati presi dai tedeschi nei vari rioni di Roma e specialmente nel Ghetto. Sin dalla mezzanotte del venerdí hanno piantonato i portoni di quelli che dovevano essere presi ed alla mattina del sabato alle sei hanno cominciato la retata che è durata per varie ore. Uscita di casa come il mio solito per andare alla portiera del Tempio per vedere se vi fosse nulla di nuovo, mi venne detto da una ragazza che non mi fossi mossa da casa perché prendevano gli Ebrei; io non volli credere e continuai ad andare avanti, ma giunta nelle vicinanze della fioraia a Ponte Garibaldi mi venne detto da un Ebreo che non fossi andata in ufficio perché vi era pericolo di essere presa; non persuasa di ciò continuai per la mia strada, ma quello stesso Ebreo che era vicino alla fioraia mi ha richiamato indietro intimandomi di non andare piú oltre, perché ancora passavano i carri tappezzati di nero che trasportavano gli Ebrei; difatti ne
vidi uno carico: vi erano uomini, donne e bambini. Allora stetti alcuni istanti indecisa non sapendo che cosa fare. Infine decisi di telefonare al sig[nor] Presidente, lo avvertii che avevo urgente bisogno di parlare con lui per una cosa gravissima. Mi rispose che avessi atteso, che sarebbe venuto subito in ufficio; io gli dissi che ciò era assolutamente impossibile, che bisognava che io fossi andata subito da lui. Mi recai da lui prima delle otto per rendergli noto quanto avveniva e per cercare di farlo allontanare subito da casa. Ho telefonato a mio fratello29 perché mi trovasse un alloggio; mi ha mandato all’albergo Milano ove sono stata sino al lunedí e da qui sono andata in via Cremona 71 presso la signora Lallai, una signora vecchia ma molto buona. I tedeschi a quelli che trovavano nelle case imponevano di seguirli e consegnavano o facevano soltanto leggere il seguente biglietto 1) Insieme con la vostra famiglia e con altri Ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti; 2) Bisogna portare con sé: viveri per almeno 8 giorni, tessere annonarie, carta d’identità e bicchieri; 3) Si può portare via una valigetta con effetti e biancheria personali, coperte ecc., denari e gioielli; 4) Chiudere a chiave l’appartamento e prendere la chiave con sé; 5) Ammalati, anche casi gravissimi, non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo; 6) Venti minuti dopo la presentazione di questo biglietto, la famiglia deve essere pronta per la partenza. 20
Ottobre 1943: cronaca di un’infamia, Comunità israelitica di Roma, Roma 1961, pp. 35-39. Rosina Sorani (Roma 1895 - ?), impiegata della Comunità, mantenne il suo posto anche sotto l’occupazione tedesca sfuggendo alla razzia del 16 ottobre grazie ad alcuni passanti che l’avvertirono mentre si recava al lavoro. Diario dal 26 settembre 1943 al 4 giugno 1944 con annotazioni saltuarie. 21 Gennaro Cappa, capo del Servizio razza della Questura di Roma. 22 Ugo Foà (Firenze1887-Roma1953), presidente della Comunità israelitica di Roma. 23 Herbert Kappler (Stoccarda 1907 - Soltau 1978), comandante della Gestapo a Roma, responsabile, tra l’altro, del massacro delle Fosse Ardeatine. 24 Brigadiere Oreste Vincenti e guardia semplice Vincenzo Piccolo del Commissariato Campitelli.
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Noto orefice romano, catturato il 16 ottobre, fu deportato ed ucciso ad Auschwitz. All’operazione di raccolta e trasporto dell’oro parteciparono anche Marco Limentani, Giuseppe Gay e Settimio Di Cori, coadiuvati da alcune impiegate della Comunità. 26 In realtà la consegna non avvenne presso la sede dell’Ambasciata tedesca a Villa Volkonski, ma in Via Tasso, dove formalmente aveva sede l’Ufficio di collocamento dei lavoratori italiani per la Germania. 27 Israel Zoller (Brody 1881 - Roma 1956), rabbino capo. Dopo la Liberazione si convertí al cattolicesimo prendendo il nome di Eugenio Pio in onore di papa Pio XII per ringraziarlo di aver salvato numerosi ebrei, destando molte polemiche. 28 Festa dei tabernacoli, il cui principale precetto è abitare in capanne per sette giorni. 29 Settimio Sorani (Roma 1899 - Firenze 1982). Catturato e torturato dai tedeschi in via Tasso, dopo il rilascio fu attivo nella Delasem insieme a Dante Almansi.
La fuga e la caccia all’uomo
In clandestinità
«Le spiate sono un pericolo sempre incombente» di Silvia Forti
Ulivello [Firenze] 18 ottobre 19431 L’incertezza è stata troncata dal precipitare degli eventi. A Piúbega non potevamo piú stare, e ne siamo partiti in un mattino d’autunno cosí nitido e puro, che ogni foglia dei pioppi pareva intagliata e incastrata in un mare d’azzurro. Siamo partiti per il sud, cosí, come le rondini, in cerca di salvezza, senza una meta precisa. A Roma, dove ci conoscono troppo, non possiamo andare; ci fermiamo a Firenze. Arrivando cerchiamo di un amico che non c’è; è fuori città. Ne incontriamo un altro, per caso, nell’albergo in cui scendiamo. Si mostra allarmato e spaventato di saperci lí, in albergo, esposti alla piú semplice delle indagini. Decidiamo di ripartire l’indomani; andremo in una villa del Chianti, all’Ulivello. La notte passa quasi tutta in rifugio. Perché gli alleati scorazzano per il cielo, nella chiarità della notte stellata. Al mattino ripartiamo, e, dopo qualche ora di cammino, l’Ulivello ci accoglie nella sua pace. Ci pare di ritrovare la casa, ci pare di ritrovare un amico; sopratutto ci distendiamo nella sensazione nuova di sicurezza e di riposo. Ulivello 22 ottobre 1943 La villa è piena di ospiti, tutti sfollati dalla città per i bombardamenti; siamo in diciotto fra grandi e piccini; un po’ a disagio in casa, ma che meraviglia fuori! Al mattino mi incanto alla finestra, quando il pallido sole non ha ancora dissolta la nebbia che ricopre la pianura, e i colli si inseguono in un mare lattiginoso, con una lievità che sembra immateriale. Abbiamo ritrovato qui molti ricordi sereni, e le care ombre che rivivono fra i cipressi e gli ulivi, sembrano consolarci e proteggerci. Di giorno e specie di sera, il campanello suona frequente; è un gruppo di due o tre giovani patrioti2, di quelli che vivono nei dintorni alla macchia, che viene a far raccolta di cibarie; ognuno dà quel poco che può dare, ed aggiunge una parola di augurio: «non ci piglieranno, quei maledetti, a costo di morire
quest’inverno di freddo e di fame; non ci piglieranno». A notte alta, dei velivoli girano sulla zona, si abbassano sino quasi a sfiorare la cima dei cipressi; sono osservatori tedeschi, che cercano di scoprire le tane dove vivono i patrioti; basta un fuoco all’aperto, per far correre pericolo di morte a questi nostri ragazzi. Molti erano abituati a vivere fino a ieri, nell’agiatezza e nella raffinatezza; oggi sono sporchi, laceri, affamati, ma decisi a tutto, pur di poter lottare, finalmente per la libertà. Ulivello 12 novembre Ci dicono che in paese due o tre fascisti hanno cominciato a fare indagini su di noi; non siamo mai usciti dal cancello della villa, eppure c’è chi sa che ci siamo, e purtroppo c’è chi non esita a fare la spia. Ora, ad ogni scampanellata, tremiamo; spesso la zona è battuta dalle S.S. tedesche ed italiane in cerca di ribelli; e tutti gli ebrei che vengono trovati, sono portati via. Ricominciamo a far le valigie ed a chiederci: dove andare? Ulivello 16 novembre 1943 Oggi è passato davanti alla villa un autobus, di quelli che facevano il servizio passeggeri, ed ora servono alla polizia; era carico di donne, bambini e uomini anziani, tutti ebrei, sorpresi ed arrestati all’Impruneta e dintorni. Non possiamo piú esitare; dobbiamo sottrarci al fascino che ci lega a questa pace e riprendere il vagabondaggio. Domattina all’alba, a piedi, evitando le vie battute, scendere un’altra volta in città. Firenze 18 novembre 1943 Tutti i giorni escono nuove disposizioni con lo scopo di colpire noi, direttamente od indirettamente, e di impedire agli altri di aiutarci. Molti avvisi coprono le mura della città; sarà punito severamente chi dà asilo ad ebrei, chi non li denuncia, chi procura loro carte false, ecc. ecc. Quasi tutti i giorni grandi carrozzoni chiusi si fermano davanti a qualche casa; poco dopo scende fra le S.S. una signora, una coppia anziana, qualche volta un’intera famiglia; la gente guarda da lontano, piange, si fa il segno della croce. Questi arrestati sono portati direttamente alle carceri: poi non se ne
sa piú nulla. Ogni tanto un treno, carico di vittime, parte per il nord, e nelle carceri si fa nuovo spazio per le nuove retate. Neppure il medico, neppure il cappellano, può avvicinare questi «criminali»; dicono che appena in carcere, il nome viene cancellato, ed a ciascuna vittima viene dato un numero che la distingue ed identifica dentro, ma che quelli di fuori ignorano. Firenze 20 novembre 1943 Finalmente un amico può procurare anche a noi carte di identità sotto altro nome; con queste, troviamo un asilo in città. Ogni e qualsiasi cosa che porta il nostro nome deve venir distrutta; ogni indizio, sia pur vago, della nostra personalità, può perderci. È venuto il momento di separarci da ogni cosa che parla del passato. Stanotte ho pigiato in una cassetta di metallo documenti, lettere, fotografie; verranno riportati in villa e sepolti in un angolo del giardino. Da oggi sono la signora Lombardi, e mio marito è rappresentante di medicinali, profugo con me dalle terre liberate. Raccomando a mio marito di tacere sempre, perché veramente se parla… non si sente in lui il commesso viaggiatore; ed io mi sforzo di diventare ancora piú modesta, piú insignificante e sfuggente… non bisogna destare sospetti; le «spiate» sono un pericolo sempre incombente. 25 febbraio3 L’occasione di mandare la lettera è sfumata, speriamo adesso. L’Erminia della Pietra4 vi può essere utile? 1
S. Lombroso, Si può stampare. Pagine vissute 1938-1945, Dalmatia Editrice, Roma 1945, pp. 15-17. Silvia Forti (Verona 1889 - Firenze 1979), sposata con Ugo Lombroso, figlio dell’antropologo Cesare, col quale emigrò in Francia; rientrati in Italia dopo l’occupazione tedesca, si nascosero in clandestinità a Firenze. 2 Partigiani. 3 Scritto aggiunto in seguito, in attesa di spedire la lettera. 4 Sede della Pro-infanzia israelitica di cui Luisa si era occupata.
«Oggi purtroppo nel mondo è tutto rovina e distruzione» di Adriana Neppi Modona
[Parrana San Martino] 15 maggio [1944]5 Carissimi, vi confermo una lunga lettera che vi ha scritto Margherita il 10 maggio. Spero presto riceveremo posta anche da voi, in questo periodo di cosí gravi pensieri per tutti è un grande conforto ricevere la posta dei parenti che per un momento sembra rendere meno sensibile la distanza e l’isolamento. È prossima la Pasqua e vi pensiamo molto intensamente ricordando la vostra cara scomparsa6 e rievocando i bei tempi quando le Feste venivano solennizzate con tante belle riunioni familiari. Oggi purtroppo nel mondo è tutto rovina e distruzione. Confidiamo in giorni migliori e auguriamoci di poter presto realizzare il sogno di pace che è in tutti cosí vivo. Qui noi quattro discretamente, il tempo è splendido ma non possiamo godere del giardino perché il piano terreno è tutto occupato da numerosi ospiti... e quadrupedi, quindi molta confusione ovunque. E voi seguitate a fare belle passeggiate coi ragazzi? Chi sa come si saranno fatti grandi i cari cuginetti. Da Bruno dopo l’ultima breve cartolina inviataci da Genova non abbiamo avuto altre notizie. Molte buone cose da noi tutte per tutti e un abbraccio Adriana7 5
Ap Lionella Neppi Modona cit. Adriana Neppi Modona (Bologna 18981966), durante la guerra si rifugiò con la sorella Margherita nella casa di campagna dell’amica Maria Sahadun a Parrana San Martino (Collesalvetti, Livorno). Lettere su carta semplice alla famiglia di Aldo Neppi Modona ad Anghiari (Arezzo); per motivi di sicurezza il mittente è Luigi Cini, un dipendente della famiglia presso la quale le due donne erano nascoste. 6 Ada Carpi. 7 Seguono altri scritti: «Col pensiero molto affettuosamente a voi cari invio auguri vivissimi di buona salute e tranquillità. Buona Pasqua. Molti baci ai cari nipotini e a voi dalla affezionatissima zia Ernesta». «Affettuosi
auguri con tanti cari pensieri e ricordi, vostra Margherita». «Sinceri auguri e saluti affettuosi, Maria».
«Desideravo che aveste le nostre buone notizie, per quello che i tempi permettono» di Leone Ambron
[Roma] 22 maggio [1944]8
Carissimi, che bella cosa che il vostro viaggio a Firenze sia andato bene, anche se la vista del villino9 ridotto in condizioni pietose non avrà mancato di rattristarvi! La vostra cara lettera, cosí gradita, si incrociò con la nostra, che credo a quest’ora avrete ricevuta da parecchi giorni… Della nostra vita qui abbiamo ben poco da raccontare: le giornate passano presso a poco tutte uguali, e potrebbero essere anche abbastanza piacevoli, nonostante la loro monotonia, se si avessero maggiori motivi di tranquillità e pensieri piú lieti. La mattina mangiamo sempre in trattoria, e la sera la Luisa dà prova della sua scienza culinaria, che non è ancora molta ma che va crescendo manifestatamente, anche se essa stessa riconosce di non averci disposizioni eccezionali. Io aiuto, e sono soprattutto addetto all’apparecchiatura della tavola. Il tempo cosí bello, e non ancora troppo caldo nonostante la primavera avanzata, ci permette di passare buona parte del pomeriggio passeggiando o leggendo in uno di questi splendidi giardini, e spesso anche di dormire sdraiati su un prato, se troviamo qualche angoletto non troppo in vista. A volte ci incontriamo con amici e parenti, e tutti ci chiedono molto di voi, quasi meravigliandosi di non vederci tutti riuniti; e davvero che bella cosa sarebbe se fosse stata e fosse possibile! Quando ci capita di passare da via E[manuele] Filiberto10 mi sembra quasi di dover salire a prendervi per fare una passeggiata, o di vedere affacciati a una finestra i visi sorridenti dei… Stavo per dire dei bimbi senza pensare che ora mi troverei davanti una giovinetta piú che tredicenne insieme con un valoroso condottiero degli spartani dall’aspetto fiero e marziale. Il quale ormai temo non mi permetterà piú di chiamarlo ancora semplicemente Leo lasciando il nida nella penna. Basta, vedremo se ancora li riconoscerò quando ci troveremo di nuovo insieme, e speriamo davvero che sia presto. Ora, carissimi, non voglio trattenervi di piú con queste chiacchiere; desideravo
soltanto che aveste le nostre buone notizie, per quello almeno che i tempi permettono. Con i piú affettuosi abbracci v[ostr]o Leone 8
Ap Lionella Neppi Modona cit. Ambron (Firenze 1886-1979), ingegnere, dopo l’armistizio si rifugiò a Roma con la sorella Luisa da una cugina cattolica. Lettera su carta semplice alla famiglia di Aldo Neppi Modona ad Anghiari (Arezzo). Per motivi di sicurezza il nome del mittente è Stefanini, una cugina cattolica di Leone. 9 Casa della famiglia Neppi Modona a Firenze, dove Aldo e la moglie si erano recati alcuni giorni per una visita medica. 10 Abitazione dei Neppi Modona a Roma, dal ’37 al ’39.
«Dopo pochi passi l’ufficiale tedesco cominciò a dire caput» di Luisa e Silvia Zaban
[Cingoli, Macerata], 29 luglio [1944]11 Continuo dopo circa 15 giorni per narrare la nostra settimana cruciale. Ed ora riprenderò dal punto in cui questo povero diario fu interrotto. Qualche cosa ha scritto Luisa in data 20 maggio, ma erano notizie svisate per paura che una seconda volta venisse preso e letto12. Il 2 maggio, data per noi memorabile, Luisa ebbe molto piú di una semplice febbre. Ed ecco cosa accadde. Erano le otto del mattino e dormivamo ancora. Ci vennero a chiamare per dirci che soldati tedeschi volevano parlare con Luisa. Subito si alzò e si vestí. Ci dissero che il comandante la desiderava. Intanto avevano circondato la casa di mitragliatrici. Luisa capí la gravità della cosa, ma non mi disse nulla. Prima però di partire fecero nella nostra camera una accurata perquisizione e ci sequestrarono le lettere, questo povero diario e le carte di legittimazione. Partirono i soldati e Luisa. Io ero calma e tranquilla, perché convinta trattarsi di qualche informazione o altra cosa di nessuna importanza. Col passare del tempo però cominciavo a stare in pena. Mi alzai e, debole com’ero, non facevo che andare in su e in giú per le scale; non trovavo pace da nessuna parte. I vicini tutti mi cercavano di consolare. Intanto cominciavano a venire dall’Avenale le prime chiacchiere sul conto di Luisa: che era stata presa per una straniera, che stava subendo un interrogatorio. Ero tanto in pensiero, ma ben lontana dall’immaginarmi un pericolo tanto grave, com’era in realtà. Quando Dio volle, verso le tre, le vedette poste sulla strada mi annunciarono che si avvicinava Luisa. Giunse finalmente, ma in quali condizioni! Si sfogò con un gran pianto e poi ci narrò la cosa con esattezza. «Quando uscii da casa, trovai davanti alla porta circa una dozzina di soldati, i quali avevano piazzato le mitragliatrici tutto intorno alla casa. Sollevarono mitragliatrici e altre armi e, messami in mezzo, ci avviammo. Un soldato camminava davanti a me, uno a sinistra (ufficiale tedesco) uno a destra e una decina dietro me, in fila per uno. Camminammo cosí per circa mezz’ora, fino all’Avenale. Dapprincipio ero
calma. Chiesi ad un soldato perché mi avessero presa ed egli mi rispose che il capitano me lo avrebbe detto. Dopo pochi passi l’ufficiale tedesco cominciò a dire caput13 e questa parola la ripeté lungo tutta la strada. Io ero tanto tranquilla e lontana dal fatto che, sebbene avessi capito il significato della parola, non potevo ammettere d’essere accusata di qualche cosa di grave. Giungemmo cosí all’Avenale e mi condussero subito contro il muro della chiesa, dove qualche giorno prima avevano fucilato tre altri disgraziati innocenti. Immaginai che mi avrebbero fucilata senza processo, come erano usi a far loro, invece mi si presentò il capitano e altri due ufficiali tedeschi. Il capitano, per mezzo dell’interprete, mi accusò di essere una spia russa. Secondo loro poco tempo prima ero stata in Russia, ed ora ero in comunicazione con i partigiani della montagna, ai quali portavo ordini. Alle mie attestazioni di essere italiana, di non aver mai visto né Russia né partigiani, mi risposero che nulla era vero, che erano tutte bugie. Se non avessi parlato, mi fece capire un ufficiale tedesco, ci sarebbe stato il fucile mitragliatore. Cercarono in tutti i modi di intimorirmi. Quando vidi che non c’era alcun modo per assicurarli della mia innocenza, mi rivolsi al capitano tedesco e gli chiesi chi fosse stato ad accusarmi. Egli rispose che c’erano delle persone che lo avevano fatto. Io dissi allora che volevo vederle e mi risposero che sarei stata accontentata. Mi portarono quindi in mezzo ad uno spiazzo, dove avevano portato tutti i giovani rastrellati, piú di un centinaio. Mi misero in mezzo a loro e chiesero se qualcuno mi conosceva. Uno si fece avanti e disse che ero una maestra che faceva lezione. Anche la zia di uno scolaro asserí lo stesso. Non furono però per niente persuasi e mi portarono in una stalla. Mi rinchiusero in uno sgabuzzino poco piú grande di un armadio, dove dei soldati e altri avevano fatto i loro bisogni. Mi rinchiusero lí dentro e mi raccomandarono di non fuggire. Alla porta misero un soldato armato che cambiava ogni due ore. Quelle furono le ore peggiori. Ero però ancora abbastanza calma; sebbene la situazione fosse gravissima, tuttavia non sentivo di dover morire. Ogni tanto mi mettevo a piangere e allora i soldati sottovoce per non farsi sentire mi dicevano qualche parola. Subii piú tardi altri interrogatori da un sergente italiano e mi domandarono infinite cose. Sospettarono che i ribelli mi pagassero, perché non comprendevano di cosa vivessi. Mi fecero insomma i conti
addosso. Riuscii a persuaderli di tutto; quello che fu piú difficile fu riguardo alla corrispondenza che non era indirizzata a noi. All’una mi portarono da mangiare, ma naturalmente non potei inghiottire nemmeno un boccone, poi mi permisero di sedermi sul prato, naturalmente sempre sorvegliata da un soldato armato. Finalmente dopo le tre ritornò il sergente e mi disse che ero libera e che dovevo andare dal capitano. Questi mi disse che potevo andare a casa, ma che non potevo muovermi, che sarei stata sorvegliata e a loro disposizione. Riebbi i miei documenti e, camminando come un’ubriaca, me ne ritornai a casa. Piú tardi i Colletti, ritornati dall’Avenale, dove parlarono col capitano, mi dissero che potevo considerarmi libera del tutto. Il capitano aveva cercato informazioni a Cingoli e si era persuaso della mia innocenza. Piú tardi seppi che con grande probabilità ero stata accusata da un Albanese che era passato di lí e che lo aveva fatto per salvare una Russa che andava in montagna per portare ordini ai patrioti». 11
Adn Dg/Adn. Le sorelle Luisa e Silvia Zaban (Trieste 1911 - Riccione 2008 e Trieste 1913 - Riccione 1997), persero il posto di insegnanti in seguito alle leggi razziali e dopo l’armistizio fuggirono da Trieste con l’ultimo treno in partenza mentre i tedeschi occupavano la città, rifugiandosi in clandestinità a Cingoli in provincia di Macerata (21 familiari furono deportati e 19 morirono, tra cui i genitori). Diario a matita su un quaderno dal 17 novembre 1943, preceduto da una breve descrizione degli anni precedenti, al 30 settembre 1945, con annotazioni saltuarie. Inizia a scrivere Silvia, poi le autrici si alternano, non sempre riconoscibili. Vedi anche E. Morpurgo - L. e S. Zaban, Guerra, esilio, ebraicità: diari di donne nelle due guerre mondiali, Irsmlm, Il lavoro editoriale, 1996. 12 Il diario era stato sequestrato dopo l’arresto di Luisa da parte dei tedeschi. 13 Kaputt, morto.
«Questa lettera difficilmente ti arriverà. È spaventoso questo silenzio» di Alberto Lecco
[Villa d’Adda (Bergamo)], 14 agosto 194414 Lontano. Sempre piú lontano da tutto quello che può venire da te. Mare, montagna, strade, strade, sopra le strade il cielo sempre uguale, senza una nuvola, quasi bianco. Città, treno, campagna, collina, dove un fiume fa un angolo, io vado sull’erba e nel silenzio penso quando ritornerò. Le montagne sono dietro, sento la loro presenza e questo mi tranquillizza, fra un mese o due cadrà la prima neve. È un paradiso qui, un luogo benedetto da Dio. Sembra che non esista la morte. Qualcuno canta sulle tre corde del banjo una terribile canzone dove si parla della casa e in genere di quelli che vanno lontano o portati dalla necessità. Qualche cosa ora è deciso inesorabilmente, che io non ritornerò prima che la guerra sia finita. Mi passano vicino. Mi chiedono «Ma cosa scrivi sempre?» «Ho una ragazza» dico. «Va bene, ma come fai a trovare sempre qualche cosa da dire?» Dieci, venti fogli come questi e ancora nulla di detto. I prati, il cielo, l’aria di questa terra, la tristezza della canzone, io ho una ragazza mia, ma non vive con me, e questa è una cosa difficile da spiegare: che la mia donna non viva con me e come me e allora io devo tutto raccontare su queste pagine: il cielo, la terra, la luna, il sole fra gli alberi e come la terribile canzone entra nell’anima mia, mentre io guardo il lentissimo fiume. Ho un costume bianco, meraviglioso, nuoto fra le alghe, mi lascio trascinare dalla corrente un centinaio di metri, penso a te. Mi diverto a sputare fra le galline, per constatare tutte le volte con tristezza e una strana associazione di idee che si precipitano addosso allo sputo come se fosse qualcosa di buono da beccare. Costruisco paragoni, mi alzo, osservo calmo «lo stuolo di questi animalucoli». Dico: «Camerati polli…» Chissà perché le capre hanno la barba. Il cielo è spaventosamente limpido, di una chiarità che fa male. Da domani comincerò a studiare: Divina Commedia e letteratura italiana. Non capisco perché non sei venuta con me. Oggi è inutile dire che
sarebbe stato meraviglioso con il fiume, i crepuscoli caldi, le canzoni sul banjo, la vita come un sogno. Non sei venuta. C’è una coppia di giovanissimi sposi: letterati. Scrivono, traducono, studiano, hanno molti libri, si baciano, si accarezzano di sera lungo il canneto, vicino all’acqua, guardano. Vedete, tutti possono essere cosí felici. Allora ho parlato di te, perché per loro era come per noi, una casa dove nessuno capiva niente, un lento morire e un disperato sogno di vita in questo morire, la solitudine in ogni momento. Mi hanno detto: «Hai fatto male, dovevi portarla con te, via. Andare via, bisogna andare via quando le cose stanno cosí». Lei è carina, i capelli annodati sulle spalle. «Va a prenderla – mi dice – portala qui». E ride. Fra un’ora sarà quasi buio, sul fiume una debole nebbia. Mi sembra una cosa possibile venire da te, pensandoti lungo la strada, e trovare te che mi aspetti, con i disegni, i miei quaderni, l’orologio, qualche vestito, Rembrandt, Eschilo nelle tragedie e tutta la felicità nei tuoi occhi per aver trovato il coraggio di sognare un sogno meraviglioso. Non sono proprio sposi come pretendono gli uomini, ma si vogliono bene. Cosí è, Annalisa, tanti e poi tanti incontri nel loro conoscersi e stare insieme che a guardarli danno il senso di un’armonia perfetta. Anche per loro l’amore è venuto dopo, grande, infinito, come un dono di Dio per aver cercato l’amore. Per amare bisogna vivere, Annalisa, è quasi come ha detto un poeta, mio amico, per vivere bisogna amare la vita e per amare la vita bisogna vivere15. Forse a noi è mancato un momento d’audacia, come nel sonno quando ci si accorge di sognare e sono aperte due vie, o continuare a sognare, o svegliarsi per mille paure. Ecco, questo momento, e in questo si può decidere, perché non si sogna e non si è perfettamente svegli. Si, è cosí come bisogna essere quando si deve decidere qualche cosa di molto importante. Verrà anche per noi quel sonno, quel momento, un sogno per tutta la vita, insieme, insieme, insieme. Ecco perché ti dico di venire da me, ogni cosa che vedo devo raccontartela. Devo spiegarti com’è qui, col fiume, le galline, il canneto e di sera le canzoni che parlano di casa lontana, io che penso a te, quando ritornerò. So che questa lettera difficilmente ti arriverà. È spaventoso questo silenzio, ma se dovessi riceverla, ti prego, va da mia madre, ma va, questa
volta, e dille che io sto bene, che sono in un luogo tranquillissimo, che non aspetti le mie lettere, scriverò a te. Silvana non mi ricordo piú cos’abbia, ho paura di fare delle confusioni. Ad ogni modo sono in una situazione buona e ferma soprattutto. Ricordati che sono sempre con te, in ogni cosa che fai. Si, proprio in ogni cosa. Ti amo e non ti lascerò mai, dovessi rimanere lontano per degli anni. C’è una novità: la mia barba che cresce e sta per diventare fluente. Ti amo. Ti amo. Ti amo amore mio. Continua a scrivere a Milano raccomandata espresso. Dio come ti amo. Mandami una tua fotografia e ti prego va’ da mia madre, dille che io sono a posto, ma vai, io non le scrivo. Ti bacio sui capelli, sulla bocca, sugli occhi, sulle mani. Alberto 16 agosto 1944 Ho riaperto la lettera che da due giorni aspetta di essere imbucata. Ho saputo un’ora fa dello sbarco in Francia Meridionale. Non sono che un’ottantina di chilometri da voi. È spaventoso, sulla carta, come siete vicini alla guerra. Sono sicuro che questa lettera non arriverà mai. Amore mio, io ti sono sempre vicino e ti dico, amore mio tutto questo passerà, noi saremo vicini, io ti amo, ti amerò sempre, bacio la tua piccola mano, il cavo della mano e sogno. Ho voglia di piangere e penso quando ritornerò. Alberto Fammi sapere notizie in qualunque modo. Anche messaggi per Radio. Cerca qualcuno che si avvicini a Milano. 14
Apf, Roma. Lecco (Milano 1921 - Roma 2004), studente in medicina, di padre cattolico e madre ebrea, ottenne l’arianizzazione ma quando fu chiamato alle armi dalla Rsi e destinato ad un periodo in Germania, nel timore di essere riconosciuto ebreo, fuggí in clandestinità a Villa D’Adda (Bergamo). Nel dopoguerra si laureò ed esercitò la professione di medico, poi si dedicò all’attività letteraria, ritornando all’ebraismo. Lettera alla futura moglie Annalisa ad Alassio; fa parte dell’Epistolario familiare 1938-1945 di prossima pubblicazione presso l’editore Palombi di Roma. 15 Riferimento a un passo del secondo atto della commedia Piccola città di ornton Wilder.
«Non vivo che per la nuova vita che mi attende, per il ritrovarsi finalmente» di Jole Bassan
[Alassio] 16. 10. 194416
Carissimo, domani parte una persona che verrà direttamente a Milano la quale porterà questa lettera in via G. Modena. Come vedi le occasioni non mancano per cui io non capisco come tu non abbia, con una relativa sollecitudine, le notizie. Oggi, 16 ottobre, fra un mese…! Ricordo, ricordo! Se l’uomo potesse aver il dono di dimenticare forse risparmierebbe piú dolore che gioia, ma cosí è scritto e non c’è ragionamento né filosofia che possa guarire dalla malattia dell’amore che è fatta di ricordo, di rimpianto, di speranza. Intanto il tempo passa e l’inverno s’avanza. S’avanza col suo freddo che mi fa gelare le mani, i piedi e… l’anima. S’avanza con i suoi lunghi mesi di oscurità! Perciò Alassio è la mia prigione! Qui rimarrò fino alla primavera, ma con lo sbocciare dei fiori anche a piedi voglio tornare a casa mia, e questa volta il mio voglio è tenace come quello del poeta. Non vivo che per la nuova vita che mi attende, per il ritrovarsi finalmente. Ritrovarsi! Poterti avere vicino, fumare insieme la prima sigaretta mattutina (a proposito: da due mesi non fumo piú). Poterci raccontare un’infinità di cose che non avevamo osato scrivere per non turbarci troppo! È un sogno troppo bello che la realizzazione mi pare ancora tanto lontana. Intanto studio l’Aurora, anzi, l’ho quasi portata a compimento. Beethoven bisognerebbe sentirlo in ginocchio, ma ti posso assicurare che è l’autore forse piú piacevole da studiare perché è orchestrale e ogni battuta ti da una gioia enorme. Miao! Puch è salito fra i tuoi libri, sembra voglia dirmi di mandarti tanti saluti! Oggi giornata di sole, ma abbiamo avuto molta pioggia. Ho ricevuto ieri un espresso in data del 12. Oggi sto meglio perché ho la tua lettera. Salutami tutti quelli che conosco e anche quelli che non conosco. Di salute stiamo bene. Ormai c’è molta tranquillità. Ti abbraccio tantissimo Evelina17
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Apf, Roma. Jole Bassan (Milano 1897 - Alassio 1966), cultrice di studi musicali, frequentatrice dei circoli intellettuali che ruotavano intorno alla Scala, dopo l’armistizio si nascose in clandestinità ad Alassio. Lettera al figlio Alberto Lecco a Villa d’Adda (Bergamo); fa parte del citato Epistolario familiare 1938-1945. 17 Nome falso.
