Il destino impresso. Per una teoria della destinalità nel cinema 9788899559373

Esiste un nesso fra i film che guardiamo e il modo in cui diamo senso a noi stessi e al nostro abitare il mondo? In che

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Italian Pages 450 [222] Year 2019

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Table of contents :
Silvio Alovisio
A ciascuno il suo destino?
Appunti introduttivi per un viaggio nella destinalità cinematografica
Bruno Surace
Lettera ai lettori
Introduzione
Capitolo 1. La morte
Capitolo 2. Dio
Capitolo 3. Il padre della Patria e lo Stato distopico
Capitolo 4. L’autore
Capitolo 5. Il loop
Capitolo 6. E se?
Conclusioni
Bibliografia
Indice dei nomi
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Il destino impresso. Per una teoria della destinalità nel cinema
 9788899559373

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Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Torino.

Bruno Surace

Il destino impresso

Per una teoria della destinalità nel cinema

© edizioni kaplan 2019 Via Saluzzo, 42 bis – 10125 Torino Tel. e fax 011-7495609 [email protected] www.edizionikaplan.com ISBN 978-88-99559-37-3

k a p l a n

Indice A ciascuno il suo destino? Appunti introduttivi per un viaggio nella destinalità cinematografica di Silvio Alovisio

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Kane, Nanà, Sarah, Larry e Macbeth: su alcune ideologie del destino, p. 7; Il destino cinematografico come andatura dell’accadere, p. 12; Il cinema come arte dei nessi e dell’impronta, p. 14; Per una fisica della destinalità cinematografica, p. 17; Dal destino del personaggio alla destinalità dei segni, p. 18; Ritornare ai film, p. 21

Lettera ai lettori

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Introduzione

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Capitolo 1

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Il varco strettissimo, p. 29; Un salto al cinema, p. 30; Fra Film Theory e semiotica, p. 33; L’esempio, il corpus, l’accumulo, p. 36; Trovare la destinalità: il destinante, p. 38; Trovare la destinalità: narrazione ed esperienza, p. 45; Trovare la destinalità: l’immagine e la forma, p. 49; Categorie e istanze destinali, p. 50

La morte

Il cinema dell’inevitabile, p. 55; Morte ad personam, p. 56; Il doppio, la soglia, l’insignificanza, p. 71; Rigor mortis e fisiognomica, p. 78; La morte leggera, p. 83 Capitolo 2

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Dio

Il cinema dell’Altissimo, p. 103; Indessicalità divine, 105; Dio, Babbo Natale e gli afroamericani, p. 109; Noè nel cronosisma, p. 116; Cieli immensi, p. 118; Absentia in præsentia, p. 126; Il testimone silenzioso e il fallimento della matematica, p. 133; Dèi postmoderni, p. 137; Dèi 5

contemporanei, p. 149; L’immagine di Dio, Dio nell’immagine, p. 154; Dio burlone, p. 157; Dio blasfemo, p. 163; Geni maligni. p. 172 Capitolo 3

Il Padre della Patria e lo Stato distopico

A ciascuno il suo destino?

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Appunti introduttivi per un viaggio

Stato come destino del film, p. 179; Il patriota Garibaldi, p. 181; Allegoresi di Volpe e Blasetti, p. 187; Garibaldi destinale, p. 194; Film come destino dello Stato, p. 200; Distopia, distopia canaglia, p. 202; Purghe, aragoste, formiche, p. 216; Ozu e Fantozzi feriti nell’onore, p. 230 Capitolo 4

nella destinalità cinematografica di Silvio Alovisio 247

L’autore

Autorialità e destinalità, p. 247; Biancaneve e Stephen King, p. 250; Giochini buffi, p. 254; Dalle origini a oggi, p. 262; Vero come la finzione, p. 266; Finali e finalità, p. 271; Rifu(g)gi, p. 280; Allen-Keaton A/R, p. 295; Lo schermo e il contagio, p. 310; L’autore e la destinalità, p. 316 319 Capitolo 5 Il loop Il giro dell’orologio e l’eterno ritorno delle scimmie, p. 319; In trappola, p. 329; Personalismi vs universalismi, p. 333; Quelle case (non solo) nel bosco: loop fra spazio e tempo, p. 337; Donald Duck Chain Saw Massacre (o dell’evenemenzialità nel loop), p. 344; Loop comico, p. 349; Isotopie del loop (del loop, del loop, del loop…), p. 354;

Capitolo 6

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E se?

Povero Witek, p. 367; La corsa di Lola, p. 376; Véronique e Weronika, p. 378; Nemo, nessuno e centomila, p. 380

Conclusioni

Esperienze mediali e destinalità, p. 393

Bibliografia Indice delle opere e dei nomi citati

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Kane, Nanà, Sarah, Larry e Macbeth: su alcune ideologie del destino New York, 185 West 74th Street. Emily Monroe Norton, nipote del presidente degli Stati Uniti e moglie di Charles Foster Kane, ha appena scoperto, grazie a una spregiudicata iniziativa del corrotto Jim W. Gettys, che il marito ha una relazione con un’altra donna, la giovane Susan Alexander. Di fronte al ricatto di Gettys, concorrente di Kane nelle elezioni per il governatore, Emily cerca di convincere Charles a ritirarsi dalla competizione, in modo da evitare lo scandalo e proteggere la sua famiglia. La risposta di Kane è perentoria: «There’s only one person in the world to decide what I’ll do. And that’s me». Il doppiaggio italiano, per una volta, sembra ancora più eloquente delle parole originali pronunciate dal protagonista, perché attribuisce un nome preciso a quel generico futuro («what I’ll do») evocato (o auspicato?) da Kane: «Solo una persona può decidere il mio destino, e quella persona sono io». Secondo Paolo Bertetto, Kane rientra nel novero dei personaggi concettuali, da lui definiti come vettori di idee, o meglio «come forme del pensiero oggettivato e del divenire»1. Può essere interessante, allora, chiederci di quale idea di divenire (e dunque di destino) si faccia portavoce Kane in questo film di cui egli stesso parrebbe, sin dal titolo (Citizen Kane [Quarto potere, 1941]), il titanico vettore2. Il protagonista difende una concezione del destiPaolo Bertetto, Microfilosofia del cinema, Marsilio, Venezia, 2014, p. 217. A ben vedere, tuttavia, la condizione prismatica del protagonista (evidente non solo nella sua dimensione narrativa ma anche, come sottolinea Carluccio, nello statuto pluristilistico della recitazione di Welles) compromette l’autonomia identitaria del personaggio, e quindi, come si dirà meglio più avanti, indebolisce anche l’autorevolezza delle sue af-

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Silvio Alovisio

A ciascuno il suo destino?

no come sviluppo finalistico di un’auto-determinazione del soggetto fondata sulla volontà e sull’azione. Come rivela il celebre detto latino attribuito ad Appio Claudio Cieco («Faber est suae quisque fortunae»), quella dell’uomo artefice del proprio destino è un’idea di antica tradizione, rilanciata e approfondita dalla cultura umanistico-rinascimentale. Nella prospettiva di Kane, tale concezione antropocentrica di destino “laico” si fonde con un indefinito superomismo3 e una hybris la cui potenza pare nascondere, come nelle grandi tragedie classiche, una genetica e sospetta fragilità. Come nelle biografie degli inventori geniali studiate da Ortoleva, anche nella polifonica biografia filmica di Kane quest’ultimo appare come «un individuo nel senso più stretto del termine, cioè una persona che agisce essenzialmente sulla base dei propri impulsi e delle proprie scelte»4. Cambiamo scenario. Al tavolo di un modesto bistrot parigino dei primi anni Sessanta, la giovane Nanà, protagonista di Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962), quarto lungometraggio di Jean-Luc Godard, propone una visione della libertà individuale (e quindi del destino, questione filosofica da sempre incardinata nella dialettica tra libertà e necessità) solo in apparenza simile a

quella formulata da Kane alla moglie. A un’amica che, come lei, fa la prostituta, e che sostiene, quasi soffrisse inconsapevolmente di una nevrosi di destino5, di non avere alcuna colpa per la triste condizione in cui si trova, Nanà replica che invece il suo destino è il frutto di una scelta: «Io credo», lei dice, che siamo sempre responsabili di quel che si fa, e liberi. Sollevo la mano, sono responsabile. Giro la testa a destra, sono responsabile. Sono infelice, sono responsabile. Fumo una sigaretta, sono responsabile. Dimentico che sono responsabile, ma lo sono.

Kane e Nanà tuttavia, a ben vedere, non condividono la stessa idea di destino, pur essendo entrambi convinti che questo si costruisca a partire dalle decisioni individuali: l’autodeterminazione dell’io per Kane si esaurisce interamente nella volontà del fare («what I’ll do») mentre per Nanà la libertà del fare è il polo complementare di una dialettica più articolata e drammatica che chiama in causa, in primo luogo, la libertà dell’essere. Da questa differenza sostanziale deriva, in Questa è la mia vita, un più esplicito (e più angoscioso) statuto esistenziale del concetto di destino, chiaramente influenzato dalle riflessioni di Sartre e Heidegger6. Come osserva lo stesso Godard, «noi sappiamo, dopo Sartre che la libera scelta che l’individuo fa di sé si confonde con quello che in genere chiamiamo destino»7. Nanà in effetti non si fa alcuno sconto. Nella sua visione della vita non esiste un destino che ci trascende al quale imputare le nostre sfortune;

fermazioni sul destino (cfr. Paolo Bertetto, Microfilosofia del cinema, cit., pp. 249-264 e Giulia Carluccio, Citizen Kane. Del personaggio prismatico e della sua interpretazione, tra ermeneutica, stile e gioco attoriale, «Imago», 11, 2015, pp. 71-77). 3 Sull’influenza della filosofia di Nietzsche nella definizione concettuale del “supercittadino” Kane (l’espressione, com’è noto, è di Bazin, cfr. André Bazin, Orson Welles, GS Editrice, Santhià, 2000, p. 68), la bibliografia è molto ampia. Cfr., tra gli altri, André Bazin, Charles Bitsch, Jean Domarchi, Nouvel entretien avec Orson Welles, «Cahiers du cinéma», 87, settembre 1958 (tr. it. in Orson Welles, It’s all true. Interviste sull’arte del cinema, Minimum fax, Roma, 2005, pp. 96-130); Jean Narboni, Un cinéma en plongée, in Orson Welles, Hors-Série des “Cahiers du cinéma”, Editions de l’Etoile, Paris, 1982; Gilles Deleuze, L’ immagine-tempo, tr. it. Ubulibri, Milano, 1989, pp. 154-165; V. Sanil, The Form of Truth and the Powerr of False. The Nietzschean Moment in the Cinema, in Franson Manjali, Nietzsche: Philologist, Philosopher and Cultural Critic, Allied Publishers, Mumbai, 2006; pp. 102-115; Kevin L. Stoehr, The Ambiguity of Horizons. On the Nihilism and Perspectivism of Citizen Kane, in Id., Nihilism in Film and Television: A Critical Overview from Citizen Kane to Sopranos, McFarland, London, 2006, pp. 67-81; Dan Shaw, Relativism, Perspectivism and Citizen Kane, in Id., Morality and the Movies, Continuum, London-New York, 2012, pp. 51-62; Loig Le Bihan, Orson Welles, diffractions: de Citizen Kane à Mr Arkadin, une esthétique nietzschéenne, «Hal. Archives ouvertes», 2010, https://hal.archives-ouvertes.fr/hal-01633200/document 4 Peppino Ortoleva, Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana, Einaudi, Torino, 2019, p. 269.

5 Freud in realtà preferisce usare il termine “coazione di destino”. L’espressione “nevrosi di destino” è formalizzata da Laplanche e Pontalis e «designa un modo di esistenza caratterizzato dal ritorno periodico di concatenazioni identiche di eventi, generalmente sfortunati, concatenazioni alle quali il soggetto pare essere sottoposto come a una fatalità esterna, mentre, secondo la psicoanalisi, ne vanno ricercate le molle nell’inconscio e particolarmente nella coazione a ripetere» (Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, tr. it. Laterza, Bari, 1968, p. 345). Sulla nevrosi di destino riflette anche Jung, soprattutto in rapporto alla storia famigliare del paziente cfr. Carl Gustav Jung, Il padre nel destino dell’ individuo (1949), in Id., Opere, vol. IV, Freud e la psicoanalisi, tr. it. Boringhieri, Torino, 1976. 6 Cfr. Paolo Bertetto, Vivre sa vie, la disponibilità e il nulla, in Id., Microfilosofia, cit., pp. 283-295. 7 Ivi, p. 285. Questo è il passo di Sartre richiamato da Godard, nella traduzione italiana di Jacopo Darca: «La libera scelta che l’uomo fa di se stesso s’identifica assolutamente con ciò che si chiama il suo destino», in Jean-Paul Sartre, Baudelaire, tr. it. Il Saggiatore, Milano, 1947, p. 271.

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a esistere è solo la libertà, condizionata dalla conflittualità del rapporto con gli altri ed esperita dentro un mondo senza più «coordinate razionali e fideistiche di inquadramento»8. Come Nanà, allora, siamo tutti, sartrianamente, condannati a essere liberi dentro una realtà che non è né totalmente necessaria né interamente caotica, ma abbiamo la possibilità di costruire un progetto che provi a dare un senso alle nostre intenzioni.9 Anche se, come si è detto, Kane e Nanà sono personaggi concettuali che incarnano due idee ben diverse di destino individuale, entrambi sono certi che l’ordine del mondo non sia fatalmente predeterminato. Molto diversa è la convinzione di Sarah Connor, protagonista di Terminator 2 – The Judgement Day (Terminator 2 – Il giorno del giudizio, 1991). Sarah è la madre di John, nel presente, il 1991, un ragazzino ribelle ma in futuro, nel 2029, il leader della resistenza umana contro le macchine ribelli. Skynet, una rete informatica neuronale e autocosciente che guida le macchine, invia a ritroso nel tempo due robot, il primo nel 1984 per uccidere Sarah (primo episodio della saga) e il secondo nel 1991 per liquidare invece il piccolo John (secondo episodio, quello di cui ci occupiamo). In una delle poche sequenze prive d’azione del film, vediamo Sarah in un accampamento di contrabbandieri d’armi, nel dolce tramonto del deserto californiano ai confini col Messico. La donna è molto stanca, si siede a un tavolo di legno, vi incide qualcosa sulla superficie con un coltello e poi si assopisce. Non appena addormentata rivive per l’ennesima volta lo stesso incubo che da anni la perseguita: la visione di una devastante onda d’urto scatenata da un’esplosione nucleare che brucia e disintegra adulti e bambini. Dopo il repentino risveglio di Sarah, in preda a una comprensibile agitazione, la cinepresa ci rivela il contenuto della scritta che la donna ha inciso poco prima sul tavolo: “No fate”. Questa frase è una dichiarazione di guerra: per Sarah si tratta non tanto di negare il destino, come invece per certi aspetti fanno Kane e Nanà, quanto di Paolo Bertetto, Microfilosofia del cinema, cit., p. 285. Sulla dicotomia progetto/destino ritorna spesso Surace nel corso del volume, a partire da un testo di Argan (dedicato all’architettura, ma denso di riflessioni filosofiche). In esso, in particolare, si legge: «si progetta contro la pressione di un passato immodificabile affinché la sua forza sia spinta e non peso, senso di responsabilità e non colpa, non si pianifica la vittoria ma il comportamento che ci si propone di tenere nella lotta», Giulio Carlo Argan, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano, 1977, p. 71. 8 9

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combatterlo, provando a cambiare un ordine degli accadimenti che invece nel racconto appare, come in ogni destino che si rispetti, assolutamente inevitabile, necessitante e finalizzato. Come preciserà di lì a poco il giovane Connor al suo fedele padre vicario T-800, Sarah “vuole cambiare il futuro”: un’ambizione che sembra titanica oppure donchisciottesca, ma in entrambi i casi Sarah si scontra attivamente con un destino (il “giorno del giudizio” e la successiva guerra delle macchine ribelli) di cui riconosce l’esistenza e di cui conosce i futuri sviluppi. Molto più drammatica, invece, appare la condizione esistenziale di Larry Gopnik, il professore di fisica ebreo protagonista di A Serious Man (Id., Joel ed Ethan Coen, 2009). L’uomo, colpito nel corso del film da un’incredibile serie di sventure individuali, familiari e professionali, cerca di comprendere quale senso potrebbe celarsi dietro questa sfortuna che non sembra mai finire e si rivolge ai rabbini. Nessuno di loro, tuttavia, è in grado di spiegargli perché il suo destino risulti così infelice. Uno di essi esorta il protagonista a vedere queste disgrazie come espressioni della volontà di Dio, ma lo fa con poca convinzione e ancora più scarsa empatia. In realtà, proprio come nell’universo quantistico evocato da Larry nella sua lezione sul paradosso del gatto di Schrödinger, la vita del protagonista non sembra regolata da alcun principio deterministico. Gradualmente quindi Larry comprende di non essere un Giobbe contemporaneo messo alla prova da Dio, ma un uomo solo che naufraga nell’oceano di quel “signifying nothing” già tragicamente rivelatosi alla coscienza allucinata di Macbeth in prossimità della sua morte. La sfortuna può dipendere dal Fato, da Dio, dal caso (sempre che esista oggettivamente) o da noi stessi, ma non ci sarà mai concesso di saperlo. Ben più inquietante e influente di quello di Banquo, lo spettro vagamente nichilista di Macbeth10, così lacerato – sino alla follia – tra una predestinazione magica dalle connotazioni pre-cristiane (la profezia oscura delle streghe) e il dramma, prima di tutto mentale, infiammato dalla soggettività del libero arbitrio (la tracotante passione del potere11 nutrita dal protagonista e dalla moglie che porta loro a scegliere la forma più malvagia e violenta di realizzazione della profezia stessa), aleggia d’altronde in non pochi adattamenti direttamente o indirettamente ispirati al capolavoro scespiriano. Tra tutti questi è forse la violenta rilettura di Polański (Macbeth, 1971) a proporre il tracciato Sul nichilismo di Macbeth esiste naturalmente una letteratura critica molto ampia. Si veda almeno Harold Bloom, Shakespeare. L’ invenzione dell’uomo, Rizzoli, Milano, 2001. 11 Cfr. Nadia Fusini, Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare, Mondadori, Milano, 2010. 10

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destinale più soffocante, irrevocabile e lucidamente disperato, in piena coerenza con il pessimismo esistenziale e storico del regista. Quasi alla fine del film, nell’ultima sequenza, dopo la decapitazione di Macbeth, Polański introduce una sostanziale novità rispetto all’ipotesto di partenza. Un giovane cavaliere errante, Donalbain, il fratello storpio del nuovo re Malcolm, e suo probabile futuro rivale, si avvicina a quello stesso antro nascosto dalle rocce nel quale le streghe, all’inizio del film, avevano predetto a Macbeth e a Banquo il loro destino, segnando l’inizio della tragica ascesa e caduta del protagonista. Nessuna catarsi finale, quindi. Nessuna conciliazione. La ronde del destino ricomincia il suo giro, postulando una visione ciclica e ricorsiva della Storia, intesa come un girotondo imperituro di pulsioni e disvalori, un disordine intenzionato dall’uomo ma privo di un senso intelligibile, eppure regolato da un incessante e quasi regolare circolarità, forma simbolica di una coazione a ripetere che Freud, com’è noto, associa alla pulsione di morte12. Il destino cinematografico come andatura dell’accadere I film di Welles, Godard, Cameron, Coen e Polański, per quanto di assoluto rilievo, non costituiscono ovviamente una selezione rappresentativa, però compongono un piccolo viatico forse utile per entrare nella proteiforme tramatura delle relazioni tra cinema e destino intessuta ed esplorata da Bruno Surace nell’ampio studio che segue al presente contributo. Nel loro insieme che cosa ci rivelano di tale tramatura i film appena evocati (e, con la parziale eccezione di Terminator 2, intenzionalmente scelti al di fuori dell’imponente corpus filmografico – circa 500 titoli analizzati o citati dalle origini alla contemporaneità – meticolosamente costituito da Surace)? Prima di tutto ci dicono che non si dà la possibilità di riflettere sul destino nel cinema senza chiamare in causa le questioni della necessità, della libertà, della responsabilità, del caso e della possibilità. Poi, e si tratta di una constatazione certamente banale ma non trascurabile, essi ci dicono che non esiste una sola definizione concettuale di destino, ma molte, quindi il termine andrebbe più correttamente usato al plurale. Le diverse configurazioni dell’idea di destino

delineate nei cinque film citati discendono da tradizioni religiose e filosofiche ben diverse e – senza voler peccare di determinismo – si raccordano anche al mutare dei contesti storico-culturali (sarebbe difficile interpretare Questa è la mia vita senza conoscere l’esistenzialismo, o analizzare Terminator 2 senza considerare il ripensamento della temporalità da parte delle filosofie riconducibili al postmoderno). In terzo luogo, nel loro raccontarci storie di destini sventurati o persino tragici, gli esempi citati confermano, come osservava Benjamin, che il destino nella tradizione occidentale ha molto più a che fare con la colpa che con la felicità: «è proprio la felicità che svincola il felice dall’ingranaggio dei destini (…). Non per nulla Hölderlin chiama ‘senza destino’ gli dèi beati. Felicità e beatitudine conducono quindi, al pari dell’innocenza, fuori della sfera del destino».13. Una riflessione analoga, ma maturata in un contesto socioculturale molto diverso, è proposta da Robert Warshow, quando, ragionando sulla figura del gangster, così presente nel cinema hollywoodiano degli anni Trenta, ne interpreta il profondo statuto tragico (e dunque legato in modo inscindibile al destino) come una sorta di reazione, a tratti disperata e in parte contraddittoria, rispetto all’obiettivo, perseguito dalle «moderne società egualitarie»14 e sostenuto in particolare dalla cultura di massa, di «rendere più felice la vita delle persone»15. In quarto luogo, le storie ricordate in apertura ci palesano che il destino si sostanzia e si formalizza come un’andatura (per riprendere una felice espressione di Surace) dell’accadere, come un’avventura (nel senso etimologico) del divenire. Non può darsi destino senza movimento delle cose e degli individui. E quindi, a ben vedere, non può darsi destino senza un racconto. Ecco perché, forse, la presenza concettuale del destino nelle culture moderne e contemporanee è più attestata negli immaginari narrativi (in particolare, a partire da Cervantes, nella forma del romanzo) che nella speculazione filosofica pura. In questa necessità del movimento risiede qualcosa di apparentemente paradossale, se si considera l’etimo della parola destino, riconducibile alla radice indoeuropea – sta, da cui derivano sia il greco íστημι (io sto) sia il

12 Cfr. in particolare Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere, Bruno Mondadori, Milano, 2007.

13 Cfr. Walter Benjamin, Carattere e destino, in Id., Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, tr. it. Einaudi, Torino, 1982, p. 119. 14 Robert Warshow, Il gangster come eroe tragico (1948), «Calibano», 2, febbraio 1978, p. 104. 15 Ibidem. Sul saggio di Warshow cfr. Peppino Ortoleva, Miti a bassa intensità, cit., in particolare il capitolo La libertà, ovvero il crimine: l’underworld e la metropoli.

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latino destinare (nel significato di fermare, fissare)16. Il destino, quindi sta fermo ma al tempo stesso muove gli accadimenti, quasi come il “motore immobile” di Aristotele, o, per dirla nei termini greimasiani cari a Surace, quasi come un Destinante ultimo. Il destino quindi è una causa senza causa, immanente e insieme trascendente, che genera, per definizione, un movimento destinale delle cose e degli eventi. Se, come dimostra bene l’autore di questo volume, esiste una predisposizione del cinema all’incontro con le figure e le forme della destinalità, questa inclinazione allora forse si spiega, innanzitutto, con la vocazione cinetica, ancor prima che narrativa, del cinema stesso. Il cinema come arte dei nessi e dell’impronta Il movimento in sé però non basta. Perché una certa forma del divenire assuma una configurazione destinale più o meno evidente (e quindi variamente preordinata e necessitante) occorre attivare un’interpretazione capace di stabilire i nessi tra la cosa e il movimento. Ed è a proprio a partire da questa impegnativa necessità che muove il progetto semio-ermeneutico di Surace. Su quali materiali può lavorare il gesto interpretante per provare a rendere intellegibile il senso di un destino? Come osserva nuovamente Benjamin in un passaggio magistrale anche il destino, come il carattere, può essere osservato solo in segni, non in se stesso, poiché – per quanto questo o quel tratto di carattere, questo o quel concatenamento del destino, possa essere immediatamente visibile – la connessione indicata da quei concetti non è però mai presente che in segni, essendo posta al di sopra dell’immediatamente visibile. Il sistema dei segni caratteriologici è generalmente limitato al corpo (…) mentre segni del destino, secondo la concezione tradizionale, possono diventare, coi tratti fisici, tutti i fenomeni della vita esterna17.

scelta di Surace di associare, nel titolo di questo volume, l’aggettivo “impresso” al nome “destino” non è una licenza (pseudo)poetica, bensì riflette convinte intenzionalità teoriche. I verbi “imprimere”, “improntare” e “impressionare” derivano dalla stessa radice latina che significa premere sopra. In senso figurato, il destino preme sulla vita del destinatario improntandola, perché la orienta o la condiziona; imprime sintomi sulla sua personalità, lo impressiona emotivamente. Il destino può concedere o negare al destinatario il suo imprimatur, legittimando o meno così il suo modo di capire il mondo e di muoversi al suo interno. L’atto dell’imprimere però ha un senso non solo figurato ma anche materiale, e quest’ultimo assume nel cinema, medium dell’impronta18, una centralità sostanziale. Il cinema infatti, come scrive Ortoleva a partire dalle riflessioni del filosofo pragmatista Horace M. Kallen, è concepibile come «una realtà fisica resa segno e un insieme di segni reso racconto»19. La peculiarità della significazione cinematografica risiederebbe allora nell’alchimia tra la redenzione della realtà fisica (per dirla con Kracauer)20 e la sua incessante simbolizzazione: Il cinema, altrettanto onnivoro del romanzo, colloca la narrazione (…) direttamente in quel tempo/spazio concreto in cui si svolge la vita degli esseri umani, degli altri esseri viventi e anche non viventi. E al tempo stesso carica ogni oggetto di un potenziale significato che va oltre l’oggetto stesso, anzi costituisce una sorta di dizionario (visivo e anche sonoro) fatto di cose, movimenti, espressioni: che condiziona la nostra lettura del mondo e lo carica di simboli e possibilità di senso21.

Nel cinema queste “possibilità di senso” di cui scrive Ortoleva improntano i personaggi così come, per ritornare al passaggio di Benjamin, “i fenomeni della vita esterna” con una modalità, per certi versi, ontologicamente destinale. Come osserva Giorgio Pedrioni, quando guardiamo il mondo da una finestra la realtà

16 Per un approfondimento cfr. Alfred Ernout, Antoine Meilllet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots (1932), Éditions Klinksieck, Paris, 1994. 17 Walter Benjamin, Destino e carattere, cit., p. 118.

Per un approfondimento teorico sul nesso tra cinema e impronta, a parte ovviamente il seminale contributo di André Bazin (Ontologia dell’ immagine fotografica, 1945, in Id., Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano, 1999), cfr. Barbara Le Maître, L’ impronta. Tra cinema e fotografia, tr. it. Kaplan, Torino, 2010. 19 Peppino Ortoleva, Miti a bassa intensità, cit., p. 158. 20 Cfr. Siegfried Kracauer, Film: ritorno alla realtà fisica, introduzione di Guido Aristarco, Il Saggiatore, Milano, 1962. 21 Peppino Ortoleva, Miti a bassa intensità, cit., p. 158.

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La connessione destinale tra le cose e il loro accadere, quindi, lascia segni che attendono di essere osservati. Anzi, per essere più precisi, li imprime. La

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si offre alla nostra osservazione senza «alcun carattere necessario»22. Se invece guardiamo il mondo dentro un film di finzione siamo portati a interrogarci non solo sul significato dei fenomeni visibili ma anche sui nessi che li collegano, attribuendo a tali nessi un principio di causalità «garantito dalla semplice certezza che qualcosa è stato scelto, immortalato, rappresentato per essere dotato di senso»23. Ed è proprio in questo gesto necessitante di selezione e raccordo causale che si coglie la radice della celebre analogia intravista da Pier Paolo Pasolini tra le coppie vita/morte e cinema/montaggio: la vita che stiamo vivendo (o quella che stiamo osservando dalla finestra) è un «caos di possibilità»24, un’incessante quanto vana «ricerca di relazioni e di significati»25. La morte e il montaggio (ma ben prima del montaggio il romanzo, come sostiene Benjamin26), intervengono su questa materia incerta e infinita, ne selezionano alcuni momenti, li mettono in successione e poi, soprattutto, li perimetrano dentro una struttura chiusa, finita. In altre parole, più vicine ai temi del volume che stiamo introducendo, la morte e il montaggio costruiscono tracciati destinali esprimibili. L’aspetto decisivo, però, è quello sottolineato anche da Pavese nella bellissima citazione che apre lo studio di Surace: la costruzione di ciò che chiamiamo destino chiama in causa il passato e non il futuro, è un’operazione sempre retrospettiva (o post-produttiva, se vogliamo parlare in termini meta cinematografici). Esemplari, a chiarire ulteriormente la questione, ci paiono le parole di Schopenhauer: Arrivati a una certa età e guardando retrospettivamente a tutta la nostra vita, ci si può rendere conto di come tutti gli eventi sembrano organizzati e ben ordinati come nella trama di un romanzo. Piccoli fatti accidentali rivelano di aver avuto ripercussioni inimmaginabili, scelte effettuate d’impulso senza chiara consapevolezza appaiono passaggi suggeriti da una saggezza superiore rivelando una ignota regia operante al di sotto della trama degli eventi27.

All’interno di un contesto non più filosofico né letterario ma psicoanalitico possiamo cogliere un’analoga idea dei processi di “destinalizzazione” in Jean-Bertrand Pontalis. In una conferenza tenuta nel 1992 a Montréal, lo psicoanalista definisce il destino, per riprendere l’efficace sintesi che ne dà Maurizio Balsamo, come «un’illusione retrospettiva, una sorta di causalità romanzesca, la costruzione necessaria, a volte imperiosa, di una trama, di un filo rosso capace di legare fra di loro gli eventi»28. In questo caso l’autorità che affabula il destino non è l’Io autobiografico di Pavese, l’uomo anziano di Schopenhauer, il narratore (e il morente) di Benjamin, ma lo psicoanalista che si rapporta con i vissuti del paziente: come osserva ancora Balsamo, infatti, «il determinismo è solo retroattivo, volto all’indietro. Forse, noi possiamo dire qualcosa sul senso di una storia, sui fili che la legano tenacemente, ma non possiamo dire alcunché sul futuro di un paziente»29. In tutti i casi, comunque, come ci insegna John Carpenter nell’indimenticabile ultima immagine di In the Mouth of Madness (Il seme della follia, 1995) – non a caso scelta da Surace per la copertina di questo volume – la destinalità di ciò che chiamiamo destino si rivela (o si inventa?) solo alla fine della storia (o della vita). Nell’immagine cinematografica, dunque, e nei personaggi che la abitano, noi «cerchiamo la necessità che manca al nostro destino»30. Per certi aspetti allora l’esperienza del film, proprio in virtù della sua potente vocazione destinale, consentirebbe allo spettatore di “allenarsi” al riconoscimento e all’accettazione di quanto deliberato, nel nostro essere nel mondo, dalla situazione necessitante. Per una fisica della destinalità cinematografica Interrogarsi sulla destinalità cinematografica, quindi, non significa selezionare strumentalmente pochi testi per usarli come esempi applicativi e didascalici di alcune grandi idee filosofiche del destino, da intendersi quest’ultime come temi ideologici che modellerebbero la concretizzazione, nel singolo film, di un mondo funzionale possibile ma al tempo stesso, per dirla con Spinoza, necessitato. La destinalità non è un’idea filosofica, ma una certa morfologia segnica che definisce un orientamento di senso. Come ribadisce sin dalla sua intro-

Giorgio Pedrioni, Progetto come destino, e-book pubblicato in proprio, 2017, posizione 383. Ivi, posizione 391. 24 Pier Paolo Pasolini, Osservazioni sul piano-sequenza (1967), in Id., Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, p. 237. 25 Ibidem. 26 Cfr. Walter Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, a cura di Renato Solmi, tr. it. Einaudi, Torino. 27 Arthur Schopenhauer, Speculazione trascendente sull’apparente disegno intenzionale nel destino dell’ individuo (1851), in Id., Parerga e paralipomeni. Tomo I, a cura di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1981, pp. 303-304.

28 Maurizio Balsamo, Il destino, un resto della psicoanalisi, «Rivista di Psicologia analitica», 58, 1998, p. 13. 29 Ivi, p. 16. 30 Giorgio Pedrioni, Progetto come destino, cit. posizione 398.

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duzione Surace, tuttavia, è «impossibile tracciare la destinalità a partire dalle strutture profonde del testo». Invece che dalla metafisica del destino, allora, la ricerca di Surace non può che partire dalla “fisica” della destinalità, ossia dalla superficie manifesta e osservabile del film. Lavorare sulla superficie manifesta impressa dai segni lasciati dai tracciati destinali vuol dire allora per Surace occuparsi di configurazioni della temporalità del racconto (la struttura a loop e le logiche plurisequenziali dei possibili narrativi), di figurazioni attanziali e assiologiche (Dio, la Morte, l’Autore, il Padre della patria e lo Stato distopico), di scelte legate al lavoro enunciativo su profilmico, messa in scena e montaggio (e qui gli esempi proposti dall’autore sono innumerevoli) . Proviamo allora a raccogliere la sollecitazione ermeneutica proposta dallo studio di Surace, ma senza la cura metodologica che lo contraddistingue (ispirata da un uso duttile ma sempre rigoroso degli strumenti semiotici), e ritorniamo ad alcuni dei film citati in apertura portando però su di essi uno sguardo interpretativo meno attento alle connotazioni ideologiche del destino e più sensibile invece all’evidenza dei segni visibili in chiave di destinalità. Dal destino del personaggio alla destinalità dei segni Si diceva di Charles Foster Kane e del suo progetto di vita finalizzato al titanico rovesciamento del celebre motto di Erodoto («Non sono gli uomini a dominare la sorte ma è la sorte a dominare gli uomini»). Come si rammenterà, alla già ricordata battuta del marito, la signora Kane risponde: «You decided what you were going to do, Charles, some time ago». Una constatazione amara, pronunciata da una donna lucida ma ferita, e che contiene una sua verità (una delle tante verità possibili sul prismatico Kane). Alcune immagini, tuttavia, ci suggeriscono un tracciato destinale molto diverso rispetto alla parabola di autodeterminazione disegnata dall’ostinata volontà del protagonista. Nella celeberrima sequenza ambientata nella fattoria del Colorado dove il piccolo Charles vive con i suoi genitori, la profondità di campo orchestra una sorta di inesorabile composizione destinale che poi si rivelerà gradualmente come la matrice profonda del vero destino di Kane. Il setting è talmente noto che quasi non serve ricordarlo: sullo sfondo incorniciato dalla finestra, nel paesaggio bianco sferzato da un’intensa nevicata, vediamo Charles giocare da solo spensierato; sulla soglia che divide le due stanze dell’interno si posiziona invece il padre, inquadrato in secondo piano, mentre nel foreground domina la 18

madre, filmata a distanza ravvicinata in mezza figura, seduta al tavolino con a fianco, ma in posizione un po’ più arretrata rispetto alla cinepresa, il banchiere Tatcher. Il destino di Charles, com’è risaputo, si decide qui: il bambino, rimpicciolito ulteriormente dalla distanza di ripresa e ignaro della sorte che lo attende, è al tempo stesso al centro e al fondo dell’immagine, posto cioè a margine di quegli eventi di cui è però (passivo) protagonista. La scena è dominata dalla madre, alla quale compete il ruolo del Destinante, capace di sostituirsi a un’azione paterna del tutto inconsistente e, letteralmente, di secondo piano. Tatcher invece, così vicino alla signora Kane ma in posizione lievemente subalterna, è il secondo padre vicario al quale l’autorità destinante delega il futuro di Charles. In una prospettiva freudiana, già ampiamente approfondita dalla sterminata letteratura dedicata al film, questa composizione sembra essere quasi una potente figurazione plastica del destino come “immagine parentale”, espressione del principio di autorità genitoriale che dovrebbe concorrere alla formazione del Super Io (e in effetti per Charles la madre resterà sempre un modello esemplare). Come osserva Bertetto, d’altronde, «il progetto di costruzione di Kane come grande magnate, come personaggio americano esemplare, è innanzitutto un programma e un desiderio della madre di Kane, che il figlio incorpora e fa suo»31. Ritorniamo ora, invece, a quanto dice Nanà nel bistrot di Questa è la mia vita. Ascoltando soltanto queste sue parole, lo spettatore potrebbe ricavare l’impressione che la giovane donna viva la sua condizione personale (il fatto di essere una prostituta) ed esistenziale (affrontare in ogni istante il peso della responsabilità) con una lucidità non priva di una certa serenità. «In fondo tutto è bello», dice Nanà alla fine del monologo, e sulle sue labbra vediamo persino affiorare un lieve sorriso. Sembra quasi che Nanà faccia sue le considerazioni di Nietzsche sull’amor fati: «Non si vuole nulla di diverso da quello che è (…). Non solo ‘sopportare’ ciò ch’è necessario, e tanto meno nasconderlo (…) ma amarlo»32. A proposito di segni impressi sulla superficie manifesta, però, lo spettatore non può dimenticare una sequenza precedente, quella in cui Nanà si reca da sola al cinema per vedere La passion de Jeanne d’Arc (La passione di Giovanna d’Arco, Carl Theodor Dreyer, 1928). Nel bistrot la camera era fissa e filmava senza stacchi di montaggio non solo il volto ma soprattutto le parole della Paolo Bertetto, Microfilosofia del cinema, cit., p. 262. Friedrich Nietzsche, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è (1888), tr. it. Fratelli Bocca, Torino, 1922, p. 54. 31

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protagonista. In questo caso invece Nanà è completamente muta e il montaggio interviene a raccordare a più riprese il suo volto commosso con quello, altrettanto provato, di Renée Falconetti, interprete di Giovanna sul grande schermo. Un aspetto interessante per la nostra riflessione sulla destinalità è dato dalla specifica sequenza che Godard sceglie, non certo a caso, di estrarre dal capolavoro di Dreyer per costruire questo intenso confronto tra i due volti. Si tratta del momento della preparazione alla morte. Il monaco Jean Massieu, interpretato da Antonin Artaud, preannuncia a Giovanna che sarà bruciata sul rogo e, nel suo intimo sempre più partecipe al dramma della donna, la incalza con una serie di drammatiche domande. «E la tua liberazione?», le chiede infine Massieu. «La morte», risponde Giovanna. Se il montaggio cinematografico, come si è detto, genera tra le inquadrature raccordate una logica necessitante che costruisce ex post un tracciato destinale, allora allo spettatore non può che apparire evidente il nesso tragico tra il presente di Giovanna sullo schermo e il futuro di Nanà. Il già citato discorso sulla responsabilità non può prescindere dalla crescente consapevolezza che necessariamente anche la protagonista morirà. Quel delicato sorriso ispirato da una sorta di serena accettazione che percepiamo sulle labbra di Nanà nel bistrot deve quindi essere raccordato, retroattivamente, con le ben più disperanti lacrime che le rigano il volto mentre, insieme a noi, intravede, sul volto di Giovanna, la prefigurazione del suo destino. Ma per ora si tratta, per noi spettatori, soltanto di un segno lievemente impresso, di un vago presentimento, perché, come dice la stessa Giovanna ai suoi persecutori, «noi capiremo la strada solo alla fine del nostro cammino». Concludiamo, infine, con Terminator 2, considerando per un’ultima volta l’obiettivo che ispira le azioni di Sarah Connor, sintetizzato efficacemente nella scritta No fate incisa con rabbia sul legno. Lottare per modificare il futuro significa, in termini destinali, sfidare il principio dell’immodificabilità dell’ordine degli eventi sanzionato dall’autorità del tempo newtoniano. Confidare in una possibilità alternativa significa, di fatto, negare l’esistenza del destino predeterminato così come di un destinante. La tenace battaglia di Sarah contro il “fate” attacca in modo diretto un destinante (le nuove tecnologie che compromettono il destino dell’umanità) ma di fatto, come molti altri testi distopici della contemporaneità33, denuncia la crisi, se non 33

Come osserva Ortoleva, i racconti distopici «più che prevedere il futuro (…) mirano a

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la fine, dei destinanti tradizionali (a partire da Dio e dalla Storia, naturalmente). Se analizziamo però non tanto le parole incise da Sarah o quelle pronunciate dal figlio quanto l’evidenza dei segni visivi, lo scacco di questo progetto (anti)destinale è già annunciato nella sconvolgente sequenza apocalittica che apre e genera il film (secondo episodio di una lunga saga articolata in sei film34 e in una serie televisiva spin-off35): la catastrofe è impressa e compiuta ancora prima che Sarah Connor appaia sullo schermo. A nulla quindi potranno valere i tentativi di modificare il corso del tempo, tutto alla fine riaccadrà, come sostiene Polański in Macbeth. Il cielo minaccioso che chiudeva il primo episodio della saga non era altro, quindi, che l’annuncio del “judgment day” posto in apertura dell’episodio successivo. Come si intuisce in Terminator Genesys (Id., Alan Taylor, 2015), quinto episodio della saga, ogni ritorno all’indietro nel tempo per costruire una possibilità alternativa rispetto a ciò che è accaduto non modifica la realtà ma ne crea una nuova. La saga di Terminator, quindi, non solo presuppone un multiverso ma realizza anche una narrazione pluridestinale che porta non alla negazione del destino ma alla sua infinita ripetizione o moltiplicazione. Ecco allora perché diventa cruciale, come propone Surace, esplorare le morfologie narrative della destinalità proprio nel territorio liminare, squisitamente contemporaneo, dove queste sembrano entrare in crisi, ora perché sottoposte alla pressione spiraliforme del loop ora invece perché scosse dalla moltiplicazione dei possibili tracciati alternativi. Ritornare ai film Da questi esempi filmici, dalla loro eterogeneità e dal loro conclusivo ripensamento alla ricerca di una destinalità che, come suggerisce Surace, va rintracciata e interpretata non partendo dal livello profondo dell’assiologia ma da quello manifesto della superficie testuale si può facilmente dedurre quanto sia decisiva, nel lavoro che segue, la proposta di un forte ritorno ai testi e alla loro analisi, ma di un’analisi il più possibile estensiva dal punto di vista del corpus. collegare gli aspetti della vita sociale attuale con un possibile destino della specie (…). Di questo destino le tecnologie che attraversano i racconti distopici sono l’agente» (Peppino Ortoleva, Miti a bassa intensità, cit., p. 281). 34 L’ultimo è Terminator. Dark Fate (Terminator. Destino oscuro), prodotto da James Cameron e diretto da Tim Miller, in uscita nell’autunno 2019. 35 Terminator: The Sarah Connor Chronicles, serie in 31 episodi e due stagioni (20082009).

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Occuparsi delle morfologie e delle figurazioni della destinalità cinematografica è un’impresa di vasta portata che esige una “metodologia dell’accumulazione” (così la definisce l’autore stesso) capace di comporre un insieme al tempo stesso coeso e pertinente. In virtù di questa necessità, pienamente realizzata dall’autore, prende gradualmente forma (destinale?), di pagina in pagina, la proposta di un viaggio negli spazi e nei tempi del cinema. Nella grande mappa della storia del cinema disegnata da Surace è impossibile fermarsi. Ogni nodo ne richiama svariati altri. Metterli in un ordine definitivo è impossibile, quello che si può tentare di fare è di isolare delle costellazioni, provare a tracciare degli schemi, nella consapevolezza che il loro dinamismo rifiuterà in un certo senso questa operazione. Il volume quindi, secondo una missione che forse è il presupposto dell’intero progetto, pare costruito come una sinusoide, a tratti curvando in profondità su elementi significativi di certo cinema, a tratti invece risalendo in velocità attraverso titoli e catalogazioni. Un viaggio multiforme come l’oggetto che si propone di ricercare, dove l’evidente amore per il cinema scende a patti con la necessità di articolare un quadro organico (e viceversa), con un ventaglio di strumenti e teorie (la semiologia, la narratologia, l’analisi estetico-stilistica) usati con garbo, senza prevaricare sul film, mediatore fra il soggetto e il suo modo di darsi e dare significato ma anche organismo pensante con aspetti di ineluttabilità e, in una certa misura, di mistero. Proprio come il destino.

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Di solito nelle premesse si trova suggerito ciò che il libro vuole essere, rappresentare, fare. In questo caso sembra più consono iniziare esplicitando, sin da subito, cosa questo libro non è: mossa necessaria per liberare un po’ la strada da possibili confusioni. Dicendovi cosa questo libro non è, indicherò anche, per opposizione, le molte cose che questo libro vorrebbe essere. Anzitutto questo libro non è un manuale, almeno non in senso stretto. Perché ci sia un manuale, una disciplina deve essere sedimentata abbastanza da poterne raccogliere il funzionamento per sommi capi. Oggi su internet esistono manualetti e manualini, e sono certo se ne trovino anche in libreria, su come si fa il giusto selfie, sulle regole estetiche delle riprese droniche, sulla cucina vegana. Questi campi del sapere sono sì tutto sommato relativamente recenti, ma abbastanza consolidati perché qualcuno si possa mettere a tirare le fila e a decidere, induttivamente, le regole d’ingaggio per entrarvi o per muoversi al loro interno. Al contrario questo libro parte da esperienze e oggetti su cui i manuali traboccano, ma tenta di declinarli in vista di un nuovo obiettivo. Non può dunque avere le pretese di un manuale. I manuali infatti, utilissimi, chiudono una serie di orizzonti conoscitivi, operano una sorta di cauterizzazione che stabilisce, in un dato momento storico, come certi campi funzionano o debbono funzionare, salvo poi nelle edizioni aggiornate, rivedute e corrette, aggiustare il tiro, rilanciare, ritrattare. Un libro sperimentale invece apre o riapre un campo, prova a innestare un nuovo orizzonte epistemico. Più che un manuale il libro che avete per le mani è pertanto un laboratorio o un cantiere teoretico. È inoltre un cantiere aperto, che vi invita non solo a stare fuori, con le braccia dietro la schiena, a osservare come i pensionati del luogo comune, ma a prendere gli strumenti che vi trovate disseminati e a provare, se vi va, a intervenire. Questo libro non è un’enciclopedia, né un compendio. Vale la pena dirlo dal momento che data l’ingente quantità di film che popolano le sue pagine qualcuno potrebbe frettolosamente sostenerne tale natura, così rendendo un 23

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disservizio duplice, al libro stesso e, soprattutto, alle enciclopedie. Forse ha una portata, per così dire, enciclopedica, ma come mi sono sforzato di chiarire sin dal suo inizio, il rimandarsi costante di film in film e di testo e in testo è del tutto propedeutico alla metodologia che propongo, che si basa anche sul rilevare di una galassia filmica intertestuale, in espansione, dinamica e sinaptica: nella misura in cui ogni connessione ne accende simultaneamente delle altre. Uno dei miei sforzi è stato quello di seguire, affannosamente e per quanto possibile, questa rete di interconnessioni che continuava a espandersi man mano che scoprivo un nuovo nodo. Non è inoltre un’enciclopedia perché la mappatura, proprio per via della sua reticolarità, soprassiede le logiche del compendio classico, e perché le tassonomie proposte fanno sì che per i film di cui parlo mi concentri al contempo su elementi noti, ma anche su dettagli narcotizzati, senza seguire un protocollo uniforme, ma piegandomi alle curve del percorso argomentativo. A proposito, ecco soprattutto perché non è un’enciclopedia: il libro è sorretto da un percorso argomentativo. Non mancherò, in ogni caso, di introdurre le mie analisi filmiche con gli elementi di trama e contestuali utili a non smarrirsi. Questo libro non è facile. Questo è un punto fondamentale, e, vi prego di credermi, non è dovuto a nessuna mia sadica volontà. Non è facile perché congloba una serie di mie convinzioni (o manie, o fisse, o ossessioni), le quali per essere ordinate necessitano di un certo spazio e di un certo sforzo (così come per essere comprese, e per entrarvi come lettori, di un certo tempo e di altrettanto sforzo). Sono convinzioni di natura teorica che soggiacciono all’oggetto stesso del libro, la destinalità nel e al cinema. Riguardano l’idea che la ricerca nelle materie umanistiche debba comprendere una serie di elementi, che sono essenziali a renderla viva: sporcarsi le mani, con l’humus dell’umanesimo, fatto di miriadi di testi, teorie, nomi, che si intersecano in un groviglio entro il quale bisogna muoversi un po’ schizofrenicamente, lasciandosi cioè al contempo rapire dalla vertigine, ma anche cercare delle formule di dipanamento, delle possibili mappe. Riguardano ancora l’idea che, sebbene l’Accademia alle volte ci spinga a difendere i nostri orticelli versandovi il sale attorno o costruendo fossati, e sebbene alla fin fine il miraggio della Tuttologia rischi di renderci poco efficienti o poco seri, non è possibile fare un libro di cinema senza dialogare, almeno idealmente, con chi si occupa di sociologia, psicologia, filosofia, semiotica, e via discorrendo, perché un film è sempre fatto da persone e visto da altre persone, che hanno o non hanno un lavoro, dei problemi, delle passioni. Con ciò non voglio dire che non siano necessari nel mon-

do gli esperti di un dato regista o gli specialisti di una singola corrente, e anzi sono fondamentali per davvero. Voglio dire che c’è altrettanto bisogno di smarcarsi da una certa logica del purismo a tutti i costi e dell’egemonia disciplinare (che è il riflesso, spesso consapevole, del più pericoloso spettro dell’egemonia culturale). È dagli scambi e dagli imbastardimenti che spesso sortiscono i risultati più pregevoli. È una china rischiosa, ma è nel rischio che si trova il senso. In questo libro dunque c’è il sudore di un progetto non dimentico di alcune convinzioni, per così dire meta-teoretiche, che contribuiscono a renderlo il microcosmo che è. Piacerebbe inoltre dire, come capita in certi libricini simpatici, che chi non è interessato a questa o quella questione può tranquillamente scavallare e andare oltre. Operazione senz’altro fattibile, ma per onestà intellettuale devo dirvi che pone alcuni problemi. Se si salta l’introduzione, allora si potrà godere della cornucopia di riferimenti e analisi cinematografiche che ne conseguono, rischiando però il disfarsi del collante teoretico che li tiene assieme. Se invece si è, per così dire, dei feticisti semiotici, affamati di metalinguaggio, e si sceglie quindi di leggere solo l’introduzione, si rischia di calarsi esclusivamente nella teoria, senza poi avere il piacere di sperimentarla e tentare di falsificarla con gli esempi che ne conseguono. È un piacere questo forse un po’ perverso, ma le teorie hanno bisogno di essere messe alla prova. Insomma, è un bel pasticcio, e duole dire questa volta che sebbene certe parti possano apparire come compartimenti stagni e autosufficienti (è così che li ho scritti per facilitare la lettura), io consiglierei una lettura integrale e sequenziale, che è poi una specie di sistema premiante per il quale prima si fa palestra e fatica, e poi si gode dei frutti acquisiti. Naturalmente non s’intenda questa come una prescrizione del medico: i libri vanno letti, salvo in quegli antipatici casi come gli esami universitari, secondo le proprie propensioni. Questo è un libro scritto da chi ritiene di possedere alcune competenze principalmente in due ambiti, semiotica e cinema: quindi, riprendendo quanto detto poco fa, in esso le principali competenze da ricercare sono in questi campi. Se capitasse per le mani di un filosofo, mi scuso sin da subito se questi non troverà valorizzata a modo la sua prospettiva. Ciò non vuol dire che io non sappia che effettivamente il dibattito sul destino e sulla metafisica esiste da millenni, ed è articolato e complesso. Tuttavia, ricapitolare la storia della metafisica sarebbe costato, oltre a qualche migliaio di pagine, una fuoriuscita dal seminato che avrebbe fatto dissipare lo spirito dell’intero percorso. Le pagine che seguono, ancorate a determinate prospettive ma in un certo sen-

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so porose e volutamente permeabili, costituiscono invece una porta appena aperta, pronta al passaggio di molte metodologie. Viene infatti scelta una prospettiva umanistica piena, di tipo inclusivo. Già che ci siamo, è bene che dica anche a coloro che invece sono già addentro alla storia del cinema o alla filosofia del film, ai cinefili o ai semiofili all’ascolto, che se il gioco che intendono giocare è la ricerca della parzialità, la caccia al tesoro del film mancante, o il vaglio dell’imprescindibile rimosso, allora sventolo da subito bandiera bianca. Hanno vinto loro, ma ho il dubbio che stiano giocando al gioco sbagliato. Questo libro è, o meglio vorrebbe essere, almeno in qualche momento, da qualche parte, o per fare il semiotico “sotto qualche rispetto”, un piacere, una sfida, un’esortazione. Ecco anche perché al suo interno troverete accostamenti ardimentosi: Z la formica e Clint Eastwood, Qui Quo Qua e David Lynch, Walt Disney e Stephen King, Yasujirō Ozu e il Ragionier Ugo Fantozzi, e mi fermo per non spoilerare, come usa dire oggi, ulteriormente. Sarebbe disonesto dirvi che tali accostamenti sono stati pensati esclusivamente per il vostro divertimento, e ne andrebbe a detrimento l’impianto scientifico dell’intera trattazione. Siamo di nuovo nell’ambito del dialogo ideale, delle sinapsi attivate, della grande intelaiatura retta su nodi che parrebbero eterogenei, ma che invece stanno assieme alla luce di qualche pertinenza condivisa. Che ai Simpson consegua Alain Resnais (o viceversa) è un dato che va motivato, e ho tentato di farlo. Sarei altrettanto disonesto però se non vi dicessi che mentre trovavo i nessi e facevo le mie piccole scoperte ho faticato molto e mi sono divertito un sacco. Spero che un po’ di questo divertimento possa passare anche a voi, e che sulla scia della mia vertigine possiate a vostra volta identificare ulteriori nodi e verificare, rivedere, ampliare la mia proposta teoretica. Se ciò avverrà, questo libro avrà compiuto il suo dovere. Prima quindi di lasciarvi al viaggio, c’è un piacere che è tutto mio, ed è quello dei ringraziamenti. Questo libro, nella veste che oggi voi maneggiate, semplicemente non esisterebbe senza i contributi, generosissimi, di Silvio Alovisio. La sua introduzione è solo l’ultimo di questi. Silvio è un amico e un maestro, con il quale dire che il dibattito è costantemente produttivo è un eufemismo. È stato mio docente di cinema, e la sua passione, conoscenza, e curiosità sono motivo di sincera stima. Il fatto che si sia fatto carico di leggere queste pagine in anteprima è 26

motivo d’orgoglio per me, e garanzia per voi, e gli sono immensamente grato. Spero che questo volume non sia che l’inizio di molti altri progetti assieme. Voglio altresì esprimere i miei più sentiti ringraziamenti a Ugo Volli, che ha generosamente seguito la lavorazione di questo libro a vari stadi, quando ancora era un prototipo, e fornendomi con la solita, impressionante lucidità, consigli preziosi. Ugualmente preziosissimo è stato il supporto di Peppino Ortoleva, le cui indicazioni ho naturalmente raccolto a mani basse, e con cui i dialoghi, anche quando non si trattava esplicitamente degli argomenti di queste pagine, sono stati da me appuntati, interiorizzati e riversati qui. Allo stesso modo ci tengo a ringraziare Giulia Carluccio, per il costante coinvolgimento nelle pregevoli attività che conduce, dalle quali molti impulsi ho attinto, per avermi invitato in tempi non sospetti a discutere pubblicamente della ricerca che ha condotto a questo volume, e per il dialogo che sempre mi accorda con grande prodigalità. E ancora desidero dedicare un ringraziamento speciale a Massimo Leone. Nelle pagine dei suoi scritti, nelle conferenze che ci hanno visti relatori assieme in questi anni e nel suo instancabile lavoro, contrassegnato da una speciale libido intellettuale, ho trovato e trovo forti ispirazioni, alcune delle quali vivono oggi in questo libro. Voglio ancora ringraziare Laura Rascaroli, squisita intellettuale, e Ruggero Eugeni, vulcanico filosofo, i cui rispettivi consigli e la cui immensa pazienza hanno dato un contributo fondamentale allo sviluppo della mia trattazione, calandosi nel dibattito che ho intavolato e partecipandovi attivamente. E altresì desidero dedicare un ringraziamento a Dario Tomasi. Ho seguito i suoi corsi di cinema molti anni fa, e seguo il suo infaticabile lavoro ancora oggi, da cui traggo costanti idee e rivelazioni. È un piacere immenso per me ringraziare qui anche Lucio Monaco, solerte e benevolo nei miei confronti, bacino inesauribile di stimoli, mio autentico modello intellettuale da tempo immemore. Ancora non devo, ma voglio ringraziare gli amici e i colleghi che costantemente condividono con me le durezze della vita accademica, e con i quali nonostante ciò, stoicamente, continuiamo a intraprendere vitali discussio27

ni. Anche di queste vi è traccia nel libro. Grazie quindi a Federico Biggio, Eleonora Chiais, Alessandra Chiappori, Victoria Dos Santos, Vincenzo Idone Cassone, Gianmarco Giuliana, Gabriele Marino, Roberto Mastroianni, Antonio Santangelo, Simona Stano, Mattia Thibault, Federica Turco.

Introduzione Non è che accadano a ciascuno cose secondo un destino, ma le cose accadute ciascuno le interpreta, se ne ha la forza, disponendole secondo un senso – vale a dire, un destino. Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 25 gennaio 1948

Se poi c’è ancora un piccolo spazio, quello usuale per le dediche, allora consentitemi di farle senza troppi giri di parole, ma davvero col cuore: a Elisa, mamma, papà. Bruno Surace Il varco strettissimo

Cesare Pavese, il 25 Gennaio 1948 e con una straordinaria forza di sintesi, racchiude in poche parole quello di cui stiamo per andare a discorrere. Lo fa in un diario intimo, che verrà poi pubblicato con il titolo Il mestiere di vivere, concrezione che ancora più ermeticamente riassume il nostro esergo. Un esergo che si estrinseca – oltre la volontarietà dell’atto poetico di Pavese – come summa programmatica delle discipline semiotiche: greimasianamente, “dire qualcosa di sensato sul senso”; che, aggiungiamo qui, è il senso ultimo, definitivo, metafisico. Le cose. Il loro accadere. L’interpretarle secondo un ordine, cioè l’interpretarne l’accadere. Il farlo se si ha la forza. Il dare un nome – destino, fato, sorte, fortuna… – a questa operazione. Concorrono in questo elenco dimensioni ontologiche (le cose) e istanze metafisiche (il loro accadimento), eppure lo snodo esistenziale è semiotico ed ermeneutico: è l’interpretazione, il cui atto è «risultato di una serie di scelte che noi compiamo in base a una ipotesi complessiva di senso»1, a stabilire il nesso fra la cosa e il movimento. Movimento che, sulla lezione di Genette2, non può darsi senza la cosa, che però di per sé non può far altro che muoversi, senza spiegarci il perché. Eppure è la domanda fondamentale, quella che ci attanaglia nella situazione di dolore: perché è successo? Perché proprio a me? Così come quella che impreziosisce il nostro significare la felicità: se quel giorno non fossi passata di lì, tu, amore mio, non saresti entrata nella mia vita. Ugo Volli, Manuale di semiotica, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 135. Gérard Genette, Figure 1. Retorica e strutturalismo, tr. it. Einaudi, Torino, 1966, pp. 152-163. 1 2

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Ora, se dunque il ruolo cardinale è quello della significazione, occorre divincolarsi nel “varco strettissimo”, quello che secondo Greimas si situa tra logica e metafisica3, e che a tentare di farne fuoriuscire qualcosa «si rischia di scontentare tutti». Ma cosa significa situarsi nel varco strettissimo? Significa non voler rispondere alla domanda fondamentale del perché – questo è compito di filosofi o, semmai, di santi – ma piuttosto comprendere come tale domanda sia tradotta di cultura in cultura, quali morfologie e propaggini del senso determini e quali immaginari se ne traggano. Significa non porsi più il problema della metafisica, «nella ricerca dell’uomo di un orientamento radicale della sua situazione», nel «sapere radicale»4, quanto quello della destinalità, che invece nei testi c’è, anche se dobbiamo capire cosa è, e come trovarla. E poi, fatto ciò (non è certo lavoro da battibaleno), con un pizzico di ardimento si potrà con più cognizione avanzare qualche conclusione, non tanto sul senso del mondo, quanto sul senso dal mondo. Per chi è un fideista semiotico, fra le due preposizioni articolate non correrà alcuna differenza. Un salto al cinema Prima di comprendere come trovare e cosa farcene della destinalità sarà bene mettere alcune cose in chiaro. Anzitutto è necessario circoscrivere il campo. Siccome l’immaginario metafisico è dappertutto – in altre parole: in ogni testo vi è una destinalità – sarebbe quantomeno tracotante (oltre che, francamente irrealizzabile) tentare di proporre una mappatura totale della questione. Bisogna inevitabilmente circoscrivere, ma ciò non significa che tale circoscrizione sia arbitraria. Ci muoveremo così nel campo specifico del film, e ciò per ragioni molteplici. Il film sarà, al contempo, oggetto e metodo di studio, se ciò non appare troppo metasemiotico. Si condurrà cioè un’analisi che tratterà «l’idea stessa di film come testo, nonché […] come singolarità»5, agendo, secondo la definizione di Odin6, su due livelli: «quello dell’analisi filmica in quanto

riflessione sul film; quello della riflessione sull’analisi del film che l’analista sta compiendo»7. Bertetto inserisce queste considerazioni all’inizio del paragrafo di Metodologie di analisi del film in cui esplica la rilevanza del metodo strutturalista nell’analisi filmica. Rilevanza che oggi ci pare trascurata, ma che cercheremo invece, fra le altre cose, di tenere di conto, facendo tesoro dei tanti autori che si sono avvicendati nell’esplorare la questione: Aumont e Marie, Casetti e Di Chio 1990, Vanoye e Goliot-Lété8, e molti altri. Ciò non significa che si proporrà una semiotica del cinema; una semiotica del cinema infatti sembra oggi un progetto a perdere, almeno se pensata nei termini che usualmente si associano alla locuzione. Troppo stantia, troppo legata a problematiche che ci paiono da un lato mai risolte, dall’altro oggi compassate e superate. Se il cinema, per dirla come Christian Metz, sia langue o langage9, è per esempio una questione fittizia, che ci porta a problemi relativi al codice di echiana memoria (ne La struttura assente vi è un capitolo proprio dedicato al problema)10. Il film verrà letto qui come qualcosa di linguistico, un testo determinato da un intrinseco sincretismo, e quindi anche un costrutto olistico. Di contro lo si considererà anche come testo che in quanto tale presenta un nucleo di singolarità irriducibile. Così si determinerà un movimento elicoidale: da un lato il film, in piena ottica strutturalista, sarà sezionato, scomposto, trattato come un insieme di unità posizionabili idealmente in una griglia; dall’altro esso verrà invece considerato come un sistema organico, che genera senso in quanto unità. Questa seconda considerazione ci è fondamentale. Una delle più (pre)potenti accuse verso la semiotica del cinema, che in fondo non possiamo non avallare, è sempre stata quella di «violentare l’anima del film». Esso funziona come una Gestalt, una struttura architetturale, relazionale e dinamica come suggerisce Botz-Bornstein11, che certe pratiche invasive rischiano di far decadere, perdendo di vista l’unitarietà del testo. L’unico modo che ci pare intelligente per evitare questo rischio è di procedere

Cfr. Algirdas J. Greimas, Du sens. Essais sémiotiques, Seuil, Paris, 1970. José Ortega y Gasset, La ragione nel mare della vita. Principi di metafisica secondo la ragione vitale, Armando, Roma, 2011, p. 46. 5 Paolo Bertetto, Metodologie di analisi del film, Laterza, Roma 2006, p. 11. 6 Cfr. Roger Odin, Dix années d’analyses textuelles de films. Bibliographie analytique, “Linguistique et sémiologie”, Travaux du Centre de Recherches Linguistiques et Sémiologiques de l’Université de Lyon II, 3, 1977.

Ibidem. Cfr. Jacques Aumont, Michel Marie, L’analyse des films, Nathan, Paris, 1988; Francesco Casetti, Federico Di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano, 1990; Francis Vanoye, Anne Goliot-Lété, Précis d’analyse filmique, Nathan, Paris, 1992. 9 Cfr. Christian Metz, «Le cinéma: langue ou langage?», «Communications», 1964. 10 Cfr. Umberto Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano, 1968. 11 Egli lo fa a proposito del lavoro di Béla Tarr, ma il suo discorso è applicabile al cinema in generale. Si veda Thorsten Botz-Bornstein, Organic Cinema: Film, Architecture, and the Work of Béla Tarr, Berghahn, New York, 2017, p. 99.

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quindi non dimentichi dei formidabili strumenti che l’analisi formale ci può fornire, sorvegliando però al contempo il testo come unità. E ciò vale non solo per il film, ma per il testo in genere. In questo senso ci pare che l’accanimento verso la semiotica del cinema, ottusa forse ma anche ingenua, abbia un che di smaliziato, se non addirittura di malafede, e celi in realtà un biasimo più profondo, in generale rivolto alla semiotica tutta (perché la foga riduzionista del bisturi varrebbe per la semiotica del cinema e non, per esempio, per quella della letteratura, delle religioni, del cibo, della musica, dei videogiochi?). Questa è da troppo tempo concepita come una disciplina ritorta su se stessa, eccessivamente metalinguistica, quando invece è nel metalinguaggio, nel suo «impianto categoriale sistematico e interdefinito»12, che risiede la sua forza. Se la semiotica ha sbagliato qualcosa (cosa di cui francamente dubitiamo, se solo pensiamo che quelle che facciamo sono sempre humanities, e che uno dei vanti dell’umanesimo dovrebbe proprio essere una certa epistemologia dell’elasticità), questa è stata l’eccessiva compartimentazione in campi di sapere erroneamente considerati autonomi, ognuno dei quali, di sua “natura”, ha richiesto un certo affinamento negli strumenti di analisi. Quando in realtà l’oggetto di studio è infine sempre lo stesso: la cultura. «La semiotica […] si dà come comprensione della cultura […]»13. Ciò che vogliamo sostenere è che tutte le semiotiche, quando ben condotte, sono semiotiche della cultura o, anche, quasi-sinonimicamente, semiotiche esistenziali, cioè discipline che mirano a stabilire come le culture funzionano, come producono senso, a partire dai propri testi, e in che modo significano il nostro vivere. Così per noi i film sono oggetti di studio e metodo perché, come tutti gli altri testi, sono prodotti della cultura ma anche produttori di cultura. La semiotica parte dal testo per dedurre risultati di ordine più generale, ma infine sul testo ritorna, in quanto prodotto e produttore. Nel merito dei film: è evidente che questi influenzano ampiamente le culture e le esistenze. È senz’altro indicativo il fatto che sia pratica più che comune, nei social media, a lavoro, a scuola, impiegare il tempo libero per discutere su questo o quel film o questa o quella serie tv (non ci interessa qui trattarli come qualcosa di diverso,

sono, in qualche modo, film)14, creando su tali basi comunità e modificando il proprio umore, le proprie convinzioni, le proprie aspettative sul mondo. Se non è cultura questa. Così come non smetterà mai di colpirci uno dei modi attraverso i quali l’ISIS fa proseliti, e cioè producendo filmati che proprio dai film attingono interi immaginari e registri formali. I film agiscono, impattano significativamente nella vita di tutti, e in questo senso sono per noi oggetto e metodo. Potremmo così dire che stiamo per fare più che una semiotica del cinema una cinesemiotica. Non una semiotica del cinema ma una semiotica fondata sul cinema. Fra Film Theory e semiotica I film pensano. I film sono filosofia. I film sono nel mezzo Queste tre esili quanto fulminanti asserzioni ci guideranno nel nostro viaggio attraverso il cinema destinale. Le ricaviamo da Laura Rascaroli, che ha focalizzato l’idea di thinking cinema sugli essay film, film che mentre sono film sono anche manifesto pensiero sul cinema15, e che noi tentiamo di estendere invece al cinema in toto, cioè tracciando «the essayistic not within a fixed generic form but within a method of filmic thinking that exists and thrives in gaps»16. I film dunque pensano. Ciò non significa che sono vivi, ma che il rapporto fra le loro singole parti e l’unitarietà che li compongono genera senso. E questo alla semiotica è ben chiaro. L’idea però che pensino ci dice qualcosa di più, e cioè che manifestano un’agentività particolare sul mondo, una capacità di modificarlo nelle sue strutture mentali. Un film, in altre parole, non è un oggetto da guardare, ma un soggetto che guarda (che ha guardato) con gli occhi del suo autore e che dialoga con il

12 Stefano Traini, Le due vie della semiotica. Teorie strutturali e interpretative, Bompiani, Milano, 2006, p. 341. 13 Anna Maria Lorusso, Semiotica della cultura, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 97.

Non è cioè questa la sede per vagliare le differenze, che pure, ne siamo ben consapevoli, sussistono, fra serie tv e cinema in senso stretto. Chi volesse approfondire la questione può rivolgersi, per esempio, a Guglielmo Pescatore, Ecosistemi narrativi. Dal fumetto alle serie tv, Carocci, Roma, 2018, uno dei più recenti testi su quelli che vengono definiti ecosistemi narrativi. 15 Cfr. Matteo Colombi, Stefania Esposito (a cura di), L’ immagine ripresa in parola: letteratura cinema e altre visioni, Meltemi, Roma, 2008, pp. 77-78. 16 Laura Rascaroli, How the Essay Film Thinks, Oxford University Press, New York, 2017, p. 21.

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soggetto della sua percezione, il pubblico. […] Ogni film, dunque, è un pensiero, un pensiero che guarda17.

Giacci, che di fatto riflette in sede squisitamente semiotica (il titolo del suo volume è Immagine immaginaria. Analisi e interpretazione del segno filmico), prosegue poi muovendo le mosse sulle domande che si pone Jacques Aumont circa l’oggetto del pensiero del film18: alle quali risponde avvalendosi del lavoro di Godard, che è a tutti gli effetti considerato filosofo. I film sono dunque intesi come manifestazione di filosofia in quanto tale, prima ancora di contenere qualcosa, così come una tradizione ricca e variegata ha ampiamente dimostrato, da Ėjzenštejn  a Deleuze, da Delluc a Epstein, da Eco a Pasolini, da Barthes a Casetti, e così via. Tutti autori che hanno sempre affiancato (se non giustapposto) filosofia e semiotica, senza troppi bisticci. Sono filosofia perché «i film pensano da soli»19, rilevazione che ha in sé anche qualcosa di consolatorio (quando uscendo dalla sala dopo aver visto un film di David Lynch ci sentiremo smarriti potremo sempre dire che non siamo noi a non avere capito, ma che è lui che è matto, e non Lynch, ma il film!)20. Essi dunque possono essere adottati come base per la costruzione di apparati teoretici complessi per decifrare la realtà, come tenteremo di fare. Chi dice che “la vita non è un film” ha quindi ragione solo a metà, visto il condizionamento, la significatività21, inarrestabile del cinema – e del mondo

che gli ruota attorno – nella vita di tutti e di tutti i giorni, da più di cent’anni. E nonostante qualcuno continui a sostenere che il cinema è morto, così, come vuole la sapienza popolare, allungandogli ancora un po’ la vita 22. E ancora i film sono nel mezzo, nell’in-betweeness, nell’interstizio23, nel frammento: Il frammento, la cesura, il detrito resiste e arrestando il pensiero accede all’inespresso, alla sua potenza che sottrae ogni pretesa di totalità, la cesura (in senso holderliniano) […] lascia sfuggire un’immagine impensata che è tempo in sé, il cui fluire si dà nell’arrestarsi impossibile dell’attimo, e del pensiero con esso, in un intervallo, in un “tra”24.

E a piena ragione Rascaroli sostiene che è proprio nell’interstizio che bisogna andare a cercare, non solo in quello intrinseco al film, che ne fa ciò che è (lo stacco da un’inquadratura all’altra, per esempio), ma proprio nell’interstizio che lo stesso film genera nella cultura, aprendo a possibilità di senso inesplorate, squarciando la semiosfera, rideclinandone la morfologia. L’in-betweeness è dunque il varco strettissimo di cui sopra, quello generato dal testo che apre la cultura verso nuove possibilità di semiosi. Solo che noi guardiamo al varco dall’esterno, il film ci guarda dal suo interno. Il rapporto è proprio nello sguardo, che in definitiva si stacca da entrambi vivendo da sé. Come scrive Cantone, sulla scorta di Merleau-Ponty, «siamo dei visti prima di essere dei vedenti»25, o come direbbe Žižek, sulla scia del grande Altro lacaniano, «il soggetto ha infatti

17 Vittorio Giacci, Immagine immaginaria: analisi e interpretazione del segno filmico, Città nuova, Roma, 2006, p. 205. 18 Cfr. Jacques Aumont, L’esthétique du film, Nathan, Paris, 1983. 19 Cfr. Damiano Cantone, I film pensano da soli. Saggi di estetica del cinema, Mimesis, Milano-Udine, 2012. 20 Inizia a diffondersi un paradigma per cui la filosofia, specie nell’era delle iperdiegesi, debba programmaticamente farsi romanzo, cioè innestarsi nella fiction come modus pensandi, al fine di evitare di incancrenirsi su formule di logos le quali senza un approccio letterario andrebbero sistematicamente incontro, per così dire, a sterilità (all’incapacità di non dire altro che se stesse). Soggiace a questa impostazione, debitrice del pensiero di Barthes, Derrida, Eco, e molti altri, l’idea della letteratura come una forma di filosofia (se non addirittura come la forma di filosofia). Impostazione che ci trova pienamente concordi, e che trasportiamo qui dalla letteratura propriamente detta alla sua forma cinematografica. Su questo paradigma il più recente contributo è Simone Regazzoni, Iperomanzo. Filosofia come narrazione complessa, Il melangolo, Genova, 2018. Cfr. anche Stefano Poggi, L’ io dei filosofi e l’ io dei narratori. Da Goethe a Proust, Raffaello Cortina, Milano, 2011. 21 Cfr. Francesco Casetti, Teorie del cinema: 1945-1990, Bompiani, Milano, 1993, pp. 287-310.

22 Ho sostenuto questa tesi già a Cork, il 19 Maggio 2017 per la Alphaville Conference, con un intervento dal titolo Forever Dying: Film and the Aesthetics of the Coma, in cui ho postulato l’immortalità del film come pure il suo stato perennemente comatoso, sempre morente ma mai morto. Cfr. anche Bruno Surace, «Semiotics (of Cinema)’s not Dead», in Audroné Daubariené, Simona Stano, Ulrika Varankaité (a cura di), Atti del 13th World Congress of Semiotics IASS, 2018. 23 Così come “interstiziale” è sempre stata la teoria del cinema, «tale cioè da formarsi e riconoscersi sostanzialmente attraverso il dialogo con altri campi disciplinari», Ruggero Eugeni, Adriano D’Aloia (a cura di), Teorie del cinema. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina, Milano, 2017, pp. 9-10. 24 B. Roberti, «Immagini in fuga», in A. Canadè, a cura di, Benjamin, il cinema e i media, Pellegrini, Cosenza 2007, pp. 162-163. 25 Damiano Cantone, I film pensano da soli, cit., p. 18. Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Le visible et l’ invisible, Gallimard, Paris, 1964 e dello stesso autore, Fenomenologia della percezione, tr. it. Il Saggiatore, Milano, 1980.

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bisogno dello sguardo che funge da garante ontologico del suo essere»26. Il film, così come ogni altro testo, è nell’interstizio, «in fondo al semiotico»:

il senso stesso ha, per la teoria semiotica, statuto di inconscio, in una accezione molto vicina al “mistico” wittgensteiniano; essa pone il senso come un limite, come un orizzonte di iscrizione del proprio discorso, più precisamente come materia inarticolata che sfugge alla sua possibilità di dirlo e di coglierlo se non attraverso articolazioni che appunto lo convertano in significazione. È quello spazio topologico e interstiziale delle superfici di Deleuze […]27. Di questa interstizialità, che si evince sempre indagando la più o meno palese metalinguisticità del film, si renderà ulteriormente conto. L’esempio, il corpus, l’accumulo La moltitudine di testi che saranno analizzati nel corso del volume va quindi intesa come qualcosa in più che non un semplice insieme di esempi; l’esempio infatti prevede sempre una parte esemplificata e si configura come supporto di una teoria28. Qui certamente varrà questo rapporto, ma i sistemi di accumulo di ogni capitolo mireranno anche a delineare precise tipologie e morfologie del senso. Quando si ragiona di destino e destinalità (i due termini – come si preciserà – non sono affatto sinonimici), come vedremo, le visioni si moltiplicano. Anche per questo motivo il corpus risulta estremamente vasto, poiché ogni sua componente in realtà aggiunge dati fondamentali all’insieme organico. Il testo qui è dunque inteso precipuamente come una particella “parasineddotica” della cultura, una parte del tutto prima ancora che una parte per il tutto. Di conseguenza, tanti più testi si indagano, tanto più la mappatura di una cultura o di un dominio esistenziale tende a una rappresentazione asintoticamente prossima al reale (ovviamente sempre perfettibile). Per questo motivo

procederemo attraverso una precisa metodologia dell’accumulazione, trattando i nostri casi con molteplici strumenti. Non esiste un unico metodo per fare una cinesemiotica che sia una semiotica della cultura. Ogni testo, come se vivesse di una spontanea volontà, invita “naturalmente” l’analista a considerarne delle parti ed eluderne delle altre, in maniera tale da inserirsi in un discorso organico sul senso. Ciò richiede uno sforzo immane, per fare sì che il discorso rimanga teoricamente saldo e non svanisca in mere elucubrazioni. Così, nella convinzione che gli strumenti della semiotica funzionino quando posti a dialogo, nella nostre pagine si interfacceranno e compenetreranno analisi improntate alla narratività con analisi dedicate alle componenti formali di costruzione dell’immagine, e ancora analisi dedicate al montaggio, al sonoro, a temi, a dialoghi, a specifiche sequenze, a componenti simboliche, a istanze di enunciazione e ricezione, a blocchi filmici autosufficienti, a incipit, a retoriche discorsive, a finali, a trame, a interi film (cioè a film considerati come un Uno, nella loro singolarità) o viceversa a singole inquadrature. Tracceremo una storia del cinema che si farà storia, in qualche modo, della cultura 29. Come siamo convinti che sia impossibile elaborare una teoria organica dei generi poiché ogni film e ogni testo convogliano in sé specificità di questo o quel canone30, rifuggendo una compartimentazione stagna, così siamo convinti che per comprendere la cultura sia necessario effettuare un immenso sforzo di elasticità e resilienza, calandosi consapevolmente nei suoi disordini e “unendo i puntini”, puntini che prima ancora d’essere uniti vanno individuati, per far emergere determinate morfologie. Si rende necessario evitare di trattare i film come entità tutte uguali; il film va accondisceso, assecondato nelle sue parti molli e contrattaccato nelle sue parti dure.

Slavoj Žižek, Dello sguardo e altri oggetti. Saggi su cinema e psicoanalisi, tr. it. Campanotto, Pasian di Prato, 2004, p. 36. Nel merito cfr. anche Damiano Cantone, I film pensano da soli, cit. e Massimo Giuseppe Eusebio, Lo sguardo dello schermo. Teorie del cinema e psicoanalisi, Franco Angeli, Milano, 2017. 27 Francesco Marsciani, In fondo al semiotico, Esculapio, Bologna, 2012, p. 87. 28 Cfr. Damiano Cantone, I film pensano da soli, cit.

È doveroso qui muovere una premessa. Una “totale” storia del cinema esula dalle nostre intenzioni, essendo peraltro, de facto, impossibile. La nostra trattazione sarà dunque in questa sede necessariamente parziale, concentrata perlopiù sul cinema occidentale ed europeo, con incursioni tendenzialmente esemplificative nei vari cinema transnazionali. Si renderà insomma conto di una pluralità di visioni, comunque necessariamente focalizzando l’attenzione su un già molto ampio campo di indagine. Fare altrimenti significherebbe estendere il lavoro a svariatissimi universi, ognuno necessitante di specifiche competenze linguistiche e antropologiche. I risultati, naturalmente, potrebbero essere di grande rilievo (si potrebbero per esempio comparare destinalità diverse su consimili terreni di produzione testuale). 30 È, questo, un tema di rilevanza fondamentale, acuita dal pastiche tipico del cinema postmoderno e contemporaneo ma in nuce presente sin dal cinema delle origini, tendenzialmente più canonizzato. Per un buon primo approccio cfr. Raphaëlle Moine, I generi del cinema, tr. it. Lindau, Torino, 2005.

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I testi dunque sono esempi innanzitutto di se stessi e del contesto socioculturale (o sociopolitico) ove sono generati31. In questo senso ci muoveremo seguendo la prospettiva teoretica adottata per esempio da Slavoj Žižek, che usa attraversare i film considerandoli come realtà autonome e indipendenti interrelate con la nostra 32, e ripresa da Cantone che infatti sostiene come «accanto al ruolo chiarificatore, l’esempio costituisce davvero un doppio vincolo tra realtà e teoria, tra particolare e universale che non è possibile scindere, pena la caduta in una posizione astratta e unilaterale»33. Sarà necessario comunque, come abbiamo anticipato, identificare dei precisi criteri di pertinenza: si può procedere in diversi modi, ma quello che ci sembra più consono in questa sede è identificare dei macrotemi che sono universalmente associati al destino, o, meglio, alla destinalità. Decisione che ha a che fare con precise istanze psicosociali, giacché quando significhiamo l’incedere degli eventi lo facciamo sempre tematizzandoli o topicalizzandoli, collocandoli in precisi contorni tematici, in qualche modo inserendoli all’interno di sceneggiature esistenziali che possano fornire loro un senso proprio laddove non siamo per niente sicuri che vi sia. E lo facciamo, peraltro, accumulandoli, perdendo dei pezzi e sovrainterpretandone altri, come accade nel nostro semiotizzare una giornata come sfortunata (perché magari ci si è rovesciati il caffè addosso, è piovuto, si è perso il tram, e così via, dimenticando di aver ricevuto un bel messaggio da un proprio caro o di aver assistito a una meravigliosa alba). Prima tuttavia sarà bene definire una volta per tutte cosa intendiamo con destinalità. Trovare la destinalità: il destinante La semiotica generativa di Greimas descrive il senso come veicolato attraverso storie che presentano virtualmente l’avvicendarsi di sei ruoli attanziali: un destinante affida a un destinatario un qualche tipo di missione (rappresentata da un oggetto che ha un certo valore per un soggetto, tendenzialmente coincidente con il destinatario); tale missione viene o meno adempiuta in una

tensione che si crea per la presenza di un aiutante e un opponente34. Non appena usciti dall’ambito di certe storie tradizionali molto schematiche, questi ruoli finiscono spesso per sovrapporsi, ma il loro avviluppamento su un unico attore non è di per sé un problema. Il problema che qui ci poniamo è invece quello del destinante, che di per sé costituisce il principale motore narrativo o, ci si passi il termine, narratogeno, cioè l’entità, il ruolo, da cui si diparte l’intera storia, poiché esso affidando la missione al destinatario e in qualche modo sancendo l’oggetto di valore costituisce la scarica di movimento che sblocca un contesto altrimenti statico, come messo in pausa. Il destinante imprime la narrazione predestinando il testo, e nel suo imprimere risiede di fatto la destinalità, che definiamo qui come: l’andatura metasemiotica che si propaga dal destinante delineando la motilità interna (cioè l’orientamento del senso) al testo stesso. La destinalità è qualcosa che si diparte dal destinante, ma che non si esaurisce come diretta conseguenza del suo agire. La teoria semiotica greimasiana fornisce gli spunti per comprendere l’innesco e gli snodi della narrazione, ma attorno a tali snodi il testo si comporta in qualche modo, esibisce una qualche più o meno palese forma di immaginario metafisico (quello che soggiace all’esistere degli enunciati di stato e di azione), cioè esibisce un modo del succedere delle cose anziché un altro. Nel Dizionario ragionato della teoria del linguaggio alla voce destinante è scritto: Considerati come attanti della narrazione, Destinante e Destinatario […] sono delle istanze attanziali, caratterizzate da una relazione di presupposizione unilaterale (tra il Destinante, termine presupposto, e il Destinatario, termine presupponente): il che rende la comunicazione asimmetrica. Para-

31 Ciò è espresso anche ottimamente in Antonio Santangelo, Sociosemiotica dell’audiovisivo, Aracne, Roma, 2013. 32 Si vedano per esempio i due film diretti da Sophie Fiennes, The Pervert’s Guide to Cinema (2006) e The Pervert’s Guide to Ideology (2012), ove Žižek si colloca fisicamente in più o meno importanti pellicole della storia del cinema trattandole dal punto di vista filosofico. 33 Damiano Cantone, I film pensano da soli, cit., p. 28.

34 Siamo consci delle criticità di questa teoria, che rischia di incardinare in maniera troppo schematica il senso a strutture narrative “precompilate”. Tuttavia partiamo da qui per tre motivi: 1. Pur adottando la terminologia greimasiana ci riserveremo l’onere di reintrodurre il dinamismo nel divincolarsi della narrazione cinematografica, 2. Pur se criticata, quella di Greimas è a oggi una delle più salde teorie semiotiche, in grado di fornire una strumentazione effettivamente utile a comprendere il funzionamento semiotico dei testi, 3. Come abbiamo già detto, è nostro interesse non fossilizzarci entro un esclusivo orizzonte metodologico, ma tentare di farne dialogare di differenti (il vecchio gioco del dialogo impossibile fra semiotica generativa e semiotica interpretativa, un po’ come quello fra relatività einsteniana e meccanica quantistica, giustifica a oggi la vitalità di entrambe le prospettive sul senso).

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digmaticamente, il Destinante è in una relazione iperonimica in rapporto al Destinatario, che è in posizione iponimica; questa asimmetria si accentua con la sintagmatizzazione di questi due attanti […] Posto spesso come parte di un universo trascendente, il Destinante è colui che comunica al Destinatario-soggetto (che rileva dell’universo immanente) non soltanto gli elementi della competenza modale, ma anche l’insieme dei valori in gioco; è anche a colui che viene comunicato il risultato della performanza del Destinatario-soggetto, che egli ha il compito di sanzionare)35.

La voce prosegue con alcune tassonomie, come quelle di Destinante manipolatore e Destinante giudicatore, o di Destinante individuale e Destinante sociale, ma è prima di queste, nell’estratto che abbiamo riportato, che si situa la rilevanza del destinante come entità che si espleta non solo nella funzione di un ruolo, ma nella dettatura dei valori che si estrapoleranno dal testo, e nella ciclicità del suo ritorno virtuale man mano che le tappe della narrazione prendono forma. Così la presenza di destinante e di anti-destinante – sua controparte ideale – comporta nel testo la diffusione capillare di un’idea di destino che, come preciseremo a breve, è la risultante della destinalità. Parlare di destinalità significa riconoscere una fluidità ai movimenti interni al testo che dice qualcosa di se stessa. Eppure è essa in effetti il terreno di coltura di valori, presupposizioni, temi, che definiscono tutte le culture produttrici di testi. Il destinante in questo schema in effetti è, in quanto presupposto, una virtualità sopraelevata se si considera il testo come una sorta di rilievo o plastico. Esso è presupposto dal destinatario (presupponente), e trattato secondo l’analisi classica come un esserci a priori, una presenza necessaria (come è) calata dall’alto. Tuttavia il problema interessante, che vaglieremo fra gli altri, sussiste quando si considera il movimento interno al testo come costruito secondo un sistema di motivazioni, fornite dal destinante al destinatario. Ma chi ha fornito il destinante? Esso è, a rigor di logica, o il risultato di una tautologia, e cioè da considerarsi come motivato perché motivato, collocato in qualche modo alla fine (o all’inizio?) del senso, oppure si può a sua volta considerare come destinatario di un altro destinante, finanche se stesso, in una catena potenzialmente illimitata. Nelle storie, sarà bene farci caso,

il destinante è alle volte una virtualità atarassica, che conferisce la missione poiché è ciò che ne giustifica l’ontologia, e molto più spesso è invece un ente appassionato, che non dà il compito al destinatario meccanicamente ma lo fa con chiari obiettivi, risentendone su qualche livello. Che sia l’uno o che sia l’altro tipo di destinante, collocato cioè in cima alla catena dei destinanti (urdestinante) e quindi tautologia pura, o in qualche punto mediano (e quindi destinante patemico), già fornisce al testo una destinalità tutta diversa. Lo vedremo più avanti, ma tanto vale anticiparlo: la Morte è di fatto un’istanza destinale. Cioè, come diremo più largamente a breve, la presenza della Morte nel testo, sia essa posta all’inizio o alla fine, non è da vedersi come dato a se stante, ma come entità capace di modellare l’idea di destino diffusa in tutta la superficie del testo. Ora, il cinema è pieno di morti e di Morti (i primi come coloro che subiscono le conseguenze del comparire delle seconde), e delle tante che vedremo daremo senz’altro spazio a due Morti personificate molto importanti: la “morte stanca” in Der müde Tod (Destino, Fritz Lang, 1921) e la morte imperturbabile in Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo, Ingmar Bergman, 1957). Ora, queste due morti di fatto condividono le stesse proprietà funzionali, eppure la prima ci appare come spossata, quasi vogliosa di lasciare che i suoi personaggi le scampino, mentre la seconda è del tutto imperturbabile. I personaggi che ruotano attorno a queste istanze destinali così compiono dei viaggi interiori ed esteriori che hanno degli elementi di assonanza, ma che pure si discostano in relazione a speranze e ansietà connesse al manifestarsi del destino. Le due morti, di fatto figure di destinanti o anti-destinanti (attanti antitetici la cui assegnazione è di natura prospettica e ideologica), generano due destinalità differenti. Il pubblico, l’interprete, trae da queste due destinalità, che sono sotto la crosta del film e che si sviluppano secondo miriadi di soluzioni differenti che indagheremo, diverse idee di destino e, cosa assai importante, in dipendenza dei propri bisogni, enciclopedie, fissazioni, speranze o desideri è portato ad avallarne alcune più di altre. La preminenza della figura del destinante è in effetti tale da ricorrere a più riprese in tutta l’opera di Greimas36, a partire da Semantica strutturale37, in

Algirdas J. Greimas, Joseph Courtés, Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, tr. it. Mondadori, Milano, 2007, pp. 90-91.

36 Le notazioni su Greimas che seguono sono ricavate anche dall’ottimo compendio in Giuditta Bassano, Il Destinante: considerazioni sul modello attanziale fra teoria narrativa e analisi del diritto, Seminario sui Fondamenti, a cura di Francesco Marsciani, 1 Marzo 2012, Università degli Studi di Bologna. 37 Algirdas J. Greimas, Sémantique structurale. Recherche de méthode, Larousse, Paris, 1966.

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cui si riferisce alle analisi di Propp e tenta di mutuare gli attanti di Tesnière38 proponendo una formulazione conclusiva sul numero 86 di Modern Language Notes39, dove vengono strutturate come coppie agenti sui livelli del senso e del desiderio quelle di “Soggetto/Oggetto” e “Destinante/Destinatario”. Torna poi sulla questione in Del senso40, in cui nel formulare la sua grammatica narrativa istituisce un Destinante e un Destinatario-soggetto, così in qualche modo de-soggettualizzando il Destinante e cioè come dicevamo virtualizzandolo come istanza tautologica e pre-soggettuale. E ancora, dopo le formulazioni del dictionnaire, ci ritorna in Del senso II, in cui scrive: Abbiamo cercato di rendere conto dei trasferimenti di oggetti e delle comunicazioni di soggetti in un universo assiologico ridotto nei suoi termini più semplici. […] Siamo stati costretti a chiudere questo universo con l’aiuto di questi guardiani che sono i destinanti, garanti della circolazione dei valori in un ambito chiuso e mediatori fra questo universo immanente e l’universo trascendente di cui essi stessi manifestano la presenza sotto forma di attanti di una sintassi antropomorfa”. […] i destinanti, in quanto possessori di valori trascendenti, possono essere considerati come soggetti al tempo stesso reali e trascendenti, si può immaginare la loro comunicazione con i destinatari, mentre opera per conto loro nell’universo immanente. Essi rimarrebbero cioè soggetti immanenti e virtuali, almeno nel loro primo stato originario. Come soggetti, i destinanti possono essere messi in comunicazione, e il loro statuto può essere descritto in termini di enunciati canonici. C’è una certa difficoltà a descrivere questa transustanziazione dei valori trascendenti in valori immanenti utilizzandone la struttura comunicativa41.

Il destinante è dunque riconosciuto come un’entità testuale che per forza di cose, pur calandosi nell’immanenza, pertiene a un dominio trascendente. Le sue motivazioni, le sue intrinseche caratteristiche, sono imponderabili,

quando si tratti del destinante ultimo. Di lui più che conoscere l’essenza conosciamo dunque le emanazioni interne al testo, i programmi attraverso cui si manifesta una sua certa intenzionalità o “presenzialità” (l’essere presenza). Cioè: noi esperiamo la destinalità del testo come manifestazione della trascendenza del destinante. Questi è nei fatti spesso e volentieri una præsentia in absentia, che svolge un ruolo fondamentale. Un racconto, certo, è anzitutto un discorso che riporta avvenimenti, reali o fittizi, ma è anche e soprattutto un discorso che conferisce globalmente un senso al loro concatenamento, trasformando così l’evenemenziale (ossia, ciò che è avvenuto, la catena di eventi) puro in storie intellegibili. E per questo, bisogna pure che in un certo modo il racconto pervenga a rendere ragione “di diritto” di ciò che riferisce come se si fosse svolto “di fatto”. È precisamente qui che la figura attanziale del destinante è chiamata a svolgere un ruolo chiave: è essa che garantisce l’intellegibilità del narrato, a doppio titolo, al tempo stesso come istanza “mandatrice” e come istanza “giudicante”. Esercitando, a seconda del tipo di racconto che si considera, una sovranità più o meno costrittiva su una classe di attanti soggetti - protagonisti propriamente detti dell’azione raccontata- , l’attante interviene anzitutto come una potenza motivante, e talvolta esplicitamente legiferante, che, distribuendo tra i soggetti agenti alcuni valori detti modali, determina le condizioni di possibilità e, più generalmente, i princìpi regolatori delle loro azioni: il loro voler e/o il loro dover-fare, il loro poter e/o saper -fare, cioè da un lato l’ordine delle finalità perseguite dai soggetti, e dall’altro i mezzi d’azione di cui disporranno per conseguirle42.

La categoria della destinalità dunque si configura come una metasemiosica, agisce prima ancora che il testo significhi singolarmente come quell’istanza diffusa che ci dice perché il testo sta significando. Situata nel mezzo fra le strutture profonde del testo e l’emersione del senso, la sua presenza, come vedremo, si può rintracciare in sede narrativa, ma anche nel caso del cinema attorno al dispiegarsi delle componenti formali su cui è costruito il film, che contribuiscono con vigore alla fuoriuscita di effetti di senso.

Lucien Tesnière, Éléments de syntaxe structurale, Éditions Klincsieck, Paris, 1959. Algirdas J. Greimas, Grammatica narrativa: unità e livelli, in Semiotica in nuce. Vol. 1, tr. it. Meltemi, Roma, 2000. 40 Algirdas J. Greimas, Du sens, cit. 41 Algirdas J. Greimas, Del senso 2. Narrativa, modalità, passioni, Bompiani, Milano, 1985, pp. 40-41.

42 Eric Landowski, Vérité et véridiction en droit, «Droit et Société», 8, 1988, p. 46. Traduzione nostra.

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con il “perché”, traducendosi in un’interpretazione che non rileva unicamente gli eventi che compongono il testo, ma che li connette secondo ideologie, morali di fondo, sistemi di responsabilità e così via (a dire: l’Uomo Ragno salva New York perché è molto buono e altruista, e per farlo è necessario che sacrifichi la sua storia d’amore con Mary Jane). Tutto ciò, lo ripetiamo, a partire dal destinante (nel caso dell’Uomo Ragno il suo stesso spirito altruista, emblematizzato dal motto: “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”), che è in nuce istanza motivante a priori (quindi tautologica, quindi ur-destinante), o motivante poiché a sua volta motivata, e quindi destinante in quanto destinatario a sua volta di uno schema simile, situato su un livello virtuale sopraelevato a quello corrente. È bene chiarire che è quindi impossibile tracciare la destinalità a partire dalle strutture profonde del testo. Essa si può solo individuare retroattivamente, a partire dal livello della manifestazione del testo, e cioè attraverso operazioni interpretative – ricerca delle isotopie, individuazione dei ruoli tematici, rilevamento dei nessi espressione-contenuto etc. – che abbiano già individuato le ideologie attraverso le quali lo spettatore lo ha interiorizzato. Ciò vale, in realtà, non solo per la destinalità, ma anche per la semiotica attanziale classica: i sistemi di ruoli sono virtualità che si identificano ex post, sempre. Bisogna tenere presente questa dimensione a ritroso poiché ci dà conto dell’importanza del lettore, che è in effetti fuori dal testo, e la cui interpretazione agisce quindi su più livelli, spesso inconsciamente, cioè focalizzandosi sul “come”, sull’idea di mondo che congloba un’idea di destino generata dal passaggio da destinalità a senso, senza necessariamente considerarlo come l’unione di “perché” e “cosa”. Avendo dunque chiarito come in gioco vi siano tre poli – destinante, destinalità e idea di destino – che agiscono su dimensioni diverse ma interrelate, passiamo ora a indagare come tale interrelazione sia generata dai bisogni del lettore.

Lo schema ci aiuta a comprendere come fra le strutture attanziali profonde e l’emersione del senso esista uno strato intermedio, che è il livello di esistenza e di azione della destinalità, generato dalle relazioni fra gli attanti e in primis dall’imprimatur del destinante. Su questo livello gli eventi del racconto esistono, in piena ottica greimasiana, come relazioni, e il loro relazionarsi dà vita a un’idea di destino. Il livello della destinalità è quello del “perché”: perché gli eventi del racconto si relazionano in un modo anziché un altro, secondo quale logica interna gli enunciati di stato e del fare operano (cioè: perché S ∩ O oppure S U O; a dire: perché l’Uomo Ragno si fidanza o si lascia con Mary Jane). Il livello più superficiale, quello della manifestazione, è il livello del “cosa”, in cui avviene il riempimento dei ruoli attanziali attraverso spazializzazione, temporalizzazione e attorializzazione (a dire: un eroe che salva la città diventa l’Uomo Ragno che salva New York). Il lettore riceve questo livello, che congloba quello inferiore, e la loro somma è dunque il “come”, che unisce senso e destinalità. Il passaggio dal livello della destinalità a quello del senso fornisce intuitivamente al lettore un’idea di destino, l’unione dei due livelli associa all’idea di destino un’idea di mondo, cioè un “come” che si ricongiunge a ritroso con il “cosa” e

La destinalità, presente in tutti i testi, è così la risposta a un bisogno condiviso, di cui il testo si fa ambasciatore: la semiotizzazione dell’esperienza, o meglio del significato dell’esperienza, attraverso pattern che ci siano comprensibili. Sulla possibilità di una semiotica dell’esperienza vi è già stato il modo di interrogarsi, come testimonia il volume curato da Marrone, Dusi e Lo Feudo

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Trovare la destinalità: narrazione ed esperienza

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Narrazione ed esperienza. Intorno a una semiotica della vita quotidiana43. Il libro si apre con un saggio di Volli in cui ci si interroga sulla possibilità o meno di una semiotica dell’esperienza rilevando, a ragione, e con una certa vis polemica, che essa esiste e deve esistere affrancandosi dal pericolo di considerare il testo come descrizione vera della struttura della realtà, cioè analisi fenomenologica44. E in effetti il testo, più che descrizione, è semmai iscrizione sulla realtà, sua deformazione, il cui esito ha conseguenze esperienziali. Dice Volli: Se il nostro primo compito specifico come semiotici di fronte all’esperienza narrata nei testi consiste dunque nel de-naturalizzarla, mostrandola come effetto narrativo che a sua volta ha un posto di rilievo nella grande macchina della narrazione, lo stesso gesto deve valere anche all’inverso. Noi dobbiamo saper vedere in ogni pretesa di cogliere l’esperienza altrui (e in definitiva anche la propria), un gesto narrativo soggetto per sua natura a un débrayage, che dev’essere analizzato con tutto il distacco riservato ai testi di finzione. Il che significa relativizzarla, coglierne la dimensione culturale, de-naturalizzare anch’essa. Sapere che, come ciascun analizzando, secondo una vecchia battuta non priva di verità, sogna secondo l’orientamento del suo psicoanalista (vedendo archetipi se costui è junghiano, simboli sessuali se è freudiano ecc.), così ognuno di noi ama, si arrabbia, percepisce, decide, ha fede ecc. secondo il proprio contesto culturale e quindi linguistico. Non vi è nulla di naturale o di immediato negli Erlebnisse, la vita vissuta non è meno culturale delle parole scritte nei libri, anche se le parole scritte nei romanzi non testimoniano affatto la verità di una vita interiore. È a questo livello e solo a questo livello che si pone la possibilità di una semiotica dell’esperienza: come decostruzione dell’esperienza e come studio delle strutture linguistiche e semiotiche che la definiscono in ogni determinato contesto linguistico e culturale45.

La destinalità in questo quadro è il ponte attraverso cui il retaggio linguistico del testo si fa retaggio linguistico della percezione dell’esperienza, e non è un caso che così come il libro si apre con la conferma di Volli di una semiotica dell’esperienza, e l’apertura implicita a una via che è quella di una semiotica della cultura o esistenziale che unifichi sotto la sua epistemologia tutte le semiotiche, così si chiude con un raro caso di manifesta semiotica del destino, a opera di Pierluigi Basso. Egli adopera sistematicamente una certa categorizzazione della “destinalità”, che ci pare fino a oggi inascoltata pur se derivata dallo stesso Peirce, la cui riflessione tende «a ricongiungere la logica del cosmo alla logica dell’interpretazione, la cosmologia alla semiotica: il cammino ermeneutico di Peirce […] procede ‘destinalmente’ verso l’indagine dell’universo, del mondo e del suo ‘senso d’essere’»46. Basso dunque apre giustamente a orizzonti che vedono interconnettersi la narrazione con l’idea di destino, anche in forza della presenza dell’emozione, e fornisce alcune specifiche tassonomie che rendono conto di tali rapporti nel testo e nel suo emanarsi e tradursi in pattern esperienziali47. Tali categorie sono soggiacenti a uno strato emotivo che è in rapporto con la costruzione costante di un assetto identitario. Collocarsi in una destinalità, mutuandola da un testo, significa darsi un’identità anziché altre. Ogni qualvolta si semiotizza un’esperienza, lo si fa destinalizzandola, e cioè agendo in una sintesi che negozia emotività e identità. La destinalità è definita dall’inerenza del soggetto al divenire dei valori e delle

43 Gianfranco Marrone, Nicola Dusi, Giorgio Lo Feudo (a cura di), Narrazione ed esperienza. Intorno a una semiotica della vita quotidiana, Meltemi, Roma, 2007. 44 Ugo Volli, È possibile una semiotica dell’esperienza?, in Gianfranco Marrone, Nicola Dusi, Giorgio Lo Feudo (a cura di), Narrazione ed esperienza, cit., p. 25. 45 Ibidem.

Rossella Fabbrichesi Leo, Sulle tracce del segno. Semiotica, faneroscopia e cosmologia nel pensiero di Charles S. Peirce, La Nuova Italia, Firenze, 1986, p. 146. In effetti l’utilizzo dell’aggettivo “destinale” è, nella poca bibliografia esistente, associato proprio a Peirce, come uno dei possibili modi di esistenza (il possibile, l’attuale e il destinale). La protocategoria peirciana, da cui pur si diparte la nostra analisi, viene qui in qualche modo considerata come il prodromo di quella che è un’idea di semiotica come disciplina logica di comprensione del mondo nel senso più ampio possibile, ma sviluppata come istanza applicativa. Si trovano ottime interpretazioni della fenomenologia dell’esistenza peirciana almeno in Carlo Sini, Ermeneutica del progetto e incanto del destino, in Il profondo, e l’espressione. Filosofia, psichiatria e psicoanalisi, Lanfranchi, Milano, 1991. Molto del lavoro di Carlo Sini è teso a problemi di conciliabilità fra ermeneutica e metafisica. Cfr. anche Luca Brovelli, Figure della distanza. La proposta teoretica di Sini e Vitiello, «Nóema. Rivista online di filosofia», 2, 2012, e le tracce in Giacomo Festi Le valenze diffrante del segno in interfaccia. Instagram vs Flickr alla luce di una rilettura peirciana, «Ocula 15, Commemorating Charles S. Peirce (1839-1914): Interpretative Semiotics and Mass Media», 2014. 47 Cfr. Pierluigi Basso Fossali, Pattern emotivi e narrativizzazione dell’esperienza: per una semiotica del destino», in Gianfranco Marrone, Nicola Dusi, Giorgio Lo Feudo (a cura di), Narrazione ed esperienza, cit., p. 151.

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L’esperienza è dunque fortemente influenzata dai testi, e con essi si rapporta in quanto a sua volta semiotizzata come contestualmente linguistica e culturale.

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loro valenze. L’emozione ha a che fare con una compromissione destinale nel divenire che non è computabile, ossia non profila delle cause necessitanti chiare (Peirce). Questo orizzonte destinale, che tarda a chiarirsi, può essere il terreno emotigeno, per esempio, di una piena jouissance senza impegno futuro o di un’attesa drammatica rispetto a qualcosa di temibile. Fatto sta che le emozioni disegnano dei pattern che vanno a qualificare una forma di vita, costringendola a tessere narrativamente una trama tra snodi esperienziali altamente valorizzati, benché spesso privi di legami causali ponderabili. Una semiotica del destino deve render conto di una gestione del senso dove il fortuito e il decidibile si spartiscono la reggenza delle valenze e dove la semantica della propria sorte si forgia in appaiamento paradigmatico e sintagmatico rispetto ai destini altrui. In questo senso, il destino diviene un piano di commensurabilità etica tra il temere per sé e il preoccuparsi per altri48.

Basso dunque semiotizza l’esperienza a partire da componenti passionali ampiamente connesse con la lettura del testo da parte del soggetto, in prima istanza in ottica destinale. L’idea di destino che si diparte dalla destinalità verso il livello del senso è dunque associata a un universo patemico e identitario, risultante dalla negoziazione del soggetto con il testo, ma pure intersoggettivamente (cioè del soggetto con altri soggetti inseriti nel “sintagma del reale”), e giocato in una sorta di messa in ordine delle valenze semantiche del testo a partire dalla circonvoluzione – il procedimento a ritroso – di cui sopra, iniziata dai programmi ideologici identificati dal lettore (il quale interpreta a partire dalla “morale” superficiale del testo prima che dai valori soggiacenti, e da come essa lo fa sentire). In termini più generali tutto ciò ha a che fare con i processi attraverso cui si sceglie di segnificare, di leggere come segno una traccia nel testo anziché un’altra, giacché l’interpretazione, peircianamente, «determina, mediante il significato, un ‘indeterminato’ […] [che] rende possibile l’interpretazione e insieme le si sottrae»49. Ciò ci induce a sostenere che l’idea di destino, in quanto frutto della destinalità, che è virtuale nel testo (così come sono istanze virtuali i ruoli attanziali), pur proiettandosi ermeneuticamente su un piano di trascendenza (producendo cioè qualche immaginario metafisico), resta strutturalmente ancorata 48 49

Ivi, p. 155. Emanuele Severino, Immortalità e destino, Rizzoli, Milano, 2006, p. 93.

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a un contesto di immanenza. Essa è tracciata nella scelta dei segni da parte dell’interpretazione, ed è nel testo. Trovare la destinalità: l’immagine e la forma La destinalità tuttavia non è materia unica di narrazione ed emozione. Essa è nei testi visivi impressa anche nell’immagine, e nel caso del cinema in tutte le componenti che contessono il film: sonoro, montaggio, fotografia…tutte dimensioni che concorrono a generare effetti di senso che agiscono creando emozioni nello spettatore, e che spesso, intuitivamente, sono comunque ricondotte parallelamente a qualche ordine di tipo narratologico50. La lezione deleuziana ha già messo in chiaro come l’immagine cinematografica abbia in sé un movimento e un tempo connaturati, che esulano dai soggetti ripresi e che hanno a che fare con lo statuto filosofico dell’esserci del film: «il cinema non ci dà un’immagine alla quale aggiungerebbe movimento, ci dà immediatamente un’immagine-movimento. Ci dà certo una sezione, ma una sezione mobile, e non una sezione immobile + un movimento astratto»51. E il movimento, essendo sempre movimento da e al contempo movimento verso, e realizzandosi in un asse temporale, è estrinsecazione di una destinalità nel testo. Ma non solo, quando ci si muove dall’immagine in quanto tale all’immagine concreta del film, allora la congerie di elementi che concorrono a formarla è per davvero manifestazione di questa o quella destinalità. Il montaggio ha in sé la capacità di modificare completamente l’effetto di senso 50 Basti pensare a tecniche come quella del montaggio alternato, che può generare per esempio suspense nello spettatore, cioè uno stato patemico di positiva o negativa ansietà, che si sutura con un coinvolgimento narrativo generato dai sistemi presupposizionali che lo stesso montaggio alternato induce a elaborare cognitivamente. C’è una famosa sequenza in The Silence of the Lambs (Il silenzio degli innocenti, Jonathan Demme, 1991) tutta costruita attraverso montaggio alternato. Da un lato vediamo gli agenti del FBI avvicinarsi verso una casa, convinti di avere finalmente il killer fra le mani; dall’altro, nello stesso tempo, siamo dentro una casa dove il killer intrappola una propria vittima. Il montaggio da un lato ci investe emotivamente, generandoci una suspense che è dovuta forse anche a componenti fisiologiche per le quali l’alternarsi frequente delle immagini genera una discrasia sul piano percettivo, dall’altro ci spinge a ritenere che i due eventi convergeranno narrativamente nella cattura del killer e nel salvataggio della vittima. Cosa che non accade, ma qui poco importa. Quel che importa è che l’assetto formale del film genera effetti di senso (narrativi) e di sensazione (emotivi) che non possono essere slegati. 51 Gilles Deleuze, L’ immagine-movimento, tr. it. Ubulibri, Milano, 1984, p. 15.

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della sequenza instillando questa o quella causalità, stabilendo ruoli di causa ed effetto, operando suture evenemenziali che si traducono in rapporti di vicinanza destinali, e così via. L’indugio temporale su un’inquadratura può dire di questa che essa segna nell’economia generale degli eventi del film un momento cardinale, una topica destinale. Il sonoro può contrassegnare come rilevanti alcuni momenti e sottostimarne degli altri. E così via per la dialettica di luci e ombre, la scala dei piani, la profondità di campo, i movimenti di macchina, finanche le forme più o meno manifeste di attorialità o autorialità nel film, la scenografia, i dialoghi, la sceneggiatura, e via discorrendo fino alla mise en scène nella sua interezza. Un temporale può essere reso come grande segno dell’ineluttabilità della vita, come accade in certi film drammatici, ma anche come terreno di possibilità o di twist of fate, come in certi drammi dove è sotto la pioggia battente che i due innamorati possono finalmente confessarsi. Eppure in entrambi i casi, sempre di temporale si parla, solo che nel primo caso il sublime prorompe con tutta la sua sensuale violenza, nel secondo è in opera una traduzione postmoderna. Quel fluido di elementi eterocliti che compone il film è dunque da considerarsi, nel modello semiotico-ermeneutico che stiamo dettagliando, come un sistema concertato che negozia una destinalità. Si potrebbe dunque procedere indagando uno o più di questi elementi formali, ma ci pare che sia più profittevole non fossilizzarsi sulla singola strategia stilistica, andandola a setacciare in un elenco eterogeneo di film, quanto piuttosto fare in modo che le varie strategie emergano da film in cui il destino è presente in maniera forte innanzitutto come tema. In questo modo la destinalità emergerà nelle sue varie dimensioni, sia essa collocata sul piano emotivo, narrativo, formale, o, come anticipiamo e come in fondo è ovvio, in una sintesi (non necessariamente simmetrica) di tutto quanto.

La prima sezione è dunque interamente dedicata al tema della morte in contrapposizione a quello della vita. Questa scelta non è certo dettata da un gusto peculiare verso il lugubre o il tetro. La morte è il massimo comune denominatore dell’esperienza umana, che accomuna tutti gli esseri umani e viventi. Chi c’è sa che dovrà morire, e tale consapevolezza soggiace ad alcune fra le più grandi e condivise paure dell’umanità. Così non è un mistero che la morte sia un oggetto fortemente trattato in tutte le forme d’arte, ivi compreso il cine-

ma. La sezione che noi le dedicheremo sarà costruita essenzialmente su casi in cui essa si presenta come destinante personificato o comunque messo in scena in qualche modo. Tratteremo dunque dei modi attraverso cui la Morte è traslitterata da categoria del destino a istanza destinale. La seconda sezione è dedicata a Dio nel film. Esso è infatti un’ulteriore istanza che attraversa in maniera trasversale tutte le culture, declinandosi secondo caratteristiche anche molto diverse ma mantenendo sincreticamente una valenza di trascendenza e una univoca caratterizzazione destinale. Non ci concentreremo qui sullo specifico genere del film religioso, né su specifiche cinematografie: cosa che non faremo mai, perseguendo l’obiettivo di una storia del cinema che “sorvoli” i generi. Va comunque precisato come questi resteranno rilevanti per le analisi che effettueremo, poiché da un lato essi ci forniscono una griglia di base sulla quale iniziare a muoverci nel nostro percorso multidirezionale nella storia del cinema (una griglia in qualche misura precostituita), e dall’altro inevitabilmente risultano interrelati con la destinalità, descrivendo un genere delle linee direttrici aprioristiche (che possono essere, naturalmente ed è questo il bello, anche disattese) che attivano determinate inferenze e ne disattivano delle altre. Il concetto di genere, almeno a uno stato iniziale, è difficilmente eludibile del tutto; di esso una teoria della destinalità deve tenere conto, considerandolo come variante sensibile, ma, come faremo, senza usarlo come base per un sezionamento troppo rigido della storia del cinema. Quel che evidenzieremo saranno i vari modi di concepire e rappresentare il divino nel cinema in vari luoghi ed epoche, mantenendo il criterio adottato nel caso della Morte: una sua messa in presenza, materiale o discorsiva che sia. Quel che va inoltre chiarito è che la nostra scelta di soffermarci, come per la Morte, su un Dio palesato attraverso un personaggio è volontaria e a fini esemplificativi, avendo questo volume l’obiettivo di costituire una sorta di cantiere teorico. Quanto diremo dunque, qui come altrove, delle istanze destinali incarnate, è valido in linea di principio anche nei casi in cui queste siano eteree, volatili, invisibili, diffuse. La terza sezione indagherà istanze destinali fondamentali proprio perché manifestamente ideologiche (mentre le altre, pur essendolo, spesso tendono a mascherarsi), e reificate attraverso l’esplicitazione di sovrastrutture che agiscono sulla collettività: il Padre della patria (Garibaldi) e lo Stato distopico. La statalità è infatti deitticamente da un lato presenza che secondo determinate contingenze sociostoriche decide del destino di un film dalle sue radici

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Categorie e istanze destinali

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al suo completamento, commissionandolo o censurandolo, e dall’altro, quello qui di maggior rilievo, è protagonista di molti film secondo diverse accezioni che attraversano lo spettro generato dai poli utopia/distopia, entrambi generi di grande impatto destinale. Avremo qui modo di toccare esempi di cinema d’ispirazione fascista, casi rilevanti di cinema distopico, ma pure la meno nota categoria del “cinema impiegatizio”. Le prime tre sezioni sono quindi da considerarsi come affini sul piano della pertinentizzazione, poiché indagano specifici temi universali concentrandosi su presenze attanziali e attoriali nel film, inserite nella struttura come elementi che operano in prima istanza narrativamente, pur se connotate in termini formali. La quarta sezione aprirà dunque la seconda parte del libro, fungendo da cerniera ideale con quelle precedenti, e darà il giusto spazio a una questione che non può essere taciuta. Essa rifletterà sulla destinalità come scrittura di un autore più in alto, e sarà quindi focalizzata sul metacinema in cui attanzializzazione, attorializzazione e autorializzazione si confondono in una logica e in una metafisica del cortocircuito. Sarà qui che, nuovamente, ci porremo il problema del destinante e delle sue motivazioni, trattando le forme del cinema autoriflessivo da quello delle origini fino all’età contemporanea, dove la foga del meta- costituisce un terreno di sperimentazione costante e un modello estetico ormai ampiamente sedimentato e canonizzato. Arriveremo dunque alla quinta e alla sesta sezione, che sono da considerarsi come imparentate. Qui tuttavia non sul piano diretto della topicalizzazzione, quanto da un punto di vista strutturale e formale, che come abbiamo detto incide con forza sull’interpretazione. Esse trattano due tipologie di film di forte impronta destinale, riferite in maniere consimili alla problematica dell’incommensurabile scorrere del tempo, uno dei più consistenti problemi di tutta la storia della metafisica. Nella quinta sezione ci occuperemo dei film di loop, genere diagonale (nonostante lo si associ spesso unicamente a produzioni fantascientifiche) caratterizzato da storie “ad anello”, che vedono i personaggi per i motivi più disparati ripercorrere in maniera ciclica lo stesso arco temporale per più volte, così potendo trattare – forse – con la predestinazione. In seguito sarà il turno del “film ipotetico”, basato sulla ramificazione della storia in più universi paralleli a partire da un determinato snodo di probabilità, creando così la coesistenza di più tempi paralleli. Qui dunque non ci interesserà tanto interrogarci su questa o quella figura, o su questo e quel tema (nonostante dovremo rilevarne l’incidenza), quanto piuttosto sul modo attra-

verso cui gli elementi formali di resa del loop o del film ipotetico siano legati alla narrazione, e su come il loro legarsi generi precise forme di destinalità. Alla fine della nostra mappatura l’affresco sarà tale per cui altre categorie e istanze destinali da noi non toccate, almeno con ampiezza, potranno essere comunque affrontate grazie alla teoria e agli strumenti che avremo man mano formulato. Ci riferiamo qui per esempio ad ambiti come quello del film ludico, in ispecie riferito al gioco d’azzardo, su cui senz’altro si può lavorare con lo sguardo prospettico che costruiremo; o il cinema delle profezie, fatto di stregoni, demoni, e personaggi che agiscono per via di una loro trascendente o meno elezione o elevatura; o ancora il cinema di fantascienza tecnologica, il film romantico, i film di carcerati, lo splatter e il mondo movie, e così via. Questi, come tanti altri esempi che potrebbero occorrere, sono casi su cui, per evitare di interrogare la filmoteca di Babele, dovremo glissare, ma che auspichiamo possano un giorno, qualora il nostro progetto sortisse anche solo un minimo risultato, essere inseriti come ulteriori casi di studio per una teoria semio-ermeneutica della destinalità cinematografica.