L’espatrio in Svizzera
«Non sappiamo in qual modo potremo SALVARE LA VITA» di Gualtiero Morpurgo
[Briga, Svizzera] 8 ottobre 19431 Si può definire la giornata di venerdí 8 ottobre come la piú DRAMMATICA giornata vissuta dai protagonisti di questa storia e dai loro compagni, a tutt’oggi. Riassumiamo in breve le vicende e concediamo allo storiografo di scrivere in prima persona, essendo stato effettivamente Gualtiero uno dei principali attori. Ore 6. Sveglia. Ore 7.30. Arriva al Campo un Sergente del Comando con una lista di internati che alle OTTO (e cioè tra mezz’ora!) dovranno riprendere la via della frontiera e tornare in Italia. Né Mino né io, né gli altri ebrei del campo sono compresi in questa prima lista. Il momento grave sembra superato. Ore 7.45. Corre voce di una seconda lista e questa volta l’arrivo di un Delegato della Polizia e di un Delegato della Commissione Rifugiati pone fine a ogni dubbio. MINO E IO SIAMO INVITATI A RIENTRARE IN ITALIA. Ci ritirano i documenti. Non abbiamo commenti e non sappiamo neppure pensare da quale parte e in qual modo potremo SALVARE LA VITA. Ore 8. Parte un camion con 24 internati. È diretto a (…). Alcuni piangono. Io stesso ho le lacrime agli occhi. Fino alle ore 9 1/2 Mino e io viviamo in stato di semincoscienza, non rendendoci neppure conto della gravità ESTREMA della disposizione delle autorità svizzere. Cerchiamo con tutta la forza di mantenere la serenità e la capacità di ragionamento. Facciamo i primi progetti. Escludiamo senz’altro il progetto dei due fratelli DINA di Casale di rientrare per il m[on]te Moro, per andare a raggiungere un gruppo di circa 100 armati nelle alture di Vercelli. Pensiamo di raggiungere di notte la Gomba, ma non riusciamo a vedere oltre una possibilità di salvezza. Ore 9.30. Comincio a pensare a mettere in moto qualche conoscenza, ma mi sembra impossibile poter realizzare il progetto, per la mancanza di
comunicazioni. Penso insistentemente alle Organizzazioni Israelitiche di assistenza. Ore 10. Non so neanche piú come, ma mi trovo nell’Ufficio del Sig. Germanini, davanti al telefono. Ho già capito che questo Germanini dal cuore piú grande di lui metterà a disposizione i suoi servizi per qualunque cosa. Prendo coraggio e cerco i primi contatti con l’esterno. Telefono a Losanna, Comunità Israelitica. NESSUNA RISPOSTA. Tel[efono] a Ginevra. Rabbino Capo. NULLA. Telef[ono] al Dr. Levy Dugan Ernst, Avenue Rumine, LOSANNA Tel. 22535 per consiglio del Direttore di Germanini Sig. Stranm. Promette di interessarsi del caso. Insisto sull’URGENZA ASSOLUTA dato che la nostra partenza è fissata per le ore 14. Promette di fare il possibile. Prende i nomi dei 5 Ebrei del campo, e cioè oltre al mio, quello di Mino, dei due fratelli DINA e di Luciano Levi. Tel[efono] a LOSANNA al Sig. Bigar Pierre, presso i Grandi Magazzini. Non c’è. Parlo con la segretaria, che mi dà il n° telef[onico] di GINEVRA. Tel[efono] a Ginevra, in casa di Bigar. Mi dice che l’unica persona che può fare qualche cosa è Mr. SILVAIN GUGGENHEIM, ZURIGO, Tel. 74217. Tel[efono] a ZURIGO al Sig.Guggenheim. È il presidente della Verband Schweizer Judischer Flüchtlinge2. Ha già ricevuto notizia da LOSANNA (LEXY). Si mostra molto cortese e si interessa immediatamente della cosa. Promette di telefonare subito a BERNA alla personalità a contatto con il Consiglio Federale. Colloquio con il Sig. Missionario Cattolico Rev[erendo] Florida. Prende a cuore la questione dei 60 rifugiati italiani SENZA DISTINZIONE DI RAZZA E DI RELIGIONE e promette di telefonare al NUNZIO APOSTOLICO a BERNA. Tel[efonata] di Mino alla Sig. Zufferei a ZURIGO per interessare il marito Colonnello dell’Esercito Svizzero. Tel[efono] a Berna all’Ambasciatore Inglese. NON È IN CASA. DANNO IL NUMERO DELLA LEGAZIONE. Tel[efono] a BERNA alla Legazione d’Inghilterra. Promettono di interessarsi. Non possono fare nulla di ufficiale. Facciamo presente l’aiuto dato ai prigionieri inglesi nella loro fuga dai campi. Il Segretario del Ministero parlerà all’Eccellenza. Consiglia intanto di mettersi in contatto con il GENERALE BIANCHI, Addetto Militare Italiano3. Sono già le 13. Arriva al Campo la notizia che la partenza è stata dilazionata alla sera. Sembra sia merito del Dott. NICORA, Vice Console
d’Italia Briga, che, saputa la notizia solamente alle 11.30 ha pregato le autorità svizzere di dilazionare la partenza. Ore 13.15. Tel[efono] a BERNA al GEN[ERALE] BIANCHI. Colloquio cordialissimo e lungo. Parlo con calma, ma il generale sente l’angoscia nelle mie parole. Parlo a nome di 60 internati. Promette di parlare al Ministro Conte magistrati. Ci avverte di fare il possibile per guadagnare tempo. Mi raccomanda di telefonare alle 18 nel caso che le Autorità Svizzere persistano nell’atteggiamento rigido. Ringrazio vivamente a nome di tutti e mi scuso per l’ardire. Ore 13.30. Inviamo al Presidente CELIO4 della Confederazione Elvetica un telegramma, via telefono, cosí concepito: «Eccellenza CELIO – BERN. Internati Italiani Campo Briga tra cui Ebrei implorano umanità Eccellenza Vostra per non essere rinviati in Italia. Vostra decisione est nostra ultima speranza. Internati campo Briga». Ore 14. La signora Zufferei telefona DA ZURIGO che il Colonnello non ha potuto fare nulla per il nostro caso. Mino trova brillantemente la forza per dichiararsi spiacente di non poter salutare e vedere la signora… «DOVENDO CON TUTTA PROBABILITA` LASCIARE LA SVIZZERA» (SIC) Ore 14.30. Tel[efonata] DA ZURIGO il Sig[nor] Guggenheim ci informa di aver telefonato tutta la mattinata invano alla personalità di BERNA, essendo questa in seduta sin dalla prima mattina. È riuscito a telefonare alle 14. È riuscito a strappare la promessa formale che i 5 ebrei di Briga non saranno rinviati. Briga sarà direttamente informata da Berna. In caso di mancato o ritardato avviso, devo comunicare alle Autorità di qui di mettersi in contatto con il Dr. Schürcl del Dipartimento Polizia N. 61 di Berna. Ringrazio vivissimamente. Mi chiede notizie dell’Avv. Valobra5 e del Dr. Luzzatto6 di Genova. Mi raccomanda di fargli avere notizie. Gli indico infine il nome di Silvio, come nipote dell’ex Presidente della Comunità di Genova. Sono piuttosto emozionato, ma non ancora convinto del buon esito della pratica. Ore 15. Telefona il Sig[nor] Missionario Cattolico Rev[erendo] Florida. Mi comunica di aver parlato con il Nunzio Apostolico. Farà quanto è in suo potere. In questo momento tutti i piú alti ambienti diplomatici e le piú alte personalità svizzere sono in movimento per il caso dei 60 Rifugiati del
campo di Briga. Abbiamo fatto tutto quanto è umanamente possibile. Siamo ora nelle mani del Signore. I massimi ambienti israelitici, le alte sfere cattoliche, le Ambasciate Inglesi e Italiane sono interessate al triste caso. E ora attendiamo con fiducia. Ore 17. Arriva il Cap[itano] Lombard. Ha in mano alcuni fatali fogli. Chiama buona parte degli internati, tra cui Mino e me. Ci chiedono da quale passo di montagna siamo passati e se avevamo armi. Evidentemente desiderano rinviare per le stesse strade per le quali siamo entrati. Non hanno probabilmente ricevuto contrordini, e proseguono nei loro preparativi. La città di Briga è venuta a conoscenza della faccenda e da ogni parte continuano ad arrivare doni, pane, indumenti, scatole, frutta ecc. La cosa è veramente commovente. Nel pomeriggio si contano piú di 100 pagnotte di pane, una intera cassa di mele, ecc. ecc. Ore 17.20. Fermo il Cap[itano] Lombard. È mia intenzione comunicargli l’indirizzo del Dipartimento N. 61 di Bernaper risolvere il nostro caso. Mi previene. È molto scuro. Dice, in francese: «Sí, ci hanno già telefonato, da Berna, per voi. MA NON NEL SENSO DA VOI DESIDERATO. A BERNA SONO FURIOSI per quanto avete fatto oggi. BON JOUR!» Sono disfatto. Tutte le mie speranze sono annullate. Non ho neanche il coraggio di parlare con Mino e di mettere al corrente i 2 DINA, che sono tutt’ora assai angosciati. Ore 17.30. Il Sig[nor] Germanini mi dice di avere avuto una lavata di testa dal Cap[itano] Lombard. Però ha notato una intima soddisfazione per quanto è successo, perché comincia a esserci un barlume di speranza per tutti. Ore 17.40. Torna il camion partito questa mattina, con 6 rifugiati che hanno chiesto di ritornare per Zermatt. Dormiranno in un paese vicino. Gli altri sono a quest’ora per la montagna. Ufficiali, sutt’ufficiali e soldati svizzeri sono tutti rattristati per quanto sta succedendo. Ore 17.45. Arriva il Magg[iore] Escher con il V[ice] Console Dott[or] Nicora. Dice: «Il vostro V[ice] Console vuol dirvi due parole». Il Dott[or] Nicora comunica che IL GOVERNO SVIZZERO HA SOSPESO IL PROVVEDIMENTO. Il Magg[iore] Escher sorride lieto, ma vuol mostrarsi burbero, per le gravi infrazioni compiute. Occorre ricordare che gli Internati non possono assolutamente avere alcun rapporto né postale, né telegrafico, né telefonico… Non so bene perché ma vengo abbracciato e baciato… Ho le
lacrime agli occhi. Anche Mino è commosso. Viene il Missionario, commosso e sorridente. A cena, il Sig[nor] Germanini è con noi; gli esprimo a nome di tutti l’immensa riconoscenza. Ore 20. Compare nuovamente il Magg[iore] Escher. Parla con il Sig[nor] Germanini. C’è qualche cosa in aria. Forse nulla di buono. Si parla infatti di Inchiesta sulle infrazioni di oggi. Le responsabilità sono pure del Sig[nor] Del Lungo, connazionale e di Germanini. Ma il mio nome è rimasto al telegrafo, e la polizia è al corrente di ciò… Mi metteranno in punizione? Accetterò sorridente la punizione! 1
Adn Dg/99. Morpurgo (Ancona 1913), ingegnere, licenziato dai Cantieri navali di Genova, dopo l’armistizio fuggí in Svizzera e venne internato in un campo di lavoro; nel dopoguerra rientrò in Italia e collaborò all’emigrazione clandestina verso la Palestina, prima di stabilirsi in Cile fino agli anni Novanta. Diario su fogli di quaderno dal 15 settembre 1943 al 6 maggio 1945. 2 Unione svizzera dei comitati ebraici d’assistenza ai rifugiati, presieduta da Silvain Guggenheim. 3 Generale Tancredi Bianchi. 4 Enrico Celio. 5 Lelio Vittorio Valobra, presidente della Delasem. 6 Enrico Luzzatto Pardo, segretario della Delasem.
«Noi estenuati, incerti, impauriti» di Paolo Ravenna
[Confine con la Svizzera] Venerdí 19 novembre 19437 – notte – Ci dicono che siamo vicini al confine. Da qualche tempo si scorgono, laggiú, in basso, le luci di una città. Emozione dopo tanti anni di oscuramento. È Locarno. Sembra a due passi: è vicinissima e lontanissima; chissà se ci arriveremo. Ferraguti dice che deve tornare ma dobbiamo pagare ancora; credo siano già state pagate L. 5000 a testa all’Organizzazione. Lo dice con tono semplice ma allusivo. Papà consegna qualche marengo, un anellino, biglietti di banca. È sufficiente. Consegna anche il mezzo biglietto che dovrà essere riportato a Milano a chi possiede l’altra metà, a conferma del passaggio riuscito. Mi carico in spalla un altro sacco, molto pesante. Lo stesso fa il papà. I contrabbandieri scompaiono: temono di essere catturati dagli svizzeri. Faccio pochi passi, alla cieca, precipito in una scarpata. Il sacco attutisce il colpo. Si sente l’acqua di un torrente. Risalgo a fatica il pendio, trovo un piccolo sentiero, scendo e sento alle mie spalle gli altri. Un contrabbandiere ha voluto seguirci: non si è sentito di abbandonare il piccolo Romano. Comincio ad attraversare il torrente che si intravede a malapena, su alcuni assi. Un’improvvisa sciabolata di luci: delle urla: un fucile puntato al petto. Achtung! Sono gli svizzeri alzo le mani e mi volto istintivamente per vedere se ci sono gli altri. Sí, ci sono tutti. Romano è stato appoggiato su un sasso, il contrabbandiere è scomparso. Attraversiamo ancora pochi metri e ci troviamo attorniati da tre o quattro soldati. Parlano tedesco ma nessun dubbio che siano svizzeri, come sono. Ci fanno salire verso un gruppetto di capanni che si intravedono. Siamo finalmente arrivati dopo un mese di peregrinazioni. Una località di pastori, dovrebbe chiamarsi Centocampi, in alto sulla sponda orientale del Lago Maggiore. Entriamo in un piccolo locale illuminato da una lucerna. Un ufficiale in un italiano stentato, comincia ad interrogarci.
Poche parole, per formalità. Ci dice che passeremo lí il resto della notte e appena fatta luce si scenderà al posto di dogana, sul lago. Entriamo in un altro vano, un rifugio per pastori con parete in pietra. Freddo, ci sediamo su panche attorno ad un focolare, con alcune coperte. Manca lo spazio e il modo per distenderci. Stanchissimi tutti; Romano si addormenta appoggiato alla mamma. Da una pentola per terra prendiamo del tè, di tanto in tanto, per riscaldarci. Romano scivola e cade nel braciere; un sussulto e riusciamo a toglierlo. Ogni mezz’ora un soldato si affaccia alla porta, guarda, si allontana. È l’alba: si fa luce. Siamo invitati a muoverci per scendere a valle. Usciamo e ci rendiamo conto del luogo, un minuscolo presidio di confine inerpicato sul monte. Seguiti da due soldati ci incamminiamo per un sentiero che scende lentamente. Con fatica riusciamo a trasportare il poco bagaglio rimastoci diviso sulle spalle mie e del papà. Dopo circa un’ora si incontra un contadino che sale al pascolo. I soldati ci fanno capire che possiamo chiedergli di portarci i sacchi da montagna. È il primo civile svizzero che incontriamo. In dialetto ci risponde secco: siete ebrei pieni di soldi, arrangiatevi e prosegue il suo cammino. 7
P. Ravenna, La famiglia Ravenna cit., pp. 75-76. Ravenna (Ferrara 1926), figlio dell’ex podestà, fu espulso dalla scuola e dopo l’armistizio si rifugiò con la famiglia a Reggio Emilia, Arcisate (Varese) e infine in Svizzera; nel dopoguerra ha svolto la professione di avvocato ed ha organizzato iniziative culturali in Italia e all’estero. Diario dal 24 ottobre 1943 all’agosto ’45, con annotazioni saltuarie.
«Lea Ottolenghi, sono Ebrea! Vorrei gridarlo ai quattro venti» di Lea Ottolenghi
[Bellinzona] 20 dicembre 19438 Bellinzona! Siamo qua, abbiamo compiuto il gran passo, siamo nella terra della libertà! Lea Ottolenghi, sono Ebrea! Vorrei gridarlo ai quattro venti, ma la mia felicità non è completa, manchi tu, Gastone9 mio, cosa darei per averti qui e gioire insieme la riconquistata libertà; vedessi che luoghi magnifici e che paesaggi e che negozi! Ma ora sono qua chiusa con altre 50 persone e dormiamo vestite sopra un sacco di paglia, ma cosa importa? Non piú incubi, repressioni, terrore di essere deportati! Libertà di persona e di pensiero! Ma debbo fare un passo indietro! Partiti tutti e quattro da Milano, dopo Varese abbiamo preso un trenino e siamo passati attraverso luoghi cosí pittoreschi che se avessi avuto con me Gastone, mi sarebbe parso di fare un viaggio di piacere. Ad un certo punto ci siamo divisi per non dare troppo nell’occhio. Amedeo rimase con mamma mentre Emma ed io andammo a Luino e giravamo fingendo di cercare una casa per allontanarci dai luoghi pericolosi per i bombardamenti. Se ne visitarono alcune, poi ci avvicinammo al confine ed è stato cosí strano, quando arrivate ad un ponte, al di là c’era la sospirata Svizzera. Si vedevano benissimo le casette al di qua e al di là del ponte, formavano uno stesso paese, ci sarebbe voluto cosí poco ad arrivare. Abbiamo invece proseguito ed attesa la sera, zitte zitte, in un’atmosfera da film, da romanzo abbiamo fatto al buio un buon tratto di strada. Si vedevano al di là i lumi accesi nella terra tanto agognata ed una musica di fanfare ci giungeva all’orecchio, festosa, quasi ci attendessero e richiamassero con gioia. Da questa casetta corremmo in fretta vicino al ponte e ci chiudemmo in un ripostiglio di legna. A mamma, poveretta, a causa della polvere venne un accesso di tosse che cercava di soffocare perché ci avevano raccomandato di non fare alcun rumore. Dopo due ore andammo strisciando lungo il muro alla casa dei doganieri fino a mezza notte, ed infine il gran passo! Però, quando fatta una rincorsa senza voltarci,
arrivammo ad un cancello in mezzo al ponte, dovevamo passare attraverso un’apertura dove mamma essendo grossa non ce la faceva a passare. Gettai al di là il mio sacco a spalla, e spingendola riuscimmo a farla passare. Nel frattempo delle guardie tedesche ci intimarono di fermarci ma noi correndo proseguimmo, sentimmo spari ed abbaiare di cani. Arrivammo trafelati ed un soldato svizzero ci fermò col fucile spianato: «Altolà!» ci disse «siete in terra Svizzera!» Mi sembrava di sognare! Troppo bello e quasi facile per essere vero! Per sfortuna le guardie svizzere non erano piú quelle con cui i contrabbandieri avevano preso gli accordi. Ci era andata bene perché, sapemmo in seguito, che presi i soldi e derubati, molti ebrei furono invece denunciati dagli stessi contrabbandieri. Venuti quelli della dogana, esaminati i nostri documenti (dovevamo dimostrare di essere ebrei o perseguitati politici) ci hanno detto che troppe persone si erano ormai rifugiate in Svizzera ed era impossibile tenerne altre! Non potevo crederci! Dopo tante ansie, fatiche, disagi e paure senza piú denari, senza niente, essere arrivati alla meta e poi… era troppo! Se difficile era stato giungere fino a lí, tornare significava sicuramente essere presi! Io avevo le lacrime agli occhi che piuttosto che tornare indietro mi sarei gettata nel torrente che scorreva impetuoso lí sotto. Quella brava gente cercò di calmarci, ci ristorarono con della cioccolata calda e furono di una grande comprensione e gentilezza. Avrebbero preso solo la mamma, in quanto avevano avuto ordine di prendere le persone che avessero sopra i 65 anni e le donne incinte. Ci avrebbero riaccompagnato in un altro punto di frontiera diverso da quello da cui eravamo passati. Mamma non voleva saperne di restare lei sola! Infine ci chiusero in una prigione con della paglia in terra e una coperta da cavalli, perché ci riposassimo ed attendessimo il mattino per fare ancora pressione col comando di Bellinzona. Ma come era possibile riposare tranquilli con la disperazione nel cuore! Fra il freddo, il duro e l’ansia non chiudemmo occhio tutta la notte. In quel momento fui quasi contenta che Gastone non fosse con noi a rischiare e mi augurai fosse invece in un luogo sicuro. Finalmente quando giunse il mattino, permisero ad Amedeo di andare a telefonare al comando ed ottenne che rimanessimo tutti e quattro! Quel che ho provato in quel momento è indescrivibile! Stentavo a credere che finalmente eravamo davvero in salvo. Povera mamma quanti disagi ed
emozioni alla sua età! Quale rammarico di non poter avere con noi anche tutte le altre persone care. Silvia con Paolo, Gino e Franca, ed Umbertino, Anna e tu, Gastone mio, che rimpianto per te! Siamo saliti in una macchina e ci hanno portato a fare una visita medica dopo che dei soldati ci hanno rifocillato e poi partenza per Bellinzona, scortati da un soldatino. Siamo passati da Lugano, quale meraviglia. Tu Gastone ci sei stato e puoi immaginare che effetto abbia fatto ai miei occhi. E sentissi come me la sbrigo col mio francese. Infine siamo giunti ad una specie di questura dove ci hanno interrogato e preso le impronte digitali. Poi noi donne ci hanno mandato in un asilo di bimbi attrezzato provvisoriamente a campo di raccolta profughi e gli uomini in un altro. Eravamo sempre sotto sorveglianza dei militari. Ci hanno fatto fare una doccia disinfettante, hanno preso tutti i nostri abiti per disinfettarli, è stato piuttosto umiliante specialmente quando i soldati tiravano fuori i nostri indumenti sbandierandoli e chiedendo «Di chi è questo?» Ero esterrefatta e mi dispiaceva soprattutto per mamma ed Emma. Nei campi di raccolta c’era tanta confusione e mancava una buona organizzazione. Comunque io mi ero subito affiatata con tutti, ci aiutavamo a vicenda e soprattutto cercavo di rendermi utile coi bambini, ce n’erano parecchi. Ognuno aveva un romanzo da raccontare. A confronto delle nostre peripezie, quanti tragici racconti ho sentito. C’è chi è arrivato proprio senza niente, chi ha camminato per giornate intere nelle montagne, alcuni sono arrivati con le mani o i piedi congelati ed altri, i cui familiari sono stati rimandati indietro. C’è fra questi una sposina della mia età circa che non si dà pace perché poveretta è stata accettata solo perché è incinta. Si chiama Edith Greenberg, viene da Fiume. Ho cercato di consolarla come potevo. Fummo poi separate ma ci ritrovammo in seguito. Quando siamo arrivate passammo tutti in fila da una strada piena di negozi con ogni ben di Dio, indumenti di vera lana, di pelle. Cioccolata vera, caffè vero! Senza volere emettevo gridolini di gioia. Un signore mi guardava e comprendendo i miei desideri mi offrí della cioccolata. Figuriamoci se l’avrei accettata. Ma la guida ci intimò di accelerare il passo, ed Emma con un’occhiata mi disse che non stava bene accettare! Con mio grande rammarico, rifiutai, poco dopo quel tipo mi raggiunge correndo e mi porge un saccoccio di marroni e se ne è andato. Una signora svizzera pure ci ha fermato e chiesto chi eravamo, da dove
venivamo e ci ha abbracciato, tutta compassionevole. Certo dovevo essere buffa con lo zaino a tracolla, gli scarponi, carica di valigie e di fagotti. Infine siamo giunti e ringrazio Dio, ma di te Gastone potrò avere notizie? Mi contenterei tu fossi informato di dove sono ed io sapere dove sei e poter essere tranquilla sul tuo conto. Ora attendiamo venga il tuo turno di trasferimento. Per me mi adatterei anche a stare qua, c’è il calorifero, aria buona, un giardinetto attorno alla casa, il mangiare non è molto, ma possiamo prendere latte con cioccolato a volontà, ed io ne prendo ogni volta due ciotole piene. Ed ora… incipit vita nuova! 8
Nei tempi oscuri cit., pp. 42-44. Lea Ottolenghi (Livorno 1921), in seguito alle leggi razziali poté dare l’esame al liceo classico che aveva frequentato solo da esterna e dopo l’armistizio si nascose in convento a Firenze e successivamente in Svizzera. Diario su un’agenda e cinque quaderni, con una parte piú esigua sul periodo 1937-43 ed una piú cospicua fino al 7 agosto 1945. 9 Il fidanzato e futuro marito Gastone Orefice.
Gli ebrei nella Resistenza
«Anche se domani ci richiedesse qualche piccolo sacrificio» di Giorgio Diena
[Torre Pellice] 12/XI [1943]1
Cara Mamma e caro Papà, solo oggi leggo le vostre care lettere: quella di Mamma, da cui trapela tutto l’affanno per noi, pensandoci sofferenti per le gravi fatiche e per il freddo (poveri ragazzi!!), l’altra di Papà, irritato dalla sua forzata inattività. A Mamma dico subito che stiamo benissimo; una vita del nostro genere vista dalla città può sembrare dura, mentre per noi, avvezzatici gradualmente, sembra non si allontani dalla normalità: freddo non lo patiamo: non sono molti giorni che, per dar l’esempio, mi sono lavato a torso nudo mentre attorno a noi il terreno era gelato; di vestiario ne abbiamo piú che a sufficienza; viveri non mancano certo e neppure il tabacco (se anche scarso). Un regalino ogni tanto dalla cara Mamma fa sempre tanto piacere, come la polenta dolce, però da Lei non chiediamo assolutamente di piú; che cioè si affanni a cercare cibi per noi, o che compri cose rare a borsa nera, né che tanto piú sacrifichi cosa ottiene con le tessere: qui abbiamo chi pensa a noi e vi preghiamo quindi di non fare nulla che possa avere la parvenza di un sacrifizio, anche se solo finanziario. La vita che conduciamo per ora non è certo monotona, ed anche se domani ci richiedesse qualche piccolo sacrificio, l’altezza della causa per cui noi lottiamo ce lo farà sopportare senza accorgerci di compierlo: troppo bello sarebbe voler raggiungere il nostro scopo con una vita troppo comoda.Sappi in ogni caso che non ci manca nulla, e che appena sentiremo bisogno di qualcosa ve lo faremo sapere. Sergio2 e Carlo stanno ottimamente: Sergio forse lo vedrete a Torino a giorni; Carlo s’è adattato magnificamente alla vita che conduciamo, sia come fisico che come morale. Ottimo accordo poi fra noi tutti. Ci piacerebbe aver piú frequenti le vostre notizie; vorremmo pure essere rassicurati sul conto di Papà, che cioè sia in luogo sicuro e non commetta assolutamente imprudenze. Le visite che vorreste farci potremmo fissarle per venerdí, poiché quasi sempre in questo giorno verrò giú. Sarebbe comodo che ci
faceste sapere però in tempo, anche una settimana prima, della vostra visita, per sapere chi oltre me dovrei far venir giú. Per il giovane cui accenna Papà, qui non v’è nulla in contrario ad accoglierlo, se già tu Papà riconosci in lui doti fisiche e morali sufficienti; se lo trovi mancante in qualcuna di queste doti ti prego di non inviarlo. (Mandatelo venerdí 20 alle 14,30 al Bar Italia3). Caro Papà, sappi sopportare la tua inattività, né il tuo desiderio di agire ti conduca ad imprudenze, e tu, cara Mamma, non temere minimamente per noi, cui nulla manca. Arrivederci a venerdí (se ci sarà permesso scendere). Un abbraccio Giorgio 1
Ap Giorgio Diena cit. Diena (Torino 1920), di famiglia antifascista, cacciato dal Politecnico, nel ’42 fu arrestato insieme al padre Giuseppe per disfattismo, ma fu scagionato e dopo l’armistizio entrò nella Resistenza col fratello Paolo nelle bande di GL; nel dopoguerra militò nel Pd’A fino al suo scioglimento, si laureò in Ingegneria e divenne dirigente della Olivetti. 2 Il cugino Sergio Diena (Torino 1919 - Luserna San Giovanni 1943), comandante di squadra della V Divisione GL, fu ferito in combattimento il 1° dicembre nella battaglia di Chabriol e morí due giorni dopo (medaglia d’argento al valor militare alla memoria). 3 Recapito a Torre Pellice per chi doveva raggiungere le formazioni dalla città.
«Mamma, non devi impensierirti per me» di Franco Cesana
[Gombola (Modena)]4 lí 7/8/[19]44
Carissima mamma, dopo la mia scappata5 non ho potuto darti mie notizie per motivi che tu immagini. Ti do ora un dettagliato racconto della mia avventura: partii cosí all’improvviso senza sapere io stesso che cosa stavo facendo. Camminai finché potevo, poi mi fermai a dormire in un fienile in località Osteria Matteazzi. Al mattino svegliandomi con la fame ripresi a camminare in direzione di Gombola, sfamandomi con delle more. Arrivai a Gombola verso le 9 e di lí cercai i partigiani, deciso a entrare a far parte di una qualche formazione. Riuscii a trovare patrioti che mi insegnarono la strada per andare al Comando che si trovava a Maranello di Gombola. Arrivai alla detta località stanco morto, ma mi feci coraggio e mi presentai. Dopo un po’ mi si presentò l’occasione di entrare a far parte della formazione Marcello6 . Sei contenta? Presentatomi a Marcello fui assunto e siccome ho studiato fui dislocato al Comando e attualmente mi trovo stabile relativamente sicuro in una località sopra Gombola. Cosí non devi impensierirti per me che sto da re. La salute è ottima. Solo un po’ precario il dormire. Per chiarire un increscioso incidente ti avverto che non ho detto quella cosa che tu sai e che mi hai fatto giurare7. Cosí chiudo questa mia, raccomandandoti alto il morale, che ormai abbiamo finito. Affettuosamente ti bacio e ti penso il tuo tesoro. Franco N.B. Salutami pure Lelio e digli di non fare il cattivo. Ti raccomando appena ricevuta la mia bruciala. Ancora ti saluto e ti bacio Franco 4
M. Avagliano, Generazione ribelle, Einaudi, Torino 2006, p. 84 e G. Formiggini, Stella d’Italia stella di David, Mursia, Milano 1998, pp. 336-37. Cesana (Mantova 1931 - Picciniera di Gombola 1944), dopo l’armistizio si
rifugiò con la famiglia sull’Appennino modenese ma, a tredici anni non ancora compiuti, scappò di casa ed entrò nella Resistenza dichiarando di averne diciotto; fu ucciso durante un’ispezione. Lettera su quattro facciate di foglio a righe. 5 Si riferisce alla fuga da casa per arruolarsi con i partigiani, seguendo l’esempio del fratello Lelio. 6 Marcello Catellani, comandante della Brigata «Scarabelli». 7 La madre gli aveva fatto giurare di non rivelare a nessuno di essere ebreo.
«Il paese, che non conosceva la guerra, è terrorizzato» di Scipione Poggetto
[Val di Lanzo] Il due Gennaio [1944] succede l’allarme8. Tedeschi avanzano verso Ceres. Parte una pattuglia armata e s’apposta ad una strettoia della strada. Ritornano tre camion di tedeschi. Con azione combinata con altri gruppi, al momento opportuno, lanciano le bombe a mano sui camion. Violento scoppio. Risultato! Tutti i tedeschi sono morti meno uno che benché ferito è riuscito a scappare. Ritornati al campo attendiamo la reazione. Il giorno sei, Epifania, allarme. Molti camion carri armati, autoblinde cariche di tedeschi e fascisti si avvicinano verso Pessinetto, fondo valle. Si sentono già i primi colpi di cannone. Due di questi scoppiano vicino a noi. Errore di tiro. Il paese, che non conosceva la guerra, è terrorizzato. Tutti ci rechiamo al posto di combattimento, ma per questa volta Chiaves non è destinata. Si sa appresso, che tutti i paesi di fondo valle hanno sofferto questa incursione. Hanno fucilato il proprietario del ristorante di Traves che aveva in deposito viveri ed armi per noi. Li vendicheremo. Con lui hanno ucciso la moglie e due figli e bruciato la casa. Passiamo due giorni in allarme. A Lanzo capoluogo, grossi contingenti di tedeschi SS e repubblicani sono accampati con molte armi al paese. Io per precauzione porto mia madre a Monastero pensando che se fanno una operazione a Chiaves, quella piccola borgata di passaggio la lasceranno tranquilla. Qui sento la protezione di mio Padre, all’indomani nulla. Riporto mia madre a Chiaves. A mezzogiorno annunciano che camions tedeschi sono in marcia verso Chiaves. Lascio mia madre presso contadini e poiché abbiamo ricevuto l’ordine di non sparare ma evacuare il paese, prendo Emilio e Benedetto e, qui la mano di Dio e di mio Padre, invece di prendere il sentiero capraro che circonda la montagna e che scende a Lanzo, mi ritiro verso il sentiero che va verso Ceres. I tedeschi trovato questo sentiero avevano fatto avanzare truppe appiedate da questa strada ed i camions dall’altra. Saremmo caduti in bocca al lupo. L’azione si risolve con molto panico per la popolazione che fuggiva, tra i campi scoscesi, molte ruberie, si parla di duecento polli e un vitello, ed un morto, un paesano che
diceva non aveva paura. Dei fanciulli ci vengono ad avvisare che dopo queste scorrerie i tedeschi erano partiti. La cascina ove avevamo alloggiato a Monastero è in fiamme. Hanno trovato un nostro camion vicino alla casa. Dio sia benedetto! Se c’era mia madre che fine avrebbe fatto? Non morta bruciata ma sicuramente deportata. Il nostro gruppo si unisce. Il giorno appresso i tedeschi ritornano questa volta in molti. Riprendiamo la strada fatta in precedenza, solo un nucleo bene armato s’apposta al Monte Croce. Noi tre fratelli ci dirigiamo verso Ceres e dopo mezz’ora di cammino ci sediamo in attesa di notizie. Si sentono molti colpi. In bassa valle, pure, colpi di camion, paesi con case in fiamme, lunghe colonne di fumo bianco dichiarano che cascinali bruciano. Passiamo in attesa quasi tutto il giorno quando già pensiamo di ritornare una pattuglia ci raggiunge tutta affannata e racconta che Chiaves è in fiamme e che i tedeschi vengono verso di noi ma non sanno da quale sentiero. Qui la faccenda si complica. Ci alziamo e di corsa, giú a capofitto verso Ceres che sappiamo, per ora libero. Il sentiero si fa piú ristretto e pericolosamente piú ghiacciato. Non importa. Coraggiosamente… scappiamo a tutte gambe che tremano per la stanchezza, siamo da parecchio senza mangiare, e per paura. Perdiamo il collegamento con la colonna ed il pensiero. Ormai è notte. Pensiamo noi tre, di consegnarci ai carabinieri come ebrei, almeno, pensiamo, ci arrestano e i tedeschi non ci fucileranno almeno subito. Sentiamo dei passi affrettati sopra noi. Riconosciamo dalle voci. Tedeschi. Ci buttiamo letteralmente giú tra avallamenti della montagna. Facendo rumore di frasche rotte al nostro primo salto colpi di mitraglia ci fischiano sopra il capo. Penso, questa volta siamo fritti! No. Dio e mio Padre non ha voluto. Con i nostri salti ci siamo di molto allontanati dai tedeschi. Io ho il piede slogato e di molto gonfiato e non posso quasi piú camminare. 8
Acdec, Fondo Antifascisti e partigiani Ebrei cit. Poggetto dopo l’armistizio aderí al movimento partigiano in Val di Lanzo. In seguito entrò nella 19ª Brigata Garibaldi «Eugenio Giambone». Nel settembre del ’44 fu costretto dai rastrellamenti a riparare in Francia.
«Io sono ebreo, comunista e partigiano» di Pino Levi Cavaglione
[Genzano] 16 gennaio [1944]9 Questa notte ho compiuto un’azione con la squadra di Frascati. La villa di Fabio a Frascati è in parte occupata dalla Feldgendarmeria tedesca. Ciò non mi ha impedito, dopo aver predisposto i piani dell’azione, di recarmi a fare uno spuntino da Fabio. Vi era pure un maresciallo della Feld-gendarmeria il quale evidentemente credeva di farci un onore sedendo alla nostra tavola. Quel bestione è convintissimo della vittoria tedesca. Con la consueta teutonica ineducazione non ci ha nascosto il suo disprezzo per gli italiani che definisce inetti e traditori. Dice che anche nel campo amoroso gli uomini sono fiacchi e inferiori ai tedeschi. Gli ho chiesto se sua moglie fosse mai venuta in Italia. No, non c’è mai venuta. Peccato! Forse questo degno maresciallo avrebbe idee un po’ diverse se sua moglie avesse potuto, come quasi tutte le Frau che capitano tra noi, fare le solite esperienze amatorie con vetturini napoletani, gondolieri veneziani, con scaricatori di porto genovesi e con venditori ambulanti ebreo-romani. Ce l’ha a morte con i partigiani che lui definisce «comunisti badogliani». Vorrebbe averne tra le mani qualcuno, perché gli piacerebbe spellarlo vivo. Sui gusti non si discute e non abbiamo perciò interloquito in proposito. Abbiamo soltanto detto che non ci sono partigiani nella zona. Lui allora si è imbestialito. Gli italiani che negano l’esistenza nei Castelli di formazioni partigiane lo indispongono, ha detto. Per dovere di ospitalità abbiamo finito con l’ammettere che sí… forse… Si è calmato e ci ha detto che i partigiani lo hanno anche ferito. Porca miseria! Ma chi è stato quel partigiano che si è lasciato sfuggire questo dannato imbecille? Verso le 17 se ne è andato. Deve recarsi in un paese vicino e trova che non è prudente girare nel buio. Mi piacerebbe proprio incontrarlo in altra sede e dirgli: «Scusi sa; io sono ebreo, comunista e partigiano. Perché non prova a spellarmi vivo?» e scaricargli poi in pancia cinque o sei colpi di
rivoltella in modo che prima di morire possa riflettere un po’ sui casi della vita. Poco dopo di lui sono uscito pure io per raggiungere la squadra che mi attendeva in un punto della campagna. L’azione è stata brillante ed efficace. Abbiamo fatto fuori due camion uno sulla via Casilina e uno sulla via di Colonna e siamo tornati con un discreto bottino tra cui anche burro e cioccolato. Tra i tedeschi uccisi vi era anche uno sciagurato sergente dell’esercito italiano passato al servizio dei nazi-fascisti. Da parte nostra un ferito leggero. 9
P. Levi Cavaglione, Guerriglia nei Castelli Romani, il melangolo, Genova 2006, pp. 115-17. Levi Cavaglione (Genova 1911-1971), antifascista di GL, nel ’38 fu inviato al confino per aver tentato di arruolarsi nell’esercito repubblicano spagnolo e dopo l’armistizio si uní ai partigiani dei Castelli Romani. Diario dal 3 ottobre 1943 al 4 marzo 1944, con annotazioni quotidiane.
«Non voglio che tu ti perda nemmeno se, per qualche caso, mi perderò io» di Leone Ginzburg
[Roma, carceri di Regina Coeli]10
Natalia cara, amore mio, ogni volta spero che non sia l’ultima lettera che ti scrivo, prima della partenza o in genere; e cosí è anche oggi. Continua in me, dopo quasi una intera giornata trascorsa, il lieto eccitamento suscitatomi dalle tue notizie e dalla prova tangibile che mi vuoi cosí bene. Questo eccitamento non ha potuto essere cancellato neppure dall’inopinato incontro che abbiamo fatto oggi. Gli auspici, dunque, non sono lieti; ma pazienza. Comunque, se mi facessero partire non venirmi dietro in nessun caso. Sei molto piú necessaria ai bambini, e soprattutto alla piccola. E io non avrei un’ora di pace se ti sapessi esposta chissà per quanto tempo a dei pericoli, che dovrebbero presto cessare per te, e non accrescersi a dismisura. So di quale conforto mi privo a questo modo; ma sarebbe un conforto avvelenato dal timore per te e dal rimorso verso i bambini. Del resto, bisogna continuare a sperare che finiremo col rivederci, e tante emozioni si comporranno e si smorzeranno nel ricordo, formando di sé un tutto diventato sopportabile e coerente. Ma parliamo d’altro. Una delle cose che piú mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e qualche volta io stesso), perdono il gusto dei problemi generali dinanzi al pericolo personale. Cercherò di conseguenza, di non parlarti di me, ma di te. La mia aspirazione è che tu normalizzi, appena ti sia possibile, la tua esistenza; che tu lavori e scriva e sia utile agli altri. Questi consigli ti parranno facili e irritanti; invece sono il miglior frutto della mia tenerezza e del mio senso di responsabilità. Attraverso la creazione artistica ti libererai delle troppe lacrime che ti fanno groppo dentro; attraverso l’attività sociale, qualunque essa sia, rimarrai vicina al mondo delle altre persone, per il quale io ti ero cosí spesso l’unico ponte di passaggio. A ogni modo, avere i bambini significherà per te avere una grande riserva di forza a tua disposizione. Vorrei che anche Andrea11 si ricordasse di me, se non dovesse piú
rivedermi. Io li penso di continuo, ma cerco di non attardarmi mai sul pensiero di loro, per non infiacchirmi nella malinconia. Il pensiero di te invece non lo scaccio, e ha quasi sempre un effetto corroborante su di me. Rivedere facce amiche, in questi giorni, mi ha grandemente eccitato in principio, come puoi immaginare. Adesso l’esistenza si viene di nuovo normalizzando, in attesa che muti piú radicalmente. Devo smettere, perché mi sono messo a scrivere troppo tardi fidando nella luce della mia lampadina, la quale invece stasera è particolarmente fioca, oltre ad essere altissima. Ti continuerò a scrivere alla cieca, senza la speranza di rileggere. Con tutto il Tommaseo12 che ho tra le mani, sorge spontaneo il raffronto con la pagina di diario di lui che diventa cieco, io, per fortuna, sono cieco solo fino a domattina. Ciao, amore mio, tenerezza mia. Fra pochi giorni sarà il sesto anniversario del nostro matrimonio. Come e dove mi troverò quel giorno? Di che umore sarai tu allora? Ho ripensato, in questi ultimi tempi, alla nostra vita comune. L’unico nostro nemico (ho concluso) era la mia paura. Le volte che io, per qualche ragione, ero assalito dalla paura, concentravo talmente tutte le mie facoltà a vincerla e a non venir meno al mio dovere, che non rimaneva nessun’altra forma di vitalità in me. Non è cosí? Se e quando ci ritroveremo, io sarò liberato dalla paura, e neppure queste zone opache esisteranno piú nella nostra vita comune. Come ti voglio bene, cara. Se ti perdessi, morirei volentieri. (Anche questa è una conclusione alla quale sono giunto negli ultimi tempi). Ma non voglio perderti, e non voglio che tu ti perda nemmeno se, per qualche caso, mi perderò io. Saluta e ringrazia tutti coloro che sono buoni e affettuosi con te: debbono essere molti. Chiedi scusa a tua madre, e in genere ai tuoi, di tutto il fastidio che arreca questa nostra troppo numerosa famiglia. Bacia i bambini. Vi benedico tutti e quattro, e vi ringrazio di essere al mondo. Ti amo, ti bacio, amore mio. Ti amo con tutte le fibre dell’essere mio. Non ti preoccupare troppo per me. Immagina che io sia un prigioniero di guerra; ce ne sono tanti, soprattutto in questa guerra; e nella stragrande maggioranza torneranno. Auguriamoci di essere nel maggior numero, non è vero, Natalia? Ti bacio ancora e ancora e ancora. Sii coraggiosa. Leone
10
P. Malvezzi - G. Pirelli, Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana: 8 settembre 1943 - 25 aprile 1945, Einaudi, Torino 2003, p. 14850. Ginzburg era stato arrestato a Roma nel novembre del ’43, nella tipografia clandestina di «Italia Libera». Lettera alla moglie Natalia, senza data. 11 Il secondo figlio. 12 Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo (Sebenico 1802 Firenze 1874), letterato e patriota del Risorgimento.
«È proprio la fine vera di quei famigerati vent’anni di fascismo» di Paolo Diena
[Torre Pellice] 25/6/194413
Carissimi, finalmente vi posso dire le cose come stanno, grazie alla gentilezza di questa signora a me ignota in tutto e per tutto, a parte i suoi capelli biondi, che Giorgio mi ha fatto conoscere or è poco. Anch’essa finalmente potrà dire di avermi visto, che sto bene, benissimo, e vi potrà dire, anzi ripetere che il morale sempre alto fin dalla nostra partenza da Torino (già, la nostra cara Torino, come va?...) è in continua crescita con l’avvicinarsi della fine. Ma sí, è proprio la fine vera di quei soliti famigerati vent’anni di fascismo che zitti zitti sono aumentati a ventidue. Grande proprietà del popolo italiano di avere le spalle buone a portare il fardello della dittatura; dovremo proprio iscriverlo all’asilo dell’educazione sociale, povero piccolo! E voi? Ottime notizie – buon proseguimento allora! E i parenti? Povera zia Rosetta!! Ma sul serio è morta? proprio aveva bisogno delle assidue visite dei suoi figlioli fratelli e nipoti – credo che sia morta appunto perché era sola – povera cara zia, non averla piú salutata! Pensate a Lina14, poi... ma con che pena tornerà poi in Italia?! Accanto a Sergio che mi pare di dover sempre ritrovare nella sua cameretta dei raggi15 accanto a lui che per me non sarà morto che quando non lo sentirò piú vicino a me nelle ore di studio e nella vita cittadina, accanto a te, caro Sergio giacerà ora la tua Nonna, e su di voi quante lacrime cadranno di chi non vi vide morire! Sarà crudele il ritorno in città. Cadesse almeno la mole, quella Antonelliana perché Torino si rinnovelli insieme all’Italia e agli Italiani nel sangue di chi cadde. Vecchia Torino, non ti odio, ma quasi. Una nuova vita deve sorgere nelle tue vie, nelle tue nuove case... solo Papà e Mamma mi chiamano nella mia vecchia città. Anch’io tornerò a guarire gli uomini e Giorgio a lanciare torri contro il cielo e gettare ponti grandi belli, bellissimi. Troppo belli perché possano esistere, perché sono solamente sogni – i sogni di una rinascita. Vorrei continuare per dirvi di me (ammesso che ne abbia da dire), ma, vedete, non posso piú. Tanti cari baci
Paolo 13
Ap Giorgio Diena cit. Diena (Torino 1921 - Cotarauta 1944), studente in medicina, dopo l’armistizio entrò nella Resistenza insieme al fratello Giorgio, allestendo un piccolo ospedale da campo per la Brigata «Val Chisone»; cadde in un’imboscata tedesca e fu ucciso con due colpi di fucile alla testa, a Cotarauta, dopo aver condotto il partigiano Remo Raviol ferito agli occhi all’ospedale di Torre Pellice. Lettera ai genitori. 14 La zia Lina Diena, madre di Sergio. 15 Era rimasto ospite nella casa di via Mazzini, nella camera dove prima c’era l’impianto dei raggi X.
«Attendiamo cinque minuti di cielo scoperto e spariamo raffiche di 7/8 colpi» di Giulio Bolaffi
[Provincia di Torino] Sabato 8 luglio [1944]16 Sono sfinito, ho continui mancamenti. Mando a prendere due uova. Alle 13 mi raggiunge il tenente Angelo con Dante. Piove a dirotto. Dice che Sandro è stato attaccato a Balmafol da 8 repubblicani17. Ha chiesto aiuto. Decido di salire immediatamente. Mi trascino a stento. Faccio scendere 10 uomini di Mario dal Fiat per la sera per l’operazione del prelievo di riso e della farina. Arrivo stanco alle 17 alle Sevine. Scende Gianni con Piero e mi portano posta da Torino e 50 mila lire. In val di Viú la strada è interrotta. Combattimenti. Solo mercoledí Maddalena ha potuto andare a Torino facendo a piedi da Lemie a Germagnano e ritorno. Gli uomini di Viú sono indignati contro Galli. Vedo degli uomini in Sevine e apprendo che il mattino, appena arrivata la richiesta di aiuto da Sandro, erano presenti solo il dottore, Giacomo, Egidio, Battista, Beppino, Renzo. Subito Egidio partito con Beppe, Renzo, Andrea con tre mitragliatrici. Lanciati due razzi verdi per avvertire uomini al Tour, faccio ritorno. Arrivato sul lato destro del Balmafol è venuta la nebbia. Attendiamo cinque minuti di cielo scoperto e spariamo raffiche di 7/8 colpi. Di sopra gli uomini di Sandro aprono fuoco misto e sotto gli uomini di Guido fanno fuoco. Egidio ha sparato contro gli altri repubblicani (SS italiani tutti con la M con il teschio). Fra i patrioti un solo uomo ferito per la caduta in un precipizio. Tra i fascisti 1 morto, 3 feriti, 2 prigionieri, armi abbandonate. Tutto il mio Gruppo rientra alla Croce di Ferro. Piove. Sono sfinito ed ho avuto due mancamenti. Arriviamo alle caserme della Croce di Ferro (2500 metri s/m) alle 23,30. Siamo fradici. Mi scaldo un po’ al fuoco. Alle 24 gli uomini vanno a dormire nei letti a castello della camerata. Lunedí 10 luglio
Sveglia alle 5,30. Tutti zaini affardellati. 3 pattuglie in postazione. Esercitazioni. Ordine e disciplina. Spira aria di buona volontà. Inizio il lavoro di sistemazione del gruppo con i quattro ufficiali, il medico e il maresciallo Renato. Arrivano due pattuglie. Gli ufficiali chiedono munizioni. Commento di un uomo: «Qui c’è troppa naia, non ci starei 5 minuti». Mercoledí 12 luglio Dalle 10 alle 12 si ode violento bombardamento forse a Torino. Alle 11 scendo nel prato a lavorare. Tullio mi dà foto della spia e la mando a Sandro e Negro. Arrivano due uomini di Novalessa con cinquanta bombe a mano tedesche e un nastro per la mitragliatrice. Renzo mi dà informazione preziosissima circa un sabotaggio di massima importanza. Mi sento male. Febbre altissima, brividi. Prendo un po’ di latte. Alle 21 chiamo Ferruccio, virtuoso di armonica, e gli dò l’incarico di acquistare dieci armoniche per fare la banda musicale. Venerdí 14 luglio Alle 14 arriva una comunicazione del distaccamento di Balmafol: ordine di sbandamento da Comandante Divisione Garibaldi per imminente rastrellamento in grande stile. Sabato 15 luglio Ferro18 conferma sbandamento. Nascondiamo le armi pesanti.
Abbandono la Croce di Ferro.
Domenica 16 luglio
Mercoledí 19 luglio Mi rallegro perché alle 0,1 odo una forte esplosione. La sera avevo mandato Pasquale, Berto I, Mario II, Piero I, a far saltare pali dell’energia elettrica. Alle 9 viene il dott. Paolo. Sentiamo passare dei camion. Ci dicono
che i tedeschi sono al Molino Mosca. Alle 9,30 saliamo nei boschi verso il Nicoletto. Incontro 3 uomini di Champorcher del Comando Divisione Pedro19. Mi parlano del cap. Monti20. Li faccio ospitare dai miei uomini in basso. Nel bosco mi dicono che Tullio è stato ucciso. Mando Attilio a prendere notizie e purtroppo dopo mezzora conferma: è stato sorpreso con Ottavio vicino al Molino Mosca con la rivoltella in tasca. Subito giustiziato. Ottavio è stato catturato. Mandata a centrale elettrica di Venaus sorella Giovanni per dichiarazione per Ottavio. Dolore indicibile per morte caro Tullio. Pensiamo rappresaglie. Faccio ispezionare strada per assaltare camion. Alle 19 arriva Gianni con 50 mila. Lettera Stella e Alberto21. Ore 2 scendo salutare Tullio. Giovedí 20 luglio Trovo parenti povero Tullio. Beghe tra moglie e parenti: salma a Susa o costí. Decido a Urbiano tomba nostri caduti. Alle 16,30 funerali. Parlo al cimitero. Invito alla concordia. Sabato 22 luglio Alle 2 finisco di scrivere a Torino e vado a riposare al Nicoletto sul pagliaio. Alle 4,30 Gianni e Piero I partono per Malciaussia Sevine. Alle 11,30 vado nel bosco a cercare funghi. Solo poche garitole. Dopo colazione arriva Mario I, responsabile collegamento, sento radio Londra e notizie complotto militare contro il nazismo. Mando a chiamare da Dante quattro uomini a Malciaussia e avvertire signora Gobetti22 che desidero parlarle. […] Giovedí 27 luglio Mattino passeggio per Viú. Parto alle 13 con Gianni su camion di Battista che era venuto a Viú. Arrivo a Germagnano e vedo scritte ingiuriose sul muro accanto alla stazione ferroviaria. Vado a prendere vernice rossa e pennello. Prendo scala e salgo sul muro. Cancello «partigiani» e scrivo «Repubblichini tutti vigliacchi. Siete 100, 1000, 10 000 e scappate». Sottoscrivo W L’Italia Libera. Gianni fa la guardia. Su altri muri: «Patrioti
Buffoni» diventa «W i Patrioti» «Buffoni fascisti». Compiacimento del pubblico. Finalmente vedo Bubi in bicicletta. Parlo. Vado a rendere vernice e mi lavo con acquaragia. 16
G. Bolaffi, Un partigiano ribelle, Daniela Piazza Editore, Torino 1995, pp. 81-83. Bolaffi (Torino 1902-1987), esperto di filatelia, in seguito alle leggi razziali creò una rete di aiuti per gli ebrei e dopo l’armistizio entrò nella Resistenza assumendo il comando della IV Divisione alpina GL, alla quale diede il nome di sua figlia, «Stellina». I nomi citati nel diario sono di compagni partigiani. 17 La 42ª Brigata garibaldina «Walter Fontan» si scontrò con i reparti fascisti del 28° Battaglione «M»; i partigiani contarono due morti e tre feriti, mentre i fascisti ebbero ventuno morti, una quarantina di feriti e due prigionieri. 18 Pasquale Blanc, partigiano della Brigata «Val Chisone» e in seguito della IV Divisione GL. 19 La VII Divisione alpina GL, comandata da Pietro «Pedro» Ferreira. 20 Nome di battaglia di Bolaffi in Valle di Viú. 21 I figli, di nove e sette anni, nascosti in Val di Lanzo. 22 Ada Prospero Marchesini (Torino 1902-1968), scrittrice e traduttrice, moglie di Piero Gobetti, animatrice di una rete clandestina di intellettuali, tra cui Nitti e Carlo Rosselli, che portò alla nascita di GL, e tra i fondatori del Pd’A; dopo l’armistizio entrò nella Resistenza col figlio Paolo, tenendo i collegamenti tra le formazioni GL piemontesi e Torino (medaglia d’argento al valor militare).
«Il mio immenso desiderio di un mondo migliore e in pace non mi permette di restare inattivo» di Davide Pugliese
Pian San Giacomo [Svizzera] 25-7-4423
Carissimo zio oggi un anno dalla notizia24, che allora pareva lieta e che tu mi desti in piena notte nella casetta di Montoggio. Io dopo lunga riflessione ho deciso e compiuto il primo atto che mi dovrebbe portare nel giro di pochi giorni a raggiungere le bande di compagni che già combattono (…) l’aborrito nemico. Sono pienamente consapevole del rischio che corro e mi rendo perfettamente conto che ho un massimo del 50 per cento di probabilità di essere ancora in vita alla fine di questa orrenda guerra, ma il mio immenso desiderio di un mondo migliore e in pace non mi permette di restare inattivo, anzi mi spinge a fare tutto il possibile perché la fine sia il piú possibile anticipata. Durante questi lunghi mesi dacché lasciai te e i cari amici di Castello sono stato tanto, tanto in pena per te e per tutti coloro che ho lasciato in Italia e sono stato completamente tagliato fuori da tutti voi e piú nessuna notizia mi è pervenuta ne da te, ne dalle mie sorelle, ne da Giuliana solo vidi Giorgio Segre25 e sua sorella e Diletta Debenedetto Segre con la famiglia. Zio io ho viva speranza che questa guerra debba terminare presto e tutti i miei voti sono perché tutti noi ci possiamo ritrovare per poter iniziare la creazione di una nuova Italia in cui veramente la giustizia e la fratellanza vi regnino sovrani. Carissimo, se io solo mancherò all’appello il giorno della pace ti prego di ricordarmi con bontà e di essere sereno pensando che sarò morto nella speranza che il mio sacrificio servirà per la buona causa alla quale oggi dedicherò tutte le febbri del mio spirito e che sarà una fatalità perché io ed il gruppo di carissimi amici che partiamo, abbiamo preso tutte le precauzioni che ritenevamo possibile per rendere minimi i pericoli
inevitabili per raggiungere una Brigata Garibaldi e dopo sarò nelle mani di Dio e mi affido alla mia buona stella. Se non ritornerò ti prego di ricordarmi a tutti ed alle mie sorelle ed agli zii di Nizza in particolare a Giuliana a cui avevo promesso di unirmi per la vita ti prego se possibile di dare un mio ricordo e ti prego sempre nel limite del possibile di aiutare, come sempre hai fatto, mia sorella Sandra ed i suoi bimbi. A Irma ti prego se ancora esisterà di fare avere i miei libri ad eccezione di quelli che trattano di montagna che li farai avere alla Giovane Montagna26 e di quelli che interessassero zio Arturo che potrà scegliere quanti gli interessano. Le mie cose sia di valore, che effetti personali li potrai ritirare dall’Egr. Dott. Pesaro a cui li lascio in custodia. Arrivederci carissimo questo è il mio piú vivo desiderio perché ho ancora tanti debiti di gratitudine infinita con te che proprio spero che tutto vada per il meglio per poter almeno dimostrarti ancora quanto bene ti voglia. 23
Ilsrec, fondo N.A., b. 1, fasc. 15, cit. in M. Avagliano, Generazione ribelle cit., pp. 64-65. Pugliese (Genova 1912 - Crodo 1945), emigrato in Svizzera in seguito alle leggi razziali, nell’agosto del ’44 rientrò in Italia e si uní ai partigiani in Val d’Ossola e fu catturato e ucciso dai tedeschi mentre cercava di distruggere documenti compromettenti. Lettera allo zio e tutore Giacomo. 24 Caduta di Mussolini, 25 luglio 1943. 25 Partigiano torinese delle formazioni GL in Val Pellice e in Val Germanasca. 26 Associazione alpinistica.
«L’altro giorno ho avuto il battesimo del fuoco» di Gianfranco Sarfatti
Svizzera, 13 agosto [1944]27 Papà carissimo, mammina carissima, oggi ho fatto tutti i preparativi e ho presi tutti gli accordi: soltanto ora ho qualche momento di tranquillità prima che vengano altri due compagni coi quali passerò questa tranquilla notte di vigilia. Cosí non vi scrivo che due parole. Sapete già che faccio quello che faccio non per capriccio o per spirito di avventura: il mio modo di vivere e il perché del mio vivere da molti mesi non cerca di essere che un tuffarsi nell’umanità, partecipando alla sua vita, dura o lieta che sia. Se non agissi cosí rinnegherei me stesso, rimarrei privo di guida, avvilito, annientato: e quindi rinnegherei anche voi stessi che mi avete dato vita e educazione. Forse non poche volte vi sono parso incomprensivo verso le vostre ansie e i vostri tormenti; ma in realtà li comprendevo pur bene. Anche ora li comprendo e li vivo fino in fondo, ma non posso non seguitare per la mia via, che è la via che voi mi avete sempre insegnata. Pensate che mentre sembra che tutto il mondo crolli e che le rovine debbano sommergere tutto, i vostri figli, per vie diverse è vero, guardano al futuro e alla ricostruzione futura dando a questa tutte le loro forze. Voi soffrite; ma milioni di genitori sono stati e sono tutt’ora in ansia; e questo non deve piú essere. E come io ho riconosciuto il vostro dolore nel dolore di tutti i padri e di tutte le madri sofferenti, voi dovete riconoscere i vostri figli in tutti i bambini e in tutti i giovani che sono nati in questo mondo travagliato. Vi scongiuro di stare tranquilli il piú possibile; di lottare contro la tristezza; di essere fiduciosi, che sarà cosa breve; di controllare i vostri nervi; di curare il vostro fisico; di serbarvi a me e ai miei fratelli, ché il ritornare fra le vostre braccia sarà per me una delle piú belle ricompense. Adesso qualche dichiarazione (vi do la mia parola di uomo e di figlio che non mento né esagero): 1° È un’organizzazione seria, non una ragazzata o un’organizzazione di scapestrati.
2° Vado in una estesa regione completamente controllata dai nostri. Gente che vien di lí ha detto che il vitto è buono e sufficiente; l’alloggio è confortevole (si dorme generalmente su materassi); l’equipaggiamento è anch’esso buono. Insomma è qualche cosa di molto vicino a un esercito regolare: e se non sarà armato ed equipaggiato come anglo-americano, sarò certo piú aiutato e nutrito di quanto non lo siano stati i nostri soldati sulle Alpi o in Grecia. 3° La questione razziale non mi porterà affatto pregiudizio. 4° Almeno per ora prevale l’azione di preparazione e di addestramento specialmente per le reclute. 5° Farò una parte del viaggio niente popò di meno che in autocarro. Ho saputo che uno malato di ulcera può seguire la dieta adatta. Inoltre vado via con abbastanza roba: Michelino mi ha dato sacco da montagna e dei buonissimi indumenti di lana: forse ho un po’ abusato ma non ho avuto scelta: andare senza sarebbe stato un po’ disastroso. Vi potete mettere d’accordo con la Mimma28 per ritirare la mia roba dal campo. Vi sono dei libri della biblioteca della Maison du Peuple29 da restituire. Potete mediante sempre la Mimma e i ragazzi Fiorentino attualmente a Bretaye regolare la mia situazione scolastica facendovi rilasciare diplomi e certificati o roba del genere dalla Segreteria italiana e da quella Svizzera. Questa lettera vi verrà consegnata presto: penso domani o dopodomani l’altro: però attendete 4 o 5 giorni a renderla nota. Mi pare non avere altro da scrivere; ho poi scritto questa lettera in due riprese ed ora è tardi. Mille bacioni dal vostro Gianfranco 14 [agosto] mattina Ancora un abbraccio prima della partenza. G. 27
Ap Michele Sarfatti, Milano, parz. cit. in M. Avagliano, Generazione ribelle cit., pp. 68-69 e G. Formiggini, Stella d’Italia cit., pp. 357-58. Sarfatti (Firenze 1922 - La Morgnetta di Fénis 1945), espulso dalla scuola in seguito alle leggi razziali, dalla primavera del 1943 si dedicò all’organizzazione antifascista degli studenti e dopo l’armistizio fu tra i fondatori del FdG fiorentino; dopo aver accompagnato i genitori in Svizzera, entrò nella Resistenza in Valle d’Aosta come commissario politico della formazione
«Emilio Lexert» e fu ucciso in battaglia a La Morgnetta di Fénis. Lettera ai genitori. 28 Mimma Castelnuovo. 29 Casa del Popolo.
«Mie adorate, sono stato condannato alla fucilazione senza avere potuto difendermi» di Ferruccio Valobra
Carceri Giudiziarie di Torino, 22.9.194430 Mie adorate Silvia e Mirella, sono stato condannato alla fucilazione senza avere potuto difendermi: cose dei tempi nostri; pazienza! Ho ugualmente l’animo sereno ed altrettanto spero di voi: tu mia diletta Silvia sappi essere forte per il bene della nostra figlia; a te chiedo scusa e perdono, se non sempre sono riuscito ad essere paziente e buono come avrei dovuto esserlo con te che nella tua vita hai conosciuto solo sacrifici ed immensa dedizione alla famiglia. A Mirella invio il mio paterno saluto, con il cuore straziato di non avere potuto esserle di guida nei duri anni che l’attendono: ma sei una fanciulla intelligente e seria e non mancherai di fare la tua strada sotto la guida della Mamma che ora sostituisce anche me: sii forte e sii italiana come ho sempre richiesto al tuo cuoricino di donnina sensibile e cara. Non guastare il tuo sensibile spirito e tanto tu quanto la Mamma non dimenticate di venirmi a visitare: però niente lacrime e Mira con il suo dolce sorriso porti sulla mia ultima dimora una bella rosa che innaffierà con amore e con qualcuna delle sue dolci canzoni tra le labbra; io ti benedirò e ti seguirò nei dolori e nelle gioie che ti auguro ancora numerose nella tua vita: avrai figli; a quelli insegnerai che il nonno è stato un forte alpino e che ha saputo anche morire da «scarpone» pensando che chi per la Patria muore vissuto è assai. E mentre scrivo penso tanto a Mammetta ed al suo piano; alcune note le riserberai a me ricordando che, forse per intuizione, care mi erano le pagine dell’Andrea Chénier, poeta sfortunato ma grande patriota. [...]31 Ed ora ritorno a voi mie dilette per rinnovarvi la preghiera di essere serene di fronte a tanta avversità. Spero che il mio sacrificio come quello dei miei compagni serva a darvi un migliore domani, in un’Italia piú bella quale io e voi abbiamo sempre agognato nel piú profondo del nostro animo. Non vi voglio imporre il soggiorno piuttosto qui che altrove: lascio al giudizio di Mamma che farà per il meglio: siatemi soltanto vicine di frequente e
pensate con amore a Papà sfortunato. E se verrete da me, come dicevo, niente pianti ma sorrisi; tutto al piú solo due piccole lacrimucce sulla tomba; scenderanno a me e riscalderanno ancora il mio povero cuore per far ritornare in su una bella foglia verde ed un «fiorellin d’amore» come vuole la nostra bella canzone alpina. Che mi sia concesso da Dio di potervi seguire e benedire come vi meritate. Aff.mo papà 30
P. Malvezzi - G. Pirelli (a cura di), Lettere di condannati a morte cit., pp. 321-d322. Valobra (Torino 1899-1944), capitano degli alpini durante la Prima guerra mondiale (decorato con medaglia d’argento), dopo l’armistizio entrò nella Resistenza col nome di battaglia di «Capitano Rossi» nella 103ª Brigata Garibaldi; arrestato su delazione anonima, fu torturato senza rivelare il nome dei compagni e fucilato alla schiena. Lettera alla famiglia. 31 Seguono alcune righe omesse per desiderio della famiglia.
«È il pensiero dei nostri cari che debbono essere vendicati che mi spinge a partire» di Tullio Ravenna
[Francia] 30-3-4532
Carissimi, non vi sorprenda il fatto che agisco senza dirvi niente: mi è impossibile fare altrimenti. Da mesi ormai pensavo a questo ed ora è venuto il momento di mettere in atto i miei proponimenti: questa notte passerò la frontiera per andare a fare quello che semplicemente reputo sia il mio Dovere. Non è né il patriottismo né il fatto che fino ad oggi non mi sia riuscito di concludere niente che mi fa agire cosí. Di patriottismo non mi pare proprio di averne, perché all’Italia non devo niente e non domando niente, e il fatto che fino ad oggi non abbia concluso niente è un episodio cosí mio personale che non mi pare abbia niente a che fare con queste cose. È soprattutto il pensiero dei nostri cari che debbono essere vendicati che mi spinge a partire: mai la mia coscienza mi perdonerebbe di aver esitato davanti a delle piccole difficoltà materiali, quando tanti nostri fratelli sono finiti cosí senza che nessuno si portasse al loro soccorso, e senza che quasi nessuno rilevasse la sfida che ci è stata fatta. Se c’è qualcuno che deve battersi siamo proprio noi che qui abbiamo avuto la possibilità di vedere come stanno le cose e di godere della vita in un modo infinitamente migliore di tanti milioni di disgraziati. Vi domando scusa per i dispiaceri che involontariamente vi ho dati e sono sicuro di dovervi eterna riconoscenza per l’educazione che mi avete data che mi permette di agire cosí secondo quella che reputo sia la retta via. […] Non preoccupatevi se per qualche tempo non avrete mie notizie, cercherò di mandarvene ma la posta non credo funzioni regolarmente: in ogni modo mi conoscete sufficientemente per sapere che non sono tipo da far colpi di testa di nessun genere e quindi dovete essere tranquilli sul mio conto. Pensate che parto per fare la recluta, è una cosa normale, e che quindi è inutile preoccuparsi. […] Vi prego di non dire niente in giro, e se qualcuno vi domanda di me dite che sono andato a Cavaran in Svizzera
tedesca. Per la polizia voi non sapete niente, però non pigliate le prossime carte per non crearvi delle noie supplementari. Leone33 è al corrente di tutto quello che ho fatto e rivolgetevi a lui per mettere a posto le mie cose. Ci sono alcuni libri da rendere (alcuni li spedirà Alba) e dateli pure a Leone. Andate a prendere il baule a Caroline 23 e salutate per me la Pasce. I corsi di botanica (tre quaderni) dateli a Franco [Ravenna] che li restituisca alla Vaucher. Il permesso della bicicletta scade in agosto. Bruno [Levi] mi ha prestato 20 Fr[anchi], vi prego di renderglieli al piú presto. La chiave del baule l’ha Franco. Arriveranno dei soldi dall’Università. Teneteli. Vorrei tanto che non steste in pensiero per me, ma capisco che vi sarà molto difficile e questo mi preoccupa tanto. La cosa peggiore che mi possa capitare è di essere respinto, ma spero che ciò non avvenga. Vi abbraccio e spero di potervi rivedere presto con la coscienza piú a posto di ora. Tullio 32
Ap Renzo Ravenna. Ravenna (Ferrara 1922 - Modena 1995), figlio dell’ex podestà, trasferitosi in Svizzera per frequentare l’università, all’inizio del ’45 entrò nella Resistenza e cercò di unirsi ai partigiani in Val d’Aosta, attraverso la Francia liberata, ma fu intercettato e imprigionato a Besançon fino al termine della guerra. Lettera manoscritta su tre facciate di carta semplice indirizzata ai genitori a Renens (Losanna). 33 Leone Ravenna.
Gli arresti e il carcere
«Non posso convincermi di trovarmi qui senza aver commesso mai nulla di male» di Ernesto Dell’Ariccia
[Roma, carcere di Regina Coeli]1 Già!… Carceri Giudiziarie!!… Come vedete al mondo bisogna provarle tutte… anche la galera! (se poi il destino non ci avrà serbato qualche altra prova ancora piú dura!) Ma… tuttavia, bando alle tristezze; rassegniamoci; facciamoci coraggio e… passiamo ad altro. La mia salute è ottima, e cosí spero di Voi; il morale… il morale poverino bisogna aiutarlo un poco… (lo so, non sono un uomo se parlo cosí, sono un debole… ma, gli è che non posso convincermi di trovarmi qui, senza aver commesso mai nulla di male) … ho bisogno di distrarmi ed è perciò che vi chiedo di voler gentilmente aggiungere nei pacchi del lunedí e del giovedí qualche giornale settimanale, novelle o periodici enigmistici «La Settimana Enigmistica» per esempio. Poi, dato che come saprete mi diletto a disegnare, vorrei qualche matita, preferibilmente marca A. W. Faber «Castell» (9000/Germany) – 2H; 2B; 4B2 e 1 Album da disegno, e ancora, se non chiedo di troppo, vorrei anche il «Poliglotta» (Italiano-Tedesco) del Rag. De Nova3 (cosí credo si chiami l’autore) che potete trovare da Sormani, alla Galleria del libro in Via Nazionale, ed in fascicoli in tutte le edicole. Aggiungete un po’ di inchiostro stilografico, 1 quaderno (che sia bello grosso), 1 cucchiaio, un’altra presa di sale qualche pizzico di zucchero, un po’ di marmellata, la chiavetta per aprire la scatola delle sardine… e perché no una bella pizza già fatta a fette (che intelligenza!) mescolate il tutto ben bene e… spedite a Regina Coeli, al detenuto Ernesto Dell’Ariccia, cella n. 374, che vi ringrazia anticipatamente, vi saluta… e vi prega di salutare, se avete occasione di passare al Bar dove sovente andava, tutti gli amici e la… bionda cassiera… e la di lei amica di cui non ricordo il nome, quella signora4, madre di quei due bimbi tanto carini. Grazie. Saluti Ernesto
[Roma, carcere di Regina Coeli]5 Voglio avere notizie di Ester6, delle bimbe e di mamma. Subito. Ed in particolare di Ester: ha partorito? Avete pensato dove ricoverarla? e Babbo e Bruno hanno pensato a tagliare la corda da lí? […]7 Come stanno? Non mi hanno ancora interrogato, ma Giovanna, si ricordi, se dovessero venire a casa ed interrogarla che Ester e le bimbe si trovano al suo paese a «Staiti» sin dal maggio scorso. Se cosí non vi garbasse, fatemelo disdire subito a 1/2 di Angelina la (lattaia). Un bacio caro a tutti, e tutti i miei pensieri, ed il mio affetto Ernesto 1 saluto da «Grotta Ferrata»8 Sursum corda!!9 [Roma, carcere di Regina Coeli]10 Ester, gli occhi piantati in terra, le mani serrate dietro la schiena, misurando in lungo ed in largo la cella, non facevo che domandarmi: come starà? Quanto tempo ci vorrà ancora?11 Starà al sicuro? Lo confesso, non ne potevo piú! Ero sopraffatto da un’angoscia viva e penosa. Avevo paura e nello stesso tempo ero impaziente. E mi sembra ancora di risentire l’incubo, quell’impazienza dolorosa, quasi, che l’aspettativa procura alle persone che si trovano nelle condizioni in cui mi trovo. Finalmente!… «una bella bambina! Femmina, tanto bella», ecco le frasi che mi hanno procurato tanta gioia che mi hanno riaperto il cuore, che mi hanno regalato, per alcuni istanti, il puro entusiasmo di felicità completa! Oh mia Ester… hai sofferto? Coraggio, sapessi come ti sono vicino! È l’unico conforto che ho, sai. Non fò che procurarmi il diletto di rivivere, con l’immaginazione, tutti gli istanti di felicità completa, di puro entusiasmo, le ore deliziose, sacre, e piú nobili della mia vita! Quelle passate vicino a te, con te! Dalle prime, e cioè, quelle delle gite montane a quelle piú intime, conservando ancora intatte, copiose, e vive tutte le sensazioni che mi hai procurato. E ti garantisco che te ne sono grato, è l’unico balsamo con cui posso addormentare lo sconforto che a volte mi pervade. Ester mia, purtroppo il destino ci ha voluto ancora una volta provare, pazienza, tieni duro! Vuol dire che ci sembrerà piú bella e piú santa la vita che rivivremo insieme. Ti dico che «rivivremo» e sarà presto. Prestissimo anzi… però tu devi promettermi di obbedirmi… e non fare
sempre come piú ti piace… non ti avevo forse detto che questa volta volevo un Maschio? Un bacione dal tuo Ernesto12 [Roma, carcere di Regina Coeli]13
Cari, Carissimi non connetto piú… sono felicissimo che Ester e piccolina14 godono buona salute. Sono rimbambito!… ma che nome le avete dunque messo a mia figlia? Valeria o Giuliana?… Benedetta Elsa, Mimmo e Giuliana ti salutano caramente. Oh questa «Giuliana» forse è un’altra bella novità?? mi capite?? Io le avrei messo qualche altro nome «Valeria» ancora non mi piace, l’avrei chiamata «Lea»… e poi ricordatevi come secondo nome «Amelia». Come sta la mia buona, cara, tanto affettuosa, seconda madre? Si ricorda qualche volta di me? Mi ha perdonate tutte le mie «mascalzonate», come mi diceva lei? Mi vuole un po’ di bene? A proposito, dunque, il contratto di matrimonio ce l’ha l’Avv[ocato] Fantacone, il quale ha lo studio in Corso Vittorio Emanuele, di fronte a Zingone (sopra a quell’oculista di cui non ricordo il nome). Di salute sto benissimo. Smetto, perché il «furiere» tedesco aspetta debbo riconsegnare subito la presente. Oh come diavolo hai fatto, Bruno, a prendere contatto con questi signori?? Guarda se con lo stesso metodo tu mi possa fare avere un po’ di sigarette. Pensa, qui di contrabbando si pagano L. 50, dieci Nazionali cioè 1 «scudo» l’una. Ti abbraccio e ti bacio Ernesto Ma Mimmo si è fidanzato?? Chi è «Giuliana»?? Avete notizie di Manlio?? Ed Emma come sta?? [Roma, carcere di Regina Coeli] Venerdí 21 gennaio 194415 Di salute, se non fosse che mi sento ancora indolenzito, per un sacco di legnate che un signore delle S.S. mi ha elargito senza badare a spese. Di salute, come ripeto sto bene. Quanto al morale, confesso di avere passato una «serataccia» ieri sera, e tutta la notte non ho potuto riposare, ma pazienza, spero che anche questo avrà termine. Oggi è il compleanno dei gemelli ed auguro loro di cuore, con il pensiero, tutti gli auguri piú belli.
Poveri fratelli miei, chissà dove saranno ora con il sig[nor] D’Avere. Se non fosse per il fatto della razza starei tranquillo, perché lo so che anche tu, come me, hai la coscienza tranquilla, e che non hai mai posseduto armi, e né idee bellicose verso i tedeschi. Lo so che è tutta una calunnia, e che un’anima prava ha voluto, vigliaccamente, farti del male. Ma al mondo ci sono anche le anime buone, e qui io ho, tra i detenuti politici, un signore (d’aspetto e di animo) che stamane ho conosciuto come un professore, il quale molto gentilmente e molto premurosamente mi fa la cortesia di offrirmi la maniera di poter spedirvi la presente. Un abbraccio e un bacio affettuoso Ernesto16 1
Apf, Roma. Dell’Ariccia (Roma 1913 - ?), fu arrestato nel novembre del ’43 e deportato ad Auschwitz. Il primo documento è una lettera senza data su due facciate a righe; in testa alla prima facciata c’è il timbro «Carceri Giudiziarie di Roma», al quale si riferisce la prima frase del testo. Risale ai giorni seguenti la cattura, il 12 novembre 1943. 2 Tipo e misura di matite da disegno. 3 Il Poliglotta moderno. Giornale settimanale per imparare le lingue edito da Sonzogno. 4 In nota in calce al foglio Dell’Ariccia annota: «Ha partorito?» 5 Biglietto clandestino senza data su due facciate a righe. 6 La moglie, Ester Toscano. 7 Seguono parole cancellate dall’autore. 8 Allude alla sua condizione di detenuto, evidenziata dal disegno di una finestra con grata. 9 In alto i cuori. 10 Lettera senza data su due facciate a quadretti indirizzata alla moglie. 11 Qui e in seguito allude alla nascita della figlia dopo il suo arresto. 12 In verticale c’è scritto: «Come fanno le mie piccole? Come stanno? A proposito e quest’altra come la chiameremo?» 13 Lettera clandestina su due facciate di foglio bianco. 14 La figlia nata dopo il suo arresto, di cui ancora non conosceva il nome. 15 Lettera clandestina su due facciate di foglio bianco.
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In verticale c’è scritto: «Ho ricevuto la lettera di Giovanna. La ringrazio».