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Capitolo 1 La morte Sorridendo, risponde: “Ben più del suo timore, grandissimo è stato il mio stupore, nel veder qui stamani all’opra ancora attendere colui che stasera ad Isfahan dovevo prendere” Pieter Nicolaas van Eyck, Il giardiniere e la morte1

Il cinema dell’inevitabile Un’istanza destinale rimarchevole, di cui il cinema è ricolmo, è certamente la Morte. Essa, cui si è indirizzati dal momento in cui si nasce, travalica il dominio cinematografico, costituendo un centro d’attenzione di interesse plurimillenario2, come dimostrano le tragedie e l’epica greca, e prima ancora i riti funebri che già durante il neolitico segnalavano il bisogno di inscrivere la cessazione della vita entro un regime in qualche modo culturale. Trattare del trionfo della Morte in chiave universale è pertanto impresa ardua. Qui ci interessa la Morte in relazione con il film, o meglio ancora il film in relazione con la Morte come istanza che assume tratti peculiari, capace di fornire un’idea circa la morfologia generale della diegesi, di giustificare un certo incedere degli eventi, di intervenire nelle disgiunzioni su cui si articola la narrazione, finanche di coimplicare determinati assetti formali ove il significante e il significato risultano doppiamente intrecciati, non solo in termini di pura referenza. 1 Traduzione dall’olandese di Elisabetta Svaluto Moreolo. Titolo originale della poesia: De tuinman en de dodd (dalla raccolta: Herwaarts, 1939), pubblicata in italiano in Kader Abdolah, Scrittura cuneiforme. Appunti di Aga Akbar, Iperborea, Milano, 2003. La fonte della storia, tuttavia, è una ben più antica parabola del Talmud babilonese. 2 È lapalissiano come la questione sia appannaggio trasversale di numerose discipline, e come sia impossibile stilare una bibliografia anche solo lontanamente esauriente nel merito. Per quanto concerne il nostro lavoro, gli autori e le idee che ci serviranno saranno menzionati man mano.

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Che il tema e la sua messa in forma siano due poli che dialogano semioticamente è un dato spesso trascurato. Si tende a studiare, per esempio, il modo in cui una narrazione funziona, e poi il modo in cui questa è costruita formalmente. Quel che faremo nelle prossime pagine è invece considerare le due dimensioni come mutualmente contaminanti. Ciò significa, è bene ribadirlo, che è necessario procedere considerando forma e contenuto come di paritetica dignità, cercando di superare uno stigma recente, soprattutto nell’ambito dei film studies, per il quale la narrazione sia in qualche modo secondaria rispetto alla sua formalizzazione3. Morte ad personam Di tutte le Morti del cinema ci dedichiamo a quelle che, a rimarcarne l’agentività, assumono tratti personificati od oggettificati. Si tratta di Morti singolari poiché essendo incorporate paiono sfuggire, almeno agli occhi dei loro interlocutori, al dominio dell’imponderabile cui altrimenti appartengono. Il caso universalmente più conosciuto, cui bisogna necessariamente riferirsi, è senz’altro Il settimo sigillo4. Il più noto film di Bergman presenta invero una situazione che da lì in avanti sarà archetipica: la partita a scacchi con la Morte5. Tale partita si disputa, almeno inizialmente, su una spiaggia, prototipo naturale e iconografia del confine fra un qui e un altrove, fra il cavaliere Antonius Block (Max von Sydow) e la Morte (Bengt Ekerot), che è una sorta di controparte filmica dell’alfier nero di Arrigo Boito (1867). Il gioco si fa pretesto per un viaggio che configura il film a metà fra l’on the road movie

e il Bildungsroman, un po’ alla stregua di La Voie lactée (La via lattea, Luis Buñuel, 1969) e di molte altre opere che in Europa verranno prodotte solo qualche anno più tardi, e vede Block acquisire man mano consapevolezza, fino a darsi alla Morte dopo aver consumato un ultimo pasto con i suoi amici e protetti. In questa magistrale scena, che segue quella dell’ultimo incontro fisico di Block con la Morte, definitivamente dichiarata come istanza necessaria (a cui «non serve sapere»), l’atteggiamento dei commensali al convivio è solenne e, in un certo modo, rassegnato. I loro volti sono gravi, la mensa appare come un rituale terminativo, un’ultima occasione, collocata in una dimensione di totale alterità. La moglie di Block, Karin (Inga Landgré), dopo che lo scudiero Jöns (Gunnar Björnstrand) si è diretto alla porta sentendo un rumore ed è tornato dicendo a Block che non era nessuno (quando invece era la Morte stessa, solo che Jöns, personaggio epicureo, tratta in coerenza con la propria impostazione filosofica la Morte come il nulla), legge con tono austero i versetti 1-11 del capitolo 8 dell’Apocalisse di Giovanni6, ove si dà conto dell’apertura del Settimo Sigillo che dà accesso alla mediazione angelica verso i misteri della vita. La fine della lettura coincide con la surreale scena dei compagni di viaggio di Block, che si schierano frontalmente, in fila, lasciando il cavaliere dietro, e rivolgendosi all’antecampo ove è situato Dio, come evocato dalla lettura precedente. Essi si rivolgono a lui, in qualche misura pronunciando un implicito epitaffio a Block, che si pone le mani in fronte e si dispera e chiede misericordia (non d’essere risparmiato). La situazione è paradossale: mentre i suoi amici dialogano con il trascendente, con decisione, Block, in campo quanto loro, solo pochi passi più indietro, guarda in alto, prega un Dio sperando che esista. Si tratta di una discrasia trascendentale, uno sfasamento di focalizzazione che si opera nella stessa inquadratura fra personaggi diversi. Un primo piano della giovane ragazza, personaggio sinora muto (di un muti-

3 È in sostanza un tentativo di partire e al contempo affrancarsi dalla prospettiva neoformalista di David Bordwell, Janet Staiger, Kristin Thompson The Classical Hollywood Cinema. Film Style and Mode of Production to 1960, Columbia University Press, New York, 1985, trattando la storia del cinema come una storia-problema (cfr. Michèle Lagny, De l’Histoire du cinéma. Méthode historique et histoire du cinema, Colin, Paris, 1992), «dove convergono elementi di natura economico-industriale […], di natura socioculturale […], o ancora di natura estetico-linguistica […]» (Paolo Bertetto , Metodologie di analisi del film, Laterza, Roma, 2006, p. 24). 4 Per noi qui è un caso seminale, che usiamo come chiave di volta, pietra di paragone o punto di partenza per ulteriori analisi. 5 La situazione non è frutto unico dell’ingegno di Bergman. Già in letteratura, come nel caso de L’alfier nero di Arrigo Boito, ma anche in opere artistiche come nel dipinto murale Döden spelar schack (Death Playing Chess) di Albertus Pictor (1480-90), compare la partita a scacchi con la morte. Quest’ultimo dipinto, situato nella chiesa di Täby nelle periferie di Stoccolma, è stato probabilmente l’ispirazione dello stesso Bergman per il film.

6 «E quando l’agnello  aprì il settimo sigillo, si fece nel cielo un profondo silenzio di mezz’ora. E vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio, e furono loro date sette trombe. [...] E allora il primo angelo die’ fiato alla tromba, e ne venne grandine e fuoco misto a sangue. E così furono gettati sopra alla terra, e la terza parte della terra fu arsa, e la terza parte degli alberi fu arsa, e fu arsa l’erba verdeggiante. E quindi il secondo angelo die’ fiato alla tromba e una specie di grande montagna di fuoco ardente fu gettata in fondo al mare, e la terza parte del mare diventò saggia [...] E anche il terzo angelo die’ fiato alla sua tromba. E dall’alto del cielo cadde una stella grande, ardente come fiaccola. La stella si chiamava [...] Assenzio».

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smo che ora è confermato come votivo), il volto rigato dalle lacrime e un surreale sorriso mentre guarda in alto, cesella la scena con le sue parole: «L’ora è venuta». È l’ora di Block, ma è anche un’ora universale. Qui una transizione coincide con un’ellissi temporale che vede tale ragazza, il saltimbanco Jof (Nils Poppe), e il loro pargolo in un ameno prato, in una sorta di rinnovata Sacra Famiglia. Jof scorge però all’orizzonte, sul crinale fra il cielo e la montagna, un corteo in controluce. La Morte in testa, con la falce e la clessidra, e dietro a seguire, tenendosi per mano, Block, Karin, il fido scudiero, il fabbro, Raval (Bertil Anderberg) e Skat (Erik Strandmark). Se ne vanno, impotenti. Jof ne parla come se stessero danzando verso un nuovo mondo, ma l’immagine ce li mostra piuttosto trascinati, in una danza macabra, verso quel destino che li ha presi7. La Morte si configura così nel corso del film come un’istanza con la quale si può solo parzialmente negoziare, attraverso peraltro un sistema semiotico come il gioco degli scacchi, edificato non attorno alla casualità ma sull’esclusiva abilità del giocatore. In altre parole, non è una Morte con la quale ce la si può giocare ai dadi, in un contesto pertanto ove lei come il vivo sono parificati dal caso – come accade in Pirates of the Caribbean: Dead Man’s Chest (Pirati dei Caraibi – La maledizione del forziere fantasma, Gore Verbinski, 2006) dove il pirata fantasma Davy Jones (Bill Nighy) vince ai dadi le anime di coloro che incontra per mari. Con la Morte de Il settimo sigillo si gioca a scacchi, e così si ha l’impressione che in fondo, con un po’ di bravura (o, come fa Block in un certo momento, “barando”), si possa vincere la propria battaglia e continuare a vivere. E tuttavia non è esclusivamente l’esito finale della partita a decidere le sorti di Block, ma soprattutto il viaggio interiore che a essa è associato, il relazionarsi metonimico fra la scacchiera e le “mosse” effettuate nel suo cammino esistenziale. L’istanza destinale dunque si manifesta inizialmente come potenzialmente negoziale, ma progressivamente reclama il suo agnello sacrificale, che infine le si deve concedere. Tale modalità, con Morti tutto sommato simili nella personificazione a quella di Bergman, si dà in numerosi altri film nella storia del cinema. Citiamo qui, in ordine cronologico, La madre e la morte (Arrigo Frusta, 1911), Körkarlen

(Il carretto fantasma, Victor Sjöström, 1921) e La morte stanca (traduzione letterale del titolo tedesco, mentre il titolo ufficiale in italiano è, per l’appunto: Destino), come i tre film dal cinema delle origini al cinema muto fondamentali nel processo dell’iconografia cinematografica della Morte come “tristo mietitore” (Grim Reaper), individuo androgino, alto e dal lungo mantello nero, provvisto o meno di falce o bastone, dal volto bianco e dai lineamenti impassibili8. È a partire da questi film che tale immagine della Morte, con la carica valoriale che ne consegue, vive la sua fortuna nella storia del cinema. Il film di Arrigo Frusta, La madre e la morte9, presenta la relazione con la Morte personificata in maniera originale. Qui essa si presenta nelle vesti di un vecchio. Indossa il simbolico lungo vestito nero, porta con sé il bastone della vecchiaia e ha il volto ricoperto da folti capelli e da una lunga barba bianca, di sapore socratico. Avendo forma tangibile e umanoide si pone come entità con la quale le sue vittime possono interagire, eppure esercita la negoziazione attraverso una sorta di maieutica, convincendo a suon di domande implicite il suo interlocutore che in fondo è giunta la sua ora. La storia, molto lineare come è tipico nel cinema delle origini, vede la Morte bussare alla casa di una madre per portarle via il figlio neonato e condurlo con sé nell’aldilà. La madre così, disperata, si lancia in un viaggio alla ricerca dell’amato figlio, ricerca che la condurrà fino alla dimora del mietitore. Tale dimora è rappresentata come una grotta, irta di stalattiti e ricolma di orologi a pendolo, che rappresentano – con il loro movimento ondulatorio – le controparti delle anime ancora vive. Tutt’intorno piccoli bambini, antipodi della Morte, completano questo scenario da fiaba nera, configurandosi come aiutanti del mietitore. La madre e il vecchio così possono interagire, lei chiedendo per pietà che sia fatta salva la vita del figlioletto, e lui mostrandole attraverso una sorta di proiezione nella pendola in primo piano la vita che il figlio condurrebbe, qualora sopravvivesse. Si tratterebbe di una vita dissoluta, fatta di disdoro e ignominia, destinata a concludersi con il suicidio di quest’ultimo, il più mortale dei peccati mortali. La madre così, doppiamente sofferente, decide di accettare che la morte si prenda il bambino, ancora inerme, poiché è «meglio la morte che il disonore», come recita una delle didascalie del film.

La complessità di questa sequenza ricalca in generale la complessità di tutto il film, che non a torto, anche se forse un po’ iperbolicamente, è considerato in Roger W. Oliver (a cura di), Ingmar Bergman. Il cinema, il teatro, i libri, Gremese Editore, Roma, 1999, e sulla scia delle entusiastiche critiche di Andrew Sarris, come «il primo autentico esempio di film esistenziale in tutta la storia del cinema» (p. 176).

La Morte come individuo vestito di nero, oblungo, e dal volto bianco, si traslittera nelle leggende urbane postmoderne e nella mitologia online per esempio nel personaggio di Slenderman, da cui anche il film Slender Man (Sylvain White, 2018). 9 La più completa contestualizzazione storica, che dà ragione di quale ambiente sia stato il terreno di sviluppo del film, è in Silvio Alovisio, Voci del silenzio. La sceneggiatura nel cinema muto italiano, Il castoro, Milano, 2005.

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La madre e la morte Il film, della durata di poco più di 11 minuti, riesce a fornire una visione del rapporto con la morte che difficilmente verrà eguagliata nel resto della storia del cinema. Sul livello più superficiale la morte è, fin dalla sua rappresentazione carnale, un’istanza il cui manifestarsi sotto forma di persona rappresenta quasi un atto di pietà, poiché dà la speranza di poter in qualche modo dialogare con l’ineffabile. Questo è un modello abbastanza diffuso, come dimostra anche Il settimo sigillo10. Così come in entrambi i film parlare con la Morte significa intraprendere un viaggio interiore, un percorso di autocoscienza. Ermeneuticamente ci pare stimolante suggerire un’interpretazione più profonda, che in qualche modo dà misura di una certa potenzialità semiotica del cinema. Il rapporto con la Morte, come si accennava all’inizio del capitolo, costituisce uno

dei grandi problemi della storia umana, che cerca di irreggimentarlo attraverso la produzione di testi di finzione, così come di speculazione filosofica. Il mistero più profondo resta il momento di passaggio, dalla vita alla non-vita, quella soglia che già André Bazin nel 1949 dichiarava del tutto non filmabile, in quanto «istante qualificativo allo stato puro», che se violato dalla cinepresa va a costituire un’oscenità «non più morale […] ma metafisica»11. Il cinema così, che di morti comunque, con buona pace dell’assunto baziniano, ne ha sempre rappresentate, elabora una strategia che risponde peraltro a certe discorsivizzazioni sociali della soglia definitiva12. Chi abbia provato le cosiddette “esperienze pre-morte”, così come chi si sia trovato in condizioni di immediato pericolo vitale (vittima di un incidente molto grave per esempio), spesso ne riferisce in termini discorsivi con espressioni come: «mi è passata tutta la vita davanti» o «ho visto una luce o un tunnel bianco». Questo tipo di discorsivizzazioni di esperienze estreme sedimentano nella società e costituiscono oggetti semiotici interessanti per via della loro peculiare aspettualità, sempre durativa, cioè situata in una dimensione asintotica di raggiungimento della soglia, del passaggio, ma mai terminativa. Al di là dell’universo esoterico, non abbiamo testimonianza di redivivi che ci dicano «mi è passata tutta la vita davanti e poi sono morto» o «ho visto un tunnel bianco e poi sono andato in paradiso». Ciò poiché tali testimoni sono vivi. Quelli morti, al contrario, non possono per ovvie ragioni discorsivizzare il passaggio al loro nuovo stato (o non-stato) ontologico. Così il cinema e altre forme di rappresentazione offrono a noi vivi, fino a prova contraria, la più vicina esperienza del pre-morte, della morte, e alle volte del post-mortem (altrimenti sconosciuto). Così il cinema, come dimostrano La madre e la morte e Il settimo sigillo, opera una figurativizzazione dilatata dell’avvicinarsi asintotico alla soglia come interstizio ove si deve infine colloquiare col proprio destino. L’esito del colloquio, e il percorso fatto per arrivare sin lì, in termini metasemiosici sono la destinalità del testo, che produce in termini semiosici l’idea di destino. Testualmente, è come se si espandesse il momento pre-morte, quello della “luce bianca”, elaborandone una determinata narratività, gonfiando di senso il momento ultimo, quello

Alcune prospettive d’analisi del film in Birgitta Steene, Focus on The Seventh Seal, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1972; Frank Gado, The Passion of Ingmar Bergman, Duke University Press, Durham, 1986; Fabrizio Marini, Ingmar Bergman. Il settimo sigillo, Lindau, Torino, 2007; il saggio di Fabrizio Borin in Antonio Costa (a cura di), Ingmar Bergman, Marsilio, Venezia, 2009.

André Bazin, Che cosa è il cinema?, tr. it. Garzanti, Milano, 1973, p. 32. Intendiamo in questo senso il cinema come conseguenza diretta della fotografia, intesa come da Barthes come un “è stato” che si annette all’immagine: «Dandomi il passato assoluto della posa (aoristo), la fotografia mi dice la morte al futuro. […] Che il soggetto ritratto sia o non sia già morto, ogni fotografia è appunto tale catastrofe» (Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it. Einaudi, Torino, 1980, p. 96).

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che comunemente invece vanifica ogni significanza. In La madre e la morte tuttavia tale strategia, tale espansione dell’istante precedente alla soglia, è originalmente ribaltata: il percorso di autocoscienza dilatato nel pre-morte, quello anche di Antonius Block e della sineddotica scacchiera che rivive la sua vita, non è rivolto all’indietro, ma in avanti. Si tratta di una prolessi. Il pargolo, troppo presto strappato alla vita, è flagellato non per via di ciò che rappresenta in atto, ma di ciò che è in potenza. Questo è già un grosso paradigma destinale, che fa emergere dal testo l’idea per cui il destino si rintracci in una scrittura in avanti, più che indietro. L’idea di destino che ne deriva prima, e l’idea di mondo che le consegue, sono basate su un’ideologia, imbibita di un moralismo che si magnifica nella didascalia finale – che lascia intendere il fatto che se è già tutto scritto, allora non vale la pena di far vivere il neonato – già menzionata, qui espressa con la franchezza, e, occorre precisarlo, con il determinismo positivista tipico dell’epoca, che solo in certo cinema delle origini si può trovare; prima che l’edulcorazione del cinema classico intervenga con un certo atteggiamento censorio e uno sguardo in qualche modo omologante.

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necessità metafisica), qui invece la Morte più che proclama di una postdeterminazione è manifesto di una predeterminazione. Essa inoltre è in grado di farsi destinante riconfigurando drasticamente l’attanzialità della storia: in primis la madre è destinante e destinatario, che si autoassegna come oggetto di valore la vita del figlio, ma in seguito tale oggetto cambia diventando l’onore, assegnatole – o meglio indicatole – dalla Morte. Il pargolo sarà un uomo immeritevole di vivere, e da tale strada non potrà fuggire, quindi merita di morire prima ancora di reificare la sua colpevolezza. Non può sfuggire come tale idea destituisca, in sede ideologica, ogni pretesa di libero arbitrio o di autodeterminazione. Il libero arbitrio è invece presente in Destino13, il lungometraggio di Fritz Lang che racconta per certi versi una storia simile a quella di Arrigo Frusta, ma in maniera decisamente più articolata. Il film ha in sé certo molto di dantesco, ma ancor più attinge e reinterpreta il mito di Orfeo ed Euridice, che al cinema spesso ritorna, fino al pregevole Vous n’avez encore rien vu (Alain Resnais, 2012). In un piccolo borgo di una Germania gotica, a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo, l’arrivo di un misterioso straniero (Bernhard Goetzke, spesso accomunato al Bengt Ekerot di Bergman) sconvolge la vita tranquilla dei paesani. Egli appare alto e snello, ha il volto ieratico e taciturno, è vestito di nero con un mantello e un cappello a falde larghe. Alla sua proposta di acquistare un terreno comunale la giunta, pur se colpita dalla strana richiesta, decide di concederglielo, così il figuro lì si stabilisce, edificando immediatamente un’alta muraglia di cinta, sprovvista di ogni porta per entrare. Nel mentre una giovane coppia (Lil Dagover e Walter Jensen) brinda al suo amore in una locanda. La ragazza tuttavia nota il trasfigurarsi della coppa nuziale in una clessidra (siamo sempre nell’universo semantico degli oggetti segnatempo, come le pendole di Frusta), e si allontana momentaneamente dal tavolo. Quando tornerà il suo amante sarà scomparso, così come il sinistro forestiero che si trovava nella stessa locanda. Turbata ella si aggira così per il paese alla ricerca dell’uomo, e lo ritrova infine in una processione di anime defunte, intangibili. Dopo aver perso i sensi ed essere stata soccorsa dal farmacista locale ella, ormai conscia della morte del suo amato, decide di far uso di un veleno. I rintocchi del campanile scandiscono queste sequenze, la cui temporalità sfuma, e la protagonista si ritrova di fronte all’invalicabile cinta muraria, ora provvista però di uno spiraglio per entrare.

Così, soprattutto dal punto di vista destinale, La madre e la morte si configura come film inconsueto. Se nel film di Bergman e in molti altri la Morte si palesa come destinazione ultima, come fine di un percorso di vita che reclama il suo pegno (sia esso in termini punitivi, per una vita viziosa, o in termini di pura

13 Un’ottima ricapitolazione dei principali commenti critici sul film in Joe McElhaney (ed.), A Companion to Fritz Lang, Wiley Blackwell, Chichester, 2015.

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È opportuno qui inserire nella nostra analisi, come succederà nell’arco di tutte le nostre dissertazioni, un inserto che funga da ponte per far dialogare la narratologia con l’immagine. Il cinema è storie più immagini, o storie in immagini, o, mutuando la retorica deleuziana, immagini-storie. È infatti proprio il sistema semisimbolico a suggerire la discrasia della morte in questi film, ente paradossale che si apre al dialogo pur preservando la sua ineffabilità. È un comunicante-non/comunicante, o un significante-insignificato. Il campo lungo (o lunghissimo) di Lang sul muro di cinta, che occupa l’interezza dell’inquadratura, e ove timidamente si staglia la figura della morte o della giovane ragazza in basso in centro, sta proprio a significare il sovrastante e prostrante senso di vuoto con il quale i personaggi cercano in qualche modo di stabilire una relazione significativa, di negoziare senza un linguaggio, senza codice specifico. Anche in termini cinematografici l’immagine, desaturata, priva di ogni suppellettile scenico, segnala una volontà teoretica prima ancora che stilistica, quella di dichiarare cioè una certa necessaria degenerazione del campo visivo di fronte al tema del morire, capace addirittura di abbattere per sottrazione il medium che su un certo paradigma oculocentrico ha costruito la sua ultracentenaria fortuna. L’estesa superficie del muro, che occupa l’intera inquadratura, è simbolo di qualcosa che difficilmente, o forse mai si potrà abbattere. È il muro come segno del limine proprio per il suo materico e immediato potere di definirsi come soglia, come insegneranno i Pink Floyd durante la Guerra Fredda, retta invero su di un muro. L’elefantiaco muro soprassiede, sorvola, trascende persino i limiti dell’ immagine cinematografica stessa, si staglia sul fuori campo, depositando nell’immaginazione come qualcosa di potenzialmente infinito, la cui oceanica grandezza trasforma chi vi circola attorno in atomi la cui ontologia è sempre più rarefatta. E tuttavia esso, in casi particolari e in qualche misura sempre illusori, può anche rivelare la sua porosità, come fa con la giovane protagonista che approfitterà della scalinata che le è concessa. Così, giunta in cima la ragazza trova il misterioso viaggiatore, la Morte in persona, che proprio in quel momento sta reclamando l’anima di un infante. Non è qui una Morte archetipicamente saggia e impassibile come quella di Frusta; la barba socratica lascia spazio a un volto consumato dall’infausto lavoro cui è condannata in æternum. Si tratta di una Morte stanca, come recita il titolo originale del film, che apre il varco a una dimensione inedita. Se la Morte di Frusta infatti è l’istanza destinale ultima, capace di vedere nel passato, nel presente e nel futuro, e di intervenire come a mettere ordine

René Thom elabora una Carte du sens, che Paolo Fabbri definisce in introduzione “epistemologia cartografata” («Introduzione», in René Thom, Morfologia del semiotico, Aracne, Roma, 2006). «Si tratta di una fantasiosa mappa ove scienze naturali e umane convivono metaforizzate topologicamente, fra montagne, città, templi, disposti fra significanza e insignificanza sulle ordinate, e vero e falso sulle ascisse. In questo luogo immaginario vi è certamente anche la semiotica, ma soprattutto regna una forma di coerenza che si trasla dall’oggetto di studio al metodo che lo studia, e cioè una tendenza alla modellizzazione fisica che risponde a una logica di picchi e depressioni, e di percorsi più o meno obbligati per passare dagli uni alle altre. La disposizione dei saperi scientifici insomma coabita un ambiente, ma il rapporto fra le discipline umanistiche e le scienze matematiche è retto, appunto, su una catastrofe; arrivare dalle une alle altre significa dislocarsi dalla propria comfort zone, generare un punto critico, attraversare il “fiume del senso” o passare attraverso il crocevia, l’epistemologia definitiva vero centro della mappa thomiana: la “Fortezza della tautologia”» (Bruno Surace in Vincenzo Idone Cassone, Bruno Surace, Mattia Thibault, «With a Bang or with a Whimper», in Id. (a cura di), I discorsi della fine.

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Destino nelle cose del mondo, qui siamo di fronte a una morte taciturna, costretta nelle sue vesti, e che quindi – presumibilmente – obbedisce a una legge più alta e inconoscibile. Quella di Frusta è un ur-destinante, quella di Lang è un destinante destinato, ergo patemizzato. È una Morte in qualche modo sottoposta, fosse anche solo a una tautologia che non accetta, al dover fare il proprio lavoro perché deve farlo14 . È una morte che determina il destino degli altri, ma cerca anche di 14

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sfuggire al proprio, dichiarando: «Credimi, il mio compito è duro, e sono stanco di vedere la sofferenza dell’uomo. Vuoi lottare contro di me che sono eterno? Ti darò la mia benedizione se riuscirai a sconfiggermi». Se l’istanza destinale creda davvero che la ragazza possa adempiere alla missione impossibile, ciò non ci è dato sapere. Quello che però intuiamo è che l’oggetto di valore sia perlopiù una scatola vuota, e cioè che la missione esteriore della protagonista sia votata al fallimento e serva solo a soddisfare una missione interiore: l’accettazione. Da qui in avanti il testo diviene un film contenitore, gestito con finezza registica da Lang. La ragazza infatti è chiamata a evitare la Morte di qualcuno la cui ora è giunta, dimostrando così di poter sconfiggere il destino. Le anime non sono più pendole ma candele, che si spengono. Una precipua poetica degli oggetti va delineandosi. In questi film infatti il rapporto con la Morte è sempre quantomeno duplice. Si è di fronte a una Morte personificata, dai tratti codificati, ma si è anche di fronte ad alcune figure oggettuali che in qualche modo metaforizzano l’anima dei viventi. Si tratta sempre di oggetti la cui semiosi è in qualche modo preterintenzionale, qualcosa di più che connotativa, e cioè travalica la dimensione funzionale originaria dell’oggetto verso simbologie più ampie. La pendola segna il tempo, e lo fa con una contezza visiva peculiare. È come se, filmicamente, il fermarsi del pendolo segnali più marcatamente la fine del tempo vitale rispetto al fermarsi della lancetta dell’orologio da tavolo. È la forma dell’immagine che si fa sostanza del pensiero. Si tratta non solo di una funzionalità del segnare ma di una qualità del segnare, poetica, visiva, filmica. Similmente la candela si consuma, e la sua fiammella – lo pneuma, il soffio vitale, lo spirito – va a spegnersi simboleggiando con particolare efficacia la fine irreversibile di una vita (non è infatti possibile ricaricare il cero, il suo deperimento è irreversibile). Come sostiene De Donato a proposito del Tristram Shandy di Sterne «la morte sta nascosta negli orologi […] la morte, che è il tempo, il tempo dell’individuazione, della separazione, l’astratto tempo che rotola verso la sua fine»15. Di questa oggettificazione della Morte continueremo a rendere conto, essendo uno stilema frequente e, in qualche misura, transgenere, come dimostra il film animato Disney Hercules (1997, di Ron Clements e John Musker) ove in una delle scene più dark si vede come le vite degli umani siano dei fili che le tre moire (sorte di guardiane del destino come le parche romane o le

norne norrene) recidono quando è giunta l’ora dei loro corrispettivi umani. Si tratta cioè di accorgimenti metaforici già usi in poesia, e noti con il nome di correlativi oggettivi16.

Hercules Nel cinema di cui stiamo parlando tali correlativi oggettivi agiscono su un piano di investimento quasi primigenio, forse addirittura pre-ermeneutico, cioè prima di «scadere a metafore», di essere “riempiti” ed “appesantiti”17. Tornando al film di Lang, ecco dunque che la ragazza deve evitare che almeno una candela si spenga. Qui Fritz Lang opera un singolare esercizio di dislocazione spazio-temporale, dimostrando implicitamente la capacità della morte di agire trasversalmente, finanche producendo un paradosso temporale. Le persone che infatti la protagonista è chiamata a salvare vivono nella Baghdad del IX secolo, nella Venezia del XVII

Catastrofi, disastri, apocalissi, Aracne, Roma, 2018, pp. 12-13). 15 Gigliola De Donato, L’ invenzione del reale, in Carlo Levi, Prima e dopo le parole. Scritti e discorsi sulla letteratura, Donzelli, Roma, 2001, p. 153.

16 Sul correlativo oggettivo in letteratura e poesia esiste chiaramente una ricca bibliografia. Sull’utilizzo di tale categoria nel cinema invece c’è ancora molto lavoro da fare. Pur esistendo numerosi studi su singoli oggetti nel cinema pare oggi mancare uno studio sistematico dell’oggettualità del cinema, che pure ci appare come di grande rilievo. Segnaliamo comunque l’importante contributo della rivista di cinema «Fata Morgana», il cui numero 28 (2016) è dedicato alla “cosa”, e Antonio Costa, La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock. Il senso delle cose nei film, Einaudi, Torino, 2014. 17 Usiamo qui le felici caratterizzazioni di Paul Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, tr. it. Donzelli, Roma, 2002, p. xxix.

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Le pendole di Frusta e le candele di Lang secolo e alla Corte dell’imperatore di Cina. Le tre storie pertanto si collocano in tempi antecedenti rispetto a quello in cui vive la ragazza, e dunque sono, in qualche misura, già successe. La sua missione è pertanto bizzarra, giacché ella dovrebbe salvare dalla Morte persone che sono già morte, alcune delle quali secoli prima. Tuttavia speranzosa ci prova, e di fronte agli occhi dello spettatore scorrono così tre film separati, resi con l’ausilio di espedienti che oggi forse sarebbero considerati kitsch, ma che per il 1921 invece risultano del tutto pionieristici. Vi è innanzitutto il cambio del lettering delle didascalie, che passa dal gotico iniziale a caratteri arabeggianti prima, italici poi, e in qualche misura orientaleggianti (sorte di parodie ideogrammatiche) per la storia cinese. Similmente anche le musiche si adeguano ai vari contesti, che sono ritratti con foga fiabesca e terminano tutti, inevitabilmente, con la tragedia. Inoltre gli stessi attori interpretano ruoli consimili nei vari episodi (come accadrà con The Masque of the Red Death di Roger Corman [La maschera della morte rossa], di cui parleremo in seguito), stabilendo dei nessi extradiegetici che suggellano la prossimità metafisica delle varie vicende, relegandole in una sorta di seria dimensione farsesca18. L’idea di adoperare gli stessi attori in più ruoli nello stesso film, ancorché non diffusissima, rimane una strategia interessante nella storia del cinema proprio per la sua capacità di issare una riflessione metalinguistica e sul ruolo dell’attore, e sul significato e sulle relazioni fra i vari personaggi che egli interpreta. Alcuni esempi sono: The Great Dictator (Il grande dittatore, Charlie Chaplin, 1940), Kind Hearts and Coronets (Sangue blu, Robert Hamer, 1949), Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, Stanley Kubrick, 1964), Dead Ringers (Inseparabili, David Cronenberg, 1988), Adaptation (Il ladro di orchidee, Spike Jonze, 2002), There Will Be Blood (Il petroliere, Paul Thomas Anderson, 2007). 18

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Nell’ultimo atto la Morte, caritatevole, concede alla ragazza di scambiare la vita del suo amato con un’altra, ma la sua ricerca si rivela vana: anche gli anziani del paese, che a parole corteggiano la Morte, risultano infine egoisticamente troppo attaccati alla vita. Solo in conclusione le si rivela l’occasione tanto cercata: potrà portare in pegno, come agnello sacrificale, l’anima di un neonato – un vivo-appena – rimasto dentro un casolare durante un incendio. E però il suo buon cuore le impedirà di compiere tale azione, e così non le resterà che offrirsi lei in sacrificio, per trapassare e raggiungere l’uomo che tanto ha provato a salvare. L’interpretazione finale è dunque quella di una Morte umanizzata, sia nei tratti fisici che in quelli emotivi (è una Morte stanca), e che però non può fornire alternative alla sua presenza. E dove non c’è alternativa, lì scarseggia anche la presenza semiotica, l’interpretazione alfine decade. Da un punto di vista psicologico nuovamente l’intera vicenda può essere letta come la dilatazione del momento della morte di lei per raggiungere l’amato scomparso, o anche, lacanianamente, come la morte in conseguenza all’espletazione del desiderio (l’unione dei due, consumata simbolicamente con lo scambio dei calici alla taverna). Inoltre qui vi è anche la presenza manifesta di un aldilà (che manca nel film di Frusta, provvisto però di una dimensione in qualche modo limbica), data la presenza dei fantasmi, resi con l’ausilio di effetti speciali e fantasiose soluzioni visive usate anche lungamente in altre sequenze, specie in quelle della fiaba cinese. La Morte umanizzata emotivamente pone in essere due ordini di questioni: 1. Restituisce un assetto semiotico a un dominio altrimenti volatile, essendo la semiotica la “disciplina dell’alternativa”: «Lì dove non c’è la possibilità di scegliere tra la verità e la menzogna, fra il reale e una sua alternativa, la semiotica non ha nulla a che fare»19. 2. Re-inquadra la Morte in un dominio destinale fatto di scatole cinesi, configurandola non più come l’ultimo anello della catena, l’ur-destino, ma come punto di tensione verso questo inconoscibile.

Destino, che farà da canovaccio ideale per film anche contemporanei come What Dreams Way Come (Al di là dei sogni, Vincent Ward, 1998), storia del viaggio nel mondo dei morti di un marito (Robin Williams) per raggiungere la moglie (Annie Collins-Nielsen), non sarà l’unica opera in cui Fritz Lang approfondirà il tema della morte, spesso centrale nel suo cinema. Sul piano iconologico una rappresentazione simile a quella del film del 1921, declinata Massimo Leone, «Prefazione», in Massimo Leone (a cura di), Protesta – Protest, Monographic issue of Lexia, 13-14, Aracne, Roma, 2012, p. 11.

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però secondo il modello classico del “tristo mietitore”, sarà presente anche in un’inquietante scena di Metropolis (1927), il film più noto del regista. In questo capolavoro della fantascienza, che apre il varco cinematografico ai temi del post-umano, della panottica società del controllo, della distopia e molti altri, il protagonista Joh Fredersen (Alfred Abel) in una scena sogna l’incontro con uno scheletro incappucciato che prima vivifica, suonando un osso umano, le statue nelle nicchie dietro di sé, disposte in una sorta di coro absidale, e poi in seguito a un taglio di montaggio cala minacciosamente la sua falce. Ma, tornando alla nostra linea, una Morte compassionevole è anche quella di Il carretto fantasma20. Il film del regista svedese Victor Sjöström, tratto dal romanzo omonimo di Selma Lagerlöf del 1912, viene girato nello stesso periodo di Destino, e presenta sia con esso che con Metropolis alcune assonanze. Con quest’ultimo condivide l’iconografia del Grim Reaper che però è traslitterata dalla Morte ai suoi emissari, fantasmi-carrettieri provvisti di saio e falce condannati a svolgere la mesta mansione poiché morti in peccato mortale allo scoccare del Capodanno. Ricorre qui l’idea di una ciclicità e di una significatività dell’evento (in questo caso l’ultimo giorno dell’anno) che vaglieremo con attenzione nei capitoli a seguire, specie in quello dedicato al cinema di loop. Così come ricorrono elementi moralistici che in qualche modo inquadrano l’ora fatale in un regime particolarmente significato, come a fornire una spiegazione all’inspiegabile, o una ponderazione all’imponderabile. È interessante notare come la plasticità dell’iconologia mortifera (il suo abbigliamento, la sua postura, la sua resa profilmica in una trasparenza azzurrognola) sia trasposta dalla Morte a suoi emissari, a significare in questo caso che più che di una personificazione di una soggettività si sta trattando la personificazione di un aggregato di funzionalità metafisiche. La Morte personificata e oggettificata è la concrezione di un momento altrimenti intangibile e incomprensibile, cui si appone la speranza di una negoziazione, che ne Il carretto fantasma darà esito positivo, avendo il protagonista David Holm (lo stesso Sjöström) la possibilità di interiorizzare con consapevolezza le nefandezze compiute in vita e di pentirsi per la sua deprecabile esistenza, espletando la catarsi che potrà portarlo a un fine vita pacificato.

Il doppio, la soglia, l’insignificanza Ma il cinema muto non fa che aprire le porte a una vasta sequela di Morti cinematografiche. Non è per esempio così lampantemente misericordiosa la morte di The Masque of the Red Death (La maschera della morte rossa, Roger Corman 1964). Il film è tratto dall’omonimo racconto di Edgar Allan Poe (1842) e si allinea con la serie del regista – cultore del cinema dell’orrore – ispirata alle storie dello scrittore di cui fanno parte anche House of Usher (I vivi e i morti, 1960), The Pit and the Pendulum (Il pozzo e il pendolo, 1961), The Premature Burial (Sepolto vivo, 1962), Tales of Terror (I racconti del terrore, 1962), The Raven (I maghi del terrore, 1963), The Haunted Palace (La città dei mostri, 1963), The Tomb of Ligeia (La tomba di Ligeia, 1964) e così via 21. Qui la Morte assume sembianze inconsuete rispetto all’iconografia tradizionale, presentandosi sì incappucciata, ma con il saio rosso e il volto dipinto dello stesso colore. Nel racconto di Poe al contrario essa indossa una maschera in qualche modo cerata. La storia stessa, sceneggiata da Charles Beaumont e R. Wright Campbell, differisce, in alcuni punti sensibilmente, dal soggetto originario. In quest’ultimo il bislacco principe Prospero – un palese caso di nome parlante – indìce una lussuosa e apparentemente eterna festa nel suo sontuoso castello, ove cortigiani di ogni genere si sollazzano fra lussuosi banchetti e danze in barba all’epidemia di “morte rossa” fuori dalle mura blindate, che miete vittime senza sosta. Durante una delle sfarzose feste in maschera, nelle bizzarre stanze del castello, un ospite inatteso sopraggiunge: è la Morte Rossa, personificazione del contagio che avviene fuori dalle mura e che ora viene a riscattare il suo pegno da Prospero. Qui si consuma lo scontro fra i due, che culminerà con la dipartita del principe, e in seguito con l’eliminazione sistematica e impietosa di tutti gli ospiti, affinché sia fuori che dentro il castello regni, in assoluto, la Morte. Nel racconto, come spesso accade in Poe, cardinale è il Tempo che fugge, rappresentato nuovamente dalle pendole come isotopia focale, il cui rintocco è talmente assordante da intontire momentaneamente gli ospiti e i musicisti, e che segnalano proprio a

Non è un caso che Jean Prieur inserisca la storia di Selma Lagerlöf nel suo La premonizione e il nostro destino. Avvertimenti e presagi che possono cambiare la nostra vita, Edizioni mediterranee, Roma, 2001, proprio a iniziare una lunga carrellata di testi che affrontano il tema della predestinazione.

Sul regista cfr. Pawel Aleksandrowicz, The Cinematography of Roger Corman. Exploitation Filmmaker or Auteur?, Cambridge Scholars Publishing, Cambridge, 2016. Una filmografia critica sul cinema ispirato a Edgar Allan Poe in Don G. Smith, The Poe Cinema. A Critical Filmography of Theatrical Releases Based on the Works of Edgar Allan Poe, McFarland, 2003.

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mezzanotte (non un’ora casuale nuovamente, ma un’ora fatale, il passaggio dal vecchio al nuovo giorno) la chiusura del ciclo egoistico innescato da Prospero. La Morte indossa una maschera cadaverica e ostenta cipiglio, ed è vestita di rosso giacché essa si manifesta come malattia purulenta, che falcia le sue vittime in poco tempo ma nell’atroce grondare di sangue dal loro viso. Si tratta in realtà dell’identificazione di un’altra istanza destinale, in qualche modo associata alla Morte, e cioè la malattia, che sopraggiunge inaspettata e che non sempre, nuovamente, è possibile ricondurre entro regimi logicosemiosici. Lo si può fare per esempio con malattie infettive, che si tendono a inscrivere entro regimi causali (ti sei tagliato → non ti sei disinfettato → un agente infetto è entrato nel tuo corpo → ti sei ammalato), ma non con le malattie rare, quelle inspiegabilmente fatali, o le epidemie fuori controllo, la cui origine è spesso irrintracciabile, o quando è rintracciata, come in Contagion (2011, di Steven Soderbergh), non si può arrestare. E, in ogni caso, anche l’atteggiamento riduzionistico per il quale ogni malattia può essere inscritta entro formule di causa-effetto, non risponde alle domande che legittimamente il malato si pone: Perché (proprio) a me? Perché (proprio) ora?22 Il racconto di Poe personificando la malattia nella figura della Morte Rossa la inscrive entro un regime destinale metaforico. Non è in realtà una Morte punitiva, che sopprime gli immorali e premia i buoni di cuore (nonostante essa possa sembrare così, giacché si rivolge agli astanti con espressioni quali «come avete osato?»), ma una Morte Totale, che falcia al contempo chi è fuori dal castello e chi vi è dentro, cioè tratta tutti al medesimo modo. La destinalità si articola così nel film fornendo un’idea di destino super partes e ultimo, come accade per il mondo nel racconto letterario che è suggellato dalla frase finale: «E l’Oscurità, la Decomposizione e la Morte rossa regnarono indisturbate su tutto»23. Si tratta quindi di una Morte che coincide non solo con la malattia ma anche con una sorta di male metafisico assoluto e inspiegabile, che permea l’esistenza minacciandola come una spada di Damocle.

Nel film di Corman, non osannato dalle critiche e che pure presenta elementi di pregio (Brunetta lo considera uno dei «Price-Poe film di maggior rilievo»)24, le differenze con il racconto si fanno palesi, forse anche per motivi di quantità del significante (il racconto è in termini narratologici molto asciutto, e conta una decina di pagine, stilisticamente sublimi). Vengono qui inserite tematiche del tutto assenti nella storia di Poe, prime fra tutte la fede satanista che accomuna Prospero (Vincent Price, che impersonerà anche la Morte Rossa e che rappresenta l’attore-feticcio di Corman nei film ispirati a Poe) e i suoi ospiti, e la presenza della cristiana Francesca (Jane Asher), prelevata contro il suo volere dal popolo e trasformata sostanzialmente in dama di compagnia del sadico principe. La dimensione moralistica, quasi del tutto assente (o taciuta) nel racconto e destituita dall’imparzialità della Morte, è nel film invece preparata lungamente, nello stabilire l’assiologia che vede da un lato il popolo sottomesso, rappresentato dall’innocente Francesca, e dall’altro la nobiltà perversa, che si diverte nel torturare il prossimo e nell’indulgere in feste proibite, che hanno il sentore (edulcorato e relegato nel fuori campo) delle giornate pasoliniane. La Morte Rossa così riequilibrerà i destini spazzando via la vita di tutti i festeggianti e destabilizzando entrambe le posizioni religiose presenti nel film nel sostenere che ognuno è responsabile dei propri inferni e paradisi. Nondimeno così sancendo si porrà in una posizione controversa, giacché nel massacro non solo i colpevoli di sadismo verranno presi, ma anche una considerevole porzione di popolani. Di rilievo semiotico sono certamente cinque componenti, tre delle quali peculiari del film e assenti nel racconto: 1. La presenza di un castello come soglia, come il muro di Lang, che il destino personificato può valicare. Questo è un elemento condiviso fra film e racconto. 2. La scelta della Morte Rossa di risparmiare Francesca e il suo amato Gino, oltre che un nano di corte e la sua amante, ballerina con sembianze di bambina, e ancora una bambina e un vecchio del villaggio (quest’ultimo non si vede mai nel film). 3. Le sembianze della Morte Rossa, il cui volto è identico a quello di Prospero, e alcune specificità formali e plastiche del film.

22 È un tema di grande rilevanza, che ha a che fare con la semiotizzazione della malattia in termini destinali (e del quale la comunicazione medica dovrebbe occuparsi sistematicamente). Per approfondire la questione cfr. Thorwald Dethlefsen, Ruediger Dahlke, Malattia e destino. Il valore e il messaggio della malattia, Edizioni mediterranee, Roma, 1986, e Vito Cagli, L’equivoco psicosomatico. Causalità fisica e causalità psichica nella genesi delle malattie, Armando, Roma, 2002 (quest’ultimo inquadra la questione psicosomatica, cioè relativa alla capacità della psiche di autodestinare il corpo). 23 Edgar Allan Poe, Racconti, BUR, Milano, 1980, p. 333.

24 Gian Piero Brunetta, Storia del cinema mondiale, Vol. 2, Parte 1, Einaudi, Torino, 1999, p. 854.

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4. Il consesso finale nel bosco ove la Morte Rossa tira le fila con altre Morti, vestite alla stessa maniera ma di colori diversi. 5. Il nesso fra morte e contagio Partendo dal primo punto, la soglia è in effetti una componente che sembra radicalizzarsi nel cinema della Morte personificata. Usiamo qui il termine intendendo quella che Eco chiamava «soglia inferiore della semiotica», cioè luogo in cui i segnali esistono ma non sono ancora resi significanti da una funzione segnica25. Questi sono il muro di Lang e il castello di Corman, limiti oltre i quali non c’è relazione segnica ma solo materia insignificata. L’inserzione della soglia nel testo è una strategia che agisce in primis sulla sua destinalità, realizzando una metastruttura la cui attraversabilità o meno modifica l’idea di destino veicolata dal testo. L’attraversamento della soglia significa il valico di un confine di irreversibilità, di un dominio del fato sui destini dei singoli. E in effetti era una grotta in La madre e la morte la casa del mietitore, così come una assurda fortificazione in Destino. Ne Il settimo sigillo parte significativa del setting è una delle più archetipiche delle soglie: la spiaggia. Ne La maschera della morte rossa è un castello, la cui funzione è invertita: non separa la Morte dai vivi, ma i vivi dalla Morte. Si tratta in tutti i casi di metafore topologico-materiche di zone di passaggio dall’immanenza alla trascendenza, o dal comunicabile all’ineffabile. E in effetti le Morti personificate si pongono come guardiani o custodi fisici di tali soglie, esseri che possono oltrepassarle e che propriamente operano in ambo i lati, traghettando gli esseri umani da una dimensione all’altra, e collocandosi in un interstizio, in un in-betweness. Anche per questo le Morti fisicamente si presentano come figure appunto di soglia: vestite in maniera ambigua, di solito filiformi e slanciate – come a essere creature naturalmente capaci di divincolarsi nelle intercapedini generate fra l’esistere e il non esistere – e con i volti mascherati o comunque plasticamente a metà, come il Joker starobinskiano26, o, più prosaicamente, il Two-Face di Batman, fra il vivo e il cadaverico, fra il Bene e il Male. La Morte Rossa di Corman tuttavia, a differenza di quella di Poe, è assieme mascherata e umanoide. Essa, vestita di rosso a coronare con una rima plastica il grandguignolesco suo incedere, è anche nel comportamento più antropomorfa che non nella versione letteraria. Se nelle righe di Poe essa uccide

chiunque, nel film risparmia caritatevolmente sei figure che variamente costituiscono un campionario di innocenza in un mondo di corrotti. La bambina del villaggio, figura cardinale eppure mostrata, bressonianamente, per sottrazione, pochissimo, non la teme, e anzi nella sequenza finale essa è mostrata nel giocarvi a carte assieme. Le carte, che la Morte già adopera altre volte nel film, e che hanno tutte le sembianze di quei tarocchi che già Italo Calvino, ne Il castello dei destini incrociati27, aveva emblematizzato come motori semiotici e destinali, assumono valenze metasemiotiche. La Morte in questa scena mostra una sorta di umana pietas nei confronti dell’infante, ed è raggiunta da altri figuri incappucciati e vestiti dei colori più variegati. È un consesso finale, ove al calare della notte i vari figuri discorrono su quante anime si siano portate con loro, e sulla stanchezza (eco di Lang) che tale mansione comporta, prima di allontanarsi in una processione colorata che fa da chiosa a un film che per tutto il tempo aveva abituato lo spettatore a considerare la Morte Rossa come unica Morte, fin dai titoli di testa, cioè da una collaborazione stretta fra paratesto e testo, scritti in bianco su un sanguinolento sfondo rosso. Il volto della Morte è poi fondamentale, poiché essa assume le sembianze dello stesso Prospero. Ciò manca completamente nel racconto, ove con il principe ella intrattiene un fulmineo duello stroncandolo. Nel film invece tale identità ricalca una morale in stile di contrappasso dantesco: la Morte prima asseconda le fantasie del principe satanista, facendosi seguire in una sfilata di stanze identiche ma di colori diversi (che anticipano la passerella colorata nel finale) e facendogli credere di essere Satana, il Dio da lui venerato, e poi rivela il suo volto, rosso sangue ma inconfondibile. Il principe così, che ha sparso morte e mestizia per il suo puro sollazzo, e che ha retoricamente spacciato la sua crudeltà per misericordia, è ora posto di fronte a uno specchio vivo, un cortocircuito eterotopico28. È in questo sen-

Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 1975, p. 34. Cfr. Jean Starobinski, Ritratto dell’artista come saltimbanco, Bollati Boringhieri, Torino, 1984.

Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, Einaudi, Torino, 1973. Su Calvino fra i più recenti e rilevanti studi semiotici cfr. Alessandra Chiappori, “Il luogo geometrico dell’ io”. Autenticità, enunciazione e spazialità in Dall’opaco di Italo Calvino in Guido Ferraro, Alice Giannitrapani, Gianfranco Marrone, Stefano Traini (a cura di), Dire la natura. Ambiente e significazione, Aracne, Roma, 2015. 28 Ci riferiamo qui all’eterotopia come teorizzata in Michel Foucault, Eterotopie, in Archivio Foucault, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1998, e cioè un luogo capace di connettere due luoghi altrimenti impossibili da avvicinare, come accade nel caso degli specchi, che sono in grado di unire visivamente lo spazio che sta di fronte agli occhi con quello antistante la nuca. Per Foucault, però, proprio il cinema è un’eterotopia, aggiungiamo

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La maschera della morte rossa La maschera della morte rossa so tuttavia un privilegiato, poiché l’istanza destinale presentandosi gli offre quantomeno una significazione del macabro destino che di lì a poco lo attenderà, in qualche modo conferendogli la salienza esistenziale che ha sempre perseguito; gli altri ospiti invece saranno trasformati in ballerini mortiferi, che coreograficamente, ricalcando il tema iconografico medievale della danza macabra 29, non faranno che confermarsi come figure di contorno alla dipartita del principe. E i popolani, infine, periranno quasi tutti. Tale considerazione ci muove verso l’ultimo punto, che segna nuovamente un nesso ermeneutico fra il racconto e il film. Entrambi, come si è detto in precedenza, possono essere letti come sviluppi di un’idea di insignificanza o in-

sensatezza della malattia30. In effetti ciò è acuito nel film più che nel racconto. In quest’ultimo infatti l’isolamento di Prospero e dei suoi sudditi nel castello sembra garantire una sorta di ambiente da quarantena, che da lì a pochi anni diventerà uno degli spazi più visitati dall’occhio cinematografico nel cinema di zombi e di contagio31. Tale ambiente per un po’ di tempo non lascia adito alle infiltrazioni della malattia ma infine, come motore per la storia, rivela la sua porosità. La Morte infatti, ecco una sorta di vittoria del magico sul razionale, passa comunque, perché doveva passare.

Cfr. Hans Georg Wehrens, Der Totentanz im alemannischen Sprachraum. “Muos ich doch dran – und weis nit wan”, Schnell & Steiner, Regensburg, 2012.

30 Questa considerazione, come molte altre che seguiranno, ci dà la prova di come l’insignificanza sia tutt’altro che insignificante. Essa è, anzi, un formidabile bacino di senso. Un approccio sistematico a una semiotica dell’insignificanza in Massimo Leone, On Insignificance. The Loss of Meaning in the Post-Material Age, Routledge, New York-London, 2019. 31 Sebbene il tema sia già presente almeno da White Zombie (L’ isola degli zombies, Victor Halperin, 1932), è a George A. Romero che dobbiamo la serializzazione del non-morto nel cinema (cfr. Tony Williams 2015, The Cinema of George A. Romero. Knight of the Living Dead, Wallflower Press, London-New York 2015).

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noi semiotica, poiché la superficie schermica congiunge lo spazio (cioè l’ontologia) dello spettatore con quello del film. 29

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Nel film al contrario è lo stesso Prospero, in un’ascesa di perversione e, in qualche modo, gettando un guanto di sfida al destino (sentendosi protetto dal suo Dio-diavolo), a portare fra le mura della sua fortezza il vettore del contagio, aprendo a una possibilità di traducibilità dalla semiosfera al suo esterno (dalla cultura all’incultura, se si vuole essere lotmaniani). Pur conscio infatti dell’ondata di Morte Rossa egli proprio all’inizio del film, per soddisfare la sua malvagità, rapisce Francesca che esattamente dai luoghi del focolaio arriva. Si potrebbe dunque ipotizzare, in ultima istanza, che sia in fondo Francesca, figura ambigua che dopo aver strenuamente difeso la sua fede cristiana è alla fine, di fronte alla morte del padre, sopraffatta, completamente abulica e anaffettiva, il vero ponte di cui si serve la Morte Rossa per diffondersi, il suo vettore. Il corpo umano, soglia anch’esso, si fa così veicolo ultimo della malattia e della Morte, in quanto è su di esso infine che l’istanza destinale opera la sua falce, come accade in film di tutt’altro tenore come Mar adentro (Mare dentro, 2004, di Alejandro Amenábar), dove la presenza della morte è tutta nel corpo di un tetraplegico che sceglie scientemente di suicidarsi, o in opere radicali che riflettono sul rapporto fra corpo che si ammala e mente come Lightning Over Water (Lampi sull’acqua – Nick’s Movie, Wim Wenders, 1980) e Mrs. Fang (Wang Bing, 2017).

Restando nell’ambito dei film dell’orrore con presenza del cupo mietitore, ma muovendoci verso il cinema contemporaneo, si nota come l’iconologia della figura da un lato resti invariata, preservando il saio e la falce o simili, mentre dall’altro sia trasfigurata nel volto, giacché con l’ausilio di effetti speciali iniziano a prevalere visi mostruosi, teschi, o alle volte semplicemente visi non-visi, cioè ombre nere all’interno del cappuccio a indicare una presenza fantasmatica. Si susseguono così decine di film, più o meno rilevanti, come il nostrano Dellamorte Dellamore (Michele Soavi, 1994), grottesco caso di zombi-movie all’italiana, o Solomon Kane (Michael J. Bassett, 2009), action movie a sfondo fantastico. Un caso di rilievo, che recupera i temi già menzionati in precedenza della soglia e dell’interstizio, è The Frighteners (Sospesi nel tempo, Peter Jackson, 1996). Qui l’elemento mortifero è da un lato acuito dalla presenza di soluzioni visive sofisticate, collocandosi in una certa fase della storia del cinema (gli anni ’90) che tendeva a sperimentare un’effettistica

in costante evoluzione, dall’altro stemperato dalle atmosfere comiche su cui si reggono alcune parti del film. La storia è quella del medium Frank Bannister (Michael J. Fox, attore che con il cinema fantastico salì alla ribalta qualche anno prima con la trilogia Ritorno al futuro firmata Robert Zemeckis), che in seguito a un incidente quasi-mortale ha acquisito la capacità di vedere i fantasmi. Questo canovaccio, declinato da Peter Jackson in una mistura di macabra ilarità e inquietanti retroscena, è stato poi adoperato anche da M. Night Shyamalan in The Sixth Sense (Il sesto senso, 1999), ove il medium che “vede la gente morta” è però un bambino, e ove non vi è alcuno spiraglio di comicità data la sua condizione spaventosa e drammatica. Frank Bannister al contrario fa amicizia con tre fantasmi stereotipi, un gangster nero degli anni ’60, un nerd degli anni ’50 e un pistolero del vecchio West, e sfrutta la sua abilità per lucrare su falsi esorcismi, mandando i trapassati amici a “infestare” abitazioni di gonzi che poi disinfesterà a pagamento. Tuttavia il cinico protagonista si scontra presto con scenari molto più turpi, scoprendo di avere anche la capacità di intravedere un numero sulla fronte di alcune persone, un indizio destinale che si palesa nel profilmico, che segnala la loro imminente morte proprio per mano del tristo mietitore. Capirà solo in seguito, diventando egli stesso fantasma dopo avere assunto una ingente dose di barbiturici ed essersi isolato in una cella frigorifera – esperienza del limine simile a quella che vive Jack Starks (Adrien Brody) in The Jacket (John Maybury, 2005) – che il tristo mietitore non è altri che il fantasma travestito di Johnny Bartlett (Jake Busey), ex omicida plurimo arrestato e giustiziato molti anni prima. Così vengono rievocati temi del passato: la Morte in quanto tristo mietitore non è essa stessa la destinante ultima ma un messaggero, qui sadico e voglioso di assumere questo ruolo, ne Il carretto fantasma costretto invece nel tetro vestito. Da un punto di vista fisiognomico se i fantasmi sono resi nella tipica trasparenza azzurrognola il tristo mietitore è invece presentato come un’entità la cui malvagità di contenuto si riverbera nella sostanza dell’espressione. Egli di umanoide ha solo il profilo, ma in realtà volteggia per aria, può valicare i limiti della materia, non ha volto se non l’oscurità che abita sotto il cappuccio, e ha mani e braccia scheletriche e orrende. Tutti questi tratti amplificano l’idea di un tristo mietitore che non è né stanco, né costretto nel suo ruolo, ma voglioso di portare malignità nel mondo. Egli dunque si fa carico di alcuni tratti delle morti cinematografiche precedenti, ma si spoglia del por-

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tato moralistico delle suddette, anche in prospettiva metafilmica, segnalata dalla presenza nel film di alcuni divertissement discorsivi, come la presenza del fantasma Hiles, custode del cimitero interpretato da R. Lee Ermey. L’attore è lo stesso che impersona la figura iconica del Sergente Maggiore Hartman in Full Metal Jacket (Stanley Kubrick, 1987)32, e in Sospesi nel tempo è vestito allo stesso modo e interpreta sostanzialmente lo stesso ruolo (reso peraltro con le stesse inquadrature frontali adoperate da Kubrick e con la stessa verve del personaggio del noto film di guerra). Va anche notato come nel film di Peter Jackson compaia di nuovo il tema della sottomissione della morte a padroni più alti. Essa quindi non è un destinante o antidestinante tautologico, ma piuttosto un destinante destinato. Il protagonista infatti giunge fino in Paradiso, ma ne è estromesso poiché la sua ora non è giunta, mentre il serial killer che vestiva i panni del tristo mietitore con la sua aiutante vengono ingoiati da un gigantesco mostro vermiforme che li condurrà all’inferno, così come è un verme a portare l’inferno sulla terra in [REC] (Jaume Balagueró e Paco Plaza, 2007) e i suoi seguiti. L’associazione dell’istanza destinale ultima a un essere ultraumano, di solito di vermiforme, è tipica di un certo cinema che attinge da registi come John Carpenter (La cosa non ha forma, ma quando ne assume una spesso la distorce in esseri carnalmente orrendi) e David Cronenberg, ma affonda le sue radici letterarie in immaginari come quelli di Howard Phillips Lovecraft o, più recentemente,

Stephen King (It, l’essere maligno nato prima dell’universo, assume molte forme, dal ragno gigante al clown malvagio, ma in fondo non ne ha alcuna)33. Il tristo mietitore fisiognomicamente sospeso fra l’umano e il mostruoso è anche presente in alcune scene della saga di Harry Potter, tratta dai romanzi di J. K. Rowling. Se ne trova traccia in Harry Potter and the Goblet of Fire (Harry Potter e il calice di fuoco, Mike Newell, 2005), come statua in un oscuro cimitero di maghi che segnala la rinascita (che avviene in maniera piuttosto splatter tramite l’inserzione di un essere simile a un feto in un calderone) del reprobo Lord Voldemort, e in Harry Potter and the Deathly Hallows – Part 1 (Harry Potter e i doni della morte – Parte 1, David Yates 2010) dove nelle sequenze finali, attraverso un cartone animato in computer grafica, si racconta della leggenda interna alla diegesi dei “Doni della Morte”. La Morte è qui rappresentata come figura fusiforme e oblunga, interamente nera e provvista ancora di saio, e semitrasparente. Il volto che si intravede è quello di un teschio allungato, e sul finale, dopo aver mietuto le sue vittime, le compaiono delle ali sulla schiena con le quali si allontana in cielo con l’ultimo cadavere fra le grinfie, come se fosse un condor. Nei film di Harry Potter la presenza della Morte, in un mondo fantastico popolato di maghi e streghe, segnala il passaggio dai primi capitoli della saga, più bambineschi, ai capitoli più dark, ove i protagonisti traghettano dall’infanzia all’adolescenza, assumendo coscienza della presenza della fine. Nell’horror il tristo mietitore è quindi una figura trasversale, che viene anche sfruttata in sede di produzioni a basso costo, di film che non hanno fra le loro priorità lo spessore estetico, ma che pure forniscono rappresentazioni stimolanti. Si tratta di casi come Grim Reaper (Michael Feifer, 2007), uno slasher movie ove la Morte è rappresentata come il classico tristo mietitore e perseguita una giovane spogliarellista che “le è sfuggita”, poiché investita da un taxi è riuscita a sopravvivere grazie a un intervento in pronto soccorso. Si tratta qui di un tema che colloca la Morte all’interno dei domîni della possibilità di fuga dal fato (ultimo), e che è nel cinema emblematizzato dalla saga di film Final Destination (James Wong, 2000; David R. Ellis, 2003; James Wong, 2006; David R. Ellis, 2009; Steven Quale, 2011), costruita sulla reiterazione del medesimo pattern: un gruppo

La più recente trattazione italiana del cinema di Kubrick è il volume collettaneo a cura di Enrico Carocci, Stanley Kubrick, Marsilio, Venezia, 2019.

I film tratti o anche solo ispirati dall’immaginario di Lovecraft sono moltissimi e trasversali. Per approfondire cfr. Charles P. Mitchell, The Complete H. P. Lovecraft Filmography, Greenwood Press, Westport (Connecticut) 2001; Antonio Tentori, H. P. Lovecraft e il cinema, Profondo rosso, Roma, 2014; ed Edoardo Trevisani, Filmare l’ignoto. Lovecraft e il cinema, Edita, Taranto, 2015.

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Harry Potter e i doni della morte – Parte 1 di giovani ragazzi sfuggono a morte certa grazie a “suggerimenti illeciti”, come sogni premonitori della Cassandra di turno, cui nessuno dà retta salvo ricredersi di fronte all’evidenza. Tuttavia non si può sfuggire alla Morte, ché quando l’ora fatale è giunta reclama i suoi pegni uno a uno, portandoli con sé nei modi più creativi e truculenti. Il primo film della saga, che ha diviso le critiche che ne hanno colto spesso solamente il carattere teen teso a soddisfare il fascino necrofilo degli adolescenti americani34, e che è l’unico sul quale ci soffermeremo, è un teen movie a base paranormale dove la Morte in realtà non compare quasi mai come istanza propriamente antropomorfa, ma mantiene una qualche forma di materialità con la quale determina i destini. In una scena esemplare uno dei protagonisti si trova nel bagno della propria casa. Qui la cinepresa indugia su alcuni oggetti, per condurre lo spettatore verso false piste sfruttando gli automatismi cognitivi offerti dai cosiddetti Fucili di Čechov. Jurij Lotman, nella Cultura e l’esplosione35, riprende la famosa raccomandazione di Čechov, per cui se in un racconto o un dramma viene mostrato all’inizio un fucile appeso alla parete, prima della fine quel fucile dovrà sparare. Lotman ci lascia capire che il vero problema non è poi se il fucile sparerà davvero. Proprio il non sapere se sparerà o no conferisce significatività all’intreccio. Leggere un racconto vuol anche dire essere presi da una tensione, da uno spasimo. Scoprire alla fine che il fucile ha sparato Cfr. Carlo Climati, I giochi estremi dei giovani. Mode, hobby e tendenze oltre ogni limite, Paoline, Milano, 2005. 35 Jurij M. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1993. 34

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o meno non assume il semplice valore di una notizia. È la scoperta che le cose sono andate, e per sempre, in un certo modo, al di là dei desideri del lettore. Il lettore deve accettare questa frustrazione, e attraverso di essa provare il brivido del Destino36 . I fucili di Čechov così sono da un lato dispositivi atti a inserire la fruizione del lettore in un contesto tensivo, in uno spettro di emozioni che si allacciano alle implicature narrative. E, più profondamente, costituiscono elementi destinali attraverso cui il lettore costruisce inconsciamente la sua idea di destino a partire dal film, che potrà essere confermata ma anche confutata. Lo spettatore di Final Destination infatti, ormai abituato ai meccanismi del film e consapevole di cosa sta per avvenire, è condotto per esempio a pensare che possa essere il rasoio più volte inquadrato a provocare il decesso del personaggio. Al contrario è invece una perdita da una tubatura a innescare la reazione a catena (locuzione destinale fondamentale) che determinerà infine la morte per asfissia del ragazzo: la chiazza d’acqua silenziosa si insinuerà fra le piastrelle del bagno facendolo scivolare verso il cordino dei panni stesi per impiccarsi a esso. Qui la Morte non è più un’entità personificata o mostrificata, con la quale si può quantomeno tentare di scendere a patti, ma un ente che comunque c’è anche matericamente, come dimostra la fine della sequenza. L’acqua infatti, che è fuoriuscita dalla tubatura producendo il rivolo da cui si ingenera la serie di eventi che porta alla morte del personaggio, una volta adempiuto al suo compito si ritira senza lasciar traccia. Con ciò le immagini del film non solo suggeriscono, ma addirittura indicano una predestinazione incontrovertibile, che nell’ottica di un regime di aggiustamento (sei fuggito illecitamente al tuo destino, le cose vanno rimesse al loro posto), viola anche le leggi più note della fisica. Avendoci dunque Final Destination fornito una cerniera con la quale passare dalle morti personificate alle morti invisibili, è bene soffermarsi su film di sapore più leggero, che comunque possono dirci molto sui modi attraverso cui la cessazione della vita è scritta e letta nel cinema e nel mondo. La morte leggera Partiamo quindi da un film poco noto, e che pure ha tutta una serie di meriti per il nostro discorso. On Borrowed Time (Harold S. Bucquet, 1939) narra 36

Umberto Eco, Sulla letteratura, Bompiani, Milano, 2002, p. 21.

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una storia per l’epoca, in pieno contesto di cinema classico, originale: il vecchio Gramps (Lionel Barrymore) viene visitato dalla Morte, un figuro ben vestito di nome Brink (Sir Cedric Hardwicke), ma grazie a un magico trucco inconsapevolmente suggeritogli dal piccolo Pud (Bobs Watson) riesce a intrappolarlo sopra l’albero di mele in giardino. Egli non potrà scendere fin quando Gramps non scioglierà quell’incanto che è una staccionata simbolica e invisibile, per certi versi simile a quella di El ángel exterminador (L’angelo sterminatore, Luis Buñuel, 1962), e d’altronde fra le locuzioni “angelo sterminatore” e “tristo mietitore” sussistono numerose consonanze semantiche. L’anziano uomo inizia così un percorso interiore, che lo porterà anche a visitare una clinica psichiatrica e a rendersi conto che non ha intrappolato solo la Morte per se stesso, ma anche per tutti gli altri, impedendole così di dar sollievo anche alle persone sofferenti. Qualcosa di simile accade in un romanzo di molto posteriore, e cioè Le intermittenze della morte (As intermitências da morte) di José Saramago del 2005, ove una Morte scioperante dissemina il caos nel mondo. Nel film dunque man mano che il tempo scorre Gramps, dalla sua sedia a rotelle, si rende conto di aver creato un’impasse, al quale non può sfuggire, e infine si concede alla Morte pur facendo soffrire, inevitabilmente, il piccolo Pud a lui molto affezionato. Il film, ispirato al romanzo omonimo di Lawrence Edward Watkin (1937) e alla pièce teatrale di Paul Osborn (1938), è una sorta di melodramma brillante, impomatato e fantastico, di cui la storia del cinema pare non essersi troppo accorta; eppure da esso si schiude una visione della Morte man mano più consapevole, e dell’ineluttabilità del destino, che ha molto in comune con i film analizzati in precedenza, pur mancando di atmosfere prettamente orrorifiche e declinandosi con toni fantasiosi. Non vi è qui più un tristo mietitore ma un signore ben vestito, come molti se ne trovano con ruoli simili nel cinema destinale; non vi sono più gargantueschi muri o castelli a fare da soglia, ma un famigliare e bucolico albero di mele, che, peculiarmente, non separa il mondo dalla Morte, ma al contrario confina la Morte dal mondo. Nell’ambito drammatico scegliamo inoltre di menzionare un’opera che ci riporta al mito archetipico di Orfeo ed Euridice. Si tratta della produzione brasiliana Orfeu negro (Orfeo negro, Marcel Camus, 1959). Il film, tratto dalla pièce teatrale di Vinicius de Moraes Orfeu da Conceição (1959), è ovviamente debitore del mito di Orfeo ed Euridice, come altri dei casi che stiamo esplo-

rando in questo capitolo. Non è certo l’unico caso, e vanno per completezza inseriti nell’elenco almeno Orphée (Orfeo, Jean Cocteau, 1950) e Orfeo (Claude Goretta, 1985), oltre che il già menzionato Vous n’avez encore rien vu di Resnais, che dalla morte dell’uomo si sposta sulla, presunta, morte della rappresentazione e del film. Il film di Camus tuttavia disloca il mito classico nelle favelas brasiliane, condendolo delle fascinose musiche di Antonio Carlos Jobim e Luis Bonfa, e adempiendo a un programma narrativo tipico, ovvero quello della ciclicità e del rifarsi della nuova vita sulla Morte. Orfeo (Brenno Mello) infatti, dopo essere morto ed essersi ricongiunto alla sua amata Euridice (Marpessa Dawn), “lascia il posto” a un giovane ragazzo che impugnerà la sua chitarra per continuare a esistere, in qualche modo ricalcando il vissuto del protagonista. Sul finale il ragazzino, con i due amichetti, danza al tramonto suonando la chitarra, scongiurando con la musica, la poeticità del paesaggio resa con una panoramica laterale, e la danza dei giovani che hanno ancora tutta una vita davanti, la Morte. Qui preme sottolineare come la struttura del film introduca una ciclicità dissimile dai casi precedentemente visti. In Final Destination sul finale la

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Orfeu negro

Morte ha mietuto le sue vittime, e i titoli di coda la suggellano. Qui invece la presenza dei bambini che suonano gioiosamente introduce una circolarità per la quale alla Morte succede la vita. Della Morte si può dunque parlare anche con toni giocosi, pur inserendola all’interno di regimi filosofici. D’altronde la parodia del tabù è de facto uno dei modi attraverso i quali lo si può rendere in qualche modo comprensibile, esorcizzandone l’insignificanza. Si tratta di un gioco che non tende necessariamente allo svilimento della caratura di un determinato tema, ma piuttosto gli riconosce un posto d’onore nella sfera della cultura, mirando a renderlo accessibile, attraverso la desacralizzazione. Ci apprestiamo dunque a concludere la nostra trattazione della Morte come istanza destinale nel cinema indagando le sue virate comiche, grottesche, lepide. Esemplare in questo senso è Brancaleone alle crociate (Mario Monicelli, 1970). Brancaleone da Norcia (Vittorio Gassman) si avventura in una crociata verso la Terra Santa ma pressoché all’inizio del film, dopo essersi dimenato invocando la Morte per il disonore di non essere morto in battaglia, le sue preghiere sono esaudite: l’Angelo della Morte gli si presenta innanzi. La scena ha sapore comico sotto diversi aspetti. Anzitutto l’invocazione di Brancaleone è delirante e fin troppo verbosa, oltre che recitata in maniera palesemente teatrale. Si tratta di un soliloquio compiaciuto: il personaggio in qualche modo si trincera nel raziocinio, sapendo che invocare a gran voce la Morte non significa di fatto alcunché, nel deserto in cui si trova. Brancaleone gioca con la Morte credendola distante, e tuttavia essa non tarda a manifestarsi, producendo nel personaggio una sorta di pentimento che si esprime nelle sue parossistiche movenze. Altro elemento comico è senz’altro l’accento del tristo mietitore: esso, rappresentato nel più classico dei modi (grossa falce, saio nero, teschio dal ghigno maligno), si esprime con marcata cadenza umbrotoscana, così destituendo tutta l’inquietudine che lo contraddistinguerebbe, 86

anche per via della sua collocazione spaziale. Il dialogo infatti avviene in un campo-controcampo in cui Brancaleone è come sovrastato dalla figura mortifera, situata in cima a un piccolo promontorio, e però tale configurazione plastica si crepa di fronte alla voce della suddetta che, pur se stentorea, non può che incutere quantomeno un risolino data la discrasia fra una sua presunta universalità (che si esprime, teoricamente, in una cadenza amorfa, contrassegnata solo da solenne prosodia e da nessun altro tratto soprasegmentale) e una sua manifesta, stereotipa italicità.

Brancaleone alle crociate La Morte di Brancaleone alle crociate è, inevitabilmente, territorializzata. Il film, in chiaro assetto burlesco, continuerà a proporre espedienti di questo genere, ma ciò che interessa è che di fatto, nuovamente, si espleterà in un canovaccio tipico: Brancaleone ottiene, dopo aver contrattato risibilmente, la proposta della Morte di una fine onorevole, purché compia alcune missioni. Tali missioni saranno compiute e, trascorse sette lune, il tristo mietitore verrà a riscuotere il suo pegno. Si verificano qui però almeno tre eventi non così comuni: il primo è il duello fra Brancaleone e la Morte, in tipico stile cappa e spada. Si tratta di un dato rilevante poiché testimonia di una non del tutto raggiunta consapevolezza del personaggio, e di un suo tentativo disperato di sfuggire al proprio destino. Certo, ne Il settimo sigillo allegoria del duello è la partita a scacchi, ma si tratta in ogni caso di una situazione ove la Morte è sempre dominante, mentre in Brancaleone alle crociate, almeno nella primissima fase del combat87

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Brancaleone alle crociate

1960), film-manifesto della nouvelle vague, ove l’utilizzo della luce naturale è sperimentato assiduamente; ma soprattutto la luce rimpalla sull’obiettivo della cinepresa, ottenendo un effetto nuovamente tipico di quell’era in cui il cinema smaschera i suoi meccanismi, acquisendo man mano un gusto squisitamente metalinguistico, come nella famosa sequenza della piscina in The Graduate (Il laureato, Mike Nichols, 1967). Tornando però al finale di Brancaleone alle crociate, in terzo luogo, cosa ancora più rara, il pegno pagato dalla strega si rivela poi falso, poiché Brancaleone nota sul finale una gazza che pare essere proprio la strega reincarnata. Essa quindi in un certo modo non è sfuggita alla Morte, ma le ha teso un tranello, avvenimento assai raro, come stiamo verificando. Rimanendo nel grottesco un ruolo consimile è quello delle rappresentazioni della Morte in due opere dei Monty Python, gruppo di comici inglesi noti per il loro stile fatto di nonsense, bizzarria e speculazione filosofica. In Monty Python’s Meaning of Life (Monty Python – Il senso della vita, Terry Jones, 1983), film a episodi, la parte finale è dedicata al tema della Morte37. Nell’ultimo segmento, come a suggellare un film iniziato con il tema della nascita, e teso a significare le varie tappe della vita umana con gli strumenti della comicità, la storia narrata è quella di un tristo mietitore che si appresta a falciare un gruppo di borghesi, inglesi e americani, in un casolare di campagna. L’inizio dell’episodio è segnalato dalla comparsa del figuro in un ambiente desolato, che compare e si avvicina all’avampiano mediante una serie di dissolvenze. Situato sul lato sinistro dell’inquadratura, oblungo e in qualche modo dinoccolato, la seziona verticalmente, mentre sul lato destro un albero spoglio gli fa da contraltare. Un vento turbinoso gli smuove violentemente il saio, e i rintocchi di una campana contribuiscono a ingenerare il senso di morte. Quando tuttavia bussa, con fare grave, alla porta della cascina, la situazione immediatamente si ribalta, con un procedimento tipico del gruppo di comici. Il padrone di casa non si spaventa alla sua vista, ma anzi lo scambia per un contadinotto della zona. Quand’egli dichiara d’essere la Morte, il tristo mietitore, lui traduce come «Il signor La Morte, che si occupa di mietiture»38. È la massima desacralizzazione,

timento, i due avversari sembrano essere di uguale capacità, salvo poi il tristo mietitore rivelarsi immortale, ridendo quando trafitto da una spada. Il secondo è l’intervento della strega Tiburzia (Stefania Sandrelli), già comparsa nel film, che si sacrifica al posto di Brancaleone, rendendo la Morte soddisfatta (un’anima voleva, e una ne ha avuta), e facendola allontanare. In questo caso il dato interessante è che, come abbiamo avuto modo di notare con La morte stanca, la sostituzione della propria anima con quella di qualcun altro, come a trattare il destino come un mero motore algebrico (+1|-1), è usualmente un’illusione. A volte i personaggi agiscono nel tentativo vano di sostituire la propria anima con quella di altri, quasi sempre sono loro stessi infine a comprendere che tale sostituzione è impraticabile, vuoi per motivi etici o per ragioni pragmatiche. In questo caso invece il pegno pare funzionare. Dal punto di vista delle immagini considerevoli sono almeno due punti: in primis il luogo ove si svolge la contesa, un deserto, reso spesso con campi lunghi, che spicca per la nettezza della spaccatura cromatica (l’azzurro del cielo e il giallo delle dune si tagliano di netto l’un l’altro), a significare nuovamente un regime di soglia; in secondo luogo l’allontanarsi dell’appagata Morte coincide con il controluce del sole al tramonto. Tale luce si riverbera sul saio del personaggio, i cui bordi paiono rarefatti a simulare un processo di trasparenza (finito il suo compito, o la sua missione, essa potrà tornare nella propria ontologia altra), procedimento tipico del cinema moderno come dimostra À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, Jean-Luc Godard,

37 Sullo stretto rapporto fra filosofia e comicità dei Monty Python cfr. Gary L. Hardcastle, George A. Reisch, Monty Python and Philosophy. Nudge Nudge, Think Think!, Carus, Peru, 2006. 38 Ci riferiamo qui alla traduzione in italiano del dialogo, che comunque rispetta la versione originale: «It’s a Mr Death or something. He’s come about the reaping».

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che converte la presunta altezza del tema in qualcosa di estremamente basso e comune. Quando poi il mietitore viene invitato a prendere parte alla cena, esso ha difficoltà a disambiguare la sua posizione, di fronte al gruppo di borghesi che, ottusamente, non gli prestano ascolto. Vi è qui la grande potenza satirica dell’episodio, che opera il ribaltamento non tanto per ridicolizzare la morte, ma piuttosto per enfatizzare la critica sociale nei confronti della classe borghese, incapace di vedere a un palmo dal proprio naso, e responsabile addirittura della sua stessa rovina: è infatti una dozzinale mousse di salmone la responsabile della dipartita del gruppo intero – anche di chi sommessamente sosterrà, ridottosi a fantasma, di non avere in realtà mangiato tale pietanza (come a dire che comunque vi è un peccato collettivo da colmare, come se il gruppo di persone costituisse esistenzialmente, ergo destinalmente, una creatura collettiva, un leviatano sociopolitico). Il carico critico non diminuisce tuttavia nemmeno dopo la carneficina, e infatti i fantasmi degli ospiti fuoriescono dai propri corpi per seguire il tristo mietitore, ma sembrano non curarsi della loro nuova condizione, e anzi scelgono di andare verso l’ignoto – una sorta di gigantesco buco nero – con le loro macchine (curiosamente anche le “anime delle automobili”, il bene di consumo che si fa bene di esistenza, fuoriescono in trasparenza dalle immagini opache delle stesse).

Monty Python’s Meaning of Life

La tematica è così traslitterata da un contesto esistenziale a uno più prettamente sociale, come è tipico dei meccanismi parodici che si collocano sempre su un registro metalinguistico capace di far slittare le assiologie e le ideologie contenute nell’oggetto parodizzato. Come non c’era nulla di poetico nella grossolana cena del gruppo di benestanti (la cui derisione è acuita

dalla presenza di personaggi donne che in realtà sono uomini truccati), così nulla di poetico vi è nel loro morire inconsapevole. Anche in The Adventures of Baron Munchausen (Le avventure del barone di Munchausen, Terry Gilliam, 1988 ), il tristo mietitore compare, nel tripudio di originale fantasia visiva del suo autore. Qui sarà una bambina, di nuovo una viva-appena, ad allontanare la scheletrica identità, lanciandole addosso un candelabro che le farà prendere fuoco. Simile desacralizzazione è quella di Love and Death (Amore e guerra, 1975), film storico di Woody Allen che ispirandosi a Guerra e pace di Lev Tolstoj mette in scena le vicende del maldestro Boris Grushenko (Woody Allen) in guerra contro le truppe napoleoniche in Austria prima, e nel tentativo, con la sua amante Sonja (Diane Keaton), di assassinare l’imperatore poi; tentativo che si rivelerà vano portandolo prima in carcere, dove un angelo menzognero gli dirà che la sua vita sarà risparmiata, e poi alla fucilazione. Nella sequenza finale Woody Allen ricorre a due figure retoriche da sempre tipiche del suo modo di fare cinema, e in fondo nel contesto filmico del tutto imparentate: la prosopo-

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pea39, cioè la comparsa dei personaggi post-mortem, di solito contrassegnata da dialoghi o soliloqui dedicati a temi alti, e l’interpellazione, cioè la chiamata in causa del lettore o dello spettatore stesso, attraverso i più svariati espedienti40. La sequenza si può analizzare come divisa in tre blocchi. Nel primo blocco Boris compare, con la morte al suo fianco, fuori dalla finestra della casa di Sonja, e i due hanno un veloce scambio di battute. Lui si dichiara morto, e già ciò fa comprendere come il dialogo sia assurdo, e situato in una dimensione del tutto cinematografica. Sul piano ermeneutico tale dialogo potrebbe non esistere, ed essere frutto della rielaborazione di Sonja, e tuttavia sul piano filmico esso è rappresentato. Lei le chiede com’è morire, e lui le risponde che è peggio del pollo al ristorante di Tretskij. La sapida battuta è seguita dalla chiusura della finestra di lei, che, nel tentativo di rielevare il discorso si dà un piccolo soliloquio poetico («... le ultime tracce del crepuscolo dileguano dietro la rapida oscurità della sera…»). Più interessante delle sue parole, che fungono da giuntura per il secondo blocco («...noi presto saremo coperti dal grano»), è la scelta di regia adottata da Allen, che si articola sulla transizione di tre inquadrature. Sonja pronuncia le sue ultime parole ed è ripresa, dopo il primo piano che ne ha scandito il monologo41, di profilo sull’avampiano,

sulla destra dell’inquadratura, mentre a sinistra Natasha (Jessica Harper) col volto preoccupato ripete la parola “grano”. I due volti, uno frontale e l’altro di profilo, occupano pressoché l’interezza dell’inquadratura. Immediatamente dopo vi è lo stacco e la stessa scena è ripresa come se la macchina da presa, e con lei il punto di vista, fossero ruotati di 90° a sinistra. Vediamo quindi il profilo di Natasha sulla sinistra, e dietro di esso, a fondersi sul piano dell’immagine con lei, la metà frontale del volto di Sonja. Di entrambe vediamo un occhio, il naso di Natasha sovrasta quello di Sonja, le due bocche si uniscono in una sola, deforme. Siamo dinnanzi a una sorta di Giano bifronte, che scandisce nuovamente “grano”, come se la solennità del discorso, un discorso ultimo, che chiude l’esistenza, avesse riavvolto l’istante del suo dirsi in un eterno ritorno esperito secondo varie prospettive. Vi è un’intera idea di cinema in questo passaggio, che dura meno di un secondo.

39 L’utilizzo della prosopopea implica uno slittamento estetico e semiotico significativo, poiché i discorsi e la stessa presenza del personaggio, pur preservando un significato denotativo, acquistano una connotazione superterrena: «In un’accezione più tecnica prosopopea significa discorso sulla persona. Sono persone gli animali, le cose inanimate e i grandi morti. Da Luciano a Fontenelle (ma si potrebbe partire dall’eidôlon di Dario nei Persiani di Eschilo), l’uomo è accolto nella prosopopea solo da morto. Questo deve far riflettere. La prosopopea solleva come un lembo sulla natura ultraterrena dell’estetica. Esteticamente, il morto è più significativo del vivo» (Johann Georg Hamann, Æsthetica in Nuce, Guida, Napoli, 2003, p. 110). Chiaro è che il gioco retorico di Woody Allen è proprio quello di testare l’elasticità di questa tensione fra terreno e ultraterreno. 40 La presenza dell’interpellazione, della fuoriuscita dalla diegesi, è una costante nel cinema di Woody Allen, che si basa su uno spostamento «al metacinema – autoproclamandosi culturale e alto in quanto iconicamente complesso, tanto gradito ai detrattori del comico “basso” e “popolare” quanto ai patiti dell’affogamento del Cinema-Caos dentro se stesso» (Fabrizio Borin, Woody Allen, Gremese, Roma, 1997, p. 56). Avremo modo di approfondire la questione in seguito. 41 Compariranno molti primi piani nel corso del volume. Questo perché la ripresa ravvicinata del volto assolve nel cinema a moltissime funzioni, ma soprattutto è veicolo emotivo, quindi anche di presa di coscienza del proprio destino. Il tema è rilevante sin dal cinema delle origini, come ottimamente dimostrato in Giulia Carluccio, Verso il primo piano. Attrazioni e racconto nel cinema americano 1908-1909, CLUEB, Bologna, 1999, e mantiene la sua importanza sino a oggi. Un inquadramento in Cristina Jandelli, L’attore in primo piano. Nascita della recitazione cinematografica, Marsilio, Venezia, 2016. Sull’importanza

della recitazione, che ha il suo acme nella mimogestualità facciale, cfr. Mariapaola Pierini, Attori e metodo. Montgomery Clift, Marlon Brando, James Dean e Marilyn Monroe, Zona, Civitella in Val di Chiana, 2006 e a cura della stessa autrice L’attore fra teatro e cinema. Atti del convegno, Trauben, Torino, 2009.

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Amore e guerra A voler essere puntuali vi è qualcosa di profondamente bergmaniano in

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queste inquadrature, che non può che rimandare a Persona (Ingmar Bergman, 1966), che chiaramente ricorre sul piano dell’immagine, pur sostituendo il drammatico mutismo della protagonista Elisabeth Vogler (Liv Ullmann), con la esilarante logorrea di Woody Allen. E infatti, ecco la giuntura con il secondo blocco, una terza inquadratura, una sorta di transizione quasi-analogica che sostituisce al primo piano bifronte di Natasha e Sonja quello di Boris, che ripete a sua volta «grano», guardando in basso sconsolato, prima di puntare gli occhi verso la cinepresa, bucando la quarta parete e iniziando a sua volta il suo monologo “prosaico e prosopopeico”, che, in una sorta di sinusoide esistenziale, desacralizza nuovamente il momento contestualizzando il senso della vita con toni e argomenti cinici, com’è tipico nel cinema di Woody Allen. Tale soliloquio è metafilmico su molti livelli, già diversamente evocati da un altro dispositivo alleniano e non solo: l’anacronismo, per il quale nella Russia del XIX secolo è possibile indossare occhiali con montature palesemente novecentesche, incontrare venditori di hot dog newyorkesi, citare Superman. Finito il monologo ecco dunque il terzo blocco, che vede il protagonista allontanarsi in un viale alberato, danzando con la Morte. Vanno qui rilevati, nuovamente sul piano dell’immagine, almeno due elementi. Il primo, e il più lapalissiano, è lo spiccante colore bianco della Morte, sostanzialmente un unicum dal momento che invece il colore prediletto per le sue rappresentazioni è il nero (con alcune eccezioni, come nel film di Roger Corman). Tale bianco suggerisce le simbologie più disparate, ma in generale attenua in qualche modo il tenebrore associato alla figura. Meno evidente, ma di assoluta rilevanza, è il fatto che il morire del protagonista sia rappresentato in termini di un allontanamento, di un andare che è anche andare via dall’ immagine, uscire dal campo, o meglio, in questo caso, volgersi al punto di fuga che coincide con la profondità di campo segnalata dalle due file di alberi paralleli che tagliano trasversalmente l’inquadratura. Tale punto di fuga è il collasso geometrico dell’immagine, e con esso dispositivo semiotico della fine e dell’ignoto. Segnaliamo con particolare veemenza tale finale proprio perché non è certo l’unico caso in cui sul finale, nel coincidere con la morte, i personaggi si allontanino, vadano altrove, con ciò facendo escano dall’immagine o comunque inizino l’uscita (che terminerà con il fade out, con lo stacco sui titoli di coda, e così via): «il punto di vista è […] la marca della destinazione dell’immagine»42. Dietro tale procedimento formale, 42

Francesco Casetti, Federico Di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano, 1990, p. 229.

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non certo l’unico possibile per rappresentare la morte, vi è una sedimentata filosofia dell’immagine cinematografica come cornice che non solo confina lo spazio della rappresentazione separandolo da quello dello spettatore, ma che anche regolamenta su piani geometrici l’incedere esistenziale dei personaggi, le cui topologie e prossemiche dicono qualcosa del loro stato destinale. Ce lo insegnò, d’altronde, e più seriosamente, Orson Welles in Citizen Kane (Quarto potere, 1941), film che fa uso sapiente del panfocus43, tecnica grazie alla quale si possono mantenere in fuoco diverse profondità di campo della stessa inquadratura, ma che lo fa in funzione di precise esigenze semiotiche.

Love and Death Nell’ambito di film di genere con comparsa di una Morte personificata sono altrettanto significativi Last Action Hero (Last Action Hero – L’ultimo grande eroe, John McTiernan, 1993) per quanto riguarda l’action movie44, Bill & Ted’s Bogus Journey (Un mitico viaggio, Peter Hewitt, 1991i) e Monkeybo43 «Tecnica di ripresa in cui tutti gli elementi che compongono l’inquadratura sono a fuoco» (P. Giuseppe Vezzoli, Dizionario dei termini cinematografici: italiano-inglese/inglese-italiano, Hoepli, Milano, 2000, p. 151). 44 Il film, sebbene le apparenze, è tutt’altro che di poco rilievo, e anzi costituisce un efficace esperimento metafilmico condotto sul filo dell’ironia, a tal punto da figurare, nei testi sui “film sui film”, assieme a casi più blasonati come Sunset Boulevard (Viale del tramonto, Billy Wilder, 1950). Cfr. Christopher Ames, Movies about the Movies. Hollywood Reflected, The University Press of Kentucky, Lexington, 1997.

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ne (Henry Selick, 2001) nel campo della commedia leggera postmoderna, e Meet Joe Black (Vi presento Joe Black, Martin Brest, 1998) per il dramma contemporaneo. Menzioniamo questi film a chiusura del nostro sentiero argomentativo. Last Action Hero è un interessante metafilm interpretato da Arnold Schwarzenegger che impersona sostanzialmente se stesso, sulla scia della sua fama mondiale da star del cinema di azione, come personaggio di un film di azione dove sono convogliati tutti gli stereotipi del genere, e con co-potragonista il piccolo Danny Madigan (Austin O’Brien). Il film quindi è un susseguirsi di citazioni e cammei e Danny arriva persino a incontrare la Morte bergmaniana, interpretata qui da Ian McKellen, “fuoriuscita” direttamente da Il settimo sigillo.

Last Action Hero L’operazione metafilmica, mirata a difendere la forza del cinema come “macchina dei sogni”, non è l’unica della carriera di Schwarzenegger, che ripeterà qualcosa di simile nella trilogia The Expendables (I mercenari, Sylvester Stallone, 2010; I mercenari 2, Simon West, 2012; I mercenari 3, Patrick Hughes, 2014), in un film corale assieme alle grandi star del cinema di azione degli anni ’70 e ’80, quali Sylvester Stallone, Jean-Claude Van Damme e Chuck Norris45.

Bill e Ted’s Bogus Journey e Monkeybone, seppur dissimili, si collocano entrambi nell’ambito della commedia. Il primo è una sorta di trascurabile teen on the road, dove pure la Morte – bergmaniana anche qui, e gioca a battaglia navale – ha sembianze in qualche modo edulcorate (è una Morte ragionevole, come quella della sit-com animata Family Guy, mentre quella di Last Action Hero era paradossalmente meno sorridente di quella di Bergman), mentre il secondo è un viaggio allucinato in un mondo di fantasia ove Stu Miley (Brendan Fraser), fumettista inventore della scimmietta Monkeybone, si trova catapultato nel mondo da esso stesso creato. Tale premessa, che mescola live action e animazione, non è dissimile da altri film, spesso di poco successo, come The Adventures of Rocky e Bullwinkle (Le avventure di Rocky & Bullwinkle, Des McAnuff, 2000), Looney Tunes: Back in Action (Joe Dante, 2003), e più noti e riusciti come Space Jam (Joe Pytka, 1996) e Who Framed Roger Rabbit (Chi ha incastrato Roger Rabbit, Robert Zemeckis, 1998 – quest’ultimo film di eccezionale qualità, con la presenza più unica che rara della mortalità anche per i cartoni animati). In Monkeybone il mondo fantastico e dai toni dark visitato dal protagonista (il regista, amico di Tim Burton, ha diretto capolavori come Nightmare Before Christmas, 1994, e Coraline, 2009) la presenza della Morte come personaggio è palesata quasi subito, e in effetti la storia ha proprio a che fare con una lotta con essa – nell’allegorica città di Thanatopolis – nel tentativo di riconquistare la libertà. Dato certamente interessante, che potrebbe costituire un elemento rilevante analizzando la tematica di cui ci stiamo occupando dal punto di vista dei cultural e gender studies, è che qui la Morte è interpretata da un’attrice di colore, Whoopi Goldberg, che in quanto a “ruoli trascendenti” farà scuola, come si vedrà quando parleremo di Dio. Così lo strampalato film, oltre a preservare di per se stesso un indubbio fascino per via della sua singolarità, si colloca anche nella rara posizione di essere uno fra i pochi nella storia del cinema a scardinare la visione del tristo mietitore come un individuo che, quando fatto carne, ha sembianze maschili. C’era una volta la Morte

Il rapporto fra Morte, cinema, sguardo e divismo è peraltro indagato da altri film come Viale del tramonto, e fra cinema e voyeurismo da film come Rear Window (La finestra sul cortile, Alfred Hitchcock, 1954,) e Peeping Tom (L’occhio che uccide, Michael Powell, 1960). Il voyeurismo che si fa mortale è poi legato alla mitologia cinematografica dello snuff movie, la cui fonte scientifica più aggiornata e completa è a oggi Neil Jackson, Shaun Kimber, Johnny Walker, Thomas Watson (eds.), Snuff Real Death and Screen Media, Bloomsbury, New York-London, 2016.

L’ultimo caso che trattiamo, prima di spostare lo sguardo, è quello di Vi presento Joe Black, film che trae ispirazione dal classico Death Takes a Holiday (La morte va in vacanza, Mitchell Leisen, 1934), in seguito anche film per la tv nel 1971. Quella del film è forse una delle rappresentazioni della Morte più tese verso una destinalità negoziale che esistano nel cinema, e richiama

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Monkeybone in causa molti degli elementi che abbiamo sin qui evidenziato, fin dalle origini, ma ne introduce anche di nuovi. William Parrish (Anthony Hopkins) è un ricco uomo d’affari, che riceve la visita inaspettata di, nomen omen, Joe Black (Brad Pitt), giovane avvenente che altri non è che la Morte, che viene a recapitargli il suo estremo messaggio. Durante tutto il film i due tuttavia si confrontano, e il paradosso del loro rapporto si espleta su vari livelli, a partire da quello fisiognomico: giovane e dal volto inesperto la Morte, anziano e segnato da una vetusta saggezza la vittima. Le loro discussioni assumono vari toni, e William sa bene che la sua ora sta giungendo, eppure ha il tempo di risolvere le sue questioni irrisolte, prima di terminare la sua vita. Se questo è il consolidato canovaccio dell’autocoscienza in vista della fine, molto più innovativo è il ruolo di Joe Black, che in qualche modo ha in sé la stanchezza della Morte di Lang e decide letteralmente di prendersi del tempo per esplorare la condizione umana nel suo nuovo corpo (preso a prestito da un giovane trapassato nel momento in cui si svolgono le vicende per via di un incidente d’auto). Addirittura si misura con le emozioni umane, si avvicina al piacere dei sensi instaurando un anomalo rapporto con il burro d’arachidi, e infine, in qualche modo, prova amore. Si tratta di una situazione rara: solitamente la Morte, anche quando negozia con le sue vittime, non cambia posizione né prospettiva. È un personaggio statico, la cui presenza destina gli altri a mutare. In questo film invece il cambiamento di prospettiva è primariamente il suo. Nella scena del primo bacio fra Joe Black e Susan (Claire Forlani), la figlia di 98

William, questa dimensione inedita della Morte si esprime con particolare eleganza filmica. I due entrano nella biblioteca privata del padre. La fotografia è fatta di luci soffuse che riscaldano l’immagine conferendole sentori di intimità e confortevolezza. Susan guarda davanti a sé, Joe le sta poco dietro, così la conversazione si ha nella stessa inquadratura, senza necessità di un campo-controcampo, e la focalizzazione è asimmetrica: lui può vedere e udire lei, lei può udire ma non vedere lui. È interessante notare come l’azione si svolga su due livelli, da un lato il discorso poetico di lei sulla pendola nella stanza (interessante rimando ai film che abbiamo trattato all’inizio), dall’altro gli straniti sguardi e movenze di lui, proiettato in un mondo nuovo, fatto di sensi che gli fanno dire «hai un buon odore». Dopo il long take lo stacco dell’inquadratura ci mostra il lungo e timido bacio dei due, preservando la focalizzazione asimmetrica. Mentre lei romanticamente chiude gli occhi lui invece li muove in maniera incuriosita, come a cercare di comprendere cosa stia avvenendo, prima di concedersi a questa piacevole scoperta, chiudendoli a sua volta e lasciandosi in qualche modo andare all’umanità. La Morte è così rappresentata come essere mutevole, “sorella” della vita e che con lei condivide qualche tratto. Di tale svolta nel modo di concepire l’istanza destinale bisognerà tenere conto, così come della sequenza finale, che da un lato ricalca con fedeltà alcuni archetipi, ma dall’altro sconvolge nuovamente il panorama teoretico che abbiamo faticosamente issato, a riprova dell’impossibilità di stendere un quadro oggettivo e della necessità di una mappatura quanto più ampia possibile.

Meet Joe Black Durante una sfarzosa ed elegante festa William e Joe hanno la loro ultima conversazione, e poi l’ora giunge. Esattamente come in Amore e guerra la morte coincide con un andarsene assieme e complice dei due personaggi: nel caso di Allen con una danza, in questo con distinta andatura e vestiti di tutto punto. Nuovamente l’immagine assume un’importanza fondamentale, 99

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essa è destinalità di per sé. I due si allontanano attraversando un ponticello (figura simbolica, eterotopia foucaultiana), vanno, addentrandosi nel limine, costruito con perizia plastica: il ponte è visto non lateralmente, ma frontalmente; la loro camminata è centrale, il cielo è nero pece, irreale pur essendo notte, e la curvatura del ponte fa sì che il loro attraversare li collochi in un “fuori campo in campo”. L’uscita dall’ immagine è l’uscita dal mondo. Claire tenta vanamente di raggiungerli, ma non riesce a farcela, e tuttavia qualcosa di strabiliante capita: dopo il controcampo sul volto affannato di Claire il montaggio ci riporta di fronte al ponte, la cui configurazione plastica è mutata, in maniera delicata ma estremamente significativa. Se prima le colonnine di base del ponte segnalavano i limiti dell’inquadratura ora siamo di fronte a un piano leggermente più lontano, che consente di vedere anche dell’erbetta davanti ai primi gradini. Il cielo non è più nero metafisico, e si scorgono con chiarezza degli alberi dietro alla struttura architettonica. È matericamente lo stesso luogo ma destinalmente un luogo ribaltato, e da quel luogo, così come due uomini si sono allontanati, uno rientra in campo. È Joe Black, o meglio il proprietario del corpo che la Morte aveva preso in prestito, che torna da Claire, pur non avendo mai avuto il tempo di conoscerla. Così la Morte di Vi presento Joe Black prima scopre l’umanità, cambia paradigma, impara ad amare – cosa di per sé molto rara – e dopo addirittura riporta in vita una persona, in virtù del suo cambiamento di stato. In altre parole non è una Morte sempre uguale a se stessa, come sostanzialmente quasi tutte quelle viste sinora, ma una morte differenziale, che cambia. Il caso è di esclusiva rarità, giacché se c’è un cinema di redivivi (e c’è, basti pensare al noto The Revenant, Alejandro Gonzales Iñárritu, 2015), questo quasi mai incontra il cinema delle Morti personificate.

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Capitolo 2 Dio Berish: Voglio un processo! Un vero processo! Mendel: Un vero falso processo? Berish: Un processo, ecco ciò che voglio! Yankel: Contro chi? Berish: Ma non hai ancora capito, imbecille? Contro il Re supremo, il Giudice supremo, il Signore dell’Universo! Ecco lo spettacolo che mi metterete in scena stasera. Questo, o niente! Decidete! Elie Wiesel, Il processo di Shamgorod (così come si svolse il 25 febbraio 1649)

Il cinema dell’Altissimo C’è, nel contesto multiforme di istanze destinali che stiamo trattando, un posto d’onore riservato al religioso. È in effetti alle religioni che svariate società umane delegano l’incontenibile inquietudine dell’imponderabile, convertendola in termini fideistici1. Le religioni rappresentano in effetti la complessa messa in discorso dell’incomunicabile. Per la religione ebraica Dio «non può esser visto perché non deve essere conosciuto […] non essere conosciuto, non essere afferrato è la condizione dell’infinità e della futurità»2, e infatti anche il Così come abbiamo specificato all’inizio della sezione sulla Morte, anche qui ci premuriamo di precisare come non sia nostra intenzione addentrarci in un’analisi del modo in cui le singole religioni trattano Dio (per questo un’introduzione in Melanie J. Wright, Religion and Film. An Introduction, I.B. Tauris, London-New York, 2007). Le poche righe che utilizziamo per introdurre l’analisi filmica e semiotica sono utili unicamente a fornire il quadro entro il quale intendiamo iscrivere la questione, senza altra pretesa. 2 Ugo Volli, Figure del desiderio. Corpo, testo, mancanza, Raffaello Cortina, Milano, 2002, p. 53. 1

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suo nome, il Tetragramma, è impronunciabile3. Le religioni cristiane descrivono Dio come “fatto” di alcuni “attributi incomunicabili”, «caratteristiche che Gli sono naturalmente proprie e per le quali non c’è analogia nell’esperienza o nella comprensione umana»4. Nella religione islamica Allah è «il nome proprio di Dio in quanto esprime la divinità unica e incomunicabile»5. E solo per citare le tre principali religioni monoteistiche. Dio appare dunque strutturato attraverso gerarchie di vario tipo, non sempre così dissimili le une dalle altre, e che vivono di una consonanza lampante: la presenza, ai vertici del sistema, in quel luogo cui ogni modello si rifà rivelando la sua caducità (frantumando la propria pretesa logicità), di un Dio, più dèi, o un ente supremo da cui il tutto si diparte e a cui il tutto si rivolge. Tale ente non solo crea le cose del mondo, ma, ciò che qui ci interessa, ne sancisce l’ incedere, ne determina l’ordinalità, alle volte (di religione in religione, di momento in momento) ne è causa (e in alcuni casi effetto, riverberandosi nel mondo). Ora, sarebbe impossibile elaborare, anche solo per sommi capi, un’esaustiva trattazione sul ruolo e sul funzionamento delle religioni del mondo. E di certo non è nostra intenzione. Procederemo nuovamente circoscrivendo l’oggetto a un caso specifico, e cioè la resa di Dio nel cinema. Non ci riferiremo quindi, se non quando sarà necessario, all’immenso bacino del cinema religioso (già solo sarebbe problematico in ragione delle svariate religioni del mondo), ma piuttosto a quello dove la presenza di un Dio o più dèi si palesa agli occhi dello spettatore, fosse anche solo con ausilio di segni indicali o tracce di indessicalità. È bene infatti ribadire che i modelli che stiamo man mano tracciando sono in realtà funzionali anche ai film ove determinate istanze non siano presenti in maniera evidente, ma per economia di analisi il campo deve essere delimitato. Il nostro obiettivo è qui, dunque, anzitutto quello di delineare una filmografia divina, in cui Dio esista come entità relazionale (coi personaggi, con l’immagine, con la struttura…), con cui i personaggi possono relazionarsi

al di là del Credo (di fatto un cinema sempre in qualche misura blasfemo, giacché l’uscita del Dio dall’assenza ne prova la presenza, e quindi lo pone in una dimensione in cui decade il principio di incomunicabilità, il Mistero della Fede); nel mentre comprenderemo come l’idea di tale Dio sia veicolata dai film e si faccia immaginario, e cioè in che modo la divinità si inserisca nel quadro destinale che stiamo costruendo. Indessicalità divine Quando si tratta di cinema e Dio è imprescindibile menzionare un film come La passion de Jeanne d’Arc (La passione di Giovanna d’Arco, Carl Theodor Dreyer, 1928). L’opera del regista danese è in effetti, al di là del tema religioso, annoverata fra i grandi capolavori della storia del cinema, e la sua Giovanna d’Arco costituisce probabilmente la più nota iconizzazione filmica della santa francese6. Il film, muto, è costruito come una strenua focalizzazione sul momento del processo a Giovanna d’Arco (Renée Falconetti), chiamata a difendersi il 30 maggio 1431, a Rouen, davanti al vescovo di Beauvais Pierre Cauchon (Eugène Silvain). Il film dunque potrebbe essere considerato a tutti gli effetti un courtroom movie ante litteram, essendo ambientato quasi prevalentemente in un’aula di tribunale, se non nel finale, in cui la protagonista, pur per un attimo sedotta dalla possibilità di fare abiura e salvarsi, decide infine di non rinnegare e viene arsa viva. La notorietà del testo è dunque spiegabile secondo una bipartizione: da un lato l’opera risulta anomala e a tratti controintuitiva per quanto concerne le tematiche affrontate; non si tratta infatti di un film storico, nonostante Dreyer avesse speso molte risorse nella costruzione di scenografie raffinate che vennero espunte dal montaggio finale, ma di un’opera interiore, tutta giocata su un processo e cioè una situazione comunicativa fondata sulla parola, proprio in un film ove questa è delegata alle didascalie, e tradotta patemicamente dall’utilizzo insistito dei primi piani. Dall’altro lato spicca infatti la sostanziale attenzione formale del regista, che non solo elabora un intero codice emotivo dei primi piani, ma anche mette a punto una serie di

3 Sebbene alcune fonti, come Alberto Mello, Il Dio degli Ebrei: Riflessioni sull’Esodo, Terra Santa, Milano, 2016, segnalino che JHWH in epoca biblica aveva valenze semantiche, come testimonierebbe ES 34,14: «Il suo Nome (Jhwh) è Geloso: egli è un Dio geloso». 4 Paolo Castellina, La Confessione di fede valdese del 1655, Sentieri antichi valdesi, S.I. 2013, pp. 55-56. 5 D. B. MacDonald, Allah in Encyclopédie de l’Islam, Tome I, Leyde-Paris, 1913-1914, p. 304.

6 I film dedicati a Giovanna d’Arco sono decine. Il primo è Jeanne d’Arc (Georges Hatot, 1898), l’ultimo al momento della stesura di questo volume Jeanne (Bruno Dumont, 2019). Nel mezzo si stagliano produzioni francesi, italiane, statunitensi, tedesche, inglesi e addirittura canadesi, giapponesi, norvegesi e sovietiche. Un compendio in Margaret Maddox, A Joan for All Seasons: Joan of Arc in History and the Movies, DÆL Publications, 2012.

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efficaci stravolgimenti tecnici, come la presenza frequente di angolature dal basso, quando in campo vi è il volto di Giovanna, a significarne l’oppressione e la sensazione di apnea esistenziale, o ancora la composizione plastica tesa fra il centripeto e il centrifugo, data la presenza assidua di primi piani in cui i volti sono disposti di lato o agli angoli dell’immagine, lasciando che essa si desaturi sui campi vuoti delle pareti bianche o grigie.

La passione di Giovanna d’Arco

Nel film una delle scene cardinali è quella del rogo di Giovanna. Qui i suoi occhi guardano verso l’alto, tratteggiando una linea che supera violentemente il limite superiore dell’inquadratura. Fra le interpretazioni più solide vi è quella, piuttosto ragionevole, per cui essa si stia rivolgendo direttamente a Dio, situato in uno spazio metafisico. Gli occhi dell’attrice, sempre luccicanti e centro della sua fotogenia7, per tutto il film operano da dispositivi il cui puntamento funge da giuntura guardante-guardato, quest’ultimo poi figurativizzato dal montaggio nell’inquadratura successiva, e tuttavia al contempo il loro rivolgersi spesso all’alto invece non è assolto da nessuna messa in forma. Si tratta di un’evocazione segnica, che rimanda a un’assenza per statuto non semiotizzabile. Nella scena del rogo lo sguardo dell’eroina, ormai semi-consapevole ed estatico, punta spesso in alto, ed è intervallato con inquadrature della preparazione e dell’appiccamento della pira, ma pure con le geometrie inquiete di uno stormo di uccelli, in cui ella, forse, ravvisa la presenza divina. Siamo qui dunque di fronte a una rappresentazione sottrattiva di Dio, evocato attraverso dispositivi formali ma sancito nella sua indicibilità, cui nemmeno l’estasi e infine la morte possono tendere. Sembrerebbe succedere il contrario in Martyrs (Pascal Laugier, 2008), dove la povera Anna (Morjana Alaoui), seviziata brutalmente affinché attraverso l’estasi del dolore possa dialogare con Dio e vedere l’altrove, guarda nuovamente in alto (restituito con il controcampo soggettivo di un fascio di luce) per avere la rivelazione poco prima di morire. Rivelazione che però non fa che provocare il suicidio della sua aguzzina, tal Mademoiselle (Catherine Bégin), la quale una volta appreso l’indicibile – ed esplicitando che si tratta di una Verità inequivocabile – si suicida scaraventando i suoi sodali, e lo spettatore, in una situazione di dubbio8. Qualcosa di simile accade in The Last Temptation of Christ (L’ultima tentazione di Cristo, Martin Scorsese, 1988), e tuttavia il regista qui opera su registri in qualche modo diversi rispetto a Dreyer: se quest’ultimo infatti esplicita lo spazio del fuori campo assoluto con lo stormo di uccelli, estrinsecandone la natura non filmabile attraverso, forse, una commutazione sineddotica, Scorsese

L’unione dunque fra la focalizzazione sul processo sul piano narrativo – in un’era ove il cinema prediligeva perlopiù storie di ampio respiro esposte dall’inizio alla fine, e non avveniristici espedienti come l’incipit in medias res – e le fiorite formule tecniche su quello espressivo, genera un film la cui prima intenzione esula dal raccontare una storia in quanto tale, e volge invece prepotentemente verso il simbolico. Non è un caso che proprio un altro espediente formale, quello del fuori campo reificato dallo sguardo di Giovanna (segno indicale), sia oggi descritto più volte come esempio di fuori campo metafisico o assoluto, cioè rivolto a un’oltre dell’immagine che non si espleta nella mera spazialità, ma sconfina verso ontologie inconoscibili.

7 Adoperiamo qui il termine mutuandolo da Epstein che scrive: «Chiamerò fotogenico ogni aspetto delle cose, degli esseri e delle coscienze che accresca la sua qualità morale attraverso la riproduzione cinematografica» (Jean Epstein [1923], «Alcune condizioni della fotogenia», «Cinema & Cinema», 64, maggio-agosto 1992; poi ritradotto da Guglielmo Pescatore che cambia le qualità da “morali” a “specifiche”, 1992, p. 7). 8 Abbiamo condotto l’analisi del film secondo queste premesse in Bruno Surace, Sintassi, semantica e pragmatica del martirio attorno a Martyrs di Pascal Laugier, «Lexia, Martirio – Martyrdom», 31-32 (a cura di Jenny Ponzo), 2019, pp. 351-367

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invece fa seguire allo sguardo di Gesù in croce – per motivi analoghi a quelli di Giovanna – una sorta di controcampo in un’inquadratura del cielo nuvoloso, per tornare poi sul volto insanguinato di Gesù ora consapevole del suo destino, come avesse ricevuto la sua agognata epifania. Il fuori campo così per i due autori diviene istanza simbolica simile, apice massimo del non filmabile, luogo interiore che non si può inquadrare poiché – sostanzialmente – al di fuori di ogni ontologia, e cui si può tendere unicamente mediante lo sguardo della protagonista; uno spazio altro coincidente con il cielo e con le sue propaggini (gli uccelli, le nuvole), che si può intuire, o in cui si deve credere, seppure il suo significato sia tutt’altro che raggiungibile in toto. In La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer due visioni del mondo si contrappongono, sono anzi impenetrabili l’un l’altra tanto da rendere i loro linguaggi estranei. Il linguaggio della ragione di Stato domina il campo mentre quello della passione si libera nel fuori-campo. Come dire che la passione, questa dolorosa affezione, abita il luogo delle cose che non si possono dire, un luogo dove il linguaggio fallisce, sostituito da una sorta di meta-linguaggio9.

Il fuori campo, lo spazio di Dio, lo spazio dell’istanza destinale ultima e definitiva, è quindi un luogo solo parzialmente negoziale. Ecco sopraggiungere la condizione fideistica. Tanto Giovanna d’Arco quanto Gesù, in cerca di quella figura che significhi positivamente il loro tormento e l’ignominia con cui sono vessati in punto di morte, hanno esaurito le loro possibilità in sede linguistica, non hanno più linguaggio adeguato al confronto con l’Altissimo, né forse hanno più niente da dire. I processi cui sono stati sottoposti simboleggiano l’asimmetria che vivono: si tratta di luoghi in cui vero e falso sono stabiliti proprio in virtù di una loro codifica strettamente linguistica, in cui l’essere è messo in grammatica, ma è proprio il non poter aderire a tale grammatica il motivo che pone i due personaggi a processo. Così, fuori dalla sicurezza linguistica, consci che il loro non sia nemmeno un idioletto, un’unica lingua ma pur sempre una lingua, essi non possono che rifarsi al meno linguistico dei segni, quello indicale, quello in qualche modo antisemiotico, che non traduce alcunché, ma mira a stabilire un nesso di contiguità fisica, a issare 9

Bruno Beccaro, I segni delle passioni, Lampi di Stampa, Milano, 2005, p. 127.