«La fiducia in Dio mi dà la serenità e la forza di sopportare tanti dolori» di Anna Di Gioacchino
[Firenze, carcere delle Murate, dicembre 1943] 17
Mammina mia, non puoi credere come pensi a te continuamente in questi giorni, a te che sei la piú provata di tutti, e come preghi Iddio che ti dia la forza di sopportare questo dolore. E penso a Papà, ai miei cari adorati piccini, alla Hulda e a tutti tutti e vorrei avere vostre notizie e sapere il vostro stato d’animo. Io sono forte abbastanza e la fiducia in Dio mi fa essere quasi serena, mi sono abituata a questa vita e finché mi lasceranno qui state tranquilli che sto bene e anche di Nathan mi assicurano lo stesso. Se poi dovranno portarci via, speriamo che ci lascino insieme e questo mi farà sopportare meglio qualsiasi privazione. Ma qualunque cosa succeda, ti prometto, mamma, di essere forte e di reagire con tutte le mie forze per resistere e tornare dai miei bimbi. Cosa sanno loro di me, del loro papà e dello zio? Immagino che avranno capito, e come hanno reagito? La mia Susanna, la mia cara donnina, tanto sensibile, come ha sopportato questo dolore? E David? anche lui cosí assennato e che ragiona tanto! Sento negli orecchi continuamente la vocina di Daniel che chiede «dov’è la mia mamma?» e penso a Eva, che io non posso allevare e che non conosce nemmeno il mio viso. Che Dio li protegga tutti e li faccia crescere buoni e sani, fedeli osservanti della Sua Santa Legge. Mi consolo pensando che fra te, la Hulda e le zie lontane avranno altrettante mamme e non mancheranno d’affetto. Prega tu, mamma mia cara, e fai pregare i bambini che si possa di nuovo riunirci tutti ed essere di nuovo felici. Perdonami se qualche volta sono stata cattiva con te e se ti ho dato dei dispiaceri! Dí alla Hulda che Saul18 è stato calmo e sereno finché ci hanno divisi. Come penso anche a lei! Se vi è possibile farci avere un po’ di biancheria per cambiarci sarebbe bene, ma non vi esponete personalmente, uscite il meno possibile e guardatevi da tutti: ognuno può essere una spia. Mi raccomando prudenza! meglio non portare niente a noi che rischiare anche voi. Vi abbraccio tutti insieme e benedico i miei bambini
Anna Ritirate da Wollfer l’orologio di Nathan. [Firenze, carcere delle Murate, dicembre 1943]19
Carissimi, si credeva di partire ieri invece [la partenza] è stata rimandata, non si sa per quanto. Lunedí fummo interrogate tutte e dissi le mie vere generalità per paura di peggio. Noi siamo calme e aspettiamo con serenità la sorte. Speriamo che questo rinvio sia per lungo tempo e che non possano portarci via. Purtroppo però la vecchia signora alta e malata che stava in cella con l’olandese, non ha voluto affrontare quest’incertezza, e non è piú, e un’altra ancora, che non conoscete, ha tentato lo stesso. Sono in pena per il bombardamento di stanotte e vi prego di darmi al piú presto notizie di tutti. Se vi è possibile mandate un po’ di soldi per la spesa a me e a mio marito a mezzo vaglia, pochi, 100 lire, perché se si parte non si portano dietro, al caso, se ci tratteniamo, li rimetterete. I pacchi potrebbero passare a nome dell’Ada Ricci (se mercoledí ci siamo ancora) o a mezzo S. Maria. Se non potete non vi confondete che anche col vitto e la spesa si può andare avanti benissimo. Avvertite anche quelli della sig.ra Luzzatti. Qui ora siamo 37. Da Livorno sono arrivati 9 fra donne e bimbi poverissimi, poi la sig.ra Maestro e la padrona del 48 tutte e due 70 anni. Se è possibile mandate un po’ di soda incartata nel giornale. Papà potrebbe andare dall’avvocato della zia Nina per i mobili. Mi raccomando di farmi avere notizie ogni tanto. Portatemi il busto di stoffa cosí potrete accludere un biglietto. In cella con me sono Rita e Lea, e Paolo è solo dall’altra parte (se la zia Alice non sa nulla non diteglielo). Grazie di tutte le vostre gentilezze e di tutto quello che Elena ha mandato e che abbiamo distribuito secondo i bisogni. Fate una nota se consegnate roba, perché le maglie piccole e la seta rosa non è arrivata. Come mai giovedí non siete tornati a prendere la roba sporca? Grazie ancora di tutto. State tranquilli che anche se partiamo sono tranquilla e serena. Vi abbraccio Anna
Le Reggio stanno bene, vengono nel pomeriggio in cella con noi e ho consegnato loro il biglietto di Anita. 17
Ap Sara Di Gioacchino Corcos. Anna Di Gioacchino (Ancona 1911 Gerusalemme 1948), sposata col rabbino Nathan Cassuto, dopo l’armistizio collaborò all’assistenza dei profughi ebrei col marito, ma fu arrestata su delazione e deportata in Germania, dove fu liberata dagli Alleati; morí in un attentato a Gerusalemme. Il primo documento è un biglietto su due facciate a righe indirizzato alla madre Emma Della Pergola. 18 Il cognato Saul Campagno. 19 Biglietto su due facciate a quadretti.
«Abbiamo l’ordine di arrestare vostra madre e vostra sorella perché sono ebree» di Margherita Segrè
[Carcere di Pesaro] Venerdí 3 dicembre 194320 Sono le 9 1/2 e sto scrivendo a Lidia21 per confermare l’arrivo del vaglia. Silvio22 è con me. Sento che qualcuno è venuto in sala. Silvio va a vedere e sento le testuali parole: abbiamo l’ordine di arrestare vostra madre e vostra sorella. Perché? dice Silvio. Perché sono ebree risponde il maresciallo; da un’ora di tempo per prepararsi. La mamma era uscita per comprare la carne. Io ero indisposta; a queste parole mi sento i sudori freddi; mi gira la testa. Penso che la mamma tornerà a casa di minuto in minuto e che devo reagire. Comincio perciò i preparativi. Ecco la mamma è qui! Quando ha saputo credevo impazzisse, prendeva la roba la metteva in valigia, poi la tirava fuori. Un carabiniere aspettava in sala. Alle 11 eravamo in carcere! Sabato 4 dicembre Non abbiamo dormito. La cella è buia, umida fredda. Le nostre brande hanno una buona rete metallica ma i materassi sono balordi. Per fortuna abbiamo le nostre lenzuola i nostri cuscini e i nostri piumini. In cella c’è una sedia e un tavolino, ognun di noi ha la sua valigia accanto alla sua branda. Domenica 5 dicembre Non sto bene. Le agitazioni mi hanno provocato una forte colica e anche l’appendice mi fa male. Il dottore Furlani ci consiglia di fare una domanda a Pesaro per essere ricoverate all’ospedale. Mi consiglia di operarmi d’appendicite. Lunedí 6 dicembre È stato qui il pretore. È gentilissimo. La domanda la presenterà lui col certificato del dott. Furlani. A Nino ho scritto tutto di noi. Martedí 7 dicembre
Io non li ho visti ma ho saputo che ci sono 7 uomini qui detenuti. Il custode si chiama Anselmo, è molto nervoso e urla e strilla sempre ma non è cattivo. La moglie invece è molto buona e chiacchiera, si chiama Adalgisa. Mercoledí 8 dicembre Le ore sono eterne e la notte non riesco a dormire. A mezzogiorno mangiamo la minestra dei detenuti che non è tanto cattiva. Alla sera viene Franceschina e ci porta la pastasciutta. Poveretta ora che i bambini sono da loro il lavoro davvero non le manca. Oggi è festa: l’Immacolata Concezione. La mamma sospira sempre. Ora sono andati via Franceschina e i bambini. Sergio era stato già qui il I giorno ma Bruno non era mai venuto e non vedeva l’ora di andar via. Adalgisa ci ha lasciate riscaldare la pasta in cucina, poi ci ha offerto vino e noci e siamo state a chiacchierare sino alle 9. Avevo addosso il cappotto ma ero gelata. Tutti a Pergola parlano di noi e chiedono nostre notizie a Franceschina. Notte: ho dormito dalle 9 alle 10 3/4 e poi a varie riprese altre 2 ore. Giovedí 9 dicembre Fuori splende il sole ma non possiamo vederlo perché una lamiera di ferro nasconde tutta la parte inferiore della finestra. Questa è grande e protetta da un’inferriata. Riceviamo l’acqua calda nelle bottiglie e cosí almeno ci riscaldiamo a letto. Anselmo non è antipatico e se non ha la luna non strilla. Entra qualche volta a chiacchierare da noi, peccato che mentre parla sputa sempre in terra! In turno separato dagli uomini possiamo passeggiare 1 ora in cortile ma se non c’è il sole non ci si resiste: è cosí freddo e umido. Oggi ci siamo state fuori e al sole si stava bene; quando sono rientrata l’umido e il freddo mi hanno fatto rabbrividire e mi cacciai a letto. Gli uomini che sono qui dentro non ànno commesso gran reati. Chi ha macellato carne di contrabbando, chi ha rubato un paio di galline: fame! Due sono qui perché i figli non si sono presentati23. Franceschina e la signora Monti sono state qui, ho saputo che le nostre casse sono ora dalla signora Monti e le provviste da Franceschina. Ho avuto 2 libri! Venerdí 10 dicembre
Siamo qui da una settimana, sembra sia passato un mese! Abbiamo ricevuto una cartolina dalla Zia Silvia. Non è successo niente, per ora, la Nora sta molto male. Sabato 11 dicembre Ho scritto a Lidia e sono in pena. Fuori c’è la nebbia e invece di uscire siamo state 1 ora in cucina dopo mangiato. C’era il muratore, un vecchietto che ha chiacchierato con noi. Ho fatto 2 grandi fatiche: pulizie accurate della cella e lavacri. Quanto freddo! Questa sera prenderò (…) e spero finalmente di dormire. Domenica 12 dicembre Ho dormito dalle 9 alle 3. Pure non veniva mai giorno, un’eternità. Questa mattina Anselmo ha la luna; ha strillato per l’acqua calda e dice che i malati se ne vadano in ospedale e i sani stiano al regolamento. Sono in pena per Lidia e per la Zia Silvia. Ho ricevuto da Nino il vaglia per dicembre, ho risposto. Abbiamo ricevuto per pranzo brodo e carne lessa. La professoressa ha lodato le cronache di Sergio, ne sono contenta. Lunedí 13 dicembre Santa Lucia! Ho fatto gli auguri alla mia Betti. Piove! Fortuna che ho comprato le calze per Bruno, cosí metterà gli stivaletti. Ho scritto un espresso a Lidia; sono 13 giorni senza sue notizie, non ne posso piú. Ho letto un libro di novelle e 2 romanzi. Ora leggo un libro di Stevenson: Il sentiero dell’amore. Tratta dell’epoca della riv[oluzione] francese. Martedí 14 dicembre Ho avuto lettera da Lidia in data del 3/XII perciò non sono affatto tranquilla. Povero Lucio di nuovo con la gamba in gesso! È morta la sig[nori]na Wingler per una fuga di gas. Me ne dispiace molto era cosí buona e simpatica. Chissà se Nino avrà già scritto di noi a Lidia. Ed essa dove sarà? Non ne posso piú di quest’angoscia di non sapere niente, mi sento un peso un’oppressione tremenda. 15 dicembre mercoledí
Anniversario delle nozze di Lidia! Sono passati 19 anni! Chi mai direbbe che sono tanti. Penso e mi piace ricordare gli anni quando […] quando c’erano l’Annina e papà. 16 dicembre giovedí Da Pesaro hanno risposto che la mamma non può venire con me all’ospedale e cosí non ci vado nemmeno io; a me il permesso l’avrebbero dato per fare l’operazione. Vedremo quanto tempo ancora si starà qui, dopo pare andremo al campo di concentramento. Oggi Anselmo ha strillato molto; quando arrivano nuovi detenuti è sempre nervoso. È molto stizzito anche con noi e ha avuto una manieraccia: à buttato in terra i miei cuscini e le lenzuola. Ci ha fatto cambiar stanza e ci ha sprangato la porta. Siamo in 4, insieme a noi ci sono 2 contadine prese perché i figli non si sono presentati. Senza luce! 20
Adn /89. Margherita Segrè (Trieste 1919 - Cefalú 1981), dopo l’armistizio sfollò con la famiglia a Pergola (Pesaro), dove fu arrestata dai carabinieri, ma fu rilasciata con l’aiuto di un’infermiera dell’ospedale che l’aiutò ad aggravare una colite. Diario su quaderno a righe dal 3 dicembre 1943 al 3 marzo 1944, con un’ultima annotazione il 20 agosto 1944, giorno della liberazione da parte degli Alleati. 21 La sorella. 22 Il fratello. 23 Alla leva della Rsi.
«È duro per un uomo che non ha mai fatto male a nessuno di trovarsi in questa situazione» di Rudolf Levy
[Firenze, carcere Le Murate] 21.XII.4324
Cara Signorina, avrete saputo già la disgrazia che mi è capitata. Sono in prigione delle Murate da piú di una settimana. Dio solo sa quando potrò uscire. È duro per un uomo di 68 anni che non ha mai fatto male a nessuno di trovarsi in questa situazione. Pazienza. Date i miei saluti a tutti che mi vogliono bene e vi auguro delle belle cose per le prossime feste natalizie. Cordiali saluti. Vostro Rudolf Levy 24
Dalle leggi antiebraiche alla Shoah cit., p. 206. Levy (Stettino 1875 Auschwitz 1944), pittore polacco, fuggito dalla Germania, fu arrestato a Firenze nel dicembre ’43 e deportato e ucciso ad Auschwitz. Biglietto su una facciata a righe indirizzato all’amica Elena Bandini (testo parzialmente coperto da inchiostro ma leggibile).
«Pare che per il campo di concentramento ci sia ancora tempo» di Corrado Israel De Benedetti
[Carcere di Ferrara]25
Carissimi, eccovi la mia terza lettera, da questo incantevole luogo. Di nuovo nulla, si mangia, si legge, si dorme continuamente. La salute finora è buona, il morale abbastanza alto. Oggi il freddo ha cominciato a farsi sentire, specialmente ai piedi, ma finora ci si resiste. La nostra giornata comincia alle 7: sveglia, fai colazione e un po’ di lettura. Dalle 9 alle 10 circa passeggiata in un cortile. Alle 11 cominciano ad arrivare i pranzi, fin verso le 12; poi riposo e lettura; dalle 5 nuovo via vai per la cena. Alle 9 circa termina la nostra giornata, con la laboriosa preparazione dei letti (pagliericcio di paglia e coperte) preparazione che si attua con molti studi e dopo lunghe discussioni. E a casa come va? La Maria continua a venire? Quello che piú mi dispiace, dopo la lontananza da voi, è l’aver dovuto interrompere cosí gli studi; ma pazienza e andiamo avanti. Avete notizie delle zie? Scrivetemi presto e fatevi forza, ché prima o poi anche questo dovrà passare. Bacissimi a tutti Corrado Se il 28 andate al cimitero salutate il nonno anche per me [Carcere di Ferrara]26
Carissimi, come avrete già saputo sono tornato nella vecchia camerata. Dopo 2 giorni dal I° cambiamento ero totalmente annoiato dal mortorio trovato (pensate che su 13 persone 3 normalmente aprivano bocca solo verso le 8 di sera) che ho accolto volentieri la proposta del papà di Franco di tornare con lui. Qui, almeno ogni tanto, si ride un po’ e c’è modo di passare il tempo senza troppo pensare. Vi prego di mandarmi 1 paio di mutande e anche 1 pigiama ora che ho il lenzuolo. Stamane mi son dimenticato di consegnare le 2 bottiglie, pazienza! Per il latte ne potrete trovare un’altra, e l’acqua calda
la posso avere anche qui. A proposito diminuite pure la razione di latte che mi mandate, data la rarità, ché non vorrei vi sacrificaste per me. Mandatemi anche possibilmente ago e filo per me, piccole riparazioni al paletot. Pare che per il C[ampo di] C[oncentramento] ci sia ancora tempo27. Bacissimi Corrado 25
Apf, Israele. De Benedetti (Ferrara 1927), appena quindicenne venne arrestato e rinchiuso in carcere, ma dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari fuggí in clandestinità nella zona di Brisighella (Ravenna); nel dopoguerra emigrò in Israele entrando a far parte della direzione economica del movimento kibbuzistico e della direzione del partito Meretz, della sinistra israeliana. Lettere senza data scritte tra la fine del ’43 e l’inizio del ’44. La prima è su carta semplice con timbro della censura e timbro che spiega le modalità per fare visita ai detenuti (la domenica e il giovedí , col permesso delle Autorità competenti). 26 Biglietto clandestino senza data su foglio a righe, nascosto nel tappo del thermos. 27 Alcuni compagni di prigionia si auguravano di andare presto in campo di concentramento nella speranza di ricongiungersi alle famiglie e mangiare meglio.
«Che Dio ci assista e vi assista» di Nathan Cassuto
[Firenze, carcere Le Murate] 19/1 [1944]28
Carissima, grazie infinite per la tua lettera. Siamo in partenza e non si sa dove andremo. Sono molto tranquillo e fiducioso. Abbiate cura dei nearim29, sorvegliateli per la religione. Credo che partirò insieme con mia moglie30 e questo sarebbe un grande conforto. Mi si dice in questo momento che sono sospese le partenze. Che Dio ci assista e vi assista. State in casa, uscite solo di sera. A mia sorella e alle sue care, alla zia M[argherita], a mio cognato e famiglia a tutti tante cose affettuose. A te e a tuo marito in particolare i miei baci affettuosi e la richiesta di una particolare benedizione. La Tina ritiri la biancheria sporca che già due volte ho mandato via. Se non fossi ancora partito domani mandatemi tutto quel che vi ho richiesto di biancheria e non vi dimenticate le tre paia di calze e un fazzoletto (oltre a camicia, camiciola, mutande, tovagliolo). Tutto quello che mi avete inviato di viveri e indumenti è sempre giunto. Ma viveri e calze erano pochi. Oggi ho ricevuto le sigarette (grazie) e attendo il vitto. Se la casa è affittata, avvertite che le mie chiavi sono in mano agli Asckenazim31. Magari tengano sempre il paletto. Dentro l’armadio del mio studio c’è la scatola delle lenti (in una busta di pilor nero) e una scatoletta con un prezioso strumento ottico. Vedete se per mezzo degli inquilini è possibile salvare questa roba e consegnarla a gente fidata. Baci N. Due persone che sono a contatto con mia moglie l’hanno definita ai rispettivi mariti, senza sapere una dell’altra, una «un tesoro», l’altra «una santa». Che Dio la benedica per il bene che anche ora spande intorno a sé. Bruciate tutti i biglietti sempre. Se la Tina non avesse portato oggi il vitto credendo che fossi partito fatemi avere subito qualcosa a mezzo Signora P. (ma non le scatolette che da me non posso aprirle) altrimenti muoio di fame.
28
Ap Sara Di Gioacchino Corcos cit. Cassuto (Firenze 1909 - Gross Rosen 1945), perse il posto di oculista, divenne rabbino di Firenze e sotto l’occupazione tedesca fondò un Comitato di assistenza per i profughi ebrei, ma fu arrestato su delazione nel novembre ’43 e deportato ad Auschwitz; medaglia d’argento al valor civile. Biglietto fronte-retro sul modulo «Stabilimenti Carcerari – Firenze. Distinta degli effetti di vestiario ed altro che il detenuto chiede siano consegnati ai familiari». 29 Giovani. 30 Anna Di Gioacchino. 31 Ebrei orientali discendenti delle comunità ebraiche della valle del Reno.
«Cosa farò per te se ritornerò in libertà!» di Arturo Foà
[Torino, carceri giudiziarie] Domenica ore 1732 Dove sei a quest’ora? Nelle mie infinite notti e nei miei infiniti giorni non penso che a te; tu sola, tu sola! Ti ringrazio di tutto; farò che io esca, io che non ho la piú piccola colpa e che ho combattuto. Cosa farò per te se ritornerò in libertà! «La mia vita perché tu viva!...» Questa notte scendeva dall’alta inferriata un po’ di luna: la luna di Bocciadoro. Mi chiudano nella villa; ho chiesto questo; Dio ci assista. La tua grande anima sia forte. Il mio spirito resista per te. Se penso di rivederti tremo dalla testa ai piedi, sia presto! Mia adorata, saluta tutti e scrivimi: «Corso Vittorio Emanuele 127 Carceri giudiziarie». Ti mando la mia anima, Rina Arturo Piacenza, 18 feb[braio 1944]33 Dalla stazione di Piacenza alle 8 del mattino. Andiamo al campo CarpiModena. Scrivi e fai scrivere a chi sai. Subito subito. 32
Ap Franco Foà. Foà (Cuneo 1877 - morto in data e luogo ignoti), scrittore e pubblicista, ufficiale nella Prima guerra mondiale, presidente della Pro combattenti, tra i fondatori del movimento Alleanza Nazionale; arrestato a Torino a inizio del febbraio ’44, fu deportato ad Auschwitz. Il primo documento è un biglietto su carta semplice, scritto domenica 6 o 13 febbraio 1944, indirizzato alla compagna Rina. 33 Biglietto su carta di fortuna.
«La fine del conflitto ridarà un mondo migliore e piú buono» di Gino Tedeschi
[Trento, carcere di via Pilati]34
Carissimi, mi auguro abbiate potuto avere la precedente mia del 13 corr[ente] e vi sia stato di conforto vedere la mia calligrafia, mentre cercherete tranquillare il vostro animo come faccio io stesso in attesa di un giorno migliore il piú vicino possibile per potervi abbracciare. Anche oggi è venuta la mia ragazza portandomi parecchia roba sia di viveri che di biancheria per potermi arrangiare alla meglio e farmi alleviare un po’ il peso dell’anima per essere qui rinchiuso. Mi riferí che avete mandato un nostro incaricato a casa ma non seppe dirmi il nome, immagino possa essere stato il Sig[nor] Bruno Gh., mi conforta sapere dei passi a mio riguardo (…), sembra siano in corso informazioni a mio riguardo per decidere favorevolmente, certo che il verbo deve venire da Bolzano. Mi si vogliono dare buone speranze ed io mi affido al tenue filo che dia la libertà ad un uomo che sempre ha operato rettamente e per il bene del prossimo. I nostri cari scomparsi pagheranno per noi tutti e ci daranno la forza di superare questi tristi momenti fino a che la fine del conflitto ridarà un mondo migliore e piú buono. Della mia salute vi posso dire sempre bene ad onta della restrizione che affligge, della completa inerzia che allunga i giorni e le notti in minuti ed ore eterni, ma mi dà pace e rassegnazione nello stesso tempo. Mi auguro avere da voi presto notizie dirette e sapervi in buona salute come pure dei cari figlioli e del loro pargoletto che tanto desidererei vedere e ammirare. Le notizie estreme che giungono qui sono sempre piú o meno attendibili, è da augurarsi che in questi mesi di favorevole stagione possano verificarsi avvenimenti di importanza, magari fossero decisivi! Intanto viviamo di illusioni e speranza. Null’altro da allungarmi, vi ringrazio dell’interessamento a mio riguardo e chissà che con le varie spinte si riesca a farmi aprire queste dolorose porte. Al bene di leggervi invio i piú affettuosi saluti a tutti e abbracci Gino
34
M. L. Crosina, Le storie ritrovate cit., pp. 242-43. Tedeschi (Verona 1884 - Auschwitz 1944), reduce della Prima guerra mondiale (decorato con medaglia d’argento), rappresentante di commercio, sposò Amelia Reina, cattolica, e si convertí nel ’41 ma fu arrestato ad Arco (Trento) nel maggio ’44 e deportato. Lettera alla famiglia senza data, scritta quasi certamente tra il 13 e il 24 maggio 1944.
«Ti ringraziamo di tutto e con la tua benedizione partiamo calmi e sereni» di Angelo Tagliacozzo
[Roma, carcere Regina Coeli] 16.5 [1944] mattina35
Cara Mammina, come già ti ho mandato a dire ti ho scritto con questa 4 volte piú una volta che non mi è passata forse la lettera con il metodo di papà non ti è venuta perché l’indirizzai al Sig[nor] Luigi36 e là forse non c’era nessuno che la potesse ritirare. Per i pacchi di Giovedí ci sono arrivati interi mentre la lettera che accludesti con il mangiare di lunedí non ce l’hanno fatta passare quindi dato che c’è l’ordine di darci la sola biancheria è inutile che tu continui a mandare pacchi anche perché oggi ho al massimo domani partiremo Grazie a Dio! Non ti voglio rimproverare ma che ai mandato a fare le mie scarpe con il vestito di Settimio37 non te l’avevamo chiesto e poi è robba inutile, ti ho mandato a chiedere 50 lire e tu ne ai mandate 3 questo ormai è fatto forse è meglio cosí ma da ora in poi sospendi tutto e non fa di testa tua come al solito tu sei sempre l’esagerata. Sai bene che se uno avesse bisogno lo manderebbe a chiedere. Le raccomandazioni che ho da fare è che voi stiate al piú riparo possibile come ho potuto sapere dalla tua [lettera] stai da Lisa38 ho in quei paraggi guarda vorrei se vi fosse possibile che andate ancora piú al sicuro perché in quei paraggi è troppo sputtanato poi non uscite per nessun motivo nemmeno per il pane mandate a comprare, non compratelo telefonate al 582856 che è Giorgio39 e fatevi aiutare come meglio può anche da lui fa definire quell’affare con Wanda40 poi resta a contatto con Alberto ecc. ecc. se potete andare dove vi ho mandato a dire, cercate voi poi fate il meglio possibile non badate a spese spendete tutto senza preoccupazioni se ce ne fosse bisogno vendete anche tutto non ti preoccupare l’essenziale è che quando torniamo cosa che prevedo molto presto vi ritroviamo sani e salvi. I biglietti che dopo tutti hai messo nel pacco di Settimio e al mio niente non c’erano passati non ho niente di niente perché son stati strappati. Manda qualche persona a vedere Mercoldí se c’è la biancheria sporca ma vedrai che non troverai niente
perché se partiamo ce la portiamo via e se c’è bisogno la possiamo lavare da noi se trovi ci sarà un pacco con sole mutandine ma come ti ripeto non venite voi. Manda il biglietto accluso41 a destinazione e passa da Filomena42 guarda un po’ tante volte. Fate molta attenzione che ora c’è pericolo anche per le donne non uscite ecco e non esponetevi a pericoli. Ti ringraziamo di tutto e con la tua benedizione partiamo calmi e sereni abbracciandoti per dirci solo arrivederci tanti e tanti bacioni a te e le mie care sorelle Angelo43 35
Ap Aldo Astrologo. Tagliacozzo (Roma 1916 - Dachau 1945), commerciante, fu arrestato nel maggio ’44 e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli e poi deportato prima a Fossoli e poi ad Auschwitz. Lettera clandestina su quattro facciate di foglio a righe, indirizzata alla madre Bellina Tagliacozzo. 36 Luigi Leggeri. Nascose in una mansarda in via dei Giubbonari a Roma le famiglie Limentani e Tagliacozzo. 37 Settimio Limentani (Roma 1919-1984), commesso in un negozio di tessuti, arrestato insieme al fratello Angelo e ad Angelo Tagliacozzo; sopravvisse ad Auschwitz. 38 Ospitò per alcuni giorni le famiglie Limentani e Tagliacozzo dopo gli arresti. 39 Il fornaio. 40 La sorella, fidanzata di Angelo Limentani. 41 Scritto indirizzato alla fidanzata, sulla quarta facciata del foglio. 42 Procurò un nuovo nascondiglio nei pressi di Ponte Milvio alla famiglia Limentani e a Wanda Tagliacozzo. 43 La lettera continua con uno scritto di Settimio Limentani: «Cara Mamma noi stiamo bene cosí spero di voi tutti, stai tranquilla se possiamo scrivere ti scriveremo saluta tutti i nostri parenti. Tanti, tanti, Baci a Clelia Franca e a te. Saluti Wanda e famiglia. Tuo figlio Settimio».
«Medito di scriverti, perché tu sappia» di Giulio Iona
[Fossoli] 23 giugno 194444 La mattina del 17 [maggio 1944] alle cinque ci vengono a svegliare e scelgono sedici uomini (eravamo in 19) senza distinzione di età e di condizione fisica e ci caricano su di un torpedone. Dopo la prima sorpresa, una grande gioia mi ha aperto il cuore. Per quanto ci avessero affidato picozze e badili, il che significava che si doveva andare a fare qualche non facile lavoro, una cosa era certa: rivedevo Genova, ne percorrevo le strade, trascorrevo una giornata all’aria aperta. E poi una grande speranza mi ha preso: di poterti incontrare per la strada e vederti di sfuggita. Cosa impossibile data l’ora in cui abbiamo attraversato le principali vie. Credevo si sarebbe andati al porto. Invece no. L’auto ha proseguito oltre la stazione marittima, ha lasciato dietro di sé S[an] P[ier] d’Arena, Sestri, Pegli. Dove si andava? Una nuova ansia mi ha preso, dopo la prima mezz’ora di distrazione. A Voltri abbiamo imboccato una strada che ci portava in montagna. Che bello rivedere un po’ di verde e salire, salire! Mi pareva di avere acquistato la libertà e non ti nascondo che speravo mi si presentasse l’occasione per una fuga. Oltrepassata la galleria del Turchino, siamo scesi ed abbiamo iniziato una salita a piedi, dopo esserci caricati sulle spalle gli attrezzi da lavoro. Di qui incomincia la scena dolorosa: immaginati di vedere fare una salita di buon passo, sotto il carico non indifferente dei badili e delle picozze, da uomini di sessanta anni; chi con un braccio mutilato e pieno di acciacchi, chi semitubercolitico e con un solo polmone: insomma, tutti inabili a fatiche e per i quali un minimo strapazzo poteva essere fatale. Naturalmente noi giovani abbiamo portato tutto il carico per loro, ma non li potevamo portare a spalle. E dietro a noi la dura voce di comando dei tedeschi armati che sollecitavano la nostra marcia. Arrivati in cima ci hanno fatto iniziare uno scavo. A tutta prima, pareva dovesse servire ad una piazzola per cannone antiaereo45. Dopo mezz’ora di lavoro, il maresciallo delle SS cambia idea e ci porta piú su. Quel povero tubercolitico
era stremato. È caduto a terra. Il maresciallo iroso lo prende per il colletto ed a suon di bastonate lo fa rizzare in piedi. Piú su, si riprende un nuovo scavo. Distribuiti in semicerchio, dobbiamo scavare e gettare fuori la terra. Il povero uomo non lo si fa lavorare, ma gli vien dato un bastone perché batta chiunque si attardi nel lavoro. Proprio lui che non ha neppure la forza per sollevare un braccio. – Il sorvegliante dei lavori dei vili giudei! – gli dice il maresciallo in tono di scherno e lo fa sedere in mezzo a noi. Il lavoro si inizia con la massima lena da parte nostra per accontentarli. Ciò non basta loro. Si procurano dei bastoni e le legnate piovono sulle nostre povere schiene. Io per fortuna ne ho prese poche e leggere, mio padre nessuna. Dopo tre ore di lavoro io mi sento sfinito. Non avevo mangiato dalla sera avanti; e che pranzo! Ho le mani tutte sanguinanti per le escoriazioni. Chiedo qualche minuto di tregua, ma non mi basta: cerco di muovere la picozza per fingere di lavorare, ma pure questo movimento mi costa fatica; mi sento cadere. Chiedo per pietà un po’ di acqua, e di nuovo riposo. Mi viene concesso. Mai come in quei momenti ho desiderato ardentemente di morire e di finire cosí il doloroso supplizio cui ero sottoposto. Piú nulla era capace di provocare in me una reazione per farmi tornare la volontà di vivere. Ho intravisto il doloroso calvario cui saremmo andati incontro se questo lavoro fosse durato piú giorni. Credo comunque che il giorno dopo qualcuno di noi sarebbe morto per le bastonate e per la fatica sproporzionata. Chi ci ha risparmiato le bastonate è stato il povero Piazza46 (lo ricordi, vero?) perché su di lui si sono concentrate tutte. Non so per quale ragione se la siano presa con lui. Forse per la sua incapacità a tener in mano con un certo garbo un badile; forse per il suo modo di fare che non riesce sempre simpatico. Le legnate piovevano sulla schiena che in poco tempo si è trasformata in un’unica piaga. Era ormai inebetito dal dolore. Bianco in volto, incapace a reggersi in piedi, doveva lavorare ancora! Piú volte è caduto a terra e sempre veniva rizzato in piedi tirandolo per i capelli e bastonandolo. Ormai ogni legnata che pioveva su di lui penetrava nelle nostre carni. Un grido di sdegno dovevamo soffocare nel nostro cuore, mentre eravamo costretti a sorridere alle parole di scherno con cui accompagnavano quelle loro bravure. […] Naturalmente eravamo rotti dalla fatica ed i nostri movimenti erano meccanici, spesso finte mosse senza energia solo per far vedere che si
lavorava. Ci domandavamo fino a che ora ci saremmo trattenuti lassú, se saremmo tornati il giorno dopo, dato che lo scavo non avrebbe potuto essere compiuto nella serata. Chi diceva che avremmo lavorato anche la notte, finché non fosse ultimato lo scavo. Meglio noi facevamo del nostro meglio per accontentare i tedeschi, Piazza, dopo aver potuto mangiare pure lui, era talmente ridotto a mal partito da dover cessare il lavoro. Sdraiato sull’erba, tremante dalla febbre, era irriconoscibile. Però il maresciallo non cessava di trastullarsi con lui, mostrando le sue bravure ad altri suoi colleghi venuti piú tardi sul posto, schernendolo. Il suo sadismo è arrivato al punto di farlo trasportare in una pozza d’acqua e lasciarlo in quel freddo con la testa all’ingiú, dato il pendio del terreno. Ora non ricordo bene tutti i particolari di quelle dolorose scene, né ho capacità sufficiente per rendere l’immagine di ciò che ho visto. Per dire il vero, i marinai che sorvegliavano i lavori assieme al maresciallo non erano cattivi. Quando questo si allontanava, picchiavano perché cosí era stato loro comandato, ma debolmente. Durante una sua assenza, durata piú d’un’ora, hanno preso i nostri attrezzi per lavorare per noi. Uno faceva la guardia per avvertire in tempo l’arrivo del loro superiore. Abbiamo fumato e chiacchierato con loro. Ci hanno detto parole confortanti; abbiamo dovuto constatare che non tutti i tedeschi sono uguali nella loro fama di cattivi e crudeli. Intanto si faceva sera, né si parlava ancora di ritorno. Tu comprendi la nostra ansia, dato che le forze erano ormai ridotte ai minimi termini. Finalmente, dopo un nuovo rancio ed un’altra ora di lavoro, ci viene ordinato di sospendere e possiamo tornare al torpedone. Piazza è sorretto alla meglio. Poi viene trascinato, poiché i suoi piedi non sono piú capaci dei movimenti regolari. A metà strada cade a terra né si riesce piú a sollevare. Ormai lo si considera morto: gli si chiudono gli occhi. Il maresciallo sorride soddisfatto. Mi sento stringere la gola da un nodo ed una grande volontà di piangere mi prende. A stento trattengo le lacrime. Me ne vado avanti tutto solo per non essere visto, per poter riflettere un poco sulle scene strazianti cui ho assistito. Nessuno, all’infuori di noi, è testimone dell’accaduto. Forse noi non saremo piú il giorno in cui potremo parlare. Per cui medito di scriverti, perché tu sappia, attraverso il milite47. Poi, la prudenza mi ha consigliato di non farlo.
Trasportiamo disteso su di una scala a pioli, improvvisata barella, il povero Piazza. La fatica è indicibile. Con uno sforzo supremo arrivo fino al torpedone, poiché ero uno dei quattro portatori. Poi, il viaggio di ritorno. Piú nulla ho visto attorno a me né ho voluto guardare. Mi sentivo solo profondamente triste e nulla piú mi interessava. Per parecchi giorni siamo rimasti tutti con le ossa rotte, incapaci dei piú piccoli movimenti. O avevo le mani piagate: non riuscivo a tener piú nulla in mano. Poi ci siamo ripresi pian piano. Piazza vien curato e tirato su alla meglio. Solo l’aria libera di quassú lo ha rimesso completamente. Una settimana piú tardi, il 22, si parte per il campo. Tutto il resto ti è noto, perché ti ho inviato la prima parte di questo mio diario, in cui parlavo proprio della nostra partenza e del nostro primo soggiorno. Spero tu lo abbia ricevuto. Se cosí non è, ho fiducia di potertelo io stesso raccontare un giorno. Ora che mi sono aggiornato con questo mio diario, posso parlarti di tutti gli avvenimenti importanti man mano che si svolgono. Saranno piú freschi48 . 44
M. Montagana (a cura di), «Perché tu sappia». Diario di Giulio Iona dal campo di concentramento di Fossoli, marzo-giugno 1944, in «Notiziario», Isrc, giugno 1990, n. 37, pp. 109-14. Iona (Genova 1916 Auschwitz data ignota), architetto, fu catturato a Lavagna (Genova) insieme al padre, in seguito alla denuncia della padrona della casa dove si era rifugiato in clandestinità. Diario fronte-retro su 28 fogli di quaderno; seconda parte di un diario scritto nel campo di Fossoli per raccontare alla fidanzata Jolanda Foà i giorni trascorsi nel carcere di Marassi, consegnata da uno sconosciuto pochi mesi dopo la fine della guerra (la prima parte è andata perduta). 45 In realtà era la fossa per i 59 uomini che sarebbero stati trucidati il 19 maggio, come rappresaglia per l’attentato compiuto dai Gap a Genova il 14 maggio contro il cinema Odeon, in cui persero la vita cinque tedeschi. 46 Elio Piazza, triestino, arrestato a Genova. 47 Militare che favoriva i contatti epistolari con l’e sterno. 48 In realtà tre giorni dopo venne deportato ad Auschwitz.
Gli ultimi scritti e i testamenti
«Addio carissimi; vi ho sempre voluto un gran bene» di Germana Ravenna
Firenze 30.XI.19431 Per i miei fratelli. Scrivo queste righe dal Convento del Carmine dove arrivando a Firenze alla mattina del 26 abbiamo preso alloggio. La notte stessa alle 3 tedeschi e milizia sono venuti a perquisire il convento, la mamma ed io insieme ad altri ospiti siamo state fermate (mi è stato tolto l’anello col brillante dono dello zio Gigi) ed ora siamo in attesa venga decisa la nostra sorte che presagiamo non sarà lieta. Domandate notizie dei nostri ultimi giorni qui a Madre Imma Luisa che insieme a tutte le altre suore è stata con noi di una bontà angelica. Desidero sappiate carissimi che ogni nostro pensiero è stato per voi e che ho lottato negli ultimi mesi con tutte le mie forze per metterci in salvo; quando ormai credevo di essere a posto, il destino mi ha beffato in questo modo crudele e tutto è crollato; speravo di poter raggiungere con la mamma Gabriella. Se ancora resterà qualche cosa di quanto avevamo, desidero che metà di quanto posseggo vada a favore di mia sorella Gabriella, che tanto ha fatto sempre per me; pregandola di favorire la mia cara Graziellina. Quanto altro resta vada diviso fra i miei amici e (…) a cui ho lasciato parte minore perché penso abbia meno bisogno di Gabriella. Addio carissimi; vi ho sempre voluto un gran bene. Fate mettere un ricordo per la mamma e per me al cimitero di Ferrara vicino alla tomba dei nostri. Vi abbraccio con tutta l’anima. Germana Ravenna Dal Convento del Carmine 30.XI.1943 Se vorrete fare una beneficenza al Convento del Carmine, chiedete di Madre Imma Luisa e mettetela nelle sue mani. Germana Le mie carte vengano riguardate e stracciate da Gabriella. (…) o la signora hanno delle carte che riguardano Gabriella.
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Acdec, Fondo Vicissitudini dei singoli, b. 19, fasc. Ravenna Germana. Germana Ravenna (Ferrara 1896 - morta in data e luogo ignoti), dopo l’armistizio si rifugiò con la madre Celina Padoa nel Convento del Carmine a Firenze, mentre tentava di raggiungere il resto della famiglia a Roma, ma la sera del loro arrivo furono catturate e deportate. Lettera su due facciate di carta semplice ai fratelli.
«Cercate le mie bimbe!» di Giorgio Cividalli
Pontedera [Pisa], 2 dicembre [1943]2
Carissimi, sono oltre quattro anni da quando ho visto allontanarsi dal molo di Trieste nella notte la nave che vi portava lontano. Mi attendevo prove dolorose, ma non quante ne ho dovute sopportare e quante probabilmente anche piú gravi e dolorose incombono su me, sulla mia Wanda3, sulle mie bambine. In questi quattro anni quante volte egoisticamente mi sono pentito di avervi anche io spinti a partire ed ho rimpianto di non avere il conforto della vostra vicinanza, quando non facevo in tempo a liberarmi da una preoccupazione ed un’altra piú grave ne sorgeva ed avevo tanto bisogno di avere qualcuno con cui sfogarmi. Ma ora in un momento in cui le preoccupazioni sono cosí gravi quali mai lo erano state, l’unico mio conforto è sapervi lontani, e spero in buona salute: tranquilli purtroppo no, perché certo starete terribilmente in pensiero per tutti noi, e forse avrete timore che sia già successo quello che non è successo. Fino ad oggi nessuno ci ha importunato… e noi siamo stati ad attendere quello che arriverà domani. Era possibile fare altrimenti? Forse sí e qualcuno ci è riuscito; ma è inutile recriminare. Ma se per tutti gli ebrei italiani, che attendono l’applicazione dei provvedimenti annunciati4 dal giornale oggi, la situazione è tragica; lo è ancora di piú per me che sono qui in una camera di ospedale vicino a Wanda che è stata operata ieri l’altro, e che sono lontano dalle mie bimbe, che può darsi non riveda mai piú. In questo momento sento il bisogno di sfogarmi con voi, che siete lontani, ma che sento col pensiero costantemente rivolto a me, e cosí scrivo questa lettera che penso di affidare a mano amica, perché ve la possa far pervenire quando questa guerra sarà finita, se allora, come è ben probabile io non sarò piú, travolto da questo immane cataclisma. E purtroppo debbo anche pensare alla possibilità che allora anche voi non ci siate piú, ed in tal caso questa lettera sarà per gli altri cari costí ed in modo particolare per Gualtiero5, cui mi raccomando di
ricercare le mie bimbe, nella speranza che per lo meno loro riescano a sfuggire alla catastrofe e di fare in modo di ricuperare per loro qualche cosa di quei nostri beni di cui il giornale odierno annuncia il sequestro e la successiva confisca. Anche voi ben sapete sia pure per sommi capi tutti i malanni che abbiamo avuto in questi quattro anni. Prima, subito dopo la morte della signora Maria6, il timore che Wanda dovesse subire la stessa operazione che era stata fatta dalla signora Maria sette anni prima, timore che si è protratto per alcuni mesi. Poi io ho avuto l’artrite al braccio destro, una stupidaggine questa in confronto al resto, ma che mi ha fatto spasimare, quindi dall’ottobre 1941 al giugno 1942 una serie di disturbi in Wanda, che hanno indotto a fare l’operazione dell’appendice, probabilmente inutile perché invece le coliche erano dovute ad un calcolo all’uretere. Quindi nell’agosto dell’anno scorso l’operazione per estrarre questo calcolo, operazione che è stata gravissima. In novembre grave otite della Miriam che ha dovuto di nuovo essere operata alla mastoide quindi (questo in incidenza) mia nuova artrite, questa volta al braccio sinistro, poi a maggio broncopolmonite influenzale con complicazioni alla pleura della Carla. Appena convalescente questa, quando era necessario portarla in campagna per farle cambiare aria, grave broncopolmonite di Wanda anche qui con complicazioni alla pleura, malattia a decorso molto irregolare che si è protratta per quasi un mese e che mi ha fatto stare molto in pensiero. Dopo siamo venuti in campagna e tanto la bimba che Wanda sono rifiorite. Ma intanto gli eventi sono precipitati e sono sorti i pensieri dovuti alla situazione politica. Circa una ventina di giorni orsono abbiamo saputo che la prefettura aveva chiesto in comune l’elenco di tutti gli ebrei residenti nel comune. Ci siamo allarmati ed abbiamo pensato a seguire l’esempio di quasi tutti gli altri, che hanno abbandonato la loro residenza per sistemarsi alla meglio in posti dove non erano conosciuti. Ma con tre bambine come si fa a nascondersi? E poi, mentre cercavamo, Wanda ha di nuovo lamentato quei disturbi alla mammella che c’erano stati tre anni fa. Mercoledí scorso, cioè no mercoledí dell’altra settimana, perché oggi è giovedí, è venuto a visitarla il prof[essor] Tarchiana di Pontedera ed ha detto che non c’era da fare altro che operarla e subito e che si era già perso troppo tempo. Il prof[essor] Tarchiana che è direttore dell’ospedale di Pontedera è molto favorevolmente noto e ce ne
aveva parlato l’anno scorso lo stesso Prof[essor] Nigioli quando dopo l’operazione di appendicite parlavamo di venire a Colleoli, la fattoria nostra (da oggi non piú?) acquistata l’anno scorso. Giovedí ho accompagnato Wanda da un altro professore di Pisa, e questo ha detto che doveva essere operata tre anni orsono! Di fronte a questo che cosa potevamo fare? Abbiamo affidato le bimbe a persone amiche, ma che non sappiamo fino a quando potranno tenerle, e venerdí siamo venuti in questo ospedale dove Wanda avrebbe dovuto essere operata e l’operazione ha potuto avere luogo soltanto martedí. Al mattino dell’operazione mi ha chiamato l’economo dell’ospedale per dirmi che noi come ebrei non avremmo potuto neppure entrare all’ospedale, che in ogni modo lui doveva segnalarci ai carabinieri ecc. ecc. Dopo l’operazione il professore ha voluto farmi vedere la mammella tolta, ciò che c’era di male e mi ha detto che il male era molto avanzato e che Wanda tra un mese è bene faccia delle applicazioni di radio. Stamani i giornali annunciano l’immediato invio di tutti gli ebrei in campo di concentramento e la confisca di tutti i beni mobili e immobili. La notizia è pubblicata oggi sui giornali, ma la radio l’ha annunciata fino dall’altra sera (cioè la sera del giorno dell’operazione: il 3011) ed io ne avevo avuto sentore da ieri. Ed ora eccomi qui in questa camera di ospedale col pensiero di Wanda che non sa nulla a cui da una parte non vorrei dire nulla, mentre dall’altra parte penso che la parola «immediato» può anche voler dire che stanotte stessa potrebbero venire a prendermi qui. Ed allora non sarebbe meglio prepararla? E di lei cosa succederà? e delle bimbe? Il giornale parla di tutti gli ebrei: deve intendersi anche le donne ed i bimbi? Ed allora almeno potessimo essere tutti insieme. Voi potete ben capire il mio stato d’animo in questo momento, eppure sono calmo, di una calma che sembra incoscienza per quanto non lo sia. Eppure pensate che oggi sono stato capace di leggere un romanzo poliziesco! Pensate che la notte scorsa ho dormito, nonostante un allarme. Naturalmente quando tutti i giorni alle 12 puntualmente abbiamo l’allarme e magari gli aeroplani americani ci passano sulla testa non ci scuotiamo neppure, mentre anche Pontedera ha obiettivi militari e l’ospedale disgraziatamente è vicino alla ferrovia, a una fabbrica, a un campo d’aviazione! Ma una bomba fa assai meno paura del campo di concentramento, specie se, come si teme, in definitiva si tratti di essere inviati in Polonia, cioè senza remissione alla morte fra gli stenti. Se cosí sarà
credo proprio che non ci rivedremo, se invece rimanessimo in Italia allora può darsi che riusciamo a scamparla perché in complesso in Italia è difficile si arrivi a quegli eccessi che sono possibili altrove. Per quanto adesso da un po’ di tempo le cose siano cambiate! A completare il quadro dei miei pensieri in questo momento bisogna aggiungere il rimorso per il fatto che siamo ancora qui, mentre da anni io ero convintissimo che saremmo arrivati agli attuali momenti tragici. Sino dallo scoppio della guerra ho detto: se la guerra sarà vinta dall’asse7 avremo fatto bene a rimanere, ma in caso contrario… poveri noi! Ma anche con questa convinzione non ho saputo impormi a Wanda, malata lei stessa, che vedeva la madre moribonda, e dopo la morte di questa con la lontananza di Renzo8 la necessità di non lasciar solo il signor Giacomo a poi tutte le malattie che ci sono capitate. Alle volte non ho potuto fare a meno di pensare che se fossimo stati sia senza mezzi o quasi, come sarebbe stato possibile far fronte a tutte le spese per tutti i malanni che ci sono capitati. Altre volte penso che se avessi avuto coraggio, se avessimo abbandonato a sé stessi i vecchi e ci fossimo preoccupati soltanto dei nostri figli! Basta ormai è tardi. Purtroppo io sono stato un incapace, ma anche ho avuto disgrazia. Quando penso che quattro professori hanno visitato ripetutamente Wanda nel giugno scorso ed hanno tutti diagnosticato un’appendicite che non c’era! Quando penso che un anno fa Nigrisoli ha visitato Wanda, che per prudenza era stata da lui e le ha detto che stesse tranquilla, che non c’era piú il minimo accenno di male! Ed ora Tarchiana mi dice che non può assolutamente essere iniziato da meno di un anno! Questo mio sfogo che se vi arriverà vi angustierà molto, vi porterà però i miei baci e vi ripeterà per l’ultima volta quanto io ho pensato a voi in questi ultimi anni, quanto ho sentito la vostra lontananza, e come sia stato sempre in cima ai miei pensieri assieme a quello della salvezza della mia Wanda e dei miei bimbi, il desiderio di rivedervi. Prima di lasciarvi per quanto non abbia speranza che possa servire perché credo che comunque vadano a finire le cose nulla ci resterà o verrà restituito vi elenco quelli che sono ora almeno sino a stamani i nostri beni […]9 . La nostra roba è sparsa un po’ dovunque e non spero che sia possibile mai ricuperare qualche cosa. Cosí della vostra roba, che in parte è rimasta a
Firenze, in parte è stata portata in campagna. E adesso vi lascio: non vi dico arrivederci perché questa lettera è destinata ad arrivarvi soltanto nel caso che non vi possa vedere piú. Addio dunque. Auguri ai miei nipoti di poter vivere felici costí, a loro, a Iolanda a Gualtiero a Mario a Maria e soprattutto a voi babbo e mamma tantissimi tantissimi baci Giorgio Cercate le mie bimbe! 2
Apf, Firenze. Cividalli (Firenze 1897-1987), volontario nella Prima guerra mondiale, licenziato dalle Ferrovie (fu reintegrato nel dopoguerra), all’indomani dell’armistizio, dopo un periodo di clandestinità si rifugiò in Svizzera e fu internato. Letteratestamento su quattro facciate di carta semplice indirizzata ai genitori emigrati in Israele, consegnata al collaboratore e amico che aiutò la famiglia a nascondersi, Giuseppe Dani; fu ritrovata nel 1991 e consegnata alle figlie (parz. cit. in M. Cividalli Canarutto, Perché qualcosa resti. Una famiglia di ebrei tra fascismo e dopoguerra, Ets, Pisa 2004, pp. 100-1). 3 La moglie, Wanda Bonfiglioli. 4 Ordine di polizia n. 5 del ministero dell’Interno della Rsi. 5 Il fratello. 6 La madre di Wanda. 7 Alleanza tra Germania e Italia. 8 Il fratello della moglie. 9 Segue un breve elenco delle proprietà della famiglia, volutamente omesso.
«Poniamo fine all’orrore» di Bernard Sternfeld e Giovanna Weil
[Ponte a Serraglio (Bagni di Lucca, Lucca) 7 dicembre 1943]10 Dopo tre anni e mezzo di internamento, apprendiamo che deve colpirci un destino ancora piú crudele, e preferiamo porre termine alle nostre sofferenze. Le cose di nostra proprietà sono state da noi guadagnate con il duro lavoro di tanti anni e del resto abbiamo sempre agito nel giusto. Dopo che ora dobbiamo perdere anche ciò che ci resta – già la maggior parte abbiamo perduto – poniamo fine all’orrore. Alle autorità che sino ad oggi ci hanno trattato con umanità siamo riconoscenti. Bernard e Giovanna Sternfeld Prego che venga avvertito mio fratello Siegmund Sternfeld che è internato in Pianella, Pescara. 10
Isrecl, fasc. Suicidio di due cittadini austriaci di religione ebraica liberi internati a Bagni di Lucca. Coniugi tedeschi (Veps 1885 - Ponte a Serraglio 1943 e Vienna 1899 -Ponte a Serraglio 1943), rifugiati in Italia per sfuggire alla persecuzione nazista, nel ’40 furono internati, ma dopo l’armistizio si suicidarono per non cadere nuovamente nelle mani dei nazisti. Biglietto su carta semplice (l’originale è in tedesco); la data è del giorno in cui furono trovati i corpi, probabilmente quarantotto ore dopo la morte.
«Dio mi perdoni» di Enrica Calabresi
[Firenze, carcere Le Murate, 18 gennaio 1944]11 Prego con tutta l’anima la Madre Superiora di prendere in consegna tutti gli oggetti che mi appartengono e di non lasciarli andare nelle mani dei tedeschi. Voglia a suo tempo destinarli a opere di bene. Dio mi perdoni. 11
P. Ciampi, Un nome, Giuntina, Firenze 2006, p. 200. Enrica Calabresi (Ferrara 1891 - Firenze 1944), professoressa di Entomologia, fu estromessa dall’università e dopo l’armistizio fu arrestata su delazione e incarcerata nella sezione femminile delle Murate a Firenze, dove si suicidò con una fiala di veleno per sottrarsi alla deportazione. Scritto a matita su un ritaglio di carta.
«Nemico della Patria: ecco la mia nuova denominazione» di Eugenio Ravenna detto Gegio
[Ferrara] Caserma Bevilacqua 9 (febbraio) 4412 Carissimi Luciana, Giovannella, Gilberto, tra pochi giorni parto per il concentramento. Lascio cosí la mia città per inoltrarmi nella provincia di Modena e precisamente credo che mi si stabilisca, s’intende con tutta la famiglia, a Carpi. Pongo cosí fine ad oltre quattro mesi di ansie e di apprensioni per attendere che questo caotico stato di cose si risolva in qualche maniera. Chissà che tutto vada per il meglio, ed è questa la mia speranza suprema. Se non avessi questa certamente potrei spararmi. Brutto destino davvero, non una me ne è andata bene; incominciando dall’ormai 8 ottobre è stato sempre un peggioramento. Tanti mi invidiavano perché non facevo la guerra ed ora avete visto che razza di guerra mi fanno? Ho perduto tutto, persino il letto, che a nessuno si nega, mi è stato tolto. Difficilmente, se avrò la fortuna di sopravvivere, avrò a che fare con una masnada di vigliacchi simili. Nemico della Patria: ecco la mia nuova denominazione. Il mio odio è fortissimo; sono sicuro che saprei anche uccidere. Cosí vi lascio e con voi lascio ricordi di belle giornate trascorse insieme, affetti ed amicizia che mai potrò dimenticare. E a te Gilberto caro, che mi sei stato un amico insuperabile, un fratello dei piú cari, lascio questa consegna: se ancor un piú funesto destino facesse sí che dovessi soccombere, in qualche maniera fai di vendicarmi. Vada un mio caro saluto ad Emmina e Virginia, alle sorelline Sani a Carlo e Carla a tutti gli amici della piazza, dello sport e di studi, che fino a pochi mesi fa sono stati compagni della mia vita. Un abbraccio affettuoso ai vostri genitori e un piú che mai forte bacio, che potrebbe essere anche l’ultimo, a voi Gegio Nell’inferno della vita entra solo la parte piú nobile dell’umanità, gli altri stanno sulla soglia, e si scaldano. Anche voi siete fra i primi13 .
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P. Ravenna, La famiglia Ravenna cit., p. 23. Ravenna (Ferrara 19201977), dopo l’armistizio fu arrestato e deportato ad Auschwitz, dove fu sottoposto a sevizie e maltrattamenti ma fu l’unico della sua famiglia a sopravvivere. Testamento morale agli amici Luciana, Giovannella Finzi e Gilberto Malucelli, prima di essere trasferito a Fossoli. 13 Citazione di una frase del drammaturgo tedesco Christian Friedrich Hebbel.
«Il nostro avvenire è un punto di domanda» di Elsa Romanelli
Fossoli 21 febbraio 194414 Partiamo pregate per noi. Iddio ci protegga. Salutate tutti.È inutile quindi spedire denaro o roba da mangiare. Se potremo scriveremo. Mai come ora pensiamo ai lontani. Il nostro avvenire è un punto di domanda. Che possiamo avere buona salute. Saluti affettuosi Elsa 14
Acdec, Fondo Ricerche deportati ebrei, Fondo Rossi, fasc. 14. Elsa Romanelli (Venezia 1899 - ?), fu arrestata nel dicembre del ’43, trasferita a Fossoli e di qui deportata ad Auschwitz. Lettera su modulo prestampato del campo a Emilio Tomissi di Mestre.
Nei lager italiani, la partenza e il viaggio verso i campi di sterminio
«I tedeschi ci vengono a prelevare perché di razza ebraica» di Rosetta Cavaglione
[Borgo San Dalmazzo] Martedí 28 settembre 19431 Dopo quasi due mesi di ritorno dall’Africa, in cui abbiamo vissuto meravigliosamente bene per sei anni, questo mattino sarà indimenticabile. Un risveglio brusco e terrorizzante. I tedeschi ci vengono a prelevare perché di razza ebraica; momenti di confusione e di abbattimento indescrivibile. La mamma mia ha avuto il doloroso incarico di svegliarmi con la triste notizia, che subito non ho interpretato nel vero senso; solo poi, quando ci hanno condotti in caserma ed in seguito su un comune autocarro diretto a Borgo [San Dalmazzo], ho capito l’importanza del fatto e mi sono convinta che nella nostra bella casa non saremmo piú tornati. Mi sono fatta forza, ma il cuore mi scoppiava ed il cervello, carico di troppi pensieri, pure... Mercoledí, 29 settembre Siamo tutti riuniti nella caserma degli Alpini di Borgo San Dalmazzo. Abbiamo dormito (o per lo meno riposato) in 37 di ambo i sessi in una camerata composta di tanti giacigli di pura paglia e tre tavoloni per consumare il modesto pranzo. Siamo tristi e continuamente si piange; non ci possiamo adattare a questa vita da zingari, trattati come se fossimo delinquenti. Malvagia umanità!!! Le nostre care amicizie cuneesi ci provvedono di viveri e di coperte per non avere troppo freddo. Hanno dimostrato tanto buon cuore e ci hanno profondamente commosso l’animo. Speriamo nel buon Dio e nella giustizia ed intanto vegetiamo. Ore interminabili zeppe di lieti ricordi e tristezze giornaliere, vita orribile! Resisteremo? 1
R. Scotti Douglas, 45 giorni nel campo di concentramento di Borgo S. Dalmazzo, in «Quaderni del Cdec», I (1961), p. 78. Rosetta Cavaglione Scotti Douglas (Cuneo 1920), figlia di un procuratore generale di una ditta
milanese di gioielli, rientrò con la famiglia dall’Eritrea dopo l’occupazione inglese, stabilendosi presso i parenti di Cuneo, dove fu arrestata dai tedeschi e internata a Borgo San Dalmazzo (la loro casa fu razziata da tedeschi e italiani); dopo essere stata rilasciata insieme agli altri ebrei italiani di Cuneo, tornò a Milano, dove rimase fino alla fine della guerra.
«L’ing. Ermanno Tedeschi che è passato di qui in tradotta» di Arrigo Tedeschi
19-10 [1943] Ferrara2 Prego caldamente avvertire l’ing. Ermanno Tedeschi che è passato di qui in tradotta, suo fratello deportato in Germania. Spera essere lui solo – che avverta i miei cari. 2
G. Valabrega, Ultime lettere di deportati ebrei, in QCSDI, n. 1, Anei, Roma 1964, p. 70. Tedeschi (Ferrara 1887 - Auschwitz 1944), trasferitosi a Roma dopo la laurea in Ingegneria, fu catturato nella retata del 16 ottobre 1943. Biglietto lasciato a un ferroviere alla stazione di Ferrara, indirizzato al fratello, funzionario delle Ferrovie dello Stato.
«Con il cuore afflitto lascio la mia terra nativa» di Wanda Abenaim
Verona 7/12/19433
Mia cara signora, con il cuore afflitto lascio la mia terra nativa. Parto per terre lontane da sola, però mi faccio coraggio. Porga un bacio alla mia cara mamma e fratello e che preghino per me e che non li dimenticherò mai. Farò di tutto per dare mie notizie. Sto bene. Si ricordi Carlo che quei due4 non sono con me e che li protegga lui e li assista come se fossero suoi. Speriamo di poterci rivedere presto. La bacio e l’abbraccio. La sua aff.ma Wanda Wanda Abenaim 3
E. Pacifici, «Non ti voltare». Autobiografia di un ebreo, Giuntina, Firenze 1993, s.n.p. Wanda Abenaim (Pisa 1907 - morta in data e luogo ignoti), sposata con Riccardo Pacifici, rabbino capo a Genova, insieme al quale fu catturata e deportata ad Auschwitz. Cartolina postale ordinaria affrancata, col motto fascista «Vinceremo», gettata dal treno probabilmente a Verona; la destinataria, Desia Taccola di Uliveto (Pisa), cancellò il suo nome dall’indirizzo e dalla prima riga del testo per timore di essere accusata di collaborazionismo con gli ebrei. 4 I figli, Emanuele di 12 anni e Raffaele di 5, nascosti presso il Collegio di Settignano (Firenze).
«Siamo in viaggio per terre lontane pieni di fiducia» di Alfredo, Paolo, Anna Dalla Volta e Marta Finzi
Verona, 7-12-435
Carissimi, siamo in viaggio per terre lontane pieni di fiducia e con l’animo a voi rivolto. Speriamo Dio ci assista e di riabbracciarvi un giorno. Ricordateci, come noi vi ricorderemo. Marta, Paolo, Anna, Alfredo 5
Acdec, Fondo Vicissitudini dei singoli, b. 1, fasc. Dalla Volta Marta, Paolo, Anna, cit. in Dalle leggi antiebraiche alla Shoah cit., p. 215. Alfredo, impiegato postale a Bologna, Marta e i loro due figli furono catturati nel corso di un rastrellamento tedesco (alcuni vicini impedirono ad Alfredo di recarsi al lavoro per favorirne l’arresto), furono deportati ad Auschwitz e sterminati in luogo e data ignoti. Cartolina postale ordinaria recante il motto fascista «Vinceremo», lanciata dal treno alla stazione di Verona, indirizzata a conoscenti di Lugo (Ravenna).
«Non abbiamo neppure un nome, ma soltanto un numero, come gli animali» di Abramo Segre
7-/12-43 oltre Brescia6
Cara Lucia, affido questo mio scritto alla bontà di qualcuno che vorrà imbucare. È il secondo giorno che mi trovo chiuso in un vagone bestiame con i miei e con altre 200 persone in viaggio verso il campo di concentramento. Ho la prospettiva terribile di 8 giorni di viaggio per raggiungere Cracovia in Polonia. Ho il presentimento purtroppo che questo viaggio sia per me e i miei senza ritorno, perché se non soccomberemo per la fame e per le fatiche cui verremo sottoposti non potremo resistere ai freddi terribili, scarsamente vestiti e calzati come ci troviamo. L’ultima nostra speranza è in Dio che purtroppo finora non ci ha aiutati, ma che pure continuiamo a pregare perché se manca il conforto della fede in questo momento cosí terribile, tanto vale farla finita senz’altro con la vita. Le sofferenze del carcere erano un paradiso in confronto a quanto andiamo incontro ed io ti assicuro invidio anche il galeotto. Comunque ormai il destino è segnato e salvo un miracolo non tornerò piú a casa. Sono ormai totalmente rassegnato e cosí mia mamma e mia sorella (poverette). Non mi spaventerei neppure se dovessero fucilarmi tra un’ora… Il destino non è stato certo molto favorevole con me e, dopo avermi sottoposto a prove di per se stesse molto dure, ha voluto che per la nequizia degli uomini io fossi posto di fronte a quanto di piú tremendo si possa immaginare. Mi piego con rassegnazione alla volontà del destino e di Dio, addolorato piú che per me, per la mia mamma e per mia sorella, che pur avendo un morale elevatissimo e fatalistico come il mio, non meritavano una sorte cosí tremenda. La vita finora non mi ha offerto molti piaceri e pur avendo incontrate molte difficoltà mi ero rassicurato che infine anche questa prova della vita avrebbe avuto un termine ed io avrei potuto godere le bellezze della vita.
Viceversa mi trovo qui a scrivere il mio testamento spirituale. Qui non abbiamo neppure un nome, ma soltanto un numero, come gli animali. I giorni trascorsi in carcere non mi avevano affatto addolorato perché mi facevano fare una grande ed utile esperienza, ma ora… quasi piangerei la mia vita che a 23 anni viene posta al suo estremo limite, se non fosse invece che colla morte nel cuore devo tenere allegri e fare coraggio ai miei ed altri disgraziati che sono con me (persino vecchi 90enni). Penso anzi che la morte non è poi cosí terribile anche se affrontata con piena lucidità di mente, ma con piena rassegnazione. Il treno corre non troppo veloce ma inesorabile verso i confini. Cara Lucia godi la vita fin che puoi e piú intensamente che puoi cerca di non avere rammarichi! Vedi che la morte può giungere quando meno te l’aspetti. Meglio non avere rammarichi; mai come adesso capisco la verità del carpe diem graziano. Vedi come nella vita si mutano le idee ed i principî! Ormai devo terminare questo breve scritto che ha poche probabilità di giungerti. Ti allego un breve appunto che deve servire da mio testamento pro-forma e che ti prego di gentilmente eseguire. Salutami ancora una volta tutta Chivasso e gli amici e fai sapere a tutti la nostra morte. Se avrò tempo ti aggiungerò anche un breve rigo per Giulio che ti prego di salutare con tutto il mio affetto dato che pur nel breve tempo della nostra amicizia ha saputo dimostrarmi di essere il mio migliore amico. A te mando il mio ultimo e affettuoso saluto, ricordando le belle ore trascorse che hanno illuminato per un istante il grigiore della mia vita col loro raggio. Addio, Lucia, addio… Mino 6
M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 1997, pp. 299-300. Segre (Chivasso 1920 - morto in data e luogo ignoti), fu arrestato insieme alla madre e alla sorella Rosa e deportato ad Auschwitz. Lettera alla fidanzata Lucia lanciata dal treno tra Brescia e Desenzano; nel dopoguerra fu consegnata alla Comunità ebraica di Torino, data l’impossibilità di identificarne l’autore, e fu attribuita a Segre grazie alle ricerche di Liliana Picciotto per Il libro della memoria.
«Qui mi sto abituando per non lasciarmi vincere dalla malinconia» di Guido Melli
Fossoli 14 dicembre 19437
Carissimi nonni, oggi scrivo a voi perché non voglio lasciarvi mancare di mie notizie. Vi immagino bene e questo mi tranquillizza assai. Qui mi sto abituando per non lasciarmi vincere dalla malinconia. Le mie notizie in questi giorni le avrete avute nella corrispondenza di Marcello diretta alla signora Giorgina. Mi raccomando al nonno specialmente ora che la stagione è fredda di rimanere in casa riparato perché l’aria cosí gelata potrebbe nuocergli. Scrivetemi spesso perché io possa seguirvi cosí staremo collegati. Devi dire alla Signorina Giorni che oltre al Neurol che mi deve aver acquistato mi comperi una grammatica inglese, comincerò a studiare cosí potrò occupare il tempo. Pagatele e rimborsatele ogni spesa dite alla Signorina Giorni che mi scriva perché gradirò assai assai sue notizie ditele di dare il mio indirizzo ai Marri e dite agli amici che scriverò man mano che potrò. Mi sono sistemato abbastanza bene e ogni giorno mi creo tutte le possibili comodità. Sto pensando a tutti i nostri Cari e spero che Iddio li protegga e li aiuti. [Fossoli] 15-2-19448
Carissimi Nonni, datemi subito subito vostre notizie perché data l’ultima incursione sono fortemente preoccupato. Ho scritto a parte alla Giuseppina perché il servizio della biancheria sia piú sollecito. Bacioni abbraccioni e scrivete subito Guido vostro 7
Acdec, Fondo Vicissitudini dei singoli, b. 14, fasc. Melli Guido. Melli (Reggio Emilia 1896 - Auschwitz 1944), fu arrestato in novembre e deportato. Il primo documento è una lettera su una facciata di carta semplice.
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Ap Egidio Errani, Bologna. Lettera sottoposta a censura su modulo prestampato del campo indirizzata ai nonni a Modena.
«Una vera gita di… piacere» di Ernesto Dell’Ariccia
[Firenze] Venerdí 25/2 [1944]9
Cara, eccoci a Firenze, dopo 3 notti e 2 giorni di… «viaggio»… una vera gita di… «piacere»… su un autocarro scoperto… (difatti senza coperte) senza mangiare nulla di caldo, dando termine a quelle poche provviste… sotto la pioggia… sotto la neve… in piena notte… intirizziti. Si crede che ci si porta a Modena, nel campo di concentramento di quella città, chi dice a Verona (Firenze… Verona… dolci ricordi del maggio scorso!!), comunque ancora non si sa dove si vada a finire. Un pensiero per tutti… un saluto per tutti… un bacio a tutti… Ernesto PS Naturalmente… il mio morale è sempre lo stesso… sempre allegro. Sursum corda!!10 [Fossoli, 1° marzo 1944]11 Riassunto delle puntate precedenti: la scena rappresenta una cella di Regina Coeli (Carcere Giudiziario di Roma) dove un giovane languisce al pensiero dei cari. Atto 2°: la scena rappresenta, ora, il campo di concentramento di Fossoli dove un giovane chiede che gli si mandi un vaglia di L. 1000 e porge anticipatamente tanti ringraziamenti e tanti saluti a tutti, aggiungendo che esso sta bene di morale e di salute. Poi, se tante volte (per caso) qualche amico dovesse capitare a Bologna o Milano o qualsiasi altra città dell’Italia settentrionale… allora gradirebbe anche pacco con vestiario, calzini, mutande, ecc. ecc. e (perché no?) anche robusto paio di scarpe (con suola che non sia sfondata). Per ora un caro pensiero ed un saluto a tutti coloro che… mi vogliono bene. Affettuosamente Ernesto
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Apf cit. Il primo documento è un biglietto su una facciata a quadretti. 10 In alto i cuori. 11 Biglietto su foglio a quadretti, su cui l’autore simula l’intestazione e i timbri delle lettere prestampate del campo: «CAMPO CONCENTRAMENTO – FOSSOLI (MODENA)»; «Posta d’INTERNATO civile»; «Verificato per censura»; «Fossoli 1.3.44 XXII» e «Campo concentra[mento] F[ossoli] di Carpi»; «Mittente: E. Dell’Ariccia. Baraccamento n. 4ª. Campo Concentramento FOSSOLI (Modena)».
«Ho il piacere di annunciarvi la nascita di un figlio» di Walter Silberstein
Fossoli, il 8 aprile 194412
Cara Signorina Lia! Ho il piacere di annunciarvi la nascita di un figlio al quale abbiamo dato il nome di Riccardo. Mia moglie e il neonato godono ottima salute. Siamo contenti perché desideravamo pure un maschio. Scrivetemi per favore se avete ricevuto la mia lettera e se avete fatto la visita nella Via Campaccio. Tante buone cose, auguri e saluti. Walter Silberstein 12
Collezione Gianfranco Moscati. Documenti e immagini dalla persecuzione alla shoah, supplemento del catalogo della mostra itinerante, s.e., Napoli 2004, p. 20. Silberstein (Vienna 1911 - morto in data e luogo ignoti), fu arrestato a Firenze con la moglie Edith Hahn, che poco dopo il trasferimento nel campo di Fossoli diede alla luce il figlio Richard; l’intera famiglia fu deportata ad Auschwitz e sterminata (il figlio all’arrivo). Cartolina prestampata del campo all’amica Lia Elenca a Firenze.
«La vita è difficile anche costí» di Giulio Levi
[Fossoli] 17.4.194413
Miei cari, ho trovato il modo di farvi pervenire questa mia per mezzo di una persona che viene a Roma e che deve tornare qui. Innanzi tutto vi rassicuro sulla mia salute che è ottima, come già saprete, se avete ricevuto la lettera che vi ho spedito per posta sia a Nando, Nino, ecc. Vi avverto che non potrò scrivere molto spesso, essendoci permesso di scrivere solo due lettere mensili. A Nando ho chiesto di non mandarmi piú di mille lire per volta, altrimenti c’è il pericolo che non me le facciano passare. Il 12 è arrivato qui anche Ugo con i genitori, senza un soldo, perciò, se potete vedere qualche suo amico, ditegli se possono mandargliene. Qui si fa una vita intensa, ma niente affatto spiacevole. Si lavora, ma non si fatica eccessivamente ed il vitto è abbastanza buono. In complesso si sta molto meglio qui che dove stavo prima. Siamo piú di trecento e formiamo una grande famiglia, godiamo di una discreta indipendenza, tanto che i nostri capi sono scelti tra noi e la disciplina e l’organizzazione è affidata ad elementi scelti fra noi stessi ed io faccio parte di questi. Ugo e i suoi stanno insieme a me giorno e notte oltre a loro mi sono fatto qualche amico, quindi sto in buona compagnia. Qui, poi, mi vogliono bene, mi stimano e mi rispettano. La mia vita in brevi parole è questa: sveglia alle sei, colazione e appello alle sette, poi si lavora dalle 7.30 alle 12. Ognuno ha il suo lavoro, sia manuale che direttivo. (Io, dopo otto giorni di lavoro manuale, sono passato nella classe dirigente). Alle dodici e trenta rancio ed alle 13 e 30 si riprende il lavoro fino alle diciotto. Poi secondo rancio ed alle 21 si spengono le luci e tutti a nanna, oppure a vegliare con una candela per chiacchierare e scrivere, come sto facendo ora io. Come vedete è una vita sana e regolata che si svolge sempre all’aperto e che, in altre condizioni, non mi sarebbe spiaciuta affatto.
13
Aned, Roma. Levi (Roma 1921 - Stutthof 1944), impiegato, sfuggí alla retata del 16 ottobre 1943 ma fu arrestato su delazione e deportato ad Auschwitz. Il primo documento è un biglietto clandestino ai genitori a Roma.
«I bagagli sono già pronti. Non ci dimenticate» di Clara Galletti e Marcella Bemporad
[Fossoli] 14-5-4414
Carissima Santuzza, siamo in procinto di partenza per la Germania. Siamo abbastanza tranquilli e a chi domanda di me dica che siamo tranquil-li e preghi per noi e speriamo presto poter tornare ad abbracciarsi. Saluti tanti alla sua mamma e sua cognata e lei un milione di baci Clara Carissima, i bagagli sono già pronti perché ieri sera fummo avvertiti per la partenza di oggi o domani, forse quando riceverai la presente saremo già in viaggio, perciò ti prego di non inviare piú nulla di quanto si richiedeva perché tanto non verrebbe consegnata ma regalata ai rimasti. Siamo molto tranquilli perché speriamo di essere presto a riabbracciare tutti i nostri cari amici e che questo periodo passi presto. La località a noi destinata è la Germania ma qualcuno ci ha comunicato che anche gli altri convogli erano diretti in Boemia paese libero interamente di internati ebrei. Vedremo cosa il destino ci ha riserbato. Ti rammentiamo sempre perché sicuri che anche il tuo pensiero è spesso rivolto a noi. Qua eravamo già organizzate noi ragazze tutte occupate in cucina a pelare patate e in 22 ragazze facevamo anche qualche risata, per il lavoro avevamo minestra doppia mattina e sera e col pane, un filoncino al giorno per ognuno condividevamo con mamma e Giorgio. Con noi era anche lo zio Arnoldo15 che quando arrivava il pacco ci aiutava, ma adesso lui rimane, perché misto. La sera fino alle nove dopo il rancio eravamo libere e facevamo con molto buon umore una bella passeggiata. State tranquilli per noi che il morale è altissimo e teniamo a mantenerlo. Saluta e bacia tutti tutti chi domanda di noi e te abbi un abbraccio affettuoso Marcella
Saluta mamma tua e tutti di casa e pregate per noi che il ritorno sia presto, Marcella16 14
Ap Anna Cassuto Bemporad. Clara Galletti (Firenze 1892 - Auschwitz 1944), e sua figlia Marcella Bemporad (Firenze 1916 - Bergen Belsen data ignota) furono arrestate a Firenze e deportate ad Auschwitz. Biglietto da Fossoli a Santuzza Calastrini lanciato nella stazione di Bolzano, spedito da un ferroviere che aggiunse sul foglio: «I signori sono transitati da Bolzano con ottima salute». 15 Arnoldo Bemporad, deportato e morto a Dachau. 16 Un altro biglietto, a firma dell’altra figlia di Clara, Anna, fu lanciato nella stazione di Bolzano: «Partiamo tranquilli con la speranza di presto tornare. Non ci dimenticate che noi continuamente vi ricordiamo. Salutate tutti tutti e a voi in particolare a te Santuzza i miei baci ti soffochino. Anna. Allegra». Fu raccolto e spedito a destinazione da un ferroviere che aggiunse: «I signori sono transitati da Bolzano con ottima salute».