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una fisiologia lì dove non c’ è modo per la simbologia. Certo, che il divino stia su, in alto, è una convenzione ampiamente diffusa nella cultura occidentale. Ma il loro rivolgersi a tale altezza è qualcosa di più poiché essi sono consci dello scadere del loro tempo terreno. La loro produzione segnica è marcata da un’aspettualità terminativa che si riflette sulla loro esistenza: vanno a finire, è l’ultimo segno a cui si danno e in cui si fanno. Vedere o non vedere quel che loro vedono o non vedono è dunque null’altro che un atto di fede, e dal punto di vista destinale significa compiere un salto nel vuoto, ammettendo che esista un sistema di significazione che si estrinseca al di fuori del codice, e che è dettato dalla presenza di Dio sul o nel mondo. Intendendo dimostrare la presenza di Dio tentano di farlo mostrandone l’assenza. Dio, Babbo Natale e gli afroamericani In realtà prima di Dreyer la rappresentazione di Dio era già stata affrontata nel cinema, e come già è accaduto con il delicato tema della Morte anche in questo caso il cinema muto delle origini ci fornisce focalizzazioni inaspettate. Ci riferiamo qui al film Come fu che l’ ingordigia rovinò il Natale a Cretinetti (André Deed, 1910), girato dalla Itala Film a Torino. Il film, incuneandosi nella ricca tradizione di film comici delle origini torinesi10, si sviluppa secondo lo stile gag slapstick, la pantomima «a base di torte alla crema e di interminabili inseguimenti»11, tipico di personaggi all’epoca molto noti come Tontolini e Polidor (Ferdinand Guillame), Robinet (Marcel Fabre), e appunto Cretinetti (André Deed). La trama è dunque molto esile, e perlopiù basata sul susseguirsi di disavventure e distruzione del personaggio principale. Costui, una sorta di bambinone pestifero, la sera della vigilia di Natale si ingozza dei dolciumi appesi Nel merito cfr. l’ottima analisi in Silvio Alovisio, Attrazioni, fughe e farse: appunti sul cinema comico a Torino nei primi anni Dieci in Maria Vassallo (a cura di), Insegnare storia con il cinema muto. Torino. Cinema, moda e costume nel primo Novecento, Polaris, Vicchio del Mugello, 2006, ma anche Paolo Cherchi Usai, Livio Jacob (a cura di), I comici del muto italiano, «Griffithiana», 24-25, 1985, Gian Piero Brunetta, Il clown cinematografico tra salotto liberty e frontiera del West, «Griffithiana», 24-25, 1985 e Jacqueline Reich, Italian Silent Film Genres: Comics, Serials, Historical Epics, and Strongmen, in Peter Bondanella (ed.), The Italian Cinema Book, British Film Institute, London, 2013. 11 Jean-Loup Bourget, Il cinema americano: da David W. Griffith a Francis F. Coppola, Dedalo, Bari, 1985, p. 23.

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all’albero casalingo e lo devasta, per poi addormentarsi profondamente ed essere proiettato all’interno di un sogno. Qui incontra Babbo Natale, che lo porta con sé per tenerlo buono, nella sua fabbrica dove anziché vedere all’opera gli usuali elfi ritroviamo degli angeli. Cretinetti tuttavia, senza troppo pensarci, dà sfogo al suo temperamento distruggendo tutto quanto ha intorno e scappando in paradiso, dove riuscirà ancora una volta a seminare il caos, anche al cospetto di Dio. Questi è presentato come un anziano e barbuto uomo (simile alla Morte di Arrigo Frusta), con un’aureola triangolare (simbolo trinitario), e magicamente riassesta la scenografia e fa comparire un diavolo che condurrà Cretinetti negli inferi. Si tratta, in altri termini, di una sorta di Divina Commedia al contrario, dal paradiso all’inferno, ove Babbo Natale svolge la funzione virgiliana. All’inferno similmente Cretinetti combinerà disastri, per poi risvegliarsi e ritrovarsi a dover prendere una purga a letto, un po’ per ovviare all’indigestione che gli ha procurato l’incubo, un po’ per punizione. Qui, in un’inquadratura frontale, come è tipico nel cinema delle origini, si svolge l’interpellazione, e Cretinetti roteando il recipiente del lassativo svela un messaggio di auguri natalizi agli spettatori.

Come fu che l’ ingordigia rovinò il Natale a Cretinetti

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Il film, che si colloca decisamente nel contesto spettacolare del cinema attrazionale12, è realizzato per divertire lo spettatore, ma contiene anche i segnali di un modellarsi novecentesco della figura di Dio e delle potenzialità destinali a essa associate. L’unione del sacro e del pagano (Babbo Natale incontra Dio) costituisce una messa in ridicolo metalinguistica dell’onnipotente, al limite del satirico. Peraltro, in termini destinali – quelli che più ci interessano qui – è molto problematica. Dio è onnipotente, ma di fatto appare in un sogno. Mette le cose a posto, ma lo fa in un mondo onirico, parallelo a quello “reale”. Il risultato è poi dubbio. Auspicabilmente l’intervento di Dio comporta un aumento di consapevolezza, se non un radicale cambiamento, del personaggio interessato, che sostanzialmente si convince (a forza, e quindi ideologicamente) di dover ritornare sul seminato. Qui Cretinetti invece non desiste dal combinare disastri, e anche essendo simbolicamente punito dalla purga nell’inquadratura finale non ha l’espressione di un individuo che abbia veramente imparato qualcosa dalla lezione (il classico incubo post-abbuffata), e infatti la lunga serie comica di film di cui è protagonista lo mostrerà sempre intento nelle sue attività distruttive e, sostanzialmente, se non immorali quantomeno amorali. Cretinetti è il disordine cui il potere di messa in ordine di Dio non riesce del tutto a far fronte, se non a danno fatto, e comunque marginalmente. Come in un cartone animato, nessuno si fa poi male sul serio, e alla fine l’equilibrio si ristabilisce. In un’ottica intertestuale il pubblico conosce il personaggio e lo colloca anche deitticamente, al di fuori del contesto linguistico del film singolo, e quindi sa che Cretinetti non può cambiare e che il Dio rappresentato è impotente di fronte al destino del personaggio, che è un destino segnato sin dal suo nome. La destinalità è quindi sancita da elementi metatestuali, come il nome parlante del protagonista, così come dalla sua stolidità, che lo rende impermeabile a ogni evento esterno e centro di gravità dei destini di chi gli capita attorno, e dello spazio stesso che lo circonda. 12 Si definisce attrazionale tutto quel cinema, specie delle origini, incentrato sulla messinscena di elementi di forte impatto visivo, che fungano da “attrazioni” per l’occhio dello spettatore. Tale impostazione è recuperata per esempio nel cinema postmoderno dall’utilizzo smodato di effetti speciali. Per quanto concerne il cinema delle origini cfr., per esempio, Tom Gunning, Cinema of Attractions in Thomas Elsaesser, Adam Barker (eds.), Early Cinema: Space, Frame, Narrative, British Film Institute, London, 1990. Per quanto concerne il rapporto fra attrazionale e postmoderno cfr. Wanda Strauven, The Cinema of Attractions Reloaded, Amsterdam University Press, Amsterdam, 2006.

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Se Cretinetti è dunque un esempio di messa in crisi del potere del divino, estromesso dal ruolo di destinante e rubricato a personaggio di contorno, pochi anni dopo parallelamente al cinema religioso “classico” si stagliano pellicole ove Dio si presenta in forme innovative e inconsuete, che ci possono aiutare a capire come il suo stesso concetto e l’annesso ruolo destinale mutino, facendo così mutare di conseguenza l’immaginario collettivo. Il primo caso di rilievo è The Green Pastures (Verdi pascoli, Marc Connelly e William Keighley, 1916), black film di successo basato sul romanzo Ol’ Man Adam an’ His Chillum (Roark Bradford, 1928) e sull’omonima pièce di Marc Connelly del 1930. Il film si presenta come una sorta di miscellanea di storie bibliche, ma ha la particolarità di essere composto interamente di un cast afroamericano, caratteristica che provocò non pochi scompigli nei gruppi di attivisti di estrema destra statunitense (pur non arrestando l’estremo successo della pellicola)13, ma soprattutto che veicola la narrazione secondo gli stilemi del folklore black, ivi compreso l’utilizzo dei canti spirituals. Il pretesto contenitore è rappresentato da un predicatore nero che, per rendere più intellegibili i messaggi della Bibbia ai ragazzini che frequentano la scuola domenicale, li converte con i personaggi afroamericani, spostandoli in contesti coevi alla vita dei bambini. Così Dio, nel film De Lawd (Rex Ingram, che in tema religioso aveva già recitato in The Ten Commandments e The King of Kings, entrambi di Cecil B. DeMille, 1923 e 1927), c’è e si vede. È un Dio reso in una sorta di prospettiva nera stereotipata14, seduto dietro una scrivania, con un sigaro alla mano, e che discute con Noè (Eddie “Rochester” Anderson) in una scena che coniuga con finezza la prospettiva rurale dei neri statunitensi degli anni ’30, la sacralità che si intendeva trasmettere, e una esilarante dose di comicità. La scena dell’incontro fra Noè e Dio inizia con quest’ultimo che gli domanda se esso l’abbia riconosciuto. In prima istanza Noè pare non avvedersi

di chi gli sta innanzi, dice che la faccia è “facile” eppure non la riconosce, ma in seguito se ne accorge e la sua espressione muta drasticamente. La sua epifania è segnalata acusticamente dal rombo di un tuono, e Noè si mette al servizio di Dio, un anziano signore ben vestito e dalla barba bianca. La scena si svolge come una conversazione in campo e controcampo intervallata dal piano totale dei due seduti a un tavolo.

13 Era in effetti un caso molto raro di film con un cast interamente composto da neri, che provocò scompigli per la presenza di un “Dio negro” non solo in patria, ma pure in Italia dove fu proibito dalla censura razzista dell’epoca (Ugo Casiraghi, Il cinema del Calendario del popolo: (1947-1967), Associazione Palazzo del cinema Hisa fila, Gorizia, 2017, p. 350). 14 Lo conferma la critica di Georges Sadoul (il film ebbe grande successo in Francia), che sancisce come il film non sia realmente rappresentativo della cultura nera, ma piuttosto fondato su una serie di cliché: «è nero quanto un comodino del 1900 è Luigi XV» (Histoire du cinéma, Flammarion, Paris, 1962, p. 245, traduzione nostra).

Dio dice a Noè che la sua è l’unica famiglia rispettabile, e che essendo egli un Dio di vendetta ha progettato una alluvione che sterminerà la vita sulla Terra. Noè è quindi chiamato a costruire un’arca per fronteggiare la

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tempesta, e Dio anziché descrivergliela, così come succede nella Genesi15, tira fuori un foglio bianco e gliene fa uno schizzo, per poi provvedere a dargli istruzioni. L’arca dovrà trasportare Noè, la sua famiglia, e una coppia di tutti gli animali della Terra. Qui la conversazione, che è condotta con una prosodia black (tono sincopato e accento stereotipicamente afroamericano), slitta verso il comico, giacché Noè dice a Dio che certo non avrà problemi a trovare i tacchini, ma che ci sono molti tipi di serpenti, lasciando intendere che non prova simpatia per tali rettili e che, comunque, sarebbe difficoltoso trovarli, provando in qualche modo a fare retorica sul divino per convincerlo a dargli il nulla osta per evitare l’ingrato compito. Egli tuttavia sostiene che gli piacciono i serpenti, e così Noè rincara la dose, dichiarando che allora ci vorranno dei bariletti di liquore (nel film in inglese si parla di “keg”) che fungano da antidoto in caso di morsi velenosi. Dio gli concede un bariletto, ma Noè tenta in tutti modi di dire che ne serviranno due (così da garantirsi del liquore per il viaggio), provando a sostenere che in tal modo li potrà collocare ai due estremi dell’arca per evitare problemi di sbilanciamento. Dio però, incorruttibile, dice che per evitare lo squilibrio gliene basterà uno solo, posto in centro all’imbarcazione, e alle insistenze reiterate di Noè un secondo rombo di tuono segnala la fine della discussione, e l’accettazione di quest’ultimo della missione in un ritorno alla solennità, dopo la deviazione argomentativa tipica di un certo registro contadino. Dio ha così l’aspetto di un buontempone, è gioviale, ma in definitiva con lui non si discute. Egli nella sequenza è un destinante in pieno stile, sancisce l’oggetto di valore e dà un compito al destinatario, il quale non si può opporre, pur tentando minimamente di farlo (lo scambio sui bariletti di liquore). Il sostrato folkloristico così non interferisce con la presenza di un destinante che ci appare infine tautologico, essendo presentato come una figura tutto sommato serafica, che non si scompone, e che ha il pieno controllo su se stessa – senza inciampi emotivi – come pure sulla superficie filmica, che gestisce a suo piacimento facendola rombare quando necessario. Siamo qui in un frangente completamente diverso rispetto a Dreyer, Scor-

sese o Laugier. Dio c’è, è una presenza fisica piena, in campo, e ha i tratti di un uomo saggio; la sua parola è indiscutibile, e non c’è nulla di misterioso in lui, che si presenta immediatamente per ciò che è. La scena del dialogo con Noè certamente può essere letta come una sorta di soliloquio interiore, in cui Dio di fatto è virtuale, ma tale lettura ci pare forzata. Dio c’è, e detta le regole del mondo. Gli uomini gli sono servi. Il film, in quanto trasposizione – squisitamente anacronistica – della Bibbia, dà Dio come dato di fatto, e in qualche modo riprende in maniera leggera alcuni tòpoi come quello dei serpenti, che ricorrono più volte nelle sacre scritture, e che anche in altre trasposizioni cinematografiche della storia di Noè compariranno, come in Noah (Darren Aronofsky, 2014), film di cui ci occuperemo a breve. Prima però menzioniamo un altro Dio folkloristico, quello della commedia Deus é Brasileiro (Carlos Diegues, 2003), ispirata al racconto O santo que não Acreditava em Deus di João Ubaldo Ribeiro (1999). Qui tuttavia il racconto fuoriesce dai canoni biblici e si adatta a una concezione postmoderna di Dio, che, come verificheremo più avanti, ne fa un ente che con gli umani non condivide solo tratti fisici, ma anche risvolti psicologici, declinando diversamente la morfologia destinale rispetto al Dio di Verdi pascoli. Il Dio del film (Antônio Fagundes) è infatti stanco degli errori dell’umanità e così, anziché scatenare il diluvio universale, decide di prendersi una vacanza (come farà il Dio iconico Morgan Freeman in Una settimana da Dio) delegando i suoi compiti al pescatore brasiliano Taoca (Wagner Moura). La vicenda per il resto si svolge come una serie di avventure che si susseguono nel tipico pattern per cui il sostituto di Dio usa i propri poteri per rimediare alle sue frustrazioni, di solito di tipo materiale, prima di intraprendere obbligatoriamente un percorso di autocoscienza16. Quel che è interessante di questo Dio è che esso, stanco come la Morte di Lang, declina la morfologia destinale in maniera completamente diversa dal Dio di Verdi pascoli, configurandosi come

15 Genesi 6:14-16, Dio dice a Noè: «Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori. Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza e trenta di altezza. Farai nell’arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta dell’arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore».

Si aprirebbe qui un discorso sul rapporto fra deità e superpotere, che chiamerebbe in causa senz’altro una tradizione in fieri di cinema supereroistica, rappresentata globalmente dalle produzioni di successo targate Marvel e DC, così pure come una lunga serie di prodotti nipponici come manga e anime incentrati sulla presenza di dèi e uomini che si approssimano alla deità mediante l’acquisizione di superpoteri. Citiamo come primi approcci alla questione Harold Schechter, The New Gods. Psyche and Symbol in Popular Art, Bowling Green University Popular Press, Bowling Green, 1980 e Ben Saunders, Do the Gods Wear Capes? Spirituality, Fantasy and Superheroes, Continuum, London-New York, 2011.

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destinante destinato, e quindi conferendo all’intera narrazione una malleabilità che si oppone ai rigidi contesti di un destinante tautologico (dove pure accadono cose, ma dove l’idea di destino si configura, man mano che il film procede, come quella di un fato incontrovertibile). Noè nel cronosisma

Noah

In Noah il registro comico scompare, ma la dimensione anacronistica permane su due livelli che ci paiono di pregio. Il primo è un livello per così dire metanarrativo, che si può evincere nella scena del racconto della Creazione da parte di Noè (Russell Crowe). Il racconto inizia dall’alba dei tempi, e coniuga creazionismo ed evoluzionismo: gli esseri del mondo si sono evoluti naturalmente, ma Dio li ha creati. Fino all’uomo, che, a partire dalla espletazione del peccato originale ha iniziato per sua propria responsabilità a “rompere il mondo”, provocando la sua stessa distruzione. Il dato rilevante è il modo in cui tale racconto è trasformato in immagine filmica, che individua un anacronismo metalinguistico intersecato con quello metanarrativo. La scena inizia con un primo piano sul volto di Noè che comincia a raccontare: «In principio non c’era nulla». L’unica fonte luminosa è intradiegetica: un piccolo braciere fumante posto al centro dell’inquadratura che viene soffocato, provocando il buio e una rima semantica, proprio alla parola “nulla”. Da qui la voce off continua il racconto che è figurativizzato attraverso tecniche cinematografiche contemporanee, giacché si parte dalla creazione dell’universo attraverso immagini generate in CGI, in un continuo movimento di macchina in avanti che punta verso la Terra. In seguito su questa un time-lapse in semisoggettiva (come se ci fosse dietro la cinepresa l’occhio di Dio, che guarda ma al contempo genera) mostra con un montaggio rapido l’evolversi delle creature viventi, fino alla nascita di Adamo ed Eva nell’Eden. Costoro sono due figure umanoidi avvolte da un’aura dorata, e totalmente indistinte. L’espletazione del peccato mortale, con un primo piano su una mela che pulsa e che ricorda plasticamente un cuore, fa da contraltare alla prima inquadratura oggettiva, il primo piano del serpente verde da cui fuoriesce, facendo la muta, una sorta di minacciosa vipera nera. Dal peccato originale si passa in controluce all’inquadratura relativa ai mali umani che da questa deriveranno. Sullo sfondo di un tramonto si sus-

seguono così le ombre di uomini che scagliano armi di ogni genere su altri uomini. Tali profili tuttavia reificano l’anacronismo metanarrativo, poiché le ombre, ben definite, mostrano non solo profili arcaici, ma anche soldati moderni, cavalieri, poliziotti in tenuta antisommossa. È come se la storia di Noè comprendesse non solo tutto il male contemporaneo alla sua epoca, ma anche tutto quello che verrà. Tale scelta di Aronofsky è, come dicevamo, anticipata dall’utilizzo di tecniche filmiche strettamente contemporanee, quand’anche l’oggetto della narrazione invece sembri non prestarsi a queste, in qualche modo a respingerle. È una sorta di anacronismo delle forme rispetto alla diegesi17. Il cronosisma che si genera mira a sbrigliare la narrazione biblica da una dimensione arcaica e a enfatizzarne il portato universale e asincrono. È proprio la voce di Noè, infatti, a contestualizzare lo sfasamento temporale quando il ciclo di ombre si assesta sul profilo di un uomo, probabilmente Caino, che con una pietra uccide un suo simile, Abele, chiudendo il ciclo narrativo con le parole: «Noi abbiamo fatto ciò, gli uomini hanno fatto ciò», con ciò riferendosi non solo a ciò che è avvenuto, ma anche a ciò che avverrà. L’istanza destinale, il Dio invisibile che ordina a Noè di creare un’arca, è quindi più problematizzata che non in Verdi pascoli, giacché qui la presenza manifesta di un libero arbitrio è sancita filmicamente, mentre nel film di Aronofsky rimane un’istanza implicita, e inoltre reclama di un’idea di destino che agisce nel passato come nel futuro, è agente prima di agire. È evidente

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17 È un discorso complesso, poiché riguarda il canonizzarsi e codificarsi non solo di temi e strutture narrative, ma anche dei registri formali a essi legati. Non è un caso esclusivo quello del film religioso. In The Favourite (La favorita, Yorgos Lanthimos, 2018), che è a tutti gli effetti un film in costume ambientato nell’Inghilterra pre-vittoriana, colpisce profondamente l’utilizzo insistito del fish-eye e di violente panoramiche a schiaffo, come se tali tecniche non appartenessero al contesto storico che trasformano in immagine. Eppure nell’Inghilterra del 1700 il cinema certo non esisteva – così come non esisteva quando si svolgono, millenni fa, le vicende di Noè.

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come lo scarto di decenni fra i due film sia in qualche misura corresponsabile di questo décalage filosofico, che riflette un’emancipazione nel pensiero religioso, così come è evidente la resa destinale dell’opera centrata sulla presenzaassenza di un Dio invisibile, che più che sancire guida, riconferendo al destinatario la possibilità di autodestinarsi. Cieli immensi Alla seriosità del film di Aronofsky si contrappone una certa leggerezza, nonostante i temi drammatici, di It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa), il classico natalizio del 1946 di Frank Capra. Sul film, citato innumerevoli volte e considerato una delle più ispiranti pellicole di tutti i tempi18, ci sarebbero numerose cose da dire. Esso può essere considerato, per le atmosfere e per i temi, una sorta di Christmas Carol (Charles Dickens, 1843) alla rovescia, ove il protagonista anziché convogliare in sé l’avidità di tutto il mondo è invece portatore sano di bontà d’animo. Egli, preso dallo sconforto per una vita spesa in nome della generosità ma che comunque gli ha voltato le spalle, decide di suicidarsi la notte di Natale, e solo l’aiuto di un angelo che gli mostra cosa sarebbe successo se lui non fosse mai esistito riesce a farlo desistere dal suo progetto. Al contrario Scrooge nel racconto di Dickens cambia in virtù dello stesso processo, vedendo cosa resterà della sua memoria una volta morto se persevererà nella sua vita avara e noncurante degli altri. Il film, girato in bianco e nero e tuttavia in seguito colorizzato a discapito del parere del regista, comincia con una serie di campi vuoti nella cittadina americana di Bedford Falls. È la vigilia di Natale, e una fitta e meravigliosa nevicata (realizzata con tonnellate di intonaco bianco) ricopre le strade deserte, le insegne dei negozi, e le case con le luci accese all’interno. Una musica acusmatica contribuisce a enfatizzare un’atmosfera melanconica più che gioiosa, e fa da contrappunto alle voci off di numerosi personaggi che pregano.

Il comune oggetto delle loro preghiere è il destino di George Bailey (James Stewart), e queste giungono al destinatario. Un movimento di macchina estensivo infatti fa sì che la casa di Bailey, ripresa dall’alto mentre le preghiere del figlio si uniscono al coro delle altre, si faccia sempre più minuta fino a svanire lasciando il posto mediante una dissolvenza di transizione all’immagine di un cielo stellato.

La vita è meravigliosa

Molte liste, per quel che vale, considerano La vità è meravigliosa fra i migliori film di sempre. Quel che è certo è che si tratta di un film che ha comportato un enorme dispendio di energie e di denaro, con un innovativo uso della fotografia, degli effetti speciali, che ha per certi versi sancito la fama di Frank Capra, forse anche in virtù della sua palese ideologia: «La vita è meravigliosa […] simboleggia l’ideale americano: proprio quando sta per cedere alla disperazione, George scopre che può contare sulla generosità e la bontà dei vicini, come loro hanno sempre contato sulla sua. Sono uniti da una causa comune e dall’amicizia» (Robert B. Reich, L’ infelicità del successo, Fazi, Roma, 2001, p. 299).

È un cielo molto lontano da quello visibile a occhio nudo, fatto che si intende giacché la dissolvenza permette un’inversione del movimento di macchina: quello precedente si allontanava dalla villa, questo si avvicina al cielo, e infatti incontra e aggira un corpo celeste lungo il suo tragitto scopico. La realizzazione del cielo, così come della sfera che per poco non colpisce la cinepresa, è in realtà molto triviale (probabilmente qualcosa come un semplice cartonato) ma forma con eleganza la cornice narrativa del film segnalando, proprio per via del suo posizionamento all’estremo iniziale della narrazione, la natura avvolgente dell’istanza destinale, Dio. Dio in La vita è meravigliosa è una presenza che esiste, anche se in un altrove che si apre al nostro sguardo solo grazie alla “magia cinematografica”, e che si occupa di definire l’andamento delle cose e di operare aggiustamenti quando queste rischino la difformità. In altre parole, il desiderio di suicidio – peccato mortale – è al di fuori dei piani di Dio, ed è che così che questi invia un suo emissario sulla Terra per ovviare all’eclatante deviazione di percorso pianificata da Bailey.

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Certo, si potrebbe obiettare che Dio aiuti il personaggio perché in fondo quest’ultimo, come dice, “è scoraggiato”, e necessita di una mano dall’alto. E perché in fondo è un personaggio speciale. Nondimeno il messaggio di fondo del film, anche spesso esplicitato dal regista in occasione di interviste e uscite pubbliche, è che nessun uomo sia un fallimento, e che ogni individuo sia meritevole di vivere. Così, se pure il film si focalizza sulle vicende di George Bailey, il testo si presenta come di portata universalistica, e l’immaginario destinale che ne deriva è quello di una sorveglianza, buona ma pur sempre da intendersi come funzione di controllo panottico, dall’alto, che interviene nel momento in cui qualcosa fuoriesca da un percorso ben stabilito, nel caso di Bailey da una vita che a più riprese lo mette alla prova facendo in modo che i suoi sogni siano subissati da continue situazioni di profondo sacrificio personale. L’ideologia sottesa è tipica del cinema americano classico, che mira anche a svolgere una funzione in qualche modo pedagogica, edulcorando de facto situazioni miserevoli in cagione di una moralità che spesso i personaggi, più che scegliere deliberatamente, avvallano per necessità, o, come nel caso di La vita è meravigliosa, grazie a una nuova presa di coscienza che a tutti gli effetti ricorda un procedimento di dissonanza cognitiva di ritorno: «una condizione di attivazione che si verifica quando le opinioni di una persona non sono concordi tra loro; tale situazione indurrebbe a cambiare pensiero, sentimento o azione per migliorare l’accordo mancante»19. Tali considerazioni comprovano la tesi per cui in un certo cinema a vocazione religiosa o parareligiosa la destinalità incarnata dal divino sia direttamente connessa con un’ideologia “forte” nel farsi idea di destino, che può anche significare un’idea quantomeno flessibile di libero arbitrio. In effetti, analizzando la mirabile scena iniziale del cielo stellato possiamo ulteriormente corroborare quanto detto. Siamo di fronte a un long take a macchina da presa fissa, una volta stabilizzata dopo il movimento di avvicinamento. Si tratta di una sorta di campo totale, o meglio potremmo dire di campo metafisico o assoluto, affine a quel fuori campo cui si rivolge Giovanna d’Arco, giacché inquadrati sono Dio – una nebulosa al centro dell’inquadratura – e l’universo – una serie di altri corpi astrali che spiccano per contrasto bianco sullo sfondo nero. Tale campo assoluto (controparte ideale ma anche fattuale del fuori campo assoluto dreyerano di cui abbiamo discusso

in precedenza) contiene, cioè, tutto l’inquadrabile. Possiamo desumere che i bordi dell’inquadratura siano in questo caso non solo i confini dell’immagine, ma in realtà i confini del mondo, e che fuori di essi non vi sia null’altro. Si tratta di un’innovazione radicale, che verrà declinata altre volte in altre ere del cinema. L’ inquadratura come concrezione del tutto. Ecco dunque iniziare il dialogo di Dio, la cui voce non è tonante ma è quella di un uomo adulto, e il cui parlare è scandito dall’illuminarsi della nebulosa, con Giuseppe, un altro ammasso collocato sempre al centro dell’inquadratura, più in basso a destra, a formare il secondo vertice di un ideale triangolo trinitario, pitagorico segno di perfezione, ove la parte superiore spetta all’essere supremo. Dio chiama effettivamente l’altro ammasso Giuseppe, e così inquadra definitivamente la religiosità del film in termini cristiani. Riportiamo qui di seguito l’interezza della conversazione, acché ci sia utile per inquadrare con precisione le specificità retorico-destinali che essa implica. GOD: Hello, Joseph. Trouble?

DIO: Giuseppe, che succede?

19 Francesca Cabiddu, Il comportamento del consumatore e scelte strategiche delle imprese. Il ruolo del contesto, FrancoAngeli, Milano, 2007, p. 106.

JOSEPH: Looks like we’ll have to send GIUSEPPE: Credo che dovremmo someone down. A lot of people asking for mandare qualcuno giù. Parecchie persone help for a man named George Bailey. chiedono aiuto per un certo George Bailey. GOD: George Bailey. Yes. Tonight’s his DIO: George Bailey? Già... questa è la crucial night. You’re right. We’ll have to notte decisiva. Bisogna mandare subito send someone down immediately. Whose un angelo. Chi è di turno? turn is it? JOSEPH: That’s why I came to see you, GIUSEPPE: Proprio di questo ero venuto sir. It’s that clock-maker’s turn again. a parlarti. C’è ancora quell’orologiaio di turno. GOD: Oh, Clarence. Hasn’t got his DIO: Ah, sì... Clarence, non ha ancora wings yet, has he? messo le ali, però... JOSEPH: We’ve passed him up right GIUSEPPE: Eh, già... è rimasto indietro. along. Because, you know, sir, he’s got La sua intelligenza non è superiore a the I.Q. of a rabbit. quella di un coniglio. GOD: Yes, but he’s got the faith of a DIO: Sì... ma la sua fede è quella di un child. Simple. Joseph, send for Clarence. bambino, è pura. Giuseppe, chiama Clarence.

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CLARENCE: You sent for me, sir?

CLARENCE: Eccomi, mi avete fatto chiamare? GOD: Yes, Clarence. A man down on DIO: Sì, Clarence. Un uomo ha bisogno earth needs our help. del nostro aiuto. CLARENCE: Splendid! Is he sick? CLARENCE: Magnifico...è malato? GOD: No. Worse. He’s discouraged. DIO: No, peggio, è scoraggiato. Stasera At exactly ten forty-five P.M., earth-time, alle 10.45 ora terrestre quell’uomo pensethat man will be thinking seriously of rà di buttare via il più gran dono che mai throwing away God’s greatest gift. gli sia stato dato. CLARENCE: Oh, dear, dear! His life! CLARENCE: La vita! Oh povero me, ho Then I have only an hour to dress. What soltanto un’ora per prepararmi. Come si are they wearing now? vestono adesso? GOD: You will spend that hour getting DIO: Impiegherai quest’ora di tempo per acquainted with George Bailey. conoscere George Bailey. CLARENCE Sir... If I should accomCLARENCE: Signore, se porterò a buon plish this mission... I mean, uh, might I fine questa missione avrò...ossia potrei perhaps win my wings? I’ve been waiting avere poi le ali? Sono più di 200 anni for over two hundred years now, sir... and che le sto aspettando e già si comincia a people are beginning to talk. mormorare. GOD: What’s that book you’ve got there? DIO: Che libro hai lì? CLARENCE: Oh, ‘The Adventures of CLARENCE. Oh, oh, oh... Le avventure Tom Sawyer. di Tom Sawyer. GOD: Clarence, you do a good job with DIO: Clarence, cerca di farti onore con George Bailey and you’ll get your wings. George Bailey e ti guadagnerai le ali. CLARENCE: Oh, thank you, sir. Thank CLARENCE: Oh, grazie tante, grazie! you. JOSEPH: Poor George. Sit down. GIUSEPPE: Povero George. Siediti. CLARENCE: Sit down?! What are we... CLARENCE: Devo sedermi? Ma io… JOSEPH: If you’re going to help a man, GIUSEPPE: Se devi aiutare un uomo you want to know something about him, dovrai pure sapere qualcosa di lui, non don’t you? ti pare? CLARENCE: Well, naturally, of course, I... CLARENCE: Oh, naturalmente, certo. JOSEPH: Well, keep your eyes open. See GIUSEPPE: Apri bene gli occhi. Vedi la the town? città?

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CLARENCE: Where? I... I don’t see a thing. JOSEPH: Oh, I forgot. You haven’t got your wings yet. Now look, I’ll help you out. Concentrate. Begin to see something? CLARENCE: Why, yes! This is amazing! JOSEPH: If you ever get your wings, you’ll see all by yourself. CLARENCE: Oh, wonderful!

CLARENCE: Dove? Non vedo niente. GIUSEPPE: Già, dimenticavo che non hai ancora le ali. Allora vuol dire che ti aiuterò io, concentrati! Cominci ora a vedere? CLARENCE: Ah, sì! Ma è meraviglioso! GIUSEPPE: Se riuscirai ad avere le ali vedrai tutto da te. CLARENCE: Ah, che felicità.

Dio qui, similmente a quanto accade in Verdi pascoli, è presentato come un ente la cui retorica assomiglia a quella di un capo ufficio. Riferisce degli angeli come di persone che hanno un turno lavorativo. Non solo, ma tali creature hanno anche una precisa opinione non esclusivamente sul mondo, ma anche su loro stesse, giacché Giuseppe (un angelo di alto grado) riferisce di Clarence come di un orologiaio, con tono manifestamente derisorio, caricando ancora di più il giudizio quando lo descrive come un individuo di buon cuore certo, ma con “l’intelligenza di un coniglio”. L’intera conversazione dunque, già prima dell’arrivo di Clarence, è costruita in palese discrasia rispetto al piano dell’immagine, e l’effetto paradossale è un senso di vicinanza per lo spettatore. L’immagine infatti, il piano fisso sul cielo stellato, è quanto di più vicino possibile all’idea dell’ultraterreno, l’irraggiungibile cosmo ove l’ineffabile si materializza. L’elemento sonoro invece, cioè la conversazione con la sua prosodia del tutto assimilabile a quella di una riunione in ufficio, è quanto di più ordinario si possa immaginare. C’è un problema da risolvere, il capo affida l’incarico all’impiegato di turno. Costui arriva, è Clarence. Sbuca in maniera comica dall’angolo sinistro dell’inquadratura, e si aggiunge anonimamente al panorama siderale. Egli manifesta subito il suo desiderio di “essere promosso”, ovverosia di guadagnarsi le agognate ali, che lo renderanno qualcosa di più nella gerarchia semidivina (e gli conferiranno un potere di onniscopia). Ma in fondo rivela anche la sua anima sempliciotta, prima palesando il suo desiderio di avere le ali, perché «è già da 200 anni che non le ha, e in giro si inizia a mormorare» (strategia in qualche modo triviale, quella di rivelare le proprie debolezze in maniera esplicita), e poi giocando sulla presunta eternità della sua esistenza («come si vestono adesso [gli umani]?»). 123

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Insomma, dalla conversazione parrebbe che le cose nel dominio dell’imponderabile vengano gestite non solo secondo una burocrazia di impronta antropica, ma anche con un “personale” dalle qualità umanoidi. Eppure dal punto di vista destinale la conversazione e il suo interfacciarsi con il piano fisso ci rivela due dati, non scontati. Il primo è che in ogni caso esiste un altrove ove si situa il divino, che questi occupa la carica universale e che, pur affidando vari compiti ai suoi sottoposti (in questo senso agendo come spesso accade nella Bibbia), gestisce il Tutto. Il secondo dato, meno evidente di primo acchito, è tutto allocato nella terza battuta. Dio chiede a Giuseppe cosa succeda, questi gli risponde che bisogna mandare “giù” qualcuno a occuparsi di George Bailey, di cui molte persone – attraverso le preghiere – chiedono, e Dio risponde come segue: «George Bailey? Già...questa è la notte decisiva. Bisogna mandare subito un angelo. Chi è di turno?». Ora, se sul “Chi è di turno?” ci siamo già in qualche modo soffermati, sono gli altri frammenti della risposta a segnalare l’importante prolessi su cui tutto il film, implicitamente, si reggerà. Dividiamo dunque il discorso in quattro sintagmi: 1. George Bailey? 2. Già… 3. questa è la notte decisiva 4. Bisogna mandare subito un angelo. I quattro sintagmi paiono contraddirsi, ma in realtà sottintendono, per come sono montati, una coerenza interna, basata proprio su Dio come istanza destinale, che inizialmente, come colto alla sprovvista, chiede «George Bailey?». Questa risposta in realtà significa se posta immediatamente in relazione con il «Già...» che le segue. In effetti Dio ripete il nome del protagonista del film non tanto perché non sappia chi sia, ma per ragioni che non vengono precisate, seppure possano essere inferite. Nonostante la storia di Bailey infatti sia una storia universale, come abbiamo già fatto notare, e quindi in qualche modo una sineddoche dell’umanità intera, è lecito pensare che Dio non tenga d’occhio solo tale personaggio, ma tutto l’universo, e che quindi il suo ripeterne il nome sia una sorta di ricapitolazione con se stesso, di identificazione del problema esposto da Giuseppe rispetto all’infinità di altri fatti da tenere in piedi. È evidente come tale interpretazione sia libera e possa essere sostituita da altrettante ermeneutiche egualmente lecite. Come dicevamo, Dio sa chi è George Bailey, e infatti dice «Già...» (nell’in-

glese «Yes»), proseguendo con «questa è la notte decisiva». In questo terzo sintagma è nascosta la destinalità di Dio. È come se egli avesse in mano il calendario definitivo, e conoscesse già in anticipo cosa avverrà. Egli anticipa allo spettatore che è proprio “questa notte”, cioè quella che chi guarda il film sta per vedere, quella decisiva (in inglese “crucial”, che è aggettivo ancora più forte), quella in cui avviene qualche cosa che cambierà completamente il destino del personaggio. Dio dunque non è avvertito realmente da Giuseppe su cosa sta avvenendo, egli lo sa perfettamente, piuttosto ha, forse, bisogno di qualcuno che glielo ricordi, e proprio per questo sancisce, nel quarto sintagma, che «bisogna mandare subito un angelo», così aprendo al tema del bisogno che è un bisogno assoluto, una necessità che destituisce ogni possibilità. La conversazione all’inizio del film quindi da un lato fa intuire la potenza immensa di Dio, che sa cosa deve ancora avvenire (e in ciò egli è il destino), e dall’altro rivela la tautologia interna alla conversazione stessa. Una conversazione contraddittoria, ma in qualche modo di nuovo vicina all’esperienza umana che imita: così come Dio, pur sapendo e potendo tutto, conversa coi suoi sottoposti facendogli credere di avere voce in capitolo, similmente spesso accade con il capoufficio, che prima ancora di cominciare la riunione già sa come andrà a finire, e ha la capacità di illudere gli impiegati che essi abbiano effettivamente il potere di decidere qualche cosa. Per rigore tuttavia va segnalato ancora che, nonostante la tentazione possa essere forte, il film di Capra non va solo ridotto alla scena iniziale, giacché il suo svilupparsi è incentrato su due frangenti che abbiamo già più volte incontrati. Il primo è il viaggio interiore, il percorso sempre un po’ paranormale che il protagonista compie, aiutato in questo caso da un emissario di Dio (o obbligato dalla Morte o, come vedremo, dallo Stato, dal loop e così via), per giungere a comprendere di dover cambiare decisione. Il secondo è la presenza del libero arbitrio. Tale presenza è il secondo motore, antitetico e speculare a quello divino, affinché i fatti esistano. Se tutto fosse già scritto i film – e l’esistenza forse – sarebbero inutili. Il loro svolgersi sarebbe per davvero pura tautologia. Il fatto che nell’ultimo sintagma, quello che sancisce la destinalità del film imprimendovi movimento prima che Dio e Giuseppe si interroghino su chi mandare, sia proprio «bisogna mandare subito un angelo», significa che in effetti Dio è conscio dello snodo esistenziale che rappresenta la notte natalizia nel film, ma forse non ha potere assoluto su quale disgiunzione il protagonista sceglierà di effettuare.

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Egli dunque agisce, nel tentativo di dialogare con il libero arbitrio20. Lui è la necessità, il libero arbitrio la possibilità, e le due forze sono in dialogo, o in lotta. Se Dio sappia anche dove il libero arbitrio del personaggio lo condurrà non è possibile dirlo, se non facendo un atto di fede, operazione che in questa sede non abbiamo la presunzione di effettuare. Absentia in præsentia Nei film finora analizzati la presenza di Dio è sempre palese. L’istanza destinale suprema esiste, è semiotizzata e ripresa, sta nel campo visivo, in quello narrativo, e in quello metafisico. Le eccezioni uniche finora riscontrate sono La passione di Giovanna d’Arco e L’ultima tentazione di Cristo, dove al contrario un Dio è evocato ma mai direttamente rivelato, rimanendo così sempre in una zona liminare, quella del dubbio se egli e il suo operato esistano o meno. Si tratta qui di un’istanza ipotetica, che chiama con prepotenza in causa uno sguardo fideistico. Che il sacrificio di Giovanna sia vano o meno è insomma un atto in qualche misura oltre-semiotico, che non ha a che fare con la pura interpretazione del film in base alle tracce disseminatevi all’interno; è fuori dal testo. È la chiamata ultima all’interpretazione e la prima alla fede, in un dominio-cerniera, che è proprio il film. Stessa cosa dicasi per un’opera di grande rilievo come Jungfrukällan (La fontana della vergine, Ingmar Bergman, 1960). Il film infatti, pur essendo permeato di religiosità (più d’una peraltro, interfacciandosi personaggi fortemente cattolici con personaggi pagani), perpetua il dubbio sull’esistenza o meno di un Dio, che esso sia guida, padrone, od onnipotente punitore.

Bergman dunque cagiona un orizzonte metafisico agli antipodi rispetto a Il settimo sigillo. Lì l’istanza suprema, la Morte, era presente, negoziale, antropomorfa, materica. Qui l’istanza suprema, Dio, è evocata passionalmente, in vari modi durante tutto il film, ma mai verificata. La storia è infatti quella di una nobile e ultrareligiosa famiglia medievale, che invia dalla propria dimora in campagna la giovane figlia vergine a portare i ceri votivi in una lontana chiesa, per onorare la festa della Candelora (la Presentazione al Tempio di Gesù). La giovinetta (Birgitta Pettersson) parte così in viaggio accompagnata dalla serva domestica (Gunnel Lindblom), pagana e incinta in seguito a uno stupro, e nel momento in cui attraversa il bosco si imbatte in alcuni briganti, che dopo averla circuita la violentano e uccidono. Costoro poi, non paghi, la denudano del suo pregiato vestito, per recarsi a venderlo ove troveranno un possibile acquirente, capitando – ecco ancora una chiara traccia destinale – proprio a casa della sventurata, e rivelando ingenuamente, per via di una disattenzione, di essere proprio loro gli assassini della giovane. Il padre (Max von Sydow, che già aveva interpretato il cavaliere Antonius Block) compirà così la sua vendetta, uccidendo i tre briganti, uno dei quali è un bambino sostanzialmente innocente. Poi, con al seguito la moglie (Birgitta Valberg) e la fidata servitù, tornerà a cercare il cadavere della figlia, prima lamentandosi disperatamente di non comprendere un Dio che permetta tali crimini, e poi giurando che lì ove si è consumato il delitto erigerà una chiesa. Issando il cadavere della vergine dal terreno ove giace, un rivolo d’acqua (la fontana) inizierà a scorrere. La storia raccontata da Bergman, e sceneggiata da Ulla Isaksson che in qualche modo le conferisce una certa sensibilità femminile21, è narrativamente molto greve. È una storia di violenza e vendetta, ma anche di confronto interreligioso che amaramente non si conclude positivamente: è la serva Ingeri proprio all’inizio del film a rivelare il suo paganesimo, invocando il Dio Odino, e sarà poi anche colei che, nell’ordine, si costituirà come flash forward ideale delle disavventure della giovane Karin (in qualche modo non solo prospettandogliele, ma anche “augurandogliele”), poi avrà uno strano incontro con una sorta di stregone nel bosco, e infine assisterà al delitto nascosta fra i

20 Questa idea non contraddice le principali religioni monoteiste, per le quali l’esistenza di Dio non soggiace a una mancanza di libertà. Fin dalla religione monoteistica più antica, l’ebraismo (quella politeistica è l’induismo, di poco antecedente), il libero arbitrio è collocato dalle mani di Dio direttamente sull’uomo, posizione largamente discussa dall’esegetica della Torah. Sostiene Hermann Broch che si tratta di «qualcosa di prometeico […] che nessun animale possiede, la tensione verso una libertà assoluta, che lo pone al di sopra della natura creata e delle sue leggi, per quanto, col suo essere fisico, resta loro sottomesso senza poter sfuggire» (Gesamelle Werke, vol. 7, Erkennen und Handeln, Zürich, 1965 (ripreso in André Neher, L’esilio della parola, Marietti, Genova, 1991, pp. 155-6). In sede rabbinica esistono anche posizioni critiche verso la questione, come quella di Moshe ben Maimon, che compì un grande lavoro di analisi del Talmud, e che considera il libero arbitrio un’arma pericolosissima «posta volontariamente da Dio nelle mani dell’uomo» (cfr. André Neher, Chiavi per l’ebraismo, Marietti, Genova, 1988, p. 112).

Ulla Isaksson è stata in effetti impegnata nell’attività di scrittrice facendo ricorrere spesso nelle sue opere i temi del divino e dei problemi delle donne. Le storie della letteratura svedese sono concordi nel definirla un’autrice vicina a temi femministi, cfr. Lars G. Warme A History of Swedish Literature, University of Nebraska Press, Lincoln, 1996, p. 449.

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rami, non intervenendo per paura. E ancora è una storia di tensione religiosa, una tensione passionale che richiede tanto più forza per mantenersi viva quanto più si rivela in qualche misura poco aderente al reale. In effetti, con un po’ di malizia, potrebbe addirittura leggersi nel film un’accusa surrettizia alla fede cieca, che obnubila il raziocinio e può produrre nefaste conseguenze. Il padre infatti, nonostante ami la propria figlia, giovane e di certo potenzialmente soggetta allo sguardo interessato di individui malintenzionati, non esita a mandarla in viaggio (nonostante le di lei, pur scherzose, resistenze), da sola (o meglio, accompagnata da una poco raccomandabile serva pagana e incinta), attraverso un bosco oscuro, per recare dei ceri votivi in chiesa. Così lo spettatore non è accompagnato per mano, come nel film di Capra, in un mondo magico ove la tragicità della vita si può evitare perché, in fondo, c’è qualcuno lassù che ci osserva tutti, e che ci rimette in carreggiata. Al contrario qui la presenza di un destinante assoluto è messa in crisi dal palesarsi della responsabilità genitoriale. Karin va nel bosco non perché mandata da Dio, ma perché obbligata dal suo pio quanto ottuso parentado. E il mondo che incontra è tetro e crudele, a tal punto da stroncarne l’innocente vita proprio al suo fiorire. Così anche il finale è ambiguo, non svelando una propensione del film nel rivelare o destituire l’istanza destinale, ma issando definitivamente un regime di dubbio. È il fideismo definitivo: o ci credi, o no. E l’acqua che prende a sgorgare lì dove giaceva il cadavere, con tutta la sua potente simbologia del lavaggio purificatore, non si schiera da nessuno dei due lati, potendo frattanto essere segno di presenza, o segno di natura. Anche il punto di vista visivo contribuisce a dare forma a tale registro di lugubre ambiguità destinale. Va anzitutto segnalata una copiosa presenza di primi piani di volti, come accade di frequente nel cinema destinale del divino. Sono volti mai sorridenti – l’unico è proprio quello di Karin, volto di una bambina, ancora spoglia dalle ansie delle ideologie e della destinazione, rapidamente uccisa – e sempre inquadrati come a voler creare superfici aptiche, che li penetrino, che ne individuino l’interiorità fra le porosità delle fattezze somatiche. Ma poi vanno menzionati piani quasi mai lunghi. Anche quando si tratti di campi totali, le inquadrature sono sempre a raggio corto, che siano all’interno della magione o negli esterni del bosco. Lo spazio ove si muovono i personaggi è uno spazio angusto, e reciso costantemente da ombre taglienti, che come griglie esistenziali lottano con la luce solare. 128

La fontana della vergine L’unico significativo campo lungo è quello successivo alla presa di coscienza del padre Töre della dipartita della figliol prodiga. Egli, in seguito a tale consapevolezza, va in cerca di legna, forse per farne la pira ove brucerà i cadaveri dei briganti che è intenzionato a giustiziare. Si trova così di fronte a un alberello isolato, posto al centro dall’inquadratura, il cui esile tronco sembra formare con la linea dell’orizzonte montagnoso una sorta di croce, rima concettuale di quella croce dal personaggio tanto venerata. Qui per la prima volta la grandezza di Töre, pater familias la cui parola è legge, è sminuita dall’immagine. Egli è un piccolo uomo che ha perso tutto, e che non ha nemmeno la forza di sradicare un fuscello. L’immagine così significa un ribaltamento di ruolo e una crisi mistica.

La fontana della vergine Dopo un patetico divincolarsi Töre tuttavia riesce nel suo intento, e procede poi a giustiziare gli assassini di sua figlia, non risparmiando nemmeno 129

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il bambino (nonostante le implorazioni della moglie). Manifesta la sua furia cieca, sapendo di compiere il più mortale dei peccati. Dopo, nel bosco, di fronte al cadavere, anche di questo fatto chiederà conto a Dio. E lo farà in un’immagine che ha delle assonanze con quella di Giovanna d’Arco, ma che parla diversamente proprio per le sue differenze. Giovanna era in primo piano frontale, Töre è ripreso di spalle, in campo totale. Il suo volto non si vede, così come non si vede il cielo. Egli parla verso l’alto, ma è circondato dalla boscaglia, si divincola, si alza in piedi, ma la macchina da presa impietosa non stacca da tale prospettiva, che lo ingloba in un pavimento erboso e fra le fronde degli alberi. Solo quando la disperazione del personaggio si farà nuovamente atto di fede, solo lì lo si vedrà nuovamente di fronte. L’impasse metafisica è inscalfibile, Dio non si vede, la sua presenza è logicamente inserita in una dimensione modale, del volere (voler-essere, voler-che-ci-sia). Egli riferisce di una destinalità incerta, e in effetti nel film non è facile rintracciare un destinante univoco. Non si sa se Dio ci sia e interceda. Non si sa bene cosa voglia fare Karin (si sa cosa deve fare, ma è una micromissione in un contesto cosmico). Non si sa bene cosa voglia il padre se non, da un certo punto in poi vendetta (che gli dà al contempo soddisfazione e dolore, che gli genera nei confronti di Dio ripugnanza e amore). Le motivazioni sono sempre circostanziate, si intersecano, mutano costantemente. Le emozioni di conseguenza. Questo perché, in definitiva, vige un’ambiguità di fondo, relativa alla mancanza di un ordine destinale manifesto, a un voler-che-ci-sia ma a un non-saper-se-ci-sia. Restando nell’ambito dell’assenza-presenza di Dio un altro importante film è senz’altro Breaking the Waves (Le onde del destino, 1996), opera del regista danese – e dichiaratamente ateo – Lars Von Trier che apre la cosiddetta “trilogia del cuore d’oro”, composta poi da Idiots (Idioti, 1998) e Dancer in the Dark (2000). Il film è fortemente influenzato dal manifesto del “Dogme 95”, ideato proprio da Von Trier con Thomas Vinterberg. Si tratta di un caso raro di manifesto programmatico, che mira “a tavolino” a istituire un’estetica del cinema basata sull’autenticità della ripresa, sull’eliminazione di ogni luce extradiegetica, sull’utilizzo esclusivo di ambienti reali senza scenografie, sulla ripresa in camera a mano, e così via. L’accusa sottintesa è quella, simile per qualche verso alle istanze della Nouvelle Vague (secondo il Dogma «un’increspatura che finì in nulla sulla spiaggia e si trasformò in mucillagine»), verso un cinema altrimenti considerato come posticcio e vanificato nella sua artificialità. Eppure, nonostante il rigore preteso dal manifesto, Le onde del destino non

ne rispetta fedelmente i dettami, pur sperimentando una tecnica filmica che diventerà cifra stilistica del regista, basata sul primato dell’intensità drammatica per cui agli attori venne e viene detto di seguire estemporaneamente i loro sentimenti più che un canovaccio prestabilito, l’uso costante della camera a mano che determina un movimento fluido e inserito nel vibrante contesto drammatico, la violazione di alcuni codici impliciti nel cinema “tradizionale” come lo scavalcamento di campo (che emerge giacché Von Trier effettua più riprese della stessa scena e poi sceglie di montare i pezzi che ritiene più intensi, con il cosiddetto “montaggio emozionale”, non curandosi di una presunta mispercezione dello spettatore di fronte al valico dei 180° canonici), lo sfondamento della quarta parete tramite interpellazioni che mirano a rendere lo spettatore compartecipe delle miserie che si andranno a mostrare, l’enfasi su storie assurdamente tragiche e, si direbbe con tono moralistico, perverse, senza esitare nel mostrare l’animo umano al suo più nudo acme passionale. La storia è anticipatrice di molti dei temi che il regista affronterà anche più avanti nella sua carriera. In un isolato, come in Dogville (2003), e iper-religioso paesino scozzese la devota Bess McNeill (Emily Watson) convola a nozze con Jan Nyman (Stellan Skarsgård, che poi reciterà anche in altri film del regista). Ella si dona completamente all’uomo, sia fisicamente che mentalmente, convinta di adempiere al volere di un Dio con il quale conversa spesso parlando ad alta voce con se stessa, impersonandolo. L’idillio amoroso è rotto però dall’incidente di lui su una piattaforma petrolifera, che lo rende paralitico, e incapace di amarla come prima. Egli così le chiederà di amare carnalmente altri uomini, per poi raccontare a lui i dettagli delle sue avventure. È una richiesta impossibile, che lui vede come un modo per non condannare lei a una vita di castità, ma pure come un sistema per continuare ad amarsi, anche se in modo inconsueto. Bess è prima restia, ma diverse vicissitudini la portano a vestirsi come una prostituta e a intrattenere relazioni sessuali con diversi uomini, subendo spesso angherie e vessazioni molto crude, come Joe (Charlotte Gainsbourg ma anche Stacy Martin nella versione giovane) in Nymphomaniac (2013). Lo fa in una costante tensione, sentendosi in colpa, ma anche continuando per l’amore di suo marito, e cioè per l’amore di Dio. Il villaggio non tenta di comprenderla, ma anzi la stigmatizza. Ella così decide di farla finita, facendosi volontariamente stuprare fino alla morte da un gruppo di malviventi su una vecchia nave. È solo dopo la sua morte, il suo sacrificio, che la presenza di un Dio sinora invocato ma mai palesatosi pare timidamente manifestarsi, attraverso un

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doppio miracolo. Jan infatti guarisce dalla sua paralisi, e profana la bara di Bess rubandone il cadavere prima che i preti del villaggio celebrino un funerale in cui intendono sconsacrarne il ricordo (sostenendo che brucerà all’inferno). Il marito invece decide di lasciare il corpo al mare e, miracolosamente, dal cielo si odono delle campane.

vita sia controparte di una metafisica specifica, che ne conferisca senso. Tale approccio mistico continuerà, in una sinusoide fra profondo sadismo e pura umanità, a permeare l’opera del regista, fino a opere di oltre dieci anni dopo come Nymphomaniac I e II (2013), che vedranno nella figura di Joe una sorta di contraltare ideale di Bess McNeill. Tornando invece a Le onde del destino, di questo va ancora ricordato come fra gli altri riferimenti di Von Trier ci sia proprio la Giovanna d’Arco di Dreyer, non più muta ma invece caratterizzata da una sorta di sintomatica logorrea (parla per sé e per Dio), così come il Dekalog (Decalogo) di Krzysztof Kieślowski (1988), opera imprescindibile in una trattazione che riguardi la messa in film di Dio come istanza destinale. Il testimone silenzioso e il fallimento della matematica Il Decalogo di Kieślowski va inteso come l’opera di un religioso sui generis, che dichiarò a La Repubblica del 15 maggio 1991 quanto segue: Non so esattamente cosa voglia dire esserlo: sono battezzato ma non vado in chiesa, credo in Dio ma non ritengo indispensabile la mediazione della gerarchia, il mio Decalogo in Polonia è stato giudicato irrispettoso della cattolicità. Del resto il mio paese interpreta a suo modo la religione: i polacchi vanno a messa ma tra loro c’è il più alto tasso di criminalità in Europa, fanno molto spesso la comunione ma sono i più accaniti ubriaconi del mondo. Un’ iniziativa parlamentare ha chiesto la messa al bando dell’aborto legale, ma anche le più religiose donne polacche continuano imperterrite a usufruirne. […] [Ciò che mi preoccupa] è la minaccia che l’ingerenza della Chiesa nello Stato diventi preponderante, come se il cattolicesimo fosse l’Islam. Se ciò avvenisse, io che non ho lasciato la Polonia sotto il comunismo, me ne andrei subito a vivere altrove22.

Le onde del destino La religiosità che permea il film è dunque parallela a quella di Bergman. Si tratta di una religiosità tradotta in un divino mai comprovato, se non nei finali ambiguamente miracolosi. Per la verità nel film di Von Trier la “realtà del miracolo” sembra essere confermata proprio dall’inquadratura finale ove il suono delle campane viene trasdotto da extradiegetico a intradiegetico. Sono infatti delle campane, issate non si sa bene dove nel cielo, a emetterlo, punendo con la loro sacralità la bigotteria dei cittadini. Riprese in un’inquadratura dall’alto risultano ai margini laterali dell’immagine sull’avampiano, poste oltre la coltre di nubi che lascia intravedere l’ipocrita cittadina scozzese teatro delle vicende narrate nel film. Il regista così ammette l’esistenza di un piano trascendente, non filmabile per statuto ma sostituibile con dei segni surrogati, come le campane risuonanti (o come le candele per la morte, gli orologi per la vita, e così via). L’opera del regista dunque da un lato riprende un certo schema bergmaniano, ma dall’altro apre con più vigore alla speranza che la crudeltà della 132

In questa dichiarazione si notano allo stesso tempo l’anticonformismo religioso del regista, cristiano ma anticlericale, ma anche il suo sentimento in qualche misura legato al moralismo, e un’idea specifica di ordine spirituale. La sua opera più nota è certamente quella che chiude la sua carriera, la “triNatalia Aspesi, Per Kieslowski il futuro è Francia, «La Repubblica», 15 maggio 1991, https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1991/05/15/per-kieslowskiil-futuro-francia.html

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logia dei colori” (1993, 1994, 1994), eppure il Decalogo non mancò di sortire grande successo. Si tratta di una serie di dieci mediometraggi (della durata indicativa di 55 minuti ciascuno), girati per la tv polacca e ispirati in maniera più o meno evidente ciascuno a uno dei dieci comandamenti23. La struttura decalogica, che ordina i film idealmente come capitoli di un percorso religioso, è mantenuta sin dai titoli di testa dei singoli episodi (Decalogo 1, Decalogo 2, Decalogo 3, e così via fino al decimo). Per il resto i film funzionano come blocchi autoconclusivi, non legati da un filo narrativo comune. Anche per questo il Decalogo va inteso come il misto fra una serie televisiva moderna e un macrofilm distribuito a episodi apparentemente indipendenti, e cioè fruibili anche in ordine sparso o solo parzialmente, un po’ come accade con il contemporaneo Black Mirror (2011 – in corso, ideata da Charlie Brooker). I cast degli episodi sono così differenti, e tutte le storie sono contraddistinte da toni e atmosfere decisamente drammatici, che mirano tendenzialmente a mostrare moralisticamente come la non obbedienza ai dieci comandamenti comporti sofferenza, sofferenza la quale per i personaggi è necessaria per comprendere e interiorizzare la retta via. Il primo episodio, l’unico sul quale qui ci soffermeremo, è dedicato al primo comandamento: «Io sono il Signore tuo Dio. Non avrai altro Dio all’infuori di me». Si potrebbe dire che si tratta in effetti di una traduzione filmica del comandamento in chiave polacco-sovietica. Il comandamento, qui come negli altri capitoli, funge da concrezione di una narrazione che da esso esplode, e al contempo fa da guida inferenziale. In altre parole, lo spettatore, conscio del comandamento e appartenente all’orizzonte storico-morale in cui esso è inserito, ha già in sé un’enciclopedia ermeneutica di riferimento sulla base della quale elaborare l’interpretazione del film. La storia è quella del piccolo Paweł (Wojciech Klata) e di suo padre Krzysztof. Questo personaggio, interpretato da Henryk Baranowski, è omonimo sia del regista che del secondo sceneggiatore Krzysztof Piesewicz, politico polacco che con Kieślowski e non solo curerà altre sceneggiature. La scelta di

tale nome per il protagonista appare significativa. In effetti il nome Krzysztof, letteralmente non tanto “Cristo” quanto “Cristoforo” (Χριστόφορος, “portatore di “Cristo”), era di per sé diffuso (per motivi non così misteriosi) nella Polonia tardosovietica. Eppure in sede interpretativa tale scelta riflette sia una motivazione metalinguistica, e cioè configura il personaggio come un alter ego dei suoi ideatori, che intradiegetica, caratterizzandolo come una sorta di Cristo moderno. Tale scelta è più comprensibile se edotti sulla vicenda. Krzysztof fa di mestiere il fisico e insegna all’università24, e vive con il figlio Paweł, curioso bambino affascinato, anche per imitazione del padre, dalla tecnologia e dai computer. La loro casa è, per l’epoca, un avveniristico fortino domotico, ove le porte si possono bloccare e i rubinetti si possono aprire con dei programmi informatici. Il quadretto famigliare è completato dalla zia Irena (Maja Komorowska), che si contrappone a Krzysztof per via della sua fervida religiosità cattolica (egli al contrario, da buon fisico, definisce il mondo solo con l’ausilio della razionalità). Paweł è così una figura dell’infante-incubatore, esposto nel medesimo tempo a due ideologie contrapposte, quella del divino e quella del razionale. La sua curiosità è tesa verso ambedue le direzioni. Un giorno va a pattinare in un laghetto ghiacciato vicino casa, dopo che il padre Krzysztof ha acconsentito, avendo eseguito una serie di test per verificare la sicurezza della situazione, sia informaticamente che empiricamente; tuttavia, a dispetto di ogni verità scientifica, il ghiaccio si rompe, e il piccolo Paweł perde – ironia della sorte – la vita. Sarà così che Krzysztof ridiscuterà i suoi orizzonti epistemici, e, dopo essersi rifugiato in una chiesa e aver con rabbia rovesciato un piccolo altare, si segnerà la fronte con un pezzo d’acqua benedetta ghiacciata, correlativo oggettivo sineddotico del figlio appena perso, attinta dall’acquasantiera. Il film dunque contrappone fede e scienza in maniera sostanzialmente manichea. L’idolatria “teotecnica” di Krzysztof, Cristo quindi di un dio minore o inesistente, è punita sardonicamente dal predominio dell’irrazionale, dell’indecidibile. Il ghiaccio si spezza quando non avrebbe dovuto spezzarsi, il suo calamaio si frantuma senza apparente motivo. E tuttavia Dio pare essere un’istanza vendicatrice e in qualche modo sadica, punendo per il suo peccato non il peccatore, ma il figlio innocente.

23 Non si tratta certamente né dei primi né degli ultimi film ispirati ai dieci comandamenti (basti pensare al più noto The Ten Commandments [I dieci comandamenti, Cecil B. DeMille, 1956]), e tuttavia la serie polacca rappresenta un prodotto unico del suo genere in quanto pensato serialmente, costruito secondo alcune isotopie e, essendo fatto di storie ambientate nella contemporaneità, al di fuori di un contesto storicistico. Più che una serie sui dieci comandamenti, ne costituisce in effetti un’interpretazione cinematografica.

Anche se in Sandra Puiatti, Moreno Manghi, A mani vuote. Il decalogo di Kieslowski tra scandalo e falsa testimonianza, Polimnia Digital Editions, Sacile, 2015, p. 36, è curiosamente definito «docente di semiotica».

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Nuovamente, siamo di fronte a un Dio assente, o meglio in questo caso semi-presente. Pur non comparendo – e quindi lasciando che quanto detto finora sia frutto di interpretazione ragionevole ma non certa del tutto – il Decalogo è caratterizzato da un’isotopia che, come un fil rouge, percorre tutti gli episodi a eccezione del decimo: «Non desiderare la roba d’altri». Si tratta di una figura umana, muta, e misteriosa, un po’ come il Mistery Man di Lost Highway (Strade perdute, David Lynch, 1997), ma anche come gli Osservatori di Fringe (ideata da J.J. Abrams, Roberto Orci e Alex Kurtzman, 20082013) o i guardiani di The Adjustment Bureau (I guardiani del destino, George Nolfi, 2011). Questo meta-personaggio (Artur Barciś), appellato da alcune fonti come il “testimone silenzioso”, non partecipa alle vicende, ma vi assiste, quando con partecipazione quando con larvato distacco. Si tratta di una presenza non facilmente interpretabile, e che pure dice di uno sguardo altro, forse onnisciente, non chiaramente onnipotente, che quindi in qualche modo vanifica l’ipotesi di un Dio vendicatore. Se fosse Dio egli potrebbe evitare la morte di Paweł, e invece ciò non avviene. Avviene, forse, per necessità, più che per possibilità, e il testimone silenzioso ne prende atto al di là di ogni simbologia. Egli nel primo film è un vagabondo vestito di montone, che si scalda al fuoco; non partecipa delle metonimie che si susseguono l’un l’altra, come la candela la cui cera si fa lacrima della Madonna sul finale, o il cane morto che apre a Paweł la ingenua consapevolezza della fine. Eppure, impossibilitato a dire cosa succederà – tanto ai personaggi quando agli spettatori (che guarda impassibile, volgendosi come Bess McNeill, forse sua analoga, alla macchina da presa) – egli è prova che qualcosa succederà. Il testimone silenzioso è un fucile di Čechov disinnescato. Non più manifestazione di un Dio assente ma presente, bensì di un Dio presente ma assente. Personificazione ultima di un destino cieco, così come lo è quello di un film precedente di Kieślowski, Przypadek (Destino cieco, 1981), che incontreremo più avanti. L’inserzione di una figura del genere è rilevante in sede destinale poiché ha a che fare con la presenza di un’entità che significa pur non avendo alcun ruolo attanziale preciso. Non è destinante, né destinatario, né oggetto di valore. Né tantomeno aiutante od opponente. Eppure è, e non certamente personaggio di contorno, data l’insistenza con cui la cinepresa indugia sul suo volto. Un’istanza inutile, eppure, paradossalmente, necessaria.

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Decalogo 1 Dèi postmoderni Accanto a questi dèi assenti ma presenti, o presenti ma assenti, la storia del cinema dà ampio spazio a personificazioni più o meno leggere, a bassa intensità 25, di dèi con vari poteri, responsabilità, e inseriti in precisi regimi di destinalità, come abbiamo già visto nei casi di Come fu che l’ ingordigia rovinò il Natale a Cretinetti, Verdi pascoli, La vita è meravigliosa e così via. Al di là dei film strettamente religiosi, la presenza di Dio come entità personificata o comunque reificata sembra infittirsi nel momento in cui il cinema moderno, 25 Si tratta dunque, sulla scorta della teoria di Peppino Ortoleva, Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana, Einaudi, Torino, 2019, di miti che valorizzano la propria matrice narrativa ma che in qualche modo sono sgonfiati di quella carica solenne di cui godeva il mito arcaico, non tuttavia fino a divenire storie ordinarie del quotidiano, ma sempre e comunque mantenendo una misteriosa forza trascendente, facendosi al contempo, per riprendere due felicissime definizioni di Ortoleva, «ponti fra il vissuto e il cosmo» (p. XI) e «volani della vita umana» (p. 16). Ortoleva menziona, a proposito dei miti fantasy e legati in qualche modo al bisogno di “cose elevate”, anche gli “dèi americani”, fieramente postmoderni, di American Gods (prima romanzo di Neil Gaiman, 2001, poi serie televisiva di Bryan Fuller e Michael Green, 2017-in corso) (p. 187-8).

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caratterizzato da una ridiscussione totale del medium stesso, si stabilizza nel cinema postmoderno e contemporaneo, ove nuove tecnologie affiorano e il mondo si confronta con una fase di circolazione di senso inaspettata e per certi versi confusa. È il mondo della fine della Guerra Fredda e quindi in un certo senso della fine delle contrapposizioni nette, dell’emergere prepotente dell’informatica e di internet con l’avvento e la legittimazione di sterminate subculture, finanche della contemporanea società liquida ove l’idea stessa di verità è minata da ideali di contropotere che sfociano in teorie cospiratorie e omeopatia. È un mondo in cui: Bombardato da immagini e messaggi in qualsiasi momento e in qualsiasi posto del mondo si trovi, l’uomo occidentale è a contatto più che con la realtà con una rappresentazione che aspira a sostituirla (l’iperrealtà di Baudrillard, hyper-aesthetics talora negli anglosassoni, che sono meno allarmisti). Gli spazi pubblici, in senso lato, cioè dalle vie della città ai programmi radiofonici, dalle pagine dei giornali alle trasmissioni televisive, sarebbero devoluti a una comunicazione più o meno commerciale del mondo, che lo maschera sotto l’apparenza di rappresentarlo – è anche in questo senso che si può parlare di schermo postmoderno: fare schermo. Questa immanenza dei segni – e soprattutto delle immagini – […] è sempre più netta 26.

È in questo mondo inedito che anche l’idea di divino viene sconvolta, così come la sacralità non solo cinematografica, dopo aver passato il banco di prova delle Nouvelles vagues come nella scena della fucilazione del papa di La Voie lactée (La via lattea, Luis Buñuel, 1969). In questo inedito panorama, caratterizzato dall’emergere travolgente di certi registri del fantastico e del fantascientifico, di Dio si continua invero a parlare, come a cercare di mantenere un punto fisso in un mondo sempre più plasmatico e incomprensibile. Il punto di partenza per gli dèi impertinenti del cinema postmoderno è un film precursore, costruito sull’onda della cultura sessantottina. Jesus Christ Superstar (Id., Norman Jewison, 1973), ispirato all’omonimo musical di Tim Rice e Andrew Lloyd Webber (1948), è in effetti un film che più che su Dio focalizza sulla vita di Gesù 27. Ci è utile qui per

comprendere come rappresenti un cambio drastico in una certa concezione ingessata e timorata della religiosità, e come costituisca anche dal punto di vista degli stilemi (in primis l’utilizzo sia narrativo che metanarrativo dell’anacronismo, come già visto per Noah strumento di dichiarazione di una universalità cronosismica del divino), un momento di passaggio. La passione di Cristo infatti, il momento più significativo e tragico della storia di Gesù, e, per chi crede, della storia umana, è traslitterata attraverso la lente lisergica della cultura hippie, per di più tradotta in un appassionato musical. Giuda, con un vestito a frange bianche, e Gesù, per tutto il film sottotono rispetto alla sua “nemesi”, si pongono, cantando, domande sui mass media; dietro Giuda tre coriste in bikini dalle fattezze angeliche e con acconciature “afro” danzano e cantano con sonorità da disco anni ’80 (anche qui c’è un elemento precursore, il film è del 1973). Erode indossa occhiali scuri ed è circondato da personaggi che sembrano attinti dalla saga di Mad Max (che pochi anni dopo si aprirà con il film Interceptor di George Miller, 1979). Dopo la crocifissione gli astanti se ne vanno in bus. Tutti elementi irriverenti e anacronistici che non pochi anni prima sarebbero stati considerati come blasfemi, e che ora invece – nonostante le resistenze di una fascia di pubblico più conservatrice, che vi identificano blasfemia – fanno del film un successo globale, appoggiato addirittura dal papa, all’epoca Paolo VI, che dichiarò all’attore Ted Neeley di proiettarlo, perché avrebbe contribuito «a diffondere la figura di Gesù».

Jesus Christ Superstar

Laurent Jullier, Il cinema postmoderno, tr. it. Kaplan, Torino, 2006, pp. 18-19. 27 Si tratta quindi di cinema cristologico, che qui non trattiamo poiché esso è comunque, in una certa misura, “sottostante” al tema divino (essendo Cristo figlio di Dio, sebbene anche sua incarnazione) di più ampio respiro, che è il nostro oggetto di ricerca principale.

È dunque rilevante l’esplorazione di questa era di dèi atipici, specie in merito alla destinalità che sottintendono o sovraintendono. Il primo caso di rilievo che affrontiamo è quello di Time Bandits (I banditi del tempo, 1981) di

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Terry Gilliam, autore che abbiamo già trattato in precedenza e che tratteremo ancora in seguito, sia singolarmente che in gruppo coi Monty Python (qui vi è anche la sceneggiatura co-scritta con Michael Palin). Il film è a tutti gli effetti il precursore di una precisa estetica del cinema degli anni Ottanta 28, anche se è cosa poco nota anche ai più fervidi sostenitori di tale tendenza. Si tratterà di un cinema fatto di avventure di ragazzini che si oppongono al mondo dispotico degli adulti e la cui magia interiore si fa esteriore attraverso storie fantastiche, viaggi nel tempo, amori giovanili e tecnologie all’avanguardia 29. Ancora oggi imperversano i culti legati a questa era del cinema, dominata dalla pop culture e da titoli come The Goonies (I Goonies, Richard Donner, 1985), Back to the Future (, Robert Zemeckis, 1985, 1989, 1990), Howard the Duck (Howard e il destino del mondo, Willard Huyck, 1986) e molti altri. Ed è proprio su tale collaudata ondata nostalgica che costruiscono la propria fortuna prodotti contemporanei come la serie tv Netflix Stranger Things (2016- in corso, ideata da Matt Dufer e Ross Dufer)30 o Ready Player One (Steven Spielberg, 2018, dall’omonimo romanzo di Ernest Cline del 2010). I banditi del tempo dunque contiene in nuce una serie di elementi che verranno sviluppati poco dopo, declinati nel tipico stile stralunato e inverosimile di Terry Gilliam. La storia è quel dell’undicenne Kevin (Craig Warnock) che scopre, con l’aiuto di un gruppo di nani, un portale spazio-temporale in casa sua che lo conduce in tutti quei luoghi e tempi che solo coi film (come diceva il trailer originale) altrimenti aveva “visitato”. Da qui cominciano una serie di avventure che vanno dal Medioevo al Titanic, dall’era napoleonica a quella di Robin Hood, in un pot-pourri che già con accenti diversi, più metalinguistici, era stato esplorato in film come Hellzapoppin’ (Henry C. Potter, 1941). Al contrario nel cinema degli anni Ottanta la riflessione estetica è spesso appiattita in un frame sensazionalistico assimilabile al cinema delle attrazioni delle origini, fondato sulla capacità esclusiva del mezzo di stupire lo spettatore di fronte alla meraviglia delle immagini filmiche. E infatti nel film non è nem28 Per approfondimenti cfr. Pier Maria Bocchi, Invasion USA. Idee e ideologie del cinema americano anni ’80, Bietti, Milano, 2016. 29 Sul cinema per e dei ragazzi cfr. Bruno Surace, Baby Simulacra. Semiotica dei cuccioli al cinema come incubatori di assiologie in Francesco Mangiapane (a cura di), Cuccioli, pets e altre carinerie – Numero monografico di E/C, 2018, consultabile al link: http://www.ecaiss.it/index_d.php?recordID=845. 30 Un compendio sulla serie tv in Guy Adams, Messaggi dal sottosopra. Dentro il mondo di Stranger Things, DeA, Milano 2017.

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meno sviluppato uno dei temi che contraddistinguerà poi tutto il cinema di viaggi nel tempo moderno, a partire da Ritorno al futuro, e cioè quello della modificazione del futuro a partire dall’intervento sul passato. I “banditi del tempo” così visitano le varie epoche scontrandosi con il Male in persona (David Warner) e alla fine incontrando Dio, l’Essere Supremo, che con il suo intervento provvidenziale sistemerà le cose distruggendo la creatura malvagia e ordinando ai nani di buttarne i resti dentro una cassetta postale (tipico umorismo à la Monty Python, come a dire che non c’è miglior modo di assicurarsi che siano dispersi). La sequenza è quella del prefinale: l’Essere Supremo, interpretato dal noto attore teatrale inglese Sir Ralph David Richardson, prima si manifesta come volto circondato da un’aura luminosa, per poi diventare un impettito ed elegante signore dal portamento raffinato. Fin da subito egli mette in chiaro, parlando tra sé e sé, di non amare particolarmente quella forma, ma di adeguarsi a essa perché la gente se lo immagina così (quale gente? Gli spettatori, i personaggi del mondo del film, o, più probabilmente, entrambi?).

I banditi del tempo

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Dopodiché egli, con fare sbrigativo e con l’atteggiamento di chi ha la situazione sotto controllo, come il Mr. Wolf di Pulp Fiction (Id., Quentin Tarantino, 1994), assolve alla funzione perfetta, è proprio il caso di dirlo, di un deus ex machina. Il suo arrivo coincide con la carbonizzazione del Male (David Warner), che egli stesso aveva progettato. Una serie di frecciatine mira a equilibrare la sua apparenza mortale con il suo retaggio divino; egli sostiene che «il Male gli è uscito piuttosto bene», così dichiarando di esserne al di sopra, come pure riaccetta di prendere i nani al suo servizio, anche se decurtandogli il salario (sul modello Dio-capoufficio già visto in La vita è meravigliosa). Dichiara poi di aver sempre saputo che il gruppetto gli aveva rubato la mappa universale, e che anzi era stato lui stesso a permetterglielo per testare la riuscita del Male, e quando Kevin gli chiede perché far morire tutte quelle persone e perché l’esistenza stessa del male, egli risponde che «deve aver a che fare con il libero arbitrio» (echi ancora di Capra). Dopodiché, assieme ai nani, scompare nel fumo, un po’ come un mago d’avanspettacolo, rivelando a Kevin, nel più tipico dei finali, che si trattava niente più che di un sogno. Tuttavia è il finale definitivo a rivelare che non è stato tutto un sogno. Un movimento di macchina virtuale verso l’alto dalla casa di Kevin si allontana sempre di più, rivelando prima la città, poi il mondo stesso, poi l’universo, infine, ripresa dall’alto, la mappa che per tutto il film ha costituito l’oggetto di valore. Le mani dell’Essere Supremo la lambiscono da entrambi i lati e la arrotolano verso il centro, rivelando che è sostenuta solamente da un fondo nero, e la prendono con sé trasformando l’inquadratura in un campo vuoto assoluto, e cioè uno spazio nero ove vige il nulla31. La dialettica fra le due scene appena descritte fa dell’Essere Supremo un’entità che controlla i destini dell’intero universo, e che tuttavia per conferire a questi ultimi una qualche specificità semiosica sceglie deliberatamente di inserirvi il Male, cui tuttavia tramite libero arbitrio si può scegliere o meno di aderire. Si tratta di un’istanza destinale super partes, che non fa una piega quando Kevin gli chiede come mai tante persone sono morte per causa sua (si limita invece a lamentarsi di una certa confusione, confusione che possiamo presumere non sia unicamente riferita al luogo dello scontro, ma all’umanità tutta); si tratta di un Dio che dà gli strumenti, e che si dà alla vista di Kevin

I banditi del tempo proprio per via dell’apertura mentale del ragazzino, del suo essere un cucciolo d’uomo ancora capace di credere nella sua apparizione. L’ultima elegante inquadratura, quella della mappa, stabilisce comunque con certezza che il controllo massimo è nelle mani, riprese dall’alto, senza volto, di Dio, che porta con sé l’esistenza come un architetto porta con sé un prospetto. La sua prima apparizione, come volto misteriosamente sospeso nell’etere, non è un dato unico nella storia del cinema. Già in The Wizard of Oz (Il mago di Oz, Victor Fleming, 1939), così come nel remake postmoderno Oz the Great and Powerful (Il grande e potente Oz, Sam Raimi, 2013), il mago di Oz, di fatto Dio del suo regno, usa manifestarsi come gigantesco volto nel cielo. La supremazia del volto (e infatti abbiamo più volte menzionato l’uso insistito di primi piani nel cinema divino), di un volto che basta a se stesso, di un volto che, come direbbe Augusto Ponzio, è alterità pura e distillata32, rende perfettamente la trascendenza dell’entità che rappresenta. Così anche in Star Trek V: The Final Frontier (Star Trek V – L’ultima frontiera, William Shatner, 1989) Dio (George Murdock) si manifesta come un elefantiaco e luminoso volto, circondato da un’aura abbacinante che quasi si fatica a guardare. La premessa doverosa è che quello di Star Trek è un multiverso complesso, costruito e perfezionato attraverso decine di film ed episodi televisivi, e votato a realizzare un prolifico incontro fra immaginario fantascientifico e problemi

31 Un espediente simile è nell’episodio Treehouse of Horror XVI, speciale di Halloween dei Simpson del 2005, in cui in incipit l’universo viene risucchiato in un vortice entro il quale finisce anche lo stesso Dio, strappando l’inquadratura come se fosse della carta, e lasciando il profilmico a un campo vuoto bianco.

32 Augusto Ponzio, Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’ identico, Meltemi, Roma, 2007, pp. 97-104.

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filosofici di ogni sorta33. Così anche il tema di Dio è inserito in questa cornice. Egli si presenta come il Dio assoluto, ma in realtà è il Dio di Sha Ka Ree, un pianeta-paradiso cui i membri della nave stellare Enterprise giungono in missione. Tuttavia si tratta di un’entità aliena che non ha in sé alcuna deità, nonostante si manifesti similmente alla prima “versione” del Dio di I banditi del tempo (un volto sospeso che brilla di luce propria e che emana raggi dagli occhi), ma che tenta invano di evadere dalla prigione in cui è confinata. L’entità tradisce se stessa dimostrando interesse per l’astronave con cui l’equipaggio è giunto sino a lei, e domandando al capitano Kirk (William Shatner) chi egli sia, domanda che in realtà potrebbe essere intesa come retorica, ma che invece dimostra la non-onniscienza del personaggio. Nonostante il film sia considerato dal fandom di Star Trek fra i meno riusciti dell’interminabile saga esso contiene l’elemento del Dio-alieno, entità dai poteri sovraumani e che però non soddisfa alcune premesse metafisiche necessarie a considerarlo l’Essere Supremo. Egli infatti è inserito in una cornice narratologica che ne mostra delle debolezze, e che comunque non lo vede come destinante, ma piuttosto come antisoggetto o antagonista. Un altro Dio sospeso sul modello “Mago di Oz” è quello di Monty Python and the Holy Grail (Monty Python e il Sacro Graal, Terry Gilliam e Terry Jones, 1975), a dimostrazione di come il gruppo di comici britannici prediliga spesso uno humour costruito sulla messa in scena di situazioni assurde, tese fra il sacro e il profano, come abbiamo già visto per il tema della Morte. Qui il setting è medievale, e riprende la leggenda di Re Artù (Graham Chapman), inviato direttamente da Dio (doppiato sempre da Chapman) alla ricerca del Sacro Graal, il calice che avrebbe adoperato Gesù durante l’ultima cena, oggetto mitico e mistico al centro di numerose narrazioni, leggende urbane e teorie cospiratorie34.

Nel film, subito dopo un’esilarante scena in cui un gruppo di cavalieri danza e canta come in un musical (suggellata dall’anacronistica frecciata – doppiata in italiano, come si usava un tempo per acuire l’effetto comico, con accento marcatamente toscano35 – a scena conclusa di un cavaliere che esclama: «Non puoi lasciare la reggia un attimo che te la riducono in una discoteca»), Dio si palesa in cielo di fronte ad Artù e ai suoi compagni. L’inquadratura è un campo totale, e anzi potrebbe essere uno di quei campi totali assoluti che abbiamo già descritto. La parte bassa è dominata dalle cime degli alberi, quella alta dal volto di Dio, circondato da un’aura dorata a sua volta circondata da nuvole. Ha le sembianze di un uomo solennemente barbuto, l’espressione trasmette cipiglio, e indossa una corona di colori rosso e oro. Alla sua vista un controcampo mostra i cavalieri inginocchiarsi ma immediatamente lo stacco ci riporta a lui, ora ripreso in primo piano, e adirato per l’atteggiamento adulatorio che tutti gli riservano. Lo scambio di battute è ovviamente edificato su registri comici, e così Dio affida ad Artù (egli lo chiama Arturo) la sua missione: trovare il Sacro Graal. Dal punto di vista dell’immagine alcuni elementi destano interesse. In primis Dio non è recitato da un attore vero, ma da un’immagine statica, la cui unica movenza è quella della bocca che sale e scende come si trattasse di una figurina da libro pop-up per bambini. Tutta la sua espressività è quindi data al disegno e alla voce che lo doppia. Inoltre il luogo ove tale immagine si situa funziona un po’ come uno schermo nello schermo, giacché quando Dio parla del Graal la sua immagine scompare, per essere sostituita proprio da quella della coppa. Con una dissolvenza incrociata poi torna a occupare il campo nel campo il volto di Dio, che suggella la missione con le arcane parole: «È stato il primo, resterà il migliore». Qui è probabile che il riferimento sia proprio a Gesù, colui che ha fatto del Graal quel che è, e si rintraccia anche una sorta di profezia assoluta: non esisterà mai più una figura come Cristo. Infine Dio abbandona la scena scomparendo con una dissolvenza in uscita, e facendo sì che dove ha lasciato un vuoto tornino a esserci le nuvole, che come

Cfr. Franco La Polla, Star Trek al cinema, Punto Zero, Bologna, 1998; Kevin Decker, Jason Eberl, Star Trek and Philosophy: The Wrath of Kant, Open Court, Chicago-La Salle, 2008; Kevin Decker, Jason Eberl, Star Trek and Philosophy, in George.A. Reisch (ed.), Popular Culture and Philosophy, Open Court, Chicago-La Salle, 2010; Kevin Decker, Jason Eberl, The Ultimate Star Trek and Philosophy: The Search for Socrates, Blackwell, 2016. 34 Si tratta di quello che in Richard J. Utz, Jesse G. Swan, Paul Plisiewicz (eds.), Postmodern Medievalisms, D.S. Brewer, Cambridge, 2005, è definito come medievalismo postmoderno, e che trova nella mitologia del Graal un fertile bacino per la produzione di testi. I film a tema Graal infatti si sprecano, questo anche per la mitologia intrinseca a un oggetto introvabile e così potentemente connotato. Un ottimo compendio analitico sul rapporto

fra cinema e Graal in Kevin J. Harty 2015, The Holy Grail on Film: Essays on the Cinematic Quest, McFarland, Jefferson, 2015. 35 Il doppiaggio italiano, specie nei decenni scorsi, tendeva a tradurre determinati accenti inglesi con specifiche cadenze dialettali italiane, allo scopo di preservare un certo effetto comico originale. Sul doppiaggio italiano cfr. Maria Pavesi, La traduzione filmica. Aspetti del parlato doppiato dall’ inglese all’ italiano, Carocci, Roma, 2005; Massimo Giraldi, Enrico Lancia, Fabio Melelli, Il doppiaggio nel cinema italiano, Bulzoni, Roma, 2010.

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i lembi di un sipario si chiudono da entrambi i lati. Ovviamente i cavalieri controbilanciano la solennità del momento con le solite battute: «Accipicchia! Si è scontrato con le nuvole!», «Ma sarà assicurato!».

Visivamente dunque Dio e lo spazio in cui agisce sono sostanzialmente a livello di uno spettacolo marionettistico. La scelta dei Monty Python, che quando vogliono non lesinano sugli effetti speciali, trova fruttuose spiegazioni in sede ermeneutica. Si tratta in effetti di una dichiarazione di non filmabilità, come a dire che non si può rendere né comunicare l’essere supremo, e che pertanto collocarlo in un regime enunciativo di impronta fumettistica può essere una soluzione per inserirlo nella narrazione senza impantanarsi in rappresentazioni eccessivamente pretenziose. In altre parole, non si mira a dare di Dio un’immagine svilita, bensì al contrario si vuole da un lato inserirlo in un contesto comico, dall’altro operare per riduzione (immagine statica, disegno anziché attore, semplici giochi di dissolvenze) dichiarando l’impossibilità di poterne fornire una rappresentazione verosimile. La semplicità della scena va letta in questi termini ancor più se paragonata sintagmaticamente alle complesse – in termini di costruzione formale – scene che precedono e seguono quella che abbiamo analizzato. In prospettiva destinale poi l’apparente semplicità formale della scena è contrapposta alla destinalità che essa imprime nell’economia narrativa del film intero. Dio in essa è il più classico dei destinanti, colui che conferisce la missione ai protagonisti e che,

dato il suo potere, ne semiotizza le azioni non solo in termini narrativi ma anche esistenziali, nonostante l’atmosfera irridente tipica dei Monty Python. Per chiudere la carrellata di dèi sospesi in aria citiamo infine il significativo 24 Hour Party People (Michael Winterbottom, 2002), che convoglia alcune delle formule di rappresentazione divina dei Monty Python. Il film britannico descrive le vicende di Tony Wilson (Steve Coogan), importante produttore musicale inglese, e mira a fornire un quadro romanzato della comunità musicale di Manchester a cavallo fra il punk degli anni ’70 e la musica degli anni ’90. Il film è realizzato come una narrazione autobiografica in chiave ironica mista a un found footage di riprese dal vero, una sorta di docu-fiction fortemente estetizzata e dal ritmo sincopato, con fitto utilizzo di soggettive e camera a mano. Proprio nella scena finale Wilson si trova a fumare marijuana in compagnia di alcuni amici sul tetto di un edificio a Manchester, quando Dio gli appare. Esso si presenta come un globulo intensamente luminoso che giunge velocemente dall’orizzonte per poi trasformarsi in un individuo fluttuante in aria. Non è solamente un volto, ma un uomo intero, vestito di bianco, con lunghi capelli e barba eburnea, circondato da raggi dorati fatti di cartapesta, un po’ a ricordare i Monty Python e l’estetica che abbiamo delineato, un po’ sul modello di effettistica “handmade” che proprio in quegli anni andava elaborando il regista francese Michel Gondry. Il volto di Dio è quello di Tony Wilson stesso, così a ricorrere ancora una volta il tema del doppio, e l’Altissimo non viene a lui per rivelargli grandi verità sull’universo e l’esistenza, ma a confermargli che le sue scelte in campo musicale sono state quelle giuste, e che si è così assicurato un posto nella Storia. Dopo il pungente scambio di battute l’entità si allontana così come era venuta, e Tony Wilson torna dai suoi amici, rivelandogli di aver visto Dio – cosa di cui loro non si sono accorti – e lasciando spazio a dei titoli coda dalla plasticità fra il lisergico e l’epilettiforme. La visione di Tony dunque è molto probabilmente un effetto dello stupefacente appena assunto, sia per i contenuti della conversazione con Dio, sia per la sua fisicità da Doppelgänger, anche se egli fornisce una labile giustificazione ai compagni, sostenendo che in fondo lo dice la Bibbia, che l’uomo è creato «a immagine e somiglianza di Dio», così coronando l’egocentrismo del personaggio che ha monopolizzato il film sia sul lato narrativo che su quello enunciativo. Dio è qui un’istanza che non funge da destinante, quanto da sanzionatore, ma ha comunque rilevanza destinale. Esso compare alla

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Monty Python e il Sacro Graal

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positiva o negativa che sia, va dunque a costituire un’altra di quelle coppie oppositive – non un secondario elemento di “puntello” – che definiscono la destinalità. Che la sanzione sia positiva o negativa è un dato che si situa a un livello di minore astrazione, e cioè nel salto dal livello della destinalità a quello del senso mediante l’apposizione dell’ideologia36. Dèi contemporanei

24 Hour Party People

Con gli anni ’90 e 2000 il panorama ormai del tutto fluidificato del postmoderno fa di Dio una figura sempre più ambigua, tesa fra la sacralità massima e la totale desacralizzazione, sempre più antropica e paradossale, e spesso adoperata in contesti di genere e narrativi non necessariamente “alti”, come dimostra 24 Hour Party People. Un esempio è Switch (Nei panni di una bionda, 1991), penultimo film – decisamente “minore” – di Blake Edwards, la cui carriera è stata in parte votata alla trattazione, non sempre con leggerezza, di temi a vocazione amorosa, come nel classico Breakfast at Tiffany’s (Colazione da Tiffany, 1961). Qui il tema, che poi diventerà cardinale di una certa commedia romantica come The Ghosts of Girlfriends Past (La rivolta delle ex, Mark Waters, 2009), è quello della “rivincita delle ex”. Il protagonista Steven Brooks (Perry King) è un dongiovanni impenitente che viene adescato da tre donne con le quali ha avuto dei trascorsi. Costoro lo seducono per poi vendicarsi del suo comportamento uccidendolo, ed egli si ritrova in purgatorio, nudo (essendo morto dopo essere uscito dalla vasca da bagno), a diretto colloquio con Dio. La scena ha luogo all’inizio del film, e vede Dio come destinante (riecco l’importanza della collocazione nella temporalità del testo). Il purgatorio è rappresentato come un antispazio, una topologia nera ove a stento si individua nel campo lungo il contorno di Steven Brooks, a colloquio con un fascio di luce. L’immagine di Dio non è presente, e assume invece ruolo fondamentale la sua voce, non solo in quanto tipicamente altisonante, ma soprattutto perché:

fine del film, non è responsabile di alcuna profezia, e in generale non fa che confermare al personaggio che il suo successo è frutto delle sue capacità e della sua bravura, con cui lui non ha interferito. Pertanto ne ricaviamo un ulteriore tassello: anche il posizionamento all’interno del film di determinate figure influisce sull’idea di destino che da queste si trae. Il ruolo di sanzionatore, spesso derubricato come ruolo finale che suggella la storia (pur essendo solitamente affidato al destinante, e qui invece a una sorta di ur-destinante che compare alla fine dandosi il ruolo del divino cui tutto è sottoposto), è in realtà ruolo che consente quel salto dal livello metasemiotico della destinalità a quello del senso. La sanzione è la conferma che una determinata linea di eventi, in cui si incuneano le vicende del protagonista, è determinata anche dalle azioni e dalle responsabilità del protagonista stesso, il quale raggiunto l’oggetto di valore viene premiato o punito. Il premio o la punizione, la gratifica o l’ignominia, non sono necessariamente presenti in tutti i film, e quando compaiono sono funzionali a precise idee di destino per le quali esistono delle vie teleologiche che i soggetti possono seguire, in un regime di libertà, nell’ottica di ottenerne qualcosa di positivo. Sul piano dell’immagine anche l’aspetto ridicolo di Dio e delle sue irradiazioni contribuiscono a declassarlo a specchio di Wilson che non fa che rifletterne la grandezza a posteriori, così confermando l’ideologia della buona lena e dei frutti che ne conseguono. La presenza o meno di una sanzione,

36 La lettura del percorso narrativo canonico come modello ideologico, che perseguiamo, è condivisa per esempio da Denis Bertrand, Basi di semiotica letteraria, Meltemi, Roma 2002.

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1. Si tratta formalmente di una voce off, che però non è la voce di un narratore esterno, ma è intradiegetica, e presume quindi un fuori campo, fuori

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campo che è tecnicamente un fuori campo di impronta, cioè di induzione indessicale, ma che al contempo è un fuori campo assoluto (dove c’è, a scelta, il tutto o il nulla); 2. Si tratta di una voce sdoppiata, alle volte maschile, alle volte femminile, alle volte sovrapposta fra i due generi. Questo secondo dato è di estremo rilievo, anzitutto perché per la prima volta ci pone di fronte a Dio in quanto ente problematizzato anche in termini di genere (così non era negli esempi precedenti, ove Dio era di forma maschile per convenzione iconografica), e in secondo luogo poiché non si sceglie qui di fare un Dio donna, come avverrà in casi successivi, ma piuttosto di fare un Dio simultaneamente femminile e maschile, doppiato nell’originale dalle voci di Linda Gary e Richard Provost.

Switch Tale scelta ha riflessi senz’altro intradiegetici, poiché il modo in cui Steven Brooks si potrà guadagnare il paradiso sarà quello di riconsiderare le sue scelte e correggere il suo atteggiamento maschilista, e tale contratto gli viene imposto da un essere supremo che è indifferentemente di ambedue i generi. Tanto più che il protagonista “tornerà in vita” trasformato in donna, Amanda Brooks (Ellen Barkin), e solo comprendendo a pieno il significato dell’esperienza umana femminile, 150

cioè rimanendo incinto/a, potrà espiare le sue colpe e “andare oltre”, spirando proprio dopo il parto. Così anche l’uso purgatoriale del nero, colore “neutro”, stabilisce un punto di partenza mediano che annichilisce il sistema di differenze su cui il protagonista ha costruito la sua identità prima della morte, e che deve, in un filmprosopopea, ricostruire post-mortem. Il tema della prosopopea, dell’agentività post-mortem del personaggio, come abbiamo già visto per Amore e guerra (e che origina spesso interessanti pellicole come Human Nature, Michel Gondry, 2001), fa del destinante un destinante supremo, capace di conferire una seconda chance anche dopo l’ora ultima e fatale. La remissione dei peccati è possibile anche dopo morti, e la commedia fantastica statunitense degli anni ’90 batte molto su questo canovaccio, così come dimostra anche Defending Your Life (Prossima fermata: paradiso, Albert Brooks, 1991), film coevo di Switch giocato nuovamente sulla prosopopea e sulla remissione dei peccati post-mortem. Qui non è tuttavia la foga da casanova del protagonista a costituire l’elemento deviante che l’ideologia dominante deve correggere, bensì la paura. Daniel Miller (Albert Brooks) muore per un incidente d’auto, e si trova anch’egli in una sorta di purgatorio. Questa volta l’ambientazione non è nero pece, ma composta da piccoli uffici ove funzionari (riecco il modello del dio-capoufficio o dell’al di là-ufficio) sostengono veri e propri colloqui con gli appena defunti, fornendogli la missione che dovranno espletare per passare oltre. Qui passare oltre non significa propriamente andare in paradiso, ma piuttosto avere accesso a un utilizzo maggiore del proprio cervello. Il funzionario infatti dice al protagonista che gli umani usano tendenzialmente il 3% delle loro capacità cerebrali – tema che verrà ripreso in seguito da un certo cinema supereroistico e da film come Limitless (Neil Burger, 2011) o Lucy (Luc Besson, 2014) – e che una volta morti tale capacità si può espandere in un altrove. Si tratta, se vogliamo, di un paradiso mentale, cui si accede grazie all’accesso a potenzialità recondite della propria persona, un po’ a fare eco alle tradizioni filosofiche basate sul culto della consapevolezza37. Il protagonista dovrà quindi dimostrare di Esistono in rete moltissime mitologie legate a pensatori che hanno predicato il culto della consapevolezza. Fra questi vi è senz’altro Osho, oggi assai noto per via del suo stile aforistico, che in I segreti della gioia, Bompiani, Milano, 2005, cita Socrate (o almeno, dice di citarlo, seppure non sia facile stabilire l’origine della referenza), sostenendo che quando “qualcuno” gli chiese dove sarebbe voluto andare egli rispose: «Non so se esistano un paradiso e un inferno, ma non sceglierei né l’uno né l’altro. Questa sarà la mia unica

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non cedere alle paure che nella vita lo hanno reso debole e, ovviamente, lo farà anche incontrando il sentimento amoroso. A differenza di Nei panni di una bionda qui non vi è un ritorno sulla terra, ma le vicende si svolgono principalmente in un mondo a metà, crocevia delle anime in attesa di giudizio. È interessante notare la morale di fondo, più sottile rispetto al film di Edwards, giacché riguarda la possibilità di crescita che non si misura nell’aderenza a questo o quel pattern ideologico (il presunto maschilista deve pentirsi e capire cosa significa essere donna), ma è piuttosto vincolata a una dimensione personale, così come lo sono le singole e soggettive paure. Il film si colloca nel filone della prosopopea paradisiaco-infernale, che ha comunque un retaggio antecedente agli anni ’90. Filologicamente è da ricondursi all’opera teatrale Heaven Can Wait (Il paradiso può attendere) di Harry Segall, da cui viene tratto il film classico Here Comes Mr. Jordan (L’inafferrabile signor Jordan, Alexander Hall, 1941), da cui il più noto remake Heaven Can Wait (Il paradiso può attendere, Warren Beatty 1978 e Buck Henry) e il prescindibile Down to Earth (Ritorno dal paradiso, Chris e Paul Weitz, 2001). Tornando invece al film di Brooks un altro dato è di estremo rilievo per il nostro focus. Durante il loro primo incontro Daniel Miller e il funzionario che si occupa di lui hanno una conversazione che sancisce definitivamente un archetipo formale: la conversazione brillante su temi trascendentali stemperata con battute e giochi di spirito. Non è la prima volta, come abbiamo visto, e non sarà l’ultima, che il tema definitivo (la Morte, il significato della vita, il post-mortem, Dio) viene edulcorato da conversazioni che alternano verità universali e banalità iper-terrestri. Così il funzionario, dopo aver comunicato a Miller che esistono molte vite, che non si trova in paradiso, che dovrà passare un esame, gli dice che l’inferno non c’è anche se è venuto a sapere che Los Angeles gli è molto simile, per abbandonarsi in una sardonica risata con il suo interlocutore. Un altro dato di interesse è che il funzionario spiega come ogni secondo della vita terrestre delle persone sia monitorato, e come al momento della morte una sorta di computo decida del destino del defunto. Questa algebra post-esistenziale a matrice karmica ci pone di fronte a un nuovo modello metafisico, già accennato con Brancaleone alle crociate: la sommatoria destinale. Questo schema pone l’istanza destinale Dio, che sia presente come in preghiera: lasciami essere consapevole ovunque io sia. Fa’ che io sia completamente consapevole ovunque mi trovi. Che si tratti del paradiso o dell’inferno, non ha importanza».

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Nei panni di una bionda (dove c’è una sommatoria destinale non esplicitata, giacché le azioni malvagie in vita condizionano i destini post-mortem) o non visibile come in Prossima fermata: paradiso, in una posizione di onnipotenza relativa, oppure caratterizzato da magnanimità. In primis perché affinché il computo abbia senso allora le azioni che l’algebra considera devono scaturire dal libero arbitrio e secondariamente perché nonostante il computo Dio dà la possibilità di cambiare i risultati una volta morti. Sulla sommatoria destinale, che è un elemento che incide significativamente sulla destinalità e l’idea di destino che ne emana, è anche basata una serie tv contemporanea, The Good Place (2016- in corso, ideata da Michael Schur), che riprende l’espediente della prosopopea, giacché la narrazione è del tutto situata nell’al di là, e che si basa proprio sulla premessa per la quale le esistenze delle persone sono valutate secondo un sistema algebrico di punteggi assegnati in base alle buone o cattive azioni condotte in vita, che determina quando muoiono se andranno a finire nella “parte buona”, un paradiso costruito ad hoc per ogni singola persona (almeno così parrebbe, nonostante la serie riveli poi numerosi twist of fate), o nella “parte cattiva”, il più classico degli inferni ove demoni di ogni sorta avranno premura di torturare i malcapitati. Anche qui, come da regola implicita, il sentimento amoroso e il percorso di autocoscienza post-mortem costituiscono elementi fondamentali per lo sviluppo della narrazione e la delineazione della destinalità che emerge dai metalivelli testuali.

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Dio torna poi a essere presenza eminentemente fisica in opere come Les Sept Péchés Capitaux (Beatriz Flores Silva, Frédéric Fonteyne, Yvan Le Moine, Geneviève Mersch, Pierre-Paul Renders, Olivier Smolders, Pascal Zabus, 1992; sulla falsariga dell’omonimo film del 1962 di Philippe De Broca, Claude Chabrol, Jacques Demy, Eugène Ionesco, Sylvain Dhomme, Max Douy, Jean-Luc Godard, Édouard Molinaro e Roger Vadim), film belga a sketch che tratta il tema dei peccati capitali con ironia, assegnando all’attore di fama mondiale Robert Mitchum, qui in uno dei suoi ultimi lavori, il ruolo di Dio. Dio nel film è un’entità quasi pretestuosa, o meglio pre-testuale, che svolge cioè una funzione più che altro metanarrativa, chiedendo a un uomo di raccontargli notizie sulla Terra, ove pare che virtù e peccati si stiano invertendo. Inizia così, in modello decameronesco, la sequela di episodi sui nuovi peccati capitali: povertà, coraggio, purezza, modestia, onestà, tenerezza, speranza. Il modello di comicità è all’incirca quello dei Monty Python, in commistione con la tradizione della moderna commedia francese38, ma il film non riscuoterà successo e cadrà nell’oblio a tal punto da essere oggi difficilmente reperibile e quasi mai citato. L’immagine di Dio, Dio nell’immagine Simile sorte tocca a Hélas pour moi (Peggio per me, 1993), film però questa volta di un regista molto noto, Jean-Luc Godard, anche se annoverato fra i suoi meno convincenti (e quasi del tutto ignorato anche negli studi di cinema). Il film è una rivisitazione postmoderna del mito di Anfitrione, contaminato con la Storia del genere umano di Leopardi39. Qui è la storia di Simon (Gérard Depardieu) e Rachel (Laurence Masliah), fedeli innamorati che vivono sulle sponde del lago Lemano, il cui amore viene idealmente messo in crisi dalla partenza di lui e dall’arrivo di un uomo che ha le sue stesse sembianze, ma che in realtà è proprio Dio. La sostituzione, già operata per mano della Morte in

Vi presento Joe Black, genera un sentimento distorto in Rachel, il cui cognome parla da sé – “Donnadieu” cioè “donner à Dieu”. Essa viene posseduta carnalmente da Dio, così come Alcmena da Zeus mentre Anfitrione è in guerra, e fra i due si instaura uno strano rapporto a partire dalla di lei ambigua sudditanza. Dio tuttavia, un Dio consapevole di non poter perpetuare all’infinito la situazione che ha creato, così come è arrivato decide di andarsene, per ripristinare la situazione al suo livello originale. Il suo passaggio, in ogni caso, ha lasciato dei segni indelebili. Il film di Godard è naturalmente tutto fuorché marcatamente narrativo. Quello del regista è un cinema che vive di una costante tensione sperimentale, ove alcune linee narrative servono unicamente a reggere un’impalcatura che è invece funzionale a una riflessione sui limiti dell’immagine e, più in generale, sulle capacità della costruzione filmica di trasmettere senso quando radicalizzata verso gli estremi di quella che è comunemente percepita come una “grammatica cinematografica canonica”. Così si susseguono immagini sfocate, conversazioni in asincrono, capitolazioni poco chiare, interpellazioni, focalizzazioni confuse, giochi di luci e ombre naturali che annichiliscono lo spazio profilmico, campi/controcampi stranianti, e tutta una serie di soluzioni che hanno l’obiettivo di superare l’idea di cinema come linguaggio sincretico – obiettivo perseguito fino agli ultimi film del regista come Adieu au langage (2014) e Le livre d’ image (2018) – in un liquefarsi dell’immagine che ne fa struttura significante dal corrispettivo significato estremamente volatile40. Tutte queste componenti, riassumibili in «demolizione di una sceneggiatura dalla struttura classica, contro-impiego (o non impiego) delle star, impertinenza stilistica»41, fanno del film un’opera scarsamente intellegibile, a tratti, anche secondo lo stesso regista, incompiuta42. Dio, in questo contesto, è proprio quell’istanza che nel farsi uomo accetta una

Si tratta di una commedia fondata su un’estetica forte, da un lato retta sulla comicità a equivoci, dall’altro a sfondo spesso sociale e satirico, che trova, specie nella contemporaneità, grande successo in patria e all’estero, con film come Bienvenue chez les Ch’tis (Giù al nord, Dany Boon, 2008), Intouchables (Quasi amici, Olivier Nakache e Éric Toledano, 2001) Supercondriaque (Supercondriaco – Ridere fa bene alla salute, Dany Boon, 2014), Qu’est ce-qu’on a fait au bon Dieu? (Non sposate le mie figlie!, Philippe de Chauveron, 2014), Ils sont partout (Sono dappertutto, Yvan Attal, 2016). 39 Cfr. Alberto Scandola, L’ immagine e il nulla: l’ultimo Godard, Kaplan, Torino, 2014.

Alcune di queste considerazioni sono condivise in Michael Temple, James Williams, (eds.), The Cinema Alone: Essays on the Work of Jean-Luc Godard, 1985-2000, Amsterdam University Press, Amsterdam, 2000, p. 203: «In Hélas pour moi, the multiple areas of tension resulting from the interaction between the seen and unseen, the precise and the blurred, day and night, constitute the ‘body’ of what cannot be seen». 41 Il saggio di Aumont è tradotto dal francese da Alovisio e Pigato in Silvio Alovisio (a cura di), Jean-Luc Godard, Marsilio, Venezia, 2018 (la citazione a p. 89), uno dei più recenti contributi collettanei sull’opera di Godard. 42 Cfr. Salvatore Tedesco, Forma e forza: Cinema, soggettività, antropologia, Pellegrini, Cosenza, 2014.

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messa in codice, ma che intanto è come fisiologicamente costretto a piegare il linguaggio attorno a sé. Dio non solo decide sui personaggi, ma su tutti gli elementi filmici che cercano di contenerlo. Egli è incontenibile, e interferisce sul film. La potenza del film è tale per cui esso rifiuta una precisa “messa in categoria”, configurandosi simultaneamente come destinante fortemente destinato, umano e capace di apprendere, ma pure come destinante tautologico, che distorce molti livelli di senso (narrativo, emotivo, visivo, enunciativo). La logica delle coppie oppositive (destinante tautologico/destinante destinato) nella destinalità è dialettica, e in vari momenti durante i film entrambi i poli possono comparire, eppure uno dei due alla fine prevale. Nel caso del criptico Peggio per me definire la prevalenza è arduo. È proprio obiettivo del film distruggere infatti certi tipi di schematizzazioni, così come essere tradotto in ideologia. Con ciò non intendiamo sostenere che il film sia privo di ideologia, ma che essa si manifesta non tanto sui livelli connessi alla narrazione, quanto in un discorso contestuale che ha a che fare con l’intera opera del regista, da intendersi come un grande sintagma dadaista che persegue anzitutto un obiettivo di distruzione del canone. Simili, almeno negli intenti, destrutturazioni e radicalizzazioni dell’immagine filmica motivate dalla presenza-assenza di un Dio centripeto e destabilizzante si rilevano anche in altre opere, tutte tendenzialmente di tono drammatico e filosofico, che qui menzoniamo senza addentrarci ulteriromente nei dettagli. In Werckmeister Hármoniák (Le armonie di Werckmeister), considerato fra i film più riusciti di Béla Tarr (2000) e ispirato al romanzo Melanconia della resistenza di László Krasznahorkai (1989)43, János, postino di uno sperduto paesino della puzsta magiara, interpreta la balena impagliata giunta con un assurdo circo ambulante come se fosse Dio. E proprio attorno a tale balena, Dio tormentato, si edifica un discorso sulle conseguenze del totalitarismo coronato da un tripudio di sperimentazione linguistica che prevede ben sette firme per la fotografia del film (a riprova dell’attenzione estrema alla resa luministica e cromatica del bianco e nero), e l’utilizzo di lunghi piani sequenza, cifra stilistica dell’autore. The Tree of Life (Id., Terrence Malick, 2011) è film dalla trama esile che vede avvicendarsi una famiglia texana degli anni ’50 composta dal padre O’Brien (Brad Pitt), estremamente autoritario, la madre (Jessica Chastain),

e il figlio Jack (da giovane Hunter McCracken, da adulto Sean Penn). Le vicende della famiglia sono intercalate da immagini universalistiche relative all’esistenza del Tutto e di Dio, che si impongono sulla trama sgretolandone la logicità, nonostante la messa in dubbio dell’esistenza dell’Altissimo da parte di Jack. Immagini della Terra, dettagli sull’erba e su cieli immensi, farfalle, panorami plasmatici che potrebbero essere il big bang o microscopie di cellule nello stesso tempo, aurore, grotte, affreschi, cascate, lande desolate, tutto si interseca secondo la stessa a-logica godardiana di fusione di immagini, suoni, e movimenti, a (non)rappresentare il creato e il creatore, che scomoda intimamente un gigantesco apparato linguistico. Questi film dimostrano come il discorso sulla destinalità e l’idea di destino conseguente, associate a Dio, possano essere giocati tanto in sede narrativa, come visto nella lunga carrellata di esempi precedenti, quanto in un contesto metafilmico, teso più all’indagine e alla messa in discussione del linguaggio filmico. Dio burlone

Che è lo stesso autore di ispirazione per il monumentale Sátántangó, 1994, dello stesso Béla Tarr.

A ridosso della caratterizzazione problematizzante in qualche misura drammatica di Dio degli ultimi film citati il cinema postmoderno ne ha costruita un’altra peculiarmente leggera, ove Dio è, sulla scia di alcuni modelli del passato (Gilliam, Capra ecc.), un ente bizzarro, la cui palese eccentricità media con l’onnipotenza. Gli esempi sono molti, e collocati in uno spettro di genere piuttosto eterogeneo. Ciò che spicca, guardando a tale insieme nel complesso, è una certa elasticità della fisicità di Dio, non più costretto nelle vesti dell’anziano e barbuto uomo, così come una resilienza della sua psiche antropomorfa, che comunque non tradisce il suo ruolo di destinante ultimo e definitivo. I primi casi di rilievo che menzioniamo sono It’s a Very Very Muppet Christmas Movie (Natale con i Muppet, Kirk Thatcher, 2002) e A Little Bit of Heaven (Il mio angolo di paradiso, Nicole Kassel, 2011), entrambe commedie, sebbene pensate per target piuttosto differenti. Il primo è infatti un film costruito sul franchise di successo del Muppet Show, nato nel 1976 e ancora oggi in voga, e tutto giocato attorno alle assurde vicende di un gruppo di scalmanati pupazzi (Muppet è in effetti la crasi in inglese di “Marionette” e “Puppet”). Il secondo è un dramma a tinte sentimentali con venature di commedia. In entrambi i film vi è un Dio antropomorfo, e in entrambi i film tale

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ruolo è interpretato da Whoopi Goldberg (che già impersonava un’istanza destinale in Monkeybone). Si tratta quindi di un Dio di sembianze femminili, e nero. E, inevitabilmente, si tratta di un Dio che stabilisce un collegamento intertestuale, e di sapore metalinguistico. Ne Il mio angolo di paradiso la protagonista Marley (Kate Hudson) si sottopone a una colonscopia in seguito ad alcuni fastidi, e, non è chiaro se per effetto dei farmaci o per altri motivi, durante l’anestesia incontra Dio in un luogo altro, una sorta di paradiso fatto solo di nuvole. Alla visione di Dio con le sembianze di Whoopi Goldberg il film assume valenza metalinguistica, poiché Marley esterrefatta esclama di adorare Whoopi (l’attrice), la quale le dice, didascalicamente, di essere in tali sembianze proprio perché è così che la ragazza vorrebbe vederla. Dio-Whoopi è seduta su un divano bianco, e fa accomodare Marley. La cinepresa non è fissa, ma compie dei piccoli e sinuosi movimenti durante tutta la scena. Tale tecnica inquadra la narrazione in un contesto etereo, come quello del sogno o della visione44. Dio comunica a Marley che ella sta morendo, e che potrà quindi esaudirle tre desideri. Si tratta di uno schema che da un lato sancisce l’onnipotenza di Dio (un Dio-genio), ma dall’altro conferma di una destinalità ascritta. Dio infatti non dà a Marley la possibilità di non morire, tale dato esistenziale è definitivo. Ella, pur se molto giovane, può solamente intervenire nel tempo che le rimane a disposizione, attualizzando l’usuale percorso di autocoscienza. Interviene inoltre il modello della conversazione duplice, ove Dio stempera la sua presenza e la gravità del messaggio che porta a Marley con atteggiamento cordiale e con battute piuttosto terrene, come quella sulle detrazioni fiscali relative al veniale desiderio di un milione di dollari, e di contro Marley bestemmia esclamando “Cristo”. Di tono agrodolce è, paradossalmente, anche Natale con i Muppet, che si configura come una sorta di remake non ufficiale di La vita è meravigliosa. La superstar Kermit la Rana infatti affronta una grave crisi finanziaria, convin44 L’utilizzo di un movimento fluido e quasi impercettibile della camera, ottenibile per esempio con l’ausilio di una steadicam, è spesso associato a momenti in cui il film vuole produrre una discrasia nello spettatore, non facendogli chiaramente comprendere se ciò che vede sia un sogno o la “realtà”. Uno dei più magistrali esempi di questa tecnica riteniamo sia in Mulholland Drive (Id., David Lynch, 2001), nella scena ambientata nel diner americano in cui il personaggio stesso racconta di non comprendere più se si trova in un sogno o nella realtà. Per approfondimenti cfr. Bruno Surace, Cinema, Allospaces and the Unfilmable in Iván Villarmea, Filipa Rosário (eds.), New Approaches to Cinematic Spaces, Routledge, New York, 2019.

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Il mio angolo di paradiso cendosi che il mondo sarebbe un posto migliore se non fosse mai nata, e così un angelo chiede aiuto direttamente a Dio, che non risiede questa volta in un ambiente etereo fatto di nuvole, ma in una sorta di edenico giardino ove svolazzano libere farfalle giganti e gli alberi versano ottimo caffè. Dio-Whoopi è qui nel comportamento molto simile al dio-Whoopi del film precedente, e accoglie il suo ospite nuovamente su un divano. Il trio Dio | angelo un po’ goffo | protagonista da salvare è esattamente ricalcato sul modello Frank Capra, e Dio, anche se con toni più bambineschi, assolve alla stessa destinalità, in un mondo però ove la sua presenza si incunea con un regime di sospensione dell’incredulità differente, data la necessità per lo spettatore di “credere” alla coesistenza di uomini e pupazzi animati di vita propria (oltre a un ampio set di altre bizzarrie) per godere del film. Proprio siffatto contesto assurdo in qualche modo depotenzia lo stesso Dio. Un Dio nero e iconico è anche quello di Bruce Almighty (Una settimana da Dio, Tom Shadyac, 2003), e del suo sequel meno famoso – e tendenzialmente meno riuscito – Evan Almighty (Un’ impresa da Dio, Tom Shadyac, 2007). In entrambi i casi si tratta di Morgan Freeman45. Il primo film contiene probabilmente la più nota antropomorfizzazione di Dio nel cinema postmoderno. La storia è quella del giornalista Bruce (Jim Carrey), che ves45 Il ruolo si “cucirà” letteralmente addosso all’attore, tanto da sfociare poi in una serie di documentari prodotta da National Geographic e intitolata The Story of God with Morgan Freeman (2016), che vede l’attore impegnato nell’esplorazione di varie culture e religioni nel tentativo di comprendere il modo in cui esse concepiscono e credono in Dio.

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sato da una vita di insuccessi sfida Dio sostenendo che egli farebbe senz’altro meglio il suo lavoro, e così ottiene i suoi poteri. Dopo una prima fase euforica, in cui Bruce utilizza la sua nuova onnipotenza per fini personali (soddisfazione lavorativa e sentimentale), egli affronta un percorso interiore che lo porterà a essere altruista, e che farà in modo che impari ad accettare e apprezzare la propria vita per quel che è. Il canovaccio dunque si rivela trito e ideologico, ma la fama del film è dovuta all’interpretazione eccezionale di Jim Carrey e alle sue avventure una volta ricevuti i poteri divini, basate su effetti speciali e su una equivalenza implicita fra divino e magico, che si magnifica nella scena in cui Bruce separa le acque in una ciotola di zuppa al pomodoro. L’apparire magico di Dio tuttavia corrisponde solo a una prima fase, a cui segue quella della consapevolezza. Morgan Freeman è un Dio buono, che occupa una posizione destinale non così scontata. Egli infatti non esaudisce i desideri di Bruce, ma conferisce a quest’ultimo in primo luogo la possibilità di esaudirseli, e lo fa solo per dimostrare che tali desideri erano effimeri. È un Dio dell’accettazione, che anche professando il libero arbitrio pare sapere sin dall’inizio che Bruce si redimerà. Nello spin-off Un’ impresa da Dio il protagonista è colui che in Una settimana da Dio fungeva da antagonista, il giornalista Evan Baxter (Steve Carell), ora eletto al Congresso degli Stati Uniti d’America, che viene incaricato da Dio in persona di costruire un’arca come Noè. La storia non ha qui i risvolti precedenti, ed è piuttosto quella di

una battaglia personale a sfondo ecologista, essendo la missione di Evan impegnata a impedire un disastro ambientale. Dio tuttavia appare come nel film precedente: un personaggio serafico, che non perde mai il controllo e la cui saggezza travalica le preoccupazioni terrene, ma pure un Dio che parrebbe concedere il libero arbitrio. In una scena topica del film Joan (Lauren Graham), la moglie di Evan, è in una locanda con i figli, triste perché il marito, prima pubblicamente rispettato, è ora messo in ridicolo dall’intera città e dai media perché sta costruendo l’arca. Così le appare Dio, in abiti da cameriere (così come in Una settimana da Dio, nell’ottica di impersonare un Dio onnipotente ma umile, era vestito da inserviente), che, senza rivelare la sua identità, le spiega che per lui la storia dell’arca di Noè non è un’allegoria della collera divina, ma una lezione d’amore e d’opportunità. È Dio stesso che fa esegetica biblica, e che chiarisce il suo ruolo sostenendo che egli non esaudisce desideri, ma piuttosto dà l’opportunità a chi li esprime di esaudirseli da sé. Più sottilmente ci pare che in entrambi i film comunque Dio non compia solo questa azione – che di fatto è la manifestazione di una non-agentività, giacché l’opportunità è un dato esistenziale che nelle vicende raccontate si imputa piuttosto alla psiche dei personaggi – ma che anche traghetti le persone nel comprendere quali siano i loro desideri, al di là dell’effimero. In questo senso egli svolge eccome un’azione, e cioè veicola un preciso significato della vita. Possiamo quindi delineare, avendo a supporto numerosi casi, un’ulteriore categoria binaria. Il destinante può agire in due modi: obbligare a fare o obbligare a essere (cioè convincere a fare). Nel primo caso i destinatari agiscono senza effettuare un percorso interiore. Nel secondo agiscono “liberamente” per quella che ritengono una loro scelta, frutto di un iter di autocoscienza che gli è stato indotto. Ancora una volta, è poi l’ideologia a definire se il secondo caso e il primo coincidano o meno. Una storia molto simile alle due precedenti è anche nella produzione britannica Absolutely Anything (tradotto in italiano con un titolo che rimanda ai film con Morgan Freeman: Un’occasione da Dio, Terry Jones, 2005), ispirato al racconto The Man Who Could Work Miracles (L’uomo che faceva miracoli, H.G. Wells, 1898). Qui è Neil (Simon Pegg, sempre a suo agio nella parte dell’inetto o del bistrattato dalla vita, come dimostrano i suoi ruoli nella “Trilogia del Cornetto” di Edgar Wright) ad assumere i poteri divini attraverso delle entità aliene, e li adopera nuovamente per togliersi degli sfizi personali

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Una settimana da Dio ed Un’ impresa da Dio e per cercare di conquistare la bella vicina di casa Catherine (Kate Beckinsale), prima di comprendere anch’egli di non essere in grado di gestire tanta potenza e di affidarla al suo cane (animale che anche in Una settimana da Dio gioca un ruolo simpatico, pur se meno cardinale), che saprà gestirla con molta più saggezza. Anche qui la fase iniziale, quella della presa di confidenza con i poteri divini, è una fase magica, in cui l’occhio e la fantasia dello spettatore vengono soddisfatti attraverso l’ausilio di effetti speciali e la messa in scena delle situazioni e degli equivoci più assurdi (per esempio resuscitando per sbaglio tutti i defunti della Terra, autocitazione implicita di Shaun of the Dead [L’alba dei morti dementi, Edgar Wright, 2004]); così come invariato rimane il sostrato ideologico: non è di potere che hai bisogno, ma di assimilare cosa è giusto e cosa è sbagliato nella vita. 162

Tale pervasivo pattern ideologico del divino non si rintraccia così facilmente invece in un mondo assurdo e ben più inquietante come quello di Citizen Toxie: The Toxic Avenger IV (Lloyd Kaufman, 2000), ultimo capitolo della saga del Vendicatore Tossico (Toxic Avenger)46, cominciata nel 1984 e simbolo della casa di produzione statunitense Troma Entertainment, specializzata in b-movies ad alto tasso di gore. La storia di Toxic è quella di un antieroe in piena regola, come oggi lo sarebbe Deadpool. Il suo vero nome è Melvin Ferd (nel primo film Mitch Cohen), ed è un ragazzo impacciato e bullizzato che in seguito all’ennesima angheria viene scaraventato in un bidone di rifiuti tossici per uscirne orribilmente mutato. Egli diventa così una sorta di eroe contro i malvagi dalle orrende sembianze (una specie di umanoide dal volto completamente distorto, un po’ come il personaggio di Slot nei Goonies o come una creatura uscita dalla fantasia visiva di David Cronenberg), che utilizza come arma uno spazzolone. La saga – ambientata nell’inquinata cittadina di Tromaville – convoglia in sé una serie di tratti che la classificano come composta da b-movie, fra i quali una trama decisamente inverosimile e demenziale, un elogio della bruttezza (delle immagini e dell’ immagine), una cifra stilistica votata alla volgarità, all’attorialità sclerotizzata e allo splatter realizzato con mezzi di fortuna. Tali caratteristiche, che contribuiscono a rendere Toxic Avenger oggetto cult, permeano la saga fino al capitolo conclusivo, ove nello stesso stile vi è la presenza di Dio. Molte cose sono cambiate, e le atmosfere surreali e squallide sono oramai del tutto codificate. Toxic ha una fidanzata cieca (Haidi Sjursen) e un assistente obeso di nome Lardass (Joe Fleishaker), e si trova questa volta a dover combattere non solo con un gruppo di criminali noto come Mafia del Pannolino, ma anche a varcare dimensioni ignote abbandonando Tromaville e trovandosi nel suo opposto, Amortville (Troma ↔ Amort), secondo un modello che farà la fortuna di serie come Stranger Things, tutta basata su un mondo inverso chiamato Sottosopra. Durante i suoi viaggi dimensionali, resi con montaggi assurdi che non seguono le più basilari regole di grammatica cinematografica (e che per questo i critici possono distruggere o osannare, sulla base di scelte che qui non commentiamo), La saga è valorizzata in quanto cinema indipendente capace di divenire oggetto di culto in Chris Holmund, Justin Wyatt (eds.), Contemporary American Independent Film. From the Margins to the Mainstream, Routledge, London-New York, 2005.

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si trova anche al cospetto di Dio. Egli è nuovamente un ente metalinguistico, un po’ come il Dio-Whoopi Goldberg, e cioè i valori che incarna non sono da ricercarsi solo nel testo ma anche nell’immagine sociale dell’attore che lo impersona, in questo caso Henry Joseph Nasiff Jr., meglio noto come Hank the Angry Drunken Dwarf (Hank il nano arrabbiato e ubriaco), famoso intrattenitore statunitense salito alla ribalta per le sue assidue partecipazioni all’Howard Stern Show, programma radiofonico di successo decennale basato sull’irriverenza e la comicità caustica. Dunque Dio è un nano, ma non un nano qualunque, bensì un nano extradiegeticamente famoso per il suo essere sopra le righe. Egli è per di più inserito in un contesto che ricalca l’estetica del film: una sorta di squallido giardino, circondato da case fatiscenti. È in mutande, con una sorta di tunica bianca (stile party collegiale statunitense) e occhiali da sole chiari. Attorno a lui si dimenano tre donne in bikini bianco, una delle quali sorregge un cartello a forma di conchiglia con la scritta “God”, e un individuo in abbigliamento da rocker (con una canottiera dei Motörhead, gruppo hard & heavy inglese) con una pergamena gli elenca dei nomi di persone. Dio gli risponde coi nomi delle malattie che li porteranno alla morte, e i due ridacchiano, specie quando si parla di AIDS. In questo stravagante ambiente, che l’inquadratura iniziale ci dice essere il paradiso (su una grossolana insegna vi è la scritta “Heaven – Pop. 16 – www.god.com”47), giunge Toxic, che chiede a Dio unicamente di poter tornare a casa. Egli, dopo essersi arrabbiato sostenendo che non c’è miglior posto del paradiso, acconsente, purché Toxic si impegni a «fottere a morte tutti gli assassini e gli stupratori di bambini e dire al papa di smetterla di parlare di lui perché non lo conosce, e di togliersi quel ‘cappello a cappella’». Dopodiché Toxic con una dissolvenza scompare e Dio torna alle sue attività, dopo aver palpeggiato sul seno una delle angeliche donne al suo fianco. Da un punto di vista destinale vanno constatati due dati. In primis l’alto tasso di apparente blasfemia adoperata nella personificazione di Dio, ma anche filmicamente nell’introduzione della sua scena, che segue immediatamente a quella di uno strano set di un film porno gay, ove Toxic per un attimo compare durante uno dei suoi viaggi dimensionali. Dio è un nano (incorpora una vera e propria estetica del nanismo)48, dai denti storti, dalle

Citizen Toxie: The Toxic Avenger IV abitudini moralmente poco consone, che si diverte a far morire le persone di brutte malattie, che chiede a Toxic di uccidere determinate persone, che parla male del papa e che subentra dopo una scena di sesso stereotipicamente “anticristiano”. Il dato della blasfemia, che si configura come contro-ideologia e come messa in crisi dell’effettiva solennità connessa al destinante ultimo, intercetta il secondo elemento: Dio ha il potere di rimandare Toxic a casa perché adempia alla sua missione, e lo fa, nonostante tutto, con un totale senso di umanità, essendo stato avvertito dal suo aiutante rocker di trovarsi innanzi all’eroe di Tromaville (che ha bisogno di lui, e questa volta, per paracitare ben più noti eroi, «che si merita»). Inoltre, a ridosso di tutte le antropomorfizzazioni sinora viste, qui Dio di fatto incarna una serie di tipologie umane che esistono, e che sono spesso collocate nelle assiologie dello squallido (sembra sadico e maschilista). Egli tuttavia si mostra proprio così umano, scegliendo di non manifestarsi come presenza altissima, ma piuttosto mettendosi a livello degli esseri umani stessi, livello che non assume solo in presenza di Toxic, ma anche prima, giacché il film ce lo mostra intento nelle sue attività prima dell’inaspettato (?) arrivo del protagonista. In un certo senso è lecito chiedersi se la blasfemia del film, rimarcata in

Sito internet che se visitato oggi conduce alla sponsorizzazione di un’app per leggere la Bibbia coi propri amici ovunque. 48 L’utilizzo di attori affetti da nanismo, allo scopo di esaltarne le fattezze anche in virtù di una loro “esoticità”, è per esempio capitale in film come Auch Zwerge haben klein angefan-

gen (Anche i nani hanno cominciato da piccoli, Werner Herzog, 1970) o nella serie televisiva cult Twin Peaks di David Lynch (1990-1991, 2017) dove compare il personaggio de Il Nano (The Man from another place). Le radici di questa estetica si ritrovano nell’utilizzo di artisti nani nell’avanspettacolo classico, in cui costoro erano inseriti in show dove comparivano a loro volta trasformisti, contorsionisti e così via. Si tratta di un retaggio culturale che permane ancora oggi, epoca in cui è possibile per esempio trovare in alcune feste in discoteca nani contrattualizzati in virtù della loro “nanità”. Nel merito cfr. Brad Paulson, Chris Watson, Dwarfsploitation, BearManor, Duncan, 2013, fornita antologia che comprende oltre a Toxic Avenger capolavori come Freaks (Tod Browning, 1932), Saboteur (Sabotatori, Alfred Hitchcock, 1942) e molti altri.

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opere consimili come The Acid House (Paul McGuigan, 1998), sia poi così minore rispetto alla blasfemia di qualsiasi altra rappresentazione divina, o se, pur costituendo un inserto in un film intrinsecamente votato a una certa ineleganza o zoticaggine, abbia invece motivo di essere considerata un omaggio, finanche raffinato, al libero arbitrio concesso dall’Altissimo. Narrativamente poi è proprio il benestare di Dio a consentire a Toxic di tornare a casa, un lasciapassare che incarna in maniera piuttosto calzante l’idea del deus ex machina, confermando la ricercata sciatteria del film e della saga. Sullo stesso registro blasfemo, ma impostato su una cifra stilistica vagamente più “elegante”, si staglia Dogma (Kevin Smith, 1999), film di satira religiosa di forte impatto, e dalla trama molto più curata. Il motore della vicenda invero è un paradosso logico: Bethany Sloane (Linda Fiorentino) è chiamata da Metatron (Alan Rickman), portavoce personale di Dio di cui vi è traccia nell’ebraismo rabbinico, specie nel Talmud49, a impedire che gli angeli caduti Bartleby (Ben Affleck) e Loki (Matt Damon), rispettivamente un angelo Grigori e un angelo vendicatore, confinati per la loro disobbedienza nel Wisconsin (luogo peggiore dell’Inferno), si presentino all’indulgenza che si terrà alla Chiesa di San Michele in favore della campagna “Cattolicesimo WOW” promossa dal cardinale Ignatius Glick (George Carlin, famoso e talentuoso stand-up comedian statunitense). Se i due angeli infatti ottenessero l’indulgenza i loro peccati sarebbero rimossi, e così potrebbero fare ritorno in paradiso, ma ciò costituirebbe una prova della non-onnipotenza di Dio, dato che genererebbe un’infrazione del suo volere. Così Bethany, donna disillusa e divenuta atea dopo aver scoperto di essere sterile, si mette in viaggio assieme a due profeti metropolitani, Jay (Jason Mewes) e Zittino Bob (Kevin Smith, e cioè lo stesso regista del film, un personaggio muto dal cui mutismo dovrebbe emanare grande saggezza). Cominciano così le lunghe peripezie dei viaggiatori, che porteranno i personaggi a fronteggiare numerose vicende assurde, tutte di tono canzonatorio o blasfemo, come l’incontro con il tredicesimo apostolo Rufus (Chris Rock),

che dice di essere stato estromesso dalla Bibbia poiché nero, quello con il golgothiano, un demone fatto di feci inviato da Azrael (Jason Lee) in persona50, o con Serendipity (Salma Hayek), una musa in crisi che si è reinventata come spogliarellista. Il viaggio condurrà i personaggi proprio alla chiesa nel giorno dell’indulgenza, ove i due angeli ormai impazziti – e convinti di fare in qualche modo il volere di dio – hanno sterminato numerose persone, fin quando riusciranno a convocare l’Altissimo in persona. Egli, accompagnato da Metatron, non ha però le sembianze che ci si aspetterebbe. È infatti impersonato dalla cantautrice canadese Alanis Morisette51, è sorridente anche di fronte alla carneficina, e ha un atteggiamento infantile. La sequenza finale dell’arrivo di Dio è così strutturata: dopo che esso, o meglio essa, è stata liberata dal corpo di un anziano in stato vegetativo in un ospedale vicino alla chiesa (era quindi un Dio-imprigionato), ora può manifestarsi nella sua potenza. Esce così, assieme a Metatron, dal portone della chiesa, dietro di lei un denso fumo bianco. Loki di fronte a lei si pente, e così riceve la grazia, venendo ucciso. Tale uccisione avviene semplicemente grazie all’apertura della bocca di Dio, la cui voce è inudibile dai mortali (Loki è mortale avendo perso le ali). La sua morte avviene in maniera piuttosto cruenta, esplodendogli la testa. Dopodiché Dio si occupa di sistemare tutti i danni procurati dai due angeli, ma prima dà un delicato bacio a Jay, zittendo le sue imprecazioni, e un buffetto sul naso a Bethany per rispondere alla sua domanda sul senso della vita. Con un sorriso ripara immediatamente tutti i danni provocati dalla lotta nella chiesa e nel territorio antistante. È un plasticissimo deus ex machina. Poi, assieme a Metatron, Rufus e Serendipity, rientra dal portone, per andarsene via, lasciando Bethany, Zittino Bob e Jay a chiacchierare sulla scalinata. Bethany nel mentre ha riacquisito la fede, scoprendo di essere incinta, condizione logicamente impossibile non avendo ella avuto rapporti con alcuno, ed essendo sterile. Essa si configura quindi come una Madonna postmoderna benedetta da un’immacolata concezione, e mentre il trio chiacchiera un movimento di macchina sposta lo sguardo con una panoramica verticale sulla chiesa e sul cielo.

«Gli Ebrei davano questo nome al primo degli Angioli, a colui, che gli conduceva pel deserto, e di cui si legge in Mosè: Io invierò il mio Angiolo, che marcerà innanzi a voi, e vi condurrà nel cammino. Egli faceva rispetto agli Israeliti, cioè che il Metator faceva presso i Romani, egli marcava gli accampamenti, ne disegnava la forma, le dimensioni, l’estensione. Metatron è probabilmente formato da Metator. Exodi XXIII. 10» (Prospero Dell’Aquila, Dizionario portatile della Bibbia, Tipografia Tomassini, Foligno, 1833, p. 158).

50 Cfr. Bruno Surace, Elementi di coprosemiotica in E|C, Atti del XLVI Congresso Associazione Italiana di Studi Semiotici, 2019. 51 Il fatto che Dio sia incarnato in un corpo femminile dà ulteriore ragione delle letture femministe del film, come quelle di Daniel S. Cutrara, Wicked Cinema. Sex and Religion on Screen, University of Texas Press, Austin, 2015.

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Dogma Formalmente la presenza di Dio è sottolineata da una musica solenne e mistica, e dall’immediata desaturazione dell’immagine che non appare più confusa ma come calmata dall’arrivo, finalmente, di un ordine delle cose, che si riverbera sulla messinscena. Contenutisticamente gli elementi, pur se apparentemente blasfemi, si dispongono come in una parabola contemporanea. Metalinguisticamente Dio condivide con Alanis Morissette una vocalità particolare, nel caso della cantante denotata da una certa capacità nel generare acuti, nel caso di Dio radicalizzata in una inudibilità di fondo. Destinalmente Dio compare sul finale del film, è un ente paradossale, apparentemente infantile (Metatron dice che ama giocare a flipper, perpetuando ancora una volta l’immagine di un Altissimo con alcuni particolari hobby o interessi verso le più umili delle attività terrene), che pervade però il mondo di serenità, e che è in grado di modificare il tempo, sistemando i danni provocati dalla lotta con un sorriso – scena resa con un tipico avvicinamento di macchina fino a un primo piano e poi un allontanamento a mostrare l’avvenuta riparazione. È un Dio che, come già visto più volte, agisce in relazione a un nuovo piano di consapevolezza, cioè alla fine di un viaggio, e che tuttavia è onnipotente tanto da poter, presumibilmente, far ritornare in vita le vittime della battaglia, e ingravidare una donna sterile. È un’istanza destinale, inoltre, che colloca marcatamente la destinalità del film nell’ambito di una ciclicità. Si 168

tratta dunque di un’istanza destinale tautologica, che agisce semioticamente sia come destinante (è Metatron a stipulare con Bethany il contratto narrativo che la condurrà alla chiesa, ma Metatron è di fatto la voce di Dio), sia come sanzionatore, capace di valicare i confini di causa-effetto rimuovendo quest’ultimo dalla causa. Il film dunque, generando non poche polemiche, configura uno dei più potenti esempi postmoderni di rappresentazione personificata della divinità, tesa fra il sacro e il blasfemo, fra il solenne e il beffardo, fra l’epico e lo speculativo, proponendo figure bibliche caustiche ma alla fine aderenti ai propri ruoli originali, riscrivendo la passione di Cristo da un punto di vista femminile e celando nel tono derisorio una riflessione metafisica di particolare interesse. Di molto minore rilievo, pur nella sua ostentata empietà, è Superstar (Bruce McCulloch, 1999), ove la parte di Dio è affidata all’istrionico attore comico Will Ferrell. Nel film Mary (Molly Shannon) è una ragazza impacciata con il sogno di diventare una superstar e di dare il suo primo bacio. Durante una scena ella fa le consuete preghiere prima di mettersi a letto, e Dio le appare fuori dalla finestra. È un figuro molto simile nelle sembianze a Gesù, ha movenze pittoresche e un portamento da “fricchettone”. Di fronte all’apparizione Mary esclama «Oh my God!» ed egli risponde «Oh my me!»52, e con lo stesso registro quando ella gli chiede se voglia dell’acqua risponde: «I’m good, I’m God!»53. Egli poi spiega alla protagonista di non essere propriamente Dio, ma il modo attraverso cui il subconscio della ragazza lo visualizza (come fa Whoopi Goldberg in Il mio angolo di paradiso), trovandosi in uno stato di sonno. Nuovamente dunque alcuni modelli archetipici si manifestano: il Dio simpatico, che stempera la sua presenza con battute di spirito, ma anche il Dio irrappresentabile se non mediante la mediazione della psiche di chi vive l’epifania. Inoltre, destinalmente, è un Dio-guida (di quelli che obbligano a essere più che obbligare a fare), che suggerisce alla ragazza il comportamento che dovrà avere il giorno dopo al ballo scolastico per realizzare i suoi desideri, configurandosi quindi come un aiutante o un veicolo che traghetta verso 52 Vi è in questi film una quantità significativa di battute basate sull’interiezione “Oh God!”; si pensi ancora a Bruce di Una settimana da Dio che all’esclamazione «Oh mio Dio!» della compagna risponde «Chiamami Bruce!». 53 Un Dio sopra le righe, che ironizza su se stesso, fa tipicamente parte del contesto postmoderno che andiamo delineando. Nella sitcom animata Family Guy questo tipo di figura diventa un personaggio ricorrente: un Dio che dice parolacce e conduce una vita turpe.

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1. Diegetica: il Dio filmico, e in generale il Dio testuale, è un’istanza che può essere costruita secondo due direttrici. Da un primo punto di vista, quello di Superstar e di molti altri film precedentemente analizzati, la sua onnipotenza e la sua egemonia metafisica si espletano, e nei limiti del testo si esauriscono, nella risoluzione di problemi di singoli personaggi, che dall’esterno possono essere giudicati come effimeri, e che pure rappresentano nel momento della narrazione il più alto grado di bisogno di un intervento divino per chi li vive. In questo caso è il bisogno del primo bacio, problema di poco conto forse per molti degli spettatori ma che per la condizione esistenziale (anagrafica + socioculturale) del personaggio ha una portata universale. In questo senso l’istanza destinale non è giudiziale, non fa discorsi relativi all’ordine di grandezza del suo intervento, ma interviene laddove individui il bisogno del singolo. Di contro in altri casi l’onnipotenza divina ha di fatto una portata extralinguistica, come accade in Una settimana da dio, ove Dio guida Bruce nella comprensione di come i suoi

problemi personali possano in realtà avere un collegamento con la trama metafisica del mondo. Quindi Dio non risolverà la questione in maniera diretta, in qualche modo euristica, ma aiuterà a issare un quadro di comprensione aumentato, che minimizzi nel personaggio la frustrazione legata al problema in virtù di una visione generale del mondo più consapevole. 2. Enunciativa: il modo in cui Dio è enunciato è variabile, ma tendenzialmente legato al genere. Così, nel cinema postmoderno e nel suo coacervo di rappresentazioni divine comiche, spesso esso si autoenuncia, presentandosi come tale (non è l’unico modo possibile), e soprattutto adeguandosi ai registri e ai toni del film. Spesso e volentieri tale enunciazione è inscritta in un frame onirico, o comunque in uno stato di realtà alterato (si pensi al dio di 24 Hour Party People evocato dalla marijuana), ove la componente psichica può giustificare una certa elasticità della rappresentazione. 3. Metalinguistica: Dio è, nella fascia di film che stiamo analizzando, quasi sempre interpretato da attori la cui fama è piuttosto nota, e che incarnano una serie di valori che usano trasportare nei propri film. Lo si è visto con Whoopi Goldberg, con Hank the Angry Drunk Dwarf, con Morgan Freeman, e in questo caso con Will Ferrell, specializzato nella comicità demenziale. È impossibile slegare attorialità e autorialità in questi casi, e il risultato è che anche le valenze caratteriali di Dio – oltre che ovviamente quelle somatiche – risentono di questo riflesso metalinguistico (“Ehi! È Will Ferrel! Farà sicuramente il cretino”). Ermeneuticamente si potrebbe azzardare che ciò rende il divino sinonimico del divistico, un’istanza che è al contempo dentro e fuori il film, che vive a metà, e che si manifesta testualmente solo alla bisogna, attraverso attori spesso comici, joker sospesi fra il qui e l’altrove. In effetti, destinalmente, la presenza di Dio non è mai disposta nell’arco intero del film, ma piuttosto calibrata per incursioni, inserzioni, episodi, snodi che immediatamente proiettano la narrazione un po’ più avanti, consentendo la svolta, l’uscita dall’impasse, il twist of fate, la presa di consapevolezza. Dio non è mai insignificante. Va sempre tenuta di conto quindi non solo la qualità della rappresentazione di Dio, ma anche la quantità. A chiudere il percorso argomentativo che abbiamo condotto riteniamo in questo senso utile segnalare che forse il primo Dio interpretato da un comico, iniziatore del filone, è quello di Oh, God! (Bentornato Dio!, Carl Reiner, 1977), primo di una trilogia cui seguiranno anche Oh, God! Book II (Gilbert Cates, 1980) e Oh, God! You Devil (Paul Bogart, 1984). Nei film Dio è George Burns, comico e attore statunitense, e tuttavia alcuni protocolli

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Superstar gli snodi esistenziali utili a raggiungere la soddisfazione personale evitando quelli che invece non evaderebbero la missione del personaggio. In tal caso si tratta tuttavia di una missione non universalmente rilevante (come potrebbe essere costruire un’arca per affrontare il diluvio universale), e tuttavia invece di primaria importanza in merito all’assiologia che soggiace il genere del film: un teen movie a vocazione umoristica. Ciò ci porta a individuare almeno tre ordini di presenza filmica di Dio:

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sono ribaltati. Dio non è più mostrato con toni magnificenti, ma è un arzillo vecchietto, che ancora una volta fuma il sigaro, e che si comporta come il più classico dei destinanti, affidando al protagonista Jerry (John Denver) la missione di portare nell’umanità la fede. Anche nel capitolo successivo il pattern dell’autopromozione divina resterà invariato, mentre nel terzo George Burns interpreterà oltre che Dio anche il demonio, sempre con toni da commedia. Così come è una commedia l’ultimo film sul divino che andiamo a trattare. Geni maligni Esattamente come in Bentornato Dio!, un Dio invecchiato (qui di mezza età) e “in borghese” è quello di Le Tout Nouveau Testament (Dio esiste e vive a Bruxelles, Jaco Van Dormael, 2015), ove tuttavia si assiste a un raro caso di Dio (Benoît Poelvoorde) burbero e a tratti malvagio, un genio maligno che si diletta a tormentare il creato con i mezzi più svariati, attraverso un datato computer dal suo squallido alloggio a Bruxelles, dove vive con la famiglia composta dalla moglie (Yolande Moreau), dal figlio J.C. (e cioè Jesus Christ, interpretato da David Murgia e che compare solo attraverso una serie di “gag” poiché “scappato di casa”), e dalla figlia Ea (Pili Groyne)54, vessata dal padre. Un giorno costei scappa dalla prigione domestica dopo aver manomesso il computer di Dio e aver avvertito tramite sms tutta l’umanità con le date delle singole morti di ognuno. La situazione diventa caotica, poiché conoscendo la propria predestinazione le persone perdono ogni istinto di autoconservazione, lanciandosi nelle più spericolate imprese consci del fatto che moriranno solo a un’ora prestabilita. Dio è, in un caso raro, impotente (un po’ come per certi versi il Dio di Cretinetti), e scende in città nel tentativo di trovare la figlia e punirla, ma essendo il computer guasto egli ha perso i suoi poteri, e dopo una serie di vicissitudini viene scambiato per un mendicante di strada ed estradato in Uzbekistan. Ea nel mentre ha fondato un “Nuovo Nuovo Testamento”, assieme a degli apostoli urbani attinti da un vasto campionario di reietti.

Qui dunque Dio è un essere magico dalle bassissime aspirazioni morali, che tratta l’umanità come giocattolo o cavia da laboratorio, e che soprattutto si rivela come profondamente umano (ergo destinante passionale, ergo destinante destinato, parrebbe da se stesso). È un uomo anziano, ha una famiglia, passa il suo tempo a bighellonare al computer. Per di più è violento e litigioso. E, soprattutto, non è poi così onnipotente, giacché il suo potere è legato a doppia mandata al computer e poiché non riesce nemmeno a tenere a bada la propria figlia. Nondimeno egli rappresenta comunque un’istanza destinale forte, che decide della morte delle persone, eppure in qualche modo negoziale, poiché potenzialmente affrontabile. In una delle scene iniziali Dio è introdotto nelle sue attività quotidiane, narrate dalla voce off di Ea (la voce di una bambina, espediente che Van Dormael adopera anche nel noto Mr. Nobody, 2009). Un movimento di macchina lo segue nella stanza del computer, le cui grandi pareti sono tappezzate di archivi che contengono i dati sull’esistenza. Dio fuma una sigaretta, la sua scrivania è disordinata e piena di bottiglie di alcolici, indossa una maglietta bianca con sopra una camicia a quadri aperta, in stile lumberjack. Mentre elabora modi per torturare l’umanità sorride soddisfatto. Una breve ellissi lo fa vedere intento, sempre nella stessa stanza, a maneggiare dei plastici di città, campagne, e così via. Con un innaffiatoio fa piovere sul plastico, e così facendo fa piovere sulla città autentica a cui esso rimanda; dà fuoco con l’accendino a una piccola casupola; simula con un aeroplanino giocattolo uno schianto aereo o con un trenino un deragliamento. Tutti i suoi giochi si traducono in realtà. La voce di Ea inquadra le sue attività come segue: «Molto dolore, e un po’ di gioia, per dare false speranze. Gli ci era voluto un po’, ma stranamente gli era venuta piuttosto bene». Un’ulteriore ellissi ci riporta a Dio al computer, intento nell’atto di inventare le “Leggi della sfiga universale”55: – 2127: La quantità di sonno necessaria è dieci minuti in più del tempo disponibile. – 2129: Quando un corpo si immerge nella vasca da bagno il telefono squilla. – 2125: Una fetta di pane e marmellata cade sempre dal lato della marmellata – 3126: I piatti si rompono sempre dopo che li hai lavati.

Il nome Ea potrebbe essere riferito a Enki (Ea in era più tarda in lingua accadica), Dio sumero della conoscenza e della creazione, oltre che dell’acqua. L’origine del nome dovrebbe essere semitica (Ay(y)a), anche se non è facile stabilire un’etimologia certa. Un inquadramento iniziale della figura in Gwendolyn Leick, A Dictionary of Ancient Near Eastern Mythology, Routledge, London, 1991.

55 Si tratta, come dedurrete, di una versione particolarmente laboriosa e sadica della popolare “Legge di Murphy”.

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– 2128: La fila di fianco avanza sempre più veloce della tua. – 2231: Le sfighe non vengono mai sole. Dio batte al computer le seguenti leggi, la sua voce le pronuncia, e il montaggio mostra come esse si applichino alla vita delle persone. Dopodiché si alza e se ne va, soddisfatto del suo lavoro. Al di là del volontario effetto comico della scena, che si incunea in un film volutamente sopra le righe, il sostrato filosofico che ne emerge è quello di una teleologia spietata, ove la felicità non costituisce altro che uno specchietto per le allodole, una “falsa speranza”, come sancisce la dolce Ea, predisposta per distogliere l’umanità dal dolore intrinseco della vita. Se Dio è il fautore di tale dolore, Ea invece rappresenta la carica eversiva necessaria per fuggirne, per individuare una via alternativa. In effetti lo scontro fra Ea e Dio, simbolicamente uno scontro fra titani edulcorato da atmosfere melliflue, ove peraltro Ea risulta di fatto figlia del dolore, è la messa in scena di due nemesi destinali che si compenetrano l’un l’altra. Dio tuttavia non è presentato come malvagio per qualche motivo, egli è malvagio in quante tale, aprioristicamente. È in un certo senso l’incarnazione di una filosofia per la quale non è il trascendente a restituire la felicità, che è invece demandata all’immanente dell’uomo: ed Ea, d’altronde, sostituta di Gesù, è la nuova messia, costola di Dio fatta umana. Il finale con un ulteriore colpo di scena destituisce il bipolarismo male/ bene issato durante il film. Ea ha raggruppato i suoi sei (non dodici) apostoli, ma costoro non sono riusciti ad adempiere al loro compito di sistemare le cose nel mondo. Dio è scortato da due guardie in aereo per l’Uzbekistan, ma questo rischia di schiantarsi proprio sulla spiaggia dove Ea e molte persone si trovano, provocando una strage. A casa la moglie di Dio, personaggio svampito sottomesso per tutto il film, fa le pulizie, anche nella stanza del computer, a cui stacca la spina per attaccare quella dell’aspirapolvere. Il computer così si riavvia e sullo schermo appare la richiesta di inizializzazione del sistema. La moglie così si siede al posto di Dio, riavvia l’esistenza, e evita lo schianto dell’aereo. Non solo, ricostruisce le leggi che governano il mondo, cambiando i colori del cielo (secondo la sua estetica floreale di ispirazione liberty), le leggi della gravità, della vegetazione, della vita. Il mondo diviene un posto pacifico, mentre in Uzbekistan Dio si ritrova a lavorare in una fabbrica di lavatrici. La moglie di Dio dunque diviene il nuovo Dio, anzi Dea (così la chiama

il computer), e si colloca come istanza destinale non tanto mediana fra il bene e il male, ma del tutto fuori da ogni schema, disequilibrata, afferente a una logica altra. In questo senso è propriamente divina, tanto lei quanto il computer, che pare in effetti costituire il “paradigma teotecnico primigenio”, essendo infine l’oggetto a determinare gli eventi, sulla base della scelta, sempre

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antropomorfa, di chi lo adopera. Lo sguardo della moglie di Dio è il riflesso dello sguardo di Ea, entrambi fanciulleschi, pascoliani, a dire che è una certa prospettiva pura, decontaminata dai protocolli del mondo adulto, a valicare i confini stretti della logica e del giudizio sociale (Ea si circonda di personaggi “devianti” durante tutto il film). Mentre il Dio malvagio nel suo generare dolore, come sostiene Ea, ha fatto comunque un buon lavoro, un lavoro se vogliamo da burocrate, ha dato una messa in ordine, un’oliata generale, Ea e sua madre si sono curate di altri livelli, sbrigliando una significanza altrimenti relegata fuori dalla semiosfera, sparigliando i rapporti fra cultura e incultura, aprendo a nuovo senso, legittimando ciò che prima era tabù, come accade a Martine (Catherine Deneuve), personaggio a cui viene accordata la possibilità di tradire il marito che non ama non solo con un gigolò, ma anche con un gorilla, con il quale stabilirà una relazione stabile, destituendo il comune stigma verso la zoofilia.

Capitolo 3 Il padre della Patria e lo Stato distopico Gli Anziani pervennero a una certa decisione, ma prima di comunicarla quelli più scrupolosi ritennero opportuno riascoltare il disco. Sentirono il silenzio di Krug mentre osservava i prigionieri. Sentirono l’orologio da polso di uno dei due giovani e il mesto e sommesso gorgoglio nei visceri del sacerdote rimasto senza cena. Sentirono una goccia di sangue cadere a terra. Sentirono quaranta soldati soddisfatti scambiarsi commenti lascivi nel vicino corpo di guardia. Sentirono Krug che veniva condotto nella sala radio. Sentirono la voce di uno di loro dire quanto fossero dispiaciuti e quanto fossero pronti a fare ammenda: una bellissima tomba per la vittima della negligenza, un destino orribile per i negligenti. Vladimir Nabokov, Un mondo sinistro

Gli orizzonti esplorati sinora hanno a che fare con esperienze che, pur pertenendo a codificazioni culturali, sono spesso semiotizzate per motivi di impatto – ma anche per motivi più complessi – attraverso vicende di singoli. I motivi più complessi hanno a che fare con l’affronto diretto, che ogni singolo individuo, anche se equipaggiato di enciclopedie, euristiche, strutture e sovrastrutture, esperisce di persona con i temi ultimi. Così è più facile, tendenzialmente, empatizzare nei confronti di un personaggio delineato nella sua singolarità, sulla quale si può proiettare il proprio vissuto1. Da tali singolarità abbiamo attinto strutturazioni dentro il testo, che si propagano attraverso immaginari, riti, rimossi, e così via, e che si estendono dal singolare all’universale. Sarebbe a dire: la Morte e Dio sono per statuto sopra 1 Cesare Musatti, Psicologia degli spettatori al cinema, «Rivista di psicologia», 2, 1961, pp. 143-149.

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di tutti, ma la loro destinalità è solitamente veicolata attraverso storie di singoli valorizzati in quanto tali2. Dio si interfaccia con Noè, che è sineddoche dell’umanità tutta ma scelto in quanto speciale. La Morte gioca a scacchi con Antonius Block. C’è però un’istanza prorompente la cui specificità sta proprio nell’essere, per antonomasia, destinante collettivo. Lo Stato. Dio e la Morte chiamano in causa un destino individuale, lo Stato chiama in causa un destino sociale. È evidente come le due dimensioni destinali siano naturalmente interrelate, ma nel nostro cantiere è per ora buona cosa tenerle distinte. Avremo modo più avanti di dinamizzarle. Esso è in effetti l’ente invisibile ma strutturante la vita di chi lo abita, sulla cui definizione interi secoli di filosofia politica sono stati spesi, e su cui anche la semiotica si è spesa in termini teorici3. Lo Stato prescrive le topologie della liceità e del reato, assumendosi attraverso leggi e mezzi il potere di definire dei limiti di agentività i quali, se valicati, si tradurranno in pene. La grande potenza di controllo dello Stato si evince proprio in rapporto al modo in cui esso struttura la libertà di chi vi circola, poiché la libertà, kantianamente, è lo spazio di movimento semiosico entro il quale il soggetto percepisce la possibilità di determinare il proprio futuro. Per intenderci: essere omosessuale in Italia, o esserlo in Arabia Saudita, consiste fattualmente nella stessa condizione, ma lo spazio di movimento di un omosessuale in Italia (la sua possibilità di esprimere liberamente la propria sessualità, per esempio) è molto più ampio rispetto a quello di un omosessuale in Arabia Saudita, a cui, se scoperto, può essere inflitta la pena di morte (manifestazione del controllo destinale più totale possibile da parte dello Stato). E ancora, se il paragone si fa con un cittadino italiano e uno canadese, ecco che allora di nuovo i destini cambiano. Lo Stato, in qualunque forma esso sia (per semplicità, secondo qualsiasi delle declinazioni aristoteliche: monarchia, aristocrazia, democrazia), ha il potere di segmentare zone della semiosfera e di definire quale tipo di sanzione sia prevista per chi le valica senza licenza, dalla multa per auto in divieto di sosta alla fustigazione pubblica per aver bevuto alcol da minorenne, dai lavori socialmente

utili all’iniezione letale. Definire le zone della semiosfera significa arginare la circolazione di senso e porre dei veti sulla sua produzione (operazione necessaria per l’autoconservazione dello Stato stesso). Porre dei veti sulla sua produzione significa elaborare delle soglie destinali precise e incontrovertibili, che sono quelle per le quali, pur avendo per esempio un cittadino italiano un’idea potenzialmente profittevole, essa non potrà essere realizzata se non fondando un’impresa secondo le norme di legge, e quindi perdendo tempo utile e magari dando la possibilità a una persona o a un gruppo più equipaggiati di agire più in fretta. Sul modo in cui gli Stati condizionano i destini il cinema può dirci molto. In effetti il rapporto fra cinema, Stato e destinalità è di rara complessità, e si estrinseca almeno secondo due modalità: da un lato c’è lo Stato come destino del film, e cioè come ente che attraverso più o meno visibili interventi (ingerenze, commissioni, censure, finanziamenti concessi o negati…)4 decide delle sorti del film stesso, dall’altro c’è il film che sullo Stato riflette, declinando una qualche ideologia. Entrambe queste condizioni si riflettono sulle testualità, sulla sua produzione e compiutezza. Stato come destino del film Questo primo frangente ha a che fare con tutte le produzioni cinematografiche ove la presenza di una statalità influisce sui modi o i temi del film. La premessa è che ogni film, così come ogni testo, non può dirsi esente da alcune precondizioni di natura strutturale, che pesano semioticamente. Questioni di budget per esempio possono incidere sulla scelta di girare alcune scene, così come orizzonti culturali di vario tipo possono rendere necessaria una mediazione o un’autocensura nella produzione (così come addirittura un’elusione inconscia di questo o quel tema). Il film è insomma il risultato di consapevoli o inconsapevoli conciliazioni fra i suoi fautori e contingenze di natura culturale e materiale. Questo dato è emerso tante volte in precedenza: il modo in cui nei vari periodi della storia del cinema si sono trattati i diversi temi ha proprio a che vedere con l’idea della produzione artistica non come atto isolato, ma come atto socialmente integrato5. Ciò detto esistono casi in cui tale integrazione cede il passo a forme di partecipazione massiva dello Stato.

Ciò non vale, per esempio, per i film catastrofici, ove invece la Morte diviene un fatto squisitamente collettivo, anche se solitamente sono un singolo o un gruppo di pochi a tentare di sventare la crisi (cfr. Vincenzo Idone Cassone, Bruno Surace, Mattia Thibault (a cura di), I discorsi della fine, cit.). 3 Si pensi alla branca della semiotica giuridica, o più largamente alla cosiddetta sociosemiotica, che “esce dal testo” per rivolgersi all’universo delle pratiche condivise, anche in termini di statalità (cfr. per esempio Landowski, Vérité et véridiction en droit, cit.).

Cfr. Giacomo Manzoli, Marco Cucco (a cura di), Il cinema di Stato. Finanziamento pubblico ed economia simbolica nel cinema italiano contemporaneo, Il Mulino, Bologna, 2017. 5 Cfr. almeno Pierre Sorlin, Sociologie du cinéma. Ouverture pour l’ histoire de demain, Aubier Montaigne, Paris, 1977.

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I casi più palesi sono rappresentati da tutte quelle produzioni che, pur se firmate da registi talentuosi, sono da imputarsi a una committenza ideologica precisa, come nel caso degli Stati dittatoriali. Lenin, in riferimento all’URSS, dichiarò che «Per noi il cinema è, tra tutte le arti, la più importante»; Stalin a sua volta disse che «Il cinema è un grande strumento di agitazione di massa. Si tratta qui di prendere la cosa nelle nostre mani», e così nel 1930 nacque la Sojuzkino, società statale diretta da Boris Sumjatskij direttamente connessa alle decisioni del Segretario generale6; Mussolini sulla scia di Lenin ebbe a definire il medium “l’arma più forte”, un’arma “poderosissima” che lo Stato doveva gestire con pieno controllo e ai fini di veicolare la propria propaganda attraverso l’Unione Cinematografica Educativa (Luce)7; per Hitler il cinema costituiva un essenziale mezzo di propaganda, tanto da essere appaltato a un ministero estremamente attento, gestito da Joseph Goebbels8; e così via per molte delle altre dittature che hanno segnato il Novecento. È così evidente come il cinema prodotto fra URSS, Italia e Germania fra le due guerre mondiali sia spesso ben più che contaminato dalle ideologie dell’epoca, anche se non sempre in maniera palese; spesso il contenuto propagandistico risulta infatti mascherato in film di intrattenimento. L’universo cinematografico e semiotico che si dischiude da quanto detto sinora è immenso, e non possiamo che trattarlo attraverso una selezione ristretta di alcuni casi emblematici, che qui circoscriveremo al campo del cinema di ispirazione fascista, e più precisamente alla figura di Giuseppe Garibaldi, “padre della patria”, come istanza destinale sociale. Il patriota Garibaldi La propaganda durante il regime fascista fu, come comprensibile in un modello statale di stampo autoritario, pervasiva. Toccò sfere mediali e del vivere

sociale molteplici, dalle sensibilità cattoliche (tese fin dalla presa di Roma e divenute sempre più inquiete grazie al clima di conflittualità aperto dal rifiuto di Papa Pio IX della legge delle Guarentigie) che vennero ancorate dalla parte dello Stato tramite la grossa operazione dei patti lateranensi, all’intenso intervento simbolico sulla spazialità cittadina che fu investita dei valori promossi dal regime, tanto in chiave puramente linguistico-toponomastica (Predappio, per esempio, fu apostrofata come la “città del Duce”), quanto sicuramente da un punto di vista architettonico, tramite le operazioni evidenziate esemplarmente, fra gli altri, da Mosse9. E così via verso scuola, sport, e ogni altra forma dell’agire culturale che in un qualche modo avesse potuto contribuire alla formazione di un ricercato immaginario condiviso in grado di veicolare adesione convinta alla concezione statale mussoliniana. Mussolini non fu sin da subito consapevole della portata propagandistica del cinema, giacché egli «non valutò sufficientemente il cinema di finzione come invece fece con il documentario, e non seguì l’esempio di Hitler e di Stalin che si impossessarono del cinema non appena salirono al potere»10. L’attenzione per le storie narrate attraverso lo schermo difatti si fece nel dittatore più accesa in maniera graduale. A una iniziale mancanza di consapevolezza infatti si integrò in seguito un’attenzione peculiare verso quell’organo di comunicazione e rappresentazione che serbava un ascendente notevole verso i pubblici italiani, forse anche per la sua connaturata predisposizione a configurarsi come “via di fuga” da realtà che sicuramente erano non facili da sopportare per una larga parte dei cittadini. Se il cinema esisteva e faceva presa soprattutto quando metteva in scena storie di finzione, allora anche queste dovevano essere funzionali allo Stato fascista, tramite sottomissione alla censura e strenuo controllo dei contenuti che producevano. Il cinema fascista si può pertanto definire come canalizzato verso un unicum che più che tematico è simbolico. Inevitabilmente sarà molto difficile trovare film italiani prodotti durante il ventennio che contraddicano i dettami dell’ideologia fascista. Era difficile che un regista producesse un’opera con il dubbio che a questa venisse poi vietata la riproduzione. Nondimeno c’è da tenere conto che, seppure sia facilmente postulabile il contrario, dei

6 Iosif Vissarionovič Stalin, Rapporto organizzativo del Comitato Centrale, in XIII Congresso del P.C. (b), resoconto stenografico, Opere complete, vol. VI, tr. it. Rinascita, Roma, 1952, pag. 264. 7 Cfr. Daniela Manetti, «Un’arma poderosissima». Industria cinematografica e Stato durante il fascismo. 1922-1943, FrancoAngeli, Milano, 2012. 8 Cfr. Bruno Surace, Le intenzioni della memoria. Ipotesi per una teleologia semiotica da Das Ghetto a A Film Unfinished, «Lexia, Intenzionalità/ Intentionality», 29-30 (a cura di Jiang Zhang e Massimo Leone), 2017 e Bruno Surace, Il selfie nel lager. Estetologia di Austerlitz di Sergei Loznitsa, «La valle dell’Eden», 34, 2019.

9 Cfr. George L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania, 1815-1933, tr. it. Il Mulino, Bologna, 1975. 10 Gianfranco Casadio, Il grigio e il nero. Spettacolo e propaganda nel cinema italiano degli anni Trenta (1931-1943), Longo Editore, Ravenna, 1989, p. 12.

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circa 800 film prodotti in Italia in epoca fascista solo una bassa percentuale costituisce un esercizio di integerrima esposizione degli ideali fascisti, mentre gli altri sono costruiti secondo schemi estetici più complessi, che erano in grado di far passare specifici contenuti codificandoli sotto precise simbologie e narrazioni, in grado di creare trasporto anche se non superficialmente “fascistissime” (per rispolverare l’infelice termine proposto da Mussolini nel 1925). E infatti:

limiteremo qui ad analizzare Il grido dell’aquila del 1923, «primo film fascista a tutti gli effetti»13, di Mario Volpe, e 1860 del 1934 di Alessandro Blasetti. La scelta di tali film è motivata da precise esigenze di pertinenza semiotica e storiografica giacché entrambi condividono la mitizzazione (se non mitologizzazione) del Risorgimento in chiave popolare, e in particolar modo della figura di Garibaldi, colui che ha destinato l’Italia a diventare Nazione. I film risorgimentali del periodo 1923-1927 riflettono puntualmente questo dibattito. In primo luogo cercando esplicitamente di collegare Risorgimento e fascismo, schierando fianco a fianco vecchi e nuovi combattenti, camicie rosse e camicie nere. Così si rilanciava una filmografia garibaldina che guardava al fascismo. Tipico esempio di questa cinematografia fu Il grido dell’aquila, un film del 1923 di autori fiorentini, Valentino Soldani ed il regista Mario Volpe, commissionato dall’Istituto Fascista di Propaganda Nazionale fiorentino, con un ben identificato progetto: raccordare prima guerra mondiale, fascismo e esercito, raccordo tra le camicie rosse garibaldine e le camicie nere fasciste con l’ardito legame tra l’impresa dei Mille e la Marcia su Roma […]14.

Una valutazione globale della politica cinematografica fascista deve necessariamente comprendere giudizi di tipo diverso. Il regime mussoliniano non creò il cinema in Italia, ma si limitò a riconoscerne – invero con una certa lentezza – il prezioso potenziale propagandistico, e a prendere varie misure intese ad assicurarne la conformità agli obiettivi culturali e politici del fascismo. Dopo le esitazioni degli anni Venti, il regime cominciò a muoversi in modo più risoluto verso l’integrazione dell’industria cinematografica nella più ampia organizzazione culturale dello Stato11.

Si tenga presente infatti che non tutti i registi che in un qualche modo contribuirono al fascismo (e stessa cosa vale per forme d’arte altre dal cinema) si trovarono poi in futuro a rivendicare l’ideologia sostenuta nel passato; per alcuni di loro si trattò perlopiù di un passaggio, non sempre direttamente voluto: Il fatto di aver collaborato, negli anni del regime, alla realizzazione di diverse opere contenenti, in maniera più o meno evidente e convinta, elementi di propaganda bellica non compromette la maturazione del regista e non ostacola il suo approdo a posizioni di aperto antifascismo di carattere, però, più morale che politico in senso stretto. Come Rossellini, […] Mario Camerini e Alessandro Blasetti trovarono naturale maturazione della loro sensibilità artistica e politica nel passaggio alla aperta critica del loro trascorso fascista12 .

Si capisce bene dunque quanto lo Stato determinasse il destino dei film. Ci 11 Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Laterza, Bari, 1975, p. 321. 12 Maurizio Zinni, Fascisti di celluloide. La memoria del ventennio nel cinema italiano (1945-2000), Marsilio, Venezia, 2010.

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Inoltre, se il primo in un qualche modo apre al filone del cinema di stampo fascista, che sarà comunque come già accennato piuttosto complesso, il secondo fa riferimento a una fase di questo già più matura, e sarà dunque stimolante comparare i due testi filmici mettendone in rilievo sia le analogie che le diversità. I film di Volpe e Blasetti, pur se accomunati dalla figura di Garibaldi e dal tema risorgimentale sono costruiti in maniera radicalmente diversa sotto numerosi punti di vista, e godono oggi di una diversa visibilità (che vede Il grido dell’aquila sostanzialmente ignorato). 1860 è infatti quello che si può a rigor di termine definire film storico, poiché ambientato – tranne che per il finale contemporaneo – proprio nell’anno della spedizione dei Mille, mentre Il grido dell’aquila costituisce perlopiù un racconto di vicende attuali (nel 1923), pur mostrando immagini del 1860-1861 tramite interessanti enunciazioni mentali (sorta di flashback di uno dei protagonisti). I film dunque Alberto De Bernardi, Scipione Guarracino (a cura di), Il fascismo. Dizionario di storia, personaggi, cultura, economia, fonti e dibattito storiografico, Bruno Mondadori, Milano, 1998, p. 210. 14 Fabio Bertini, Cineteca CLIO. Il film come riflesso della storia e come autobiografia sociale, Università di Firenze, Firenze, 2008. 13

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si distaccano fortemente sulla sostanza dell’enunciazione superficiale e della narrazione. Nell’opera di Volpe diverse storie, più o meno compiute, si intrecciano a convergere sul finale nella mitizzazione di Garibaldi e della sua impresa: vi è l’episodio più centrale anticomunista che mostra una tentata rivolta proletaria, e a contorno si ricamano un’accennata vicenda di amore negato, la storia di un imbranato soldato che diventa marionettista di strada, una vicenda (non così marginale) di comunicazione intergenerazionale incentrata proprio sulla Storia. In 1860 al contrario non si assiste a tale profluvio narrativo-episodico, ma anzi la storia portante è, seppur intessuta anch’essa di rimandi più impliciti, unica, e cioè quella del siciliano Carmeliddu che risale l’Italia per poi, dopo diverse peripezie, essere partecipe della spedizione garibaldina e poter finalmente riabbracciare la sua amata Gesuzza prima di combattere la gloriosa battaglia di Calatafimi contro i borbonici. Nondimeno asserire una diversità sul piano della manifestazione dei due testi non significa negarne una evidente, condivisa polisemia. Tale polisemia fa sì che i film, pur parlando di cose diverse, celino nelle strutture profonde delle isotopie. Tali isotopie sono risultato della “mano dello Stato” sui film, che si posa attraverso la costruzione retorica di Garibaldi in quanto destinatore della patria. Il cinema di ispirazione fascista come si è già menzionato in precedenza non necessariamente si caratterizzava da una propaganda esplicita, ma spesso agiva su livelli più profondi. Il tema risorgimentale come motivo di orgoglio e di unificazione degli animi fascisti, chiamati a rendere possibile l’apice di un destino statale iniziato dall’epopea garibaldina, è appunto uno dei camouflage grazie ai quali la gloriosità del fascismo veniva trasmessa più su un piano connotativo che non denotativo. Tuttavia esistevano numerose altre tematiche prese a cardini dalla propaganda, molte delle quali peraltro risultavano di gran lunga più efficaci; basti pensare per esempio all’esaltazione dello spirito coloniale italiano15, o a una certa rappresentazione del ruralismo come simbolo d’immacolata purezza16, anziché alle numerose idolatrie dell’Impe-

ro Romano o ancora all’auto-epidittico relativo alla marcia su Roma, di cui emblema è Vecchia guardia del 1934 dello stesso Blasetti. Non era prerogativa indispensabile che ogni film toccasse necessariamente una e una sola semiosfera, e infatti alcuni dei temi citati e altri compaiono anche solo per brevi momenti nei film, creando venature semiosiche e denotando una delle fondamentali caratteristiche delle propaganda fascista: la creazione di una rete narrativa interrelata, una Gestalt ove ogni elemento fosse di supporto agli altri e dove regnasse una solida e non intaccabile coerenza interna, pena un crollo strutturale del sistema intero. A sostegno di questa particolare concezione si pensi infatti al possibile dialogo che si instaura fra 1860 e Il grido dell’aquila, i quali si sostengono l’un l’altro formando assieme un potenziale macro-testo che potrebbe vederli uniti (a tutti gli effetti l’intero film di Blasetti potrebbe rientrare pienamente in uno degli episodi di ricordo presenti in quello di Volpe). Ciò nonostante, perché la già menzionata rete narrativa possa sostenersi è necessario che gli strati più profondi, quelli simbolici o semisimbolici, sappiano comunicare l’un con l’altro, e che siano costruiti pertanto con piena consapevolezza e maestria. Il cinema fascista si trova dunque a condividere, alla stregua per certi versi del cinema sovietico, in buona parte dei suoi film una tendenza all’inserto metaforico, che mira a stabilire marcati nessi semantici fra un’inquadratura e l’altra, atti a creare rapporti di causalità (si tratta di strutture destinali che forniscono orientamenti di senso) supportati da basi ideologiche precise tramite un manierismo stilistico che a tratti può anche spiazzare lo spettatore. Scrive nel merito Brunetta: Se sul piano della propaganda il cinema fascista ha preferito i toni «medi» ed edulcorati a quelli di un’epopea gloriosa e trionfante, questo fatto ha favorito la creazione di un terreno comune di convergenza stilistica nel quale si sono ritrovate, a fianco a fianco, personalità assai diverse. La mancanza di uno stile unitario, uno «stile fascista», voluto e imposto dall’alto, ha favorito […] la contaminazione di tutti gli stili, dall’imitazione del film sovietico a quello americano, dal documentario alle ricerche dell’avanguardia, ma ha anche aiutato un’intera generazione di registi a liberarsi

15 Per approfondimenti su questo specifico tema si consiglia la visione del film contemporaneo Pays Barbare di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi (2013). Cfr. anche Ruth BenGhiat, Italian Colonialism, Palgrave Macmillan, New York, 2005 e della stessa autrice, Italian Fascisms Empire Cinema, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis, 2015. 16 Per esempio un intero capitolo sarebbe da aprirsi in merito alle scelte dei costumi effettuate da Blasetti in 1860. Egli infatti contrappone alle uniformi dei borbonici, e ai vestiti eleganti dei borghesi romani e genovesi, i panni di pelle di pecora indossati da Carmeliddu, conformi al ruralismo enfatizzato del suo paesino siciliano. Su paesaggio

rurale e cinema fascista cfr. Deborah Toschi, Il paesaggio rurale. Cinema e cultura contadina nell’Italia fascista, Vita&Pensiero, Milano, 2009 e Michele Guerra, Gli ultimi fuochi. Cinema italiano e mondo contadino dal fascismo agli anni Settanta, Bulzoni, Roma, 2010.

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da una serie di riesami autenticamente critici sul proprio ruolo e sul grado della propria «compromissione» all’interno delle strutture del regime17.

Nel visionare Il grido dell’aquila effettivamente si nota uno stagliarsi simbolico-allegorico assai evocativo. Una delle primissime operazioni semiotiche attuate da Volpe è quella dell’inserimento delle maschere popolari, che da una posizione di inerzia iniziale intervengono poi direttamente nella narrazione durante lo scorrere delle vicende. Il richiamo a figure di questo calibro costituisce un forte atto di interpellazione verso il pubblico, una richiesta di partecipazione attiva. In effetti le maschere della commedia dell’arte (Arlecchino, Pulcinella, Balanzone, Gianduja, Meneghino e molte altre) sono portatrici di storie diverse ma intrecciate, e soprattutto radicate in un certo pubblico; saperle sfruttare come veicolo di determinati messaggi vuol dire essere consci di quella che chiameremmo una enunciazione delegata. Le maschere dunque agiscono al posto di Volpe, ne sono simulacro, così come quest’ultimo di fatto agisce per conto di Mussolini formandosi a sua volta come enunciatore delegato. Le maschere però hanno un plusvalore per i programmi narrativi che di per se stesse contengono, giacché si fregiano di essere rappresentazioni di un Italia vivace e multicolore, nel film inizialmente addormentata ma poi sveglia e pronta all’azione, alla manifestazione. Nella fattispecie Arlecchino funge da cerniera episodica fondamentale e in un qualche modo anche da più sotterraneo esercizio di analessi giacché la su prosopopea sul palco in una qualche maniera anticipa la duplice sovrimpressione-prosopopea del milite ignoto – richiamo a una patriottica nostalgia – nel seguito del film. L’evolversi delle vicende delle maschere è allegoria della costruzione dell’Italia, resa sul finale da un’interpolazione di inquadrature con più chiusure ad iride (tramite l’ausilio di mascherine poste sull’obiettivo della camera). Se le maschere pertanto sono un tipico rimando alle rispettive regioni italiane che notoriamente rappresentano, esse costituiscono solamente l’innesco dell’apparato simbolico issato da Volpe.

Allegoresi di Volpe e Blasetti È scritto nella Genesi, 3.1 che «Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal signore Dio». Ruolo preminente ne Il grido dell’aquila è occupato proprio da questa figura, assolutamente decontestualizzata dalle vicende del rappresentato e anticipatrice in un certo senso del celeberrimo pavone meccanico, allegoria di un vanesio Kerenskij in Октябрь (Ottobre, 1927) di Ėjzenštejn18. Per tre volte durante il film Volpe inserisce un’inquadratura composta unicamente da due serpenti (probabilmente piccoli pitoni), centrali e aggrovigliati, che si rivelano in una breve contorsione.

Il grido dell’aquila

Ottobre

Queste tre inquadrature non sono, come prevedibile, casuali, ma collocate in particolari punti del montaggio, coincidenti con la presentazione del personaggio comunista (colui che è evidenziato da un raccordo in avanti che ne mostra la spilla con la falce e il martello, ulteriore prova di una certo interesse nella codifica simbolica della narrazione) o aizzatore di folle, e con la rivolta proletaria degli operai che perderanno la loro battaglia. Il serpente è quindi l’altro, e nella fattispecie l'altro comunista. La scelta di questo animale (quando sicuramente se ne potevano inserire numerosi altri) chiama in causa specifiche enciclopedie spettatoriali facendo leva su un diffuso biblismo popolare, a partire dal noto — quantomeno in una dimen-

Gian Piero Brunetta, Cinema italiano tra le due guerre. Fascismo e politica cinematografica, Mursia, Milano, 1975, p. 91.

«La figura di Kerenskij è nata anche dalla commutazione dei personaggi il maggiore “pavone” e il barone altezzoso e sprezzante Wilhelm von Ejrick, satiricamente effigiati da Maupassant in Mademoiselle Fifì. Del resto, di questa novella Ėjzenštejn ci parla in Forma e tecnica del film, a proposito dello scambio delle strutture» (Maurizio Del Ministro, Cinema tra immaginario e utopia, Dedalo, Bari, 1984, p. 190, nota 30). Cfr. anche Sergej M. Ėjzenštejn, La forma cinematografica, tr. it. Einaudi, Torino, 1986 (nello specifico il paragrafo La dialettica della forma cinematografica).

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sione folkloristica — episodio del serpente tentatore nell’Eden. Non vi è pertanto emblema più efficiente di quello che, in una ultracattolica Italia, è il responsabile del peccato originale. La strategia retorica di Volpe si rivela dunque piuttosto fine poiché sa far leva sullo spettatore giocando sulla predisposizione xenofoba impostata dal regime e indicando all’alterità — in questo caso verso il più temibile tra gli altri: il comunista — senza direttamente rappresentarla. Il regista tocca un altissimo livello di simbolizzazione; dà l’idea, ma non la mette in scena esplicitamente. E buona parte del cinema di propaganda fascista, come si vedrà anche in Blasetti, fa di questo meccanismo dell’immagineidea una delle sue strategie:

Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Bompiani, Milano, 2008, p. 159. 20 Ugo Volli, Il nuovo libro della comunicazione. Che cosa significa comunicare: idee, tecnologie, strumenti, modelli, Il Saggiatore, Milano, 2010, p. 53.

Le maschere sono l’Italia dormiente o desta, il serpente è la perfidia dell’altro comunista istigatore di scioperi, e così ancora Volpe aggiunge inquadrature di asini e conigli, ma soprattutto imposta l’interezza del suo film su Garibaldi. L’Eroe dei due mondi è il fulcro dell’intera costruzione retorica de Il grido dell'aquila. Se la rilevazione di precipui dispositivi allegorici si dimostra agevole ne Il grido dell’aquila per via di una sua predisposizione a un certo tipo di esegetica, nel caso di 1860 un procedimento di tale fattura risulta quantomeno difficoltoso. Come si è già accennato il film è, al contrario di quello di Volpe, piuttosto lineare. Non si segue in questo caso un andamento episodico intervallato da momenti “onirici” e ricordi, ma anzi la storia di Carmeliddu, picciotto siciliano, ha un inizio e una fine fissati, e la focalizzazione allo stesso modo è concentrata prettamente sulle sue vicende, se non nei momenti iniziale e finale nei quali emerge il tono più marcatamente epico ed è la folla a occupare l’immagine. Tuttavia, così come Volpe attraverso un repertorio di immagini simboliche fortemente codificate mirava a far passare la concezione fascista facendo perno sulla figura di Garibaldi come massimo archetipo mussoliniano, allo stesso modo Blasetti – con un formalismo piuttosto raffinato – fa sedimentare nel sottotesto una precisa traslitterazione ideologica, condivisa con Il grido dell’aquila: Mussolini e Garibaldi sono lo specchio di una condivisa, italica eroicità. Essi incarnano la Nazione e la sua destinalità, sono uomini che da soli prendono in mano i destini di milioni di persone e hanno lo spirito e la forza per condurli. Sarà dunque difficile trovare qualcosa di analogo al serpente adoperato da Volpe, ma in 1860 specifiche dinamiche di simbolizzazione affiorano chiaramente, e metafore di varia natura sono comunque rilevabili. Per esempio evidente risulta il tema xenofobo, qui codificato in termini di alterità linguistica e nazionale: altri sono i borbonici che minacciano la tranquilla Sicilia con la loro presenza militarizzata; altri sono poi i francesi che esibiscono di fronte a Carmeliddu a Civitavecchia un palese sentimento di superiorità e una totale non collaborazione; altri sono ancora gli austriaci. Il tema del diverso come ostile all’unità della patria italica si staglia dunque in entrambe le pellicole senza essere esplicitato in termini diretti: dal lato di Volpe egli è il comunista, da quello di Blasetti lo straniero o altrimenti il non-italiano. Poco importa se l’oggetto della rappresentazione goda di dubbia verisimiglianza (l’epopea del picciotto siciliano assume a volte connotazioni del tutto caricaturali così come di fatto le vicende nel film di Volpe), «perché 1860 è un in-

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L’immagine eidetica è un’immagine che realizza una fusione di configurazione visiva e di idea, di forma, di visione e di concetto. È un’immagine-idea, una struttura visiva, impregnata di un contenuto intellettuale particolare. È un’immagine che unifica e rende indissolubili visivo e intellettuale, configurazione e concetto19.

Si rifà a un substrato culturale condiviso, nuovamente dialoga con un pubblico pensato come pensante, pronto a rispondere e reagire a certi input semantici. Ancora alla stregua di un pubblicitario sa indurre tramite il richiamo, lavorando su livelli inconsci, evocando causalità specifiche. Detta in altri termini, lavora sul segno visivo a partire dalla sua connotazione: Sulla base di idee sviluppate da Hjelmslev, il semiologo francese Roland Barthes ha proposto negli anni sessanta un’importante definizione della connotazione, quell'effetto per cui in certi segni a un significato centrale e denotativo, si aggiungerebbe un secondo significato spesso di carattere emotivo, un alone semantico, insomma una comunicazione parassita. […] Per esempio se il tricolore designa (arbitrariamente e in maniera denotativa) l'Italia, questo segno può, in un certo contesto politico, diventare il significante di un nuovo segno, che richiama valori come il patriottismo, o magari in altre circostanze la squadra nazionale di calcio20. 19

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crocio di determinazioni e di spinte contraddittorie, di voci dissonanti eppure oneste e sincere»21, e l’importante è che lo spettatore sia in grado di cogliere una serie di contenuti senza che questi gli vengano forzatamente imposti. Quel che si attua è più che altro un meccanismo di suggerimento, una richiesta che si fa al ricettore della comunicazione di mettersi nei panni (tramite una dinamica di sutura)22 del protagonista di turno e di rispondere razionalmente delle sue azioni. A conclusione di questa breve allegoresi dei due film in questione, soffermiamoci ancora un attimo su un dato stilistico. Dopo varie tribolazioni Carmeliddu riesce a raggiungere Genova per esortare la discesa di Garibaldi in Sicilia. È un passo avanti verso la liberazione e una vita di serenità e, dopo un iniziale momento di sconforto per via di una falsa notizia circa un presunto abbandono di Garibaldi, la spedizione parte. Poco dopo la narrazione si sposta in Sicilia, all’alba della battaglia di Calatafimi, ma Blasetti indugia su alcuni fiori bianchi in primo piano, simile a fiori di pesco.

siano concentrati nelle mani di un sol uomo, assumo nel nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia la Dittatura di Sicilia. Giuseppe Garibaldi. Salemi, 14 Maggio 1860». È impossibile comprendere il senso di un’operazione stilistica di questo tipo senza calarsi in un dominio ermeneutico: Blasetti vuole qui infatti comunicare attraverso registri simbolici completamente denarrativizzati e puramente iconico-visivi. I fiori sono quasi immobili, se non smossi da una leggera brezza, e la camera ne cattura la ferma bellezza per poi, attraverso un quasi impercettibile movimento di zoom-out mettere diversamente a fuoco sul loro sfondo, costruito attorno a precisi codici della figurazione giacché raffigurante le baionette a loro volta ferme e intrecciate le une nelle altre. Innegabile una valenza estremamente codificata di questa immagine, resa a partire dalla cura tecnica e stilistica di un regista che durante l’intero film non esita nel giocare abilmente con i registri del medium cinematografico, e ne sono esempi i costanti movimenti di macchina (specie nelle situazioni di battaglia ma anche e soprattutto di dialogo, a rivelare nuovi interlocutori), un uso caratteristico e non scontato del fuori campo (come nella formidabile sequenza di Carmeliddu che si ritrova isolato nello sterminato mare), e così via. Insomma non è a farla da padrona solo la scelta del simbolo, e lo stesso – anche se con toni differenti – vale per Volpe, ma anche e in egual misura il modo di enunciazione di quest’ultimo. The visual and auditory distinctions paint a melodramatic canvas in which the lines are clearly drawn between friend and foe, patriot and interloper. The Assignment of horizontal and vertical positions is metaphoric. The images of reclining and rising, like movement and stasis, become important as a way of measuring progress, but are also proleptic insofar as the notion of rising is associated with the notion of Risorgimento. The enemy is also identified with jarring sound, abrupt interruptions, entrances and exits, while softly played patriotic music identifies the Sicilians23.

1860 Questa inquadratura, presa per esempio per la sua particolare evidenza (e cura estetica) ma certamente non unica in 1860, è di fatto non necessaria all’interno della narrazione, eppure è inserita come apertura all’arrivo di Garibaldi in Sicilia, subito dopo l’unico inframmezzo testuale recante le seguenti parole, anch’esse non strettamente necessarie ai fini narrativi: «Considerando che in tempo di guerra è necessario che i poteri civili e militari Alessandro De Filippo, 1860 di Blasetti, l’‘ intenzione di andare al vero’, in Sebastiano Gesù (a cura di), Sulla strada dei Mille. Cinema e Risorgimento in Sicilia, Brancato, San Giovanni La Punta 2011, p. 79. 22 Utilizziamo l’espressione “sutura” prelevandola da Volli, che la adotta in diverse occasioni, come per esempio, Manuale di semiotica, Laterza, Roma-Bari, 2003; Semiotica della pubblicità, Laterza, Roma-Bari, 2012; Lezioni di filosofia della comunicazione, Laterza, Roma-Bari, 2014. 21

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Numerosi altri sarebbero gli esempi da citare nel merito del valore della tecnica nel cinema di propaganda fascista e ci limiteremo qui a sottolinearne ancora due: l’uso del suono in 1860 rispetto al muto in Il grido dell’aquila, e Marcia Landy, The Folklore of Consensus. Theatricality in the Italian Cinema, 19301943, State University of New York, Albany, 1998, p. 145.

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la marcia finale in quest’ultimo. Nel film di Blasetti invero si riscontrano tre diversi tipi di sonorità: le voci del parlato, la musica, e le voci-off. Il sonoro va di pari passo con il visivo e anzi spesso ne surdetermina l’essenza, a partire dall’elemento più evidente sin da subito: un utilizzo marcato dei toni musicali quando spiccatamente epici, come nel caso della battaglia finale, quando invece più cupi come sottolineato da Landy, e spesso a metà fra l’intradiegetico e l’extradiegetico. Sono poi le voci fuori campo che scandiscono i ritmi della narrazione consentendo le necessarie ellissi temporali. Infine al parlato tocca una ulteriore posizione preminente perché è esso che mette in primo piano gli accenti, voluti da Blasetti, e le discrasie linguistiche fra gli italiani (accomunati da un idioma e caratterizzati dai singoli dialetti) e gli altri. Questa tripartizione del livello sonoro, variamente significativa nei termini della veicolazione del messaggio del film (e di fondo di quello fascista), si pone come constatazione dell’importanza della tecnica nell’evoluzione del medium cinematografico. Ne Il grido dell’aquila difatti non è possibile individuare elementi di questo tipo giacché si tratta di un film muto. In esso infatti intervengono altre scelte stilistiche, come la già citata prosecuzione oniricoepisodica, segnata dall’uso delle mascherine, e l’utilizzo di molte allegorie visive. Dal canto suo Volpe dunque non manca, anche se forse in misura minore rispetto a Blasetti, di esibirsi in alcuni esercizi di stile tutt’altro che scontati. Ne è esempio una delle ultime inquadrature che mostra l’arrivo dei fascisti da tutte le parti d’Italia pronti a marciare su Roma. In questa breve scena Volpe indugia, per più tempo rispetto ai fiori di Blasetti, prodigandosi in un campo lungo magistralmente calcolato. Le truppe possono così essere viste arrivare in lontananza e attraversare lo schermo, e quel che emerge nettamente è la moltitudine di persone all’interno dell’inquadratura che si susseguono in un flusso senza fine, una ideale conta di un presunto smisurato consenso verso Mussolini. Certo è chiaro l’intento manipolatorio e propagandistico di operazioni stilistiche di questo genere, atte all’edificazione di un’apologetica della marcia su Roma, ma ciò non toglie di poterne analizzare la valenza estetica per coglierne le peculiarità che fanno dei film in analisi oggetti di studio scandagliabili in un contesto storiografico nel quale si cerca di astrarre le strategie di produzione del messaggio persuasivo. Nella fattispecie è Pierre Sorlin a mettere in guardia da una qualsivoglia interpretazione semplicistica o unilaterale di questo tipo di film:

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[…] però, se mettiamo a confronto tutti gli elementi appena elencati, dobbiamo ammettere che [il film] non era mussoliniano e che, per molti aspetti, proponeva una linea politica che non corrispondeva a quella del duce. Il grido dell’aquila non si rivolgeva agli arditi o agli squadristi, mirava a due tipi di spettatori: da una parte ai militari congedati, e dall’altra al ceto medio; era capace di confortare i reduci, felici di vedere due volte, nell’ultima sequenza, il monumento del milite ignoto, e di rassicurare quella parte della borghesia che il pericolo rosso aveva terrorizzato. […] Nel contesto, non si può parlare d’identificazione dello spettatore con i personaggi, si tratta piuttosto di una adesione automatica, le figure sono troppo contrastanti per dare spazio a un attimo di esitazione, il pubblico deve necessariamente odiar i cattivi 24.

Tecnica e stile, simboli e narrazione superficiale, non sono dunque elementi da considerare come compartimenti stagni ma cooperano nella resa del prodotto definito. E questo, come si deduce dalla citazione, non era in epoca fascista mai necessariamente di massa, ma molto spesso realizzato secondo più chiavi, in maniera tale che fosse destinato a diversi tipi di pubblici, oggi si direbbe: targettizzato. Anche questo genere di considerazione destituisce di valore la tendenza a pensare al sistema mediatico come produttore di un unicum di contenuti che vadano bene per una grande entità indistinta che sarebbe la massa. Di certo infatti, come sottolinea Sorlin, il tema risorgimentale era adatto a fare più presa su certi individui che non su altri. Quel che qui abbiamo voluto fare, dedicando ampio spazio ai film di Volpe e Blasetti, è stato attraverso l’analisi tentare di incunearci nell’enorme riflessione su cinema, storia e ideologia, inaugurata almeno da Marc Ferro25, e poi proseguita da Sorlin e da molti altri26, ponendo le basi per una chiave di Pierre Sorlin, “Il grido dell’aquila”, ultima tappa del primo cinema italiano in Michele Canosa (a cura di), A nuova luce. Cinema muto italiano 1, Atti del convegno internazionale, Bologna, 12-13 Novembre 1999, Clueb, Bologna, 2000, pp. 253-254. 25 Cfr. Marc Ferro, Cinéma et histoire, Denoël-Gonthier, Paris, 1977. 26 Cfr. Pierre Sorlin, Ombre passeggere. Cinema e storia, Marsilio, Venezia, 2013, ma pure Peppino Ortoleva, Scene dal passato. Cinema e storia, Loescher, Torino, 1991; Gian Piero Brunetta, Cinema italiano tra le due guerre, Mursia, Milano, 1975; Jacqueline Reich, Piero Garofalo (eds.), Re-viewing Fascism. Italian Cinema, 1922-1943, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis, 2002; Vito Zagarrio, Cinema e fascismo. Film, modelli, immaginari, Marsilio, Venezia,2004 e dello stesso autore L’ immagine del fascimo. La re24

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lettura destinale che unisca i tre poli in gioco (appunto: cinema, storia e ideologia). Discutiamo ora di come effettivamente Garibaldi, Padre della patria, nei due film sia un’istanza fortemente destinale. Garibaldi destinale Il Risorgimento garibaldino è dunque il nucleo simbolico forte nei due film in analisi, ed è in buona misura presente in tutta una ulteriore serie di testi cinematografici di epoca fascista 27. Garibaldi è ne Il grido dell’aquila il ricordo delle gloriose imprese dei Mille che unificarono l’Italia, e in 1860 una speranza per un miglior presente non più vessato dalle angherie dei tiranni stranieri. Attorno alla figura di Garibaldi ruota il destino del film come quello del paese, ed egli è metonimia di Mussolini. Ciò ci fa intendere come i film di propaganda fascista, ma non solo, presentino una struttura destinale che è surdeterminata da un’istanza di cui l’intera rappresentazione è funzione. Come si diceva, le modalità retoriche di presentazione del tema sono differenti ma potenzialmente incastonabili l’un nell’altra, giacché poggiano sull’assunto di base per cui Garibaldi sarebbe una sorta di alter ego mussoliniano, il modello a cui guardare quando si guarda al duce. Dal punto di vista stilistico tale parallelo emerge, sia nel film di Volpe che in quello di Blasetti, sui finali, entrambi in qualche modo raffazzonati e costruiti come a far convergere le vicende prima rappresentate verso la loro unica possibile soluzione: la conferma dell’ideale fascista come migliore dei mondi possibili, come destinazione salvifica. Sarà poi solo Blasetti a “rinnegare” il suo finale adducendo a una sorta di costrizione (non così improbabile)28, e divisione del cinema e dei media nel regime, Bulzoni Editore, Roma, 2009; Steven Ricci, Cinema & Fascism. Italian Film and Society, 1922-1942, University of California Press, Berkeley, 2008; Pietro Cavallo, Cinema a passo romano. Trent’anni di fascismo sullo schermo (1934-1963), Liguori, Napoli, 2012. 27 Cfr. Giovanni Lasi, Garibaldi e l’epopea garibaldina nel cinema muto italiano. Dalle origini alla I guerra mondiale, «Storicamente. Rivista del Dip. di Discipline Storiche, Antropologiche e Geografiche», Università di Bologna, 2011. 28 «Blasetti himself has told Francesco Savio in 1974 that the coda was added in response to critcisms (from fascist gerarchi, one assumes) that he had not alluled to ‘the continuation of the garibaldini tradition among fascist youth’ and that he himself added it ‘without any difficulty or any shame. I admit this because I was a convinced fascist and I really believe it was right to point to the new generation as continuing the tradition of the garibaldini» (Albert Russell Ascoli, Krystyna Von Henneberg (eds.), Making

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fatti la versione di 1860 rieditata nel dopoguerra non mostrerà più la marcia fascista sul Foro Italico. Per esempio un film come Il grido dell’aquila di Mario Volpe (1923), anche se ambientato alla fine della Prima guerra mondiale, mostra nel finale un ex-garibaldino che partecipa assieme alle camicie nere alla marcia su Roma. In maniera rozza una conclusione del genere serve ad evidenziare la continuità tra ideali risorgimentali e “rivoluzione” fascista. E ancora, in 1860 di Alessandro Blasetti (1934) accade qualcosa uguale e contrario al film di Volpe. La pellicola, a partire dal dopoguerra, viene presentata in versione amputata, cercando di far dimenticare che nella versione originale il film si concludeva con una pomposa visione delle falangi fasciste che sfilavano davanti ai reduci garibaldini sullo sfondo del Foro Mussolini 29.

Ma quale Garibaldi viene messo in scena? Sotto quale forma e in quali vesti? In entrambi i film l’Eroe dei due mondi non compare sostanzialmente mai in prima persona eppure è sempre presente in uno sfondo di racconti, aneddoti, vicende e icone. Questa è in effetti una strategia che mira a far emerge la dimensione sopraelevata, simbolica del personaggio, capace in quanto essenza di determinare la narrazione. Volpe lo mette in scena – fra gli altri modi – attraverso le parole del nonno Pasquale, cieco “Garibaldino di Montagna” che, prostrato da un’esistenza ormai al calare, ritrova energia nel ricordo della vivificante spedizione dei Mille cui prese parte in un glorioso passato. Garibaldi non è qui nient’altro che un nome, una tensione verso, una sorta di presenza a metà. In questo senso è un’istanza destinale in piena regola, non incarnata ma permeante su vari livelli la struttura del film. È destino in forma gassosa, che si spande ovunque. Solo in brevi, epici momenti la sua immagine compare ma sempre già codificata e iconizzata, in un’effigie che ne mostra la solida e incorruttibile postura. È la sua immagine assente a fungere da motore narratogeno, così come lo è alla stessa maniera in 1860. Qui infatti sarebbe stato più semplice mostrare un attore in carne e ossa and Remaking Italy: The Cultivation of National Identity around the Risorgimento, Berg, Oxford, 2001, p. 259). 29 Giancarlo Giraud, Dieci film sul Risorgimento, «Il tempietto», 2009, p. 79.

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che impersonasse il condottiero a trascinare con sé i suoi valorosi soldati, ma questa figura si vede rarissime volte e mai bene. È come se Garibaldi fosse una forza più che un’entità ontologica, una forza in grado di movimentare il popolo. La unica intenzione precisa che io avevo era di inquadrare Garibaldi a grande distanza, in maniera che rimanesse così, come un alone storico, in rapporto a questi garibaldini, e che non ne venisse fuori un primo piano disturbante. Ne feci uno solo, di mezzo primo piano di Garibaldi, che mangiava una cipolla o una mela – non mi ricordo che cosa avesse in mano – mentre dava degli ordini; ed era di tre quarti, così... proprio perché mi ripugnava di prendere questa figura e portarla così in primo piano30.

Insomma il tema centrale (r)esiste proprio perché frammentato; è in quanto richiamo sospeso fra l’universo della diegesi e quello dello spettatore, non lo si può mostrare nella completa finzionalità perché così verrebbe assimilato a un personaggio, ammirabile ma comunque destituito della sua carica destinale, inscritto in un preciso contesto narrativo, e allo stesso tempo non gli si può nemmeno negare una minima apparizione, perché altrimenti di lui non si percepirebbe più nulla. Non è un banale leader carismatico, è un leader destinale. Così, tramite un meccanismo di equilibrati passaggi fra esposizione e nascondimento, Garibaldi si fa mito intriso di un’aura superomistica, e inoltre, essendo mito nell’ombra, si prepara a essere riflesso del suo alter ego nel presente: Mussolini.

Garibaldi (il suo ricordo) fa rivivere il cieco di Volpe, Garibaldi (la speranza da lui incarnata) fa compiere improbabili risalite italiche al giovane e ingenuo Carmeliddu. Garibaldi è anche, modalmente, un ibrido che fa fare e facendo fare fa essere. È un attante invisibile ma estremamente performativo. La dimensione esperienziale è fortemente presente nella propaganda fascista, e il cinema non si esime da tale caratteristica. Vi è il bisogno di creare un coinvolgimento appassionato (e incondizionato) verso il regime e una delle tattiche è quella di non far percepire direttamente un atteggiamento restrittivo ma anzi di chiamare i destinatari della comunicazione alla partecipazione in prima persona, a diventare attori protagonisti – nell’italico proscenio – degli eroici messaggi ai quali stanno assistendo. Sull’esperienza dunque si centra una ulteriore valenza del costrutto garibaldino nel cinema fascista, «perché non è il generale a fare la guerra, ma è il popolo italiano nella sua interezza a lottare per liberarsi»31. Anche per questo motivo il condottiero non è mai direttamente rappresentato ma esiste essenzialmente nel rimando, perché sia deducibile che egli è la guida di cui il popolo ha bisogno, ma che è il popolo in prima persona a rendere possibile l’impresa. Inutile negare in tale concezione un rivestimento di lampante populismo. Sebbene 1860 non possa essere infatti definito un film «rozzamente propagandistico»32, se non nel finale poi eliminato con la «baldanzosa visione delle falangi fasciste che sfilano davanti ai reduci garibaldini, sullo sfondo imperiale del Foro Mussolini»33, esso propone una visione di tipo “populista” – omettendo, naturalmente, le sanguinose repressioni operate dai garibaldini – in cui le classi popolari hanno un ruolo; mentre gli storici fascisti – ma anche gli altri – hanno messo in evidenza, pressoché all’unanimità, come l’unità d’Italia sia stata realizzata da un’élite di aristocratici e borghesi 34.

Sono prova dell’appena menzionata visione, oltre alla preponderanza narrativa delle classi popolari, per esempio lo strenuo ruralismo in entrambe le pellicole. Ma Garibaldi, che unisce e fa agire, elimina le diversità di classe Ibidem. Gianfranco Gori, Alessandro Blasetti, La nuova Italia, Firenze, 1983, p. 41. 33 F. Sacchi, «Il Corriere della Sera», 30 Marzo 1934. 34 Gianfranco Gori, Alessandro Blasetti, cit., p. 44. 31

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Da un’intervista a Blasetti in De Filippo, 1860 di Blasetti, l’‘ intenzione di andare al vero’, cit., pp. 80-81.

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nella creazione della sua utopica Italia. In quanto destinante del popolo esso unifica il popolo sotto il suo nome. Ecco, lo ribadiamo data la sua rilevanza destinale, che nel far fare fa essere, reificando un protocollo destinale unidirezionale in cui il popolo esegue i propri compiti nella convinzione di condividerli. In 1860 egli è atteso da tutta la comunità del paesino siciliano, compreso il prete che alla fine sollevato esclama «è arrivato Garibaldi!», guida e faro della patria, e inoltre riesce nell’ardua impresa di eliminare le discordie politiche giacché i due litiganti a cui assiste Carmeliddu nel treno da Civitavecchia a Genova alla fine convengono che «è finito il tempo di discutere, è iniziato il tempo di fare»35. La “politica del fare”, espressione retorica che risuona di numerose eco anche nel XXI secolo, è pertanto intrinsecamente connessa alla forte dimensione esperienziale proposta da entrambi i film. Anche ne Il grido dell’aquila è proprio il ricordo di Garibaldi a smuovere il rappresentato da uno stato di inerzia a uno d’azione (l’impressione del moto data dal destinante di cui parliamo sin dall’inizio), producendo uno dei più palesi raccordi con il fascismo. Il programma destinale non è così immediatamente intuitivo: Garibaldi promuove un’ideologia del fare, dell’azione, inducendo chi è predisposto verso una certa retorica alla convinzione che mediante il proprio diretto intervento sia possibile modificare il destino dello Stato in cui vive. Parrebbe quindi una sorta di dichiarazione programmatica del destino come autodiretto. Tuttavia tale fare è in realtà estremamente guidato. Garibaldi non solo induce al fare, ma anche orienta tale fare. Così chi lo segue è in realtà poco più che l’infinitesimo braccio meccanico, guidato dall’alto, destinalmente eterodiretto. È il fare all’unisono, seguendo l’orma del destinante collettivo, trasformandosi in Leviatano. Si vede, identificando questa logica, come il film destinato dallo Stato sia in realtà imbevuto di ideologie che forniscono precise idee di destino, secondo un circuito: lo Stato fa ingerenze sul film, il film che ne fuoriesce presenta una struttura destinale che è frutto di tali ingerenze (le quali, schematicamente, hanno a che fare spesso e volentieri proprio sulle causalità presenti nel film stesso). Beppino, nipote del cieco Pasquale, ascolta con attenzione i racconti colmi d’ardore sull’eroico passato del nonno, che lo vide già due volte marciare 35 È la retorica del “fare” come programma e protocollo posto in opposizione con il dibattere, lo studiare, il leggere, il riflettere, che ancora oggi è adoperata in politica (ma pure in altri ambiti quali l’imprenditoria, per esempio) e dimostra una grande forza persuasiva.

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su Roma, fin quando – mosso da una sorta di spirito invisibile – decide di agire egli stesso, non a caso nella seguente maniera: si reca ove alcune persone stanno scrivendo su di un muro “W Lenin” e a colpi di manganello (da lui soprannominato “San manganello”) li allontana con gioia. Da un punto di vista narratologico non solo Beppino agisce per cacciarli, ma anche loro di contro agivano nel loro atto scrittorio, e questa banale constatazione induce a rilevare come il richiamo all’esperienza mosso da Garibaldi sia il richiamo a un’esperienza manichea, che ben distingue fra moralmente giusto e deprecabilmente sbagliato, pienamente in concordia coi dettami fascisti costruiti dai numerosi rimandi allegorici già menzionati. La coerenza deve regnare sovrana nella costruzione di una propaganda attenta e il richiamo all’azione è valido solo se questa è conforme, anche moralmente, al fascismo. Per l’allegoria, gli enunciatori delegati, la connotazione, il rimando implicito, l’esercizio retorico più o meno evidente, c’è un posto (o meglio uno spazio) concettuale rigoroso: il passato. Mussolini è il Presente, e anzi è il nuovo Garibaldi, sua estensione esplicita, che non va simbolizzata ma mostrata nel suo essere. Egli è l’istanza che convoglia l’aerosità di Garibaldi in un nuovo destinante. 1860 era ambientato nell’anno dell’Impresa dei Mille, ma svolgeva il tema della partecipazione popolare all’impresa anche contro le titubanze “politichesi” e della funzionalità dell’impresa garibaldina alla coesione nazionale, sempre e comunque nel presupposto che in quelle sinergie si celasse la fondamentale sinergia tra capo e popolo che il fascismo si attribuiva 36 .

Questa considerazione emerge da una lettura analitica dei due film finora presi in esame. L’intero impianto di cui si è disquisito pare asservito alla creazione di un terreno fertile per la mise-en-scène del duce come diretta conseguenza della metafora, sua maxima (e unica) giusta esegetica. In questo senso il finale de Il grido dell’aquila è esemplare: il ricordo dell’impresa garibaldina, in una commistione fra onirico e reale che in altri contesti non si esiterebbe a definire tipica del postmoderno, si amalgama con le immagini dei luoghi simbolo italiani: si vedono l’aquila e il fascio littorio e poi la concretezza prende sempre più piede con immagini di campi, industrie, navi, e il tutto culmi36

Fabio Bertini, Cineteca CLIO, cit., p. 5.

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na con un fermo immagine sul duce. E poco prima fastose immagini della marcia su Roma, cui partecipa con ritrovata vitalità il reduce garibaldino, si susseguono una dietro l’altra in una sequenza più lunga della media del film a ricalcare la grandiosità dell’impresa fascista. A onor del vero tali sequenze non sono mai state giudicate con toni positivi dalle critiche, così come quelle affini sul finale di 1860 che analogamente raccorda Risorgimento garibaldino con marcia Mussoliniana, e che lo stesso Blasetti nel dopoguerra tagliò in forza di una raggiunta consapevolezza antifascista. Come sottolinea De Filippo la scelta di finali così manifestamente celebrativi non si rivelava sempre efficace, ed è piuttosto comprensibile mettendosi nell’ottica di un pubblico che fino a un certo punto viene stimolato da una ricca produzione simbolica per essere poi sottoposto a un diretto bombardamento autoencomiastico. Nondimeno vi è da considerare come il cinema fascista fosse comunque costantemente scandagliato da potenti organi di censura e di revisione, e se dunque scelte di un certo tipo non trovano favorevoli ragioni su di un frangente estetico, esse risultano comunque giustificabili da un punto di vista storiografico. Inoltre in qualche modo tutto ciò ci dà prova di quanto già detto: lo Stato in quanto destino del film si riflette poi nella destinalità interna al film stesso37. Film come destino dello Stato Se i contesti precedenti vedevano la presenza extradiegetica dello Stato che destinava il film da fuori, ripercuotendosi nel di dentro, altrettanti sono i film che invece trattano deliberatamente lo Stato come oggetto di riflessione critica, senza necessariamente essere commissionati, ma rispondendo comunque a determinate istanze culturali. L’apparato statale viene trattato in molti modi, ma qui ci limiteremo a vagliare i casi in cui viene ricondotto a ur-destinante, che opprime generando sentimenti di rivolta e di riscatto, non sempre realizzati. è il caso rilevante 37 Si tratta, naturalmente, non di una esclusiva prerogativa del cinema di ispirazione fascista, ma di una rilevazione che riguarda tutte le forme di cinema direttamente derivate da contesti di forte ingerenza statale. Per un’analisi in questa direzione relativa al cinema nazista cfr. Bruno Surace, Le intenzioni della memoria, cit. Un primo approccio comparativo fra le forme di cinema dei regimi novecenteschi in Francesco Fabiani, Cineprese di regime. Il cinema nei regimi fascista, nazista e sovietico, Temperino rosso, Brescia, 2017.

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delle distopie filmiche, la cui datazione cinematografica risale almeno al 1927, anno di uscita di Metropolis di Fritz Lang, anche se inaugurate a partire da una nota tradizione letteraria, quella di Evgenij Ivanovič Zamjatin, George Orwell da cui il film Nineteen Eighty-Four (Orwell 1984, Michael Radford, 1984), Philip K. Dick da cui molti film, Aldous Huxley, Ray Bradbury da cui il film Fahreneit 451 (Id, Francois Truffaut, 1966), e cosi via38. Esistono molti tipi di distopie, ma tutte risultano accomunate da almeno due punti. In primis esse, etimologicamente, hanno a che fare con spazi precipuamente significati, con connotazione estremamente negativa. Spazi dell’invivibile o del represso, ove masse di persone risultano infelici, soggiogate, violentate. Nella serie televisiva brasiliana 3% (2016- in corso, ideata da Pedro Aguilera) una piccola fetta di popolazione vive su un’isola paradisiaca, mentre il restante 97% risiede in un mondo in macerie; nel noto Hunger Games (Gary Ross, 2012; Francis Lawrence, 2013; Francis Lawrence, 2014 e 2015; tutti basati sui romanzi di Suzanne Collins, 2008, 2009, 2010) i ricchi stanno a Capitol City, i poveri in Distretti trasandati; e così via. In secondo luogo, direttamente connesso al primo, la condizione di infelicità che significa lo spazio distopico è attuata da un ordine sovrastrutturale, che ha il potere di destinare tutto quanto gli sottostà. Per sovrastruttura intendiamo: «[…] non qualcosa che sta autonomamente sopra alla struttura sociale, ma come interna a essa, con un ruolo non semplicemente interpretativo e giustificativo, ma organizzativo, formativo»39. Tale ordine destinale è, statisticamente quasi sempre, una forma statale o parastatale deviata dispotica. Alle volte è invece un risultato di natura (spesso tuttavia scatenato fra guerre fra Stati, incuria dei potenti e così via), come nel caso del cinema post-apocalittico40. Spazio e Stato dunque concorrono mutualmente nella definizione della distopia, ove la destinalità proietta chiunque non appartenga alla sovrastruttura in una dimensione oppressa e pericolante. Così le distopie si costruiscono narrativamente spesso secondo dei pattern regolari, che vedono la nascita di Resistenze contro la tirannia dello Stato, desiderose di riprendere in mano il proprio destino. La fama odierna di questo genere di film è spesso attinta dalla Cfr. Arrigo Colombo, Utopia e distopia, FrancoAngeli, Milano, 1987. Lucien Sebag, Mitologia e realtà sociale, Dedalo, Bari, 1979. 40 Cfr. Vincenzo Idone Cassone, Bruno Surace, Mattia Thibault (a cura di), I discorsi della fine, cit. Cfr. anche Mirko Lino, L’apocalisse postmoderna tra letteratura e cinema. Catastrofi, oggetti, metropoli, corpi, Le lettere, Firenze, 2014. 38 39

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letteratura cosiddetta young adult41, come nei casi di culto quali il già menzionato Hunger Games, o la saga composta da Divergent (Neil Burger, 2014), Insurgent (Robert Schwentke, 2015), Allegiant (Robert Schwentke, 2016), tutti tratti dalla serie di Veronica Roth, o ancora quella di Maze Runner (Wes Ball, 2014, 2015, 2018), basata sui romanzi di James Dashner42. In questi film i protagonisti sono sempre adolescenti che combattono il regime statale nel tentativo di liberare loro stessi, e per sineddoche il mondo, dalla dittatura. La fama di tali opere, che spesso sembrano costruite come copie carbone di canovacci tutti identici, è dovuta a diverse contingenze, che hanno a che fare con l’età dei protagonisti, i quali spesso nel compiere le loro imprese imparano a crescere, trovano l’amore, scoprono il sacrificio e la morte e via discorrendo, ma anche con il diffondersi postmoderno di distopie adulte (si pensi alla nota serie tv The Handmaid’s Tale, Bruce Miller, 2017in corso), oltre che di ideologie del complotto e della cospirazione, che inducono il pubblico ad appassionarsi e immedesimarsi con vicende costruite ad hoc per assecondare sentimenti di vittimismo e dottrine del giogo43. Accanto a queste opere si stagliano tuttavia molti altri universi, spesso contaminati, passando, per esempio, dalla fantascienza cyberpunk44 del transumanesimo come annichilimento dell’umano allo zombie-movie45 come distopia di carattere pseudo-profetico circa una società di massa concepibile come thanatocomio diffuso, dove lo spazio si fa “caco-topia”46. Distopia, distopia canaglia Le distopie esaudiscono sempre un bisogno esistenziale: compiacciono lo spettatore nelle sue manie di persecuzione, di ordine destinale (non sono libero,

qualcuno o qualcosa mi determina), ammiccandogli e facendogli capire che non è solo, che qualcosa si sta muovendo, che il film non è pura finzione ma manifestazione di un futuro prossimo venturo di cui altri sono a conoscenza; anche in vece di ciò spesso gli universi della distopia si fondono con quelli delle teorie cospiratorie. Le distopie, in questo senso, fanno sentire meno soli, e avallano ideali di riscatto. Quelle adolescenziali prima menzionate lo fanno in maniera tendenzialmente semplicistica o manichea, altre invece costruiscono apparati più complessi, problematizzandosi come riflessioni filosofiche. Il primo caso di rilievo, cultualizzato fortemente nella contemporaneità, è senz’altro V for Vendetta (V per Vendetta, James McTeigue, 2005), ispirato al graphic novel di Alan Moore e David Lloyd (1982-1985), sceneggiato e prodotto da Larry e Andy Wachowski che sull’ideologia della sovrastruttura hanno costruito l’intera loro estetica, facendola culminare nella serie di Matrix. La storia è quella di V (Hugo Weaving), un terrorista che pianifica un attentato al Parlamento inglese per colpire il regime fortemente nazionalista che sta imperversando. V è un uomo alto, vestito con un mantello nero e un cappello dello stesso colore, e indossa una maschera di Guy Fawkes, preso a emblema per aver ideato la “congiura delle polveri”. È un uomo dotato nelle arti marziali, colto e caratterizzato da un linguaggio forbito da cui traspira tutto il suo idealismo. Il film è scandito dai suoi monologhi, che contribuiscono – assieme al velamento della sua identità – a farne una figura magnetica, che si innamorerà poi di Evey (Natalie Portman), unico momento in cui verrà rivelato il suo lato umano. A parte questo V è un’idea, o meglio un brand, un’identità visiva, un involucro di valori, che si perpetua con un logo che plasticamente ricorda la “A” degli anarchici, e che non esita a compiere azioni di grande spettacolarismo per fare proseliti, come quando, un anno prima dell’attentato, prende possesso dei media della nazione. Il film dunque veicola l’idea di uno Stato opprimente e panottico47 che si può combattere a partire da una cellula anomala, elemento di disordine in un sistema del tutto ordinato, intaccando i media, e cioè il principale mezzo attraverso cui lo Stato esercita il suo plutocratico influsso sul popolo. La scena della presa di possesso di V dei canali televisivi è in questo senso indicativa, svolgendosi attorno a quattro focalizzazioni:

41 Cfr. Chris Richards, Forever Young. Essays on Young Adult Fictions, Peter Lang, New York, 2008. 42 Sul rapporto fra distopia e young adult cfr. Balaka Basu, Katherine R. Broad, Carrie Hintz (eds.), Contemporary Dystopian Fiction for Young Adults: Brave New Teenagers, Routledge, New York-London, 2013. 43 Cfr. Massimo Leone (a cura di), Lexia – Complotto / Conspiracy, 23-24, Aracne, Roma, 2016. 44 Cfr. Lucia Ferrai, La soggettività cyborg. Filosofia e cinema cyberpunk, Tangram edizioni scientifiche, Trento, 2013 e Tommaso Meozzi, Visioni dell’alienazione. Dalla distopia d’ inizio Novecento al cyberpunk, Pacini, Ospedaletto-Pisa, 2017. 45 Cfr. Peter Dendle, The Zombie Movie Encyclopedia, McFarland & Company, JeffersonLondon, 2001 e Marcello Gagliani Caputo, Zombie al cinema, Fazi, Roma, 2014. 46 Francesco Muzzioli, Scritture della catastrofe, Meltemi, Roma, 2007, p. 21.

47 Cfr. Michelle Brown, The Culture of Punishment. Prison, Society and Spectacle, New York University Press, New York-London, 2009, pp. 66-7.

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V per Vendetta 1. Gli schermi e i maxi-schermi attraverso cui il volto di V si propala; 2. I responsabili delle emittenti in preda al panico che cercano invano di interrompere le trasmissioni; 3. Lo stesso V, che con tono serafico propugna il suo messaggio, invitando il popolo lo stesso giorno l’anno dopo a prendere parte con lui alla scintilla della rivoluzione; 4. I telespettatori, le cui espressioni assorte indicano il coinvolgimento emotivo nei confronti del discorso trasmesso a reti unificate.

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sione, che andrà a buon fine, pur richiedendo il suo sacrificio. La notte del 5 novembre infatti egli perisce, ma il popolo chiamato insorgerà, tutto vestito con maschere di Guy Fawkes così rendendosi massa anonima e inattaccabile, e Evey potrà far detonare le bombe che porteranno all’esplosione del Parlamento. Un atto di violenza è presentato qui come estremamente poetico, sotto le note baldanzose della Ouverture 1812 di Čajkovskij. A tale esplosione il popolo si leverà la maschera, guardando lo spettacolo, riconquistando dopo l’atto collettivo un volto individuale, riaprendosi alla speranza. Destinalmente dunque il potere oppressivo dello Stato viene minato, non sconfitto definitivamente, a partire da un dispositivo passionale, la vendetta, da cui attinge il proprio nome il protagonista. E tuttavia non è il popolo a insorgere di sua sponte, ma un personaggio anti-Stato, che amplifica la sua potenza persuasiva depersonalizzandosi e costruendosi un’identità ideale, fondata unicamente su un insieme di valori (cosa che farà anche Evey, rapata a forza e convinta ad appoggiare la causa al di là dei suoi sentimenti). V è di fatto una metafora vivente, un’idea «a prova di proiettili» come si definisce nella sequenza della sua dipartita, e rappresenta la presa di coscienza dei cittadini, che svolgono, a partire da Evey, un ruolo fondamentale, senza cui l’impresa non potrebbe in definitiva compiersi. V in effetti, per la sua storia personale, non potrebbe esistere (dovrebbe essere morto bruciato stando a quel che sappiamo del suo passato). E anche sul piano filmico egli è a tutti gli effetti un non personaggio. Non ha identità, ha sempre lo stesso comportamento serafico, non cambia (quasi mai). L’unico statuto esistenziale che gli si può concedere è quello di essere la devianza incarnata derivata da una destinalità dispotica, un programma destinale: V is not rash or irrational, but calm and deliberate in his pursuit of revenge because he is certain of the legitimacy of his cause, and thus he is unconflicted in its pursuit. Indeed, he is so comfortable with his violence that he begins to resemble an allegorical embodiment of fate or justice. He has in effect returned from the grave to torment his persecutors48.

Il film così si apre a numerose speranze, in primis a quella di una capacità del

Il tutto è disposto secondo un montaggio alternato, e la musica solenne e i movimenti di macchina che realizzano primi piani sugli spettatori di varia età ed estrazione sociale sanciscono la presa del discorso. L’idea è innestata. V così durante il film si addestra per la sua ardua mis-

48 James Keller, V for Vendetta as Cultural Pastiche. A Critical Study of the Graphic Novel and Film, McFarland & Company, Jefferson-London, 2008, p. 207.

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popolo, a partire da uno stimolo, di sviluppare cognizione della propria condizione, e di rischiare per migliorarla e prendere le redini della propria esistenza. È sulla base di queste premesse che V per Vendetta diviene un “film sacro”, preso a modello da numerose persone, e si propala per simboleggiare la causa di gruppi hacktivisti – attivisti che agiscono con strumenti informatici – come quello di Anonymous (che nelle sue comunicazioni mantiene l’anonimato con la maschera di Guy Fawkes)49 o fa supporto dell’ideologia del Movimento 5 Stelle in Italia, che ai suoi esordi ne imita le caratteristiche plastiche del logo e ne attinge sul piano discorsivo dalla sceneggiatura (dai monologhi di V), sancendo la sutura fra fantapolitica e realtà. Entrambi i movimenti, nel loro autonarrarsi, si pongono come inneschi per un’uscita felice da un percorso predestinato da organizzazioni sovrastrutturali, disinteressate al benessere dei loro sottoposti, cioè un Noi contrapposto a un Loro. Il successo e la diffusione di V per Vendetta come mito contemporaneo dimostra l’interesse generale nei confronti dei temi della libertà personale e del riscatto50, fornendo aspettative positive come controparti di sacrifici necessari per la libertà (sacrifici finali, cioè la morte, ma anche sacrifici mediani, cioè la trasformazione di se stessi in oggetti utili alla causa, come maschere viventi che destituiscono l’individualità per formare una massa omogenea e compatta). V […] allow himself to be used as an instrument of freedom. His very life as the Guy Fawkes savior of the United Kingdom, and his death so that Evey and others may “carry the torch” both indicate that he intends to sacrifice himself for the greater good of the society in which he resides51.

inabitabile il mondo, e l’unica sacca di vita umana superstite sopravvive su un treno che compie sempre lo stesso percorso. Il treno, ristretto e diviso per vagoni, e così reso sempre come spazio affollato e scuro, è tuttavia divenuto luogo di una divisione sociale per la quale chi è nei vagoni più prossimi alla locomotiva è benestante, chi risiede negli ultimi è invece il proletario costretto a una vita desolante e a lavori duri. Sussiste insomma una stretta divisione classista, certificata dalla presenza di una polizia interna che punisce le devianze anche molto crudamente, per esempio infilando il braccio del reo in una fessura verso l’esterno e facendolo congelare, per poi distruggerlo. Il locomotore è abitato da Wilford (Ed Harris, che ha un ruolo simile, essendo un destinante “divino”, in The Truman Show di Peter Weir, 1998), creatore del treno e suo governatore, oltre che implicato nelle ribellioni interne che ogni tanto si verificano e che sembrerebbe innescare egli stesso nei casi di sovraffollamento dialogando con il vecchio Gilliam nella coda (John Hurt, che in Orwell 1984 era il protagonista Winston Smith e che in V per Vendetta è Adam Sutler, temibile Alto Cancelliere del regime). Il film è dunque la storia di una ribellione dalla coda alla testa del mezzo, di una risalita di vagone in vagone fino alla “Carrozza di Dio”, dove alcuni macabri segreti verranno rivelati. Il tutto qui culmina, nuovamente, con un’esplosione, una sorta di programma destinale che innesca un riavvio del sistema, a cui consegue il deragliamento del treno e la fuoriuscita della protagonista Yona (Go Ah-sung) e di un bambino (immagine simbolica di una ri-nascita) che, vedendo un orso bianco in lontananza, comprenderanno che sul pianeta è di nuovo possibile la vita.

Speranze per un destino migliore sono anche quelle che si aprono in Snowpiercer (Bong Joon-ho, 2013), basato sul fumetto francese Le Transperceneige del 1982 di Jacques Lob e Jean-Marc Rochette. Qui l’origine della distopia non è di ordine statale ma naturale, in tipico stile climate fiction. Una glaciazione ha infatti reso 49 Sull’hactivismo una panoramica in Steve Ragan, Hacktivism: An Inside Look at the Motives and Methods of Cyber Activists, Syngress, 2012. 50 Riprendiamo nuovamente la categoria di “mito” agganciandoci alla recente teoria dei miti a bassa intensità, come chiave di lettura dei movimenti narrativi e culturali del Novecento e del secolo che stiamo vivendo, così come espressa in Peppino Ortoleva, Miti a bassa intensità, cit. 51 Robert Arp, V for Villain in Ben Dyer (ed.), Supervillains and Philosophy. Sometimes, Evil Is Its Own Reward, Open Court, Chicago-La Salle, 2009, p. 46.

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Se la storia presenta dei tratti di comunanza con V per Vendetta, molti di più sono i tratti dissimili. Lì l’esplosione era un atto lungamente programmato, qui invece è una estemporanea soluzione finale; lì l’azione aveva lo scopo di aprire una breccia di speranza, qui invece la speranza si apre fortuitamente; lì V era l’idea di riscatto che si faceva strada ordinatamente nel popolo, qui il ribelle Curtis (Chris Evans) agisce invece spesso e volentieri impulsivamente, fino al finale in cui gli viene addirittura proposto di assumere il ruolo di nuovo capo dell’umanità nel treno, rifiutandolo (anche perché venuto a conoscenza del fatto che, perché tutta la macchina funzioni, un bambino di pochi anni deve effettuare un costante lavoro manuale chiuso in una minutissima cella). L’idea di fondo che il film veicola è dunque nuovamente connessa con un’etica del sacrificio, ma ribaltata dalla programmaticità di V a una logica della scommessa per la quale quando non c’è più nulla da perdere tanto vale arrischiarsi fino alla fine. A tale rischio corrisponde una sanzione premiante, e cioè una speranza per un futuro migliore, da ricostruire avendo finalmente imbrigliato le redini della propria esistenza individuale e di classe: «Snowpiercer […] presents a portrait of oligarchical rule and underclass discontent; these films are fueled by disgust for the decadent rich and admiration for the outraged poor»52. Destinalmente, muovendo le mosse dalle due logiche evidenziate, l’una programmatica, l’altra disordinata, entrambe culminanti in un’esplosione cui corrisponde una speranza, le due idee destino si delineano su binari paralleli ma difformi. In entrambi i casi la riappropriazione del destino necessita di un’idea di partenza e di un leader carismatico. Nel primo caso tuttavia l’oppressione statale va poi disinnescata a partire da un laborioso piano, seguito con precisione maniacale, mentre nel secondo la scintilla dell’ingiustizia basta ad accendere una rivoluzione scomposta, fondata sull’istinto. È in effetti la distinzione fra progetto e destino, secondo la bipartizione di Giulio Carlo Argan53. Nel primo caso insomma con la sorte si tenta di dialogare, cercando di elaborare un “imbuto evenemenziale” che vada a restringersi minimizzando le possibilità di fallimento (attraverso progettazione, allenamento, equipaggiamento, calcolo dei possibili risultati, piani b e così via). Nel secondo il destino è al contempo sfidato e adulato, si agisce nell’aspettativa che esso “collabori” e l’imbuto evenemenziale viene rovesciato, allargandosi sempre di più 52 53

David Denby, 2014, «The New Yorker». Giulio Carlo Argan, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano, 1968.

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la possibilità di fallimento ogni qualvolta l’azione compiuta sia sconsiderata, disperata, estrema (secondo a-logiche di istinto, pulsione, rabbia, azzardo). Sul finale dunque il destino a V stringe la mano, essendo egli archetipo dell’homo faber est suæ fortunae, colui che ha asintoticamente portato a zero la rilevanza della sorte prevedendo un ampio ventaglio di variabili, mentre in qualche modo dà una pacca sulla spalla a Curtis, che è stato, a tutti gli effetti, fortunato. Il regime di certezza raggiunto dai due protagonisti è poi asimmetrico, nella misura in cui V ha instillato nel popolo una nuova forma di consapevolezza, esplicitata dagli sguardi commossi verso il Parlamento in deflagrazione, mentre Curtis ha innescato una rivolta rabbiosa che è culminata con la distruzione del treno, simbolo del giogo ma anche condizione fino a quel momento necessaria al perpetuarsi dell’umanità. In ogni caso la speranza, intesa come un’aspettualità incoativa verso un futuro autodeterminato, conclude ambedue i film. Così non è per altre distopie statali, come il seminale Brazil di Terry Gilliam (1985): Onirico al limite del fantasy, claustrofobico, cupo e scenograficamente sovraccarico, il film è una feroce satira nei confronti di un mondo burocratizzato fino alla nevrosi; solo una sottile vena parodica, di stampo grottesco e nonsense […] riesce a stemperarne le atmosfere opprimenti: il titolo del film, ispirato alla spensierata canzone in esso ricorrente, Aquarela do Brasil, ne è una manifestazione emblematica, e come osserva Diego Salì è anche «evocazione: richiamo alla libertà che da sempre questa terra richiama in modo quasi pavloviano nelle nostre menti»54.

Qui è la burocrazia come reale essenza dello Stato a governare un mondo grigio e grottesco. Una burocrazia sfrenata e incapace di qualsiasi umanità, contro la quale Sam Lowry (Jonathan Price) tenta in tutti i modi di ribellarsi, ottenendo tragicomicamente l’effetto contrario, cioè costringendo il protagonista sempre di più sotto la lente della dittatura. In una delle scene iniziali del film Sam si trova al ristorante con la madre Ida (Katherine Helmond), un’amica di questa e sua figlia. La madre è una donna imborghesita, di una certa età, che passa il suo tempo a tentare di ringiovanirsi con sofisticate e Velania La Mendola, Maria Villano (a cura di), Film da sfogliare. Dalla pagina allo schermo, EDUcatt, Milano, 2013, p. 65.

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grottesche tecniche di lifting. Le sue amiche non sono da meno. Il luogo è presentato come un ristorante dalle pretese eleganti, ma che tuttavia non riesce del tutto a celare il suo essere inserito in una realtà distopica (giganteschi tubi di metallo lo attraversano, simboli di un’interconnessione panottica che ha invaso ogni meandro della realtà). I piatti si possono scegliere unicamente fra quelli nelle fotografie, tant’è che Sam per una sua richiesta particolare deve scontrarsi con l’ottusità del cameriere che non riesce ad accettare l’idea di una variazione dai numeri prefissati, numeri che peraltro corrispondono a cibi liofilizzati la cui parvenza non ha nulla a che fare con l’immagine da cui era scaturita la scelta. Le donne sono vestite in maniera ridicola e appariscente: la madre di Sam porta come cappello una scarpa col tacco, e i suoi abiti sono tutti vistosamente leopardati. È l’eccentrico come epifania della borghesia, i cui canoni Gilliam, con l’usuale fantasia visionaria, deride in quanto conseguenza di uno statuto di potere che ha del farsesco.

Brazil

Brazil riere scusarsi e provvedere un paravento per evitare ai commensali la visione degli orrendi mutilati che gli stanno soffrendo attorno. La scena è metafora dunque di una società piegata ai suoi sistemi e del tutto anestetizzata alla sofferenza altrui, ed è proprio a partire da queste premesse che Sam sviluppa il bisogno di immaginarsi in un mondo diverso, quello cioè perseguito dagli stessi terroristi che avevano poco prima causato l’esplosione. L’atmosfera spaziale e il settaggio contenutistico, poi, sono di matrice chiaramente orwelliana: In Brazil, profondamente ispirato da 1984 di Orson Welles, il timore che un gruppo sociale prenda il sopravvento sulla restante popolazione è qui vestito di ironia e satira nei confronti della burocrazia. Si distinguono due mondi: da un lato il grigiore della routine nel contesto lavorativo di una corporazione, talmente gigantesca e labirintica al punto che si perde traccia delle azioni di ciascuno; dall’altro invece vi è il mondo onirico del protagonista in cui diventa un coraggioso e valoroso guerriero. Il film ha una struttura complessa in cui l’oppressione della burocrazia e del totalitarismo (simboleggiata dai tubi di controllo che invadono ogni spazio, muri nelle abitazioni, soffitti, uffici e convogliano nell’ultimo terminale del Regime) si sovrappone al caos generato dalle continue esplosioni di negozi, tubature e ristoranti, indotte dallo stesso Sistema Centrale che necessita di generare paura per mantenere il controllo. Lo stesso sistema di controllo impone anche che per ogni singola azione sia necessaria l’autorizzazione del Sistema Centrale tramite moduli firmati, in un’escalation di burocrazia che, tuttavia, resta inefficace. La città rappresentata in Brazil è grigia e degradata ma possiede una rigidità formale paragonabile alla potenza espressa dall’architettura di Metropolis di Fritz Lang55.