«Ti scrivo in treno. Salvatevi!» di Tranquillo Sabatello ed Enrica Astrologo
Carpi di Modena 16.5.4417
Cara figlia. È papà che ti scrive da Modena, perché io sono stato trasferito da Verona con Carlo e ci hanno portato al Campo di Carpi dove non sapendo di nulla e all’oscuro dell’accaduto, con sorpresa e dispiacere ho trovato Mamma e Mimmo. Ti raccomando con poche parole la mia sorpresa trovando mamma cosí sola e desolata, allora a piangere tutte due, ma per fortuna che mamma ritrovandosi a me, si è messa l’anima in pace, seguendo il destino che ci porterà con sé. Ora partiamo tutti in convoglio per ignota destinazione chissà dove, ma si crede lontano dall’Italia, andremo a trovare zio Angelino18 e siamo circa 800. Ti raccomando cara figlia di non piangere e di darti coraggio, guarda bene Mara19 e Umberto, noi ritorneremo ti giuro, sarò sempre vicino a mamma, come ora, sii forte, e pensate a voi non fare sciocchezze e preghiamo per voi! Dopo la disgrazzia il Signore Iddio ha voluto almeno di unirci insieme noi quattro. Ti scrivo dal treno certamente il viaggio sarà molto brutto. Ma lo sopporteremo con la speranza che presto vi riabbraccieremo. Certamente non avrete per ora piú nostre notizzie. Ma non ti allarmare. Stai attenta a non far-ci stare in pensiero. Dio ti aiuterà. Il destino ha voluto di ritrovarci con Mamma. Saluti e baci a tutti, bacioni tanti a Mara e vi do la Santa Benedizzione. Baci a Cesare Umberto zii e tutti. A te ti bacio tanto e un abbraccio, tuo padre Tranquillo Franca cara20 , Io mi trovo con papà e Carlo ti scrivo in treno e non posso proseguire perché mi viene un nodo alla [gola] di pianto sii forte e attendi con pazienza mi raccomando Mara e Umberto noi presto ci rivedremo bacioni a tutti e tre che sempre vi pensa mamma e papà.
Carpi 18.5.4421 Ci siamo riuniti io e Mamma Mino e Carlo. Partiamo per ignota destinazione. State tranquilli. Dio ci aiuterà. Forse andiamo a stare con mio fratello Angelino. Coraggio Baci baci Baci. Presto ci rivedremo Tranquillo Pensa a te e Mara guarda tutto, Salvatevi! 17
L. Picciotto, L’occupazione tedesca e gli ebrei di Roma, Carocci, Roma 1979, pp. 132-34. I coniugi Sabatello (Roma 1897 e Roma 1904 - Auschwitz 1944), furono arrestati a Roma in momenti diversi e si ritrovarono a Fossoli, insieme a due dei quattro figli, Carlo e Settimio (Mimmo); deportati ad Auschwitz, sopravvisse solo Tranquillo, liberato l’8 maggio 1945. Il primo documento è una lettera su carta semplice su quattro facciate (tre scritte da Tranquillo, una da Enrica) indirizzata alla figlia scampata al-l’arresto a Roma. 18 Angelo Sabatello, arrestato a Roma il 16 ottobre 1943 e deportato ad Auschwitz; morí a Varsavia (Polonia). 19 L’altra figlia. 20 Scritto aggiunto da Enrica. 21 Biglietto lanciato dal treno.
«Ho la ferma fede che, cessata la tempesta, ci rivedremo» di Aldo Pacifici
[Fossoli] 1/6/4422
Mia carissima Nini, sono oggi passati undici giorni da quello nel quale ho avuto il piacere di riabbracciarti e non ho ancora ricevuto tue notizie. Ti confesso che, nonostante ogni ragionamento, sto alquanto in pensiero e attendo con impazienza l’ora della posta sempre con la speranza di ricevere un tuo scritto. Per parte mia ti ho già inviato due cartoline che mi auguro ti siano pervenute comunque ti ripeto piú estesamente quanto ti avevo già scritto. Il 22 è qui arrivato Goffredo23 da Marassi. Dopo cinque mesi e mezzo di prigione puoi immaginare in quale stato fosse, ma ora grazie all’aria buona il miglior nutrimento si è già rimesso a posto. La sua posizione è stata immediatamente riconosciuta e ora si trova qui nella mia camerata. Se la sua venuta mi ha fatto piacere, molto doloroso è stato per me l’arrivo da Firenze della carissima zia Dina, qui giunta con tutto l’Ospizio. Solo alla prima sera e al mattino di poi ho potuto con Goffredo darle un po’ di assistenza perché al pomeriggio è stata portata con tutti gli altri al Campo vecchio (quello dove una volta si andava a fare la spesa), dove vengono ora concentrati i puri in attesa della formazione del convoglio. Povera zia! è completamente cieca e, come sai, anche un po’ svanita. Chissà se la rivedremo piú. Quanto a noi la vita scorre sempre uguale sebbene un po’ movimentata. La mia nuova camerata è molto piú numerosa (55 persone) e naturalmente mi dà piú da fare. I padroni sono un po’ nervosi e ci tengono in agitazione con continue visite e ispezioni. Hanno messo nuovi reticolati fra reparto maschile e reparto femminile e la nostra passeggiata si è molto accorciata. Non possiamo piú unirci in quella specie di piazzale davanti alla cascina dove tu hai dormito. E cosí un giorno dietro l’altro compiono oggi sei mesi dal giorno nel quale mi dovetti allontanare da casa. Sono stati lunghi e anche dolorosi, ma auguriamoci che il piú sia passato. Il 14 corrente avremmo dovuto celebrare le nostre vere nozze d’argento, assieme con te, ma ora penso che solo un miracolo ci potrebbe dare una
tale felicità. 25 anni, oltre la metà della nostra vita passata insieme con giorni tristi e giorni felici, ma sempre allietati dal nostro amore che il tempo ha rinforzato. E auguriamoci ora di riunirci presto per non dividerci mai piú. Spero di ricevere presto notizie tue e dei ragazzi. Tanti e tanti bacioni tuo aff. Nini24 . [Fossoli] 30/7/44
Mia Nini adorata, questa mattina abbiamo ricevuto l’annunzio ufficiale che martedí o mercoledí dovremo partire per altra destinazione. A quanto si dice sembra che dapprima ci fermeremo a Verona; ma ignoriamo se la sosta in quella città sarà lunga o breve, come pure ignoriamo quale sia la nostra definitiva destinazione, che potrebbe essere anche la Germania. In questo caso dovremo rassegnarci a stare senza reciproche notizie fino alla fine della guerra. A questo proposito ti dirò che dopo la tua partenza non ho ancora ricevuto una tua lettera e immagina in quale stato d’animo mi troverei se non avessi appreso indirettamente che almeno a Milano eri giunta sana e salva. Ho la ferma fede che, cessata la tempesta, ci rivedremo; ma se altrimenti il destino avesse disposto ti prego di ricordarmi ai nostri figli. Ho dedicato a te e a loro tutta la mia vita e se non sempre ho potuto darvi tutto quello che avrei voluto, non è stato per mia colpa. Ricordami anche alla carissima mamma che avrei rivisto tanto volentieri specie dopo il grave lutto che la colpí con la morte del povero babbo; cosí pure a mamma Cesira alla quale ho sempre contraccambiato il vivissimo affetto che ha per me. Anche per lei e per i tuoi credo che starai in pensiero in questi giorni nei quali la guerra si accanisce proprio nei pressi di Pontedera. Quanto a noi credo che ci siamo voluto tanto e tanto bene, come forse raramente accade in un normale matrimonio e questo ci avrà ripagato di quanto in altro campo ci è forse mancato; dato che la vita è stata per noi abbastanza dura. Certo che se 25 anni fa, quando ti sposai, avessi immaginato in quale avventura avrei dovuto, e senza mia colpa, trascinarti chi sa come mi sarei regolato. Chiudo ora con riserva di aggiungere qualche cosa se sarà necessario prima di impostare. Saluta gli amici. Tanti e tanti affettuosi bacioni tuo aff.mo
Aldo I) avverti la signora Ebe Tettamanti, via Bellinzona 148, che il suo fidanzato è partito da qui martedí scorso. II) Naturalmente Goffredo e Spartaco25 condividono la mia sorte. 22
R. Marchesi, Como ultima uscita. Storie di Ebrei nel capoluogo lariano 1943-1944, Iscc, Nodo libri, Como 2004, pp. 61-66. Pacifici (Firenze 1894 Auschwitz 1944), dopo aver perso l’impiego di ispettore di Dogana, si stabilí con la famiglia a Chiasso, dove fu arrestato dalla Mvsn mentre tentava di espatriare e deportato. Lettere alla moglie Antonietta (Nini), cattolica, come i due figli. 23 Il fratello Goffredo Pacifici (Firenze 1900 - ?), deportato ad Auschwitz, che in calce alla lettera aggiunge un suo saluto. 24 Spesso Pacifici si firmava con lo stesso nome dato alla moglie, Nini. 25 Il cugino Spartaco Pacifici (Firenze 1923 - Buchenwald 1945), deportato a Buchenwald e morto durante l’evacuazione dal campo.
«La nonna è partita da qui per Auschwitz» di Livio Goldschmied
[Fossoli] Venerdí 30 giugno [1944]26
Carissima Sofia, Non puoi immaginarti come sono contento di aver ricevuto le due fotografie e le due altre lettere. Le guardo tutto il tempo. Adriano poi è magnifico e sembra anche molto allegro. Spero che la Diana non si sarà fatta male nella sua tombola. Affinché i pacchi arrivino bisogna mandarli per corriere e farli appoggiare poi al corriere Valenti di Modena che li recapita qui nel campo. Io qui sto bene, avrei bisogno soltanto di sapone da toilette e per lavare. Scrivimi se hai buone notizie da Trieste. Il tabacco è ottimo e ti ringrazio tanto, adesso ne ho abbastanza per due mesi. Ho avuto tanto piacere di vederti qui, ma ti prego ora di non venire piú, né te né mandare altri a farmi visita perché ora è troppo pericoloso viaggiare, come avrai sentito, e si mette anche troppo tempo. Anche qui circolano voci di liberazione prossima, però non si sa se sono esatte. Ho mostrato a tutti i miei coinquilini – sono duecento – le fotografie dei pupi e tutti hanno molto ammirato l’allegria di Adriano e la fiera bellezza di Diana. Dí alla Diana che appena vengo fuori il mio primo pensiero è quello di cercarle un nuovo orsacchiotto. Non vedo l’ora di rivederti te e i pupi, spero sarà presto. Sta tranquilla cara Sofia che ci rivedremo presto. Salutami tanto tutti gli amici, tanti bacioni a te, Diana e Adriano Tuo Livio [Fossoli] Domenica 9 luglio [1944]27
Carissima Sofia. Tante grazie per le tue lettere. Scrivimi spesso perché non tutte arrivano. Io sto bene e ho anche abbastanza da mangiare perché ora Umberto mi manda regolarmente roba da mangiare. La nonna è partita da qui il 5 aprile per Auschwitz. Tante grazie del sapone che ho ricevuto insieme alla tua lettera. Guardo sempre le fotografie dei pupi. Adriano deve essere proprio molto vispo. Se pesa già tanto non farlo camminare per il momento. Sono
molto contento che ha appetito e mangia di tutto. Spero che anche tu, cara Sofia, starai bene, guarda di mangiare abbastanza e non inquietarti per nessuna ragione e calcolo che ci rivedremo molto presto, probabilmente per la fine del mese, cioè ancora un paio di settimane di pazienza. Scrivimi cosa fa la Diana, dalla fotografia sembra molto cresciuta. Qui c’è sempre la solita vita. Adesso spero proprio di ritornare presto da te e dai pupi e stare un po’ tranquillo assieme, godendoci i nostri tesori Diana e Adriano. Sarei curioso di sapere se anche Adriano ha i capelli biondi e ricci come la Diana? Quando ritorno guarderò dappertutto se trovo l’orsacchiotto per la Diana. Poi naturalmente per non fare ingiustizie cercherò anche qualche regaluccio per te e Adriano. Vorrei solamente che nel frattempo tu fossi tranquilla e calma. Saluta tanto tutti i miei amici. Tanti bacioni a te Diana Adriano Tuo Livio 26
Ap Diana Goldschmied. Il primo documento è una lettera su modulo prestampato del campo alla moglie. Goldschmied (Trieste 1913 Mauthausen 1944), sposato con Sofia Arvanitis (italianizzato in Albaniti, cattolica) con la quale ebbe due figli (Diana e Adriano); dopo l’armistizio la famiglia si rifugiò a Vico Canavese (Torino), dove Livio fu arrestato nel marzo del ’44 e deportato ad Auschwitz. 27 Lettera su un foglio di carta azzurra alla moglie. È l’ultima conosciuta prima della deportazione.
«Ma che cosa ho fatto di tanto male per esser castigata cosí?» di Ada Michelstaedter
[Fossoli, 30 luglio 1944]28 Domenica mattina. Oh Beppi mio, ora lo sappiamo dobbiamo tenerci pronti con poca roba ché martedí o mercoledí si parte insieme ai prigionieri inglesi. Tutti parlano di Germania e ho paura non a torto perché tutto lo fa supporre. Dirti il mio stato d’animo è una cosa inutile, ti basti sapere Beppi mio che se sempre ho pensato tanto a voi, ora mi sento straziare il cuore pensando d’allontanarmene tanto senza speranza di poter saper piú niente di voi miei adorati. Facciamoci coraggio, ci rivedremo forse ancora, ma se ciò non dovesse piú accadere sappiate che fino all’ultimo il mio cuore sarà con voi, serbate un buon ricordo mio e perdonatemi se molte volte non sono stata come avrei dovuto e voluto essere. Che il nostro benedetto29 guardi di farsi la vita buona e pensate che, se la mia sorte è di non vedervi piú, segno è ch’è un bene per voi, l’ho tanto pregato Iddio di fare tutto pel vostro meglio. Ed ora vi bacio tanto e tanto intensamente, vi raccomando state tranquilli e cercate e riuscite a farvi una buona ragione vostra Ada e che Dio vi benedica come vi benedico io. Domenica pomeriggio, che giornata. Beppi, mio! non gliela auguro una di simile a nessuno. Non rileggo quanto ti scrissi questa mattina perché se ti scrivo ora voglio farlo sotto l’impressione delle ultime notizie che vorrei sperare siano veritiere come mi fu assicurato. Dunque sembra che si parta noi misti30 assieme agli inglesi per Verona e a Verona poi verranno vagliati tutti i nostri documenti e poi decideranno della nostra sorte. Se come probabile si sarà destinati per un campo di concentramento auguriamoci sia per uno in Italia, parlano anche di un eventuale confino, oppure di una liberazione, beati chi ci crede. Il maresciallo31 ha detto oggi che doveva venir da Verona risposta riguardo agli ammalati, ma credo si tratti soltanto per i politici. Si passano ore angosciose e si vive sotto un incubo. Procuro di non veder nessuno e di parlare con meno persone possibile per non montarmi ancora piú la testa, ma lo stesso non ho pace e non la trovo né a
letto né alzata. Ho fatto bene mi accorgo, a mettermi a scriverti, cosí mi par di non esser piú cosí sola in mano di questa gente. Povero Beppi, forse invece sono un’egoista a scriverti; mio dovere sarebbe quello di simulare una calma e uno stoicismo che purtroppo non ho, e non potendo simulare farei meglio a non scriverti neanche, mi perdoni? Tutti i documenti che tu mi hai procurato sono tanto a posto che spero se veramente verranno richiesti potranno servire ed allora… non tutti li posseggono e vedi perciò delle facce nere nere e senti pronostici piú neri ancora. Questa mia la riceverai per mezzo della signora Levi-Barberis che per fortuna viene liberata, da lei potrai avere notizie piú precise visto che la sua figliola rimane con noi e seguirà le nostre sorti probabilmente. Adesso hanno chiamato ancora e il convoglio parte per la Germ[ania] aggregati alla Todt. già questa sera alle 7. Domani poi probabilmente partiranno gli altri e martedí-mercoledí noi e poi basta. Si potesse almeno venire vicino a Milano o almeno in un posto dove potresti venire con facilità ed avere almeno quel grande conforto e quello della posta. Mah! è atroce non saper niente e dover sottostare a tutto quanto decidono gli altri per noi. Speriamo potremo far relativamente un buon viaggio, forse che noi ammalati avremo un trattamento speciale. Se potrò scriverò anche domani e prima di partire ma non so se invece dovrò consegnarla prima. Scrivo a te Beppi mio ma il mio pensiero in ogni mia parola ti unisce al nostro benedetto che vorrei tanto e tanto poter rivedere ancora. Cerco di pensarlo nelle varie sue espressioni e me lo vedo d’innanzi e il cuore mi si spezza di non poter esser vicino a lui, vicino a te Beppi mio, ma che cosa ho fatto in questo mondo di tanto male per esser castigata cosí? e quando ma quando avrà fine questo mio tormento? Mah! non posso piú scrivere è meglio interrompa e che Dio vi preservi a voi miei benedetti da ogni male e possa far sí che ci ritroveremo presto riuniti in bene che non ne posso proprio piú. Ma coraggio e avanti, continuo poco dopo perché mi sembra che quella signora partirà con noi ed invece forse già domani c’è un’altra combinazione. Beppi mio ti raccomando sappiatevi far forza e coraggio qualunque cosa avvenga. Il nostro tesoro è già in un’età che non ha piú bisogno di me ed anzi per te potrà essere e sarà la tua forza. Che possiate trovare aiuto e conforto e che il nostro tesoro abbia saputo scegliere bene come tanto e tanto lo vorrei io. A tutta la mia famiglia mando il mio ricordo affettuoso tanto e la mia riconoscenza per tutto quello che hanno fatto sempre per me e che io mai e mai dimenticai. Spero tutti saranno salvi
e staranno bene. A tutti un bel bacio e alla mia Pia32 uno grosso. Non avvilirti Beppi mio se ti scrivo cosí. Forse ci rivedremo ancora se potrò ed appena lo potrò ti farò avere mie notizie. Non è escluso che a Verona mi liberino, come non è escluso che mi mandino chissà dove. Speriamo bene miei adorati, vi raccomando ancora forza e coraggio e che Dio ci assista e sia sempre con noi. Mi ricorderai tanto anche a tutta la tua famiglia che sempre è stata buona con me, principalmente la cara Alice. Noi ci rivedremo ancora Beppi mio ci rivedremo perché il buon Dio non vorrà colpirci cosí. Saprò darmi forza e coraggio anch’io e farò di tutto per star bene e batter duro il piú possibile. Abbiate ancora con la mia benedizione il mio bacio il piú amoroso e vi raccomando calma e coraggio. Dove sarà il mio tesoro? dove? e tu Beppi? state sempre bene? chissà se tu hai notizie e come sono queste notizie; il mio pensiero fugge con tanta paura a pensar male ma sono tanto sconsolata a non saper niente. Devo finire, un bacio anche alla Milly e che sia il vostro angelo buono se cosí vuole Iddio e che abbiate sempre la sua protezione. Arrivederci vostra Ada La Capozzi33 mi prega di dirti che consoli suo marito. 28
A. Michelstaedter Marchesini, Con l’animo sospeso. Lettere dal campo di Fossoli (27 aprile - 31 luglio 1944), Quaderni di Fossoli, Ega, Torino 2003, pp. 115-19. Ada Michelstaedter (Trieste 1890 - Auschwitz 1944), convertita al cattolicesimo, sposata con rito cattolico con Giuseppe Marchesini, fu tradita da una lettera alla famiglia nella quale rivelava il proprio indirizzo a Milano e fu arrestata e deportata. 29 Il figlio Fabio. 30 Si riferisce alla sua condizione di moglie di un cattolico. 31 Probabilmente Hans Haage, vicecomandante del campo. 32 La sorella. 33 Alba Valech, deportata ad Auschwitz; fu liberata dagli Alleati nei pressi di Dachau.
«Arrivederci miei carissimi, lo scrivo come buon augurio» di Clara Pirani
[Fossoli] 31 agosto [1944]34
Franco carissimo e mie bimbe adorate, si parte; alle previsioni piú rosee segue la delusione piú amara. Partiamo questa notte per destinazione ignota, prima tappa Verona, ove ci fermeremo forse qualche giorno, poi, non si sa, ma si dice con insistenza per la Germania. La soluzione è la piú inattesa e la piú triste, non credevo che dopo aver tanto sperato e sofferto ci attendesse un destino cosí doloroso. Forse hanno influito a inasprire le decisioni gli ultimi avvenimenti35. Non vi so dire il mio stato d’animo, mi dicono di sperare ancora, che fino all’ultimo vi può essere un contrordine come tante volte è avvenuto ma io non oso piú. Sono triste, tanto triste, ma ho ancora fiducia che Iddio darà a tutti noi la forza di resistere e la possibilità di ritornare e la gioia di rivederci. Coraggio, siamo forti, dobbiamo esserlo io e voi, perché la guerra deve finire presto e non si tratterà che di prolungare di qualche mese la prigionia e le pene. Non so se mi sarà possibile scrivere piú, tenterò da Verona per precisarvi la nostra destinazione. Voglia Iddio che si possa rimanere in Italia e non ci trasportino in [un] campo tanto lontano. Non temete per me, sono forte e Dio mi aiuterà, pregate anche voi per la mia sorte e siate per quel che è possibile sereni. Il mio pensiero sarà sempre con voi, e il sapervi tranquilli e in salute mi darà forza e coraggio. Vi stringo tutti al cuore e vi bacio tanto tanto. Clara Salutatemi tutti [Verona] 2 agosto [1944]
Miei carissimi, due righe in fretta da Verona ove abbiamo fatto tappa dopo un viaggio buono. Ripartiamo oggi stesso per la nuova destinazione, forse ci fermeremo qualche tempo a Bolzano, ma è piú probabile che ci portino subito oltre confine per un campo di lavoro – Non so se potrò scrivervi
ancora – ma state tranquilli – la prova è dura eppure ho fiducia di superarla – la vostra tranquillità e la certezza che state bene mi daranno la forza di superare i disagi. Pensatemi come io vi penso ma non lasciatevi abbattere, mi raccomando – Voglio ritrovarvi bene. Vi stringo al cuore e vi bacio tanto. Clara 34
G. M. e G. Cardosi, La questione dei «matrimoni misti» durante la persecuzione razziale in Italia 1938-1945, Estratto della Rivista «Libri e Documenti», n. 3/1980 - 1/1981, Ascbt, Milano, pp. 44-47. Clara Pirani (Milano 1899 - Auschwitz 1944), di religione cattolica, fu arrestata a Gallarate (Varese) e deportata. Lettere su carta semplice indirizzate al marito Franco Cardosi e alle figlie Giuliana, Marisa e Gabriella. La data della prima è evidentemente errata, in realtà è il 31 luglio 1944. 35 Probabile riferimento alla notizia sul fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944, trapelata in qualche modo anche nel campo.
«Chissà se ci rivedremo, prega per me» di Prospero Lombroso
[Bolzano] 13-8-4436
Cara Lina solo ieri ho ricevuto la lettera del 22/7 con la foto del piccolo: è un bimbo capolavoro. Non mandarmi altro, che qui la sciuperei ed a me basta quello che ormai ho. Salute mia ottima e morale abbastanza buono, salvo qualche inevitabile momento di tristezza, quando i pensieri piú dolorosi si fanno piú acuti. Non ho piú avuto notizie da Imperia e dopo la tua non capisco se sono ancora là o se sono tornati a Torino. In ogni caso salutameli tanto tanto e dí a Gianna che mi scriva sovente: è l’unico mezzo di aiutarmi quello di darmi notizie. Io posso invece scrivere solo due volte al mese. Ad ogni modo ti ripeto sto bene e mangio certamente meglio di tanta gente effettivamente il Comando fa di tutto perché le nostre condizioni di vita siano sempre migliori. In attesa di nuove notizie – attenta che è cambiato l’indirizzo – baciami tanto il piccolo e ricevi i miei saluti Prospero [Bolzano, senza data]
Carissimo Elio, ho ricevuto con gioia infinita la tua cartolina e la tua foto. Sei già un vero ometto, me lo dice il tuo aspetto fiero, peccato però che sia venuto a conoscenza da un uccellino che non sei troppo buono e che hai imparato una brutta parola che ti fa andare qualche volta in porcile. Guardandoti e riguardandoti, mi convinco sempre piú che noi, io e te, siamo fatti proprio a misura per intenderci bene e andare d’accordo, ma è necessario però che tu non esageri ora nello spadroneggiare, perché altrimenti sarebbe per te molto penoso il cambiamento che, con me, dovresti fare. Io, fortuna per te in questo momento, non avrò a disposizione un porcile, ma certamente ricorrerò a qualche mezzo piú energico: figurati che penso – guarda un po’ che papalino cattivo – che il porcile per te può essere
diventato un divertimento, se sono riuscito a fare amicizia con i maialini che vi abitano37 . A parte questa chiacchierata che ti può essere indigesta, sei proprio un bel bimbo, certamente molto intelligente e quindi da trattarsi in modo speciale: per questo sono convinto, noi saremo sempre buoni amici e sono sicuro che diverrai un bimbo ubbidientissimo (…). Procura, per quello che puoi e non spero tanto, di essere il meno cattivo (…) prepotente possibile, con la tua buona signora Maria38 alla quale devi oggi tutta la tua bellezza e cerca di essere cattivissimo con la carissima Gianna39 quando non mi scrive come ha promesso. Pregando sempre di poterti abbracciare, ti bacio affettuosamente stringendoti forte forte. Il tuo papà Saluti affettuosissimi a tutti, un bacione a Gianna che trasmetterà (…) il mio pensiero su Elio che è proprio un grande amore. Prospero 36
Ap Franco Debenedetti Teglio. Lombroso (Siena 1905 - Flossenburg 1945) si rifugiò in clandestinità a Borgosesia (Vercelli), dove fu catturato e deportato. Biglietti alla compagna Lina Barberis (cattolica, che non aveva potuto sposare a causa delle leggi razziali) e al figlio Elio (nato nel ’41 e riconosciuto come figlio di Prospero dal Tribunale civile di Torino nel dopoguerra). 37 Probabile riferimento al campo di concentramento (porcile) e agli altri internati (maialini). 38 Cugina della compagna, che accudiva il figlio con i nonni paterni. 39 Figlia adottiva di Maria.
«Dovrò vestire la vestaglia bianca con su il segno della mia origine: un triangolo giallo» di Giuseppe Diena
[Bolzano] 25/XI/4440
Caro Paolo, ero fiducioso che per il nostro giorno natalizio tutta la nostra cara famiglia fosse di nuovo adunata, e che ciascuno avrebbe già ripreso il suo lavoro solito: ed invece quale amara delusione! Non volli mai allontanarmi da Torino per essere sempre vicino a tutti voi ed in modo particolare alla cara Mamma vostra: ed ora mi hanno allontanato tanto che la voce sua, o meglio gli scritti suoi, mi giungono irregolarmente e molti vanno dispersi. Ma non siamo disuniti, benché lontani. Come io di continuo penso alla Mamma ed a voi, so che i miei pensieri s’incrociano per via invisibile ai pensieri vostri. E molte volte mi immagino, anzi, che nello stesso momento in cui io rivolgo il pensiero a voi, voi dobbiate pensare a me. E cosí fra poche settimane, il 16 del mese prossimo, tutti e quattro saremo riuniti nello stesso pensiero, e mentalmente festeggiando il nostro duplice compleanno con la serietà nostra abituale. Duplice compleanno... Quello di una persona che mai piú nulla deve attendere dalla vita, e che se da essa ebbe molte disillusioni pure da essa ebbe il dono di grandi bellezze (e sono sufficienti le gioie che egli ebbe dalla sua famiglia) e quello di una persona che alla vita si affaccia solo ora, ma che pare già cosí profondamente la conosca e che l’affronta con tanto spirito di sacrificio e con il piú alto senso del dovere. E che cosa dovrei io dirti per questo giorno? Se diamo uno sguardo tutto intorno a noi, pare che solo i cattivi abbiano il predominio e che i buoni siano ovunque calpestati e vilipesi. Vedo ovunque dell’egoismo in questo luogo dove il comune destino dovrebbe affratellare tutti. Ma, malgrado tutto, s’io dovessi ora ricominciare la mia vita per nulla cambierei dei proponimenti che mi sono fissati, e che ebbero questo buon risultato che voi due da me ereditiate un nome di cui non avrete mai ad arrossire. Passiamo momenti gravi per l’umanità, momenti nei quali pare che il male debba trionfare: comunque vadano le cose (ed in questo non si può essere
che ottimisti) ho la soddisfazione di poter sempre dire di aver in ogni occasione fatto il proprio dovere e di non avere mai scientemente fatto del male ad alcuno, ch’io considero questo come il maggior premio che un individuo possa ottenere. E per questo insisto con te e con il caro Giorgio41, ch’io unisco sempre a te nei miei pensieri, perché mai vi dipartiate dalla via che avete iniziato cosí bene e con cosí alto senso del dovere. Non posso immaginare quando di nuovo saremo tutti uniti: speravo molto nell’autunno, e può darsi che sia il pieno inverno che ci riunirà o forse la prossima primavera. Non preoccupatevi di me; qui mi trovo molto bene, in situazione del tutto privilegiata rispetto a quasi tutti gli altri qui riuniti. Non seguo la sorte dei miei correligionari, fra i quali il vostro compagno di scuola Guido42, il quale qui aveva l’onorifica carica di «capo pulizia gabinetti» e con tutta probabilità non mi allontanerò piú di qui per andare verso il Nord. Faccio il medico, sto in ambiente riscaldato, sono ben visto dai miei compagni di sventura i quali anche mi aiutano, nei limiti del possibile, e sono anche ben visto dai colleghi. Come vedi potete stare assolutamente tranquilli sul conto mio. Ti giungerà questa mia lettera? Non ne sono sicurissimo, ma lo spero moltissimo perché a te ed al caro Giorgio giunga la mia parola anche da questo posto dove giungono sempre nuovi ospiti, ed altri ne partono per il Nord. Ma qui è alto il morale, malgrado l’eterogeneità sia delle condizioni sociali che di sentimenti politici. Ma l’enorme maggioranza la pensa come noi e, come dicevo, il morale è molto elevato. Ed ora un bacio stretto stretto sia a te che a Giorgio. Benché lontani festeggiamo i nostri giorni natalizi tutti uniti in un unico sentimento cui la cara vostra Mamma in un unico sentimento anch’essa ci riunirà nella sua alta preghiera. Il tuo Babbo 40
Ap Giorgio Diena cit. Diena (Carmagnola 1883 - Flossenburg 1945), medico e docente universitario antifascista, dopo l’armistizio fu catturato e deportato a Flossenburg, dove si prodigò per assistere i compagni di prigionia, prima di essere ucciso a bastonate. Lettera al figlio Paolo, partigiano, in realtà caduto l’11 ottobre 1944. 41 L’altro figlio.
42
Guido Foa, compagno di scuola del figlio Paolo, morto in deportazione.
«Son ridotto in ben triste stato» di Emilio Sacerdote
Bolzano 8/XII/4443
Egr[egio] sig[nor] Tommaso, non so dirle il piacere che ho provato l’altro ieri nel vederla e nel parlarle: come ha visto, son ridotto in ben triste stato. Le sono tanto riconoscente, ma proprio tanto, per l’assistenza che Ella mi dà: ieri ho avuto il pacco contenente anche i due medicinali, continui e mi fa un’opera santa. Da parecchio non ho piú lettere dai miei cari e sono molto inquieto anche per ciò: faccia sapere loro che ho necessità di ricevere loro scritti: li preghi di scrivermi: qui possono scrivermi due volte al mese soltanto, ma sarei già contento di ricevere notizie due volte al mese. Continui ad assistermi, Egr[egio] sig[nor] Tommaso, e sia sicuro che non dimenticheremo mai quanto Ella fa per me. Di nuovo grazie, grazie, grazie per quanto fa per me. Tante affettuose cordialità. avv[ocato] Emilio Dote Bolzano 14/XII/4444
Carissime, lascio oggi Bolzano e parto per la mia nuova residenza. Di salute sto benissimo; vi ho in cuore con me; non posso scrivere di piú; cari baci, mie adorate; tutti i miei baci Emilio 43
Iwm, fondo Moscati, 66/7. Sacerdote (Vibo Valentia 1893 - Bergen Belsen data ignota), reduce della Prima guerra mondiale, magistrato prima delle leggi razziali, dopo l’armistizio entrò nella Resistenza ma fu arrestato su delazione e deportato a Flossenburg. Biglietto su carta semplice firmato Emilio Dote, per rendersi meno riconoscibile come ebreo. 44 Ultimo biglietto prima di essere deportato.
«State tranquilli sul mio conto e speriamo di rivederci presto» di Renato Pace
[Mauthausen] 13-12-4445
Carissimi, vi do nuovamente mie notizie, come sempre ottime. Siamo tutti nella località della Germania, migliore sotto ogni punto di vista, in prossimità di Vienna. Prima eravamo vicini a Monaco ma ora ci troviamo qui e stiamo molto bene. Il vitto è ottimo ed abbondante ed il lavoro pochissimo. Anche il trattamento è molto buono. State tranquilli sul mio conto e speriamo di rivederci presto. Pensate che mangiamo burro, salame e formaggio. Beviamo tè continuamente. Mamma stia tranquilla e serena e non se la prenda. Al mio ritorno voglio trovarla tranquillissima. Non date retta a tante storie che si raccontano, perché sono tutte chiacchiere e nulla piú. Quindi calma e pazienza. Mi auguro che voi stiate bene e non soffriate troppo per quanto dovrete passare. Coraggio e forza d’animo. Intanto io approfitto dell’occasione propizia per cercare d’imparare un po’ di tedesco e presto potrò darmi delle arie in materia! Non so ancora se potrò scrivervi ma comunque non ve la prendete. Salutissimi al Sig[nor] Ernesto e famiglia. Se dovessero chiedergli informazioni sul mio conto, dica pure che sono suo dipendente come ragioniere ma senza presentare i miei libretti. Scrivo male perché sono in posizione scomoda. Vi mando il portafoglio e la penna e matita perché qui temo di perderle. State tranquilli e tanti tanti baci a Mamma, Mimmo e Silvio (…) Saluti a tutti. Renato 45
G. Valabrega, Ultime lettere cit., p. 73. Pace (Roma 1916 - Mauthausen 1945), ragioniere, dopo l’armistizio riuscí per qualche tempo a nascondere la sua identità; scoperto, fu arrestato nel dicembre ’43 e poi deportato. Lettera clandestina inviata alla famiglia per mezzo di una guardia di scorta alla tradotta.
«Io mi trovo qui senza nulla» di Gilda Forti
[Bolzano, 18 dicembre 1944]46
Mia cara Maria, scrivo a Lei perché tiene la mia roba e so che à tanto cuore che subito me la manderà. Io mi trovo qui senza nulla, mi mandi le maglie i pannolini, fazzoletti, sapone cotone da cucire, asciugamani, la blusa di lana, le scarpe, e tutto quello che può, e anche un po’ di soldi. E le scarpe di gomma. Mi raccomando di mandare tutto subito perché sa che sono venuta via senza nulla. Io mi trovo bene e sto bene, l’aria è buona. Mi mandi se può qualche cosa da mangiare. Si interessi assieme alla mia famiglia di mandarmi il tutto a mezzo di qualche camion che viene a Bolzano. Bacioni a tutti i miei e uno speciale a Lei. Gilda 46
L’ultima lettera di Gilda Forti. La persecuzione degli Ebrei, in G. Dean (a cura di), Scritti e documenti della resistenza veronese (1943-1945), Provincia di Verona, Verona 1982, p. 313. Gilda Forti (Verona 1896 - morta in data e luogo ignoti), dopo essere sfuggita una prima volta all’arresto, fu catturata in casa di un maestro dove si era rifugiata e deportata. Lettera a Maria Romici di Verona.
La liberazione e il difficile ritorno alla vita
«Sono arrivati ed è questo il piú bel giorno della mia vita» di Renato Di Segni
[Roma, 4 giugno 1944]1 Gli Alleati avanzano… Travolgono tutte le difese. A Roma si vive in ansietà. Può darsi che la città non venga risparmiata, può darsi che gli uomini vengano presi in massa per essere portati al Nord. Speriamo bene. Questi comunque sono pericoli comuni a tutti ed a noi non fanno molta paura. Gli Alleati arrivano a Velletri e Valmontone si fermano forse per tirare il fiato e passa qualche giorno. Il sabato 2 giugno alla radio in casa del prof. Cassuto sentiamo che le difese di Velletri hanno ceduto. Siamo quindi arrivati al punto culminante. Difenderanno Roma? Dovremo passare dei brutti giorni? Andiamo a casa Tazzoli alle otto e mezza di sera e vediamo passare una fila interminabile di automezzi tedeschi. Forse è la ritirata? Non può essere, sarebbe troppo bello! Agli angoli delle strade vengono piazzati dei cannoni. Brutto segno. Viene annunciato il coprifuoco alle diciannove di sera ma sembra che nessuno ci faccia caso. La domenica mattina nulla di nuovo. I telefoni però non funzionano piú e la luce elettrica neppure. Buon segno? Nel pomeriggio ricominciano a passare le truppe tedesche, non sappiamo però nulla perché non si sente la radio e non c’è telefono. La sfilata continua fino a notte. Sembrano molto stanchi però passano molto ordinati ed i cannoni sono sempre piazzati agli angoli della piazza Ungheria. La sfilata alle nove finisce. Si sentono però ancora degli spari di rivoltella e quindi è meglio non uscire per non buscarsi qualche pallottola. Andiamo a dormire. Alle quattro mi sveglio perché mi sembra di sentire in strada dei rumori. Domando a mamma che cosa c’è e se sono arrivati gli Alleati. Mi sembra nel dormiveglia di sentire una risposta negativa e mi riaddormento sfiduciato. Alle cinque e un quarto sento di nuovo rumore. Mi vesto e con me Lionello e mamma. Scendiamo in strada, arriviamo a piazza Ungheria ed ecco da lontano apparire dei soldati. Corriamo incontro a loro come impazziti insieme a centinaia di altre persone. Sono loro! Sono gli americani della quinta armata che avanzano in dispositivo di sicurezza. Urliamo, urliamo come pazzi, ci abbracciamo, forse
piangiamo. Sono arrivati ed è questo il piú bel giorno della mia vita, è la libertà dopo sei anni di oppressione e dopo nove mesi di tragedia! 1
R. Di Segni, Qualche mese di guerra. Diario 1943-1944, ed. fuori commercio a cura del figlio Fabio Pontecorvo Di Segni, Spell, Terni 2008, pp. 49-50. Di Segni (Roma 1908 - Orbetello 1974), in seguito alle leggi razziali continuò l’attività di agente di commercio con un prestanome e dopo l’armistizio, all’indomani della richiesta dell’oro da parte dei tedeschi agli ebrei romani, intuendo il pericolo, si rifugiò in clandestinità prima nei pressi di Velletri e poi nella capitale, col falso nome di Sequi. Diario scritto in forma di lungo racconto, aggiornato periodicamente a breve distanza dagli avvenimenti, dal luglio 1943 al giugno 1944.