Il cameriere dunque dopo aver servito il tavolo, ove Sam sembra essere l’unico perplesso circa la coercizione intrinseca alla situazione che sta vivendo, dichiara «Bon Appétit», e proprio mentre lo fa una violenta esplosione si verifica nel locale, causando seri danni a molte cose e ferendo e uccidendo diverse persone. La tavolata tuttavia, dopo il breve spavento, prima esprime con tono stizzito il proprio disappunto, e poi continua a mangiare noncurante dello strazio che le si sta consumando attorno, ciarlando delle più effimere facezie mentre i musicisti continuano a suonare. Sarà cura dello stesso came-

55 V. Lomazzi, Inquietudini urbane. Metropoli e cinema allo specchio in Valerio Corradi, Enrico Maria Tacchi (a cura di), Nuove società urbane. Trasformazioni della città tra Europa e Asia, FrancoAngeli, Milano, 2012, p. 172.

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Il film così si collocherebbe nello schema già visto in precedenza con V o Curtis, ma in realtà Sam non è un leader carismatico, quanto piuttosto un personaggio che non riesce mai appieno a sviluppare una personalità forte, e i suoi tentativi non fanno che rivelarsi buchi nell’acqua fino al doppio finale che lo vedrà catturato dal ministero per il quale egli stesso lavorava e torturato. Egli tuttavia, in stato catatonico e canticchiando Aquarela do Brasil, sarà ormai del tutto annichilito dal sistema, rifugiato in un mondo interiore libero, naturalistico, e congiunto con il suo amore Jill (Kim Greist), in realtà deceduta. Questa scena filmicamente è presentata come reale, e compone un lieto fine fittizio che si rivelerà tale solo mediante l’inserzione del vero finale, in cui vediamo il povero Sam pressoché lobotomizzato in primo piano, e poi con uno stacco lo vediamo al centro della stanza delle torture, in campo lungo, un puntino iso-

lato in un grosso cono di cemento, solo nella sua prigione di fantasie, anomalia del sistema eliminata, mentre la sua canzone scorre coi titoli di coda. L’idea di destino che emerge è estremamente pessimistica. Il protagonista da solo non può nulla contro l’ur-destinante statale, nonostante tutti i suoi sforzi egli è matematicamente svantaggiato e non possiede nemmeno il carisma necessario affinché qualcuno possa, realisticamente, credere in lui. Nessuna speranza traspira da questo film, in cui definitivamente 2+2=5. Brazil magnifica la potenza della distopia come struttura destinale capace di annullare ogni chimera di autodeterminazione. Così accade anche nel cult A Clockwork Orange (Arancia meccanica, Stanley Kubrick, 1971), trasposizione cinematografica del romanzo omonimo di Anthony Burgess (1962) che vede il drugo Alex DeLarge (Malcolm McDowell) praticare forme di divertimento sadico fino all’omicidio, per poi essere incarcerato e “corretto” attraverso la “cura Ludovico”, che fa sì che ogni qualvolta esso in futuro sia colto da istinti violenti una forte nausea lo dissuada dal compierli. Come Qualcuno volò sul nido del cuculo, e come nel finale di Brazil, «il potere mette fine ai comportamenti aggressivi di individui marginali, intervenendo direttamente sul loro cervello»56. Il potere si fa foucaultianemente biopolitico, determinando le capacità stesse dei devianti di immaginare un destino autodeterminato, anche con interventi mirati al corpo (un corpo individuale che va fatto rientrare nei ranghi del corpo sociale)57. Alex così una volta uscito dal carcere si trova cambiato e subisce come contrappasso angherie da tutti coloro che aveva in passato seviziato. Incapace di difendersi tenta dunque il suicidio e al suo risveglio dal coma il Ministro degli Interni, per mettere a tacere le polemiche che potrebbero scaturire dal suo caso, è costretto ad accettare di farlo diventare capo della polizia, reintegrandolo così nella società e anzi conferendogli un ruolo di prestigio, oltre che un lasciapassare che gli garantisce di esercitare la sua amata violenza in maniera del tutto legale. Pierre Karli, L’uomo aggressivo, Jaca Book, Milano, 1990, p. 1. C’è in questo senso un’ottima riflessione sul potere biopolitico in Ernesto Calogero Sferrazza Papa, Punire il verme. Il potere zootecnico e l’allevamento umano in Silvio Alovisio, Enrico Terrone (a cura di), Animot. L’altra filosofia, Cinema: animale razionale, II, 2, 2015, pp. 74-80, in cui si analizza la trilogia di Tom Six The Human Centipede (2009, 2011, 2015), ove la sfera biopolitica si fonde con quella zootecnica in ottica punitiva. Nessi stimolanti possono esseri stipulati con il misconosciuto Tusk (Kevin Smith, 2014). 56 57

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Arancia meccanica, così come in genere buona parte delle distopie, è ambientato in un futuro prossimo, e di fatto si può considerare come la controparte speculare di Brazil. Entrambi i film sono visti dal punto di vista di devianti nei confronti dello Stato, ma i due personaggi rispondono alle richieste di integrazione in maniera diversa. Sam rifiuta il suo assorbimento totale negli organi statali, e lo fa come risposta individuale e sociale, rimettendoci tutto quanto ha di più caro. Alex invece proprio sul finale accetta l’integrazione, e lo Stato, assolutamente disinteressato a lui come a tutti ma deciso a preservare se stesso, gli diviene complice, nella consapevolezza che nulla di buono potrà nascere dal suo nuovo titolo di capo della polizia. Non è dunque la violenza di Alex a preoccupare lo Stato, ma il fatto che tale violenza non rientri nella nomologia dello Stato stesso. Egli infatti è prima esecrabile carnefice, poi vittima, poi carnefice non più esecrabile ma agente in piena liceità, come riassunto dalla efficace scena finale. Qui Alex è in ospedale, raggiunto dal Ministro con cui ha concordato il suo nuovo ruolo. La scena è presentata come un campo/controcampo in soggettiva. Da un lato c’è Alex nel letto con il Ministro sorridente che lo abbraccia, dall’altro molte persone della stampa che fanno foto per immortalare l’evento e attivare la macchina propagandistica che non farà altro che rinsaldare il potere e l’immagine dello Stato. Le due inquadrature sono frontali e simmetriche, come è tipico nel cinema di Kubrick, le luci sono poche e concentrate al centro dello spazio profilmico che risulta saturo e oppressivo, a marcare la logica di inglobamento che vi si sta consumando all’interno. Lo scambio non è dialogico, ma costruito su una serie di sguardi, tutti sorridenti ed entusiastici, resi dai primi piani di Kubrick su Alex e il Ministro sovrapposti al mormorio di voci e ai rumori delle macchine fotografiche, oltre che alla Nona Sinfonia di Beethoven. Lo scambio di inquadrature però porta a un ultimo passaggio, che vede il volto di Alex passare dal sorriso di circostanza a un’espressione catatonica – come quella di Sam in Brazil, altra convergenza – e inquietante, con gli occhi che vanno a rovesciarsi pian piano verso l’alto. Egli dopo pochi minuti ha riacquisito la sua personalità iniziale, e sostituisce la visione dei fotografi, una visione soggettiva pura, resa da Kubrick tramite l’inserzione nel lato basso dell’inquadratura dei piedi ingessati del protagonista, con quella di lui che fa sesso con una donna al centro dell’immagine, su un letto che parrebbe fatto di qualche sostanza psicotropa, e ai due lati una schiera di nobiluomini e nobildonne vestiti in stile vittoriano che applaudono. In sottofondo, prima dello stacco sui titoli di coda, la sua voce interiore con soddisfazione esclama: «Ero guarito… eccome!». 214

Arancia meccanica

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Così si cala il sipario su un film ove la destinalità è circolare, in grado di riassorbire le disfunzioni mantenendosi inalterata e perpetrando un immobilismo totale, giocato su due ordini di grandezza. Da un lato lo Stato, che mantiene se stesso immutato, dall’altro il singolo, Alex, che è vittima dello Stato in quanto non trattato adeguatamente dato il carattere patologico del suo sadismo, e che così come vive l’illusione della guarigione immediatamente viene incoraggiato a nutrire i suoi vizi, purché siano allineati con il volere dello Stato stesso. Vizi i quali, chiaramente, una lettura ideologica potrebbe definire deleteri, ma che pure rappresentano una formula di ribellione che a tutti gli effetti è ribellione contro un futuro prestabilito, coltivata in un perverso rapporto fra coltezza – la passione per Beethoven, il linguaggio fra il forbito e l’immaginifico (il cosiddetto nadsat), lo stile di vita decadente – e barbarie – la violenza sessuale, le brutali aggressioni ai clochard, l’omicidio. Alex stesso, che ha narrato il film in prima persona, si congeda con sarcasmo. Egli sa di non essere guarito ma di essere stato, in via definitiva, integrato, di aver trovato un posto in un mondo ove c’è spazio anche per gli abbrutiti, purché essi indossino la casacca dello Stato.

Un mondo del genere, privato di ogni speranza e dalla destinalità impietosa, è anche quello descritto dalla quadrilogia di James DeMonaco The Purge (La notte del giudizio, 2013, Anarchia – La notte del giudizio, 2014, La notte del giudizio – Election Year, 2016 e The First Purge, 2018), costruita su uno schema distopico a metà fra l’allegoria sociale e l’home invasion thriller. In un futuro molto vicino, gli USA del 2022, esiste una legge elaborata dai Nuovi Padri Fondatori: ogni anno dodici ore consecutive di un determinato giorno sono dedicate allo “Sfogo”, momento nel quale ogni legge decade e le persone possono commettere qualsiasi reato (salvo alcune minime restrizioni) in maniera totalmente “pulita”, senza che ciò infici sulla loro fedina penale. La retorica su cui è stata promulgata la legge, e che durante gli anni l’ha mantenuta viva, è quella relativa ai sentimenti repressi di rabbia nei cittadini che, potendosi purgare attraverso una catarsi normalizzata, vengono espletati, così riducendo nel resto dell’anno drasticamente il tasso di criminalità nel paese e, in generale, aumentando il livello di benessere percepito dai suoi abitanti. Lo Stato qui non è solo complice, ma incoraggia i cittadini a compiere i più

efferati crimini, invitando coloro che non parteciperanno allo sfogo ma che ne condividono i principi a lasciare un mazzo di baptisia blu davanti alla propria abitazione. Gli effetti della legge producono migliaia di morti, stupri e violenze di ogni genere all’anno, per i motivi più disparati, e i film focalizzano su diverse dimensioni dell’evento, man mano allargando la focalizzazione. Il primo si concentra sulle vicende dal punto di vista di una famiglia favorevole all’evento ma non desiderosa di parteciparvi, braccata per tutta la notte nella propria casa da alcuni vicini mascherati (le stesse maschere sono suggerite dal governo) che per futili motivi vogliono seviziarla. Il secondo mette a fuoco il tema dei ceti più poveri i quali non avendo i fondi per mettere in sicurezza le proprie case (o non avendo alcuna casa) sono tendenzialmente le vittime predilette della notte dello sfogo; si assiste così a compravendite di persone per finanziare giochi quali cacce umane e simili orrori, e iniziano a intravedersi possibili ingerenze delle autorità governative che potrebbero intervenire direttamente nelle strade durante le dodici ore, e che avrebbero pianificato la purga non come macabra modalità per aiutare il popolo ma come mezzo per tenerlo sotto controllo. Nel terzo film tale ipotesi, tramite un allargamento prospettico ancora più evidente, viene confermata; il governo adopera lo sfogo per il proprio tornaconto economico, e la questione assume un tono prevalentemente politico, mentre si diffonde una formula turistica che vede cittadini del mondo dirigersi negli USA proprio per partecipare alla catarsi collettiva. Nel quarto film infine viene mostrata la prima notte di sfogo, quella sperimentale, architettata dai Nuovi Padri Fondatori come esperimento sociologico e testata per la prima volta a Staten Island, con tanto di premio in denaro per coloro che partecipano attivamente alla prova, corroborandone le premesse teoriche. Il tutto si gioca quindi sul territorio dei film basati sulla logica “kill or be killed”, come la già citata serie Hunger Games, ma pure Battle Royale (Kinji Fukasaku, 2000), Death Race 2000 (Paul Bartel, 1975), Death Wish (Il giustiziere della notte, Michael Winner, 1974, poi anche remake del 2018 di Eli Roth) e in un certo modo le distopie letterarie sul modello Lord of the Flies (Il signore delle mosche, William Golding, 1954) o The Lottery (La lotteria, Shirley Jackson, 1948). È evidente che tali distopie possano essere trattate sotto molti punti di vista, ma dato il lavoro già condotto in precedenza ci limiteremo qui a un taglio preciso. Dei molti modi nei quali potremmo rintracciare la destinalità in questa distopia scegliamo qui di concentrarci su due dimensioni, e cioè quella dell’importanza degli schermi e dei media nella società panottica descritta

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Purghe, aragoste, formiche

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dalla serie cinematografica La notte del giudizio, e quella della retorica inscritta nei film come emanazione diretta dello Stato stesso. Le due dimensioni, come vedremo, si fondono nei video promozionali dello sfogo inseriti nei film stessi. Ne La notte del giudizio, film iniziatore della saga, i media giocano un ruolo preminente, diffondendo i messaggi patriottici che servono a propagandare lo sfogo prima che avvenga, producendo informazione nel durante, e infine glorificandone i risultati quando la carneficina è avvenuta. Quella della serie di film è una società schermica, secondo una doppia accezione. Gli schermi aprono il varco a una dimensione collettiva dell’evento, destituendo l’idea della violenza come una questione di singoli e diffondendo invece il mito di una ritualità condivisa, ove la responsabilità si possa disperdere. Di contro gli schermi, come quelli sul finale di 11 minut (Jerzy Skolimowski, 2015), i TG di 71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls (71 frammenti di una cronologia del caso, Michael Haneke, 1994), i maxischermi di V per Vendetta o gli schermi del fuori campo di Benny’s Video (Michael Haneke, 1992), schermano cioè proteggono se stessi e i propri emittenti. Dietro la superficie schermica c’è lo Stato che ne assume la gestione, e che surrettiziamente si sincera di non essere smascherato, suggerendo transitivamente ai cittadini di schermarsi a propria volta, attraverso maschere o attraverso apparati di sicurezza domestica. La schermatura è ciò che consente ai cittadini di trasformarsi in aguzzini durante la notte dello sfogo. La retorica della trasparenza statale si infrange con una pragmatica dell’opacità. Non a caso il primo La notte del giudizio inizia, immediatamente dopo le scritte patriottiche su quanto faccia bene lo sfogo, con immagini che parrebbero di “repertorio”, attinte come da superfici schermiche, che mostrano il dilagare della violenza negli Stati Uniti durante lo sfogo. Sono tutte immagini lo-fi, molte delle quali sembrano tratte da dispositivi di ripresa di videosorveglianza, ad amplificare sin da subito la sensazione panottica58. Si vedono in esse esecuzioni sommarie tramite colpi di pistola, pestaggi, persone insanguinate che cercano di fuggire ai loro assalitori. Sono tutte immagini che sembrano girate all’insaputa dei soggetti ripresi, e su di esse scorrono i titoli di testa, soavemente accompagnati da una dolce musica, fin quando lo Su questo tema, applicato a contesti non di fiction, cfr. Bruno Surace, Semiotica di 87 ore. Etica, estetica, semioetica delle immagini panottiche, «Carte Semiotiche», Annali 4, 2017. Numero monografico a cura di Maria Cristina Addis, Giacomo Tagliani, Le immagini del controllo. Governo e visibilità dei corpi. 58

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stacco ci porta invece nell’inquadratura in alta definizione del protagonista in automobile, che parla tranquillamente al telefono. Siamo alla vigilia dello sfogo, e la calma serafica dell’uomo, contrapposta alle violente immagini precedenti, produce un effetto di discrasia: quella violenza è normale, codificata, socialmente e culturalmente accettata e assimilata.

The Purge Tale accettazione è dovuta all’intenso e inarrestabile lavoro di propaganda, su cui la serie di film pone l’accento progressivamente, fino al prequel (l’ultimo della saga, che oggi vanta anche una parallela serie tv) ove compare un video di sponsorizzazione del primo sfogo. Il video è composto da una serie di inquadrature commentate da una calda e rassicurante voce fuori campo. Inizialmente immagini di persone felici si susseguono mentre la voce dà il benvenuto ai cittadini di Staten Island dichiarandoli pionieri di una nuova era. La parola “pionieri” è enfatizzata sia dal tono di voce del commentatore che dalla comparsa della scritta a caratteri cubitali nel centro dell’inquadratura, come accade per altre locuzioni che formano idealmente una capitolazione narrativa del sintagma filmico, fornendo i pattern valoriali necessari a creare engagement:

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– PIONIERI – FARETE LA STORIA – SFOGO – 12 ORE – TUTTI I CRIMINI – LEGALI – NESSUN SERVIZIO DI EMERGENZA – RINASCITA Ognuno di questi snodi sdoppia la narrazione valorizzandola sia funzionalmente (fornendo le indicazioni necessarie alla partecipazione) che utopicamente (virtualizzando anticipatamente le sanzioni positive per chi parteciperà). Nel mentre vengono fornite le istruzioni basilari per il compimento dello sfogo e il regolamento, sempre con tono cordiale, suggerisce l’utilizzo di una maschera e motiva lo sfogo come modo per “risolvere questioni personali” o anche solo per purgare la propria rabbia. Viene anche esplicitato che i mezzi di informazione resteranno operativi, e infine si ha con il classico tono da propaganda elettorale la benedizione comune: «Dio benedica tutti voi e coloro che si sfogano, e Dio benedica gli Stati Uniti d’America». L’appello finale a Dio e al paese, uno slogan archetipico che eleva l’esperimento a uno statuto morale più alto, è demarcato dall’immagine di una giovane ragazza che sventola la bandiera americana, prima, e dalla bandiera stessa in campo totale, subito dopo. È la bandiera che consacra l’impresa, e che corona la strategia retorica giustapponendo il contenuto orripilante del messaggio a immagini gioiose, come nel caso in cui l’invito a partecipare come singoli o come gruppi è giustapposto all’inquadratura di un gruppo di amici che giocano sulla spiaggia. È l’invito all’omicidio come pratica di coesione sociale. L’operazione retorica è dunque costruita a partire da una mitizzazione dello sfogo come modalità catartica e liberatoria capace di parificare, almeno apparentemente, le condizioni di tutti. Ciò emerge dagli schermi, ma pure dalla grammaticalizzazione della cultura del film fondata sul manifesto dei padri fondatori, che così recita:

The First Purge

We, the people, in order to form a more perfect union… When our original Founding Fathers first set these words to paper, they strove to “establish Justice,” “insure domestic Tranquillity” and “promote the general

Welfare.” Today, the world is a much different place, but the New Founders of America battle for the very same American ideals and refuse to let them fade. Much like the Patriots of old, followers of the NFA recognize that big problems require big solutions. The same complacent thinking that dragged America into an era of poverty, violence, and crime will not fi x our nation. This is why the NFA established The Purge, the night that saved our country. By recognizing the inherently violent nature of mankind, the NFA has succeeded in creating a lawful, healthy outlet for American outrage. We pride ourselves on being the only party that will never ask you to deny your true self. We, the New Founders of America, revived our great nation with policies rooted in evolutionary truths of humanity. We are by design violent, vengeful and combative, and denial of our true selves is what led us to collapse. By accepting this and empowering you, the citizens, to purge and cleanse your souls, we’ve rebuilt America as the safe and prosperous union our Old Founding Fathers envisioned. America

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is only as strong as our weakest individual. We continue to defend the individual’s rights to personal security, including the 2nd Amendment right to bear arms set forth by our original founders and the 28th Amendment right to purge. These constitutional freedoms of self-defence have shaped a new era for America, a nation reborn. We are now a stronger and more peaceful union than our Old Founding Fathers could ever have dreamed. Since its inception, The Purge has been backed by scientists, law enforcement and economists alike. With your support and vigilance, the NFA can continue making America a “more perfect Union.” Blessed be the New Founders. And blessed be America, a Nation Reborn!

Il manifesto è a tutti gli effetti il programma che soggiace allo sfogo, costruito per suggerire il parallelo ucronico con la realtà spettatoriale a partire dalla citazione diretta della Costituzione americana (“Noi, Popolo degli Stati Uniti, allo Scopo di formare una più perfetta Unione…”), rivendicandone i principi ma destituendone le fondamenta in forza di una presunta violenza intrinseca all’essere umano, che necessita periodicamente di essere espletata. Il nesso finzione-realtà non è solo suggerito qui, ma anche dalla citazione del secondo emendamento (il diritto di detenzione di armi per i cittadini), e dagli apparati paratestuali, come i teaser poster, che spesso topicalizzano i film non tanto a partire dai contenuti violenti ma con bandiere americane, maschere distorte della Statua della Libertà, e così via. L’obiettivo è quello di amplificare la “impressione di realtà”, attraverso un calibrato accostamento di diegetizzazione e movimento59. Retoricamente il manifesto è inoltre costruito su toni patriottici, fa sempre riferimento al paese che “viene salvato” proprio grazie alla notte del giudizio, si rivolge non alle persone ma ai “cittadini”, i quali vengono riconosciuti nel loro “true self”, identità altrimenti repressa. Non è quindi scopo del manifesto polemizzare con i Padri Fondatori originali, ma piuttosto squalificarne i metodi accettandone la visione, quella di un’America unita e feconda, che si può realizzare unicamente con lo sfogo, e infatti la citazione iniziale è ripresa in chiusura, come a completare un cerchio, prima del richiamo a Dio e alla nazione, accomunati sul piano sovrastruttural-destinale. I Nuovi Padri Fondatori mirano a non stabilirsi come frattura del passato ma a collocarsi in una condizione di continuità, come naturale evoluzione 59

Cfr. Roger Odin, De la fiction, De Boeck Université, Bruxelles, 2000.

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del percorso intrapreso dai Padri Fondatori originari. È presente inoltre, a confermare il contenuto ideologico con ragioni probanti, un riferimento non meglio precisato a scienziati, avvocati ed economisti che avrebbero approvato la soluzione considerandola valevole. Questa filosofia è poi ulteriormente amplificata dai dati sbandierati dai media interni ai film che descrivono la nazione come drasticamente migliorata dall’introduzione dello sfogo. La povertà e la criminalità sarebbero pressoché scomparse. In realtà, ovviamente, la povertà è scomparsa perché ogni anno i poveri vengono massacrati impunemente, e la criminalità non è scomparsa, ma semplicemente viene convogliata in dodici ore, dove esplode tutta assieme (e anzi potrebbe addirittura essere aumentata, producendo lo sfogo un turismo apposito e le premesse anche per i non potenzialmente criminali di diventarlo). Lo Stato qui tiene sotto scacco i destini del popolo con modalità affini a quelle di Arancia meccanica o di Brazil; non potendo più di tanto eliminare le devianze, le assorbe, e anzi le fomenta guadagnandoci in vari interessi. La sovrastrutturalità è tale da poter senza eccessive rivolte elaborare un sistema di repressione perverso che esacerba nelle dodici ore dello sfogo ma che, inevitabilmente, permea e condiziona la vita di tutti per tutto il resto dell’anno. Anche chi è contrario vi è invischiato, volente o nolente, partecipe o obiettore. Quest’ultimo infatti non è un ruolo che va a detrimento del sistema ma che gli è connaturato, che è previsto, e che quindi rientra in un paradigma destinale codificato senza minarlo come forma di hacking semiosico60, cioè di elaborazione di un modello di semiosi che si distacchi dal percorso predeterminato. Quella de La notte del giudizio è in questo senso la distopia maxima, se si adotta come criterio quello che suggeriamo: la distopia come struttura destinale si realizza tanto più le possibilità di autodeterminazione degli attanti rispetto al destinante (lo Stato) sono annichilite in quanto assorbite e/o integrate a livello sistemico. Inoltre essa si presenta a tutti gli effetti come un’utopia, per chi la abita. Fatte salve le vittime, che sono previste, il sistema è presentato come funzionale e accettato “dai più”. Come in ogni distopia è lo scarto, l’anomalia, la scoria residuale a costituire la presa di consapevolezza. La notte 60 Delineiamo la categoria dell’hacking semiosico, cioè del tentativo di uscire dai pattern di un senso determinato aggirando le regole strutturali imposte dall’alto, in Bruno Surace, Ragazzacci 2.0 o del cattivo gusto online. Note semiotiche su viralità alternative ed etichetta in Gabriele Marino, Mattia Thibault (a cura di), Viralità – Virality. Monographic issue of Lexia, 25-26, Aracne, Roma 2017, a proposito della cultura di internet.

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del giudizio è l’utopia radicale che svela il suo fantasma, l’utopia – cioè, lacanianamente, il desiderio – realizzata, laddove invece doveva rimanere ideale. La rabbia verso il vicino di casa che guarda la tv a volume alto la notte non può certo tradursi nel suo accoltellamento, anche se ogni tanto ci piacerebbe “perfezionare il mondo” con certi sistemi. «L’utopia è certo realizzabile, ma non è affatto desiderabile, […] il paradiso evocato dall’utopia dissimula un inferno, […] un benessere passivo e paralizzante, [...] [un] livellamento degli individui ormai inadatti a fondare e dirigere il loro destino»61. Da un punto di vista biologistico poi The Purge suggerisce una biodeterminazione. La tesi hobbesiana dell’homo homini lupus che cagiona lo sfogo, e cioè la tesi di una barbarie insita indistintamente nell’uomo, ne fa di per sé un essere la cui determinazione è inscritta su una dimensione specista, come se la convergenza destinale non portasse che a un unicum selvaggio e vandalico. L’idea di una prevaricazione definitiva di un presunto stato di natura su quello di cultura è una fattispecie lombrosiana e in nuce neopositivistica che, pur se filosoficamente ricorrente (non solo Hobbes, ma anche Erasmo da Rotterdam, Francesco Bacone, John Owen e altri), costituisce una risposta sdrucciolevole e pessimistica alla definizione dell’essenza umana. Eppure non solo La notte del giudizio, che tratta la questione come pretesto, attinge da questa impostazione filosofica, usualmente trattata più come questione sociale che non, come in questa sede, metafisica. In molti dei film menzionati in precedenza – specie in quelli fondati sulla logica “battle royale” – vi sono varianti sul modello bellum omnium contra omnes, che diviene famoso in concomitanza con una fattispecie videoludica basata su questo schema, soprattutto nel mondo online62. Come dicevamo, i film nei quali lo Stato avalla questa concezione biodeterministica, imponendo ai suoi cittadini di uccidersi a vicenda, si configurano come distopie e pertanto prevedono sistemi di assorbimento delle anomalie. Forme di hacking semiosico in questo senso sono rappresentate per esempio dal finale del primo Hunger Games, che vede Katniss (Jennifer Lawrence) e Peeta (Josh Hutcherson) come ultimi rimasti al sanguinoso gioco escogitato dallo Stato, costretti a doversi infine affrontare finché non ne rimanga solo uno. I due

tuttavia decidono con delle bacche velenose di suicidarsi simultaneamente, mettendo in crisi l’intero sistema che è costretto a proclamarli entrambi vincitori, onde evitare un collasso generale. Nel seguito della serie tuttavia questo twist of fate sarà a sua volta inglobato dal sistema e declinato a tornaconto dello Stato. Sullo sfondo fantascientifico/fantapolitico/di fantascienza sociologica poi il pattern dell’umano lupo per l’altro umano è ulteriormente politicizzato volgendosi a qualcosa come “l’umano è lupo per l’altro (non necessariamente umano)”. In Starship Troopers (Starship Troopers – Fanteria dello spazio, Paul Verhoeven, 1997), eccezionale esempio di distopia tratta dal romanzo omonimo di Heinlein (1959) con l’obiettivo di satireggiare gli Stati a «matrici militaristiche e reazionarie»63, l’altro sono degli alieni insettoidi che vengono sterminati a opera di forze umane dall’aspetto paranazista, e l’intero mondo è succube della propaganda anti-aliena a tal punto da vivere unicamente allo scopo della vittoria della guerra, anche dopo essersi resi conto che le creature aliene provano paura. In District 9 (Neill Blomkamp, 2009) gli alieni sono metafora dei neri all’epoca dell’apartheid sudafricano, e vivono confinati in ghetti nella periferia di Cape Town. Similmente in Alien Nation (Graham Baker, 1988) degli immigrati alieni umanoidi (newcomers) vengono trattati come schiavi una volta giunti sulla Terra e ghettizzati. Ma la potenza destinale dello Stato distopico non è unicamente espressa dalla sua capacità di decidere sulla vita e sulla morte, bensì dalla sua pervasività in tutte le dimensioni del vivere personale e sociale. Un esempio calzante è The Lobster (Yorgos Lanthimos, 2015), tutto ambientato in un mondo dai colori spenti dove le persone single vengono portate a forza in un hotel ove dovranno trovare un partner entro quarantacinque giorni (giorni nei quali è proibito qualsiasi atto autoerotico – pena punizioni fisicamente dolorose, in pieno regime nuovamente biopolitico), termine oltre il quale saranno altrimenti trasformati in un animale a loro scelta. Anche qui compare il tema della “caccia umana”, poiché agli “ospiti” dell’hotel è concesso di andare a caccia di fuggiaschi, come si trattasse una battuta al fagiano; ciò in una sorta di macabro processo di gamification che gli consente, di vittima in vittima (un sistema quindi che impone alle anomalie di “fare pulizia” di se stesse) di guadagnare giorni di permanenza nell’hotel e così garantirsi più tempo.

Artemio Enzo Baldini, Utopia e distopia, FrancoAngeli, Milano, 1987, pp. 28-9. I videogiochi “tutti contro tutti” spopolano online, come nel caso del recente Fortnite (2017) che presenta una specifica modalità battle royale, formula di gameplay fondata sul principio del last-man-standing del tutto simile a quella di testi come Hunger Games.

63 Daniela Guardamagna, Analisi dell’ incubo. L’utopia negativa da Swift alla fantascienza, Bulzoni, Roma, 1980, p. 108.

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Di contro esiste una Resistenza di reietti che pratica dogmaticamente la vita da single, in opposizione al regime tirannico che si impone sulle persone andando a intaccare la loro intimità e le loro scelte più personali. Il film coniuga così un’atmosfera grottesca e a tratti quasi comica con un sottofondo cupo che riflette una distopia spietata e meccanica, generando unicamente infelicità e abulia, costringendo ad accoppiamenti coatti e implicando una solitudine generalizzata nell’unire la massa sotto le stesse rigide normative socio-esistenziali.

attitudine speculativa del prodotto DreamWorks (che con Disney ebbe un contenzioso per via della similarità contenutistica dei due film, nonostante la seconda producesse animazioni di livello tecnico indubbiamente più elevato). Se in A Bug’s Life infatti il registro è impostato precipuamente su un target bambinesco, e così la sceneggiatura è costruita su uno script canonico (sostanzialmente una rivisitazione della cicala e della formica di Esopo) e l’immagine risulta sgargiante e “pastellosa”, in Z la formica i temi affrontati sono palesemente più adulti, e le chiavi di lettura maggiormente stratificate. Z è una formica operaia doppiata nella versione originale da Woody Allen (in quella italiana dalla controparte Oreste Lionello), con cui condivide intertestualmente ed extradiegeticamente nevrosi e intellettualismi, che per affascinare la principessa Bala (Sharon Stone) si finge soldato pur se impacciato, come una specie di versione insetto del buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hašek (1921). Egli finisce tuttavia nel bel mezzo di un tentativo di golpe, a opera del generale Mandibola (Gene Hackman), che assume fattezze tetre e comporta la morte – tema tendenzialmente bandito dalle produzioni Disney più recenti o comunque edulcorato – di molte formiche, fra cui l’amico di Z Barbatus (Danny Glover) con la cui testa decapitata il protagonista intrattiene un dialogo strappalacrime, attorno a un desolato panorama di corpi straziati. Solo dopo numerose e goffe peripezie Z riuscirà a ottenere lo sposalizio con Bala e a far regnare la pace nel formicaio.

The Lobster È, per certi versi, quanto accade nel film che utilizziamo per suggellare significativamente la fine di questa sezione distopica, a riprova di come il tema del rapporto fra sovrastruttura e destino sia per davvero trasversale e diagonalmente percepito da chiunque. Antz (Z la formica, Eric Darnell e Tim Johnson, 1998) è il primo film animato prodotto dalla DreamWorks, casa di produzione che oggi vanta successi planetari come la saga di Shrek (Andrew Adamson e Vicky Jenson, 2001) e Madagascar (Eric Darnell e Tom McGrath, 2005), e il secondo film statunitense girato in CGI (Computer-generated imagery, cioè sostanzialmente animazione in computer grafica), uscito tre anni dopo il boom globale di Toy Story (Toy Story – Il mondo dei giocattoli, John Lasseter, 1995), produzione Disney-Pixar. Proprio in concomitanza con Z la formica la Pixar fece uscire nel 1998 A Bug’s Life (A Bug’s Life – Megaminimondo, John Lasseter), a sua volta a vocazione entomologica e con protagonista una formica, che però ci pare non abbia la stessa

Il film dunque sovrappone una certa giocosità a tratti decisamente cupi, amplificati da un disegno squadrato (al contrario delle formiche arrotondante

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Z la formica

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di A Bug’s Life), e a scenografie spesso opprimenti e asfittiche, come lo scuro interno del formicaio. Il tema di fondo rimane però quello della società di massa, omologata, emblematizzata dalla stigmergia delle formiche, «un metodo di comunicazione nel quale gli individui interagiscono, nell’ambito di sistemi decentralizzati e auto-organizzati, attraverso la modificazione del loro ambiente locale […]»64. Tale modello comunicativo, basato su forme di “intelligenza dello sciame” (swarm intelligence), prevede la presenza di molti attori che cooperino nella gestione dell’ambiente e della comunicazione, di fatto annullando la propria individualità. In sostanza: perché il formicaio funzioni a pieno regime le formiche si impegnano in quanto forza unitaria. Esse sono lo Stato, che si reifica nel formicaio, e la perdita del singolo assume quindi socialmente un valore minore rispetto al “bene comune”. La logica di funzionamento della società delle formiche è in sostanza equiparabile a quella della guerra, ove un insieme di apparati sociosemiotici calmierano le differenze individuali (si pensi alla rasatura rituale dei capelli, così ben emblematizzata da Full Metal Jacket, ai sistemi di casacche e uniformi, e così via) così deumanizzando il singolo in forza della potenza di gruppo. Tale prospettiva, se applicata a una società umana, è chiaramente distopica, e Z la formica di fatto compie proprio questa operazione, antropomorfizzando gli imenotteri65. Z dal canto suo rappresenta l’anomalia, colui che quando ci si appresta alla missione suicida di attacco contro le termiti suggerisce causticamente di destabilizzarle politicamente mediante il voto. È l’individuo che rifiuta di massificarsi, cioè di cedere la propria esistenza, di piegarsi a una destinalità appiattente ed eusociale, cioè a elevatissimo tasso di mansioni predefinite che surdeterminano l’individualità, esemplificata dalle parole del generale Mandibola: «Un soldato sa che la vita di una singola formica non conta, ciò che conta è la colonia». Guerra ed eusocialità come catalizzatori destinali di ordine statale non sono chiaramente prerogative uniche delle distopie, e anzi attraversano tra64 Fortunato Sorrentino, M. Chiara Pettenati, Orizzonti di conoscenza. Strumenti digitali, metodi e prospettive per l’uomo del terzo millennio, Firenze University Press, Firenze, 2014, p. 90. 65 L’antropomorfizzazione è necessaria, specie nel caso degli insetti, per fare in modo che lo spettatore possa immedesimarsi. Come precisa Simon King, Insect Nations. Visions of the Ant World from Kroptkin to Bergson, InkerMen Press, London, 2006, p. 63, in film come Z la formica e A Bug’s Life le formiche non sono mai realmente “loro”, ma sono noi (anche e soprattutto in forza dell’antropomorfizzazione, giacché in realtà gli insetti non hanno vere e proprie facce).

sversalmente la storia del cinema. Nel cinema delle origini e nel cinema muto molti film riflettevano su come la condizione sociale impedisca o meno ai personaggi di adempiere alle proprie aspirazioni. Ciò vale per casi come Buster Keaton, antieroe perennemente al verde, o per la figura di Charlie Chaplin, che su Charlot, il vagabondo, ha costruito un’intera mitologia fondata sull’empatia verso un personaggio avversato dal mondo e privato della possibilità di essere qualcos’altro da sé. Basti pensare, uno fra tanti, a The Kid (Il monello, 1921), primo lungometraggio dell’attore-regista tutto giocato sulle disavventure di quello che è, prima di tutto, un poveruomo. Anche in Italia il tema è capitale, come dimostrano film muti quali Gli spazzacamini della Valle d’Aosta (Umberto Paradisi, 1914), in cui il piccolo Tonio è costretto fin dalla tenera età a un duro lavoro che lo priva dell’infanzia per colpe non sue. E, com’è chiaro, in concomitanza di determinati avvenimenti storici la questione si amplifica. Un caso peculiare, di cui il cinema si è ampiamente nutrito, è la guerra del Vietnam, globalmente percepita come insensata e illecita, e spesso rappresentata come evento che in prima istanza ha privato della vita molte persone e ancora di più della possibilità di immaginarsi (cioè di proiettarsi un destino) oltre lo scenario bellico. Se ovviamente il film per eccellenza nel merito è Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979), altre opere si sono ritagliate un posto d’onore nella storia (non solo del cinema) per aver problematizzato la guerra e le sue conseguenze nefaste su uomini e donne che, avendola vissuta sulla propria pelle o di riflesso, ne sono risultati compromessi in termini psichici, fisici, e di percezione del controllo sul proprio destino. The Deer Hunter (Il cacciatore, Michael Cimino, 1978) racconta per esempio con toni drammatici il ritorno in patria di Nick Chevatorevich (Christopher Walken), veterano del Vietnam, con i suoi amici con i quali prima della guerra condivideva una pacifica e goliardica esistenza. Ora invece è un uomo traumatizzato dagli orrori che ha visto e vissuto, incapace di reinserirsi nella sua società di provenienza al punto di scomparire per essere ritrovato a Saigon tempo dopo dall’amico Mike Vronsky (Robert De Niro). La follia si è ormai impadronita di lui, intrappolandolo nella guerra per sempre, cioè destinalmente rendendolo incapace di proiettarsi in un futuro autodefinito, e ora è un professionista della roulette russa, apatico fino alla catatonia, che finisce per suicidarsi di fronte all’amico di sempre. Sarà commemorato con le note ironiche di God Bless America intonate al suo funerale dagli amici. Full Metal Jacket è la storia bipartita dell’addestramento militare

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per la guerra prima, e della guerra stessa poi, di un gruppo di giovani uomini che si vedrà man mano spogliato della propria identità e asservito, come Z la formica, “alla colonia”. Molti di loro periranno in battaglia e sul finale i superstiti rientreranno alla base cantando la Marcia di Topolino, simbolo della perversione statunitense che li ha mandati dall’altra parte del mondo per una guerra inutile, così come lo era God Bless America ne Il cacciatore. Anche nel recente e controverso American Sniper (Clint Eastwood, 2014) il finale con la sfilata di bandiere americane, dopo l’uccisione dell’ex cecchino Chris Kyle (Bradley Cooper) per mano di un reduce che tentava di aiutare, pone in essere una riflessione simile. Trattare in una sola sede la congerie abnorme di dimensioni sociopolitiche che questi temi comportano è impresa decisamente oltre la nostra ambizione qui. Quel che ne dedurremmo sarebbe certo di estremo interesse, ma per ora abbiamo delineato i rapporti fra Stato e destinalità nel cinema adeguatamente, e ci apprestiamo a concludere il capitolo con un paragrafo dedicato a un contesto sovrastrutturale meno esplorato di quelli coinvolti in precedenza, eppure di stimolante rilievo: l’universo impiegatizio. Ozu e Fantozzi feriti nell’onore66 Uno dei registi che hanno sviluppato con più perizia il “cinema impiegatizio” è certamente Yasujiro Ozu67. Regista di caratura globale, Ozu ha attraversato tutte le principali tappe della storia del cinema giapponese, dal muto, al sonoro ai colori, unendo una spiccata sensibilità stilistica con una profonda conoscenza cinefila che lo portava a esplorare generi e specifiche hollywoodiani come il comico e la commedia, il melodramma, il gangster film e il film sociale, spesso interpolati secondo le declinazioni giapponesi del gakusei mono (film ad ambientazione studentesca), l’ero guro nansensu (film grotteschi con gag a sottofondo erotico), e soprattutto lo shomin-geki (film sulle persone comuni di stampo realista) e il sararimen eiga (film a sfondo impiegatizio). Ozu così è riuscito a imporre la sua cifra, spesso addirittura realizzando sorte

di remake non ufficiali di opere americane (Chaplin e Keaton per il comico, Lubitsch per la commedia brillante, e così via)68. Tale consonanza era dovuta anche a contingenze sociopolitiche: il Giappone viveva negli anni ’20, prima dei regimi nazionalisti e fascisti, un processo di forte occidentalizzazione e americanizzazione, che Ozu documentava spesso con tono parodico, attraverso figure che scimmiottavano i modelli statunitensi, come i piccoli gangster di periferia che anziché rifarsi al modello yakuza imitavano in modo posticcio i divi americani, le Moga (Modern Girl) che copiavano lo stile visivo delle donne occidentali, e molti altri. In questo contesto si staglia uno dei capolavori universalmente riconosciuti del regista, Otona no miru ehon - Umarete wa mita keredo (Sono nato, ma..., 1932). Questo film, una «storia di tutti di tutti i giorni»69, è oggi dalla critica internazionale considerato uno dei più rappresentativi del cinema muto di Ozu, e anche alla sua uscita fu accolto con commenti estremamente positivi70. Originariamente il film era stato concepito come una commedia, ma Ozu intervenne in modo marcato sulla sceneggiatura, eliminando una serie di gag e inserendo di proprio pugno l’episodio dello sciopero della fame, il nucleo drammatico dell’intera storia. Il piccolo Yoshi (Tatsuo Saitō) si trasferisce con la famiglia a Tokyo per motivi di lavoro del padre. Assieme al fratellino cerca di farsi degli amici ma inizialmente si scontra con dei bulli, che gradualmente impara a conoscere. Un giorno assieme ai nuovi amici si intrufola a casa del direttore del padre, ove si sta assistendo a un filmino che vede proprio lo stesso padre fare il buffone per compiacere il proprio capo come un giullare di corte farebbe con il suo re. Per i figli ciò è umiliante, e così costoro improvvisano uno sciopero della fame. Infine essi sono però costretti a rivedere le loro motivazioni, comprendendo il genitore e incoraggiandolo a inchinarsi davanti al suo superiore.

66 Per la parte dedicata a Ozu desidero ringraziare Dario Tomasi. Conservo ancora gli appunti presi durante le sue lezioni di cinema orientale ormai diversi anni fa, che in questo paragrafo sono riversati e adattati, nella speranza di avergli reso buon servigio. 67 In Dario Tomasi, Yasujiro Ozu, Il Castoro, Milano, 1996 un’analisi completa dei film del regista, su cui ci concentriamo per via del suo carattere pionieristico.

Tokyo no onna (Una donna di Tokyo, 1933) contiene per esempio una esplicita riproposizione di una parte di If I Had a Million (Se avessi un milione, Ernst Lubitsch, Norman Taurog, Stephen Roberts, Norman Z. McLeod, James Cruze, William A. Seiter, H. Bruce Humberstone e Lothar Mendes, 1932). 69 Mutuiamo l’espressione da Woojeong Joo, The Cinema of Ozu Yasujiro. Histories of the Everyday, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2017, che coglie nel suo volume la poetica del quotidiano del regista giapponese. 70 La classifica annuale della più importante rivista di cinema nipponica, «Kinema Junpō», vide Ozu occupare posti di rilievo. Per la prima volta con Sono nato, ma... occupò il primo posto.

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Sono nato, ma… L’esile trama del film contiene tutti gli elementi per farne un’opera neorealista, molto in anticipo rispetto alla sistematica presa di coscienza sul topic da parte di altre cinematografie, come quella italiana che si consacrerà ai temi del lavoro e della classe solo vent’anni più tardi (vantando però già casi “sparsi” sulla questione sin dal cinema muto, come il già citato Gli spazzacamini della Valle d’Aosta). In Sono nato, ma… la struttura destinale non è manifestamente statale, ma certamente sovrastrutturale. Esistono delle classi, e a tali classi sono associate possibilità di realizzazione, economiche e personali, e ordini di dignità, sostanzialmente inemendabili. Il dramma non è tanto collocato nell’universo adulto (tanto che del figlio conosciamo il nome, Yoshi, mentre dei genitori no), ormai sedimentato su un habitus incontrovertibile, quanto su quello giovanile, che incontra l’età adulta proprio nel momento in cui si trova costretto ad accettare l’inevitabile destino legato alla condizione sociale, in cui ogni individuo si ritrova (verbo riflessivo che esclude l’intenzionalità). Come sostiene Schrader «il più grande conflitto (e di conseguenza il più grande motivo di delusione) nei film di Ozu non è politico, psicologico o famigliare, ma, in mancanza di un termine migliore, ‘ambientale’»71. Tale termine migliore, ci permettiamo di suggerire qui, potrebbe essere «destinale». 71

Paul Schrader, Il trascendente nel cinema, cit., p. 30.

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Lo sciopero della fame dei due fratellini è quindi solo superficialmente “contro” il padre che si umilia, ma più lateralmente rappresenta la non accettazione dei ruoli prestabiliti, con il carico esistenziale che essi comportano dentro e fuori la vita lavorativa. Si manifesta così una dimensione centrale in tutto il cinema di Ozu (dagli anni ’20 agli anni ’60), e cioè quella familistica, nella fattispecie relativa al rapporto genitori-figli. In quasi tutti i film del regista la famiglia è sottoposta a una minaccia, vi è la crisi dell’istituzione familiare (che spesso è una crisi dell’autorità della figura paterna). Ciò che concretizza questa minaccia in Sono nato, ma… è la scissione che si viene a creare fra immagine famigliare e immagine sociale del padre. Questo scollamento fra le due immagini del padre, autoritario in famiglia e sottoposto nella società, genera la rabbia dei figli, che si risolve solo con l’accettazione di una sorta di ineluttabile destino legato al ceto. Così emerge una precisa idea di destino dal film impiegatizio, poiché esso non è mai unicamente collocato nella sfera lavorativa, ma sfocia in tutte le altre dimensioni del vivere, in primis nell’ambito famigliare, come conseguenza diretta dello stato sociale e delle capacità economiche dei personaggi. Il nucleo drammatico, che instilla la consapevolezza della prigionia destinale, è la scoperta da parte dei fratellini dell’umiliante atteggiamento che assume il padre nei confronti dell’uomo che lo stipendia (e quindi mantiene anche loro). Se dunque nel mondo dell’infanzia loro si sono conquistati un potere pari o superiore a quello degli altri, avendo fronteggiato i bulli, nel mondo degli adulti non è così per il padre. Essi tenteranno di ribellarsi a questa triste verità ma alla fine si arrenderanno spingendo il padre ad andare a salutare il suo capo. Loro manterranno solo nella dimensione del gioco il loro potere, una dimensione simulacrale che prima della rivelazione della perdita di dignità del padre ritenevano autentica, ma che ora riconoscono come costruita. Un mondo a parte dove possono percepire una meta-destinalità che si sono creati ad hoc, ma che comunque è contenuta in una destinalità su cui non hanno nessun controllo. Nel mondo dei bambini i conflitti sono apertamente espressi (attraverso litigi e scazzottate) mentre in quello degli adulti i conflitti sono repressi e celati. Eppure tra questi due mondi esiste una similitudine che suona un po’ come una epifania, facendo percepire come la spensieratezza dei bambini non sia che una concessione dalla destinalità adulta: anche nel mondo dei bambini sono poi i soprusi (come le logiche di potere legate al denaro in quello degli 233

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adulti) a farla da padroni. I due mondi risultano così entrambi segnati dagli stessi conflitti e contraddizioni, come dimostrano alcuni episodi. Un primo caso ha a che fare proprio con il denaro: nel mondo dei bambini possedere le uova di passero, nutrirsene, rende chi lo fa più forte e più potente degli altri, di una forza e potenza che sono riconosciute simbolicamente, tanto quanto nel mondo degli adulti il denaro, e infatti per assistere alle esclusive proiezioni dei filmini che i ragazzi guardano per intrattenimento – le stesse che porteranno i fratellini alla scoperta dell’amara verità – è necessario pagare con le uova suddette. E ancora, nel giorno di paga di Yoshi i due fratelli, sapendo che la madre quel giorno ordinerà sicuramente qualcosa al fattorino del sakè, chiedono a questi di dare una lezione al bullo con cui sono in conflitto, e il fattorino infatti impartirà a costui una bella lezione. Ma quando poi i bambini gli chiedono di fare altrettanto con il figlio del direttore, lui non lo farà dicendo che la sua famiglia ordina molta più birra, esplicitando nuovamente il ruolo predominante del denaro nel rapporto sociale fra individui. Anche formalmente il passaggio alla consapevolezza della propria condizione è sancito da alcune specifiche. Il film è diviso nettamente in due parti, sancite dal passaggio della scena dei filmini amatoriali in cui si vede il padre fare il buffone. La prima parte è più leggera, comica e ricca di gag di tipo slapstick, con episodi comici raramente fini a loro stessi, ma al contrario instauranti un rapporto organico con la struttura complessiva dell’opera. Per esempio la scena in cui il padre rimprovera i figli quando viene a sapere che questi hanno marinato più volte la scuola vede il genitore in mutande, dato che suscita ilarità ma che è già simbolico e predittivo della crisi famigliare che si consumerà. La seconda parte assume invece drasticamente toni più drammatici. Anche questo mutamento di registro dal comico al drammatico è una peculiarità del cinema di Ozu. La prima parte del film è inoltre destinalmente rilevante poiché anziché ricorrere a un meccanismo di causa-effetto Ozu ricorre a una semplice successione episodica: le cose accadono una dopo l’altra, non una in conseguenza dell’altra. Non c’è una diretta causalità di ordine metafisico, ma l’avvenire temporale delle cose è reinserito in un ordine destinale a partire dalla classe, capace di retrocedere le cause senza manifestarsi direttamente come effetto. Tutto ciò è ancora più evidente data la volontà di Ozu di adoperare unicamente stacchi netti, senza dissolvenze (che ermeneuticamente suggeriscono un nesso logico, tonale, argomentativo), che pure erano state considerate. Sarà

poi invece nella seconda parte che si stabiliranno maggiormente i nessi causali, cioè la sovrastruttura manifesterà se stessa spietatamente. Inoltre sussiste anche in questa suddivisione un particolare uso della focalizzazione, che vede tutta la prima parte del film enunciativamente costruita sul punto di vista dei due fratellini, mentre nella seconda si aggiungerà anche il punto di vista del padre. La sensazione di intrappolamento destinale è resa anche da altri ausili stilistici, come la posizione bassa della macchina da presa, prediletta da Ozu a tal punto da venire ribattezzata tatami shot, capace di rendere un punto di vista soverchiato dal mondo. Si tratta di una posizione dissimile, per esempio, da quella tipica di Orson Welles. Egli infatti pone la cinepresa in basso ma poi la angola verso l’alto, come nelle note inquadrature della campagna elettorale di Quarto potere. Ozu usa la camera bassa, senza angolarla, la punta anzi parallelamente al terreno, e il primo film in cui sistematicamente ricorre a questa soluzione è proprio Sono nato, ma...

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Sono nato, ma... È indubbio che tale principio sia nato per esprimere un punto di vista, e cioè quello dei suoi protagonisti bambini, ma la prospettiva bassa permane anche quando i bambini sono assenti. Questa scelta è stata indicata dalla critica come un tentativo di attribuire ai suoi personaggi un andamento quasi rituale, ma ci pare che destinalmente serva a uniformare, anche in misura prolettica, i rapporti di dominanza e sudditanza nell’universo (pro)filmico. Il punto di vista infatti non è mai quello del superiore, ma quello del sottoposto, e la sua condizione è rimarcata dall’immagine cinematografica del mondo che abita, che gli è piazzato – a lui come allo spettatore – di fronte senza che egli abbia un significativo margine di intervento sullo spazio, che è lo spazio dell’immagine e quindi dell’esistenza del personaggio. E infatti

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anche il campo/controcampo riproduce una certa asfissia, poiché Ozu evita programmaticamente le classiche inquadrature di tre quarti, ponendo invece i personaggi frontalmente, come a guardare la macchina da presa, inchiodandoli di fatto al loro spazio, obbligandoli a una certa azione e rivolgendo il loro agire direttamente allo spettatore. Anche sul livello della profondità di campo Ozu tende a esaltare la dimensione “scatolare” del profilmico e quindi del mondo in cui i personaggi possono muoversi. Se infatti la profondità di campo moltiplica gli spazi di azione nell’immagine, di contro diminuisce quelli di immaginazione, enfatizzando il punto di fuga e la struttura chiusa e afosa dell’inquadratura. Per Ozu dunque l’estetica degli spazi, specie degli interni, è fondamentale:

le porte scorrevoli della scuola, alcune soggettive desuete, la famosa “carrellata degli sbadigli”, da intendersi come gag di discorso, che vede l’effetto comico non nel contenuto ma nella soluzione discorsiva che lo veicola, e che attraverso la reiterazione di un comportamento surrettiziamente suggerisce una destinalità condivisa, il sōjikei cioè le pose parallele per estensione e gesti all’unisono, o il cosiddetto “montaggio per dominanti e armonici”, identificato da Bordwell, in cui «ogni oggetto inquadrato viene riproposto in funzione diversa dalla precedente creando una serie di rimandi spazio-temporali»73.

In tutti i suoi film l’estetica dell’interno non è solo un semplice sfondo per ambientare microdrammi e microcommedie del quotidiano, ma l’asse portante di una vera e propria etica del comportamento e della narrazione. Il senso di vuoto, di spietatezza del destino [corsivi miei] che si svolge davanti agli occhi impotenti e indebiti di una famiglia, in un film come Tokyo boshoku [Crepuscolo di Tokyo] del 1957, è comunicato proprio dagli spazi (sia quelli domestici, sia i locali, dove si svolge gran parte dell’esistenza dei giapponesi, con i rituali del te e del sakè), così come – al contrario – in una commedia di due anni dopo, Ohayo [Buon giorno], l’agglomerato di case tutte uguali alla periferia di Tokyo, è la giusta cornice per raccontare una vicenda sull’emulazione consumistica72 .

E ancora la progressiva riduzione del lessico e della sintassi cinematografica (movimenti di macchina, obiettivi grandangolari, primi e primissimi piani, e così via) definiscono i film e il cinema di Ozu eliminando ausili tecnici che possano fornire scappatoie immaginifiche ai personaggi tramite l’interpretazione dello spettatore. Si tratta di un cinema fondato su una rarefazione visiva e una economia formale, ove l’artificio sarà programmaticamente dismesso. Non ancora in Sono nato, ma..., dove permangono per esempio alcuni stilemi come i movimenti di macchina, spesso curiosi e sperimentali, come alcune inquadrature di transizione che vedono la macchina da presa muoversi in concomitanza con 72 Bruno Di Marino, Non aprite quella porta – Modalità e forme dell’abitare nella rappresentazione cinematografica in Fabio Briguglio, Patrizia Ferri (a cura di), Translating Rooms. Nuove ecologie dell’abitare, Gangemi Editore, Roma, 2012, p. 78.

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Sono nato, ma... Tutti questi elementi contribuiscono a corroborare l’ineluttabilità del principio di realtà nel cinema di Ozu, un cinema dove l’universo impiegatizio si spande ovunque e dove una situazione parabolica tipica, armonia  rottura  ricucitura, esiste solo in funzione dell’accettazione del sé come detenuto in (più che detentore di) una destinalità definitiva. Il tema sarà così caro all’autore da ripresentarsi costantemente in tutta la sua opera, anche in film di decenni dopo come Sōshun (Inizio di primavera, 1956), ancora una volta Giovanni Casoli, Novecento letterario italiano ed europeo. Autori e testi scelti, Città Nuova Editrice, Roma, 2002, p. 522.

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di genere impiegatizio, in cui durante il rito del sakè un personaggio dice «Il mondo di oggi non è molto interessante», e l’amico gli risponde: «Questo è il destino che ci aspetta. Solo sconforto e solitudine». Non è solo in Giappone tuttavia che emerge con vigore l’universo impiegatizio come intelaiatura destinale. In Italia per esempio, una lunga tradizione di cinema sociale e del lavoro che viene consacrata nella fase neorealista e dura nei decenni a seguire attraverso l’opera di autori quali Elio Petri (si pensi al famoso La classe operaia va in Paradiso, 1971), Ugo Gregoretti (Omicron, 1963), Mario Monicelli (I compagni, 1963), fino al cinema contemporaneo con opere drammatiche quali Tutta la vita davanti (Paolo Virzì, 2008) o dal sapore caustico come Smetto quando voglio (Sydney Sibilia, 2014)74. Un personaggio iconico si staglia in questo contesto come rappresentazione di una vita su cui ogni forma di controllo viene a mancare per via di un’imposizione sovrastrattural-lavorativa. È il ragioniere Ugo Fantozzi, ideato e interpretato da Paolo Villaggio e protagonista di una saga cinematografica e letteraria di pregio, iniziata con Fantozzi (Luciano Salce, 1975), che mette le basi della fortuna del personaggio proprio a partire dalla sua proverbiale sfortuna, ma soprattutto dal suo ruolo di individuo deprivato di ogni libertà personale, costretto in vesti ridicole a sottostare a una vita grigia e ad adempiere al suo ruolo nella “Megaditta”, un’azienda strutturata rigidamente secondo una gerarchia di superiori e sottoposti, che si propala anche fuori dal contesto lavorativo75. La figura di Fantozzi […] fornisce diversi spunti per comprendere i rapporti di potere che possono instaurarsi all’interno delle imprese. Sebbene attraverso un tono iperbolico e grottesco, i libri e, ancor più, i film di Fantozzi forniscono una nitida fotografia del modello di direzione fortemente gerarchico tipico delle grandi imprese italiane, almeno fino agli anni Ottanta. Esso si traduceva nella presenza di status symbol e privilegi di vario genere che venivano associati alle posizioni di comando76.

Fantozzi nel film vive costanti peripezie, che rilevano del suo animo semplice e a tratti malizioso, e della sua condizione di assoluta reclusione destinale. Fantozzi rappresenta «il cinico accanirsi del destino contro un perdente nato, oggetto estraneo in un mondo che procede in un’altra direzione»77. L’escalation di disavventure culmina proprio nella presa di coscienza, prima repressa, del ragioniere, che in seguito all’ennesima delusione e dopo aver conosciuto un collega comunista schivato da tutti, decide di ribellarsi al sistema, in uno dei finali più deprimenti della storia del cinema. Dopo aver infatti subìto un visibile mutamento identitario, che passa anche attraverso un cambio di vestiario e di capigliatura (dall’abbigliamento contrito da ufficio a eskimo e sciarpa rossa, dal capello pettinato alla scapigliatura simbolica), Fantozzi scaglia un sasso contro una vetrata dell’azienda, così venendo convocato dal Megadirettore Galattico (Paolo Paoloni). È questo l’incipit della sequenza finale, che si configura come una compagine di temi e sperimentazioni, che andiamo ad analizzare nel dettaglio. La drammaticità della sequenza è introdotta dal cambio musicale, non più retto su toni scherzosi ma fatto di sonorità inquietanti. Fantozzi ha appena scagliato il sasso e tutti i suoi colleghi sono scappati dentro l’azienda, lasciandolo da solo, dopo averlo prima osservato, aprendo un varco alla sua corsa contro i vetri. Emerge sin dall’inizio la prima tematica: il ragioniere è l’unico a sobbarcarsi una battaglia che però compie in fondo nel nome di tutti. Egli è ripreso in campo lungo, al centro dell’inquadratura che è invece dominata dalla superficie plastica della Megaditta, a formare davanti una parete e dietro una sorta di semicerchio che simboleggia un mondo chiuso e invalicabile, annichilendo il cielo azzurro che si vede solo per dei piccoli squarci a destra e sul bordo superiore del quadro: «il Palazzo, la Burocrazia diventano sinonimi di Destino, Fato»78. Fantozzi è qui ridotto a un puntino isolato e impotente, in qualche misura in un’anticipazione figurale di quel che avverrà narrativamente a breve. Un impressionante silenzio, rotto solo dal fiatone del personaggio, corona l’effetto di senso di coercizione e impotenza. Uno stacco ci mostra prima il personaggio in primo piano, con il volto nauseato dalla cognizione del proprio statuto destinale, e poi un controcampo mostra i vetri dell’azienda con dei cactus den-

Sul cinema del e sul lavoro cfr. Peppino Ortoleva, Un cinema del lavoro, un cinema sul lavoro, Feltrinelli, Milano, 2012. Per un ventaglio aggiornato e internazionale cfr. Roberto Lasagna, Da Chaplin a Loach. Scenari e prospettive della psicologia del lavoro attraverso il cinema, Mimesis, Milano-Udine, 2019. 75 Non quindi esclusivamente un film comico, ma un’opera capace di illustrare uno specifico contesto sociale con grande acume. Non siamo naturalmente gli unici a sostenere questo tipo di lettura. Cfr. per esempio Giacomo Manzoli, Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958-1976), Carocci, Roma, 2012. 76 Agostino La Bella, Elisa Battistoni, Economia e organizzazione aziendale, Apogeo,

Milano, 2008, p. 435. 77 Roberto Frini, Neri Parenti, Gremese, Roma, 2005, p. 15. 78 Christian Uva, Michele Picchi, Destra e sinistra nel cinema italiano. Film e immaginario politico dagli anni ’60 al nuovo millennio, Edizioni Interculturali, Roma, 2006, p. 99.

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tro. Qui uno zoom ottico e l’inserzione della musica danno il segno di come l’azione di Fantozzi sia stata recepita. L’inquadratura reifica un’eterotopia: i vetri sono parzialmente riflettenti, e così il riflesso di Fantozzi rimane in campo, ma dall’oscurità emerge un figuro distinto che si avvicina e dice con fare perentorio a Fantozzi di entrare. Senza alcuno stacco la cinepresa si muove mostrando ora l’impiegato prelevato a forza e condotto dentro l’edificio, mentre il signore dietro al vetro così come era emerso scompare nel nulla arretrando.

Fantozzi Fantozzi viene condotto da due guardie in ascensore, mentre la sua voce off, che ha narrato il film da un punto di vista al contempo esterno e interno fino a ora, specifica che la figura dietro i cactus era nientemeno che il 240

Megadirettore. Una figura avvolta dal mistero, che in pochissimi avevano sinora visto, a tal punto da diffondersi la leggenda che fosse unicamente un’entità astratta. Il Megadirettore, sia per il modo in cui è descritto dalla voce off che per le modalità della sua comparsa-scomparsa, è in effetti la personificazione di un potere sovrastrutturale invisibile eppure presente, un’absentia in præsentia, o viceversa. Il fatto che si manifesti fisicamente sancisce la sua esistenza ontologica ed eleva Fantozzi a un impiegato sopra gli altri, non in senso positivo, ma come anomalia da re-incasellare. Egli intanto si trova in un ascensore, che effettua una lunga ed estenuante salita enfatizzata dall’indugio sui numeri dei piani che man mano progrediscono nel pannello superiore, così come dalle inquadrature dal basso e del volto man mano più corrucciato del personaggio, che arriva ad avere una “allucinazione punitiva”. In una buia sala mensa, illuminato da un tenue fascio di luce, si vede crocifisso in abiti da ufficio, ripreso da un’inquadratura vertiginosa che da lontano si avvicina sino in primo piano, per poi con uno stacco diventare una soggettiva sulla folla di colleghi che, seduti ordinatamente e in angoscioso e impassibile silenzio, lo osservano come agnello sacrificale79. La metafora cristologico-religiosa si perpetua anche a seguire. Giunto al ventottesimo e ultimo piano il ragioniere viene condotto per una buia e vuota sala dalle due guardie. L’inquadratura è in controluce e si individuano solo le sagome, riprese da dietro, che attraversano in silenzio coi passi scanditi dal loro rumore un corridoio illuminato a fasce dalle lunghe finestre verticali, che tagliano come lame l’immagine e simboleggiano le sbarre di una cella, mentre la macchina da presa segue in semisoggettiva – come un occhio imperturbabile – e viene colpita dal rimpallo accecante della luce solare. Fantozzi si ritrova così di fronte a una porta bianca, che apre dall’esterno, per finire in una stanza claustrofobica, ripresa da una prospettiva centrale. È la stanza dello stesso Megadirettore, un luogo di un bianco candido e compassato. La composizione plastica dell’immagine è rilevante. La prospettiva è centrale, e al posto del punto di fuga sta il Megadirettore. La volumetria dell’immagine si evince più per i tratti dei pochi oggetti che vi sono disposti che non per le linee delle pareti, che illuminate dal bianco Queste e altre mutazioni mentali del protagonista ne fanno colui che in Emilio Cagnoni, Fantozzi Kafka. Il ragioniere sotto processo e le sue tragicomiche metamorfosi, L’epos, Palermo, 2007, è definito “Fantozzi-Kafka”.

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sembrano come estendersi lateralmente verso l’infinito, a enfatizzare il portato trascendente del luogo.

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Sul lato destro giace una panca in legno, su quello sinistro una sedia in legno e poco più avanti, vicino alla scrivania centrale, un inginocchiatoio. Dietro al Megadirettore è appeso un unico quadro, con dipinta la figura del caritatevole San Francesco. L’atmosfera eterea e volatile introduce quindi Fantozzi in una dimensione altra, quella del potere fermo, sacerrimo e immutabile, con il quale è chiamato a un confronto che risulta però fittizio.

Fantozzi va in profondità di campo e chiede al Megadirettore come mai la stanza non sia come gliel’hanno sempre descritta, e quest’ultimo lo fa accomodare proprio nella sua poltrona, offrendogli del cibo austero come gli arredi della stanza, «un sorso d’acqua, un tozzo di pane». Il Megadirettore si pone con Fantozzi in maniera paritetica, e si presenta a lui come se fosse un uomo umile, e quando il ragioniere tenta di fargli capire che c’è una differenza fondamentale fra gli sfruttati e i padroni il Megadirettore con sapienza retorica gli fa intendere come sia tutta una questione di terminologia, e come in realtà si trovino pienamente concordi. Mentre fa ciò gira attorno alla scrivania per raggiungere il ragioniere e, posandogli le mani sulle spalle, porsi dietro di lui. Il suo giro è una rima filmica con le perifrasi con le quali ha imbastito la sua strategia retorica. In realtà tuttavia la scena è configurata in maniera per cui non è necessaria una dialettica stringente da parte del Megadirettore. Tutto intorno a Fantozzi, dal suo arrivo alla Megaditta, traspira un potere che è piramidalmente concentrato nell’evanescente padrone, ed egli non necessita di sforzi per confermare il suo statuto. Più che un tentativo di convincimento si conferma nelle parole del Megadirettore il germe della derisione classista. Nel porsi dietro Fantozzi l’inquadratura si centralizza e i due conversano guardando in macchina, realizzando un’interpellazione che è chiaramente una chiamata in causa allo spettatore stesso. L’inquadratura assume di nuovo una portata religiosa, quasi soteriologica. Il piano è ravvicinato

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come in un raccordo sull’asse rispetto al campo totale precedente. Fantozzi è in centro, seduto sulla poltrona, le mani del Megadirettore ambiguamente lo proteggono ma anche lo inchiodano al suo posto, e così al suo ruolo. Il dipinto dietro di loro fa sì che un’aureola circondi il capo dell’uomo, mentre la simmetria verticale è retta dalla brocca e il bicchiere da un lato e il pane dall’altro. Tutto assume un sapore metafilmico, che si fa palese quando Fantozzi chiede al Megadirettore se egli non sia “comunista”, e l’inquadratura – pronunciata l’impronunciabile parola – si destabilizza come se violenti lampi e fulmini avessero colpito l’ambiente, per poi ritornare com’era prima.

fatto altro che confermare il proprio status quo. L’anomalia così rientra pacificamente nei ranghi, del tutto inascoltata, e l’entità può rivelarsi per quello che è, dimostrando infine la verità di alcune delle leggende che circolavano sul suo conto. Quella dietro la scrivania è effettivamente una poltrona in pelle umana, simbolo tragicomico di un potere assoluto. La poltrona è l’emblema oggettuale del potere, il posto desiderato per antonomasia, il trono postmoderno su cui intere formule discorsive sono culturalmente sedimentate (“i politici sono solamente interessati alla poltrona”, “Chi va a Roma perde la poltrona”, e via dicendo). E l’acquario per gli impiegati, prelevati a sorteggio, esiste davvero, dietro il dipinto religioso. È proprio Fantozzi, alla fine, a umiliarsi, come il padre di Sono nato, ma…, chiedendo di poter nuotare assieme agli altri dipendenti (alcuni dei quali si vedono nella vasca, riportando la questione dalla dimensione personalistica di Fantozzi a quella universale del conflitto di classe) per compiacere il suo capo.

Fantozzi Si tratta di una figura metalinguistica di matrice satirica, che tuttavia non destabilizza il portato drammatico della scena. Il megadirettore si definisce un “medio progressista”, formula centrista sostanzialmente priva di significato, e con fare sicuro detronizza Fantozzi prendendo posto nella sua poltrona e invitandolo, cioè costringendolo, ad accomodarsi all’inginocchiatoio. Ecco dunque che si verifica il punto di cuspide in cui la vena rivoluzionaria di Fantozzi viene spietatamente annichilita. Il Megadirettore infatti, con la consueta calma, dice che egli auspica in una serie di riunioni in cui capi e sottoposti possano discutere civilmente le reciproche istanze, sostenendo che egli (ed enfatizzandolo) ha tutto il tempo, e Fantozzi arriva addirittura a ringraziarlo, persuaso dall’ars oratoria dell’uomo che non ha 244

Fantozzi Così finisce il film, con Fantozzi che nuota nell’acquario umano, facendo una sorta di inchino, allo spettatore e al Megadirettore, inchino che viene ripetuto diverse volte con una tecnica di rewind, sancendo una coazione a ripetere che è la condanna a una vita senza cambiamento, imposta dall’alto, e che non propone alcuna via di scampo nonostante gli sforzi personali. Così Fantozzi diviene: […] sinonimo antonomastico di uomo sopraffatto dal destino di fronte al

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quale pare inerte, in una miscela di servilismo e fobie persecutorie, vinto dall’arrivismo e dalle angherie di colleghi, conoscenti e di una società sfruttatrice che lo porta alla rappresentazione delle sue volgarità, nelle parole e negli atteggiamenti80.

Fantozzi è così il neorealismo radicalizzato a partire dalla sua componente fondamentale, l’intersezione che è tutta destinale fra classe e sfortuna, dove la seconda è conseguenza connaturata della prima. In Fantozzi convivono i Ladri di biciclette di Vittorio De Sica (1948) con Il cappotto di Alberto Lattuada (1952), tratto dal racconto di Nikolaj Gogol’, che Zaccagnini descrive giustamente come un esempio emblematico di cinema impiegatizio81; e ancora Il posto (Ermanno Olmi, 1961), Totò e i re di Roma (Steno e Mario Monicelli, 1951), questa volta ispirato a Čechov, Le miserie del signor Travet (Mario Soldati, 1945), Policarpo, ufficiale di scrittura (Mario Soldati, 1969), L’ impiegato (Gianni Puccini, 1960), Impiegati (Pupi Avati, 1985), e la lista potrebbe andare avanti ancora molto, accomunata dallo stesso pattern destinale. Un pattern che si infrange solo quando le due classi coinvolte, padroni e sottoposti, sono costrette da un fato più grande della sovrastruttura lavorativa a confrontarsi e smascherarsi, come accade in Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (Lina Wertmüller, 1974), dove la borghese e dispotica Raffaella Pavone (Mariangela Melato) e il marinaio Gennarino Carunchio (Giancarlo Giannini) si spogliano delle loro rispettive identità quando naufragano su un’isola deserta. In questo luogo ove le strutture decadono i due scopriranno l’amore, un amore impossibile e che infatti cesserà una volta tratti in salvo e indossati nuovamente i rispettivi habitus, come moderni Giulietta e Romeo il cui amore non è impossibilitato dalle famiglie, ma dai ruoli sociali.

Capitolo 4 L’autore Poi, poiché non sopportava di fare altrimenti, Paul Sheldon estrasse l’ultima pagina dal rullo della macchina per scrivere e con una penna vergò la parola più amata e odiata nel vocabolario dello scrittore: FINE Stephen King, Misery

Autorialità e destinalità Nell’arco delle pagine precedenti più volte sono occorsi i temi del metacinema e dei metalinguaggi. Essendo la destinalità una struttura interna al testo, che si estrae mediante un lavoro interpretativo che surdetermina la narrazione, è inevitabile che la stessa categoria sia intrisa di componenti meta-. Se, jakobsonianamente, ogni atto di comunicazione ha in sé a qualche livello una componente metalinguistica, lo stesso vale (anche se è meno frequente pensarlo) per ogni atto di interpretazione, poiché il lavoro ermeneutico sul testo contiene sempre una più o meno forte consapevolezza di se stesso. Se è vero cioè che «ogni testo, compreso il film, non è indifferente al gioco in cui è preso»1, lo stesso vale per ogni interprete che si muove nel terreno del film, che non è […] solo l’oggetto in senso stretto della comunicazione, ma anche il terreno di questa; non solo il mezzo o la posta in gioco, ma anche l’orizzonte entro cui l’emittente e il recettore si trovano ad operare 2 .

Giuseppe Patota, Fabio Rossi, L’ italiano al cinema, l’ italiano nel cinema, Accademia della Crusca – GoWare, Firenze, 2017. 81 Edoardo Zaccagnini, I “mostri” al lavoro! Contadini, operai, commendatori ed impiegati nella commedia all’ italiana, Sovera, Roma, 2009, p. 156. 80

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Francesco Casetti, Federico Di Chio, Analisi del film, cit., p. 215. Ibidem.

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Se poi l’atto di interpretazione è votato alla ricerca della destinalità, allora la componente metalinguistica si manifesta con una certa prepotenza, poiché si va cercando non solo di cosa parla il testo, e nemmeno semplicemente come parla di cosa parla il testo (ciò pertiene un’analisi semiologica tradizionale), ma come parla il testo di se stesso mentre parla della cosa di cui parla. Cioè: quale idea di destino è sottintesa dalla testualità a prescindere dal livello narrativo superficiale, che è poi tendenzialmente quello di primo investimento spettatoriale. Lo slittamento di livello che abbiamo postulato sin dall’inizio genera, necessariamente, uno strato metatestuale, che spesso convive con le altre dimensioni del testo celandosi fra esse, ma che l’analisi destinale enfatizza e fa riaffiorare. C’è in questo intersecarsi di dimensioni una congerie di varianti che si potrebbero vagliare, e che qui riduciamo al caso particolare in cui destinalità sul livello meta- e livello della narrazione si incontrano nella superficie del testo, attraverso la messa in scena pirandelliana dell’autore o del lettore dentro il testo stesso. Negli ultimi anni, in cui una certa foga per la metacomunicazione si è impadronita dell’immaginario3, la questione è all’ordine del giorno; e in ogni caso quella della presenza meta- nel testo dell’autore o del lettore non è certo prerogativa cinematografica. Le stesse teorie di Eco su autore e lettore modello, di fatto, individuando tali istanze nel testo anche quando “invisibili”, fanno intendere la vastità della questione. Spesso l’estrinsecazione del meta- dai testi, specie dai film, è liquidata come divertissement, che strizza l’occhio su questo o quel lettore empirico in forza di un’operazione che se un tempo appariva maliziosa oggi risulta la norma, non solo nel cinema, dove la componente meta- è esplosa con il cinema moderno e il suo rifiuto dei canoni inglobanti del cinema classico. Così anche nella cultura ormai la dimensione meta- è alla ribalta. Quanti fenomeni 3 Lo si vede non solo nel cinema, in cui comunque si nota una presenza rilevante di metafilm, capaci anche di sortire il fascino del grande pubblico fino a vincere premi come l’Oscar (come Birdman di Alejandro Gonzales Iñarritu, 2014), ma anche nella comunicazione dei nuovi media. La diffusione dei meme nei social media è per esempio basata su forme di riappropriazione e remix (cfr. Nicola Dusi, Lucio Spaziante, Remix-remake: pratiche di replicabilità, Meltemi, Roma, 2006 e Vito Campanelli, Remix. Analisi socio-estetica delle forme comunicative del Web, Doppiozero, Milano, 2015) fondate su un’estetica che mira a parlare di internet su internet costantemente, spesso con intenti derisori (sulla memetica online cfr. Gabriele Marino, Mattia Thibault [a cura di], Viralità – Virality, cit.).

del web basano il loro successo sulla capacità di menzionarsi a vicenda, di effettuare incursioni l’uno nell’universo diegetico dell’altro, di interpellare e così via? E tuttavia, quanti dei testi che scaturiscono da queste operazioni sono letti come costruiti su una destinalità peculiare? È proprio l’operazione che ci accingiamo a compiere qui, partendo dall’autore, che è in effetti l’urdestinante, il creatore di tutto dal punto di vista interno al testo. Parliamo dunque della messa in scena dell’autore nel film, un autoresimulacro che non necessariamente ricalca l’autore empirico – operazione ontologicamente impossibile dal momento in cui travasarsi come autore nel testo significa sempre traslitterarsi in autore modello – e che nemmeno si sovrappone obbligatoriamente all’autore modello (che è colui che il lettore dovrebbe riconoscere come empirico – pur non essendolo – cioè l’autore dell’autore-simulacro, che non può scrivere se stesso). Tale autore-simulacro è dunque un destinante esplicito interno al testo, con il quale gli attanti possono interagire in varia misura, accettandolo o rifiutandolo, assecondandolo o combattendolo. Questo è il primo dato interessante. Egli dunque incarna una destinalità con cui i personaggi possono fare i conti, consapevolmente quando essi si rendono conto della sua presenza, o inconsapevolmente quando la focalizzazione fa sì che il lettore sia conscio della presenza dell’autore, mentre i personaggi no. Questa dimensione è la prima da scandagliare. La seconda, di estremo rilievo, ha a che fare con la destinazione del destinante stesso, tema che abbiamo già trattato, e che qui potremo vedere più nel dettaglio. Fermo restando che permane un’unitarietà di fondo che si spalma in tutte le istanze e i modi destinali che abbiamo sin qui trattato. E cioè: quanto diremo per l’autore vale in via di principio per la Morte, per Dio, per lo Stato, e così via. La sua rilevanza nella struttura meta- del testo similmente risponde a logiche consimili a quelle che identificheremo in seguito parlando del loop e del “film ipotetico”. Perché una teoria della destinalità valga, allora è necessario che sia armonica, pur ovviamente declinandosi sulle tipologie che stiamo trattando. Sul tema dell’autorialità bisogna ancora circoscrivere il campo. Se ogni testo è provvisto virtualmente di una componente metalinguistica, in ogni testo sarà possibile rintracciare un’istanza autoriale. A noi tuttavia interessa che questa sia palesata, cioè appaia, almeno su un livello che sia: enunciativo, visivo, narrativo. Questi livelli solitamente sono compartecipi, ma iniziamo con il definirli nei loro rispetti circa la questione. Sul piano enunciativo l’autorialità si può rintracciare ogni qual volta sia

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esplicitata una enunciazione enunciata4, «il simulacro che imita, all’interno del discorso, il fare enunciazionale»5. Nel film dunque, al di là della cornice standard che è l’inquadratura, l’enunciazione enunciata esiste ogni qualvolta si rintracci una “strategia pronominale”6, come per esempio quando una voce off narra le vicende partendo da un “io”, o come quando un narratore impersonale inizia in terza persona con “c’era una volta”7. Biancaneve e Stephen King L’incipit di Snow White and the Seven Dwarfs (Biancaneve e i sette nani, David Hand, 1937) è per esempio atto a costruire una cornice per la quale ciò che si sta per vedere è una storia scritta in un libro. Dopo i titoli di testa infatti la prima inquadratura vede un tomo in primo piano, che si apre da solo “magicamente”, ponendo in campo il titolo stesso del film. Una voce narrante legge così le prime due pagine, prima che una dissolvenza incrociata funga da varco per passare dall’enunciazione diretta della voce off, una voce che è autore-narratore assoluto, tanto da non avere mani (le pagine girano da sole), a un’enunciazione indiretta che ci porta dentro il libro, traducendone le parole in immagini. Così il pillow shot del castello della strega cattiva spazializza la narrazione, e un’altra dissolvenza ci porta al suo interno. La scelta della produzione Disney, per il suo primo lungometraggio, è quella di accompagnare lo spettatore per mano fornendogli fin dall’inizio alcune certezze. In primis lo spettatore era abituato a cartoni animati, ma di breve durata. In questo caso trattandosi di un lungometraggio l’introduzione attraverso il libro mira a stabilire un nesso fra la lettura di un romanzo, esperienza culturalmente sedimentata e quindi confortante, e la visione del film.

Biancaneve e i sette nani

Nella teoria semiotica il tema dell’enunciazione è solitamente ricondotto a Émile Benveniste (a partire da Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris, 1966). Un compendio efficace si trova in Jacques Fontanille, Les espaces subjectives. Introduction à la sémiotique de l’observateur, Harchette, Paris, 1989. In ambito strettamente cinematografico imprescindibile è il lavoro di Christian Metz, L’enunciazione impersonale o il sito del film, tr. it. Marsilio, Venezia, 1994, da cui anche l’ottima ripresa in Ruggero Eugeni, La relazione d’ incanto. Studi su cinema e ipnosi, Vita e Pensiero, Milano, 2002. 5 Algirdas J. Greimas, Joseph Courtés, Semiotica, cit., p. 29. 6 Maria Pia Pozzato, Scrivilo ancora Sam. Centocinquanta modi di raccontare la scena di un film, Meltemi, Roma, 1999, p. 55. 7 Cfr. anche Antonio Costa, Saper vedere il cinema, Bompiani, Milano, 2011.

In secondo luogo il libro rimanda a una dimensione fiabesca, che nuovamente conforta chi guarda il film, poiché fornisce un modello euristico attraverso cui interpretare le immagini in movimento, una rete di sicurezza ermeneutica. Destinalmente, e qui è il dato per noi più rilevante, il libro, l’atmosfera fiabesca che si evince dalle musiche introduttive e dai caratteri tipografici del volume, e la prosodia composta e rassicurante della voce off virtualizzano un’autorialità definita, sottintendendo una predestinazione. Se c’è un libro intatto, esso ha un inizio e una fine. Se è una fiaba, allora lo spettatore sa, almeno a grandi linee, cosa aspettarsi. Se la voce che narra è così tranquilla, alla fine tutto andrà bene. Non resta che godersi il viaggio, finanche immedesimandosi, poiché tanto è un viaggio sicuro, che un autore ha scritto avendo cura di provvedere pericoli, ma anche soluzioni. L’autore incarna qui la più assoluta e confortante istanza destinale, fin dall’inquadratura iniziale del film. La sua distanza debrayata, il suo distacco, non fanno che fornire certezza. La sua motivazione è inesistente, giacché egli si configura come destinante assoluto e tautologico. Al contrario il narratore di Stand by Me (Stand by Me – Ricordo di un’estate, 1986), classico di Rob Reiner tratto dal racconto The Body di Stephen King (1982), è fondato sulla presenza dell’io nell’enunciazione. Egli è un narratore

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personale, che racconta alcune vicende che ha vissuto, e tuttavia mantiene alcune delle caratteristiche del narratore di Biancaneve: è consolante, nella misura in cui narra con una voce adulta le storie di quando era un ragazzino, e quindi, almeno, è vivo; inoltre lascia intendere come le vicende che sta raccontando siano state toccanti, ma in qualche modo superate, anche se non dimenticate. Anziché trattare l’incipit vediamo il finale, che incornicia enunciativamente il film entro la dimensione del racconto, così come Biancaneve (la presenza dell’autore-narratore è sempre una formula incorniciante). Alcuni ragazzini nel 1959 si mettono in viaggio a piedi, in una sorta di Bildungsfilm on the road, alla ricerca di un’avventura, che culminerà con il ritrovamento di un cadavere in un bosco. Nonostante questo evento segni tutto il gruppo, sono le vicende e le confessioni durante il percorso a rendere stabili i loro rapporti e a rivelare le loro fragilità. Il viaggio è scandito durante il film dalla voce adulta di uno di loro, Gordie (Will Wheaton bambino, Richard Dreyfuss adulto). Alla fine del viaggio gli amici si salutano, e tornano a vivere le loro vite, ora consci di cosa sia l’età adulta. Finalmente viene mostrato Gordie adulto, divenuto romanziere, che sta scrivendo a computer la storia del loro viaggio. Vive in una casa lussuosa, ha dei figli che vengono a chiedergli di andare a giocare, ed è proprio alle ultime righe del suo racconto, in cui rivela di aver letto poco tempo prima su un giornale che un altro amico del gruppo, Chris (River Phoenix), colui che cercava sempre di mettere pace quando nasceva un litigio, è morto. È stato accoltellato mentre cercava di porre fine a una rissa. Gordie scrive queste righe, e termina il romanzo ricordando i suoi amici di quando aveva dodici anni, poi guarda con un sorriso laconico lo schermo del computer e va a giocare con i bambini, mentre iniziano i titoli di coda. Qui l’io narrante è autore, ma totalmente sprovvisto di potere destinale. Egli narra vicende che gli sono accadute, e che riporta in un romanzo. La storia non avviene con il suo narrare, come in qualche modo succede con l’enunciatore di Biancaneve, ma è già incontrovertibilmente avvenuta. Certo, può stilisticamente gestire la narrazione come meglio crede, anche condendola di dettagli e sofismi (cosa che fa con la domanda retorica finale, in cui chiede a Gesù chi abbia amici migliori di quelli dell’infanzia), ma la storia centrale nel testo, e la morte del suo vecchio amico, sono riferite con melanconia, sentimento di rassegnazione nei confronti di un destino amaro che lui si limita a mettere in parola e a interpretare. Questo è il destino dell’autorepersonaggio, ma da un punto di vista metatestuale egli è comunque colui che 252

Stand by Me rende possibile la narrazione (se non scrivesse il libro, non ci sarebbe il film da cui il libro – immaginario – è tratto), e che con la sua presenza e la sua accettazione assimila il sentimento dello spettatore che alla fine, pur se magari intristito, reinquadra il narrato all’interno di un panlogismo del tipo: “tutto in un modo o nell’altro si mette a posto, si rielabora razionalmente”8. L’enunciazione enunciata dunque garantisce un’autorialità forte nel testo, enfatizza una destinalità, ma non dice a prescindere se quella destinalità sarà nel controllo preventivo dell’autore (capace di determinare) o interpretativo (che la subisce e la rielabora). Non rendendocene conto peraltro i due esempi hanno fornito anche prove della dimensione visivo-formale e narrativa. Nel caso di Biancaneve l’autorialità c’è in quanto c’è un libro le cui pagine si sfogliano da sole, e tale libro è visibile, pienamente in campo. Esso però è esterno alla narrazione, e agisce unicamente sul piano metatestuale. In Stand by Me invece l’autore, nuovamente presente in immagine (oltre che come voce off), fa parte della narrazione, che non termina con la fine del viaggio dei ragazzi, ma con l’appendice, introdotta da una lunga ellissi temporale (di decenni), che vede Gordie redigere il libro e andare a giocare coi figli. Considerare questa parte unicamente Ci dice Julia Didier, in Dizionario Larousse di filosofia, Gremese editore, Roma, 2004, p. 189: «Dottrina per la quale tutto ciò che è reale è intelligibile», con attribuzione diretta a Hegel come sostenitore di tale dottrina. Con “intelligibile” è da intendersi comprensibile all’interno di una logica razionale.

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in quanto cornice enunciazionale sarebbe erroneo, giacché essa è a tutti gli effetti il momento narrativo della sanzione, in questo caso una “morale mancata”, che risponde al momento di pacificata accettazione dell’ineffabile (cioè il suo inquadramento entro un regime panlogistico; come cantavano gli 883: “E tutto va, come deve andare”) da parte del protagonista. Giochini buffi Sul piano cinematografico gli espedienti visti finora risultano comunque sovradeterminati dalla peculiarità enunciativa del film, che ha a che fare con la dialettica fra inquadrature soggettive e oggettive. Riteniamo che tale ripartizione, che pure può essere motivata a ridosso del tentativo di stilare una grammatica filmica (tentativo che ha un sapore simile a quello di definire il cosiddetto “linguaggio cinematografico”, motivo principale dell’impantanarsi del rapporto fra semiotica e cinema), vada superata. Oggettività e soggettività dell’inquadratura sono prospettive interscambiabili. L’esistenza stessa di una categoria mediana, la semisoggettiva, «in cui il punto di vista non è né interno all’enunciato né esterno a esso, ma piuttosto “con” esso, in un costitutivo “essere-insieme” che finisce per presentificare l’assenza dell’enunciatore»9, ne è la prova. Una semisoggettiva è, anche per pura logica lessicale, allo stesso tempo una semi-oggettiva. È interessante peraltro denotare come la crisi dialettica dell’inquadratura oggettiva-soggettiva non sia altro che un riflesso cinematografico della labilità dei concetti di oggettività e soggettività applicati a qualsiasi contesto del reale10. Pertanto riteniamo che applicare i concetti di embrayage e débrayage all’inquadratura filmica sia utile perlopiù in casi strettamente codificati11, come una conversazione in campo-controcampo per cui ogni volto inquadrato di fatto è interpretabile come una soggettiva dell’interlocutario (ma è comunque una forzatura), e che in generale gli strumenti della semiotica

enunciativa vadano riconsiderati alla luce di logiche tensive. Prendiamo due esempi, uno in cui parrebbe che prevalgano inquadrature oggettive, l’altro in cui invece dominerebbe una logica della soggettività. Nel primo caso lavoriamo su Shining, il capolavoro horror di Stanley Kubrick del 1980, basato, ancora una volta, sull’omonimo romanzo di Stephen King del 1977. L’opera di Kubrick, a buona ragione considerata fra i massimi capolavori della storia del cinema, è tutta incentrata sulla famiglia Torrance, composta dal padre Jack (Jack Nicholson), la madre Wendy (Shelley Duvall) e il figlioletto Danny (Danny Lloyd). Il nucleo si trasferisce nello sperduto Overlook Hotel durante l’inverno poiché Jack accetta di lavorarvi come custode, e tuttavia le cose precipitano quando misteriose presenze iniziano a manifestarsi, impadronendosi della psiche dell’uomo e trasformandolo in un brutale e folle omicida desideroso di sterminare i propri famigliari. Solo grazie agli strani poteri soprannaturali di Danny quest’ultimo e la madre si salveranno. Il film, oggi un cult, è al centro di universo citazionistico immenso ed è stato studiato sotto molti punti di vista12. Come in tutti i film di Kubrick la cura formale è sostanzialmente maniacale, secondo una logica semisimbolica che stabilisce rapporti indissolubili fra espressione e contenuto. Ci concentriamo qui sulla sequenza iniziale, quella dell’arrivo in auto della famiglia all’hotel maledetto. Potremmo condurre simili considerazioni su molte altre sequenze, come quella arcinota di Danny in triciclo per i corridoi dell’Overlook che culmina con l’incontro con le due gemelline, tuttavia tale sequenza ci pare piuttosto “usurata”, e in ogni caso gli elementi che andremo a rilevare nell’incipit assumono una rilevanza peculiare se letti in misura prolettica, come anticipazione formale del resto del film. Il film si apre con un campo lunghissimo: uno scenario montano e lacustre è introdotto dalla angosciante colonna sonora di Wendy Carlos e Rachel Elking. Non è un campo fisso ma una ripresa in movimento, effettuata su un elicottero, un «grande carrello aereo che attraversa la quintessenza del paesaggio americano ‘incontaminato’»13, che avanza a velocità variabile superando

Claudio Paolucci, Strutturalismo e interpretazione, Bompiani, Milano, 2010. Si tratta di un tema di portata smisurata, che è riflesso in semiotica da alcune domande fondamentali, come quella se sia possibile una semiotica delle soggettività (così sottintendendo che quella che si pratica comunemente sia una semiotica delle oggettività). Su questo cfr. Massimo Leone, Isabella Pezzini, Semiotica delle soggettività, Aracne, Roma, 2013. 11 Cfr. Algirdas J. Greimas, Joseph Courtés, Débrayage ed embrayage in Paolo Fabbri, Gianfranco Marrone (a cura di), Semiotica in nuce, Meltemi, Roma, 2001.

12 Come per molti altri film trattati in precedenza, contraddistinti dall’essere considerati universalmente capolavori del cinema, esiste una bibliografia fitta su Shining, che non ha senso ripercorrere ai nostri scopi. Una delle più recenti (e filosemiotiche) analisi è in Giorgio Cremonini, Stanley Kubrick: Shining, Lindau, Torino, 1999. 13 Fredric Jameson, Firme del visibile. Hitchcock, Kubrick, Antonioni, tr. it. Donzelli, Roma, 2003, p. 72.

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un piccolo isolotto nel lago mentre vira sulla destra. Dopodiché la prima dissolvenza incrociata mostra l’inquadratura dall’alto di una strada in mezzo un bosco, con solo una piccola automobile gialla in movimento. Si susseguono quindi numerose altre inquadrature simili, cambiando man mano il paesaggio e divenendo sempre più montano.

Shining Intanto iniziano a scorrere verticalmente i titoli di testa, sovrapposti a tali immagini, immagini che durano per circa tre minuti, generando aspettative e ansia nello spettatore. Quel che qui ci interessa è tuttavia lo sguardo implicato nella serie di inquadrature, che canonicamente sarebbe uno sguardo oggettivo, giacché si tratta di una ripresa aerea che potrebbe essere letta come utile a contestualizzare spazio-temporalmente l’isolamento verso il quale si sta dirigendo la famigliola, senza scomodare un soggetto scopico che osserva nell’antecampo (ciò che ne farebbe una soggettiva), né altre forme di particolare ocularizzazione. Sarebbe cioè quella che Mitry chiama “immagine descrittiva”14, o che Metz chiama “piano autonomo” (bastevole in qualche modo a se stesso, senza che occorrano istanze osservanti-osservate)15, o che

Casetti chiama appunto “inquadratura oggettiva”16. Tuttavia alcuni segnali fanno intendere come, pur restando valida la teoria della contestualizzazione spazio-temporale, effettivamente dietro la fittizia oggettività dell’inquadratura ci sia qualcosa, e che questa sia piuttosto una “oggettiva irreale”17, «dove vi è un punto di vista in movimento senza che a esso corrisponda lo sguardo di nessun personaggio»18. Non un’entità fisica, ma uno sguardo metafisico, uno sguardo altro e altrove. La primissima inquadratura in effetti è un campo vuoto, eppure il movimento di macchina esiste, ed è inalterato rispetto a quelli che seguiranno. Si tratta forse di uno sguardo-presidio, che infatti vira poi sulla destra per spostarsi dove si trova la strada percorsa dalla famiglia Torrance. E ancora nelle altre inquadrature dell’incipit sarebbe legittimo pensare che la camera si muova solo per compiere il cosiddetto “aggiustamento di campo”, cioè per ricentrare l’automobile man mano che si muove. I movimenti invece sono irregolari, e capita addirittura che lo sguardo superi minacciosamente l’automobile ritrasformando l’inquadratura in un campo vuoto. C’è un attante invisibile (o meglio: un attante osservatore)19 dietro tale sguardo, che è imputabile alla forza maligna che cagionerà molte sventure ai protagonisti, in effetti un autore (delle vicende) evanescente, cui sono affidati i destini dei personaggi20. Riteniamo che si possa altrimenti trattare, per riprendere ancora Metz, di una enunciazione impersonale in piena regola, cioè di uno sdoppiamento metalinguistico che è connaturato all’immagine filmica e ne denuncia l’esistere, attraverso uno sguardo ineliminabile, e con cui dunque Kubrick gioca (grazie alle plurime strategie grammaticali che abbiamo rilevato): Nel cinema, quando l’enunciazione si marca nell’enunciato ciò non avviene, o almeno non avviene principalmente, attraverso impronte deittiche

Cfr. Jean Mitry, Esthétique et psychologie du cinéma, vol. 2, Les Forms, Editions Universitaires, Paris, 1965. 15 Cfr. Christian Metz, La grande syntagmatique du film narratif, «Communications», 8, pp. 120-124.

Cfr. Francesco Casetti, Teorie del cinema: 1945-1990, Bompiani, Milano, 1993. Ibidem. 18 Vittorio Giacci, Immagine immaginaria, cit., p. 174. 19 Algirdas J. Greimas, Joseph Courtés, Semiotica, cit., p. 12: «L’attante osservatore funge da scala di misura antropomorfa che, rapportata all’azione di un soggetto operatore installato nel discorso, trasforma quest’azione in un processo inscrivibile nel tempo, nello spazio e nella “qualità” della realizzazione». 20 Una minuziosa e pregevole analisi della sequenza è fornita in Marco Carosso, Stanley Kubrick’s Shining, Falsopiano, Alessandria, 2006.

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[cioè antropomorfiche], ma attraverso costruzioni riflessive. Lo sdoppiamento deittico, che consiste nell’essere al tempo stesso (e all’occorrenza fittiziamente) dentro e fuori, non è l’unico possibile. Lo sdoppiamento metafilmico (metadiscorsivo), che è interno, può sostenere anch’esso, e se è necessario da solo, un’istanza completa di enunciazione. […] Che cos’è in fondo l’enunciazione? […] la capacità di molti enunciati di piegarsi qua e là, di apparire qua e là come rilievo, di desquamarsi di una loro sottile pellicola che reca incise alcune indicazioni di un’altra natura (o di un altro livello), concernenti la produzione e non il prodotto, o, se si vuole, inserite nel prodotto dall’estremo opposto. L’enunciazione è l’atto semiologico attraverso il quale alcune parti di un testo ci parlano di quel testo come di un atto21.

Si pensi ancora alla durata della sequenza, tale per cui lo spettatore debba necessariamente chiedersi cosa mai essa voglia significare (oppure subire una sorta di disagio), cioè estroiettarsi da un regime di visione passiva e porsi questioni relativamente ai motivi per cui una ripresa aerea (di cui è costretto a prendere atto) è tale. La ripresa aerea dunque, una fra le più apparentemente oggettive che esistano (a meno che non si tratti della soggettiva di un pilota, di un falco, o simili), è in realtà al contempo estremamente soggettiva, poiché – anche in mancanza di un’entità maligna che soggiaccia alla scopìa – magnifica uno sguardo. Cosa che succede in altri incipit, come in quello di The Evil Dead (La casa), il già menzionato b-movie horror di Sam Raimi del 1981 poi divenuto iniziatore di una fortunata saga e base per un remake del 2013 di Fede Alvarez22. Qui un movimento di macchina inaugura il film all’interno di un bosco. Formalmente le sembianze sono più soggettive, il movimento è veloce e ad avanzare, e sottintende nuovamente lo sguardo sorvegliante e panottico di un’entità malvagia. Al contrario nessuna entità è sottintesa dalla ripresa aerea iniziale di Funny Games (Id., Michael Haneke, 1997 e poi remake shot-for-shot dello stesso autore nel 2007). Christian Metz, L’enunciazione impersonale o il sito del film, tr. it. Marsilio, Venezia, 1994, pp. 17-19. 22 «One of the key elements to the Evil Dead trilogy is the subjective treatment of space and perspective, representing interior states of being through cinematic terms. The idea has origins as much in literature as in the visual arts, especially Gothic literature. It is a form of phantasmagoria, of shifting perspectives reinforcing a central, if disintegrating, point of view» (Carl Royer, Diana Royer, The Spectacle of Isolation in Horror Films, Routledge, New York-London, 2005, p. 42). 21

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Funny Games E anche qui alcuni elementi tematici rimangono invariati: un’automobile con una famigliola composta da padre, madre e figlio si dirige verso la casa delle vacanze sul lago. Qui due giovani vestiti da golfisti, Paul (Arno Frisch 1997, Michael Pitt 2007) e Peter (Frank Giering 1997, Brady Corbet 2007), con il pretesto di chiedere alcune uova, si introducono nella casa della sventurata famiglia, che sterminano sadicamente dopo averla torturata psicologicamente e fisicamente. Il film è ricolmo di espedienti metalinguistici: Paul, colui che ha le redini del “gioco” in mano, interpella più volte direttamente lo spettatore, sia parlandogli (con frasi come: «Secondo voi hanno scelta?») che ammiccandogli con gli occhi; in un momento di crisi – la madre ha ucciso con una fucilata Peter – Paul prende il telecomando del televisore e manda indietro letteralmente la scena (lo spettatore vede il rewind) per svolgerla nuovamente evitando la défaillance; quando la famiglia chiede ai due ragazzi il perché della loro violenza loro li deridono inventandosi storie archetipiche di droga, abusi famigliari, e così via, cioè pescando nel repertorio di motivi “classici” usualmente addotti a certi tipi di sceneggiatura; quando la madre chiede «Perché non ci uccidete e basta?» Peter risponde «Lei sottovaluta l’importanza dello spettacolo»23. Considerazioni di pregio su Funny Games come metafilm (anche in quanto dispositivo etico) sono in Jörg Metelmann, Scott Loren, The Subversive Melodrama of Michael Haneke, David Lynch and Lars Von Trier, Schüren, Marburgo, 2013, cap. 5.

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Funny Games Il film, un’operazione sadica pienamente in linea con l’estetica di Haneke24, presenta dunque un’autorialità interna che si insinua anche nell’iniziale ripresa aerea. Ogni ripresa aerea è in qualche modo traccia di una meta-autorialità, nella misura in cui determina uno sguardo che interdice l’immersività, uno sguardo superumano che, quando chiamato oggettivo, per principio cela una soggettività dell’alterità, il film che riflette sul film. Questa considerazione vale in realtà per tutti i film in cui la componente metalinguistica sia esplicitata con qualche mezzo, e mette radici nel cinema delle origini, in cui era comune per esempio l’interpellazione attraverso lo sguardo in macchina25. Parliamo dunque di una fase preparatoria, in cui andavano codificandosi alcuni stilemi i quali tuttavia non erano ancora tesi a sopraelevare programmaticamente certi personaggi. Certamente l’esempio di Cretinetti, che nel film analizzato a proposito di Dio (Come fu che l’ingordigia rovinò il Natale a Cretinetti) sul finale augura buon Natale agli spettatori, gioca in favore della nostra ipotesi: implicitamente egli ammette di essere un personaggio, e quindi di agire come agi24 Fabrizio Fogliato, La visione negata. Il cinema di Michael Haneke, Falsopiano, Alessandria, 2008. 25 «Esclusa la lunga parentesi del periodo classico, che influenza ancor oggi l’industria dell’intrattenimento, il cinema ha ampiamento utilizzato il regard caméra dei personaggi come forma di interpellazione diretta allo spettatore, sia nelle scelte registiche che attoriali. Lo troviamo, per esempio, come caratteristica della recitazione della coppia comica di Stan Laurel e Oliver Hardy, o nei film “d’autore” di Edwin Porter, Buster Keaton, Charlie Chaplin, Alfred Hitchcock, Jean-Luc Godard, Woody Allen e altri» (Massimo Giuseppe Eusebio, Lo sguardo dello schermo, cit., p. 79).

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sce per divertire lo spettatore. Qualcosa di simile, ma con intenzioni per l’appunto diverse, accade in Mary Jane’s Mishap (L’errore di Mary Jane, George Albert Smith, 1903), che vede le disavventure della domestica Mary Jane (Laura Bayley) in casa, alle prese con le faccende. Si tratta di un personaggio sopra le righe, tipico dei film di gag slapstick, che decide di accendere il fuoco con una tanica di paraffina. Naturalmente l’operazione avrà esiti nefasti, facendo schizzare Mary Jane dal camino e provocandone la tragicomica morte: sulla sua lapide ci sarà riassunta la trama del film («Qui giace Mary Jane che accese il fuoco con la paraffina», con il calce il gioco di parole «Rest in Pieces», cioè “Riposa a pezzi”), e lei riapparirà anche postmortem come fantasma per terrorizzare le persone riunite attorno alla sua tomba. Nella scena in cui Mary Jane prende la tanica e si accinge a versarne il contenuto nel camino si situa il momento topico del film. Il montaggio opera un raccordo in avanti mostrandoci il personaggio in primo piano, con la tanica fra le mani. La scritta “paraffina”, bianca su sfondo nero, e il regard caméra della protagonista, sono inequivocabili, e ciò indurrebbe a pensare che il personaggio in realtà sia consapevole del pasticcio mortale che va a combinare, tuttavia è più probabile che un tale slancio metalinguistico (diverso da quello di Cretinetti, posto enunciativamente sul finale, in un certo modo a incorniciare la diegesi) costituisca perlopiù un dispositivo comico preparatorio e in qualche misura attrazionale26, che anticipa la catastrofe contribuendo a generare ilarità nel pubblico. È tipico di tutta la slapstick comedy, anche di quella moderna (si pensi a Mr. Bean), ove è più facile sostenere che l’assurdo masochismo dei personaggi sia un segnale destinale di una loro posizione sopraelevata rispetto al narrato. Al contrario, pur facendo l’occhiolino allo spettatore mentre versa il liquido esplosivo, Mary Jane non pone se stessa in posizione superiore, ma piuttosto fornisce al pubblico i mezzi per in qualche modo considerarsi autore della vicenda (anticipando mentalmente le conseguenze delle sue azioni). In tal modo concretizza una figura aspettuale, sancendo anticipatamente ciò che sta per avvenire, dichiarandosi in bilico fra due livelli, quello della narrazione superficiale, dove lei è vittima degli eventi, e quello metalinguistico-destinale, dove lei è non autrice degli eventi (così come invece sono autori Paul e Peter, che pure fanno gli occhiolini allo spettatore, in Funny Games), Un po’ come la nota interpellazione di The Great Train Robbery (La grande rapina al treno, Edwin S. Porter, 1903), in effetti film coevo a quello di George Albert Smith.

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ma supporto all’autorialità spettatoriale, motore dell’intero film, tanto più che capace di presenziarvi, e da viva, e da morta.

Hellzapoppin’

L’errore di Mary Jane Dalle origini a oggi Anche nell’era del cinema classico, in cui dogmaticamente si elude tutto quanto nel film possa rivelarne la finzionalità, alcune eccezioni si fanno strada rivelando la destinalità intrisa nel metalinguaggio. Un caso di assoluto rilievo è Hellzapoppin’ (H.C. Potter, 1941), strampalato musical costruito su un pretesto del tutto meta-. In una sala cinematografica l’operatore vive una subitanea passione per una donna, e così perde di vista il suo lavoro mescolando le pizze da proiettare. Il risultato è un pastiche che prefigura di molti decenni l’estetica postmoderna, traboccante di ogni effetto speciale e che attraversa trasversalmente generi e stilemi del cinema, in cui i personaggi dialogano con il proiezionista, chiedono il rewind (quasi sessanta anni prima di Haneke) quando una situazione non è gradita, provocano esplosioni, si esibiscono in numeri da circo, inseguimenti, gag con animali, spaziando dal western al noir. Hellzapoppin’ così magnifica la potenza del cinema smascherandone e de262

ridendone i chiodi fissi27, a partire da una destinalità confusa e trattabile fra proiezionista e personaggi, votata a null’altro se non a uno sfogo reciproco nel nonsense e nell’irresponsabilità, del proiezionista che si lascia andare all’ardore della passione, dei personaggi e del film stesso che non rispettano le regole basilari del cinema, specie di quello classico. Nel cinema moderno il ribaltamento del dogma della verosimiglianza apre poi la porta al fiorire di svariate istanze metalinguistiche. Da un lato vi sono le “nuove ondate” cinematografiche, come quella francese, ove la presenza autoriale si manifesta marcatamente fuori e dentro il film, in una relazione stretta. Il cinema di Jean-Luc Godard per esempio, fin dal suo film-manifesto À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960), realizza con una moltitudine di espedienti formali e narrativi una nuova modalità di cinema il cui primo obiettivo è rivelare se stesso. Lo fa per esempio con l’introduzione di jump e hard cut, tagli di montaggio che non rispettano più una segmentazione logica del discorso filmico (così nascondendo loro stessi in funzione della sintassi narrativa), ma invece irrompono con un ritmo che parrebbe casuale. Lo fa con sistemi di luce del tutto innovativi, che rimpallano sulla cinepresa o che sezionano fotograficamente l’inquadratura elaborando una dialettica visibile-non visibile che sembrerebbe controintuitiva. Lo fa narrativamente, ponendo in relazione due personaggi la cui caratterizzazione è scarna, quasi come se dall’attorializzazione volesse retrocedere all’attanzializzazione, e che si avvicendano in atmosfere fra il noir e l’amoroso ogni tanto nuovamente parlando con la macchina da presa (dice Jean-Paul Belmondo allo spettatore: «Se non vi piace il mare, se non vi piace la montagna, se non vi piace la città… andate a quel paese»). Elisabeth Bronfen, Crossmappings. On Visual Culture, I.B. Taurus, London-New York 2018, p. 90, in effetti sostiene che il film parodizzando determinati stilemi cinematografici ne dichiara l’ammirazione.

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La congerie di elementi metalinguistici che si interfacciano l’un l’altro in questo come in buona parte dei film del cinema moderno europeo pone in essere da un punto di vista destinale molti problemi: come credere, attivando la sospensione dell’incredulità, alle vicende vissute dai personaggi, al fatto che essi “vadano per davvero verso qualche direzione”, quando il film continua a schiaffeggiarti urlandoti la propria finzionalità e impedendoti l’immedesimazione? È proprio questo, com’è noto, l’obiettivo della Nouvelle Vague, e cioè quello di mettere in crisi le euristiche cinematografiche consolidate nei decenni precedenti. Così anche la destinalità che emerge risente della nuova poetica distruttiva e mira a destituire tutta la consolazione esistenziale che in precedenza ci si era impegnati a costruire. Se il cinema delle origini voleva attrarre o stupire, e quello classico voleva lenire le preoccupazioni dello spettatore creando mondi ad hoc, ordinati secondo metafisiche rasserenanti per le quali l’incedere degli eventi intrafilmici era governato da logiche altrettanto intrafilmiche (una coerenza metafisico-enunciativa), e così i film erano ambienti protetti in cui ci si poteva immergere nella comodità della poltrona cinematografica, gioendo del distacco, con il cinema moderna tale distacco decade, ciò che succede nel film è palesemente determinato da chi sta fuori dal film (il regista, il montatore, lo sceneggiatore, l’attore…), e lo spettatore non può che risultare scaraventato in un mondo a metà, dove è impossibile definire chi è determinante e chi è determinato, in un tentennamento che lo vede incastrato nel mezzo. Dall’altra parte del mondo, pochi anni dopo, si genera il movimento della Nuova Hollywood, come risposta spontanea alle Nouvelle Vague europee, che a sua volta pone in essere una crisi della destinalità codificata, questa volta rispetto al genere. Un genere infatti «nasce dall’astrazione da una serie di testi di una quantità significativa di pertinenze condivise»28. Tali pertinenze, che codificano il genere, si fanno enciclopedia, e quindi territorio di conoscenza comune, utile a ordinare il reale. Così anche il genere ha in sé della destinalità, nella misura in cui quando lo si riconosce in qualche modo si sa già cosa aspettarsi, si ha un insieme precompilato di situazioni possibili, si ha un ventaglio probabilistico relativo a “come andranno le cose” e da tale ventaglio si elabora una specie di copia utile a decodificare la realtà.

Il genere determina l’incedere degli eventi, sia nelle atmosfere, che non vanno mai lette come meri contorni della narrazione ma come elementi che concorrono al suo sviluppo (il fatto che ci sia una tempesta fuori dalla casa non solo fa paura, ma anche rende difficoltoso uscire dalla casa stessa), sia nel percorso narrativo (quando si riconosce una commedia brillante, guardando un film di Ernst Lubitsch, si sa già in qualche modo che ci sarà un avvicendamento con degli equivoci, e che però il finale tendenzialmente non sarà tragico). Con la Nuova Hollywood i generi si mescolano violentemente, e la destinalità del genere decade. Film come M*A*S*H (Robert Altman, 1970) mettono insieme guerra e commedia, i film di Sam Peckinpah, come il thriller Straw Dogs (Cane di paglia, 1971) o il western Pat Garrett and Billy the Kid (Pat Garrett e Billy the Kid, 1973) abbracciano toni dark mai visti prima, in opere come The French Connection (Il braccio violento della legge, 1971, di William Friedkin) la brillantezza del poliziesco si fa neorealistica, il dramma assume toni modernisti-psicologici come in One Flew Over the Cuckoo’s Nest (Qualcuno volò sul nido del cuculo, Miloš Forman, 1975) o Dog Day Afternoon (Quel pomeriggio di un giorno da cani, Sidney Lumet, 1975), la fantascienza diviene meditativa come in Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, Steven Spielberg, 1977) o Blade Runner (Id., Ridley Scott, 1982), e così via. Gli autori dell’era, che aprono le porte al cinema postmoderno che seguirà, lavorano proprio nella “firma” delle loro pellicole a partire da un’idea di autorialità, per renderle riconoscibili in quanto di questo o quel regista, spesso anteponendo questa logica a quella del botteghino. Così destinalmente una surdeterminazione autoriale extradiegetica si incunea nella diegesi29. È infine in epoca postmoderna che un filone peculiare, in cui l’autore subentra come personaggio cardine del film, va a nascere, spostando verso un nuovo asse l’attività inferenziale dello spettatore. Questi, ormai abituato dagli esperimenti del cinema moderno e delle “nuove ondate”, sedotto dalla capa-

28 Bruno Surace, Da morire dal ridere. Ideologemi della catastrofe cinematografica e sue declinazioni tragicomiche in Vincenzo Idone Cassone, Bruno Surace, Mattia Thibault (a cura di), I discorsi della fine, cit., p. 132.

Non solo nei registi già citati, ma anche in molti altri come almeno anche George A. Romero, George Roy Hill, John Cassavetes, Franklin J. Schaffner, Boris Sagal, John Schlesinger, Stuart Hagmann, Alan J. Pakula, Bob Fosse, Bob Clark, Martin Ritt, Bob Rafelson, Ralph Nelson, Walter Hill, David Cronenberg, Arthur Penn, Roger Corman, Peter Yates, George Lucas, Richard C. Sarafian, Hal Ashby, Costa-Gavras, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Jerry Schatzberg, Sydney Pollack, John Boorman, Monte Hellman, Brian De Palma, Michael Cimino, Woody Allen, John Milius, John Landis, John Carpenter, Terrence Malick, Roman Polański.

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cità del film di rivelarsi tale come nel finale di E la nave va (Federico Fellini, 1983), abituato all’idea di film nel film da drammi sentimentali come The French Lieutenant’s Woman (La moglie del tenente francese, Karel Reisz, 1981), avendo assimilato parabole cinefile in cui cinema horror e orrori della realtà si fondono come in Targets (Bersagli, Peter Bogdanovich, 1968), non ha più problemi nell’associare la finzionalità palesata del film a forma di godimento, facendosi coinvolgere dai metalinguaggi e sentendosi parte della costruzione del senso del film stesso.

Partiamo dunque da Stranger than Fiction (Vero come la finzione, Marc Forster, 2006), dramma fantastico con protagonista Harold Crick (Will Ferrell, attore comico già incontrato in precedenza), uomo grigio che lavora come esattore per il fisco scandendo la sua vita con geometrica regolarità. Egli è solo uno dei quattro poli che si avvicendano nel film, assieme a Ana Pascal (Maggie Gyllenhaal), pasticciera ribelle di cui si innamora dopo un controllo fiscale, il professor Julius Hilbert (Dustin Hoffman), luminare di teoria letteraria, e Kay Effell (Emma Thompson), nevrotica scrittrice di successo e accanita fumatrice. Il film è tutto costruito su discrasie nella focalizzazione, a partire da un espediente metalinguistico fondamentale: l’archetipica voce fuori campo che, sin dall’inizio, narra la vita di Harold anticipando ciò che succederà e descrivendo i suoi atti, viene sentita dallo stesso protagonista. Egli è l’unico che può udirla, è una voce femminile, che spesso fornisce anche anticipazioni inquietanti, come quella relativa al decesso del protagonista (che egli tenterà di evitare rifugiandosi nell’immobilismo, chiuso in casa). Ana invece non sa nulla della condizione del protagonista, e sviluppa per lui una sorta di amore-odio, detestandone le ossessioni per l’ordine ma trovando adorabile la sua persona. Quando Harold si rende conto della sua strana condizione, non riuscendo a risolverla in sede medica decide di rivolgersi, convinto ormai di essere protagonista di un romanzo, al professor Helbert. Questi, pur non sentendo la voce fuori campo, gli fornisce la sua assistenza, spiegandogli con atteggiamento strutturalista come egli debba cercare nelle ricorrenze della sua vita dei segnali per comprendere se si tratti di una tragedia o di una commedia, le strutture narrative verso le quali alla fine qualsiasi storia volge, e sperare che la risposta sia nella seconda (così si accaserà, anziché morire).

Nonostante i segni non siano buoni Harold non si dà per vinto e infine scopre che è la scrittrice Kay Eiffel la sua autrice, e che la voce che sente corrisponde al momento simultaneo in cui lei scrive la sua storia, che è destinata a concludersi con la morte del personaggio, affinché il libro diventi un capolavoro. Tuttavia Harold riesce a ottenere un colloquio con l’autrice, e, dopo averla convinta di essere il personaggio scaturito dalla sua macchina da scrivere, questa si impietosisce risparmiandogli la vita nel libro (e così nella realtà), a discapito della riuscita del suo romanzo che terminerà quindi con un mediocre happy ending. Dalla trama esilmente riportata poc’anzi risulta evidente il grande portato teorico del film, che camuffa sotto le spoglie della commedia leggera molte questioni rilevanti. Anzitutto il metalinguaggio, o meglio il “metalinguismo”, non è più componenziale ma sostanziale, nella misura in cui permea il film dall’inizio alla fine. L’autorialità non è qui questione extradiegetica ma del tutto intradiegetica: esiste un destinante manifesto, la scrittrice, e un destinatario, Harold, e il testo si gioca nella tensione fra questi due poli in misura del tutto destinale. La presenza poi di un professore di letteratura che funge da aiutante, e di una donna amata che è assieme sanzione positiva archetipica ed elemento disturbante, è del tutto in linea con la messa in scena di un’opera sostanzialmente autoriflessiva. Ma veniamo al nocciolo: la destinalità. Harold non è presentato inizialmente come predestinato, dal momento in cui ciò che gli accade e ciò che è sono frutto di un libro che si sta scrivendo nel momento in cui egli vive (non di un libro già scritto). C’è quindi una condizione di simultaneità fra chi destina e chi è destinato, più che una predestinazione. Harold è tuttavia del tutto eterodestinato, da un’autrice che è parte della stessa diegesi. La sua destinazione peraltro non gli è celata, tant’è che la voce fuori campo gli anticipa addirittura la data del suo decesso. In un caso del genere si comprende come affidarsi troppo rigidamente al modello greimasiano sortisca risultati difettosi. Se si tenta di irreggimentare il film all’interno di una logica destinante  soggetto  oggetto si corre il rischio di annichilire l’intero sistema di motivazioni presenti nella storia. Basilarmente si potrebbe dire che la scrittrice è la destinante di Harold, ma tuttavia ella lo destina verso un futuro che lui non gradisce, e pertanto al contempo fungerebbe da antisoggetto. L’oggetto di valore di Harold è infatti la pasticciera, che non può raggiungere, per la quale compie le sue azioni,

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e quindi egli è piuttosto destinante di se stesso. Il professore dal canto suo sarebbe l’aiutante, ruolo attanziale a cui pare aderire in maniera piuttosto calzante. La stessa pasticciera di fatto non è unicamente un oggetto di valore, ma manifesta un’agentività, cioè modifica la psiche di Harold, tramutandolo da personaggio abulico a sognatore (cosa che fa perché capisce di provare qualcosa per lui, e quindi in un certo senso questa è la sua missione, e il fatto che lui cambi è il suo oggetto di valore). Insomma, nel film vige una multiprospetticità che esula da un incasellamento formale uniforme. Il modello greimasiano dunque, che pure ci aiuta a identificare i ruoli attanziali e che individua attraverso il loro rapporto le logiche di funzionamento della narrazione, va estrapolato da un contesto statico e considerato come una struttura dinamica, che «esprime l’oscillazione dei valori e si converte in una sintassi attanziale centrata sulla circolazione dell’oggetto-valore»30. Il movimento relazionale fra gli attanti, le logiche di potere che si instaurano fra essi, questi sono i requisiti della categoria che definiamo destinalità, che come abbiamo visto sin qui è multiforme ma sempre basta su un dinamismo interno, su rapporti di accettazione e resistenza che partono proprio dagli attanti e dalla loro relazione con l’ambiente narrativo. Se Antonius Block avesse passivamente accettato l’arrivo della Morte, allora non avremmo avuto Il settimo sigillo. I risultati possono essere molteplici, e la destinalità non ne fornisce alcuno a priori, essendo essa una struttura inquieta che agisce su vari livelli e che si estrapola quando il testo è compiuto, sposando un assetto assiologico-ideologico. Ciò vale sempre: ogni qualvolta un testo si compie (un film finisce), il suo compiersi conclude una destinalità – un’idea di destino, nello spostamento dal piano strutturale a quello interpretativo. Tale atto avviene tramite il ponte dell’ideologia. In Vero come la finzione dunque ogni personaggio di fatto può assumere il ruolo di destinante, e tuttavia, affinché la vicenda non si aggrovigli fino all’esplosione (figura destinale che significa l’irreversibile collisione dei destini in una fatale singolarità), alla fine qualcuno deve prevalere. Narrativamente parlando chi vince sugli altri, sconfiggendo la propria predestinazione, è Harold, ottenendo ciò che vuole. Tuttavia il dominio destinale è mantenuto a tutti gli effetti dalla scrittrice, e ciò si evince non solo sul piano narrativo, Paolo Fabbri, Introduzione in René Thom, Morfologia del semiotico, Aracne, Roma, 2006, p. 13.

ma anche su quello formale. L’ultima sequenza del film vede Harold dirigersi come tutte le mattine alla fermata del suo bus, e venire travolto dopo aver spinto via un bambino che altrimenti sarebbe stato investito. La scena è presentata con un montaggio alternato, da un lato Harold che sembra giungere alla sua fine, dall’altro la scrittrice nel suo studio, nervosa, che mentre stila le ultime pagine del suo romanzo le fa letteralmente avvenire. Su un piano meta- di fatto la scrittrice non solo fa avvenire il romanzo, ma fa avvenire anche il film, almeno in tutte le scene in cui vediamo Harold (le scene in cui c’è lei invece sono affidate a uno scrittore più alto, cioè il regista). Il montaggio alternato stabilisce un legame fra i due ordini di eventi, e l’impianto narrativo definisce la sudditanza di quelli di Harold su quelli della scrittrice. Poco dopo l’azione si sposta nell’ufficio del professore, a cui la stessa scrittrice porta il dattiloscritto. Intanto, nuovamente con un montaggio alternato, siamo trasportati in ospedale. Harold è malconcio, ma vivo, e il dottore – un antipatico figuro – gli elenca la serie di improbabili coincidenze che gli hanno risparmiato la vita (fra cui la rottura del suo orologio durante l’impatto, con il conseguente conficcarsi di una scheggia su un’arteria impedendo un’emorragia mortale). Il dottore stesso epiteta Harold come uomo fortunato, che ha, così egli dice, «culo». Il professore intanto legge il finale di fronte alla scrittrice, confermandole che il libro è niente più che un mediocre romanzo, e che tale condizione è dovuta proprio alle ultime pagine, epilogo di un romanzo su un uomo che sta per morire ma che, a questo punto, non muore più. Harold dunque non muore non perché abbia lottato e vinto contro il destino, ma perché un destinante lo ha letteralmente risparmiato. Ciò fa intendere come di fatto, pur avendo salva la vita, la sua esistenza continui a essere predestinata da una figura più alta (oppure che la sua esistenza si “liberi” con la fine del libro, oppure ancora che si trasformi in una sorta di stasi perenne). Formalmente, di nuovo, tale dominanza è sancita anche dalla permanenza della voce fuori campo, a tutti gli effetti un elemento grammaticale dello specifico filmico, della scrittrice stessa anche nel finale dell’happy ending. Se Harold avesse sancito definitivamente la sua autodeterminazione, allora sul finale l’avremmo visto ricongiungersi con la sua amata pasticciera magari prendendo in mano il contesto enunciativo del discorso; egli rimane invece in un contesto di enunciazione enunciata, cioè egli non è enunciatore, ma enunciato. Chi ha in mano l’enunciazione (che qui va di pari passo con la focalizzazione), ha in mano la destinalità, cioè la scrittrice.

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Metaforicamente proprio sulla sequenza finale si spendono tesi rilevanti. L’incontro fra la scrittrice e il professore è in effetti il momento di confronto fra praxis e theoria, fra negotium e otium, in cui l’atto testuale viene sottoposto al vaglio interpretativo. La salienza del professore, prima relegato a ruolo di semplice aiutante, emerge qui con dirompenza poiché egli diviene l’istanza giudicante, cioè quella estranea agli eventi e che tuttavia ha il potere di deciderne lo statuto e la dignità simbolici. Ed è interessante notare come tutta la partita si giochi sul finale del libro, cioè sul finale del film, e sulla sua coerenza rispetto al corpo centrale. In effetti nella nostra trattazione i finali abbondano. Non è una scelta casuale. Il finale è la fine ma anche il fine, cioè il momento in cui la destinalità è rintracciata facendo prevalere alcune opposizioni rispetto ad altre. Senza l’identificazione di una/un fine (paratestuale, testuale, pretestuale, comunque sempre icastica/o) la destinalità resta sospesa, poiché è impossibile definire i rapporti di causa-effetto, azione-reazione. Come sostiene Žižek l’evento si ha quando si identifica un effetto che retrocede la sua causa, cioè che la attiva retroattivamente31. L’evento dunque è un dopo che significa il suo prima, in termini destinali. Il finale del film è il dopo tutto, il momento di resa dei conti, della catarsi, delle spiegazioni, del godimento definitivo32. Così è sulla fine che teoria e pratica si confrontano, che semiotica e testo trovano una soglia di discussione, che i rapporti di dominanza e sudditanza destinale si assestano33. Cfr. Slavoj Žižek, Evento, tr. it. UTET, Novara, 2014. Ecco perché le soddisfazioni e le delusioni più grandi arrivano sui finali. Ciò è particolarmente evidente nell’era delle serie televisive, che coinvolgono grandi masse di spettatori per anni producendo spesso scandali proprio dopo l’ultimo episodio. Se questo non risulta costruito come il pubblico desiderava genera immediatamente forti reazioni avverse da parte dei “fandom”, a discapito della qualità del prodotto nella sua interezza. Per una “critica sintomatica dei finali” cfr. Emanuela Piga Bruni, Romanzo e serie TV. Critica sintomatica dei finali, Pacini Editore, Ospedaletto, 2018. 33 Sulla tv cfr. anche Douglas L. Howard, David Bianciulli (eds.), Television Finales. From Howdy Doody to Girls, Syracuse University Press, Syracuse, 2018. Sul cinema esiste una significativa bibliografia sui finali dei film: cfr. Richard Neupert, The End. Narration and Closure in the Cinema, Wayne State University Press, Detroit, 1995; Bruno Di Marino, L’ultimo fotogramma. I finali nel cinema, Editori Riuniti, Roma, 2001; Veronica Innocenti, Valentina Re (a cura di), Limina: le soglie del film/Film’s Thresholds international Film Studies Conference, Forum, Udine, 2004; Michaela Veronesi, Le soglie del film. Inizio e fine nel cinema, Kaplan, Torino, 2005; Giorgio Bertone, The End. Il finale dei film, Il melangolo, Genova 2014. 31

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Finali e finalità Storie di fini, destini e autori, molto meno melense di Vero come la finzione, sono anche quelle di Misery (Misery non deve morire, Rob Reiner, 1990), ancora una volta tratto da un romanzo di Stephen King (1987), e In the Mouth of Madness (Il seme della follia, 1994), sublime capitolo conclusivo della cosiddetta Trilogia dell’Apocalisse di John Carpenter, preceduto da The Thing (La cosa, 1982) e Prince of Darkness (Il signore del male, 1987). Misery non deve morire è in effetti la riflessione di Stephen King sul rapporto fra autore, testo e lettore, un rapporto che spesso si tende a non considerare se non parzialmente (autore-testo | testo-lettore). Lo scrittore Paul Sheldon (James Caan), divenuto famoso per la serie di romanzi in stile “Regency” con protagonista Misery Chastain, decide di dedicarsi a scritture più alte e così “uccide” il suo personaggio facendolo morire di parto nell’ultimo libro. Quando Paul ha un incidente d’auto in seguito a una bufera di neve viene soccorso dall’infermiera Annie Wilkes (Kathy Bates), che lo porta nella sua remota baita. Qui fra i due si instaura però un insano rapporto. Annie è in realtà una donna sola e instabile, ossessionata dal personaggio di Misery di cui rifiuta la morte (che scopre leggendo la copia del romanzo che lo scrittore aveva con sé al momento dell’incidente), e così intrappola Paul e lo costringe, seviziandolo, a scrivere un nuovo romanzo in cui si rivelerà che la morte di Misery non era vera, un po’ come Sir Arthur Conan Doyle, che – almeno così vuole la leggenda – ben dieci anni dopo l’uscita de L’ultimo caso (1893), in cui l’investigatore muore, si vide costretto a risuscitare il suo personaggio, beniamino di molti lettori34.

Misery non deve morire Una soluzione consimile è adottata anche nella serie tv contemporanea Sherlock (ideata da Steven Moffat e Mark Gatiss, 2010- in corso).

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È qui nuovamente il finale il momento in cui la destinalità prorompe sul personaggio, e il lettore può non voler accettarla. L’infermiera Annie reagisce in maniera violenta, costringendo l’autore a esercitare il suo potere nella narrazione, e così riconoscendoglielo. Oggi, nell’epoca delle “culture del remix” a tale esigenza si ovvia per esempio con la fan fiction, la storia (ri)scritta dai lettori, «manifestazione della lotta in corso fra produttori/autori e fan per l’attribuzione di significato»35. La stesura di una storia alternativa da parte dei fan è il rifiuto di una destinalità, o l’adempimento a un desiderio di un suo ampliamento, e così il web straripa di paraletteratura in cui i finali di libri, film, videogiochi, vengono riscritti secondo il desiderio delle persone. Ma, tornando, al film, ciò che avviene è uno spostamento dal lato del testo al lato della sua fruizione, così come suggerisce Bettetini36, che corrisponde in questa sede al momento di presa di coscienza della destinalità interna al testo (destinalità incerta sino al finale). Non è dunque Misery che mette in discussione se stessa, ma la sua lettrice, che rifiuta ogni ragione e che si trincera nel mondo della finzione devastando quello della realtà del suo scrittore. Ella non scrive di suo pugno un finale alternativo, come si fa oggi con le fan fiction, poiché comunque riconosce all’autore il potere destinale assoluto, demiurgico, divino, di intervento sul mondo che egli ha creato. Al contrario ne Il seme della follia le vicende assumono i tratti di Vero come la finzione, virati però su toni molto più cupi. Qui il protagonista è John Trent (Sam Neill), investigatore assicurativo che viene mandato nel paesino di Hobb’s End alla ricerca dello scrittore scomparso Sutter Cane (Jürgen Prochnow), una sorta di alter ego di Stephen King – scherzosamente menzionato anche nel film – sempre più famoso nel mondo per i suoi romanzi dell’orrore, che paiono nascondere dei segreti esoterici. Il protagonista così, da uomo devoto alla più stretta logica, sarà costretto man mano ad accettare l’imponderabile: Sutter Cane è divenuto una sorta di dio-Caronte che sta traghettando il mondo verso la fine, ed egli stesso non è altro che il protagonista di uno dei romanzi, l’ultimo, dello scrittore. Come Harold Crick anche John Trent non accetta la sua condizione, come Harold Crick prova a stabilire un principio

di autodeterminazione, e come Harold Crick alla fine si comprende come ciò sia impossibile, in questo caso senza lieto fine, e anzi con la raggiunta pazzia di Trent che scoppia in una risata isterica, tramutata in pianto, giunto in un cinema in cui viene proiettato lo stesso film che lo spettatore ha appena visto (la locandina fuori è quella de Il seme della follia, diretto da John Carpenter). È la postmodernità in tutta la sua foga, che affligge l’uomo manifestandosi in un sadico costruttivismo esistenziale: When passing a movie theater, John sees that In the Mouth of Madness is showing. […] The moving images of the diegetic screen mirror earlier scenes from ‘our’ film. John begins to laugh in an insane way, but after some moment his laughter turns into desperate sobbing. John has realized that his reality was nothing but a mediated reality. And so is ours. In the same way that John starts to cry in the moment of realizing the unreality of his existence, his lack of getting in contact with the real, so may we, as all of our existence is nothing but constructed 37.

La lettura di Fuchs, ancorché vagamente sinistra, convoglia pienamente l’ossessione postmoderna per la presunta mancanza di controllo sulla propria vita, intesa come risultato di un coacervo di costruzioni, a opera di uno o più autori. Vero come la finzione e Il seme della follia, film a pieno titolo postmoderni, convogliano proprio questa filosofia, declinandola in termini metafisici. Come abbiamo visto esistono altri modi per veicolare lo stesso sentimento di straniamento, come la distopia. Il film di John Carpenter inoltre spende molte energie nell’edificazione di un costruttivismo non solo narrativo, ma anche formale, dove ancora una volta il rapporto fra immagine e contenuto produce una semiosi aumentata, su qualche rispetto (narrativo, emotivo, fisiologico). John Trent come abbiamo detto esperisce un obbligato percorso di autocoscienza che lo porta a una progressiva dequalificazione ontologica di se stesso, da persona a personaggio, da reale a fittizio. È in effetti un itinerario che sembrano battere o illuminare molti testi postmoderni. In Funny Games la discrasia nella focalizzazione fra Peter e Paul, che si comportano come se

Isabella Pezzini, Il testo galeotto, Meltemi, Roma, 2007, p. 146. L’attenzione al soggetto enunciatario e al suo contesto di fruizione (fuori dal testo) è una delle più rilevanti specifiche della semiotica degli audiovisivi di Gianfranco Bettetini, La conversazione audiovisiva. Problemi dell’enunciazione filmica e televisiva, Bompiani, Milano, 1984.

37 Michael Fuchs, A Horrific Welcome to the Desert of the Real: Simulacra, Simulations, and Postmodern Horror in Petra Eckhard, Michael Fuchs, Walter W. Hölbling, Landscapes of Postmodernity. Concepts and Paradigms of Critical Theory, LIT, Wien-Berlin, 2010, p. 86.

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sapessero di essere in un film, e la famigliola che invece ne è ignara, determina le logiche di potere interne al film stesso. In altri film, come in quelli di Woody Allen, il fatto che invece alcuni personaggi dialoghino con la macchina da presa non ne garantisce una posizione dominante sul piano fattuale, ma certamente sancisce un approccio cinico all’esistenza, che può portarli a una vita meno dolorosa (o più coscienziosamente dolorosa). John Trent invece vive la sua condizione unicamente nel dolore, non accettandola prima, impazzendo poi; a tutti gli effetti la degradazione ontologica ha in lui un effetto particolare, comportando la rottura di ogni enciclopedia di riferimento e la totale risemantizzazione di una realtà che prima credeva retta su logiche ferree e matematiche, e che ora invece scopre predeterminata da uno scrittore demoniaco che si diverte a popolare il mondo di creature lovecraftiane. Questa presa di coscienza segue nel film alcune tappe, ed è anticipata da una serie di visioni di tipo splatter, in cui John vede persone tramutate in esseri orribili e un po’ kitsch, ma non solo. In una piccola ma magistrale scena il protagonista è di ritorno in autobus dalla cittadina di Hobb’s End, dove già molte inspiegabili cose sono successe. Gli è stato consegnato dallo stesso Sutter Cane il suo ultimo libro, da recapitare all’editore, libro dal quale cerca disperatamente di liberarsi senza riuscirvi. In una scena cerca di recuperare la sua lucidità mentale, ma Sutter Cane si è ormai impadronito anche dei suoi sogni, un po’ come il Freddy Krueger di A Nightmare on Elm Street (Nightmare – Dal profondo della notte, Wes Craven, 1984)38. Egli gli compare accanto sul bus e gli dice di essere ormai divenuto un Dio, e quando Trent gli risponde che Dio non scrive libri dell’orrore egli replica che il suo colore preferito il blu. Uno stacco ci mostra Trent dormire sullo stesso bus e svegliarsi di colpo; egli si guarda attorno, Sutter Cane non è più lì e al suo posto siede un’ignara vecchietta, tuttavia l’intero bus, ma anche l’intera fotografia dell’immagine, sono ora a tinte bluastre. John scoppia a urlare per essere di nuovo svegliato, dalla vecchietta di prima. Il suo era un sogno nel sogno. La sua espressione è sconvolta, poiché sta rendendosi conto che gli strati di realtà si avviluppano l’un sull’altro, e lui non può esercitarvi alcuna forma di controllo (il fatto che non possa disfarsi del libro è solo una delle prove)39. Egli è nient’altro che un personaggio. Di un libro. E

di un film. Anche l’immagine cinematografica che egli stesso abita gli è contro, non solo narrativamente, ma fino al livello basilare dei formanti plastici (è la sostanza dell’espressione che muta virando il setting sul blu).

Il seme della follia

Il rapporto fra controllo del proprio sé e metacinema è cardinale anche nella saga di Scream, sempre di Wes Craven. Il rapporto fra Craven e Il seme della follia è indagato in Michelle Le Blanc, Colin Odell, John Carpenter, Kamera, Harpeden, 2011. 39 Cfr. Bruno Surace, «Cinema, Allospaces and the Unfilmable», cit.

In una sequenza precedente Trent si trova faccia a faccia con Sutter Cane, all’interno di un’inquietante chiesa a Hobb’s End. I due hanno una conversazione all’interno di un confessionale, e mentre Trent ancora tenta di razionalizzare ciò che gli sta accadendo Sutter Cane gli dice che i suoi libri saranno l’inizio di una nuova religione (di fatto quindi una religione del libro), basata su una rinnovata cognizione dell’orrore. Lo scambio fra i due inizia nel confessionale e termina nello studio di Cane, senza che però che vi siano ellissi, poiché lo spazio-tempo è ormai piegato. Cane gli consegna il suo ultimo libro, dicendo a John che egli deve darlo all’editore. È nel momento in cui John riceve l’ordine che qualcosa si rompe, e infatti la sua risposta è uno stupito «Devo?», a cui Cane replica dicendogli che egli stesso è una sua creazione, così come la cittadina, inesistente prima che la scrivesse. Questo è il momento in cui Trent assimila la perdita totale del controllo, matrice della sua personale “religione della logica”. Egli è la radice del cortocircuito ontologico, il personaggio che si crede persona e che deve fare i conti con la scomoda rivelazione, ma che pure è costretto a diffondere il male nel mondo attraverso un nuovo libro sacro, manifesto di una soteriologia ribaltata che non può che assecondare, volente o nolente.

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immagine a interrompere la continuità filmica come in Funny Games, ove tale espediente funge da cesura netta. Il fade out sul nero fa intendere come John sarà costretto per sempre in quei panni, e non raggiungerà mai la condizione superomistica di Peter e Paul, rimanendo per sempre nelle grinfie del suo destinante assoluto, Sutter Cane, fino alla fine del mondo, cioè del libro, cioè del film.

Il seme della follia L’inghippo, la differenza fra Trent e Peter e Paul (dai nomi santi) in Funny Games, sta proprio nell’accettazione di uno statuto destinale che riassesta i rapporti di potere fra il personaggio e l’evento. In ambedue i film peraltro la struttura macrotestuale è di ordine circolare, a significare un uroboro destinale che si nutre di se stesso. In Funny Games i due seviziatori, dopo aver sterminato la famiglia nel tempo che si erano ripromessi, suonano alla porta di un’altra casa, chiedendo delle uova, stesso pretesto che avevano adoperato all’inizio del film, lasciando così intendere che il loro macabro giochino ricomincerà da capo. Paul peraltro, nell’entrare con la sua scusa nella casa delle sue nuove vittime guarda in camera, e su tale fermo immagine partono i titoli di coda, introdotti dalla disturbante colonna sonora Bonehead, scritta da John Zorn e suonata dai Naked City. La scena finale de Il seme della follia è l’esatto opposto. Qui Trent, mentre il mondo va distruggendosi, rivede la sua vita al cinema, e lo spettatore rivede le scene che ha visto nei novanta minuti precedenti, provando un misto fra eccitazione e senso del ridicolo. Il montaggio è sempre più violento, a coronare la «fragmentary structure that is designed to disorientate the viewer»40, e le immagini allo schermo viste da John sono isotopizzate a partire dal lessema “realtà” e i suoi derivati, che il protagonista pronuncia più volte nel film. La circolarità sta nel fatto che il film che John vede non potrà che terminare se non nel momento in cui egli entrerà nel cinema, e così ripetersi ad libitum (echeggiano le logiche del loop viste in precedenza). Tuttavia il personaggio non guarda in camera, non dà segno di voler stare al gioco, ma anzi ride e piange istericamente. Anche qui l’ultima inquadratura è un primo piano, di lui che urla, e non ce n’è nessun fermo 40

Michelle Le Blanc, Colin Odell, John Carpenter, cit. p. 13.

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Il seme della follia Di tutto il film l’immagine più indicativa è proprio quella di John appena seduto nel cinema vuoto, l’ultimo cinema del mondo (per citare un corto di David Cronenberg)41, di un mondo dominato ormai dalla violenza, e che 41 Il cortometraggio è contenuto nella raccolta del 2007 Chacun son cinéma ou Ce petit coup au cœur quand la lumière s’ éteint et que le film commence, e si intitola At the Suicide of the Last Jew in the World in the Last Cinema in the World (Il suicidio dell’ultimo ebreo al mondo nell’ultimo cinema del mondo).

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pure continua, paradossalmente, a proiettare film in sale senza pubblico. Il protagonista, seduto, ha addirittura un fresco cartone di popcorn in mano – ecco la massima ironia di John Carpenter, tutta convogliata in un oggetto – a significare una desacralizzazione del film stesso, da non prendere sul serio al punto di crederci. In questo momento l’espressione di John, di fronte allo schermo, di fronte al reificarsi dell’eterotopia, assume per un momento un tratto inebetito. La somma recitazione di Sam Neill convoglia in quell’espressione la soglia, il momento di realizzazione, il momento in cui disperazione e follia si mescolano l’un l’altra nella transizione. Così Carpenter corona forse la sua più ironica delle opere: This is the big joke – In the Mouth of Madness is exactly the kind of horror film that is unlikely to invoke what it purports. Carpenter criticises the argument that films force people to behave in certain ways by suggesting that his film could do so42 .

Johnston, 1994), con la star Macaulay Culkin nei panni del piccolo Richard, ma anche Christopher Lloyd, sempre a suo agio in film stralunati e fantasiosi. Qui il piccolo Richard è un bambino che trova rifugio in una biblioteca e che, grazie a un sortilegio, si tramuta in cartone animato e vive una straordinaria avventura in compagnia di tre libri umanoidi, Terrore, Avventura e Fantasia. Il film, oggi poco ricordato e all’epoca non particolarmente apprezzato dalle critiche, ha anzitutto il pregio di collocarsi in una delle fasi del cinema oggi ormai abbandonate per via dei progressi della tecnica, eppure di rilievo, cioè quelle che mescolano live action e cartone animato 2D43. Ben più importante qui è che tale formula sottende la scelta volontaria del personaggio di degradarsi su un livello finzionale, modificando anche il proprio aspetto, sancendo l’opposto di quanto abbiamo estrapolato da Carpenter: è la realtà la gabbia, nella finzione si è padroni del proprio destino, in forza anche di un regime ove le conseguenze hanno un peso diverso. Questa considerazione apre il varco a tutta una serie di riflessioni relative al rapporto fra finzione e realtà, che in qualche modo giustificano l’esistenza del cinema fin dai suoi albori, ma che anche si declinano su altri modi di produzione testuale, come quello dei videogiochi, basati sul pattern erase and rewind 44, muori e riparti, e che pure con ciò non garantiscono come prerogativa una destinalità in mano al giocatore. Anche la finzionalità è soggetta a regole e risulta “programmata”, e infatti nei videogiochi la libertà di azione è soggetta a precisi paletti pragmatici (movimenti possibili, luoghi visitabili, etc.), anche in quelli di tipo open-universe e sandbox, dove è possibile editare il proprio mondo senza uno svolgimento lineare precompilato, come nell’oggi celebre Minecraft, ma forse anche come gli scacchi ove la miriade di combinazioni possibili soggiace a uno schema combinatorio indiscutibile (per cui l’alfiere, per esempio, non potrà mai spostarsi dal suo colore di partenza).

Il seme della follia Lo stesso anno de Il seme della follia esce nelle sale anche un film di tono molto più giocoso, destinato perlopiù al pubblico infantile, The Pagemaster (Pagemaster – L’avventura meravigliosa, Pixote Hunt, Maurice Hunt, Joe 42

Michelle Le Blanc, Colin Odell, John Carpenter, cit., p. 102.

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43 Primo fra tutti il già menzionato Chi ha incastrato Roger Rabbit. Sono Giaime Alonge, Giulia Carluccio, in Il cinema americano contemporaneo. Laterza, Roma-Bari, 2015, a ricordarci tuttavia come l’ibridazione live action e cartone animato sia in realtà ben più antica, essendo appannaggio già del cinema muto, pur trovando una declinazione drammaturgica rinnovata proprio in Roger Rabbit. 44 Cfr. Vincenzo Idone Cassone, Erase & Rewind. Esplorando le catastrofi simulate in Vincenzo Idone Cassone, Bruno Surace, Mattia Thibault (a cura di), I discorsi della fine, cit.

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Rifu(g)gi Elaborare testi sui quali si proietta la propria autorialità è una delle strategie di costruzione di un simulacro destinale cui si può apporre un controllo, un destino dentro il proprio il destino. Ciò comporta una sorta di meta-sospensione dell’incredulità, per la quale ci si cela la destinazione primaria, quella della “vita vera”, per fingersi padroni di quella secondaria, quella del testo. Un’operazione bugiarda ma necessaria per sopravvivere al logorio della propria vita, come accade nel drammatico Luce dei miei occhi (Giuseppe Piccioni, 2001), che vede Antonio (Luigi Lo Cascio) fare l’autista a Roma ma vivere in un mondo parallelo fantascientifico, creato ad hoc come rifugio esistenziale e che adopera per re-interpretare il suo vissuto. Nel cinema postmoderno che riflette sul rapporto fra autorialità e destinalità un’altra coppia non può non essere trattata, e cioè quella composta da Charlie Kaufman, sceneggiatore e registra di raro estro, e Spike Jonze45, regista che con Kaufman ha lavorato molto. Nonostante ci si possa soffermare su diverse opere dei due autori, ci limiteremo qui a considerarne tre, Being John Malkovich (Essere John Malkovich) e Adaptation (Il ladro di orchidee), rispettivamente diretti da Jonze nel 1999 e 2002, entrambi scritti da Kaufman e considerabili come un’ideale bilogia, oltre che film che hanno sancito il successo del regista, e Synecdoche, New York, esordio dello stesso Kaufman nel 2008 alla regia46. Nei tre film che vedremo l’autorialità gioca un ruolo fondamentale e multistrato proprio nel suo rapporto con la destinalità. Essere John Malkovich è il primo lungometraggio come regista per Jonze e come sceneggiatore per Kaufman, e per entrambi è il film della ribalta. Si tratta della storia strampalata di un marionettista fuori dal mondo di nome Craig Schwartz (John Cusack), che scopre all’interno dell’edificio in cui lavora uno strano cunicolo dietro a un mobile situato al settimo piano e mezzo 45 Il regista eclettico fa parte di quel filone americano diffusosi dagli anni ’90 in poi che Claire Perkins in American Smart Cinema, Edinburgh University Press, Edinburgo, 2013, con una certa sagacia, definisce “Smart Cinema” (2012), in cui figurano per esempio anche autori come Paul Thomas Anderson, Wes Anderson, Todd Solonz e così via. Si tratta di un cinema giovane e intellettualistico, che non a caso è indicato da Camilla Sernagiotto, Hipster Dixit. Manuale per diventare un Hipster con i baffi, Fazi, Roma, 2013, come quel cinema da vedere per divenire “hipster”. 46 Un inquadramento filosofico dell’opera di Kaufman in David LaRocca, The Philosophy of Charlie Kaufman, The University Press of Kentucky, Lexington, 2011.

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(già di per sé spazio impossibile). Tale cunicolo, se attraversato, consente di entrare nella testa dell’attore John Malkovich, e di vivere un po’ di tempo nel suo corpo. L’esperienza extracorporea è presentata nel film come una soggettiva dell’attore dissolta in nero sui bordi dell’inquadratura, e infatti il protagonista non capisce immediatamente dove sia giunto, e si rende conto delle sue nuove sembianze solo quando passa di fronte a uno specchio.

Essere John Malkovich Inoltre, almeno inizialmente, il “visitatore” acquisisce le esperienze sensoriali di Malkovich ma non vi appone alcun controllo, rimanendo come un terzo occhio nascosto nell’io della star hollywoodiana. Craig così inizialmente decide di monetizzare la sua scoperta, creando un servizio clandestino a pagamento di utilizzo del cunicolo, e poi elabora il piano di stabilirsi definitivamente nel corpo dell’attore. Egli infatti è un marionettista rodato, e comprende che impadronirsi di Malkovich è un po’ come comandare una marionetta, e che in questa rinnovata veste potrà dimenticare il grigiore della sua vita precedente, fatta di un matrimonio disfunzionale con Lotte (Cameron Diaz), donna trascurata ossessionata dalle scimmie (tema che tornerà nella seconda sceneggiatura di Kaufman, Human Nature, diretto da Michel Gondry nel 2001), e dei continui maltrattamenti subìti dal suo amore non corrisposto Maxine (Catherine Keener)47. Naturalmente non mancheranno gli equivoci e gli intoppi, e si sco47

Sul film come interpretazione del fenomeno dell’alienazione socioculturale cfr.

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prirà che Malkovich è un corpo “ospite” utilizzato da una comunità di strani individui che assieme si trasferiscono di corpo in corpo perseguendo una sorta di immortalità48. Maxine e Lotte, la moglie e l’amata, si scopriranno lesbiche e costruiranno una vita assieme, e Craig per un equivoco finirà nel corpo della figlia della stessa di Maxine (avuta da Malkovich quando Craig vi era all’interno), rimanendo intrappolato per sempre, in un nuovo complicatissimo ruolo. La trama, come si può capire, è tortuosa, e convoglia una serie di problematiche che costituiranno la cifra di tutte le sceneggiature di Kaufman, sempre più cervellotiche. Vi sono il tema dell’io che non può trovare un posto nel mondo, della non-accettazione della realtà, del rapporto fra aspirazioni e possibilità, dell’inettitudine di matrice sveviana e dell’abulia. Il fulcro è sempre e comunque la possibilità o meno da un lato di decidere del proprio destino, dall’altro di esercitare un controllo su quest’ultimo senza invischiarsi in una spirale autodistruttiva ove la dimensione meta- distrugga la possibilità di una messa in ordine. I personaggi di Kaufman sono sempre grigi, ossessivi e repressi, e si trovano mescolati in vicende assurde di cui sono corresponsabili. Il loro tentativo di generare un ordine di cui siano padroni si scontra sempre con una degenerazione in cui la ricerca di una necessità egocentrata si fonde con un universo di possibilità. Sono personaggi che vivono una personale discrasia poiché tutti in qualche modo autori capaci di esercitare un dominio sulle loro rappresentazioni, ma oppressi dalla loro foga metalinguistica che li fa autoconsiderare come personaggi eterodiretti. Craig è un marionettista di grande talento, come si vedrà quando, sfruttando il corpo di Malkovich, da un lato lo riuscirà a governare annichilendone l’io originario, e dall’altro lo obbligherà a un cambio di carriera da attore a, appunto, marionettista di successo. Il protagonista de Il ladro di orchidee è addirittura lo stesso Charlie Kaufman (interpretato da Nicolas Cage che ne interpreta anche il fratello gemello Donald), e fa ovviamente lo sceneggiatore. Il protagonista di Synecdoche, New York è un geniale autore teatrale di nome Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman). Sono tutti e tre, in qualche modo, autori. In tutti e tre i film i pretesti più immaginifici vengono adoperati per mettere in scena la crisi

dell’io incapace di sopravvivere a se stesso e di determinarsi con cognizione, ma non si tratta mai di film “di genere”. Anche l’uso di dispositivi fantascientifici, come il cunicolo di Essere John Malkovich, è asservito in prima istanza a una funzione metalinguistica, ma anche metaforica, o meglio meta-metaforica, o meglio ancora metalettica49. In termini retorici la filmografia di Kaufman si configura come un gigantesco apparato costruito su una serie di metalessi che si ritorcono l’una sull’altra, a partire dal primo film: The metaleptic potential in Being John Malkovich could be described as belonging to the ‘homodiegetic’ kind. Controlling Malkovich like a puppet could be argued to constitute a metaleptic narrative act that creates a ‘narrative’ that belongs to the ‘world’ in which it is told50.

La dialettica marionettista-marionetta, cioè controllore-controllato, occupa in Essere John Malkovich uno spazio peculiare, fornendo una delle principali superfici metalinguistiche. Craig, il Master of Puppets, in una scena si esercita con uno dei suoi numeri. La marionetta è fisicamente triviale, come fosse un manichino di prova, se non per il volto che invece ricalca nella capigliatura e nei tratti quello dello stesso marionettista, configurandosi come suo doppio. La scena è presentata come una sorta di surcadrage, con l’inquadratura frontale di un sipario blu che si apre lasciando il campo allo spettacolo. La marionetta inizia così una sorta di danza in uno scenario domestico, fino a giungere a uno specchio in cui si guarda in faccia, inorridendo. Viene enfatizzato in questo momento il volto della marionetta, attraverso alcuni primi piani. Si tratta di un’operazione inconsueta, trattandosi di una forma d’arte solitamente giocata sulle movenze del corpo (principalmente braccia e gambe), e sull’assenza di una scala di piani (il marionettista tradizionale può al più agire, a dire il vero con poca possibilità di manovra, sulla profondità di campo). L’insistenza sull’espressione cogitabonda del fantoccio invece fornisce tutta la dimensione di incertezza relativa all’io del suo marionettista, che nel guardarsi allo specchio reifica un’eisoptrofobia, la paura del proprio riflesso allo specchio, tutta

Sebastian Dürrschmidt, Spike Jonzes “Being John Malkovich” als Film über das soziokulturelle Phänomen der Verfremdung, GRIN Verlag, München, 2007. 48 È una setta molto simile a quella, decisamente più inquietante, di Get Out (Scappa – Get Out, Jordan Peele, 2017), che rapisce uomini neri per impadronirsi del loro corpo (o di alcune parti di esso).

49 Metalessi o metalepsi in quanto: «sostituzione di un termine con un traslato prodotto da passaggi (impliciti) attraverso più nozioni che rimangono sottintese e che sono, l’una rispetto all’altra, sineddochi, metonimie, metafore, alternative o consistenti» (Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Bompiani, Milano, 1988, pp. 142-143). 50 Julian Hanebeck, Understanding Metalepsis. Hermeneutics of Narrative Transgression, De Gruyter, Berlin-Boston, 2017, p. 50.

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situata nel sentirsi altro da sé. Come abbiamo visto in precedenza citando Ponzio (nel capitolo su Dio, § “Dèi postmoderni”), il volto è alterità pura e quindi momento di rottura drastica e brutale, che nel cinema si magnifica con il primo piano. Da quel momento infatti la danza diviene parossistica, e la marionetta disperata distrugge quanto ha intorno – per la prima volta viene anche inquadrato con un movimento di macchina Craig che con passione la dirige – prima di accasciarsi rassegnata al suolo. Il dolore che permea la scena è quello che si protrae durante tutto il film in cui il protagonista vede gli altri trovare la propria felicità proprio nel momento in cui abbandonano le smanie di controllo (Maxine e Lotte e il loro amore

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lesbico ne sono prova), e lui invece non raggiunge mai la piena soddisfazione, se non negli effimeri momenti di gloria nel corpo di Malkovich, comunque filmicamente presentati senza entusiastici cambi nelle atmosfere (come nella fotografia o nelle musiche, che di solito nel momento di felicità di un personaggio mutano). Il gioco di Jonze-Kaufman è tutto mirato a confermare l’impossibilità di fuoriuscita dall’incertezza del personaggio, che verrà confinato, in un limbico contrappasso, nel corpo di una neonata. Sussiste inoltre uno squarcio fra diegesi e indessicalità che è proprio dell’estetica kaufmaniana: nel film grandi attori come Cusack o Diaz interpretano dei ruoli, mentre Malkovich interpreta se stesso (e quindi egli esiste dentro e fuori dal film, mentre gli altri no, le loro identità si frantumano nel passaggio da un universo all’altro), così come lo fa Charlie Sheen nel cameo finale, a confermare la chiave di lettura relativa al rapporto stardomcultualità, che conferma anche il tema di un certo classismo per il quale la diseguaglianza sociale è anche diseguaglianza destinale, già visto a proposito della “relazione a distanza” fra Ozu e Fantozzi. Ne Il ladro di orchidee questo procedimento è portato alle sue estreme conseguenze. Il protagonista è Charlie Kaufman, non interpretato da se stesso, e tutto inizia con un monologo su sfondo nero del protagonista che introduce le riprese di Essere John Malkovich. John Malkovich scherza con la troupe prima di una scena particolarmente complessa (quella in cui lo stesso Malkovich entra nel cunicolo così entrando nella testa di se stesso e producendo un mondo a parte abitato solo da tanti Malkovich), e un operatore caccia fuori Kaufman, lo sceneggiatore dello stesso film che si sta girando, senza riconoscerlo. Egli spaesato se ne va, e già in questi primi secondi la potenza dell’impianto costruito da Kaufman si fa evidente. Se in Essere John Malkovich il personaggio di Craig era un suo alter ego, ora il personaggio di se stesso interpretato da Nicolas Cage ne è un meta-alter ego, che interpreta la sua vita durante le riprese del primo film, in un gioco intertestuale di scatole cinesi divertente e non facilmente ordinabile (anche se sempre coerente e mai teso all’imponderabile in senso lynchiano): The intertext of Malkovich proves to be more directly important within Adaptation.’s story as well, as much of the action takes place while Being John Malkovich is being filmed, and we see the character of Charlie Kaufman on the film set with cameos from its actors. Thus not only does Malkovich help establish viewer expectations as to what type of film they

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might get with Adaptation., it also serves as an internal reference to understand the film’s story and characters51.

Parte così una storia parallela a Essere John Malkovich che vede Kaufman alle prese con il tentativo di adattare cinematograficamente il libro The Orchid Thief di Susan Orlean (1998), scontrandosi con una serie di fallimenti e con la crisi di non riuscire nell’impresa. Charlie è un uomo pieno di complessi, mentre suo fratello Donald vive la vita con più leggerezza e si diletta a scrivere film di media qualità non curandosi di fare arte con la A maiuscola. Il film così pone i due fratelli gemelli, esteriormente identici ma interiormente dissimili, alla ricerca della stessa autrice del soggetto che Charlie con fatica tenta di adattare (la figura dell’adattamento si applica alla sceneggiatura, ma anche allo stesso Charlie) per il cinema, e il cortocircuito si realizza ancora una volta quando realtà e finzione interne al testo si mescolano: esiste davvero un ladro di orchidee, e ha una relazione intima con l’autrice del libro. Il rapporto fra diegesi e indessicalità è presente anche sul piano paratestuale, giacché alla memoria di Donald Kaufman, fratello immaginario di Charlie, è dedicato il film, ed esso è anche accreditato come co-sceneggiatore. Se l’espediente della mise en abyme52, che ricorda a tutti gli effetti gli «avvitamenti della vertigine metalettica» di racconti come Life-Story di John Barth (1969), che «comincia, sintomaticamente, con uno scrittore che comincia un racconto»53, o di film come quelli di Peter Greenaway54, è stato già più volte indagato (anche se per la prima volta lo categorizziamo con tale locuzione), è bene soffermarci sul suo utilizzo in Il ladro di orchidee, poiché questo presenta

degli stimolanti tratti destinali. Poi dedicheremo un momento a un dispositivo finale che è a tutti gli effetti destinale. I primi minuti del film si aprono con quattro scene differenti, tutte focalizzate sul punto di vista di Charlie. La prima è un monologo interiore su sfondo nero, che serve a dare l’idea del cerebralismo insito nel personaggio e del livello delle sue farneticazioni, che si riflettono sulla struttura enunciativa del film55. Immediatamente dopo si passa al set di Essere John Malkovich, da cui Charlie viene allontanato. Le scene interne al set sono riprese con inquadrature blurry, come a indicare il nesso sfocato con il film precedente, ma quando Charlie esce dallo studio l’inquadratura si fa limpida, nel momento in cui il protagonista inizia a interrogarsi su che cosa stia facendo in tale luogo. Il film è isotopizzato da questo genere di riflessioni, che scandiscono le nevrosi del protagonista. Si passa così alla terza scena, che dà conto della visionarietà del protagonista. Egli nel chiedersi come sia arrivato sin lì immagina lo stesso luogo diversi miliardi di anni prima, e tale immaginazione si fa immagine (il film si fa proiezione psichica). Viene così visualizzata una prima inquadratura con una landa piena di lava, con la didascalia in sovraimpressione «Hollywood, CA. Quattro miliardi e quarant’anni fa». Da lì un montaggio veloce mostra in sequenza la nascita della vita sul pianeta dalle prime meduse ai dinosauri fino alla vita umana, dalle scimmie alla nascita di un bambino espressa con un’inquadratura cruda in primo piano di un parto. Quel bambino è proprio Charlie, e infatti la sovrapposizione di due ordini di grandezza nella didascalia iniziale (quattro miliardi vs quarant’anni) fa intendere come il conteggio dall’inizio del Tutto fosse volto proprio ad arrivare alla sua vita in quel determinato momento (non senza una certa megalomania). Si passa così alla quarta scena, che vede Charlie dialogare con una produttrice circa l’adattamento del libro in versione cinematografica. Essa si complimenta con lui, dicendogli che non le dispiacerebbe affatto fare un giro nel suo cervello, ma lui, in stato di forte agitazione (come sempre), le dice che non c’è da divertirsi.

51 Jason Mittel, Narrative Theory and Adaptation, Bloomsbury, London-New York, 2017, p. 70. 52 Sulla mise en abyme cinematografica cfr. Dominique Blüher, Le cinéma dans le cinéma. Film(s) dans le film et mise en abyme, Atelier National de Reproduction des Thèses, Villeneuve d’Ascq, 1996 e Sébastien Févry, La mise en abyme filmique. Essai de typologie, Editions du Céfal, Liège, 2000. 53 Luca Berta, Oltre la mise en abyme. Teoria della metatestualità in letteratura e filosofia, FrancoAngeli, Milano, 2006, p. 68. 54 Cfr. Paula Willoquet-Maricondi, Mary Alemany-Galway, Peter Greenaway’s Postmodern / Poststructuralist Cinema, Scarecrow Press, Plymouth, 2008 e Alessandro Cutrona, L’attualità della mise en abyme nelle opere di Peter Greenaway e Charlie Kaufman, Mimesi, Milano-Udine, 2016, quest’ultimo ponendo in paragone proprio l’opera di Greenaway con quella di Kaufman.

55 Siamo, per intederci, ben oltre certi “caleidoscopi” enunciativi come quello issato da Diderot nel suo metaromanzo Jacques il fatalista e il suo padrone (1796), che così inizia: «Come si erano incontrati? Per caso, come tutti. Come si chiamavano? E che ve ne importa? Da dove venivano? Dal luogo più vicino. Dove andavano? Si sa dove si va? Che dicevano? Il padrone non diceva niente; e Jacques diceva che il suo capitano diceva che tutto ciò che quaggiù ci accade di bene e di male, sta scritto lassù».

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Queste quattro scene ci consentono di isolare alcuni tratti pertinenti del cinema di Kaufman-Jonze, sia a livello interscenico che a livello destinale. A livello interscenico la dinamica è quella di una schizofrenia del montaggio e delle tecniche che ricalca la dimensione psichica del personaggio. La struttura significante si adatta, appunto, alla struttura significata. Assistiamo infatti in rapida successione a: 1. Un monologo su sfondo nero, 2. Un’incursione di un film nel film con inquadratura sfocata, 3. Un montaggio veloce, con tracce di stopmotion, sovrapposizioni, saturazioni e desaturazioni dell’immagine, dall’inizio dell’umanità ai giorni nostri, 4. Un canonico dialogo in campo/controcampo a un tavolo di ristorante. La schizofrenia di codici ritrova una perfetta coerenza interna se ricondotta al sostrato psicologico di Charlie. Il fatto che le scene siano così dissimili ma così coerentemente connesse dà misura inoltre della destinalità kaufmaniana, inserita nel contesto di una mise en abyme esistenziale introdotta proprio dalla scena 3, quella della Hollywood pre-umanità.

Il fatto che Charlie per rispondere al quesito su “cosa ci faccia lì in quel momento” debba richiamare in causa sostanzialmente la nascita del pianeta è prova di un’ossessione per una causalità strenua, fatta di spessi fili esistenziali che nel tempo si aggrovigliano ma che, almeno virtualmente, se dipanati a ritroso possono spiegare perfettamente l’incedere dell’esistenza di ogni cosa. L’insicurezza di Charlie nasce proprio dal fatto che egli da un lato vuole rendere questa idea di una realtà come tessuto di miliardi di fili con il suo lavoro, missione per statuto impossibile, e dall’altro cerca costantemente di raccapez-

zarsi nei suoi grovigli destinali, perdendo per definizione ogni volta, specie quando dalla sequela di eventi passati che lo hanno portato al presente egli interiorizza di essere simultaneamente effetto di questi, ma anche causa di quelli che verranno, così riducendosi alla paralisi (emotiva, lavorativa, esistenziale). Questo tentativo reiterato e vano di protocollare ordini di perfezione non fa che produrre il cervellotico disordine negli alter ego di Kaufman, in tutti i suoi film. Similmente, sul piano del montaggio e dell’immagine, il disordine si riconduce a un ordine che è unicamente presente nel cervello del protagonista, un tentativo disperato di ricondurre al perfettibile l’imperfettibile, cioè di ritrovare una perfetta schematicità nell’ordine delle cose. Al contrario il fratello Donald, più facilone e disinibito, non si pone questi problemi e vive una vita di moderati successi. È proprio lui a consigliare a Charlie di seguire le lezioni di un professore di sceneggiatura, il luminare Robert McKee (Brian Cox), che non farà che mettere in scena lezioni-spettacolo piene di turpiloquio senza cogliere l’essenza di Charlie anche quando a colloquio con lui in un bar, ma che gli darà due suggerimenti che si ripercuoteranno metalinguisticamente nel film: 1. Non usare la voce fuori campo per definire la psiche del personaggio, perché si tratta di un espediente scialbo (mentre lo dirà Charlie sarà nel bel mezzo di uno dei suoi tanti soliloqui fuori campo, per l’appunto), 2. Stupire il pubblico con il finale, perché è quello che “fa il film”, ma senza ricorrere al deus ex machina. È proprio invece un deus ex machina a risolvere ironicamente il film. Donald e Charlie si sono messi all’inseguimento della scrittrice (Meryl Streep) e del suo amante, il ladro di orchidee (Chris Cooper). Il film ha preso una svolta action, proprio quella che all’inizio Charlie aveva ripudiato, con inseguimenti d’auto, armi e sesso, e Donald è morto. Charlie sta per essere colpito dal colpo di pistola del ladro quando da una palude sbuca all’improvviso un coccodrillo famelico che gli salva la vita, sbranando il suo aggressore. Il deus ex machina è il coronamento di una sceneggiatura fallimentare che si ripercuote su una vita inetta, l’inserzione subitanea e violenta dell’incoerenza in un palinsesto ossessivamente regolato dalla necessità. Il caso che surdetermina la causa. Così Charlie Kaufman, quello del film, ma anche quello che ha sceneggiato Il ladro di orchidee (il film e il film nel film), causticamente sventola bandiera bianca, annichilendo il paradigma destinale portato avanti per tutto il film, destituendo l’ossessione per l’ordine in virtù di una forzatura, la messa in scena di un elemento estraneo, imprevedibile, totalmente sconnesso

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da ogni filo. Il sopraggiungimento della mancanza di una giunzione assume una valenza paradossalmente catartica, perché libera Charlie dalla sua euristica consolatoria, quella che prevedeva un panlogismo indefesso in ogni cosa della vita, scaraventandogli addosso la presenza dell’imponderabile dietro l’angolo. Il coccodrillo emerge, uccide il personaggio in una scena convulsa ove i movimenti di macchina e lo smuoversi frenetico delle acque paludose rendono poco intellegibile l’immagine, e, terminato il suo compito, se ne va. L’incursione del disordine è l’unico modo di mettere in ordine la semiosi illimitata di Charlie, ove ogni passeggiata inferenziale si snodava infinite volte, generando unicamente caos.

Adaptation È letteralmente un deus ex machina anche il protagonista stesso di Synecdoche, New York, Caden Cotard, nome derivato dalla sindrome di Cotard che proietta chi la vive in un’eterna prosopopea, facendo divenire questi abulico e demotivato poiché convinto di essere morto, in una dimensione di tipo onirico-post mortem56. L’attenzione anche paratestuale di Kaufman emerge sin dal titolo, ove la figura retorica della sineddoche (in assonanza con il nome della cittadina Schenectady in cui è ambientato il film) anticipa come Caden sarà nuovamente un personaggio intrappolato in ossessioni anche e soprattutto linguistiche, cercando di comprendere il suo posto nel mondo (se egli cioè sia la parte di un tutto o il tutto di una parte, a ricalcare il loco): «[it] examines what happens when an artist, in the face of death, tries to build something true and satisfying out of time’s inadequate parts; to conjure the whole from the parts»57. Caden è ancora una volta un genio incompreso, non dagli altri ma Una definizione formale della sindrome in Roland Chemama, Bernard Vandermersch, Dizionario di psicanalisi, Gremese, Roma, 1998. 57 David L. Smith, Synecdoche, in Part David LaRocca, The Philosophy of Charlie Kaufman, The University Press of Kentucky, Lexington, 2011, p. 240. 56

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da se stesso. Autore teatrale ipocondriaco e sfortunato che, come Charlie ne Il ladro di orchidee, non vuole limitarsi a fare il mestierante, ma realizzare opere grandiose. Così, in seguito alla vittoria di un grosso premio in denaro, decide di noleggiare un gigantesco hangar da trasformare nel set per uno spettacolo teatrale ove metterà in scena la sua vita. Si tratta di uno spettacolo senza sosta, sempre in fieri, destinato a non avere mai fine e a riproporre ad æternum i traumi sempre più violenti di Caden, malato (realmente o psicosomaticamente), abbandonato da moglie e figlia trasferitesi in Germania, diffamato, incapace di stabilire una relazione stabile. Nell’hangar man mano si avvicenderanno sempre più attori, che interpreteranno Caden e le persone della sua vita, in un insieme di scatole cinesi (comparirà il sosia di Caden, e poi il sosia del sosia di Caden, e così via), ove i ruoli si continueranno a mescolare e ove la dimensione della recitazione e quella dell’emozione, in una degenerazione stanislavskiana, autentica non saranno più districabili. Ciò fino allo sfibrarsi definitivo del protagonista, che sarà seguito dal deteriorarsi di uno spettacolo che non sarà mai concluso, e al suo lasciarsi morire, senza alcuna speranza. Caden Cotard è l’estremizzazione definitiva dei personaggi kaufmaniani, l’alter ego summa la cui autorialità si riduce alla scrittura di se stesso e della propria esistenza in maniera talmente maniacale da perdere infine ogni forma di controllo. Il personaggio è qui una versione incarnata del paradosso della mappa dell’impero di Borges: In quell’Impero, l’Arte della Cartografia giunse a una tal Perfezione che la Mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’impero tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe smisurate non bastarono più. I Collegi dei Cartografi fecero una Mappa dell’Impero che aveva l’Immensità dell’Impero e coincideva perfettamente con esso58.

La storia è qui quella di uno sforzo immane di conoscenza, e quindi di controllo, su un luogo. Tale sforzo tanto più allarga la presa tanto più vanifica le proprie motivazioni, giacché una mappa dell’Impero che coincide con l’Impero non solo non ha motivo di esistere, ma anche coinvolge l’Impero stesso in un’ardua e impossibile impresa, che non può che deteriorare tutti quanti. La mappa infatti come un lenzuolo abnorme coprirebbe tutto il mondo, sof58

Jorge Luis Borges, Storia universale dell’infamia, tr. it. Il Saggiatore, Milano, 1961, p. 104.

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focando chi vi è sotto. Similmente Caden Cotard nel tentativo di costringere la propria vita e il proprio io all’interno di un microcosmo controllato, che va man mano allargandosi, alla fine perde il controllo su se stesso e sull’immenso insieme di persone coinvolte al contempo nella sua vita personale e lavorativa, dimensioni che si intrecciano sempre di più. Il protagonista così cercando di fuggire da un modello, quello del destinante a sua volta del destinato, per divenire ur-destinante, si autodistrugge in una miriade di destini la cui convergenza si approssima asintoticamente alla morte, che contagia anche la performance teatrale che Cotard imbastisce quotidianamente. In una sequenza all’interno dell’hangar, già a film inoltrato, il cast di Cotard prova la scena di un funerale. Poco tempo prima infatti nello stesso set l’attore che interpretava Cotard si è suicidato, incapace di reggere la sua condizione di sosia e di individuo autonomo contemporaneamente. La scena del funerale viene provata di fronte al vero Cotard e di fronte a un Cotard rimpiazzo, interpretato da una signora che fino a poco prima faceva le pulizie sul set e che ora dirige al posto del regista stesso. Il sistema di avviluppamenti è ormai avviato e irreversibile, le identità sono mescolate e dentro il set si vivono vite vere e ognuno si chiede se la figura di Cotard possa avere un futuro di speranza o meno, intrappolata com’è nella sua stasi, specie dopo la morte della figlia che è stata del tutto traviata in Germania dalla madre. Il funerale si svolge in maniera piuttosto kitsch, con un predicatore che imbastisce il seguente monologo:

ti fa sentire connesso, qualcosa che ti fa sentire completo…qualcosa che ti fa sentire amato! Ma la verità è che…io mi sento arrabbiato. La verità è che…io mi sento talmente triste. La verità è che…mi sono sentito così ferito per così tanto tempo, e che per tanto tempo ho fatto finta di stare bene, solo per andare avanti, solo per…non lo so perché! Forse perché a nessuno va di ascoltare le mie sofferenze…visto che tutti hanno già le loro. Beh...vaffanculo a tutti! Amen59.

Come si evince, la prima parte è tutta tesa a riferire didascalicamente gli estremi della destinalità kaufmaniana (la scelta, i fili, i nessi millenari, l’io), e che abbiamo a più riprese descritto. Formalmente la mise en abyme è strutturata per trasdurre il lato dell’espressione su quello del contenuto esistenziale. Il monologo del prete è ripreso in una sorta di campo/controcampo. Egli parla e dall’altro lato si vede il banco con i due Cotard, quello “vero” e quella “fittizia”. Attorno al predicatore altri attori si disperano, e uno schermo retrostante proietta altre persone disposte a lutto. La scenografia intorno è quella in stile cantiere di tutto l’hangar. In questo ambiente ipermediato, con una musica da funerale americano da manuale, la finta pioggia proprio sul finale con apertura plateale degli ombrelli, e un monologo recitato con fare posticcio, il controcampo rivela un Cotard trasportato a tal punto da rispondere “Amen” alla fine del discorso, totalmente introiettato in esso. È il virtuale che richiede con vigore di essere considerato più reale del reale, la rappresentazione refrattaria a essere considerata come qualcosa di slegato dalla realtà.

Tutto è più complicato di quanto pensi. Tu vedi solo un decimo di quello che è vero. Ci sono un milione di piccoli fili invisibili legati a ognuna delle scelte che fai. Puoi distruggere la tua vita ogni volta che scegli, ma non capire dove hai sbagliato per 20 anni. Oppure non arrivare mai all’origine del tuo errore. E hai un’unica possibilità di giocartela; prova a pensare per esempio al tuo divorzio. E dicono che il destino non esiste. Sì, che esiste. È quello che crei tu. E anche se il mondo va avanti per millenni e millenni, tu sei qui solo per una frazione di una frazione di secondo. Passi molto più tempo a essere morto o non ancora nato. Ma quando sei vivo, aspetti invano, sprecando anni: una telefonata o una lettera o uno sguardo di qualcuno o qualcosa che metta tutto a posto. E non arriva mai. O sembra che arrivi, però non è così. E tu passi il tuo tempo in un vago rimpianto o nella vana speranza che qualcosa di buono stia per arrivare, qualcosa che

59 Originale: «Everything is more complicated than you think. You only see a tenth of what is true. There are a million little strings attached to every choice you make; you can destroy your life every time you choose. But maybe you won’t know for twenty years. And you’ll never ever trace it to its source. And you only get one chance to play it out. Just try and figure out your own divorce. And they say there is no fate, but there is: it’s what you create. Even though the world goes on for eons and eons, you are here for a fraction of a fraction of a second. Most of your time is spent being dead or not yet born. But while alive, you wait in vain, wasting years, for a phone call or a letter or a look from someone or something to make it all right. And it never comes or it seems to but doesn’t really. And so you spend your time in vague regret or vaguer hope for something good to come along. Something to make you feel connected, to make you feel whole, to make you feel loved. “And the truth is I feel so angry, and the truth is I feel so fucking sad, and the truth is I’ve felt so fucking hurt for so fucking long and for just as long I’ve been pretending I’m OK, just to get along, just for, I don’t know why, maybe because no one wants to hear about my misery, because they have their own. Well, fuck everybody. Amen.»

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autorialità in numerose pellicole, partecipandovi come attore che sembra svolgere sempre lo stesso ruolo: l’iperattivo ipocondriaco e genialoide incapace di vestire i panni dell’individuo socialmente inserito. Woody Allen, come Kaufman, attorializza/autorializza i suoi film sempre alla stessa maniera, e questo dialogo fra testo e contesto rivela il piglio autobiografico della sua opera, che è arte come impellenza (cioè come necessità esistenziale che travalica tutto il resto) quanto quella kaufmaniana. L’utilizzo insistito di interpellazioni, come quelle di Amore e guerra che abbiamo già in precedenza analizzato, e di espedienti metacinematografici di varia sorta, corroborano la nostra tesi. Allen-Keaton A/R

Synecdoche, New York Caden Cotard è il dolore del processo creativo che si amalgama con l’autocoscienza dell’imperfezione, malato e brutto, abbandonato, alla perenne ricerca di un titolo e di un’idea rivelatrice (la cerca fino alla morte finale, che gli è “ordinata” dalla sua ultima sosia tramite un auricolare), ed è proprio il momento in cui egli cambia scientemente ruolo, impersonando un altro personaggio, che per un attimo riacquista coscienza dell’alterità abbandonando il paradigma ego-centripeto60. Tuttavia questo spostamento di prospettiva non è che una deviazione da un programma che magnifica la poetica di Kaufman nel suo magnus opum, quella di un cinema dove poco accade, dove non ci sono reali cambiamenti, dove la lotta strenua con il destino è una lotta con se stessi che non porta a nulla se non alla presa di coscienza di non avere alcun controllo. Il tutto in un film dalla grande potenza drammatica (con amare venature humour sparse qua e là), ove la predestinazione non è eterodiretta ma autodiretta, e cioè nessuno impone a Caden dall’alto come comportarsi o cosa essere, è lui stesso in un certo senso a rovinarsi. È l’autobiografia come struttura destinale. Un po’ come accade, con un cinismo più marcato, nell’opera di Woody Allen, più volte comparso nelle pagine precedenti. Egli infatti manifesta la sua 60

Cfr. Roberto Mordacci, Al cinema con il filosofo, Mondadori, Milano, 2015.

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Il caso forse più noto è quello di The Purple Rose of Cairo (La rosa purpurea del Cairo, Woody Allen, 1985), storia di Cecilia (Mia Farrow), che per alleviare una vita frustrante si rifugia al cinema guardando svariate e svariate volte lo stesso film fin quando il suo protagonista, Tom Baxter (Jeff Daniels), decide di uscire letteralmente dallo schermo per avere un contatto diretto – in presenza – con lei. La sala cinematografica e il suo schermo sono dunque luoghi ove l’eterotopia si concretizza consentendo uno scambio simbolico, che metaforizza alla perfezione il principale motivo di fruizione del film dalla nascita del cinema a oggi: l’evasione. Si tratta qui di una mutua evasione, giacché Tom Baxter si libera dalla sua routine, fatta di una vita sempre uguale ripetuta all’infinito, così come fa Cecilia, in un luogo simbolicamente mediano che è il mondo risultante dal loro incontro. Nel film poi non mancano gli equivoci, che ricordano quelli del già visto in precedenza Last Action Hero, con l’attore che interpreta il personaggio a confronto con quest’ultimo, ma pure con l’epidemica moltiplicazione degli altri Tom Baxter (almeno uno per ogni cinema in cui viene proiettato La rosa purpurea del Cairo) desiderosi anch’essi di scappare dallo schermo. Il punto di fuga non è più dunque il totale abbandono della realtà per la finzione o viceversa, ma la giunzione delle due dimensioni in una terza, ove sogno e veglia possano convivere. Lo “schermo” qui cessa ambedue le funzioni che il lessema ricopre, quella di aprire una finestra su un altro mondo e quella di proteggere (schermare) se stesso dall’intrusione dell’alterità, frapponendo ai due mondi una frattura, una crepa semiotica ove una nuova circolazione di semiosi possa espletarsi. 295

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La rosa purpurea del Cairo Tale nuovo senso è metaforicamente quello che scaturisce dal ruolo attivo del lettore e dalle sue passeggiate inferenziali; l’affascinante personaggio del film reifica le fantasie amorose delle sue spettatrici e il loro bisogno di avventura: è come se l’ermeneutica spettatoriale trovasse un varco per realizzarsi come intimo desiderio. Ciò è vero tanto narrativamente quanto, ancora una volta, formalmente. La scena del passaggio vede un classico surcadrage: frontalmente si vede a colori la sala cinematografica, e poi in un riquadro concentrico il film si svolge. Una cameriera nera, rappresentata con i tratti stereotipici del cinema classico, sbriga alcune faccende, e alcuni personaggi fra cui Tom Baxter si avvicendano sulla scena. Quest’ultimo però nota fuori dallo schermo Cecilia, e con lei intraprende un discorso: l’ha vista tante volte lì, trasognata, a guardare il film, e decide così di andare da lei. Eccolo dunque uscire dallo schermo, sbrigliarsi dalle proprie catene destinali di personaggio dichiarandosi persona (eppure nient’altro che personaggio del film che conteneva il suo film), attraverso una soluzione visiva che evita lo squarcio diretto del supporto di proiezione61, compiendo qualche passo e virando dal bianco e nero al colore, a significare plasticamente l’avvenuta transizione. Woody Allen tuttavia, non pago, utilizza la svolta narrativa e visiva per imbastire una serie di trovate comiche che giocano tutte sulla multiprospetticità del

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61 Squarcio che è invece presentissimo in Cigarette Burns (Cigarette Burns – Incubo mortale, John Carpenter, 2005), episodio della serie Masters of Horror (2005-2007) che vede uno sfegatato cinefilo alle prese con il film immaginario dall’emblematico titolo, La Fin Absolue du Monde, pellicola veicolo di una visione maledetta come altre ne citeremo fra qualche pagina. In qualche modo analogamente in Inland Empire (Inland Empire – L’ impero della mente, David Lynch, 2006) uno squarcio generato da una sigaretta accesa su un tessuto consente l’apertura a una visione nuova.

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punto di vista. Avendo aperto uno squarcio anche nella focalizzazione infatti, e avendo resa possibile un’autonomia destinale dei personaggi nello schermo cinematografico, essi ora possono lamentarsi con Baxter, che li ignora, poiché invidiosi della sua fuga – del suo essersi “liberato” – e incapaci di replicarla. E intanto in sala si diffondono disordine, panico, o anche nessuna reazione in alcuni spettatori un po’ troppo assuefatti dal film, che non si accorgono nemmeno della proposta degli operatori di spegnere il proiettore, proposta che terrorizza i personaggi rimasti sullo schermo, poiché, per quanto routinaria, la vita nel film è l’unica che possono vivere. Cecilia tuttavia, destinalmente in alto rispetto a Baxter (lei fuori dal film sin dall’inizio), alla fine «deve scegliere tra realtà e illusione [e] opta per la realtà […]»62, così riconoscendo la superiorità destinale della sua condizione. Questo tipo di riflessione sul mezzo cinematografico e sulla sua capacità di curvatura dell’orientamento di senso, in forza dell’erezione di una nuova estensione significante e significata, era già stato con maestria costruito da Buster Keaton in Sherlock Jr. (La palla n° 13, 1924)63, dove tuttavia l’elasticità del rapporto finzione-realtà si manifesta con un movimento inverso, non cioè con il personaggio del film che esce fuori, nel “mondo vero”, ma con il contrario (l’operazione che Cecilia rifiuta di fare alla fine de La rosa purpurea del Cairo). Nondimeno, quale che sia l’origine dello spostamento, le sue motivazioni non cambiano. Nel film il protagonista è un operatore cinematografico, squattrinato ma onesto, che sogna di diventare un detective e che corteggia una donna facendole alcuni modesti regalini con i pochi soldi che ha a disposizione, venendo scavalcato da un bruto che le fa doni molto più vistosi, ma solo perché ha ricavato il denaro portando al banco dei pegni una catenina che ha rubato alla stessa corteggiata. Quando questa scopre il furto il personaggio di Buster Keaton viene ingiustamente accusato di esserne il responsabile, e così allontanato con disonore dalla donna e costretto a tornare al suo lavoro al cinema, dove si addormenta triste. Durante il sonno una sorta di suo doppio si stacca dal suo corpo e varca lo schermo cinematografico del tutto indisturbato, mentre il pubblico sembra non accorgersene (ciò perché in effetti si tratta di una esperienza onirica), e, dopo aver sperimentato sulla sua Mark T. Conard, Aeon J. Skoble, Woody Allen e la filosofia. Quindici filosofi alle prese col cinema di Woody Allen, Effepi Libri, Monte Porzio Catone, 2007, p. 139. 63 Una panoramica sull’opera del regista in Robert Knopf, The Theather and Cinema of Buster Keaton, Princeton University Press, Princeton, 1999. 62

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pelle un vertiginoso montaggio cinematografico che lo vede passare di film in film (più un espediente attrazionale che non un supporto alla trama), diventa il protagonista di una storia che ricalca quella che ha appena vissuto, ma con caratteri “aumentati”. Egli è ora il grande e magnetico detective Sherlock Jr., chiamato a risolvere il caso del furto di una collana di perle, e adempirà al suo compito con una mirabolante serie di peripezie a contorno, che forniscono al film la componente da stuntman tipica di tutto il cinema di Keaton. Da umile operatore egli ha mutato la sua condizione sociale, e cioè destinale, facendo un salto ontologico, che è testimoniato da precise soluzioni visive. Il regista-attore, specie nella sequenza del suo ingresso nello schermo, dà infatti fondo a una serie di soluzioni tecniche considerevoli, rendendo realistico quanto nel caso di Tom Baxter il passaggio dimensionale. Qui non è il cambio dal colore alla scala di grigi a fornire la prova dell’avvenuta transizione, quanto un fine lavoro in profondità di campo che rende realistica l’entrata nello schermo di Buster Keaton, oltre che la serie di gag che seguono e che lo vedono catapultato dalla savana africana con tanto di leoni alle montagne innevate. L’ausilio di un apparato di effetti speciali, tanto in Keaton quanto in Allen, si rende necessario non tanto ai fini della vicenda, quanto per soddisfare quel bisogno scopico dello spettatore di comprovare anche e soprattutto visivamente la possibilità di attraversamento da un mondo all’altro, condizione necessaria per lo slittamento destinale (perché siano garantite le premesse per un mutamento drastico della propria condizione e, finanche, del sé). L’effetto speciale non è quindi soltanto un vezzo formale o una forma di magniloquenza stilistica, ma una componente chiave per la riuscita della presa destinale del film. Così proprio sul finale, quando tutto è tornato alla normalità, il nostro proiezionista si risveglia e la donna amata torna da lui a scusarsi64. Mentre il film andava avanti, anche nel mondo vero infatti proseguivano le indagini e alla fine il vero colpevole era stato scoperto. I due innamorati si trovano così in imbarazzo, ma fortunatamente la fine del film in sala fornisce a Buster Keaton le istruzioni su come comportarsi, in una splendida sequenza finale che vede un campo/controcampo schermico dove da un lato c’è lo schermo cinematografico e dall’altro il surcadrage realizzato tramite la visione del proiezionista e della dama da una finestrella. Così Quando cioè è ripristinata l’iniziale illusione di realtà, seguendo M. Berton, L’Illusion de réalité à l’ épreuve de la scène: théâtre, cinéma et rêve dans Sherlock Junior de Buster Keaton», «Pavillon. Une revue de scénographie/scénologie», 1, 2007, pp. 6-17.

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La rosa purpurea del Cairo sul finale ci sarà un ritorno all’ordine, di sapore più agrodolce, giacché Cecilia, stante il necessario ritorno di Baxter nello schermo, si rifugerà di nuovo al cinema.

Sherlock Jr. egli vede il protagonista del film stringere le mani alla donna, e le stringe a sua volta a quella che ha di fronte, poi metterle un anello al dito, e lui fa la stessa cosa, e ancora baciarla appassionatamente, atto che egli replica in modo un po’ goffo65. Infine un’ellissi mostra i due personaggi sullo schermo dopo un po’ di tempo, con due gemellini, e il controcampo rivela un Buster Keaton sbigottito, che si gratta la testa mentre la dissolvenza sul nero conclude maliziosamente il film. Anche ne Sherlock Jr.

Non è questo l’unico caso di vistoso metacinema all’epoca, fortemente sperimentale, del muto; se uno dei primissimi casi è senz’altro il geniale The Big Swallow (James Williamson, 1901), che in un minuto mostra un personaggio avvicinarsi in avanti fino a inghiottire la cinepresa che lo stava riprendendo, ponendo le fruttuose basi di un cortocircuito metalinguistico che continuerà a essere oggetto di riflessioni nel secolo a venire, sino a oggi, negli anni ’20 non solo il cinema statunitense produce metacinema (un non accreditato Buster Keaton sarà anche dietro a The Cameraman, 1928, diretto formalmente da Edward Sedgwick, ma si pensi ancora a The Crowd [La folla, King Vidor, 1928]), ma anche il resto del mondo, come dimostrano il tedesco Herr Tartüff (Tartufo, Friedrich Wihelm Murnau, 1925,), il sovietico Chelovek s kino-apparatom (L’uomo con la macchina da presa, Dziga Vertov, 1929, ) o la fortunata saga di Maciste in Italia, iniziata da Maciste (Luigi Romano Borgnetto e Vincenzo Denizot, 1915).

I due film così veicolano un’idea di cinema come di luogo di fuga destinale “a metà”, che fornisce del tempo per riconsiderare i propri affanni, interpretandoli alla luce del film come testo di supporto al servizio dell’esistenza, ma che non può costituire una meta definitiva. Il film si fa una sorta di lasciapassare destinale a tempo. La sala cinematografica, per via delle sue specificità tecniche (schermo grande, buio in sala, e così via), è un luogo protetto, di isolamento perfetto dove ibernare il proprio destino per tutta la durata del film, sincronizzandosi temporalmente e spazialmente con un universo altro. In entrambi i film lo schermo e le vicende che contiene rappresentano il simulacro di una

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destinalità alternativa, che non consente realmente ai personaggi che la esperiscono di cambiare nei fatti la propria sorte, ma piuttosto elargisce nuovi frame interpretativi entro i quali inserire ed elaborare la propria esperienza di vita. Il Buster Keaton dentro lo schermo non è più un impacciato aspirante detective ma un investigatore ben vestito e sicuro di sé, proiezione onirica di un desiderio che nel film si concretizza. Il Tom Baxter che esce per andare incontro a Cecilia è la stessa cosa, l’emersione di un uomo che è il contrario del marito e che incarna la possibilità di una vita fuori dall’ordinario. Il film concretizza le possibilità precluse e disvela le repressioni, tuttavia quando la proiezione termina si è nella stessa posizione destinale di prima, e l’esperienza vissuta ha valore unicamente sul piano ermeneutico, fornendo nuovi orizzonti ideali. È il film come luogo onirico66, strettamente imparentato al sogno: […] sia il cinema sia il sogno inducono l’individuo a sperimentare una situazione diversa da quella propria della vita reale. Inoltre, in entrambe le situazioni, ciò è possibile solo se l’individuo sospende temporaneamente il corso della vita normale. Il sogno avviene durante il sonno, quando il contatto fisico con l’ambiente esterno è molto limitato. Analogamente, anche nella situazione cinematografica i contatti con l’ambiente circostante vengono limitati. Per questo si spengono le luci, si evitano i rumori e si cerca di offrire allo spettatore una situazione comoda e confortevole. Sia il sogno sia il cinema rappresentano delle forme di evasione dal mondo reale67.

Non è un caso, invero, che numerosi litigi e riflessioni, sogni e aspirazioni, scaturiscano dalla visione di un film ove un habitus diverso da quello che si indossa viene mostrato come possibile. Tali sogni sono il tentativo di valicare il punto di sutura, cioè di rendere autentica l’esperienza della soglia tipica della fruizione filmica e, più in generale, testuale. Il finale di Sherlock Jr. dice in qualche modo didascalicamente tutto ciò, confermando come il cinema sia in effetti una macchina testuale capace di fornire scenari destinali alternativi allo spettatore, ma che:

1. Non destituisce le specificità dell’io spettatoriale, e infatti il modo in cui Buster Keaton replica le azioni del personaggio nel metafilm rimane goffo e tenero. 2. Si scontra con un apparato motivazionale che non sempre asseconda gli snodi narrativi del film, e infatti Buster Keaton è disposto a confermare le vicende fino al bacio finale, ma non certo a mettere su famiglia e generare dei figli. Ciò dice molto e della malizia del cinema, consapevole delle sue possibilità ma anche dei limiti del suo impatto sulla psiche degli spettatori, e dei meccanismi mentali che soggiacciono alla visione dei film, spesso votata non tanto a un salto nel vuoto ma alla ricerca, finanche patetica e autocommiserante, della conferma delle proprie disgrazie o della bontà dei propri desideri. Va ancora aggiunto che i due film, stante la loro connessione “inversa” a partire dall’omaggio di Allen a Keaton68, vanno anche letti in ottica intertestuale nel merito dell’opera omnia dei loro rispettivi registi. Si tratta in ambedue i casi di registi forti, nella misura in cui il loro progetto artistico trova continuità di film in film a partire da isotopie e isomorfismi. I personaggi di Buster Keaton sono tutti accomunati da un misto di atleticità e goffaggine che rimarcano il suo statuto morale e psicologico, egli spicca sugli altri per il suo essere un diverso nel mondo, un ultimo, in piena linea con tutta la tradizione slapstick e comica che lo ha preceduto. Così, in fondo, egli è sempre lo stesso personaggio, che più che vivere avventure è vissuto dalle avventure, trasportato da esse. Cambia esteriormente ma non cambia, in fondo, mai. Non si può che parteggiare per lui in primis per la nobiltà d’animo che lo contraddistingue, e ancora di più poiché è inevitabile associare i suoi rocamboleschi avvenimenti con le peripezie dell’esistenza di ognuno di noi. Buster Keaton è destinalmente vessato da un fiume in piena di eventi che gli scorre addosso, e al quale egli sopravvive sempre miracolosamente, preservando la sua bontà69.

Tesi che sarà poi condivisa e ampliata nella teoria multimodale di Colin McGinn, Una teoria multimodale dell’esperienza filmica in Silvio Alovisio, Enrico Terrone (a cura di), Animot. L’altra filosofia – Cinema: animale razionale, II, 2, 2015, che riprenderemo nel capitolo sul loop. 67 Alberto Angelini, Psicologia del cinema, Liguori, Napoli, 1992, p. 50.

68 Cfr. Andrew Horton, Buster Keaton’s Sherlock Jr., Cambridge University Press, Cambridge, 1997, p. 23. 69 Sbaglia chi, frettolosamente, liquida il cinema muto di questo tipo come semplice sequela di gag comiche. Si tratta invece di un cinema fondato su precise istanze socioculturali (per non dire sociopolitiche), che proprio attraverso espedienti apparentemente “nonsense” vengono veicolate. In questo senso cfr. Lisa Trahair, The Comedy of Philosophy. Sense and Nonsense in

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In questo senso la sua ingenuità è la risposta consolatoria a un’idea di destino altrimenti davvero desolante. Woody Allen di contro attraversa ugualmente con vigore tutta la sua filmografia, anche nei film in cui non compare come attore. La sua attenzione per le componenti metacinematografiche, il suo umorismo caustico e viscerale, il ricorso a tradizioni filosofiche e alla filosofia ebraica70, e la spinta costante verso un assurdo di impronta beckettiana, si estrinsecano attraverso una formula cinica che è presentata come lente di visione dell’esistere senza alcun filtro, spesso con discorsi diretti alla macchina da presa che coniugano la riflessione sul destino e sui massimi sistemi alla freddura (come abbiamo già visto per Amore e guerra). Il cinismo di Woody Allen è, per riprendere Peter Sloterdijk71, un cinismo non dei mezzi, ma dei fini: […] entrambi affini sul piano operativo — poiché votati a decostruire una struttura — ma dissimili su quello teleologico, giacché il primo volto all’arrivismo personale mentre il secondo a una sorta di “arrivismo universale”, raggiungibile annichilendo l’idea di una singolarità intangibile72 .

In sostanza Woody Allen può permettersi di essere se stesso e i suoi personaggi, addirittura quando non è in scena, poiché il cinismo che permea la sua opera contribuisce a disinnescare ogni pretesa sospensione dell’incredulità73. Il teorema destinale di fondo è dunque sempre lo stesso, ed è sempre reso dai suoi alter ego petulanti, ipocondriaci, ipercritici: per conservarsi occorre mentirsi, non c’è alcun destino poiché nulla ha senso. Questo messaggio, affidato alla protervia di un postmoderno clown tragico, emerge sotto varie spoglie, a partire dai monologhi interiori con voce off (dispositivo come abbiamo visto Early Cinematic Slapstick, State University of New York Press, New York, 2007. 70 Sull’influenza della cultura ebraica nel cinema di Allen cfr. Vincent Brook, Marat Grinberg, Woody on Rye. Jewishness in the Films and Plays of Woody Allen, Brandeis University Press, Waltham, 2014. 71 Cfr. Peter Sloterdijk, Critica della ragion cinica, trad. parziale, Garzanti, Milano, 1983. 72 Bruno Surace, Ragazzacci 2.0 o del cattivo gusto online. Note semiotiche su viralità alternative ed etichetta in Gabriele Marino, Mattia Thibault (a cura di), Viralità – Virality, cit., p. 246. 73 Sulla rilevanza della sospensione dell’incredulità per godere del testo cfr. Bruno Surace, Sim sala segno. Semiotica dello spettacolo magico fra sospensione dell’ incredulità e dispositivi della censura, in Massimo Leone (a cura di), Censura – Censorship, «Monographic issue of Lexia», 21-22, 2016.

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sempre in nuce metafilmico) o dai tipici soliloqui rivolti alla macchina da presa. In Hanna and Her Sisters (Hannah e le sue sorelle, 1986) (ad aprire il film la seguente citazione di Tolstoj: «The only absolute knowledge attainable by man is that life is meaningless»74) Woody Allen è Mickey Sachs, che in una scena passeggia costeggiando il lago di Central Park a Manhattan e riflettendo in voce off sul fatto che tutti i filosofi che ha letto (compreso quel Socrate che, così nel doppiaggio italiano, «schiappettava i ragazzini greci»75) non gli sono serviti a nulla per svelare i misteri della vita, e che la gente attorno a lui che fa jogging «cerca di sottrarsi all’inevitabile decadimento fisico»; in Annie Hall (Io e Annie, 1977) è Alvy Singer, che compare subito dopo i titoli di testa in primo piano su un anonimo sfondo marroncino e “si confessa” attraverso alcune battute relative alla sua visione della vita e alle relazioni con le donne; in Amore e guerra come abbiamo già visto fa un monologo, prima di andarsene con la morte, sull’insignificanza del tutto; in Whatever Works (Basta che funzioni, 2009), opera posteriore di decenni rispetto a quelle finora menzionate, non è più Allen ma il suo alter ego Boris Yellnikoff, interpretato da Larry David, a parlare alla macchina da presa in molti momenti del film, dall’incipit al finale. Qui il protagonista non parla in camera “estrapolandosi” dal film, ma semplicemente lo fa nel suo agire quotidiano (nell’ambiente in cui si svolge l’azione del film, non in sfondi purgatoriali come quello dell’incipit di Io e Annie), dimostrando di essere l’unico a conoscenza del suo statuto di personaggio (gli 74 75

La fonte letteraria è: La confessione (Исповедь, 1882). Originale: «You know, this guy used to knock off little Greek boys».

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altri in scena lo additano come un folle che parla nel vuoto quando inizia i suoi soliloqui). Egli, tuttavia, è un genio cinico che pur conscio della sua condizione – un’elevazione superomistica di impronta nitzscheiana – così come inizia il film lo conclude, sostenendo la vacuità dell’esistenza e la sua imperfettibilità, e proponendo una filosofia per fuggire al dolore: “Basta che funzioni”. All’inizio del film egli dice «Tutto finisce in niente […] Morale, scienza, religione, politica, sport, amore, i vostri investimenti, i vostri figli, la vostra salute […] arriva sempre il giorno in cui vi ficcano in una scatola. Che si può fare? Si è sopraffatti […]» e conclude esortando il pubblico e smetterla di crogiolarsi con formule come «se solo avessi fatto questo o se solo avessi fatto quello» per concludere con «come mia madre diceva sempre: “se mia nonna avesse le ruote, sarebbe una carrozza”; mia nonna non aveva le ruote, aveva le vene varicose».

Basta che funzioni

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Alla fine del film, proprio allo scoccare del Capodanno durante una festa casalinga, Boris torna davanti alla camera mentre i suoi nuovi amici si scambiano gli auguri, si lamenta per i festeggiamenti, che non sono altro che festeggiamenti per «un altro passo verso la tomba», per poi deviare direttamente su un discorso sul destino: «E non vi illudete: non dipende per niente dal vostro ingegno umano, più di quanto non vogliate accettare è la Fortuna a governarvi. Quante erano le probabilità che uno spermatozoo di vostro padre, tra miliardi trovasse il singolo uovo che vi ha fatto? Non ci pensate sennò vi viene un attacco di panico». Boris Yellnikoff è l’attore-autore rassegnato, conscio della sua condizione metacinematografica, metafora di una raggiunta consapevolezza su uno stato esistenziale governato da forze incontrollabili e casuali, che si possono fronteggiare unicamente accogliendo di buona lena quegli estemporanei momenti di grazia che esse, senza alcun senso, motivo, morale o contrappasso, ogni tanto concedono, “basta che funzioni”. La cinica metacinematografia alleniana è tutta tesa nella costruzione di questa soluzione amara ma necessaria nei confronti di una destinalità indistinta, che se focalizzata con troppa serietà rischia di schiacciarci violentemente. Così, oltre al profluvio di balbettanti discorsi fatti fuori campo o guardando alla macchina da presa, e ai personaggi che escono dallo schermo, non mancano altre soluzioni che con movimento elicoidale apparentemente dequalificano lo spessore filosofico dei suoi film abbassandolo al livello della battuta (strategia à la Monty Python, che in realtà cela un solido vigore intellettuale), e dall’altro magnificano il cinema come mezzo votato alla leggerezza, capace di fornire quell’evasione che tanto i personaggi di Allen – cinefilo che sa bene chi sono Bergman o Tarkovskij e della loro “pesantezza”, e che omaggia a suo modo – al contempo ricercano e rifiutano. Nell’episodio Edipo relitto di New York Stories (Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Woody Allen, 1989) la madre di Sheldon (Allen) è talmente invadente da divenire una gigantesca testa nel cielo, capace di vedere, rimproverare, o accudire con troppa apprensione il figlio in qualsiasi momento; in Deconstructing Harry (Harry a pezzi, 1997) Mel (Robin Williams) si ammala di uno strano morbo che lo rende letteralmente sfocato, così il personaggio si muove in scene perfettamente messe a fuoco rimanendo l’unico costantemente sgranato; nel finale dell’eccezionale Bananas (Il dittatore dello stato libero di Bananas, 1971) Fielding Mellish (Allen), dopo 307

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molte imprese assurde, consuma la sua prima notte di nozze con la bella Nancy (Louise Lasser), e la scena viene trasmessa in diretta come fosse un incontro di boxe dal vero giornalista sportivo Howard Cosell, che commenta il modesto rapporto sessuale e intervista i due personaggi quando questo è concluso, mentre intorno i numerosi astanti festeggiano come se avesse vinto la loro squadra del cuore; ancora in Io e Annie si verifica un’esilarante scena metafilmica.

macchina lo mostra tirare fuori da un braccio da dietro un cartello proprio Marshall McLuhan, che umilia il signore smentendone l’interpretazione circa il suo pensiero (interpretazione che conosce pur non avendola sentita), e mentre lo fa Woody Allen si gira nuovamente verso l’obiettivo asserendo con fare sardonico: «Ragazzi, se la realtà fosse così…». La piccola e ilare scena è in realtà la concretizzazione di un’aspirazione comune, quella di mettere a tacere il saputello di turno, e contiene molti dispositivi metafilmici che collocano Woody Allen ancora una volta fuori e dentro il film al contempo, in una situazione di soglia, di cui lui si mostra consapevole proprio con la stoccata finale. “Se la realtà fosse così” è la frase che, qualora ci fossero ancora dubbi, distrugge ogni pretesa di sospensione dell’incredulità, scaraventando il film in una dimensione puramente cerebrale, come se non fosse altro che l’esplosione di una scintilla mentale del suo autore, il big bang (o big crunch) di una paranoia. Tuttavia non è solo lo sprezzo metalinguistico la strada possibile di rapporto con il proprio destino. Vedremo nel prossimo paragrafo infatti un film il cui paradigma si oppone al cinismo di Allen, sostanziale per non soccombere all’insensatezza, con una formula invece di resa.

Il dittatore dello stato libero di Bananas Alvy Singer è in fila alla biglietteria del cinema (luogo ricorrente nella filmografia alleniana) con Annie (Diane Keaton). I due vivono un rapporto disfunzionale, anche per via delle di lui nevrosi. Mentre battibeccano vistosamente, dietro di loro un intellettualoide archetipico commenta con fare borioso il cinema di Fellini, lanciando con ostentata nonchalance commenti tipicamente cinefili, cioè tutti tesi a dimostrare la propria inveterata sapienza, probabilmente per suscitare interesse verso la donna che è con lui. Alvy ascolta con insofferenza lo sproloquio del dandy, ipotizzando che la coppia sia al primo appuntamento e si sia conosciuta con un’inserzione su Vita ermeneutica («Accademico trentenne desidera conoscere donna interessata a Mozart, James Joyce e sesso anale»), e perde le staffe quando lo spocchioso inizia a strologare su Marshall McLuhan estraniandosi dalla scena (come Boris Yellnikoff ) e avvicinandosi alla macchina da presa. Inizia così a lamentarsi del tizio rivolto verso la quarta parete, e questi risentito si avvicina litigioso sbandierando i suoi titoli. Alvy così si allontana e un movimento di 308

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Lo schermo e il contagio Si tratta di Videodrome (1983) di David Cronenberg76, regista che spesso ha tradotto in cinema le tesi mediologiche di McLuhan e che costruisce un metafilm – oggi cult – tutto incentrato sul rapporto fra identità e televisione/cinema77. La trama vede protagonista Max Renn (James Woods), un uomo dall’etica ambivalente, proprietario del canale via cavo (non ci si dimentichi di contestualizzare il film al 1983) Civic TV, che trasmette contenuti pornografici e violenti. Costui incappa in un particolare segnale pirata, inizialmente reputato malese ma in seguito scoperto proveniente dalla vicina Pittsburgh, che trasmette un programma noto come “Videodrome” e basato unicamente su snuff movies. Il video-programma però si rivelerà qualcosa di più profondo, in grado di innescare tumori nel cervello di chi guarda e conseguenti allucinazioni sempre più realistiche che spingeranno il protagonista a un liberatorio suicidio sull’onda del motto: «Gloria e vita alla nuova carne»78. Tutto ciò è connesso a organizzazioni cospirazioniste, come la “Chiesa Catodica”, e a una sorta di misticismo mediale basato sulla trasformazione della carne in riferimento al video (il film pullula, come tutta la fantascienza biologica di Cronenberg almeno fino agli anni 2000 – ma in fondo anche oltre – di carne, organi, televisori fatti di membra e deformazioni splatter). Cfr. Tim Lucas, Videodrome. Studies in the Horror Film, Millipede Press, 2008 e Mark Downham, Cyberpunk!, «Vague», 21, 1988. 77 Su Cronenberg cfr. Piers Handling, The Shape of Rage. The Films of David Cronenberg, General Publishing, Toronto, 1983; Gianni Canova, David Cronenberg, Il Castoro, Milano, 1993; Michael Grant, The Modern Fantastic. The Films of David Cronenberg, Praeger, Westport, 2000; William Beard, The Artist as a Monster. The Cinema of David Cronenberg, University of Toronto Press, Toronto, 2006; Mark Browning, David Cronenberg. Author or Film-maker?, Intellect, Chicago, 2007; Scott Wilson, The Politics of Insects. David Cronenberg’s Cinema of Confrontation, Bloomsbury, London, 2011; Stefano X. Ricci, David Cronenberg. Umano, post-umano, Sovera, Roma, 2012. 78 Quella della “nuova carne” è la poetica perseguita da Cronenberg in sostanzialmente tutto il suo cinema (anche se più marcatamente nei film pre-2000). Si tratta di una riflessione sul rapporto fra tecnologia, specialmente tecnologia ottica, e umano inteso come mente inserita in un corpo carnale. Le due dimensioni tendono nel cinema di Cronenberg a ibridarsi, in modi spesso truculenti, generando mostri metamorfici. Sul tema, in ambito semiotico, si è speso Wolfram R. Keller, “Long Live the New Flesh”? David Cronenberg’s Videodrome and the Limits of Ovidian Metamorphosis in Sarah Säckel, Walter Göbel, Noha Hamdy, Semiotic Encounters. Text, Image and Trans-nation, Rodopi, Amsterdam-New York, 2009. 76

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Max Renn cerca in tutti i modi di fuggire alle allucinazioni provocate dalla visione del programma, ma questo una volta visto agisce impietosamente, come la videocassetta di The Ring (Gore Verbinski, 2002), e nella scena finale il protagonista arriva a uccidersi: La scena finale è emblematica per quello che sarà il destino [corsivo nostro] di Max (e forse non solo di lui): dallo stesso schermo dove aveva parlato Nicky, Max osserva se stesso preregistrato (un Max-VCR) che si spara. Lo schermo esplode facendo volare pezzi sanguinolenti di carne umana (o video-carne). Dopo aver visto la scena, Max replica esattamente lo stesso gesto. E nello stesso istante in cui preme il grilletto, lo schermo del cinema (o della cassetta VCR o di Max) si spegne. Alla morte corrisponde la fine del programma TV. O del film. Dopo la cessazione della vita subentra uno stato identico a un canale morto79.

Sono quantomeno evidenti le assonanze con il finale dello Sherlock di Keaton. Lì il protagonista, similmente, imitava quanto visto sullo schermo, e tuttavia la sua imitazione era una scelta, mentre qui è un obbligo inderogabile. Lì Keaton si guarderà bene dal seguire le “istruzioni” destinali fornite dal film in toto (innamòrati sì, sposati e abbi dei figli no), qui Max è costretto, nella sua ipnosi mediale, addirittura a suicidarsi. Questa complessa scena costituisce il finale del film che si propone non tanto come epilogo conclusivo quanto come conferma di un meccanismo di loop ricorsivo innescato durante la visione. Max Renn, pluriomicida ormai totalmente compromesso, si trova faccia a faccia con un televisore dal quale Nicki (Deborah Harry), invischiata sin dall’inizio nel progetto Videodrome, gli suggerisce come comportarsi. In questo speciale campo-controcampo lui è ripreso con una classica oggettiva di sbieco mentre il televisore è su di un piano frontale semisoggettivo piuttosto ravvicinato e sancisce definitivamente la valenza metacinematografica dell’intera opera. Nicki guarda l’antecampo, e quindi si rivolge tanto al protagonista quanto al mondo dello spettatore e suggerisce a Renn di passare alla fase successiva poiché in lui sta già nascendo la “nuova carne”. Nel televisore poi il montaggio passa dal primo piano di Massimo Canevacci, Antropologia della comunicazione visuale. Feticci merci pubblicità cinema corpi videoscape, Meltemi, Roma, 2001, p. 236.

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Nicki all’oggettiva di Renn stesso che così è contemporaneamente in campo ma anche fuori campo, mediaticamente sdoppiato. Guarda se stesso. L’inquadratura si presenta come un meta-movimento di macchina: la mdp si muove selettivamente in avanti verso il televisore (mov1) tanto quanto la mdp del televisore si muove in avanti verso il Renn inquadrato (mov2); e il presupposto è che in tutto ciò vi sia un Renn guardante. Ciò è fondamentale, dal momento che è la dialettica osservatore-osservato, il presupposto voyeuristico-scopofilo a costituire uno dei punti di maggiore interesse in prospettiva destinale: guardare l’orrido nel cinema di Cronenberg non è solo un’azione passiva, ma anche e soprattutto un’azione performativa, che partecipa attivamente alla poetica della nuova carne, che sancisce assieme un essere e un fare, come dimostrerà la tragica fine di Renn.

delle interiora di carne, che potrebbero essere tanto di Renn, quanto della macchina, quanto allo scopo della nostra tesi le interiora del rappresentato come fusione carne-immagine. La macchina da presa si avvicina, Renn si inginocchia verso il fuoco, si punta la pistola alla tempia, pronuncia la sua sentenza performativa, e spara. Dopo è il nero dei titoli di coda. Ma l’atto ripreso continuerà a ripetersi, alla stregua dell’incipit del più recente Scream 4 (2011, di Wes Craven), ove la stessa scena, declinata secondo un divertissement in chiave autoparodica, si ripete fino alla granitica asserzione di una delle protagoniste della scena stessa: «Sempre le solite meta-cazzate postmoderne».

Scream 4 Videodrome Il mov1 non è subordinato al mov2 in quanto arriva a inquadrare esattamente la superficie dello schermo televisivo destituendolo come presenza di fatto mentre il mov2 sta ancora proseguendo, più lentamente, verso il primo piano di un Renn che ugualmente guarda il fuori campo puntandosi alla tempia una pistola oramai incarnata con la mano stessa (strumento come estensione, come protesi del corpo, secondo la teoria di McLuhan). Quando questi fa fuoco subito dopo aver pronunciato il mantra “Gloria e vita alla nuova carne” un raccordo sull’asse riporta l’apparecchio televisivo in campo medio mostrando l’esplosione dello schermo che fa fuoriuscire violentemente 312

Subentrano così alcuni elementi non ancora esplorati nello specifico, e che pure hanno a che fare direttamente con la destinalità. Innanzitutto rileviamo come il finale di Videodrome sia effettivamente costruito su una interpellazione, che richiama le “immagini che ci guardano”80 già analizzate in precedenza. Max Renn nel puntarsi la pistola alla tempia guarda oltre lo schermo televisivo la prima volta (una meta-interpellazione) e oltre la quarta parete la seconda. È in questo senso il capolinea della speranza, momento in cui dopo Ci riferiamo qui al fondamentale Horst Bredekamp, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico, Raffaello Cortina, Milano, 2015, dove viene proposta una teoria dell’atto iconico in cui trova ampio spazio l’interpellazione e la capacità dell’immagine di convocare, sotto vari aspetti, chi la osserva, attraverso esempi tratti da numerosi campi artistici.

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aver passato l’intero film a lottare contro la sua condizione, che si è procurato per curiosità e morbosità visionando Videodrome, si rende conto di avere perso la sua lotta, così volgendosi verso il lato oscuro del suo mondo, quello proibito, l’antecampo. Questo tipo di interpellazione è quindi nelle intenzioni diametralmente opposta a quelle di Allen. In quei casi la “chiamata in causa” allo spettatore costituiva una momentanea transizione ontologica nella quale il personaggio, con un certo fare superomistico, si dichiarava cosciente dei propri limiti e capace di trattarli con un certo distacco. Qui invece è un atto di amara accettazione. Renn rompe la quarta parete arrendendosi, non chiede complicità allo spettatore quanto piuttosto pietà. Non riesce a negoziare con se stesso la propria condizione. Non è un “cenno d’intesa”81, quanto lo sguardo disperato di un condannato fuori dalle sbarre della propria prigione, come quello in qualche modo del dottor Caligari alla fine di Das Kabinett des Doktor Caligari (Il gabinetto del dottor Caligari, Robert Wiene, 1920). Sklovskianamente, mentre gli sguardi di Allen sono consapevoli, quello di Renn è del tutto straniato, e produce una Verfremdung. Le figure della reiterazione e della “gemellazione” dell’immagine giocano un altro ruolo fondamentale. Max assiste all’atto che compirà, e così lo compie. L’atto che compie si fa causa dell’atto che compie, in un cortocircuito schermico ove i livelli di realtà si fondono carnalmente generando un intrico di sapore kaufmaniano, che sarà caro a Cronenberg anche in seguito, come in eXistenZ (1999). La reiterazione delle immagini è peraltro soggiacente a una dialettica fra ipermediazione (lo schermo TV) e immediatezza (l’interpellazione “nonmediata” – per di più su anonimo sfondo nero – finale)82, ove le due categorie si scontrano producendo l’esplosione (come sappiamo, la resa del destino al nulla) dell’apparecchio televisivo, letteralmente sbudellato. Il riverberarsi delle immagini, il loro creare doppi83, moltiplica le istanze destinali e gli apparati ermeneutici (non c’è più un solo Max Renn, ma due, dieci mille Renn, uno per ogni schermo, uno per ogni visione), ma con ciò non ne modifica la strutturalità, piuttosto ne amplifica l’esplosività della convergenza finale. La presenza di una carnalità oscena e manifesta, di una corporeità detur-

pata e contaminata, è questo il tassello ulteriore che Cronenberg ci fornisce, non solo nella prima fase della sua produzione ove la “polpa” è palesata, ma anche nelle sue opere più recenti, ove spesso è mascherata ma infine sempre lì: in Cosmopolis (2012), tratto dall’omonimo romanzo di Don DeLillo del 2003, il protagonista Eric (Robert Pattinson) si atteggia a individuo postumano, ma orina, ha rapporti sessuali, si spara sul palmo di una mano; in Maps to the Stars (2014) Agatha (Mia Wasikowska) porta sul volto i segni di orribili ustioni. La carne permea le opere di Cronenberg ed è infine su di essa che la destinalità si cuce come fosse una ferita suturata da un chirurgo, per restare nella metafora. Cronenberg sancisce la materialità corporea dei suoi personaggi, spesso elusa dal cinema: nello slapstick delle origini essi sembrano fatti di gomma, nel cinema di Hitchcock muoiono con un colpo di pistola ma non prima di rocambolesche avventure che stroncherebbero chiunque non sia un atleta rodato. Il corpo e l’immagine vengono ricondotti a un unicum, in Videodrome lo schermo televisivo si fa letteralmente carnoso. E questo rapporto genera spesso orribili contaminazioni, come se non fosse un rapporto armonico, come se da entrambi i lati ci fossero delle mutue resistenze: l’immagine vuole accompagnare la narrazione, la carne la inchioda. La stessa insistenza di Videodrome verso la tumoralità, escrescenza inarrestabile e incontrollata, metaforizza l’emergere del limite della materialità quando affiancata all’idealità. La politica della carne («Gloria e vita alla nuova carne») prorompe come nuova venatura destinale: «tutto il cinema di Cronenberg è interessato più all’interno del corpo che al suo esterno. La pelle non è altro che una fragile guaina che tiene a freno un insieme di forze che preme al suo interno»84. La pelle come guaina, già platonicamente85, è in effetti metafora di un corpo che se in certo cinema non è considerato a tutti gli effetti parte sostanziale del destino dei personaggi, in Cronenberg riacquista valenze significative, si fa “impronta”86. A meno che un film non tratti di malattie, o di personaggi

Cfr. Francesco Casetti, Cenni d’ intesa, «Comunicazioni sociali», 3-4, 1981. Le due categorie sono da ricondursi, naturalmente, a Jay David Bolter, Richard Grusin, Remediation. Understanding New Media, MIT Press, Cambridge, 1999. 83 Qualcosa di simile accade in Benny’s Video, ove la violenza si reitera attraverso un sistema di schermi.

84 Damiano Cantone in Luca Taddio (a cura di), David Cronenberg. Un metodo pericoloso, Mimesis, Milano-Udine, 2012, p. 21. 85 È nel Fedone che si realizza la scissione fra pratica filosofica e corpo, scissione che Cronenberg rifiuta. 86 Su una semiotica del corpo, branca della disciplina oggi di rilievo, cfr. almeno Jacques Fontanille, Soma & séma. Figures du corps, Maisonneuve et Larose, Paris, 2004; Luciana Diodato, Semiotica del corpo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003 e Prisca Amoroso, Corpo, linguaggio e senso tra semiotica e filosofia, Esculapio, Bologna, 2016.

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fisicamente connotati (molto grassi o molto magri, molto belli o molto brutti, per esempio), tendenzialmente il fatto che loro abbiano un corpo è un dato narrativamente secondario87. Non ci è dato sapere dei loro movimenti interni, di cosa succede nella loro guaina, se non in episodi sporadici. Eppure il corpo è invece il primo luogo di residenza della soggettività e dell’azione situata, fortemente impattante in termini destinali. È nel corpo che si realizza l’estesia, l’incontro-scontro fra senso e sensazione88, ed è col corpo che oggi la ricerca cinematografica su base neuroscientifica si confronta89. È col corpo e i suoi confini90 che si scende a patti quando si devono superare certe prove (correre, salire le scale, risultare di bell’aspetto in una determinata occasione), ed è il corpo stesso che, contro i desideri dell’io, decide della nostra sorte quando ci ammaliamo. Cronenberg riporta il corpo al centro del suo discorso destinale scegliendo di mostrarlo in una sovrabbondanza di carne che, proprio per il suo intrinseco potere di condizionamento della vita, travalica l’essere umano e si sposta negli schermi e nelle immagini, la “nuova carne”. Se, come abbiamo detto sin dalle prime pagine, la destinalità si espleta attraverso un orientamento, che si evince attraverso un movimento, allora il corpo è centrale, dal momento che è il supporto che ci è dato per muoverci nel mondo.

È evidente come ciò non valga nei generi a fondazione prettamente corporea, come nel caso dello splatter o della pornografia. 88 Si staglia qui il fecondo dibattito sul rapporto fra cinema e sensorialità, di cui si trovano efficaci sviluppi in Agnes Pethő (ed.), The Cinema of Sensations, Cambridge Scholars Publishing, Cambridge, 2015. 89 Nel contesto italiano fra gli ultimi studi in merito cfr. Ruggero Eugeni, Semiotica dei media. Le forme dell’esperienza, Carocci, Roma, 2010; Adriano D’Aloia, La vertigine e il volo. L’esperienza filmica fra estetica e neuroscienze cognitive, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma, 2013, e Ruggero Eugeni, Adriano D’Aloia (a cura di), Teorie del cinema, cit. Al loro interno sono presenti ricche bibliografie e compendi che restituiscono con efficacia la complessità degli studi e del dibattito nel merito. 90 Cfr. Franco Rella, Ai confini del corpo, Feltrinelli, Milano, 2000.

contrario può esservi un destinante destinato, come l’autrice di Vero come la finzione, che scrive il libro di cui è protagonista Harold Crick, e così scrive il film, ma lo fa in una morsa fra aspirazioni di successo ed emergenza etica (se il suo personaggio prova emozioni, come può ucciderlo?). Questi esempi solo per rilevare come le categorie identificate in precedenza valgano qui. Ne emergono però di nuove. Vi è innanzitutto la questione dell’enunciazione enunciata, che si presenta con particolare vigore in questi casi. Come abbiamo visto per Biancaneve e i sette nani l’enunciazione enunciata “costringe” il film all’interno di uno specifico regime destinale. Metafisicamente sancisce uno sguardo che risiede sopra la rappresentazione. Semioticamente, in base alle marche di tale enunciazione enunciata, si attivano dei sistemi presupposizionali che consolano o inquietano lo spettatore, proprio in termini di idea di destino. Il fatto che la storia di Biancaneve cominci da un libro di fiabe, come abbiamo visto, implica una ingente quantità di presupposizioni che hanno lo scopo di irreggimentare l’attività inferenziale di chi guarda il film. Ogni presenza di enunciazione enunciata indica un’autorialità. A livello opposizionale è interessante notare come tale enunciazione possa essere posta all’inizio, come per Biancaneve, o più avanti, finanche alla fine, come in Stand by Me (dove pure ci sono tracce di autorialità a partire dalla voce over che trasforma il film in un racconto in terza persona). Che sia palesata in una posizione anziché un’altra l’enunciazione enunciata modifica la struttura destinale, in virtù di un processo cognitivo per il quale se è messa prima essa sarà vista, perlopiù, come istanza che controlla, veglia, determina, mentre alla fine come istanza che rileva una serie di fatti già avvenuti, e spesso incontrovertibili. L’autorialità inoltre si pone come istanza metafilmica che ha sempre un potere di qualche tipo sulle vicende. In Funny Games Peter e Paul possono addirittura riavvolgere il tempo per modificare situazioni che gli sono sconvenienti, così come può fare Sutter Cane ne Il seme della follia, ne La rosa purpurea del Cairo Baxter esce dallo schermo e agisce nel mondo “vero”, in Sherlock Jr. Keaton entra nel film modificando se stesso. In questi casi parleremmo di una potenza attualizzata dell’autorialità, che si traduce in un’idea di destino per la quale chi scrive la nostra vita può esercitarvi forme di controllo più o meno dispotiche. Di contro può esserci invece una potenza virtualizzata, che si evince dall’esistenza stessa dell’autorialità, la quale però si limita a essere, in alcuni casi a guardare, e alle volte addirittura risulta sconfitta dalla volontà

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L’autore e la destinalità La presenza di un’autorialità che si manifesta nei vari modi descritti contribuisce a delineare la destinalità del film. Vi si può trovare un destinante tautologico, come nel caso del divino Sutter Cane de Il seme della follia, o al 87

dei personaggi. Nei film scritti da Kaufman ciò è evidente: i protagonisti sono destinanti e destinatari, autori dello stesso mondo che vivono, ma tale potenza si riduce a castelli per aria che di solito portano esiti nefasti. Woody Allen nei suoi film esce spesso dal personaggio (come fa quando dichiara in Io e Annie che vorrebbe che la realtà fosse più simile a un film), ma con ciò non ha in realtà il potere di rendere sensata la realtà oltre al cinismo con cui la guarda. Spesso poi le sue incursioni nel mondo dello spettatore non sono percepite dai personaggi che gli ruotano attorno (o sono viste come stramberie, come in Basta che funzioni), a dire che egli in realtà ha il potere di sapere, ma non di agire, e che quando interpella lo spettatore il tempo del film si ferma. In Shining, addirittura, l’autorialità (lo sguardo malefico che incombeva minaccioso sulla famigliola) viene sconfitta dal piccolo Danny Torrance. La componente meta- implicitamente attivata dall’autorialità palesata può poi corrispondere sostanzialmente a due strutture destinali. Da un lato c’è una struttura teleologica, per la quale se esiste un autore, sia esso potente o impotente, destinante tautologico o destinante destinato, comunque le cose hanno un qualche senso, tout se tient, nel bene o nel male. Nel bene come in Vero come la finzione, dove l’autore alla fine risparmia il personaggio, o nel male come in Videodrome, dove anche il corpo viene riconsiderato in quanto limite-potenziale destinale. Dall’altro lato c’è una struttura ricorsiva, stile loop, per la quale il cortocircuito ingenerato dalla componente meta- virtualizza un ripetersi all’infinito ove i personaggi rimangano incastrati. Ciò è palese in In the Mouth of Madness, nei lavori di Kaufman, nello stesso Allen.

Capitolo 5 Il loop Nella prima delle due vigilie di Natale del 2000, l’ancora religiosa guardia giurata afroamericana Dudley Prince pensò che «Le sorelle B-36» di Trout potesse essere un messaggio di Dio in persona inviato all’Accademia. Quello che era successo al pianeta Bubu, in effetti, non era molto diverso da ciò che sembrava accadere al suo stesso pianeta, e specialmente ai suoi datori di lavoro, cioè a quel che rimaneva dell’Accademia Americana di Arti e Lettere, lì sulla 155a Strada Ovest, due isolati a ovest della Broadway. Kurt Vonnegut, Cronosisma

Il giro dell’orologio e l’eterno ritorno delle scimmie I film di loop temporali occupano senz’altro un posto preminente all’interno di una filmografia della destinalità1. Essa si pone infatti come struttura più o meno negoziale, che può offrire ai protagonisti l’occasione di tornare indietro in un intervallo temporale variabile per modificare i propri percorsi, e così Terremo qui conto quasi esclusivamente del filone del loop, senza addentrarci nell’immenso insieme più generale di film sui viaggi nel tempo (a meno che questi non producano loop). Il cinema in questione è naturalmente significativo secondo una prospettiva destinale, tuttavia le considerazioni che muoveremo sullo specifico del loop terranno già conto delle implicazioni più generali sul viaggio nel tempo, attraverso specifici casi che moduleremo man mano. Per un approccio scientifico e filosofico alle storie di viaggio nel tempo cfr. Paul J. Nahin, Time Machine Tales: The Science Fiction Adventures and Philosophical Puzzles of Time Travel, Springer, Cham, 2017. Una teorizzazione stimolante sul rapporto fra cinema e tempo anche in Roberto De Gaetano, Passaggi. Figure del tempo nel cinema contemporaneo, Bulzoni, Roma, 1996.

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mutare in meglio o in peggio l’incedere degli eventi. Non tratteremo dunque più di figure specifiche come istanze destinali (come fatto in precedenza a proposito di Morte, Dio, Stato, e in una certa misura Autore), ma ci concentreremo su una specifica struttura della destinalità: il loop. Il pattern evenemenziale è tendenzialmente sempre il medesimo. Un’istanza destinale (un destinante solitamente) obbliga i protagonisti a perpetuare il loop sino al raggiungimento di un determinato oggetto di valore, sanzionandoli positivamente con la fuoriuscita dall’anello. Tuttavia non è detto che l’oggetto di valore del destinante sia coincidente con quello dei destinatari, che spesso affrontano la narrazione circolare calibrando man mano non solo i programmi narrativi che li porteranno all’uscita, così adempiendo alla loro missione, ma anche istituendo un’ideologia precisa: la loro prigionia nel loop è infatti, almeno a grandi linee, interiorizzata come una sorta di contrappasso. L’oggettività della loro situazione peculiare si interpola con la loro soggettività fatta dei fantasmi di un vissuto che comprendono avere condotto in maniera in qualche modo immorale. In questo senso si rintraccia con nettezza la connessione fra destinalità, idea di destino, idea di mondo, a partire da un sostrato moralistico2 che è comune a tutte le semantizzazioni della destinalità come istanza-guida, ove il sacrificio di se stessi (finanche della propria vita) è catarsi per il raggiungimento di una pace interiore o punizione per un comportamento dissoluto. Il paradosso della destinalità a loop è che questa, pur apparendo come totalmente negoziale, dando l’opportunità agli intrappolati di rivivere lo stesso tempo molte volte, in realtà si configura come una struttura dispotica, poiché non consente di uscire dalla gabbia temporale se non tramite il compimento di programmi ben precisi, su cui i protagonisti, alla fine della narrazione, sembrano quasi sempre avere scarsa se non nulla possibilità di manovra.

È tale doppiezza della struttura destinale, ideologica a base dispotica, a fare del loop un impianto che esula da una certa distinzione di genere. Pur rintracciando infatti una discreta mole di testi filmici in qualche misura di fantascienza, ove il loop è generato da espedienti narrativi quali marchingegni tecnologici, entità aliene, o simili, vi sono altrettanti casi di film ove il loop si genera tautologicamente, si genera perché si genera, come strano momento ove il tempo si ritorce su se stesso, per tutti o solo per il personaggio al suo centro, che nello svolgere le sue missioni, in una compressione degli eventi ove ogni snodo testuale diventa disgiunzione di probabilità 3, trova la soluzione quando trova se stesso (non quindi dissimilmente dai destinatari dei due capitoli precedenti, obbligati a fare in quanto obbligati a essere). Così il contesto fantascientifico fa da base per la costruzione di film romantici, horror, melodrammi e storie di cospirazioni, che ora analizzeremo nel dettaglio4. In termini filologici il primo caso rilevante è Turn Back the Clock (Edgar Selwyn, 1933), film appartenente all’era del cinema hollywoodiano classico che presenta già chiaramente numerose delle isotopie e dei temi del cinema di loop moderno e postmoderno. Il protagonista Joe Gilmet (Lee Tracy) durante una cena ha un diverbio con la moglie Mary (Mae Clarke) per via di una differente visione sulla gestione del patrimonio famigliare. Egli vorrebbe investire i loro risparmi nella compagnia del suo amico di infanzia Ted Wright (Otto Kruger), mentre ella risulta riluttante. Joe così, ubriaco, litiga con la moglie sostenendo che avrebbe dovuto sposare la ricca Elvina (Peggy Shannon), e uscendo di casa viene travolto da un’automobile e portato d’urgenza in ospedale per un intervento chirurgico. Al suo risveglio si ritroverà indietro nel tempo, ancora giovane, e coglierà l’occasione di sposare per davvero Elvina, vivendo una vita lussuosa poiché già edotto sul futuro, e quindi capace di sfruttare la sua conoscenza a proprio vantaggio. Tuttavia quando si tratta di investire i soldi nel negozio di sigari di Ted le cose iniziano a mettersi male,

La coazione a ripetere come generatore di ideologie (o innescata dalle ideologie stesse) è un pattern diffuso non solo nei film di loop, ma anche in tutto il cinema di punitori, antieroi, serial killer che agiscono ripetitivamente allo scopo di sottolineare la loro moralità. Un esempio di successo è quello della saga di Saw (Saw – L’enigmista, James Wan, 2004; Saw II – La soluzione dell’enigma, Darren Lynn Bousman, 2005; Saw III – L’enigma senza fine, Darren Lynn Bousman, 2006; Saw IV – Il gioco continua, Darren Lynn Bousman, 2007; Saw V – Non crederai ai tuoi occhi, David Hackl, 2008; Saw VI – Credi in Lui, Kevin Greutert, 2009; Saw 3D – Il capitolo finale, Kevin Greutert, 2010; Saw Legacy, Michael e Peter Spierig, 2017), ove il serial killer uccide a ripetizione le sue vittime adducendo a motivo del suo agire la loro abiezione morale, così come fa il serial killer di Se7en (David Fincher, 1995).