«Ora che siamo salvi non ci sentiamo davvero felici» di Mario Teglio
San Giorgio [Siena] 19 giugno [1944]2 Son partiti in tempo gli amici! Infatti oggi si installano a Montauto i tedeschi con una tripla stazione radio e mitragliatrici! Per noi comincia un periodo maggiormente angoscioso poiché anche a San Giorgio, Cananello, San Germano s’iniziano brevi visite di gruppi di 3/4 tedeschi che vogliono mangiare, bere e… in diversi casi portar via roba. Tutta la settimana passa in lunghissima ansia per l’arrivo dei liberatori ma purtroppo neppure Domenica 25 si vedono! Si sente però che non sono lontani; il cannone da oggi tuona potentemente a non oltre 25 km. Abbiamo diverse visite di Remo C. e del piovano di Serravalle ma tutti senza notizie precise! In totale nella tenuta nostra siamo in 130! Tutti ritengono questa zona tranquilla! Lunedí 26 giugno La prima macchina tedesca arriva a San Giorgio ed a Cananello a racimolare viveri, anche questa volta ce la caviamo bene, solo notevole allarme! Nottata di duri cannoneggiamenti, si ha l’impressione che vi sia resistenza tedesca sulle montagne che coronano l’ingresso della Val D’Arbia. L’ansia nostra e di tutti questi sfollati aumenta di ora in ora, viene una notizia molto buona e subito dopo altre notizie che scoraggiano non poco. Io raccomando di non dare retta a nessuna notizia, solo i fatti parleranno! Intanto i tedeschi depredano i poderi vicini alle strade piú importanti. Qui siamo sempre in posizione privilegiata. Mercoledí 27 Sempre senza notizie sicure e quindi vi è irritazione a San Giorgio! Mercoledí 28 giugno
Sembra che da un momento all’altro i nostri liberatori debbano essere su Buonconvento ma il cannone tuona ancora lontano, terribile, accanto e batte anche le strade di Buonconvento e Monte Uliveto di rimpetto a noi. Tutta la vallata rimbomba notte e giorno. A Montauto sempre la stazione radio. 50 uomini [tedeschi] a piedi, arrivati stamane, sono partiti stasera e… tiriamo un respiro. 5 di questi vennero in mattinata a S. Giorgio e costrinsero noi giovani ad una fuga e nascondigli per alcune ore! Vorrebbero dormire qui!! Arriva la signora Bruna Casini a rifugiarsi presso di noi: è stanca, estenuata. Altri parenti del Casini vengono su. Nottata durissima, colpi cadono a meno di un km da S. Giorgio con forti boati, sono inglesi e di medio calibro! I tedeschi continuano i saccheggi: altri coloni si rifugiano a Cananello col bestiame. Giovedí 29 giugno 1944 Gli Anglo Americani si sono molto avvicinati e da Montalcino, occupata da 102 giorni, battono intensamente strade, alture e batterie tedesche. Siamo in piena battaglia. La nottata, pur essendo dura, è meno terribile della precedente. Giugno 1944 venerdí 30 Liberazione! Vengo svegliato alle 7 dalla voce «ci sono i tedeschi». Sorveglio dalla finestra l’andirivieni di 4 brutti ceffi prepotenti che esigono molte ova, e minacciano di aprire bauli e casse, intervengo con diverse ova, li calmo: i contadini provvedono a cuocerle. Due sono specialmente molto agitati, scrutano con binocoli. Mentre io sono in casa, verso le 8, Beatrice C. entra affannata «ci sono gli americani». Raccomando prudenza, silenzio, calma, poiché con i tedeschi in casa non vi è da scherzare. Saranno poi davvero i nostri liberatori o rinforzi tedeschi? Esco e con prudenza punto lo zeiss3, sono incerto, il casco è tedesco? Americani ed inglesi non sono, vengono avanti in fila indiana dai poderi «Casanova» e «Sole». Intanto i 4 tedeschi, senza finire le «ova», si allontanano circospetti. Pochi minuti dopo i primi uomini della colonna passano sotto S. Giorgio. Mi avvicino: sono ancora in dubbio, dato sento parlare italiano… poi scorgo i primi Marocchini: «Rabat, Casablanca, Fez»,
grido loro! «Vive la France!» Sorridono e rispondono! Intanto dopo che le avanguardie oltrepassano la casa e si sistemano nel viale sotto i cipressi, la colonna viene direttamente su alla nostra casa. Facciamo loro accoglienze entusiastiche e subito offriamo vino, prosciutto, acqua, latte etc. Arrivano prima piccoli automezzi poi camion ed infine carri armati, subito si piazzano a S. Giorgio in posizione di combattimento: vengono appostate oltre 20 mitragliatrici e 3 carri armati. Nella notte, gruppi di tedeschi sono arrivati a M[onte] Acuto e, purtroppo, a S. Germano con mitragliatrici. Incomincia quindi la battaglia per occupare le tre località confinanti, faccio rifugiare donne e bimbi nella cantina. I colpi sono numerosissimi specialmente in partenza. Raccomando al Capitano la casa di S. Germano e alle 15 tutto sembra calmarsi ed i Francesi si avviano ad occupare Monte Acuto. A S. Germano non vanno non essendo sulla loro strada. Diamo colazione a due Maggiori, tre o quattro Capitani ed altri ufficiali ed alle 18 vanno via, salutati con gioia, gli ultimi Franco-Marocchini a S. Giorgio. La nostra liberazione, grazie a Iddio, è avvenuta ed improvvisamente. Dobbiamo passare ancora due giornate e due nottate dure. Colpi tedeschi cadono vicinissimi alla nostra casa sulla piccola strada poderale che tanto traffico ha visto in 2-3 giorni! Anche grossi carri armati transitano sotto la nostra casetta! E tutti erano convinti che questa zona sarebbe stata calma!! Diversi francesi che hanno gustato l’ottimo vino bianco di Cananello ritornano con le auto a bere nuovamente ed a mangiare salame. Ci portano biscotti, caramelle, sigarette, cioccolato, caffè ed… un poco di sapone! Ora che siamo salvi non ci sentiamo davvero felici. Il nostro pensiero è particolarmente rivolto ai Marille. Pensiamo anche tanto a Massimo, Nicoletta ed a tutti in Acqui! Quando saranno liberati? Speriamo che prima dell’arrivo dei Liberatori a Genova, i Tedeschi siano costretti anche dagli avvenimenti sul fronte Russo e Francese ad una rapida ritirata che non dia tempo ai maledetti «Unni» di distruggere e depredare tutti come è avvenuto qui. Il Podere S. Germano ha avuto forti danni ai muri, agli attrezzi ed al bestiame; al villino di Siena i tedeschi proprio l’ultimo giorno ci hanno rubato quasi tutto ciò che trovarono. Speriamo di salvare l’appartamento e tutta la roba che abbiamo a Genova ed a Recco!!
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Ap Franco Debenedetti Teglio cit. Teglio (Genova 1901-1994), diresse la ditta di famiglia che operava nel commercio dei pesci conservati, che però dovette chiudere in seguito alle leggi razziali; dopo l’armistizio si nascose in clandestinità in Toscana fino alla Liberazione. Diario su quaderno a quadretti dal 10 ottobre 1943 al 30 giugno 1944, con annotazioni quotidiane dettagliate. 3 Binocolo.
«HITLER È MORTO A BERLINO!» di Bruno Salmoni
[Megognano, Siena] 2 maggio [1945]4 HITLER È MORTO A BERLINO! È la notizia che il giornale di oggi porta sulla testata; il mostro che ha rovinato la vita di tanti giovani, ha spento milioni di altri, non è piú! Personalmente tutto posso attribuire a lui: la tragedia del povero zio Riccardo, e chissà di altri, l’invecchiamento di papà e mamma sotto i colpi della sorte, la mia carriera stroncata, l’avvenire mio e di Juanita pregiudicato in maniera forse irreparabile. È morto troppo tardi, senza che la sua morte potesse portare il minimo beneficio all’umanità; si è spento come un mostro da fiaba, dopo che ormai tutto il veleno di cui era capace aveva prodotto i suoi terrificanti effetti sulla umanità intera. La sua morte ormai non può piú accelerare o ritardare di un sol giorno la fine della guerra in Europa. 4
Adn Dg/85. Salmoni (Porto Said 1912 - Rosta 2008), medico, sposato con Juanita, cattolica, fu radiato dall’ordine e dopo l’armistizio fuggí in Francia (dopo essere stato arrestato con la moglie e rilasciato dopo un mese, nel novembre del ’44) con una missione partigiana composta tra gli altri dal fratello Alberto, Ada Gobetti col figlio Paolo, Ettore Marchesini e Paolo Spriano; negli ultimi giorni di guerra venne distaccato presso un nucleo chirurgico in provincia di Siena. Diario su due quaderni dal 20 dicembre 1944 al 5 giugno 1945 (un terzo quaderno è andato perduto).
«Siamo sopravvissuti, ma dal mondo di prima una tremenda frattura ci separa» di Renzo Segre
[San Maurizio Canavese, Torino] 7 maggio ’455 Anche l’ultima notizia che si attendeva è finalmente giunta: la Germania ha capitolato incondizionatamente alle ore 2.41 di stamani, sopraffatta dalle stragrandi forze alleate, sommersa dal mare di odio di tutto il mondo. Decine di milioni di vite umane sono state sacrificate da questo popolo barbaro nel tentativo di conquistare una supremazia che avrebbe fatto arretrare di mille anni il quadrante della storia e non è riuscito. In paese si rinnovano manifestazioni di giubilo, come, del resto, credo avvenga in questo momento in tutto il mondo. Dopo tanta compressione, tanti lutti, tante rovine, l’amore della vita erompe in manifestazioni clamorose. 8 maggio ’45.Victory Day6 Con gesto pieno di significato, il professore consegna a me e a Nella le carte d’identità, da lui firmate come sindaco, coi nostri veri nomi. Ci sono necessarie per metterci in viaggio, essendo noi sprovvisti di qualsiasi altro documento col nostro nome, ma, a parte questo, mi piace che sia la stessa cara, nobile persona che ci ha salvato la vita rischiando la sua, che ha la facoltà di riconferirci il nostro nome, di reintegrarci nella nostra personalità. Il professore vuole che oggi pranziamo nella sala comune, accanto a lui, il che facciamo di buon grado. La sala è tutta addobbata di bandierine e i tavoli sono infiorati. La gente è felice: molti potranno ora tornare alle proprie case; altri che dovranno ancora qui rimanere, potranno almeno rivedere piú spesso i loro cari e questo li consola e diminuisce in loro il senso d’invidia per i parenti. Il professore è letteralmente raggiante, e, cosa insolita per lui, parla senza far troppo economia di parole. A fine pranzo, due malati… ma non troppo7, fanno i brindisi, inneggiando alla vittoria alleata e all’opera del professore, sia come patriota, che come sanitario. Il professore risponde con un bel discorsetto e con la sua parola pacata,
precisa, misurata, commenta la vittoria sul fascismo e augura a noi e a tutto il nostro povero Paese di poter presto risanare dai postumi del male. Attendiamo ora le 15, ora ufficiale della fine della guerra, che dovrà essere annunziata dal suono a distesa, per quindici minuti, dalle campane e dalle sirene. È un’attesa di un’ansietà un po’ ridicola, quasi questa formalità, che segnerà ufficialmente la fine del grande macello, potesse ancora mancare. Ma non manca. Già da dieci minuti siamo con l’orologio in mano in attesa, e alle 15 precise si leva un coro assordante di campane a distesa, solo sopraffatto dal suono piú imperioso e violento di molte sirene. Siamo radunati in sette od otto nella stanza dove abbiamo ben sovente seguito, attraverso la radio clandestina, gli eventi della guerra, dividendo le ansie, le gioie, le delusioni delle notizie quotidiane e ora che tutto è finito, ora che è giunto il momento tanto invocato, un nodo ci stringe la gola. Ma perché dissimulare la nostra commozione? Tutti i presenti piangono e si abbracciano. Le campane, quelle stesse che troppo sovente hanno in questi mesi fatto udire per lutti i loro tristi rintocchi, continuano, come impazzite, il loro inno festoso. Le sirene, che mille volte in questi anni di guerra hanno fatto udire, di notte e di giorno, il loro intermittente lugubre suono annunciatore di morte, di poco precedente il cupo rombo dei bombardieri e lo scroscio delle bombe, alzano la loro voce potente per annunciare la fine dell’immane tragedia. Come in rapida cinematografia mi passano davanti agli occhi tutte le sofferenze patite in questi atroci venti mesi e nei sei anni di persecuzione che li hanno preceduti. Ricordo il senso di smarrimento presago che, sin dal lontanissimo 12 marzo 1938 mi afferrò, quando udii, improvvisamente, al Giornale Radio delle 13, che Hitler aveva, senza colpo ferire, occupato l’Austria, col beneplacito di Mussolini. Ricordo la subdola campagna antisemita, di evidente importazione tedesca, che, trascinatasi per molti mesi, nel novembre dello stesso anno era sfociata nei primi decreti legislativi cosiddetti «razziali». Poi il licenziamento dall’impiego; lo strazio di mia madre alla partenza per l’esilio di mio fratello; il disfacimento della nostra casa, tanto amorevolmente costruita, oggetto per oggetto, pochi mesi prima; il tentativo fallito di sistemazione all’estero; e poi i lunghi anni di guerra, sottoposti ad un continuo stillicidio di provvedimenti restrittivi, ad angherie di ogni genere; e soprattutto l’angosciosa, insopportabile, indescrivibile attesa di ogni giorno, del peggio che doveva venire. E il peggio
venne, giorno dopo giorno, sino a raggiungere il suo massimo l’8 settembre ’43, con fredda, espressa, attuata determinazione dei nazifascisti di sterminio nei nostri riguardi. Sirene e campane continuano a suonare. Vorrei che non cessassero: questi minuti sono per me come una parentesi fra due vite e ancora non so cosa mi attende quando mi affaccerò alla nuova vita, quali e quanti lutti e quali disastri saranno annunciati nel mio ambito famigliare. Campane e sirene suonano ancora. Nella ed io ci guardiamo con gli occhi lucenti di pianto. La vita strettamente in comune e le stesse traversie subite hanno talmente affinato la nostra comprensione reciproca, che facilmente indoviniamo i pensieri l’uno dell’altra ben prima che siano espressi; ed io vedo chiaramente che in questo momento in cui tutto è finito, lei, come me, pensa a quella notte terribile del 1° dicembre 1943 in cui udimmo alla radio quella che praticamente era la nostra condanna a morte, e in cui solennemente ci promettemmo che alla bufera che voleva travolgerci avremmo resistito, uniti a qualunque costo, con tutte le nostre forze, con tutte le nostre facoltà: uniti nella vita e, se del caso, uniti nella morte. Brava Nellina, le dicono i miei occhi, hai ben adempiuto alla tua promessa, con la tua quotidiana minuziosa fatica di tener lontana, con mille accorgimenti, la sovrastante terribile condanna; con la tua coraggiosa rassegnazione ai quotidiani sacrifici; con i tuoi giudiziosi consigli; ma, soprattutto, con l’opera che piú si addice alla buona compagna: confortare, aiutar a sorpassare le crisi di scoramento che attanagliavano l’animo quando le possibilità di salvezza apparivano piú incerte che mai. Sono le 15.15: prima le sirene e poi le campane cessano ad una ad una di suonare. Solo una campanella lontana pare non voglia cessare il suo suono festoso. Ecco, è cessato anche quello. 5
R. Segre, Venti mesi, Sellerio, Palermo 1995, pp. 128-32. Segre (Casale Monferrato 1909 - Biella 1973), lavorava nella ditta di commercio all’ingrosso di tessuti dei fratelli della moglie Nella Morelli. Dopo l’armistizio si rifugiò nel Santuario di Graglia e poi in una clinica psichiatrica di San Maurizio Canavese (Torino), dove si finse malato di mente, con l’aiuto del primario Carlo Angela. 6 Giorno della vittoria.
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Si riferisce ad altri due finti pazienti, che avevano trovato rifugio nella clinica.
«Non posso rassegnarmi di aver visto i miei simili imbestialire» di Elisa Guastalla
[Savonera (Torino), senza data, estate 1945]8
Cara Laura, Noi due siamo sempre qui e ci reputiamo fortunate d’essere in un ospedale di pazzi9, insieme e senza mancare di nulla. Ma le mie sofferenze si vanno aggravando giorno per giorno: però mi rassegno: quello a cui non posso rassegnarmi è di aver visto possibile una persecuzione come la nostra, d’aver visto i miei simili imbestialire, l’aver visto il mio paese al guinzaglio. Per assistere a queste tre orribili cose ho dovuto vivere tanto e sopravvivere cosí a lungo. Voi tre che avete fatto cosí buon uso delle vostre doti potrete continuare a fare del bene avendone consolazione. Elisa 8
B. R. Bellomo, Elisa di Corrado, in «Ravenna Studi e Ricerche», IX, 2002, n. 1, p. 47. Lettera all’amica Laura Orvieto. 9 Clinica per malattie mentali «Villa Cristina», dove si era rifugiata nel dicembre del ’43 insieme alla sorella grazie ad un medico compiacente e dove, gravemente malata, morí poco dopo la Liberazione, l’8 settembre 1945.
«Ho portato la mia pietra all’edificio che ha ridato la libertà al Paese» di Renzo Ravenna
[Svizzera] 8-VII-194510
Carissimo, affido questa mia all’amico Ermanno [Tedeschi] che ti darà piú dettagliate notizie mie e dei miei. Voglio oggi dirti la viva gioia con la quale ho appreso che sei ritornato a Ferrara ed hai ripreso in pieno la tua attività. Abbiamo molto trepidato sulla tua sorte dapprima, sulla tua salute poi ed infine abbiamo partecipato ai tuoi dolori; ché ogni tanto, per quanto faticosamente, e per quanto monche, le notizie ci giungevano attese sempre con un’ansia indicibile. Ti seguono ora i miei voti piú fervidi per la tua salute e le tue nuove fatiche. Siano ora feconde di risultati e ti diano la soddisfazione della loro utilità, soprattutto per la nostra città, alla quale mi sono sentito e mi sono sempre piú disperatamente attaccato! Quanto a me nello atroce sconforto della tragica dissoluzione della mia famiglia (solo la mia sorella minore resta a piangere la scomparsa infame dei miei fratelli e delle loro famiglie) resta la un po’ egoistica constatazione che la provvidenza mi ha aiutato nel salvare i miei figli e la mia impareggiabile compagna! Per loro devo raccogliere le energie che ancora mi rimangono e pensare al domani! Compito ben chiaro che mi accorgo ora non potrà non essere influenzato dal passato! Un passato che si è chiamato essenzialmente: amore quasi morboso per la mia città, devozione affettuosa per un uomo sulla cui vita e sulla cui morte solo la storia potrà pronunciarsi. Se questo è stato il mio Fascismo io dovrei altresí guardare all’avvenire con realistica serenità… Ma per quanto la lontananza possa deformare la realtà (e questa lontananza – credilo – è stata ben dura!) tuttavia mi rendo conto che il ritorno e la ripresa non saranno facili… Avrei potuto predisporre il tutto con qualche non difficile ed avveduto accorgimento ma mi è sempre ripugnato e mi ripugna ogni gesto contrario alla piú elementare dignità. E so in questo di averti in pieno consenziente! Basterebbe il tuo esempio per assicurarmene. Ho tuttavia la coscienza di
aver portato dalla primavera del ’38 ad oggi la mia modesta pietra all’edificio che ha ridato la libertà al Paese. Credo di aver compiuto il mio dovere di cittadino: ecco tutto! Vorrei però che mi fossero risparmiati nuovi dolori, non dico nuove mortificazioni. Chiederei solo per ora di poter rimpatriare e di poter lavorare per i miei figli. Io credo che il miglior modo che mi consentirebbe di servire ancora il mio Paese [sarebbe] che se un giorno – anche lontano – io potessi avere l’indicibile gioia di risalire lo scalone del nostro vecchio Palazzo di Giustizia per indossare ancora quella toga, che ho portato per venticinque anni con modestia e con dignità e soprattutto senza mai mescolare il sacro con il profano, quel giorno io potrei dire ai miei figli che ora i miei concittadini hanno riconosciuto che non ho mai tradito il mio dovere di galantuomo. Ma mi rendo conto di ogni contingente difficoltà… Caro Mario, scusa se nell’inviarti un accorato ma affettuoso saluto mi sono un po’ abbandonato nel sentimento: sono certo però che tu mi avrai compreso, da amico, da uomo di senno e di cuore, ma soprattutto da uomo, la cui forma mentis è intimamente costituita da un alto senso di giustizia… E ti sarò profondamente grato se avrai modo di darmene atto. Rinnovo a te tutti i piú buoni auguri nella fervida speranza che una tua franca parola mi sollevi in questi, che vorrei fossero gli ultimi giorni di esilio, dalle mie pene morali che mi trascinano e che, ti assicuro, non sono meno dolorose di quelle fisiche. Ti abbraccio con fraternità affettuosa Renzo Ravenna 10
Ap Renzo Ravenna cit. Ravenna (Ferrara 1893-1961), amico di Italo Balbo, capitano decorato durante la Prima guerra mondiale, podestà di Ferrara dall’ottobre ’26 al marzo ’38 (allontanato in seguito alla campagna razziale), dopo l’armistizio si rifugiò in Svizzera e si impegnò nei comitati di soccorso dei perseguitati (una sua ampia biografia è in I. Pavan, Il podestà ebreo, Laterza, Roma-Bari 2006). Minuta di lettera su tre facciate di carta semplice indirizzata all’«On. Avv. Mario Cavallari», presidente del Cln di Ferrara, il quale gli rispose attestandogli tutta la sua stima.
«Non farmi impazzire, fatti coraggio, datti forza, lotta, resisti, vinci» di Clementina Jesurum
[Venezia] 24 agosto [1945]11 MARISA È STATA VISTA da piú persone in un treno ospedale diretto in Svezia. Ieri sera siamo state dal cap. Venier, uno di quelli e ho creduto di star troppo male, di soffrire troppo e di sentirmi rompere tutto dentro. Ha detto che era malata molto gravemente, povera sorellina ma che non ci illudiamo sul suo conto. Marisa, tesoro caro, ritorna, ti supplico. Non farmi impazzire, fatti coraggio, datti forza, lotta, resisti, vinci. Oh vinci la morte, scacciala, mandala via! Aiutala tu, Mamma12, mandala via e fa ch’ella ritorni a noi, che ritorni a ridarci la serenità, la fede perduta, un po’ di gioia. Mi sento proprio male, ti confesso, soffro tanto e il mio pensiero non può staccarsi un solo istante da lei. E la Jole13, e la mia piccola Jole? Niente, il niente piú assoluto. E tu, Papà14 mio, povero papà, vivi ancora? Sei ancora qui a soffrire, a torturarti come per tutta la tua vita? Pensi alla tua Tiussi15 che ti ha dato tanti dolori ma che sai che ti vuol bene? Quanto, quanto devi avere sofferto in questo tempo? Ma tu sei vivo? O anche tu te ne sei andato dalla Mamma abbandonando me? Potessi avere almeno una risposta, potessi avere una tua parola, un tuo sguardo, almeno. Mi basterebbe. Il tempo qui dentro non passa mai, i minuti sono eterni e sto male, e soffro. Sono sola, non voglio essere sola, tornate, vi prego, tornate! [Venezia] 11 settembre [1945] Devo farmi forza perché sento proprio, oggi, di non poterne piú. Sto male, tanto, dentro e non posso piangere. Paolo A.16 è andato a parlare con la s.ra Brandes17 che è stata tanto con Jole e Marisa e ha raccontato. Che cose orribili, Signore Iddio! Tifo, tutti il tifo per aver bevuto acqua piovana che scorreva sul suolo dove erano sepolti i cadaveri! Marisa con le gambe congelate. Jole era moribonda. È stata poi allontanata. Per dove, per che farne; che cos’hanno fatto della Jole, della
mia bambina? Mi sento impazzire, ma cerco di farmi forza, per gli altri, per Marisa se torna, per me. Dio, tu aiutami almeno questa volta, perché mi hai lasciato del tutto, perché? 11
Ap cit. La sorella Marisa (Venezia 1929 - ? 1945), alla quale si riferisce il brano di diario, fu arrestata a Zianigo di Mirano (Venezia) il 7 novembre 1944, assieme al padre Arrigo e alla sorella Jole, e fu deportata dalla Risiera di San Sabba a Ravensbrück; trasferita a Bergen Belsen, morí poco dopo la liberazione. 12 Elvira Starita. 13 L’altra sorella Jole (Venezia 1926 - Bergen Belsen 1945), anche lei deportata. 14 Il padre Arrigo Jesurum (Venezia 1886 - data e luogo ignoti), deportato a Ravensbrück. 15 Diminutivo di Clementina. 16 Paolo Ancona, amico di famiglia. 17 Regina Brandes (Venezia 1909), sopravvisse a Bergen Belsen.
«Non scriverò piú» di Liana Ruberl
[Svizzera] 27-4-4618 Non scriverò piú, ne sono triste, era bello quando volevo ancora scrivere. Sono passati tre anni, sono troppo marcia moralmente, troppe cose in testa troppo grandi e troppo piccole per essere scritte. Non posso nemmeno parlare di questi 3 anni, sono stati basilari per me, forse ho voluto bene a qualcuno ed è morto. Forse era destino. Ormai lascio questo diario. Credo per sempre. Non so se augurarmi di rileggerlo fra molti anni. Spero di non averne il tempo ma di essere felice se è possibile. Darei molto per esserlo anche per poco. 18
Adn Dp/99. Liana Ruberl (Milano 1925), in seguito alle leggi razziali fu espulsa dalla scuola e studiò privatamente; dopo l’armistizio si rifugiò in Svizzera. Diario di pelle marrone in una valigetta con chiave, dal 20 gennaio 1941 all’8 settembre 1943, con quest’ultima annotazione nell’immediato dopoguerra.
Il ritorno dei sopravvissuti dai campi di sterminio
«Migliaia di ebrei sono stati tutti sterminati dalla ferocia nazista» di Sabatino Finzi
Parigi, 15/4/451
Carissima Zia, Zio e Cugini, dopo un anno e mezzo di prigionia fascista Iddio ha voluto che l’11 aprile i primi liberatori Americani hanno occupato il campo mentre i reparti SS tedeschi stavano evacuare tutti e forse decimarci di 60 000 prigionieri ora siamo in libertà in 20 000 e tre italiani nostri dei quali due solo del primo trasporto del 16 ottobre. Io Sabatino in ottima salute e Michele il nipote di Peppone figlio di Badacchio e un altro certo Salvatore che ha per fidanzata la figlia di Bucci il pescivendolo. O se no il resto cominciando dalle nostre famiglie dalla mia cara mamma e Amelia babbo nonno zio Lello e tutti i migliaia di ebrei sono stati tutti sterminati dalla ferocia nazista. Siamo stati a Ausviz dove dopo un mese è morto Artinea il figlio del compare Lello, il figlio Lello si è ammalato gravemente, i due fratelli Fulvio e Mario fratelli di Ciumachella sono morti, cari parenti piccoletto quello della bottega di calze anche è venuto gravemente malato e […] Cara zia, è un grande lutto per noi abbiamo perso tutti intere famiglie hanno distrutto dal lavoro, sofferenze, privazione, umiliazioni. Io solo mi sono salvato perché avendo appreso la lingua tedesca mi è stato assegnato ad Ausviz in Alta Slesia (campo di concentramento) un posto di molta importanza dove avrei salvato la vita a molti Italiani se non ci avessero portati in Germania e precisamente a Waimar dopo l’offensiva russa. Là ho aiutato molto ad Ausviz Cuccio2 [e] tuo cognato Leoncino3. Marco Di Veroli il milionario, Ciribaldone e tanti altri italiani dei nostri ne ho saputo notizie fino al 15 Gennaio ma poi mi sono distaccato da loro e non ne ho saputo piú niente che fine abbiano fatto. So che non capirete molto a leggere questa lettera ma non posso arrivare a scrivere che fra lacrime ed emozione perciò speriamo presto di vederci e riabbracciarvi a tutti. Vi invio a tutti i parenti e amici baci e coraggio. Vostro affezionatissimo
Sabatino Finzi Babbo anche uno mi ha detto che stava in brutte condizioni e perciò lo credo morto. 1
Apf, Roma. Finzi (Roma 1927), fu catturato nella retata del 16 ottobre, deportato ad Auschwitz e costretto a lavori forzati; di qui nel gennaio 1945 fu trasferito a Buchenwald, dove nell'aprile dello stesso anno venne liberato dagli americani (fu uno dei 17 sopravvissuti del convoglio di oltre mille ebrei romani; il padre Giuseppe, la madre Zaira e la sorella Amelia furono invece uccisi). Lettera agli zii Anselmo Calò e Angelica Zarfati. 2 Soprannome di Alberto Calò (Roma 1903-1975), arrestato a Roma e deportato ad Auschwitz e Birkenau. 3 Leone Sabatello (Roma 1927-2008), altro ebreo catturato nella retata del 16 ottobre e deportato ad Auschwitz
«Se non tornerò, la mia fine per colpa degli assassini tedeschi» di Alberto Sed
Dora [maggio 1945]4
Miei cari zii, dopo circa 15 mesi posso darvi finalmente mie notizie, perché arrivato in terra maledetta (Polonia) sono stato diviso dalla mamma5 e dalle sorelle6 e non le ho piú viste. Ora mi trovo in Germania in una casa di cura, dato che, dopo un anno nei campi di concentramento (bastonate, freddo, fame, lavoro), non potevo certo venirne fuori in condizioni normali. Quando rimpatriano gli italiani, se per caso io non ci fossi non fate brutti pensieri, perché io sarò uno degli ultimi. Come vi dico, spero sempre di guarire presto per potervi riabbracciare. Se per caso non dovessi ritornare, il mio destino è fatto. Per il momento sto bene e miglioro di giorno in giorno, ma le condizioni della vita, non si sa mai… Perciò dovete farmi il favore di andare al Tempio e pregare Iddio che mi aiuti sempre e pregarlo da parte mia. Il mio pensiero è sempre rivolto a voi, che stiate tutti bene e che non ci sia nessun altro dolore. Io spero di essere presto rimpatriato, ma vi ripeto: se non tornerò, sappiate almeno la mia fine per colpa degli assassini tedeschi, che dopo un anno di tormento mi hanno ammazzato. 4
R. Riccardi, Sono stato un numero. Alberto Sed racconta, Giuntina, Firenze 2009, pp. 112-13. Sed (Roma 1928), espulso dalla scuola, il 16 ottobre 1943 sfuggí alla razzia degli ebrei romani ma fu catturato in seguito e deportato ad Auschwitz con la famiglia; fu liberato a Dora nell’aprile del ’45. Lettera agli zii a Roma, recapitata da un militare italiano rientrato in patria prima di Alberto. 5 Enrica Calò, uccisa al suo arrivo ad Auschwitz. 6 Emma, di 8 anni, uccisa al suo arrivo ad Auschwitz, Angelica, di 17 anni, sbranata dai cani delle SS un mese prima della liberazione, e Fatina, di 13 anni, sopravvissuta agli esperimenti del dottor Mengele.
«Tante lacrime in questi due anni di interminabili martirii» di Settimia Spizzichino
Famiglia7
[Celle (Hannover, Germania)]
Cara , scrivo adesso perché fino a ora non ho avuto la possibilità. Io sto bene come spero che sia di voi mi farete tanto il favore di avvisare la famiglia di Betta di… che Silvana sta bene e sta insieme a me e a Ester la figlia di David Calò il quale avvertite anche la sua famiglia che sta bene, abita in via Vascellari 18. Spero presto di arrivare a casa e di abbracciarvi a tutti. Vi saluto caramente. Settimia Celle, 19-7-1945
Caro Papà, dopo tanto tempo e tante peripezie, mi è permesso di farti sapere mie notizie. Dal 15 aprile sono stata liberata dagli Anglo Americani a Belsen. Allora ero in condizioni pessime di salute a causa della fame, ma ora ti garantisco che sto benone e attendo solo il momento di riabbracciarti e di ritrovare in te tutto quell’affetto paterno che per tanto tempo ne sono priva ed è stato oggetto di tante lacrime in questi due anni di interminabili martirii. Di mamma e delle sorelle non so cosa sia stato e dove si trovano dato che i tedeschi ci hanno separate fin dal nostro arrivo in questa maledetta terra. Non stare in pensiero per me perché ti ripeto che sto in ottima salute e presto avrò la fortuna di riabbracciarti. Intanto ricevi i piú teneri baci da tua figlia Settimia Spizzichino8 Tanti bacioni a tutti i miei nipoti
Caro papà,
Celle, 26-7-1945
colgo l’occasione del passaggio di tradotte di italiani piú fortunati di me, che già rimpatriano per farti avere mie notizie. È la quarta volta con questa, due messaggi radio e una lettera per mezzo vaticano. Anche in questa è mia cura di farti sapere che la salute non mi fa difetto, sto benone, sono in ansia solo del rimpatrio. Le voci che circolano ci fanno credere che ciò avvenga presto forse nella prima settimana di agosto, non ti puoi immaginare il mio desiderio di potervi riabbracciare tutti e starcene un po’ tranquilli, voglio rifarmi di tutto quello che ho sofferto in Germania, non separarmi neppure un minuto dalla famiglia. Saluterai tutte le mie zie e cugine da mia parte, darai tanti bacioni ai miei nipoti e digli che non mi sono mai scordata di loro che sono stati sempre il mio pensiero. Non mi resta che abbracciarvi tutti nella attesa ansiosa del ritorno. Settimia 7
S. Spizzichino - I. Di Nepi Olper, Gli anni rubati. Le memorie di Settimia Spizzichino, reduce dai Lager di Auschwitz e Bergen-Belsen, Comune di Cava de’ Tirreni, Stampa Grafica Metelliana, Cava de’ Tirreni 1996, p. 79. Settimia Spizzichino (Roma 1921-2000), catturata nella retata del 16 ottobre 1943 insieme alla madre e alla sorella, fu deportata ad Auschwitz e trasferita a Bergen Belsen ai primi di gennaio 1945, dove fu liberata dagli americani. Fu l’unica donna catturata a Roma il 16 ottobre 1943 a sopravvivere. Lettere su carta semplice, indirizzate alla famiglia a Roma. 8 Segue l’indirizzo: «Italian camp. 9 WT of Lager Wietzendorf per campo Italiano 206 Celle (Hannover Germania)».
«Tutto è bello, la vita è magnifica e speriamo che tutto sia ben passato» di Luciana Nissim
Biella 6 ottobre 19459
Caro Gegio, ho appreso con grande gioia la notizia del tuo arrivo che giunge ad arricchire l’ahimè scarsissimo numero di rientrati del nostro trasporto. A Torino è già tornato l’avvocato Iona, io, e qualche giorno fa, Stella Valabrega. Anche Laura Geiringer, sorella di Claudio (cosa gli è successo?) è tornata a Trieste. Primo Levi ha mandato buone notizie sue e degli amici di Kattowitz – in questi giorni mi hanno detto di aver visti l’ingegnere Liko Israel, dopo la liberazione, in Germania... ed è tutto. Noi siamo entrati in campo in 29 donne – un mucchio di ragazze giovani e belle salirono in camion; tra queste erano tua mamma, tua zia, Franca, le mogli e le sorelle dei Mariani, Tina Bassani, Franca Muggia... con noi erano le tue cuginette, due sorelle Levi di Venezia (quelle che cantavano cosí bene, a Fossoli), alcune iugoslave e alcune tedesche anche profughe in Italia, Bozena (sai quella iugoslava amica di Melli) e poche altre. Tutte, anche fra noi, si ammalarono presto – tra cui la piccola Amelia, che ebbe un Durchfall10 acutissimo e morí senza essere in Rewier11 in aprile. Alla metà di aprile fecero una grande selezione, e delle nostre, tre iugoslave andarono in gas, e una ventina di italiane giunte in campo da poco (era il secondo trasporto da Fossoli) – nessuna delle quali era seriamente ammalata – Novella Melli venne in Rewier, da me, in giugno e nel mese di luglio circa, morí di tubercolosi. Anche Vanda, la mia amica, era sempre malata – Durchfall, gambe gonfie tosse – andò in selezione in ottobre – Dopo un mese di quarantena io fui chiamata subito in Rewier quindi non feci mai lavori pesanti; poi, alla fine di agosto, partii per un piccolo campo nelle vicinanze di Kassel, dove mille ragazze ungheresi lavoravano in una fabbrica di munizioni, ed io ero il loro medico. Qui non si stava troppo male – Soprattutto non c’erano i camini del crematorio sempre davanti agli occhi – Di qui ci evacuarono il 29 marzo verso Lipsia; e da Lipsia ci evacuarono, questa volta a piedi, il 13 aprile – Io, che non presagivo niente di buono per
questa lunga colonna di Halinge12 affamate, stanche, senza scarpe, scappai la notte del 14 aprile – vissi qualche giorno in una foresta, qualche giorno presso contadini tedeschi... e finalmente, il 24 aprile, giunsero gli americani! con loro lavorai due mesi in un ospedale per deportati, poi partii, ebbi ancora molte avventure, ma, finalmente, dal 20 luglio sono a casa. Sto benissimo, ho ritrovato tutta la mia famiglia (che dopo la mia deportazione si era rifugiata in Svizzera) e quasi tutti i miei amici, valorosi partigiani e patrioti – mi sono iscritta alla specialità di pediatria, e sono piena di voglia di studiare. Tutta la settimana sto a Torino (Via Melchiorre Gioia 11) – e la domenica vengo a casa – tutto è bello, la vita è magnifica – e speriamo che tutto sia ben passato. Purtroppo le notizie sulla tua famiglia sono ben tristi – le ho date anche al dottor Palozzi che mi ha ripetutamente scritto per chiedermele, e che si interessava premurosamente anche di te – tienimi, ogni tanto, al corrente di quello che fai – spero davvero di poterci incontrare un giorno o l’altro. Tutti i miei piú cari auguri e un saluto affettuoso Luciana 9
P. Ravenna, La famiglia Ravenna cit., pp. 59-60. Lettera a Eugenio Ravenna detto Gegio. Nella lettera sono citati numerosi nomi di deportati, sopravvissuti (tra cui Primo Levi, Remo Jona, Laura Geiringer, Liko Israel e Stella Valabrega) o deceduti nei lager. 10 Dissenteria. 11 Revier, infermeria. 12 Prigionieri, deportati.