Utilizziamo qui l’espressione di Umberto Eco, che definisce il momento in cui «il lettore perviene a riconoscere nell’universo della fabula […] l’attuazione di una azione che può produrre un cambiamento nello stato del mondo narrato, introducendo così nuovi corsi di eventi […]» (Lector in fabula, Bompiani, Milano, 1979). 4 Muoviamo dalla premessa di fondo per la quale il cinema di fantascienza sia in realtà trasversale a molti generi e costituisca sempre, in qualche misura, una pratica speculativa che, pur generando mondi fantastici, riflette la realtà dello spettatore, sulla scorta di Luca Bandirali, Enrico Terrone, Nell’occhio, nel cielo. Teoria e storia del cinema di fantascienza, Lindau, Torino, 2008.

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nonostante questa volta la scelta di Ted sia stata assecondata dalla moglie. Da qui in poi una serie di sventure sempre peggiori porteranno Ted a rimpiangere la sua prima vita, fino al suo arresto. Immediatamente dopo il protagonista si risveglierà nella sua stanza d’ospedale, in qualche modo rendendosi conto che la sua esperienza è stata frutto di un sogno, e giurando a Mary di non voler cambiare nulla della loro vita assieme. Questa trama, settata sui registri del dramma hollywoodiano brillante, ha già in sé:

- l’esperienza dell’incidente come evento traumatico che innesca il loop; - l’onirismo come pretesto per giustificare il loop senza ricorrere a sortilegi od ordigni fantascientifici; - l’idea del loop come generatore di una topologia altra, ove le frustrazioni del protagonista per via di presunte scelte sbagliate possono essere corrette; - il loop come congegno morale, che offre una seconda possibilità al protagonista salvo poi “educarlo” circa l’impossibilità di contravvenire a un destino segnato dalla necessità e l’immoralità sottesa al ritorno indietro nel tempo per cambiare episodi spiacevoli della propria vita; - il loop di impostazione tirannica, che anziché consentire di cambiare in meglio le cose le cambia in peggio, o richiede il ritorno a un equilibrio iniziale su cui il protagonista non ha potere; - il loop come motore di una consapevolezza esistenziale, costruita su terreni ideologici.

del loop, come quelli che qualche anno dopo daranno spessore alla commedia fantastica It Happened Tomorrow (Avvenne domani, René Clair, 1944), una Time Machine Tale in piena regola ispirata al racconto The Jest of Hahalaba di Lord Dunsany (1928)5, ma anche dalla produzione di film che in qualche modo ne ripropongono gli argomenti attraverso delle variazioni sul tema, come Seconds (John Frankenheimer, 1966). Tetro film di estetica che ricorda quelle dell’espressionismo tedesco, qui la seconda possibilità non arriva in seguito a un incidente, ma passa sempre, come in Turn Back the Clock, da un reparto chirurgico. In questo film, che non propone un loop ma certamente propone una riflessione su possibilità e necessità, Arthur Hamilton (John Randolph) decide di dare un taglio alla sua vita sicura ma monotona rivolgendosi a un’agenzia che ne inscenerà la morte e, con l’ausilio della chirurgia plastica, gli offrirà una seconda chance. Così il protagonista diventa Antiochus “Tony” Wilson (Rock Hudson), non più un impiegato ma un pittore di Malibu, con una vita piena di soddisfazioni di ogni genere. Tuttavia, dopo la fase catartica, ormai del tutto codificata, delle gozzoviglie e delle orge, si renderà conto di non poter cancellare del tutto il passato, e cercando di tornare verso esso si renderà conto di come alla fine il torto che si fa al destino (cioè il cambio coatto della propria vita tramite mezzi “non autorizzati”) ha sempre un prezzo da pagare. Se infatti in Turn Back the Clock l’onirismo fa da cuscino al protagonista, il quale può esperire in una dimensione sicura la seconda possibilità per poi tornare alla prima, in Seconds il protagonista verrà ingannato dall’agenzia, che anziché condurlo a una ulteriore operazione lo porterà a morte, per usare il suo cadavere come maschera per un nuovo “paziente”. Come in Turn Back the Clock anche in film più noti, si pensi alla saga Ritorno al futuro, la possibilità di tornare indietro è adoperata per arricchirsi previa conoscenza del futuro. Nella parte II della saga di Zemeckis infatti il malvagio Biff Tannen (Thomas F. Wilson) scoprirà il modo di diventare facoltoso sfruttando un almanacco sportivo proveniente dal futuro, grazie al quale potrà conoscere i risultati dei maggiori eventi sportivi degli anni a venire e guadagnarne tramite le scommesse. Sul filone prettamente fantascientifico il testo seminale da cui invece è opportuno cominciare, per la sua influenza culturale, è 12 Monkeys (L’esercito delle 12 scimmie, Terry Gilliam, 1995), che già ha avuto modo di essere tratta-

Questa schematizzazione è condivisa da una considerevole parte del cinema del loop, che esploreremo in quanto risulta una sorta di genere codificato, la cui pervasività e trasversalità ci dice certamente di un certo interesse condiviso circa il rapporto con un’istanza destinale non solo presente sul metalivello morfologico, quello cioè che determina il modo dell’incedere degli eventi della narrazione “invisibilmente”, ma anche nella diegesi stessa, e addirittura nel suo lato significante. Turn Back the Clock è l’iniziatore di un cinema del loop che non si esaurisce quindi in un ghiribizzo avveniristico, né in questo o quel genere, ma che più o meno in profondità esplora il nostro rapporto con l’incedere degli eventi, come anche le nostre stesse procedure di evenemenzializzazione. Il carattere profetico di questo film, oggi del tutto ignorato, è d’altronde dimostrato non solo dalla larga diffusione di certi pattern tematici e rematici e

5 Se ne parla in Paul J. Nahin, Time Machine Tales, cit., a proposito di testi che con le loro sperimentazioni narrative hanno anticipato il principio di autoconsistenza di Novikov.

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to in sede semiotica da Guido Ferraro, il quale lo pone, a ragione, in parallelo con La Jetée (Chris Marker, 1962)6: Gli autori di Twelve Monkeys sono evidentemente affascinati dal gioco degli spostamenti nel tempo che trovano nel testo di Marker. Tuttavia – ed ecco un primo caso interessante di legame tra due testi che implica ripresa e trasformazione — non è tanto l’aspirazione a fermare il tempo che li attrae quanto la possibilità di dar vita a un meccanismo della temporalità circolare, o forse meglio a una rappresentazione della logica della circolarità in quanto tale: un tratto che viene significativamente segnalato già dalla grafica studiata per i titoli di testa7.

La Jetée è in effetti l’opera cui si deve l’ispirazione de L’esercito delle 12 scimmie. Nel film di Chris Marker, un cortometraggio sperimentale di 28 minuti costruito perlopiù come una concatenazione di fotografie e una voce narrante (nei titoli di testa è scritto photo-roman, “fotoromanzo”, a innalzare sensibilmente lo statuto estetico di una forma testuale altrimenti spesso pensata come kitsch), si “narra” la storia di un bambino che all’aeroporto di Orly assiste all’omicidio di un uomo, e che nonostante tutto rivolge ossessivamente, magneticamente, la sua attenzione verso una donna lì presente. Trent’anni dopo, in un futuro post-atomico “da manuale”, alcuni scienziati hanno inventato il viaggio nel tempo e un uomo viene inviato nel passato in cerca di informazioni utili alla costruzione di un mondo migliore. Quest’uomo viene inviato nell’aeroporto di Orly, esattamente nel momento in cui il bambino si trovava ad assistere all’omicidio, e si innamora della stessa donna guardata ossessivamente dal bambino, prima di essere assassinato. Si comprende, infine, che l’uomo ucciso inviato dal futuro non è altri che il bambino cresciuto, che continua a tornare sullo stesso luogo in un loop eterno. È il tòpos del doppio, della visione esterna di se stessi e della visione di se stessi uccisi, su cui si costruiranno L’esercito delle 12 scimmie e altri film del loop 6 Un recente studio sulla costruzione del film in Chris Darke, La Jetée, Bloomsbury, London-New York, 2016. Cfr. anche Ivelise Perniola, Chris Marker, o Del film-saggio, Lindau, Torino, 2003; Bernard Leconte, L’approche d’un film mythique. La Jetée, Chris Marker, 1963. Quarante ans après, L’Harmattan, Paris, 2005; Viva Paci, Il cinema di Chris Marker: come un vivaio di pescatori di passato dell’avvenire, Hybris, Ozzano dell’Emilia, 2005. 7 Guido Ferraro, Generazione dei testi e irresponsabilità d’enunciazione, cit., p. 315.

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La Jetée come Predestination (Michael e Peter Spierig, 2014). Si tratta di un tòpos, peraltro, che conferma la tesi di Colin McGinn, che avalliamo completamente, di una misteriosa e affascinante vicinanza topologica, tematica e rematica, fra il film e i sogni (esperienze queste ultime dove è possibile vedere se stessi da un punto di vista che ci appare oggettivo). Vi sono una serie di aspetti in cui l’esperienza onirica corrisponde a quella cinematografica che mi limiterò qui a elencare: fusione sensoriale-affettiva, in cui l’immagine è adattata formalmente all’emozione; discontinuità spaziale e temporale, lo spettatore come il sognatore è trasportato bruscamente da un luogo e un tempo a un altro, senza viaggiare in modo continuo attraverso lo spazio e il tempo intermedio; montaggio, per cui l’unità tematica è mantenuta senza obbedire alle leggi della natura; l’intricato mescolarsi di realtà e fantasia sia nel sogno sia nel cinema; il modo in cui le menti delle persone sono messe in primo piano in entrambi i tipi di esperienza; la prevalenza di un movimento corporeo accennato o estremo, spesso di tipo diverso da quello della vita ordinaria; il modo in cui sogni e film affrontano alcune delle nostre più basilari paure e desideri; l’elevato grado di assorbimento mentale caratteristico del sogno ma anche della visione di una pellicola8. 8

Colin McGinn, Una teoria multimodale dell’esperienza filmica, cit., p. 22.

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In La Jetée dunque il loop reifica un onirico accartocciarsi del tempo senza via di uscita, e il lato significante del film fa da contraltare a tale ermeneutica. Il film, che sappiamo essere deleuzianamente immagine-movimento, tentenna di fronte alla sua natura discratica, al contempo ferma e (se)movente, e così involve ed evolve simultaneamente, presentandosi come un movimento di punti fermi, appunto una successione di fotografie: «il susseguirsi di immagini immobili, di movimenti visivamente raggelati, vale senza dubbio come formante dell’organizzazione espressiva del testo, correlabile a entità corrispettive sul piano del senso»9. Ne L’esercito delle 12 scimmie, da cui è tratta anche la serie tv 12 Monkeys (2015-2018, ideata da Terry Matalas e Travis Fickett), tale corrispondenza fra piano dell’espressione e piano del contenuto è preservata ed edulcorata assieme. Come Ferraro indica vi è fin dai titoli di testa una certa proposizione della circolarità temporale, e la regia di Gilliam – autore votato a un’esorbitanza della composizione plastica e a una sperimentazione formale pregna di angolature e piani inconsueti – ricalca la poetica visiva di Chris Marker, in ogni caso decisamente più sobria. Anche dal punto di vista narrativo la storia è molto simile. Qui James Cole (Bruce Willis) vive in un futuro distopico, tratteggiato come quello di Chris Marker, e viene mandato indietro nel tempo per indagare sulle cause della violenta diminuzione di popolazione nel suo “presente”. Nel passato dopo numerose peripezie si imbatte in un gruppo terroristico noto come Esercito delle 12 scimmie, responsabile del virus letale che decimerà la popolazione mondiale, e si invaghisce di una dottoressa. Nonostante tutti i suoi tentativi di modificare il corso della storia tuttavia l’amaro finale sarà quello di un assassinio in aeroporto, ove verrà colpito a morte da un agente di sicurezza nel tentativo di fermare il biologo che porta con sé il virus per consegnarlo proprio a una di quelle donne che nel futuro lo avevano ingaggiato per l’arduo compito. Così muore, osservato da un bambino che altri non è che il sé del passato. L’esercito delle 12 scimmie è così lo sviluppo narrativizzato e adeguato ai canoni del cinema mainstream del canovaccio imbastito da Chris Marker. In entrambi i film il loop è virtualizzato e non attualizzato. Non assistiamo all’incedere delle possibilità, al loop come dato di fatto, ma siamo invece sottoposti alla generazione dell’anello temporale, che si dà come in9

Guido Ferraro, Generazione dei testi e irresponsabilità d’enunciazione, cit., pp. 313-314.

finito. Ciò significa che le vicende di James Cole o quelle del protagonista di La jetée accadono per la prima volta davanti ai nostri occhi, anche se sul piano ontologico sono un tratto infinitesimo dell’eterno e immutabile ritorno che da lì in avanti le contraddistinguerà. Il loop nasce nel momento in cui il bambino vede l’uccisione di se stesso. È la genesi a partire dal trauma, psicanaliticamente l’inizio dell’ossessione-compulsione, crasi fra eterno ritorno nietzschiano e coazione a ripetere freudiana. Il protagonista non sa chi sia l’uomo ucciso, ma tale visione lo segnerà e tale marchio lo condurrà a essere proprio l’uomo ucciso di fronte a se stesso. La struttura destinale, coniugata con il supporto fantascientifico (senza viaggi nel tempo questi loop non esisterebbero, e il bambino potrebbe diventare un verduriere come un killer), piega il mondo attorno al bambino, che non essendo il superuomo nietzschiano è costretto inconsapevolmente a ripetere le sue tristi vicissitudini ab æterno, senza variazioni. Si tratta forse di una delle più dispotiche strutture destinali possibili, poiché a farne le spese non è solo il bambino, ma l’intero universo diegetico e l’intero universo mondo. Se, infatti, in una storia con temporalità lineare si può presumere che le vicende di un bambino che assiste a un omicidio pieghino il suo mondo, ma lascino immutato quello di chi vive nel condominio di fianco, qui il tempo è piegato per tutto l’universo, e i trent’anni di range in cui il protagonista si muove sono solo il palinsesto di un programma sempre uguale a se stesso, a meno che non si pensi all’introduzione di un agente esterno (eventualità incompossibile o compossibile, in dipendenza della struttura della narrazione, ma in questo caso del tutto impossibile). È il caso di Predestination. Il film dei due gemelli tedeschi è l’adattamento cinematografico del romanzo ...All You Zombies… (Tutti voi zombie, Robert A. Heinlein, 1959) e si colloca nei film di loop a sfondo fantascientifico. Anche qui la storia vede interfacciarsi terroristi e viaggi nel tempo, questa volta eseguiti con una strana valigetta ventiquattrore. Il protagonista (Ethan Hawke) è un agente temporale in cerca di un terrorista soprannominato Fizzle Bomber, che colpisce in luoghi e tempi diversi, e per questo risulta del tutto imprevedibile. Qui il meccanismo è portato alle estreme conseguenze, giacché pian piano il protagonista scoprirà che il terrorista è egli stesso, trasformatosi in un parossistico personaggio dopo aver scoperto che non c’è fine al suo loop, e in seguito alla presa di consapevolezza di essere contemporaneamente figlio, madre e padre di se stesso, per via del suo essere nato ermafrodita e aver letteralmente fatto sesso con due versioni maschili e femminili

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L’esercito delle 12 scimmie di sé provenienti da tempi diversi. Egli è così destinante, destinatario, oggetto di valore, soggetto, aiutante, opponente. Egli è John, Jane, e Fizzle Bomber, ma anche un agente che con questi personaggi si rapporta, in un continuo avvilupparsi del tempo che infine si chiude in cerchio per ricominciare: John uccide la sua versione anziana, ma il logorio dei viaggi nel tempo provoca in lui seri problemi neurologici e così, gradualmente, si avvia a diventare nuovamente la propria folle versione anziana per essere ucciso da un altro se stesso10.

Il rapporto fra informazione (in primis informazione sul chi si è) e loop è anche indagato in film come il sudcoreano A Day (Cho Sun-ho, 2017) dove un uomo assiste alla morte della figlia in un incidente e, rivivendo quel giorno più volte, acquisisce conoscenza di cosa sia successo, non per questo riuscendo necessariamente a modificare l’avvenimento, o in Retroactive (Non toccate il passato – Retroactive, Louis Morneau, 1997), road movie in stile action che vede la protagonista tornare indietro nel tempo più volte per impedire l’uccisione di una donna da parte di un bandito. Qui Karen (Kylie Travis), pur riuscendo infine a impedire l’uccisione della donna, non impedisce comunque la creazione di una catena di eventi diversa dove stavolta sarà proprio quella donna a uccidere il marito (una sorta di butterfly effect, su cui avremo modo di ritornare). In questo caso è come se il loop richiedesse il ritorno a un equilibrio iniziale, ove la Morte funge da contrappeso richiedendo in pegno un’altra anima se la prima viene salvata (la destinalità algebrica di cui già abbiamo parlato). Accade infatti anche in film come If Only (Gil Junger, 2004), dove il loop si amalgama, di nuovo e più esplicitamente, con il tema del sogno. Qui il protagonista Ian Wyndham (Paul Nicholls) vede morire la propria fidanzata Samantha Andrews (Jennifer Love Hewitt) dopo un incidente su un taxi. Il giorno dopo si risveglia trovandola ancora viva, come se il tempo si fosse riavvolto, e cerca di mutare la concatenazione di eventi in modo da evitare che la giornata si concluda come quella precedente (un po’ come i protagonisti dopo le visioni di Final Destination). Ma il disequilibrio prodotto dai mutamenti trova sempre il modo di riallinearsi, e ciò si evince da piccoli segnali (Samantha ha piccoli incidenti domestici come li aveva avuti la prima volta, anche se con sottili ma rivelatrici differenze, e così via). Sarà infine Ian a morire al suo posto, e la Morte come istanza destinale coincidente avrà riscosso il suo pagamento. Come abbiamo visto questo tipo di morfologia destinale (la morte che “ragiona” secondo un criterio +1/-1 per cui non importa chi prenda, ma l’importante è che quando è l’ora prenda) non è esclusiva del loop. In trappola

C’è dunque nel film anche la presenza di una dinamica in qualche modo incestuosa, che a tratti ritorna nei film di loop dove le identità si confondono e si intrecciano. Accenni di questo tema delicato erano presenti già, in nuce, in Ritorno al futuro, dove Marty McFly (Michael J. Fox), tornato indietro nel tempo, è costretto a baciare una giovane Lorraine (Lea Thompson), non essendo lei altri che la sua futura madre.

Il loop si configura così come una trappola sadica, che contiene al suo interno le informazioni e gli indizi per il suo disinnesco, pur non garantendo infine che questo sia possibile. Un caso ove appare possibile è il film colombiano Volver a morir (Miguel Urrutia, 2011), ove Camila (Andrea Montenegro),

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dopo aver consumato una notte di sesso occasionale con uno sconosciuto (Luis Fernando Bohórquez), scopre che questi è un assassino, e viene uccisa più e più volte man mano raccogliendo informazioni su di lui per salvarsi al prossimo “riavvio”. Sebbene non costituisca un esperimento filmico innovativo, nel film è contenuta la potenza del loop come meccanismo punitivo per una presunta condotta morale perversa. Un po’ come accade in Looper (Looper – In fuga dal passato, Rian Johnson, 2012) dove Joe (interpretato nella versione giovane da Joseph Gordon-Levitt e in quella adulta nuovamente da Bruce Willis) è ancora una volta una sorta di agente temporale, che svolge qui il ruolo di sicario per la mafia, la quale ha trovato il metodo perfetto per punire le sue vittime senza lasciare traccia. Esse vengono mandate nel passato, ove un agente scelto le finirà con una fucilata. Tale mansione, per i sicari, ha la durata di trent’anni, dopodiché una sorta di pensionamento sopraggiunge grazie a un protocollo specifico: vengono mandati nel passato per essere terminati a loro volta, da loro stessi, guadagnando abbastanza lingotti d’oro una delle due versioni da poter vivere il resto della vita nell’agio. Nonostante il film si configuri come un thriller abbastanza ripetitivo (d’altronde è un film di loop!), per via di una certa canonicità del transgenere qui ricalcata senza grandi guizzi creativi, esso suggerisce una modalità di fuoriuscita dal loop che in film come Predestination non è contemplata. Mentre in quel caso infatti l’uccisione del sé anziano comporta per il sé giovane l’inizio di un percorso di vita che lo porterà inevitabilmente a ricoprire il ruolo del sé anziano ucciso, in questo caso l’uccisione di se stesso pone in essere un percorso alternativo, sdoppia lo snodo di probabilità e apre le porte a una narrazione secondaria, ove il sé giovane vivrà la vita con la sua paga senza entrare nella mafia, e quindi al di là dell’anello temporale. È quindi tutto un gioco di sacrifici fra versioni, l’una delle quali si immola per garantire all’altra una vita migliore, come per i sosia di Hugh Jackman in The Prestige (Christopher Nolan, 2006). Nei casi sinora visti la circolarità destinale porta i protagonisti ad avere relazioni più o meno marcate con se stessi provenienti da altri tempi, dalla visione in lontananza al rapporto sessuale e alla procreazione, fino all’uccisione. Uno sfondo distopico fa da contraltare a un’istanza destinale dispotica, che viene soddisfatta solo quando si assecondino i suoi programmi. In Predestination infatti l’intrusione di un agente esterno, rappresentato dal protagonista stesso, è

11 Siamo qui nell’ambito dei party movies (nel transgenere coming-of-age), incentrati su feste adolescenziali dove i freni inibitori si perdono e di conseguenza si verificano una serie di vicende più o meno disastrose. Nonostante l’origine di questo filone vada rintracciata in film come National Lampoon’s Animal House (Animal House, John Landis, 1978), e si consolidi nei teen movie anni’90-2000 come American Pie (Paul e Chris Weitz, 1999), ci pare che a oggi i film più esaustivi del genere e delle sue ideologie siano Project X (Nima Nourizadeh, 2012), che coniuga il tema del college party con l’estetica del mockumentary, e per certi versi il drammatico (caso raro) Spring Breakers (Spring Breakers – Una vacanza da sballo, Harmony Korine, 2013), che radicalizza i temi contenuti nei film precedenti del filone (sesso, droga, devastazione, conflittualità giovani-adulti, rivincita degli ultimi). Uno studio critico, anche se significativamente datato, di questo cinema della “generazione X” in Peter Hanson, The Cinema of Generation X: A Critical Study of Films and Directors, McFarland, Jefferson-London, 2002. Il filone è anche autorialmente declinato con tinte inquietanti, come in Climax (Gaspar Noé, 2018).

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immediatamente assorbita dal sistema nel loop e inserita in un percorso obbligato, che porterà al frustrante perpetrarsi del circolo, reso anche filmicamente dall’indugio su modulazioni profilmiche basate sulla simmetria.

Predestination L’incontro con se stessi rimane pertanto, da L’esercito delle 12 scimmie in avanti, un eccellente modo di rappresentare l’inquietudine del loop filmicamente, come dimostra anche +1 (Plus One, Dennis Iliadis, 2013)11. La pellicola, che si incunea nel filone dei college movie di impronta exploitation, propone la storia di una distorsione temporale conseguente alla caduta di un meteorite, che trasforma una festa adolescenziale in un party orrorifico dove i

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personaggi incontrano e interagiscono con se stessi sia in termini sessuali che in termini fatali, in questo senso sulla falsa riga di Predestination12. La collocazione dello stesso personaggio nella stessa inquadratura sortisce un fascino magnetico fin dal cinema delle origini13.

Plus One Similmente accade in Source Code (Duncan Jones, 2011). L’ottimo film pone in essere lo stesso metodo di fuga dal cerchio proposto in Looper, cioè la morte del protagonista, in questo caso più e più volte. Colter Stevens (Jake Gyllenhaal) è un soldato intrappolato in una sequenza peculiare: si trova Uno dei più recenti contributi su cinema e Doppelgänger è in Heather Duerre Humann, Another Me. The Doppelganger in 21st Century Fiction, Television and Film, McFarland, Jefferson, 2018. 13 È il tema del doppio magnificato dalla messinscena filmica, che fin dalle origini del cinema trova i modi più svariati per sfruttare la sua visività, come in Der Student von Prag (Lo studente di Praga, Stellan Rye, 1913), dove uno studente interagisce con un se stesso allo specchio che si comporta diversamente dalla sua controparte.

all’interno di un treno pendolari diretto a Chicago, che esplode. Egli scopre gradualmente di non essere realmente lì, ma di sopravvivere dopo un incidente dentro una vasca, come cervello putnamiano14, e di essere spedito nella sequenza da un team di militari. Egli non vive realmente la sequenza, ma ne esperisce una traccia in qualche modo onirica, ed è costretto a farlo fino a scoprire chi è il terrorista che ha fatto esplodere il treno, così da poterlo identificare e fare in modo che nel mondo “reale” esso venga trovato e catturato, onde evitare attentati futuri. Dopodiché potrà morire in pace. Nonostante sia presente, come da modello, una discreta dose di discorsi sull’affrontare se stessi, in questo film il loop del protagonista non è più una questione unicamente personale ma si fa sistema ingegnoso per salvare il mondo o una sua parte, e il sacrificio è un atto altruistico più che egoistico. La struttura destinale non è più ritorta sul singolo personaggio, ma estesa nel mondo e sfruttata per trarne beneficio. Inoltre il sacrificio viene parzialmente calmierato dalla messinscena dell’ennesimo pretesto fantascientifico: grazie a un’applicazione della meccanica quantistica infatti il corpo martoriato di Colter morirà, ma la sua proiezione nel mondo alternativo, quello del loop, continuerà a vivere con la bella Christina (Michelle Monaghan), conosciuta più e più volte durante il loop. I due mondi, inoltre, saranno in qualche modo per sempre connessi, e Colter riuscirà anche nel mondo in cui sarà morto a comunicare per l’ultima volta con il padre. Jake Gyllenhaal aveva già interpretato un ruolo simile in Donnie Darko (Richard Kelly, 2001, regista ossessionato dai paradossi temporali, che ricorrono anche nel suo misconosciuto ma interessante Southland Tales, 2006), film cult ove i soliti ingredienti risultavano mescolati con una formula innovativa. L’amore, la fantascienza, la predestinazione, per qualche verso la presenza di un loop preannunciato, imponevano al giovane Donnie l’onere del sacrificio per salvare il mondo. Questa era, nella più classica delle accezioni, il suo destino. Personalismi vs universalismi

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Il loop come struttura destinale è dunque una piattaforma, ove si relazionano dialogicamente personalismo e universalismo, in una tensione costante. In Cfr. Hilary Putnam, Reason, Truth and History, Cambridge University Press, Cambridge, 1981.

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L’esercito delle 12 scimmie una base universalista – salvare il mondo – è frantumata da un dramma personale, sul quale lo spazio-tempo si piega irreversibilmente. In Source Code un dramma personale – l’incidente di un soldato – diventa il punto di partenza di una vicenda universalista – salvare il mondo da un pericoloso terrorista. Lo spettro retto su queste polarità non è sempre simmetrico, e può capitare che la destinalità si sviluppi maggiormente su una delle due estremità. Nel film Netflix Arq (Tony Elliott, 2016), per esempio, l’intera vicenda si svolge entro un luogo limitato (ciò presumibilmente anche per motivi legati a un budget ristretto), e la macchina del loop, una perpetual motion machine, obbliga i due protagonisti Renton (Robbie Amell) e Hannah (Rachael Taylor) a rivivere più e più volte il momento dell’intrusione di alcuni uomini nella loro abitazione, tentando di evitare di essere uccisi e di comprendere le ragioni della violazione. Il destino per loro si rivelerà nefasto, costringendoli – così si deduce dal finale aperto – a rivivere il loop in eterno. Nonostante alcune visibili trascuratezze il film ha il pregio di proporre un loop di un singolo che gradualmente viene condiviso da altri personaggi, di fatto caratteristica poco usuale, che introduce l’idea di una destinalità che non si ferma sull’uno (il singolo destinatario) ma si estende sui molti. Inoltre il film si avvicina anche, come una sorta di remake non ufficiale, a uno dei prodromi, poco noti, dei film di loop postmoderni, ovvero 12:01 (Jack Sholder, 1993), ispirato al racconto 12:01 PM di Richard A. Lupoff del 1973 e già oggetto di un cortometraggio omonimo di Kurtwood Smith nel 1990, ove il protagonista, impiegato della Utrel Corporation, è costretto a rivivere il momento dell’uccisione di una sua collega davanti a suoi occhi svariate volte, riconoscendo di essere in un loop e cercando il modo per uscirvi che, ovviamente, coincide con il salvataggio della donna. Anche nel caso di 12:01 il tempo di partenza è un futuro distopico, ma mentre in Arq il loop è eseguito grazie a un dispositivo futuristico qui, caso più raro, è il risultato di una tempesta notturna e di una violenta scarica elettrica15; ma nonostante le premesse di partenza tutto si risolve in una vicenda 15 Si ricalca l’idea della tempesta, e più precisamente della scarica del fulmine, come motore di un cambiamento intimo o esteriore dei personaggi, ma sempre radicale. Un caso postmoderno è senz’altro What Women Want (Nancy Meyers, 2000), ove la scarica di un fulmine conferisce al protagonista Nick (Mel Gibson) la capacità di sentire telepaticamente i pensieri delle donne, abilità che lo renderà uomo più sensibile.

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ove sono i personalismi a farla da padroni, e la sopravvivenza a costituire il massimo oggetto di valore. Il pretesto dello shock elettrico come generatore del loop è anche annoverato nel film indipendente Repeaters (Carl Bessai, 2010), ove la ripetizione dello stesso giorno diviene nuovamente motivo di una sorta di catarsi collettiva di un gruppo di ragazzi che ne approfittano per compiere ogni atto gli venga in mente, consci della tabula rasa che si verificherà il mattino dopo, virando però verso una piega fuori dal loro controllo quando organizzeranno il sequestro e la tortura di un loro rivale. Nonostante il film non sia certamente un’opera di grande valore estetico, esso ha certamente il pregio di porre in essere un loop condiviso da più personaggi consapevoli, e quindi di decentrare la struttura destinale in un contesto dove più intenzionalità si mescolano generando equivoci maggiormente intricati che non nel caso del singolo protagonista. Similmente in Edge of Tomorrow (Doug Liman, 2014), ispirato al light novel All You Need is Kill di Hiroshi Sakurazaka (2004), il Maggiore William Cage (Tom Cruise) rivive ogni volta fino alla morte il momento di un attacco alieno sulle coste della Francia, imparando a prevedere i loro attacchi e progressivamente riuscendo a sventare la distruzione del mondo. Qui rispetto ad Arq il tono è del tutto universalista, nonostante gli usuali accenni amorosi, questa volta con la bella Rita Vrataski (Emily Blunt). E il loop non è più una destinalità dispotica, ma anzi una struttura magnanima (pur se frustrante poiché impostata sul protocollo, enfatizzato dal battage pubblicitario del film: «Live. Die. Repeat.»), che consente al protagonista quasi ad libitum di stabilire il miglior percorso narrativo per lui e per il mondo possibile. Non è il cerchio a essere padrone di Cage, ma egli in qualche modo a sfruttare il cerchio man mano per acquisire abilità fino a sventare l’armageddon. Quando il mondo sarà salvo, in piena ottica hollywoodiana, Cage potrà coronare il suo amore nato nella crisi. Si staglia qui un lampante parallelo fra il film di loop e una certa dinamica videoludica legata alla possibilità di “morire” e ricominciare, dall’inizio o da determinati punti di ripristino (checkpoint)16. Questa dinamica è nel cinema tuttavia eterodiretta, senza che lo spettatore possa davvero intervenire, “interattivarsi” nei confronti del film, salvo in casi rari (ma oggi in fase di sviluppo, anche grazie a nuove possibilità tecniche) come il film Netflix Cfr. senz’altro Martin Hermann, Hollywood Goes Computer Game. Narrative Remediation in the Time-Loop Quests Groundhog Day and 12:01 in Jan Alber, Rudiger Heinze (eds.), Unnatural Narratology, De Gruyter, Boston-Berlin, 2011.

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Black Mirror: Bandersnatch (David Slade, 2018), che consente allo spettatore di decidere quali azioni far compiere al protagonista in determinati momenti, finanche facendolo morire e riavviando da un certo punto in avanti17. È doveroso quindi citare anche Nirvana (Gabriele Salvatores, 1997). Si tratta in effetti di uno dei rarissimi casi di cinema cyberpunk “all’italiana”, di poco posteriore allo statunitense Johnny Mnemonic (Robert Longo, 1995) e del tutto innovativo in un’epoca in cui ancora avevano da venire film come The Matrix (Andy e Larry Wachowski, 1999), eXistenZ (David Cronenberg, 1999) o The Thirteenth Floor (Il tredicesimo piano, Josef Rusnak, 1999), con tutta la loro estetica. Qui il protagonista è Solo (Diego Abatantuono), personaggio di un videogioco infettato da un virus che prende consapevolezza della sua esistenza e che ingaggia con Jimi Dini (Christopher Lambert) un rapporto per salvaguardare se stesso dalla duplicazione per motivi di vendita – interpretata da Solo come una perdita di identità, in qualche modo una perdita della benjaminiana aura a opera della riproducibilità tecnica – e soprattutto per evitare di condurre un’esistenza programmata. Egli chiede quindi di essere cancellato, più volte morendo e ricominciando (ergo perpetuando un loop) nel gioco. La richiesta di cancellazione è sostanzialmente una richiesta di eutanasia, del tutto analoga a quella prevista dal pattern del film di loop ove l’espiazione delle colpe del singolo o dell’umanità si attua mediante la vittima sacrificale, nel medesimo tempo protagonista e responsabile del loop. Nirvana ha dunque il merito di anticipare, attraverso una rinnovata forma di fantascienza sociologica18, tali tematiche, perlopiù esplose nel cinema negli anni a

Nirvana venire, ma anche di integrarle con problematiche filosofiche spesso eluse da film di questo genere, come quella del controllo e in generale dell’interferenza ontologica fra mondo e rappresentazioni. Quelle case (non solo) nel bosco: loop fra spazio e tempo Il rapporto fra destino e gioco, ove quest’ultimo svolge il ruolo di master19, è anche forte in film come Mine Games (Richard Gray, 2012), ambientato in una casa in una foresta20. All’esterno della casa vi è una miniera abbandonata, su cui campeggia la lugubre scritta “break the circle”, e gli ignari protagonisti si trovano incastrati in un macabro gioco mortale, ove il loop farà in modo che essi debbano affrontare versioni di sé morte o morenti, in un infittirsi misterioso che fin

17 Si tratta di esperienze di cinema interattivo, che lo apparentano al videogioco. Da un punto di vista tecnico, relativo al supporto, già con l’introduzione del DVD alcune di queste sperimentazioni sono state tentate (cfr. Leonardo Quaresima, Valentina Re, Play the Movie. Il dvd e le nuove forme dell’esperienza audiovisiva, Kaplan, Torino, 2010 e Pat Brereton, Smart Cinema, DVD ADD-ons and New Audience Pleasures, Palgrave Macmillan, London, 2012). Cfr. anche Gabriella Taddeo, Ipercinema. L’ immaginario cinematografico nell’era digitale, Guerini, Milano, 2007; Matteo Bittanti (a cura di), Schermi interattivi. Il cinema nei videogiochi, Meltemi, Roma 2008; Nitzan Ben-Shaul, HyperNarrative Interactive Cinema. Problems and Solutions, Rodopi B.V., Amsterdam, 2008; Hartmut Koenitz, Gabriele Ferri, Mads Haahr, Diğdem Sezen, Tongue I. Sezen (eds.), Interactive Digital Narrative. History, Theory and Practice, Routledge, New York, 2015; Riccardo Fassone, Cinema e videogiochi, Carocci, Roma, 2017; Federico Biggio, Il paradigma dell’Augmentation. Interattività immediata e progettazione cooperativa, «Digitcult. Scientific Journal on Digital Cultures», 2017. 18 La locuzione “fantascienza sociologica” è in realtà coniata in Italia negli anni ’50, un

po’ a tradurre l’inglese science fiction, un po’ a enfatizzare il momento in cui la fantascienza inizia a porsi, prima di tutto in ambito letterario, domande di carattere prettamente sociale (cfr. Fabio Giovannini, Fabio Minicangeli, Storia del romanzo di fantascienza: guida per conoscere (e amare) l’altra letteratura, Castelvecchi, Roma, 1998). 19 Nel cinema postmoderno film di assoluto riferimento è Jumanji (Joe Johnston, 1995), da cui poi il sequel ideale Zathura – A Space Adventure (Jon Favreau, 2005). Siamo qui nell’ambito dei giochi analogici. Nell’ambito del cinema videoludico l’elenco è sterminato e in costante espansione, e un ottimo inquadramento recente si trova in Fassone Cinema e videogiochi, cit. Sul ponte fra giochi analogici e cinema reso possibile dai videogiochi cfr. Mattia Thibault, Lego: when Videogames Bridge Between Toys and Cinema», «G|A|M|E, The Italiana Journal of Game Studies», 2015. 20 Il filone di film basato su case nel bosco e nella foresta è costruito a partire da testi seminali come The Evil Dead (Sam Raimi, 1981).

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dal trailer ricalca gli archetipi del film-loop, essendo il titolo del film circonfuso da un uroboro – il serpente che divora se stesso – e susseguendosi a ritmo serrato frasi che hanno a che fare con i temi della chance e della possibilità.

vittime sacrificali vengono scelte periodicamente a rifocillare antichi dèi maligni, ma anche perché, metalinguisticamente, ironizza su un genere che continua a ripetersi, uguale a se stesso, da decenni: By utilizing classic horror tropes and including a thick intertext, Whedon and Goddard […] have used the narrowly circumscribed formula as both a means of creative storytelling and of criticizing their targeted generic conventions and viewing practices21.

Mine Games

Al di là della fantascienza stretta il loop come struttura destinale è adoperato dunque in altri generi. Un caso peculiare, come stiamo vedendo, è quello dei thriller e horror, ove non interessa solitamente esplicitare il pretesto relativo alla costruzione del loop. Il cerchio si forma come per magia o per maledizione, e i personaggi, solitamente seguendo un pattern comportamentale ben preciso (incomprensione → rivolta → accettazione), non possono che prenderne atto e obbedirne alle regole. Al di là delle case nel bosco in questo frangente un testo seminale è Le locataire (L’ inquilino del terzo piano, Roman Polański, 1976)22. Il film ha in sé qualcosa di autobiografico, e infatti il protagonista Trelkowski è interpretato dallo stesso regista, mai del tutto ripresosi dai tristi e macabri eventi dell’estate del 1969, quando la Manson Family trucidò la moglie Sharon Tate nella loro villa a Beverly Hills nell’estate del 1969. La casa è pertanto un luogo che da nido protetto e comfort zone diviene culla di un male larvale e incontrovertibile, come nel già menzionato La casa, che si farà topicalizzante in buona

Sullo stesso modello (casa nel bosco, ripetizione, incontro con i propri sé, killer o mostri in agguato) è anche il film indipendente Enter Nowhere (Jack Heller, 2011), che enfatizza non solo la presenza di una struttura destinale malefica, che intrappola i protagonisti nel loop, ma anche l’esistenza di una forma di predestinazione: i personaggi sono tutti legati a doppio filo, e si trovano lì per un progetto specifico. E ancora sulle case e i loro killer, ma dal punto di vista maggiormente incentrato sulle vittime degli omicidi, si contano film come Gruesome (Jeff e Josh Crook, 2007) e Haunter (Vincenzo Natali, 2013). Entrambi edificano il loop come fosse una “prosopopea strutturale”, nel primo caso nella prospettiva di una ragazza uccisa da un tale che credeva amico, e nel secondo da parte di una famiglia morta nel 1986, e condannata a rivivere per l’eternità il giorno del massacro. Molto simile, ma dal punto di vista di alcuni ragazzi che fungono da agenti esterni, è Camp Slaughter (Alex Pucci, 2005), che vede una combriccola imbattersi, fra i boschi, in un campeggio pieno di ragazzi spensierati dalle strane fattezze: i loro abiti e le loro usanze indicano che sono fermi al 1981, proprio nella giornata in cui subiranno un’amara sorte, e che una maledizione gli impone di vivere tale giornata all’infinito. Un certo fil rouge che unisce personaggi e loop è pertanto alle fondamenta di questo filone, consacrato dal capolavoro postmoderno The Cabin in the Woods (Quella casa nel bosco, Drew Goddard, 2012), che è in fondo anch’esso una storia di loop, non solo perché le

21 Stephanie Graves, Inscription and Subversion. The Cabin in the Woods and the Postmodern Horror Tradition in Kristopher Woofter, Lorna Jowett (eds.), Joss Whedon vs. The Horror Tradition. Fangs, Fans, and Genre in Buffy and Beyond, I.B.Taurus, London, 2019, p. 140. 22 Sul regista e sul film cfr. Enrico Magrelli, Roman Polanski, Il formichiere, Milano, 1979; Alessandro Cappabianca, Roman Polanski, Le Mani, Recco, 1997; Kelly Oliver, Subjectivity without Subjects. From Abject Fathers to Desiring Mothers, Rowman & Littlefield, Lanham, 1998; Alberto Scandola, Il fantasma e la fanciulla. Tre film di Roman Polanski, Cierre, Sommacampagna, 2001 (che dedica una parte analitica esclusivamente allo spazio ne L’ inquilino del terzo piano) e Roman Polanski, Il Castoro, Milano, 2002; John Orr, Elzbieta Ostrowska (eds.), The Cinema of Roman Polanski. Darks Spaces of the World, Wallflower, London-New York, 2006; Ewa Mazierska, Roman Polanski. The Cinema of a Cultural Traveller, I.B.Taurus, London-New York, 2007; Davide Caputo, Polanski and Perception. The Psychology of Seeing and the Cinema of Roman Polanski, Intellect, Bristol-Chicago, 2012.

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parte del cinema del regista polacco, da film precedenti come Rosemary’s Baby (1968) a film ben più lontani per tempi e temi come The Ghost Writer (L’uomo nell’ombra, 2010) o Carnage (2011). Ne L’inquilino del terzo piano23, Trelkowski, un anonimo impiegato di origine polacca, si trasferisce in un appartamento a Parigi da poco abbandonato da una giovane ragazza, Simone Choule (Romain Bouteille), che ha tentato il suicidio. Nonostante egli vada a visitarla in ospedale per comprendere le ragioni dell’insano gesto, lei, orribilmente bendata, non fa che avere una crisi isterica alla sua vista, e così Trelkowski desiste e inizia la sua vita nel nuovo appartamento. Tuttavia la quotidianità si rivela un incubo: i vicini sono inspiegabilmente maligni nei suoi confronti, trattandolo come fosse Simone, ed egli man mano assume la sua identità, arrivando a sua volta a gettarsi dalla finestra per tentare il suicidio. Trasportato in ospedale, con il volto completamente fasciato, Trelkowski-Simone assiste all’assurdo arrivo del se stesso di qualche tempo prima, che cerca di chiedergli il motivo dell’insano gesto. Intrappolato nel suo letto, e fasciato fino a essere irriconoscibile, Trelkowski-Simone esplode in un urlo munchiano.

L’ inquilino del terzo piano Ecco di nuovo la genesi del cerchio, in una delle forme più inquietanti mai viste. Non vi è qui infatti nessun pretesto fantascientifico, nessun dispositivo magico, sostanzialmente nessun motivo che giustifichi la nascita del loop, che si manifesta come una forma di destinalità tirannica cui non si può, in alcun modo, sfuggire. È il loop per il loop (loop come destinante tautologico), cioè manifestazione di una destinalità che se nel cinema di fantascienza summenzionato agiva sempre secondo una qualche teleologia, qui si reifica in una maniera cruda, come a dire che le cose accadono senza motivo, e che le trappole del destino sono tese senza possibilità di scampo. La struttura destinale, sostanzialmente, esalta se stessa annullandosi, cioè 23

Ispirato al romanzo Le locataire chimérique di Roland Topor (1964).

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ponendo in essere un loop immotivato, che tortura il protagonista costringendolo in un regime di inspiegabilità, tanto tecnica (perché il loop? Come è possibile che l’intera fisica dell’universo si ritorca così?) quanto esistenziale (perché a me?). Inoltre qui, molto più che altrove, è marcato un aspetto sostanzialmente trasceso in molto cinema di fantascienza (se non in casi come Source Code o Arq, dove comunque non è enfatizzato), e cioè la capacità del loop di costringere non solo in un tempo preciso, ma anche in uno spazio preciso. Il loop è una discontinuità reiterata (greimasianamente lo spazio è estensione che significa in quanto continuità che si fa discontinuità)24, la puntina rotta di un giradischi che non solo ripete sempre le stesse note, ma anche logora il solco su cui si accanisce. Così la casa polańskiana è una polimeria, uno spazio fatto tempo e un tempo fatto spazio, ove l’identità delle due dimensioni crea la discrasia massima, fra sessi, sentimenti, ontologie25. Sulla falsa riga di queste idee si staglia un altro film di assoluto rilievo estetico, Mother! (Madre!, Darren Aronofsky, 2017), che si configura come fortemente imparentato con L’ inquilino del terzo piano inserendo nella casa, luogo deputato alla sicurezza e alla confortevolezza, i demoni della ripetizione. La compressione topologica del tempo si verifica anche in 1408 (Mikael Håfström, 2007), tratto dall’omonimo racconto di Stephen King. Mike Enslin (John Cusack) svolge il peculiare lavoro di “sfatatore” di miti e leggende urbane: visita luoghi considerati maledetti e scrive best seller, stile CICAP, svelando il trucco che c’è dietro il loro mistero. Si reca così al Dolphin Hotel di New York per smascherare la leggenda della camera 140826, avvolta dal mistero, e, nonostante gli avvertimenti e i tentativi di dissuaderlo del direttore Gerard Olin (Samuel L. Jackson), richiede di soggiornare proprio in tale stanza. L’esperienza si rivela terrificante poiché lo scettico Mike vede disattese le sue aspettative: anziché verificare una bufala egli sperimenta sulla propria persona la malignità racchiusa nella stanza, provando allucinazioni, incontri con il fantasma della figlia da poco morta, e ogni genere di esperienze spettrali. Il loop è qui sia temporale che spaziale; dal punto di Algirdas J. Greimas, Sémiotique et sciences sociales, Seuil, Parigi 1976. Questo tipo di protocollo sarà poi codificato nel filone dell’home invasion thriller, dove la dimora domestica da luogo sicuro diviene prigione, non solo spaziale ma anche in qualche misura temporale, per via dell’intrusione altrui, come nel già menzionato Funny Games, ma pure in Panic Room (David Fincher, 2002), The Strangers (Bryan Bertino, 2008), Madre! e molti altri. 26 È una stanza maledetta, riferimento diretto alla 237 di Shining di Stanley Kubrick. 24 25

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vista temporale allo scadere dei sessanta minuti nella stanza infatti il terrore ricomincia dall’inizio; dal punto di vista spaziale Mike è del tutto intrappolato nella stanza, e anche provando a uscirvi dal cornicione egli rientra alla fine sempre nel luogo di partenza, luogo che è ora centro del suo universo: guardando alla finestra di fronte non vede che se stesso, in un’inquadratura che è diretta citazione de L’inquilino del terzo piano27.

Diversamente dal film di Polański tuttavia, ove il loop era la manifestazione tautologica di un esserci in quanto tale, in 1408 esso è invece sostantivato da una qualche presenza inspiegabile, riferita perlopiù all’ambito del paranormale. Sul loop spaziale è senz’altro esemplare anche Cube (Vincenzo Natali, 1997), primo di una trilogia poi proseguita con Cube 2: Hypercube (Andrzej Sekula, 2002) e Cube Zero (Ernie Barbarash, 2004). Se nel primo e nell’ultimo film della trilogia il loop è perlopiù spaziale, e si giustifica per via del ripetersi di stanze cubiche le une uguali alle altre, ove i personaggi devono destreggiarsi nel tentativo di sopravvivere a trappole mortali disseminate qua e là, nel secondo (tendenzialmente riconosciuto come il film più pretestuoso e meno riuscito della saga), sin dal titolo il cubo diviene un hypercube, che, similmente all’ipercubo di Interstellar (Christopher Nolan, 2014) e su ispirazione del Corpus Hypercubus di Salvador Dalí, aggiunge al dispiegarsi delle dimensioni spaziali la quarta dimensione, quella del tempo, comportando di nuovo l’incontrarsi dei personaggi con se stessi (e implicando, per esempio, forme di sopravvivenza all’interno della struttura basate sull’autofagia, cioè il cibarsi dei se stessi provenienti da altri tempi). Il loop si fa quindi innesco di suicidio-omicidio, meccanismo che è anche alla base di thriller come Triangle (Christopher Smith, 2009), ambientato su una nave dove Jess (Melissa George) deve vedersela con se stessa, Los Cronocrímenes (Timecrimes, Nacho Vigalondo, 2007), ove Héctor (Karra Elejalde) viaggia più volte nel tempo verificando sulla propria pelle il principio di autoconsistenza di Novikov28, e Coherence (Coherence – Oltre lo spazio tempo, James Ward Byrkit, 2013), ancora una volta un thriller a sfondo fantascientifico stavolta basato sul principio della decoerenza quantistica 29 dove nuovamente una casa si fa sfondo di sdop-

27 Situazione questa che ritorna nel cinema quando si vuole enfatizzare non solo sull’essere in trappola del personaggio, ma anche sul rapporto fra immagine filmica e fuori campo. Il personaggio che non può uscire nel fuori campo, perché rientra dall’altro lato dell’inquadratura, è presente per esempio in The Matrix Revolutions (Lana Wachowski, Andy Wachowski, 2003), in alcuni horror-mockumentary come Grave Encounters (ESP – Fenomeni paranormali, Vicious Brothers, 2011), o in commedie brillanti come Human Nature (Michel Gondry, 2001).

«[…] in una dinamica classica, in cui siano state contemplate traiettorie spaziotemporali chiuse, il ben noto principio di azione estrema, che descrive il comportamento naturale di oggetti fisici, è anche il principio di autoconsistenza, nel senso che esso assicura come possibili solo quelle traiettorie che, pur violando la cronologia (cioè permettono viaggi nel passato), non violano la causalità se non in modo marginale, cioè senza indurre contraddizioni. Tali traiettorie sono dette autoconsistenti. Non è ancora chiaro come l’autoconsistenza di un sistema locale sia imposta dalla struttura globale dello spaziotempo […]. Possiamo tuttavia supporre che ciò avvenga in modo non dissimile da come le leggi fondamentali della natura ci impediscano di essere diversi da come siamo» (Augusto Romano, Continuum spazio-tempo, diritto e democrazia, Giappichelli, Torino, 2013, p. 34). 29 «La decoerenza è […] la conseguenza dell’impossibilità di isolare in modo completo

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1408 e L’ inquilino del terzo piano

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piamenti e ripetizioni in seguito al passaggio di una cometa (come in +1). In tutti questi film, più o meno riusciti, il pretesto fantascientifico non è adoperato all’interno di un contesto del tutto fantasioso, ma è spesso appoggiato a teorie fisiche più o meno delineate, che vanno dalla relatività einsteniana alla meccanica quantistica. La struttura destinale a loop genera così un’idea di destino a base scientista, con accenni più o meno positivistici. Donald Duck Chain Saw Massacre (o dell’evenemenzialità nel loop) Sempre nell’ambito del thriller-horror in loop vanno senz’altro citati casi più schematici, estremamente utili a capire la rilevanza dell’evento nel loop, come Happy Death Day (Auguri per la tua morte, Christopher Landon, 2017) e The Deaths of Ian Stone (Le morti di Ian Stone, Dario Piana, 2007). Il primo è un teen movie statunitense che in maniera del tutto prevedibile assesta gli stilemi dell’estetica giovanilistica americana sul canovaccio del loop. Tree Gelbman (Jessica Rothe) è una ricca studentessa di un college. Viziata e superba passa le sue giornate con la “sorellanza”, fra party e legami deboli, non curandosi minimamente del prossimo. La sera del suo compleanno (evento che spicca sugli eventi), in cui il suo egoismo si manifesta in tutta la sua potenzialità, Tree viene uccisa barbaramente da un killer mascherato, salvo risvegliarsi di colpo subito dopo, esattamente lo stesso giorno e con le stesse modalità. Presto capirà di ritrovarsi nel loop del giorno del suo compleanno, che si conclude ogni sera con la sua morte, che avviene attraverso le più svariate modalità. Per uscirne dovrà, secondo il modello tipico, imparare a essere altruista e riconfigurare il suo sistema di valori (stringendo nuovamente i rapporti con il padre, aprendo la sua sensibilità, imparando a considerare le persone non solo per la loro apparenza, in definitiva: facendo del bene). Sconfiggendo il proprio egoismo sconfiggerà il loop. Il film così si assesta su un registro archetipico, già ampiamente sedimentato nel filone del cinema slasher30, fatto di setting predefiniti (la high school, il il fenomeno quantistico da ciò che lo circonda, dove per “ciò che lo circonda” s’intende tutto ciò che interagisce con esso (un apparecchio, delle molecole d’aria, dei fotoni ecc.)» (Silvano Tagliagambe, La relazione naturale/artificiale tra rappresentazione, ibridazione, organizzazione in Maria Cristina Amoretti (a cura di), Natura Umana, Natura Artificiale, FrancoAngeli, Milano, 2010, p. 207). 30 Si tratta di un filone che, sebbene spesso stigmatizzato per la fattura dei suoi film, è in realtà originato da opere cinematografiche raffinate come Halloween (Halloween – La notte delle streghe, John Carpenter, 1978) o la pregevole quadrilogia di Scream. Questi film,

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college, le confraternite e le sorellanze, le abitazioni borghesi da party selvaggi) e di rapporti interpersonali volutamente sommari. Auguri per la tua morte, cui segue Happy Death Day 2U (Ancora auguri per la tua morte, Christopher Landon, 2019) che riporta la protagonista nel loop, ci è anche utile per comprendere come la resa del loop non vada letta solo in termini narrativi, ma anche e soprattutto in termini compositivi. I film di loop infatti, per enfatizzare la ripetitività del meccanismo, si stabilizzano su alcune dinamiche di montaggio basate a loro volta sulla ripetizione. Quando il loop ricomincia, almeno inizialmente, il senso claustrofobico di oppressione è dettato proprio dal ripetersi delle scene a partire dalle stesse inquadrature, musiche, battute. Così i protagonisti ricominciano sempre da dove erano partiti, e non gli è concesso nemmeno uno slittamento di punto di vista. Il determinismo filmologico implicato dal loop si abbatte anche e soprattutto sull’immagine filmica, e ciò vale in ogni caso. In Groundhog Day (Ricomincio da capo, Harold Ramis, 1993), come vedremo, è sempre la stessa scena della sveglia, con sempre la stessa inquadratura, a sancire l’eterno ritorno. In Auguri per la tua morte la pervasività del meccanismo colpisce addirittura ciò che è di fatto percepito come fuori dal film, e cioè il paratesto, o meglio il paraparatesto: i loghi delle case di produzione che introducono alla visione. Il logo della Universal, il gigantesco globo ripreso dall’alto e accompagnato dalla sua musica trionfale, compare, ma per ben tre volte subisce una sorta di “effetto risucchio” per poi ricominciare da capo. È il loop che si emana fuori dal dominio filmico tradizionale, anticipando l’inquietudine che dovrebbe regnare nel film (effetto che in questo caso, francamente, si verifica poco), e agendo metafilmicamente. Il loop è sempre in tensione fra formalità e narratività. Lo stesso anno di Auguri per la tua morte esce anche Before I Fall (Prima di domani, Ry Russo-Young, 2017), che ripropone lo stesso prototipo (la giovane ragazza che interiorizza i “giusti valori” dopo il loop) senza l’elemento horror. Così questo tipo di film non produce particolare semiosi per quanto riguarda lo specifico del loop, eppure ha un paio di pregi: in prima istanza in pur non essendo dei loop-movies, contengono spesso il tema della ripetizione, un eterno ritorno, «perché l’orrore è di per sé un genere ritualistico, spesso incentrato su un contrasto fra il profano che si conosce e il soprannaturale o il sacro che è ignoto, e che sovente arriva al culmine per mezzo di una formula che è ritualistica di per sé” (Bruce Kawin, Coppola, Stallone e i seguiti in Francesco Casetti [a cura di], L’ immagine plurale. Serialità e ripetizione nel cinema e nella televisione, Marsilio, Venezia, 1984, p. 166).

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ror. Come vedremo infatti anche nella commedia il pretesto del loop come modo per “rendere le persone buone”, surrettiziamente suggerendo che esistono stili di vita moralmente giusti e altri no, è topicale. Tale approccio sistematico al loop tocca addirittura i cartoni animati, come accade nell’episodio Donald Duck Stuck On Christmas (Toy Boat) (Un Natale al giorno), ispirato al racconto Christmas Every Day di William Dean Howells (1892), del film Disney Mickey’s Once Upon a Christmas (Topolino e la magia del Natale, Jun Falkenstein, Alex Mann, Bradley Raymond, Toby Shelton, Bill Speers, 1999). Qui, Quo e Qua il mattino di Natale aprono i regali senza aspettare gli invitati, e subito dopo pranzo (dove, per inciso, viene servito un fumante tacchino, cosa che rende tutto un po’ più simile a un Cannibal Holocaust in chiave disneyana)31, noncuranti del biglietto allegato ai doni, vanno a giocare sulla neve con le slitte regalate da Paperino. Auguri per la tua morte Auguri per la tua morte il logo Universal prima dei titoli di testa è presentato secondo la modalità plastica che abbiamo poc’anzi tratteggiato, che funziona in misura prolettica, e in secondo luogo proprio la scena finale, l’incontro in un bar dopo numerose peripezie dei neo-innamorati, suggellato da un movimento di camera estensivo che allarga il campo, re-inquadra il film in termini metalinguistici. Tree parla con Carter (Israel Broussard), il ragazzo impacciato di cui ovviamente si è invaghita dopo una vita passata ad accompagnare giocatori di football (ecco l’archetipo della rivincita degli ultimi), e cita proprio Ricomincio da capo, il film di loop per eccellenza, sostenendo che le vicende che ha vissuto le ricordano proprio quel film. Il ragazzo, figlio di un’era posteriore, non lo conosce. Il film finisce, con questo sigillo ironico a indicare una certa consapevolezza postmoderna e citazionistica alla base del film, in fondo costruito come una cornucopia di riferimenti ove il loop la fa da padrone, ma che vanno dallo slasher e dai film di killer in maschera fino al filone dei teen movie sui compleanni e sulle feste e agli horror a base festiva (da Black Christmas di Bob Clark, 1974, poi convertito in una lunga serie di film horror natalizi, a My Bloody Valentine di George Mihalka, 1981, anch’esso spesso “sequelizzato”). Il loop così demarca gli eventi importanti (festività, giorni speciali) come stabilizzatore di ideologie, e questo procedimento non è un’esclusiva dell’hor-

31 Sarà concessa questa simpatica digressione, che non è prerogativa esclusiva dei tre paperotti ma che ritrova altre occorrenze nella filmografia Disney, come in Three Little Pigs (I tre porcellini, Burt Gillett, 1933), ove nella casetta dei maialini sono appesi due dipinti, raffiguranti delle salsicce e un prosciutto, con la targhetta “Father”.

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Un Natale al giorno La sera, prima di andare a letto, i paperotti desiderano che sia Natale tutto l’anno, avendo loro trascorso una giornata meravigliosa ma anche, inconsapevolmente, avendo trascurato le persone che gli vogliono bene arrecandogli dolore. Il loro desiderio si avvera, e così giorno dopo giorno trascorrono la medesima giornata, inizialmente divertendosi quasi fino al parossismo, tutta-

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via pian piano capendo di essersi intrappolati in un loop logorante, ove l’unicità dell’evento – la vera chiave perché esso sia piacevole – viene annichilita dalla coazione a ripetere. Freudianamente è proprio la coazione a ripetere, una sorta di pulsione di morte, a spegnere il desiderio di Qui, Quo e Qua, non consapevoli che, lacanianamente, perché il desiderio resti vivo esso deve preservare una sorta di inaccessibilità. Il sogno si fa incubo, i giorni si ripetono gli uni uguali agli altri, le slitte non attraggono più come prima. È il paradosso tipico dell’oggetto del desiderio che una volta raggiunto perde il suo mistero, e così la sua potenza vivificatrice. L’ideologia dunque prende il sopravvento, e loro, che pure avevano avuto un comportamento del tutto normale essendo degli infanti (volevano in definitiva solo giocare), decidono di assolvere al problema regalando ai propri cari il miglior natale della loro vita, e trasformandosi nei perfetti bambini in stile deamicisiano. Così la maledizione si rompe, il loop del Natale è chiuso, la morale che veicolava è reificata. Su questa scia vanno rilevati anche film come Christmas Do-Over (Ricomincio da Natale, Catherine Cyran,2006), sostanzialmente copia carbone del modello Qui, Quo, e Qua, e Pete’s Christmas (100 volte Natale, Nisha Ganatra, 2013i, che ribalta il modello facendo sì che il protagonista Pete Kidder (Zachary Gordon), ragazzo sfortunato, bullizzato e trattato con incuria (un tòpos che deve le sue origini al personaggio cult di Kevin McCallister, impersonato da Macaulay Culkin, in Home Alone (Mamma ho perso l’aereo, Chris Columbus, 1990), desideri ardentemente che il peggior Natale della sua vita termini al più presto, trovandosi invece a riviverlo centinaia di volte. Chiaramente, rappresentando l’anomalia, alla fine imparerà anche lui ad apprezzare il “giorno più bello dell’anno”. Il tema delle festività di fine anno come momenti in cui qualcosa di fantastico e terribile può accadere, come un’arma a doppio taglio, non è comunque certo appannaggio esclusivo del cinema contemporaneo. Già nel cinema classico infatti un film come Repeat Perfomance (Dimmi addio, Alfred L. Werker, 1947) si basa su una certa isotopia di Natale e Capodanno come momenti più significativamente evenemenziali di altri. In questo caso la protagonista Sheila Page (Joan Leslie) si trova nel Capodanno del 1947 di fronte al cadavere di suo marito Barney (Louis Hayward) con una pistola in mano, e in preda al panico desidera che quanto ha di fronte non sia mai avvenuto e che l’anno che va a finire si resetti. Il suo desiderio si avvera, e così lei crede di poter avere la possibilità di evitare i percorsi che l’hanno portata al tragico momento, ma inevitabilmente alla vigilia di Capodanno, nuovamente, la situazione è

Al di là di horror e thriller è la commedia a tinte drammatiche a intercettare con prepotenza il tema del loop, a partire da Ricomincio da capo, film di Harold Ramis (un mostro sacro della commedia moderna statunitense, cui si

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esattamente come la prima volta. Il loop in questo caso è di nuovo fra i più dispotici possibili, poiché non solo non consente di modificare i momenti tragicamente salienti nella vita di chi lo ha desiderato, ma fa presumere che si reitererà infinitamente, come ne L’ inquilino del terzo piano, e che di fatto Sheila non avrà alcuna libertà di movimento al suo interno ma sarà ridotta a programma narrativo senza alcuna capacità di manovra agentiva, né, tantomeno, di soggettività, annichilendo il senso della sua esistenza. La crudezza di questa visione è dirompente, se si pensa che si tratta di un film di molto antecedente a quelli di Roman Polański o a Predestination. E ancora Le morti di Ian Stone segue parzialmente lo stesso modello di Auguri per la tua morte e Un Natale al giorno, attraverso la storia di Ian Stone (Mike Vogel), costretto a un’esistenza fatta del ripetersi di morti violente, l’una di seguito all’altra, e sempre culminanti con una rinascita, che lo vede dimentico di quanto gli è avvenuto, similmente a quanto accade a Victoria Skillane (Lenora Crichlow) in Black Mirror – White Bear (Orso bianco, Carl Tibbets, 2013), intrappolata in un macabro loop come pena per l’assassinio di una bambina. Il loop è qui asimmetrico, le giornate non si ripetono le une uguale alle altre, e Ian Stone ogni volta rinasce in una sorta di metempsicosi reincarnandosi da giocatore di hockey a tassista e così via. Qui l’elemento paranormale, già presente in 1408 e in altri casi analizzati, è potenziato con una carica mistica. Ian Stone è condannato a un loop perché perseguitato da misteriose creature che vivono cibandosi delle altrui paure, e che in qualche modo fungono da veri e propri destinanti. Egli era uno di loro, ma ribellandosi ha firmato la sua condanna eterna. Tuttavia, sempre con l’aiuto di una figura femminile (nel loop c’è frequentemente un altro da sé a fare da perno su cui ancorare il proprio dramma esistenziale), Jenny Walker (Christina Cole), riesce a sconfiggere le creature e configurarsi una vita felice, diventando anche una sorta di agente che voterà la sua vita in segreto a combattere gli orribili mostri fobofagi. L’introduzione di una istanza destinale personificata nel caso del loop è una novità che accomuna il transgenere a casi già visti (i mostri sono un po’ come la Morte personificata). Loop comico

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accreditano sceneggiature come quelle di Ghostbusters o Animal House e regie come National Lampoon’s Vacation, 1983, o Analyze This [Terapia e pallottole], 1999), interpretato dalla coppia stellare Bill Murray/Andie MacDowell. Qui il protagonista Phil Connors è un cinico ed egoista meteorologo televisivo (un po’ come il David Spritz interpretato da Nicolas Cage in The Weather Man, Gore Verbinski, 2005, ma più caustico), che deve condurre un servizio sul Giorno della marmotta, festa in Canada e negli USA il 2 febbraio, nella cittadina di Punxsutawney, Pennsylvania. Qui rimane intrappolato nel loop, e ogni giorno alle 6.00 il cerchio ricomincia con la sveglia intonante I Got You Babe di Sonny & Cher. Da uomo egoista quale è, esattamente come Qui, Quo e Qua, in prima istanza egli sfrutta l’occasione per sfogare i suoi istinti in barba alle convenzioni sociali, conquistando donne e spendendo soldi senza curarsene (Tree in Auguri per la tua morte nella fase centrale del suo percorso personale non si farà problemi a girare nuda per il campus o emettere flatulenze in pubblico), ma poi esattamente come da copione non può che rendersi conto di essere in una trappola, da cui nemmeno il suicidio potrà liberarlo. Solo la conversione in homo novus, lo stravolgimento del suo stile comportamentale, l’abbandono del suo portamento egotico in favore di una vita votata al prossimo, lo porteranno a rompere il circolo. Questo approccio assiologico-ideologico – scrive Jonah Goldberg che il film è la miglior «cinematic moral allegory popular culture has produced in decades»32 – è tipico di una certa commedia brillante statunitense, ove l’uomo burbero, incontrando la donna sensibile, ricalibra se stesso migliorandosi e trovando una rinnovata felicità, come in As Good as It Gets (Qualcosa è cambiato, James L. Brooks, 1997), dove Melvin Udall (Jack Nicholson), misantropo affetto da disturbo-ossessivo compulsivo, un loop intrapsichico, cambia se stesso in forza dell’amore verso Carol Connelly (Helen Hunt). Qui il loop più che reale è virtuale (il protagonista è in trappola per via delle sue compulsioni più che per motivi esterni), e il film, esempio fra i moltissimi di questo genere, dimostra come il loop di Ricomincio da capo non sia altro che metafora di un loop comportamentale, di un ripetersi di condizioni del vivere sociale che incartano i personaggi che ne sono affetti in vortici senza via di uscita. La struttura destinale a loop dunque si presta a una traduzione ideologica 32

Jonah Goldberg, A Movie for all Time, «National Review», Feb. 14, 2005, p. 36.

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che tende a considerare l’estraneità a certe convenzioni sociali come anomalia da correggere. La destinalità così riflette la veridizione che ha a che fare con i modi dell’essere e del sembrare. Il successo di Ricomincio da capo e del sistema di valori che esso veicola, anche per via del protagonista Bill Murray, ne comporta un sequel nostrano, È già ieri (Giulio Manfredonia, 2004), ove il protagonista Filippo Fontana (Antonio Albanese) fa il divulgatore televisivo di zoologia e vive le stesse disavventure – questa volta alle Canarie – di Phil Connors, tant’è che il film è inquadrato inizialmente in una cornice intertestuale mostrandoci il protagonista che realizza in studio un documentario su una marmotta.

Ricomincio da capo Sulla stessa falsa riga anche il teen movie Premature (Io vengo ogni giorno, Dan Beers, 2014) sfrutta l’espediente del loop, questa volta per imbastire una tipica vicenda di equivoci, sulla scia del filone American Pie (Adam Herz, 1999), basata sul ripetersi della giornata di uno studente americano caratterizzata dall’eiaculazione precoce con una ragazza. Desemantizzando la carica valoriale del loop di partenza esistono anche film come Naked (Ricomincio da nudo, Michael Tiddes, 2017), che sfrutta il loop, riducendolo perlopiù a meccanismo comico basilare, una sorta di slapstick comedy a sfondo fantastico che vede il protagonista tentare in tutti i modi di raggiungere l’altare per sposarsi trovandosi ogni volta al punto di partenza, e cioè nudo e chiuso in un ascensore, o The Last Day of Summer (L’ultimo giorno d’estate, Blair Treu, 2017), che 351

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vede un bambino rivivere svariate volte l’ultimo giorno estivo, ancora una volta evento di significativa importanza per il protagonista e il suo mondo. Il loop nella commedia può anche virare verso toni più marcatamente romantici, come accade in 50 First Dates (50 volte il primo bacio, Peter Segal, 2004), dove tuttavia non c’è niente di magico, fantascientifico o misterioso alla base del cerchio. Il protagonista Henry Roth (Adam Sandler) è un dongiovanni che in vacanza alle Hawaii, un “non-luogo” isolato ove è possibile stabilizzare la ripetitività della narrazione (in Ricomincio da capo era una piccola città, in È già ieri sono le Canarie, nei film horror-thriller sono spesso piccole abitazioni o cittadine sperdute) senza incorrere in troppi problemi di incoerenza nella diegesi. Sulle isole incontra Lucy Whitmore (Drew Barrymore) di cui si innamora immediatamente, e i due si conoscono. Il giorno dopo tuttavia lei non si ricorda più di lui. Questa volta il loop è vissuto dalla protagonista femminile, la quale non è vittima di un sortilegio ma è costretta a rivivere quel giorno per via di un incidente avuto qualche mese prima che le ha indotto una particolare forma di sindrome amnesica retrograda. Così per lei quel giorno è in loop continuo, mentre il mondo che le è intorno continua ad andare avanti al di là del suo cerchio. Henry tuttavia, perdutamente innamorato, decide di assecondare il loop, di inserirvisi volontariamente, ogni giorno facendo la conoscenza della donna e cercando di conquistarla in modo diverso. La commedia non ha quindi un’unica istanza destinale (quasi mai è così, c’è sempre una tensione fra poli destinali che si incontrano-scontrano) ma ne presuppone l’intersecarsi e la concertazione di due: quella di Lucy, istanza dispotica sostantivata in uno stato traumatico e patologico, che intrappola, e quella di Henry, che è inquadrabile nei termini del libero arbitrio. Il messaggio sotteso, quello del mutuo aiuto (anche qui non manca una certa dose di ideologia, giacché il protagonista, dongiovanni sul modello “una donna in ogni porto”, impara cos’è l’amore monogamo), implica una morfologia destinale malleabile, che, pur segnando le azioni e gli eventi dei personaggi lascia loro una certa libertà di movimento. Anche in Memento (Christopher Nolan, 2000) un loop fittizio generato da condizioni di memoria corrotta è alla base dello svolgersi delle vicende33. Qui Leonard Shelby (Guy Pearce) è affetto da amnesia anterograda dopo

un attacco di alcuni malintenzionati, e non può quindi immagazzinare informazioni oltre un arco di quindici minuti. Decide così di tatuarsi i dati significativi della sua vita (ridotta oramai al desiderio di vendetta contro chi lo ha condannato alla malattia e ha stuprato e ucciso sua moglie) sul corpo, trasformandosi in niente più che un programma narrativo costretto ogni volta a ripetere se stesso nel tentativo man mano di progredire verso la soluzione del suo enigma e in qualche modo introdurre una componente di semiosi inaspettata in una semiosfera altrimenti stagna e irreggimentata. Il risultato, inevitabilmente, può essere il contrario: La ripetizione può rappresentare il tentativo di operare una riparazione del passato ricreando una situazione simile con la speranza che qualcosa possa essere aggiustato e modificato. La speranza è quella di ottenere un risultato diverso, ma la ripetizione può invece tradursi in un rafforzamento, aumentando l’incapacità di riaversi dal doloroso senso di perdita causato dalla rottura del rapporto primario34.

Al di là di una distinzione di genere dunque la struttura destinale del loop si sviluppa come versatile. Le sue caratteristiche strutturali si prestano perfettamente per esempio nel proporre un’introspezione dei personaggi che valica il protocollo ideologico più volte menzionato in precedenza, quello del “conosci te stesso in modo da migliorarti e adempiere ai canoni previsti dalla società”, di cui Ricomincio da capo è il caposaldo. In 11 Minutes Ago (Bob Gebert, 2007) per esempio il protagonista si trova in un loop di 11 minuti (numero palindromo) durante il ricevimento di un matrimonio. Egli rivive questi 11 minuti per tante volte da raggiungere la somma di due anni, percorsi nel film a ritroso un po’ alla stregua di Memento. Il film, girato interamente in un giorno, vede il protagonista instaurare una relazione con una donna, e dover costantemente ricominciare da capo ogni volta che il loop riparte, in una tipica coazione a ripetere35.

Un’analisi complessiva del film in Darren Mooney, Christopher Nolan. A Critical Study of the Films, McFarland, Jefferson, 2018.

Caroline Garland, Comprendere il trauma. Un approccio psicoanalitico, Bruno Mondadori, Milano, 2001, p. 168. 35 Sulla ripetizione come consustanziale a certo tipo di cinema (da cui deriva poi l’idea di “serialità”) cfr. anche Francesco Casetti, L’ immagine al plurale. Serialità e ripetizione nel cinema e nella televisione, Marsilio, Venezia, 1984.

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Isotopie del loop (del loop, del loop, del loop…)

in vita dopo la morte e ripetere, identicamente o variando, le proprie azioni, onde ritornare a morire, ma pure salvarsi. A contorno tuttavia va segnalato come il loop non sia solo in grado di far tornare in vita i protagonisti, ma anche di stabilire rapporti con la morte laterali, come per esempio consentire ai personaggi di evitare la morte altrui, come nel caso dei film ove il protagonista sventa o prova a sventare attentati o morti di massa (Source Code, Retroactive, Edge of Tomorrow, Arq, Predestination, etc.) o elaborare il lutto della morte dei propri cari (A Day). Addirittura può servire a elaborare il lutto della morte di se stessi, in un paradosso squisito quanto raro come in The Jacket. Qui Jack Starks (Adrien Brody) è un soldato – come Colter Stevens in Source Code – che si ritrova rinchiuso in un manicomio criminale affetto da amnesia post-traumatica – come Leonard Shelby in Memento o Lucy Whitmore in 50 volte il primo bacio. In questo malagevole luogo viene sottoposto a una cura sperimentale che gli richiede di passare molte ore in un loculo simile a quello degli obitori e di assumere alcuni farmaci che gli consentono di spostarsi in dimensioni spazio-temporali diverse. Non si tratta propriamente di un film di loop, eppure ne condivide alcuni tratti (il movimento avanti e indietro nel tempo e il tentativo con tale passaggio di modificare il corso degli eventi in primis). Così Jack Starks sarà in grado di conoscere le circostanze della propria morte, che avverrà il 1° Gennaio del 1993, e di accettarle. Questo film, che usiamo qui da cerniera per le prossime isotopie, dimostra ancora una volta come il loop e la circolarità temporale fungano da scatole che non funzionano a compartimenti stagni, bensì comportano la compenetrazione di temi comuni e ricorrenti. È il caso di Die Tür (Anno Saul, 2009), che vede il protagonista David (Mads Mikkelsen) passare attraverso una sorta di porta magica, che gli consente di tornare indietro nel tempo per riparare all’errore che anni prima fece sì che sua figlia morisse. Qui il protagonista anziché elaborare il lutto per la morte della figlia però decide di salvarla uccidendo il se stesso del passato, sostituendosi a lui, e interpolando quindi nel film di loop l’estetica inquieta del cinema dei cloni, ma anche stabilendo un rapporto preciso fra loop, sensi di colpa e possibilità di rimedio ai suddetti (con o senza formule di contrappasso)36. L’ac-

Come abbiamo dunque osservato sin qui il loop e la circolarità temporale come meccanismi di messinscena di determinati rapporti fra istanze destinali e personaggi occupano nella storia del cinema una posizione multistrato, trasversale tanto ai generi quanto ai periodi e alle scuole di pensiero. Il cinema del loop, nonostante la sua sorprendente obliquità, condivide generalmente alcuni caratteri, che sono emersi dal percorso filmografico appena proposto, ma che qui proveremo a definire in una tassonomia, anche avvalendoci di ulteriori film. Infine procederemo nel ricavare le opposizioni di ordine generale che si evincono dalla struttura destinale del loop. Probabilmente, su un piano tematico, l’isotopia definitiva è quella della Morte. Ciò è dovuto, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, a una concezione condivisa dall’umanità per la quale la morte è di fatto la destinazione ultima di una vita terrena il cui scopo essenziale è quello di essere vissuta. La morte in quanto fine della vita terrena rappresenta l’ultimo evento, l’ultima relazione con il destino, la manifestazione incontrovertibile di una necessità. Anche i più possibilisti, i meno fatalisti, i più strenui sostenitori del libero arbitrio e della casualità, converranno che chiunque nasca, che diventi un semiologo o un postino, è assoggettato a una predestinazione: morirà. Si potrà discutere se questi era destinato a nascere, questione che può legittimamente prevedere posizioni anteposte fra possibilisti e “necessitisti”, ma certamente è indiscutibile che una volta nato esso sia predestinato alla morte, almeno allo stato attuale della tecnologia. Ora, è quindi piuttosto lapalissiano come il tema della Morte, la spada della terminazione che pesa su tutte le nostre teste, assuma nel cinema come in tutte le forme d’arte e d’espressione umana, un ruolo preminente, e quando esso sia esplicitato e reso protagonista, e similmente quando esso sia programmaticamente eluso o relegato ai margini della semiosfera, nella zona del tabù, per motivi culturali, scaramantici, apotropaici. Nel caso dei film di loop la morte è dunque l’isotopia par excellence, nella misura in cui rappresenta la magnificazione della potenza del loop, quest’ultimo capace non solo di revertire il reversibile (una coppia che divorzia può sempre sposarsi nuovamente), ma anche di revertire l’irreversibile. Lo si è visto nel cinema horror costruito sui redivivi, come in Auguri per la tua morte o Le morti di Ian Stone o Arq, ove il loop consente ai protagonisti di tornare

36 In fondo il clone o i suoi emuli (gli ultracorpi, i replicanti, gli avatar, le copie virtuali e così via) sono loop del corpo, ripetersi potenzialmente all’infinito in un sistema di variazioni sul tema (minime o radicali). La dialettica identità/alterità innescata dalla sostituzione del sé attraverso l’ultracorpo è indagata in Silvio Alovisio, L’occhio scuro degli

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cettazione della morte si può addirittura svolgere post-mortem come in The I Inside (Roland Suso Ritcher, 2004) dove il protagonista Simone Cable (Ryan Philippe) vive il loop ritrovandosi sempre in un letto di ospedale, salvo poi scoprire alla fine di essere in una sorta di purgatorio ove espiare il senso di colpa per il ritenersi colpevole della morte di alcuni suoi cari, i quali si sono manifestati proprio come protagonisti dei suoi loop. L’anno 2002, peraltro, ove continua a reificarsi il loop, non è altro che l’ora della sua morte, le 20.02, e l’intera vicenda è quindi presentata alla fine come una prosopopea, un cerchio post-mortem. Ecco dunque dalla morte dipartirsi altre due isotopie del film di loop: quella dell’incidente e quella dell’amnesia, spesso collegate. L’incidente è presente in quanto esso costituisce di fatto una manifestazione forte dell’istanza destinale, in tutta la sua potenza estemporanea e subitanea. Sin dall’etimologia di incidente (accidente, accadimento, “sopraggiungimento”) è evidente il collegamento di questo con i temi di cui stiamo trattando. L’incidente avviene al di là della volontarietà di chi lo subisce, e questo è il suo primo tratto distintivo. Che tale incidente sia frutto di possibilità o di necessità rimane una questione aperta. Il secondo tratto distintivo è che l’incidente opera come evento drastico, capace di retroattivare le sue cause37 comportando una risemantizzazione del vissuto sia da parte di chi lo ha subìto/causato, sia da parte delle persone a lui prossime. È qui necessario specificare maggiormente la forte valenza dell’incidente come operatore semiotico. Tornando a Turn Back the Clock, probabilmente il primo film di loop e pertanto anche il film che codifica in qualche modo il funzionamento del transgenere, qui la vicenda si innesca con un incidente, che avvia il loop. Tale incidente è conseguente a una situazione narrativa precisa: il protagonista, ubriaco e furioso, esce di casa, e le sue condizioni psicofisiche non gli consentono di prestare la dovuta attenzione alla strada. Il risultato di tale stato di cose lo porta a essere investito. Tale evento, che gli fa rischiare la morte, è inquadrato come un incidente, poiché accade contro la volontarietà del soggetto che lo subisce, e poiché comporta un cambio violento e radicale dello stato di cose (tale radicalità è pensabile come proporzionale Eighties. Alterità e visione in Blade Runner e The Thing in Paolo Scolari, Paolo Bertetti (a cura di), Lo sguardo degli angeli. Intorno e oltre Blade Runner, Testo & Immagine, Torino, 2002. 37 Cfr. Slavoj Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico, tr. it. Ponte alle Grazie, Milano, 2014.

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al grado di avvicinamento alla morte del soggetto coinvolto nell’incidente, morte la quale si conferma isotopia definitiva). Il passo logico alla base di questa interpretazione del film, necessaria perché il resto della storia acquisisca senso, è tuttavia del tutto arbitrario, e già si pone in un’ottica improntata verso la necessità. Va inoltre rilevato come tale interpretazione non sia esclusivo frutto del cinema come macchina del fantastico, ma come invece funzioni come vero e proprio sistema di ordinamento dell’immaginario comune, tendenzialmente ed euristicamente – in misura consolatoria – portato a identificare negli eventi significativi (in primis quelli dolorosamente significativi) una causa A che li ha generati in quanti B, e mai una causa B che li ha generati in quanto A (retroattivamente). La teoria dei mondi possibili di Eco ci giunge in aiuto per semplificare la questione: […] questa attività previsionale attraversa di fatto tutto il processo di interpretazione e si sviluppa solo attraverso una dialettica serrata con altre operazioni […]. Così facendo [il lettore] configura un possibile corso di eventi o un possibile stato di cose […], azzarda ipotesi su strutture di mondi. In molta della letteratura corrente sulla semiotica testuale è invalso l’uso di parlare, a proposito di questi stati di cose previsti dal lettore, di mondi possibili38.

Dunque, supponiamo per un attimo che il protagonista di Turn Back the Clock una volta uscito ubriaco e disattento dall’abitazione sia colto da uno starnuto, così lasciando il tempo all’automobile di passare ed evitando l’incorrere dell’incidente. Egli potrebbe così tornare a casa propria e fare una bella dormita riparatoria, svegliarsi il mattino, e a mente più lucida riconsiderare l’accaduto della sera prima, risanando i rapporti con la moglie e archiviando la faccenda come un’incomprensione e una litigata. Certo, potrebbe anche, due passi più avanti, essere colto da un imprevedibile infarto, oppure cadere in un fosso perché incapace di distinguere la strada da un burrone, per via dei fumi dell’alcol. Le tre ipotesi fornite sono solo una parte infinitesima della miriade di possibilità di sviluppo di una storia, ma per comodità di analisi ci atterremo a queste. Analizziamo per punti, partendo dall’ultima: 1. Joe esce di casa, starnutisce, un’automobile passa e si allontana, egli si in38

Umberto Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano, 1979, pp. 113-114.

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cammina verso casa ma la sua vista è annebbiata, così anziché imboccare la curva prosegue diritto, cade in burrone e si ferisce mortalmente. È evidente come tale ipotesi ricada esattamente nello schema alla base della sceneggiatura del film. Cambia la tipologia di incidente, ma sempre di incidente si tratta. E l’ermeneutica sottesa, quella più semplice, ci porta a concludere che l’incidente è avvenuto per causa dello stato alterato di Joe. 2. Joe esce di casa, starnutisce, un’automobile passa e si allontana, egli si incammina verso casa ma immediatamente l’infarto lo coglie. Si accascia al suolo. Tale ipotesi non è immediatamente riconducibile allo stato alterato del protagonista. Certo, il malore potrebbe essere stato causato dalla quantità di alcol ingerita, ma è evidente come ciò non basti come condizione allo sviluppo di un infarto. Il protagonista pativa senz’altro delle condizioni cardiologiche peculiari, di cui forse non era a conoscenza. Non è chiaro dunque dire se l’ubriachezza di Joe sia la causa dell’infarto, se sia solo la cosiddetta goccia che ha fatto traboccare il vaso, o ancora se semplicemente l’infarto sia venuto per cause altre. 3. Joe esce di casa, starnutisce, un’automobile passa e si allontana, egli si incammina verso casa, ci arriva, si mette a dormire, e il giorno dopo fa pace con la moglie. In questo modo abbiamo salvato Joe, ma abbiamo ammazzato il film. Ma non solo, abbiamo anche provato come la significatività dell’ubriachezza di Joe non esista se non – come il segno saussuriano che significa solo nel sintagma – in rapporto con un evento. Abbiamo inoltre provato, ed è questo che ci interessa, che di fatto l’ubriachezza di Joe non è causa di alcunché, a meno che tale alcunché non avvenga, e che anche qualora avvenisse lo scarto è il seguente: in termini fattuali A ha implicato B, ma solo perché in termini semiotici B è stato interpretato come implicato da A. La semiosi funziona, solitamente, guardandosi alle spalle. Inutile dire che in termini esistenziali entrambe le soluzioni, che convivono, di fatto risultano semplicistiche, come dimostra l’ipotesi del malore.

loop si stabilisce, e che quella dell’incidente è senz’altro un’altra isotopia forte. Abbiamo inoltre verificato come l’incidente sia di per sé un operatore logico e semiotico, che comporta l’evenemenzializzazione di determinati fatti e la loro risemantizzazione retroattiva. Logicamente dunque lo stesso incidente può essere evenemenzializzato in seguito in diversi modi. Il che ci conduce a un’altra isotopia, quella cioè della memoria e del suo funzionamento. Il cinema di loop è infatti costellato di amnesie di ogni sorta, da quella anterograda di Memento a quella retrograda di 50 volte il primo bacio (a quella del torpore post-mortem di The I Inside)39. Un caso esemplare, che ci è utile per estendere la questione alle sue massime conseguenze, è Lost Highway (Strade perdute, David Lynch, 1997). Nel cinema lynchiano non è facile, o forse non è possibile, definire con precisione l’andamento degli eventi, né quindi identificare dei precisi rapporti di causalità, né di contro delle istanze di casualità40. Siamo, perlopiù, all’interno di un contesto che è metalinguisticamente tautologico, ove gli eventi si accavallano tautologicamente, accadono poiché accadono, e la linearità spazio-temporale cede il passo a una logica plasmatica ove il risultato è un tutt’uno organico, da cui la semiosi scaturisce non per sintagmaticità ma per giustapposizione. Siamo cioè già all’interno di una morfologia destinale del tutto diversa da quella del cinema narrativo tradizionale. Tuttavia in questo film, più che in altri del regista (si pensi a Inland Empire, 2006, quasi del tutto privo di linearità), è possibile scorgere un’imbastitura di trama, un avamposto narratologico che in qualche modo invita all’inferire. Cercheremo di tratteggiare una sinossi a grandi linee, provando – nonostante il film opponga resistenza – a renderla comprensibile. Fred Madison (Bill Pullman) fa il musicista jazz, e si trova coinvolto in un intricato mistero.

Il nostro tema così chiama in causa dibattiti filosofici secolari, che fanno da sfondo alla nostra ricerca ma che non pretendiamo certo di ripercorrere in toto, né di risolvere. Quello che ci interessa qui è definire come il cinema, in questo caso del loop, si posizioni più verso una direzione che non verso un’altra, e quali siano le ricadute in termini di immaginario. Abbiamo per ora definito pertanto che l’isotopia della morte è il terreno entro il quale il film di

39 L’amnesia retrograda impedisce di ricordare episodi del proprio passato mentre quella anterograda di apprendere nuove informazioni (cfr. Costanza Papagno, Come funziona la memoria, Laterza, Roma, 2008). 40 Justus Nieland sostiene ciò, a proposito della commedia di Lynch, ma il discorso ha ben donde d’essere esteso in generale all’impianto dell’intero cinema dell’autore: «Comedy depends upon a temporal horizon of expectation – of the management of pauses, silences, and hesitations – that can, and in Lynch, usually does, turn into anxiety as the pleasurable tension of anticipation extends into a climate of apprehension or fear, or is instantly deflated into a void of incongruity, nonsense, or absurdity. Lynch’s comedy tends to privilege incongruity at the level of the speed or timing of human behaviour» (David Lynch, University of Illinois Press, Urbana-Chicago-Springfield, 2012, pp. 75-76).

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Gli vengono recapitate delle videocassette contenenti riprese dell’interno della casa dove vive con la moglie Renée (Patricia Arquette), e al citofono qualcuno gli sussurra le seguenti parole: «Dick Laurent è morto»41. Durante un party incontra un pallido uomo che gli porge un telefono: Fred si accorgerà di parlare con un altro se stesso, che si trova in casa sua. Il mattino dopo un’altra videocassetta viene recapitata, e Fred vede se stesso in camera da letto a fianco al corpo della moglie macabramente uccisa. Colpevole di un uxoricidio che non ricorda di aver commesso Fred viene incarcerato, ma poco dopo al suo posto appare Pete Dayton (Balthazar Getty), un giovane e aitante ragazzo che viene scarcerato in quanto non ha commesso reati. Pete torna all’officina dove lavora e si comprende come sia “protetto” da un gangster locale, Mr. Eddy (Michele Kalamera), noto anche come Dick Laurent. Laurent porta ogni tanto in officina Alice (sempre Patricia Arquette) di cui immediatamente Pete si invaghisce. Ella rappresenta un oggetto del desiderio proibito, poiché è di fatto una proprietà (così è trattata) intoccabile del boss. Alice tuttavia è stanca del suo sfruttamento e organizza un piano per fuggire con Pete, dopo aver rapinato Andy (Pasquale Anselmo), amico di Renée. Dopo una serie di peripezie i due si ritrovano in macchina nel deserto, fino a giungere in una casa, ove fanno l’amore con passione fin quando Alice non gli sussurra all’orecchio «Non mi avrai mai». Rialzatosi Pete non è più Pete, e al suo posto c’è di nuovo Fred. Compare inoltre il pallido uomo – noto nei testi su Strade perdute come l’Uomo Misterioso – che il protagonista ha incontrato durante il party iniziale e gli rivela che Alice non è altri che Renée. Fred, in preda alla furia, cerca Laurent e lo uccide. Si reca poi alla propria abitazione, suona il citofono e sussurra «Dick Laurent è morto». Infine si allontana in macchina, seguito dalla polizia. Il suo volto inizia a muoversi convulsamente e deformarsi. Sin dalla trama, qui sensibilmente ridotta e semplificata, si comprende come alcune cose non tornino nella logica interna di Lost Highway42, dove tutto sembra il contrario di tutto. Lo spettatore è sottoposto a un avvicendarsi

Lost Highway

41 Il pretesto delle videocassette è molto simile a quello di Caché (Niente da nascondere, Michael Haneke, 2005), nonostante i due film si sviluppino poi su linee diverse. 42 La bibliografia su David Lynch è ampia e variegata. Su Strade perdute per approfondire cfr. Slavoj Žižek, The Art of the Ridicolous Sublime: On David Lynch’s Lost Highway, Walter Chapin Simpson Center for the Humanities University of Washington, Seattle, 2000; Guy Astic, Purgatoire des sens: Lost Highway de David Lynch, Rouge Profond, Pertuis, 2004; Enrico Carocci, Tormenti ed estasi. Strade perdute di David Lynch, Lindau, Torino, 2006.

di personaggi che hanno il dono dell’ubiquità, ma pure ad attori come Patricia Arquette che interpretano più ruoli, e ancora a dialoghi criptici e così via. Dal punto di vista plastico poi, come vedremo, la sensazione di straniamento non fa che acuirsi, il disagio relativo al non cogliere del tutto l’andamento delle vicende si amplifica. Come abbiamo già accennato queste sono caratteristiche precipue dell’impianto estetico edificato da David Lynch, il quale sacrifica una certa linearità per abbordare verso geometrie della significazione diverse, non-euclidee. La sua è una semiotica in qualche misura sferica, ove le categorie stesse di causalità e casualità risultano in qualche modo cedevoli, rivelandosi come dispositivi non assoluti a loro volta, ma soggetti a qualche ordine di relatività. Il loop, come ne L’ inquilino del terzo piano, è qui mostrato attraverso l’esposizione completa di un intero circolo narratologico. Da un punto A, la raggelante rivelazione al citofono “Dick Laurent è morto”, si giunge nuovamente a tale punto, e il film mostra l’arco di eventi che determinano la giunzione. Tale scelta è più rara, poiché come abbiamo visto è molto più semplice trovare film invece ove il loop sia mostrato più e più volte, in un inventario di variazioni. Il senso di tale scelta peraltro pone in essere a livello generale una configurazione aspettuale particolarmente frustrante. L’ inquilino del terzo piano come Strade perdute infatti si giocano tutti su un’aspettualità durativa. Le vicende sono presentate come in fieri, infinitamente in fieri, e quindi il loop pare destinato a perpetuarsi per sempre. Al contrario nei film ove il loop è mostrato più volte tendenzialmente tale ripetizione è utile a fornire ai personaggi una via di fuga. In Strade perdute poi il tema è declinato secondo una prospettiva interiore

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più che esteriore. Il loop non si genera per via di magie o macchine del tempo, ma si svolge come se la mente dei personaggi e il loro universo coincidessero in qualche punto, determinando fratture esistenziali. La torsione spaziotemporale è così declinata attraverso una dimensione a metà fra l’onirismo e l’alienazione. Il film quindi ci è utile anche per rilevare come tali temi, il sogno e l’estraniazione dal reale fino alla follia, siano isotopie del loop43. Il punto di incontro fra sogno e alienazione è l’esperienza mistica, che conduce il personaggio attraverso dimensioni curvate dove il loop può in alcuni casi addirittura divenire strumento di difesa del mondo, come in Doctor Strange (Scott Derrickson, 2016). Qui Stephen Strange (Benedict Cumberbatch) è un brillante chirurgo che in seguito a un incidente – quod erat demonstrandum – è costretto a rivedere le priorità nella sua vita. Da uomo ossessivamente razionale si aprirà al misticismo dopo un viaggio in Estremo Oriente, diventando un potente mago coinvolto in una lotta contro l’entità maligna Dormammu, che vuole distruggere il mondo. Per sconfiggerlo Strange lo intrappolerà dentro un paradosso di pochi secondi, che vedrà l’eroe sacrificarsi all’infinito per salvare il mondo. Dormammu, pur di uscire dal loop, accetterà di abbandonare il suo piano malvagio. Il film, che si incunea nell’ormai famoso Multiverso Marvel a vocazione supereroica44, non spicca per creatività estetica, ma propone comunque un micro-loop, usato raramente nel cinema come volontario meccanismo entro cui inserirsi per salvare l’altro. Inoltre in un certo senso pone le basi per l’identificazione di un’ulteriore isotopia, e cioè quella della magia/maledizione, da cui il loop nascerebbe. Qui è un mago a ingenerare la reiterazione, in altri

casi, come Ricomincio da capo, essa nasce per magia senza alcun generatore, se non il protagonista stesso e la sua vita dissoluta. Accanto al tema della magia si staglia quello polimorfo dello sfogo, della catarsi e della soddisfazione consentiti dal loop, almeno in una prima fase. Lo abbiamo già visto più volte, i protagonisti dei film – almeno di quelli più aderenti al canone – vivono una parabola composta da diverse fasi, che riassumiamo così: 1. La paura, lo sbigottimento; 2. Lo sfogo, la catarsi; 3. La presa di consapevolezza; 4. L’uscita (quando possibile). Il momento della catarsi è quello in cui i personaggi, consapevoli di trovarsi in una situazione peculiare ove le loro azioni non hanno conseguenze (cioè ove la struttura destinale concede loro la chance di svincolarsi da princìpi di responsabilità), disarticolano le basi etiche della società civile tornando a una qualche forma di primordialità. In termini narrativi ciò significa che è possibile girare nudi per le strade della città, come in Auguri per la tua morte, fare sesso con o uccidere chi si vuole, finanche se stessi, e così via. In questo senso un caso forse poco noto, ma molto significativo, è il già citato Repeaters, che propone un modello per cui la catarsi degenera oltre il controllo dei suoi protagonisti.

43 Si tratta di quelli che altrove abbiamo definito allospazi. Cfr. Bruno Surace, Cinema, Allospaces and the Unfilmable in Ivan Villarmea, Filipa Rosário (eds.), New Approaches to Cinematic Spaces,Routledge, New York, 2019. 44 È indubitabile come oggi i film supereroistici costituiscano uno dei fenomeni mediali di maggiore rilievo su scala globale. Essi hanno infatti una vocazione iperdiegetica, cioè sono fondati su «uno spazio narrativo vasto e dettagliato, del quale solo una frazione viene direttamente vista o attraversata nell’ambito del testo» (Matt Hills, Fan Cultures, Routledge, London, 2002, p. 137, tr. it. in Massimo Scaglioni, TV di culto. La serialità televisiva americana e il suo fandom, Vita&Pensiero, Milano, 2006), e sono diffusi serialmente a tal punto da configurarsi come cult-testuali (cfr. Massimo Scaglioni, TV di culto. cit.). Sul multiverso Marvel al cinema cfr. Matthew J. McEniry, Robert Moses Peaslee, Robert G. Weiner, Marvel Comics into Film. Essays on Adaptations Since the 1940s, McFarland, Jefferson, 2016; per un inquadramento più generale sulla figura del supereroe cinematografico a prescindere dall’universo di riferimento cfr. Jeffrey A. Brown, The Modern Superhero in Film and Television. Popular Genre and American Culture, Routledge, New York-London, 2017.

L’idea che lo sfogo abbia delle conseguenze, cioè che costituisca una fuoriuscita da un percorso stabilito da un’ istanza padrona, è sostanzialmente di natura religiosa e moralistica. Sottintende cioè una concezione di determinazione prescrittiva:

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– Il conoscere da parte delle persone l’esistenza dell’istanza destinale stessa (attraverso la fede, nel caso di una religione tradizionale, o attraverso le leggi, nel caso di una “religione laica”). – La presenza di una nomologia punitiva, che sanziona negativamente ogni fuoriuscita dal seminato a scopo catartico. In questo senso è davvero rilevante una recente quadrilogia (poi anche una serie tv), ove in una certa misura è presente anche il loop. Si tratta de La notte del giudizio, che già abbiamo visto parlando di Stato e destinalità. Ampliamo qui il discorso alla luce dei nostri sviluppi. La serie di film è ambientata in un’America distopica ove ogni anno, per 12 ore, (quasi) tutti i crimini sono commessi. Si tratta della “Festa dello Sfogo”, stabilita dai cosiddetti Nuovi Padri Fondatori per garantire un’atmosfera pacificata il resto dell’anno, e perpetrata dai governi per motivi vari. Il loop in senso lato è quindi il ripetersi ogni anno, lo stesso giorno, di 12 ore di macabro sfogo, che si espleta attraverso scorribande di violenti nel Paese del tutto legittimati a compiere ogni brutalità, ma anche di giochi perversi come la compravendita di persone per atti di tortura e così via. L’idea dello sfogo, o meglio della “purga” o dell’epurazione, è qui presentata come la base sostantivante il loop, e tuttavia il tema della colpa retrostante la catarsi rimane molto presente. Inevitabilmente infatti la società USA è rappresentata come totalmente piegata al giorno dello Sfogo; il divario ricchi-poveri è accentuato (e la teoria proposta è quella per cui di fatto il giorno dello Sfogo non è altro che un modo per fare un po’ di “pulizia sociale”), e nonostante le statistiche sembrino provare come la violenza diminuisca, poiché concentrata tutta in una notte, il risultato è un popolo ossessivo, pieno di rancore, e che vive la vita al di là dello Sfogo come un’intensa preparazione a esso, sia questa nel tentativo di fortificare la propria abitazione o nel prepararsi con le migliori armi per “divertirsi”. Il loop quindi, per quanto limitato nel tempo (12 ore in un anno) ha il potere, grazie alla catarsi che offre, di funzionare come centro di gravità attorno al quale ruotano tutte le preoccupazioni e le soddisfazioni della società statunitense. La trilogia pone in essere una riflessione sul rapporto fra catarsi, senso di colpa, espiazione, punizione, in un contesto di loop (nel secondo film della serie infatti il protagonista è in cerca di colui che in stato di ebbrezza investì sua figlia, per punirlo sfruttando le potenzialità del loop stesso). Il loop quindi, come l’eterno ritorno di una festa comandata, è qui generato da una precisa

vertenza politica, che prevede un dispotismo strutturale di tipo governativo, nazionale, statale, capace di determinare non solo la vita politica dei cittadini, ma anche di decretare sulla loro più intima esistenza, fino alla morte. Il nesso poi con il concetto di rito, riletto in chiave postmoderna, è palese, se si pensa al precursore Halloween, in cui la violenza emerge proprio in occasione di una ritualità (la festa del 31 Ottobre), così come ai loop natalizi, a quelli di Capodanno, e così via. Più comunemente però l’isotopia dominante nei film di loop è senz’altro quella del marchingegno fantascientifico. Questo tipo di dispositivi può essere piccolo o grande, verosimile (per esempio associato a teorie di meccanica quantistica) o del tutto impossibile (si pensi alla scatola del cortometraggio One-Minute Time Machine di Devon Avery (2014), che riavvia infinitamente un loop di un minuto), sotto o fuori controllo. Gli esempi sono numerosissimi, e ne abbiamo fatti molti nelle pagine precedenti. Aggiungeremo qui, per dovere di completezza, un film ancora non menzionato, e senz’altro non molto conosciuto. Si tratta di Fetching Cody (David Ray, 2005), film che vede Art (Jay Baruchel), un ragazzo di Vancouver che spaccia droga, disperarsi per Cody (Sarah Lind), giovane prostituta di cui è innamorato e che ora è in coma da overdose. La soluzione è in una vecchia poltrona, che gli consente di andare avanti e indietro nel tempo. La presenza di un oggetto desueto si giustifica in più sedi: innanzitutto è interpretabile come gioco metalinguistico che, anziché adempiere al pattern tipico dell’ordigno fantascientifico (la scatoletta di metallo o simili astrusità), dichiara l’impossibilità del viaggio nel tempo proponendone una versione per così dire parodizzata; in secondo luogo fa riferimento all’estetica dei film sulla droga. Si pensi a classici come Trainspotting (Danny Boyle, 1996), Christiane F. – Wir Kinder vom Bahnof Zoo (Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, Uli Edel, 1981) o Fear and Loathing in Las Vegas (Paura e delirio a Las Vegas, Terry Gilliam, 1987): qui i personaggi, drogati, vivono in un mondo allucinato che è figurativizzato per lo spettatore attraverso forma e sostanza dell’espressione, e gli ambienti che abitano sono solitamente posti squallidi re-interpretati in chiave psichedelica. La vecchia e lisa poltrona è in effetti uno di quegli oggetti che caratterizza tali ambienti, solitamente una poltrona di cui non si conosce l’origine. L’oggetto inconsueto come creatore di paradossi temporali è infine appannaggio di una certa estetica del viaggio nel tempo, che si ritrova in serie cult come Dr. Who, ove la macchina del tempo è una cabina blu della

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polizia inglese, o in The Time Machine (L’uomo che visse nel futuro, George Pal, 1960, tratto dall’omonimo romanzo di H.G. Wells del 1985), dove generatrice del loop è una strana slitta con luci colorate e sormontata da una parabola dorata. D’altronde, come ha dimostrato Ritorno al futuro, qualsiasi cosa può essere una macchina di riavvio del tempo. Nel film indipendente Primer (Shane Carruth, 2004), oggi considerato un cult per via della sua estremamente complessa intelaiatura temporale, è una sorta di cella realizzata con il palladio delle marmitte catalitiche, che continuando a riavviare il tempo e a sdoppiare i personaggi introduce uno stato caotico nel mondo che invita lo spettatore alla sfida di dipanare il groviglio sempre più intricato di versioni che si accavallano. In Zerkalo dlya geroya (Mirror for a Hero, Vladimir Khotinenko, 1988), basato sul racconto omonimo di Stanislav Rybas, è un cavo steso per terra. In Moon (Duncan Jones, 2009) è la biologia stessa a generare il loop, basato sulla clonazione di un uomo e la sostituzione dello stesso ogni qualvolta il corpo precedente decada. In Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Se mi lasci ti cancello, Michel Gondry, 2004) un macchinario che cancella pezzi di memoria, costringendo il protagonista a riavviare i suoi ricordi di volta in volta nel tentativo di preservarli. In The Infinite Man (Hugh Sullivan, 2014), puzzle-movie australiano, la più classica delle macchine del tempo. In Devil’s Pass (Il passo del diavolo, Renny Harlin, 2013), così come in qualche modo in ESP – Fenomeni paranormali, o nell’indipendente Blood Punch (Madellaine Paxson, 2016) il loop, spaziale e temporale, è generato da presenze paranormali.

Capitolo 6 E se? Fang – diciamo – ha un segreto; uno sconosciuto batte alla sua porta; Fang decide di ucciderlo. Naturalmente vi sono vari scioglimenti possibili: Fang può uccidere l’intruso, l’intruso può uccidere Fang, entrambi possono salvarsi, entrambi possono restare uccisi, eccetera. Nell’opera di Ts’ui Pên, questi scioglimenti vi sono tutti, e ognuno è il punto di partenza di altre biforcazioni. Talvolta i sentieri di questo labirinto convergono: per esempio, lei arriva in questa casa, ma in uno dei passaggi possibili lei è mio amico, in un altro è mio nemico. Se si rassegna alla mia pronuncia incurabile, leggeremo qualche pagina. Jorge Luis Borges, Il sentiero dei giardini che si biforcano

Povero Witek Una sorta di versione alternativa del film di loop è quello che definiamo “film ipotetico”, un transgenere basato sulla presenza di mondi paralleli in cui gli stessi personaggi si trovano a vivere storie diverse generate dal cambiamento di minimi particolari in uno snodo cardinale della loro esistenza. Anche il film di loop di fatto costituisce un pattern simile, ma se il meccanismo di parallelismo è lì sostituito da una dinamica di ricorsività, qui invece si reifica attraverso un’esplorazione rizomatica di possibili versioni della storia. In altre parole, il procedimento di trial and error del film di loop, che va a costituire una narratologia basata su variazioni sul tema ad libitum (o fin quando il personaggio non abbia adempiuto a certi compiti), si muove comunque in avanti nel tempo (anche quando ritorni indietro, il personaggio comunque soggettivamente sente di andare avanti), mentre nel film ipotetico lo stesso personag-

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gio vive più vicende in un tempo x, che rimane invariato. Linguisticamente il film ipotetico figurativizza le vicende che si genererebbero da una serie di protasi (“e se”) realizzate in una serie di apodosi (“allora”)1. Destinalmente si tratta di mettere in scena un ventaglio di situazioni di tipo causa-effetto, ove tuttavia la causa non è necessariamente scatenata dalla volontarietà del personaggio. Alle volte c’è di mezzo il solito ordigno fantascientifico, altre volte non vi è alcunché, se non la sopraelevazione dello spettatore (concessa per mano dell’autore) che è reso capace di visionare diverse ramificazioni temporali, cioè di prendere atto dei diversi “possibili narrativi”, rifacendoci alla teoria di Claude Bremond2, ovverosia di un ventaglio di sequenze elementari variabili, che vanno a moltiplicarsi di snodo in snodo, producendo sempre nuove teleologie (mentre la soggettività del personaggio ne esperisce ogni volta soltanto una, inconsapevole delle altre)3. Il transgenere ipotetico tendenzialmente si situa su scenari fantascientifici, fantastici, o, come vedremo, ancora una volta slegati da precisi vincoli di genere. È da questi ultimi che conviene partire, poiché risultano essere quelli da cui scaturisce un portato filosofico indipendente dalle assiologie inevitabilmente preimpostate nel cinema di genere. Incontriamo così due film di un regista la cui opera abbiamo già trattato: Krzysztof Kieślowski. La presenza ricorrente (non certo l’unica) di tale nome

nelle nostre pagine è dovuta all’ossessione del regista verso tematiche filosofiche che intercettano gli argomenti di cui trattiamo, e al suo sguardo sempre problematizzante, che «non si ripropone di rendere più chiara la visione del mondo… Perché la visione, forse, molto semplicemente, non è la forma di accesso più chiara»4. Suo è il film ipotetico per antonomasia, Przypadek (1981, anche se in Polonia distribuito per motivi di censura solo dal 1987), tradotto in italiano con il titolo di Destino cieco o, più raramente, Il caso, «un film che segmenta la narrazione in tre episodi intercambiabili centrati sul rapporto casualità-possibilità»5. Il film è montato in maniera lineare, senza sbalzi temporali. Il protagonista viene presentato brevemente, dopodiché si mostra il momento dello snodo esistenziale e a seguire per tre volte l’apodosi, il “cosa succederebbe se”. Sul finale vi è tuttavia una sorta di ricongiungimento, e di morale di fondo. Addentriamoci ora nelle strutture della narrazione per comprendere meglio come sia costruita la riflessione sul destino che ne emerge. Witek (Bogusław Linda), giovane e taciturno studente di medicina, ha recentemente perso il padre, e per affrontare il proprio dolore decide di partire per Varsavia da Cracovia. Si reca così in stazione, ove ha luogo lo snodo esistenziale, che si espleta secondo i tre seguenti e se6: 1. Se Witek riuscisse a prendere il treno, di corsa, evitando lo scontro con un ubriaco. 2. Se Witek perdesse il treno, scontrandosi con l’ubriaco, e incollerito aggredisse il capostazione. 3. Se Witek perdesse il treno, scontrandosi con l’ubriaco, ma accettasse il fatto senza prendersela con il capostazione.

Ci riferiamo qui alla struttura sintattica su cui si formulano le ipotetiche, rette su un ordine in cui la principale è detta “apodosi” e la subordinata condizionale è detta “protasi” (cfr. Anna Giacalone Ramat, Grazia Crocco Galèas, From Pragmatics to Syntax. Modality in Second Language Acquisition, Narr, Tubingen, 1995, p. 143). L’utilizzo di costruzioni di tipo protasi-apodosi è tipico del nostro modo di semiotizzare il passato («se avessi studiato, avrei passato l’esame»), così come di una certa tipologia retorica fondata sulla costruzione di mondi possibili a partire dalla relazione fra subordinata e principale (cfr. Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, cit.). 2 Claude Bremond, La logique des possibles narratifs, «Communications», 8, 1966, pp. 60-76. 3 La teoria è ripresa in Denis Bertrand, Basi di semiotica letteraria, cit., nel quale si chiarifica come il metodo di Bremond «si fonda sulla critica della necessità teleologica che fa consistere il senso del racconto nel termine al quale tende» (p. 172), con “termine” intendendo una sorta di fine culturalizzato. «Una logica narrativa formale non dovrebbe assoggettarsi a un senso che è solo frutto di una scelta culturale, per di più nell’ambito di un dispositivo che in realtà moltiplica le alternative man mano che si sviluppa: numerosi fini sono teoricamente possibili, come mostrano per esempio le diverse alternative di scelta in un modello ad albero», e, citando Bremond stesso, «il fatto che la lotta sia implicata dalla vittoria è un’esigenza logica; ma che la vittoria sia implicata dalla lotta è solo il frutto di uno stereotipo culturale».

Vincent Amiel, Kieślowski. La coscienza dello sguardo, Le Mani, Recco, 1998, p. 22. Emiliano Saverioni, Doppio Tempo Caso. Una struttura narrativa e tematica del cinema contemporaneo (Kieślowski, Resnais, Howitt, Tyker), «Contemporanea: rivista di studi sulla letteratura e sulla comunicazione», 4, 2006, p. 191. 6 È qualcosa di simile all’esperimento, un po’ borgesiano, che abbiamo fatto con Turn Back the Clock circa l’infarto del povero Joe, che qui però è realizzato per davvero nel film.

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È la stazione ferroviaria dunque, luogo simbolico che funge da crocevia di esistenze, fatto di treni che arrivano e che partono, vite che cambiano, addii 4 5

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e nuovi incontri, a ospitare il momento che può cambiare del tutto la vita di Witek. La stazione, struttura profondamente sociale, è in qualche modo allineata con il destino, sovrastruttura metafisica, con il quale coopera7. In questo luogo simbolico, transtopìa che connette luoghi geografici distanti, consentendo fughe e ritrovamenti, Witek è posto come figura il cui potere negoziale è oppresso da qualcosa di sovrastrutturale. Certo, il fatto che egli sia in ritardo potrebbe essere letto come segnale di una sua individuale responsabilità; se fosse stato previdente arrivando qualche minuto prima egli sarebbe stato padrone della situazione, prendendo certamente il treno. E tuttavia il film lascia intendere come di fatto lo snodo esistenziale, pur se collocato in un luogo così simbolicamente marcato come la stazione, si possa situare a ogni angolo della vita. La struttura destinale reificata dal montaggio e dalla sceneggiatura del film è quindi una sorta di contraltare della scelta individuale. Non vi è una dicotomia fra imponderabile e arbitrio, ma le due forze lottano in una tensione che le vede in rapporto di complementarietà. I tre percorsi che si aprono sono tutti sanciti formalmente dall’utilizzo della stessa traccia sonora, di Wojciech Kilar, dominata dalle tonalità dissonanti del pianoforte e da archi ariosi. Il ricorso per tre volte a tale musica, nel momento in cui si riprende l’arrivo alla stazione di Witek e la sua corsa per prendere il treno, funge da rima plastica che riavvolge il tempo ma anche marca enunciativamente l’atmosfera generale di tinte drammatiche, in qualche misura volgendo verso una sorta di velata prolessi, accennando allo spettatore che la mestizia di fondo di episodio in episodio non sarà destinata a risolversi positivamente. Nello specifico se Witek “capitasse” nel percorso 1 incontrerebbe nel treno Werner (Tadeusz Łomnicki), che lo inizierebbe al partito comunista facendolo diventare funzionario. Tuttavia in seguito conoscerebbe Czuszka (Bogusława Pawelec), militante anticomunista, con cui instaurerebbe una relazione fino a quando, facendola arrestare per sbaglio, ferirebbe i suoi sentimenti. Witek deciderebbe così di partire per Parigi, ma a causa di uno sciopero perderebbe l’aereo. Rimanendo solo e frustrato. Se invece “capitasse” nel percorso 2, Witek finirebbe condannato ai servizi sociali per via della sua aggressione al capostazione. Così deciderebbe di

unirsi a un gruppo di resistenza anticomunista, conoscendo e instaurando una relazione con Vera (Marzena Trybała), e poi abbraccerebbe il cattolicesimo. Tenterebbe inoltre di recarsi a Parigi, ma gli verrebbe sequestrato il passaporto e sarebbe costretto a rivelare i nomi del gruppo di sovversivi a cui si era unito. Così facendo provocherebbe lo smantellamento della resistenza e la rottura della relazione con Vera. Rimanendo solo e frustrato. Se infine “capitasse” nel percorso 3, Witek in stazione incontrerebbe Olga (Monika Goździk), sua vecchia compagna di corso di medicina. Instaurerebbe dunque una relazione con lei e riprenderebbe i corsi. Si sposerebbe e diventerebbe un affermato medico. Si dichiarerebbe neutrale alla politica e accetterebbe, per il bene della sua carriera ma con la tristezza di dover momentaneamente abbandonare la moglie e il figlio neonato, di andare in Libia per tenere dei corsi. Si recherebbe in aeroporto, per prendere un aereo che farebbe scalo a Parigi. Non appena decollato, l’aereo esploderebbe, con Witek a bordo. I tre effetti dunque, che accadono tutti simultaneamente, nonostante la netta tragicità dell’ultimo sugli altri due, non fanno che produrre conseguenze nefaste, vanificando in un certo senso le cause. Ecco la differenza significativa con il film di loop: la simultaneità. Avrete notato l’utilizzo del rapporto congiuntivo-condizionale (“se capitasse”  “allora succederebbe questo”). L’idea di fondo è che il film fa accadere al contempo tutti gli scenari mostrati (oppure, ma l’ipotesi è più ardimentosa, non ne fa accadere nessuno), realizzando vari destini per il protagonista. Egli naturalmente non è conscio di viverli, è lo spettatore che attraverso la focalizzazione occupa qui una posizione sopraelevata. Il film pare suggerire un’amarezza di fondo della vita, a prescindere dalle scelte di chi la vive e dagli snodi che esso o essa attraversino. Tali snodi, peraltro, sono dislocati all’inizio in una stazione, e alla fine in un aeroporto, due luoghi non dissimili dal punto di vista simbolico. Tutt’altro che non-luoghi, come direbbe Marc Augé8, data la loro capacità di sprigionare sentimenti ed eventi tanto significativi. La morale di fondo è davvero piuttosto aspra, giacché indica un’insignificanza di fondo della vita di fronte a quella che appare una diffusa predestinazione, volta

Un contributo recente sul rapporto fra stazioni ferroviarie e cinema in Rebecca Harrison, From Steam to Screen. Cinema, the Railways and Modernity, I.B. Tauris, London-New York, 2018.