«Eravamo tutte convinte di andare a finire al crematorio. Ed io ne ero contenta» di Elena Recanati
Torino, 30 ottobre 194513
Mie infinitamente care, credevo che nulla piú avrebbe potuto farmi piangere, e invece quando, appena giunta a Milano ho saputo da Sarano, segretario della Comunità, che voi eravate tanto lontano, che non mi sarebbe stato possibile appagare il mio ardente desiderio di riabbracciarvi, di stringermi finalmente a voi, dopo tanto tempo e dopo tante pene, non sono riuscita a frenare le lacrime e per un attimo sono rimasta veramente smarrita: mi sono sentita cosí irrimediabilmente sola, cosí profondamente delusa nelle mie speranze, cosí terribilmente triste... Poi, ripensandoci con calma, pensando soprattutto a voi, a quello che poteva essere la vostra vita e il vostro avvenire mi sono resa conto che questa è la migliore soluzione e, per voi, sono contenta. Ringrazio Iddio che vi ha salvati tutti, che vi ha protetto e che ha permesso, sia pure dopo una serie di peripezie dolorose e dopo tante privazioni, di raggiungere finalmente un porto sicuro e, mi auguro, un po’ di serenità. Sono ancora piú contenta ora che ho saputo che la mia cara Idina è fidanzata. È vero? E chi è il mio futuro cognato? Scrivimi presto presto Idina mia e raccontami tutto. Sono cosí ansiosa di ricevere una lunghissima letterona da voi, in cui mi diciate come state, come si svolge la vostra nuova vita, chi sono i vostri amici, quali i vostri progetti, tutto insomma quanto vi riguarda. Come siete partite, come è andato il viaggio, quali impressioni avete provato all’arrivo... Immagino la vostra angoscia per noi: la conosco purtroppo anch’io questa angoscia; che per me si fa di giorno in giorno piú viva per la assoluta mancanza di notizie recenti del mio Guido14. Ed io che so cosa era l’inferno tedesco non riesco a trovar pace, non riesco a frenare l’ansia che mi sconvolge nell’attesa del ritorno di quel caro
ragazzo. Povero, povero Guido, cosí impreparato a tanta tragedia! Che Dio me lo salvi, che possa ritornare a me e al suo piccolo Massimo! Il mio tesoro sta, per grazia di Dio, benissimo. Anche lui ha sofferto, povera creatura, anche lui ha pagato il suo tributo di dolore: speriamo che queste sofferenze sue e quelle dei suoi genitori siano sufficienti, e che la vita gli riserbi d’ora in poi solo gioia e serenità. Io sto bene ora, anzi sono ingrassata. I medici che mi hanno visitata hanno tutti riscontrato che sono perfettamente sana, nessun organo è leso. Conservo solo molte cicatrici, che insieme al numero tatuato sul braccio sinistro sono tangibili ricordi del Lager. Il morale è invece ancora depresso: solo il mio piccolo Massimo, con un sorriso riesce a rasserenarmi: solo per amor suo, del resto, per il vivo ricordo di lui, per quella sensazione che ho sempre avuto che mio figlio aveva troppo bisogno di me, mi sono salvata, ho resistito a tutto, ho tirato avanti, contro la mia stessa volontà a volte, stringendo i denti e facendomi coraggio. Sarebbe troppo lungo narrarvi le mie innumerevoli peripezie, da quel fatidico 9 di agosto 1944 in cui siamo stati arrestati a Canischio: papà Donato15, Guido, Massimo ed io, fino al giorno del mio ritorno. Vi indico solo per ora le tappe: da Canischio alla caserma di Cuorgnè, di là il giorno dopo, in camion alle Carceri di Torino (con uno scontro per strada con i partigiani, con conseguente scaramuccia: una pallottola ha perforato il parabrezza fischiando a pochi millimetri sopra la mia testa). Dalle Carceri sono riuscita, per non so quale miracolo, a salvare mio figlio che venne fatto uscire da una suora16 come un fagotto tra le lenzuola sporche dopo otto giorni di reclusione, otto giorni atroci, in cui tra l’altro non avevo neppure la consolazione di comunicare con Guido. Dico che è stato un miracolo perché quando siamo partiti i tedeschi volevano anche il bambino, e a Bolzano (primo Lager che ho visitato) all’appello è stato chiamato anche lui: e se fossimo arrivati ad Auschwitz insieme saremmo andati direttamente al crematorio tutti e due... Dalle Carceri siamo partiti il 27 agosto, e il 1° settembre eravamo a Bolzano. A ripensarci ora, in confronto di quel che ho passato dopo, Bolzano mi pare il paradiso. Lí soprattutto potevo parlare con Guido –
attraverso il filo spinato – c’era un vitto sufficiente e il lavoro era tutt’altro che pesante. Io andavo a fare pulizia nelle ville degli ufficiali della S.S. Da Bolzano i giovani ebrei sono stati mandati a Merano. Là si stava già meno bene – però mi è stato molto utile quel periodo di allenamento per prepararmi al seguito. A Merano io facevo il facchino. Scaricavo i vagoni in ferrovia, caricavo camion, trasportavo balle e casse di 40, 50 chili, imballavo colli di tessuti, finché poi sono andata a fare gran pulizia in un magnifico castello nei dintorni. Guido intanto era, con una squadra di uomini, impiegato alla costruzione di una strada a 75 chilometri da Merano. Speravamo di esserci salvati cosí dalla Germania: ma un giorno improvvisamente venne l’ordine di partenza. Alla fine di ottobre ritornammo a Bolzano dove ritrovammo papà Donato e ci chiusero in vagoni piombati per portarci ad Auschwitz. Giunti là, come d’uso, fecero subito la selezione. Mio suocero è stato subito selezionato. Posso dire oggi, dopo aver vissuto in quella bolgia, che è stato meglio per lui. Cosí almeno non ha sofferto troppo. Sarà stata questione di pochi minuti, ma poi avrà trovato pace... purtroppo non avrebbe potuto resistere ugualmente e avrebbe solo penato di piú. Da Guido sono stata naturalmente separata. E le uniche notizie che ho potuto avere fino ad ora, da tre reduci del campo che lo conoscono, risalgono alla fine di dicembre. In quella data Guido è partito, in trasporto, per ignota destinazione. Allora stava benino, ma poi? Nessuno lo ha piú visto, nessuno sa dirmi nulla. Io ad Auschwitz sono rimasta quattro giorni soli: se ci fossi rimasta un solo giorno di piú penso che sarei impazzita. Sono arrivata in un momento di caos tremendo. Incominciava già l’evacuazione del campo; in tutti quei giorni ho potuto mangiare una sola volta pochi bocconi di zuppa: sono stata in appello per delle ore consecutive di giorno, di notte, continuamente, ho ricevuto tante di quelle botte quante non avrei potuto mai immaginare, ho assistito per lo meno a tre selezioni, ho visto scene di orrore inenarrabili, ho sentito quell’indimenticabile, caratteristico odore di crematorio, ho fissato come un’allucinata le fiamme dei forni in cui forse stavano bruciando le spoglie mortali del padre di Guido...
Finalmente siamo partite: altri tre giorni di vagone piombato, molti chilometri a piedi attraverso un grande bosco ed eccoci a Bergen Belsen. Fame, botte, freddo, fango, paglia sudicia, contatti con gente perfida, abbruttita dalle privazioni, inferocita dalla fame, appelli interminabili, febbre, le prime piaghe incominciavano a farmi soffrire... lavoro pesante ed inutile sotto la neve in un abbigliamento oltre che inverosimilmente lacero e sporco, anche inadeguato alla stagione... e poi di nuovo trasporto. Il 18 dicembre arrivavo a Breuschweig (tra Hannover e Amburgo) dopo altri tre giorni di vagone piombato. Ero andata a finire in mezzo a tutte ungheresi, polacche e cecoslovacche, eravamo solo otto italiane in mezzo a loro. Anzi di queste una era polacca, ma vissuta e arrestata in Italia, una era rodiota e una mezza slovena. Italiane proprio eravamo solo: tre sorelle Sonnino di Genova (di cui due sono morte – una sotto i miei occhi), una certa Noemi Foa, sposata Iona (che vi conosceva e che mi è stata carissima compagna e grande conforto, e che per fortuna è tornata) ed io. A Breuschweig ho lavorato tutto l’inverno a spalare macerie con pala e piccone, tutto il giorno all’aperto con qualsiasi tempo, con indosso un abitino di tela senza maniche, un paltoncino senza fodera e tutto strappato, un paio di zoccoli di legno, e senza calze... Dormivamo in una stalla, anzi una scuderia, abbandonata perché resa inservibile dai bombardamenti. Ci sdraiavamo sulla paglia, con una coperta in quattro, e dopo una giornata interminabile che aveva inizio assai prima dell’alba con un appello (sull’attenti, per cinque), poi una marcia di 8 chilometri per andare al lavoro, poi il lavoro, massacrante e condito di botte, poi la marcia di ritorno con conseguente appello di controllo; dopo tutto questo, stanche, sfinite, ricevevamo tre quarti di litro di una lurida zuppa di acqua e rape (poche rape) e una minuscola fettina di pane, che si inghiottiva avidamente per poi sentirsi piú affamate, piú sfinite, piú esauste di prima. E poi i pidocchi! I pidocchi a milioni! E la dissenteria, e che dissenteria! E il tifo, e le piaghe, le dolorosissime «avitaminose» di cui io sono stata vittima in modo spaventoso. Finalmente il 21 febbraio, quando già il nostro gruppo era decimato in modo impressionante da quello spietato sistema di annientamento e di sfruttamento, i nostri sgherri si sono decisi a portarci via perché
rappresentavamo ormai un pericolo per tutta la città per l’epidemia di tifo petecchiale che faceva strage tra noi e di cui eravamo veicolo di contagio. Io ero allora in uno stato deplorevole. Avevo la gamba sinistra che minacciava la cancrena (l’ho salvata per un filo, e l’osso mi è rimasto lievemente intaccato), avevo la spalla destra in condizioni simili (e ho ancora delle grosse cicatrici cheloidi), il viso, i piedi, le mani, erano enormemente gonfie... in queste condizioni sono stata inclusa nel numero delle «malate» e con me era anche Noemi che era anche lei molto debole e febbricitante. Quelle che potevano reggersi in piedi sono partite: i tedeschi dicevano che sarebbero andate a lavorare in una fabbrica. Non sono riuscita a saperne nulla. Noi, centosessanta circa, siamo state caricate, una sull’altra, su un camion. Eravamo tutte convinte di andare a finire al crematorio. Ed io ne ero contenta. Ve lo assicuro. Non ne potevo proprio piú di tante sofferenze, di tante umiliazioni! Ci portarono a Wätterschtadt, un Lager di politici a 18 chilometri dalla città. Ci spogliarono, ci rasarono, ci fecero il bagno, naturalmente senza asciugatoi, e ci diedero una camiciola di tela. Poi ci ricaricarono sul camion e ci fecero fare un’oretta di strada in quelle condizioni. Ve lo figurate, il 21 febbraio, nel cuore della Germania, malate, in quella tenuta, sopra ad un camion scoperto! Naturalmente appena arrivate, anzi ancora in viaggio, molte sono morte! Io non so per quale miracolo ho potuto resistere, non solo ma non mi sono presa neppure un raffreddore! Figuratevi come siamo rimaste quando, anziché ad una camera a gas ci scaricarono davanti ad una baracca ospedale, dove ci aspettavano dei lettini in ferro, a due piani, con pagliericcio di paglia, una coperta a testa e perfino, che gioia! Un asciugamani. In quella baracca siamo rimaste fino ai primi di aprile. Noemi ed io eravamo le sole italiane, e ci siamo fatte buona compagnia. Per non patire il freddo ci siamo messe tutte e due in un solo lettino, col vantaggio di raddoppiare le coperte, e passavamo il tempo a farci reciproche confidenze. Con lei avevo l’incommensurabile conforto di poter parlare a lungo di voi, di Torino, della vita nostra.
Un po’ per volta ci siamo riprese. Molte, troppe sono ancora morte, nonostante il miglioramento di ambiente e quel minimo di cure che potevamo avere. Avevamo due dottoresse polacche e una infermiera francese, detenute politiche, che si sono prodigate in tutti i modi; ma i mezzi erano cosí scarsi, e noi cosí profondamente rovinate, e il nutrimento ancora insufficiente. Mi hanno operata alla spalla, e poi in testa, dove ho avuto ancora per dei mesi dolorosissimi ascessi (ancora dopo la liberazione, fino a giugno). Il riposo, quel poco di pace che ci proveniva dal non ricevere piú botte, e l’assistenza di Dio mi hanno aiutata a venirne fuori. Ai primi di aprile gli inglesi avevano occupato la città di Poranschweig. Sentivamo già gli spari vicini, il Lager era già stato evacuato. Eravamo rimaste solo noi, troppo malate per essere trasportate. E già speravamo nella immediata liberazione quando, in piena notte, ci vennero a prendere. Ci diedero uno straccio di cappotto da infilare sulla camiciola e in torpedone ci portarono su un carro merci scoperto. Otto giorni siamo rimaste buttate su quei vagoni, con pochissimo da mangiare, nulla da bere, spostate da un posto all’altro senza meta precisa, perché ovunque ci dirigessimo c’erano gli Alleati che stavano per arrivare... ogni giorno moriva qualcuno e veniva buttato in qualche fossa improvvisata. Ogni giorno incrociavamo qualche altro treno di disgraziati nelle nostre condizioni. Infine ci portarono a Ravensbrück dove rimasi poi fino all’arrivo dei Russi. Da venti giorni i forni crematori avevano cessato di funzionare, per mia fortuna. Là ho dovuto separarmi da Noemi. Lei stava già meglio. Io invece oltre che ridotta ad uno scheletro ero anche piena di piaghe, sempre febbricitante e svenivo continuamente. Non ce la facevo a stare in piedi. Mi ricoverarono in un Revier dove trovai una dottoressa francese, tanto cara, che mi volle bene e mi ha salvata. Pochi giorni prima dell’arrivo dei Russi il Lager fu evacuato. Partivano continuamente, a piedi, lunghissime colonne, di cui alcune hanno fatto una orribile fine. Anche Noemi partí allora, e con grande sollievo ho ora saputo che è tornata, ma ancora non le ho parlato né so come si sia salvata.
Io, con poche altre malate, rimasi in letto. E fui liberata dai Russi il primo di maggio. Il 4 giugno venne un Maggiore italiano a prenderci. Eravamo quattordici italiane. Io sola ebrea, le altre internate politiche che erano già a Ravensbrück da prima. Ci portò a Neubrandeburg dove c’era un centro di raccolta di italiani: prigionieri di guerra, deportati politici e lavoratori, in attesa di rimpatrio. Di là passammo a Prenzlau, e finalmente il 3 ottobre (dopo essere stati in quarantena perché era scoppiata una epidemia di tifo) ci mettemmo in viaggio verso l’Italia. Intanto io mi ero rimessa benissimo. Ho trovato tanti bravi ragazzi che mi hanno aiutata in tutti i modi: mi portavano da mangiare, da fumare e persino da leggere. Anche lo spirito, insieme al corpo, rinasceva. E un bel giorno, il 15 ottobre, sono arrivata a Milano. Sono subito andata in Comunità ad informarmi. Non sapevo nulla di quanto era capitato a voi, dopo un vostro messaggio (ricevuto quando ero in prigione a Torino) che mi aveva tranquillizzata perché mi diceva che eravate salve dopo l’occupazione. Io credevo che voi foste ancora a Roma. E pensavo che Massimo fosse con voi. Ecco perché la notizia che voi eravate partite mi ha sconvolta. Per quanto ora io benedica la vostra fortuna. A Milano ho trovato Umberto, Nelly, la zia Pia e i bimbi benissimo, già risistemati a casa loro dopo il ritorno dalla Svizzera. Ho dormito una notte da loro, e sono arrivata a Torino la sera dopo. Nessuno mi aspettava. Il piccolo era da Paola, che era andata a prenderlo da pochi giorni a Cuorgné, dove era rimasto tutto il tempo della mia assenza, tenuto come un figlio dalla signora Tilde Boggio17 alla quale era stato affidato dalla suora che lo aveva salvato dalle Carceri di Torino. Ora mio figlio ha ritrovato la sua mamma, e ne aveva tanto bisogno; e io ho ritrovato mio figlio, lo scopo della mia vita, la mia grande consolazione, il premio di tante pene. Resta ancora una pena enorme che neppure Massimo sa cancellare: l’assenza di Guido. Ma io ho tanta speranza, ho ancora fiducia che presto ritorni. Che Iddio mi conceda questa grazia! Poi non chiederò piú nulla alla vita!
Smetto perché sono stanca. Ho perso l’abitudine a scrivere e mi fa persino male la mano, e poi non c’è piú inchiostro nella penna, debbo sempre scrollarla per trovare ancora una goccia... Non impressionatevi per quanto vi ho raccontato: l’importante è che ora sto benissimo, fin troppo grassa, peso ben 57 chili. Tutti dicono che sono precisa a Germana. Ho i capelli scuri (sono ricresciuti cosí) e assai ondulati. Questa vitaccia pare mi abbia fatto bene, certo ho dimostrato di essere a prova di tutto. Evidentemente mamma mi ha costruita con materiale d’anteguerra!… Mille mille mille bacioni grossi, e scrivete prestissimo. Elena Un bacione alle sue belle ziette da Massimo 13
Ap Massimo Foa. Elena Recanati (Torino 1922-1983), espulsa dalla scuola in seguito alle leggi razziali, dopo l’armistizio fu arrestata dalla X Mas insieme al marito Guido, al suocero Donato e al figlio Massimo di nove mesi (che riuscí a mettere in salvo miracolosamente dal carcere di Torino); fu deportata ad Auschwitz, Bergen Belsen, Braunschweig e infine evacuata verso Ravensbrück, dove venne liberata dai russi. 14 Il marito Guido Foa (Torino 1920 - luogo e data ignoti), impiegato nell’azienda di famiglia, non tornò mai a casa. Morí durante la marcia forzata per abbandonare Auschwitz, poco prima della liberazione del campo. 15 Il suocero Donato Foa (Casale Monferrato 1876 - Auschwitz 1944), imprenditore e commerciante di acciai. 16 Suor Giuseppina De Muro. 17 Clotilde Roda Boggio (Cuorgnè 1896-1989), vedova, dichiarata nel 1986 «Giusta fra le Nazioni».
«Solo adesso ci rendiamo esattamente conto di quanto abbiamo perduto» di Primo Levi
Torino, 6 dicembre 194518
Caro Gegio, Luciana mi gira la tua lettera; di te (e di Muratori: cosa ne è?) non avevamo piú saputo assolutamente nulla; mi fa piacere sentirti bene arrivato. Comprendo purtroppo assai bene la terribile sensazione di vuoto che ti circonda: solo adesso ci rendiamo esattamente conto di quanto abbiamo perduto. Nardo e io, con Perugia e Mariani, siamo rimasti a Katowice fino al 30 giugno; siamo poi partiti verso Odessa, poi, per ragioni tuttora misteriose, abbiamo fatto rotta verso nord, e siamo finiti a Starie Deroghi, in Russia Bianca. La Russia è effettivamente stata una delusione; personalmente però penso che questo non autorizzi a giudizi sommari sul comunismo. Il 15 sett[embre] siamo partiti per il rimpatrio definitivo; il viaggio, attraverso l’Ucraina, la Romania, l’Ungheria e l’Austria, è durato 35 giorni. Molti (Jona, Caimi, Pavoncello, Luzzatto, Bassi, ecc.) sono partiti da Katowice in maggio e giugno, viaggiando con mezzi propri. Ho l’impressione che il nostro gruppo sia stato l’ultimo a rientrare. Forse ti interessa sapere che in Russia abbiamo ritrovato, al completo, la colonia Greca e quella Ungherese di Katowice. Che io sappia, delle donne del nostro trasporto si sono salvate: Luciana, Stella Valabrega, Ruth Lenk, Laura Geiringer; piú, credo, qualche straniera. Degli uomini, oltre quelli che sai Davide Gaviyon, Baruch ed alcuni stranieri: Schlokoff, Mandel, Zelikowski, Liko Israel. Quanto mi dici di Barabas mi interessa straordinariamente: tanto che ti prego vivamente di scrivermi il suo indirizzo. Sto conducendo una inchiesta sulla sorte della sventurata colonna evacuata nel gennaio, e le informazioni di Barabas sarebbero preziose19; inoltre, era abbastanza mio amico, lavorava con me al comando chimico.
Degli italiani dei trasporti precedenti il nostro, mi risulta rimpatriato solo Enzo Levy di Torino (egli pure della colonna evacuata), che ho rivisto in buona salute. Vedo sovente Luciana e Leonardo; quest’ultimo non si è ancora sistemato, ed è assai abbattuto per la scomparsa della moglie, a cui si era tuttavia preparato. Neppure io ho ancora una occupazione stabile; cerco inutilmente un impiego a Torino, ma è assai probabile che riprenderò il mio posto di prima a Milano. Luciana è interna in Clinica Pediatrica; lavora ed è sempre energica e serena, e ti saluta cordialmente. Tutta la mia solidarietà, ed una stretta di mano Primo Ricordati dell’indirizzo di Barabas! 18
Ap Renzo Ravenna cit. Levi (Torino 1919-1987), dopo l’armistizio entrò nella Resistenza in Val d’Aosta, dove in dicembre fu arrestato dai fascisti e deportato ad Auschwitz (destinato ad una fabbrica di gomma sintetica per la sua formazione ed esperienza in chimica); nel gennaio del ’45 si ammalò di scarlattina e il ricovero nell’infermeria del campo valse a salvarlo dalla marcia di evacuazione ordinata dai tedeschi. Nel dopoguerra rientrò in Italia dopo un lungo viaggio, narrato nel romanzo La tregua, e raccontò l’esperienza del lager, che lo sconvolse psicologicamente e fisicamente, nel romanzo Se questo è un uomo. Al tema della shoah dedicò anche il saggio I sommersi e i salvati. Morí l’11 aprile 1987 a Torino cadendo dalla tromba delle scale, una circostanza che diede adito anche a sospetti di suicidio. Lettera a Eugenio Ravenna detto Gegio, in cui sono citati anche altri compagni di deportazione: Luciana Nissim, Ettore Muratori, Leonardo De Benedetti, Lello Perugia, Luciano Mariani, Remo Jona, Leone Caimi, Giacomo Pavoncello, Maurizio Luzzatto, Alberto Bassi, Stella Valabrega, Ruth Wasser, Laura Geiringer, Isacco Baruch, Leo Zelikowski, Israel Moshe Liko, Silvio Barabas, Enzo Levy. 19 Si riferisce al romanzo La tregua, pubblicato nel 1962, sulla base di una traccia redatta all’inizio del 1946, in cui è raccontato il viaggio di ritorno in Italia dopo la permanenza ad Auschwitz.
«Credo di essere l’unico superstite di quella spedizione di ebrei» di Paolo Weisser
Genova, 15 dicembre 194520
Gentilissimi Signori Nulli, Non so se la presente li raggiungerà; ma la invio egualmente per dare le mie nuove, dopo la mia partenza per il paese dei mangiasego21, avvenuta – come Loro ricorderanno – il 14 dicembre 1944, da Bolzano. Credo di essere l’unico superstite di quella spedizione di ebrei, tutti gli altri, da quanto ho potuto sapere, sono periti a Flossenburg e altrove. Io ho percorso un ben duro calvario a Flossenburg, Hersebruck e a Dachau, portando in spalla macigni e tronchi d’albero, facendo una fame nera, e sono tornato il 4 luglio u.s. in Italia, dove ho ritrovato tutta la famiglia al completo, ossia la Mamma, ed il mio fratello con moglie e figlia che poterono nascondersi e non ebbero noie, salvo qualche ripassata di spaghetto. Athos Polacco22 – a Bolzano nella squadra dei gabinetti – è perito a Hersebruck di tifo e diarrea sanguinosa, mentre gli altri li lasciai tutti a Flossenburg, dove furono visti ancora in vita il 23 gennaio. Pare che anche la Mamma di Athos e sua sorella Iride siano perite, altri dicono che sono in Slesia, altri ancora a Furstenberg vicino a Berlino, ma notizie precise nessuna23. Quanto a me, ho avuto parecchie fortune, soprattutto quella di stare a lungo nelle infermerie, causa il congelamento ai piedi, non solo, ma di esserci potuto entrare e di esserci stato molto a lungo, ed intanto è venuta la liberazione. A Dachau il 28/4 – giorno dell’arrivo delle truppe americane – i maledetti mangiasego dovevano bruciarci tutti vivi come quei 1600 disgraziati di Buchenwald, ma gli Americani li hanno battuti in volata, e ci hanno salvati. Non mi dilungo in altri particolari, poiché sono tutti orribili, ossia teutonici; a raccontarle tutte ci vorrebbe un romanzo: ora sono di nuovo con la Mamma, e ieri essa ha voluto festeggiare con speciale rassegna di
vivande diverse la data anniversaria della mia partenza per la Germania. Chi sa cosa saprà fare ancora per il 4 luglio ’46 data del mio arrivo. Di salute sto bene come condizioni generali; ma il piede sinistro mi dà ancora parecchia noia, poiché guarito il congelamento mi si è manifestata una noiosissima dermatite; il medico dice che sono cose lunghe, ma alla fine guarirà. Per contro al piede destro che pure era congelato, mi ci hanno amputato il terzo dito sinistro a Hersebruck in quella infermeria che non capivo bene se era una stalla o un bordello. Sarò ben lieto se vorranno rispondermi e darmi Loro nuove; ho saputo da qualcuno che era a Bolzano che Loro sono stati liberati a Natale del 1944, insieme a quel musicista tedesco alto come una cattedrale e grosso in relazione24. È vero? Termino augurando loro un felice Natale ed un prospero anno 1946, felicitandomi con Loro e con me che gli incubi della dominazione teutonica siano finalmente passati. Ricordo sempre la Loro gentilezza verso noi disgraziati25, e spesso parlo di Loro in famiglia. Cosa fa Ennio? va a scuola? Con molti cordiali saluti, Paolo Weisser Ho visto a Genova l’Avv. Caleffi26, che era a Bolzano capo spazzino: ha fatto una conferenza antinazista sui campi di concentramento, anche lui ha visto le bellezze della villeggiatura di Mauthausen, dove è perito quel suo giovane amico – a Bolzano erano sempre insieme – che si chiamava Scappaticci27 . 20
C. Antonioli (a cura di), «Cara mamma, sono ancora viva e vegeta benché prigioniera». 1944-1945 Lettere dal carcere e dal lager, in Iseo nella Resistenza. 1945-2005 sessant’anni di libertà, Comune di Iseo e Anpi Sezione di Iseo, Brescia 2005, pp. 306-7. Weisser (Genova 1903-1962), arrestato ad Alba (Cuneo), deportato a Flossenburg, Hersbruck e Dachau, dove fu costretto ai lavori forzati. Lettera scritta al rientro in Italia a Lodovico Nulli e suoi parenti, compagni di prigionia nel lager di Bolzano. 21 Epiteto spregiativo con il quale nel Regno Lombardo-Veneto venivano indicati i soldati al servizio degli austriaci, riferito alla Germania nazista. 22 Ebreo genovese, deportato e ucciso a Flossenburg.
23
In realtà entrambe morte in Germania, la madre in luogo ignoto e la sorella a Ravensbrück. 24 Hermann Gurtler. La notizia della liberazione è falsa. 25 Si riferisce agli ebrei. 26 Piero Caleffi (Suzzara 1901 - Roma 1978), antifascista e partigiano del Pd’A; nel dopoguerra giornalista, senatore del Psi e sottosegretario alla Pubblica Istruzione. 27 Italo Scapaticci, ingegnere elettronico originario di Sulmona (L’Aquila), deportato da Bolzano e morto a Mauthausen.
Ringraziamenti
Siamo riconoscenti a tutti coloro che ci hanno aiutato nel corso di questa ricerca. Un ringraziamento particolare va a Michele Sarfatti, per aver arricchito questa pubblicazione con una incisiva prefazione e per i suggerimenti e le preziose indicazioni. Una ricerca di questo genere non poteva prescindere dalla disponibilità e collaborazione del Cdec di Milano, grazie alla perizia e passione di Liliana Picciotto e Laura Brazzo. Di grande aiuto è stato anche il Fondo Malvezzi presso l’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia, grazie a Gabriella Solaro, Paolo Giovannetti e Pietro Malvezzi. Lo stesso discorso vale per gli archivi delle Comunità ebraiche, in particolare quelle di: Casale Monferrato, Firenze, Genova, Trieste, Modena e Venezia. Grazie anche all’Archivio storico della Comunità ebraica di Roma, al Centro di cultura ebraica di Roma e alla sua biblioteca e al Centro bibliografico dell’Unione delle Comunità ebraiche Italiane, in particolare alla responsabile Gisèle Lévy. Hanno contribuito alla ricerca Stefano Caviglia (che ci ha fornito varie lettere e documenti), Paolo Ravenna di Ferrara (che ha messo a disposizione vari documenti della sua raccolta), il direttore di «Shalom» Giacomo Kahn (che è stato prodigo di consigli e contatti), Gianfranco Moscati di Napoli (che ha donato la sua straordinaria collezione di lettere, cartoline e cimeli all’Imperial War Museum di Londra), Silvia Bon di Trieste, Giovanni Cenci e Daniele Ravenna di Roma, Lionella Neppi Modona e Giuseppe Viterbo di Firenze, Pierino Mucci di Urbisaglia, Maria Luisa Crosina di Trento, Anna Pizzuti (che ha realizzato un importante database degli ebrei internati in Italia), Metella Montanari dell’Istituto Storico di Modena, Alon Confino dell’Università di Virginia, Franco Debenedetti Teglio di Torino (che ha realizzato una approfondita ricerca sulla persecuzione degli ebrei, dalla quale è nata anche una mostra). Un importante contributo alla ricerca ci è stato dato dagli Istituti storici e da molti archivi pubblici e privati. In particolare ringraziamo per la pazienza e la disponibilità: l’Archivio centrale dello Stato di Roma, l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, l’Archivio storico civico e Biblioteca Trivulziana di Milano, la Biblioteca nazionale centrale (in particolare Flora Parisi), la Biblioteca Classense di Ravenna, la Casa della storia e della memoria di Roma e la sua biblioteca, l’Istituto storico della Resistenza in Cuneo e Provincia, l’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Modena, l’Istituto di storia contemporanea «Pier Amato Perretta » di Como, l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma, l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in Provincia di Lucca, l’Istituto storico della Resistenza in Valle d’Aosta, l’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea, la Fondazione ex Campo Fossoli, la Fondazione Memoria della deportazione, il Museo della Risiera di San Sabba, il Museo storico in Trento, la rivista «Triangolo Rosso». Un ringraziamento va anche all’Anpi nazionale e di Roma (in particolare al presidente Massimo Rendina) e al suo Centro telematico della Resistenza, all’Anpi di Iseo, all’Aned, all’Aei, all’Anrp, all’Associazione nazionale Famiglie italiane martiri, al Comitato Giovanni Palatucci di Campagna (Salerno) e al suo presidente Michele Aiello.
Una collaborazione assai utile per ricostruire la gran parte delle informazioni biografiche degli autori di lettere e diari e per recuperare altro materiale per la ricerca ci è venuta da diversi enti locali e dai loro uffici anagrafe, tra i quali vanno citati in particolare il Comune e la Provincia di Verona, il Comune di Genova e il Comune di Cava de’ Tirreni. Non avremmo potuto raccogliere una cosí consistente quantità di documenti senza la disponibilità e la cortesia di tante persone in Italia e all’estero che ci hanno aperto le porte dei loro archivi di famiglia o ci hanno fornito indicazioni biografiche: Caterina Antonioli (Iseo), Aldo Astrologo (Roma), Italo Baratella (Este), Alberto e Giuseppe Calò (Roma), Paola, Bona, Piero e Lia Cividalli (Parigi e Israele), Miriam, Carla, Anna Elvira Cividalli (Firenze), Corrado Israel De Benedetti (Israele), Costanza Della Seta (Roma), Massimo Demma (Milano), Giorgio Diena (Torino), Sara Di Gioacchino Corcos (Milano), Carla e Grazia Di Veroli (Roma), Sabatino e Giorgio Finzi (Roma), Franco Foà (Torino), Massimo Foa (Torino), Marina ed Alba Genti (Torino), Diana Goldschmied (Trieste), Napoleone Jesurum (Venezia), Elisabetta Lecco e il marito Lauro Rossi (Roma), Germana Levi (Torino), Giorgina Levi (Torino), Sandra Levis (Venezia), Angelo Limentani (Roma), Gabriella Luzzati (Israele), Marco, Roberto, Miriam, Lea e Fiorenza Maestro (Pisa), Manfredo Montagnana (Torino), Lea Ottolenghi (Livorno), Mario Ottolenghi (Dogliani), Pier Paolo Ottolenghi (Milano), Maurizio Pincherle (S. Benedetto del Tronto), Roberta Pisa (Firenze), Laura Poggetto (Torino), Fabio Pontecorvo Di Segni (Roma), Marco e Andrea Ravenna (Bologna e Correggio), Réouven Riva (Parigi), Paolo, Silvia, Anna Salmon e suo figlio Alessandro Vivanti (Bologna, Firenze e Torino), Fabrizio Salmoni (Torino), Fiammetta e Daniela Sarfatti (Trieste e Livorno), Guido Tagliacozzo (Roma), Davide Viterbo (Torino), Graziella Weisser (Milano), Amalia Viterbo Mossotto (Torino). A tutti esprimiamo la nostra riconoscenza.
Indice degli autori delle lettere e dei diari
Abenaim, Wanda. Ambron, Leone. Arian, Enzo. Artom, Emanuele. Astrologo, Enrica. Bassan, Jole. Behar, Becky. Bemporad, Marcella. Bolaffi, Giulio. Calabresi, Enrica. Carpi, Ada. Cassuto, Nathan. Cavaglione, Rosetta. Cesana, Franco. Cividalli, Giorgio. Cividalli, Gualtiero. Cohen, Roberto. Dalla Volta, Alfredo. Dalla Volta, Anna. Dalla Volta, Paolo. De Benedetti, Corrado Israel. Dell’Ariccia, Ernesto. De Rossi, Emma. Diena, Giorgio. Diena, Giuseppe. Diena, Paolo. Di Gioacchino, Anna. Dina, Bruna.
Di Segni, Renato. Finzi, Marta. Finzi, Sabatino. Foà, Arturo. Foà, Emilio. Foa, Vittorio. Formiggini, Angelo Fortunato. Forti, Gilda. Forti, Silvia. Galletti, Clara. Ginzburg, Leone. Goldschmied, Livio. Guastalla, Elisa. Iona, Giulio. Jesurum, Clementina. Lecco, Alberto. Levi, Giorgina. Levi, Giulio. Levi, Primo. Levi Cavaglione, Pino. Levy, Rudolf. Lipschitz, Eugenio. Lombroso, Giulio. Lombroso, Prospero. Luzzati, Emanuele. Luzzatto, Gino. Luzzatto, Margherita. Maestro, Leone. Mayer, Max. Melli, Guido. Michelstaedter, Ada. Morpurgo, Gualtiero. Morpurgo, Luciano. Mortara, Giulio. Neppi Modona, Adriana. Neppi Modona, Aldo. Narducci, Rosi.
Nissim, Luciana. Ottolenghi, Lea. Pace, Renato. Pacifici, Aldo. Pincherle, Maurizio. Pirani, Clara. Pisa, Vittorio. Poggetto, Scipione. Pugliese, Davide. Ravenna, Eugenio. Ravenna, Ezio. Ravenna, Germana. Ravenna, Giovanni. Ravenna, Paolo. Ravenna, Renzo. Ravenna, Tullio. Recanati, Elena. Romanelli, Elsa. Ruberl, Liana. Saba, Umberto. Sabatello, Tranquillo. Sacerdote, Emilio. Salmon, Elio. Salmoni, Bruno. Sarfatti, Gianfranco. Sed, Alberto. Segre, Abramo. Segrè, Margherita. Segre, Renzo. Sereni, Emilio. Silberstein, Walter. Sorani, Rosina. Spizzichino, Settimia. Sternfeld, Bernard. Tagliacozzo, Angelo. Tedeschi, Arrigo.
Tedeschi, Gino. Teglio, Mario. Valobra, Ferruccio. Viterbo, Carlo Alberto. Weil, Giovanna. Weisser, Paolo. Weisz, Gisella. Zaban, Luisa. Zaban, Silvia. Zevi, Primo.
Indice
Prefazione di Michele Sarfatti Introduzione di Mario Avagliano e Marco Palmieri Note di compilazione e lettura Abbreviazioni e sigle Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia La campagna di propaganda antisemita Le leggi razziali I suicidi La scelta di emigrare all’estero L’internamento libero e nei campi di concentramento La caduta del fascismo, l’armistizio, i primi eccidi e le grandi retate La fuga e la caccia all’uomo In clandestinità L’espatrio in Svizzera Gli ebrei nella Resistenza Gli arresti e il carcere Gli ultimi scritti e i testamenti Nei lager italiani, la partenza e il viaggio verso i campi di sterminio La liberazione e il difficile ritorno alla vita Il ritorno dei sopravvissuti dai campi di sterminio Ringraziamenti Indice degli autori delle lettere e dei diari