Il riferimento è alla nota teoria iniziata con Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, tr. it. Elèuthera, Milano, 1993, definendo una serie di luoghi postmoderni nei quali, secondo lui, non sussisterebbero relazioni umane significative ma solamente scambi necessari allo spostamento di persone e merci.

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verso il dolore. La scelta, in questo frangente, è destituita di ogni potenzialità, e la linearità del montaggio assume un tono motivato in sede ermeneutica: la mostra lineare, quasi matematica, dei percorsi esistenziali di Witek, spicca in quanto accumulazione omogenea, ove la diversità dei fatti non produce una diversità di conseguenze. Il futuro di Witek è, ineluttabilmente, triste, e la dinamica intersequenziale con cui è montato il film non fa che sottolineare ed enfatizzare tale dato. Anche paratestualmente il titolo originale Destino cieco, letteralmente “caso”, incornicia siffatta interpretazione. Il caso non è qui la casualità, ma un ente invisibile, incorporeo, assente, che dà volume costante all’insignificanza della vita. Il reiterarsi della musica di sottofondo nella scena della corsa verso il treno, ripresa con alcuni dettagli sulle persone nella stazione e con un’enfasi sul volto affannato di Witek, fa da eco alla reiterazione del dolore. Il treno che si allontana, seguito con una leggera carrellata in avanti, non è quello dell’occasione presa o di quella mancata, ma quello dell’insensatezza, presentata come una ur-ideologia che sovrasta la politica, la religione, il sentimento amoroso, la soddisfazione lavorativa. Tutte quelle dimensioni della vita umana che la significherebbero, e che sono qui ridotte a contenitori vuoti9.

Direttamente ispirato a Destino cieco, ma virato nei toni del dramma statunitense contemporaneo, è Sliding Doors (Peter Howitt, 1998). Sin dall’inizio i riferimenti all’opera di Kieślowski sono evidenti. Non è più una stazione ferroviaria il luogo dello snodo esistenziale, bensì una fermata della metropolitana, e la protagonista Helen Quilley (Gwyneth Paltrow) è ripresa come Witek nell’atto di correre, un po’ affannata, per non perdere il treno. Il suo percorso non è intralciato questa volta da un ubriaco, ma da una bimba che poggia una bambola sul corrimano delle scale della metro per giocare. Da un punto di vista del motore semantico che genera le premesse del film poco cambia, e infatti anche Helen, come Witek, corre a prendere la metropolitana in conseguenza di un evento grave della sua vita (non la morte del padre, ma il licenziamento). Da un punto di vista formale similmente la scena è costruita con una serie di inquadrature oggettive, salvo poi cambiare drasticamente rispetto alle formule eleganti di Kieślowski. Egli infatti non adopera mai effetti visivi di post-produzione per significare la reiterazione, mentre Howitt nel momento in cui Helen giunge al treno, le cui porte sono ormai irrimediabilmente chiuse, dissolve sul bianco per riavvolgere letteralmente, con un effetto rewind, il tempo. Si vede così Helen correre all’indietro fino alla cima delle scale, per poi ripetere la scena questa volta riuscendo, giusto in tempo, a prendere il treno. La scena del riavvolgimento è connotata anche da una musichetta di sapore “magico”, e il suo entrare dalle porte che si stanno per chiudere enfatizzato con un marcato utilizzo del ralenti, come a voler dire che è in quell’atto, nel salire anzichenò sul vagone, che si situa il brutale cambio del corso degli eventi.

Destino cieco Ci pare in questo senso piuttosto fuorviante l’ipotesi interpretativa di Mario Gennari, L’eidos del mondo, Bompiani, Milano, 2012, per cui dal film emergerebbe invece un’idea dell’umanità come responsabile di se stessa. Riteniamo piuttosto valida invece l’ipotesi di Žižek (2014, Meno di niente) per cui è Witek a reprimere la svolta impressa dalla contingenza, costruendovi sopra una narrazione perché ciò gli è necessario, diremmo per sfuggire all’insignificanza.

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Qui, come in Destino cieco, un certo – forse grossolano – riferimento al famoso “effetto farfalla”, «ovvero della interconnessione di qualsiasi evento come origine di una serie infinita di cause ed effetti»10, fa da pretesto massimo. È un’impostazione metafisica che si può tranquillamente opinare, e che tuttavia funge da pre-condizione generale per i film ipotetici basati sull’e se, che è tendenzialmente un e se personalistico. Quando fosse universalistico si verificherebbe invece un immediato slittamento verso il genere cosiddetto ucronico o allostorico, come nel caso del diffuso esempio definitorio “e se Hitler avesse vinto la seconda guerra mondiale?”, e se universalistico e marcatamente controfattuale cui si deve il successo di opere letterarie come La svastica sul sole di Philip K. Dick (1962), oggi anche serie televisiva. Per il resto il film si presenta come una versione decisamente americanizzata di Destino cieco, traslitterando le questioni politiche, religiose, e in definitiva esistenziali del film originale in vicende di innamoramenti, tradimenti, e riuscita personale. Se questo poco ci dice sul piano semantico generale, in termini di una semiotica della cultura segnala ancora una volta uno slittamento assiologico importante in certo cinema contemporaneo targato USA, più o meno surrettiziamente impostato sempre sull’archetipo del self made man, o in questo caso della self made woman. Tuttavia di rilievo, in un film che comunque si contraddistingue per una certa originalità, e per aver posto le basi del film ipotetico per un pubblico globalizzato, risultano alcuni dati, tanto formali quanto contenutistici. Su questi ultimi va senz’altro rilevata la presenza della morte, così come compariva sul finale di Destino cieco, e di un certo sistema di convergenze destinali per le quali l’ipotesi iniziale, quella per cui prendere o meno un treno possa sconvolgere interamente la vita del personaggio, viene vanificata. Non sono dunque solo gli oggetti a “puntellare” la destinalità, ma ancora una volta i luoghi-soglia e i luoghi dell’altrove, come le spiagge e i castelli trattati parlando della Morte. Si rintraccia inoltre un’idea di destino fondata sull’equilibrio: Helen infatti vive vicende diverse nei due mondi paralleli ingenerati dallo snodo esistenziale, ma alla fine una sorta di bilanciamento cosmico sembra sistemare le cose, facendo in modo che in entrambi i casi essa – dopo innumerevoli peripezie sentimentali e non solo – trovi il vero amore nel personaggio di James (John Hannah), istrionico uomo

dalle ottime qualità. In uno dei due mondi tuttavia morirà in circostanze tragiche, condizione necessaria affinché l’altro mondo, quello che di fatto offre la chiusura agrodolce del film, possa prevalere fuggendo dalla condizione di virtualità (obbligatoria dal parallelismo con l’altra versione) cui per tutto il film era stato sottoposto11. Formalmente poi Peter Howitt adotta una gestione dell’economia filmica completamente diversa da Kieślowski. Quest’ultimo disponeva con eleganza la triforcazione in ordine, poggiandosi su un’estetica della reiterazione e dell’accumulo per la quale ogni episodio, seguendo il precedente, significava di per se stesso, ma pure in relazione ai sistemi di consonanze e differenze con quello che lo aveva preceduto. Così si stagliava sempre più amaramente l’idea per cui al di là delle vicissitudini iniziali la vita di Witek era, inesorabilmente, destinata al dolore. Howitt invece dopo aver mostrato con il sistema di riavvolgimento il momento in cui si avvia la biforcazione procede per tutta la durata del film con un montaggio strettamente parallelo, che si disloca su due dimensioni. Da un lato mostra, in un rimbalzare che arriva addirittura a confondere – e che è ordinato dall’espediente narrativo per il quale Helen in uno dei due mondi cambia vistosamente acconciatura in modo da essere distinguibile – il susseguirsi cronologico delle avventure della protagonista nelle due esistenze; dall’altro spesso si alterna nello stesso mondo, per esempio nel dimostrare cosa combini il compagno traditore di Helen mentre lei lavora. Tale alternanza del montaggio, in ispecie la prima (quella mondo-mondo), suggerisce un avvenire parallelo delle vicende narrate, mentre in Destino cieco tale sincronismo è eluso e pare piuttosto che ogni volta si debba fare un rewind cognitivo per ricominciare con un nuovo e se. Passando dalla destinalità all’idea di destino, dal film di Howitt, pur emergendo un considerevole carico di dolore (tradimenti, sotterfugi, scippi, incidenti, aborti, morti), una certa atmosfera leggera, lo stemperamento di alcuni personaggi positivi come le due controparti amicali dei protagonisti, e il finale quasi-lieto, lasciano intendere come nonostante le coincidenze (che si possa prendere o meno un treno) la vita non riservi esclusivamente soddisfazioni o sofferenze, ma amalgami le due condizioni in misure imprevedibili. Al contrario di Destino cieco, ove prevale in maniera quasi dispotica una morfologia della necessità per cui

Mario Sesti, L’effetto farfalla in Giacomo Mondadori, Pezzi di ricambio, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 10.

11 Approfondimenti sul film in chiave semiotica in Maurizio Gagliano, Mondi narrativi, finzionali e reali, «Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni», 1, 2007.

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la scelta individuale conta poco o nulla, qui rimane intatto un regime possibilista, ove le scelte dei singoli possono in qualche modo negoziare il destino quando questo si rivela triste. La corsa di Lola Negli stessi anni anche la Germania post-muro scopre la postmodernità, che emerge dirompente in Lola rennt (Lola corre, Tom Tykwer 1998). Si tratta di un film a metà fra il loop e l’ipotetico, vessato quasi unanimemente dalle critiche dell’epoca eppure divenuto una sorta di cult del cinema tedesco contemporaneo, paralizzato dall’esaurimento dello Junger Deutscher Film. Il film di Tykwer si presenta come un action movie a sfondo metropolitano, ambientato in una Berlino underground che risuona di musiche techno, attraversata di corsa dall’atletica Lola (Franka Potente), nel disperato tentativo di recuperare 100.000 marchi da dare al fidanzato Manni (Moritz Bleibtreu) prima che il malvivente Ronnie (Heino Ferch) lo uccida. Il film è formalmente ipertrofico, caratterizzato da un montaggio serrato, dall’uso insistito di vorticosi movimenti di macchina, da sequenze rapide, da colori sgargianti al limite dell’allucinato, dall’inserzione improvvisa di cartoni animati, da una colonna sonora persistentemente invasiva. La trama è esile, e si riavvolge per ripetersi ogni qualvolta la missione non sia compiuta, con il solito sistema di prove ed errori e di variazioni sul tema, predisposte quasi didascalicamente nella folle corsa di Lola (per esempio ella incontra delle monache che potrebbero o meno intralciarle il percorso, così pregiudicando la riuscita finale). Il film: […] presenta una ripetizione autodiretta, che riflette e mostra le invarianti strutturali, mentre le trasforma […]. A partire da una matrice di invarianti, come potremmo definire la rete di isotopie figurative-tematiche-valoriali che intesse tutto il film, si trasformano dei momenti locali del testo: in Lola corre si mantiene la stessa struttura narrativa in ben tre varianti, ma le svolte discorsive (cioè l’intreccio) cambiano progressivamente. In effetti, all’interno di una struttura narrativa simile le variazioni figurative incidono su quelle tematiche, e arrivano a trasformare quelle valoriali12. 12

Nicola Dusi, Lucio Spaziante, Remix-remake, cit., p. 129.

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Il pattern si ripete dunque fin quando i due amanti non si ricongiungeranno riuscendo nell’intento di pagare il criminale dei suoi marchi. Per il resto il film pare piuttosto avvicinarsi a un espanso videoclip in stile videoludico o MTV, che in quegli anni viveva la sua ribalta, ed è anche per questo che la critica fu spietata, giudicando l’enorme dispendio formale inconsistente se paragonato al piano drammaturgico. Tuttavia Lola corre riesce a intercettare la curiosità di un certo tipo di pubblico, a contribuire alla diffusione dell’estetica della Berlino underground, che ancora oggi perdura, e a divenire oggetto di remake come Miu meng ji tiu (Ransom Express, Wai Laam, 2000), copia carbone dell’originale di produzione hongkonghese ma ambientato nella capitale malese Kuala Lumpur, o And then Came Lola (Ellen e Megan Seidler, 2009), che riadatta il film attorno alla tematica LGBT, mantenendo alcune premesse formali come quella dell’animazione, e aggiungendone altre come la finta intervista di fronte alla macchina da presa – di derivazione alleniana e più recentemente appannaggio di sitcom come Modern Family (2009 – in corso, ideata da Christopher Lloyd e Steven Levitan) – e una certa dose di erotismo lesbico. Qui Lola (Ashley Summer) deve infatti correre non per salvare il fidanzato dalle grinfie di un criminale, ma per evitare che la sua fidanzata sia sedotta dalla maliziosa datrice di lavoro.

Lola corre e And then Came Lola Lola corre ci è così utile per tornare sulla dicotomia fra film di loop e film ipotetico, che in effetti pare essere se non destituita quantomeno indebolita. La difficoltà di inserimento del film nell’una o nell’altra fattispecie verifica l’ipotesi per cui le due tipologie siano interconnesse, e in certi casi del tutto sovrapponibili. Invero i numerosi film di loop menzionati e analizzati in precedenza, ove un personaggio è costretto a rivivere ogni volta un determinato giorno o periodo, possono anche essere intesi come film di tipo e se. Tuttavia è nella posizione narrativa dello snodo esistenziale che sussiste la differenza. 377

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Nel film ipotetico è dall’e se, cioè dalla protasi, che si dipartono i mondi paralleli, nel film di loop è invece dalla conseguenza che si ingenera la circolarità (o il mondo parallelo successivo). Finisce il giorno, o il personaggio muore, con tutto il carico di conseguenze che c’è in questa fine di un ciclo, e questo riparte. Una volta ripartito la storia si ripete parzialmente, e parzialmente si modifica per via degli e se che il personaggio incontra (incidenti, cioè necessità, o scelte, cioè possibilità). A questo punto il film di loop si fa, almeno in parte, film ipotetico. Per comodità di analisi, e anche perché in fondo il loop parte dall’effetto, e l’ipotetico parte dalla causa, ci siamo permessi di separare, almeno un po’, le due tipologie. Véronique e Weronika Vi è poi un tipo di parallelismo che più che fattuale è in qualche modo indotto, da una serie di pretesti di varia natura, come nel caso di La Double Vie de Véronique (La doppia vita di Veronica, 1991), nuovamente di Krzysztof Kieślowski, penultima opera del regista precedente alla Trilogia dei Colori. Qui l’attrice Irène Jacob interpreta contemporaneamente Weronika, cantante d’opera polacca che muore per un attacco cardiaco durante un concerto, e Véronique, francese che interrompe la sua attività di cantante quando scopre di essere malata di cuore, sapendo che se continuasse potrebbe rischiare la vita. Le due donne non si conoscono, eppure in concomitanza con la morte di Weronika Véronique avverte un improvviso senso di smarrimento, che non riesce a spiegarsi. Comprenderà solo quando il fidanzato Alexandre (Philippe Volter) noterà che in una foto di un viaggio in Polonia compare una donna uguale a lei. Si tratta di Weronika, che aveva incrociato la sua esistenza a Cracovia, mentre Véronique si trovava come turista su un autobus. Le due donne sono dunque fisicamente identiche, e portano lo stesso nome. Inoltre condividono le stesse propensioni, cioè il canto, e gli stessi problemi di salute, la malattia cardiaca. Tuttavia l’una ignora tale condizione, provocandosi la morte, mentre l’altra la tratta con cautela, così avendo salva la vita. Si tratta di un film ipotetico dove l’e se non è gestito attraverso mondi paralleli, ma fuso con il tema del Doppelgänger e in qualche modo di ordine infrapsichico (a ricalcare l’opposizione interiore-esteriore della destinalità loop). Weronika e Véronique sono i doppi impossibili le cui esistenze si biforcano a partire da un misto di scelta e possibilità. La loro identità fisica e caratteriale 378

è però sottoposta a una discrasia, cioè un’opposizione destinale, evocata nel film dal guardare di Véronique il mondo al contrario dentro una palla di vetro, mentre il treno va. Tuttavia, se è proprio Véronique a sopravvivere al problema cardiaco, il dolore che ricava dalla perdita del canto fa da contraltare, e unica via di felicità è Alexandre, che si diletta con le marionette, ricavandone non una, ma due identiche a lei, proprio quando i due si accorgeranno di Weronika nella foto. La messinscena meta-trans-testuale di uno spettacolo marionettistico dentro il film è allegoria di un mondo i cui fili saranno tirati dall’alto, e richiama inevitabilmente un metafilm di qualche anno dopo, Essere John Malkovich, che abbiamo già avuto modo di trattare. Il film ipotetico dunque attualizza cinematograficamente le possibilità virtuali che si dipartono da uno snodo esistenziale, ipotizzando gli effetti di certe cause e con ciò formulando una struttura destinale. Ciò può avvenire senza alcun riguardo circa la logicità di quanto si propone allo spettatore, come nei casi di Destino cieco o Sliding Doors, in cui le varie possibilità esistenziali sono mostrate senza pretesti alcuni. In questi casi il film magnifica la potenza proiettiva del cinema, capace di fare sospendere l’incredulità non solo di fronte a immagini inverosimili, ma anche di fronte a orizzonti ontologici del tutto inediti: lo spettatore di Sliding Doors non si pone il problema di quale sia la Helen “vera” o quella “finta”, ma accetta di buon grado l’esistenza di entrambe, confinate nello spazio filmico che può reificare l’impossibile. Al contrario il parallelismo può essere proposto in forza di una qualche più o meno verosimile premessa, come ne La doppia vita di Veronica, ove le vicende – per quanto improbabili – attecchiscono anche per via di alcune suture enciclopediche: Weronika e Véronique sono identiche, e in molti sono convinti che esistano un certo numero di sosia per ogni persona del mondo; Weronika e Véronique sono in qualche modo gemelle, e in molti sono convinti che i gemelli condividano un grado di sensibilità che li porta a soffrire o gioire in simbiosi anche a elevata distanza (si pensi al mito della martellata sul pollice del gemello A che farebbe sentire dolore anche al gemello B). In tutti i casi visti comunque il film ipotetico mostra un ventaglio più o meno ampio di atti legati platonicamente a una certa potenza senza che ci si avveda di una logica condizionale (cosa sarebbe se ciò fosse), poiché il film pone in essere invece una logica indicativa (ciò è, e quindi).

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Nemo, nessuno e centomila Esistono però ancora casi ove il film, con atteggiamento forse un po’ derisorio, colloca lo sviluppo della potenza in atto su una dimensione prettamente mentale, finanche celando tale dato allo spettatore sino alla conclusione. È il caso di due film, l’uno salito alla ribalta negli ultimi anni, Mr. Nobody (Jaco Van Dormael, 2009), l’altro sostanzialmente sconosciuto, Possible Worlds (Robert Lepage, 2000). Quest’ultimo, tratto da un’opera teatrale canadese di Peter Hinton del 1990, è tutto girato dalla prospettiva di alcuni investigatori intenti nel cercare di comprendere dove sia scomparso il cervello di George Barber (Tom McCamus), barbaramente assassinato, e da quella dello stesso George, che rivive costantemente e impossibilmente una relazione amorosa con Joyce (Tilda Swinton) ogni volta con esiti e tinte diverse. Il sapore generale del montaggio ha un che di lynchiano, non essendo vincolato alle ristrettezze della linearità narrativa, e il risultato quindi appare per certi versi torbido. Si tratta di un puzzle, «inteso come gioco di costruzione [che] invita […] a una ricomposizione. […] deve il suo piacere tanto al perdersi nei frammenti quanto all’obiettivo di reintegrarli in un intero»13. E ancora di più, si tratta di un film-puzzle, categoria di recente coniazione che integra la dimensione ludico-narrativa nello specifico filmico:

rato globalmente da The Matrix, anche se introdotto filosoficamente molto prima e battezzato nell’era cibernetica dai Cervelli nella vasca di Putnam15, che vede la realtà come sottomessa alla percezione e, in qualche modo neopositivisticamente, alla dimensione del cerebrale16. Dal punto di vista del parallelismo si rilevano almeno due dati nuovi: 1. Gli e se sono virtuali e lo restano, cioè si verificano nel cervello (nella mente?) del protagonista, il quale tuttavia li esperisce e li vive in toto, mettendo nuovamente in crisi una serie di paradigmi ontologici comunemente dati per assodati17; 2. Non vi è una stretta cronologicità dei paralleli, che invece si intrecciano

Peppino Ortoleva Miti a bassa intensitò, cit., p. 308. Warren Buckland, Introduction: Puzzle Plots, in Id., Puzzle Films. Complex Storytelling in Contemporary Cinema, Blackwell, Malden, 2009, p. 6.

15 La fonte iniziale è Hilary Putnam, Reason, Truth and History, cit., che postula un’allucinazione collettiva, condivisa dall’umanità che sarebbe costituita da cervelli in vasche connessi a programmi informatici. Segue un prolifico dibattito fenomenologico, legato ai nessi fra razionalità ed esperienza, efficacemente ricostruito in Roberta Corvi (a cura di), Esperienza e razionalità. Prospettive contemporanee, FrancoAngeli, Milano, 2005. Dato interessante è che è la stessa Putnam a confutare la sua stessa ipotesi, riducendola ad assurdo: se un cervello in una vasca non può riferirsi infatti che a oggetti immaginari, noi in quanto cervelli nella vasca nell’immaginarci quest’ultima non possiamo che riferirci a nostra volta a una vasca immaginaria. 16 Che la coscienza sia unicamente frutto di operazioni cerebrali è una considerazione oggi messa in discussione anche da chi si occupa neuroscienze, come dimostra Alva Noë, Perché non siamo il nostro cervello, Raffaello Cortina, Milano, 2010. 17 Maurizio Ferraris, in Intorno agli unicorni. Supercazzole, ornitorinchi e ircocervi, Il Mulino, Bologna, 2018, sostiene che gli unicorni non esistono, in senso ontologico, poiché immaginare una cosa non è prerequisito bastevole alla sua esistenza, a meno di non voler fare decadere il significato stesso del termine “esistere”. Poco importa se l’immaginario sia pieno di unicorni, e se questi siano presenti in cartoni animati, film, come giocattoli, su internet. In Possible Worlds dunque, secondo la prospettiva graniticamente ontologica di Ferraris, tutta l’esperienza del protagonista non esiste (eppure lui la vive), se non nella sua mente. Interessante notare dunque come buona parte delle cose, secondo una prospettiva ontologica forte, inesistenti, abbiano invece conseguenze gigantesche su ciò che invece esisterebbe. È forse il più problematico punto di divergenza fra semiotica e ontologia. Verrebbe infatti da chiedersi come inquadrare lo spread o le fake news, i quali, pur non esistendo (il primo è una relazione numerica che nessuno ha mai visto camminare per strada, le seconde sono menzogne, quindi cose che di fatto “non sono”), hanno conseguenze enormi sul mondo, o, per restare sul piano equino, gli unicorni, che potranno anche non esistere, ma che hanno fatto guadagnare un bel gruzzolo non solo a J.K. Rowling, avendone piazzato uno in Harry Potter e la pietra filosofale (1997), ma a moltissime altre persone.

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[P]uzzle films embrace non-linearity, time loops, and fragmented spatiotemporal reality. These films blur the boundaries between different levels of reality, are riddled with gaps, deception, labyrinthine structures, ambiguity, and overt coincidences. They are populated with characters who are schizophrenic, lose their memory, are unreliable narrators, or are dead (but without us – or them – realizing)14.

Non è dunque chiaro definire cosa sia vero e cosa non lo sia, anche dato il sovrapporsi di personalità ed esperienze nella vita di George e di Joyce, ma sul finale si comprende come sia stato uno scienziato a frugare il cervello del malcapitato, tenendolo ora in vitro e lasciando che “continui a vivere” proiettando a se stesso una serie di possibili esistenze, che interferiscono l’una sull’altra. Il film dunque si colloca in quel coacervo fantascientifico inaugu13 14

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e generano cronosismi, si dispongono a puzzle18, sacrificando la linearità temporale in favore di una visione sincretica dell’esperienza umana, che quando portata a un livello superiore (cioè staccata dal corpo, nel film in maniera brutale, in alcune filosofie come quella buddista con approccio meditativo) fonde tutti i destini possibili in uno solo. In alcune delle sue versioni lo stesso George risulta peraltro conscio della sua condizione, rivelando a un’incredula Joyce dell’esistenza di infiniti mondi possibili, e sostenendo di essere contemporaneamente in essi e di averne contezza. Radicalmente diverso è il punto di vista in Mr. Nobody, ove si ritorna al modello della triforcazione. Il protagonista è Nemo Nobody (Jared Leto), personaggio il cui nome parlante funge da anticipazione sulla rivelazione finale. Egli è qualcuno pur essendo nessuno, è e non è, con buona pace di Parmenide. Il film coniuga un impianto drammatico e uno sfondo parascientifico, che cita teorie come quella dell’interpretazione a molti mondi, la teoria del caos e, ancora una volta, la meccanica quantistica. Ma è la riflessione sulla destinalità a farla da padrona, ed è su questa che ci concentreremo qui. Nemo narra la sua vita alla veneranda età di 117 anni, rimasto l’ultimo mortale in un mondo utopico ove la morte è stata sconfitta. Tuttavia la sua narrazione assume contorni contraddittori, vite parallele si intrecciano e diverse età della sua vita si mescolano attraverso il montaggio. La narrazione è quindi non lineare, e spesso la composizione plastica dell’immagine ne accondiscende i parallelismi attraverso giustapposizioni mediante lo split screen o l’utilizzo di cromatismi e specifiche fotografiche differenti per le tre singole linee esistenziali. Nemo così vive la separazione dei propri genitori, qualche anno più avanti si innamora, poi ancora scopre l’età adulta. Ognuna di queste tappe della sua vita rappresenta uno snodo peculiare, poiché sovrasta Nemo imponendogli delle scelte dolorose e incontrovertibili. Egli non sceglie di scegliere, ma è costretto alla scelta, fin dalla tenera età, dove si situa il vero motore dell’intero film che si scopre alla fine essersi svolto in prevalenza nella mente del protagonista, sottoposto all’attanagliante biforcazione se scegliere di stare con il 18 Cfr. Stephan Brössel, Narrative Empuzzlement in Robert Lepage’s Possible Worlds in Sabine Schlickers, Vera Toro (eds.), Perturbatory Narration in Film. Narratological Studies on Deception, Paradox and Empuzzlement, De Gruyter, Berlin-Boston, 2017. Lo stesso Brössel propone una lettura semiotica del film analizzando con perizia la dislocazione e le relazioni fra i vari strati diegetici.

Mr. Nobody padre o con la madre (i genitori essendo in via di separazione), e che squarcia scappando, da solo, verso un futuro terzo, ignoto. Tutto il film costituisce dunque la gigantesca proiezione mentale di un bambino che rifiuta l’idea di una destinazione coatta, preferendo una terza via che sovverte una certa retorica binaria dominante per la quale l’ignoto costituisca la più spaventevole delle dimensioni ed esperienze umane. Nemo al contrario sceglie l’ignoto in virtù delle sue possibilità inenarrabili, scartando i futuri possibili che si dipartirebbero dalla dolorosa scelta genitoriale. È evidente come la corsa forsennata di Nemo (un po’ come quella di Lola per analogia) non possa perdurare in eterno, e come esso dovrà necessariamente scendere a patti con la realtà, tuttavia di ciò nel film non vi è traccia. L’apparato mentale costruito dal protagonista, messo in scena con un enorme dispendio di fantasia visiva, giustifica la sospensione verso la terza via, quella di una destinalità sconosciuta ma autoprodotta, a ridosso di un sistema di scelte forzatamente eterodirette ed emotivamente deleterie. Nemo sceglie entrambi i propri genitori, in quella stazione ferroviaria – di nuovo – su cui campeggia timida la scritta «chance». Ma soprattutto non sceglie nessuno dei due, correndo in un’altra direzione, verso il nulla. Il protagonista così personifica la scissione fra destino e progetto, cioè fra sistema di imposizione esistenziale proiettato dall’alto (dal mondo adulto

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sul mondo bambino) e programma destinale invece generato dal soggetto. Tale programma richiede comunque uno sforzo di negoziazione psichica con se stessi, poiché comporta un costante esercizio di dissonanza cognitiva nel reinquadrare i fenomeni del vissuto, tanto quelli su cui si decide di credere di poter esercitare un controllo quanto quelli del tutto incontrollabili, all’interno di una dimensione positivamente egocentrica. Si tratta di una scelta coraggiosa, che elude la tentazione consolatoria e deresponsabilizzante celata dietro la credenza di un destinante metafisico. Nemo infatti non sceglie di non scegliere, ma sceglie di non scegliere in un ventaglio di possibilità che la sua soggettività percepisce come costrittive. La sua fuga è, de facto, un atto di coraggio che rifugge l’autocommiserazione, una presa di responsabilità, e costituisce l’elogio della virtualità non ancora attualizzata. È lo stesso Nemo, sul finale del film, a rivelarlo al suo intervistatore quando accusato di avere raccontato storie contraddittorie e impossibili. «Ogni percorso è quello giusto», egli dice, ma lo dice poiché proiezione mentale di un bambino che tali percorsi non li ha ancora vissuti, e che può quindi governare a proprio piacimento in un sistema ove causa ed effetto non esistono ancora. Ogni percorso è quello giusto fin quando non ne scegli uno. È propria una certa ossessione per le conseguenze infatti a farsi isotopia del film, fin dall’inizio. In una delle prime sequenze la voce narrante del piccolo Nemo racconta dell’incontrovertibilità di determinati fatti, come dell’impossibilità di separare ketchup e maionese una volta mescolati, o di far rientrare le spire di fumo nella sigaretta una volta che questa le abbia prodotte. Tale racconto è rinvigorito dall’inquadratura delle immagini cui si riferisce, che non appaiono come extradiegetiche, ma risultano riferite a ricordi dello stesso Nemo. L’intera costruzione filosofica che egli imbastisce è tutta motivata a giustificare la sua non-scelta, resa dalla simmetria dell’inquadratura, di fronte a una vetrina di dolci, poiché ci sono due vassoi ed egli ha solo una moneta. E ancora più avanti nel film, una versione del Nemo adulto conduce uno speciale televisivo sulla “scelta giusta” in relazione alla meccanica quantistica. E ancora, in un’altra sequenza, Nemo incontra dopo molto tempo Anna (Diane Krueger), suo amore di gioventù, che gli lascia un biglietto con il proprio numero di telefono, per ricominciare a sentirsi. Egli guarda il numero di telefono, e il controcampo si sposta su un’inquadratura dall’alto della città, fra le nuvole, per diventare poi una semisoggettiva dal punto di vista di una goccia di pioggia che cade, fino a macchiare inevitabilmente il foglietto

19 Il Butterfly Effect si rifà in realtà a teorie fisiche complesse, e nello specifico alla teoria del caos (un approccio introduttivo in Ivar Ekeland, Come funziona il caos. Dal moto dei pianeti all’effetto farfalla, Bollati Boringhieri, Torino, 2010). Riferimenti all’inserzione di teorie matematiche nell’arte e nel cinema in Michele Emmer, Mirella Manaresi (eds.), Mathematics, Art, Technology and Cinema, Springer, Berlin, 2003. Sulla complessità narrativa innescata dall’effetto farfalla nei film cfr. Steffen Hven, Cinema and Narrative Complexity. Embodying the Fabula, Amsterdam University Press, Amsterdam, 2017. Su cinema e cronotopi cfr. Pepita Hesselberth, Cinematic Chronotopes. Here, Now, Me, Bloomsbury, New York, 2014.

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Mr. Nobody con il numero di telefono, rendendolo illeggibile. La voce narrante di Nemo da vecchio e quella di Nemo da bambino si mescolano per motivare tale ironico fato: un disoccupato brasiliano due mesi prima aveva bollito un uovo, il vapore scatenato aveva contribuito a generare nell’atmosfera le nuvole che due mesi dopo, dall’altra parte del mondo si erano fatte pioggia. È l’effetto farfalla, totalmente slegato dalla responsabilità di Nemo. Tuttavia il racconto prosegue. Tale uomo si era bollito un uovo perché non era andato a lavoro, e aveva perso il lavoro perché la fabbrica era fallita, e la fabbrica era fallita anche per colpa di Nemo che qualche tempo prima aveva scelto un paio di jeans più economici di quelli prodotti nella fabbrica suddetta. Così l’effetto farfalla non è solo generato da fenomeni di natura, ma anche da fenomeni di cultura19, e due sistemi di responsabilità differenti si intersecano inestricabilmente, generando catastrofi (intendiamo qui catastrofi matematico-semiotiche, sul

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modello di Thom)20, a partire dalla rottura di un equilibrio, che è sempre in qualche misura atomica. Destinalmente l’effetto farfalla sancisce un protocollo di ordinamento degli eventi per il quale il nesso causa-effetto non è da intendersi come cellula autonoma, che si esaurisce in una singola reazione a una azione, ma ingenera una catena imprevedibile e incontrollabile che ha effetti non solo su chi la ha prodotta, ma sul mondo. È uno scenario pertanto che da una dimensione personale traslittera programmaticamente in un contesto universale, implicando le responsabilità dei singoli non solo verso loro stessi, ma verso tutti. Come dicono i due Nemo narratori della scena, citando un proverbio cinese: «Un solo fiocco di neve può piegare una foglia di bambù». Ora, seppure la massima sembra saggia, questa si dimentica che certo, è quel solo fiocco di neve a piegare la foglia, ma solo perché prima molti altri fiocchi vi si erano poggiati sopra. Così tutto l’impianto retorico slitta la responsabilità del singolo in un contesto socializzato. Tradotto: sarà pure stato l’assassinio dell’arciduca Ferdinando di Sarajevo a scatenare la prima guerra mondiale, ma ciò in conseguenza di un ben sedimentato contesto precedente.

Mr. Nobody In Mr. Nobody dunque convivono pressoché tutte le dimensioni destinali del film ipotetico che abbiamo via via tratteggiato:

Mr. Nobody Mr. Nobody can on the one hand be seen as an example of plural realities21, of non-linear narrations with multilinear time dimensions22, or of so-called forking-path narratives23, like Przypadek, Sliding Doors or Lola rennt (Run Lola Run!). On the other hand it lends itself, with its inconsistencies and incoherencies, to analysis along the lines of Sabine Schlickers and Vera Toro’s concept of ‘perturbatory narrations’24.

Sul tema dell’effetto farfalla è incentrato anche The Butterfly Effect (Eric Bress e Jonathan Mackye Gruber, 2004), seguito poi dai meno noti The Butterfly Effect 2 (John R. Leonetti, 2006) e The Butterfly Effect 3: Revelations (Seth Grossman, 2009). Nel film Evan Treborn (Ashton Kutcher) scopre di poter tornare indietro in determinati momenti del passato esponendosi a tracce materiali che li “richiamino”, come diari, fotografie, filmini di famiglia e così via. Quello che semioticamente è un viaggio mentale indotto da un testo per lui è un viaggio materiale. Egli condivide questo potere con suo padre, ormai defunto. Così si ritrova in più momenti a tornare indietro per tentare di sistemare momenti che considera sbagliati della sua vita, e tuttavia facendo anche solo piccole modifiche nel futuro si ritrova in un mondo completamente cambiato.

20 Vincenzo Idone Cassone, Bruno Surace, Mattia Thibault (a cura di), I discorsi della fine, cit.

Cf. Dominik Orth, Narrative Wirklichkeiten. Eine Typologie pluraler. Realitäten in Literatur und Film, Schüren, Marburg, 2013. 22 Cf. Julia Eckel, Zeitenwende(n) des Films. Temporale Nonlinearität im zeitgenössischen, Schüren, Erzählkino, Marburg, 2012, pp. 26-42. 23 Cf. David Bordwell, Film Futures, «SubStance», XXXI, 1, 2002, pp. 88-104. 24 Dominik Orth, Splitting and Splintering of Reality in Jaco Van Dormael’s Mr. Nobody, in Sabine Schlickers, Vera Toro (eds.), Perturbatory Narration in Film, cit., p. 107.

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Più che di mondi paralleli qui si tratta della continua riprogrammazione dello stesso mondo, che può essere esperito attraverso dinamiche di riavvolgimento all’indietro, che nuovamente esplicitano la parentela stretta fra i film di loop e i film ipotetici, e che figurano una negozialità destinale per la quale il destino, in fondo, potrebbe non esistere. Lo dimostrano l’incisione di Sarah Connor (Linda Hamilton) sul tavolo di legno – “No fate” – di Enrique Salceda (Castulo Guerra) in Terminator 2: Judgment Day (Terminator 2 – Il giorno del giudizio, James Cameron, 1991, di), così come le parole di John Connor (Edward Furlong): «The whole thing goes: the future’s not set. There’s no fate but what we make for ourselves». Tale premessa è poi la stessa alla base di film come Ritorno al futuro, ed è ripresa anche in opere italiane come Torno indietro e cambio vita (Carlo Vanzina, 2015). Ciò che cambia in questo tipo di genere non è tanto l’effetto farfalla, che viene presentato in maniera spesso piuttosto superficiale. Come abbiamo detto prima, è vero che un solo fiocco di neve può piegare una foglia di bambù, tuttavia ciò vale solo se tale foglia si trova in una condizione peculiare, cioè è già colma di un numero di fiocchi di neve per cui ne serva solo uno per piegarsi, o è strutturalmente instabile perché malata, e così via. Il trattamento scanzonato o più o meno leggero dell’effetto farfalla, oltre a costituire un bacino cinematografico da cui molti hanno attinto25, è peraltro presente in chiave parodica – dato il suo successo negli anni – in serie animate come Family Guy o The Simpsons. Nell’episodio Treehouse of Horror V (siamo nel 1994, a riprova della grande capacità profetica della sitcom animata) Homer distrugge per sbaglio il tostapane di famiglia e, nel tentativo di ripararlo con una sassata, lo trasforma in una macchina del tempo che lo porterà nella preistoria. Qui egli, pur conscio che ogni minimo cambiamento possa alterare inevitabilmente il futuro, schiaccia una zanzara e, tornato indietro, si trova in un mondo distopico governato dal suo vicino di casa Ned Flanders (che egli odia), ove chi non sorride viene rieducato e lobotomizzato a forza.

The Simpsons | Treehouse of Horror V Ma, nel novero dei film ipotetici, anche il cinema più strettamente d’autore si è speso, come dimostra la coppia di film Smoking/No Smoking (1993), diretti da Alain Resnais e fondati sulla foga sperimentale e sardonica che con merito uno dei padri fondatori del nuovo cinema moderno può vantare26. I due film di fatto costituiscono l’uno il contrappunto dell’altro, fondandosi sugli stessi personaggi, nello stesso mondo (una tenuta dello Yorkshire), a partire da uno snodo esistenziale che fa nuovamente eco all’effetto farfalla. In Smoking la signora Teasdale (Sabine Azéma) sceglie di accendersi una sigaretta; in No Smoking non lo fa. Da qui si generano due mondi che, man mano che si va avanti, si ramificano ulteriormente fino al comparire della scritta «ou bien», la disgiuntiva che giustifica l’incedere del film, per tornare indietro e assistere a un’altra biforcazione. Questo doppio film sperimentale, ispirato alla commedia teatrale Intimate Exchanges di Alan Ayckbourn (1982), è così la radicalizzazione del transgenere ipotetico, a tal punto che il

25 Molti li abbiamo ormai citati e analizzati, ma molti altri ne esistono, come Le battement d’ailes du papillon (Laurent Firode, 2000), Déjà Vu (Déjà Vu – Corsa contro il tempo, Tony Scott, 2006), The Time Traveler’s Wife (Un amore all’ improvviso, Robert Schwentke, 2009), Frequently Asked Questions About Time Travel (Gareth Carrivick, 2009), O Homem do Futuro (L’uomo dal futuro, Cláudio Torres, 2011), l’anime Steins;Gate (Hiroshi Hamasaki e Takuya Satō, 2011), About Time (Questione di tempo, Richard Curtis, 2013).

Un approccio semiotico recente all’opera di Resnais in Hunter Vaughan, Where Film Meets Philosophy. Godard, Resnais, and Experiments in Cinematic Thinking, Columbia University Press, New York, 2013.

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parallelismo è condotto su due film, in un «ipertesto cinematico»27, di stessa durata e sostanzialmente speculari, l’uno inseparabile dall’altro. I personaggi sono pochi, e tutti interpretati da due soli attori, Sabine Azéma e Pierre Arditi. Il trucco e i costumi risultano visivamente posticci, a enfatizzare l’assurdità delle situazioni (tanto da essere introdotti con dei disegni). Il fermo immagine è adoperato per enfatizzare gli snodi esistenziali, il montaggio minuziosamente teso a sottolineare le biforcazioni e la regia in generale a porre nei due film gemelli le stesse inquadrature, variate solo nel merito del diverso mondo possibile in cui ci si trova. Non c’è qui il dramma, ma al contrario vige un’atmosfera da commedia brillante che inquadra il film in un regime prettamente metafilmico, dove cinema e gioco si incontrano: Smoking/No Smoking […] exceeds the complexity of both Bling Chance [nda: Przypadek] and Lola Rennt, and the raised artificiality of its aesthetics adds a new dimension to the concept of film as a game. Furthermore, Smoking/No Smoking blurs the boundaries between film and theatrical performance. […] Smoking/No Smoking is a puzzle for the viewer, but this time it does not come in form of a trauma-memory-narrative, but as a light-hearted forking-path story with ironic undertones28.

No Smoking

Espressione che mutuiamo da Clara Mancini, Cinematic Hypertext. Investigating a New Paradigm, IOS Press, Amsterdam, 2005, che tratta il film parlando di “condizionalità” al cinema («With a very hyper-textual move, the film expresses not only conditionality, but alternative as well, and it is exactly the existence of an alternative that makes it possible to interpret each story line as respectively conditioned by two different choiches», p. 86), e collegandolo proprio a Sliding Doors. 28 Sabine Claudia Schenk, Running and Clicking. Future Narratives in Film, De Gruyer, Boston-Berlin, 2013, p. 101-102.

situazioni), a livello percettivo l’una o l’altra struttura destinale determinano diverse idee di mondo. Nel sistema rewind l’accumulazione delle situazioni risponde al passaggio di una morale di fondo, positiva o negativa che sia, per la quale ogni storia si assomma a quelle precedenti che nel frattempo sono già state elaborate. Nel caso dei flash sideways il principio di parallelismo è invece condotto simultaneamente alla ricezione e così l’interpretazione non può appoggiarsi a dati precedenti, ma deve operare su più storie assieme (lo spettatore non può trarre nessuna lezione, cioè non può slittare da destinalità a idea di destino, fin quando non succede qualcosa in uno dei mondi, e comunque quando succede è subito sottoposto a cosa succede negli altri, così da dover continuamente ridiscutere le sue inferenze). In secondo luogo, come per ogni struttura e istanza destinale sinora viste, il sistema può essere presentato come un’imposizione totale, ove l’agente del destino è un imperativo morale (Ricomincio da capo), o come invece un meccanismo che lascia spiragli di libertà, come Mr. Nobody, ove la scelta di due vie non impedisce al piccolo Nemo di costruirsi la propria protasi correndo verso una terza. Ciò vale in virtù anche di un’ulteriore opposizione, già incontrata in precedenza, e cioè la destinalità ipotetica esteriore, come quella di Smoking/No Smoking, o quella interiore, infrapsichica, come in Possible Worlds. A ridosso di tutto ciò la struttura destinale può essere inoltre motivata da cause di qualche tipo, come in Threehouse of Horror V (il mondo cambia radicalmente per via dell’effetto farfalla scatenato da una macchina del tempo

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Così il film ipotetico è costruito su una struttura destinale che è in qualche modo imparentata con quella a loop, e che presenta alcuni elementi compositivi che vanno ad affiancarsi a quelli individuati nella sezione precedente. Senz’altro di rilievo è il modello di costruzione dell’apodosi a partire dalla protasi, che può seguire un andamento di tipo rewind, come in Destino cieco dove i mondi paralleli si susseguono ordinatamente, o invece essere di tipo flash sideways, come in Sliding Doors dove più mondi convivono parallelamente. Se anche diegeticamente le due soluzioni sono sovrapponibili (Witek o Helen, quale che sia la messa in forma, vivono contemporaneamente più 27

creata da Homer), o del tutto tautologico, come in Smoking | No Smoking (ci sono vari mondi, ed è così in forza della potenza del cinema di attualizzare il virtuale). Naturalmente i film si muovono proprio perché le opposizioni identificate sono poste in dialettica, in una tensione reciproca alla prevalenza sull’altro polo (in La doppia vita di Veronica il regime ipotetico è al contempo infrapsichico ed esteriore, per esempio, così come in Mr. Nobody sussistono, in tempi diversi, regimi di rewind e di flash sideways).

Conclusioni Esperienze mediali e destinalità Abbiamo così concluso, per ora almeno, il nostro viaggio nella destinalità cinematografica, e ci apprestiamo a trarne delle considerazioni di ordine generale. Le nostre analisi hanno anzitutto identificato un nuovo problema, che pareva soggiacente: verso quale direzione, e perché proprio di là, va il senso? Lo hanno fatto muovendosi fra le immagini del film, zona estremamente problematica e quindi, giocoforza, potenzialmente feconda, corpo «seducente [che] è un corpo sfuggente. Non si può né citarlo, né abbracciarlo davvero. Per giunta è polisemico, in modo eccessivo, e la sua materia, impastata di iconicità e di tendenza all’analogia, si oppone al linguaggio», fatto di una «irriducibilità che affascina, che eccita […]»1. È in queste sabbie mobili che abbiamo tracciato il metalivello della destinalità, una struttura che si rintraccia fino in sede sintattica (il livello attanziale) e che poi viene interpretativamente tradotta in idea di destino configurando al contempo un orientamento, così come una soglia di senso, intesa come regime entro il quale un ordine evenemenziale può essere coerentemente inscritto o meno. Non ci siamo affidati né strettamente a un approccio generativo, né unicamente a uno interpretativo, quanto piuttosto abbiamo agito nella convinzione della necessità di una semiotica che tenga assieme le sue correnti, esigenza già dichiarata da Eco in Kant e l’ornitorinco: Cosa voleva dire cercare, come ho fatto, di mettere insieme la prospettiva strutturalistica di Hjelmslev e la semiotica cognitivo-interpretativa di Peirce? […] Com’è possibile che le due prospettive possano coesistere? […] esse debbono coesistere, perché a volerne scegliere una sola non si rende ragione del nostro modo di conoscere e di esprimere quello che conosciamo. […] 1 Raymond Bellour, Fra le immagini. Fotografia, cinema, video, tr. it., Mondadori, Milano, 2007, p. 13.

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Conclusioni

L’instabile equilibrio di questa coesistenza non è teoricamente sincretico perché è su questo equilibrio felicemente instabile che procede la nostra conoscenza 2 .

2. Ordinamento narrativo delle risorse. 3. Sintonia relazionale, cioè sostanzialmente presa di coscienza dell’esistenza di altri soggetti esperienziali attorno al “sé”.

In questo contesto abbiamo lavorato con una metodologia di prospezione semiologica, effettuando dei carotaggi che ci hanno consentito di costruire antologie testuali selettive, individuando così una sorta di movimento a salire della destinalità, a partire dalla superficie testuale. Abbiamo così lavorato su temi e figure che si realizzano attorno ad attanzialità e attorialità specifiche, siamo poi passati dalle istanze singole alle strutture destinali; siamo saliti ulteriormente sul piano dell’astrazione – che è il piano in cui dalle cosiddette strutture profonde, quelle generative, si arriva agli apparati interpretativi – trattando le sovrastrutture, e come istanze metatestuali, e, in un movimento di torsione peculiare, come istanze che salite a tal punto da “uscire dal testo”, facendosi ideologia, vi ci rientrano. Come in una specie di rigurgito dal testo, alla cultura, e ritorno. Il tutto a partire dai film, intesi come esperienze mediali, sulla scorta della teoria di Eugeni che qui riprendiamo brevemente, provando a estenderla con il concetto di destinalità3. Eugeni infatti sostiene, a ragione, che l’esperienza mediale – quella cioè che dà accesso tramite il medium a un mondo indiretto (egli utilizza l’esempio di un concerto trasmesso in televisione) – sia a tutti gli effetti un’esperienza reale. Così vedere il film è un’esperienza, considerazione che pone la pratica nel novero di quelle studiabili da una semiotica dell’esperienza come quella postulata da Volli, di cui in introduzione. Eugeni ci dice che strutturalmente l’esperienza si compone di tre momenti:

Ciò di cui ci siamo occupati è proprio l’ordinamento narrativo delle risorse, il momento in cui quelli che Eugeni chiama “materiali sensoriali” vengono organizzati secondo dei legami, a formare delle mappe situazionali. Questo processo, che siamo portati a chiamare semiotizzazione, è il momento in cui il soggetto esperienziale in effetti è chiamato a inserire nel mondo un ordine metafisico di qualche tipo, e ciò che sosteniamo è che tale ordine sia il risultato di competenze destinali, sussunte semi-consciamente a partire dai testi che formano la cultura stessa del soggetto (e che valgono tanto per le esperienze minime della vita, come il bruciarsi con il ferro da stiro che può essere semiotizzato come atto di “sfortuna” o di “disattenzione”, così collocandosi in due orizzonti destinali completamente diversi, quanto per le esperienze più gravi). Il punto due della formazione dell’esperienza, cioè quello di formazione dell’esperienza in senso stretto, che segue la coscienza di sé e precede la coscienza degli altri, è il momento in cui il soggetto inquadra fenomenologicamente tale esperienza in un ordine di cose. La successione di queste tre tappe è di fatto mentalmente resa possibile da processi di interpretazione che assumono, dice Eugeni, anche andamento di retrodeterminazione, proposta che di nuovo avalliamo e che è ritornata a più riprese nelle nostre analisi. L’interpretazione è un’operazione ex post che il soggetto però assoggetta a logiche a priori (esiste quando l’esperienza è in atto, ma necessita per semiotizzare quest’ultima di ricondurla a ritroso a uno stato di potenza). Ci pare così che la proposta di una semio-ermeneutica (e di una semiopragmatica) della destinalità al cinema possa a tutti gli effetti integrarsi alla teoria di Eugeni, fondamentale nell’epoca del cosiddetto experiential turn. Si tratta di una proposta che noi abbiamo condotto a partire dall’ambito della cosiddetta esperienza estetica4, nello specifico della fruizione cinematografica, ma che ha ben donde d’essere estesa all’esperienza in toto. In effetti nel caso dell’esperienza estetica la destinalità si situa su un metali-

1. Rilevazione e qualificazione sensibile delle risorse disponibili, cioè l’avvertimento da parte del soggetto dei flussi di sensazioni che coesistono “intorno” a sé e “in sé”. 2 Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano, 1997, p. 217-218. A partire dall’esigenza epistemologica di tenere assieme i due approcci semiotici e dalle considerazioni di Eco si realizza il fondamentale contributo di Claudio Paolucci, Studi di semiotica interpretativa, Bompiani, Milano, 2007. 3 La teoria esperienziale di Eugeni, di cui ci serviamo a conclusione del nostro lavoro, è il risultato di una lunga e laboriosa ricerca che si estrinseca in numerose pubblicazioni, alcune delle quali verranno qui menzionate, sino alla più recente, Ruggero Eugeni, Adriano D’Aloia (a cura di), Teorie del cinema, cit., in cui il tema dell’esperienza è presentato come uno dei principali ambiti di dialogo fra film e filosofia (pp. 12-15).

Cfr. Tonino Griffero, Esperienza estetica/esperienza vissuta, in Gianni Carchia, Paolo D’Angelo (a cura di), Dizionario di estetica, Laterza, Roma-Bari, 1999; Massimo Carboni, Pietro Montani (a cura di), Lo stato dell’arte. L’esperienza estetica nell’era della tecnica, Laterza, Roma-Bari, 2008.

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vello in cui l’asse mondo diretto / mondo indiretto si fa tensivo se non cedevole. L’eterotopia su cui si regge l’esperienza mediale, e cioè la creazione di un ponte mentale fra due mondi altrimenti inallineabili (quello dello spettatore e quello del film), non consente solo il passaggio di contenuti strettamente narrativi o emotivi (il comprendere il film, il piangere o il ridere), ma agisce molto più intimamente fornendo coordinate identitarie ed esistenziali. E lo fa in un frangente che vede il testo cooperare echianamente con il lettore, quest’ultimo tuttavia essendo non sempre conscio di tutti i livelli di investimento del testo stesso. Quando Eugeni sostiene che «il discorso assume uno statuto autonomo, una consistenza oggettuale e spaziale, una certa conformazione che si sedimenta e si stabilizza in determinate rappresentazioni sociali»5, sta dicendo in qualche modo questo, e sta enfatizzando l’importanza del piano formale che concorre con quello narrativo alla formazione di determinate rappresentazioni. È in tale contesto che miriamo a inserire la destinalità, come struttura nel testo che concorre alla creazione di euristiche da parte del pubblico. E ci teniamo a ribadire che tale processo non è sempre del tutto conscio. Eugeni si cala nel contesto esperienziale di un concerto trasmesso in tv, e descrive tale esperienza: «apprezzo la dolcezza del movimento della fly-cam e noto come esso rimi con il suono dei primi accordi di chitarra […]»6. Così dà ragione della fondamentale collaborazione fra struttura significante e struttura significata, ma pure, ci pare, attribuisce al soggetto una capacità sovradimensionata, almeno su un piano di generalizzazione. Non sempre, e per fortuna, il lettore si avvede con cognizione diretta delle rime plastiche fra forma e contenuto, dell’acuirsi del montaggio nelle situazioni di tensione, del cambio di fotografia in concomitanza con un cambio di registro. Interviene piuttosto in questi casi un apparato di apprezzamenti che non necessariamente decostruiscono il “significante tutt’uno” nelle sue componenti singole, ma piuttosto assimilano queste ultime come Gestalt. Sostiene inoltre Eugeni che «le vicende che si svolgono nel mondo indiretto della fiction televisiva possono appassionarmi e coinvolgermi, ma non possiedono una relazione di continuità con il mondo di vita all’interno del quale sono inserito»7. In questo caso ci sentiamo di muovere una seconda, lieve obiezione. E non lo facciamo con verve polemica, ma anzi perché davvero

riteniamo che l’impostazione dell’autore sia a oggi una delle poche in grado da un lato di glissare sulla impasse del rapporto fra semiotica e media di cui abbiamo reso conto in introduzione, e dall’altro di farlo in un’ottica fertile che non può che produrre risultati fruttiferi. Inoltre, la nostra seconda minima obiezione è mirata a dimostrare, come la prima, come l’inserzione della destinalità nella teoria esperienziale dei media possa produrre risultati utili. Riteniamo dunque che quanto Eugeni sostiene, pacificamente accettabile in sede ontologica, possa essere ulteriormente esteso in prospettiva semiotica (considerando la fenomenologia come un punto di giunzione fra le due discipline), per meglio spiegare come mai, per esempio, esiste una relazione spesso certificata fra atteggiamenti bullisti o paramafiosi e un certo immaginario cinematograficotelevisivo che va da Il padrino alla serie televisiva Gomorra (dal noto soggetto di Roberto Saviano, 2014- in corso), o perché mai l’Isis faccia video di propaganda che attingono a codici di tipo cinematografico; o come mai esistano i cosplayer8; o ancora, per essere più larghi e più classici, come mai esista la cinefilia (a meno di non voler separare, con una cesura netta e difficile da giustificare, una vita “vera” in quanto mondo della noia e una vita “evasa” in quanto mondo dello svago). Tutte queste cose esistono proprio perché c’è una continuità fra mondo diretto e mondo indiretto, fra finzione e realtà, per recuperare una antica dicotomia che riteniamo vada ancora, e molto, esplorata. Ciò non significa che i media e i testi influenzino i recettori in senso “subliminale”, come vorrebbero i perversi che hanno sostenuto che i videogiochi violenti e Marilyn Manson siano stati i responsabili del massacro della Columbine High School9. Piuttosto significa che, sociosemioticamente, fra testi e lettori esiste un rapporto di mutua collaborazione che si espleta solo superficialmente nella fruizione diretta del contenuto, e molto più profondamente nella costruzione dell’ordine di cui si fa compito una semio-pragmatica in quanto teoria delle relazioni fra testo filmico e contesto socioculturale.

Ruggero Eugeni Semiotica dei media. Le forme dell’esperienza, Carocci, Roma, 2010, p. 50. 6 Ivi, p. 42 7 Ivi, p. 52

8 Il cosplaying, la pratica di fabbricarsi con perizia e indossare costumi riferiti a mondi finzionali a cui si è particolarmente legati (un approfondimento sul tema in Luca Vanzella, Cosplay Culture. Fenomenologia dei costume players italiani, Tunué, Latina, 2005), è in effetti dimostrazione di come i testi si propaghino nel mondo del lettore, in un rapporto bilaterale per il quale e difficile stabilire la direzione del flusso ontologico (è il testo che entra nel mondo “reale”, o il mondo “reale” che si fa testo, entrandovi?). 9 Il fatto di cronaca è avvenuto il 20 aprile 1999 ed è stato motivo di nascita di film come Elephant (Gus Van Sant, 2003) e documentari come Bowling for Columbine (Michael Moore, 2002), dove vengono esposte le congetture sul condizionamento da parte dei media che abbiamo rapidamente menzionato.

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Se il compito del semiotico dei media, come sostiene Eugeni in un testo che è di oltre dieci anni antecedente a quello da cui siamo partiti, è giustamente «contribuire a una teoria delle relazioni tra le forme semiotiche del testo filmico e i contesti socio culturali mediante la costruzione di un modello di tali relazioni e un certo numero di prelievi e analisi» (1999, 6), che è quello che abbiamo tentato di fare in questo libro, una teoria della destinalità va a completare la missione mutuando i contesti socioculturali in contesti esistenzial-identitari. Si tratta cioè di lavorare sociosemioticamente nella relazione fra testo e contesto di ricezione: La specificità del procedimento semiotico a riguardo [dei fattori psicologici, istituzionali, ecc. del contesto] non consiste, evidentemente, nell’ignorare questo tipo di determinazioni, ma al contrario nel cercare di definire un principio di pertinenza che permetta di integrarle nel quadro di una teoria di insieme, anziché trattarli come altrettante variabili ad hoc e come sovradeterminazioni esterne. La questione è dunque quella della ‘semiotizzazione’ del contesto, o meglio dell’elaborazione di una semiotica delle situazioni10.

Ecco dunque che abbiamo coniato e provato a condurre una cinesemiotica come «métissage con altre discipline»11, elaborando una teoria di campo – come ci ha insegnato lucidamente Eco12, la semiotica è un campo – votata al lavoro per problemi, domande e prelievi specifici, tenendo «costantemente vivo il problema delle relazioni tra forme testuali e contesti socioculturali, letti nelle articolazioni delle loro ideologie, mentalità, quadri rappresentazionali e narrativi»13. Il tentativo che abbiamo portato avanti è stato votato a tre ordini di obiettivi:

L’armonizzazione di questi due livelli che concorrono a generare il testo-film è necessaria per comprendere la destinalità e il suo farsi idea di destino. 2. Definire la destinalità come livello metatestuale, attraverso categorie oppositive ricavate a partire da percorsi di analisi comparata. 3. Ipotizzare in sede ermeneutica letture ideologiche nel passaggio da destinalità, a idea di destino, a idea di mondo. È proprio per questo che abbiamo proposto una metodologia in cui gli strumenti semiotici si confrontano con un orizzonte estetico e “filmosofico”. Questo paradigma ci sembra l’unico possibile per evitare da un lato di fare la “vecchia” semiotica del cinema, della cui foga decostruzionista (che derridianamente fa perdere di vista la natura ineluttabilmente plurale del testo) abbiamo già parlato in introduzione, e dall’altro di fare la critica cinematografica tipica di certi cultural studies, ove la soggettività dell’interprete la fa da padrona senza che intervenga alcun meccanismo di controllo metodologico nella produzione teoretica (che così è pensabile perlopiù come una forma di letteratura). La somma ideale delle categorie man mano individuate restituisce il metalivello della destinalità del film, che è un po’ dappertutto se è vero che «il cinema è una parata di fantasmi, che non sanno ancora di essere destinati a diventarlo»14, e consente di ricavare l’idea di destino che gli soggiace, e che lo spettatore rintraccia facendola – anche qualora la rifiutasse – sua. Essa è il frutto di un’esperienza mediale (l’aver visto il film, l’aver visto i film) che potrà o meno adoperare per semiotizzare, avendo con essa più o meno consciamente formato la sua ideologia del destino, le sue esperienze del mondo.

1. Proporre una metodologia di segmentazione multiprospettica della storia del cinema, da un lato tematica (film che parla di una qualche cosa) e dall’altro formale (film che parla di una qualche cosa in un qualche modo), che si è espressa nelle varie sezioni. La loro sequenzialità va dunque intesa come proposta di una storia del cinema che sia al contempo storia dei temi e storie delle forme. Eric Landowski. La società riflessa. Saggi di sociosemiotica, tr. it. Meltemi, Roma, 1999, pp. 9-10. 11 Ruggero Eugeni, Film, sapere, società. Per un’analisi sociosemiotica del testo cinematografico, Vita&Pensiero, Milano, 1999, p. 5. 12 Cfr. Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 1975. 13 Ruggero Eugeni, Film, sapere, società, cit., p. 5.

Ma l’esperienza insegna che le verità affiorano soltanto alla pacata e severa ricerca che arresta la coscienza in un inaspettato atteggiamento e lo vede, come un film che si fermi di colpo, stupefatta ma non commossa. Dunque basta. Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 29 Ottobre 1938

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Riprendiamo con questa citazione l’incipit del volume di Alessandro Cappabianca, La parata dei fantasmi. Proposte per una filosofia post-cinema, Accademia University Press, Torino, 2019, p. vii, che in effetti propone una “filosofia post-cinema”, e che ci pare calzante in conclusione del nostro percorso.

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Indice dei nomi e dei film citati 11 minut 218 11 Minutes Ago 353 12:01 334, 335, 411 12 Monkeys 326 24 Hour Party People 147, 148, 149, 171 50 volte il primo bacio 352, 355, 359 71 frammenti di una cronologia del caso 218 100 volte Natale 348 1408 341 1860 183, 184, 185, 189, 190, 191, 194, 195, 197, 198, 199, 200, 406 Abatantuono, Diego 336 Abdolah, Kader 55 Abrams, J.J. 136 A Bug’s Life – Megaminimondo 226 Acid House, The 166 Adams, Guy 140, 401 Adamson, Andrew 226 Adieu au langage 155 Affleck, Ben 166 Aguilera, Pedro 201 Ah-sung, Go 207 Alaoui, Morjana 107 Alba dei morti dementi, L’ 162 Albanese, Antonio 351 Alber, Jan 335, 411 Al di là dei sogni 69 Aleksandrowicz, Pawel 71 Alemany-Galway, Mary 286, 422 Alien Nation 225

Allegiant 202 Allen, Woody 91, 92, 94, 99, 227, 260, 265, 274, 295, 298, 299, 303, 304, 305, 307, 309, 314, 318, 403, 404, 406 Alonge, Giaime 279, 401 Alovisio, Silvio 26, 59, 109, 155, 213, 302, 356, 401, 414, 418 Altman, Robert 265 Alvarez, Fede 258 Amell, Robbie 334 Amen·bar, Alejandro 78 American Pie 331, 351 American Sniper 230 Ames, Christopher 95, 401 Amiel, Vincent 369 Amore all’ improvviso, Un 388 Amore e guerra 91, 99, 151, 295, 304, 305 Amoretti, Maria Cristina 344, 420 Amoroso, Prisca 315, 401 Anarchia – La notte del giudizio 216 Anche i nani hanno cominciato da piccoli 165 Ancora auguri per la tua morte 345 Anderson, Eddie “Rochester” 112 Anderson, Paul Thomas 68, 280 Anderson, Wes 280 And then Came Lola 377 Angelini, Alberto 302, 401 Animal House 331, 350 Apocalypse Now 229 Appio Claudio Cieco 8

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Indice delle opere e dei nomi citati

Indice delle opere e dei nomi citati

Arancia meccanica 213, 214, 215, 223 Arditi, Pierre 390 Argan, Giulio Carlo 10, 208, 401 Aristarco, Guido 15 Aristotele 14 Armonie di Werckmeister, Le 156 Aronofsky, Darren 115, 117, 118, 341 Arp, Robert 206 Arq 334 Arquette, Patricia 360, 361 Artaud, Antonin 20 A Serious Man 11 Ashby, Hal 265 Asher, Jane 73 Aspesi, Natalia 133 Astic, Guy 360, 402 Attal, Yvan 154 Augé, Marc 371, 402 Auguri per la tua morte 344, 345, 346, 349, 350, 354, 363 Aumont, Jacques 31, 34, 155, 402 Avati, Pupi 246 Avery, Devon 365 Avvenne domani 323 Avventure del barone di Munchausen, Le 91 Avventure di Rocky & Bullwinkle, Le 97 Ayckbourn, Alan 389 Azéma, Sabine 389, 390 Bacone, Francesco 224 Bailey, George 119, 120, 121, 122, 124 Baker, Graham 225 Balagueró, Jaume 80 Baldini, A. Enzo 224, 402 Baldini, Artemio Enzo 224

Ball, Wes 202 Balsamo, Maurizio 17 Bandirali, Luca 321, 402 Banditi del tempo, I 139, 140, 141, 143, 144 Baranowski, Henryk 134 Barbarash, Ernie 343 Barker, Adam 111, 410 Barkin, Ellen 150 Barrymore, Drew 352 Barrymore, Lionel 84 Bartel, Paul 217 Barthes, Roland 34, 61, 188, 402 Barth, John 286 Baruchel, Jay 365 Bassano, Giuditta 41 Bassett, Michael J. 78 Basso, Pierluigi 47, 48 Basta che funzioni 305, 306, 318 Basu, Balaka 202, 402 Bates, Kathy 271 Battement d’ailes du papillon, Le 388 Battistoni, Elisa 238 Battle Royale 217 Baudrillard, Jean 138 Bayley, Laura 261 Bazin, André 8, 15, 61 Beard, William 310, 402 Beatty, Warren 152 Beaumont, Charles 71 Beccaro, Bruno 108, 402 Beckinsale, Kate 162 Beers, Dan 351 Beethoven, Ludwig van 214, 216 Bégin, Catherine 107 Bellour, Raymond 393, 402

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Ben-Ghiat, Ruth 184, 402 Benjamin, Walter 13, 14, 15, 16, 17 Ben Maimon, Moshe 126 Benny’s Video 218, 314 Ben-Shaul, Nitzan 336, 402 Bentornato Dio! 171, 172 Benveniste, Émile 250 Bergman, Ingmar 41, 56, 58, 60, 62, 63, 94, 97, 126, 127, 132, 307, 406, 409, 414, 415 Bersagli 266 Berta, Luca 286, 402 Bertetti, Paolo 356, 401 Bertetto, Paolo 7, 8, 9, 10, 19, 30, 31, 56, 188, 402, 403 Bertini, Fabio 183, 199 Bertino, Bryan 341 Bertone, Giorgio 270, 403 Berton, Mireille 299, 403 Bertrand, Denis 9, 17, 149, 368, 403 Bessai, Carl 335 Besson, Luc 151 Bettetini, Gianfranco 272, 403 Biancaneve e i sette nani 250, 251, 317 Bianciulli, David 270, 411 Biggio, Federico 336 Big Swallow, The 300 Bing, Wang 78 Birdman 248 Bitsch, Charles 8 Bittanti, Matteo 336, 403 Black Christmas 346 Black Mirror 134, 336, 349 Black Mirror: Bandersnatch 336 Blade Runner 265, 356, 401 Blasetti, Alessandro 182, 183, 184, 185,

187, 188, 189, 190, 191, 192, 193, 194, 195, 196, 197, 200, 406, 410 Bleibtreu, Moritz 376 Blomkamp, Neill 225 Blood Punch 366 Bloom, Harold 11 Blüher, Dominique 286, 403 Blunt, Emily 335 Bocchi, Pier Maria 140, 403 Bodganovich, Peter 266 Bogart, Paul 171 Bohórquez, Luis Fernando 330 Boito, Arrigo 56 Bolter, Jay David 314, 403 Bondanella, Peter 109, 417 Bonfa, Luis 85 Bong, Joon-ho 206 Boon, Dany 154 Boorman, John 265 Bordwell, David 56, 387 Borges, Jorge Luis 291, 367, 403 Borgnetto, Luigi Romano 300 Borin, Fabrizio 60, 92, 403 Botz-Bornstein, Thorsten 31 Bourget, Jean-Loup 109, 403 Bousman, Darren Lynn 320 Bouteille, Romain 340 Boyle, Danny 365 Braccio violento della legge, Il 265 Bradford, Roark 112 Brancaleone alle crociate 86, 87, 88, 89, 152 Brazil 209, 210, 211, 212, 213, 214, 223 Bredekamp, Horst 313, 403 Bremond, Claude 368, 403 Brereton, Pat 336, 403

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Indice delle opere e dei nomi citati

Indice delle opere e dei nomi citati

Bress, Eric 387 Brest, Martin 96 Briguglio, Fabio 236, 407 Broad, Katherine R. 202, 402 Broch, Hermann 126, 404 Brody, Adrien 79, 355 Bronfen, Elisabeth 263 Brooker, Charlie 134 Brooks, Albert 151 Brooks, James L. 350 Brook, Vincent 304, 404 Brössel, Stephan 382, 404 Broussard, Israel 346 Brovelli, Luca 47 Browning, Mark 310, 404 Browning, Tod 165 Brown, Jeffrey A. 362, 404 Brown, Michelle 203, 404 Brössel, Stephan 382 Bruce Almighty 159, 162, 169 Brunetta, Gian Piero 73, 109, 185, 186, 193, 404 Buckland, Warren 380, 404 Bucquet, Harold S. 84 Bug’s Life, A 226, 227, 228 Buñuel, Luis 57, 84, 138 Buon giorno 236 Burger, Neil 151, 202 Burgess, Anthony 213 Burns, George 171, 172, 297 Burton, Tim 97 Busey, Jake 79 Butterfly Effect 2, The 387 Butterfly Effect 3: Revelations, The 387 Byrkit, James Ward 343

Caan, James 271 Cabiddu, Francesca 120, 404 Cacciatore, Il 229, 230 Cage, Nicolas 282, 285, 335, 350 Cagli, Vito 72 Cagnoni, Emilio 241, 404 Čajkovskij, Pëtr Il’ič 205 Calvino, Italo 75 Cameraman, The 300 Camerini, Mario 182 Cameron, James 388 Campanelli, Vito 248, 404 Campbell, R. Wright 71 Camp Slaughter 338 Camus, Marcel 84, 85 Cane di paglia 265 Canevacci, Massimo 311, 405 Cannistraro, Philip V. 182, 405 Canosa, Michele 193, 419 Canova, Gianni 310 Cantone, Damiano 34, 35, 36, 38, 315, 405 Cappabianca, Alessandro 339, 399, 405 Cappotto, Il 246 Capra, Frank 118, 125, 128, 142, 157, 159 Caputo, Davide 202, 339, 405, 409 Carboni, Massimo 395, 405 Carchia, Gianni 395, 410 Carell, Steve 160 Carlin, George 166 Carlos, Wendy 85, 115, 255 Carluccio, Giulia 8, 27, 92, 279, 401, 405 Carocci, Enrico 33, 80, 360 Carosso, Marco 257, 405 Carpenter, John 17, 80, 265, 271, 273, 274, 276, 278, 279, 297, 344, 415

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Carretto fantasma, Il 59, 70, 79 Carrey, Jim 159, 160 Carrivick, Gareth 388 Carruth, Shane 366 Casadio, Gianfranco 181, 405 Casa, La 258, 339 Casetti, Francesco 31, 34, 94, 247, 257, 314, 345, 353, 405, 412 Casiraghi, Ugo 112, 405 Casoli, Giovanni 237, 405 Cassavetes, John 265 Castellina, Paolo 104, 405 Cates, Gilbert 171 Cavallo, Pietro 194, 405 Čechov, Anton 82, 83, 136, 246 Chabrol, Claude 154 Chaplin, Charlie 68, 229, 231, 238, 260, 413 Chapman, Graham 144 Chemama, Roland 290, 406 Cherchi Usai, Paolo 109, 406 Chiappori, Alessandra 75 Chi ha incastrato Roger Rabbit 97, 279 Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino 365 Christmas Carol 118 Cigarette Burns – Incubo mortale 297 Cimino, Michael 229, 265 Citizen Toxie: The Toxic Avenger IV 163, 165 Città dei mostri, La 71 Clair, René 323 Clark, Bob 265, 346 Clarke, Mae 321 Classe operaia va in Paradiso, La 238 Clements, Ron 66

Climati, Carlo 82 Climax 331 Cline, Ernest 140 Cocteau, Jean 85 Coen, Ethan 11 Coen, Joel 11 Cohen, Mitch 163 Coherence – Oltre lo spazio tempo 343 Colazione da Tiffany 149 Cole, Christina 326, 327, 349 Colli, Giorgio 16 Collins, Suzanne 69, 201 Colombi, Matteo 33 Colombo, Arrigo 406 Columbus, Chris 348 Come fu che l’ ingordigia rovinò il Natale a Cretinetti 109, 110, 137, 260 Compagni, I 57, 145, 147, 238 Conan Doyle, Arthur 271 Conard, Mark T. 298, 406 Connelly, Marc 112, 350 Cooper, Bradley 230 Cooper, Chris 289 Coppola, Francis Ford 109, 229, 265, 307, 345, 397, 403, 412 Coraline 97 Corbet, Brady 259 Corman, Roger 68, 71, 73, 74, 94, 265, 401 Corradi, Valerio 211, 413 Corvi, Roberta 381 Cosa, La 80, 271 Cosell, Howard 308 Cosmopolis 315 Costa, Antonio 60, 67, 250, 265, 406 Costa-Gavras (pseud. di Kōnstantinos Gavras) 265

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Indice delle opere e dei nomi citati

Indice delle opere e dei nomi citati

Courtés, Joseph 40, 250, 254, 257 Cox, Brian 289 Craven, Wes 274, 313, 344, 345 Cremonini, Giorgio 255, 406 Crepuscolo di Tokyo 236 Cretinetti (pseud. di André Deed) 109 Crichlow, Lenora 349 Crocco Galèas, Grazia 368 Cronenberg, David 68, 80, 163, 265, 277, 310, 312, 314, 315, 316, 336, 402, 404, 405, 410, 412, 417, 420, 422 Crook, Jeff 338 Crook, Josh 338 Crowe, Russell 116 Cruise, Tom 335 Cruze, James 231 Cube 343 Cube 2: Hypercube 343 Cube Zero 343 Cucco, Marco 179 Culkin, Macaulay 279, 348 Cumberbatch, Benedict 362 Curtis, Richard 388 Cusack, John 280, 285, 341 Cutrara, Daniel S. 167, 406 Cutrona, Alessandro 286, 406 Cyran, Catherine 348 Dagover, Lil 63 Dahlke, Ruediger 72 Dalí, Salvador 343 D’Aloia, Adriano 35, 316, 394, 406, 408 Damon, Matt 166 Dancer in the Dark 130 D’Angelo, Paolo 395, 410 Daniels, Jeff 295

Dante, Joe 97 Darca, Jacopo 9 Darke, Chris 324, 406 Darnell, Eric 226 Dashner, James 202 Daubariené, Audroné 35 Dawn, Marpessa 85 Day, A 329, 355 Death Race 2000 217 De Bernardi, Alberto 183, 406 De Broca, Philippe 154 Decalogo 133, 134, 136 Decalogo 1 134, 137 Decalogo 2 134 Decalogo 3 134 De Chauveron, Philippe 154 Decker, Kevin 144, 407 De Donato, Gigliola 66 Deed, André 109 De Filippo, Alessandro 190, 196, 200, 406 De Gaetano, Roberto 319, 407 Déjà Vu – Corsa contro il tempo 388 De Lawd 112 Deleuze, Gilles 8, 34, 36, 49 DeLillo, Don 315 Dellamorte Dellamore 78 Dell’Aquila, Prospero 166, 407 Delluc, Louis 34 Del Ministro, Maurizio 187, 407 DeMille, Cecil B. 112, 134 Demme, Jonathan 49 DeMonaco, James 216 De Moraes, Vinicius 84 Demy, Jacques 154 Denby, David 208, 407

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Dendle, Peter 202, 407 Deneuve, Catherine 176 De Niro, Robert 229 Denizot, Vincenzo 300 Denver, John 172 De Palma, Brian 265 Depardieu, Gérard 154 Derrickson, Scott 362 Derrida, Jacques 34 De Sica, Vittorio 246 Destino 41 Destino cieco 369, 3 375, 379, 390 Dethlefsen, Thorwald 72 Deus é Brasileiro 115 Dhomme, Sylvain 154 Diaz, Cameron 281, 285 Di Chio, Federico 31, 94, 247, 405 Dickens, Charles 118 Dick, Philip K. 360, 361, 374 Diderot, Denis 287 Didier, Julia 253, 407 Dieci comandamenti, I 134 Diegues, Carlos 115 Di Marino, Bruno 236, 270 Dimmi addio 348 Diodato, Luciana 315, 407 Dio esiste e vive a Bruxelles 172 Disney, Walt 26 District 9 225 Dittatore dello stato libero di Bananas, Il 307, 308 Divergent 202 Doctor Strange 362 Dogma 130, 166, 168 Dogville 131 Domarchi, Jean 8

Donna di Tokyo, Una 231 Donner, Richard 140 Donnie Darko 333 Doppia vita di Veronica, La 378, 379, 392 Dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, Il 68 Douy, Max 154 Downham, Mark 310, 407 Dreyer, Carl Theodor 19, 20, 67, 105, 107, 108, 109, 114, 133, 418 Dreyfuss, Richard 252 Dürrschmidt, Sebastian 282 Duerre Humann, Heather 332, 407 Dufer, Matt 140 Dufer, Ross 140 Dumont, Bruno 105 Dunsany, Lord 323 Dusi, Nicola 45, 46, 47, 248, 376, 402, 407, 414, 421 Duvall, Shelley 255 Dyer, Ben 206, 401 Eastwood, Clint 26, 230 Eberl, Jason 144, 407 Eckel, Julia 387, 407 Eckhard, Petra 273, 409 Eco, Umberto 31, 34, 74, 83, 248, 321, 357, 393, 394, 398 Edel, Uli 365 Edge of Tomorrow 335, 355 Edwards, Blake 149, 152 È già ieri 351, 352 Eiffel, Kay 267 Ejrick, Wilhelm von 187 Ėjzenštejn, Sergej Michajlovič 34, 187

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Ekeland, Ivar 385, 408 Ekerot, Bengt 56, 63 E la nave va 266 Elejalde, Karra 343 Elephant 397 Elking, Rachel 255 Elliott, Tony 334 Ellis, David R. 81 Elsaesser, Thomas 111, 410 Emmer, Michele 385, 408 Enter Nowhere 338 Epstein, Jean 34, 107, 408 Erasmo da Rotterdam 224 Ermey, R. Lee 80 Erodoto 18 Errore di Mary Jane, L’ 261, 262 Eschilo 92 ESP – Fenomeni paranormali 342, 366 Esposito, Stefania 33 Essere John Malkovich 280, 281, 283, 284, 285, 286, 287, 379 Eugeni, Ruggero 27, 35, 250, 316, 394, 395, 396, 397, 398, 408 Eusebio, Massimo Giuseppe 36, 260 Evans, Chris 208 Evil Dead, The 258, 337 eXistenZ 314, 336 Eyck, Pieter Nicolaas van 55 Fabbrichesi Leo, Rossella 47 Fabbri, Paolo 65, 254, 268, 408, 410 Fabiani, Francesco 200, 408 Fabre, Marcel 109 Fagundes, Antônio 115 Falconetti, Renée 20 Falkenstein, Jun 347

Family Guy 97, 169, 388 Fantozzi 26, 230, 238, 239, 240, 241, 242, 243, 244, 245, 246, 285, 404, 414 Farrow, Mia 295 Fassone, Riccardo 336, 337, 408 Favorita, La 117 Favreau, Jon 337 Fawkes, Guy 203, 205, 206 Feifer, Michael 81 Fellini, Federico 266, 308 Ferch, Heino 376 Ferrai, Lucia 202, 408 Ferraris, Maurizio 381, 408 Ferraro, Guido 75, 324, 326, 406, 408 Ferrell, Will 169, 171, 266 Ferri, Gabriele 336, 423 Ferri, Patrizia 236, 407 Ferro, Marc 193, 409 Festi, Giacomo 47 Fetching Cody 365 Févry, Sébastien 286, 409 Fickett, Travis 326 Fiennes, Sophie 38 Final Destination 81, 83, 86, 329 Fincher, David 320, 341 Finestra sul cortile, La 96 Fino all’ultimo respiro 89, 263 Fiorentino, Linda 166 Firode, Laurent 388 Fleishaker, Joe 163 Fleming, Victor 143 Flores Silva, Beatriz 154 Fogliato, Fabrizio 260, 409 Folla, La 300 Fontana della vergine, La 126, 129 Fontanille, Jacques 250, 315, 409

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Fontenelle, Bernard le Bovier de 92 Fonteyne, Frédéric 154 Forlani, Claire 98 Forman, Miloš 265 Forster, Marc 266 Fosse, Bob 265 Foucault, Michel 75, 409 Fox, Michael J. 79, 328 Frankenheimer, John 323 Fraser, Brendan 97 Freaks 165 Freeman, Morgan 115, 159, 160, 161, 171 Freud, Sigmund 9 Friedkin, William 265 Frini, Roberto 239, 409 Frisch, Arno 259 Frusta, Arrigo 58, 59, 63, 64, 65, 68, 69, 110 Fuchs, Michael 273, 409 Fukasaku, Kinji 217 Fuller, Bryan 137 Full Metal Jacket 80, 228, 229 Funny Games 258, 259, 260, 261, 273, 276, 277, 317, 341 Furlong, Edward 388 Fusini, Nadia 11 Gabinetto del dottor Caligari, Il 314 Gado, Frank 60 Gagliani Caputo, Marcello 202 Gagliano, Maurizio 375, 409 Gaiman, Neil 137 Gainsbourg, Charlotte 131 Ganatra, Nisha 348 Garibaldi, Giuseppe 51, 180, 183, 184, 189-199

Garland, Caroline 353, 409 Garofalo, Piero 193, 417 Gary, Linda 89, 150, 201, 411 Gassman, Vittorio 86 Gatiss, Mark 271 Gavras, Costa 265 Göbel, Walter 310 Gebert, Bob 353 Genette, Gérard 29 Gennari, Mario 372, 409 George, Melissa 343 Getty, Balthazar 360 Giacalone Ramat, Anna 368, 409 Giacci, Vittorio 34, 257, 409 Gianikian, Yervant 184 Giannini, Giancarlo 246 Giannitrapani, Alice 75 Gibson, Mel 334 Giering, Frank 259 Gillett, Burt 347 Gilliam, Terry 91, 140, 144, 157, 207, 209, 210, 323, 326, 365 Giovannini, Fabio 337, 409 Giraldi, Massimo 145, 409 Giraud, Giancarlo 195, 410 Giù al nord 154 Giustiziere della notte, Il 217 Glover, Danny 227 Göbel, Walter 310, 412 Godard, Jean-Luc 8, 9, 12, 20, 34, 89, 154, 155, 156, 260, 263, 389 Goddard, Drew 337, 338, 339 Goebbels, Joseph 180 Goetzke, Bernhard 63 Gogol’, Nikolaj 246 Goldberg, Jonah 350, 410

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Indice delle opere e dei nomi citati

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Goldberg, Whoopi 97, 158, 164, 169, 171 Golding, Sir William 217 Goliot-Lété, Anne 31 Gomorra 397 Gondry, Michel 147, 151, 281, 342, 366 Good Place, The 153 Goonies, I 140 Gordon, Zachary 330, 348 Goretta, Claude 85 Gori, Gianfranco 197, 410 Goździk, Monika 371 Graham, Lauren 144, 161, 225 Grande dittatore, Il 68 Grande e potente Oz, Il 143 Grande rapina al treno, La 261 Grant, Michael 310, 410 Graves, Stephanie 339, 410 Gray, Richard 337 Greenaway, Peter 286 Green, Michael 112, 115, 137, 418 Gregoretti, Ugo 238 Greimas, Algirdas Julien 30, 38, 39, 40, 41, 42, 250, 254, 257, 341 Greist, Kim 212 Greutert, Kevin 320 Grido dell’aquila, Il 183, 185, 186, 187, 189, 191, 192, 193, 194, 195, 196, 198, 199, 419 Griffero, Tonino 395, 410 Grim Reaper 59, 70, 81 Grinberg, Marat 304 Grossman, Seth 387 Groyne, Pili 172 Gruber, J. Mackye 387 Gruesome 338 Grusin, Richard 314, 403

Guardamagna, Daniela 225, 410 Guardiani del destino, I 136 Guarracino, Scipione 183, 406 Guerra, Castulo 388 Guerra, Michele 185 Guillame, Ferdinand 109 Gunning, Tom 111, 410 Gyllenhaal, Jake 266, 332, 333 Gyllenhaal, Maggie 266, 332, 333 Haahr, Mads 336, 412 Hackl, David 320 Hagmann, Stuart 265 Hall, Alexander 60, 152, 305, 419 Halloween – La notte delle streghe 344 Halperin, Victor 77 Hamann, Johann Georg 92, 410 Hamasaki, Hiroshi 388 Hamdy, Noha 310, 412 Hamer, Robert 68 Hamilton, Linda 323, 388 Hand, David 250 Handling, Piers 310, 410 Handmaid’s Tale, The 202 Hanebeck, Julian 283, 410 Haneke, Michael 218, 258, 259, 260, 262, 360, 409, 414 Hannah e le sue sorelle 305 Hanson, Peter 331, 411 Haöek, Jaroslav 227 Hardcastle, Gary L. 89 Hardwicke, Cedric 84 Hardy, Oliver 260 Harlin, Renny 366 Harper, Jessica 93 Harris, Ed 207

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Harrison, Rebecca 370, 411 Harry a pezzi 307 Harry, Deborah 311 Harry Potter e i doni della morte – Parte 1 81, 82 Harry Potter e il calice di fuoco 81 Harty, Kevin J. 145, 411 Hašek, Jaroslav 227, 411 Hatot, Georges 105 Haunter 338 Hawke, Ethan 327 Hayek, Salma 167 Hayward, Louis 348 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 253 Heidegger, Martin 9 Heinlein, Robert A. 225, 327 Heinze, Rudiger 335, 411 Heller, Jack 338 Hellman, Monte 265 Hellzapoppin’ 140, 262, 263 Helmond, Katherine 209 Henry, Buck 152 Hercules 66, 67 Hermann, Martin 126, 335, 404, 411 Herz, Adam 351 Herzog, Werner 165, 376 Hesselberth, Pepita 385, 411 Hewitt, Jennifer Love 95 Hewitt, Peter 329 Hill, George Roy 265 Hill, Walter 265 Hills, Matt 362 Hinton, Peter 380 Hintz, Carrie 202, 402 Hitchcock, Alfred 67, 96, 165, 255, 260, 315, 406, 412

Hitler, Adolf 180, 181, 374 Hjelmslev, Louis Trolle 188, 393 Hobbes, Thomas 224 Hoffman, Dustin 266, 283 Hölbling, Walter W. 273, 409 Holmund, Chris 163, 411 Hopkins, Anthony 98 Horton, Andrew 303, 411 Howard, Douglas L. 270, 411 Howard e il destino del mondo 140 Howells, William Dean 347 Howitt, Peter 369, 373, 375, 418 Hudson, Kate 158 Hudson, Rock 323 Hughes, Patrick 96 Human Centipede, The 213 Human Nature 151, 281, 342 Humberstone, H. Bruce 231 Hunger Games 201, 202, 217, 224 Hunt, Helen 350 Hunt, Maurice 278 Hunt, Pixote 278 Hurt, John 207 Hutcherson, Josh 224 Huyck, Willard 140 Hven, Steffen 385, 411 Idioti 130 Idone Cassone, Vincenzo 28, 65, 178, 201, 264, 279, 386, 411, 419 If Only 329 I Inside, The 356, 359 Iliadis, Dennis 331 Impiegati 246 Impiegato, L’ 246 Impresa da Dio, Un’ 159, 160

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Indice delle opere e dei nomi citati

Indice delle opere e dei nomi citati

Iñárritu, Alejandro Gonzales 100 Infinite Man, The 366 Ingram, Rex 112 Inland Empire – L’ impero della mente 297 Innocenti, Veronica 270, 411 Inquilino del terzo piano, L’ 339,-342, 349, 361 Inseparabili 68 Insurgent, Neil 202 Interceptor 139 Interstellar 343 Io e Annie 305, 308, 309, 318 Ionesco, Eugène 154 Io vengo ogni giorno 351 Irwin, William 144 Isaksson, Ulla 127 Jacket, The 79, 355 Jackson, Neil 96 Jackson, Peter 78, 79, 80 Jackson, Samuel L. 341 Jackson, Shirley 217 Jacob, Livio 109, 378, 406 Jameson, Fredric 255, 412 Jandelli, Cristina 92, 412 Jeanne d’Arc 105 Jensen, Walter 63 Jenson, Vicky 226 Jest of Hahalaba, The 323 Jesus Christ Superstar 138, 139 Jetée, La 324, 325, 326, 406, 408, 413 Jewison, Norman 138 Jobim, Antonio Carlos 85 Johnny Mnemonic 336 Johnson, Rian 330 Johnson, Tim 226

Johnston, Joe 279, 337 Jones, Duncan 332, 366 Jones, Terry 89, 144, 161 Jonze, Spike 68, 280, 285, 288, 379 Joon-ho, Bong 206 Joo, Woojeong 231 Jowett, Lorna 339, 410 Jullier, Laurent 138, 412 Jumanji 337 Junger, Gil 329, 376 Kalamera, Michele 360 Kallen, Horace M. 15 Karli, Pierre 213, 412 Kassel, Nicole 157 Kaufman, Charlie 280, 281, 282, 283, 285, 286, 288, 289, 290, 291, 294, 295, 318 Kaufman, Donald 411 Kaufman, Lloyd 163 Kawin, Bruce 345, 412 Keaton, Buster 229, 260, 290, 299, 300, 301, 302, 303, Keaton, Diane 91, 308, Keener, Catherine 282 Keighley, William 112 Keller, James 205, 412 Keller, Wolfram R. 310, 412 Kelly, Richard 333, 339, 415 Kerenskij, Aleksandr Fëdorovi 187 Khotinenko, Vladimir 366 Kielowski, Krzysztof 133, 134, 136, 368, 373, 375, 378, 401, 418 Kilar, Wojciech 370 Kimber, Shaun 96, 411 King of Kings, The 112

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King, Perry 149 King, Simon 228 King, Stephen 81, 251, 255, 271, 272, 300, 341, 412 Klata, Wojciech 134 Knopf, Robert 298, 412 Koenitz, Hartmut 336, 412 Korine, Harmony 331 Kracauer, Siegfried 15 Krasznahorkai, László 156 Krueger, Diane 274, 384 Kruger, Otto 321 Kubrick, Stanley 68, 80, 213, 214, 255, 257, 341, 405 Kurtzman, Alex 136 Laam, Wai 377 La Bella, Agostino 238 Ladri di biciclette 246 Ladro di orchidee, Il 68, 280, 282, 285, 287, 289, 291 Lagerlöf, Selma 70 Lagny, Michèle 56 Lambert, Christopher 336 La Mendola, Velania 209, 412 Lampi sull’acqua – Nick’s Movie 78 Lancia, Enrico 145, 409 Landis, John 265, 331 Landon, Christopher 344, 345 Landowski, Eric 43, 178, 398 Landy, Marcia 191, 192, 412 Lang, Fritz 41, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 73, 74, 75, 98, 115, 202, 211, 414, 417 Lanthimos, Yorgos 117, 225 Laplanche, Jean 9 La Polla, Franco 144, 412

LaRocca, David 280, 291, 413, 418 Lasagna, Roberto 238, 413 Lasi, Giovanni 194, 413 Lasser, Louise 308 Lasseter, John 226 Last Action Hero – L’ultimo grande eroe 95 Lattuada, Alberto 246 Laugier, Pascal 107, 115, 420 Laurel, Stan 260 Lawrence, Francis 84, 201, 224 Lawrence, Jennifer 84, 201, 224 Le Bihan, Loig 8 Le Blanc, Michelle 274, 276, 278, 415 Leconte, Bernard 324, 413 Lee, Jason 80, 167, 321 Leick, Gwendolyn 172, 413 Leisen, Mitchell 97 Le Maitre, Barbara 15 Le Moine, Yvan 154 Leone, Massimo 27, 69, 77, 180, 202, 254 Leonetti, John R. 387 Leopardi, Giacomo 202, 254 Lepage, Robert 27, 154 Leto, Jared 382 Levi, Carlo 66 Levitan, Steven 377 Liman, Doug 335 Limitless 151 Linda, Bogusław 150, 166, 369, 388 Lindblom, Gunnel 127 Lind, Sarah 365 Lino, Mirko 201, 413 Lionello, Oreste 227 Livre d’ image, Le 155 Lloyd, Christopher 279, 377 Lloyd, Danny 255

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Indice delle opere e dei nomi citati

Indice delle opere e dei nomi citati

Lloyd, David 303Lloyd Webber, Andrew 138 Lob, Jacques 206 Lobster, The 225, 226 Lo Cascio, Luigi 280 Lo Feudo, Giorgio 45, 46, 47 Lola corre 376, 377 Lomazzi, Vera 211, 413 Longo, Robert 181, 336, 405 Looney Tunes: Back in Action 97 Looper – In fuga dal passato 330 Loren, Scott 259, 414 Lorusso, Anna Maria 32 Lost Highway 136, 359, 360, 361, 402, 422 Lotman, Jurij Michajlovi 82 Lotteria, La 217 Lovecraft, Howard Phillips 81 Lubitsch, Ernst 231, 265 Lucas, George 265 Lucas, Tim 310 Luce dei miei occhi 280 Luciano di Samosata 92 Lucy 151, 352, 355 Lumet, Sidney 265 Lupoff, Richard A. 334 Lynch, David 26, 34, 136, 158, 165, 259, 297, 359, 360, 361, 402, 405, 414, 415, 422 Lynn Bousman, Darren 320 Macbeth 5, 7, 11, 12, 21 MacDonald, Duncan Black 104, 413 MacDowell, Andie 350 Maciste 300 Mackye Gruber, Jonathan 387

Madagascar 226 Maddox, Maeve 413 Maddox, Margaret 105 Mad Max 139 Madre e la morte, La 58-62, 74 Magrelli, Enrico 339, 413 Malick, Terrence 156, 265 Mamma ho perso l’aereo 348 Manaresi, Mirella 385, 408 Mancini, Clara 390, 413 Manetti, Daniela 180, 413 Manfredonia, Giulio 351 Manghi, Moreno 135, 417 Mangiapane, Francesco 140, 419 Manjali, Franson 8 Mann, Alex 347 Manson, Marilyn 339, 397 Manzoli, Giacomo 179, 238, 414 Marie, Michel 31 Marini, Fabrizio 60 Marino, Gabriele 28, 223, 248, 304, 324, 408, 414, 420 Marker, Chris 324, 326, 413, 416 Marrone, Gianfranco 45, 46, 47, 75, 254, 402, 406, 410, 414, 421 Marsciani, Francesco 36, 41 Martin, Stacy 96, 107, 131, 265, 307, 411 Martyrs 107, 420 Maschera della morte rossa, La 68, 71, 74 M*A*S*H 265 Masliah, Laurence 154 Masters of Horror 297 Matalas, Terry 326 Matrix 203, 336, 342, 381 Matrix Revolutions, The 342 Matrix, The 336, 342, 381

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Maupassant, Guy de 187 Maybury, John 79 Maze Runner 202 Mazierska, Ewa 339, 414 McAnuff, Des 97 McCamus, Tom 380 McCulloch, Bruce 169 McDowell, Malcolm 213 McElhaney, Joe 63 McEniry, Matthew J. 362, 414 McGinn, Colin 302, 325, 414 McGrath, Tom 226 McGuigan, Paul 166 McKellen, Ian 96 McLeod, Norman Z. 231 McLuhan, Marshall 308, 309, 310, 312 McTeigue, James 203 McTiernan, John 95 Meet Joe Black 96, 99, 101 Melato, Mariangela 246 Melelli, Fabio 145, 409 Mello, Alberto 104, 414 Mello, Brenno 85 Memento 352, 353, 355, 359 Mendes, Lothar 231 Meozzi, Tommaso 202, 414 Mercenari 2, I 96 Mercenari 3, I 96 Mercenari, I 96 Merleau-Ponty, Maurice 35 Mersch, Geneviève 154 Mersch, GeneviËve 154 Metelmann, Jörg 259, 414 Metropolis 70, 211 Metz, Christian 31, 250, 256, 257, 258, 414

Mewes, Jason 166 Meyers, Nancy 334 Mihalka, George 346 Mikkelsen, Mads 355 Milius, John 265 Miller, George 21, 139, 151, 152, 202 Miller, Tim 21 Mine Games 337, 338 Minicangeli, Fabio 337, 409 Minicangeli, Marco 337 Mio angolo di paradiso, Il 157, 158, 169 Mirror for a Hero 366 Miserie del signor Travet, Le 246 Misery non deve morire 271 Mitchell, Charles P. 81 Mitchum, Robert 154 Mitico viaggio, Un 95 Mitry, Jean 256, 415 Mittel, Jason 286, 415 Modern Family 377 Moffat, Steven 271 Moglie del tenente francese, La 266 Moine, RaphaÎlle 37 Molinaro, Édouard 154 Monaghan, Michelle 333 Mondadori, Giacomo 374 Monello, Il 229 Monicelli, Mario 86, 238, 246 Montani, Pietro 395, 405 Monty Python 89, 90, 91, 140, 141, 144, 146, 147, 154, 307, 411 Monty Python e il Sacro Graal 144, 146 Monty Python’s Meaning of Life 89, 90, 91 Moon 366 Mooney, Darren 352 Moore, Alan 203, 397

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Indice delle opere e dei nomi citati

Indice delle opere e dei nomi citati

Moore, Michael 397 Mordacci, Roberto 294, 415 Moreau, Yolande 172 Morisette, Alanis 167 Morneau, Louis 329 Mortara Garavelli, Bice 283, 368, 415 Morte va in vacanza, La 97 Morti di Ian Stone, Le 344, 349, 354 Mosse, George L. 181, 415 Mother! 341 Moura, Wagner 115 Mr. Nobody 173, 380, 382, 383, 385, 386, 387, 391, 392, 415 Mrs. Fang 78 Mulholland Drive 158 Murdock, George 143 Murgia, David 172 Murnau, Friedrich Wihelm 300 Murray, Bill 350, 351 Musatti, Cesare 177 Musker, John 66 Mussolini, Benito 180, 181, 182, 186, 189, 192, 194, 195, 196, 197, 199 Muzzioli, Francesco 202, 415 My Bloody Valentine 346 Nabokov, Vladimir 177 Nahin, Paul J. 319, 323, 415 Nakache, Olivier 154 Naked City 276 Narboni, Jean 8 Natale al giorno, Un 347, 349 Natale con i Muppet 157, 158 Natali, Vincenzo 338, 343 Neeley, Ted 139 Neher, André 126, 404, 415

Neill, Sam 225, 272, 278 Nei panni di una bionda 149, 152, 153 Nelson, Ralph 265 Neupert, Richard 270, 415 Newell, Mike 81 Nicholls, Paul 329 Nichols, Mike 89 Nicholson, Jack 255, 350 Nieland, Justus 359 Niente da nascondere 360 Nietzsche, Friedrich 8, 19 Nightmare Before Christmas 97 Nightmare – Dal profondo della notte 274 Nirvana 336, 337 Noah 115, 116, 117, 139 Noë, Alva 381, 415 Noé, Gaspar 331 Nolan, Christopher 330, 343, 352, 415 Nolfi, George 136 Non sposate le mie figlie! 154 Non toccate il passato – Retroactive 329 Norris, Chuck 96 Notte del giudizio – Election Year, La 216, 218, 222, 223, 224, 364 Nourizadeh, Nima 331 Novikov, Dmitriyevich 343 Nymphomaniac 131 Nymphomaniac I 133 Nymphomaniac II 131, 133 O’Brien, Austin 96, 156 Occasione da Dio, Un’ 161 Occhio che uccide, L’ 96 Odell, Colin 274, 276, 278, 415 Odin, Roger 30, 222, 415 Oh, God! Book II 171

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Oh, God! You Devil 171 Oliver, Kelly 260, 339, 415 Oliver, Roger W. 58 Olmi, Ermanno 246 Omicron 238 On Borrowed Time 84, 85 Onde del destino, Le 130, 132, 133 One-Minute Time Machine 365 Orci, Roberto 136 Orfeo 63, 84, 85 Orfeo negro 84 Orlean, Susan 286 Orr, John 339, 415 Orso bianco 349 Ortega y Gasset, José 30 Orth, Dominik 387, 415, 416 Ortoleva, Peppino 8, 13, 15, 20, 21, 27, 137, 193, 206, 238, 380, 416 Orwell 1984 207 Orwell, George 207 O santo que não Acreditava em Deus 115 Osborn, Paul 84 Osho 151, 416 Ostrowska, Elzbieta 339, 415 Ottobre 187, 365, 399 Owen, John 224 Ozu, Yasujirō 6, 26, 67, 230-237, 285, 412, 418, 420 Paci, Viva 324, 416 Pagemaster – L’avventura meravigliosa 278 Page, Sheila 348 Pakula, Alan J. 265 Pal, George 366 Palin, Michael 140 Palla n° 13, La 298

Paltrow, Gwyneth 373 Panic Room 341 Paoloni, Paolo 239 Paolo VI (Giovanni Battista Montini) 139 Paolucci, Claudio 254, 394, 416 Papagno, Costanza 359, 416 Paradisi, Umberto 229 Paradiso può attendere, Il 152 Pasolini, Pier Paolo 16, 34 Passione di Giovanna d’Arco, La 19, 105, 108, 126 Passo del diavolo, ll 366 Pat Garrett e Billy the Kid 265 Patota, Giuseppe 246 Pattinson, Robert 315 Paulson, Brad 165, 416 Paura e delirio a Las Vegas 365 Pavese, Cesare 16, 17, 29, 399 Pavesi, Maria 145, 416 Paxson, Madellaine 366 Pays Barbare 184 Peaslee, Robert Moses 362, 414 Peckinpah, Sam 265 Pedrioni, Giorgio 15, 16, 17 Peele, Jordan 282 Peggio per me 154, 156 Pegg, Simon 161 Peirce, Charles Sanders 47, 48, 393, 408 Penn, Arthur 265 Penn, Sean 157 Perkins, Claire 280, 416 Perniola, Ivelise 324, 416 Persona 94 Pescatore, Guglielmo 33, 107, 416 Peth, Ágnes 316, 416

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Indice delle opere e dei nomi citati

Indice delle opere e dei nomi citati

Petri, Elio 238 Petroliere, Il 68 Pettenati, M. Chiara 228, 419 Pettersson, Birgitta 127 Pezzini, Isabella 254, 272, 413, 416 Philippe, Ryan 154, 356, 378 Piana, Dario 344 Picchi, Michele 239, 421 Piccioni, Giuseppe 280 Pictor, Albertus 56 Pierini, Mariapaola 93, 416 Piesewicz, Krzysztof 134 Piga Bruni, Emanuela 270, 416 Pigato, Mathias 155 Pink Floyd 64 Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti) 181 Pirati dei Caraibi – La maledizione del forziere fantasma 58 Pitt, Brad 98, 156 Pitt, Michael 259 Plaza, Paco 80 Plisiewicz, Paul 144, 421 Plus One 331 Poe, Edgar Allan 71, 72, 73, 74, 75 Poggi, Stefano 34 Polański, Roman 11, 12, 21, 265, 339, 343, 349 Policarpo, ufficiale di scrittura 246 Polidor (pseud. di Ferdinand Guillame) 109 Pollack, Sydney 265 Pontalis, Jean-Bertrand 9, 17 Ponzio, Augusto 143, 284 Ponzo, Jenny 420 Porter, Edwin S. 260, 261

Portman, Natalie 203 Possible Worlds 380, 381, 382, 391, 404 Posto, Il 246 Potente, Franka 376 Potter, Henry C. 81, 82, 140, 262, 381 Powell, Michael 96 Pozzato, Maria Pia 250, 417 Pozzo e il pendolo, Il 71 Predestination 325, 327, 330-332, 349, 355 Prestige, The 330 Price, Jonathan 209 Price, Vincent 73 Prieur, Jean 70 Prima di domani 345 Primer 366 Prochnow, Jürgen 272 Project X 331 Prossima fermata: paradiso 151, 153 Provost, Richard 150 Pucci, Alex 338 Puccini, Gianni 246 Puiatti, Sandra 135, 417 Pullman, Bill 360 Pulp Fiction 142 Putnam, Hilary 333, 381, 417 Pytka, Joe 97 Qualcosa è cambiato 350 Qualcuno volò sul nido del cuculo 213, 265 Quale, Steven 82 Quaresima, Leonardo 336, 417 Quarto potere 7, 95, 235 Quasi amici 154 Quella casa nel bosco 338 Quel pomeriggio di un giorno da cani 265

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Questa è la mia vita 8, 9, 13, 19 Questione di tempo 388 Racconti del terrore, I 71 Rafelson, Bob 265 Ragan, Steve 206, 417 Raimi, Sam 143, 258, 337 Ramis, Harold 345, 350 Randolph, John 323 Ransom Express 377 Rascaroli, Laura 33, 35 Ray, David 365 Raymond, Bradley 347, 393, 402 Ready Player One 140 Regazzoni, Simone 34 Reich, Jacqueline 109, 193, 417 Reich, Robert B. 118 Reiner, Carl 171 Reiner, Rob 251, 271 Reisch, George A. 89 Reisch, George.A. 89, 144, 407, 411 Reisz, Karel 266 Rella, Franco 316, 417 Renders, Pierre-Paul 154 Repeaters 335, 363 Resnais, Alain 26, 63, 85, 369, 389, 418, 421 Re, Valentina 270, 336 Revenant, The 100 Ribeiro, João Ubaldo 115 Ricci Lucchi, Angela 184 Ricci, Stefano X. 310, 417 Ricci, Steven 194, 417 Rice, Tim 138 Richards, Chris 202, 417 Richardson, Ralph David 141

Riches, Simon 310 Rickman, Alan 166 Ricomincio da capo 345, 346, 349, 350353, 363, 391 Ricomincio da Natale 348 Ricomincio da nudo 351 Ring, The 311 Ritcher, Roland Suso 356 Ritorno al futuro 79, 140, 141, 328, 366, 388 Ritorno dal paradiso 152 Ritt, Martin 265 Rivolta delle ex, La 149 Roberti, Bruno 35 Roberts, Stephen 231 Robinet (pseud. di Marcel Fabre) 109 Rochette, Jean-Marc 206 Rock, Chris 166 Romano, Augusto 185, 300, 343, 417 Romero, George A. 77, 265, 421 Rosa purpurea del Cairo, La 295-298, 301, 317 Rosário, Filipa 158 Rosemary’s Baby 340 Rossellini, Roberto 182 Ross, Gary 140, 201 Rossi, Fabio 246, 416 Rothe, Jessica 344 Roth, Eli 217 Roth, Veronica 202 Rowling, J.K. 81, 381 Royer, Carl 258, 418 Royer, Diana 258, 418 Rusnak, Josef 336 Russell Ascoli, Albert 194 Russo-Young, Ry 345

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Indice delle opere e dei nomi citati

Rybas, Stanislav 366 Rye, Stellan 304, 332, 404 Sabotatori 165 Sacchi, Filippo 197 Säckel, Sarah 310, 412 Sadoul, Georges 112, 418 Sagal, Boris 265 Saitō, Tatsuo 231 Sakurazaka, Hiroshi 335 Salce, Luciano 238 Salvatores, Gabriele 336 Sandler, Adam 352 Sangue blu 68 Sanil, V. 8 Santangelo, Antonio 28, 38 Sarafian, Richard C. 265 Saramago, José 84 Sarris, Andrew 58 Sartre, Jean-Paul 9 Sátántangó 156 Satō, Takuya 388 Saul, Anno 355 Saunders, Ben 115, 418 Saverioni, Emiliano 369 Saviano, Roberto 397 Savio, Francesco 194 Saw 3D – Il capitolo finale 320 Saw II – La soluzione dell’enigma 320 Saw IV – Il gioco continua 320 Saw Legacy 320 Saw – L’enigmista 320 Saw VI – Credi in Lui 320 Saw V – Non crederai ai tuoi occhi 320 Scaglioni, Massimo 362, 418 Scandola, Alberto 154, 339, 418

Indice delle opere e dei nomi citati

Scappa – Get Out 282 Schaffner, Franklin J. 265 Schatzberg, Jerry 265 Schechter, Harold 115, 418 Schenk, Sabine Claudia 390, 418 Schlesinger, John 265 Schlickers, Sabine 382, 387, 404, 415 Schopenhauer, Arthur 16, 17 Schrader, Paul 67, 232, 418 Schrödinger, Erwin 11 Schur, Michael 153 Schwarzenegger, Arnold 96 Schwentke, Robert 202, 388 Scolari, Paolo 356, 401 Scorsese, Martin 107, 114, 115, 265, 307 Scott, Ridley 265 Scott, Tony 3882 Scream 274, 313, 344 Scream 4 313 Se7en 320 Se avessi un milione 231 Sebag, Lucien 201, 418 Seconds 323 Sedgwick, Edward 300 Segall, Harry 152 Segal, Peter 352 Seidler, Ellen 377 Seidler, Megan 377 Seiter, William A. 231 Sekula, Andrzej 343 Selick, Henry 96 Selwyn, Edgar 321 Seme della follia, Il 17, 271-274, 276, 278, 316, 317 Se mi lasci ti cancello 366 Sept Péchés Capitaux, Les 154

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Serious Man, A 11 Sernagiotto, Camilla 280, 418 Sesti, Mario 374, 418 Sesto senso, Il 79 Settimana da Dio, Una 115, 159-162, 169 Settimo sigillo, Il 41, 56, 58, 60, 61, 74, 87, 96, 127, 268, 414 Severino, Emanuele 48 Severino, Pierluigi 48 Sezen, Diğdem 336, 412 Sezen, Tongue I. 336, 412 Sferrazza Papa, Ernesto Calogero 213, 418 Shadyac, Tom 159 Shannon, Molly 169 Shannon, Peggy 321 Shatner, William 143, 144 Shaw, Dan 8 Shelton, Toby 347 Shelton, Tony 347 Sholder, Jack 334 Shrek 226 Shyamalan, M. Night 79 Sibilia, Sydney 238 Signore delle mosche, Il 217 Signore del male, Il 271 Silenzio degli innocenti, Il 49 Silvain, Eugène 105 Simpsons, The 388 Sini, Carlo 47 Six, Tom 213 Sjöström, Victor 59, 70 Sjursen, Haidi 163 Skarsgård, Stellan 131 Skoble, Aeon J. 298, 406 Skolimowski, Jerzy 218

Slade, David 336 Slender Man 59 Sliding Doors 373, 379, 387, 390 Sloterdijk, Peter 304, 418 Smetto quando voglio 238 Smith, Christopher 343 Smith, David L. 291 Smith, Don G. 71 Smith, George Albert 261 Smith, Kevin 166, 213 Smith, Kurtwood 334 Smoking/No Smoking 389 Smolders, Olivier 154 Snowpiercer 206-208 Soavi, Michele 78 Socrate 151, 305 Soderbergh, Steven 72 Soldani, Valentino 183 Soldati, Mario 246 Solmi, Renato 16 Solomon Kane 78 Solonz, Todd 280 Sonny & Cher 350 Sono dappertutto 154 Sono nato, ma... 231, 235, 236, 237 Sorlin, Pierre 179, 192, 193, 419 Sorrentino, Fortunato 228, 419 Sospesi nel tempo 78, 80 Source Code 332, 334, 341, 355 Southland Tales 333 Space Jam 97 Spaziante, Lucio 248 Spazzacamini della Valle d’Aosta, Gli 229, 232 Speers, Bill 347 Spielberg, Steven 140, 265

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Indice delle opere e dei nomi citati

Indice delle opere e dei nomi citati

Spierig, Michael 320, 325 Spierig, Peter 320, 325 Spinoza, Baruch 17 Spring Breakers – Una vacanza da sballo 331 Staiger, Janet 56 Stalin, Iosif Vissarionovič 180, 181 Stallone, Sylvester 96 Stand by Me – Ricordo di un’estate 251 Stano, Simona 28, 35 Starobinski, Jean 74 Starship Troopers – Fanteria dello spazio 225 Star Trek V – L’ultima frontiera 143 Steene, Birgitta 60 Steins;Gate 388 Steno (pseud. di Stefano Vanzina) 246 Sterne, Laurence 66 Stewart, Garrett 385 Stoehr, Kevin L. 8 Stone, Sharon 227, 344, 349, 354 Strade perdute 136, 359, 360, 361, 362, 405 Strangers, The 341 Stranger Things 140, 163, 401 Strauven, Wanda 111, 419 Streep, Meryl 289 Studente di Praga, Lo 332 Sullivan, Hugh 366 Sumjatskij, Boris 180 Summer, Ashley 351, 377 Sun-ho, Cho 329 Supercondriaco – Ridere fa bene alla salute 154 Superstar 138, 139, 169, 170 Surace, Bruno 10, 12, 13, 14, 15, 16, 17,

18, 21, 22, 28, 35, 65, 107, 140, 158, 167, 178, 180, 200, 201, 218, 223, 264, 274, 279, 304, 362, 386, 411, 419, 420 Suso Ritcher, Roland 356 Svaluto Moreolo, Elisabetta 55 Swan, Jesse 144 Swan, Jesse G. 144, 421 Swinton, Tilda 380 Synecdoche, New York 280, 283, 290, 294 Tacchi, Enrico Maria 211, 413 Taddeo, Gabriella 336, 420 Taddio, Luca 315, 420 Tagliagambe, Silvano 344, 420 Tagliani, Giacomo 218 Tarantino, Quentin 142 Tarr, Béla 31, 156 Tartufo 300 Tate, Sharon 339 Taurog, Norman 231 Taylor, Alan 21 Taylor, Rachael 334 Tedesco, Salvatore 155, 420 Temple, Michael 155 Ten Commandments, The 112, 134 Tentori, Antonio 81 Terapia e pallottole 350 Terminator 2 – Il giorno del giudizio 10, 12, 13, 20, 388 Terminator. Destino oscuro 21 Terminator Genesys 21 Terrone, Enrico 213, 302, 321, 402, 414, 418 Tesnière, Lucien 42 Thatcher, Kirk 157

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Thibault, Mattia 28, 65, 178, 201, 223, 248, 264, 279, 304, 324, 337, 386, 408, 411, 414, 419, 420 Thompson, Emma 266 Thompson, Kristin 56, 403 Thompson, Lea 328 Thom, René 65, 268 Tibbets, Carl 349 Tiddes, Michael 351 Timecrimes 343 Toledano, Éric 154 Tolstòj, Lev Nikolàevi 91, 305 Tomasi, Dario 27, 230, 420 Tomba di Ligeia, La 71 Tontolini (pseud. di Ferdinand Guillaume) 109 Topolino e la magia del Natale 347 Topor, Roland 340 Torno indietro e cambio vita 388 Toro, Vera 382, 387 Torres, Cláudio 388 Toschi, Deborah 185, 420 Totò e i re di Roma 246 Tracy, Lee 321 Trahair, Lisa 304, 421 Traini, Stefano 32, 75 Trainspotting 365 Travis, Kylie 326, 329 Tredicesimo piano, Il 336 Tree of Life, The 156 Treu, Blair 351 Trevisani, Edoardo 81 Triangle 343 Truman Show, The 207 Trybała, Marzena 371 Tür, Die 355

Turn Back the Clock 321-323, 356, 357, 369 Tusk 213 Tutta la vita davanti 238 Tutti voi zombie 327 Twin Peaks 165 Tykwer, Tom 376 Ullmann, Liv 94 Ultimo giorno d’estate, L’ 351 Uomo che faceva miracoli, L’ 161 Uomo che visse nel futuro, L’ 366 Uomo con la macchina da presa, L’ 300 Uomo dal futuro, L’ 388 Uomo nell’ombra, L’ 340 Urrutia, Miguel 329 Utz, Richard J. 144, 421 Uva, Christian 239, 421 Vadim, Roger 154 Valberg, Birgitta 127 Van Damme, Jean-Claude 96 Vandermersch, Bernard 290, 406 Van Dormael, Jaco 172, 173, 380, 387, 415 Vanoye, Francis 31 Van Sant, Gus 397 Vanzella, Luca 397, 421 Vanzina, Carlo 388 Varankaité, Ulrika 35 Vassallo, Maria 109, 401 Vaughan, Hunter 389, 421 Verbinski, Gore 58, 311, 350 Verdi pascoli 112, 113, 115, 116, 117, 123, 137 Verhoeven, Paul 225

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